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Italian Pages 271 [271] [271] Year 2011
Gennaro Sasso
Ulisse e il desiderio
Il canto XXVI dell’Inferno
viella
I libri di Viella 112
Gennaro Sasso
Ulisse e il desiderio Il canto XXVI dell’Inferno
viella
Copyright © 2011 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione (carta): gennaio 2011 ISBN 978-88-8334-463-3 Prima edizione (ebook): giugno 2011 ISBN 978-88-8334-664-4
viella
libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it
Indice
Prefazione 1. L’ananke di Ulisse
7 15
2. Ulisse e Adamo (e altre questioni)
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3. Delle lucciole, della frode e di alcune altre cose (Inf. XXVI 25 ss)
155
4. Intorno a Inferno XXVI 79-84 (e a un luogo del de vulgari eloquentia)
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5. A proposito di Inferno XXVI 94-98. Variazioni biografiche per l’interpretazione
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6. Dante, Ulisse, un’antilogia ovidiana e alcune altre questioni
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Indice dei nomi
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Prefazione
In margine al saggio su L’ananke di Ulisse che, nato dalla conferenza che tenni nel gennaio 2000 per l’inaugurazione del Centro Bruno Nardi per gli studi danteschi, fu poi pubblicato, l’anno successivo, negli Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli, ne ho scritti, in questi ultimi tempi, altri cinque di minore estensione, che hanno tutti, tranne l’ultimo, visto la luce nella «Cultura». Li ho scritti per meglio illustrare e discutere punti specifici del ventiseiesimo canto dell’Inferno, che nel saggio maggiore erano o rimasti in ombra e richiedevano di esser messi in migliore luce, o addirittura non erano stati considerati affatto; e ora li raccolgo in questo volume, nella speranza che, trovandoseli dinanzi tutti insieme, il lettore possa esserne facilitato, se non nell’apprezzamento, almeno nella critica. Non so, comunque, se anche in questa sede convenga ripetere quel che più volte ebbi occasione di argomentare; e cioè che, al pari degli altri che ho dedicati alla Commedia, questi saggi si propongono, non di illustrare e interpretare la poesia, che, in quanto tale, non può essere se non constatata e indicata, ma di cogliere la «concezione» che la sottende e alla quale, senza modificarla o accrescerla, essa aggiunge il suo particolare fascino. La tesi secondo cui, fra il significato che si ricava dal testo che ne è illuminato e la poesia, corre un rapporto così stretto che l’uno addirittura non sussisterebbe se non coincidesse con l’altra, e questa del pari non sarebbe ciò che è se in sé non avesse quel significato, non è se non un’asserzione enfatica, nata e sorretta, quale che sia l’estetica che la teorizza, dalla retorica dell’unità. La quale tanto poco in realtà ha luogo, e tanto poco è cosa reale, che, se si cerca di coglierla e di esprimerla nelle parole che dovrebbero confermarla, a prodursi è il fenomeno contrario a quello che si era ipotizzato, e anzi teorizzato. Mentre il significato passa nelle parole della
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critica che lo coglie e lo elabora, con quello che le è proprio, la poesia ne resta fuori; e tanto meno rivela di potervi essere assunta quanto più quella si provi, per un verso, ad accoglierla in sé e, per un altro, a adattarsi al suo ritmo. Le parole della poesia possono infatti essere sì, se proprio sembri indispensabile, parafrasate, o indicate come poetiche: spiegate nella loro genesi, ossia nel perché del loro essere accadute, così e non altrimenti, non possono. Ne consegue che quello illustrato dalla critica è non il significato che la poesia racchiude in sé, ma è bensì il significato intrinseco alle idee, alle intenzioni, agli stati d’animo, a quanto, essendo interno alla poesia, non coincide tuttavia con essa. Da questo punto di vista, la poesia è una curiosa «cosa in sé». Curiosa perché, a differenza di quella di cui talvolta i filosofi parlano, non rende noto il suo, per sé inconoscibile, essere attraverso gli effetti che comunque ne derivano, ma lo rivela per intero attraverso le sue parole; che possono infatti essere lette e ripetute finché si voglia senza tuttavia che con le parole della critica si riesca sul serio a spiegare perché siano quelle e non altre, e da quale necessità dipenda sia il loro essere accadute sia l’ordine nel quale vi si sono rese oggettive. La meriti o no, e si potrebbe anche dire che non la merita, la «cosa in sé» ha fama di misteriosità, inconoscibilità, irriducibilità al pensiero, e così via. L’«in sé» della poesia gode invece della piena luce del sole, che, nel rivelarla senza alcun velo, rivela altresì l’impossibilità di spiegare perché si sia prodotta, e risplenda. La definizione che se n’è data come di una «cosa in sé», che per un verso è in tutto e per tutto senza veli e, per un altro, si nasconde dietro il divieto che essa impone al suo esser detta con parole diverse dalle sue, – questa definizione deve essere confermata. Tanto meno, infatti, la poesia si lascia afferrare quanto più ci si sforzi di penetrare nelle ragioni per le quali è venuta al mondo. Deriva di qui il forte disagio, soggettivo e oggettivo, di ogni critica che intenda essere, e definirsi, estetica. Mentre infatti ritiene di parlare della poesia, non di questa quella critica in realtà parla. Nei casi migliori, non parla se non dell’idea (si dica così) che può ricavarsene; e l’idea che sta nella poesia non coincide con la poesia, non è la stessa cosa di questa. Insomma, come non sono sul serio traducibili in un’altra lingua, così le parole della poesia possono sì essere tradotte in quelle della critica, ma non mai adeguate da essa; che, d’altra parte, può ritenere di aver stabilito un contatto con lei, solo se quella sia stata ridotta o al suo contenuto o alla tecnica con cui fu lavorata. Di qui il disagio interno a ogni critica che, pretendendo di avere a oggetto la poesia e di poterla raggiungere in quanto tale, non sia visitata dalla consapevolezza che questo disagio non è supera-
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bile, è interno al suo stesso esercizio: all’esercizio della critica che, guardi al contenuto, guardi allo stile, dell’uno e dell’altro può certo dar ragione, ma della poesia, che pure sta lì, no. Il che potrà sembrare paradossale e, a seconda delle ambizioni che al riguardo si fossero coltivate, deludente. Ma non è senza serie ragioni. Di un pensiero che sia stato filosoficamente esposto in parole si può entrare a far parte, lo si può criticare, svolgere, accettare, respingere; e in tutti questi casi il contatto a cui si dà luogo non richiede che si impieghino le parole stesse che servirono a esporlo e a comunicarlo, consente che si impieghino parole diverse. Le parole che lo espongono possono essere diverse da quelle che furono usate dal pensatore che pensò quei pensieri e che, assurdamente del resto, è giudicato come se ne fosse il proprietario: diverse, ma non, perciò, traditrici. Fra il pensiero e il linguaggio che lo esprime non si dà infatti il nesso indissolubile che sussiste fra la poesia e le parole della poesia; che, a differenza delle parole del pensiero, modificabili sempre, sempre sostituibili e traducibili con altre, non potrebbero mai sopportare di essere considerate alla stessa stregua di quelle. Il che non sorprenderà quando si consideri che con la poesia non si può entrare in contatto nel modo in cui si entra in contatto con il pensiero: non la si può criticare come si critica un pensiero, sia se lo scopo sia di esporlo, sia se sia di proseguirlo in altra forma, entrando nel suo processo compositivo, modificandone le strutture e gli equilibri, orientandolo in un altro senso. Alla poesia si possono dedicare tante parole quante ne suggerisca l’emozione che si prova leggendo, ascoltando, guardando. Ma queste rimarranno pur sempre parole del critico che legge, ascolta, guarda; e che meno parole usa, a questo riguardo, e tanto meglio sarà per tutti. Rispetto alla poesia che, chiusa nell’impenetrabile regione che l’ha accolta, sta lì e, a differenza del pensiero, del suo esserci non concede il perché, non saranno, nel migliore dei casi, se non segnalazioni suggestive della sua presenza; e niente di più. Ricostruibili sono bensì le idee dalle quali, ma non nel segno della necessità, la poesia nasce; che è quello che si è tentato di fare nel saggio principale di questa raccolta, e negli altri che ne derivarono. Poiché è al significato, ossia, se si vuole, alle parole della poesia, ma tratte fuori del loro particolare nesso e tradotte in prosa, che, coerentemente a questa idea, e obbedendo alla necessità di questa situazione, si è cercato, in questi saggi, di dirigere lo sguardo, non sorprenderà che l’indagine abbia spesso abbandonato il canto ventiseiesimo dell’Inferno per cercare la radice di quel che vi si trova scritto in altri testi danteschi, o non danteschi, di carattere filosofico. Il che è avvenuto
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per le ragioni che sono state dichiarate: ossia, nel caso specifico, per capire perché al suo personaggio Dante avesse assegnato quel carattere e, in coerenza con quel che aveva teorizzato in tema di desiderio, o a un suo aspetto, ne avesse fatto un eroe e insieme una vittima dell’ananke che, inesorabilmente, costringe ad andare oltre. È avvenuto per questo; e non per la ragione, del tutto estrinseca in questo caso, che l’autore di queste pagine ne abbia anche scritte di filosofiche, e, nel linguaggio semplificato che oggi ha corso in certi ambienti, sia talvolta definito con il nome di «filosofo». Non è per ragioni «professionali» che qui si è fatto ricorso, e quindi si è dato spazio, a testi filosofici, danteschi e non. Ma, si spera, per ragioni interne all’ideazione, e alla conseguente comprensione, del personaggio che Dante ha ritratto nel ventiseiesimo canto dell’Inferno. C’è chi prende un poeta e lo pone al servizio della sua filosofia: magari perché, in tempi di privazione, c’è bisogno dei poeti. Ma quelli sono i grandi pensatori, ai quali, poiché sono grandi, tutto è lecito. A chi non partecipi di quella grandezza, e si aggiri per le basse pianure dell’esegesi, assai di più conviene la disposizione a mettersi lui, come può, al servizio dei testi: per capire i quali, ma solo per capirli, tutto è lecito. Non vorrei che, per aver sostenuto che della poesia non può dirsi se non che è lì dove in effetti la si percepisce e che di nessun discorso che miri a coglierla nel suo «in sé» può essere oggetto, qualcuno si premurasse di avvertirmi che in questo modo se ne dichiara l’ineffabilità, e che questo è misticismo: sì che colui che sia stato sorpreso a camminare lungo questa via merita di essere invitato a prender posto in qualche bagno penale amministrato, per i dissidenti, dai cultori di un diverso modo di intenderla, idealistico, storicistico, strutturalistico, e via dicendo. Non vorrei perché, di quell’idea della poesia come non assumibile all’interno di un discorso che ne penetri il carattere e, per questa via, ne assegni il significato, potrà dirsi tutto il male possibile. Ma non che implichi la conseguenza della sua ineffabilità, non che inclini al misticismo, o di questo sia una variante. Diamine. Come si potrebbe dichiarare ineffabile ciò che, per contro, è per eccellenza definito effabile, sia perché si esprime in parole, sia perché, se è poesia, a queste conferisce il massimo della potenza e le rende assolutamente insostituibili? L’unica impossibilità che richieda di essere dichiarata, e anzi ribadita, è che, in quanto tale, essa entri in un discorso che, essendo diverso dal suo, pretenda di definirla e di rendere possibile la migliore comprensione, non del significato al quale si è aggiunta e che costituisce il vero oggetto
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della critica, ma del suo «in sé», del quale non si può invece se non constatare la presenza e dichiararla, se si vuole, ma niente di più. Le ragioni del suo essere accaduta stanno infatti in lei, coincidono con il suo esserci, con le sue parole, alle quali nessuna parola potrebbe essere aggiunta che non sortisse l’effetto di rendere prosaico quel che è poetico. E torno a ripeterlo. Di questa idea potrà dirsi tutto il male possibile. E molti la attualizzeranno, questa possibilità, facendo cadere le loro ironie su questa delineazione della poesia come di un ἐξαίφνης, di un «improvvisamente» che, intervenendo su una costruzione letteraria o musicale o pittorica, ne illumina una parte, e, sparendo, un’altra ne lascia in ombra: come di qualcosa, dunque, che non appartiene all’idea di quella determinata opera allo stesso modo che non appartiene all’ordine necessario di quel che è e mai potrebbe venir meno a sé stesso. Anche chi peggio sia disposto nei confronti delle filosofie dell’unità, e per suo conto coltivi l’idea che un testo sia fatto di parti che si richiamano, si ricercano e possono perciò essere smontate e ricondotte alla loro parzialità, a sé stesse, se così si vuol dire, fuori dell’unità, – anche questo personaggio è in realtà dominato dal mito di quest’ultima, dal mito dell’unità; e poiché, lo ammetta o no, ne sia consapevole oppure non lo sia, anche la poesia è per lui uno degli oggetti da cui l’intero risulta, non vorrà mai consentire all’idea che essa non sia parte necessaria del tutto, che questo non la includa, conferendole il suo senso e ricevendolo da lei, che il suo esserci non contribuisca a far sì che la realtà sia la realtà. Ripeto, dell’idea brevemente accennata in queste pagine, potrà dirsi tutto il male possibile. Ma non che implichi qualcosa di mistico, non che, nei confronti della poesia, condivida l’atteggiamento che il mistico assume verso il dio; che è lì e, in forza della sua infinità, al soggetto che tenta di contemplarla, non consente di mantenere il suo sé. Poco o molto che valga, colui che si avvicina alla poesia non subisce la sorte, come Jacopone la chiamava, del nihil glorioso. Resta in vita, e questo deve bastargli. Può darsi che nell’idea della poesia che non può essere l’oggetto del discorso volto a definirne il significato si nascondano molti rischi. Non vedo quali, per la verità, e sarà colpa mia. Ma sono pronto ad assumermene la responsabilità nei confronti di chi di quella idea si fosse risentito, avvertendola, a ogni buon conto, come un’offesa diretta alle sue competenze e al suo mestiere. Resta, e desidero ripeterlo, che con il misticismo quell’idea non ha niente a che vedere: né per quanto riguarda la sua nascita, che, se non dipende dalla storia, ma da sé stessa, è pur sempre nella storia che si rende constatabile, né per quanto riguarda l’atteggiamento di chi, non sa-
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pendo dire perché nasca, ossia non sapendo attribuirla a una causa che non stia nel suo nascere stesso, si contenta di indicarla e dire che sta lì. Indicare la poesia, dire che è lì, ripeterne all’occorrenza le parole e dirle poetiche, non significa certo testimoniare del suo splendore attraverso l’annullamento o l’umiliazione di colui che la indica con il gesto o con la parola che la fa risuonare. E se, più dotto di altri, dell’idea di quel gesto qualcuno dichiarasse autore l’antico Cratilo, ossia il pensatore eracliteo che, più conseguente del maestro, preferiva affidare al gesto, piuttosto che alla parola, la percezione di ciò che scorre, negando perciò che potesse farsene scienza, non avrei niente da dire, e me ne sentirei appagato: una volta almeno che si fosse convenuto sul punto che il gesto che si compie indicando la poesia non racchiude in sé niente di irrazionale. Esso implica infatti che, a differenza del dio, la poesia è perfettamente visibile, ascoltabile, leggibile, da parte di uno che, per vederla, ascoltarla, leggerla, non deve sottoporre sé stesso all’ingrata, e per altro ineseguibile, operazione dell’umiliazione e dell’annullamento. Che se poi qualcuno mi osservasse che, per essere conseguente fino in fondo, il pensatore eracliteo dovrebbe andare oltre il radicalismo di Cratilo e sostenere che il gesto non può essere un gesto concluso in sé stesso, perché anch’esso scorre e fluisce e questi soltanto, lo scorrere e il fluire, coincidono con sé, dovrei pregarlo di lasciar perdere. Con osservazioni come queste si entra infatti nel terreno minato della pura riflessione filosofica, che conviene riservare a qualcosa di meglio che non sia una semplice ritorsione polemica. Nel riunirli in questo libro, ho sottoposto il primo di questi saggi a un’attenta revisione, innanzi tutto stilistica, per migliorare e rendere più perspicui alcuni passaggi che nella prima redazione non erano riusciti come avrebbero dovuto. Vi ho aggiunto perciò alcune pagine concernenti questioni e nessi che prima non erano stati considerati. Altre ho provveduto a riscriverle in forma, spero, migliore. Gli anni trascorsi da quello della sua prima edizione sono stati infatti occupati anche dallo studio di altri aspetti dell’opera di Dante, e alcune cose che allora non vedevo, o non vedevo con altrettanta chiarezza, ora mi pare di discernerle in modo che anche certe connessioni, che prima mi rimanevano nascoste, sono venute in migliore luce e in primo piano. Così, la questione del peccato di Ulisse ha richiesto che, sia pure in breve, si accennasse all’altra, prima non considerata o tenuta soltanto sullo sfondo, dell’ordinamento morale dell’Inferno e di quello del Paradiso; mentre l’indagine dedicata al tema del desiderio ha messo in
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ulteriore evidenza il nesso che sotterraneamente stringe a quello di Francesca il personaggio di Ulisse. Ho cercato infine di rendere più completa, o meno incompleta, la citazione e la discussione della letteratura critica, leggendo quel che in precedenza mi fosse o sfuggito, o rimasto inaccessibile, e prendendo visione di quel che si fosse prodotto dopo la pubblicazione dei miei saggi. Molte cose, naturalmente, mi saranno ancora una volta sfuggite; altre avranno seguitato a rimanermi inaccessibili. Ma questo è un destino a cui lo studioso di Dante non può sottrarsi. Mi sono perciò, anche in questo caso, attenuto alla regola seguita nei miei precedenti studi danteschi: ho letto il più largamente possibile, ma citando tuttavia e discutendo soltanto quel che, in un modo o in un altro, avesse incrociato la via della mia qualsiasi riflessione. E questa regola ho seguita, non solo nel primo, ma anche negli altri saggi che sono stati riuniti in questo volume, e che, riguardando il ventiseiesimo canto, anch’essi, per lo più, presupponevano la stessa letteratura. Nel rileggerli in vista della ripubblicazione, non mi è sembrato che richiedessero la revisione che giudicai necessaria per il primo; sì che, tranne che in qualche punto, riappaiono qui immutati. Mi sono ancora una volta giovato, per questa riedizione, della conversazione che, in tema di studi danteschi, e non solo, soglio intrattenere con amici vecchi e giovani, che mi sono compagni di studio, e consiglieri insostituibili, Gilmo Arnaldi, Ovidio Capitani, Giorgio Inglese, Sonia Gentili, Paolo Falzone, al quale ultimo debbo un particolare ringraziamento per l’aiuto che mi ha prestato sotto vari riguardi, e anche per aver collaborato con me nella revisione dei testi e nella loro preparazione per la stampa. Con tristezza e rimpianto penso a Achille Tartaro che ancora poche settimane fa era con noi nel lavoro di preparazione dei seminari per il 2009 del Centro Bruno Nardi per gli studi danteschi, e all’improvviso se n’è andato, lasciandoci il patrimonio della sua dottrina, del suo equilibrio, della sua saggezza esegetica, ma privandoci per sempre della sua amichevole parola. Sono perdite che si vorrebbe non dover registrare mai; e tanto più in tempi come questi nei quali, ancor più dolorosa è quella che si fa degli amici e delle persone civili. Questo libro è dedicato al malinconico ricordo della piccola Silvia, che nacque e non andò oltre, e a quanti mai potranno dimenticarla.
Roma, 24 febbraio 2009
g.s.
I saggi qui raccolti sono stati pubblicati, integralmente o parzialmente, nelle sedi di seguito indicate: 1. L’ananke di Ulisse, in «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici», 18 (2001), pp. 47-120 2. Ulisse e Adamo (e altre questioni), in «La Cultura», 44/2 (2006), pp. 183-213 3. Delle lucciole, della frode e di alcune altre cose (Inf. XXVI 25 ss), in «La Cultura», 46/3 (2008), pp. 377-404 4. Intorno a Inferno XXVI 79-84 (e a un luogo del de vulgari eloquentia), in «La Cultura», 40/2 (2002), pp. 179-209 5. A proposito di Inferno XXVI 94-98. Variazioni biografiche per l’interpretazione, in «La Cultura», 40/3 (2002), pp. 377-96 6. Dante, Ulisse, un’antilogia ovidiana e alcune altre questioni, in Letteratura e filologia fra Svizzera e Italia. Studi in onore di Guglielmo Gorni, I, Dante: la Commedia e altro, a cura di M.A. Terzoli, A. Asor Rosa, G. Inglese, Roma 2010, pp. 165-84
1. L’ananke di Ulisse
Αὑταρ ἐγὼν εἶμι˙ κρατερὴ δέ μοι ἕπλετ’ ἀνάγκη (Od. K 273)
I Oggetto d’infinita disputa1 è stata, fra le altre che intessono la trama del ventiseiesimo canto dell’Inferno, la questione che sorge quando ci si chieda se fra il peccato che Ulisse sconta nell’ottava bolgia e l’impresa di cui egli stesso si fece narratore, vi sia, oppure no, un nesso necessario e strutturale. Insomma, se peccaminosa fosse stata anche l’impresa che, al di là delle colonne d’Ercole, lo condusse, con i pochi compagni che con lui condivisero l’ultima avventura, alla catastrofe. Non senza qualche buona ragione, da una parte e dall’altra, si è affermato e negato che anche l’ultimo viaggio si inscriva nell’ambito e nella dimensione di ciò che è peccaminoso. E quanti, della sua appartenenza all’ambito del peccato si sono detti convinti, hanno perciò parlato della superbia, dell’orgoglio, dell’«eccessività»: in sintesi, della «follia» di Ulisse e dell’inevitabile punizione nella quale incorse. Avrebbero potuto dire anche di più se avessero considerato che, tanto più grande era la follia che aveva spinto Ulisse alla sua ultima impresa quanto più essa entrava in contrasto con le doti di prudenza, di equilibrio e anche di saggezza, che una parte notevole della tradizione antica gli attribuiva; e che, se nel ventisettesimo del Paradiso, Dante aveva parlato del suo «folle» varco,2 questa era la prova che a contare, per lui, era, non la tradizione positiva, ma quella negativa, pervenutagli soprattutto attraverso l’Eneide,3 e che non tanto la virtù prevaleva nell’eroe antico, ma la degenerazione della virtù, la ὕβρις. Quanti per contro, questa appartenenza hanno negata, ne sono stati tratti a osservare che la sete di conoscenza, l’impaziente «ardore», l’insofferenza del limite che condussero l’eroe greco alla sua conclusiva catastrofe erano bensì qualità del suo animo, ma niente avevano a vedere
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con il peccato che gli meritò l’eterno castigo. La ragione per la quale, con gli altri abitanti dell’ottava bolgia, egli vi ricevette la condanna, fu indicata da Dante nel luogo in cui osservò che, dentro la fiamma che, insieme a Diomede, lo fasciava di sé e lo teneva come prigioniero, con l’«agguato del caval che fe’ la porta/ onde uscì de’ Romani il gentil seme», anche si piangeva «l’arte per che, morta,/ Deidamìa ancor si duol d’Achille,/ e del Palladio pena vi si porta».4 Due tesi diverse, dunque, anzi opposte: sulle quali occorrerà che ci fermi alquanto. Il peccato che Ulisse sconta nell’ottava bolgia è la «frode», della quale egli fu ineguagliabile artefice e consigliere.5 Non fu il desiderio di conoscere, di sapere, di esperire,6 che, spinto al di là del limite segnato dalla ragione o, per chi a questa avesse aggiunta la fede cristiana, dal volere di Dio, senza dubbio configurava sé stesso come infrazione e peccato.7 Dell’estensione oltre il limite del desiderio di conoscere, mentre definiva come «frode» la natura del peccato punito nell’ottava bolgia, Dante infatti non fece parola. Del che, si dice dai sostenitori di questa tesi, occorre prendere atto: anche se nella pena che Ulisse pativa con Diomede8 e con gli altri non sarebbe stato impossibile distinguere vari gradi e, nell’unità strutturale della situazione, cogliere tuttavia aspetti diversi che richiedevano di essere tenuti presenti, con il conseguente, se questo non fosse avvenuto, complicarsi del quadro. Non si tratta, qui e ora, di chiedersi perché Ulisse patisca il martirio con Diomede in un’unica fiamma;9 e se per questo vi fosse una ragione ulteriore a quella che potrebbe altrimenti essere assegnata alla conoscenza soltanto indiretta che Dante ebbe del racconto omerico: non solo dell’Odissea, in questo caso, ma anche dell’Iliade.10 Si tratta in realtà di qualcosa di più intrinseco. Dopo avere, per esempio, osservato che in due soltanto delle tre imprese che gli meritarono l’eterno castigo, Ulisse ebbe compagno Diomede, è necessario rilevare che se alla «frode» appartiene la sottrazione di Achille al luogo in cui la madre Teti l’aveva nascosto, e nell’ambito di questa si inscrive l’impresa che costò a Troia la distruzione, non alla frode può essere ricondotto l’oltraggio arrecato al Palladio, ma a qualcosa, bensì, che riguardava la contaminazione del sacro. Il quadro sarebbe dunque destinato a complicarsi se in questi aspetti strutturali si scavasse ancora. E anche se, svolgendo l’accenno contenuto al v. 60 («onde uscì de’ Romani il gentil seme»), si osservasse quel che in effetti potrebbe derivarne. L’accenno che qui Dante fece all’«agguato» del cavallo presupponeva il grande racconto che, nel secondo dell’Eneide, dinanzi a Didone, Enea aveva dedicato alla distruzione di Troia11 e a quel
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che per lui ne era seguìto. Lo presupponeva, e questo è ovvio. Ma con una differenza essenziale. A quel che era stato narrato da Enea, Dante aggiunse un elemento che, nel racconto dell’eroe troiano, era implicito, ed egli rese esplicito. Per un verso, infatti, l’«agguato» del cavallo fu un’orribile frode. Ma, per un altro, fu un evento provvidenziale. Ne uscì, infatti, «de’ Romani il gentil seme». Per un verso, si potrebbe dire, Troia patì, incolpevole, la conseguenza di un inganno, e fu distrutta col fuoco. Ma, per un altro, era il «superbo Iliòn», che a ragione, per conseguenza, era stato «combusto»: a tal segno che, se la città era stata superba, e Enea tuttavia «giusto», non era dunque necessario, provvidenzialmente necessario, che quella bruciasse perché questo, il «giusto/figliuol d’Anchise», potesse uscirne per realizzare l’impresa a cui i cieli l’avevano predestinato?12 Se è così, senza che perciò debba farsi ricorso a improprie sottigliezze, nella sua estrema concisione il v. 60 potrebbe addirittura suggerire che, indirettamente e al di là delle intenzioni esplicite, con Enea anche Ulisse aveva collaborato alla nascita di Roma: lui, anzi, più di ogni altro, perché solo da lui e dal suo fraudolento consiglio aveva cominciato a dipanarsi il filo con il quale l’eroe troiano intessé e compì la sua provvidenziale missione. Non si tratta di sottigliezze, ma dei paradossi che ogni concezione provvidenzialistica della storia necessariamente reca con sé: con il male che si rivela come la radice del bene e si riscatta nella luce di questo, con la violenza e persino le ingiustizie che, osservate nella prospettiva del fine, si rivelano come il contrario di sé stesse. Non si tratta di sottigliezze; e, del resto, se lo fossero, la responsabilità prima ne risalirebbe proprio a Dante che per i paradossi del pensare provvidenzialistico rivelò sempre un particolarissimo talento. Se si richiama alla mente il modo in cui, nel quarto trattato del Convivio, egli costruì il concetto della provvidenzialità intrinseca alla storia di Roma,13 e come, alla luce di questo, seppe mostrare la paradossale riconversione in positività della forza e della violenza che si erano rese indispensabili per la formazione dell’Impero,14 non ci si meraviglierà di quel che qui è stato detto. Nella luce della provvidenza, anche il peccato, infatti, l’autentico peccato di Ulisse, assumeva un significato diverso da quello che, se lo si fosse isolato e osservato in sé, senza dubbio gli sarebbe appartenuto e lo avrebbe segnato. Certo, sebbene, attraverso Virgilio, la vicenda di Ulisse gli richiamasse quella di Enea, a svolgere per intero il filo delle relative connessioni provvidenziali, in questo luogo, dopo avervi accennato al v. 60, Dante non fu interessato. Alla sotterranea provvidenzialità, che pure era in qualche modo visibile nell’inganno di Ulisse, gli bastò di allude-
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re, in un cenno fulmineo. Consapevolmente, si vuol ritenere, ne sacrificò l’espressione a quel che più in quel momento gli premeva. La sacrificò alle ragioni della sobrietà e dell’arte. II Non è vero, dicono i sostenitori dell’altra tesi che nel «folle volo» non debba vedersi la luce sinistra del peccato: di un peccato che, in quanto tale, ricevette la giusta punizione. Peccaminosa fu in realtà la passione che spinse l’eroe greco a violare i «riguardi» segnati da Ercole; che indicavano, in effetti, un limite non ultra quem, che Ulisse non rispettò, incorrendo nella giusta vendetta di Dio.15 Peccaminoso fu il suo comportamento che, caratterizzato dall’incapacità sua di rispettare la misura indicata dalla saggezza, era inevitabile che si concludesse nella cupa e livida tragedia che pose fine al «folle volo». Era, d’altra parte, altrettanto inevitabile che a riconoscere nell’impresa di Ulisse questo carattere fosse un poeta come Dante: un poeta cristiano; che tanto più profondamente doveva coglierne e sottolinearne la peccaminosità quanto più in sé stesso avesse avvertito e avvertisse il desiderio dell’«oltre», nonché la difficoltà di dominarlo e di ricondurlo entro i limiti segnati dalla ragione e dalla fede. Non lo confessò forse egli stesso, questo suo disagio, quando, proprio all’inizio, scrisse: «allor mi dolsi, e ora mi ridoglio/ quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,/ e più lo ’ngegno affreno ch’i non soglio,/ perché non corra che virtù nol guidi»?16 Può ben darsi, naturalmente, che, in quanto tali, questi versi si riferiscano piuttosto al peccato della frode17 che non all’altro che può cogliersi nella ὕβρις conoscitiva dell’eroe greco. Ma certo non può escludersi, e anzi deve ammettersi, che ad agirvi fosse la preoccupazione che nella coscienza di Dante era, per così dire, alimentata dal dubbio che anche a lui fosse accaduto, e tuttavia accadesse, di aver superato, e di superare, il limite dell’audacia intellettuale, rischiando, per conseguenza, autentici naufragi. Di qui, sia detto come per inciso, il ritorno che egli fece sulla questione, e l’allusione, a contrasto con il suo, al viaggio di Ulisse, quando con Virgilio ebbe posato il piede sulla spiaggia del Purgatorio. Si ricordino i versi finali del primo canto: Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo che di tornar sia poscia esperto.
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Quivi mi cinse sì com’altrui piacque: oh maraviglia! Ché qual elli scelse L’umile pianta, cotal si rinacque subitamente là onde l’avelse.18
La differenza che qui Dante avvertì fra il suo destino e quello di Ulisse non avrebbe potuto essere segnata con più grande nettezza;19 e già Benvenuto l’aveva notata quando osservò che quei versi erano stati scritti «pro Ulixe, qui tentavit illud accedere, secundum fictionem poetae, sed cito ipsum poenituit».20 A provarlo sta inoltre il richiamo dell’«altrui», nel quale, qui come nell’ultimo verso del ventiseiesimo canto, non è possibile indicare se non il Dio,21 che una volta perde e un’altra salva. Se, per altro è così, occorre tuttavia distinguere: non limitarsi a sottolineare l’aspetto peccaminoso del viaggio di Ulisse, e di ogni altro che al suo modello si avvicinasse, ma, appunto, distinguere. Il viaggio, dicono i sostenitori di questa tesi, fu ispirato da peccaminosa, e perciò condannabile, audacia. Fu il risultato della «follia» che era ormai penetrata nell’anima di Ulisse e ne determinava le azioni. Ma, si potrebbe obiettare, per quanto orientato a «trapassare» il segno della misura e della saggezza, l’«ardore» da cui l’eroe greco era spinto alle più audaci avventure della conoscenza non consentiva di rappresentarlo come semplicemente «cattivo». Il peccato si saldava infatti, nel suo animo, con la virtù, o con una, se si preferisce, virtù. L’oltranza conoscitiva aveva pur sempre alla sua radice la conoscenza, che era, infatti, una virtù. E duplice era perciò il suo carattere più profondo: duplice e dunque non riducibile né all’uno né all’altro degli elementi dai quali risultava. La qual cosa, ossia questa duplicità, a tal punto influenzò i critici disposti a far cadere l’accento sull’oltranza, ma non anche a interpretarla nel segno esclusivo della malvagità, che il loro stesso discorso spesso si divise in sé stesso fra l’apprezzamento della virtù e la condanna del peccato: senza che la duplicità fosse, non subìta, ma dominata, e all’eventuale disarmonia che dovesse riconoscersi nel personaggio si sapesse, da parte loro, guardare con più maturo giudizio. Se ne vuole un esempio? L’insigne studioso che, ormai sono molti anni, rappresentò il personaggio dantesco come «pronto a osare quel che nessuno mai osò», a «scagliare» (suo fu questo verbo) «la sua anima in un’impresa suprema e disperata che tolga il pregio a tutte le altre», perché «la vita per lui è ascesa senza soste»22 e «non v’è riposo finché resta un’altezza da conquistare, un mistero da svelare», è anche quello che, per queste medesime ragioni, d’accordo con Luigi Pietrobono, vide in lui un’altra, specifica, incarnazio-
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ne del peccato di Adamo e di Lucifero. E ritenne perciò che, pur ammirandolo, Dante non avesse potuto se non condannarne la follia.23 Ebbene, non è evidente che la «duplicità» qui non è stata in alcun modo mediata, o, se si preferisce, ricomposta in una prospettiva unitaria: nella quale si facesse chiaro che peccato e virtù e, per conseguenza, condanna e ammirazione, non potevano essere considerati come i momenti di una serie svolgentesi nel segno della coerenza? Come sarebbe stato possibile che, cogliendo in Ulisse una nuova incarnazione di Adamo, di Lucifero e della loro superbia, Dante tuttavia lo avesse ammirato? Se, tenendo fermo al peccato e anche, per conseguenza, alla sua condanna, al tema dell’ammirazione non si volesse, tuttavia, rinunziare, non è forse evidente che fra questa e quella, fra l’ammirazione e la condanna, sarebbe stato necessario ricercare un nesso diverso da quello costituito dalla semplice successione (che non è infatti un nesso) dell’un atteggiamento all’altro? Ma hic opus. Ricercarlo, quel nesso, e trovarlo, non era certo facile, una volta che la questione fosse stata posta in quei termini. In realtà, era impossibile. Eppure, alla sua ricerca, messe le cose in questi termini, rinunziare era impossibile. Se, nella coazione, che Ulisse riceveva dal desiderio, ad andar oltre e a tentare la suprema avventura, era impossibile vedere soltanto il segno del peccato, perché il desiderio è cosa umana e in sé e per sé stesso non può essere condannato, la sua prospettazione in termini di malvagità avrebbe importata una conseguenza che invano si sarebbe cercato di mettere d’accordo con la premessa e di ricavarvela. In realtà, non fu la malvagità di chi aveva ideato e compiuto quel viaggio a provocare la sua punizione. Ma fu la punizione che prospettò come male quel che in sé non aveva quel carattere. Fu la grazia di Dio che, negandosi a Ulisse, lo delineò come un peccatore meritevole di punizione. La grazia che a Dante si concesse, e a Ulisse invece si negò, non fu condizionata dall’essere il primo un cristiano e il secondo un pagano. Per definizione, nel suo significato più rigoroso, è impossibile che la grazia riceva condizionamenti. Chi, nel presentare Ulisse e Dante nel segno di questa differenza, non ha tenuto conto della radicalità di questo aspetto paradossale, avendo ragione per un verso, si è lasciato, per un altro, sfuggire l’aspetto forse più profondo della questione.24 La coerenza, senza dubbio, sarebbe ristabilita se alla tesi della peccaminosità si conferisse il necessario sviluppo; e tutto in Ulisse fosse considerato inganno, tutto fosse considerato frode: persino, potrebbe dirsi, la passione conoscitiva che non riuscì, in effetti, a pervenire alla sua propria
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espressione se non con l’ausilio di quelle armi, supremamente sleali. Ne consegue che la coerenza della tesi non potrebbe essere ottenuta se non si desse luogo alla persuasione che come, rivolgendo loro la famosa «orazion picciola», consapevolmente Ulisse ingannò i compagni,25 così, con altrettanta consapevolezza, nell’andare oltre i «riguardi» posti da Ercole, disubbedì a un comando che sapeva pronunziato dal dio. Se perciò, nella formulazione più moderata (e anche più ambigua) della tesi, l’ammirazione in qualche modo resisteva alla condanna, in questa vi cedeva, invece, per intero. E Ulisse appariva come un personaggio, non da ammirare, ma da condannare; e anche, per conseguenza, da odiare e disprezzare in nome del male che chiudeva in sé e di cui le sue imprese erano espressione. A tal punto, del resto, da alcuni sostenitori di questa tesi, la coerenza fu perseguita e condotta al limite che, persino nelle parole che, ai vv. 79-84, Virgilio rivolse a Ulisse perché si fermasse e dicesse «dove per lui, perduto», avesse trovata la morte, persino in questi versi si è avvertita, e non era impresa facile, per la verità, la nota dell’ostilità, dell’ira e del sarcasmo.26 Il che, francamente, ha significato chiudersi alla comprensione, non solo di ciò che può ritenersi sia arte, ma del senso elementare che quelle parole racchiudono in sé. III Palesemente, queste sono esagerazioni, dalle quali tanto più ci si deve guardare in quanto, se vi si insistesse, non solo le ragioni dell’arte, ma quelle altresì della struttura, finirebbero per essere travolte. E non è che la struttura conti, qui, meno della poesia: conta, per questo aspetto, di più. In realtà, da parte dei sostenitori di questa tesi non si è a sufficienza riflettuto, o forse non si è riflettuto affatto, sul punto che qui appare, ed è, fondamentale. E che si coglie quando si osserva che, se sul serio il «folle volo» configurasse in Ulisse un nuovo Adamo e un nuovo Lucifero, sarebbe estremamente difficile, per non dire impossibile, assegnare alle parole che dichiarano l’analogia il concetto che, dal di dentro, ne esibisca e ne delucidi l’essenza. Si lasci da parte la circostanza specifica e, per la sua importanza, tutt’affatto particolare, che Adamo sta in Paradiso,27 dove sarebbe stato impensabile che Ulisse avesse mai potuto trovar posto: sì che sarebbe pur sempre un’analogia stabilita per radicale dissimilitudine, e non per simiglianza, per opposizione contraddittoria, e non per diversità, quella
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che si fosse dichiarata sussistente fra i due; un’analogia, dunque, che non è un’analogia. E anche l’altra, si lasci da parte, che riguarda Lucifero. Il quale è imprigionato nel luogo più basso del «regno» di cui è imperatore, in modo tale che nessuno potrebbe dividerlo con lui. Si lascino da parte queste due situazioni estreme: sulle quali non sarebbe per altro stato male se, come si è detto, avessero riflettuto i sostenitori della tesi che stiamo discutendo. E si consideri invece l’altra difficoltà che, con le molteplici sue facce, si delinea quando si cerchi di assegnare a Ulisse, oltre quello specifico del consigliere fraudolento, l’altro peccato di cui il «folle volo» è, o sarebbe, l’immaginosa metafora. Fu un peccato d’orgoglio quello che, conducendo l’eroe al di là delle colonne d’Ercole, ne provocò il naufragio nel mezzo del misterioso Ocea no? Fu un peccato di superbia? O di quale altra natura? In realtà, posto che orgoglio e superbia potessero con facilità assimilarsi l’uno all’altra, e, riferite a Ulisse, lo rivelassero simile, non ad Adamo, come si è visto, non a Lucifero, ma, per esempio, a Capaneo,28 rendendolo perciò degno del terzo girone del settimo cerchio, non ci vorrebbe poi molto per accorgersi che l’assimilazione sarebbe avvenuta nel segno della più grande indeterminatezza. Ulisse non ha niente, e su questo dovrà tornarsi, proprio niente, della «superbia» di Capaneo, niente della «rabbia» in cui, rivolta la sua assurda sfida al dio, questo personaggio consumò, e anche nell’Inferno seguitò a consumare, sé stesso («o Capaneo, in ciò che non s’ammorza/ la tua superbia, se’ tu più punito:/ nullo martiro fuor che la tua rabbia/ sarebbe al tuo furor dolor compìto»).29 Oppure ha qualcosa dell’una, dell’altra e di altre, ancora, peccaminose qualità. Ma solo perché la tipologia dei peccati non è che una tipologia; ed è così rigida e povera e astratta che ciascun peccato rientra nel luogo che essa gli assegna e dal quale, se si guarda nell’intrinseco, lo si vede tuttavia uscire per entrare in un altro che, a sua volta, è e non è il luogo che gli compete: come potrebbe constatarsi se la tipologia fosse risolta nella varia fenomenologia delle trasformazioni che essa non riesce a rendere immobili nella sua forma. Alla tipologia occorre tuttavia tener fermo, resistendo alla tentazione di renderla fluida e mobile. È ben vero infatti che Dante sapeva, e poteva convenire sul punto, che, nella sua radice più profonda, ogni peccato contiene in sé tutti i peccati, ai quali di volta in volta, da parte sua e di altri, si dava un diverso nome. Ma questo non significa che alla tipologia, ossia alla struttura morale, quale l’aveva concepita e descritta, dell’Inferno, egli fosse disposto a rinunziare e che, per quanto astratte e inadeguate a dar conto della mobilità intrin-
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seca a ciascun peccato, le divisioni e suddivisioni che vi aveva introdotte non gli apparissero tuttavia indispensabili alla costruzione del suo «al di là» penitenziale. Questo del pari non significa che, consapevole, non solo della mobilità intrinseca al peccato, ma anche dei tanti che l’animo umano contiene in sé, egli non fosse convinto di dover conferire il maggior risalto a quello che, nel quadro di un’esistenza, da quel carattere, più che da altri, fosse stato contrassegnato. Ma soprattutto non significa che, contro ogni logica, egli fosse disposto a concedere che un peccatore stesse nello stesso tempo in tanti luoghi quanti ne sarebbero stati richiesti, se ciascuno avesse dovuto trovarvi posto, da tutti i peccati da lui commessi nel corso della sua esistenza. Un peccatore non poteva stare se non nel luogo che gli competeva in forza del peccato per il quale era considerato tale e, come tale, punito. E questa era una conseguenza che ineluttabilmente dipendeva dal modo in cui era congegnata la struttura: alla quale non sarebbe pensabile e concepibile che, forte della sua originalità, un critico di oggi desse meno importanza di quella che assegna alla poesia (e anche al vario fenomenizzarsi della peccaminosità). IV Si può tuttavia, al riguardo, e anzi si deve, dire di più. Se si apre l’undecimo canto della prima cantica, che, ai vv. 16-115, contiene la descrizione del così detto ordinamento morale dell’Inferno, e la si paragona con quel che, nel canto quarto della terza, Dante disse di quello del Paradiso, a emergerne sono questioni delicate, alle quali non si può, anche in questa sede, non dare risalto. In relazione all’ordinamento dell’Inferno, deve dirsi che, in tanto i dannati furono e, via via erano, sistemati in settori diversi della sua voragine, in quanto, a misura che questa si restringeva fino a concludersi nel «punto/ de l’universo in su che Dite siede»,30 a ogni girone corrispondevano peccati tanto più gravi e a Dio spiacenti quanto più quella si faceva angusta. Le «tre disposition che ’l ciel non vole», e cioè «incontinenza, malizia, e la matta bestialitade», includevano, ciascuna in sé, le modalità peccaminose che risultavano assumibili sotto il loro segno; e se, in quanto rivolto contro Dio, fondamentalmente uno era il peccato, la sua unicità si articolava tuttavia, e si graduava, a seconda che, nella sua specifica modalità e nel segno che l’accoglieva, quello che le corrispondeva dispiacesse più al creatore o meno, e il peccatore che lo rappresentava
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meritasse perciò di stare in una zona dell’Inferno o in un’altra: fuori della «città roggia»31 o dentro di essa. È difficile decidere se, quando scriveva l’Inferno e, sul fondamento dell’Etica nicomachea esplicitamente citata al v. 80, in questo undecimo canto procedeva alla sua articolazione e suddivisione, Dante avesse già in mente quel che, a proposito della soltanto apparente collocazione delle anime dei beati nei dieci cieli sottostanti a Dio, avrebbe sostenuto nel quarto canto del Paradiso. Nel quale, come si sa, a differenza di quel che avviene nell’Inferno, dove i dannati occupano punti e luoghi diversi della voragine, le anime stanno tutte nell’Empireo, ossia nel cielo quieto che è anche il più vicino a Dio, sebbene all’uomo sensibile che di cielo in cielo compiva la sua ascesa esse apparissero collocate in questi a seconda che più o meno intensa fosse la virtù che più o meno consentiva loro di godere della vista di Dio. È difficile deciderlo; e anzi è impossibile, se si considera che nel quarto del Paradiso non si trovano accenni a quanto, per le anime dei peccatori puniti nell’Inferno, era stato detto nell’undecimo canto della prima cantica; né in questo s’incontrano anticipazioni di quel che sarebbe stato detto nella terza. Ma che, al riguardo, nella testa di Dante si fosse delineata una questione che, insieme alle altre che le si connettevano, presentava più di una spina, è innegabile. Era una questione che, presentandosi nei due diversi contesti, con caratteri identici, aveva bensì, nell’un caso e nell’altro, aspetti diversi, ma tali tuttavia che, diversificandosi su un fondamento comune, richiedevano, e anzi imponevano, il confronto che, nel testo, non aveva avuto luogo. La prima, alla quale le altre che ne nascevano si subordinavano rendendola più acuta, concerneva la possibilità che l’uno si articolasse nei molti e che, il peccato essendo la stessa cosa del male, in questo e in quello potessero darsi gradi di maggiore e minore intensità e, per conseguenza, una più e meno grande capacità di avere offeso e offendere Dio. Era in effetti una questione che, tanto più era acuta, anzi molto acuta e, in quella forma, addirittura insolubile, in quanto, nell’accennarvi adattandola al caso che la contemplava, Dante lasciava intendere bensì che l’uno si moltiplicasse e la moltiplicazione assumesse rilievo fisico e spaziale, senza che per altro gli fosse prima accaduto di spiegare come fosse possibile quel che egli assumeva come ovvio: e cioè appunto che quel che è uno desse luogo ai molti e alla dimensione spaziale nella quale, in sostanza, questi si risolvevano. La difficoltà era del resto destinata a rivelare una ancora più aspra fisionomia, e a spingersi addirittura a un più alto grado, se si fosse chiesto come era possibile, che, essendo eterne e scevre di ogni tratto fisico e corporale, le anime
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dei dannati stessero tuttavia in un luogo che, anch’esso essendo eterno, non avrebbe dovuto essere concepito con il carattere della spazialità e dell’inclusività di altro. Che l’Inferno fosse eterno, almeno nel senso che, dopo esser stato provocato dalla caduta di Lucifero che aveva lasciato il suo segno nella materia prima,32 era destinato a durare per sempre, era quanto Dante aveva letto sulla sua porta quando vi era giunto davanti. Ed erano parole, quelle, in cui non sarebbe stato difficile sorprendere il tratto aporetico se le si fosse analizzate in relazione ai concetti sia della «materia prima», sia di un’eternità che, avendo avuto un inizio, tale poteva dirsi, e dunque in modo improprio, solo per ciò che a partire di lì si spingeva in avanti. Ma erano tali, tuttavia, che comunque all’eternità facevano esplicito riferimento. «Dinanzi a me non fuor cose create/ se non etterne, e io etterno duro».33 Proprio per questo, tuttavia, proprio perché, sebbene in modo filosoficamente inadeguato, lo si predicava dell’eternità, l’Inferno non avrebbe dovuto essere concepito come un luogo a dimensione spaziale; mentre, a lora volta, in quanto tutte allo stesso modo eterne, le anime non avrebbero potuto né esservi accolte, né essere concepite come distinte l’una dall’altra in forza del principio corporeo, qui non ammissibile, che le aveva individuate in vita. Insomma, concepito come eterno, il baratro infernale avrebbe dovuto altresì essere definito come ἄτοπος, o, se si preferisce, come un ἄτοπος τόπος, un «luogo non luogo», un «luogo senza luogo», sussistente bensì in sé stesso, ma, in virtù della sua natura, incapace di accogliere altro. Lo stesso, come si è accennato, si sarebbe, d’altra parte, dovuto dire delle anime, indistinguibili l’una dall’altra in nome dell’eternità di cui le si predicava. La difficoltà che si sarebbe incontrata nel concetto della distinguibilità del male come più o meno intensamente offensivo nei confronti della divinità, aveva così il suo riscontro in quella che si è vista emergere dal modo in cui Dante aveva prospettato il concetto dell’eternità delle anime e del luogo, che non poteva essere un luogo, in cui erano accolte a scontare l’eterna pena. Ed era una difficoltà che, come non avrebbe potuto essere risolta assumendo l’artificiosità e convenzionalità dei concetti, o degli schemi, di cui egli si serviva per dare consistenza all’Inferno (questo, in effetti, sarebbe stato un modo per ribadirla), così era destinata a ripresentarsi quando, a proposito del Paradiso, si fosse chiesto dove in realtà si trovassero le anime che, con i suoi occhi mortali, egli vedeva distribuite nei dieci cieli in cui assumeva, o meglio, a guardar bene, negava, che il Paradiso si articolasse. Era la questione del bene e della beatitudine eterna che, specularmente a quella del peccato e della pena, insorgeva nel punto in cui, con le paro-
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le di Beatrice, Dante spiegava come e perché a lui, uomo mortale, stesse accadendo di vedere distribuite nei diversi cieli le anime che, invece, erano tutte raccolte in quello «quieto», o Empireo. La prima questione che a questo riguardo si poneva riguardava infatti la possibilità che il bene fosse più o meno bene, la beatitudine eterna più o meno beata. E l’altra era se fosse ammissibile che, tutte allo stesso modo eterne, le anime non solo si distinguessero l’una dall’altra e mantenessero l’individualità che le aveva distinte in vita; non solo se lo fosse che dall’eterno volgessero uno sguardo, che eterno doveva necessariamente essere esso stesso, al mondo mortale che un giorno le aveva accolte, ma anche se, distinte l’una dall’altra, avessero il loro luogo in un cielo che, essendo soltanto pura luce intellettuale, non possedeva estensione che non fosse quella luce medesima: una luce, dunque, che, poiché, in ragione del suo concetto, non poteva non essere che la medesima luce, per la stessa ragione era inammissibile che andasse oltre sé stessa e che fosse più o meno intensa. Il cielo quieto in cui le anime del Paradiso erano accolte era «pura luce:/ luce intellettual, piena d’amore;/ amor di vero ben, pien di letizia;/ letizia che trascende ogni dolzore»;34 e non aveva «altro dove/ che la mente divina, in che s’accende/ l’amor che ’l volge e la virtù ch’ei piove».35 Era, se, di quel che qui si dice in termini di luce e di amore, volesse darsi una drastica trascrizione intellettuale, la stessa mente di Dio nel suo eterno pensiero: con la conseguenza che allo stesso modo si ricaverebbe se si stesse alla sua definizione: e cioè che, come quella luce era indistinguibile in più e meno luminosa, così sarebbe stato arduo distinguere fra mente, pensiero e pensieri. Sarebbe stato arduo mantenere quel che Dante assumeva e, data la sua premessa, non poteva non assumere: ossia che, stando tutte nel cielo quieto, che è la mente stessa di Dio, quelle vi stessero tuttavia in modo identico, perché vi stavano, e diverso, anche, perché «differentemente han dolce vita/ per sentir più e men l’etterno spiro».36 Sarebbe stato arduo. Messosi dinanzi alla spinosa questione dell’identità e della differenza, nella quale, in questo punto, si essenzializzava quella dell’uno e dei molti, Dante non riusciva infatti a spiegare come dall’una si passasse all’altra, e come potessero, senza contraddizione, essere assunte all’interno del medesimo concetto; e nemmeno era in grado di dar conto del loro esser diverse dalla mente di Dio che pure le accoglieva come momenti costitutivi della sua essenza. Se, per rendere più evidente la difficoltà che, nel leggere questi versi, ci si trova di fronte, delle anime che sono nel cielo empireo, che è Dio, si fosse tenuto fermo che della sua mente erano come i pensieri, come si sarebbe potuto ammettere
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che fossero essi, i pensieri di Dio, a fare di lui l’oggetto della loro capacità contemplativa? E come si sarebbe potuto ritenere che, in forza di questa medesima ragione, i pensieri di Dio fossero più e meno intensamente i suoi pensieri? In realtà, se ci si pensa, è ben vero che, come sempre nel Paradiso, anche in questo caso Dante risolse, e addirittura trasfigurò, in termini di luce e di amore il suo retaggio aristotelico. È ben vero che il pensiero del suo dio era, fondamentalmente, un pensiero d’amore, e, quello del dio aristotelico, un pensiero di pensiero, νόησις νοήσεως. Ma quando poi, dal fulgore delle immagini luminose si fosse trascorsi al concetto che dal di dentro le informava, si sarebbe pur sempre dovuto constatare che quella luce era «luce di luce» proprio come quel pensiero era «pensiero di pensiero», e che introdurre il tema della differenza era nel primo caso altrettanto impossibile che nel secondo. Le difficoltà, per altro, non finivano qui. Se ne davano altre, che dovranno, sia pure in breve, essere considerate. Le anime dei beati hanno tutte la loro sede nell’Empireo. Ma a Dante che, come uomo mortale dotato di occhi mortali, e legato perciò al «sensato», di cielo in cielo saliva verso quello che era pura luce intellettuale, apparivano disposte e distribuite nei cieli che egli appunto attraversava nella sua ascesa. Gli apparivano così non solo perché all’idea dell’ascesa di cielo in cielo era impossibile che egli rinunziasse e, con quella dell’ascesa, sacrificasse perciò l’altra della progressiva rivelazione, ai suoi occhi, della luce di Dio. Gli apparivano così, se si vuole, perché come la discesa all’Inferno era avvenuta per gradi, e per gradi era avvenuta l’ascesa, di girone in girone, fino alla cima del Purgatorio, altrettanto per l’analogia strutturale sussistente fra le tre cantiche, era necessario che avvenisse per il Paradiso; che anch’esso doveva essere conquistato per gradi, come non sarebbe avvenuto se, assunto nell’Empireo, Dante fosse stato di colpo investito dalla luce irresistibile di Dio. Le anime, dunque, gli apparivano così perché, altrimenti, per il limite intrinseco alla sua condizione umana, non gli sarebbe stato possibile percepirle: quella distinta apparizione essendo per altro da intendere come proveniente, non tanto da quel limite e dalla soggettiva attitudine che ne discendeva, quanto piuttosto da una disposizione delle anime a rendere percepibile al pellegrino celeste la diversa intensità con la quale, sebbene tutte fossero nell’Empireo, godevano della vista di Dio. Da una disposizione delle anime; e, perciò, da una sorta di eccezionale dono che esse facevano all’ospite perché fosse messo in condizione di vedere quel che altrimenti, come da troppa luce, gli sarebbe stato precluso. «Qui si mostraro, non perché sortita/ sia questa spera lor,
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ma per far segno/ de la celestial ch’ha men salita./ Così parlar conviensi al vostro ingegno/ però che solo da sensato apprende/ ciò che fa poscia d’intelletto degno».37 Per percepire la loro presenza, Dante non avrebbe dunque potuto non prospettare nella dimensione dello spazio quel che non aveva il suo «dove» se non in quella, rigorosamente aspaziale, della mente divina. Era perciò necessario che, nel momento in cui egli stesso vi era stato accolto, nell’ordine celeste si fosse prodotto una sorta di miracolo, in forza del quale quel che in sé era unito, o distinto bensì, ma non in senso spaziale, apparisse in quest’ultima dimensione, l’unica che fosse conforme al suo umano intendimento. Che in effetti si trattasse di un miracolo, ossia di una specificazione della grazia, in forza della quale egli era giunto fin lassù, e non di una situazione che avesse riscontro obiettivo nello stato delle cose, dovrebbe, sul fondamento di quei versi, essere evidente. Che diversi fossero i gradi della beatitudine, Dante aveva già detto nel terzo canto, dove, parlando della piena soddisfazione che ciascuna anima provava nel trovarsi nel grado che le era stato assegnato, di tutto questo aveva fatta risalire a Dio e al suo consiglio la causa e la ragione (vv. 64 ss). Nel quarto, come si è visto, aveva ribadito che «tutti fanno bello il primo giro/ e differentemente han dolce vita/ per sentir più o men l’etterno spiro» (vv. 34-36). E, a parte la non lieve difficoltà concernente, come già si disse, la possibilità che nell’eterno potessero aver corso gradi di maggiore e minore intensità, anche aveva tenuto fermo che le anime non avessero in cieli diversi dall’empireo il loro scranno, e che, se a lui accadeva di vederle invece in quei luoghi diversi, questo era appunto un miracolo che si determinava in pro di lui.38 Che qui si fosse formato un nodo di questioni che Dante avvertiva, per un verso, con notevole acutezza nell’atto in cui non era, per un altro, in grado di scioglierlo per intero, è evidente. Che la grazia divina elargisse sé stessa in modo così drastico, e all’interno di una situazione così eccezionale, che lo stesso ordine cosmico ne era, sia pure pro tempore, alterato, non era questione che si potesse risolvere assumendo con semplicità e immediatezza che la grazia era la grazia e che l’arte aveva a sua volta i suoi diritti. L’arte, ossia la logica che presiedeva alla costruzione del Paradiso in modo conforme, nella differenza, a quello che era stato seguìto nella costruzione dell’Inferno e del Purgatorio, – tutto questo agiva senza dubbio nella mente di Dante, e gli imponeva le sue ragioni. Ma non però nel senso che faciliori modo egli si comportasse nei confronti della questione che ne
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nasceva. In realtà, se anche la si osservi soltanto da questo specifico angolo visuale, non è difficile vedere come, nel trattare la questione che gli stava di fronte, Dante facesse valere i diritti della costruzione fantastica nell’atto in cui ai termini rigorosi di quella non rinunziava a rivolgere lo sguardo. Se infatti, per un verso, ammetteva che vi fossero gradi diversi della beatitudine, e con maggiore o minore intensità i beati partecipassero dell’«etterno spiro», da un altro era fermo tuttavia nel non ammettere che quella potesse essere assunta in dimensione spaziale. Ne terzo del Paradiso, le parole di Piccarda Donati lo avevano reso edotto del punto essenziale; e cioè non solo che le anime erano felici di quel che avevano perché era essenziale «ad esto beato esse/ tenersi dentro a la divina voglia/ per ch’una fansi nostre voglie stesse»,39 ma anche che «ogne dove/ in cielo è paradiso, etsi la grazia/ del sommo ben d’un modo non vi piove» (vv. 88-90). Certo, il farsi una in Dio delle diverse volontà non risolveva, e piuttosto ribadiva, la difficoltà intrinseca al farsi molti dell’uno. Ma se le questioni che qui Dante dibatteva fossero, sia pure per un punto specifico, lette in riferimento a Summa theol. suppl. III. q. 93, a. 2, dovrebbe constatarsi che non è certo nel testo del poeta che queste erano affrontate con minor rigore. In quel luogo, Tommaso si era posta la questione utrum beatitudinis gradus mansiones dici debeant, l’aveva dibattuta in un senso e nell’altro, e quindi, dopo averla posta con rigore, l’aveva risolta con un compromesso. Il rigore gli aveva imposto di asserire che «mansio locum significare videtur»; e perciò di argomentare che, poiché «locus in quo sancti beatificantur, non est corporalis, sed spiritualis, scilicet Deus, qui unus est», dunque non est nisi una mansio, et ita diversi gradus beatitudinis mansiones dici non debent. Ma poi, piegandosi al compromesso, e per dar conto di quel che aveva letto nell’Apocalisse e in Agostino, aveva, nella conclusione, quasi capovolta la premessa. «Ad primum», aveva scritto, «ergo dicendum, quod mansio importat rationem finis, et per consequens rationem praemii, quod est finis meriti. Ad secundum dicendum, quod quamvis sit unus locus spiritualis, tamen diversi sunt gradus appropinquandi ad locum illum; et secundum hoc constituuntur diversae mansiones». L’aveva capovolta per un altro verso conservandola: come si vede dal modo in cui riteneva che potesse coesistere, con quella secondo cui non est nisi una mansio, l’altra per la quale, poiché al luogo della beatitudine ci si avvicina per gradi, secundum hoc constituuntur diversae mansiones. Ebbene, non è evidente che, rispetto a questa tesi, che finiva per spazializzare ciò che spazializzabile non era, e spazializzato non doveva essere, più consapevole della difficoltà si mostrava quella di Dante,
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che ai «gradi» della beatitudine non aveva conferita se non la dimensione dell’intensità? Non è evidente che, paradossalmente, c’è più rigore e consapevolezza della difficoltà nel ricorso dantesco al miracolo per il quale le anime si mostravano dove in realtà non erano, che non nei tentativi volti a far coesistere, con il «dove» che non è un dove, perché è Dio, i molti «dove» attraverso i quali si svolge il cammino che conduce alla beatitudine? Che, d’altra parte, anche in Dante le difficoltà si riaffacciassero e non sempre egli si mostrasse pronto a resistere all’insidia del «dove» spaziale e dei molti che gli si aggiungevano, potrebbe essere provato dalla stessa idea della rosa dei beati e dei troni che la costituivano in circolo. Quando, nel canto trentesimoprimo, di fronte allo spettacolo al quale era stato messo di fronte, si volse «con voglia rïaccesa/ per domandar la» sua «donna di cose/ di che la mente» sua «era sospesa», Dante non se la trovò accanto; e da san Bernardo che era subentrato al suo posto per guidarlo nella parte finale della sua ascesa, si sentì dire che se avesse riguardato «su nel terzo giro/ dal sommo grado», l’avrebbe rivista «nel trono che suoi merti le sortiro».40 Non è evidente che qui la considerazione spaziale riaffermava i suoi dubbi diritti e s’imponeva dove, a rigore, non avrebbe dovuto e potuto? Se «ogne dove in cielo è paradiso», la situazione che ne nasceva non era in nessun senso analoga, e non certo per disattenzione o negligenza, a quella che Dante aveva ritratta nella descrizione della voragine infernale; come tuttavia avrebbe dovuto se, dal suo essere un luogo eterno, egli avesse tratte le necessarie conseguenze, e si fosse perciò avvisto che materializzarla in uno spazio sarebbe stato altrettanto impossibile che collocarvi le anime, esse pure eterne, dei dannati. Se tuttavia, per analogia a quel che avveniva per il Paradiso, anche per l’Inferno Dante avesse proceduto così; se al male avesse concessa e riconosciuta l’autonomia, e il suo spazio fosse stato da lui concentrato e essenzializzato nel punto inesteso dell’eternità, il luogo delle anime avrebbe allora dovuto essere paradossalmente indicato nella mente di Lucifero proprio come quello dei beati nella mente di Dio. Il rischio era che, per questa via, si desse luogo a una situazione manichea, con il bene e il male in tal modo contrapposti in due princìpi che, per la forza della contrapposizione e della conseguente simmetria, a Lucifero sarebbe stato inevitabile assegnare l’amministrazione dei peccati, a Dio quella dei beati. Ed era altresì che si determinasse l’impossibilità di conferire al dramma delle anime racchiuse nel carcere infernale il rilievo che la fantasia poetica esigeva e al quale non poteva rinunziare. Che alla rappre-
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sentazione di quel dramma e a quel che ne conseguiva, Dante non potesse rinunziare, era del tutto ovvio. Ma ovvio era anche che, mantenendo questa differenza, facendo che l’Inferno fosse un luogo ospitante molti luoghi e, altresì assumendo che soltanto dalla buona disposizione delle anime a porre rimedio ai limiti intrinseci ai suoi occhi mortali dipendesse la distinta configurazione del Paradiso, Dante venne a trovarsi al centro di non lievi difficoltà, alle quali sarebbe assurdo se si rinunziasse a dare rilievo. Poiché aveva escluso che del bene potesse darsi una rappresentazione differenziata, analoga a quella che aveva ammessa per il male, avrebbe dovuto spiegare come fosse possibile che, pur essendo tutti compresi nel cielo quieto coincidente con la mente divina, i beati sentissero tuttavia «più e men l’etterno spiro»; e anche come per lui potesse ammettersi che, assunto nella eterna dimensione dei cieli, la sua attività gnoseologica seguitasse a esservi quale era stata, e avrebbe poi continuato a essere, quaggiù, in terra. Era vero infatti quel che, per dar conto di quel che non riusciva a spiegare con la ragione, egli tuttavia teneva fermo; e cioè che la sua assunzione, da vivo, nei cieli paradisiaci, era il risultato di una speciale elargizione di grazia piovuta su di lui quando nella selva oscura si dibatteva nella morsa del peccato e andava incontro alla morte spirituale. Era vero; e poiché così egli pensava e diceva, di quel che diceva e pensava non c’era che da prendere atto, traendone tuttavia qualche conseguenza e indicando qualcuna almeno delle difficoltà che venivano in luce. Proprio qui, per altro, si delineava una questione insidiosa; e tanto più in quanto, per un verso avvertendola come tale che, per risolverla, non si sarebbe potuto ricorrere se non al già detto miracolo delle anime che si mostravano in luoghi diversi dal luogo/non luogo che le ospitava nell’Empireo, a quello Dante faceva ricorso e teneva fermo, mentre, per un altro, assumeva che nemmeno in cielo a lui fosse concesso di conoscere altrimenti da come aveva conosciuto e sarebbe tornato a conoscere in terra. La questione era in realtà tanto più insidiosa in quanto, alla sua origine, si sarebbe potuto cogliere un’ulteriore ragione di equivoco. A Paradiso, IV 43-48, Dante aveva detto che, tenendo conto del modo in cui si determinava, nell’uomo, il processo conoscitivo, la Scrittura aveva concesso che a Dio si attribuissero «e piedi e mano» (v. 44), e «Santa Chiesa con aspetto umano/ Gabrïel e Michel vi rappresenta,/ e l’altro che Tobia rifece sano» (vv. 47-49). Ma la «condiscendenza» della Scrittura e, quindi, della Chiesa, riguardavano la normale esistenza di uomini viventi su questa terra, e la loro inevitabile tendenza al pensiero rappresentativo. Non riguardava un
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uomo che, miracolosamente ammesso, pur da vivo, a visitare il regno dei cieli, avrebbe altresì, per coerenza, dovuto esser posto in condizione di disporre, nell’«eterno» al quale era pervenuto dal «tempo», di una capacità intellettuale e gnoseologica conforme a questa situazione. L’assunto fu invece che in quel luogo celeste Dante avesse conservato il suo umano intelletto, e che, nella condizione, in ogni senso eccezionale e straordinaria, in cui era stato trasferito, quello dovesse tuttavia agire come se, invece che in cielo, si fosse trovato in terra: come se, nel luogo in cui era stato accolto, vi fosse un «sensato» dal quale l’intelletto avesse tratto ciò che fosse stato degno di essere elaborato nella sua forma propria. Ebbene, che, da questa premessa, derivassero difficoltà destinate a rivelare sempre più la loro asprezza, è evidente. Si veda la prima. Arbitrario era interpretare alla stregua di un «sensato», la disposizione spaziale che, per rendersi da lui visibili e percepibili, le anime avevano assunta. Quella disposizione non era infatti un «sensato». Era un dono gratuitamente elargito al suo intelletto; che, dunque, non perché avesse elaborato quel che i sensi gli avevano offerto, e gli offrivano, se la trovava dinanzi, ma perché così imponeva la situazione miracolosa nella quale egli era venuto a trovarsi con la possibilità che gli era stata concessa di salire, di cielo in cielo, verso Dio. Insomma, non perché da un «sensato», lì inesistente, avesse elaborata la situazione che ora poteva contemplare nella sua spazialità e successione, queste si erano determinate. Esse si erano formate in virtù di un atto gratuito del quale l’intelletto, che altrimenti non sarebbe stato in grado di determinarle, si era trovato a godere. Il che significa che, per un verso l’intelletto umano di Dante era stato implicitamente dichiarato incapace di agire in cielo come avrebbe agito in terra, e che, per un altro, essendo rimasto in cielo quale era stato in terra, lo si era tuttavia messo in condizione di vedere disposte nello spazio paradisiaco, ossia nei diversi cieli, quel che si trovava in realtà soltanto nell’Empireo. Che qui si fossero determinati un sottile disguido logico e un’acuta difficoltà, è innegabile; e nessuno avrebbe potuto disconoscerla se vi avesse posto la mente nell’atto in cui, per un altro verso, avesse richiamata la specifica difficoltà che Dante non poteva non decidere che fosse stata vinta attraverso la decisione di scrivere, come lo scrisse, il Paradiso. Poiché la grazia aveva concesso a lui, vivo uomo di questa terra, di ascendere attraverso i cieli fino a Dio, è evidente che a questa sua condizione non avrebbe potuto rinunziare senza con questo togliere di mezzo il dono che la grazia gli aveva elargito. Ma anche è evidente che proprio di qui, da questa premessa elementare su cui l’intera Commedia era stata
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edificata, prendeva l’avvio un’opposta difficoltà; che consisteva in ciò, che se quella dei cieli era un’eterna dimora, non era possibile che, anche per brevi ore, a trovarvi posto fosse un individuo mortale che, per essere intrinsecamente legato al tempo e al mondo sensibile attraverso lo stesso condizionamento che ne riceveva, da quella, invece, avrebbe di necessità dovuto essere escluso. Eppure, mentre al suo accoglimento nella dimora celeste Dante teneva fermo al punto da considerare non impossibile che anche lì il suo intelletto funzionasse secondo le sue regole terrestri, per un altro verso di questa idea non poteva non avvertire, in termini filosofici e teologici, la problematicità; e allora le affiancava l’altra dell’aiuto miracoloso che le stesse anime gli davano, comparendo là dove in realtà non si trovavano, e rendendo spazialmente distinto ai suoi occhi quel che non era nel concetto, se non uno, l’unità stessa di Dio. V Sebbene sia lungi dall’essere riuscita esauriente, la digressione è risultata forse troppo estesa;41 ed è tempo ormai di riprendere la linea principale del discorso; che solo in apparenza, tuttavia, era stata abbandonata. La questione era se, nell’Inferno, fosse stato lecito distinguere i peccati, e i peccatori, in più e meno gravi, facendo in modo e rendendo possibile che di uno solo, e non di tutti, i dannati scontassero la pena. Con le anomalie concettuali che sono state messe in luce, questa possibilità era ammessa da Dante per i peccatori dell’Inferno come per i beati del Paradiso. E di questo deve perciò indicarsi la conseguenza. Nell’ottava bolgia Ulisse fu condannato a espiare un peccato di frode. Se perciò fu altresì un peccato (di superbia, per esempio) quello che egli commise spingendo la nave al di là delle colonne d’Ercole, questo non fu quello. E non fu per essere stato superbo fino alla follia che egli fu punito in quello specifico luogo dell’Inferno. Di aver commesso un peccato di questa qualità, che a rigore avrebbe dovuto essere punito nel quinto cerchio nell’atto stesso in cui l’altro era punito nell’ottavo, palesemente (a dimostrarlo è il modo stesso in cui il racconto del viaggio è congegnato) Dante non assegnò a lui la consapevolezza. Eppure, se nell’«altrui» che non consentì che il suo viaggio si concludesse altrimenti che nella tragedia, deve vedersi il gesto implacabile della condanna divina, la conseguenza paradossale è che da Dio Ulisse fu punito due volte, una volta come consigliere fraudolento, un’altra come trasgressore di un divie-
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to inviolabile; e che solo per il primo peccato egli fu collocato da Minosse42 nell’ottava bolgia. Una situazione singolare e paradossale, non facilmente riconducibile all’idea della piena corrispondenza del peccato con il luogo della sua punizione; e che non risulterebbe sanata nemmeno nel caso che anche l’ultimo viaggio fosse prospettato nel segno della frode. Per sanarla in quello della coerenza occorrerebbe ammettere che, nell’andar oltre le colonne d’Ercole e affrontare il mare sconosciuto per fare esperienza, «di retro al sol», del «mondo sanza gente», come i compagni dell’ultima avventura, Ulisse avesse consapevolmente ingannato sé stesso. Ma questa, sul serio, sarebbe una stravaganza, l’attribuzione a Dante di un concetto in ogni senso, come si è visto, estraneo al suo universo. La distinzione che qui, almeno provvisoriamente, si propone fra peccato e peccato, è così evidente che non riceverebbe comprensione chi si levasse a contestarla. Deve anche aggiungersi che, come c’era peccato e peccato, e diverso era il piano sul quale l’uno e l’altro erano collocati e apprezzati da Dante, così diversa era la consapevolezza con la quale, nel commetterli, Ulisse li accompagnò. Gli inganni ai quali egli dava seguito nell’azione politica e militare non potevano nascondere ai suoi occhi la natura loro di inganni. Ma non altrettanto potrebbe dirsi del suo non aver rispettati, quando se li trovò di fronte, i famosi «riguardi» che Ercole aveva posti perché «l’uom più oltre» non si mettesse. Diversamente, infatti, dall’«uom che non nacque»,43 che del divieto di mangiare i frutti dell’albero era ben consapevole perché ne era stato direttamente avvertito da Dio; a differenza di Lucifero che, di quel che faceva, era in tutto e per tutto in grado di avvertire il carattere sovvertitore, Ulisse era pur autorizzato a ritenere che quello segnato e indicato da Ercole fosse non più che un avviso rivolto alla prudenza dei naviganti che, giunti a quel punto, bene avrebbero fatto a non sacrificarla alla tentazione dell’avventura. La differenza fra le due, o tre, se si preferisce, situazioni è in effetti così grande che, nel considerarla e tenerla ferma, non può altresì non tornarsi sul punto che, già toccato, appare ora in una più chiara luce. La frode è la frode; e sulla malizia che le è intrinseca non può, per chi la compie e per chi la subisce, o l’abbia almeno subita, cadere alcun dubbio. Ma sulla superbia di Ulisse occorre invece fermarsi a considerare il duplice significato che può, in effetti, esservi colto. In un modo, infatti, essa appare nella prospettiva che, punendola, Dio conferì a essa. In un altro appare a chi, facendosi soggetto e autore di imprese spinte al di là del limite, ignorò tuttavia che, per questa
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via, infrangeva un divieto; e che dietro a quello di Ercole si nascondeva il volto vero di Dio. Con una leggera prevalenza della prima, le due tesi stanno, come si vede, su un piano di sostanziale parità. L’una non riesca a prevalere con decisione sull’altra; e l’unico tratto che, nella soggettiva consapevolezza di chi sostiene la prima, oppure la seconda, appartenga a entrambe, è la nettezza con la quale si escludono (o sembra, piuttosto, che si escludano). Chi guarda al peccato di frode e lo considera come quello che condusse Ulisse nell’ottava bolgia, nega in sostanza che l’altro, quello che ha per contenuto la superbia e la dismisura, sia attualmente presente e operante nella strutturale parte dell’Inferno in cui Ulisse paga il fio delle sue colpe. Chi guarda al «folle volo» e, non solo obiettivamente, vi ravvisa il segno del peccato, tende a non dar rilievo all’altro, quello della frode: sempre che non sia più giusto dire che, al contrario, a tal punto ne dilata l’estensione da comprendervi anche il viaggio compiuto al di là delle colonne d’Ercole. Un viaggio, dunque, che fu bensì la conseguenza della ὕβρις intellettuale del suo protagonista, ma dischiusa tuttavia, e resa possibile, dalla frode intessuta ai danni dei compagni. Due tesi, dunque: segnate, l’una nei confronti dell’altra, da insanabile contrasto. Se tuttavia si guarda con maggiore attenzione, può forse arrivarsi a comprendere che, al di là della nettezza con la quale, ad opera di chi le sostiene in questa forma, si escludono, per un altro verso le due tesi tendono a convergere in un segno comune; che non è facile a scoprirsi se non ci si dispone a scendere verso la radice che condividono. In realtà, se ci si riflette, non può sfuggire che tra la frode e il superbo oltrepassamento del limite sussiste un’analogia e, a guardar bene, si rende visibile un legame, che non debbono, e l’una e l’altro, restare nell’ombra. Nel tessere la frode, e con quest’arte cercare di ottenere quel che mai altrimenti avrebbe potuto essere conseguito, l’ingegno opera con la violenza e va oltre il limite: non diversamente dalla nave che, al di là dei «riguardi» di Ercole, Ulisse dispose al «folle volo». Il che dev’essere inteso, non nel senso deteriore e in ultima analisi, banale, che, per persuadere sé stesso e i compagni all’ultima impresa, l’eroe greco ricorresse all’inganno. Ma nell’altro, del tutto obbiettivo, che, non meno della frode, anche la navigazione sulle acque di un mare ignoto, che si distende al di là, implicava l’infrazione di un ordine, lo sconvolgimento di una regola, la violenza. Implicava, infine, un comportamento che si ripercosse sull’eversore che così lo aveva messo in atto. E lo travolse.
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Per un verso, dunque, e se, scendendo alla loro radice, si guarda alle sue intenzioni, Ulisse non fu, nel suo ultimo viaggio, un peccatore. La sua impresa nacque bensì da una passione alla quale l’intelletto non fu in grado di porre un limite: non però da un’intenzione blasfema, da una violenza esercitata allo scopo di essere come il dio, e di eguagliarne il potere. Per un altro, e se è al rilievo obiettivo della cosa che, invece, si volge lo sguardo, nel compimento dell’ultimo viaggio Ulisse fu un peccatore. Senza che egli lo sapesse, in re Ercole significava Dio. Senza che egli lo volesse e se lo proponesse, dalla sua azione l’ordine delle cose fu infranto; e, se non infranto, fu turbato tuttavia in modo tale che la natura, e cioè Dio, non avrebbe potuto ristabilirlo se non attraverso la catastrofe dell’eversore. L’immobile, livida quiete in cui le acque sconvolte dal «turbo» nato «de la nuova terra» si ricomposero ha un significato evidente: contro l’ordine della natura l’eversore è impotente, e solo per il tempo necessario al compimento della sua catastrofe sembra che la sua azione possa corrispondere al suo scopo. Nella sua impresa finale, Ulisse, dunque, non fu un peccatore. In quell’impresa, fu un peccatore. E questa, beninteso, non è la conciliazione estrinseca di due tesi opposte. Non è un compromesso. È invece l’obiettivo convergere di queste due opposte determinazioni nel punto paradossale che le tiene insieme, e resiste, sottendendole, al loro puro opporsi. Né all’una tesi, infatti, né all’altra potrebbe mai rinunziarsi. Tanto più, in effetti, il loro nesso dev’essere colto e ribadito nel suo instabile e problematico equilibrio, nella prevalenza, ora di un termine, ora di un altro, quanto meno, per un altro verso, si avrebbe ragione se non si tenesse fermo al rilievo, che fu già formulato da Michele Barbi,44 sulla non consapevolezza del carattere divino dei «riguardi» di Ercole. Non si avrebbe ragione se, dalla trama obiettiva che lo tiene come prigioniero in sé, il peccato della folle audacia fosse trasferito all’esplicita consapevolezza di Ulisse, alla sua «decisione» di essere, nei fatti, in tutto e per tutto simile all’angelo caduto e al primo uomo della Bibbia. Se questo trasferimento del peccato dalla «cosa» alla coscienza fosse eseguito, la verità della tesi conoscerebbe l’onta, e qualcosa più dell’onta, del contrappasso: sarebbe, per così dire, conquistata dall’errore. In luogo di avvicinarci alla sua difficile comprensione, del personaggio perderemmo per sempre la complessità; mai arriveremmo a penetrarne il segreto. È infatti l’implausibilità di questo trasferimento che, se vòlta al positivo, costituisce il tema conduttore del ventiseiesimo canto. Dante sapeva bene che quel che era chiaro per lui e per quanti, come lui, fossero
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a conoscenza del vero Dio, di altrettanto non lo era, né poteva esserlo, agli occhi di un eroe pagano.45 Che per un cristiano Ercole fosse, o dovesse essere, considerato come uno strumento, se non come una «figura» di Dio, è comprensibile. Ma, per un pagano, Ercole non era Dio: non era uno strumento del suo volere, o una figura della sua essenza. Era un eroe che, a vantaggio dei naviganti, aveva indicato un pericolo; che soltanto dopo, quando il nembo colpì la nave e, «come altrui piacque», la sprofondò nelle acque, rivelò quel che di religiosamente tremendo racchiudeva in sé, – il suo vero significato. VI Il richiamo che si è fatto della consapevolezza, della volontà, dell’intenzione, quando, a ragione, si è distinto il comportamento di Ulisse da quelli che furono propri di Adamo e di Lucifero, vale bensì in quanto, con l’ausilio di queste distinzioni, di quelli e di questo si cerchi di comprendere il senso. Vale anche, e tanto più, quando si consideri che, facendosi rigidamente contemporaneo all’impresa, che è oggetto del suo racconto, per il dio che l’aveva volta in catastrofe Ulisse non ha un nome. Ma certo non vale a dimostrare che non fu un peccato quello che, navigando al di là delle colonne d’Ercole, egli commise. Che, nel racconto che l’eroe greco fece della sua ultima impresa, Dante evitasse di sottolinearne, con parole esplicite, l’aspetto peccaminoso, è vero; e si deve ribadirlo, indicando in questa sua scelta, così consapevolmente aliena da ogni bigotto moralismo, il segno, uno dei tanti, della sua finezza psicologica, e della grandezza della sua arte. Che, in quanto tale, questa impresa egli tenesse distinta dalla colpa che, con Diomede e con gli altri, Ulisse espiava nell’ottava bolgia, anche questo è vero. Al racconto del viaggio Dante conferì, nel contesto del ventiseiesimo canto, una sorta di autonomia, lo isolò in sé stesso, come se a quello, soltanto a quello, i suoi pensieri fossero diretti, e le altre imprese nelle quali Ulisse era stato protagonista non gli suscitassero, in quel momento, nessun autentico interesse. Alla guerra troiana, alla distruzione del «superbo Iliòn», all’inganno perpetrato ai danni di Deidamia, alla contaminazione del Palladio, – a tutto questo Dante aveva alluso all’inizio, attraverso le parole con le quali Virgilio gli aveva rivelato chi fossero i due che si trovavano a essere avvolti nella stessa fiamma: a differenza di Ulisse che, per suo conto, a quegli eventi nemmeno un accenno aveva conces-
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so nel suo racconto. Si aggiunga che, per incontrare un personaggio che nell’ottava bolgia a Dante parlasse del suo specifico peccato, sarebbe stato necessario attendere che, nel canto successivo, entrasse in scena Guido da Montefeltro. Fino a quel momento, con autentica sapienza teatrale, Dante la tenne sgombra perché con più grande nettezza la tragedia di Ulisse vi assumesse il suo rilievo. Insomma, che Ulisse fosse lì per le specifiche frodi con le quali aveva intessuta la trama della sua vita, a Dante interessava altrettanto poco delle ragioni per le quali Farinata si trovava in una delle arche infuocate ospitanti gli «epicurei». Ma questo tuttavia non toglie che, al di là dell’intenzione e della consapevolezza, quello commesso da Ulisse con il suo ultimo viaggio fosse un peccato, e possedesse il suo «in sé», un’inconcussa certezza ontologica. Che, nei confronti dell’inesorabilità di questo «in sé», e soprattutto quando si trattasse di alti e nobili spiriti vissuti innanzi, o al di fuori del cristianesimo, Dante avvertisse acuto il disagio, al quale finemente, dette talvolta espressione attraverso la malinconia di Virgilio,46 è ben noto.47 E non vale insistervi se non per confermare che la spregiudicatezza intellettuale che lo spinse a costruire il nobile castello degli spiriti magni e a salvare questi ultimi dalle fiamme o dal gelo dell’Inferno, è bensì indiscutibile.48 Ma il suo senso ultimo derivò dalla regola rispetto alla quale fece valere l’eccezione: a quel modo stesso che fu la prima a conferire risalto all’elevazione del pagano e suicida Catone49 a guardiano del Purgatorio, o alla collocazione in Paradiso, sia pure per una via particolare, dell’imperatore Traiano.50 Con queste eccezioni, e attraverso il loro stesso prodursi, la regola restava la regola. Il peccato restava il peccato:51 anche se, come nel caso del «folle volo», il suo «in sé» non fosse stato avvertito dalla coscienza del peccatore. Così, con ragioni ulteriori a quelle consapevolmente messe in campo, le due interpretazioni non riescono a mantenere il punto che dovrebbe distinguerle e opporle. Passano, o tendono a passare, l’una nell’altra. E non si contraddicono, perché quel che nel rilievo obiettivo è peccato, in quello soggettivo, e per l’eroe dunque che lo commise, non lo è. Il diverso accento posto su questi due diversi aspetti dell’episodio deriva non tanto dal contrasto di due interpretazioni nate dalla diversa disposizione dei critici, quanto piuttosto da quel che l’episodio racchiude in sé: dalla sua strana oggettività, dalla luce livida e radente che lo attraversa, dalla sua calma, astratta, indecifrabile tragicità. Quanto più, scandendo i tempi
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estremi della sua impresa, Ulisse si rappresentava nell’atto di svolgere le potenzialità del suo ingegno e, con lucida determinazione, senza un gesto tuttavia che non fosse essenziale, navigava il suo «oltre», di altrettanto la terribilità dell’avventura si rendeva manifesta attraverso la luce obliqua e sconosciuta che illuminava il suo correre verso la morte. Quanto più egli sembrava ignorare, e sul serio ignorava, l’eversiva tragicità del suo gesto, di altrettanto il paesaggio si disponeva ad accoglierne l’esito estremo. Ulisse non sapeva di Dio. Ma Dio era presente sulle acque. Era l’«altrui» a cui piacque che il volo avesse termine e la nave vi sparisse. Si è detto che nel racconto di Ulisse tutto è essenziale, niente è teatrale. È come se a sé stesso Dante avesse detto: «le parole tue sien conte». L’economia di parole, in questo episodio, è, in effetti, massima. Donde la sua scabra epicità. Nessuna esibizione di eroismo, nessun senso faustiano della sfida, nessuna esaltazione dello Streben.52 E, beninteso, niente Rinascimento, inteso secondo i modi della fabula che, per decenni e decenni, ne ha costruito il «concetto» e delineata l’immagine. Chi lo intende così, lo fraintende alla radice. E si lascia sfuggire il carattere della navigazione che si svolse al di là dei «riguardi» posti da Ercole. Una rappresentazione «faustiana» avrebbe richiesto, quanto meno, che l’attenzione fosse stata concentrata sulla personalità dello sfidante; che il soggetto si fosse ribellato alla passiva ripetitività del vivere per esaltarsi nella contrapposizione eroica di sé agli elementi, alla loro potenza, al loro interno segreto. Ma in Ulisse, che narra la sua impresa, non c’è nulla che appartenga allo spirito di Faust; e nemmeno a quello di Prometeo. Dopo l’orazione, che è «picciola», e cioè breve, scabra, diretta allo scopo, e prima dell’illusoria «allegria» insorta nell’animo suo e dei compagni («noi ci allegrammo» [v. 116]) alla vista della montagna che la distanza rendeva «bruna», i personaggi del dramma non ebbero più volto; e a dominare furono i sentimenti della perplessa meraviglia, della sospensione dell’animo che è propria di chi, mentre per un verso entra nel mistero e sta per rivelarlo a sé stesso, per un altro ne è preda, e dentro di sé avverte che, invece di svelarglisi, quello si confermerà per ciò che anche prima era stato, imperscrutabile, inesauribile, incomprensibile. L’eroismo umano era nella premessa, nella ragione che a sé stessa suggeriva il perché dell’impresa, nel desiderio invincibile di conoscere e sperimentare. Ma, nella conseguenza, la premessa era come se se non ci fosse più, e, addirittura, non ci fosse mai stata. «Volta» la «poppa nel mattino», dato ai remi l’impulso necessario al «folle volo», protagonista assoluta fu, nella sua nuova e indecifrabile oggettività, la natura. Fu
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la forza che spinse la nave verso sinistra, nella direzione di sud-ovest.53 Furono le stelle rivelate dall’emergere dell’altro polo, mentre il nostro si inabissava tanto «che non sorgea fuor del marin suolo» (v. 129). Fu la luna che, accesasi cinque volte nel cielo, e altrettante spentasi, scandì, con i suoi tempi, le fasi della fatale navigazione. Fu la montagna «bruna» che, con il «turbo» che all’improvviso ne nacque, provocò, come «altrui piacque», il tragico naufragio. Il racconto di Ulisse cominciò con alcuni versi che, innumerevoli volte lo si è notato, segnarono netta la divergenza che, le conoscesse o no, ne sapesse qualcosa oppure niente, Dante fece registrare nei confronti della tradizione omerica: […] Quando mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta prima che sì Enea la nomasse, né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore: ma misi per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.54
Le divergenze dal racconto omerico sono infatti, in questi versi, nettissime. Non però perché nell’Odissea si affermasse che, dipartitosi dalla dimora di Circe, con i suoi compagni, Ulisse, o Odìsseo che voglia dirsi, con decisione prendesse la via di Itaca e facesse finalmente ritorno a casa. Nel poema antico le cose non andarono così. E a parte la discesa al regno dei morti, la famosa Nékyia, il ritorno alla dimora di Circe e la definitiva partenza da lei, molte infatti furono le avventure e le imprese nelle quali l’eroe si involse, lungo ancora il tempo del suo vario peregrinare, anche se costante fu nel suo animo il desiderio della patria e della famiglia, fermo il proposito del ritorno. A molte cose che nell’Odissea sono contenute, Dante dunque non fece riferimento. Perché? Perché in tutto o in parte le ignorava,55 o per la diversa ragione che la tragedia che stava prendendo forma nella sua mente gl’imponeva di tralasciarle, di metterle da parte in
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modo che, subito e senza indugi, a lui fosse poi possibile di pervenire al punto che sul serio gli sembrava essenziale? Rispondere a queste domande, se il loro oggetto s’intendesse che fosse formato dalla totalità degli episodi in cui Ulisse fu protagonista, sarebbe senza dubbio difficile; e, anzi, impossibile. Ma certo è che di molte cose che, avendole trovate nelle fonti latine e, in special modo, nei libri decimoterzo e decimoquarto delle Metamorfosi di Ovidio, gli erano note, Dante preferì non fare menzione.56 A cominciare dal ritorno di Ulisse a Itaca dopo le avventure (errores) della guerra troiana, per finire con il nuovo viaggio che, nel suo racconto, lo condusse a morire lontano dall’isola natale. Del ritorno in patria e della sua nuova dipartita dai ritrovati affetti familiari, Dante aveva certamente letto nel commento, a lui ben noto, di Servio all’Eneide. Qui, nella glossa apposta a 2, 44, non aveva potuto non incontrare la notizia secondo cui, raggiunta Itaca post errores […] , Ulisse avrebbe trovato Pana […] in penatibus: un figlio illegittimo, dunque, della sua sposa che, secondo una diversa tradizione denigratrice, lo avrebbe invece avuto dal dio Mercurio qui, in hircum mutatus, si sarebbe congiunto con lei. Di qui la decisione presa da Ulisse di lasciare di nuovo la patria e di coinvolgersi in nuove avventure, lontano sia dalla moglie infedele sia dal deformis puer che ne era stato generato.57 Racconti meschini e, appunto, denigratori, nati in opposizione a quello nobile e eroico di Omero, dalla volontà di trarre in basso ciò che sta in alto e di rendere piccolo ciò che è grande; e che, certo, proprio perché ne aveva avuta notizia, non potevano trovar posto nella mente e nella fantasia di Dante, che, ad altro essendo disposta, da ben altra materia, da ben altri sentimenti, ricavava la forma della sua tragedia. E c’era poi, al di là o, piuttosto, al di qua, di queste voci meschine,58 il suo gusto e senso dell’essenziale. C’era la ragione dell’arte che, con sicurezza infallibile, gl’imponeva di cogliere il drammatico conflitto che nell’animo dell’eroe si era aperto fra il richiamo degli affetti familiari e quello dell’avventura, parimenti forte in lui, e, anzi, più forte. Che, con accenti potenti, il richiamo degli affetti domestici, il figlio Telemaco, il padre Laerte, la moglie Penelope,59 risuonasse nel suo animo, Dante lo sapeva bene; e non si capisce perché, a cominciare da Francesco Petrarca,60 si sia tante volte dubitato che alla forza di quei sentimenti egli non credesse, e non la sperimentasse in sé stesso, se fu proprio lui che, costretto a vivere lontano dalla patria, con questi elementi costruì il dramma di Ulisse. In realtà, alla forte presenza di quei sentimenti nell’animo dell’eroe che si apprestava, tuttavia, a sacrificarli, tanto più egli dette rilievo quanto
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più netta era stata in lui l’intenzione di costruire, e rappresentare, il dramma del loro superamento, e di quel che questo era costato al personaggio che di nuovo si accingeva a prendere il mare. Al momento della partenza dalla dimora di Circe, erano infatti il figlio, il vecchio padre, Penelope, che, con i loro volti gli stavano davanti agli occhi. Se, com’è necessario, l’attenzione resta concentrata sull’avversativa («ma») che apre il v. 100, il senso di questo dramma, e della potente concisione con la quale Dante lo rappresentò, non potranno sfuggire. Dinanzi a Ulisse stavano, come si è detto, quei volti. Ma egli prese il mare aperto. La forza drammatica dell’episodio, il travaglio della decisione, la pena che ne conseguiva, tutto questo fu concentrato in un’avversativa insorta a far tacere quel che a lui parlava con voce potente, a segnare il destino dell’eroe che era in lui, e a dare a quello, al destino, il più grande rilievo. Ai vv. 94-99 la prevalenza dell’ardore conoscitivo sulla potenza dei sentimenti famigliari fu senza dubbio affermata con nettezza: questi ultimi non ebbero la forza di vincerlo. Il «ma» con cui si apre il v. 100 è tuttavia un «ma». Non un «perciò», non un «dunque» che dell’ardore conoscitivo facessero la ragion d’essere della conseguenza che ne discendeva. Fu un «ma», e vi si avverte qualcosa di più: qualcosa che, dopo avere per un istante rimesso in equilibrio gli affetti familiari e la sete di conoscenza, lo alterava di nuovo a favore del secondo termine, e si presentava nel segno misterioso e invincibile dell’ananke. Se è così, si capisce perché, quand’anche avesse letto Omero, fosse inevitabile che Dante stringesse e concentrasse al massimo i tempi del dramma. Come, dopo la caduta di Troia, fosse giunto alla dimora di Circe, e perché, dopo un anno, si decidesse ad abbandonarla, Ulisse, nel suo racconto, non disse. Lo diede per noto. Il suo interesse era per intero concentrato sulla decisione, sulla sfida temeraria, che egli era stato costretto a prendere e ad accettare; e che lo perdé. Gli fossero o no note, al di là di quel che leggeva in Ovidio e in altri, si capisce bene perché le molte avventure e peripezie che, secondo la tradizione omerica, Ulisse dovette correre prima che l’ira degli dèi suoi nemici si placasse e a lui fosse concesso di toccare le sponde di Itaca, non potessero essere accolte nell’ambito dell’ideale dramma, o, se si preferisce, della cupa tragedia, che Dante aveva in mente. Essenziale, per lui, era soltanto questo: che Ulisse avesse ripreso il mare, non per tornare in patria, ma per vedere, per sapere, per conoscere; e, soprattutto, che lo avesse ripreso perché l’esigenza, che questi tre verbi rappresentavano con tale imperiosità, non era di quelle a cui si potesse resistere. Nemmeno del viaggio che precedette l’ultimo, e che pur dovette esser
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durato a lungo se Ulisse e i compagni erano «vecchi e stanchi» quando giunsero alla «foce stretta» dove Ercole aveva segnati i «suoi riguardi»,61 – nemmeno di questo Dante disse alcunché. Il suo essere durato a lungo non si deduce se non da quella veloce notazione relativa alla vecchiezza e alla stanchezza. Insomma, che cosa, ἀνῆρ πολύτροπος, come lo aveva definito il poeta dell’Odissea,62 homo versutus et varius, come i latini erano soliti rendere l’aggettivo greco, Ulisse avesse visto e sperimentato nei suoi lunghi viaggi, Dante non disse. Disse soltanto che, svoltosi in un tempo non breve (cinque mesi), quello narrato da lui fu l’ultimo di Ulisse, il viaggio della sua estrema catastrofe. Disse questo, e anche lasciò intendere che l’accenno ai «cento milia perigli» che s’incontra ai vv. 112-13 non doveva essere interpretato nel senso che tanti egli ne avesse incontrati, con i compagni, nell’ultimo viaggio, ma nell’altro che, sommandosi a quelli corsi in precedenza, ne elevarono il numero a quella così alta cifra (che non andrà, com’è ovvio, presa alla lettera, nella sua materialità). Disse così. E in quel che disse era implicita l’idea che di quanto nel suo mondo poteva esser visto e studiato e sperimentato, tutto Ulisse avesse ormai incluso nella sua mente e nel suo animo, di tutto avesse fatto esperienza: sì che dinanzi a lui non era se non il limite al di là del quale si distendeva un mondo sconosciuto e «sanza gente»: un mondo che, a causa dell’inquietudine che comunicava, tanto più era per lui fonte di tentazione. Del sentimento, o dei sentimenti, che l’esser giunto sul limite del mai sperimentato, gli accendeva dentro, con un gesto stilistico di grande sobrietà Dante fece che Ulisse tuttavia tacesse. Lasciò che fosse il lettore a delineare dentro di sé, e ad articolare, l’immagine di questo universo sconosciuto che, nell’animo di chi si accingeva a penetrarvi dentro, accendeva un fuoco ambiguo, in cui insieme bruciavano il coraggio e la paura. Per il resto, infatti, il senso dell’episodio non poteva dar luogo a dubbi. Il mondo sconosciuto, il «mondo sanza gente», era il traguardo dal quale Ulisse era atteso. Quella era la conclusione, che implicava e importava un nuovo inizio, dell’intera sua vita di Wanderer. Esservi giunto aveva richiesto intelligenza e virtù, necessarie entrambe a conseguire la conoscenza, che è come il desiderio di sé stessa. E il punto è questo. La conoscenza è certamente, nel personaggio dantesco, il fine del desiderio che tende a realizzarla. Ma, in quanto sia realizzata, essa è di nuovo desiderio. La natura del desiderio (e lo si vedrà) è tale infatti che esso non sarebbe il desiderio se, realizzandosi nella conoscenza, questa lo estinguesse. In una dimensione del suo pensiero, Dante sapeva che, strutturalmente coinciden-
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do con la στέρησις, con la privazione, il desiderio non può essere estinto nel risultato: dal quale infatti inesorabilmente risorge. Esso è strumento della conoscenza nello stesso atto in cui la conoscenza è il suo strumento: è lo strumento del desiderio. Per questo era impensabile e impossibile che, uomo del desiderio, trovatosi dinanzi a quello che la saggezza umana considerava come, per eccellenza, il limite, Ulisse non andasse oltre. L’eroe multiforme, pieghevole, che nella μῆτις piuttosto che nell’astratto λόγος, riconosceva il suo dio, l’uomo che sfuggiva a ogni definizione che si fosse provato a darne,63 perché delle definizioni era il soggetto, non l’oggetto, e di ciò che è multiforme definizione non può darsi – quest’uomo fu in Dante quello che i suoi molteplici talenti sottomise all’unico pensiero che sul serio gli stesse in mente, lo dominasse, lo soggiogasse, inesorabilmente dirigendo e determinando la sua stessa volontà. Quell’unico pensiero si riassumeva nel desiderio che, per definizione, è desiderio dell’oltre. Senza che con ciò s’intenda in alcun modo indulgere, per questo personaggio dantesco, a rappresentazioni e definizioni di gusto «esistenziale»,64 resta che, nel ventiseiesimo canto, Ulisse è dominato da quest’unico pensiero: il pensiero dell’«oltre» che, come meglio si vedrà in seguito, lo determinava come eroe, non della libertà, non della virtù e della conoscenza considerate in astratto, ma del destino, dell’ananke. In Omero, Odìsseo è travolto nei suoi pellegrinaggi marini e nelle tante avventure dalla forza esterna del fato, dagli dèi che in lui intendevano punire il principale artefice della rovina di Troia; e perciò, implacabilmente, gli furono ostili. È vero, dunque, che alle avventure che lo coinvolsero anche dal suo daimon egli fu predisposto. Ma il desiderio di sapere, la voluntas navigandi, il gusto dello sperimentare che egli dispiegò mentre le avventure e le traversie lo afferravano minacciando di travolgerlo, – tutto questo s’inscriveva in un animo nel quale, non meno forte di quel desiderio e di quella volontà, fu la passione del νόστος, del ritorno. Donde, nella parte più profonda e segreta del suo cuore, la malinconia. In Dante, non è così. Gli affetti familiari furono rievocati, e non certo per essere definiti deboli, o inesistenti, all’interno, tuttavia, di un paragone che, mettendoli a confronto con l’ansia di riprendere il mare, li vide bensì forti e tenaci, ma soccombenti. Subito, fin dalla prima parole del suo discorso, Ulisse apparve come l’eroe di una necessità che, dall’interno del suo animo, non dall’esterno, lo consegnava al mare. Che, lasciata, per non farvi più ritorno, la terra di Circe, Ulisse potesse navigare verso Itaca, era, per come
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Dante lo sentiva, e lo aveva costruito dentro di sé, inconcepibile. Non si sa se la notizia secondo cui Ulisse sarebbe stato travolto dalla tempesta, e in questa avesse trovata la morte mentre con la sua nave solcava le acque dell’Oceano, derivasse a Dante da una fonte fin qui non trovata, o quella del naufragio fosse una sua consapevole invenzione, sollecitata dalla fama di recenti catastrofi avvenute, nella realtà, su quel mare.65 Ma è, dopo tutto, una questione di secondario interesse. L’«invenzione» di Dante riguardò, non tanto l’intreccio del dramma e il luogo in cui si sciolse, quanto piuttosto la qualità dei sentimenti che vi si coinvolsero determinandone il carattere. Ἧθος ἀνθρόπωι δαίμων, dice un frammento di Eraclìto.66 Sul rischioso fondamento di questo ἧθος Dante costruì il δαίμων di Ulisse. E il δαίμων era l’ἀνάγκη, che gli impediva il ritorno e lo spingeva nella direzione dell’«oltre». VII La direzione che Ulisse aveva impressa al suo «legno» indicava la «foce stretta/ dov’Ercule segnò li suoi riguardi». Indicava dunque quel che per eccellenza definiva il limite come un non ultra quem. Sarebbe tuttavia gravemente errato se, in luogo del documento di malvagità che pure vi è stato indicato, nell’azzardo volto a oltrepassare quel che oltrepassare non si doveva, si pretendesse di cogliere qualcosa come l’anticipazione dell’ansia romantica dell’«oltre», il gusto mistico dell’ignoto nel quale è dolce naufragare, e così via. Non che, dolcezza del naufragio a parte, questi sentimenti fossero assenti nel suo animo. Materialiter spectati, al suo animo non erano estranei. Era al di là del limite che, dopo tutto, Ulisse spingeva sé stesso e i compagni. Ma il punto era che, nel viverli, e nel vivere il mondo come una regione da esplorare per poterla conoscere in ogni sua parte, di tutto questo il personaggio dantesco non faceva un’ideologia: tanto meno una teoria. Quei sentimenti egli non avrebbe potuto non provarli, non avrebbe potuto non avvertirli come qualcosa di inevitabile. La virtù e la conoscenza, l’appello rivolto all’uomo perché non vivesse come un bruto, non erano i momenti di una teoria, e nemmeno di un’ideologia della quale ci fosse ragione di compiacersi. Erano parole di un discorso, non falso, non ingannevole, ma volto tuttavia a uno scopo. Era perciò sull’impossibilità che egli fosse diverso da come era che l’accento deve battere perché il personaggio dischiuda il senso del suo δαίμων. Ulisse non fu in
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Dante, lo si deve ribadire, l’eroe della volontà di conoscere, astrattamente concepita. Con il personaggio delineato da Cicerone, da Orazio, da Seneca, che pure in qualche modo entrò nel processo della sua costruzione conferendogli il tratto della dignità e della nobiltà, quello dantesco non ebbe, nel profondo, nessun reale punto di contatto. Non fu nemmeno, già lo si è accennato, uno che ritrovasse il suo senso, e scoprisse la sua essenza, nella sfida lanciata contro la natura, contro Dio, contro gli altri uomini. Non ebbe niente in comune con Prometeo; e nemmeno, lo si è già detto, fu uno che, come Capaneo, e di lui più nobilmente, cercasse la competizione con il dio, o, come nell’immagine albertiana, con la forza del braccio pretendesse di vincere la potenza delle onde.67 Meno che mai fu l’uomo che, nello sperimentare e nel soffrirne le conseguenze, trovava tuttavia la sua Erlösung, che nell’ansia che gli divora l’anima avvertisse tuttavia l’opposto sentimento della gioia che nasce dall’azione. Non fu nemmeno, nel senso, per esempio, in cui la definizione ritrae il carattere, o uno dei caratteri, di Farinata, un magnanimo.68 Non beninteso che quel carattere non gli appartenesse e che, intendendo tuttavia il termine in senso non tecnicamente artistotelico, a questo suo «modo» non debba guardarsi come a un tratto, se non essenziale, importante, tuttavia, della sua anima. Se «magnanimitade» era, per Dante, lo «sprone» che si chiama anche «fortezza», ed era una «virtude» che «mostra lo loco dove è da fermarsi e da pugnare»,69 come, se non con questo termine, avrebbe potuto essere definito l’eroe che, di fronte al mondo sconosciuto che gli si dischiudeva davanti, esortava sé stesso e i compagni a non indietreggiare e, invece, a inoltrarvisi? Eppure, presa così, e al di fuori perciò del suo contesto, tanto meno questa definizione si rivela adeguata al carattere dell’eroe greco quanto più, dopo averla isolata, si torni invece a osservarla nelle sue necessarie connessioni testuali; e si consideri quel che nel suo insieme il passo del Convivio suggerisce. Il «loco dove è da fermarsi e da pugnare» è anche, infatti, quello oltre il quale deve sapersi non andare. È quello in cui si rende palese che la μεγαλοψυχία è la stessa cosa della μεσότης, e che grandezza d’animo perciò non si dà se non dove la moderazione abbia preso il sopravvento e la «misura» sia stata perciò rispettata. Piuttosto che di Ulisse, μεγαλοψυχία e μεσότης furono le virtù di Enea, l’eroe che «lo maggior nostro poeta», Virgilio, mostrò quanto fosse capace di usare la prima nel segno della seconda, a questo supremo ideale sacrificando ogni mondano piacere, ogni effimera dilettazione dei sensi. Enea, perciò, fu «infrenato». Il che, senza che per questo si debba trascorre a definirlo «empio», certamente non potrebbe essere detto di Ulisse:
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E così infrenato mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse Enea nella parte dello Eneida ove questa etade si figura: la qual parte comprende lo quarto, lo quinto, lo sesto libro dello Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà, e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto dell’Eneida scritto è.70
Magnanimo, dunque, fu Enea, non Ulisse. Fu Enea che, quando Didone gli si rivolse per deprecare la decisione che aveva presa di abbandonarla, rispose: «Italiam non sponte sequor»,71 e dette così la misura della sua difficile saggezza, della sua suprema capacità di obbedire ai comandi del fato, e di non perdersi dietro a un diverso destino. Che è poi quel che dal passo del Convivio si ricava se lo si metta a stretto raffronto con le analisi svolte da Aristotele nei libri B e Δ dell’Etica nicomachea, e, leggendolo alla luce di queste, meglio lo si osservi nel suo specifico profilo concettuale. In realtà, se della «magnanimitade» di Ulisse il fondamento fosse ricercato nel testo antico, ben presto ci si avvedrebbe che al soggetto dantesco il predicato aristotelico della μεγαλοψυχία non converrebbe se non in senso generico (che qui vuol dire estrinseco e povero di rigore): e questo anche a prescindere, per il momento, dall’eccessività, e perciò dall’assenza di μεσότης, dalla quale, secondo alcuni interpreti, la «grandezza d’animo» dell’eroe greco sarebbe caratterizzata nel ventiseiesimo dell’Inferno. Se δοκεῖ δὴ μεγαλόψυχος εἷναι ὁ μεγάλων αὑτὸν ἀξιῶν ἄξιος ὤν,72 se insomma questa caratteristica dell’anima è propria di colui che si giudica degno di grandi cose, e di queste è sul serio degno, mentre chi, per contro, non lo sia e non di meno si ritenga tale, è per un verso superbo e per un altro stolto, nessuna di queste definizioni ebbe il suo riscontro in quel che Dante scrisse nel quarto trattato del Convivio e, meno che mai, nella delineazione da lui offerta del carattere di Ulisse. La formula, innanzi tutto, secondo cui la «grandezza d’animo» è intermedia fra la presunzione del superbo e la viltà del pusillanime, e per questo è una virtù, non rendeva, in quanto tale, giustizia all’eroe greco; che se sul serio avesse realizzata in sé la virtù che ha nome «moderazione» , o, se si preferisce, μεσότης, perché mai allora avrebbe ceduto alla folle passione dell’«oltre»? Perché si sarebbe spinto al di là del limite, dimostrando per questa parte di essere piuttosto la vittima della ὕβρις che non il devoto della μεσότης? Forse che non apparteneva a lui, o al destino che agiva in lui e ne determinava gli atti, la decisione di non negare a sé stesso l’esperienza «di retro al sol», del «monda sanza gente»? Forse che a meritare l’imputazione di ὕβρις avreb-
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be dovuto essere il dio che, contro la nave dell’eroe, scatenò l’irresistibile potenza della natura? Poiché questo sarebbe stato, per Dante, impensabile e assurdo, e a Ulisse, non al dio, per certo apparteneva la responsabilità di quel che accadde nel mare sconosciuto che, al di là dei «riguardi» di Ercole, aveva preso a navigare, si dovrà dunque definirlo come un «superbo»: ossia come uno che, incapace di vera μεγαλοψυχία, e perciò di μεσότης fra gli estremi, a uno di questi ispirò il suo agire; e, appunto, fu superbo, non magnanimo? Che così debba dirsi, non è discutibile. Non è infatti previsto dal testo di Aristotele quel che da alcuni fu supposto: e cioè che, pur rimanendo tale, la magnanimità possa essere contrassegnata da eccessività.73 Per dirla in modo rapido. Se lo si predicasse di eccessività, il soggetto μεγαλοψυχία non potrebbe più in alcun modo corrispondere a sé stesso e alla sua propria definizione. Μεγαλοψυχία significa la stessa cosa di μεσότης: come si potrebbe predicarla di «eccessività»? Predicarla di eccessività sarebbe come se la μεσότης�������������������������������� ��������������������������������������� fosse predicata del suo contrario: come se la misura fosse predicata della «dismisura». Poiché in questa figura concettuale l’intermedio non può essere predicato, e a ragione, di uno degli estremi fra i quali colloca sé stesso, ne segue che, in termini aristotelici, Ulisse può bensì essere magnanimo, può bensì essere l’uno o l’altro dei due estremi fra i quali la magnanimità si colloca, ma, proprio per questo, non può essere insieme magnanimo e eccessivo. In termini aristotelici, non in termini danteschi. Nel ventiseiesimo dell’Inferno, tutto si può dire di Ulisse; ma non che sia un «moderato». Nemmeno del resto se delle teorizzazioni aristoteliche ci disponessimo a far risuonare altre corde, – nemmeno in questo caso al personaggio dantesco riusciremmo ad avvicinarci sul serio. La μεγαλοψυχία è, per citare le testuali parole che, avendo sott’occhio Aristotele e il commento tomistico, Dante usò, nel Convivio, per definirla, «moderatrice e acquistatrice de’ grandi onori e fama».74 E in Eth. nic. B 1107 b 23-25, περὶ δὲ τιμὴν καὶ ἀτιμίαν μεσότης μὲν μεγαλοψυχία, ὑπερβολή δὲ χαυνότης τις λεγομένη, ἔλλειψις δὲ μικροψυχία. Se questo, in contrapposizione alla μικροψυχία, è la grandezza d’animo, e per Aristotele, beninteso, lo è, la conseguenza che deve trarsene è che da nessuna di queste parole il carattere di Ulisse, quale Dante lo definì, sarebbe adeguatamente ritratto. Dominato dal pensiero dell’esperienza, «di retro al sol», del mondo «sanza gente», il problema che egli si poneva, e al quale non poteva rinunziare, riguardava l’esperienza di quel mondo; e poiché questa soltanto
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riguardava, non aveva a che fare con la fama, con la gloria, con il buon nome che dall’impresa comunque gli sarebbero derivate. La stessa «virtù», e la stessa conoscenza che agli stanchi compagni egli evocava per indurli a quel viaggio supremo, non costituivano il fine di questo. Erano soltanto lo strumento che, facendo dei remi «ali al folle volo»,75 avrebbero potuto consentire la navigazione di quel mare, fino a quel momento intentato. Erano lo strumento che avrebbe potuto consentire che, forse, l’ignoto divenisse noto, e l’esperienza del mondo avesse toccato il limite estremo della sua possibilità, che il mondo non avesse più segreti, e che il desiderio non fosse più senza posa costretto a rinascere da sé stesso. Se è così, deve dirsi che l’«orazion picciola» è, non un veicolo di inganno, ma un documento di onestà; uno strumento di persuasione che, prima ancora che ai compagni, Ulisse rivolse a sé stesso. Tanto meno, in effetti, il breve discorso patisce il sospetto della frode e dell’inganno quanto più l’intento vi fu dichiarato nel modo più aperto e esplicito. A quale impresa Ulisse spingesse sé stesso e i compagni, fu da lui detto con la massima chiarezza. Ora che «per cento milia/ perigli» (v. 112) erano giunti «a l’occidente», l’esortazione fu rivolta a persuaderli della necessità che spendessero in un’impresa senza precedenti il poco di vita che a ciascuno era rimasto, la «tanto picciola vigilia» dei sensi che era «del rimanente». Che l’impresa fosse straordinaria e mai tentata prima, Ulisse lo sapeva e come tale, senza infingimenti, la presentò ai compagni. Superate le colonne d’Ercole, dinanzi a loro stava la distesa ignota dell’Oceano, un mondo misterioso e inquietante, deserto di uomini, un «mondo sanza gente». Ebbene, dov’era l’inganno? Forse nell’indicazione delle qualità, virtù e conoscenza, richieste dalla sua conquista? In realtà, a dominare nell’«orazion picciola» non fu l’inganno, non fu la frode. Nelle passate imprese di Ulisse, frode e inganno furono rivolti a forme diverse di utilità. Qui unico scopo della virtù e della conoscenza erano esse stesse, la conoscenza e la virtù. A dominare nell’orazione fu perciò il senso necessario e inevitabile della fine, dell’«occidente»; che, per un verso, era il luogo geografico in cui la luce aveva termine e oltre il quale non c’era, appunto, se non questo ignoto «oltre», ma per un altro era l’«occidente» della vita, la «tanto picciola vigilia/ d’i nostri sensi ch’è del rimanente», il momento in cui l’esistenza di ciascuno sta per finire, e finirebbe comunque, sì che tentare l’ultima impresa non è assunto, rispetto alla premessa, incoerente. All’ananke che agiva all’interno dell’indominabile desiderio, e lo determinava in questo carattere, si aggiungeva quella della fine, comunque inevitabile. E anche
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per questa via, segnata dall’«orazion picciola», si conferma che, in questo ventiseiesimo canto, Ulisse è l’eroe, non della μεγαλοψυχία, ma della necessità, dell’ἀνάγκη. Della sua finale e tragica avventura egli offrì un racconto che, nella sua tesa solennità, ha tuttavia il tono e il ritmo di una scarna cronaca; nella quale, senza alcun commento e senza, soprattutto, che egli ne traesse una morale disposta al giudizio, gli eventi furono connessi l’uno all’altro nel segno della più inesorabile consequenzialità. Eventi straordinari e misteriosi, determinatisi, al di là di ogni possibile, autentica spiegazione, nella regione stessa dell’ignoto, e conclusi dall’apparizione, essa stessa misteriosa, dell’alta montagna, dal livido e fulmineo naufragio, e, sullo sfondo, nominato tuttavia per il solo tramite della sua impenetrabile alterità, da Dio. Il racconto che Ulisse fece della sua ultima avventura era, come conviene non dimenticare, la risposta che, con quello, egli dette alla domanda che Virgilio gli aveva rivolta riguardo al luogo («dove»), «perduto», fosse andato a morire. Solo perché ne era stato richiesto, egli vi si dispose. Ma la risposta non poté soddisfare, se non in parte, la domanda. Quel «dove» poteva infatti essere rivelato soltanto attraverso la descrizione di un evento che non aveva spiegazione se non nell’impenetrabile «altrui» a cui era piaciuto di porre fine all’impresa, e che da ultimo si era determinato su un mare sempre uguale a sé stesso, e che di sé stesso non forniva la ragione. L’unica cosa certa era che la necessità che aveva determinato il viaggio atlantico di Ulisse era attesa da un’altra necessità, quella della catastrofe. La scabra oggettività che costituisce il carattere del racconto di Ulisse è, in effetti, come il puntuale riscontro dell’ananke dalla quale la sua vicenda è da un capo all’altro, dominata. Dell’ananke: alla quale non giova aggiungere predicati che, per esempio, la qualifichino nel senso della virtù o di altro, perché virtù e altro non sono che i suoi strumenti, ed essa non si predica, in realtà, se non di sé stessa. A far insorgere nell’animo dell’eroe greco il desiderio irresistibile del viaggio, e dell’«oltre» che ne costituiva l’irraggiungibile meta, era stata bensì, senza dubbio, la virtù che, nella natura sua era insita come in quella di ogni uomo, e che nella sua di tanto, tuttavia, era più profonda e dal profondo lo possedeva. Ma la virtù, la nobiltà, i valori superiori del conoscere, del sapere, dell’assiologico distacco dai beni effimeri del mondo che è proprio dei «bruti», non erano in realtà, e proprio perché così profondamente intrinseci all’animo di Ulisse, altra cosa dalla necessità e dal fato. Erano momenti interni al realizzarsi di quella e di questo, che avevano, a loro volta, la loro radice, nell’animo, sede del
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desiderio. Per questo, con straordinaria intuizione, Dante fece che, dopo averle evocate, Ulisse non nominasse più la virtù, la sete del sapere, l’ansia della conoscenza, ma registrasse quel che stava accadendo, senza una parola che suonasse giustificazione, o anche soltanto commento.76 Con pochi tratti, come a nessun altro era mai accaduto, attraverso il nudo racconto dell’eroe, a Dante, se così potesse dirsi, riuscì di affisare cose che, essendo note (il mare, una montagna), non avevano tuttavia un riconoscibile volto, e allo sguardo non offrivano infatti che il tetro spettacolo di un mondo inesplorato e inesplicabile, vigilato dall’occhio di un dio lontano, sconosciuto e implacabile, estraneo al navigante quanto agli uomini del nostro «polo» era il «mondo sanza gente» che si distende «di retro al sol».77 VIII Sul tema del desiderio, e sul modo in cui si configurò nel pensiero di Dante, si tornerà fra breve. Non prima, per altro, di aver dedicato qualche attenzione al possibile contesto culturale del canto di Ulisse. Della fabula dantesca si sono trovati riscontri e analogie in alcuni romanzi medievali78 e, in particolare, nell’Alexandreis di Gautier de Châtillon,79 nonché, naturalmente, nella fonte principale di questo poema latino, – nelle Historiae Alexandri Magni di Curzio Rufo. Non c’è prova che Dante conoscesse Gautier; né che le Historiae di Curzio Rufo gli fossero note. Ma i riscontri e le analogie con quel che si legge in questi due testi sono, per quanto concerne l’episodio di Ulisse, sul serio notevoli: anche se, riconosciuto il merito di chi li propose, qualcosa resti da dire. Il confronto sarebbe stato infatti condotto con più convincente rigore se, accanto alle occorrenze e convergenze tipologiche di frasi e parole, si fosse guardato all’interno di queste, e al senso che assumono nei rispettivi contesti si fosse, perciò, dato rilievo. Quale fosse, per Dante, il carattere di Ulisse, è stato detto. Del racconto che egli fece della sua ultima, fatale impresa si sono sottolineate l’essenzialità epica, l’oggettività, l’assoluta assenza di enfasi ideologica. Niente c’è nel suo discorso che implichi un qualsiasi riferimento a valori del cui possesso egli si compiaccia: la virtù e il desiderio di conoscere appartengono a ogni uomo, che non sia un bruto. In Curzio Rufo e, quindi, in Gautier de Châtillon, le cose vanno in modo molto diverso. Nel primo, il viaggio di Alessandro verso l’Oceano, la sua pervicax cupido di vederlo e, quindi, di raggiungere terminos mundi,80 è causa che egli si metta a un’im-
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presa assunta con dilettantesca incoscienza. Avendo affidato flumini ignoto caput suum totque fortissimorum virorum salutem, drammatiche, oltre che lungamente descritte, furono le conseguenze che ne derivarono. Converrà leggere con qualche ampiezza: Navigabant ergo omnium, per quae ferebantur, ignari: quantum inde abesset mare, quae gentes colerent, quam placidum amnis os, quam patiens longarum navium esset, anceps et caeca aestimatio augurabantur. Unum erat temeritatis solacium perpetua felicitas. Iam quadriginta stadia processerant, cum gubernatores agnoscere ipsos auram maris et haud procul videri sibi Oceanum abesse indicant regi. Laetus ille hortari nauticos coepit: incumberent remis: adesse finem laboris omnibus votis expetitum. Iam nihil gloriae deesse; nihil obstare virtuti, sine ullo Martis discrimine, sine sanguine orbem terrae ab illis capi. Ne naturam quidem longius posse procedere, brevi incognita, nisi immortalibus, esse visuros.81
Le convergenza di alcune espressioni, le parole rivolte ai nautici perché si piegassero sui remi, l’insistenza sulla virtù, la promessa che presto si sarebbero viste cose non conosciute se non dagli dèi, è questa che fa innanzi tutto risaltare la differenza. Nella rappresentazione di Curzio Rufo Alessandro è un personaggio laetus, che tanto più esorta e si esalta quanto più l’animo è e si fa euforico. Ulisse è, in Dante, una vittima tragica del suo destino; e se parla di virtù e di conoscenza, non è per dire un banale nihil obstare virtuti. Alessandro appare posseduto da un sogno di gloria e di mondana grandezza, di affermazione di sé e di conquista di ogni cosa esistente al di qua o al di là dei «termini»; un sogno che non solo lo rende estroverso e inconsapevole di rischi e pericoli, ma propenso a sottovalutarli agli occhi dei compagni, che avrebbero perciò, essi sì, dovuto dirsi ingannati da lui, se non fosse più giusto osservare che il primo, in questo quadro, a subire l’inganno fu quello, che in qualche modo, l’aveva posto in atto. Ulisse è, in Dante, tutt’altra cosa; e niente c’è in lui che rievochi una trascorsa e persistente euforia. I «perigli» che stavano alle sue spalle, e a quelle dei compagni che, insieme a lui, li avevano superati erano «perigli», i «cento milia perigli», affrontati e superati con rischio e sofferenza, in una serie di vicende più drammatiche, e talvolta tragiche, che non eroiche. Quelli che li attendevano al di là delle colonne d’Ercole a tal punto lo erano che, dinanzi alla decisione incombente, egli non perse tempo a ricordarne la natura. In coerenza con questo atteggiamento, che, nel segno della serietà e della consapevolezza, partecipava della tragedia che era come costretto a mettere in atto, Ulisse non definì l’impresa nella quale aveva deciso di
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impegnarsi richiamando i nomi fascinosi della fama e della gloria che a lui e ai compagni avrebbero potuto derivarne. Di gloria e di fama, semplicemente, non parlò. La «virtute e canoscenza» appartenevano all’umana «semenza»: in questo senso erano un destino. La differenza di Alessandro da Ulisse si accentua nei versi latini di Gautier de Châtillon.82 Alessandro vi è rappresentato come l’eroe che dispregia coloro che definisce degeneres, o anche ignobile pecus, perché al rischio che la ricerca della gloria reca con sè antepongono la mediocre tranquillità del vivere. Con l’accenno ai «bruti» ai quali, per parte sua, Ulisse contrappose, nell’«orazion picciola», gli uomini fatti «per seguir virtute e canoscenza», Dante riprese bensì questo topos dalla tradizione antica e medievale, ma trattando tuttavia quelle due, più alte, qualità dell’anima alla stregua di semplici oggetti, di puri dati di fatto. Oggetti e dati di fatto che stanno lì, sono inscritti nella natura dell’uomo; che non potrebbe essere costituita altrimenti, e perché dunque dovrebbero trarsene particolari ragioni di vanto? Essere uomini non costituisce una siffatta ragione, né al vanto fornisce materia o pretesto. Esserlo è, come si è detto, un destino, un’ἀνάγκη: nel cui concetto, con eccezionale potenza Dante concentrò tutto ciò che in Gautier era stato inteso come merito, come eccellenza, come l’elogio che, per conseguenza, distinguendosi dalla restante umanità, Alessandro di continuo faceva di sé stesso. Insomma, in Gautier Alessandro è in atto la lode di sé stesso. In Dante, Ulisse è uno che constata e descrive quel che gli accadde; uno che non si condanna, non si pente, ma nemmeno si rivolge encomi, – tutte cose, condanne, pentimenti, elogi, che esulano infatti dalla scabra materia del suo discorso. Si veda ora Gautier. Alessandro ha conquistato l’Oriente, ma non se ne contenta, sì che «Eoas/ vestigat latebras, et nunc vesanus in ipsum/ fulminat Oceanum, cuius si fata secundis/ vela regant ventis, caput indagare remotum/ a mundo Nili, et paradisum cingere facta/ obsidione, parat, et ni tibi caveris, istud/ non sinet intactum chaos, antipodumque recessus,/ alteriusque volet naturae cernere solem».83 Di qui, sempre in Gautier, la protesta della Natura che, minacciata nei suoi confini, corre ai ripari, scende nell’Averno per chiedere aiuto a Leviathan, il quale, preoccupato, convoca le divinità infernali perché mettano fine alle imprese temerarie e scellerate del re macedone, uccidendolo. E di qui, poiché il racconto ha ormai assunto un andamento nettamente moralistico, il commento dolente del poeta che, presa lui la parola, rivolto ad Alessandro, gli chiede: «quo tendit tua, Magne, fames? quis finis habendi?/ quaerendi quis finis erit? quae meta laborum?/ Nil agis,
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o demens! licet omnia clauseris uno/ regna sub imperio, totumque subegeris orbem,/ semper egenus eris».84 Così, l’elogio che di continuo Alessandro aveva rivolto a sé stesso si capovolgeva nel rimprovero dolente di cui il poeta lo faceva oggetto. E qui stava, rispetto a Dante, l’altra, essenziale, differenza. Nel ventiseiesimo dell’Inferno, non furono le parole a condannare Ulisse; né la natura fu invocata perché, strumento di Dio, intervenisse a interrompere il «folle volo». Nell’arcana, misteriosa scena della tragedia in cui Ulisse, i compagni, la nave furono travolti, ogni commento che, come in altri casi pur avviene (si pensi a Francesca, a Filippo Argenti, a Capaneo, a Branca Doria), il poeta avesse riservato a sé stesso, e al suo spazio ideale, avrebbe avuto il tono stridulo della banalità. Sia pure, lo si è già osservato e ammesso, che nel gorgo in cui l’impresa di Ulisse si concluse debba vedersi il segno del diverso e opposto volere di Dio. Resta che alla potenza misteriosa dell’«altrui» fu Ulisse ad accennare: non Dante. Di quello la ragione dell’arte, e la logica con cui aveva costruito il personaggio, non gli permettevano di far menzione. Si deve ribadirlo. Colpevole, a occhi cristiani, di un peccato di orgoglio, di superbia, o come altrimenti piaccia definirlo, Ulisse non lo fu, per quanto almeno riguarda il suo ultimo viaggio, ai suoi propri.85 Non lo fu nella consapevolezza con la quale, per dir così, ne accompagnò il racconto. Con la scabra eloquenza che lo caratterizza, sembra in effetti che lo scopo del suo discorso fosse di persuadere chi lo ascoltava che fu il destino, al quale la sua stessa volontà era sottoposta, o che si esprimeva attraverso questa, a spingere la nave al di là delle colonne d’Ercole, a far sì che i remi fossero ali al folle volo. Fu insomma l’ananke che, dal di dentro, dirigeva la sua volontà, a porlo in obiettivo contrasto con il decreto del dio. Per questo, anche dopo che in qualche modo il suo volto gli si fu rivelato nella tragedia del naufragio, nei confronti di quel dio pur sempre ignoto, nell’accennarvi, Ulisse mantenne un atteggiamento distante e, senza arroganza, di estraneità. Riconobbe la sua invincibilità mediante il semplice racconto della catastrofe che mise fine alla sua vita. Ma senza una parola che avesse accennato alla sua malinconia, al rimpianto di non aver potuto accedere al regno della verità. Ulisse fu rappresentato come il personaggio di un mondo alto e lontano, nel quale soltanto a Virgilio, e a Dante, come poeta cristiano, no, era consentito di entrare.86 Anche per questa via, nella quale l’ammirazione si intrecciava con il rispetto, Dante ha rappresentato, se così potesse dirsi, l’innocenza della sua colpa.87
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IX Per discordi che, nell’interpretazione del personaggio, siano e siano stati, su un punto gli studiosi si sono, nella sostanza, dimostrati consenzienti. La prima delle qualità da cui l’animo di Ulisse è costituito e definito fu il desiderio di sapere che, forte in ogni uomo, in lui fu fortissimo. Nemmeno chi, fedele al demone del paradosso o, piuttosto, della provocazione, lo ha dipinto come un peccatore integrale e perciò, sotto ogni riguardo, come cattivo e malvagio, ha potuto disconoscere questa sua essenziale qualità: così che al coro dei consenzienti, per quanto stridula e stonata, la sua voce non potrebbe essere sottratta. Ebbene, c’è bisogno di ricordare che, fra quelle che costituiscono il tessuto concettuale del Convivio, del terzo e, soprattutto, del quarto trattato, la questione del desiderio è delle più presenti, delle più sottilmente trattate e disputate? C’è bisogno di aggiungere che, a osservarla con qualche attenzione e spregiudicatezza, tale questione appare altresì fra le più problematiche e irrisolte? Che, innanzi tutto, del desiderio Dante avvertisse l’interna tensione, la dialetticità, se così vuole dirsi, per la quale è impossibile che, dal risultato al quale tende e nel quale aspira a estinguersi, esso non sia costretto a risorgere, ancora e sempre avendo dinanzi a sé qualcosa da cui ancora, sempre e comunque, la sua sete sia attualizzata, è cosa che non potrebbe riuscire più chiara a chi lo legga: nel Convivio, e anche, naturalmente, nella Commedia. Come nel personaggio a cui aveva dato vita, l’inesauribilità del desiderio, il suo nutrirsi di sé e rinascere da sé, – tutto questo era presente e agiva nell’animo stesso di Dante, nel suo gusto e, quasi si direbbe, nell’ansia sua di sperimentatore inesauribile; che non solo il linguaggio riguardava e assumeva a sua propria materia, ma la stessa filosofia, nello studiare e nell’apprendere la quale sempre egli evitò di mettersi al servizio di una sola scuola:88 non per eclettismo, ma in ragione della libertà intellettuale che lo induceva a scendere verso il nucleo essenziale delle questioni, a studiarle nei loro aspetti diversi, nelle soluzioni a cui erano aperte: della libertà che dette prova di sé nell’elogio di Sigieri che, nel decimo del Paradiso, Dante fece pronunziare a Tommaso d’Aquino.89 Non è per altro al profilo psicologico o biografico90 che, con l’acuta questione che recava con sé, il desiderio può restare limitato. Occorre infatti considerarne il concetto nei contesti in cui trovò posto; e, intanto, all’analisi premettere questa semplice osservazione. Nello studiare la questione che la sua inquieta natura gli suscitava dentro, Dante si trovò a essere preda di
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due tendenze che, con la loro diversità e opposizione, erano entrambe nel suo spirito, e vi operavano. Per un verso, il desiderio era per lui che, sia pure indirettamente, attraverso Aristotele91 risaliva alla fonte platonica,92 connesso alla στέρησις, all’attuale mancanza della cosa desiderata; che la mente osservava in questo suo carattere (l’assenza, appunto, la mancanza) nell’atto in cui, dall’interno dell’animo, si liberava l’energia (il desiderio) orientata a conquistarla e a risolverla in fermo possesso. Per un altro, il desiderio era connesso con la perfezione che della sua idea, aristotelica anch’essa nella sua ispirazione fondamentale, era corollario inevitabile. La natura è perfezione; alla quale ogni cosa tende. E anche il desiderio, che anch’esso, infatti, non può essere frustra, non può essere invano, lo è. Anche il desiderio è perfezione, o, se si preferisce, ha la sua perfezione. Lo è perché, altrimenti, alla sua incompiutezza corrisponderebbe l’incompiutezza, ossia l’imperfezione, della natura; e questo è impossibile. La natura infatti è perfezione, e cose imperfette non possono esserne contenute. Ne risultava la duplicità irresolubile della sua costituzione. La natura culmina in Dio, che è oggetto supremo di conoscenza, oggetto supremo di desiderio. Di qui, come scrisse l’autore dell’Epistola a Cangrande,la conseguenza secondo cui, invento principio seu primo, videlicet Deo, nichil est quod ulterius queratur.93 In Dio infatti, come nella sua mèta conseguita, il desiderio estingue la sua privazione, e dunque sé stesso. Il desiderio è perfezione nell’atto in cui, paradossalmente, conseguitala in Dio, non corrisponde più al suo concetto: e non è steresis, non è mancanza e privazione, non è più desiderio. Ma, per sé stesso, il desiderio è anche steresis, mancanza, privazione. L’inquietudine del desiderio si dice perciò in due modi, diversi e concomitanti. Il desiderio è inquietudine perché è steresis. Ma anche lo è in quanto, alla steresis aggiungendosi la impossibilità che esso sia frustra, e non sia perciò perfezione, steresis e perfezione ineriscono entrambe, e nello stesso tempo, al suo concetto, rendendolo in sé stesso conflittuale e conferendo alla sua tonalità la nota dell’incertezza. Ma deve andarsi oltre. È evidente infatti che, se si parla di desiderio e, per la definizione del suo concetto, si tiene altrettanto fermo alla privazione, che gli è infatti strutturalmente intrinseca, ne consegue che la conquista di quel che qui e ora gli faccia difetto implica che, in quanto desiderio, quello non ci sia più; e dunque che il suo esserci richieda l’esserci e il persistere di quel particolare μὴ ὄν in cui, per così dire, la privazione consiste. Se, tuttavia non si rinunzia all’idea, irrinunziabile in questa prospettiva, secondo la quale il desiderio non può, per un altro verso, non coincidere con l’atto mediante
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il quale la natura, che è perfezione, consegue sé stessa, ecco allora che per la sua «realtà» non si dà uno spazio in cui esso possa costituirsi con il suo carattere: ossia con la «privazione», con il μὴ ὄν, che del suo essere e poter essere sono elemento essenziale e costitutivo. Sta qui, per altro, la difficoltà, della quale non potrebbe non riconoscersi che anche il pensiero di Dante partecipasse. Se infatti alla privazione, e al μὴ ὄν, si conferisse tanta consistenza ontologica quanta bastasse a garantirne appunto la realtà, di questa non potrebbe dirsi che fosse difettiva. La difettività essendo realtà, a questa non potrebbe infatti in alcun caso essere assegnato il carattere di quella. Strutturata in sé stessa come tale che, la difettività essendo il suo tratto distintivo, il suo essere non potesse tuttavia essere in sé stesso difettivo, nel suo concetto si rivelerebbe un’articolazione caratterizzata da forte problematicità. Per un verso, la difettività si definirebbe come aspirazione al raggiungimento di quel che non possiede. Ma, per un altro, la si assumerebbe come così perfetta che anche quell’aspirazione rientrerebbe nel suo confine; che non potrebbe perciò, in quanto tale, essere oltrepassato. Fra il concetto del desiderio come un’aspirazione all’oltre che non può tuttavia uscire da sé stessa e dalla propria specifica perfezione, e il concetto secondo cui la sua perfezione si ottiene mediante il suo uscire dal suo confine e dal soddisfacimento di sé, – fra questi due concetti si instaurerebbe quindi una relazione problematica, resa manifesta dal diverso modo in cui la perfezione si atteggia e dall’impossibilità che il primo modo possa essere messo d’accordo con il secondo. In entrambi i casi, tuttavia, se ci si fa attenzione, a emergere sarebbe la estrema problematicità del concetto del desiderio, l’impossibilità che, in entrambi, esso rivelerebbe di coincidere con la definizione che si pretende di darne. In forza del primo modo, innanzi tutto. Essendo imperfetto in quanto manchevole del suo oggetto, esso è tuttavia perfetto nella sua «reale» e essente privazione: donde l’impossibilità che esso uscisse da sé e si risolvesse nella perfezione costituita dal suo proprio soddisfacimento. In forza di questo modo sarebbe impossibile, in altri termini, che στέρησις e μὴ ὀν non rivelassero di essere, in realtà, il contrario di quel che le rispettive parole intenderebbero significare. Sarebbe impossibile, per dirla in breve, che il desiderio fosse il desiderio, – fosse «mancanza» e tendenza perciò al suo superamento. In forza del secondo, per la stessa ragione. Se mai fosse possibile che, uscendo dalla sua perfezione, il desiderio si realizzasse in quella conseguita dal suo soddisfacimento, dovrebbe dirsi, o dirsi di nuovo, che la sua perfezione starebbe nel suo non esserci più. Ancora. In forza del
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primo modo, essendo nello stesso tempo sia inquietudine sia l’orizzonte in cui questa è ricompresa, il desiderio si configurerebbe come una tendenza a uscire da sé che non può uscire da sé. In forza del secondo, si configurerebbe come un essere uscito da sé che si è estinto nella realizzazione. In entrambi i casi, nel concetto che se n’è costruito, il desiderio gli si rivelerebbe impari. Ne deriva che la sua realtà non potrebbe essere ammessa se non in virtù di una deroga, o di un’eccezione, che si imponesse al concetto; se cioè di desiderio dell’oltre, o, anche, di desiderio di Dio, si parlasse in virtù dell’istanza esistenziale che, comunque sia del concetto, dischiude come reale la prospettiva dell’oltre, e del desiderio di Dio fa la condizione della ricerca che, non possedendolo, si esegue di esso. Se, e fino a che punto, il quadro concettuale che si è in breve delineato, abbia il suo riscontro nel pensiero di Dante, dal quale è stato comunque ricavato, è quanto qui di seguito si vedrà. Ma fin d’ora deve dirsi che se, con gli altri caratteri che saranno via via individuati e messi in luce, questa forte problematicità vi fosse rinvenibile, dovrebbe altresì cogliervisi e indicarvisi il segno del netto contrasto che anche in lui si era stabilito fra il concetto greco della perfezione, che, in forza del suo concetto, è insuscettibile di perfezionamento, e quello cristiano, per il quale l’«oltre», e anche Dio, non sono un possesso, ma una conquista, qualcosa a cui, senza raggiungerlo, ci si può tuttavia avvicinare. È una questione alla quale presto si tornerà analizzando direttamente alcuni testi di Dante. Ma se si considera che il concetto stesso della natura è destinato, nel suo quadro, a complicarsi attraverso il rapporto che lo lega alla grazia, si comprenderà che non semplice, e non breve, è il cammino che dovremo ancora percorrere per giungere alla più profonda comprensione del personaggio di Ulisse: e che proprio per questo è tanto più importante affrontarne la fatica. L’astrattezza di questo schema e la (relativa) libertà con la quale, soprattutto nella sua seconda parte, è stato delineato, non dispiacciono a chi se n’è fatto autore meno di quanto siano per offendere la pazienza e il senso storico dei lettori che, interessati a Dante, perché (asseriscono) dovrebbero esserlo anche a una teoria del desiderio che, prospettata in questi termini, non è di casa nei suoi scritti? Ma, dispiacere a parte, è proprio sicuro che le cose stiano così? È proprio sicuro che, nelle linee essenziali, a Dante il desiderio non apparisse con il volto che qui è stato delineato? E può sul serio dirsi che il pentimento che l’autore dello schema ha dichiarato sia più giustificato di quanto lo sarebbe il fastidio di chi all’indagine dei con-
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cetti dichiarasse di preferire la «concretezza», e della prima, chi sa perché, si arrogasse il diritto di non tener conto? In realtà, niente di peggio della filosofia quando a richiederne l’intervento non sono le cose stesse. Ma niente di più equivoco e falso della «concretezza» quando questa sia invocata come uno scudo dietro il quale ci si protegga dalle difficoltà che, necessariamente, un’analisi dei concetti reca con sè. Ebbene, che qui si sia di fronte al secondo, e non al primo caso, nessuno potrebbe negare. L’analisi dei concetti è infatti imprescindibile, se si vuol capire. La nozione e il concetto dell’inquieta natura del desiderio che, fra imperfezione e perfezione, fra il suo paradossale esserci come privazione e il suo non esserci più come realizzazione e compimento, qui su furono delineati nel segno del paradosso, furono tutt’altro che estranei alla coscienza filosofica di Dante. A tal punto, in effetti, le questioni che nascevano dalla sua analisi lo colpirono, lo preoccuparono, lo coinvolsero, che a meditarle egli tornò a più riprese: nel Convivio, nella Commedia, nella stessa Monarchia, in un luogo di estrema rilevanza teorica. Vi tornò sopra, e poi ancora di nuovo, senza che per altro gli riuscisse di concluderle risolvendo fino in fondo le difficoltà che in quel concetto erano intrinseche. Da una parte, e lo si è visto, a prendere forma nei suoi scritti fu una teoria per la quale non si dava, per il desiderio, la possibilità che il suo appagamento fosse definitivo e per sempre avesse estinto la sete di nuovi traguardi; una «sete» che in tanto risorgeva, e non si poteva trattenerla e dominarla, in quanto l’essenza del desiderio era nella steresis, era nella «privazione», e chi diceva steresis, chi diceva «privazione», necessariamente faceva che l’accento cadesse su qualcosa che, col suo essere lì e non qui, tendeva la volontà nello sforzo di raggiungerlo e includerlo in sé. Sforzo vano, per altro, perché, come il desiderio era incluso nella privazione, o, per dir meglio, vi coincideva, questa a sua volta era tale che trascenderla era impossibile. Da un’altra, a prender forma in quelli fu una teoria che alla prima arrecava una correzione importante: una teoria in ragione della quale il fine della vera felicità, a cui il desiderio tendeva, non avrebbe potuto essere raggiunto se l’ansia e la «sete» che ne nascevano, o gli erano intrinseche, non fossero state guidate e, quindi, placate dalla fede. Donde una nuova coppia di concetti. Non più soltanto la privazione e il soddisfacimento, che del desiderio costituivano l’irrisolto orizzonte. Ma, da una parte, il desiderio, con la sua inquieta e problematica naturalità, con la sua interna e irrisolta tensione. Da un’altra la grazia. E queste erano idee che, neppure esse erano tali da poter essere sul serio unificate in un punto coerente. Poiché fra natura e grazia l’accordo non era tale
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che, dove ci fosse quella, anche questa fosse all’opera, ne derivava che il rischio della scissione era, non evitato, ma piuttosto confermato e ribadito come insuperabile. La grazia interveniva, quando interveniva, per l’indecifrabile e insondabile decisione divina; e, nell’attesa che discendesse sulla natura e la indirizzasse sulla vera via, poteva ben accadere che, in sé stessa, e negli individui che ne erano oggetto, rivelasse il segno di un’intrinseca imperfezione, riscattabile, quando ci si fosse disposti a considerarla nel quadro della disposizione provvidenziale delle cose, non riscattabile quando, invece, la si fosse osservata in quelli, nei quali permaneva e costituiva la ragione della loro condanna. Il che importava la grave conseguenza che ormai si è delineata; e che può essere enunziata e resa esplicita dicendo che la natura assumeva in questa prospettiva due diverse determinazioni, positive o negative a seconda che la grazia l’avesse assistita e riscatta nel suo segno, oppure abbandonata alla sua pura naturalità. Insomma, perché il mondo non fosse consegnato al più disperante dualismo, sarebbe stato necessario che fra natura e grazia non vi fosse contrasto, non vi fosse il dualismo che inevitabilmente avrebbe dato segno di sé quando si fosse dovuto constatare che, certo, nella prospettiva provvidenziale, la natura era lo strumento di Dio e, per questo verso, poteva addirittura esservi identificata; ma non senza che, per un altro, dovesse ammettersi che l’identità si realizzava nel segno della grazia, che, con la insondabile gratuità del suo intervento, almeno questo dimostrava e rendeva palese. E cioè che, sede del desiderio, la natura umana era destinata a vivere in sé stessa una tragedia senza riscatto quando, com’era avvenuto nei tempi anteriori all’avvento del cristianesimo, o presso quei popoli che avessero comunque continuato a ignorarlo,94 per le sue imperscrutabili ragioni quella, la grazia, non vi fosse positivamente discesa e l’avesse invece lasciata deserta di sé. Ragioni imperscrutabili; e tanto più impenetrabili quanto più sul fondamento di quel che si legge, non solo nel quarto trattato del Convivio e nel secondo libro della Monarchia, ma nella stessa Commedia, si fosse tentato di legare la questione della grazia a quella del merito che ne avesse provocato l’intervento. I Romani erano virtuosi, ma non si erano astenuti dalla violenza. Eppure la grazia era caduta su di loro, elevandoli a dominatori del mondo.95 Ulisse era stato un eroe dell’inganno e della frode, ma anche aveva praticato «virtute e canoscenza»; eppure, lo si rilevò all’inizio di questa indagine, la grazia non era caduta su di lui che, al contrario, era stato travolto in un tragico naufragio. Si dirà che non aveva conosciuto il vero Dio. Ma nemmeno i Romani l’avevano conosciuto. E del resto, se si parla di grazia, e al
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suo concetto si tiene fermo, non è evidente che mai la si potrebbe legare a condizioni esterne che ne determinassero e spiegassero e giustificassero l’intervento? Non è evidente che, al contrario, tutte le volte che, come avviene per esempio in Paradiso XXIX 64-66 («e non voglio che dubbi, ma sie certo/ che ricever la grazia è meritorio/ secondo che l’affetto l’è aperto»), si è tentato di connetterla al merito, l’idea della sua autonomia da ogni possibile condizionamento si è come appannata e la contraddizione vi ha preso stanza?96 Per l’assoluta gratuità della grazia resta fondamentale la semplice asserzione paolina: εἰ δὲ χάριτι, οὐκέτι ἐξ ἔργων, ἐπεὶ ἥ χάρις οὐκέτι γίνεται χάρις,97 o, fra le molte che potrebbero citarsi, questa, che si legge in un testo in cui Agostino svolse l’argomento principale della sua polemica antipelagiana: «nec potest homo boni aliquid velle, nisi adiuvetur ab eo qui malum non potest velle, hoc est gratia Dei per Jesum Christum».98 Natura, desiderio, provvidenza, grazia. Se non lo si legge alla luce di questi concetti, del vario gioco problematico che essi realizzano nel loro incontro, e anche delle difficoltà e delle oscillazioni che vi si determinano, del canto ventiseiesimo dell’Inferno potrà apprezzarsi la poesia quando si abbia sensibilità sufficiente a coglierla nel suo puro ritmo. Ma non è per quella via che potrà penetrarsi nell’intreccio dei pensieri dalla cui interna «dialettica» è scaturito il personaggio di Ulisse, e sui quali occorre perciò che ci si soffermi ancora. X Per cominciare, l’attenzione deve essere richiamata su quel che s’incontra nelle prime linee del Convivio, nelle quali, seguendo Aristotele e quel che si trova scritto «nel principio della Prima Filosofia», Dante ripeté che «tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere».99 E, comunque il testo in cui la espose debba essere restituito,100 la ragione che ne addusse fu di carattere, non psicologico, ma strutturale. In quell’esordio, l’accento cadde infatti, non solo sull’ultima perfezione della «nostra anima», e cioè sulla scienza, ma anche sulla capacità che, per disposizione provvidenziale, come ogni altra cosa della natura, anche questa aveva di conseguirla. Se è così, e questa era la disposizione immanente, come nell’anima nostra, così in ciascuna delle cose della natura, ne derivava che il desiderio era un signore imperioso, con il quale non poteva venirsi a patti perché a lui «tutti naturalmente […] semo subietti»;101 e in modo tale che, se invece al suo
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comando ci ribellassimo, sarebbe come se procedessimo in senso contrario a quello che, attraverso la natura, la provvidenza indica e dispone che sia conseguito. La premessa del discorso era segnata con tale nettezza, e racchiudeva tuttavia in sé un intreccio così grande di questioni, che, dopo averla riferita e osservata, nessuno potrebbe contentarsene. La nettezza dell’espressione non escludeva infatti l’ambiguità del concetto. Per un verso, è evidente che, come era la provvidenza che, per il tramite della natura, «inclina[va]» le cose, e fra queste l’anima umana, alla perfezione a cui il desiderio tende, così era ovvio che in questa situazione, e nel suo impianto razionale, si sarebbe introdotto un grave motivo di turbamento logico qualora si fosse ammesso che il fine, la mèta, erano bensì perseguibili, ma non tuttavia raggiungibili da quello: dal desiderio che, sempre di nuovo se li troverebbe, non raggiunti, davanti. In realtà, se lo si osserva con cura, non può sfuggire quel che di paradossale, e anche di problematico, si determina in questo esordio. Mentre, infatti, per un verso il desiderio era concepito come veicolo alla perfezione e al suo conseguimento, per un altro, accadeva tutt’altro. Poiché la sua essenza consisteva nella privazione, che, in quanto tale, non poteva non ribadire sé stessa al di là di ogni conseguito traguardo, accadeva che il desiderio rientrasse in sé stesso, ponendosi esso perciò come qualcosa di non trascendibile e dunque di perfetto. La perfezione era perciò fatta consistere piuttosto nel desiderio stesso che non nella sua realizzazione: piuttosto nella passione dell’anima orientata alla conquista dell’oggetto desiderato che non nel suo conseguito possesso. Che fosse così, può arguirsi, in questo luogo, da vari indizi: a cominciare forse dall’aggettivo «inclinabile» con il quale Dante aveva indicata la disposizione della natura umana alla perfezione. Un aggettivo eloquente, senza dubbio, e non del tutto scevro, tuttavia, di un tratto di non eliminabile ambiguità. Essere inclinabili a qualcosa potrebbe infatti significare che alla perfezione la natura è bensì disposta, non però che vi sia destinata con tale necessità che il traguardo non possa non esserne sempre conseguito. Si aggiunga che altro sarà il discorso concernente le cose che s’intrecciano a formare la natura, altro quello richiesto dall’anima umana. Intese come tali che in sé stesse sono la realizzazione del fine che a esse è immanente, necessariamente e sempre le cose conducono all’atto quel che ben potrebbe essere definito come il loro desiderio di essere fino in fondo sé stesse. Ma, nel caso dell’anima, di perfezione conseguita, e conseguibile, con altrettanta compiutezza, non può parlarsi. La perfezione si consegue infatti nella contemplazione del
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volto di Dio, che solo le intelligenze separate hanno la capacità di affisare sempre e senza alcuna interruzione. Di qui, dunque, il paradosso per il quale, se da un lato, il desiderio è lo strumento disposto al conseguimento del suo oggetto, ed è tale in quanto la mèta non sia stata conseguita, da un altro esso viene meno alla sua natura quando quella sia stata raggiunta: con la conseguenza che, come desiderio, esso è perfetto, ossia corrisponde alla sua definizione, quando non ha raggiunto la meta, e, ancora come desiderio, è imperfetto, cioè esaurito, quando l’abbia conseguita. Se poi il desiderio possa uscire dalla problematica «perfezione» che lo tiene irrealizzato presso di sé, questa, propriamente, è la questione che emerge dai testi di Dante e, su questo punto, li rende inquieti. Sebbene qualche dubbio possa insorgere sul punto se così siano da interpretare le linee nelle quali è detto della «nobilissima perfezione», e che questa sia perciò, in ultima analisi, la stessa cosa del desiderio, il dubbio tende tuttavia a risolversi, e quella interpretazione a dimostrare il suo buon diritto, quando il conteso sia unitariamente considerato e, via via, si renda manifesto che l’attitudine alla scienza e il desiderio di conseguirla, che sono propri dell’anima, implicano il possesso bensì dell’abito, ossia della capacità di esercitarla e, per conseguenza, della correlativa perfezione, ma non però del fine ultimo di essa; che è la ininterrotta contemplazione di Dio. La questione, che qui Dante delineò, riguardava dunque, per dire la stessa cosa in altri termini, la capacità, che alcuni riescono a rendere concreta nel risultato e altri no, di provare il desiderio che, appagato, fa l’uomo felice. Ma, messo in chiaro che alcuni riescono a provarlo, questo desiderio, che agli altri resta invece estraneo, ecco che, in margine alla prima questione, tornava a delinearsi quella che riguardava la cosa stessa: ossia il conseguito possesso dell’oggetto che, attraverso la scienza, il contemplante contemplava. Se la scienza e il desiderio della scienza erano considerati coincidenti, la questione era destinata a risolversi in un modo o in un altro a seconda che intrinseca alla natura del desiderio fosse, o non fosse, la sua appagabilità. Ma, appunto, poteva dirsi che il desiderio fosse appagabile? E in quanto coincidente con il desiderio, e con la sua intrascendibile tensione, poteva dirsi che la scienza fosse tale che quaggiù, in terra, potesse conseguire la sua mèta? Se a queste domande la risposta non potesse non suonare negativa, e, come si è detto, nella natura del desiderio dovesse sorprendersi qualcosa che, con il suo continuo rinascere dai risultati raggiunti, per un verso lo spingeva oltre sé stesso e per un altro lo reincludeva all’interno di questa spinta come nella sua propria prigione, ebbene, non è allora
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evidente che a configurarsi sarebbe proprio la situazione che sta alla radice dell’avventura di Ulisse? Non è evidente che, esemplare perfetto dell’umano desiderio di sapere, e perciò della scienza e della connessa virtù, da quello, dal desiderio che lo possedeva e lo assoggettava a sé come al suo proprio destino, il personaggio era (se l’espressione non appaia enfatica) insieme condannato e, in senso specifico, salvato? Era salvato dalla forza medesima che lo condannava e che, per la sua irresistibilità, lo rendeva innocente. Era dannato perché, in questa peculiare situazione, innocente com’era nel prestare ascolto alla voce che lo soggiogava, da questa era spinto verso il luogo della sua catastrofe dove, «perduto»,102 scomparve. Se, al di là di questo esordio, che non è semplice, in realtà, e contiene infatti più cose di quante a una prima lettura non parrebbe, ci si inoltra nei trattati terzo e quarto, le molte questioni che, non sempre risolubili nel segno della coerenza, sottendono la costruzione del personaggio di Ulisse, non tardano a manifestarsi. Si consideri, per esempio, quel che si trova a III ii 7, dove Dante spiegò che «però che naturalissimo è in Dio volere essere – però che, sì come nello allegato libro si legge, “prima cosa è l’essere, e anzi a quello nulla è” – l’anima umana essere vuole naturalmente con tutto desiderio; e però che ’l suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, naturalmente disia e vuole a Dio essere unita per lo suo essere fortificare». Si consideri questo passo, nel quale, come Nardi vide bene, l’impianto neoplatonico esplicitamente ricavato dal Liber de causis103 fu da Dante reinterpretato in senso aristotelico. E, osservandosene da vicino la trama concettuale, si veda come il desiderio di «essere in Dio» vi fosse giudicato, non solo forte, ma «naturalissimo». La conseguenza che Dante ne ricavava era che, come tutto procedeva per gradi discendenti dalla prima causa, che è appunto Dio, così era naturale che intrinseco a ogni cosa, e in primo luogo all’anima umana, fosse il desiderio di risalire lungo la scala dell’essere fino al vertice, nel quale ogni realtà riceve il suo grado più alto. Ed era altresì che, per il suo essere in ogni senso interno al sistema delle cause e della natura che, nel segno di Dio, le contiene e le dispone in sé, di questo sistema il desiderio era parte e, necessariamente si realizzava secondo la necessità di questo. L’ulteriore conseguenza era che sarebbe stato difficile, e in effetti impossibile, imporgli un limite che non consistesse in quest’ordine stesso, nel quale il desiderio è incluso come elemento essenziale. Per questo, fra l’altro, riprendendo un concetto che è anche in Tommaso d’Aquino104, Dante dirà a più riprese che la natura non fa nulla invano.105 Il
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desiderio è naturale, appartiene alla logica della natura, che è strumento di Dio. Non può perciò essere frustra. Se lo fosse, devierebbe dall’ordine, si porrebbe come un’anomalia e un’eccezione, come una permanente e non rimediabile alterazione; proprio come, d’altra parte, avverrebbe se andasse oltre il piano della natura, e perciò, di nuovo lo sconvolgesse. Né frustra, dunque, né ultra. Donde la conseguenza che, come qui, in questo concetto, Dio, natura e ordine delle cose si presentavano a tal segno fusi che non c’era grazia divina che non vi fosse analiticamente contenuta e, per eccesso o per difetto, a quell’ordine potesse addurre variazioni, così, né in un senso né in un altro, si dava peccato che fosse rinvenibile nel desiderio e nella sua «naturale» fenomenologia. Con il che, era evidente che a questo punto la questione del peccato, e, per riflesso, anche quella della natura, si poneva in forma tanto acuta quanto aporetica. Perché il peccato sorgesse, e trovasse la sua giustificazione in un ordine che, per sé stesso, non ne contemplava, o non avrebbe dovuto contemplarne, la possibilità, era necessario che la natura fosse ridefinita attraverso la buona o non buona sua disposizione ad accogliere in sé il principio della sua propria perfezione: in modo tale dunque che la possibilità del peccato si rivelava all’interno di quell’alternativa e passava all’atto se a prevalere sulla buona fosse stata la disposizione cattiva. Che di qui, sul piano della coerenza, nascessero forti complicazioni, e sia l’idea della grazia, come fra poco si vedrà, sia quella della natura ne subissero in sé il negativo contraccolpo, è a tal punto evidente che, per quanto concerne la natura, sarebbe stato facile constatarlo quando a essa si fosse guardato assumendo, come punto di osservazione, proprio il desiderio. Che, per un verso, se la natura era perfezione, e esso le apparteneva, doveva condividerne la perfezione e sorgere, perciò, per conseguire sempre e comunque il traguardo. Ma, per un altro, era il desiderio, era una στέρησις che, senza potersi superare, tendeva tuttavia a superarsi in altro, e in questo modo ribadiva il suo carattere e la sua propria inquieta consistenza con sé. Φύσει, alla radice della conseguita soddisfazione di un suo moto, e in questo senso nella sua perfezione, il desiderio era destinato a ritrovare la «mancanza», in forza e in ragione della quale era il desiderio;106 che, proprio perché, come si è visto (e conviene ripetere) era condizionato in modo da non potersi superare, proprio perché, in quanto intrascendibile, era perfetto, proprio per questo non trovava un limite che, dall’interno o dall’esterno, potesse mettere fine al suo sussistere. Se è così, senza perciò perdere di vista il personaggio che del desiderio fu, nell’universo dantesco,
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il simbolo, non si va lontano dal vero, e non si forza il senso piano dei testi, se si osserva che, nel quadro della natura che lo accoglie, nella sua accezione più radicale, e più conseguente, esso rappresentava un principio di eversione, di disordine, di infelicità: come se il suo esserne contenuto all’improvviso rivelasse che alla radice del concetto aristotelico della natura agiva l’idea cristiana della corruzione da essa patita attraverso il peccato originario e la perdita dell’innocenza, e il disordine si rivelasse perciò anche all’interno di un concetto che si sarebbe voluto presentare come unitario. Due diversi concetti della natura; dei quali, l’uno delineava la sua perfezione, la piena sua corrispondenza al suo principio interno, l’altro la sua insufficienza, e la conseguente incapacità di conseguire in sé stessa il suo telos senza il decisivo intervento della grazia divina. Della duplicità concettuale presente in questa situazione non sarebbe difficile indicare la presenza nei testi dei filosofi ai quali Dante aveva attinta la sua concezione. Senza andare troppo lontano, e per limitarsi a testi a lui certamente vicini, si pensi a Tommaso d’Aquino e alla sua idea della natura; che, per un verso, una volta che si fosse tenuto fermo il nesso che la riferiva a Dio, era quella stessa di Aristotele e, come è stato ben detto, implicava un radicale ottimismo metafisico,107 ma per un altro non poteva non risentire di quella, opposta, della caduta, e della redenzione inconseguibile per la virtù delle sole forze naturali. Donde la necessaria sua integrazione con ciò che solo dalla grazia poteva essere concesso. Questa situazione concettuale ebbe il suo puntuale riscontro nella vicenda di Ulisse e nel modo in cui Dante la interpretò. Se il desiderio suo di andar oltre incontrò fuori di sé il limite invalicabile contro il quale, catastroficamente, il suo vascello s’infranse, la ragione non avrebbe mai potuto esserne ricercata dove mai, in effetti, si sarebbe potuto trovarla, e cioè nella consapevole infrazione di un divieto, nel volontario sovvertimento dell’ordine naturale, nel rifiuto di una costrizione imposta da un dio. Quella ragione stava nella natura stessa del desiderio che, proprio e soltanto in quanto fosse stato fino in fondo fedele alla sua interna misura, alla steresis che di contino ricostituiva sé stessa alla radice di ogni conseguito traguardo, rivelava l’altra steresis, l’altra privazione, da cui era afflitto: quella della grazia che su di lui non era intervenuta a far sì che da un conseguimento non ne insorgesse un altro, e lo spirito si pacificasse nel segno della felicità. Di un limite che, provenendogli dal cielo, lo trattenesse al di qua della follia che al desiderio è intrinseca, Ulisse non poté avere alcuna esperienza. Ma se è così, fu la grazia che, escludendolo dal suo ambito, lo abbandonò alla
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potenza distruttiva del desiderio. Fu la grazia, infatti, e essa soltanto, non il desiderio che, φύσει, è innocente; fu la grazia che, paradossalmente, nella di per sé innocente natura di quest’ultimo introdusse il peccato e la sua possibilità. Fu la grazia che, negandosi all’eroe greco, fece sì che ai suoi occhi mortali apparisse innocente quel che ai suoi era invece peccaminoso. Fu la grazia che, nell’atto in cui condannava il desiderio, ne mostrava l’irresistibilità, e, con l’impossibilità che, con le sue sole forze, a sé stesso imponesse un qualsiasi limite, l’innocenza. Ecco perché coloro che giudicarono Ulisse soltanto innocente ebbero altrettanto torto di quelli che lo giudicarono soltanto colpevole. Né gli uni, infatti, né gli altri considerarono che, iuxta propria naturalia principia, il desiderio è innocente perché, nel suo andar oltre, proprio a quei naturali princìpi è coerente, obbedisce e non li trasgredisce; e colpevole è solo nel suo esser stato abbandonato a sé stesso dalla grazia che, non discendendo su di lui, non ha risolto in un risultato calmo la sua inquietudine, il suo indomabile tendere ad altro. Nell’insondabilità del suo consiglio e delle decisioni che ne conseguono, essa concede sé stessa a chi di per sé permarrebbe nel peccato, e lo libera da questo: che fu, per esempio, il caso di Dante, quando si perse nella famosa selva. Oppure si ritira in sé stessa, non si concede e condanna chi, per suo conto, potrebbe ben essere innocente. Che a questo punto si rendesse del tutto esplicita la questione del nesso che pur sussiste, e richiede perciò di essere chiarito, fra la natura e il peccato, è evidente. Evidente, agli occhi di chi intendesse andare a fondo, è la necessità di un’analisi dei principali suoi aspetti: a cominciare, sia da quello costituito dalle sue distinzioni interne, e dalle varie definizioni che, in sede teologica, furono date di esse, sia, e non meno, dall’altro, che qui su è stato ricordato, della buona o non buona disposizione a ricevere la grazia. La distinzione che Tommaso, per esempio, fece di essa, a secondo che la si intendesse come operans et cooperans, praeveniens et subsequens,108 aprirebbe, se la si potesse affrontare qui nei suoi svolgimenti concreti, la quaestio, certamente spinosa, relativa al senso radicale della sua gratuità: se questa dovesse essere considerata assoluta, e fosse la grazia a determinare il merito per la quale la si ottiene, o fosse questo a far sì che quella intervenisse. Questione spinosa, come si è detto. La si coglie alla radice dell’altra distinzione per la quale, da una parte, sta la disposizione (buona) a riceverla, o (cattiva) a non riceverla, e, da un’altra, sta la grazia; che per un verso, dunque, sarebbe da considerare come conseguente, per un altro come precedente. Da che cosa, infatti, se non dalla presenza della grazia discesa su di lei, la natura sarebbe stata disposta ad
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accoglierla, da che cosa, per contro, se non dalla sua assenza, si sarebbe determinata la condizione opposta? Questione, si ripete, spinosa. Con il circolo che per questa via veniva a determinarsi, erano infatti la sua gratuità e insondabilità che, ammesse da una parte, erano tolte da un’altra. Due in particolare, fra le molte che sono emerse e alle quali non è stato possibile se non accennare, sono le questioni che si sono imposte; ed entrambe si presentano nel segno della difficoltà. La prima si sarebbe determinata quando la pretesa fosse stata che la natura, la quale è autosufficiente e, secondo i princìpi che le sono intrinseci, consegue il suo fine, fosse stata tuttavia, e necessariamente per pensatori cristiani, considerata come recante in sé il segno del peccato originale, e quindi aperta, o chiusa, all’azione reintegrativa della grazia divina, la cui insondabile presenza determinava il positivo e la sua assenza, per contro, il negativo. In questa prospettiva doveva intendersi che la grazia operasse bensì attraverso la natura, ma non nel senso che coincidesse con la sua legge costitutiva: in modo tale che dire grazia significasse dire natura, e viceversa. La grazia operava nella natura, e attraverso la natura, restando tuttavia inesplicabilmente nascosta nell’abisso della mente e della volontà divine. E come al desiderio il suo esserci concedeva quel che perciò risultava esser giusto, così il suo non esserci apriva la via all’errore, di cui è detto a III xiii 6-9: un luogo sul quale si dovrà tornare. Il contrasto in cui l’idea della natura autosufficiente, e in sé stessa realizzante il suo fine, si poneva con l’altra della grazia che, imperscrutabilmente, con il suo darsi o negarsi, ne determinava in buono o in cattivo il carattere, era in effetti incomponibile, e insanabile. A risolverlo non sarebbe stato sufficiente osservare che, poiché la si intendeva come strumento di Dio e come a lui, in questo senso, coerente, non si dava alcun contrasto quando si affermava che, realizzandosi in forza del volere divino, era anche in forza di sé stessa e della sua legge che la natura si affermava. In realtà, non è affatto così. E a una grave confusione si andrebbe incontro se non si considerasse che, per il concetto, c’è strumento e strumento, e che diversi ne sono i rispettivi significati. Altro è infatti uno strumento che, in ogni senso e sotto qualsiasi riguardo, coincida con la mente e con la volontà che ne determinano e orientano il comportamento: in modo tale che, dire quello, è la stessa cosa che dire questo. Altro è invece uno strumento che, nei confronti della volontà e della mente che se ne servono, sia tale che può essere diretto in un senso o in un altro: essendo, nei riguardi di questi, indifferente all’uso a cui è piegato. Nel primo caso, lo strumento ha il suo
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fine in sé, perché coincide con Dio. Nel secondo, l’ha fuori di sé, perché con Dio non coincide. Nel primo, il fine della natura è esplicabile secondo la regola che lo assume come interno alla sua razionalità. Nel secondo, è esplicabile, non con la natura e la sua razionalità, ma con la grazia; la quale, del perché ora si dia e ora no, ora si conceda e ora resti presso di sé, non dà spiegazioni che siano razionalmente dicibili. La seconda questione nasceva in margine all’idea secondo la quale, la natura è autosufficiente, e il desiderio, che pure le è interno e le appartiene, è invece reso inquieto e, pur nel suo perfetto coincidere con sé, imperfetto, dalla steresis che ne costituisce il carattere. Ne derivavano conseguenze intessute, per la verità, di aspetti inquietanti. Basterà, in questa sede, considerarne uno. Se il desiderio appartiene alla natura che è autosufficiente e, non potendo essere «frustrata» nel suo fine, lo raggiunge sempre nel segno della perfezione, a derivarne era qualcosa di intrinsecamente problematico. Assumendo che la perfezione del desiderio coincidesse con la strutturale irresolubilità della steresis che gli era intrinseca nell’atto in cui, per un altro verso, si presentava come appartenente alla natura, che è perfezione, ecco che anche il contrario avrebbe dovuto essere ammesso: e cioè che, nel suo ospitare in sé il desiderio, la natura ne risentisse in sé il carattere e, nella sua perfezione, fosse imperfetta. Se, viceversa, a prevalere fosse stata l’idea secondo cui la natura era perfetta e autosufficiente, a non corrispondere alla sua definizione sarebbe stato il desiderio; del quale in effetti non si sarebbe potuto, in questa prospettiva, assumere che fosse reale e esistente. Insomma, se il desiderio non si estingueva con l’estinguersi della steresis che, nel continuo suo rinascere dal risultato di volta in volta realizzato, ne costituisce il tratto per il quale è il desiderio, la conseguenza sarebbe stata che la perfezione poteva bensì essere conseguita, ma all’infinito, e in modo perciò radicalmente diverso da quello previsto dal suo attuale e strutturale possesso. Se, viceversa, a questa idea della perfezione come attuale e strutturale possesso di ogni elemento che concorresse a costituirla, si fosse tenuto fermo, del desiderio non si sarebbe potuto parlare come di cosa che appartenesse alla natura, si inscrivesse nella sua regola, e non la infrangesse. Poiché, d’altra parte, assai delicata è la questione che ci sta dinanzi, e più che problematico appare il nesso che, senza riuscirci, si tenta di stringere fra natura, perfezione e desiderio, insistere nell’analisi è indispensabile.
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In Convivio III vi 7-9, in un contesto nel quale i punti in discussione sono costituiti dalla filosofia e dal suo essere, «in quanto riceve dalla divina bontade oltre il debito umano»,109 sommamente amata da Dio, s’incontra, a proposito del desiderio, un luogo di interesse più che notevole. A commento del verso «e quella gente che qui s’innamora» della canzone Amor che nella mente mi ragiona, vi si leggeva che è «da sapere che ciascuna cosa massimamente desidera la sua perfezione, e in questa si queta ogni suo desiderio, e per quella ogni cosa è desiderata». Ma, subito dopo, vi si trovava asserito che «questo è quello desiderio che sempre ne fa parere ogni dilettazione manca: ché nulla dilettazione è sì grande in questa vita che all’anima nostra possa [sì] torre la sete, che sempre lo desiderio che detto è non rimagna nel pensiero». Quale che sia l’interpretazione che debba darsi del tormentatissimo e, per la verità, oscuro periodo che tiene dietro a questo,110 quel che si è detto fin qui è sufficiente a far sì che subito si delinei la difficoltà intrinseca all’anzidetta, tripartita, questione della natura, della perfezione, e del desiderio. La difficoltà, o meglio, forse, lo squilibrio.111 Se era per la logica della natura che ogni cosa si dirigeva verso la sua propria perfezione, resta tuttavia che in questo quadro il desiderio introduceva, con sé stesso, il principio di una tal quale alterazione. Per un verso, era qualcosa come lo strumento che a quel che gli stava dentro, e lo rendeva inquieto, consentiva di raggiungere il suo fine. A costituire la sua essenza, erano tuttavia difettività, privazione, inquietudine. Ed ecco allora che, per un altro verso, il desiderio, che pure era strumento di perfezione e di conseguimento della mèta, anche era non risolubile in questa e nella perfezione che ne sarebbe conseguita: a differenza della nave112 che, pervenuta dalla tempesta alle calme acque del porto, vi trovava, con la fine del viaggio, la pace. Ne derivava, per questo aspetto, che tra perfezione e desiderio c’era tanto accordo quanto disaccordo. E questa è anche la ragione per la quale il testo sembrava a volte suggerire che la perfezione stesse bensì nella pace conseguente all’appagamento del desiderio, ma, poiché questo era inappagabile, stesse nel desiderio stesso, che la ricercava e perseguiva al di là della mèta, ossia in una perfezione che rivelava di non essere mai tale quale il suo concetto avrebbe imposto che fosse. Dopo di che l’analisi deve proseguire perché, malgrado la tenacia messa nel farla progredire, la mèta non è ancora stata raggiunta. Che non sempre, infatti, le argomentazioni del Convivio riuscissero a evitare il rischio dell’oscillazione e dell’incompiutezza, è, se le si segue con qualche cura, evidente. Fosse o no da lui considerato inquieto per sé stesso,
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e destinato perciò a sempre risorgere dalle sue proprie ceneri, certo è che inquieta e oscillante riuscì la teoria, o, se si preferisce, l’analisi mediante la quale Dante cercò di fermarne il lineamento. A atteggiarla in questo carattere era, e lo si è già detto, l’irrisolta tensione che nella sua mente si era stabilita fra l’idea della natura, che ogni cosa conduce al suo fine e che mai, in questo suo agire, potrebbe essere frustrata, e quel che del desiderio è più proprio; del desiderio che, per questa sua natura, per l’inquietudine che era a sé stesso, resisteva alla sua estinzione nel risultato conseguito e, quand’anche questo fosse stato l’ultimo possibile, non se ne lasciava tuttavia soddisfare e placare. Da una parte, dunque, a prevalere era l’idea secondo la quale non era il desiderio che all’infinito, e con il suo stesso esserci e svolgersi, costituiva l’assolutezza della mèta a cui tendeva. Se questa infatti era un’assolutezza, non era possibile fare che si svolgesse e, all’infinito, si cercasse oltre sé stessa.113 Ma è pur vero che, da un’altra, era la sua non perfetta e non compiuta acquisibilità a far sì che il desiderio rientrasse in sé stesso, riprendesse, se così potesse dirsi, possesso delle sue inquietudini e, se non frustra, si determinasse tuttavia in relazione al suo ultra. La si rileva con chiarezza, questa duplice vicenda, se, nel Convivio, si seguiti a percorrere la linea segnata dal suo svolgimento. Per la comprensione del desiderio, e per la questione che lo concerne in quanto lo si assuma come desiderio di sapere e di conoscere, l’osservazione che s’incontra a III x 2, e secondo cui «quanto la cosa desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio è maggiore, e l’anima, più passionata, più sé unisce alla parte concupiscibile e più abandona la ragione», non rivela niente che già non sia stato posto in rilievo e discusso: anche se a prendere particolare rilievo sia, in questo contesto, un aspetto di esso che non sarebbe agevole riferire alla vicenda di Ulisse e alla sua tragedia. Non perché la cosa desiderata gli fosse vicina il desiderio dell’eroe raggiunse il suo culmine. Lo raggiunse, bensì, e al contrario, perché era lontana, avvolta nella fitta nebbia misteriosa che ai suoi occhi impediva la visione, «di retro al sol/ del mondo sanza gente»: con il che accadeva anche che niente di fisico potesse sorprendersi in quel suo tendere, che era perciò del tutto e soltanto intellettuale, alla mèta. Se questo passo si rivela non pertinente alla natura del desiderio da cui Ulisse era posseduto, nel vivo della questione che lo riguardava si entra invece in un luogo del capitolo decimoquinto del terzo trattato, sul quale già fu detto che saremmo, dopo il breve accenno che se ne fece, tornati con più ravvicinata analisi. È un luogo che, per la sua importanza, conviene citare per disteso:
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Con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione, sanza quella essere non può [l’uomo] contento, che è essere beato; ché quantunque l’altre cose avesse, sanza questa rimarrebbe in lui desiderio: lo quale essere non può colla beatitudine, acciò che la beatitudine sia perfetta cosa, e lo desiderio sia cosa defettiva: ché nullo desidera quello che ha, ma quello che non ha, che è manifesto difetto. E in questo sguardo solamente l’umana perfezione s’acquista, cioè la perfezione della ragione, dalla quale, sì come da principalissima parte, tutta la nostra essenzia depende; e tutte l’altre nostre operazioni – sentire, nutrire, e tutte – sono per questa sola, e questa è per sé, e non per le altre, sì che, perfetta sia questa, perfetta è quella, tanto cioè che l’uomo, in quanto ello è uomo, [v]ede terminato ogni [suo] desiderio, e così è beato. E però si dice nel libro di Sapienza: “chi gitta via la sapienza e la dottrina, è infelice”: che è privazione dell’essere felice. [Essere felice] per l’abito della sapienza séguita che s’acquista, e “felice [essere] è “essere contento”, secondo la sentenza del Filosofo. Dunque si vede come nell’aspetto di costei delle cose di Paradiso appaiono. E però si legge nel libro allegato di Sapienza, di lei parlando: “essa è candore della etterna luce e specchio sanza macula della maestà di Dio”. Poi, quando si dice: elle sovechian lo nostro intelletto, escuso me di ciò, che poco parlar posso di quelle per la loro soperchianza. Dove è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere, che lo ’ntelletto nostro guardare non può, cioé Dio e la etternitate e la prima materia: che certissimamente si veggiono e con tutta fede si credono essere, e pur quello che sono intender noi non potemo se non cose negando si può appressare alla sua conoscenza, e non altrimenti.114
L’argomentazione, come si vede, procedeva serrata. Ma recava con sé un dubbio; che Dante ebbe cura di rendere esplicito: Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l’uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che ’l naturale desiderio sia [nel]l’uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa. A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade della cosa desiderante: altrimenti anderebbe in contrario di sé medesimo, che impossibile è; e la Natura l’averebbe fatto indarno, che è anche impossibile. In contrario anderebbe: ché, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la sua imperfezione: imperò che desiderrebbe sé sempre desiderare, e non compirebbe mai suo desiderio […] andando dietro al numero impossibile a giugnere. Averebbe[lo] anche la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l’umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naurale intenzione. E così è misurato nella natura angelica e terminato, in quanto, in
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quella sapienza che la natura di ciascuno può apprendere. E questa è la ragione per che li Santi non hanno tra loro invidia, però che ciascuno aggiugne lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è colla bontà della natura misurato. Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio, e di certe altre cose, quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi attualmente non è desiderato di sapere.115
Si tratta, come si vede, di un luogo complesso e, anche per ragioni testuali, di interpretazione non facile. Premesso che di molte delle questioni che vi sono implicate dovrà qui rinunziarsi a definire il significato, un concetto comunque vi assunse rilievo e apparve con chiarezza: in una formulazione, anzi, di particolare nettezza e radicalità. Se era vero che la natura non fa niente invano, impossibile era che il desiderio riuscisse in sé stesso inappagato; impossibile che inattinta rimanesse la «perfezione» che, costituendo il suo scopo, era altresì la ragione per la quale il desiderio era il desiderio. Se questo accadesse, se, tale è il pensiero di Dante, fosse possibile che il desiderio restasse inappagato, per il tramite della sua «frustrazione» nella natura si aprirebbe un autentico varco, orientato verso la follia e l’irrazionalità. Il che essendo in conflitto con la regola che a quella è intrinseca e che di ogni possibile frustrazione prevede il necessario superamento, comportava appunto che fra desiderio e realizzazione dovesse darsi una proporzione assoluta, che niente di quel che si desiderava restasse irrealizzato e non conseguisse il suo fine. L’idea che in questo luogo, per molti versi cruciale, Dante delineò della natura e di quella che potrebbe esser definita la sua interna οἰκονομία, era così radicale che a derivarne fu una sorta di estremistico razionalismo: in forza del quale, non solo ogni aspirazione all’«oltre» fu considerata alla stregua di un’erronea eccezione, di una sconvolgente anomalia, ma della stessa realtà di Dio si escluse, per conseguenza, che potesse accendere il desiderio e spingere chi ne fosse stato affètto oltre il limite delle cose desiderabili e conseguibili. A far sì che, con la rassicurante armonia che recava con sé, quest’ordine fosse alterato e sconvolto era dunque, nelle esplicite parole di Dante, l’«errore», e esso soltanto. Era l’errore per il quale, come avviene nel caso dell’avaro, il desiderio si poneva come desiderio del desiderio e, inesorabile, senza mai poterlo raggiungere e estinguervisi, procedeva verso il baratro che esso stesso spalancava dinanzi a sé. La conseguenza, che a Dante appariva esiziale, era perciò che, l’essenza e, in questo, come si è visto, la perfezione del desiderio essendo costituita dalla mancanza, dalla privazione e dall’imperfezione che ne derivava, desiderarlo, desiderare il desiderio, avrebbe importato che
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questo avesse a oggetto, non la perfezione, ma l’imperfezione, o, se si preferisce, l’instabile equilibrio che, l’una nei confronti dell’altra, queste due dimensioni realizzavano. Con l’incongruenza e persino la contraddizione che in tal modo si delineavano, avrebbe implicato una sorta di scandalo logico, ontologico e cosmologico. Il che, andrà riconosciuto, era per certo argomentato con sottigliezza, e con lo schietto gusto di chi se ne compiaceva. Ma non tuttavia in modo tale che il dubbio, che pure si era insinuato in profondità nella consapevolezza di Dante, ne fosse sul serio stato risolto. In effetti, la difficoltà che Dante aveva posta a sé stesso, attraverso questa drastica riduzione del desiderio alla misura del naturalmente desiderabile, risolta non era stata affatto. E, per capirlo, basterebbe riflettere sul punto che in questa sua idea restava inattinto e, nel suo argomento, provocava un ben avvertibile squilibrio logico. Se senz’altro il desiderio fosse stato concepito come la stessa cosa della difettività che gli si attribui va, gli stava dentro e costituiva la condizione necessario del suo esserci, si sarebbe per conseguenza dovuto tornare a un luogo critico al quale già il suo ragionamento era pervenuto; e ammettere che, come quel carattere era presente nella sua physis, altrettanto doveva esserlo nelle cose della natura. che in nessun senso, perciò, si sarebbe potuta definire perfetta. Che se invece, per sfuggire a questo esito, così fortemente discordante dall’idea della perfezione intrinseca alla natura, l’accento fosse stato fatto cadere sulla risolubilità del desiderio nella calma conseguita al suo raggiunto traguardo, non per questo la conseguenza sarebbe stata meno sconcertante. Nel primo caso, per conservare al desiderio la sua inquieta realtà innanzi alla sua estinzione nel risultato conseguito, si sarebbe dato vita a una «perfetta imperfezione» o se si preferisce, a una «imperfetta perfezione». In questo secondo, per eliminare tale incongruità, si sarebbe dato luogo a una tale coincidenza del desiderio con la sua attuazione che di quello si sarebbe potuto parlare come, non del desiderio, ma del suo sparire nascendo. In altre parole, avendo guardato con occhio acuto nella «realtà» del desiderio, Dante non riusciva a tenerla ferma nel concetto. Per cercare di afferrarne la sfuggente realtà, per dare conto di quel che pure vedeva accadere, non solo in sé, ma nelle cose del mondo, fra le quali di continuo il desiderio mostrava il suo volto, era all’errore che, di nuovo, era costretto a far ricorso: all’errore e, perciò, a qualcosa di soggettivo che, tuttavia, andava a far parte della natura e, deformandone il volto, ne segnava, dall’interno, la crisi. Con il che era non alla soluzione che egli approdava, ma a un nuovo e più acuto problema. Difficile in sé, la questione dell’errore non si lasciava infatti risolvere nel
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quadro di una concezione che, contrassegnata in termini di positività e di razionalità, all’affermarsi di quello non concedeva, o non avrebbe dovuto concedere, alcuna possibilità, quest’ultima non potendo infatti essere intesa se non come un’inammissibile sospensione della regola. L’accenno che qui Dante faceva all’errore come causa di imperfezione rivelava la tensione interna al suo concetto della natura; che, come si è detto, per un verso era esemplata su quello aristotelico che ne definiva la perfezione e la razionalità, ma per un altro alludeva all’idea di essa come caduta e sfigurata dal peccato del primo uomo, senza che a questo conflitto vi fosse, da parte sua, la possibilità logica di porre un qualche rimedio. In realtà, nella perfetta imperfezione, o imperfetta perfezione, del desiderio, era come se fosse passato il senso dell’interno e inconciliabile conflitto in cui quelle due concezioni erano impegnate, non per sopraffarsi, ma per cercare di coesistere in un quadro unitario e coerente che, in quanto tale, non poteva accoglierle. Che infatti quell’impresa fosse ineseguibile, e inottenibile la concordia di cui andavano in cerca, non è difficile comprendere. L’accordo che, sul tema della natura, si fosse cercato fra, da una parte Aristotele e, da un’altra, la Bibbia, era altrettanto impossibile di quello che si fosse tentato di ottenere fra l’idea della natura perfetta e l’altra, della natura imperfetta, fra la natura come ordo e la corruptio di questo.116 Non c’era sottigliezza di filosofo o abilità di teologo che, nel loro esercizio, non fossero destinate a conseguire il risultato opposto a quello desiderato e auspicato. Se è questo il senso del decimoquinto capitolo del terzo trattato, la sua lontananza da quel che si era letto nel sesto non avrebbe potuto essere più grande; né più grave, per conseguenza, il conflitto che si era aperto nella mente di Dante. Di questo egli cercò forse di temperare l’asprezza, o di risolverlo, tornando sulla questione nel capitolo decimoterzo del quarto trattato, che, su questa materia, è forse il più impegnativo che s’incontri nell’intera opera. Nel capitolo precedente, aveva dato espressione al conflitto che gli si era formato dentro, proponendo la questione se, al pari di quello suscitato dalla ricchezza e che sempre era destinato a crescere, anche il desiderio della scienza avesse questo carattere e passasse perciò da una privazione risolta a una privazione nuova, da una mancanza colmata a una che tornava a mostrare sé stessa: in modo che fossero queste, la privazione e la mancanza, a segnarne, sempre e comunque, il volto. Il rapporto che, di stazione in stazione, il desiderio stringeva con le cose via via desiderate e che, conseguite, erano lungi, tuttavia, dall’averne spenta la sete, – questo
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rapporto aveva trovato, nel dodicesimo capitolo, due immagini assai belle, in tutto degne del talento che, nel proporre paragoni e delineare similitudini, così vivo Dante avrebbe mostrato nella Commedia. Ed ecco dunque che, nel ritrarre questa situazione, egli immaginò un «peregrino che va per una via per la quale mai non fue, che ogni cosa che da lungi vede crede che sia l’albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la credenza all’altra, e così di casa in casa, tanto che all’albergo viene»,117 e a questo suo andare paragonò l’anima umana che, come nel «nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia esso. E perché la sua conoscenza prima è imperfetta per non essere esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a desiderare». Il paragone gli aveva accesa la fantasia; e Dante ricorse perciò a una nuova immagine: quella dei «parvuli» che vediamo desiderare un «augellino»; e poi, più oltre, «un bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più oltre».118 La questione che, attraverso queste due immagini, dal piano concettuale erano state trasferite su quello rappresentativo, era stata comunque già restituita alla sua forma filosofica: Veramente qui surge in dubio una questione, da non trapassare sanza farla e rispondere a quella. Potrebbe dire alcuno calunniatore della veritade che se per crescere desiderio acquistando, le ricchezze sono imperfette e però vili, che per questa ragione sia imperfetta e vile la scienza, nell’acquisto della quale sempre cresce lo desiderio di quella: onde Seneca dice: “se l’uno de’ piedi avesse nel sepulcro, aprendere vorrei”. Ma non è vero che la scienza sia vile per imperfezione: dunque, per la distruzione del consequente, lo crescere desiderio non è cagione di viltade alle ricchezze. Che sia perfetta, è manifesto per lo Filosofo nel sesto dell’Etica, che dice la scienza essere perfetta ragione di certe cose.119
E ancora, proseguendo: A questa questione brievemente è da rispondere; ma prima è da vedere se nell’acquisto della scienza lo desiderio si sciampia come nella questione si pone, e se sia per ragione. Per che io dico che non solamemente nell’acquisto della scienza e delle ricchezze, ma in ciascuno acquisto l’umano desiderio si dilata, avegna che per altro e altro modo. E la ragione è questa: che lo sommo
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desiderio di ciascuna cosa, e prima dalla natura dato, è lo ritornare allo suo principio. E però che Dio è principio delle nostre anime e fattore di quelle simili a sé (sì come è scritto: “facciamo l’uomo ad imagine e simiglianza nostra”), essa anima massimamente desidera tornare a quello.120
Fra similitudini, immagini e argomentazioni, il dibattito che fin qui Dante aveva condotto intorno alla difficile quaestio del desiderio non era riuscito ad attingere il piano di una soluzione che fino in fondo lo soddisfacesse. E anche perché di troppo il capitolo (duodecimo) era andato al di là della giusta misura e si era «alquanto produtto»,121 riservò al successivo la risoluzione della difficoltà che, evidentemente, sentiva di non esser giunto a superare sul serio. Osservò perciò subito, fin dalle prime linee, che «propiamente crescere lo desiderio della scienza dire non si può, avegna che, come detto è, per alcuno modo si dilati». Aggiungeva infatti che quello che propriamente cresce sempe è uno; lo desiderio della scienza non è sempre uno ma è molti, e, finito l’uno, viene l’altro: sì che, propiamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande cosa. Ché se io desidero di sapere li pricipii delle cose naturali, incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com’è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio nuovo, né per l’avenimento di questo non mi si toglie la perfezione alla quale mi condusse l’altro; e questo cotale dilatare non è cagione d’imperfezione, ma di perfezione maggiore. Quello veramente della ricchezza è propiamente crescere, che è sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla perfezione.122
Altro dunque il «crescere», che riguarda il desiderio, non della scienza, ma della ricchezza che, per quanto la si moltiplichi in ricchezze, sempre è «uno». Altro il «dilatarsi», che non è crescita, ma aggiunta al desiderio, del desiderio, senza che, nel determinarsi dopo il primo, il secondo ne riveli l’intrinseca imperfezione. Era una distinzione sottile; e per riuscire persuasiva, richiedeva un ulteriore chiarimento: E se l’avversario vuole dire che, sì come è altro desiderio quello di sapere li principii delle cose naturali, e altro di sapere che elli sono, così altro desiderio è quello delle cento marche, e altro è quello delle mille, rispondo che non è vero: ché ’l cento si è parte dal mille, e ha ordine ad esso come parte d’una linea a tutta [la] linea, su per la quale si procede per un moto solo, e nulla successione quivi è né perfezione di moto in parte alcuna. Ma conoscere che siano li principii delle cose naturali e conoscere quello che sia ciascheduno, non è parte l’uno dell’altro, e hanno ordine insieme come diverse linee per le
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quali non [si] procede per uno moto, ma, perfetto lo moto dell’una, succede lo moto dell’altra. E così appare che dal desiderio della scienza, la scienza non è da dire imperfetta sì come le ricchezze sono da dire per lo loro, come la quesione ponea: ché nel desiderare della scienza successivamente finiscono li desiderii e vienesi a perfezione, e in quello della ricchezza no. Sì che la questione è soluta, e non ha luogo.
Eppure, a contrastare la convinzione che risolta la difficoltà fosse stata sul serio, permaneva il dubbio che in realtà lo fosse stata fino in fondo; e che altre frecce l’avversario conservasse nella sua faretra: Ben puote ancora calunniare l’avversario dicendo che, avegna che molti desiderii si compiano nello acquisto della scienza, mai non si viene all’ultimo: che è quasi simile alla [im]perfezione di quello che non si termina e che è pur uno. Ancora qui si risponde che non è vero ciò che si oppone, cioè che mai si viene all’ultimo: che li nostri desiderii naturali, sì come di sopra nel terzo trattato è mostrato, sono a certo termine discendenti; e quello della scienza è naturale, sì che certo termine quello compie, avegna che pochi, per male camminare, compiano la giornata. E chi intende lo Commentatore nel terzo dell’Anima, questo intende da lui.
Fra repliche, riprese di obiezioni, nuove repliche, sembra chiaro che l’argomentazione che Dante metteva in campo non era tale da persuaderlo fino in fondo. L’avversario gli stava dentro e coincideva con una parte della sua «anima»: donde la sottigliezza alla quale era costretto a far ricorso. È evidente infatti che, la giudicasse soddisfacente oppure no, volesse persuadersene o a tanto non riuscisse, la soluzione che aveva escogitata era esposta a più di un dubbio; che la distinzione proposta fra unicità e molteplicità, fra crescita e dilatazione, non bastava a risolvere. E per varie ragioni che, qui, possono essere ridotte a due. La prima suggeriva che, a risolvere il dubbio che gli si era insinuato nella mente, il trasferimento della questione dal piano del soggetto a quello dell’oggetto, non solo non bastava, ma apriva il varco all’incoerenza. Se il carattere del desiderio, e la sua physis più profonda, erano, proprio da Dante, stati indicati nella sua difettività, nella «privazione», nella strutturale mancanza di ciò di cui, appunto, il desiderio era il desiderio, come mai questo carattere e questa physis avrebbero cessato di essere quel che erano solo perché altro era la ricchezza, altro la scienza? Il trasferimento della questione dal piano del soggetto a quello dell’oggetto importava in realtà la grave conseguenza del differenziarsi dell’unico desiderio in due diversi desideri: uno, quello relativo alla ricchezza, caratterizzato dalla pri-
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vazione per la quale non poteva conseguire la perfezione, l’altro di volta in volta appagato nell’acquisizione di una scienza determinata. Ma, a parte che era pur sempre al desiderio che si sarebbe dovuta attribuire la ragione del passaggio da un’acquisizione scientifica a un’altra, di cui si trovava a essere privo ed era perciò il desiderio, restava che una, per Dante, era la natura del desiderio, e che unitaria occorreva perciò che ne fosse la definizione. Ma qui il desiderio si sdoppiava; e le definizioni, per conseguenza, avrebbero dovuto esserne due. Si dava una seconda ragione; che sarebbe emersa con chiarezza se si fosse considerato il nodo costituito dall’idea del perfezionamento della perfezione (la «perfezione maggiore» di cui si parla a IV xiii 2), che, per risolvere la difficoltà, Dante aveva messa in campo e che, con tutta evidenza, invece di risolverla, la riproduceva intatta. La pretesa che la catena formata dalle perfezioni che si aggiungono le une alle altre esibisse, in ciascuno dei suoi anelli, la perfezione, non era infatti niente più che una pretesa, perché incompatibile con l’idea della perfezione presente in ciascuno degli anelli era quella della perfettibilità della perfezione. Dalle due alternative che qui si erano delineate non era infatti possibile trarsi fuori con l’assumerle entrambe come se, l’una essendo coerente all’altra, la scelta fra le due non fosse una scelta e non ponesse la relativa questione. O l’una infatti, o l’altra. O in ciascuno degli anelli la perfezione era quel che, rigorosamente assunto, il relativo concetto comportava. E allora, in ciascuno degli anelli, non si dava se non lo stesso, e cioè la medesima perfezione, che non era perfettibile (e la catena, se a formarla era di necessità il perfezionamento delle perfezioni, e questo era incompatibile con il concetto della perfezione, era essa stessa inconcepibile). Oppure, non era vero che in ciascuno degli anelli la perfezione fosse la perfezione, perché erano perfezioni via via più perfette quelle che costituivano, e formavano così, una (diseguale) catena. E allora nemmeno era vero che, di volta in volta, attraverso il desiderio, la scienza attingesse nella mente la sua propria perfezione: in modo tale che (senza entrare qui nella questione della sua possibilità) fosse una catena costituita da perfezioni perfette quella che in tal modo veniva a determinarsi. Insomma, e giova ripeterlo: se la perfezione era concepita come una totalità non aumentabile, che si desse la serie, e, con questa, l’idea dell’incremento, era impossibile. Se a darsi fossero state la serie e l’incremento che la costituiva, sarebbe stato impossibile che, lungo le fasi della costituzione della serie, si desse la perfezione: una perfezione, s’intende dire, che, essendo tale, non fosse a sua volta aumentabile, incrementabile e, perciò, perfezionabile.
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Se questo è il punto della questione, due sono allora le considerazioni che questo testo cruciale ancora suggerisce e richiede. La prima, e la più importante, è che la replica opposta da Dante all’ultima «calunnia» dell’avversario non era sul serio, e meglio ora lo vedremo, stringente. La seconda, essenziale senza dubbio sotto molti rispetti, è che la ricerca e il ritrovamento delle «fonti» alle quali Dante aveva attinto per costruire la sua teoria del desiderio, non sono di per sé sufficienti a risolvere le tensioni e ad appianare le difficoltà. Se, nell’indicare in Tommaso d’Aquino l’unico vero ispiratore della teoria dantesca, Busnelli e Vandelli123 ebbero meno ragione di quanta non ne avesse Nardi124 nel suggerire la derivazione da Averroè (del resto esplicitamente citato a IV xiii 8), sta di fatto che, nei termini in cui si presentava in questo testo, la questione appariva filosoficamente irrisolta. E, occorre riconoscerlo, alquanto deludente si sarebbe rivelata la soluzione che Dante tornò a proporre nel luogo in cui, subito dopo aver citato il Commentatore, disse di Aristotele (ma si trattava in realtà di Tommaso d’Aquino) e di Simonide poeta,125 e ammonì che l’«uomo si dee traere alle divine cose quanto può», perché «a certo fine bada la nostra potenza», per ribadire infine, anche lungo questa via, che «per qualunque modo lo desiderare della scienza si prende, o generalmente o particularmente, a perfezione viene». Ne conseguiva che essa, la scienza, aveva «perfetta e nobile perfezione, e per suo desiderio sua perfezione non perde come le maladette ricchezze». La soluzione proposta, o riproposta, era impropria perché il ritorno alla tesi della perfetta congruenza del desiderio alla cosa che da quello fosse stato conseguibile ribadiva un concetto che, non che spegnere, aveva contribuito a rendere più acuti i dubbi che Dante chiudeva dentro di sé. E lasciando ora da parte la questione posta dalle citazioni di Aristotele e di Simonide, che in tutto e per tutto non sono chiare e richiederebbero di essere discusse a parte,126 deve pur osservarsi che c’è qualcosa in questo testo che ulteriormente contribuisce a rendere incerto il profilo teoretico dell’analisi. Lo si scopre senza eccessivo sforzo se si pone mente al passo qui citato di Paolo; che nella versione dantesca suona «non più sapere che si convenga, ma sapere a misura», nella vulgata latina «non plus sapere quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem», e, più efficacemente, nel greco μὴ ὑπερφρονεῖν παρ’ ὃ δεῖ φρονεῖν, ἀλλὰ φρονεῖν εἰς τὸ σωφρονεῖν.127 Con il suo richiamo alla prudenza, alla saggezza, al senso della misura, e alla necessità che il desiderio ne fosse controllato e tenuto a freno, per renderlo sul serio conforme alla sua propria razionalità, questo testo esige-
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va che nel congegno razionale della natura si introducesse e, si facesse sì che operasse un elemento estraneo, di ordine morale e psicologico, e non appartenente, dunque, alla sua specifica e obiettiva tessitura. Era come se nella natura si fosse riconosciuta la tendenza all’errore e alla deviazione, all’eccesso e alla dismisura; e che occorresse perciò far intervenire qualcosa che, integrandola, anche la correggesse. Il che era certo contraddittorio. Se la natura era perfezione, congruenza con sé dei suoi elementi costitutivi, pensare che potesse deviare dal suo ordine significava far cadere sul discorso che la concerneva il peso rappresentato dalla flessione della coerenza ontologica che si pretendeva, di quando in quando, di riconoscere in essa. Fra legge, ossia razionalità, e errore non poteva, in assoluto, esservi, non si dice accordo, ma nemmeno compossibilità all’interno di un ordine unitario. Eppure, all’errore era necessario far ricorso se si voleva spiegare come mai il desiderio, che, nella sua più radicale formulazione, poiché si definiva attraverso la privazione e la tendenza all’oltre, alludeva a qualcosa come a un costitutivo disordine e, perciò, all’errore, ponesse l’esigenza del controllo a cui doveva essere sottoposto. Può cogliersi qui l’analogia che, nella diversità delle loro passioni e dei rispettivi ambiti penitenziali, sussiste fra il personaggio di Ulisse e quello di Francesca da Rimini.128 Questa analogia è visibile non solo perché, al pari di Ulisse e, in parte, di Ugolino, l’uno legato a Diomede, l’altro all’arcivescovo Ruggieri, Francesca è il solo altro personaggio che, nell’Inferno, sia per sempre unito a quello con cui aveva condiviso in vita il suo destino di morte. È visibile, in realtà, in qualcosa di assai più profondo e intrinseco. Facendo che, nel narrare la sua storia di amore e di morte, Francesca non si restringesse a farne la cronaca, ma la interpretasse bensì attraverso l’esposizione di una compiuta teoria della irresistibilità dell’amore, e della conseguente sua irriducibilità al controllo dell’intelletto, Dante pose, se così potesse dirsi, una questione di «fonti», che affidò all’intelligenza dal lettore. Al quale sarebbe infatti spettato di comprendere, non solo che, con il racconto della sua vicenda e con la teoria e fenomenologia dell’amore che vi erano delineate, Francesca si presentava come insieme la testimone e la vittima dei pensieri che, in forma estremistica, Cavalcanti aveva esposti in Donna me prega, ma anche che se, all’amore come al desiderio, un freno non fosse stato posto da qualcosa di ulteriore e superiore alla loro natura, ineluttabilmente quelli avrebbero svolte le distruttive conseguenze che erano implicite
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nella loro natura. Il che implicava il riconoscimento che, considerati in questa, l’amore e il desiderio non avevano in sé, ma fuori di sé, il freno che potesse contenerne le rovinose tendenze. Per quanto riguarda Francesca, la correzione che Dante arrecò alla sua dottrina dell’amore si trova nella seconda parte (vv. 76-139) del canto decimosettimo del Purgatorio e nella prima del successivo (vv. 1-75); e poiché altrove se ne trattò con qualche larghezza,129 basti qui aver accennato alle ragioni per le quali parlare dell’analogia che si riscontra fra il suo personaggio e quello di Ulisse è, non solo possibile, ma necessario. Per sforzi che avesse compiuti, Dante non era dunque riuscito a saldare insieme, in un nesso coerente, i temi, in realtà contrastanti, che, quando delineava il concetto del desiderio, gli s’intrecciavano nella mente. Non ci riuscì, del resto, nemmeno nelle famose terzine che, nel quarto canto del Paradiso, dedicò alla ripresa di questo tema: Io veggio ben che già mai non si sazia nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si spazia. Posasi in esso come fera in lustra tosto che giunto l’ha, e giugner puollo: se non ciascun disio sarebbe frustra. Nasce per quello, a guisa di rampollo, a pié del vero il dubbio; ed è natura ch’al sommo pinge noi di collo in collo.130
Anche qui infatti, proprio com’era accaduto nel quarto trattato del Convivio, era vero, certamente, che di volta in volta il desiderio trovava la sua realizzazione, e che molti erano i desideri che, senza essere invano e succedendosi l’uno all’altro, formavano un’aurea catena. Ma vero era anche che, come «a pié del vero» sorge, «a guisa di rampollo», il dubbio dal quale, «di collo in collo», il pensiero è spinto in alto, più in alto, verso il sommo, così anche qui si dava un «più alto» che teneva dietro a un «più basso»: un «più alto» e un «più basso» che, ineluttabilmente, ponevano in essere un paragone e dispiegavano una gerarchia: in ragione della quale sarebbe stato vano, e anche assurdo, pretendere che, ciascuno nel suo ambito, si equivalessero nel segno della perfezione. Se questo invece si fosse ammesso, si sarebbe dato un dubbio che, risolvendosi, avrebbe consentito la definitiva conquista di una meta non più perfezionabile. Ma il dubbio era, per un altro verso, considerato ineliminabile. E il dubbio che altro era se
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non la presa d’atto di una possibile inadeguatezza che, quand’anche avesse resistito a esser considerata tale, non per questo quello avrebbe mai potuto rinunziare a sé stesso e, una volta per tutte, passare nel suo contrario? XI Se questi vari, e non concordi, elementi siano osservati con qualche attenzione nell’intreccio in cui agiscono e si rivelano presenti, subito risulterà evidente fino a che punto l’episodio di Ulisse, e la costruzione drammatica del suo personaggio, ne siano sottesi. Nel segno, deve aggiungersi e confermarsi, non, in primo luogo, dell’eroismo, della virtù, dell’amore inesausto del sapere, del conoscere, dell’esperire il mai visto e udito, ma della perplessità e della sospensione del giudizio, dell’attonita e perplessa meraviglia che predominano nel racconto e al personaggio conferiscono il suo particolare colore, la sua remota e inavvicinabile grandezza. Non si va lontano dal vero se si dice che, fra i grandi personaggi dell’Inferno, Ulisse è il più inaccessibile a ogni forma di confidenza, il più severo nel custodire in sé il segreto della sua personalità: come del resto appare con chiarezza dal suo racconto, nel quale egli si mostrò impegnato, non nel rinnovare a sé stesso il comando che gli era venuto dalla virtù e dalla conoscenza e nel comunicare le sue sensazioni di allora, ma nell’osservare con impassibile obiettività le conseguenze che ne erano derivate, con i giorni che si succedevano ai giorni su quel mare che, in una sorta di livido stupore ontologico, era sempre uguale nell’esser nuovo: proprio come poi sarebbe accaduta della fiamma in cui era stato collocato con Diomede, e che, nel rinnovarsi a ogni istante, non era che sé stessa. Era come se, con l’epico distacco, con la terribile e insieme dolente obiettività del suo racconto, il personaggio ponesse sé stesso dinanzi al suo dramma, alle conseguenze del suo gesto; e da protagonista se ne facesse spettatore, per osservare dal di fuori gli elementi che ne componevano la trama e ne costituivano il senso, che ancora adesso era come se, tuttavia, gli sfuggisse: quasi che, senza per altro attendere lui la risposta alla domanda che implicitamente poneva, ai suoi interlocutori avesse chiesto che fossero loro a spiegare come mai la sua sete d’esperienza lo avesse condotto a morire nelle acque, all’improvviso fattesi nemiche, di un mare sconosciuto. Se è così, è perciò un paradosso soltanto apparente quello che si delinea quando si dice che Ulisse nacque fra i ragionamenti che per lungo tempo
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avevano impegnato la mente di Dante intorno alla questione del desiderio. È un paradosso apparente dire che il personaggio prese vita dalla passione che quelli accendevano nell’animo del filosofo/poeta che lo indagava, dallo scatto improvviso e imperioso che nella sua fantasia si produsse mentre, appunto, era intento a svolgere i temi connessi al concetto del desiderio e a soffrirne le difficoltà. È un paradosso soltanto apparente. E la questione è di capire quale, soprattutto, fra i temi che egli elaborò e che, nella sua teoria del desiderio, non giunsero a comporsi in unità, andasse a segnare il suo volto; quale tonalità del desiderio prevalesse in lui che, come personaggio, intanto era venuto al mondo. A prevalere non furono il tema e la tonalità in ragione dei quali il desiderio era bensì il desiderio, era bensì inquietudine e ricerca, ma segnato tuttavia da un limite che era anche il criterio della sua interna misura e del suo adeguarsi a questa. A prevalere non fu l’idea, in forza della quale la naturale autonomia del desiderio subisce il limite impostole dalla ragione illuminata dalla grazia. A prevalere non fu l’idea che, nell’«oltre», non indica un «oltre», ma ciò che, conseguito, realizza il desiderio e spegne la sua sete. Non fu questo, insomma, il desiderio che, al di là delle colonne d’Ercole, impose a Ulisse la decisione di spingere la nave sulle acque del mare che nessuno mai aveva navigato. Ma fu bensì l’altro che, nella riflessione di Dante, si era presentato come l’impulso irresistibile ad andare oltre il segno, e poi ancora oltre quello, senza nessuna possibilità che la soddisfazione ottenuta in un punto potesse spegnere la sete del nuovo, che rinasceva da sé stessa e al desiderio non dava tregua. Se è così, e questo fu il desiderio, questa fu la qualità del desiderio, da cui Ulisse fu insieme nobilitato e travolto, allora può meglio comprendersi perché qui su si dicesse che, dalla sua potenza e irresistibilità, egli fu comunque reso innocente. Può comprendersi perché potesse aggiungersi che fu proprio la grazia, che a lui, pagano, non concesse quel che intanto concedeva al pagano Enea, a far sì che del suo estremo gesto egli fosse reso irresponsabile nell’atto in cui ne era condannato: quasi che anche a lui potesse, e con buone ragioni, essere riferito l’antico ducunt volents fata, nolentes trahunt;131 e tanto più in quanto, nel segno dell’ananke, fra il velle e il nolle nessuna differenza i fati consentivano che sussistesse e si affermasse. Nel luogo simbolico di questa indistinzione si rende comprensibile il legame che, nel suo esito estremo, lega il desiderio alla «follia»;132 che sarà quindi da intendere, non come un banale attributo del soggetto, ma come il segno di un’infrazione subìta dalla natura, come un vulnus che essa pativa e a cui, inesorabilmente, poneva riparo. Come e perché questa anan-
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ke si determinasse con il suo segno negativo all’interno di un ordine che non avrebbe dovuto consentirne l’insorgere, è difficile dire. È difficile dire, ossia spiegare con razionali ragioni, perché ciò che è naturale subisse a volte in sé il violento contraccolpo dell’errore, al quale, con pari violenza, poneva rimedio: proprio come il mare che, dopo essere stato sconvolto dal «turbo» proveniente dalla montagna «bruna», subito si ricompose sopra la nave che si inabissava. O, meglio, lo sarebbe se la ragione di questo dissidio che, beninteso, dopo essere stato spiegato restava quale era, non stesse nella impossibile conciliazione, della quale già si è parlato, della idea aristotelica della natura con quella cristiana. Alla radice del personaggio che, vivo, era balzato fuori da questi ragionamenti, e dal disagio logico che li segnava, stavano appunto questi ragionamenti, stava questo disagio; come se, nella mente di Dante, prima che nella sua fantasia, egli si fosse atteggiato come il simbolo del problematico accordo, e anzi del disaccordo, in cui talvolta la natura e la grazia si trovavano l’una nei confronti dell’altra: fra la natura che, pensata aristotelicamente, è nell’intrinseco estranea all’idea della grazia, e la natura che, pensata nel segno della corruzione inflittale dalla colpa di Adamo, non lo è meno all’idea greca. Forse si capisce meglio il multiforme personaggio che nacque da questi ragionamenti e si alimentò del conflitto di cui rendevano testimonianza, se, assumendolo come il simbolo per eccellenza di ciò che nel mondo di quaggiù è il desiderio, si va, per contrasto, alla domanda che, nel terzo canto del Paradiso, uomo pur sempre di questa terra, Dante rivolse a Piccarda Donati. «Ma dimmi», le chiese, «voi che siete qui felici/ disiderate voi più alto loco/ per più vedere e per più farvi amici?». La risposta non avrebbe potuto essere più netta: «frate, la nostra volontà quieta/ virtù di carità, che fa volerne/ sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta».133 Con più forza, attraverso la differenza stabilita fra ciò che è umano e ciò che è divino, questa risposta non avrebbe potuto far risaltare la vanità del tentativo volto a rendere il desiderio, qui giù in terra, proporzionato alla possibilità di essere realizzato; né meglio avrebbe potuto mostrare come dell’umano desiderare il simbolo fosse Ulisse, l’eroe dell’ananke e dell’inconseguibile «oltre». A due rapide considerazioni si deve ancora, prima di concludere, concedere spazio. La prima riguarda il viaggio di Dante, che tante volte, e senza dubbio a ragione, è stato contrapposto a quello di Ulisse come ciò che procede verso l’alto si contrappone a ciò che va giù nella direzione dell’abisso. In effetti, il viaggio di Dante ha il suo inizio in un luogo simbolico, la selva, che
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rischiava fortemente di apparire come l’analogon dell’Oceano inviolabile, e che tale non fu solo perché la grazia divina intervenne, nei modi noti, a salvare colui che stava per perdervisi. Può darsi che, evocando la selva del suo smarrimento, Dante alludesse altresì a essa, che era il simbolo del peccato, come se in sé stessa rinviasse a un altro simbolo, rintracciabile nel significato che le si attribuiva di «materia prima» (silva= ὕλη):134 nel qual caso, a parte la difficoltà concettuale che la presenza, in essa, di un individuo avrebbe arrecata all’idea dell’«informe», e all’altra che, viceversa, avrebbe riguardato l’individuo, che non avrebbe potuto esser tale se non si fosse data se non la materia, – a parte queste, che sono comunque difficoltà tecniche, resterebbe che, nei modi noti, fu la grazia di Dio a trarlo fuori di lì e ad avviarlo sulla via della purificazione e della redenzione. Il che del resto, è ovvio, e fu più volte notato. Si avrebbe torto, tuttavia, se si ritenesse che, mentre viaggiava nella direzione di Beatrice, e quindi, con l’aiuto di questa e poi di san Bernardo, in quella ulteriore di Dio, al di fuori della fictio della Commedia ai suoi passati «errori» Dante guardasse con il distacco che gli era imposto dalle nuove convinzioni subentrate alle antiche. La rappresentazione allegorica, o simbolica, di questo avvenuto distacco è, senza dubbio, un elemento del dramma. Ma il dramma era una costruzione di Dante, nella quale egli era per intero involto; ed era, nella sua radice, assai più complesso, e di tanto meno lineare, di quanto la sua particolare rappresentazione non lasci supporre. Solo chi non considerasse che il così detto «traviamento» morale è, per come appare nella Commedia, una reinterpretazione simbolico-letteraria di cose nelle quali sarebbe vano cercare un immediato, e puntuale, riscontro nella biografia di Dante,135 potrebbe ritenere che questa sia, in re, e in ogni senso, identica a quella che egli delineò, per esempio, attraverso i rimproveri mossigli da Beatrice sulla vetta del Purgatorio. Solo chi si lasciasse irretire in questo gioco allegorico e drammatico, e smarrisse il filo con il quale la grande rete fu intessuta, potrebbe sul serio ritenere che le suggestioni dell’aristotelismo, e di quello radicale ispirato ad Averroè, tacessero per sempre nell’animo di Dante dopo che egli ebbe concepita la Commedia, e che quanto fosse stato in precedenza elaborato e affermata in quel segno non avesse più alcun seguito, magari attraverso la sua stessa trasformazione, nella sua mente. In realtà, se si vuole che il canto di Ulisse rifletta anche la preoccupazione che a Dante poteva derivare dalla navigazione che egli aveva un tempo intrapresa su acque per definizione pericolose, ci si deve anche disporre a considerarla, quella preoccupazione, come appartenente, non solo al passato, ma anche al presente; dove era controllata, ma non esclusa dal mondo delle vive esperienze.
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E altresì si deve concludere che anche per questo, nella rappresentazione del grande personaggio tragico che le fonti antiche gli restituivano con le sue facce molteplici, e a volte contrastanti, egli cercò di rendere obiettiva una situazione dello spirito, che era destinata a ripresentarsi se si fosse tentato di semplicemente cancellarla. La seconda, e ultima, considerazione riguarda il «contrappasso». Si è discusso sulla sua forma. Si è chiesto quale sia, e in che consista, perché indicarlo e definirlo non è, in effetti, cosa facile. A partire dai commentatori antichi,136 e comunque poi la cosa sia stata interpretata, lo si è indicato là dove era necessario che in primo luogo stesse: nella fiamma da cui, con l’eccezione rappresentata da Ulisse e Diomede che, «dentro ad un foco», erano due, ciascun peccatore si trovava a essere fasciato.137 Non è tuttavia all’univoco significato del contrappasso, ossia al suo essere lo stesso per ciascuno dei consiglieri fraudolenti che lo patiscono nell’ottava bolgia, che l’attenzione deve ora essere diretta, ma a quello che, fermo restando il quadro di riferimento, richiede di essere contemplato nel caso specifico di Ulisse. Del quale non basta dire che, come in vita fu consumato dall’«ardore» della conoscenza, altrettanto lo è, nella bolgia che lo ospita, da un fuoco perenne; che, al pari del desiderio, brucia, in effetti, e non consuma il suo oggetto, che ne è invece conservato perché, sempre e di nuovo, possa esserne bruciato e punito. Deve, in realtà, dirsi altro; e, nel dirlo, certamente si va oltre l’intenzione specifica di Dante: si guarda, cioè, non a questa, ma a quel che, nella sua obiettività, il testo tiene come chiuso dentro di sé, e tuttavia suggerisce. La fiamma, come si sa, «invola» il peccatore che ne è bruciato («e ogne fiamma un peccatore invola» [v. 42]); nasconde nel suo cerchio colui che, in vita, si era esercitato nell’arte di nascondere le sue autentiche intenzioni dietro il velo delle parole ingannevoli.138 Ma quel che ora interessa è non soltanto di ribadire che il peccatore patisce come pena il peccato che commise in vita; che dalla fiamma non può uscire; che la fiamma è la sua prigione. Occorre andar oltre, e dire di più. Ulisse, l’eroe per eccellenza dell’«oltre», è immobilizzato dentro uno spazio breve e rovente, che gli consente bensì di camminare e di muoversi, non però, per tragico paradosso, di liberarsene, di uscire da quel cerchio fatale che, dovunque egli diriga i suoi passi, seguita a includerlo in sé, lo tiene fermo e gli preclude l’«oltre». E qui, a guardar bene, sta il senso più profondo dello specifico contrappasso che l’ulteriore colpa, obiettivamente intrinseca al «folle volo», ha determinato. Qui si delinea, e prende consistenza, il
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più profondo paradosso che questa situazione racchiuda in sé. In una delle dimensioni che la teoria dantesca vi aveva come svelata, il desiderio incontrava il suo limite, ma con il limite, la perfezione, quando, nel realizzarsi, il desiderante passava senza alcun residuo nel desiderato e qui spegneva la sua sete. In un’altra dimensione, al contrario, la teoria non poteva non constatare che il desiderio si alimentava di sé stesso, ed era impossibile che si estinguesse. A causa della sua interna costituzione, non spegneva la sua sete, non saziava la sua fame; e la mèta gli stava sempre dinanzi, stava al di là, nell’«oltre», al quale, senza poterlo raggiungere, tendeva e non poteva non tendere. A realizzarsi, nel particolare contrappasso che, nell’ottava bolgia, caratterizzava la particolare, e ulteriore, pena patita da Ulisse, era la prima di queste due situazioni. Ma trasfigurata, tuttavia, segnata, nel suo interno, da una sorta di tragica ironia. Il limite, infatti, non era qui il segno della raggiunta perfezione, nella quale il desiderio si era placato e più non si dava un «oltre» che potesse riaccenderlo e trarlo a sé. Era invece indicato come il non ultra quem costituito dal carcere infernale: dalla fiamma che, sempre alimentandosi di sé stessa, era tuttavia immobile e, in questa immobilità, teneva il peccatore come in una prigione. Si potrebbe dire, perciò, che l’inesauribilità del desiderio, la sua tendenza a rinascere senza posa da sé stesso, il suo consumarsi senza potersi consumare, – tutto questo si era trasferito nella fiamma; che aveva tutte queste caratteristiche, in effetti, e, nel contrappasso che vi dava segno di sé, nella sua insuperabilità da parte di colui che vi era racchiuso, simboleggiava bene il carattere del personaggio che, anche in vita, era stato la vittima di un’intrascendibile passione. Così, non era solo il consigliere fraudolento che, al pari di Guido da Montefeltro nella sua, bruciava nella fiamma «cornuta». Era anche l’autore del folle volo, l’eroe e la vittima del desiderio. Nel suo caso, il contrappasso andava oltre lo specifico significato che assumeva in riferimento agli altri peccatori dell’ottava bolgia. Dante, e anche questa è una peculiarità di questo luogo, ne nomina solo tre, Diomede, che a rigore è un collaboratore delle frodi, non un ideatore di queste, Ulisse che, in sé stesso, è più del suo peccato specifico, Guido da Montefeltro, che di questo è l’unico, autentico rappresentante. Si possono ora trarre le conclusioni. Ulisse non è l’uomo dell’eroismo, dell’audacia, della sfida. È l’uomo dell’ananke, la quale agisce nel desiderio, è il desiderio, la cui natura è tale che, nell’andare sempre oltre sé stesso, non può trascendere questo suo estremo carattere. Il desiderio di
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sapere, di salire in alto, l’ansia che spinse l’eroe antico a bruciare via via ogni mèta per raggiungere quella che di volta in volta si delineava bensì come l’ultima, ma anche come la non ancora sperimentata, la persuasione, comunicata a sé stesso e agli altri, che questo fosse il senso della vita e per questo occorresse viverla, – ognuna di queste dimensioni fu vista da Dante nella luce del destino, che le fondeva in sé, nel suo segno. Dall’eloquenza estrinseca, e dalla retorica in cui ciascuna di queste cose (o qualità) rischiava di naufragare, egli pervenne così all’epica, intensa sobrietà di un racconto nel quale tutto fu breve, anche l’orazione che Ulisse rivolse ai compagni per esortarli all’ultima impresa, tutto fu essenziale; e solo nel segno della necessità le parole si aggiunsero alle parole. In questa intuizione, nell’avere cioè rappresentato Ulisse come l’eroe dell’ananke, sta il significato del racconto che Dante gli mise sulle labbra. E, sorprendentemente, come si è detto, fu un significato per eccellenza greco. Senza saper nulla della lingua di Omero, senza aver letto i tragici, conoscendo l’Odissea attraverso, essenzialmente, le fonti latine, sul fondamento insomma di pochi testi, Dante intuì in Ulisse un carattere che nessuno prima di lui aveva colto con tanta profondità: nemmeno gli scrittori latini dai quali aveva tratto il meglio della sua informazione. È retorica dire così? È retorica dargli questo riconoscimento? E perché mai?
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Appendice Nota I Non è accettabile quello che, opponendosi al rilievo del Barbi e di quanti lo seguirono su questa via, fu osservato da Avalle, L’ultimo viaggio di Ulisse, pp. 60-61. Alla negazione barbiana che Ulisse avesse violato un divieto che in modo esplicito, e come tale, gli fosse stato imposto, e che per questo richiedesse di essere paragonato a Adamo e a Lucifero, – a questa negazione egli obiettò che «in realtà il “paese sconosciuto” da cui “nessuno torna vivo” si identifica molto spesso con il “paese proibito” su cui grava un tabù, un divieto trascendente» (p. 60). Il divieto trascendente di cui Avalle parlava sarà da intendere, non come qualcosa che «trascende», nel qual caso il divieto stesso non potrebbe essere percepito, compreso e, quindi, rispettato o violato, ma come qualcosa invece che, dall’alto, sia in qualche modo comunicato al basso, che da Dio sia fatto pervenire all’uomo. Il punto essenziale comunque è che, secondo Avalle e quanti condividono il suo modo di pensare, nei racconti rientranti in questo genere avventuroso si dà, è presente, una logica, che li coinvolge tutti e alla quale tutti perciò obbediscono. Se, per esempio (e per conseguenza), in questi racconti si allude a un «paese sconosciuto», necessariamente dovrà intendersi che questo sia anche un «paese proibito», segnato da un tabù e da un divieto inviolabile. Necessaria è insomma, in questi racconti, la connessione che si stabilisce fra ciò che è «sconosciuto» e ciò che è «proibito»; e inevitabile è perciò che colui che infrange il tabù e contravviene al divieto paghi con la morte il suo gesto. Ma quello verso cui Ulisse muoveva con la sua nave era, nella sua esplicita consapevolezza, un paese a tutti sconosciuto. Se era sconosciuto, era proibito. Sapendo della prima determinazione, era perciò necessario che anche della seconda Ulisse sapesse: di questa e, perciò, della sfida che, conseguentemente, egli dirigeva contro chi, in modo perentorio, quel divieto aveva posto perché, non solo se ne tenesse conto come di un consiglio, ma proprio come un divieto lo si considerasse e rispettasse. Vero è che, senza conferire rilievo alla conseguenza che pur ne emergeva, Avalle diceva che, in questi racconti, la connessione fra ciò che è «sconosciuto» e ciò che è «proibito» si stringe «molto spesso»: un’espressione che, non significando «sempre», toglie alla connessione il carattere dell’inesorabilità, e riconduce il discorso quanto meno al dubbio che fosse un divieto autentico, e da lui così considerato, quello che Ulisse si trovò di fronte. Vero è anche che, come per esempio avviene alle pp. 43-45, non sempre l’analisi concreta dei testi si rivela adeguata e tale da escludere che le eccezioni alla regola emergano e affermino i loro diritti. Il luogo del Tresor di Brunetto Latini, che più volte fu citato, e anche Avalle addusse, dice solo che «Liber, et puis Ercules, et puis Semiramis, et puis Cire firent autel, por signe qu’il avoient la terre conquise jusques la, et que plus avant n’avoit point
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de gent» (I 122, 15: ed. P. G. Beltrami, P. Squillacioti, P. Torri, S. Vatteroni, Torino 2007, p. 196). E, anche nelle linee successive, che affidiamo alla diligenza del lettore, alluse bensì a un «mondo sanza gente» che, a causa della sua desolazione e vuotezza, incuteva inquietudine e spavento. Ma non al divieto di inoltrarvisi. Ancora più chiaro, da questo punto di vista, è, del resto, il Tesoretto, vv. 1043-62, dove si legge: «ed io, ponendo mente,/ là oltre nel ponente/ appresso questo mare/ vidi diritto stare/ gran colonne, le quale/ vi pose per segnale/ Ercolès lo potente,/ per mostrare a la gente/ che loco sia finata/ la terra e terminata,/ ch’egli per forte guerra/ avea vinta la terra/ per tutto l’uccidente, e non trova più gente./ Ma doppo la sua morte/ si son gente raccorte, e sono oltre passati,/ sì che sono abitati/ di là in bel paese/ e ricco per le spese» (Poeti del Duecento, II/1, a cura di G. Contini, Milano-Napoli 1995, pp. 212-213). Nel commentare il primo di questi due luoghi (del secondo addirittura non tenne conto) Avalle non fu perciò felice. Non rilevò quel che pure vi è evidente; e cioè che, per il Latini, le colonne d’Ercole non indicavano un divieto, ma un luogo di particolare difficoltà che, come si dice nel Tesoretto, dopo la morte dell’eroe, era stato ben oltrepassato da chi poi era tornato indietro a dar notizia che, rimasta a lungo estranea all’uomo, quella terra ora era abitata e vi era sorto un «bel paese». Tanto più questi luoghi, e quello, in particolare, del Tesoretto, richiedevano di essere letti con più attenzione, quanto più si fosse considerata la possibilità, o, addirittura, la probabilità, che, nel costruire il dramma di Ulisse, Dante se ne fosse servito o li avesse comunque avuti presenti, alcune cose ritenendone, altre lasciando che cadessero. Di divieto, del resto, non si sarebbe parlato nell’Amorosa visione, XXVII 7988, dove, alludendo a Penelope in attesa del «caro Ulisse/ che dal fidel suo amor mai non fu sciolta», Boccaccio scrisse: «nella qual io le luci avendo fisse,/ fra me pensava quanto fu il desire/ di que’ che mai non cre’ che a lei redisse./ Ello, volendo del mondo esperire/ varie genti e cittati, passò il segno/ dal qual nessuno mai poté in qua redire,/ invano usando forze, invan l’ingegno». Sono versi che, indirettamente contengono una sorta di esegesi dantesca: salvo che, a differenza di quel che si legge nel ventiseiesimo dell’Inferno, dove, di un ritorno a Itaca, da cui Ulisse sarebbe partito per il suo ultimo viaggio, non si parla, Boccaccio dette prova di aver appreso qualcosa di quel che del resto è scritto nell’Odissea, e cioè del suo ritorno e, quindi, della nuova partenza per un viaggio che sarebbe, quello sì, stato l’ultimo. Che poi al ritorno in patria prima dell’ultima partenza da essa Boccaccio non «credesse», è prova che ne era comunque informato. Se non si intendesse così, fra il v. 83 e i vv. 86-87, si darebbe un’inspiegabile incongruenza. Di divieto non si parla nemmeno nel Dittamondo di Fazio degli Uberti, dove, per esempio, I vi 94-6 Corsi, si legge:«la voglia stringi e lascia dir chi vole,/ se tu giungi a la stretta di Sibilia:/ che qual giù passa spesso se ne dole», e a I x 56-60 si ribadisce: «Galizia truovo al fine de la terra; truovo la stretta, dove Ercules segna/ che qual passa più là il cammin erra»; e di divieto, e conseguente punizione, non si era parlato nem-
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meno nel Mare amoroso, vv. 228-31 Contini (I 1, 495-96): «infin ch’i mi vedrei oltre quel braccio/ che fie chiamato il braccio di Saufì per tutta gente,/ ch’ha scritto in su la man: “nimo ci passi”,/ per ciò che di qua mai non torna chi di là passa»: per non dire poi dei testi addotti da Avalle, nei quali si afferma bensì che nessuno che abbia oltrepassato le colonne d’Ercole è tornato vivo, ma non perciò si assume che la morte fosse rigida conseguenza del tabù infranto. Fazio degli Uberti è del resto, su questo punto, meno rigido dell’autore dell’Amorosa visione e dell’altro del Mare amoroso: ma, nella sostanza, la cosa resta la stessa. Deve, se è così, ricavarsene la conseguenza che in questi testi è implicita. E cioè che l’indicazione di un pericolo, anche mortale, non essendo necessariamente la stessa cosa dell’imposizione di un divieto divino, fra questi testi e quello di Dante c’è bensì, altezza poetica a parte, sostanziale omogeneità. Ma solo perché, come in quelli, così anche nel ventiseiesimo dell’Inferno, l’indicazione che Ercole aveva data di un grave rischio presupponeva un consiglio, non un divieto, e non c’è luogo in esso da cui possa dedursi che ciò che è «sconosciuto» fosse, per sé stesso e in quanto tale, anche «proibito». Di questa connessione non s’incontra, nel ventiseiesimo canto, alcun indizio. Non dichiarata durante il racconto e non operante perciò, come cosa negata, nella coscienza di Ulisse, la connessione dello «sconosciuto» e del «proibito» non si rivelò se non alla fine attraverso l’improvviso insorgere e manifestarsi della forza misteriosa («altrui») che mise fine al «folle volo». E, a questo riguardo, sia consentita ancora un’osservazione. Di Lucifero, consapevole trasgressore del limite posto da Dio, Dante non disse mai che, in quel che fece, fosse «folle», anche se quel predicato non sconvenisse al suo soggetto. Di lui essenzialmente mise in rilievo la metabasis dell’originaria bellezza (Inf. XXXIV 18: «la creatura ch’ebbe il bel sembiante») e nobiltà (Purg. XII 25-27: «vedea colui che fu nobil creato/ più ch’altra creatura, giù dal cielo/ folgoreggiando scender, da l’un lato») in superbia (Par. XIX 46-48:«e ciò fa certo che ’l primo superbo/ che fu la somma d’ogne creatura,/ per non aspettar lume, cadde acerbo»: e cfr. XXIX 55-57: «principio del cader fu il maladetto/ superbir di colui che tu vedesti/ da tutti i pesi del mondo costretto») e in invidia (Par. IX 127-29: «la tua città, che di colui è pianta/ che pria volse le spalle al suo fattore/ e di cui è la ’nvidia tanto pianta»); e nelle sue tre facce i commentatori antichi, e fra questi Pietro Alighieri, videro una sorta di deformazione della trinità divina. Di Adamo, fra le molte in cui ne parlò, una sola volta mise in rilievo la «follia» (Par. VII 85-92: «vostra natura, quando peccò tota/ nel seme suo, da queste dignitadi,/ come di paradiso, fu remota;/ né ricovrar potìensi, se tu badi/ ben sottilmente, per alcuna via,/ sanza passar per un di questi guadi:/ o che Dio solo per sua cortesia/ dimesso avesse, o che l’uom per sé isso/ avesse sodisfatto a sua follia»). Con il che vuole dirsi non che, a causa di quella sola occorrenza, al termine non debba assegnarsi il valore che invece ha e che il primo uomo non fosse stato «folle», come anche del resto il primo angelo, a voler trasgredire il divieto di Dio. Ma si vuole dire bensì che, per Adamo come per Lucifero, la follia coincideva con
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la consapevolezza della trasgressione che quelli stavano mettendo in atto. E vi coincideva inoltre in modo originario, tanto che il peccato suo, come quello di Lucifero, essendo come l’archetipo di ogni altro successivo peccato, sarebbe teologicamente assurdo ricondurre questi sullo stesso piano di quello, e stabilire analogie che significassero come identità. Per alcune questioni concernenti il loro rapporto, rinvio infra al mio saggio Ulisse e Adamo. Nota II È possibile che Dante avesse letto in Seneca, ep. 88, 7-8, delle voci, o delle leggende, che già nell’antichità avevano preso a circolare sui viaggi di Ulisse; e di lì avesse tratta la materia della sua invenzione relativa al luogo in cui, «perduto», l’antico eroe era andato a morire. È evidente infatti che se a lui era noto quel che anche lo era, o lo sarebbe stato, al figlio Pietro, che ne leggeva nei romanzi di Ditti e Darete, e cioè che Ulisse era stato ucciso da Telegono, il figlio da lui avuto da Circe, di questa leggenda, e della banale favola che ne era stata tramandata, Dante si disinteressò, e forse la ritenne addirittura indegna del personaggio altamente tragico che gli si era via via venuto delineando nella fantasia e nella mente. Si veda, dunque, il passo di Seneca: Quaeris, Ulixes ubi erraverit, potius quam efficias, ne nos semper erremus? Non vacat audire, utrum inter Italiam et Siciliam iactatus sit an extra notum nobis orbem, neque enim potuit in tam angusto error esse tam longus; tempestates nos animi cotidie iactant et nequitia in omnia Ulixis mala impellit. Non deest forma, quae sollicitet oculos, non hostis. hinc monstra effera et humano cruore gaudentia, hinc insidiosa blandimenta aurium, hinc naufragia et tot varietates malorum. hoc me doce, quomodo patriam amem, quomodo uxorem, quomodo patrem, quomodo ad haec tam honesta vel naufragus navigem.
Che in questo luogo, secondo un modulo critico ed ermeneutico che in lui si rivelò costante, e che consisteva nel trasferire nel centro dell’animo, per qui valutarle, le tempeste a cui la natura fa da solenne teatro, Seneca svalutasse la questione che gli era stata posta, e non di Ulisse, non di Penelope, della quale parlò subito dopo («quid inquiris, an Penolope [in]pudica fuerit, an verba saeculo suo dederit?»), è in questo caso meno importante di quel che, appunto, desiderava che passasse in secondo piano e fosse trascurato. Erano infatti proprio le vicende di Ulisse, e le varie leggende che, come ho detto, già al suo tempo dovevano essersi formate intorno ai luoghi delle sue peregrinazioni, a tener vivo l’interesse dello studioso del ventiseiesimo canto; che potrebbe infatti esserne indotto a ritenere che di qui, o anche di qui, Dante avesse preso lo spunto per la sua invenzione. Non fu forse Seneca a porre la questione, che, per un altro verso, pur giudicava futile e irrilevante, se Ulisse avesse faticosamente navigato fra l’Italia e la Sicilia, o addirittura si fosse perduto in un mondo sconosciuto?
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Non per questo sarebbe ragionevole congettura quella di chi ritenesse che, nell’alludere a questi viaggi, Seneca avesse direttamente tenuto presente il famoso discorso profetico che nel libro Λ dell’Odissea, il libro della famosa Nékyia, Tiresia rivolse all’eroe che, per ascoltarlo e sapere del suo destino, si era spinto fin sulla soglia del regno dei morti. Nella celebre scena, fra le altre cose che Tiresia gli profetizzò, Ulisse (Odìsseo) aveva appreso che, dopo l’agognato ritorno a Itaca, a lui sarebbe fatalmente accaduto di riprendere il mare e quindi di fare di nuovo ritorno in patria, dove la morte lo avrebbe colto. Di tutto questo, in effetti, Seneca non parlò; né sarebbe possibile dire che vi avesse alluso e che, cogliendo l’allusione, Dante fosse venuto a sapere quel che forse anche altre fonti avrebbero potuto avergli reso noto. In effetti, non è nel discorso di Tiresia e negli altri luoghi dell’Odissea in cui si fa menzione della sua profezia e del contenuto della medesima, che, indirettamente, Seneca avrebbe potuto leggere che, dopo essere tornato a Itaca, Ulisse si era rimesso in viaggio per sparire in un mare sconosciuto. Non è in una sua, di fatto inesistente, allusione implicita, che Dante avrebbe perciò potuto trovare quel che la sua fantasia richiedeva: ossia la notizia di quella morte per mare. Né Seneca nell’Odissea, né Dante in lui, avrebbero potuto trovare quella notizia: per la semplice ragione che non fu Omero a suggerire che quello fosse stato l’estremo destino dell’eroe πολύτροπους. Poiché l’equivoco è fastidioso, ci si metta sotto gli occhi il passo che, nel discorso di Tiresia, interessa questo aspetto della questione; e si leggano perciò i vv. 119-37. Vi si troverà che, tornato a casa dalla lunga avventura seguita alla distruzione di Troia, con l’inganno e la violenza Ulisse avrebbe ucciso i proci, ἄνδρας ὑπερφιάλους, uomini prepotenti spadroneggianti nella sua casa e attentanti alla virtù della sua sposa. Ma poi, preso il docile remo, avrebbe di nuovo dovuto viaggiare finché non fosse giunto presso uomini ignari di mare (οὐκ ἴσασι θάλασσαν), che non si nutrono di cibi salati, che non conoscono νέας φοινικοπαρήους, navi immaginosamente definite mediante il paragone con le rosse gote, e neppure i maneggevoli remi, che per quelle sono ali (τὰ τε πτερὰ νηυσὶ πέλονται): dove, fra parentesi, andrà notato che, se il famoso «de’ remi facemmo ali al folle volo» derivò a Dante da Virgilio (aen. 6, 19 remigium alarum), quest’ultimo proprio da Omero potrebbe averlo derivato (è un’indicazione che converrà aggiungere all’elegante saggio di E. Raimondi, Per un’immagine dantesca (1967), in Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca, Torino 1970, pp. 31-37). Di questo viaggio, che s’intuisce si sarebbe svolto in terre sconosciute, abitate da genti sconosciute, naturalmente, anch’esse, non potrebbe tuttavia dirsi che sarebbe stato l’ultimo al quale i fati avrebbero costretto lo stanco eroe. Chi così dicesse, per fretta o altra negligenza di lettura, fraintenderebbe il senso, e sopra tutto, il contenuto della profezia di Tiresia; che proseguiva infatti con l’affermazione che, quando Ulisse avesse incontrato un viandante che, incapace di riconoscerlo, avesse scambiato il suo remo per un ventilabro, allora, e non prima, sarebbe giunto per lui il momento di far ritorno in patria. Consapevole di
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ciò, Ulisse avrebbe a quel punto piantato il suo remo in terra, e, dopo aver sacrificato a Poseidone, avrebbe fatto ritorno a Itaca dove, vecchio ormai, ma sereno, e avendo intorno a sé popoli ricchi, finalmente sarebbe stato visitato dalla morte che, ἐξ ἀλός, «fuori (o lontano) da mare», lo avrebbe preso con sé. Ebbene, soltanto chi non avesse in alcun modo tenuto conto del succedersi degli eventi profetizzati da Tiresia, e si fosse perciò guardato dal prospettarli nel relativo contesto, potrebbe intendere che a Ulisse la morte sarebbe infine venuta dal mare, e cioè che questa lo avrebbe afferrato mentre, ancora una volta, era impegnato a navigarlo e a sfidarne la potenza. Ἐξ ἀλός può, senza dubbio, avere questo significato di provenienza, come, per esempio, in ω 55 μήτηρ ἐξ ἀλός, etc.; ed è il contesto a determinare, qui, il significato di ἐξ che, in quello assai diverso che abbiamo sott’occhio, non può essere inteso come un «da», non può indicare la provenienza. La profezia diceva che, vecchissimo, ma splendente in questa sua età, circondato inoltre da genti ricche e felici, Ulisse avrebbe vissuto i suoi ultimi momenti sulla sua isola, «fuori del mare», o anche «lontano» da esso, nel senso che non ne è la vittima e la preda chi comunque poggi il piede sulla terra ferma. Così intese G.A. Privitera nella sua eccellente versione dell’Odissea, III, Milano 1983, p. 105 (e così aveva già interpretato il testo N. Festa nella sua, Palermo 1925, p. 204): cfr. al riguardo il commento di A. Heubeck, III, 272-73, e quindi E. Schwartz, Die Odyssee, München 1924, pp. 140-41, e, soprattutto, K. Reinhardt, Die Abenteuer des Odysseus, in Tradition und Geist, a cura di C. Becker, Göttingen 1960, p. 131, che da tempo hanno risolto nell’unico senso possibile il dubbio che Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 20, è tornato di recente a proporsi, lasciandolo insoluto. Debbo infine rilevare che, senza invece sollevare alcun dubbio, A.M. Babbi, L’Ulisse medievale tra romanzo e allegoria, in Ulisse da Omero a Pascal Quignard, a cura di A.M. Babbi e V. Zardini, Verona 2000, p. 1678, ha inteso ἐξ ἀλός nel senso che a Ulisse la morte sarebbe venuta dal mare; e poeticamente, ma in modo inattendibile, ha parlato, per lui, di «morte per acqua». Il che non le sarebbe per certo accaduto se, oltre la profezia, per altro chiarissima, di Tiresia, avesse riscontrato φ 260-61, dove a Penelope Ulisse confida quel che l’indovino gli aveva predetto. Nello stesso senso, e a torto, M. Corti, Percorsi dell’invenzione, Torino 1993, p. 128, ribadito in Dante e la cultura islamica, in Il Dante di Sapegno nella critica del Novecento, Torino 2002, p. 23. Nota III Ho detto qui su, nel testo, che Ulisse nacque fra i ragionamenti che Dante aveva svolti nel Convivio, e seguitò a svolgere nella Commedia, intorno al tema del desiderio. Vi nacque per conferire risalto rappresentativo e evidenza drammatica a una delle dimensioni interne alla teoria che ne aveva delineata: quella per la quale, lungi dall’essere proporzionato alla sua possibile realizzabilità, il desiderio
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andava, restando fermo in sé stesso, oltre sé stesso, ed essendo perciò sempre, e anche non essendo, il desiderio che era. Debbo aggiungere che, quale che sia il suo valore intrinseco, la formula non è stata escogitata da me, né mi è venuta da uno dei tanti studiosi di Dante che mi fosse occorso di leggere. Ma mi venne bensì da un piccolo, e aureo, libro di molti anni fa, nel quale un sottile studioso del Manzoni, Angelandrea Zottoli, sostenne che don Abbondio era venuto al mondo mentre, impegnato a scrivere le Osservazioni sulla morale cattolica, il suo autore si era altresì involto in ragionamenti che, in quanto tali, non lo soddisfacevano, perché in realtà solo a una cosa erano, nel profondo, diretti, e cioè a far nascere un personaggio che della prudenza, dell’estrema prudenza, dell’elusione la più ingegnosa di ogni rischio, dell’esercizio esclusivo e quasi eroico dell’arte del sopravvivere, si era fatto un abito, ma soprattutto, quasi a ricavarne maggior sicurezza, aveva delineato un compiuto sistema (A. Zottoli, Il sistema di don Abbondio, Bari 1933). Che la formula mi fosse stata suggerita da questo libro, e nascesse dal suo grato ricordo, non è, dopo tutto, cosa che possa sorprendere. Per questo critico avevo sempre avuto una forte predilezione; e mi sorrideva l’idea che a me stesse accadendo di avvertire in Dante un movimento di pensieri, di dubbi, di riflessioni, analogo a quello da cui, a suo giudizio, sarebbe nato il personaggio di don Abbondio. Tanto più la cosa mi parve notevole, in quanto, mentre dai ragionamenti di Manzoni nasceva e prendeva forma un purissimo eroe della paura, da quelli di Dante veniva fuori Ulisse, ossia il personaggio che, quanto l’altro sarebbe stato abile nell’evitare i pericoli, altrettanto era stato insuperabile nell’inventarli. La legge dei contrari aveva dato, nel caso specifico, buona prova di sé. Non importa infatti che, vivendo in un’epoca di ferro, il fragile don Abbondio poco mancò che facesse una fine altrettanto tragica di quella di Ulisse, e lui pure sparisse in una «iliade di guai». Non importa che l’analogia dei due personaggi non arrivasse al punto che entrambi morissero, l’uno travolto dai pericoli che con tutti i mezzi aveva tentato di evitare, l’altro perduto da quelli che aveva invece ostinatamente ricercati. I due autori essendo entrambi cristiani, anche se diversamente cristiani, non può suscitare meraviglia che l’uno e l’altro facessero intervenire la grazia, l’uno direttamente e sottolineandone la presenza, l’altro inducendola dalla sua steresis: la grazia dunque che, seguendo le sue imperscrutabili vie, sorrise all’eroe della paura e non si concesse invece a quello del coraggio. Nel che uno dei due, il più recente, avrebbe certamente colto il lato ironico. La cosa importante è, comunque, che entrambi nascessero dal travaglio di una riflessione che l’arte poi illuminò della sua particolare luce. Qualunque cosa valga, il suggerimento contenuto in questa formula mi sembra migliore, ossia in ogni senso più pertinente, dell’invito che a più riprese Maria Corti ha rivolto agli studiosi perché, al di là, e a approfondimento del fondamentale tratto aristotelico («virtute e canoscenza»), in Ulisse discernessero il volto di Sigieri di Brabante: di un pensatore cioè che Dante aveva studiato e ammirato
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prima di porre mano alla grande impresa della Commedia, e che poi, mentre questa si andava compiendo e le audacie della giovinezza via via si ricomponevano nel compatto sistema che intanto era intento a definire, aveva abbandonato: sebbene, per bocca di Tommaso d’Aquino, gli rendesse, nei versi memorabili del decimo canto del Paradiso, l’onore delle armi. Perché dico così? Forse perché scorgere nel volto di Ulisse quello di Sigieri significa procedere, non nel senso delle interpretazioni «figurali» messe in auge, per Dante, da Auerbach, ma in quello piuttosto della più schietta e vuota tautologia? In altri tempi, in Ulisse qualcuno propose di vedere una prefigurazione di Maurice Blondel, altri una prefigurazione di Giovanni Gentile; e, con il rispetto che si deve ai proponenti, erano entrambe proposte vacue, utili solo a misurare la fama che, in determinati ambienti, quei due pensatori contemporanei avevano conseguita. La proposta della Corti aveva senza dubbio, rispetto a queste, il pregio di un più vivo senso della storia e del rispetto della biografia di Dante. Ma non anche quello che consiste nell’andare più a fondo, verso la radice delle cose. Che Sigieri fosse l’Ulisse della filosofia non significava più della formula inversa. Che senso infatti avrebbe avuto, e avrebbe, dire che Ulisse era il Sigieri della navigazione, e che, a sua volta, quest’ultimo aveva navigato con la massima audacia, e affrontandone i rischi che gliene venivano, e soccombendovi, le acque perigliose della speculazione aristotelica? Presentate così, queste non sono che formule: alle quali potrebbe pur sempre positivamente osservarsi che, dopo tutto, il Sigieri della navigazione atlantica era finito all’Inferno, mentre in Paradiso era stato accolto l’Ulisse della navigazione aristotelico-averroistica. Formule, dunque, soltanto formule. Ma della loro vuotezza, o relativa vuotezza, la Corti era così poco convinta che, in un momento di entusiasmo per la scoperta di cui si era fatta autrice, arrivò, in un suo libro, Dante a un nuovo crocevia, Firenze 1980, p. 100, a considerare Ulisse e Diomede chiusi nella «fiamma antica» come altrettante prefigurazioni di Sigieri di Brabante e di Boezio di Dacia. Il che era bensì indizio della fervida fantasia intellettuale di cui questa insigne studiosa fornì tante prove. Ma persuasivo proprio non era: anche perché, passi per Ulisse e Sigieri, ma che c’entrava Diomede con Boezio di Dacia, e viceversa? Se Ulisse era l’eroe dell’intelletto e di ogni possibile sua predicazione, Diomede era l’eroe della forza. Non prefigurava Boezio di Dacia; che, se mai, un prefiguratore avrebbe potuto, lui pure, averlo in Ulisse. O forse la Corti avrebbe sostenuto che, a giudizio di Dante (che, per altro, non lo nomina mai), Boezio di Dacia era il Diomede della filosofia? Non occorre, in questa sede, discutere intorno al «metodo» che la Corti realizzò nelle sue ricerche. Come che sia di Sigieri di Brabante e di Ulisse, e dell’essere questo il «doppio mitico» di quello, sembra evidente che l’interpretazione che la Corti propose della figura dell’eroe greco non è che una conseguenza del modo in cui fu da lei inteso lo svolgimento del pensiero di Dante. A suo parere, la Commedia costituirebbe la grandiosa palinodia del generoso errore in cui il poeta
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era incorso da giovane quando le audacie dell’intelletto e il gusto delle più ardite sperimentazioni avevano occupato, nel segno dell’aristotelismo radicale (leggi: averroismo), il suo animo e la sua mente. Insomma, dopo essersene entusiasmato da giovane, raggiunta l’età della saggezza, per il tramite del suo «doppio mitico», Sigieri di Brabante fu sprofondato nell’ottava bolgia (non poteva forse essere interpretato come un fraudolento consigliere di errata filosofia?), per essere poi, con sublime distrazione, accolto in Paradiso, dove l’anima di Tommaso d’Aquino lo indicò a Dante. È un’interpretazione che, a parte la quaestio sigieriana, ha precedenti illustri; e che ora tuttavia non può essere discussa nei suoi aspetti specifici, perché delle idee della Corti si dovrebbe allora parlare in relazione al loro oggetto: all’evoluzione del pensiero di Dante, ai testi di volta in volta presi in considerazione (su alcuni discusse A. Maierù in «Studi medievali», s. III, 24, 1983, pp. 735-748), e dunque a un tema che ben altro spazio richiederebbe, oltre che una disposizione diversa da quella che possa aversi qui. Dove dovrà tuttavia, non solo ripetersi quel che è, o dovrebbe essere ovvio, e cioè che nella filosofia medievale dei secoli decimoterzo e decimoquarto l’ortodossia e l’eterodossia non appartenevano a ambiti nettamente contrapposti, e che persino in Tommaso s’incontrano proposizioni che altri assegnò al versante eterodosso, ma anche considerarsi che proprio Dante sfuggì alla regola di questa contrapposizione, e che certamente si fa torto alla sua maggiore opera se, banalmente, la si interpreta nel segno della «normalizzazione» imposta a precedenti audacie. Non riusciremo mai a convincerci che l’Atlantico in cui Dante rischiò di sprofondare, e dal quale provvidenzialmente si trasse in salvo, fu il Convivio, che egli lasciò in tronco quando si avvide della pericolosità delle sue acque intellettuali; o, per converso, che opera di normalizzazione fu la Monarchia, che appartiene all’età del Paradiso, e soltanto ragioni, per dir così, «ideologiche», potrebbero indurre a considerare scritta prima dell’Inferno. Chi comunque desiderasse sapere perché, a mio parere, questa linea interpretativa non sia condivisibile, e al riguardo desiderasse saperne di più, potrebbe leggere il mio Dante. L’Imperatore e Aristotele, Roma 2002, dove di questi problemi variamente si discute. Di un punto specifico credo tuttavia necessario toccare qui. Poiché si parla di Dante e del suo «doppio», che, sarebbe Sigieri/Ulisse, occorre, al riguardo, dissipare almeno un equivoco. Nel proporre la sua interpretazione, la Corti ritenne di poterla definire (cfr., per esempio, Dante a un nuovo crocevia, p. 86) in termini di «figuralità», e di star quindi procedendo sulle orme di Auerbach e di un suo celebre saggio. In realtà, la questione non è così semplice. E occorre distinguere. Altro, infatti, è dire che in Ulisse Dante vide Sigieri, uomo dell’intelletto e della pura ricerca intellettuale resasi indipendente dalla teologia. Altro è assumere Ulisse come l’annunzio, la profezia reale di Sigieri, che ne sarebbe stato perciò, in ogni senso, l’inveramento. Il primo caso delinea una pura corrispondenza simbolica, realizzata al di fuori di ogni riferimento a testi sacri: simbolo della libera ricerca
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intellettuale sono sia Ulisse sia Sigieri che, senza alcuna difficoltà, e senza che l’uno valga più dell’altro e ne sia l’inveramento, la rappresentano. Il secondo caso, che è quello del rapporto «figurale» delinea invece un nesso nel quale il secondo termine è, o rivela, la verità del primo. Ne consegue che, mentre nel primo caso, il passaggio dall’una all’altra figura può avvenire in entrambi i sensi nel segno della corrispondenza simbolica, e senza perciò che la qualità interna ai termini diminuisca o si accresca, nel secondo non è così. Se si fa che Sigieri sia la verità di Ulisse, rovesciare il versus sarebbe impossibile. Sarebbe impossibile dire che Ulisse è la verità di Sigieri. Lo schema figurale implica, come ho detto, il riferimento ai testi sacri e la reinterpretazione cristiana dell’Antico Testamento. È Cristo a inverare Mosè. È ancora Cristo a inverare Giovanni il Battista. È la piena verità del presente a conferire verità, e senso di verità, a ciò che la precede nel tempo: che è il rapporto non reversibile che infatti, esplicitamente, Dante tenne presente, e citò, quando, nella Vita nuova, XXIV 3-5, parlò della donna di Cavalcanti come annunzio della sua, di Beatrice come della verità di monna Vanna, e, avendo assegnato al «primo amico» il ruolo del Battista, a sé stesso conferì quello di Cristo. È evidente quindi che, nel suo studio, la Corti scambiò lo schema figurale con un rapporto semplicemente simbolico, e ritenne che questo potesse essere assunto con il nome, e sotto il nome, dell’altro, senza avvedersi che il primo, quello figurale, presuppone la non parità, e il secondo, quello simbolico, la parità dei termini, che nel primo possono essere scambiati, e nel secondo no. Scrisse infatti che, «a ottima detta (!) di Auerbach», l’interpretazione figurale «pone una cosa per l’altra in quanto l’una rappresenta e significa l’altra». Scrisse così; ed ebbe torto. A Auerbach attribuì un pensiero che, trattandosi di schema figurale e non semplicemente simbolico, non poteva essere il suo. A parte che le parole che la Corti gli attribuì, e che dovrebbero trovarsi alla p. 204 dei suoi Studi su Dante, trad. it, Milano 1963, in questo luogo non si trovano, né, se ho ben visto, si trovano in un altro, resta che, nei suoi termini specifici, si ha interpretazione figurale quando, e soltanto quando, tra due fatti o persone, si stabilisce il nesso asimmetrico che si è detto: quello cioè per il quale «uno di essi non significa soltanto sé stesso, ma significa anche l’altro» nell’atto in cui «comprende e adempie il primo» (Auerbach, Studi, p. 209). La tesi della Corti fu ripresa, e estremizzata, da A. Gagliardi, Ulisse e Sigieri di Brabante, Catanzaro 1992, pp. 11 ss, passim, il quale sostenne che, nel delineare il suo personaggio, Dante ebbe presente il modello sigieriano. «Le radici dottrinali del gesto avventuroso di Ulisse», scrisse, «affondano nel problema più sconvolgente apportato dalla teoria dell’anima di Averroè, la conoscenza delle sostanze separate» (p. 11); e aggiunse che, per lui come per Adamo, il peccato consistette nel «trapassar del segno» (p. 14). Non sarò io a negare che quello delle sostanze separate abbia costituito per Dante, come per ogni pensatore del suo tempo, un difficile problema. Ma non mi pare che l’episodio di Ulisse riesca meglio compreso se nella sua impresa si colga l’ambizioso tentativo di vedere, con il suo umano
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intelletto, Dio e tutta la trascendenza, come il Gagliardi si esprime: tanto più, direi, in quanto, in ultima analisi, la conclusione ultima è che quello sforzo fu vano perché non sorretto dalla grazia di Dio. A parte, perciò, l’identificazione di Ulisse con il pensatore brabantino, che, posta nei termini illustrati dal Gagliardi, non mi sembra pertinente, e a parte le varie osservazioni (alcune delle quali pregevoli) che s’incontrano nel suo libro, il punto da discutere è se, al pari di Adamo, Ulisse sia presentato da Dante come un trasgressore consapevole di un ordine posto come inviolabile; e qui debbo ribadire che, d’accordo in questo con altri, a me non sembra che sia così. Aggiungo che nel libro del Gagliardi molte sono le osservazioni interessanti, delle quali non potrei comunque dar conto in questa sede.
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Note 1. Per lo status quaestionis, rinvio a M. Fubini, Ulisse, ED, V, 803-09, e anche per la discussione di alcuni punti particolari, a Id., Il peccato di Ulisse e altri scritti danteschi, Milano-Napoli 1966, pp. 1-36, 37-76. E cfr. E. Esposito, Bibliografia analitica degi scritti su Dante 1950/1970, Firenze 1990, pp. 655-56. Ma da allora la bibliografia concernente il canto di Ulisse si è di molto arricchita. Ricchissime indicazioni in M. Seriacopi, All’estremo della “prudentia”. L’Ulisse di Dante, Roma 1994, pp. 155-96. Per parte mia, ho dato conto solo degli scritti con i quali le mie (si suole chiamarle così) riflessioni sono entrate in contatto. 2. Par. XXVII 82-83. 3. È ancora fondamentale, per la storia della tradizione, W.B. Stanford, The Ulysses Theme. A Study in Adaptability of a traditional Hero, Dallas 1992. Cfr. anche il saggio di M. Pazzaglia, Il canto di Ulisse e le sue fonti classiche e medievali, in L’armonia come fine. Conferenze e studi danteschi, Bologna 1989, pp. 97-134, e Seriacopi, All’estremo della “prudentia”, pp. 13 ss. 4. Inf. XXVI 59-60. 5. Ibidem, 61-63. Deve notarsi che, se questi sono i peccati di Ulisse puniti nell’ottava bolgia, fra il primo, da una parte, e, da un’altra, il terzo, non si dà perfetta congruenza. Il furto e la profanazione del Palladio sono una frode, se lo sono, di natura assai diversa da quella che Ulisse compì per trarre Achille fuori della corte del re di Sciro, Licomede, dove sua madre Teti lo aveva nascosto in abiti femminili per sottrarlo alla morte che fatalmente gli sarebbe toccata se fosse andato in guerra; e diversa anche dall’altra che prese forma nel famoso «agguato» del cavallo. Ma evidentemente, se la notò, la differenza non dové sembrare rilevante a Dante, che in tutti e tre i peccati avvertì la medesima natura, ira e violenza: a meno che, anticipando quel che sarà fra breve detto nel testo, non debba osservarsi che la classificazione dei peccati incontrava, nella visione stessa del poeta, notevoli difficoltà a mantenersi qual era stata fissata in astratto, a causa della tendenza di quelli a ritrovarsi tutti nell’unico peccato all’interno del quale erano stati suddivisi. Sul presunto «divenire» del peccato, reso evidente dal trasformarsi della lonza e del leone in lupa, ossia dell’incontinenza e violenza in frode, cfr. L. Pietrobono, Dal centro al cerchio. La struttura morale della Divina Commedia, Torino s.d. [ma 1923], pp. 71 ss, 77. Sulla questione posta dal termine e dal concetto dell’«ira», si veda A. Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, I, Messina-Firenze 1967, pp. 382 ss, che sul fondamento della Summa tomista, segnò la differenza sussistente fra ira per vitium e ira per zelum, fra la prima che definirebbe il peccato in cui i due eroi greci incorsero, e l’altra che, viceversa, è la stessa cosa dell’energia messa nel perseguire il bene, e ai due eroi certo non appartenne. Altresì il Pagliaro riprese la questione relativa all’interpretazione dei vv. 55-57: «là dentro si martira/ Ulisse e Diomede, e così insieme/a la vendetta vanno come all’ira»; e svolse considerazioni che inducono, mi sembra, a consentire con l’esegesi antica (il Lana, l’Ottimo, Benvenuto) che dei due eroi fece il soggetto dell’ira e l’oggetto della vendetta. Così, per altro, già L. Pietrobono, La Divina Commedia, I, Inferno, Torino-Milano etc. 1944, p. 318, e ora G. Inglese, Commedia, revisione del testo e commento, I, Inferno, Roma 2007, p. 294: ma cfr. anche Seriacopi, All’estremo della “prudentia”, pp. 123-26. – Non credo tuttavia che Pagliaro, Ulisse, p. 383, avesse ragione quando
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osservava che, non il consiglio fraudolento, ma la vis irascibilis attuata con frode costituisce il peccato punito nell’ottava bolgia. Mi sembra evidente che il consiglio fraudolento può bene includere in sé, come sua particolarità, l’ira, e non essere un modo della sua attuazione. Dopo di che, deve dirsi che Pagliaro era nel vero a proposito del nesso ira-fiamma: anche se convenga aggiungere che, in senso più ampio, la fiamma nasconde il peccatore come, in vita, questo aveva nascosto il suo insidioso procedere: così, meglio di ogni altro, aveva inteso Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super D. Alagherii Comoediam, a cura di G.F. Lacaita, II, Firenze 1887, pp. 267-68. Ma per questo, cfr. infra, quando si tratterà la questione del contrappasso. 6. Che l’audacia e il «folle volo» non siano, in quanto tali, puniti nell’ottava bolgia, è certo. Decisivo è al riguardo che nel viaggio si sciolga il nesso con Diomede, e che Ulisse lì sia solo. Il che deve essere inteso, non nel senso materiale che, dopo la fine della guerra troiana, il destino dei due eroi si era diviso, ma in quello specifico che Ulisse era solo, e lui soltanto quel viaggio riguardava: così molto bene Seriacopi, All’estremo della “prudentia”, p. 58. A Ulisse Virgilio chiese, non di quale natura fosse il suo peccato specifico, né vi alluse, ma dove, «perduto», fosse andato a morire; e con questo lasciò intendere che il desiderio suo, e di Dante, era appunto di sapere in quale luogo misterioso e lontano la sua vita avesse avuto termine. Si può intendere che di questa lontananza Virgilio sapesse, o anche che non sapesse. Ma resta che era comunque a una più precisa conoscenza del modo relativo a quella morte che egli desiderava pervenire, o desiderava che Dante pervenisse. Può quindi, per questa parte, consentirsi con Fubini, Il peccato di Ulisse, p. 5, che considerò il peccato e la «condanna infernale» come «soltanto l’antefatto»: sebbene il termine non fosse felice perché con più forza si sarebbe dovuta sottolineare la non relazione sussistente fra quei due momenti che rappresentano, l’uno la vita dell’eroe, l’altro il suo essersi «perduto» in un’ignota regione. Questo tuttavia non toglie che, sia pure in senso extrastrutturale, la questione del peccato intrinseco al «folle volo» si ripresenti, lo volesse Dante o no, attraverso la mobile fenomenologia che, come vedremo, la cruciale questione del desiderio assunse nel suo pensiero. Ma di ciò più avanti. Qui si aggiunga che di «inconsapevole errore» parlò, per il «folle volo», anche N. Sapegno, Ulisse, in Letture classensi, VII, Ravenna 1979, pp. 95-96, e La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1985, p. 289; ma cfr. già I. Sanesi, L’ultima navigazione di Ulisse, in Saggi di critica e storia letteraria, Milano 1941, p. 167, e Pagliaro, Ulisse, p. 369. Con quest’ultimo non direi comunque che, come in Farinata l’epicureismo s’intrecciava bene, per quanto in modo esplicito non fosse richiamato nel colloquio che il dannato ebbe con Dante, con la passione politica, così nella complessa vicenda che segnò l’esistenza di Ulisse non si dia contrasto fra il suo essere stato un consigliere di frodi e la sua audacia di viaggiatore estremo (pp. 394-95). Mi sembra che per questa via le personalità dei due personaggi siano ricostruite in astratto, combinando insieme elementi che, per suo conto, Dante si astenne dal mettere in contatto, e che l’ossessione dell’unità abbia, in questo caso, condizionato in modo non felice l’acume del critico. 7. La tesi secondo cui nel «folle volo» Dante avrebbe condannata la ὕβρις intellettuale dell’eroe greco, e ribadita perciò l’inaccessibilità della «montagna bruna» a chi non fosse stato assistito dalla grazia divina, è presente in varie forme nella critica: cfr., per es., Pietrobono, Dal centro al cerchio, pp. 69 ss, passim (cfr. anche Inferno, p. 318) che si fece sostenitore dell’equivalenza fra Ulisse, Lucifero e Adamo (e cfr. B. Nardi, La tragedia di Ulisse [1937], in Dante e la cultura medievale, Bari 1983, pp. 131-32). Con garbo e finezza, la tesi della peccaminosità fu ripresa, per es., da C. Marchesi, Orazio e l’Ulisse dantesco (1952), in
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Il cane di terracotta, Bologna 1954, pp. 31-45, e, in forme diverse, di aggressiva violenza, da R. Montano, Il folle volo di Ulisse, in «Delta», n.s., 2 (1952), pp. 10-31, e quindi, con varianti, in Suggerimenti per una lettura di Dante, Napoli 1956, pp. 131-66, e Storia della poesia di Dante, I, Napoli 1962, pp. 519-26. Si veda anche M. Picone, Canto XXVI, in Lectura Dantis turicensis, a cura di G. Güntert e M. Picone, Firenze 2000, pp. 359-73. – Sulla questione posta dal Pietrobono, e contro di lui, cfr. M. Barbi, Con Dante e con i suoi interpreti, Firenze 1941, pp. 107-16. Conviene aggiungere e ricordare che la tesi della peccaminosità intrinseca all’impresa di Ulisse si è variamente intrecciata con quella relativa al contrasto che, nello «spirito» di Dante, si sarebbe acceso fra il dettame della fede e l’ammirazione per l’ardimento umano: basti il rinvio a V. Rossi, La Divina Commedia, I, Inferno, Napoli s.d. [ma 1923], p. 332 (nuova edizione, a cura di M. Corrado, I, Inferno, Roma 2007, p. 451). E a B. Croce, La poesia di Dante, Bari 1921, p. 88. Che poi l’ammirazione dimostrata nei confronti dell’impresa di Ulisse desse luogo a molteplici variazioni sul tema del cosiddetto «preumanesimo», o, meglio, e per non ingenerare confusioni, della sua anticipazione dell’Umanesimo di Dante, era pressoché inevitabile. Ma per questo cfr. infra. 8. Sulla coppia Ulisse-Diomede e sulle ragioni del loro essere stati condannati insieme, utile rassegna delle opinioni dei commentatori antichi (e di alcuni moderni), in Seriacopi, All’estremo della “prudentia”, pp. 55-61. Ma cfr. infra. 9. Non mi sembra comunque accettabile quel che si legge in Picone, Canto XXVI, p. 364, il quale parlò della «punizione reciproca che Ulisse e Diomede si infliggono per il semplice fatto di stare insieme». Posto, e non concesso (concederlo significherebbe infatti ammettere che la punizione del medesimo peccato potesse, da peccatore a peccatore, essere più o meno intensa: il che è impensabile), – posto, dunque, e non concesso che la condivisione della stessa fiamma implicasse una punizione ulteriore a quella del fuoco che brucia, resterebbe pur sempre da chiedersi perché fosse Diomede a esservi incluso. 10. Sul significato che, nel ventiseiesimo canto, può ritrovarsi in Diomede, mi intratterrò più avanti. Se, sia pure indirettamente, Dante conoscesse il racconto omerico, e da quali fonti, è questione per un verso semplice, per un altro no. È semplice per quanto concerne la soltanto indiretta conoscenza. Non lo è se si chiede quali fonti avrebbero potuto essergli note, e a quali potrebbe averla attinta. Non c’è accordo fra gli studiosi sul punto se Dante conoscesse il Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure, la Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne e i romanzi di Ditti e Darete da cui deriva. Sostenitore della conoscenza fu già Benvenuto, Comentum, II, 636, il quale riteneva impensabile che Dante ignorasse quel che anche ai pueri era noto (e cfr. poi E.G. Parodi, L’Odissea nella poesia medievale, in Poeti antichi e moderni, Firenze 1923, pp. 67-102; Pagliaro, Ulisse, pp. 399400; G. Inglese, L’intelletto e l’amore. Studi sulla letteratura italiana del Due e Trecento, Firenze 2000, p. 142). Scettico, al riguardo, fu invece G. Martellotti, Omero, ED, IV, 148 (poi in Dante e Boccaccio e altri scrittori dall’Umanesimo al Romanticismo, Firenze 1983, p. 60); più che scettico Sapegno, Inferno, p. 296 (contro l’assunto che fra «non sapere» e originalità vi sia un nesso, cfr. ora anche M. Picone, Il contesto classico del canto di Ulisse, in «Strumenti critici», n.s., 15, 2000, pp. 172-73; e potrebbe aggiungersi che, a rendere più vacuo quel pregiudizio, sta la considerazione che, se l’originalità si definisse dal non dipendere da alcunché, non sarebbe tale quella che si facesse dipendere dal «non sapere»). Per mio conto, non escluderei che quel che, in primo luogo, leggeva nella versione oraziana della protasi dell’Odissea: «dic mihi, Musa, virum, captae post tempora Troiae/ qui mores hominum multorum vidit et urbes (ars poet. 141-42) spingesse Dante a procurarsi altre co-
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noscenze; e che per questo ricercasse e leggesse i testi medievali del ciclo troiano. Per altre indicazioni, cfr. L. Pertile, L’altro viaggio di Dante e Ulisse, in «L’Alighieri», 4 (2007), pp. 25-30. Per le fonti antiche e medievali, oltre gli studi già citati qui su, n. 3, cfr. P. Cesareo, L’evoluzione storica del carattere di Ulisse, in «Riv. st. antica e sc. aff.», 3 (1898), pp. 75102; 4 (1899), pp. 17-38, 382-412, M. Martorana, Ulisse nella letteratura latina, PalermoRoma 1962, e soprattutto quel che ebbe a scrivere E.G. Parodi, Note per un commento alla “Divina Commedia” (1915), in Lingua e letteratura. Studi di teoria linguistica e di storia dell’italiano antico, I, Venezia 1957, pp. 357-58, che, dopo aver asserito: «nulla di meglio della citazione di Seneca per intendere la genesi dell’episodio di Ulisse», sottolineò l’importanza di Cic. De fin. 5, 18, 49. Cfr. anche Pagliaro, Ulisse, p. 399, nonché la nota di A. Quaglio, La Divina Commedia, I, Milano 2000, pp. 323-25. Qualche osservazione anche in I. Baldelli, Dante e Ulisse, in «Lettere italiane», 50 (1998), pp. 362-63, e in E. Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della “Commedia”, Milano 2001, pp. 94-95. Una sistematica indicazione delle fonti antiche in G. Brugnoli, Studi danteschi, III, Dante filologo, l’esempio di Ulisse, Pisa 1998. 11. Verg. aen. 2, 40-55: e cfr. anche 44-49: «sic notus Ulixes?/ aut hoc inclusi ligno occultantur Achivi/ aut haec in nostros fabricatast machina muros/ inspectura domos venturaque desuper urbi/ aut aliquis latet error: equo ne credite, Teucri:/ quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentes». 12. Inf. I 74. Che il «superbo Iliòn» traduca alla lettera il superbum Ilium di aen. 3, 2-3, è evidente. E cfr. anche Purg. XII 61-63: «veda Troia in cenere e in caverne:/ o Iliòn, come te basso e vile/ mostrava il segno che lì si discerne!». Senonché, in Virgilio l’aggettivo superbus sta a indicare la maestosità della rocca troiana (e significa, secondo Servio, lo stesso che nobilis). In Dante ha invece significato, non estetico, ma morale; e indica perciò la causa, o una delle cause, della caduta della città (cfr. E. Paratore, nel commento all’Eneide, II, Milano 1978, p. 108). 13. Conv. IV iv 8-12. 14. Cfr. il mio Dante. L’Imperatore e Aristotele, Roma 2002, pp. 1 ss, 253 ss. 15. Per la questione relativa ai «riguardi» posti da Ercole, cfr. infra. 16. Inf. XXVI 19-22. Su questi versi hanno molto insistito quanti ritennero che fra l’esperienza sua e quella di Ulisse Dante avesse posto un nesso assai stretto, malgrado la diversità degli esiti, determinata dalla presenza e, per contro, dall’assenza della grazia. Su questo punto, mi intratterrò in seguito. Ma vorrei ricordare che già Att. Momigliano, ossia un critico quasi per intero dedito alla poesia, e alle questioni strutturali altrettanto poco sensibile, li giudicava espressivi della «morale del canto» (La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1948, p. 188). 17. F. D’Ovidio, Sudii sulla Divina Commedia, Palermo 1901, p. 89, ritenne che in questi versi Dante alludesse al rischio suo di incorrere, come «negoziatore politico», nel peccato di frode; e cfr. anche, Sapegno, Inferno, p. 292, e, sebbene con minore finezza, M. Porena, La mia lectura Dantis, Napoli 1932, p. 95 (e la Divina Commedia, I, Inferno, Bologna 1957, p. 236). Si veda ora Inglese, Inferno, p. 292. – Questa interpretazione è apparsa «leggermente grottesca» a G. Carugati, Dalla menzogna al silenzio. La scrittura mistica della “Commedia” di Dante, Bologna 1991, pp. 103-104, perché, a parte quel che può indovinarsi del carattere di Dante in quanto «esule e consigliere di principi», dovrebbe considerarsi che per lui l’«ingegno» era in «rapporto di strettissima contiguità» con la scrittura. Ne discenderebbe, a suo giudizio, che i limiti che il poeta sembrò «qui assegnare al
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proprio “ingegno” sono la consapevolezza stessa che esso, anziché raggiungere e circoscrivere il reale, non fa altro che toccare sé stesso e la propria labilità»; che «questo ripiegarsi e consegnarsi alla propria fragilità di mortale facitore di simboli è la verità che» egli «spera di raggiungere “frenando” il proprio ingegno, consapevolmente, dolorosamente usandolo come strumento di “froda”»; e infine che, come la Carugati dice, «questa verità che si dischiude tra le pieghe della scrittura di Dante come tra le pieghe della scrittura del mistico si apre l’abisso della nullità del dio che, come dice Eckhart, esiste quando le creature lo chiamano – ha un nome quello di “follia”» (p. 106). Mi sembra, per la verità, una troppo complicata spiegazione: anche in riferimento alla tesi generale di questa studiosa, relativa alla scrittura mistica della Commedia. 18. Purg. I 130-36. 19. Vedo ora che questo saggio è da tempo concluso che M. Ariani, La folle sapienza di Ulisse, in AA.VV., Inferno. Dante personaggio, Francesca, Farinata, Pier delle Vigne, Ulisse, Roma 2006, pp. 87-105, nel quadro di una tesi diversa da quella sostenuta qui, propone vari raffronti (il più interessante perché non credo che fosse stato notato prima, è Inf. VIII 91-92: ma aggiungerei 103-105). 20. Benvenuti Comentum, II, 48. 21. Dio, ho detto nel testo, e non certo Catone, al quale non potrebbe in nessun modo essere attribuita la capacità di avere evitata a Dante la sorte di Ulisse. Inaccettabile è quindi il dubbio che, al riguardo, fu espresso da Sapegno, Purgatorio, p. 14, che, nel presentarlo, e subirlo, vide comunque meglio di chi nell’«altrui» indicò Catone: così, fra gli altri, già il Vandelli nel rifacimento del commento scartazziniano, Milano 1985, p. 308, I. Del Lungo, La Divina Commedia, Firenze 1928, p. 365, Porena, Purgatorio, p. 15, C. Steiner, La Divina Commedia, Torino s.d., p. 357, Bosco e Reggio nel loro commento (II, Roma 2005, p. 35), mentre, in modo per altro ambiguo, D. Mattalia, La Divina Commedia, II, Purgatorio, Milano 1990, p. 35, vi colse il segno di «una volontà misteriosa e irrecusabile», rinviando però a Inf. XXVI 141. In realtà, nel prescrivere a Dante i due riti di umiltà e di purificazione, necessari alla continuazione del viaggio («va dunque», dice rivolto a Virgilio, «e fa che tu costui recinghe/ d’un giunco schietto e che li lavi il viso, sì ch’ogne sucidume quindi stinghe» [I 94-96]), Catone non è che un interprete della volontà di Dio; e, con la Chiavacci Leonardi (La Divina Commedia, II, Purgatorio, Milano 1994, p. 35), non direi quindi che il riferimento letterale sia a lui e, quello ultimo, a Dio: così si perde il senso forte della citazione interna e il suo pieno significato. Sarebbe ingiusto dimenticare che l’«altrui» fu riferito a Catone nel più esteso saggio che, a mia notizia, sia mai stato dedicato al I del Purgatorio, da F. D’Ovidio, Il primo canto del Purgatorio, in Il preludio del Purgatorio e discussioni varie, II, Napoli 1932, p. 122. 22. Nardi, La tragedia di Ulisse, p. 128. Contra, a ragione, Fubini, Il peccato di Ulisse, pp. 2 ss, passim. 23. Nardi, La tragedia di Ulisse, pp. 137-38. 24. C. Ossola, Il problema della conoscenza in Dante: Ulisse e il “quia”, in Dante poeta cristiano, Firenze 2001, pp. 41-53, ha sostenuto che, non per l’«agguato del caval», Ulisse fu punito, ma per aver tentato l’impresa folle, volta a conoscere l’impossibile» (p. 46); e ha aggiunto che, nell’eroe greco, Dante sentì perciò di dover punire sé stesso che, sapendo che i giudizi della provvidenza non possono essere conosciuti, aveva non di meno «osato anticipar[li] in modo poetico», e con questo si era forse, egli stesso, reso meritevole del medesimo destino (p. 47). Se, ciò non ostante, in Ulisse e in Dante, il destino non fu lo
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stesso, la ragione sarebbe da ritrovarsi in ciò che, se capisco bene, il secondo scoprì di essere, come dimostrerebbero l’episodio dell’angelo nocchiero e l’intonazione, da parte delle anime, del «In exitu Isräel de Aegipto,/ con quanto di quel salmo è poscia scripto» (Purg. II 46-47), egli stesso un personaggio del Purgatorio. Un personaggio che era perciò avviato a passare dal cur, perseguito da Ulisse, al quia, interpretato per altro, alla luce, sopra tutto, di Par. XXIX 10-21: ossia, nell’esegesi di Ossola, di «una teologia dello sbocciare, del “durchbreken”, come avrebbe detto Eckhart», di una «teologia dell’infinita novità del perenne sbocciare», alla quale sarebbe da ricondurre, per intenderlo, «lo discorrer di Dio sovra quest’acque». Di un Dio, perciò, «che non punisce», che «non chiude le acque», ma, accompagnato nella creazione dalla sapienza, sta fra il «trascorrere e il dire sopra le acque» (p. 529. Al centro di questa assai elaborata interpretazione, alla quale non si potrebbe negare la suggestività, sta l’idea secondo cui, mentre, rappresentando il compimento della speranza di Ulisse, la «montagna bruna» rappresenterebbe altresì, con la conclusione del suo domandare, la fine della speranza a essa connessa, il naufragio del cur, il quia di Dante coinciderebbe invece con l’inesauribile creazione divina, simboleggiata da un’acqua in eterno navigabile, che non sottrae mai sé stessa al vascello che la percorre. Debbo dire che, anche a prescindere dalla questione della frode, che costituisce la specifica ragione per la quale Ulisse è nell’ottava bolgia, per varie ragioni questa interpretazione non è accoglibile. Non lo è, in primo luogo, nella premessa, ossia nell’idea secondo cui Dante avrebbe sentito sé stesso come non diverso da Ulisse, e come lui peccatore, per avere anticipato, nel suo viaggio nell’al di là, il giudizio divino. Sarà banale ricordarlo, ma occorrerebbe non dimenticare che, deciso e voluto in cielo, il viaggio di Dante si svolse nel segno della grazia divina, sì che ogni paragone che si istituisse fra il suo e quello di Ulisse non reggerebbe alla prova terrestre dei testi. Nel momento in cui apprese che, per decreto divino, sarebbe stato tratto «per luogo etterno», egli sentì bensì di essere inadeguato al compimento di un’impresa («ma io perché venirvi?») che era stata di Enea, di Cristo, di Paolo, ma non fu certo il viaggio di Ulisse che gli fu presente nella sua eccessività. Non lo è, in secondo luogo, nelle conseguenze. Tanto poco la «montagna bruna» rappresenta, come Ossola si esprime, la «sazietà» del desiderio di Ulisse, e tanto poco c’è prova che così egli la avvertisse e interpretasse, che di lì nacque il «turbo» che fece inabissare la sua nave e tragicamente interruppe il sogno che egli aveva coltivato di realizzare l’esperienza, «di retro al sol, del mondo sanza gente»: sì che, se a questa interpretazione si dovesse dare il consenso, anche si dovrebbe darlo all’idea che la sazietà del desiderio coincide con la catastrofe di chi ne fosse stato il soggetto. Se, come lo stesso Ulisse aveva detto nell’«orazion picciola», quello che si è esposto con le sue parole era stato lo scopo del viaggio, esso era ancora, se non agli inizi, nel pieno del suo corso quando il «turbo», che all’improvviso si levò dalla terra appena vista, lo volse in tragedia. Soltanto acqua, infatti, era quella che, con i compagni, l’eroe aveva conosciuta durante cinque mesi di navigazione oceanica: come avrebbe potuto il suo desiderio essersene «saziato»? Il paragone che, per rilevare la radicale differenza fra le due situazioni, da molti, e, con la consueta artificiosità e mancanza di misura, anche da G. Pascoli, Prose, II, Scritti danteschi, a cura di A. Vicinelli, Milano 1952, pp. 1488-513, fu istituito, fra Ulisse, che non poté raggiungere la riva del Purgatorio, e il vascello dell’angelo nocchiero, che vi depositò le anime destinate ad ascendere il monte, non significa se non quel che è ovvio; e cioè che soltanto la grazia di Dio consentì il viaggio salvifico, che a Ulisse fu vietato, in primo luogo di concepire e, in secondo luogo, di compiere. Infine, sarà per opacità di mente e ristrettezza di sguardo, ma, fra i versi del ventinovesimo del Paradiso, in cui si parla della
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creazione delle intelligenze separate, e quelli del ventiseiesimo dell’Inferno, non riesco a vedere il nesso che Ossola vi colse: sembrandomi inoltre impossibile che il quia dantesco, in cui il cur di Ulisse troverebbe pace e sopra tutto supererebbe la sua angustia umana, sia, a sua volta, identificato addirittura con l’atto creatore di Dio. Per quanta spregiudicatezza, oltre che a sé stessi, voglia riconoscersi a Dante, attribuirgli un simile concetto deve, ripeto, essere proprio considerato impossibile. 25. Dico subito, anche se sulla questione dovrò tornare, che la tesi secondo cui con l’«orazion picciola», ancora una volta Ulisse avrebbe esercitata la sua arte ingannatrice, non è che un’inutile sottigliezza; la cui genesi va per altro, con ogni probabilità, ricercata nell’ostilità nutrita, da chi l’ha proposta, nei confronti delle interpretazioni «laiche» e «umanistiche», tendenti a dar risalto ai diritti della libera ricerca. Fra i primi che, in epoca moderna, nell’orazione videro l’inganno fu A. Mori, L’ultimo viaggio di Ulisse, Milano 1909, p. 12: ma cfr. anche K. Vossler, La Divina Commedia studiata nella sua genesi e interpretata, trad. it., II/2, Bari 1927, p. 111. A seguire questa linea interpretativa sono oggi molti: basti ricordare, oltre il vecchio libro di L. Cooper, Evolution and Repentance. Mixed Essays and Adress on Aristotle, Plato and Dante, Ithaca-New York 1935, pp. 168-69, E. Mariano, Il canto XXVI dell’”Inferno”, in Lectura Dantis scaligera. Inferno, Firenze 1967, p. 955, G. Padoan, Il pio Enea, l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Ravenna 1977, pp. 193-96. Ma cfr. anche A. Pézard, Dante sous la pluie de feu, Paris 1950, p. 250; A. Renaudet, Dante humaniste, Paris 1952, pp. 448-50; J.A. Scott, Dante magnanimo. Studi sulla “Commedia”, Firenze 1979, pp. 134.37. A sua volta, G. Bàrberi Squarotti, Il canto di Ulisse, in Letture classensi, VI, Ravenna 1977, pp. 40-41, ha escluso che consapevolmente Ulisse intendesse ingannare i compagni, aggiungendo però che l’inganno era nelle cose, perché l’orazione aveva «oggetti inconsistenti e vietati: non c’è un “mondo sanza gente”, ma un mondo popolato di anime, non di corpi, situato in un’altra dimensione, che è quella escatologica». Non sono sicuro di avere ben capito; me ne scuso, e provo a spiegare. Il senso delle parole che ho riferite è che, nella consapevolezza di Ulisse, che pur lo nominava, quello «sanza gente» era non un mondo, non qualcosa, ma niente piuttosto di esistente? Nell’indicarlo ai compagni come se esistesse, Ulisse sarebbe dunque stato la vittima inconsapevole di una sorta di Blendung, in forza della quale, ingannando sé stesso e i compagni, non s’avvide che quel mondo non aveva la nota dell’esistenza, era «inconsistente», e al suo posto se ne dava bensì un altro, ma esistente, appunto, soltanto in una dimensione escatologica? È questo che Bàrberi Squarotti sosteneva? E cioè, in sostanza, che, poiché il mondo «sanza gente» non esisteva, e quello escatologicamente annunziato apparteneva al futuro e, qui e ora, «non era», ai compagni Ulisse avrebbe, in sostanza, indicato «niente»? Donde, nel segno della soggettiva inconsapevolezza, l’inganno perpetrato ai danni suoi e dei compagni. In realtà, che il ragionamento di Barberi Squarotti si muovesse nel segno dell’incertezze e dell’equivoco si vede da ciò che, parlando di oggetti «inconsistenti e vietati», egli mostrava di non aver tenuto a mente che, se è vietato, un oggetto, non può essere inconsistente, e che solo se è un oggetto, e consistente dunque in sé stesso, si può dire che sia vietato. Allo stesso modo, non potrebbe dirsi che a essere vietato sia un oggetto esistente solo in una prospettiva escatologica: si può vietare un oggetto presente, non un oggetto futuro (a meno che non sia il divieto a farlo essere e a renderlo presente!). Meglio, mi sembra, A.M. Chiavacci Leonardi, La guerra de la pietade. Saggio per una interpretazione dell’Inferno di Dante, Napoli 1979, p. 148, definì l’orazione «un inganno, ma per colui che la pronuncia», «l’eterno inganno dell’uomo che crede di raggiungere il sa-
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pere, o l’amore, cioè la felicità (lo stesso in cui cade Francesca), scegliendo sé stesso, le sue forze, i suoi “argomenti umani” […], e tutto puntandovi con assoluta passione». Facendo tuttavia di Ulisse una sorta di simbolo dell’uomo e della sua intrascendibile e irrimediabile finitezza, anche per questa strada, si perde, mi sembra, il tratto specifico dell’idea che Dante ebbe della sua tragedia, che ha nell’insidiosa questione del desiderio il suo centro, sì che, se non si penetra in quella, il senso del canto è destinato a sfuggire. Cfr. anche infra, n. 85, a proposito dell’interpretazione del Getto. 26. Padoan, Il pio Enea, l’empio Ulisse, p. 190. 27. Par. XXVI 81-142. 28. Per Capaneo, cfr. Inf. XIV 43-72 (e anche XXV 13-15). Un cenno sulla differenza che può notarsi fra Capaneo e Ulisse in Fubini, Il peccato di Ulisse, pp. 19-20. Ma non possono essere dimenticate le osservazioni con cui F. De Sanctis, Il Farinata di Dante (1869), in Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, Torino 1955, pp. 659-60, penetrò a fondo nel «carattere» di Capaneo, da lui messo a confronto, non con Ulisse, ma con Farinata. 29. Inf. XIV 63-66. 30. Inf. XI 64-65. 31. Ibidem, 73. 32. Inf. XXXIV 121-26 e Par. XXIX 49-57. Non è questa la sede in cui possa discutersi la questione delle differenze che questi luoghi presentano rispetto a quanto detto nella Quaestio de aqua et terra, della cui autenticità, a causa di questo contrasto, si è fortemente dubitato da parte di alcuni (da ultimo, Nardi); né indicare la letteratura sull’argomento. Rinvio per questo alla «voce» di M. Pastore Stocchi, ED, IV, 761 b-65 a (per l’attribuzione, pp. 763 b-64 a). Ma è interessante quel che leggo in M. Picone, L’invenzione dantesca dell’Inferno, in Il pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri, a cura di A. Ghisalberti, Milano 2001, pp. 13-14 («il fatto che nella Questio Dante metta in mostra, contro i suoi detrattori, una perfetta conoscenza delle correnti teorie aristoteliche, non significa che ridimensioni o addirittura rinneghi il suo ruolo di poeta della Commedia; il saper fare anche il filosofante non mette affatto in questione l’esser stato un poeta. La Questio non vuole essere insomma una palinodia del canto XXXIV dell’Inferno, bensì l’accettazione di una sfida gnoseologica relativa a un problema che Dante aveva già risolto en poète nelle pagine del suo poema» [p. 14]). 33. Inf. III 7-8. 34. Par. XXX 39-42. 35. Ibidem, XXVII 109-11. 36. Ibidem, IV 35-36. 37. Par. IV 37-42. Al v. 39 «celestial», già adottato dall’edizione del ’21, fu preferito a «spiritüal» da G. Petrocchi, Introduzione a La Commedia secondo l’antica vulgata, I, Milano 1966, p. 227 (e, IV, Paradiso, p. 55). Con altri, sia Sapegno, Paradiso, p. 49, sia Chiavacci Leonardi, Paradiso, p. 112, giudicarono facilior la lezione adottata dall’edizione del ’21 e da Petrocchi. Il quale, per altro, riconobbe che il più forte argomento addotto a favore delle lezione da lui esclusa era stato fornito da E.G. Parodi, Poesia e storia nella “Divina Commedia”, a cura di G. Folena e P. V. Mengaldo, Vicenza 1965, pp. 377-78, che, a sua volta, lo attribuiva a D. Ronzoni, I fondamenti dell’ordinamento morale della Divina Commedia, Monza 1906. Fu comunque il Parodi a citare il passo della Summa theol. III, q. 93, a. 2, che, a suo parere, rendeva preferibile, anche se non necessaria (p. 378, n. 1), la lezione esclusa dall’ed. del ’21. Di questo passo parlerò qui sotto, nel testo.
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38. Credo sia giusto riconoscere che se, pur in un discorso per molti versi non accettabile, Ronzoni, I fondamenti, pp. 15-16, ebbe ragione quando parlò dell’Empireo come del reale Paradiso, e di quello articolato nei cieli sottostanti come di uno immaginato e fantastico, foggiato per istruzione del pellegrino mistico, non altrettanta ne ebbe invece G. Busnelli, Il concetto e l’ordine del Paradiso dantesco, I, Il concetto, Città di Castello 1911, pp. 99-100, nel luogo in cui, trattando la questione dei due Paradisi, «o, per meglio dire, del doppio aspetto dell’unico Paradiso», sostenne che il primo era definito «del riposo e della pace celeste» dal «premio essenziale» che vi si era ottenuto, e che il secondo riceveva il carattere «del moto o delle apparizioni nelle diverse sfere» dal premio accidentale «onde i beati si muovono dalle loro sedi del paradiso, non solo per far segno del loro diverso stato di vita e delle proprietà del corpo glorioso […], ma, a quel modo che là nel Limbo, a dimostrare la stima verso Virgilio e Dante loro s’erano fatti incontro Omero ed altri famosi poeti, anche per far segno del gaudio del Paradiso sopra un peccatore convertito, com’era il medesimo Dante» (p. 100). Non era grande prosa, come si vede; ma a essere errato era, soprattutto, il concetto. 39. Par. III 79-81. 40. Par. XXXI 55-57, 67-69. 41. E non esauriente, tuttavia, come ho detto. Ad altre questioni si sarebbe dovuto infatti prestare più attenzione, se l’intendimento fosse stato di trattarla in ogni suo aspetto. Sarebbe stato necessario, per esempio, indagare in modo più stringente le «fonti» (a cominciare, per l’Inferno, dall’Etica nicomachea) delle quali Dante si servì e che elaborò nel delineare la sua concezione. Il che non può farsi qui. Ma vorrei tuttavia osservare che non mi sembra persuasivo quel che scrisse il Fubini, Il peccato di Ulisse, pp. 53-54, a giudizio del quale sarebbe invenzione dei critici l’idea che nella Commedia, «ogni personaggio dovrebbe comparire come esempio di un peccato, e la ragione poetica di ogni episodio coincidere con la ragione che ha assegnato questa o quell’anima per il suo peccato a uno o ad altro cerchio dell’oltretomba». Assai più complessa sarebbe invece, sempre a suo giudizio, «la concezione del poema, e meno semplici le relazioni fra la struttura morale dell’oltretomba astrattamente considerata con le sue partizioni di peccati e di pene e la poesia della Commedia, che ora fa di quei peccati il proprio soggetto, ora li abbassa non diremo a pretesto ma ad antefatto di una storia ispirata a tutt’altri motivi, senza che per questo venga meno l’unità, varia e articolata unità, del poema dantesco» (p. 54). Il che, più che per ogni altro episodio dell’Inferno, avverrebbe per quello di Ulisse, «che non per le sue frodi, né per altro più grave peccato che qui Dante condannerebbe, è divenuto un personaggio della Divina Commedia, bensì come esempio dell’umana magnanimità» (p. 55). Non discuterò punto per punto le premesse teoriche di questo discorso. Ma, senza riprendere qui la questione della poesia e della struttura, da me, in altre occasioni, trattata in sede filosofica, vorrei osservare che, se la poesia sorge quando sorge e al di là, quindi, di ogni rapporto che stabilisca con la struttura, e la struttura con lei, allora deve dirsi che, non solo non c’è ragione che possa imporre di non discutere di quest’ultima nella logica che l’ha dettata in un certo modo e non in un altro, con quei caratteri e non con altri, ma che tutto invece conduce a dire che quella ragione c’è, ed è la sola che sul serio conti quando si tratti di comprendere e ricostruire i significati di un’opera. Fare storia di Dante significa fare storia, non della poesia, che è pura retorica assumere che ne abbia una, ma della struttura: soprattutto quando, al di là, o al di qua, dei simboli e delle allegorie, si abbia cura di individuarvi il tema filosofico e teologico che l’ha determinata dal di dentro. Che poi la Commedia sia piena di poesia, e tale che non la leggeremmo come la leggiamo se ne fosse priva, è un’ovvietà sulla
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quale, poiché tutti (credo) convengono, non occorre discutere. Ma è un puro pregiudizio, nato proprio dalla superstizione dell’unità, che la struttura sia qualcosa di astratto, che alla poesia è tuttavia connesso come a una bella statua lo è il materiale fondamento sul quale poggia. La questione seria non riguarda il nesso che tiene insieme la statua e il fondamento, e che, inteso così, cioè nella sua materialità, non ha nessun particolare significato oltre quello della congiunzione che realizza. Ma riguarda bensì la struttura dell’opera, la coerenza o la non coerenza dei motivi concettuali che le stanno alla radice, il progresso che questi hanno eventualmente compiuto via via che il discorso tornava su certi problemi e nuovi temi si affacciavano alla mente di Dante. 42. Inf. V 4-6. 43. Par. VII 26. 44. Cfr. qui su n. 7. 45. Inf. IV 35 ss. Non è questa la sede nella quale, da parte di chi ne avesse la competenza, potrebbe comunque affrontarsi, nei suoi vari aspetti, la questione della grazia e della salvezza degli infedeli. Per Dante, cfr. F. Ruffini, Dante e il problema della salvezza degli infedeli, in «Studi danteschi», 14 (1930), pp. 79-92 (e anche il quadro della questione da lui tracciato in La vita religiosa di Alessandro Manzoni, I, Bari 1931, pp. 341-42). Cfr. anche C. Grabher, Il Limbo e il nobile castello, in «Studi danteschi», 9 (1950), pp. 41-60; Padoan, Il pio Enea, l’empio Ulisse, pp. 103-24; F. Forti, Magnanimitade. Studi su un tema dantesco, Bologna 1977, pp. 9-48. E cfr. anche Y. Batard, Dante, Minerve et Apollon, Paris 1952, pp. 195-222. 46. Cfr., per es., Purg. III 37-45, ben commentato da Croce, La poesia di Dante, p. 108, e da Sapegno, Purgatorio, p. 29. 47. Cfr., per es., Sapegno, Inferno, pp. 41 e 43-44. 48. Cfr. il mio articolo, Il “foco”, la “lumera”, il “nobile castello” (Nota a Inferno IV 67-151), in «La Cultura», 44 (2006), pp. 271-95. 49. Per la complessa questione che concerne questo personaggio che, sebbene suicida (ma per ragioni di libertà), fu posto da Dante a guardiano del Purgatorio, non è possibile soffermarsi qui, né dare indicazioni bibliografiche (al riguardo, M. Fubini, Catone, ED, I, 8767-82). Senza dimenticare il monumentale saggio di F. D’Ovidio, Il primo canto del Purgatorio (1906), in Nuovi studii danteschi. Il preludio del Purgatorio e discussioni varie, Napoli 1932, pp. 1-125, che a questioni oziose alterna osservazioni acute, si aggiunga Scott, Dante magnanimo, pp. 147 ss, con il quale, per altro, non sempre consentirei, e ora anche il mio Le autobiografie di Dante, Napoli 2008, pp. 166-77. 50. Par. XX 43-48, 79 ss. Sulla questione della salvezza di Rifeo e di Traiano, basti il rinvio a B. Nardi, Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960, p. 119, e Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, p. 102, Sapegno, Paradiso, pp. 251-52, e E. Paratore, Tradizione e struttura in Dante, Firenze 1968, pp. 290-94. 51. Con Croce, La poesia di Dante, p. 89, non parlerei dunque, almeno nel senso che egli dava all’espressione, di «sublime peccato». 52. È dunque inaccettabile quel che si legge in Sanesi, L’ultima navigazione di Ulisse, p. 170, e, in genere, nei critici che in Ulisse ravvisarono, e ravvisano, un eroe, tra rinascimentale e faustiano: cfr., per es., M. Rossi, Gusto filologico e gusto poetico. Questioni di critica dantesca, Bari 1942, p. 103, il quale, sebbene ritenesse che, con il personaggio dantesco, già il Rinascimento battesse «alle porte di questo chiuso inferno», era tuttavia critico assai più fine e accorto e misurato di quanto, nel caso specifico, non si mostrasse A. Rüegg, Die Jenseitsvor-
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stellungen vor Dante und die übrigen literarischen Voraussetzungen der Divina Commedia. Ein Quellenkritischen Kommentar, II, Köln 1945, p. 111, il quale, a riscontro di Ulisse, trovò il modo di citare il Riccardo III di Shakespeare e il Cesare Borgia della storia, il principe di Machiavelli e il Faust di Marlowe, ma anche, e come avrebbe potuto mancare, Cristoforo Colombo. Per questa asserzione, il Rüegg meritò intera la critica di Fubini, Il peccato di Ulisse, p. 61, n. 1 (e cfr. anche U. Bosco, Dante vicino, Caltanissetta-Roma 1966, p. 66). 53. Sapegno, Inferno, p. 299. Per ulteriori questioni, cfr., infra, il mio saggio Delle lucciole, della frode e di alcune altre cose. 54. Inf. XXVI 90-102. Sui versi 94-98, e sulle loro varie implicazioni (anche biografiche), mi sono soffermato in un articolo: cfr. infra, A proposito di Inferno XXVI 94-98. Che soprattutto Ovidio vi sia presente, è stato notato innumerevoli volte: cfr. per es. E. Moore, Studies in Dante, I, Scripture and classical Authors in Dante, Oxford 1896, p. 216, e anche, per un altro esempio, Parodi, Lingua e letteratura, II, 357, nonché, fra i critici recenti, Martellotti, Dante e Boccaccio, pp. 25-29, che ha fini osservazioni. Si vedano, da ultimo, Brugnoli, Studi danteschi, III, 39-41, passim, e Picone, Il contesto classico, pp. 182-83. – Che i vv. 9192 («che sottrasse/ me più di un anno») richiamino Met. 14, 308 «annua nos illic tenet mora», è evidente (anche se in Dante l’annua mora sia stata dilatata a «più di un anno»). Anche la corrispondenza fra il v. 106 («io e’ compagni eravam vecchi e stanchi») con i vv. 435-40 di questo medesimo libro ovidiano non è perfetta. In Ovidio i compagni di Ulisse sono resides et tardi al momento di riprendere il mare dopo l’anno, e a causa dell’anno, trascorso presso Circe. In Dante sono vecchi (non resides, oziosi), perché molto tempo era ormai trascorso da quando avevano lasciato, non solo il lito troiano, ma anche la dimora della maga. I versi di Ovidio appartengono, com’è noto, al discorso che Macàreo rivolse a Enea per spiegargli la circostanza in cui in cui si trovava per non aver voluto seguire Ulisse nel viaggio che aveva intrapreso dopo aver messo fine al soggiorno presso Circe. E Enea è citato al v. 93 per indicare colui che dette nome al luogo da cui Ulisse si dipartì e che dall’eroe troiano era stato chiamato con il nome della nutrice Caieta (Verg. aen. 7, 1-4, Ovid. met. 14, 157), senza, mi pare, che alla citazione debba attribuirsi il significato che è riuscito a vedervi Scott, Dante magnanimo, pp. 141-42. Che poi fra il viaggio di Enea e quello di Ulisse Dante ponesse la differenza che sussiste fra un percorso guidato dalla provvidenza, e che perciò giunge alla mèta, e un altro che, non altrettanto protetto, si conclude nella catastrofe (cfr. anche J.M. Lotman, Il viaggio di Ulisse nella “Divina Commedia” di Dante, in Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, a cura di S. Salvestroni, Bari 1980, pp. 99-100) è, direi, considerazione elementare, dalla quale è tuttavia impossibile ricavare la conseguenza dell’empietà e della malvagità del secondo rispetto alla pietas e alla bontà del primo. Ma non direi che sia in particolare il v. 93 a fornire il sostegno necessario a questa interpretazione. La citazione che Ulisse fa dell’eroe troiano è strettamente funzionale all’indicazione del luogo da cui il suo viaggio fatale ebbe inizio; e, in quanto tale, direi che non significhi se non questo. 55. Dante doveva del resto sapere, non solo delle molte peripezie che, rimessosi in mare dopo la fine della guerra troiana, Ulisse aveva dovuto subire, ma anche della progressiva perdita di tanti suoi compagni, dell’assottigliarsi dei suoi uomini: non sarà per caso che, ai vv. 100-101, si parli della «compagna picciola da la qual non fui diserto». 56. Del resto, anche se si prescinde dalle fonti medievali, assumendo che Dante le ignorasse, può e deve invece ritenersi che in Sen. ep. 66, 26, egli avesse letto di Ulisse che «ad Ithacae suae saxa sic properat, quemadmodum Agamennon ad Mycenarum nobiles muros. Nemo enim patriam quia magna est amat, sed quia sua»; e che anche in Hor. ep. 1,
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2, 17-18, avesse trovato notizie del viaggio che l’eroe compiva per tornare in patria (come fu ben notato da Forti, Magnanimitade, p. 167, n. 21). 57. Servii grammatici … in Vergilii carmina commentaria, ed. G. Thilo e H. Hagen, I, Leipzig 1881, pp. 222-23. E cfr. Cic. de nat. deor. 3, 22, 56. Per altri testi, cfr. E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Milano 2002, p. 70. – M. Corti, I percorsi dell’immaginazione, Torino 1993, ha posto la questione se Dante avesse inventata lui la fabula che fa morire Ulisse, dopo cinque mesi di navigazione oceanica, in mezzo al mare aperto. Ma il fatto dell’invenzione, che non si può escludere, vale comunque meno della tesi che sottende l’intera ricerca di questa studiosa, a giudizio della quale, in un’epoca in cui le «certezze dell’universo scolastico-cristiano» erano ormai in crisi, «Dante titanicamente reagisce, offrendoci il montaggio, su suggestioni agostiniane e virgiliane, di un sublime naufragio dell’ideologia per lui errante» (p. 145). È questa tesi, è il modo in cui la Corti la ragionò, a richiedere attenzione, e a suscitare perplessità. Per qualche cenno al riguardo, cfr. infra, e, in particolare, Nota II in appendice. – Aggiungo che, nel v. 84, Picone, Canto XXVI, p. 366, ha visto l’intenzione di contrastare «l’interesse dell’epica classica (e dell’Eneide in particolare) per le gesta (positive o negative) compiute da Ulisse, con l’interesse del romanzo medievale (e nella fattispecie della Commedia) per le avventure dell’eroe, soprattutto la sua ultima avventura marina»; e ingegnosamente ha osservato che, essendo consapevole di non aver meritato nulla, di Ulisse e Diomede, con i suoi versi, il suo fu il tentativo di «risarcire» in extremis «la fama (che lui stesso aveva oscurato) di questi personaggi mediante il poema italiano». Non si può, d’altra parte, se ci si mette su questo piano, non osservare che, a proposito dell’«aver meritato», Virgilio non escludeva che un suo merito ci fosse stato, e solo dubitava se fosse stato grande o meno grande («assai o poco»), mentre a sé stesso, e non a Dante, attribuiva la paternità degli «alti versi» scritti nel mondo. 58. Che la fama della grandezza possa, per reazione, stimolare la tendenza a metterla in discussione, e a capovolgerla, è, nel caso di Ulisse, più che evidente: alla rappresentazione eroica del personaggio fa riscontro quella negativa nei suoi vari aspetti, anche comici. Così, nell’Amorosa visione, XXIII 31-39 (ed. Branca, in Tutte le Opere, a cura di V.B., III, Milano 1974 [red.A], p. 81, [red.B], p. 205), Boccaccio rappresentò in forma grottesca i due eroi greci: «e poi, appresso a queste cose dette,/ Diomede ed Ulisse si vedeano/ divenuti merciai vender gioiette, etc.». 59. È l’ordine che il figlio, il padre, la consorte hanno nel discorso che Enea rivolse ad Anchise in aen. 2, 664-67: «hoc erat, alma parens, quod me per tela, per ignes/ eripis, ut mediis hostem in penetralibus utque/ Ascanium patremque meum iuxtaque Creusam». La connessione con il verso virgiliano (666) fu notata da Pietro di Dante nel suo Commentarium, ed. Nannucci, Firenze 1894, p. 283, e ora anche dal Brugnoli, Studi danteschi, III, 43 (ma cfr. già, fra i moderni, G. Poletto, La Divina Commedia, I, Inferno, Roma-Tournay 1894, pp. 565-66). Diversa, com’è noto, la sequenza di Ovid. her. 1, 97-98: «tres sumus imbelles numero, sine viribus uxor/ Laertesque senex Telemachusque puer». Sono parole dell’epistola che Ovidio immaginò che Penelope avesse affidata a qualcuno che, viaggiando, avrebbe forse potuto far recapitare a Ulisse lontano. 60. Cfr. per questo infra, A proposito di Inferno XXVI 94-98. 61. Inf. XXVI 107-108. 62. Cfr., al riguardo, M. Detienne, J.P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nella Grecia antica, trad. it., Bari 1977, pp. 13-14, passim. Ma anche Stanford, The Ulysses Theme, pp. 99-100.
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63. Cfr. ancora Detienne, Vernant, Le astuzie dell’intelligenza, pp. 27 ss, passim. 64. Mi riferisco al suggestivo libro di P. Boitani, L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, Bologna 1992, p. 49. A suo parere, «Ulisse vuol vivere il non essere, desidera la vitain-morte» (pp. 46-47). Il che è certo suggestivo, come ho detto, anche se filosoficamente improbabile; e spiega perché, pur essendo Boitani uno scrittore ricco di dottrina e di talento, non mi sia possibile accogliere questa sua tesi. 65. L’accenno è, ovviamente, al viaggio e al naufragio dei fratelli Vivaldi nel 1291, dei quali si è supposto (Nardi, La tragedia di Ulisse, p. 125) che Dante avesse avuta notizia. Cfr. G. Padoan, Navigatori italiani nell’Oceano fra XIII e XIV secolo, in Optima Hereditas. Sapienza giuridica romana e conoscenza dell’ecumene, Milano 1992, pp. 27-32, e Baldelli, Dante e Ulisse, p. 364. 66. 22 B 119 Diels-Kranz. 67. L.B. Alberti, Intercoenales: Fatum et Fortuna, in Opera inedita et pauca separatim impressa, ed. Mancini, Firenze 1890, pp. 142-43. 68. Su questo, come sul carattere essenziale di Ulisse, hanno invece insistito, per esempio, Scott, Dante magnanimo, pp. 117-93, e Forti, Magnanimitade, pp. 198 ss. 69. Conv. IV xxvi 7-8. 70. Ibidem, 8-9. 71. Verg. aen. 4, 361. E cfr. 345 ss. 72. Arist. eth. nic. Δ 1123 b 3. 73. Come intende per esempio, ma non a ragione, Forti, Magnanimitade, pp. 200-201. 74. Conv. IV xvii 5. 75. Sulla metafora «remi/ali» cfr. E. Raimondi, Per una immagine della Commedia (1967), in Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca, Torino 1970, pp. 31-37; ma già J. Freccero, Dante’s Prologue Scene, II, The Wings of Ulysses, in «Dante Studies», 84 (1966), pp. 12-25, e quindi D. De Robertis, Lo scempio delle umane proprietadi (Inferno, canti XXIV e XXV, con una postilla sul XXVI), in «Bullettino storico pistoiese», 81 (1979), pp. 57-60. G. Gorni, Le “ali” di Ulisse, emblema dantesco, in Lettera nome numero. L’ordine delle cose in Dante, Bologna 1998, pp. 175-95. Sui remi e le ali, si intrattenne anche Pascoli, Lettura del canto II del “Purgatorio”, in Prose, II, 1488-516, connettendo Ulisse all’angelo nocchiero. 76. Anche per questo, potrebbe osservarsi, l’orazione è «picciola», breve. La tradizione offriva molteplici esempi della facondia di Ulisse, dell’elaborata ricchezza dei suoi discorsi (basti pensare a quello, ben noto a Dante, che il personaggio pronunzia nel decimoterzo libro delle Metamorfosi ovidiane, e che è diretto a far sì che i capi achei diano a lui, invece che a Aiace, le armi di Achille (ne ho scritto in un articolo destinato a una miscellanea di studi dedicati a Gugliemo Gorni, e che può leggersi anche in questo volume). Dante ne mutò il segno. Rese intenso l’esteso, più che essenziale il puramente oratorio: un indizio, anche questo, della trasformazione che l’antico subì nella sua arte. Che poi l’orazione sia riuscita «un massimo dell’eloquenza umana», come la Chiavacci Leonardi, La guerra de la pietade, p. 148, la definì, e un autentico modello di sapienza retorica (cfr. anche A. Dolfi, Il canto di Ulisse. Occasione per un discorso di esegesi dantesca, in «Forum italicum», 7-8 (1973-1974), pp. 22-45), non significa certo che fosse stata concepita come uno strumento di inganno. 77. L’espressione «di retro al sol», che resta comunque di non facile interpretazione, non può significare «seguendo il corso del sole», come intesero, per es., Sapegno, Inferno, p. 306, e ora anche Inglese, Inferno, p. 299. Più persuasivo Pagliaro, Ulisse, pp. 409-10,
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il quale, riprendendo Mori, L’ultimo viaggio di Ulisse, pp. 7-8, intese che «di retro al sol» fosse «la determinazione spaziale dell’emisfero australe, non abitato; e questo è il mondo senza gente, che rimane alle spalle del sole, quando nel suo giro intorno alla terra si affaccia nel nostro emifero» (p. 410). Ma cfr. p. 410, n. 22, dove è riferita l’opinione di O. Baldacci, che, in una sua lettera, confermò l’interpretazione di Pagliaro e la precisò, utilizzando Ristoro d’Arezzo. Cfr. anche Seriacopi, All’estremo della “prudentia”, pp. 139-41. 78. D’A. S. Avalle, L’ultimo viaggio di Ulisse, in Modelli semiologici nella Commedia di Dante, Milano 1975, pp. 40-63. E cfr. anche C. Ossola, Figurato e rimosso, Bologna 1988, pp. 38-42. Un cenno anche in Chiavacci Leonardi, La guerra de la pietate, pp. 14445, n. 17. 79. H. Christensen, Das Alexanderlied Walters von Châtillon, Halle 1905, p. 113; e Avalle, L’ultimo viaggio di Ulisse, p. 47. 80. Curt. Ruf. hist. Alex. Magni, 9, 9, 1-5. 81. Ibidem, 2-4. 82. Alexandreis 9, 501 ss (ed. Mueldener, Leipzig 1863). 83. Ibidem, 10, 93-100. 84. Ibidem, 10, 191-95. 85. Anche G. Getto, Aspetti della poesia di Dante, Firenze 1947, pp. 103 n. sostenne che per aver tentata l’impresa dell’ultimo viaggio Ulisse non può considerarsi peccatore, e non ne fu infatti «punito», perché anzi, con quel viaggio, egli obbedì a una «legge nobilissima della natura umana che però (come tutta la vita che dobbiamo vivere porta alla morte) va ad urtare contro un invalicabile limite, che non è la punizione di una specifica e inesistente colpa, ma una legge naturale, il destino dell’uomo, di ogni uomo, che non può esaurire l’infinita serie dei problemi». Ma, absit iniuria, non si sarebbe potuto argomentare in modo più generico, e meno persuasivo, una esigenza che, almeno in parte, come si è visto, dev’essere condivisa. Nell’interpretazione del Getto, Ulisse è innocente perché era scritto nella natura sua di uomo che egli tentasse quell’impresa, e che, non potendo varcare l’invalicabile limite intrinseco al suo essere mortale, fosse travolto in una catastrofe; la quale non sarebbe stata perciò niente di diverso dalla morte che normalmente pone termine alla vita dell’uomo. Il canto ventiseiesimo non sarebbe infatti se non una metafora della vita umana e della sua finitezza; donde il suo non avere «nulla di medievale», il suo essere «di ogni tempo» e il suo valere «per ogni uomo che senta la sua condizione di uomo, di destinato alla morte». Vero è che, come il Getto riconobbe, «c’era», per Dante, «la questione del mistero teologico»; ma, aggiunse, «a parte il fatto che nell’episodio di ciò non è fatta assolutamente questione, esso non contraddice poi troppo col discorso che abbiamo tenuto». Dove non si sa in effetti se sia più incomprensibile il «mistero teologico», che forse dovrà intendersi come la tesi teologica relativa alla insondabilità del pensiero divino, o la contraddizione, non poi così grande, in cui quello entrerebbe con il discorso svolto dal critico. Si è mai vista una contraddizione che non contraddice «troppo»? Si è mai visto un «mistero» che, in quanto tale, entra, o non entra, in contraddizione con qualcosa? Non vorrei essere pedante e togliere il respiro alla bella libertà espressiva del critico. Ma è pur vero che, se entrasse in contraddizione con la tesi che definisce non peccaminoso il viaggio di Ulisse, quel mistero non sarebbe affatto un mistero, perché si definirebbe come l’opposta asserzione della peccaminosità intrinseca al viaggio. Ma, soprattutto, dove si faceva sentire, quella questione, se non nel canto in cui in modo esplicito a essa, tuttavia, non si alludeva? E se è così, non è evidente che anche il Getto avrebbe dovuto ammettere che altro è dire che nell’Inferno Ulisse fu accolto, non
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per l’ardimento che lo spinse oltre le colonne d’Ercole, ma per il peccato di frode, altro è escludere che quell’ardimento fosse, in re, peccaminoso, sebbene della sua peccaminosità il personaggio non potesse aver coscienza? Non è evidente che per comprendere il senso dell’episodio, non sarebbe comunque bastata la saggezza che ispirò a H. Hauvette, Dante et la pensée moderne, in Études sur la Divine Comédie, Paris 1922, p. 141, che ne ebbe comunque di molto migliori, le auree parole dalle quali il Getto (p. 102 n.) si dichiarò convinto («dans l’Ulysse dantesque nous ne pouvons voir que le glorificateur de l’energie virile et de l’esprit de sacrifice, mis au service de la science»)? 86. È questa forse la ragione, o una delle ragioni, per cui Dante si fece dire da Virgilio che a parlare con Ulisse e Diomede conveniva che fosse, non lui, ma la sua guida, «ch’ei sarebbero schivi,/ perché fuor greci, forse del tuo detto» (vv. 74-75). Della condizione di «estraneità» e, quindi, di reverenza che Dante avvertiva e professava nei confronti del mondo e della civiltà a cui quei greci appartennero ha parlato con grande finezza Sapegno, Inferno, p. 295. E cfr. F. Ageno, La fama di superbia dei Greci, in «Lingua nostra», 16 (1953), p. 77, e K. Heisig,“Perché fuor greci”, in «Romanisches Jahrbuch», 6 (1953/1954), pp. 83-91, Inglese, Inferno, p. 295. Ma, come credo si arguisca da quel che è detto nel testo, a me pare che debba andarsi oltre; e per questo ai versi 79-84 ho dedicato l’articolo Intorno a Inferno XXVI 79-84, che può leggersi in questo volume. 87. «Innocenza della colpa» non significa che questa non sussista; e anche per questo non credo che possa consentirsi con Fubini, Il peccato di Ulisse, pp. 58-59, a giudizio del quale, perfettamente degni, e l’uno e l’altro, del «nobile castello», Ulisse e Catone non vi furono accolti perché lì non sarebbero stati se non «nomi fra altri nomi » (p. 59). Lascio da parte il caso di Catone e della particolare valutazione che, nella sua spregiudicatezza, Dante fece del suo suicidio. Ma, osservarlo sarà banale. E non di meno è un fatto che Ulisse sta nell’ottava bolgia e non nel «nobile castello», perché il suo peccato fu, non di non aver conosciuto il vero Dio, ma di avere ingannato e frodato. In effetti, nel costruire l’estrema tragedia del personaggio, Dante poteva bensì prescindere dalla considerazione degli inganni e delle frodi, che in quella tragedia non ebbero parte e non andarono a costituirne la trama. Ma non perciò poteva prescinderne quando si fosse trattato di decidere se il personaggio meritasse l’Inferno, o quel particolare suo luogo che è il Limbo (anzi quello, ancor più particolare, che è costituito dal «nobile castello»). Se, per suo conto, Dante intuiva la fatale necessità dalla quale Ulisse era stato attratto in una così alta tragedia, non poteva invece ignorare che, per un altro verso, era pur sempre stato un maestro di inganni quello che ne era stato il protagonista. 88. L’acquisizione di questo punto costituisce il debito che quanti studiano Dante senza pregiudizi hanno contratto con l’opera di Bruno Nardi. 89. Par. X 133-38. Sul significato che deve attribuirsi all’elogio che, in questo canto del Paradiso, Tommaso pronunziò di Sigieri, occorrerebbe fermarsi a parte, ricostruendo il senso che l’esperienza averroista aveva avuto nel suo pensiero, e il rapporto in cui la poneva con la riflessione del suo grande antagonista. Non è, come si vede, questione che possa essere sbrigata in una nota e con parole generiche. Qualche osservazione nella Nota III in appendice. 90. Riferito allo stesso Dante, che ne è il soggetto, il tema del desiderio risuona con forza nella parte iniziale del canto: una prima volta, vv. 43-45: «io stava sovra ’l ponte a veder surto/ sì che s’io non avessi un ronchion preso,/ caduto sarei giù sanz’esser urto»; una seconda volta, e in modo del tutto esplicito, ai vv. 64-69: «”s’ei posson dentro da quelle
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favile/ parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego/ e ripriego, che ’l priego vaglia mille,/ che non mi facci de l’attender niego/ fin che la fiamma cornuta qua vegna:/ vedi che del desio ver lei mi piego!». – I vv. 43-45 richiamano i problematici, e assai discussi, vv. 12-15, con al v. 13 le due lezioni in alternativa, i borni/iborni, dove il primo essendo un sostantivo, il secondo un aggettivo riferito ai due viatores, a seconda che si legga in un modo o nell’altro, l’interpretazione della terzina risulta diversa. Rinvio, per maggiore informazione, alla nota del Petrocchi, Inferno, pp. 436-37, che dà gli elementi essenziali, e soprattutto a A. Pagliaro, Il testo della Divina Commedia e l’esegesi, in Altri saggi di critica semantica, MessinaFirenze 1971, pp. 201-09, al quale si deve il ripristino della lezione iburnei, proposta da Jacopo della Lana. La lezione iborni, presente nella tradizione antica, rivalutata da Pagliaro e adottata dal Petrocchi, non fu accolta, per es., da Sapegno, Inferno, p. 291, che, a differenza di coloro che leggono i borni e, come fu stabilito nell’edizione del 1921, mettono il verbo alla terza persona plurale («n’avevan fatte i borni etc.»), tiene quest’ultimo alla terza singolare; che, a meno che non si tratti di un materiale refuso, non dà senso (ma di questo deve trattarsi , di un refuso, se si considera che nella parafrasi il verbo è alla terza plurale). La lezione iborni è stata criticata da Picone, Canto XXVI, p. 361, che ripropone borni, lo intende come derivato dal francese antico borne nel significato, che possiede del resto anche in quello moderno, di limite: del limite, cioè, che separa la zona in cui, con la sua guida, si trova Dante, e che è protetta dalla grazia, da quella in cui si trovano i dannati dell’ottava bolgia: «significativamente», aggiunge, «al v. 44 un “ronchion”, sinonimo di “borni”, è ciò che impedisce al viator di cadere nella bolgia sottostante». Proprio qui sta, per altro, il punto critico della sua interpretazione. Deve infatti decidersi in che consista propriamente il limite che divide la zona di Dante da quella dei peccatori: se si tratti di un limite consistente o non consistente in un oggetto: borne, infatti, può anche significare qualcosa come una pietra che segna un confine, e in questo caso lo si intenderà come un oggetto, ma può significare anche un limite astratto, e in questo caso lo si intenderà come segnato dagli stessi viatores che, nel salire, si terranno lontani dal punto che, sorpassato, li farebbe cadere in basso: lontani da questo punto, oltre il quale c’è il vuoto nel quale si potrebbe precipitare (cfr. v. 44), e restando perciò il più possibile aderenti alla parete rocciosa da cui spuntano i borni. A rendere non in tutto persuasiva questa proposta è, non tanto la forzatura allegorizzante, che potrebbe essere condivisa, e non essere considerata una forzatura, se, com’è giusto e non arbitrario, il v. 12 fosse connesso con i vv. 44-45 («sì che s’io non avessi un ronchion preso,/caduto sarei giù sanz’esser urto») che, a loro volta, riprendono i vv. 16-18 («e proseguendo la solinga via/ tra le scheggie e tra’ rocchi de lo scoglio/ lo piè sanza la man non si spedia»), quanto piuttosto dal mancato chiarimento del nesso che pur deve stabilirsi fra i borni e le scalee. Il limite che separa «il mondo della dannazione in cui si trova relegato Ulisse dal mondo della salvazione (attraversato dal pellegrino)» è, nella sua tesi, la stessa cosa delle sporgenze che, nella roccia, formano un’impervia scala, e possono essere intese come un limite che separa dal vuoto solo nel senso che, chi vi cammina sopra, evita, tenendovisi stretto, di cadere giù. A parte la nota allegorizzante, che è il proprium della proposta di Picone, le interpretazioni restano quelle che si sono delineate nel corso dell’esegesi antica e moderna. In forza della prima, deve intendersi che, traendo seco Dante, Virgilio prendesse a salire su per le stesse scale, o meglio per gli stessi scalini che, nel discendere, erano stati offerti dalle sporgenze della roccia. In forza della seconda deve intendersi che, avendo dovuto procedere per una scala disagevole che, in quella direzione, era più pericolosa, i due viatores erano stati resi pallidi (iborni) dal pericolo a cui la discesa li aveva esposti. Che, nella logica di questa
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interpretazione, fosse la discesa a offrire il maggior pericolo, è provato, e contrario, da ciò che, nel salire, il piede poteva essere aiutato dalla mano («il piè sanza la man non si spedia»): il che, non con altrettanta facilità, poteva avvenire nella discesa. Devo dire che, quest’ultima interpretazione sembrandomi la più naturale, ne sarei indotto a condividere l’antica glossa, e, con Pagliaro, Petrocchi, Bosco-Reggio, Pasquini-Quaglio e ora anche Inglese, Inferno, p. 291, per fare solo qualche esempio, ma non Chiavacci Leonardi, Inferno, pp. 794-95, a leggere, al v. 12, iborni. 91. Cfr., per es., Arist. Eth. nic. A 1094 a 18-22. Ma, piuttosto che a questo luogo, credo che convenga rinviare a Tommaso d’Aquino, Exp. eth. I, lect. iv 48: «indigentia autem alicuius boni auget desiderium»: anche se, a rigore, l’idea della «privazione» sia in Dante, e non soltanto per una sfumatura, diversa. In realtà, non dovrebbe dirsi che sia l’indigentia alicuius boni ad accrescerne il desiderio, perché l’indigentia è costitutivamente intrinseca alla sua natura: con la conseguenza che non può essere evitata, e che culmina nel riconoscimento che il desiderio rinunzierebbe a esser tale se il suo aumento conducesse tuttavia alla sua realizzazione. – Aggiungerei che, anche per questo, non può escludersi, per questi luoghi, il ricordo di de an. B 413 b 21-24; e soprattutto 414 b 5-6, dove il desiderio è ὅρεξις (può valer la pena di ricordare che in greco questo termine indica tanto il desiderio quanto la tendenza). 92. Basti il rinvio a Symp. 20 D 1-3, passim. 93. Epist. XIII 90 (cfr. D. Alighieri, Epistola a Cangrande, a cura di E. Cecchini, Firenze 1995, p. 32). 94. Par. XIX 70 ss. Per qualche osservazione, su questo punto, cfr. infra, il mio saggio Ulisse e Adamo, pp. 144 ss. 95. Su questo punto cfr. quel che ho scritto in Dante. L’imperatore e Aristotele, pp. 253-90. 96. Sul concetto della grazia, è ricchissima di testi e indicazioni la «voce» di J. Van der Meersch, Grace, in Dictionnaire de théologie catholique, ed. A. Vacant, E. Mangenot et E. Amann, VI 2, Paris 1925, cc.1554 b-687 a. 97. Rom. 11, 6. 98. Aug. contra duas epistolas pelagianorum, I 2, 7, PL, 44, 553. 99. Conv. I i 1-2. 100. Alludo alla questione posta dalla frase «di providenza di prima natura impinta», nella quale, com’è noto, «prima» è lezione proposta dagli editori del 1921, e cioè, nello specifico, dal Parodi e dal Pellegrini. La loro soluzione fu contestata da Busnelli e Vandelli che, nella loro edizione, tornarono alla lezione «propria», bene attestata dalla tradizione manoscritta, ma non accolta tuttavia dalla Ageno nella sua. Alla difesa della lezione «prima», argomentata da B. Nardi, Nel mondo di Dante, Roma 1944, pp. 46-47, vorrei aggiungere, a conferma, che netta è nel testo la distinzione fra la perfezione che è «propria» a ciascuna cosa che vi è inclinata e la «provvidenza di prima natura» che ve la «impinge». Dopo di che, sarà vero, senza dubbio, che anche la «prima natura» ha la sua intrinseca proprietà; che è per altro quella di «impingere» ciascuna cosa alla «propria». Non credo quindi condivisibile l’argomentazione di M. Simonelli, Materiali per un’edizione critica del “Convivio” di Dante, Roma 1970, p. 65. La questione resta comunque più che controversa: cfr. le sottili osservazioni di G. Inglese, Provvidenza, natura, desiderio umano di sapere, in L’intelletto e l’amore. Studi sulla letteratura italiana del Due e Trecento, Firenze 2000, pp. 79-97. 101. Conv. I i 2-4.
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102. Com’è noto, P. Rajna, Dante e i romanzi della Tavola rotonda, in «Nuova Antologia», giugno 1920, p. 224, osservò che al v. 84 «dove per lui perduto a morir gissi», il participio passato «perduto» è termine tecnico nei romanzi del ciclo brettone, e allude ai cavalieri che, «postisi in avventure, entrati nelle foreste, non hanno dato sentore di sé, e si temono, o credono, morti». Vorrei aggiungere che nell’impersonale «a morir gissi» retto dal complemento d’agente «da lui perduto», sembra avvertirsi qualcosa che, pur nell’antecedenza temporale del «perduto» al morire, coglie l’identità sostanziale dei due atti: quasi che fosse già in qualche modo morto, colui che, per quelle vie, si era perduto in quei luoghi sconosciuti morendovi. Il che, per altro, significa, non già che, volendola, Ulisse corresse alla morte e che questa fosse il suo consapevole telos, ma che, in quanto perduto e perciò posseduto da questo destino, necessariamente egli procedeva nella sua direzione. Il desiderio di conoscere sfidava consapevolmente la morte (si ricordi la «tanto picciola vigilia/ d’i nostri sensi ch’è del rimanente» [vv. 114-15]): non ne era il desiderio. 103. Il de causis era stato «allegato» da Dante in III ii 4. Il passo a cui si riferisce è IV 37-39. Cfr. quel che al riguardo Nardi osservò, per lettera, a A.E. Quaglio, che ne riferì un passo nell’Appendice da lui apposta alla seconda edizione del Convivio curato da Busnelli e Vandelli, II, Firenze 1962, pp. 481-82. Il passo è citato anche da C. Vasoli nel suo commento al Convivio, nelle Opere minori, a cura sua e di G. De Robertis, I/2, Milano-Napoli 1988, pp. 304-305. Ma cfr. comunque B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, pp. 100-101. 104. Summa contra gent. II 79. 105. Mon. I iii 3. 106. In Conv. IV iv 4, è avanzato il concetto, al quale altrettanto rilievo sarà conferito nella Monarchia I xi 11-12, secondo cui, «tutto possedendo e più desiderare non possendo», l’Imperatore è tale da garantire di per sé stesso il superamento della cupidigia, massimo flagello dell’umanità. L’idea era qui che, come le cose desiderabili non sono infinite di numero, il conseguimento dell’ultima reca con sé la fine del desiderio. Se, per altro, si osservasse e avvertisse che, in tanto le cose desiderabili non possono esser dette finite di numero, in quanto è il desiderio che dischiude l’ambito del desiderabile e non è questo che, con il suo limite, limita il desiderio, di necessità dovrebbe dedursene che parlare di una fine del desiderio nella sua attuazione è impossibile. E di questa consapevolezza c’è, in Dante, ben più che un indizio psicologico; che risulta evidente pur che si accenni a scendere verso la radice dei suoi concetti, molto più mobili e inquieti di quanto la definizione del desiderio come proporzionato a quel che qui giù, in terra, desiderare si può, di per sé non comporterebbe. In Mon. I xi 12, è detto che la iurisdictio dell’Imperatore terminatur Oceano solum; e non si dà dunque, per essa, un oltre che, avendo un oltre, possa limitarne l’assolutezza politica e, in vista della compiuta realizzazione di questa, debba sempre di nuovo essere perseguito e raggiunto. Ma Ulisse che, come dico nel testo, fra questi ragionamenti, e nel vivo delle passioni che solo in parte ne erano dominate e tenute a freno, ebbe il suo atto di nascita, considerò l’Oceano, non come il limite non ultra quem, che per ciò stesso è segno di perfezione, ma come, al contrario, esso stesso interno al regno della steresis, che è la stessa cosa del desiderio. Ossia di qualcosa che, nell’atto in cui vi coincideva, tendeva ad andare oltre senza, questo «oltre», poterlo tuttavia conseguire. 107. E. Gilson, Le thomisme. Introduction à la philosopie de saint Thomas d’Aquin, Paris 1948, p. 248, e anche, più largamente, L’esprit de la philosophie médiévale, Paris 1944, pp. 110-32.
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108. Thomae Summa theol. 1, 2, q. 3 ad 1. 109. Conv. III vi 9-10. 110. Cfr. la ricca nota del Vasoli, nel suo commento al Convivio, p. 366. 111. Il passo che presenta difficoltà, ed è in effetti sintatticamente incongruo, è Conv. III vi 8. Ne ho trattato in una Nota a Convivio III vi 8, in Le parole dell’essere. Studi in onore di Emanule Severino, Milano 2005, pp. 519-29. 112. La metafora della nave e del porto è usata qui in senso generico, senza precisi riferimenti testuali: ma cfr. comunque Conv. II i 1; IV v 8. Cfr. anche E.R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino, trad. it., Firenze 1992, pp. 148-49, e quindi R. Hollander, Allegory in Dante’s Commedia, Princeton 1969, pp. 220-32, A.A. Iannucci, Forma ed evento nella Divina Commedia, Roma 1984, p. 153. 113. Conv. III xv 3. 114. Ibidem, III xv 3-6. 115. Ibidem, III xv 7-10. 116. Thomae Aquin. Summa contra Gentiles, IV 52. 117. Conv. IV xii 15. 118. Ibidem, IV xii 16-17. 119. Ibidem, IV xii 11-12. 120. Ibidem, IV xii 13-15. 121. Ibidem, IV xii 21. 122. Ibidem, IV xiii 1-2. 123. Nel commento al Convivio, II, Firenze 1954, pp. 154-55. 124. Nardi, Dal Convivio alla Commedia, pp. 75-83. 125. Conv. IV xiii 8-9. La questione richiede un piccolo chiarimento. Se ebbe sott’occhio l’Expositio di Tommaso d’Aquino all’Etica nicomachea (il luogo in questione è A 1100 b 11-12), Dante non si avvide o, più probabilmente, non ricordò, che in quel testo il rinvio a Simonide era eseguito sul fondamento, non del passo da lui commentato, ma di Metaph. A 2, 982 b 30-31, del resto esplicitamente ricordato dal Commentatore («et fuit hoc dictum Simonidis poetae, ut patet in principio Metaphysicae»). A mettere Dante fuori strada fu del resto il modo in cui la questione era stata proposta dallo stesso Tommaso nella Summa contra Gent. I 5, ossia nel testo che soprattutto forse, come fu suggerito da E. Proto, Note al “Convivio” dantesco, in «Giorn. st. lett. ital.», 65, 1915, p. 252), egli ebbe presente. Qui, tornando a citare Simonide, Tommaso si riferì al capitolo settimo del decimo libro dell’Etica, dove l’antico poeta non era ricordato; e, per qualche ragione, omise il riferimento alla Metafisica. Il luogo dell’Etica artistotelica che egli ebbe in mente è K 7, 1177 b 30-31 οὐ χρὴ δὲ κατὰ τοῦς παραινοῦντας ἀνθρώπινα φρονεῖν ἄνθρωπον ὄντα οὐδὲ θνητὰ τὸν θνητόν, ἀλλ’ ἐφ’ ὅσον ἐνδέχεται ἀθανατίζειν καὶ πάντα ποιεῖν πρὸς τὸ ζῆν κατὰ τὸ κράτιστον τῶν ἐν αὑτῷ. E il concetto che vi è svolto è bensì, nelle grandi linee, analogo a quello delineato nella Metafisica: salvo che, come i commentatori hanno rilevato, il riferimento è, non a Simonide, bensì, forse, a Pind. Isthm. 4, 16 (che non mi sembra, per altro, pertinente) e a Eur. fr.1040 Nauck. Il verso di Simonide, che Aristotele citò in Metaph. A 2, 982 b. 31, è nell’Encomion a Scopas, 5-7 θεὸς ἂν μόνος τοῦτ’ ἔχοι γέρας, e prosegue ἄνδρα δ’ οὐκ ἔστι μὴ οὐ κακὸν ἔμμεναι,/ὅν ἂν ἀμάχανος συμφορὰ καθέλῃ. È evidente, ma la questione esula dai limiti di questa indagine, che, nel servirsene, Aristotele lo trasse fuori del suo contesto, assegnandogli un significato che non ha. È probabile, del resto, che egli avesse presente la discussione che di questo carme Platone fece in Prot. 339 A 347 ss (e
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vedi in particolare 341 E 3) e che ne fosse condizionato. L’analisi platonica, spesso accusata di ὕβρις interpretativa, ha dato luogo a varie questioni, sulle quali non è il caso di discutere qui (cfr., per es., B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Milano 2006, pp. 110-11). Converrà solo notare che il dantesco «l’uomo si dee traere alle divine cose quando può» è traduzione pressoché letterale del homo debet se ad immortalia et divina trahere quantum potest (Summa contra gent. I 5) che a sua volta è interpretazione dell’aristotelico ἐφ’ ὅσον ἐνδέχεται. 126. Cfr. qui su n. 125. 127. Rom. 12, 3. 128. Ne ho trattato anche in Dante, Guido e Francesca, Roma 2008, pp. 23-24, 37-39. 129. Ibidem, pp. 148 ss. 130. Par. IV 124-32. 131. Sen. ep. 107, 11 (Aug. civ. Dei 5, 8). 132. Sulla «follia» e il suo uso in Dante, cfr. Bosco, Dante vicino, pp. 60 ss, e anche Scott, Dante magnanimo, pp. 160-63, che studiano tuttavia le occorrenze del termine fuori della connessione che mi è sembrato di dover porre nel testo. 133. Par. III 64-66, 70-72. 134. Inglese, Inferno, p. 39, con la citazione di Isidoro, Etym. XIII iii 1. Ma notevole è anche l’altra del Tesoretto, vv. 187-90, di Brunetto Latini. Sulla questione della «materia prima», cfr. il mio articolo “Se la materia delli elementi era da Dio intesa”, in «La Cultura», 39 (2001), pp. 365-93. 135. Cfr., per questo, il mio Le autobiografie di Dante, pp. 63 ss, passim. 136. Pagliaro, Ulisse, p. 375, osservò che «i moderni, in buona parte, ignorano il problema del contrappasso nell’ottava bolgia», e (pp. 376-77) produsse qualche esempio in contrario. Non mi pare che lo stesso possa dirsi per i contributi più recenti. 137. Cfr. anche Nota II in appendice. Un’utile rassegna delle opinioni dei commentatori antichi (Guido da Pisa, Lana, Buti, Pietro e Jacopo Alighieri, Benvenuto da Imola) in Seriacopi, All’estremo della “prudentia”, pp. 48-53. 138. B. Terracini, Il canto XXVII dell’Inferno, in «Lettere italiane», 6 (1954), p. 5.
2. Ulisse e Adamo (e altre questioni)
In margine al paragone che altri propose di Ulisse con Adamo,1 potranno riuscire non inutili queste poche considerazioni, concernenti i vv. 82-142 del ventiseiesimo del Paradiso. Un fautore convinto dei riscontri numerologici, e dei significati, naturalmente, che vi si nascondono (e debbono esser tratti alla luce), potrebbe notare che, come l’incontro con Ulisse, nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno, avvenne nel ventiseiesimo canto, così, sempre nel ventiseiesimo, accadde, in Paradiso, quello con Adamo: in due luoghi opposti dell’al di là, ma, all’interno dell’uno e dell’altro, nella stessa posizione, alla medesima distanza dall’inizio e dalla fine. L’analogia che, senza dubbio, sussiste, è tale, per altro, che si stabilisce non fra cose «simili» (i peccati), ma dissimili (la punizione nel profondo Inferno, in un caso, l’esaltazione in cielo, dopo la sosta nel Limbo nell’altro). È, potrebbe dirsi, un’analogia a due valori, una simiglianza che non resiste in sé stessa, ma si conclude in una dissimiglianza più forte di quella che, necessariamente, sottende le cose che si dicono simili (e che simili, appunto, sono, non identiche, e, perciò diverse). Insomma, una simiglianza che, esasperando la dissimiglianza che ha in sé come sua ragione costitutiva, fra Adamo e Ulisse rivela una distanza che non potrebbe non essere definita abissale. Ma la questione non si lascia tuttavia risolvere da questa semplice, e in sé, certo, non errata, considerazione. Occorre, in realtà, cercare di andar oltre. Il punto sul quale deve riflettersi, la questione che va decisa, riguardano la consapevolezza che Dante ebbe, oppure non ebbe, di star narrando, nel ventiseiesimo canto dell’Inferno, la storia di un eroe che, per vari aspetti, richiamava quella del primo uomo. E altresì riguardava l’altra: se l’immagine di Ulisse gli balenasse alla mente e tornasse a visitarla quan-
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do, nel Paradiso, incontrò il «padre antico/ a cui ciascuna sposa è figlia e nuro».2 Per decidere la prima questione, non soccorrono se non congetture, ossia soggettive impressioni, che invano si cercherebbe di far passare per qualcosa di meglio. Per decidere l’altra, ci si dovrà rivolgere direttamente al ventiseiesimo canto del Paradiso, ai versi, già citati, in cui è descritto l’incontro con Adamo. E al riguardo si vedrà che, come il ricordo di Ulisse vi si manifestò e prese forma attraverso precise movenze stilistiche, altrettanto non potrebbe dirsi, per quel che riguarda il «primo uomo», del ventiseiesimo dell’Inferno. Fu questo, infatti, che, agendo nella memoria di Dante quand’era intento a scrivere il ventiseiesimo del Paradiso, gli fece balenare le analogie che ebbero, nelle immagini e nelle movenze, il loro riscontro; mentre improbabile, o non altrettanto probabile, è che, nello scrivere di Ulisse, Dante già formasse nella sua fantasia le suggestioni analogiche, e le conseguenti immagini e movenze. Insomma, e per essere il più che sia possibile chiari. Non è da Ulisse che si perviene ad Adamo. Ma è bensì da Adamo che, avendo ricordato a Dante la follia di Ulisse, si torna all’eroe greco e alla sua ultima, tragica, avventura. Ai testi, dunque, e sia pure con l’occhio rivolto a quel che in essi sia soltanto implicito, occorre restare aderenti. Del tutto astratta, e in definitiva gratuita, sarebbe infatti l’osservazione secondo la quale fra Ulisse e Adamo l’analogia è riscontrabile, non, in concreto, sul piano formale, e cioè per il tramite di determinate corrispondenze stilistiche e strutturali, ma in virtù di coincidenze non ricostruibili se non con l’ausilio dell’intelletto. È vero, per esempio, che in forza di quest’ultimo potrebbe sostenersi che, come l’«antico padre» fu il primo a uscire dall’innocenza e a entrare nella storia, che da lui perciò fu inaugurata (nel segno dell’infelicità e della sofferenza), così Ulisse fu lui pure il primo che, uscendo dalle cose note, si avventurasse nell’«oltre»: con la conseguenza che, in modo non dissimile dal primo, che veniva fuori dello stato edenico per pagare il fio della colpa commessa, anche il secondo andò, con il suo estremo viaggio, a conoscere la pena che il «trapassar del segno» stabilito da Dio necessariamente richiedeva che fosse scontata. Si dirà che, immemori entrambi di un divieto, Adamo fu cacciato dal luogo dove dimorava, laddove Ulisse intraprese di sua iniziativa e con un atto libero della sua volontà il «folle volo». Ma, entrati che si sia in quest’ordine di idee, sarebbe facile allora osservare, e non a torto, che Ulisse non è affatto, in Dante, un eroe del libero volere, perché di questo, che perciò gli si configurava come un’ananke, fu lo schiavo e la vittima.3
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Ma queste sono, appunto, analogie e corrispondenze astratte, stabilite non all’interno, ma al di sopra, dei testi, frutto di pura fantasia combinatoria: idee da adoperare da parte di chi (e speriamo di no) si accingesse a tracciare, in versi o in prosa, le vite parallele di Adamo e di Ulisse, e degne invece di essere dimenticate da chi, dovendo interpretare Dante, ha piuttosto l’obbligo di stare ai fatti. E i fatti, dai quali l’analogia è stabilita, e resa trasparente, sono questi. Nel ventiseiesimo dell’Inferno, non appena gli fu data conferma di quel che già di per sé sospettava, e cioè che la «fiamma cornuta» nascondesse Ulisse e Diomede, il desiderio d’intrattenersi con il primo dei due fu tale che Dante si «piegò» verso di lui (‘s’ei posson dentro da quelle faville/ parlar’, diss’io, ‘maestro, assai ten priego/ e ripriego, che ’l priego vaglia mille,/ che non mi facci de l’attender niego/ fin che la fiamma cornuta qua vegna:/ vedi che del disio ver lei mi piego!’»).4 Nel ventiseiesimo del Paradiso accade qualcosa di molto simile, e, nello stesso tempo, di massimamente dissimile: Ulisse è incluso in una fiamma che lo «martira», Adamo in una luce che lo esalta, e che tuttavia, proprio come la fiamma infernale che «invola» il peccatore fraudolento, non avrebbe consentito che Dante lo riconoscesse se, come per l’eroe greco era stato fatto da Virgilio, non fosse stata Beatrice ad avvertirlo che «dentro da quei rai/ vagheggia il suo fattor l’anima prima/ che la prima virtù creasse mai».5 Subito dopo, per altro, il rapporto analogico, che fin qui può dirsi avesse riguardato Adamo e Ulisse (la «luce» che in sé nasconde il primo, la «fiamma» che «invola» il secondo) mutò nei suoi termini. Si estese allo stesso Dante che entrò, per così dire, a farne parte. Il suo fortissimo desiderio di rivolgersi al «padre antico» fece infatti sì che egli ondeggiasse come, nel ventiseiesimo dell’Inferno, la fiamma «cornuta». Chi non ricorda i vv. 84-90?
Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando pur come quella cui vento affatica; indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori, e disse…
Ma, come si diceva, in Par. XXVI 85-90, in versi che, anche numericamente, corrispondono a quelli del ventiseiesimo dell’Inferno, a ondeggiare, come la fiamma che «invola» Ulisse, è Dante: Come la fronda che flette la cima nel transito del vento, e poi si leva
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per la propria virtù che la soblima, fec’io in tanto in quant’ella diceva, stupendo, e poi mi rifece sicuro un disio di parlare ond’io ardeva.
Quindi è proprio lui, Adamo, il «padre antico», che, felice di «compiacergli», si muove in modo non dissimile da quello tenuto da Dante e, prima, da Ulisse:
Tal volta un animal coverto broglia, sì che l’affetto convien che si paia per lo seguir che face a lui la ’nvoglia; e similmente l’anima primaia mi facea trasparer per la coverta quant’ella a compiacermi venìa gaia.
E c’è di più. Fra quel che accadeva nel ventiseiesimo dell’Inferno e quel che accade ora, nel ventiseiesimo del Paradiso, a determinarsi è una nuova, interessante, convergenza. Il desiderio che Dante aveva allora mostrato di sapere di Ulisse e del suo destino dopo che Virgilio gli ebbe rivelato, o confermato, chi fossero i peccatori involti nella «fiamma antica», è anticipato dall’intuizione che quest’ultimo ne aveva avuta: «lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto/ ciò che tu vuoi» (vv. 72-73). Il fortissimo desiderio che, in Dante, concerneva l’originaria vicenda dell’«antico padre», fu invece direttamente intuito da quest’ultimo: «sanz’essermi proferta/ da te, la voglia tua discerno meglio/ che tu qualunque cosa t’è più certa» (vv. 103-105). Nella sua, Adamo aveva riassunta la parte che nel ventiseiesimo dell’Inferno era stata sostenuta da Virgilio. Trattandosi, nel caso di Ulisse e Diomede, di colmare un grande divario culturale, una distanza che con le sue sole forze a Dante non era concesso di far non essere, la mediazione di Virgilio era stata indispensabile. A differenza di quel che accadeva nei confronti di Adamo; che era il padre di ogni uomo, e ognuno perciò era parimenti autorizzato a, e in grado di, parlare con lui. A questo punto, per altro, l’analogia non era più soltanto delle immagini. Nel senso, questa volta, della dissimiglianza, tendeva a riguardare il contenuto concettuale, espresso, per altro, da parole del testo, e non sovrapposto a esso da una qualsiasi astuzia combinatoria. Nei confronti di Ulisse, Dante era stato preso dall’incontenibile desiderio di sapere come si fosse conclusa la sua vicenda umana: dove, perduto, avesse trovata la morte. Nei confronti di Adamo, il desiderio fu di ascoltare proprio dalla
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sua voce quel che, essendogli ben noto dalla lettura del libro della Genesi, sempre di nuovo richiedeva che la conoscenza ne fosse rinnovata e poi ancora rinnovata. Non è d’altra parte il caso che qui si insista sulle ragioni che accesero in Dio il «gran disdegno»: anche perché, a rigore, l’analogia che il testo fa emergere fra i casi di Ulisse e di Adamo, sarà resa evidente dal discorso di quest’ultimo. Dopo aver accennato alla sua collocazione nel Paradiso terrestre, partendo dal quale, con l’aiuto e sotto la guida di Beatrice, Dante era stato «disposto» a «così lunga scala» (v. 111), Adamo gli sottopose il calcolo degli anni trascorsi da lui fino a quel momento, nel Limbo; che furono 4.302, mentre 930 erano stati quelli vissuti sulla terra dopo l’espulsione dal luogo in cui era stato collocato da Dio. E quindi lo ragguagliò sulla lingua da lui parlata prima e dopo che quell’evento decisivo si producesse. È una questione, quest’ultima, che, essendo forse quella che più, in questo canto del Paradiso, a Dante premeva di trattare, qui invece non interessa (anche perché in altra sede si ebbe occasione di parlarne alquanto).6 Ma, per restare al tema dell’analogia, un tratto di questa potrebbe essere indicato nell’accenno che Adamo in persona fece al «trapassar del segno»; che fu questo, e non il «gustar del legno», fu la disubbidienza e non la conoscenza in sé stessa, ad aver determinata la catastrofe, sua e di Ulisse. Ma si tratta, malgrado la diversa apparenza, di un’analogia per dissimilitudine, non per similitudine.7 Qualunque cosa si sia pensato in contrario, assai diversi, rispetto al divieto (e ammesso, senza concedere, che quello posto da Ercole lo fosse), furono i comportamenti di Adamo e di Ulisse. Del divieto, e di quel che implicava la sua trasgressione, Adamo aveva saputo direttamente da Dio: a differenza di Ulisse, del quale infatti Dante non disse che, nell’andar oltre le colonne d’Ercole per dare inizio al «folle volo», commettesse un gesto, oltre che di audacia, anche di disubbidienza. I «riguardi», ossia i segnali, che Ercole aveva posti bene in vista nella «foce stretta», «acciò che l’uom più oltre» non si mettesse, erano, non divieti, ma, appunto, segnali, «riguardi»,8 – l’indicazione di un rischio al quale inesorabilmente ci si sarebbe esposti se non li si fosse rispettati. Può ben essere che, nel segno tuttavia dell’ambiguità, l’avvertimento alludesse a un divieto che, mentre si profilava come tale, tornava tuttavia ad essere un avvertimento. E può ben essere che, nello scrivere quei versi, Dante intendesse, non dissipare, ma, appunto, mantenere l’ambiguità, lasciando che questa suscitasse nel lettore un moto di disagio, una non risolubile incertezza. Ma al di là di questo non si può ragionevolmente andare. Se i «riguardi», i segnali, potevano
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essere interpretati come «divieti», per la ragione uguale e contraria non poteva in nessun modo escludersi che questi non fossero, appunto, se non segnali. E l’analogia, anche qui, fu stabilita per dissimilitudine. Tanto più, si direbbe, in quanto c’è qualcosa in Ulisse, ed è anzi il tratto decisivo della sua personalità e del suo destino, quali Dante li interpretò e rappresentò, che non potrebbe essere ritrovato in Adamo. Sulle ragioni per le quali il «segno» fu da lui «trapassato», Dante tacque. Con profonda intuizione di poeta, ebbe chiaro in mente che Adamo era il primo uomo, non un uomo, un archetipo lontano, nei cui desideri, volontà, passioni, sarebbe stato segno di meschinità pari alla presunzione se si fosse cercato di penetrare come se si fosse trattato di desideri, di volontà, di passioni determinati. Nel suo discorso Adamo alluse alla trasgressione come a qualcosa di non indagabile e ricostruibile attraverso contingenze e opportunità: non fu un caso, fu la ratio, viceversa, del suo breve racconto, che in esso mancasse qualsiasi accenno a quel che il testo sacro pur dichiarava: la tentazione del serpente, la complicità di Eva, il suo cedimento. Eva è collocata anch’essa in Paradiso, nella rosa dei beati, descritta da san Bernardo; e i versi che la ritraggono ai piedi della Vergine sono pervasi da un delicato sentimento di affetto: «la piaga che Maria richiuse e unse,/ quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi/ è colei che l’aperse e che la punse».9 Come avrebbe potuto Adamo, anima del Paradiso, ricordare che, dopo tutto, a lei risaliva la prima responsabilità della trasgressione? Questi personaggi archetipici non hanno psicologia. Sono osservati da lontano, con reverente rispetto: anche se, nel caso del primo uomo, la questione chieda e ottenga risposta. Ma, per Ulisse, non è così. Nella fulminea rappresentazione che Dante dette dell’ultima fase della sua vita di navigante, la sua psicologia emerse con forza prepotente. Gli affetti familiari, la «dolcezza» del figlio, la «pietà» del vecchio padre, «’l debito amore/ lo qual dovea Penelopé far lieta», erano fortissimi in lui che, al desiderio imperioso dell’oltre e alla sua ananke, non poteva tuttavia non sacrificarli. Come in un’altra occasione fu detto, Ulisse nacque fra i ragionamenti che Dante intraprese sul tema, a lui caro e per lui, altresì, tormentoso, del desiderio; e fu, per questo aspetto, un eroe essenzialmente filosofico, passato attraverso tutte le variazioni che il tema consentiva fino alla finale catastrofe. Ulisse è perciò, nella Commedia, un eroe tragico. Adamo è l’archetipo, necessariamente remoto, e quasi distaccato, di quel che nella storia inaugurata da lui ha il nome e la realtà della tragedia. Analogia, dunque, anche qui: ma per forte dissimiglianza.
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Non riguarda più Ulisse e Adamo, ma quest’ultimo soltanto, la questione del Limbo che, dopo una vita durata, come si è visto, 930 anni, lo ospitò per altri 4.302 (si sa da Inf. XXI 112-14, che, sommando i 1.266 trascorsi dalla morte di Gesù alle due precedenti cifre si ottiene il numero 6.498, ossia gli anni che, secondo il calcolo biblico di Eusebio,10 indicano l’età del mondo). Prima di essere assunto in Paradiso, e per il tempo che s’è detto, Adamo fu infatti ospite del Limbo. E la circostanza merita qualche attenzione: anche, e anzi sopra tutto, perché non sembra che la questione che ne nasce abbia richiamata ieri e oggi, nell’antica glossa e nella nuova, l’attenzione che avrebbe meritata. Quando Dante ideò il poema e lo distinse in tante cantiche quante erano le parti in cui si divideva l’al di là, da questa assai semplice circostanza il problema relativo alla collocazione di Adamo gli si presentò in forma tanto più acuta. Adamo era colui che, creato direttamente, «sanza mezzo», da Dio perché godesse il frutto della sua benevolenza, aveva oltrepassato il «segno», il limite, che gli era stato imposto. Non aveva rispettato il divieto. Aveva perciò peccato, e fatto gravare la sua colpa su coloro che, nati da lui dopo la sua estromissione dal Paradiso terrestre, erano andati a far parte del grande «essilio». Dopo essere stato creato scevro di peccato, di questo era stato il primo, e più grande, autore; ed era stato lui a far gravare la sua pesante ombra sulla storia futura del genere umano. Dopo essere stato in diretto contatto con Dio, peccando lo aveva misconosciuto. Aveva fatto come se, di conoscerlo e ascoltarne la voce, non gli fosse stata data la occasione. Una sola condizione Dio aveva posta alla possibilità che egli rimanesse fra le delizie dell’Eden; e Adamo non l’aveva rispettata. Per questo peccato che, anticipando e contenendo in sé ogni altro, era il più grande, era il peccato per eccellenza, nessuno più di lui avrebbe perciò meritato l’Inferno.11 Se, d’altra parte, a questa dimora senza speranza fosse stato avviato, e lì infine avesse per sempre trovato posto, la conseguenza sarebbe stata inevitabile. Con Adamo avrebbero in quel luogo dovuto trovar posto tutti coloro che, discendendo dal suo seme, del suo peccato tutti erano partecipi perché tutti ne erano stati segnati e macchiati.12 Qualunque peccato avessero aggiunto a quello ereditato dal «padre antico», era in forza di questo che dovevano, innanzi tutto, star lì. È vero, senza dubbio, che a una conseguenza così radicalmente drastica, così estrema e esclusiva, si sarebbe potuto obiettare quel che variamente, in effetti, e lo vedremo, fu obiettato: e cioè che altro è il peccato che si eredita e che non è, per conseguenza, frutto di volontà, altro quello che si vuole (e anche, eventualmente, si vuole
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ereditare). Ma anche e, anzi, non meno vero è che un peccato come quello che Adamo aveva trasmesso a coloro che erano nati da lui, era il peccato per eccellenza, insuscettibile perciò di limiti che si fosse voluto imporgli attraverso distinzioni, cautele e aggiustamenti. La sua separazione dall’attuale voluntas peccandi di questo o di quello avrebbe avuto del sofistico, una volta che si fosse tenuto fermo al punto che anche la volontà quello aveva riguardata, e questa era perciò, a causa del suo esservi presente, un’inferma volontà. Di qui per altro discendevano, o sarebbero discese se alla premessa si fosse tenuto fermo, conseguenze assai gravi. E, innanzi tutto, questa: che se, con Adamo, l’intera umanità fosse stata condannata a discendere nell’Inferno, la venuta di Cristo sulla terra sarebbe riuscita inconcepibile.13 Inconcepibile sarebbe stata la sua morte riparatrice: una volta che si fosse dato per inevitabile che al dolore patito durante la vita trascorsa sulla terra si sarebbe, per l’umanità, aggiunto quello dell’eterna pena nell’al di là. Da questa conseguenza, paradossale ma rigorosa, a esser reso impossibile sarebbe stato insomma l’avvento stesso del Cristianesimo. Alla premessa non si poteva, perciò, tener fermo. Adamo non poteva trovar posto nell’Inferno. Ma a lui, che aveva disubbidito al comando di Dio, si doveva il più grave dei peccati, e, con questo, la contaminazione dell’intera umanità. Non poteva perciò essere collocato in cielo, dove tuttavia, alla fine, dopo una lunga espiazione nel Limbo, per grazia di Dio e con la «mediazione» del Cristo, fu ammesso: senza che, per altro, nella Commedia, ne fosse indicata, in modo esplicito, la ragione. Che, per un verso, non sarebbe stato difficile addurre osservando che, se Cristo era il salvatore e il redentore dell’umanità peccatrice, come dalla salvezza avrebbe potuto essere escluso colui che di tutti era il padre? Ma, per un altro, lo sarebbe stato. Dei peccati egli era stato infatti l’origine: e si sarebbe perciò ben potuto dubitare che, con quelli, anche il suo meritasse d’essere perdonato. Né nell’Inferno, quindi, né, almeno prima facie, nel Paradiso. Restava il regno dell’espiazione e della penitenza. Restava il Purgatorio, dove Adamo, che Tommaso d’Aquino aveva giudicato, in un luogo della Summa theologica, maestro di superbia,14 avrebbe potuto figurare come una sorta di archetipo di coloro che, da Umberto Aldobrandesco a Oderisi da Gubbio a Provenzan Salvani, erano stati accolti nel primo girone di quel regno.15 Ma anche in questo caso, con notevoli difficoltà; e Dante infatti si guardò bene dall’includervelo. L’assegnazione di Adamo a questa parte del Purgatorio avrebbe implicato che questa valesse come il tutto: tale essendo la
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natura del suo peccato che ogni altro vi era incluso nel segno, non della sua autonomia, ma del suo esserne superato e transvalutato. Difficoltà gravi; che si renderebbero ulteriormente evidenti se, assumendo e tenendo ferma la divisione in parti di questi due regni, si considerasse che il peccato di Adamo avrebbe dovuto essere punito tante volte quante erano quelle parti: che, tuttavia, come relative a quello e soltanto a quello, parti non avrebbero potuto essere considerate, con grave pregiudizio, come si vede, della idea che Dante aveva, e aveva delineata, del suo al di là penitenziale. Per queste ragioni, forse, o per altre che non furono del pari rese esplicite, seguendo la tradizione, Dante assegnò Adamo al Limbo.16 Lo fece, per così dire, tacitamente, in un solo verso, citandolo per altro in riferimento al suo esser stato «tratto» di lì per essere, da Cristo, avviato al Paradiso. Ma senza avere tuttavia, per parte sua, e al di là dell’ossequio dovuto alla tradizione, previamente spiegato perché avesse deciso di collocarvelo: ossia di includerlo in un luogo che, stando alla definizione datane da lui, non avrebbe, a rigore, e in ragione della sua assoluta eccezionalità, dovuto accoglierlo. Si ricordi il quarto dell’Inferno:
Lo buon maestro a me: ‘tu non dimandi che spiriti son questi che tu vedi? Or vo’ che sappi, innanzi che più andi, ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi, non basta, perché non ebber battesmo, ch’è porta de la fede che tu credi. E se furon dinanzi al cristianesmo non adorar debitamente a Dio; e di questi cotai son io medesmo.
A osservarlo anche soltanto alla luce di questi versi, la questione concernente Adamo e il Limbo appariva subito contrassegnata da elementi di forte paradossalità e, altresì, di incongruenza. Adamo si trovava nel Limbo, e lì era stato prima che Cristo ve lo traesse. Ma nessuna delle circostanze elencate da Dante come pertinenti a quel luogo poteva essere ravvisata nella sua specifica condotta. Gli spiriti del Limbo «non peccaro».17 E Adamo invece aveva peccato nel modo più radicale che potesse immaginarsi. Anche se si fosse ammesso (e non tuttavia concesso) che, in quanti ne erano stati affètti dopo che quello era stato commesso da lui, il peccato fosse un non attuale, ma potenziale, soltanto potenziale, peccato, non certo potenziale e non attuale avrebbe mai potuto essere considerato il suo, che di ogni
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altro, come si è detto, era stato l’origine. Sì che, attenuarlo considerandolo per esempio come qualcosa di subìto ma non voluto, era proprio impossibile: dal momento che, per forti che potessero essere state nel tempo le capacità persuasive del serpente su Eva, e di questa su Adamo, era pur sempre dipeso dalla sua volontà che il consiglio fosse seguito e il divieto posto da Dio, invece, infranto. Posto e, come si diceva, non concesso (ma di questo in seguito), che fra attualità e potenzialità del peccato potesse distinguersi, resta dunque che attuale fu il peccato del primo uomo. E che non c’era a rigore pentimento, o merito che per la sua saggezza avesse conseguito durante i lunghi anni della sua vita postedenica, che potessero fare in modo che lo si considerasse altrimenti da così. Sia pure, dunque, che a collocarlo nel Limbo Dante fosse stato invece persuaso da argomenti come questi, relativi al pentimento e al merito: le auctoritates a cui, al riguardo, poteva riferirsi erano certo degne di essere ascoltate.18 Ma la ragione decisiva di quella scelta deve con ogni probabilità essere ricercata e ritrovata nella credenza relativa al Cristo disceso agli inferi per trarne fuori, con lui, i grandi patriarchi e altri ancora: «trasseci l’ombra del primo parente,/ d’Abèl suo figlio e quella di Noè,/ di Moisé legista e ubbidiente;/ Abraàm patriarca e David re,/ Israel con lo padre e co’ suoi nati/ e con Rachele, per cui tanto fe’;/e altri molti, e feceli beati»: Inf. IV 55-61). Nel riprendere quella credenza, e nel condividerla, Dante avrà forse considerato che, alla luce di quella, ben poteva superarsi l’obiezione che altri avrebbe potuto muovergli, osservando che, mentre quei personaggi avevano tutti «adorato» «debitamente a Dio», non così si sarebbe potuto dire di Adamo, che gli aveva inferto, invece, con la disubbidienza, la più grave onta. L’obiezione poteva, in effetti, esser ritenuta superabile. Non perché sul serio lo fosse. Ma perché doveva esserlo. Il nesso che quella credenza consentiva di stabilire fra Cristo e Adamo poteva infatti esser visto come un’anticipazione della seconda parousia, e dell’azione salvifica che ne sarebbe conseguita. Il che non dev’esser preso alla stregua di una qualsiasi ingegnosità interpretativa. Non può infatti non essere evidente che in Adamo che ne era, in senso assoluto, il progenitore, il capostipite e il rappresentante simbolico, era l’umanità che, in idea, era salvata. Era salvata da Cristo che, quindi, dopo la sua assunzione al cielo, si era distaccato dalla unità che formava con il padre e con lo Spirito santo per entrare nel regno dei morti e immettervi la vita. Sia consentita una piccola digressione; che soltanto in parte è, tuttavia, una digressione. La presenza di Adamo nel Limbo poneva a Dante, e pone naturalmente ai suoi interpreti, problemi non lievi.19 Ma problemi
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altrettanto, se non più, gravi erano posti dal Limbo in sé stesso considerato; in sé stesso, ossia, come si vedrà, nella sua possibilità ontologica. Erano tutti connessi, questi problemi, all’altro che a un certo punto insorse a proposito della natura del peccato che, trasgredendo al comando di Dio, Adamo aveva trasmesso ai suoi discendenti. Quel peccato era stato definito «originale» in quanto era, e vi si ravvisava, un’origine. Non era chiuso e esaurito in sé stesso, ma era produttivo di sé stesso negli altri. E la questione che ne nasceva era se quelli che ne derivavano potessero, o no, essere considerati come altrettanto gravi, essendo d’altra parte, quello detto originale, stato commesso, non da coloro che lo ricevevano in eredità, ma da colui che per primo se n’era macchiato. La questione aveva un suo riflesso particolare nella qualità della pena che, non senza introdurvi distinzioni e variazioni, Dante riservò alle anime del Limbo. Ossia a coloro che, o perché vissuti prima di Cristo, o, comunque, non abbastanza da poter ricevere il battesimo, ebbero bensì in sorte di non poter essere depurati del peccato commesso dal primo uomo, ma di per sé stessi «non peccaro»: nel senso, come si è detto, che subirono un peccato non ascrivibile alla loro volontà. Ne conseguiva, anche se non dichiarato con aperte parole, un concetto di rilevante importanza. Convinto che a peccare sia sempre e solo la volontà,20 e che, ove questa non operi, il peccato che si riceve non possa esser pari a quello che tuttavia lo fa essere e non richiede perciò che bruci nell’Inferno chi tuttavia lo abbia in sé («est quod Bernardus dicit», aveva scritto Tommaso nel de malo, q. 5, a. 2, «quod sola propria voluntas ardet in inferno. Sed originale peccatum non est peccatum propriae voluntatis, immo consequitur ex voluntate aliena. Ergo peccato originali non debetur poena sensus»), Dante lasciava intendere che, pur riguardando ogni uomo e in ciascuno penetrando, la differenza del peccato commesso dal primo «parente» da quello che ne era derivato doveva essere segnata con nettezza, e con nettezza considerata nelle sue conseguenze. Questa, osservata nella sua autentica genesi, fu la ragione dalla quale egli fu indotto a far posto nel Limbo, non soltanto agli innocenti bambini morti prima di aver ricevuto il battesimo e agli antichi patriarchi biblici, ma anche a adulti la cui vita fosse stata comunque illuminata dal raggio della virtù.21 E questa, in sostanza, fu la novità22 che Dante introdusse nella concezione del Limbo; una novità rilevante, senza dubbio, che deve per altro essere, non soltanto constatata nella conseguenza a cui metteva capo (l’accoglienza nel Limbo degli adulti), ma nella premessa condivideva, per esempio, con Tommaso,
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e cioè nella idea secondo la quale, attuale in Adamo, il peccato originale non lo era in coloro che da lui l’avevano ereditato. Anche per un’altra ragione la novità che egli introduceva nella concezione del Limbo, era notevole. Nella tradizione del pensiero teologico, che è difficile pensare che a Dante non fosse almeno in parte nota (se non direttamente, attraverso gli scritti di Tommaso), non era mancato chi aveva elevata a colpa l’incapacità di intravvedere, sebbene non rivelato, il volto di Cristo, e in questa aveva colto il segno del peccato. È evidente che su questo punto, quando scriveva il quarto dell’Inferno, Dante era di diversa opinione.23 Ma non perché quella dei «limbicoli» fosse, per lui, una lieve sofferenza. Se non per i poeti a cui egli sarebbe stato presentato da Virgilio, e della cui schiera sarebbe andato per un momento a far parte,24 per le altre anime del Limbo la pena era infatti non, come per questi ultimi, una quasi assenza di pena, ma una pena: diversa, senza dubbio, da quella riservata alle anime propriamente dannate, ma produttiva anch’essa di infelicità. Non era, come da molti filosofi e teologi era stato sostenuto (ma con riferimento, per altro, agli infanti) una pena fisica.25 In questo luogo, infatti, «non aveva pianto mai che di sospiri/ che l’aura etterna facevan tremare » (vv. 26-27); e la pena consisteva perciò, propriamente, nella presenza di un dolore tutt’affatto spirituale, determinato da ciò che, soltanto per ragioni esterne a una qualsiasi volontà peccaminosa, e «non per altro rio» – è Virgilio che parla e spiega – «semo perduti, e sol di tanto offesi,/ che sanza speme vivemo in disio» (vv. 41-42). La pena era insomma, nelle parole di Dante, un «duol sanza martiri » (v. 28). Era rimpianto, privazione di speranza, malinconica rassegnazione a un destino che, in quanto era stato decretato da Dio, non poteva non essere accolto come giusto, senza che, tuttavia, si fosse dato alcunché, nella vita terrena, per cui quelle anime lo avessero meritato. Il v. 34, si ripete, è perentorio: «ei non peccaro». Il che significa che il loro «peccato» fu inteso da Dante, e su questo deve insistersi, come del tutto esterno alla loro volontà, caduto in loro dal di fuori a determinarne il destino: sì che di «questi cotai» egli parlò in effetti, con forte movenza, per questa parte, antiagostiniana, non come di autentici peccatori, ma come, si direbbe, altrettante conseguenze della imperscrutabile volontà divina. «O predestinazion », dirà in Paradiso XX 130-35, «quanto remota/ è la radice tua da quelli aspetti/ che la prima cagion non veggion tota!/ E voi, mortali, tenetevi stretti/ a giudicar; che noi, che Dio vedemo,/ non conosciamo ancor tutti li eletti».
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Questi versi appartengono al Paradiso; e tengono dietro a un canto, il decimonono, nel quale la questione della salvezza degli infedeli aveva ricevuta una soluzione assai drastica, improntata a rigido rigore. Non li si potrebbe perciò citare, in relazione a quel che Dante aveva sostenuto delineando la sua interpretazione del Limbo, senza questa avvertenza, e la conseguente cautela. Ma, con quella avvertenza e questa cautela, sembra giusto osservare che, rispetto al duro criterio in ragione del quale persino la condanna del più giusto dei nati prima di Cristo era una giusta condanna in quanto era stata decisa e decretata da Dio, la concezione alla quale Dante si era ispirato nel delineare il suo Limbo implicava una netta attenuazione di quel rigore. A tal punto che, se il quarto dell’Inferno venisse messo a confronto con il decimonono del Paradiso, questi due canti dovrebbero essere considerati alla stregua degli opposti poli di un’oscillazione: come se anche nella mente di Dante si fosse prodotto il contrasto che, con diversa intensità, si era aperto nella coscienza di non pochi scrittori cristiani, convinti, a cominciare da Agostino, che fosse la giustizia di Dio a render giuste le cose, e sensibili tuttavia, e per altro verso, alle aspre conseguenze a cui questa idea esponeva le loro coscienze. È sempre indizio di scarso rigore l’atteggiamento (morale) di chi a questo, al rigore, intende contrapporre l’«umanità». E anche in Dante il rigore fu, nella delineazione del Limbo, attenuato: con molta soddisfazione per la «coscienza», e altrettanto danno per la logica. Se il peccato di Adamo si era trasmesso a ognuno dei suoi discendenti, e perciò a tutti, in modo tale che nessuno avrebbe potuto, anche se fosse nato e vissuto prima dell’avvento di Cristo e della rivelazione del vero Dio, esserne considerato immune, con quale argomento si sarebbe potuto sostenere che quello non li riguardasse se non in modo estrinseco? Come avrebbe potuto sostenersi che la natura di ciascuno non ne fosse stata invece modellata dall’interno? Nel Vangelo di Giovanni stava scritto quel che decine di testi avrebbero poi ripetuto, e cioè che a colui che non fosse rinato ἐξ ὕδατος καὶ πνεύματος, non sarebbe stato dato di vedere τὴν βασιλείαν τῶν οὐρανῶν. Che quel peccato fosse stato piuttosto subìto che non prodotto mediante un atto della soggettiva volontà toglieva forse qualcosa al suo esserci e al suo necessario implicare conseguenze? «Omnes una massa luti facti sumus, quod est massa peccati».26 Queste parole agostiniane non potevano non risuonare, con la loro cupa tonalità, nel profondo delle coscienze cristiane, tutte consapevoli, al di là delle inclinazioni di ciascuno, che «vulnerata, sauciata, vexata», la natura umana «perdita est», sì che «vera confessione, non falsa
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defensione opus habet».27 E anche alla coscienza di Dante parole come queste erano presenti, e vi scavavano dentro. Eppure, senza poter negare che peccatori fossero gli abitanti del Limbo, Dante fece tuttavia il possibile per sottrarli a questa condizione; alla quale, senza riprendervi la questione degli infanti, ma contraddicendo all’altra parte della tesi, li avrebbe invece restituiti nel decimonono del Paradiso. Di quanti erano stati accolti nella triste dimora del Limbo nel quarto dell’Inferno disse infatti, con le parole di Virgilio, che «non peccaro»: e sia pure che a pronunziare un giudizio così netto fosse stato indotto dalla distinzione, che anche Tommaso d’Aquino aveva teorizzata, fra attualità e potenzialità (o naturalità) del peccato.28 Disse così. Con il che, non senza aver introdotto nel discorso un tratto paradossale, fece in modo che, non facile, ma difficile invece a intendersi fosse la condizione di queste anime. Al di là del modo specifico da lui tenuto nel considerarle, poteva ben sostenersi infatti che le anime accolte nel Limbo non fossero imputabili del peccato di Adamo al modo stesso in cui quest’ultimo lo era. Poteva ben asserirsi, sebbene da autorevoli teologi e filosofi proprio il contrario fosse stato sostenuto,29 che nessuna colpa poteva essere attribuita a chi, prima che Cristo avesse manifestata la sua presenza nel mondo, non fosse tuttavia riuscito a percepirla. Restava che peccatori essi erano, originariamente, di un peccato che di ogni altro era il più grande, perché di tutti era la premessa, la condizione, la causa: di un peccato che, sebbene fosse stato, come si diceva, subìto e non commesso, era la stessa cosa della «peccaminosità». A questo concetto che, nel suo fondo, rinviava all’abisso della grazia divina, con quale altro concetto si sarebbe potuto sfuggire? Dante non era uomo di attenuazioni e compromessi. A muoverlo, nelle passioni come nei pensieri, era lo spirito della radicalità, e persino dell’estremismo. Ma, sebbene potesse essere, non senza un buon motivo, contestato nella sua legittimità ontologica; sebbene, dalla logica che era nelle cose stesse, potesse, come luogo di espiazione del più grande dei peccati, del peccato che di ogni altro era la condizione e la causa, essere considerato, non per quel che si intendeva e si voleva che fosse, ma come l’essenza stessa dell’Inferno, il Limbo, tuttavia, era lì. E poiché si assumeva che appartenesse all’Inferno e anche, non di meno, che se ne distinguesse e, per questo aspetto, stesse a sé,30 l’invito che ne proveniva al compromesso era chiaro. Per respingerlo, quell’invito, si sarebbe dovuto criticare alla radice la possibilità che, di un luogo concepito come il Limbo, potesse, in termini di ragione (e fosse pure di ragione cristiana), parlarsi.
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Ma Dante accettò che fosse concepibile. Avendo accettato il compromesso, fece paradossalmente in modo che questo fosse interpretato nella forma più radicale; e che se ne traessero conseguenze destinate a provocare, fra i suoi contemporanei (e i primi commentatori del poema), alquante preoccupazioni in ordine alla sua ortodossia.31 Insomma, del compromesso a cui era costretto si vendicò estremizzandolo. E all’eccezione che, quanto alla pena, gli abitanti del Limbo rappresentavano nei confronti di quelli dell’Inferno, ne aggiunse un’altra. Fra quelli accolti nel Limbo, infatti, distinse. Fece sì che ai grandi poeti antichi che vi si trovavano, e che, oltre Virgilio, si chiamavano Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, fosse riservata una pena nella quale quella gravante sulle altre anime fosse come trasfigurata, per diretta intercessione divina in una sorta di trasparente serenità; quasi che l’esigenza culturale fosse andata innanzi alla «ragion teologica», che a quella non avrebbe dovuto concedere il passo, e la delineazione, in termini di positività e di riconoscenza, di quell’antico mondo, avesse prevalso in lui fino a condurlo su quel limite estremo. Consapevolmente, e con mano, tuttavia, di tanto più leggera, egli fece che il sottile tormento spirituale che, come pena, aveva attribuito alle altre anime del Limbo, fosse trasformato dall’interno; e, con magistrale controllo della tonalità e dei passaggi, lo risolse trasfigurandolo in qualcosa come un’interiore saggezza, un grave e pacato distacco. I grandi poeti incontrati nel Limbo «sembianz’avevan né trista né lieta» (v. 84): indizio sicuro di serenità, non di tormento, di uno stato d’animo che induceva gli abitanti del «nobile castello» a parlare «rado con voci soavi» (v. 114), com’è giusto che siano quelle di chi, essendo lontano dalla gioia, altrettanto lo sia dal dolore. È come se la «grande autorità» che traspariva da «lor sembianti» avesse indotto Dante a non considerare che, al pari delle altre anime del Limbo, anche queste erano attualmente prive della vista di Dio: ciò che avrebbe dovuto in realtà, e sia pure in modo diverso, tormentarle quanto il «letto» infuocato ospitante gli «epicurei».32 L’incongruenza più sottile, un autentico, se si vuol dire così, disguido strutturale, non stava, per altro, soltanto nella rappresentazione che Dante fece del «nobile castello» come di un luogo i cui abitanti godessero tutti dello stesso privilegio che la grazia divina aveva concesso ai poeti. Stava, viceversa, e piuttosto, nella differenza che, rispetto a questi ultimi, si coglie in Virgilio. I quattro poeti «ragionavano insieme», si scambiavano pensieri; e non sembra proprio che questi riguardassero, piuttosto che la poesia, la steresis del divino, dalla quale, poiché stavano lì, e non in Paradiso,
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necessariamente dovevano (o avrebbero dovuto) essere affètti. Allo stesso modo, di qualunque cosa stessero parlando quando Dante fu ammesso nella loro «compagnia», non si direbbe che, a causa proprio della sua presenza, l’argomento fosse diverso da quello concernente la letteratura e la poesia. E sebbene sia ovvio pensare che alla conversazione anche Virgilio partecipasse e in quel clima di alta serenità anche lui fosse coinvolto, resta che altra da questa è, nel poema, la natura del suo sentire. Fin dalla sua prima apparizione, l’insistenza di Virgilio sul Dio da lui non conosciuto è martellante. Sono versi celeberrimi; «nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi,/ e vissi a Roma sotto ’l buon Augusto/ nel tempo de li dèi falsi e bugiardi» (Inf., I 70-72). Ed è subito ribadita da Dante; «poeta, io ti richeggio/ per quello Dio che tu non conoscesti/ a ciò ch’io fugga questo male e peggio,/ che tu mi meni là dove or dicesti,/ sì ch’io veggia la porta di san Pietro/ e coloro cui tu fai cotanto mesti» (vv. 130-35). Sarebbe fuor di luogo se, qui e ora, si dessero altri esempi di questa sua introversa tristezza, di questa sua pena che non cercava parole e trovava invece non più che qualche raro gesto, di questo suo chiudersi nel silenzio, che pesava tuttavia e lasciava indovinare di che cosa egli tacesse.33 Del resto, di questa sua estrema separazione dal vero Dio la testimonianza più alta fu resa da Stazio (Purg. XXII 64-72) che, nel sottolinearla e ribadirla, provvide in qualche modo a negarla nel risultato a cui, leggendo e studiando Virgilio, egli era pervenuto facendosi cristiano:
…tu prima m’inviasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, e prima appresso Dio m’alluminasti. Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte, quando dicesti ‘secol si rinnova; torna giustizia e primo tempo umano, e progenie scende da ciel nova’.
Ma di questo si è detto abbastanza;34 e anche, naturalmente, della differenza che divide il poeta dell’Eneide dagli altri, con i quali, per l’eternità, sta nel Limbo. Non occorre aggiungere se non che, nella rappresentazione di Dante, Virgilio è un poeta «cristiano». O per dir meglio, un poeta che, quanto più era cristiano negli atteggiamenti profondi, della natura di questi essendo tuttavia storicamente ignaro, di altrettanto dalla vera religione era
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lontano. E di questa differenza, incomponibile, si nutre, nella Commedia, la sua malinconia. L’incongruenza strutturale riguardava del resto l’idea stessa del Limbo; che aveva infatti la sua origine e la sua giustificazione, non già in un coerente pensiero teologico, ma nell’esigenza, ispirata a umanità, senza dubbio, e a pietà, di attenuarne il rigore e di rendere tollerabile la sorte di quanti, nati innanzi al cristianesimo o morti senza battesimo, avrebbero altrimenti conosciuta la morte eterna nel fuoco e nel gelo dell’Inferno. Alla luce di quel coerente pensiero, il Limbo non avrebbe avuto ragion d’essere. Ma era tuttavia proprio nel modo in cui era stato concepito che si annidavano le difficoltà. E, fra queste, l’altra a cui già si è dato, sia pure per vie oblique, rilievo nelle precedenti pagine, insistendo sulla pena gravante su queste anime e sulle diversità che Dante ammise al suo interno. Si notò allora che non tutti allo stesso modo gli abitanti del Limbo ne erano afflitti; che l’«angoscia de le genti/che son qua giù» (vv. 19-20) era risolta, e sia pure per grazia divina, nella calma serenità dei poeti antichi e quindi, senza che a ciò tale grazia soccorresse, in quella propria degli altri abitanti del nobile castello; che, anche per questo suo aspetto, il quadro risultava dipinto con colori che non perfettamente corrispondevano all’armonia che avrebbe dovuto risultarne. Ma c’è di più, in effetti. E cioè che in nessun altro abitante della regione infernale il rapporto con Dio si stringeva nel segno di un’altrettanto profonda dolorosità. Anche se non giungesse a esprimersi nelle forme violente e ostentate che sono proprie di Capaneo o di Vanni Fucci, il sentimento che dominava i dannati infernali era un sordo rancore, una disposizione intrinsecamente blasfema, che, quando non risultavano in gesti o in parole, era perché la pena li assorbiva a tal punto, e a tal punto li teneva come sequestrati in sé, da non consentire che quei sentimenti emergessero e prendessero forma. Insomma, Dio o era lontano dai loro pensieri, o era presente bensì, ma come il giudice, tanto più odiato quanto più era giusto, che aveva decretato l’eterno castigo. Parziale eccezione, Brunetto Latini, chiuso anche lui in sé stesso, nella pena e nella vergogna che provava per il suo essere laggiù, sulla sabbia infuocata e sotto la pioggia di fuoco che tormentava i peccatori suoi pari, ma pateticamente disposto, tuttavia, a ribadire il suo dramma nel sentimentale contatto con quel «figlio» che sapeva destinato, se gli fosse accaduto di seguire la sua «stella», a grandi cose.35 Eccezione intera, e unica, Francesca; che, colpita dalla pietà che Dante le dimostrava, avrebbe pregato il re dell’universo, se
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le fosse stato amico, e a lui avrebbe chiesto pace per colui che umanamente le si rivolgeva: «o animal grazioso e benigno/ che visitando vai per l’aere perso/ noi che tignemmo il mondo di sanguigno,/ se fosse amico il re de l’universo/ noi pregheremmo lui de la tua pace,/ poi c’hai pietà del nostro mal perverso » (Inf. V 88-93). Ma Francesca, appunto, era un’eccezione; non un’intellettuale di provincia, com’è stato detto, ma un’eccezione, una grande eccezione poetica.36 In altri personaggi che chiedevano pietà, o comprensione, non ci fu mai una disposizione così grande a donare quel che pur richiedevano per sé. Esempio, forse, supremo, Ugolino. Quando, nel momento culminante del suo fosco racconto, sembrò che, a colui che lo ascoltava, chiedesse compassione e comprensione, lo fece con la rabbiosità cupa che era del suo personaggio. La richiesta era come una sfida: «ben se’ crudel, se tu già non ti duoli/ pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;/ e se non piangi, di che pianger suoli?» (XXXIII 40-42). Per le anime del Limbo le cose non vanno così. La pena è riferita non già a questo o a quel peccato, e il contrappasso, che infatti non ha luogo, non restituisce, capovolta in quella, la colpa che, commessa in vita, l’ha meritata. Nelle anime del Limbo la pena ha un carattere, tanto più estremo ed esteso, quanto meno è determinato. Consiste, infatti, nella completa «privazione» di Dio, che ora è ad esse nota in quanto tale, e che, attraverso l’«assenza» che ne consegue, impone tuttavia la sua «presenza». Che la privazione presupponga la realtà di cui segnala il non esserci, non è un paradosso, ma una piena evidenza logica. Nelle anime del Limbo Dio era presente attraverso la sua assenza. E la conseguenza era un’angoscia senza confini, era la tristezza rassegnata e inconsolabile che fu Virgilio, anima per eccellenza del Limbo, ad esprimere al più alto grado. Da questo punto di vista, che è poi quello dal quale la cosa deve essere osservata, a rappresentare la massima distanza dalla situazione paradisiaca è, non già quella infernale. Ma è questa che, nell’idea obiettiva che sta alla sua radice, ha luogo nel Limbo; che, se il Paradiso è illuminato dalla luce di Dio, di questa è, o dovrebbe esser privo nel senso più pieno della parola. Il che (lo si è visto) conduce al paradosso secondo cui, pensato nella sua radicalità, il vero Inferno era il Limbo, perché lì la consaputa assenza di Dio produceva il più profondo, astratto, inconsolabile dolore: un dolore tanto più penetrante quanto meno a esprimerlo fosse il fuoco o il gelo. Non avevano torto, nel loro furore consequenziario, quanti, all’interno del mondo cristiano, sostenevano che, privi di battesimo, e segnati perciò dal peccato di Adamo, non solo gli infedeli, ma anche i bambini meritavano di bruciare nell’eter-
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no fuoco. Il Limbo era stato escogitato per sfuggire al rigore implacabile di questa tesi. Ma, in re, era l’eccezione di una regola che, a quella, non concedeva diritto di esistenza. A questo punto, il discorso può tornare ad Adamo e a una questione che, se non fosse posta e ben distinta nei due aspetti in cui si presenta, il suo profilo rischierebbe di sfuggire per intero, in entrambi. Come si ricorderà, e a più riprese si è dovuto, nelle precedenti pagine, ribadirlo, forte fu, nel quarto dell’Inferno, l’insistenza di Dante sul tema di questi peccatori del Limbo, che, per un verso, debbono essere riconosciuti per tali, in quanto comunque segnati dal peccato originale, e per un altro no, se di loro pur si asserisce che «non peccaro». Si è invocata, perché il contrasto non apparisse troppo forte e il paradosso troppo stridente, la distinzione dei peccati in attuali e non attuali, e di lì si è tratta la conseguenza della minor pena che a ragione sarebbe stata inflitta a chi del peccato originale era stato reso partecipe, non dalla sua volontà (che non avrebbe in nessun caso potuto esserne il soggetto), ma da quella bensì di chi in concreto lo aveva commesso. La distinzione fu affermata con molta chiarezza da Tommaso d’Aquino in più luoghi; e per esempio nel de malo, q. 5, a. 2, dove, nel primo argomento contrario, alla tesi agostiniana secondo cui «parvuli decedentes sine baptismo experientur gehennam. Sed gehenna nominat poenam sensus. Ergo peccato originali debetur poena sensus», si obiettava esser vero, bensì, «quod in uno peccato primi parentis omnes peccaverunt, ut Apostulus dicit Rom. v. Sed ad illud unum peccatum non omnes eodem modo se habent: pertinet enim illud peccatum ad Adam per propriam voluntatem et est eius actuale peccatum, et ideo ei pro huiusmodi peccato poena actualis debebatur; sed ad alios pertinet per originem et non per actualem voluntatem, et ideo aliis pro huiusmodi peccato non debetur poena sensus».37 E la si trova esposta e discussa a più riprese nella Summa theologica, dove, certo, non sarà possibile, in questa sede, seguirla nelle molteplici forme in cui, di volta in volta, l’analisi tomista la prospettò, con sottigliezza bensì, ma non senza che la costante ricerca dell’equilibrio da realizzare fra tesi diverse, e anche opposte, desse luogo, in conclusione, all’ambiguità. Si veda, per fornire qui un solo esempio, nella I 2, q. 81, a. 1, in cui, dopo aver ricordato che «secundum fidem catholicam est tenendum, quod primum peccatum primi hominis originaliter transit in posteros», e che anche gli infanti che non abbiano ricevuto il sacramento del battesimo cadono sotto la pena della gheenna, Tommaso
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rimase tuttavia fermo al punto della sostanziale volontarietà del peccato. E la difficile questione cercò di risolvere così: Et ideo alia via procedendum est, dicendo quod omnes homines qui nascuntur ex Adam possunt considerari ut unus homo, inquantum conveniunt in natura, quam a primo parente accipiunt; secundum quod in civilibus omnes homines qui sunt unius communitatis, reputantur quasi unum corpus, et tota communitas quasi unus homo; sicut etiam Porphyrius dicit, quod ‘participatione speciei plures homines sunt unus homo’. Sic igitur multi homines ex Adam derivati sunt tanquam multa membra unius corporis. Actus autem unius membri corporalis, puta manus, non est voluntarius voluntate ipsius manus, sed voluntate animae, quae primo movet membrum. Unde homicidium quod manus committit, non imputaretur manui ad peccatum, si consideraretur manus secundum se, ut divisa a corpore; sed imputatur ei inquantum est aliquid hominis, quod movetur a primo principio motivo hominis. Sic igitur inordinatio quae est in isto homine ex Adam generato, non est voluntaria voluntate ipsius, sed voluntate primi parentis, qui movet motione generationis omnes qui ex eius origine derivantur, sicut voluntas animae movet omnia membra ad actum. Unde peccatum quod sic a primo parente in posteros derivatur, dicitur originale, sicut peccatum quod ab anima derivatur ad membra corporis, dicitur actuale; et sicut peccatum actuale quod per membrum aliquod committitur, non est peccatum illius membri, nisi inquantum illud membrum est aliquid ipsius hominis, propter quod vocatur peccatum humanum; ita peccatum originale non est peccatum huius personae, nisi inquantum haec persona recipit naturam a primo parente, unde et vocatur peccatum naturae, secundum illud Ephes. II 3: eramus natura filii irae.
L’argomentazione che, in questo passo, Tommaso mise in atto era sottile, come sempre. Ma non priva, nel fondo, di sostanziale ambiguità. Da una parte, considerando, o proponendo di considerare, i nati da Adamo come un unico uomo, Tommaso restava fedele all’idea che, per natura, quelli non potessero distinguersi dal primo progenitore, e perciò, per natura appunto, gli fossero identici; mentre, da un’altra, nel passare a concepirli come altrettante membra unius corporis, e a escludere per conseguenza che, in quanto tali, potessero essere soggetti di volizione, il suo intento era, con tutta evidenza, di ribadire che a peccare è, appunto, la volontà, ed essa soltanto: non la mano che stringe la spada o il coltello con il quale compie l’omicidio, ma la volontà che la guida e dirige a quel fine. Ne conseguiva che imputabile dell’azione commessa era, in questo caso, non l’uomo che, rispetto a Adamo, non era che un suo membro. Ma, appunto, Adamo, al quale, e non a chi non era che una sua parte, apparteneva la formazione
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del proposito e, attraverso la voluntaria voluntas, la sua attuazione. Di qui la sottrazione ai nati da Adamo del peccato, che a quello solo che l’aveva commesso s’intendeva che, sul serio, appartenesse. E quindi, subito dopo, ciò nonostante, la restituzione a essi di quel che a loro aveva sottratto: dal momento che, in ultima analisi, era impossibile che il peccato non appartenesse anche a coloro che, come persone, l’avevano ricevuto dalla natura dell’antico padre. La distinzione che, per questa parte, Tommaso introduceva, nel peccato, fra il suo essere originale e il suo essere attuale, dovrebbe senza dubbio essere studiata come un momento della sua generale concezione di quel che, nei suoi molteplici aspetti, era, per lui, la «peccaminosità». Ma non occorre entrare nei meandri di un’analisi che occupa, nelle Summae e altrove, decine e decine di pagine, per affermare che, così come si presenta nel luogo che ci sta dinanzi, la distinzione era tanto laboriosa quanto, in ultima analisi, non produttiva della conseguenza che egli riteneva di esser riuscito a ricavarne. Non può infatti sfuggire che, certo, di per sé, la mano che commette il delitto non è imputabile di esso: come non lo è lo strumento con il quale lo consumò. Ma, con altrettanta nettezza, deve dirsi che invece lo è se si considera che, proprio perché non ha realtà al di fuori dell’intero di cui è parte e della volontà che la muove, proprio per questo di quel crimine è, in ragione e in forza dell’unità, responsabile anch’essa. E la questione, che si voleva risolta, tornava a presentare il suo aspro profilo. Che queste, o consimili difficoltà dovessero riflettersi, e in effetti si riflettessero, anche nella concezione di Dante, è ovvio. E non erano infatti, quelle che si notano in lui, se non la conseguenza dell’oscillazione che, da Agostino in poi, e spesso all’interno del medesimo autore, il pensiero cristiano fece registrare fra il rigore e l’indulgenza: fra l’estrema durezza di chi voleva condannato all’eterno fuoco, e a una completa, e perciò anche fisica, sofferenza, chiunque, fanciullo o adulto, non fosse stato, per qualche ragione, immerso nell’acqua battesimale, e l’umana preoccupazione e pietà di quanti a una conseguenza così drastica cercavano comunque di sfuggire, attenuandola attraverso ulteriori distinzioni e cautele. Eppure, se fu alla distinzione di quel che è attuale da quel che non lo è, se fu a questa distinzione che Dante si ispirò in questo luogo del quarto dell’Inferno, e poi in altri del Purgatorio, a varie considerazioni si deve allora dar corso. E, in primo luogo, a quella relativa alla rilevante eccezione che, una volta che quella distinzione fosse stata formulata e data per buona, era rappresentata proprio da Adamo. Il quale stette nel Limbo 4.302 anni, e non
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avrebbe dovuto esservi ospitato nemmeno per un istante, se è vero che quel famoso peccato era stato da lui compiuto nella pienezza della sua volontà: sì che, considerarlo non attuale, sarebbe comunque stato impossibile. Ma a questa inconseguenza, e cioè alla disparità di trattamento che in tal modo veniva a determinarsi fra il padre, da una parte, e coloro che da lui erano discesi, da un’altra, Dante non prestò attenzione. E non a caso: perché, se l’avesse resa esplicita alla sua coscienza e l’avesse dibattuta, non ci sarebbe stato alcun modo, per lui, di risolverla per via razionale. La difficoltà concernente Adamo era la conseguenza dell’indulgenza mostrata nei confronti di coloro che da lui avevano ereditato un peccato che, per parte loro, non avevano in alcun modo commesso. Ma, come si è accennato, a essere implicata in una difficoltà non lieve era proprio la distinzione che, da una parte, poneva il peccato considerato nella sua attualità, e, da un’altra, il suo semplice riflesso nella natura di chi l’aveva subito senza commetterlo. E che sussistesse, questa difficoltà, e derivasse proprio, o, se si preferisce, fosse confermata dall’esigenza di addolcire la crudeltà intrinseca alla tesi paolina del fuoco eterno in cui tutti sarebbero bruciati quanti non avessero ricevuto il battesimo e conosciuto il Cristo, è evidente. Né è difficile comprendere. E lo si comprende in effetti se si considera che, se la tendenza era all’addolcimento della tesi e alla disattualizzazione del peccato, la ragione autentica era da ricercare e ritrovare nella sua presenza incancellabile anche in coloro che lo subivano senza averlo attualmente commesso. Persino nel caso in cui la presenza non attuale del peccato fosse stata interpretata nei termini di una disposizione a commetterne di attuali, specifici, e conformi tuttavia a ciò che di quella faceva una disposizione, – persino in questo caso, la risposta non avrebbe potuto essere diversa. E anzi, se possibile, sarebbe stata ancora più drastica. Nella potenziale disposizione al peccato non si sarebbe infatti potuto non riconoscere, come attualmente presente, il peccato che la sostanziava di sé e ne faceva, appunto, quella tal disposizione: non si sarebbe potuto ammettere che, per essere quel che era, e cioè una disposizione al peccato, questa potesse non essere attuale, non solo a sé stessa, ma al peccato che, immanendo in lei, ne faceva, appunto, una disposizione al peccato. Ne consegue che quel che per un verso si diceva «potenziale», doveva, per un altro, e non per esercitare «false sottigliezze», esser detto «attuale ». E anche per questa via si sarebbe perciò confermato che la presenza del peccato di Adamo nell’umanità nata da lui non poteva essere né cancellata né attenuata attraverso, come si diceva, il gioco sottile delle distinzioni e delle cautele.
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Di questo si è detto abbastanza. E occorre ora soffermarsi di nuovo sui vv. 51-63, che contengono la risposta al quesito che Dante gli aveva posto: «uscicci mai alcuno, o per suo merto/ o per altrui, che poi fosse beato?» (vv. 49-50):
E quei, che ’ntese il mio parlar coperto, rispuose: ‘io ero nuovo in questo stato, quando ci vidi venire un possente, con segno di vittoria coronato. Trasseci l’ombra del primo parente, d’Abèl suo figlio e quella di Noè, di Moisè legista e ubbidente; Abraàm patriarca e David re, Israèl con lo padre e co’ suoi nati e con Rachele, per cui tanto fe’; e altri molti, e feceli beati; e vo’ che sappi che, dinanzi ad essi, spiriti umani non eran salvati.
Di fronte a questi versi, nei quali il quesito che Dante poneva a Virgilio non avrebbe potuto essere formulato con più grande chiarezza, ci si deve chiedere, innanzi tutto, perché egli giudicasse «coperto » il suo parlare, che il maestro aveva per altro subito colto nella intenzione che conteneva. E che doveva, in effetti, riguardare la persona a cui la domanda era rivolta: ossia Virgilio, al quale Dante chiedeva, non solo se da quel luogo qualcuno fosse mai uscito per accedere, in virtù del merito o della grazia divina, al cielo ed esservi accolto, ma chiedeva qualcosa, forse di più: se altri nel futuro avrebbe goduto della stessa sorte. Che qui, indirettamente, da Virgilio Dante desiderasse sapere se tale sorte egli l’attendesse per sé, non può infatti escludersi; e sorprende alquanto, in effetti, che, a quel che consti, la questione non sia stata posta.38 Ma, avendo inteso quel che le parole dell’allievo «coprivano», non alla domanda implicita, e indiscreta, Virgilio rispose. Lasciandola cadere, e rivelando anche in questo l’estrema finezza che, nel costruire il suo personaggio, Dante gli attribuì, rispose a quella esplicita, che nessuno, in effetti, avrebbe potuto definire «coperta», indiretta e allusiva. Rispose in modo chiaro, descrivendo quel che, ospite da poco di quel luogo, aveva visto avvenire sotto i suoi occhi. Rispose alludendo alla discesa del Cristo,39 e dunque al merito «altrui», alla grazia; e del «merito» che, se così fosse lecito dire, l’aveva sollecitata, non parlò se non attraverso la citazione dei nomi di coloro che ne usufruirono e che,
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appartenendo tutti a storie narrate nell’Antico Testamento, si presentavano, rispetto ad altri eventuali, con il carattere dell’estrema eccezionalità. Nemmeno della «grazia», del resto, parlò in modo compiuto. Si restrinse ad alludervi. E fece che, per il momento, il discorso finisse lì. Per il momento, perché era inevitabile che la questione della grazia fosse ripresa, e trattata insieme a quella della predestinazione che, per un verso, senza dubbio le si connetteva, nel pensiero di Dante, ma, per un altro, non del tutto e in modo esclusivo. Si vedrà, fra breve, perché si dica, e debba dirsi, così. Ma si vada, intanto, al diciannovesimo del Paradiso, al canto che si apre con la solenne descrizione dell’Aquila («parea dinanzi a me con l’ali aperte/ la bella image che nel dolce frui/ liete facevan l’anime conserte»);40 dell’Aquila che non era dunque un animale vivo, ma una «bella image» formata dalle anime «conserte», e che tuttavia parlava come se, formata com’era dal concorso di molte anime, fosse stata non di meno un individuo, al quale fosse perciò lecito dire «io». Parlava lamentando e deplorando lo stato attuale del mondo, al quale avrebbe rivolto nel finale del canto una rovente invettiva («e in terra lasciai la mia memoria/ sì fatta, che le genti lì malvage/ comendan lei, ma non seguon la storia»). E, interrogata da Dante, rispose. La domanda era stata formulata così:
… ‘O perpetui fiori de l’etterna letizia, che pur uno parer mi fate tutti vostri odori, solvetimi, spirando, il gran digiuno che lungamente m’ha tenuto in fame, non trovandoli in terra cibo alcuno. Ben so io che se ’n cielo altro reame la divina giustizia fa suo specchio, che ’l vostro non l’apprende con velame. Sapete come attento io m’apparecchio ad ascoltar; sapete qual è quello dubbio che m’è digiun cotanto vecchio’.
E chi non ricorda la risposta?
… ‘Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto, non poté suo valor sì fare impresso in tutto l’universo, che ’l suo verbo
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non rimanesse in infinito eccesso. E ciò fa certo che ’l primo superbo, che fu la somma d’ogne creatura, per non aspettar lume, cadde acerbo; e quinci appar ch’ogne minor natura è corto recettacolo a quel bene che non ha fine e sé con sé misura. Dunque vostra veduta, che convene esser alcun de’ raggi de la mente di che tutte le cose son ripiene, non pò da sua natura esser possente tanto, che suo principio discerna molto di là da quel che l’è parvente. Però ne la giustizia sempiterna la vista che riceve il vostro mondo com’occhio per lo mare, entro s’interna; che, ben che da la proda veggia il fondo in pelago nol vede; e nondimeno èli, ma cela lui l’esser profondo. Lume non è, se non vien dal sereno che non si turba mai; anzi è tenebra, od ombra de la carne, o suo veleno’.
Esposta in versi potenti, la dottrina della giustizia di Dio, dalla cui insondabile profondità scaturisce quel che si chiama grazia e predestinazione, era presentata qui in modo tale che la «question cotanto crebra» che Dante aveva posta a sé stesso doveva considerarsi risolta, mediante l’implicito invito, si direbbe, a non cercarvi oltre. Ma anche lasciava intendere, e anzi diceva a chiare lettere, che solo a presunzione, ignoranza, e superbia, quale fu quella di colui (Adamo) che fu «la somma d’ogne creatura», si sarebbe dovuto far risalire l’intento di squarciare il velo e di guardare dentro alle segrete cose di Dio. Dalla risposta dell’Aquila si apprendeva anche in che modo il poeta avesse formato il suo dubbio, in che termini gli fosse apparsa la «question cotanto crebra»:
…‘un uom nasce a la riva de l’Indo, e quivi non è chi ragioni di Cristo né chi legga né chi scriva; e tutti suoi voleri e atti buoni sono, quanto ragione umana vede, sanza peccato in vita o in sermoni.
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Muore non battezzato e sanza fede: ov’è questa giustizia che ’l condanna? ov’è la colpa sua, se ei non crede?’.
Ancora e sempre dalle parole dell’Aquila si apprende che la domanda stessa nasceva da presunzione:
Or tu chi se’ che vuo’ sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta d’una spanna? Certo a colui che meco s’assottiglia, se la Scrittura sovra voi non fosse, da dubitar sarebbe a maraviglia. Oh terreni animali! oh menti grosse! La prima volontà, ch’è da sé buona, da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse. Cotanto è giusto quanto a lei consuona: nullo creato bene a sé la tira, ma essa, radiando, lui cagiona.
È una sequenza famosa, e, a parte quel che in una sede più specifica, potrebbe dirsene, non richiede, in questa, particolari commenti. Il «sillogismo» che la sottende è infatti presto formulato osservando che, poiché tutto deriva dalla prima cagione, che di per sé è buona, dubitarne sarebbe come metterne in forse la bontà. Il che è assurdo perché, che «buona» sia la bontà divina (e giusta, dunque, la sua giustizia), è cosa di per sé stessa evidente. Quel che non può essere spiegato con il puro discorso della ragione, e con il discorso che essa intesse intorno alle cose, dev’essere rinviato a quella «bontà» che lo tiene celato in sé e lo sottrae al potere degli umani raziocinii; e tanto deve bastare, lì almeno dove la presunzione abbia ceduto il campo a questa superiore consapevolezza. Sono, si ripete, argomenti noti. E non li si sarebbe richiamati in questa sede se non fosse stato per la differenza che, rispetto a questa così rigorosa dottrina dell’imperscrutabilità divina, può notarsi nei versi che, nel quarto dell’Inferno, riguardano la salvezza di Adamo e dei grandi patriarchi biblici. Si tratta, beninteso, di una differenza relativa, che non implica, nei confronti della dottrina esposta nel decimonono, e anche nel ventesimo, canto del Paradiso, alcuna contraddizione. Per un verso, la salvezza del primo uomo e dei suoi primi discendenti era senza dubbio assumibile nel quadro della dottrina che delineava nei termini che si sono visti la questione della
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grazia e della predestinazione. Non è forse vero che anche il così detto «merito», e, in ultima analisi, lo stesso libero arbitrio, potevano ben essere assunti, quando si fosse scesi fino alla radice, come una creazione della grazia divina? Ma, per un altro verso, non lo era del tutto: non lo era al punto che, a considerare con attenzione i due contesti e i «soggetti» che vi agivano, non si profilasse la differenza alla quale, qui su, si è alluso. Soggetto del discorso concernente la salvezza o la non salvezza era, nei canti decimonono e ventesimo del Paradiso, l’umanità che, per ragioni di cronologia o di lontananza geografica, era vissuta nell’ignoranza del cristianesimo; e Dante l’aveva infatti efficacemente esemplificata con i nati nel lontano Oriente, al di fuori dell’orizzonte cristiano, e del sapere che vi era coltivato. Ma soggetto del discorso erano, nel quarto dell’Inferno, Adamo e i grandi patriarchi biblici. E di costoro poteva bensì dirsi che non avevano conosciuto Cristo e quel che ne era proceduto. Ma non che non avessero conosciuto Dio. Direttamente, o no, di lui avevano ascoltata la voce, a lui avevano ubbidito, o disubbidito, erano stati i consapevoli, diretti, appunto, e non, come i Romani, indiretti, protagonisti di una storia guidata dalla sua mano, di una storia «sacra ». Erano, a partire da Adamo, «figure» di quel che sarebbe accaduto dopo. Erano anticipazioni del Cristo e del cristianesimo. Ed è vero che, in quanto tali, ne sarebbero stati «inverati», ma anche lo era che di questo «inveramento» costituivano la premessa, la condizione, la radice. A parte Adamo che, comunque, era stato collocato lì, nel Limbo, perché, attraverso la sua liberazione, potesse, come si è detto, aver luogo una sorta di «anteprima» della seconda parousia del Cristo e della sua azione salvifica, i patriarchi biblici avevano ascoltata la voce di Dio, lo avevano onorato e ubbidito. Erano gli eroi dell’Antico Testamento. E il significato che per necessità doveva attribuirsi al loro esser stati nel Limbo per esserne poi liberati nella direzione del cielo, era il medesimo che rifulgeva nel nesso che il Nuovo Testamento realizzava con l’Antico, nel quale aveva la sua premessa, ma al quale conferiva la piena verità. Dante non avrebbe mai potuto mettere in dubbio quel che leggeva nel libro della Genesi, che era, per lui, un libro sacro. Meno che mai, naturalmente, poteva dubitare che fosse Dio, il vero Dio, quello che, con l’universo, aveva creato il primo uomo. Ma sebbene, sotto il profilo rigorosamente teologico, Dio e il figlio (il Verbo) fossero da concepire come intrinseci l’uno all’altro nel segno della stessa eternità, come «quell’uno e due e tre che sempre vive/ e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno» (Par. XIV 28-
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29), resta che sul piano storico/fenomenologico la parousia del Cristo fu un evento del tempo, qualcosa che, mentre si determinava, e indicava il suo presente, anche indicava il suo passato non esserci e il suo dover di nuovo accadere nel futuro. A creare Adamo fu perciò bensì il Dio uno e trino che, «non circunscritto», «tutto circunscrive»: salvo che, nel venire al mondo, quello conobbe il padre senza, in lui, poter conoscere anche il figlio che ancora non si era storicamente rivelato. Improponibile sul piano dell’Antico Testamento, la questione era, non solo proponibile, ma inevitabile, su quello del Nuovo nel suo rapporto con l’Antico. E certo il pensiero cristiano non poteva, che si sappia, spingersi tanto oltre da assumere che, godendo della vista di Dio quando ancora si trovava nel Paradiso terrestre, l’occhio di Adamo potesse discernervi le figure, e le persone, costitutive della sua unità. Creato dal vero Dio, e dunque anche dal Verbo, il primo uomo venne «prima» che, come uomo, il figlio di Dio si rendesse manifesto per redimere l’umanità dal peccato che quello aveva commesso. Non avrebbe perciò potuto essere assunto in Paradiso se non fosse stato per la «gratuita» iniziativa di colui che, per un altro verso, con la sua «assenza», era stato la «causa» della sua lunga esclusione da quello. Condannato dallo storico «non esserci» del Cristo, Adamo era riscattato nel suo peccato dallo storico manifestarsi di quello attraverso la discesa ad inferos. Cristo si era fatto uomo per gli uomini. Era giusto che, nell’ordine della salvezza, il primo uomo fosse il primo a essere salvato. La questione che si sta delineando sarebbe subìta e non risolta se non si considerasse con attenzione il punto che ora si cercherà di far emergere e di mettere in chiaro. Era in gioco qui, per Dante e per il pensiero cristiano, la questione del rapporto che il Nuovo Testamento intratteneva con l’Antico; che il tempo dell’attesa stringeva con quello segnato dall’avvento e dalla rivelazione del Verbo come Cristo. Se l’Antico Testamento rappresentava la parola di Dio innanzi all’essersi manifestata come uomo della seconda persona della Trinità, e di quello il Nuovo rappresentava il compimento, l’inveramento, la compiuta realizzazione, la conseguenza che doveva trarsene era semplice. A parte Adamo, che costituiva un caso a sé, Mosè e gli altri erano stati i fedeli di un Dio che, storicamente, non si era ancora manifestato nella sua compiutezza. Del che la «colpa» proprio al primo uomo doveva esser fatta risalire: dal momento che se non avesse ceduto alla tentazione del peccato, se avesse rispettato il limite che Dio aveva imposto all’uso che poteva fare dei frutti del giardino in cui era
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stato collocato, diversa da quella che fu in seguito alla sua espulsione da questo sarebbe stata la storia che comunque sarebbe derivata da lui: e posto che da lui, nell’Eden una storia dovesse derivare.41 Ma Adamo aveva peccato, l’umanità era stata segnata in profondità dalla sua colpa. E di qui conseguiva che, perfetto e compiuto per Adamo che, innanzi al peccato, aveva ascoltata la sua parola e da lui aveva appresa tanta saggezza quanto bastava a una vita felice,42 quel Dio non era altrettanto compiuto per coloro che, appunto, nati dal primo uomo, ne avevano ereditata la corruzione. Il progetto della salvezza importava perciò che l’unico Dio si manifestasse in forma storica attraverso l’incarnazione della sua seconda persona; e che il rapporto che anche gli eroi della Bibbia avrebbero intrattenuto con lui non potesse essere né quello che era stato di Adamo, né l’altro che sarebbe stato dei nati dopo l’avvento del Cristo. Analogo a quello di Adamo questo rapporto era in quanto di lui si fosse considerata, non la condizione edenica, ma l’altra, conseguita all’espulsione dal Paradiso terrestre; in quanto in lui si fosse osservato l’uomo segnato per sempre dal peccato originale. Ma se era così che la situazione avrebbe dovuto essere descritta e valutata, se anche gli immediati discendenti di Adamo, che, con la sua visita agli inferi Cristo aveva liberati dalla schiavitù del Limbo, partecipavano del suo peccato e, dell’ignoranza che al riguardo non potevano non condividere con altri grandi spiriti dell’antichità precristiana, perché allora quella liberazione? Se, per non aver conosciuto Dio se non parzialmente, erano stati assegnati al Limbo, che cosa era accaduto, negli anni trascorsi in quel luogo, che li avesse resi degni del Paradiso? La parziale conoscenza di Dio non poteva non esser considerata equivalente all’ignoranza di lui, se quei personaggi erano stati inviati nel Limbo. E non di meno, la dottrina insegnava che Cristo li aveva salvati. Perché? Se, per suo conto, nel corso della sua rimeditazione del racconto biblico, Dante arrivasse mai a farsi passare per la testa questi pensieri, è difficile dire. Ma certo è che se alluse alla leggenda della salvezza dei grandi patriarchi biblici, la ragione sarà stata che la loro storia era stata raccontata nella Bibbia, e che, per virtù del Cristo, la parte antica di quel libro doveva essere intesa come il preannunzio della sua divina avventura. Certo, senza Cristo, quella parte della Bibbia sarebbe rimasta priva della sua verità più profonda. Ma restava vero che, così com’era, quella parte poteva ben essere considerata, se non come la condizione, certo come una premessa dell’azione salvifica, come qualcosa che conferiva pregio a ciò da cui, essenzialmente, lo riceveva.
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Questi ragionamenti si rendono necessari quando, sollecitati dal testo e da quel che questo tiene chiuso dentro di sé, avvertiamo l’esigenza di discuterlo anche in queste sue implicazioni. Certo è comunque che, quando il filo sia stato a sufficienza dipanato e l’implicito sia stato reso esplicito, l’analogia per dissimilitudine con Ulisse, che i versi del ventiseiesimo del Paradiso dedicati all’incontro con il «padre antico» consentivano di intravvedere e di recare alla luce, si è come dissolta. Dell’eroe greco non ci si ricorda più. Eppure, a guardar bene, ci si accorge che dell’analogia qualcosa rimane nell’ultimo tratto del discorso di Adamo. A conclusione della parte dedicata, in esso, alla questione della lingua da lui parlata nel Paradiso terrestre, e di quella che si parlò dopo, è come se l’antico padre fosse preso dalla malinconia dei ricordi. Quando si trovava in terra, prima di scendere a «l’infernale ambascia,/ I s’appellava in terra il sommo bene», da cui, aggiungeva, «vien la letizia che mi fascia»:
E EL si chiamò poi: e ciò convene, ché l’uso d’i mortali è come fronda in ramo, che sen va e l’altra vene. Nel monte che si leva più da l’onda, fu’ io, con vita pura e disonesta, da la prim’ora a quella che seconda, come ’l sol muta quadra, l’ora sesta.
È uno scorcio di alta suggestione poetica, di grande intensità, come sempre, in Dante, quando a prevalere sia il ricordo di passate età. E il ricordo si fa tanto più malinconico e struggente in quanto brevissimo, di sole sei ore, era stato, secondo Dante, il periodo che Adamo aveva trascorso nel Paradiso terrestre:43 come se anche quel bene, che non apparteneva alla terra, in realtà le appartenesse, e come la «fronda/ in ramo, che sen va e l’altra vene»,44 anche la sua vita edenica si fosse svolta fulminea dalla «purezza» alla «disonestà». Sarà una semplice impressione di lettura. Eppure, nel ripercorrere questi versi, la mente torna alla catastrofe di Ulisse, al fulmineo passaggio dall’allegrezza al pianto, mentre il «turbo» nato dalla «nuova terra», anche qui richiamata al v. 139, investiva la nave e la faceva inabissare. Vi torna; e certo non vi scopre cose dalle quali l’analogia per dissimilitudine sia indotta a trapassare in piena analogia. Resta vero, infatti, che Adamo è un peccatore, anzi il peccatore, redento. Ulisse, un naufrago; che alla sua audacia non trovò conforto.
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Note 1. B. Nardi, La tragedia di Ulisse (1937), in Dante e la cultura medievale, Bari 1983, pp. 125-34. Cfr. anche U. Bosco, La follia di Dante, in Dante vicino, Caltanissetta-Roma 1958, pp. 60-61, J.A. Scott, Dante magnanimo, Firenze 1977, p. 233. Ma si veda anche L. Pietrobono, Il rifacimento della ‘Vita nuova’ e le due fasi del pensiero dantesco, in Saggi danteschi, Roma 1936, pp. 104-106, e sopra tutto, per il paragone con Adamo, La Divina Commedia, I, Inferno, Torino-Milano ecc. 1944, p. 323. 2. Par. XXVI 93. 3. Cfr. supra il mio L’ananke di Ulisse. 4. Inf. XXVI 64-69. 5. Par. XXVI 82-84. 6. Cfr. i miei saggi, In margine a ‘Paradiso’ XXVI 125-34, in «La Cultura», 42 (2004), pp. 297-314, e Qualche variazione su Dante e Vico in tema di linguaggio, in Humanistica. Per Cesare Vasoli, Firenze 2003, pp. 263-81. 7. Chi perciò, come, per es., Bosco, La follia di Dante, pp. 60-61, ha unificato i due personaggi nel segno della follia si è lasciato sfuggire una differenza essenziale. 8. G. Padoan, Ulisse ‘fandi fictor’ e la via della sapienza (1960), in Il pio Enea, l’empio Ulisse, Ravenna 1977, pp. 193-94, che, giudicando il viaggio di Ulisse come «il più inutile», dette per ovvio che i «riguardi» fossero stati posti da Ercole «in obbedienza al cielo» (p. 194). E pensava, naturalmente, al nesso Ercole/Cristo secondo lo schema «figurale» da lui stesso studiato nel saggio Teseo figura Redemptoris e il cristianesimo di Stazio (1959), ibidem, pp. 125-50 (ma cfr. p. 139, dove è citato il saggio di F. Gaeta, L’avventura di Ercole, in «Rinascimento», 5 (1954), pp. 227-60: ma p. 240). Ma, sebbene Dante ben conoscesse il procedimento «figurale», e, per esempio, se ne servisse nella Vita nuova, XXIV 3-5 (in Opere minori, I/1, a cura di D. de Robertis e G. Contini, Milano-Napoli 1984, pp. 167-68), non è possibile inferirne che qui Ercole (XXVI 108) valesse come «figura» di Cristo. Non dovrebbe dimenticarsi inoltre, che, come E. Auerbach, Figura (1938), in Studi su Dante, trad. it. Milano 1963, pp. 176-226 (spec. 193-94), ha benissimo argomentato, se è la seconda persona della «figura» a costituire l’adempimento di quello che la prima profetizzò, presa di per sé, ossia in un contesto in cui la connessione non abbia luogo, questa non può avere il significato che assume quando l’intento sia di connetterla alla seconda. 9. Par. XXXII 4-6. 10. Cfr. la nota del Poletto (La Divina Commedia, III, Paradiso, Roma-Tournay 1894, p. 561). 11. La tesi relativa alla dannazione di Adamo fu sostenuta verso la fine del secondo secolo da Taziano (cfr. X. Le Bachelet, Adam, in Dictionnaire de théologie catholique, I, Paris 1903, c. 379): cfr., per es., per la sua energica confutazione, Aug. Epist. c. 44, n. 6, PL, 43, 711: «quod eam [salutem] non inaniter credidisse credendum sit, undecumque hoc traditum sit, etiamsi canonicarum scripturarum hinc expressa non proferantur auctoritas». Dove sembra evidente che credere alla salvezza di Adamo si debba a causa delle conseguenze negative che il non credervi recherebbe con sé; e che derivi di qui, e non ne costitui sca invece la condizione, quel che anche Agostino disse circa i meriti conseguiti da lui e da Eva durante la loro vita postedenica: cfr. de peccat. mer, II 34 (PL, 44, 185).
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12. È la tesi dell’umanità come massa damnationis, che Agostino derivò (cfr. E. Buonaiuti, Il Cristianesimo nell’Africa romana, Bari 1928, pp. 373-74, in nota) da Ilario di Poitiers. E cfr. K. Flasch, Agostino d’Ippona, trad. it. Bologna s.a., pp. 197 ss. 13. Per questo, Ireneo, Haeres. III 23 (PG, 7, 960), per esempio, sostenne che, nuovo Adamo, Cristo era venuto per porre rimedio al peccato commesso dal vecchio; e che la sua vittoria sarebbe stata poca cosa se il progenitore del genere umano fosse stato condannato per sempre. 14. Thomae Aquin. Summa theol. I 2, q. 89, a. 3; II 2, q. 105, a. 2 ad 3. 15. Purg. XI 58-72, 73-108, 121 ss. 16. Le Bachelet, Adam, c. 379. 17. Sul senso di questa espressione, cfr. infra. 18. Le Bachelet, Adam, cc. 379-80. 19. Non mi riferisco qui alla questione posta dal Padoan, Il Limbo dantesco, in Il pio Enea, l’empio Ulisse, pp. 103-24, il quale ha notato che, nell’includere nel Limbo, oltre i bambini nati senza battesimo e i patriarchi biblici, anche «femmine» e «viri», cioè adulti di entrambi i sessi, Dante si pose decisamente fuori della tradizione teologica. A notare questa sua eccentricità rispetto alla tradizione fu, forse per primo, Guido da Pisa, Expositiones et glosse super Comediam Dantis, ed. V. Cioffari, Albany-New York 1974, p. 71; e l’anomalia fu quindi rilevata da G. Boccaccio, Esposizioni sopra la Commedia di Dante, a cura di G. Padoan, Milano 1965, pp. 267-75, il quale tentò di difendere la scelta dantesca, assumendo che si fossero dati pagani giusti, sebbene vissuti innanzi alla rivelazione, e poi ripiegò sulla «catolica verità» e sull’interpretazione datane dai più. Mi riferisco, come si deduce dal testo, alla questione specifica di Adamo, alla quale il Padoan non dette, nel suo articolo, rilievo. 20. Per questa idea del peccato, è probabile che Dante tenesse conto sopra tutto di Tommaso d’Aquino: cfr., per es., Super Sent. II, dist. 35, a. 2; Summa theol. I 2, q. 71, a. 5; de malo, qq. 2-7. 21. Può ritenersi che Dante trasferisse alle «femmine» e ai «viri» quel che da varie parti teologi e filosofi avevano riservato agli infanti, attenuando o addirittura capovolgendo quel che, a partire dal Vangelo di Giovanni (cfr. infra nel testo), era stato sostenuto, per es., da Paolo, Rom. 5, 12 διὰ τοῦτο ὥσπερ δι’ ἑνὸς ἀνθρώπου ἡ ἁμαρτία εἰς τὸν κόσμον εἰσῆλθεν, καὶ διὰ τῆς ἀμαρτίας ὁ θάνατος, καὶ οὕτως εἰς πάντας ἀνθρώπους ὁ θάνατος διῆλθεν, ἐφ ᾧ πάντες ἥμαρτον, e da Agostino dopo la controversia antipelagiana (cfr., per es., Contra secundam Iuliani resp. opus imperf. v 64 (PL, 45, 1506) e anche da Gregorio Magno, Mor. IX 21 (PL, 25, 877; «perpetua quippe tormenta percipiunt et qui nihil ex propria voluntate peccaverunt»). Che la pena riservata ai bambini fosse non fisica (il fuoco eterno), ma soltanto spirituale (privazione della vista di Dio), era sostenuto dai Padri greci (per es., da Gregorio di Nazanzio e da Gregorio di Nissa: cfr., per il primo, Orat. XI, in sanctum baptisma, n. 23, PG, 36, 389; per il secondo, de infantibus qui praemature moriuntur, PG, 46, 177-80); e fu ripresa dalla scuola di Abelardo (per es., Pietro Lombardo, Sent. II, dist. 33, n. 5), e quindi da Tommaso d’Aquino (de malo, q. 5, a. 2). Ma l’intera quaestio tomista è da leggere per il compendio che offre della controversia. 22. È infatti in relazione a questo concetto che deve intendersi la novità rilevata dal Padoan, Il Limbo dantesco, pp. 105-106. 23. Su questo punto, che è assai delicato, e presenta una tesi per la quale la bontà e la giustizia di Dio, che non possono mai esser considerate assenti o manchevoli, tanto più
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conferiscono rilievo alla negligenza di chi, vissuto innanzi alla rivelazione, non abbia saputo giovarsene, occorrerebbe fermarsi a parte. Non è infatti, in alcun modo, sufficiente quel che ne dice il Padoan, Il Limbo dantesco, pp. 108-10. 24. Inf. IV 99-105. 25. Per le diverse opinioni che su questo punto si ebbero nella tradizione teologica e filosofica, e talvolta (come nel caso di Agostino) all’interno di un medesimo autore, cfr. A. Gaudel, Limbes, in Dictionnaire de théologie catholique, IX 1, Paris 1926, cc. 760-72. 26. Aug. de div. quaest. XVIII 3 (PL, 40, 71). Cfr. Flasch, Agostino d’Ippona, pp. 196-97. 27. Aug. de natura et gratia, III, 62 (PL, 44, 273). 28. Cfr., per es., Summa theol. I 2, q. 88, 1 ad 5. E cfr. anche Summa contra gent. III 139, e de malo, q. 7, a. 1. 29. Cfr. qui su, n. 23. 30. «Dalla porta insino al fiume d’Acheronte dimostrò el poeta essere un luogho nel quale, perché né al tutto era nello ’nferno, né al tutto fuor dello ’nferno, pose quegli, e quali né buoni né rei al tutto si poteono chiamare. El quale fu quasi un precinto et vestibulo di tutto el luogho» (C. Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, I, Roma 2001, p. 410). 31. Padoan, Il Limbo dantesco, pp. 105-106. E cfr. A.M. Chiavacci Leonardi, La guerra de la pietade. Saggio per una interpretazione dell’Inferno di Dante, Napoli 1997, p. 52 e n. 35. 32. Cfr. il mio «Il foco», la «lumera», il «nobile castello», in «La Cultura», 44 (2006), pp. 371-95. 33. Ma si ricordi almeno Inf. IV 14, dove, al momento della discesa nel «cieco mondo», Virgilio è «tutto smorto»; e quindi Purg. III 40-45. 34. La questione che altri si pose (cfr., per es., A. Fiammazzo, Virgilio veggente cristiano, in «Giornale storico della letteratura italiana», 102, 1933, pp. 138-47 e F. Schneider, Dante und Vergil, in «Deutsches Jahrbuch», 36/37, 1958, pp. 126-27), se Dante pensasse a una possibile salvezza di Virgilio, è certamente mal posta; e deve escludersi che, in concreto, e cioè nella logica che presiede alla costruzione poetica del personaggio, egli la pensasse mai come possibile. La consapevolezza del suo non poter evadere dalla situazione determinata in lui dall’essere stato ignaro del vero Dio costituisce altresì la sostanza più profonda del suo essere; e ci vuole un grado assai alto di sordità e cecità estetiche per immaginare che alla storia di un personaggio così costruito Dante riservasse un lieto fine. Si ricordi Purg. VII 7-8: «io son Virgilio; e per null’altro rio/ lo ciel perdei che per non aver fè»; e quindi 25-27: «non per far, ma per non fare ho perduto/ a veder l’alto Sol che tu disiri/ e che fu tardi per me conosciuto». E cfr. XXI 16-18; «nel beato concilio/ ti ponga in pace la verace corte/ che me rilega ne l’etterno essilio». 35. Inf. XV 55 ss. 36. «Colta lettrice di provincia» la definì G. Contini, Filologia ed esegesi dantesca (1966), in Un’idea di Dante, Torino 1976, p. 129 (ma anche ibidem, pp. 42-43). E cfr. poi C. Garboli, Dante e Guido, in Pianura proibita, Milano 2001, p. 153, che accentuò quel che in Contini era reazione, giusta, a letture di gusto romantico e risalenti, senza adeguarlo, al grande modello desanctisiano; e parlò della «sciagurata sposa romagnola, con tutto il suo amore letterario di cattiva lettrice, recitato e portato in giro come un blasone». Dove, presso un critico di così straordinaria intelligenza e sensibilità, il segno fu superato: come debbo
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riconoscere con schiettezza in memoria di un amico carissimo, con il quale cominciai a parlare di Dante (e non soltanto) quando eravamo ragazzi (diciamo dal 1947!). Su Francesca, cfr., da ultimo, il bel saggio di G. Inglese, Francesca e le regine amorose, in «La Cultura», 42 (2004), pp. 45-60; e anche il mio Dante, Guido e Francesca, Roma 2008. 37. Per la citazione paolina, cfr. Rom. 5, 12. 38. Sapegno, Inferno, p. 45, intese «coperto» come «indiretto e allusivo». Già, ma allusivo a che? 39. Inf. IV 52-63. 40. Par. XIX 1-3. Una notevole «lettura» di questo canto ha dato di recente G. Inglese, Il destino dei non credenti, in «La Cultura», 42 (2004), pp. 315-29. 41. Che, al momento della creazione, Dio avesse deciso che da Adamo e Eva sarebbero derivati uomini e donne nati da loro, è scritto (Gen. 1, 28: «benedixitque illis Deus, et ait: crescite et multiplicamini, et replete terram, et subjicite eam, etc.». La discrasia che si nota fra queste parole e quelle che seguono (1, 29 ss) è netta. Gen. 1, 27, assume, com’è noto, che Dio «creavit hominem ad imaginem suam: ad imaginem Dei creavit illum: masculum et feminam creavit eos». Dopo di che li benedisse, e comandò loro di essere fecondi («crescite et multiplicamini»): dove parrebbe evidente che la creazione fosse di un uomo e di una donna, individualmente separati e diversi: «creavit eos». Ma nel seguito, piantato il Paradisus voluptatis (2, 8), l’unico abitatore di esso risultò essere l’uomo «quem formaverat»: sì che la creazione della donna, di cui è detto a 2, 22, si presenta come una duplicazione di quella asserita a 1, 27. Su queste inconseguenze, più volte (com’è ovvio) notate, non è necessario che ci si fermi qui. Ma per quanto attiene alla questione se, già nell’Eden, Adamo e Eva procreassero, la risposta che si ricava dalla Genesi è certamente positiva: cfr. il crescite et multiplicamini di 1, 28, e anche 2, 22-23, anche se il futuro dei verbi che ricorrono in 2, 24 («quamobrem relinquet homo patrem suum et matrem, et adhaerebit uxori suae: et erunt duo in carne una», possa far pensare a un’anticipazione di quel che sarebbe accaduto dopo la cacciata dal Paradiso terrestre. Solo allora è detto in modo esplicito (4, 1) che «Adam cognovit uxorem suam Hevam; quae concepit et peperit Cain etc.». La questione che nasce da queste «sfasature» del racconto biblico furono in qualche modo subìte da Tommaso d’Aquino (Summa theol. I, q. 44, a. 3), il quale non decise se quella attribuita a Adamo e Eva fosse, fin che rimasero nell’Eden, una semplice potentia generandi. 42. Le questioni alle quali si allude qui su non furono rese esplicite da Dante che, essendone certamente stato edotto da quel che aveva letto nei suoi testi, e in particolare, forse, nella Summa theol. I 2, q. 113, a. 8, non ne era stato tuttavia sollecitato a riprenderle: perché altro richiedeva il suo discorso. La questione è quella della grazia santificante: se Adamo la ricevesse all’atto della sua creazione, o dopo; ed è questione comunque spinosissima quando la si connetta, com’è inevitabile, a quella della caduta. Per un quadro della questione, e un primo orientamento, Le Bachelet, Adam, cc. 373-75. 43. Cfr. B. Nardi, Il mito dell’Eden (1922/1933), in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, p. 222. 44. E cfr., per l’analogia stilistica, Purg. XI, 115-17: «la vostra nominanza è color d’erba,/ che viene e va, e quei la discolora/ per cui ella esce de la terra acerba».
3. Delle lucciole, della frode e di alcune altre cose (Inf. XXVI 25 ss)
In un saggio del 1974, che non ebbe, a quanto risulti, particolare diffusione fra gli studiosi, e che, proprio per questo, merita di essere ricordato e in alcune parti discusso, Enrico de Negri studiò l’Inferno di Dante e la teologia penitenziale;1 e dedicò alcune pagine all’episodio di Ulisse, anzi al ventiseiesimo canto, nel quale non vide, in generale, se non frode e inganno. Li vide, non solo nell’«orazion picciola», opera anche per lui, tardo seguace di Francesco da Buti,2 e di non pochi altri, di uno che, non potendo non sapere che le «doti umane hanno un limite», «ciò non di meno» non solo ne tacque quando il ricordarle e tenerne conto sarebbe stato segno di saggia prudenza, ma anzi ne parlò come se quelle doti non ne fossero segnate: a tal punto che, «con concettini e sentenze ben tornite» s’industriò a «inculcare nel prossimo l’idea che la semenza d’Adamo è così costituita da non» tollerarne e patirne alcuno.3 Non solo nell’«orazion picciola». Ma, come si è detto, dovunque. E persino nel paragone, che è in realtà un doppio paragone, delle fiamme popolanti l’ottava bolgia con le lucciole che, quando il sole è sul punto di tramontare e la «mosca cede alla zanzara», il «villan che al poggio si riposa» vede brillare, come altrettanti punti luminosi, giù nella valle. Nelle lucciole, in sostanza e per farla breve, De Negri pretese che brillasse una luce ingannevole; che di inganno esse fossero il simbolo. E su questo suo rilievo conviene fermarsi perché, a quel che risulti, a lui soltanto appartiene e, dopo di lui, che si sappia, a nessun altro. Non su questo soltanto è, per altro, necessario concentrare l’attenzione. Tre questioni richiedono di essere esaminate e chiarite in relazione (anche) a quel che egli ne disse. La prima, relativa, appunto, alle lucciole. La seconda, all’inganno perpetrato da Ulisse nei confronti dei compagni. La terza, alla direzione impressa alla nave del «folle volo». Sia sulla prima,
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sia sulle altre due, al De Negri accadde infatti di dire cose singolari, che richiedono di essere esaminate, e confutate. E, in relazione all’ultima, con particolare energia. Nel trattarla, egli rivelò infatti una tendenza a scoprire significati allegorici per i quali il testo non offre nessun appiglio, e che, sovrapposti dall’esterno alla sua «lettera», ne allontanano, semplicemente, la comprensione. E cominciamo con le lucciole, mettendoci per comodità sotto gli occhi il testo del duplice paragone, che non è infatti soltanto delle fiamme con le lucciole, ma di quelle, delle fiamme, con il fuoco che, allo sguardo di Eliseo, tenne celati i cavalli di Elia nell’atto in cui questi «erti levorsi» per rapirlo in cielo: Quante il villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ’l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede alla zanzara vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’è vendemmia e ara, di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’io mi accorsi tosto che fui là ’ve ’l fondo parea. E qual colui che si vengiò con li orsi vide ’l carro d’Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi, che nol potea sì con li occhi seguire, ch’el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in su salire; tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra il furto, e ogne fiamma un peccatore invola.
Poiché, per qualche ragione, il De Negri omise di considerare che i paragoni sono due e che, per introdurre il lettore allo spettacolo offerto dall’ottava bolgia e a quel che la caratterizzava, Dante avvertì la necessità che al primo ne tenesse dietro un secondo, in modo che con chiarezza risultasse quel che nel primo non aveva trovato posto, sembra evidente che ripetere la sua omissione non sarebbe legittimo. Con il primo paragone, infatti, Dante suggerì, o propose, una rappresentazione, per dir così, generale dell’ottava bolgia, messa a raffronto, come nell’Inferno accade
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spesso, con uno spettacolo offerto dal mondo dei vivi e dalla natura. Con il secondo specificò che, come un unico fuoco aveva nascosto in sé il carro di Elia rapito in cielo in una fiamma luminosa che lo sottraeva alla vista, così, nell’ottava bolgia, ciascuna fiamma nascondeva un peccatore, del quale perciò non consentiva che si riconoscesse il volto. Il che, se fosse stato preso in considerazione, avrebbe potuto indurre il critico a ricercare la natura del contrappasso che, anche se non lo dichiarò, in questo punto Dante ebbe certo in mente per i peccatori dell’ottava bolgia. I quali furono, in vita, maestri di frode e, per condurla al fine, tennero celate le intenzioni dietro il velo delle false parole,4 sì che ora, bruciando con la fiamma che li accoglieva, a essere nascosti erano essi, che del nascondere ebbero l’arte. Ma, lungi dall’indagare questo aspetto della questione, e dall’interrogarsi sull’ulteriore significato della fiamma che avvolgeva e «involava» Ulisse, De Negri preferì rivolgere la sua attenzione alle lucciole, e al carattere ingannevole che sarebbe proprio della loro luce. E cadde, lungo questa via, in un grave equivoco. Non è vero, infatti, che, osservate «più da vicino», le lucciole appaiano per quel che in realtà, secondo lui, sono: e cioè terribili fiamme d’inferno.5 Da lontano o da vicino, le lucciole sono lucciole. Con le fiamme dell’ottava bolgia in comune hanno soltanto la luminosità; e come queste non ingannarono il poeta, che subito s’avvide di quel che contenevano («e ogni fiamma un peccatore invola»), così deve dirsi anche delle lucciole; che come tali apparvero allo sguardo del contadino che funge da termine di paragone, e che Dante ritrasse mentre, sul far della sera, contemplava dal poggio lo spettacolo della valle che si andava riempiendo di punti luminosi, senza che mai gli accadesse di nutrire un dubbio relativo alla natura di quel che si era acceso colà. Un dubbio che, come naturalmente non poteva concernere la possibilità che quelle luci appartenessero all’Inferno (il contadino stava su questa terra e la sua mente era sobria), così nemmeno si dice che quelle luci fossero per lui emanate da una fonte diversa da quella delle lucciole. Insomma, sia nello spettacolo contemplato dal «villan che al poggio si riposa», sia in quello contemplato da Dante che si affacciava all’ottava bolgia, quel che si vedeva era quel che si vedeva. Le lucciole erano lucciole, le fiamme erano fiamme. E i contemplanti erano lungi dall’esserne ingannati. Sull’«orazion picciola» si è detto a sufficienza in un’altra occasione;6 nella quale si cercò di spiegare perché sia assurdo ricercarvi i tratti di un supremo e subdolo inganno. L’orazione è breve. Nella sua brevità, effica-
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cissima; costruita per ottenere l’effetto desiderato in una condizione che fino a quel punto, dai compagni che gli erano rimasti fedeli non meno che da Ulisse, era stata fortemente voluta. Nella sua efficacia, nella sua abilità retorica, nella capacità che dimostrò di ottenere il consenso, chi l’aveva costruita così era certamente un supremo artefice della parola, un uomo arte dicendi peritus, che ignorava, tuttavia, la lusinga e l’allettamento. Se faceva appello alla virtù, alla conoscenza, alla autentica «destinazione» dell’uomo, che è tale perché non è un bruto, l’uso, da parte di Ulisse, di queste espressioni non era diretto a rendere meno aspra la verità dell’impresa alla quale stava chiamando i suoi «compagni», a velarla o, addirittura, a stravolgerla. Non c’è parola, nell’orazione, che non corrisponda alla verità delle cose che vi sono elencate. La virtù e la conoscenza non sono un velo retorico lasciato cadere sul grave pericolo che quell’impresa aggiungerà, e sarà un’aggiunta in ogni senso eccezionale, ai «cento milia/ perigli» attraverso i quali lui e i compagni erano giunti «a l’occidente», a «questa tanto picciola vigilia/ d’i nostri sensi ch’è del rimanente» (vv. 113-15). Quello che, con i suoi compagni, Ulisse aveva di fronte era un mondo sconosciuto e diverso: un «mondo sanza gente», e tanto, perciò, più pauroso. Questa era la verità, e Ulisse la diceva, senza alcun infingimento. Se, a sé stesso e agli altri, ricordava la vecchiaia e la stanchezza che li affliggeva tutti, l’abilità con la quale, proprio attraverso quel richiamo, li spingeva a un’impresa che non di molto, se fosse fallita, avrebbe abbreviato le loro vite, non era soltanto per un artificio retorico. Forse che non era vero quel che Ulisse diceva, usando l’arte della persuasione: e cioè che lui e i compagni erano «vecchi e stanchi»? La persuasione faceva perciò tutt’uno, in questo discorso, con la verità. E questa era la verità dell’«orazione»; che per un verso, certo, poiché era volta a persuadere, non poteva non contenere in sé quel tanto di ὕβρις che ogni persuasione reca con sé, sebbene, per un altro, questa apparisse intessuta con il filo della più schietta verità. Non si dica perciò che, facendolo parlare in questo modo, anche Dante abbia rappresentato Ulisse come fandi fictor. Non si aggiunga che, ciascuno essendo vero per sé e in sé, gli elementi che egli intrecciò nel suo discorso perdono, nella connessione, il carattere della schiettezza per assumere quello dell’ambiguità. Ulisse non nascose affatto che il suo desiderio era di sfidare la morte pur di entrare, «di retro al sol, nel mondo sanza gente». E, si ripete, nel dire così, diceva la verità. Ai compagni, che mai lo avevano abbandonato e lo conoscevano come il supremo signore dei rischi, non finse di essere diverso da come sempre era stato: un avventuroso eroe
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dell’oltre, un eroe e una vittima dell’ananke, che, soggettivamente, è un desiderio al quale non si può resistere. È possibile, e forse anche probabile, che nell’ideare l’«orazion picciola», Dante si ricordasse di Lucano, forse di Seneca, e sopra tutto avesse in mente il discorso che Enea rivolge ai compagni, che chiama socii, in aen., 1, 198-203: ‘O socii (neque enim ignari sumus ante malorum), o passi graviora, dabit deus his quoque finem. vos et Scyllaeam rabiem penitusque sonantis accestis scopulos, vos et Cyclopia saxa experti: revocate animos maestumque timorem mittite; forsan et haec olim meminisse iuvabit.
Ma, proseguendo, ai compagni Enea ricordava che «per varios casus, per tot discrimina rerum,/ tendimus in Latium, sedes ubi fata quietas ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae./ Durate et vosmet rebus servate secundis».7 Ed era un discorso, il suo, che traeva il suo senso dalla fede nella provvidenza, nel dio che aveva deciso che Troia sarebbe risorta in una nuova terra, che coloro che molto avevano, e ancora avrebbero, sofferto, sarebbero infine stati allietati dalla pace. Nel segno della provvidenza, Enea indicava ai compagni non «ignari […] malorum» cose che forse olim meminisse iuvabit. Niente di tutto questo nell’«orazion picciola». Se si condivide la congettura che anche sulla falsariga di quella virgiliana Dante la concepì e costruì,8 deve però aggiungersi che sua cura fu di capovolgerne il senso: in luogo della provvidenza e delle secundae res che, per suo decreto, avrebbero infine arriso agli stanchi socii di Enea, la dura verità dell’ananke, l’azzardo di una impresa che niente garantiva nel suo risultato e che, con sobria solennità, una volta qui e un’altra nel Paradiso,9 Dante definì «folle». Folle, al pari delle parole che intessono la trama dell’estrema orazione rivolta ai compagni, e che, se tali sono e possono essere giudicate, non però sono ingannevoli. Chi, per conseguenza, fra i critici più recenti, ha speso il suo acume per smontare la statua prerinascimentale di Ulisse ha avuto, senza dubbio, ragione da vendere; e gli siano rese grazie. Ma non per questo sarebbe giusto elevare al personaggio dantesco una statua che, al contrario, lo ritraesse come il fandi fictor della tradizione negativa che tenacemente si formò sul suo nome, e che anche in Virgilio è presente: chi non ricorda il sic notus Ulixes di Laocoonte?10 A questa tradizione, che non poteva, almeno in parte, non essergli nota, Dante non dette il suo consenso. Nella «follia» di Ulisse colse il segno di un desiderio segnato, nel profon-
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do, dall’ananke, alla quale non si può resistere; e, senza perciò esaltarne l’eroismo, ne fece un personaggio tragico che, giunto dinanzi al supremo rischio della morte, a sé stesso e agli altri disse, innanzi tutto, la verità. Nel momento in cui era l’ignoto a incombere sul suo e sull’altrui destino, soltanto la verità poteva infatti essere detta; e per le astuzie, che sempre sono legate a anguste utilità, non poteva esserci spazio.11 La «follia» non va disgiunta, in Ulisse, dall’austerità; l’oltranza del desiderio dalla nobiltà. E qui sta la grandezza del personaggio scolpito da Dante. Ancora una considerazione. In una stagione recente della nostra storia intellettuale, quando, per dirla in breve, si riteneva che la δεινότης che, nell’Antigone, il Coro attribuisce all’uomo, significasse la sua eccellenza, non la sua «terribilità», la tendenza fu a cogliere nell’«orazion picciola» l’esaltazione delle sue superiori qualità, la virtù e la conoscenza: e ci si guardò bene dal ritenere che, facendo che Ulisse richiamasse quelle qualità umane, Dante intendesse attribuirgli, insieme con la lusinga che contenevano in sé, un’intenzione fraudolenta. La tendenza fu, se mai, a ritenere che, mediante l’esaltazione di quelle qualità, in Ulisse egli avesse anticipati i tratti dell’eroe umanistico; avesse umanizzato il divino e divinizzato l’umano, fosse andato al di là del Medioevo e per un tratto si fosse inoltrato nel mondo moderno. Trascorsa quella stagione, fortemente incrinatasi la convinzione della dignitas hominis, e di quel che recava con sé nelle interpretazioni che se ne dettero tra la fine del diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo (l’idea dell’immanenza del divino nell’umano, la fede nel progresso nel segno della razionalità della storia) nell’«orazion picciola» si prese, dalle più diverse sponde, a indicare il documento della «negatività» del personaggio, il vertice delle sue capacità ingannatrici, e, per conseguenza, il principale documento della colpa che gli meritò il luogo d’Inferno riservato ai consiglieri fraudolenti. A questa tendenza conferiva energia e convinzione la consapevolezza che tramontata fosse la precedente visione del mondo. E ad essa perciò parteciparono studiosi di diversa sponda «filosofica» e ideologica, che, in tante altre cose dissenzienti l’uno dall’altro, l’avversione a quello che chiamavano «idealismo» riuniva in un’unica schiera, conducendoli a far gravare, dall’esterno, sul personaggio dantesco, il peso della tradizione negativa formatasi su di lui: come se, nel canto, a questa soltanto il poeta si fosse ispirato e altre voci, di tutt’altro suono, non vi avesse rese percepibili. A tal punto il segno fu passato, a tal punto l’esigenza di capovolgere quell’idea del mondo travolse
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ogni cautela, che non ci si arrestò, da parte di alcuni, dinanzi a argomenti che avrebbero dovuto essere respinti come assurdi se mai, per un attimo, si fossero affacciati alla mente, e invece vi furono accolti e valorizzati. Così, nel rilievo che, nel discorso rivolto ai compagni, Ulisse diede alla virtù e alla conoscenza, che tanto appartengono all’uomo quanto, per contro, sono assenti nei bruti, si è indicato, non ciò che per certo quello significa e implica, e cioè il monito a essere quel che si è e a non essere quel che non si deve, semplici, appunto, animali bruti, ma la diversa intenzione di ricordare e rimproverare ai suoi uomini il tempo in cui avevano vissuto da bruti per esser stati, da Circe, trasformati in maiali.12 Che è oltre tutto, nella fattispecie, osservazione tanto più assurda in quanto, se mai questa fosse stata l’intenzione di Ulisse, piuttosto che ingannatrice si sarebbe dovuta definirla contraddittoria. Di essere stati trasformati da quella maga in maiali e di avere per qualche tempo condotta una conforme esistenza, essi non avevano infatti una colpa per la quale meritassero di essere rimproverati: con la conseguenza che assegnargliene una per quella ragione significava attribuir loro il possesso di una volontà della quale erano stati privati da un superiore potere. In effetti, se quella fosse stata l’intenzione, nelle parole di Ulisse si sarebbe inoltre dovuto cogliere il segno, non della volontà ingannatrice, ma della rivendicazione a sé di un merito che ai compagni non poteva essere riconosciuto: il segno, dunque, di un’inutile meschinità, di un’assurda ritorsione, e di un’ ingiuria che suonava in effetti inconcepibile in un contesto costituito dal ricordo di una «fraternità» formata dai «cento milia/ perigli» affrontati nel corso di un’intera esistenza. Si aggiunga che la citazione del nome di Circe non indica, in questo contesto (vv. 90-91), se non il momento in cui, dopo esser stato per circa un anno presso di lei, Ulisse la abbandonò per riprendere il mare e compiere la sua ultima impresa. Comunque la conoscesse, e quali che fossero stati i testi sui quali l’aveva appresa,13 sta di fatto che all’avventura che Ulisse e i suoi compagni avevano corsa dopo essere approdati alla terra abitata dalla dea, nel ventiseiesimo dell’Inferno Dante non fece alcun accenno;14 e meno che mai alluse alla saggezza dimostrata, in quel caso, dall’eroe che, alla seduzione del filtro, che lo avrebbe trasformato in un maiale, si sottrasse: per la sua saggezza, appunto, come si legge in Orazio, ma per l’aiuto prestatogli da Hermes, come si leggeva nell’Odissea.15 Meno che mai fu sua intenzione di suggerire che, sia pure in modo implicito, alla saggezza dell’eroe egli stesse qui contrapponendo il comportamento dei compagni, alla cui fedeltà non mancò anzi di rivolgere, nell’«orazion picciola», un sobrio elogio («quella
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compagna/ picciola da la qual non fui diserto» [vv. 101-102]). Non a questo egli aveva la mente nell’iniziare il racconto dell’ultimo viaggio di Ulisse, ma, appunto, al viaggio, alle ragioni in forza delle quali era stato deciso, al suo esito catastrofico. Nessun indugio descrittivo, perciò, sui «cento milia/ perigli» da lui richiamati nell’«orazion picciola» per sottolineare l’unità che aveva legato i compagni a lui, e lui ai compagni, nei lunghi anni delle loro peregrinazioni e avventure. Nel racconto del viaggio, Ulisse e i compagni costituiscono un’unità assoluta: e il suo oggetto è un destino comune. Mai li aveva ingannati, e spesso li aveva salvati. Che senso avrebbe che, in un momento così solenne come quello che segnava l’ora della partenza per un viaggio che non assomigliava a nessun altro che prima fosse stato compiuto, ora, proprio ora, Ulisse li ingannasse? Il richiamo che qui Ulisse fece ai «bruti», al cui grado quegli uomini si sarebbero abbassati se non fossero stati solidali con lui nel correre la suprema prova della virtù e della conoscenza, era d’altra parte la ripresa, non di un luogo comune, di un topos ripetuto senza interna partecipazione, ma di quanto, in margine al de anima aristotelico, Dante aveva scritto sull’«anima bruta»,16 che è incapace di verità, e dell’anima razionale che, al contrario, si definisce così perché «la divina luce raggia in quella»,17 e la «mente» perciò è «deitate»:18 un concetto, questo, che circola nel secondo, nel terzo e nel quarto trattato del Convivio e che, nel suo estremismo, è così importante che veramente si resterebbe del tutto al di fuori della sua comprensione se lo si riducesse a un semplice luogo comune, a un semplice topos. A tal punto, in realtà, Dante si era spinto nell’elogio della mente, e dell’uomo, che fu perciò da lui definito come «divino animale», che, nel prestare a Ulisse un consimile concetto, è possibile e pensabile che egli lo collocasse fra quelli che, per essere un tempo stati da lui condivisi, non erano tuttavia tali che potessero esserlo ancora senza l’intervento moderatore dell’autocritica. Non è una questione facile e pacifica quella a cui si allude. Fa tutt’uno infatti con l’altra se, quando mise mano alla Commedia, Dante ancora condividesse la teoria della mente come «deitate», che aveva esposta nel Convivio; se e quanto di quest’opera sopravvivesse nel poema. Si dovrà trattarne, riprendendo il filo di dispute che ieri furono vive, e che oggi non sembrano esserlo più. Per ora tuttavia basti dire che, per alcuni riguardi, il radicalismo del Convivio nel poema fu attenuato, e che la distanza stabilita nei confronti di Ulisse ebbe perciò la sua radice, non nell’imbroglio che, con l’«orazion picciola», quest’ultimo avrebbe intessuto ai danni dei suoi compagni, ma in un concetto che,
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in quella forma, Dante non poteva condividere, o non poteva condividere più; nell’atto stesso, per altro, in cui l’esperienza di cui l’antico eroe era il simbolo ancora lo attraeva al punto da far sì che più di ogni altra cosa egli desiderasse che quello parlasse e raccontasse la storia della sua ultima, fatale impresa. «“S’ei posson dentro da quelle faville/ parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego/ e ripriego, che ’l priego vaglia mille,/ che non mi facci dell’attender niego/ fin che la fiamma cornuta qua vegna:/ vedi che del disio ver lei mi piego!» (vv. 64-68). Un interesse così vivo non si spiegherebbe se, agli occhi di Dante, Ulisse non fosse stato altro che un maestro dell’inganno e della doppiezza; se nella sua avventura non avesse colto qualcosa di universale, il simbolo di una passione dalla quale la sua anima e la sua mente erano ancora soggiogati; se quella passione non avesse richiesto di essere, se non in qualche modo appagata, messa tuttavia al centro dell’attenzione per scrutarla fin nelle estreme sue radici. Il tema dell’interesse che Dante provava per il carattere dell’antico eroe era, in realtà, così intenso e bruciante che, quando se ne interrogava, non poteva non avvertire in sé il rischio che, a contatto con quel modello, la sua virtù potesse conoscere un sussulto tale da condurla al di là del limite che conveniva invece rispettare. Quando, affacciatosi con Virgilio sullo spettacolo dell’ottava bolgia risplendente di luci, ricordò quel momento, Dante interruppe il racconto per dare spazio, breve spazio, a una riflessione, veloce e intensa. Scrisse infatti: Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, e più l’ngegno affreno ch’i’non soglio perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m’ha dato ’l ben, ch’io stesso nol m’invidi.19
Poiché, in quel momento, agli occhi di Dante era dato di contemplare, non in particolare un peccatore, ma l’ottava bolgia nella sua interezza, non può negarsi che Francesco d’Ovidio avesse ragione, o, almeno, non avesse torto, quando osservò che la sua esigenza di tenere a freno, più che in genere non solesse, l’«ingegno», nasceva da ciò che, essendo nell’esilio diventato, suo malgrado, «un uomo di corte, un negoziatore politico», il rischio era che il mestiere gli prendesse la mano trasformandolo in un consigliere di frodi.20 Sia pure, dunque, così. Ed è tuttavia difficile comprendere perché, se questa dichiarazione l’avesse riferita soltanto al rischio che la
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vista dell’ottava bolgia rendeva attuale nella sua coscienza, Dante avrebbe mostrato così vivo il desiderio di parlare con Ulisse dopo che, avendo notata, fra le altre, una fiamma con la cima divisa in due, ebbe saputo chi vi si nascondeva. È difficile comprendere perché, se, ai suoi occhi, quel personaggio fosse stato soltanto un abile truffatore, e insomma il fandi fictor descritto da Virgilio, Dante dovesse avvertire in sé un desiderio di parlargli, così intenso, da farlo addirittura piegare verso la fiamma che pur glielo rendeva invisibile. In realtà, non era tanto il disagio che gli derivava dal trovarsi di fronte a personaggi che avevano esercitata l’arte della frode ad accendere in lui il desiderio di un maggior contatto. Il desiderio avrebbe se mai, in questo caso, dovuto esser quello di tenersene a distanza e di respingere via da sé, come altre volte era accaduto, il peccatore che gli si fosse avvicinato; né potrebbe dirsi, in questo caso, che si è attratti, talvolta, da quel che, per un altro verso, ci respinge. Il desiderio, da cui tanto Dante era spinto ad andar oltre che dentro gli provocava, per contrasto, l’esigenza del controllo e del «freno», si dirigeva in realtà, anticipando i tempi, alla storia di Ulisse, e al suo «folle volo»; e, come quello era stato determinato dall’ananke dell’oltre, alla quale era impossibile che l’eroe si sottraesse, così anche lui ne conosceva una dentro di sé, dalla quale, non diversamente dal personaggio, era tratto a spingersi in avanti e a piegarsi verso l’antica fiamma che lo includeva e nascondeva. Se è così, era alla segreta affinità che lo legava a quel personaggio, che Dante si riferiva; a viaggi che egli aveva intrapresi e svolti nelle regioni dell’intelletto e della scienza che lo concerne; forse anche a quel famoso e fin famigerato «traviamento», del quale c’è chi non vuol più sentir parlare, tanto un tempo se ne trattò con angustia, ora biografica, ora moralistica, ma a torto, perché quello che in realtà vi si esprime è, non un momento della sua vita, estrinsecamente considerato, ma un suo concetto, una sua costruzione ideale che (questa sarà una banalità, della quale non può tuttavia farsi a meno, e sulla quale conviene insistere) dopo tutto sta, con i suoi molti significati, alla radice della Commedia. Che non è, come a taluni è parso, la grandiosa autocritica e il radicale rovesciamento di posizioni razionalistiche, o iperrazionalistiche, che, nella forma che avevano assunta nel Convivio e, come, per altro a torto, Nardi riteneva, nella Monarchia,21 Dante sentiva di non poter più condividere. Non è il documento del ritorno all’ortodossia dopo le audacie della giovinezza. Ma, poesia a parte, è piuttosto il prodotto di una potente esigenza di revisione, di sistemazione, di radicale ripensamento, che a varie audacie dette il riconoscimento, ad altre no: un ripensamento che, in
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forma fantastica, fu eseguito anche attraverso la costruzione di quel grande simbolo dell’oltranza intellettuale che, per Dante, fu il personaggio di Ulisse, – un simbolo, ma anche un personaggio, tanto più, per un verso, innalzato al di sopra dei suoi stessi peccati di frode quanto più, per un altro, l’avesse allontanato da sè in una sorta di epica impenetrabilità, facendo sì che a rappresentarne e a consumarne la tragedia fossero parole fra le più solenni e, insieme, le più scabre che mai si fossero udite. Fra le tante cose notevoli che, intrecciandosi in questo canto, offrono aspetti sempre nuovi a chi lo percorra e ripercorra con attenzione, c’è anche questa, che non risulta sia stata colta e a cui, comunque, importa dare rilievo. Ulisse non parlò con Dante, né questi con lui, perché fu Virgilio a prendere imperiosamente su di sé il compito di rivolgergli la parola.22 Ma nemmeno con Virgilio, a rigore, egli parlò: con lui non intrecciò alcun dialogo. Avendo ricevuta una domanda relativa al suo ultimo viaggio fatale, alla forma con cui gli era stata rivolta, e al personaggio che gliela rivolgeva, non concesse la minima attenzione. Non ridusse la distanza mitica che lo separava dai due poeti pellegrini; ai quali dette la risposta che essi desideravano, e, senza pronunziare una parola in più del necessario, se ne andò, avvolto nella fiamma in cui, con Diomede, era «marterizzato» per l’eternità. «Già era dritta in su la fiamma e queta/ per non dir più, e già da noi sen gìa/ con la licenza del dolce poeta». Come si apprende dal discorso che Guido da Montefeltro aveva cominciato a rivolgere ai due poeti, a Ulisse, che aveva terminato il suo discorso, Virgilio aveva infatti detto in lombardo: «istra ten va: più non t’adizzo»; e quello se n’era andato senza profferire parola, perché, per coloro che tanta curiosità avevano dimostrata nei suoi confronti, egli non ne aveva invece alcuna. Tutt’al contrario di quel che accadde con Guido di Montefeltro: che, ansioso com’era di far ascoltare la sua voce e di far conoscere la sua storia e le sue ragioni, offrì, per contrasto, un ulteriore contributo alla definizione della remota grandezza dell’eroe antico. De Negri, come si sa, fu di diverso avviso. Per lui Ulisse è, in Dante, non più che un vecchio imbroglione. Ma non è questo il punto. Il punto è che il modo in cui a lui accadde di dissertare intorno all’«orazion picciola» e al suo carattere fraudolento è, ancora una volta, così singolare, che converrà darne un breve cenno: anche perché dalla discussione che se ne facesse potrebbe derivare qualcosa di utile al chiarimento di altri aspetti di questo canto, così ricco di sfumature e di significati. Si cominci perciò con l’osservare quel che nel ragionamento di De Negri abbia sul serio il
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carattere dell’essenzialità; e cioè quel che egli scrisse intorno, non solo all’«illusione», ma all’arroganza dalla quale Ulisse sarebbe stato indotto a credere che a lui sarebbe stato possibile «condurre la sua nave ubi impetus dirigentis voluerit».23 In realtà, nel racconto di Ulisse non c’è ombra di arroganza, non c’è presunzione. Nemmeno, deve aggiungersi, vi si avverte il sentimento della speranza che, tramontando, lascia il luogo alla delusione. Personaggio per eccellenza tragico, Ulisse è al di là di questi sentimenti. Non concede nulla alla speranza, e non può essere vittima, eventualmente, della delusione. Il gioco delle probabilità non appartiene al suo carattere. Egli è, in primo luogo, l’eroe dell’ananke, segnata nella trama più profonda del desiderio; che, per sua natura, non può avere soddisfazione e, di continuo, scava e cerca, dentro di sé, la « privazione» dalla quale nasce e con la quale coincide.24 Se è così, è ovvio che, nonché coincidenza, fra desiderio e saggezza non possa esserci nemmeno coesistenza. Il desiderio è ananke. E a questa, all’ananke, sulla quale è impossibile avere signoria, egli è sottomesso. A quella, non alla leggerezza e irresponsabilità; e nemmeno alla presunzione e all’orgoglio, che gli furono e gli sono attribuiti da chi lo immaginò e lo immagina incline a credere che tutto gli sia lecito, che tutto debba arridere alla sua ambizione. Che è, si direbbe, quel che il De Negri non riuscì a comprendere. Per lui, proprio di frivolezza, e di fraudolenta irresponsabilità, sembra essere intessuto l’animo di Ulisse. Che è perciò, presso di lui, sopra tutto un mediocre Ulisse, nel quale, senza che il critico stesse a ricordarle, passarono tutte le qualità negative messe in rilievo dalla sua negativa leggenda,25 e che, per conseguenza, lo costrinsero ad andar ricercando ogni cosa che a questa sua natura, e a quella sua leggenda, corrispondesse e fosse conforme. A cominciare, in primo luogo, dagli errori che, l’uno dopo l’altro, il personaggio avrebbe commessi per giungere alla finale catastrofe; e che si «condensarono», parrebbe, nell’aver lui dimenticato che ex oriente lux. Di questa «dimenicanza» De Negri dette una rappresentazione impegnativa; e di altrettanto sfocata. Scrisse: «le chiese cristiane sono orientate a oriente e nel paradiso terrestre da oriente viene e a oriente torna la processione della salvezza. Tutto il contrario nei versi» 124-26 «che teniamo sott’occhio. Volgere la poppa nel mattino come nel primo verso, vale quanto volgere la prua a occidente, non andare incontro alla luce, ma fuggirne. Il “folle volo” del secondo verso è una specie di termine medio che lega una catastrofica premessa a un ineluttabile naufragio già abbastanza esplicito nel terzo verso. Infatti chi acquista dal lato mancino finisce col trovarsi tra le mani un acquisto sinistro. Stando alla Commedia, la via che si snoda a sinistra è
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quella dell’inferno, e Ulisse l’ha infilata diritto, anzi storto, da vivo, “infin che ’l mar fu sovra lui richiuso”».26 Non c’è una linea che, in questo passo, non sollevi perplessità, dubbi, decise obiezioni. Che, per esempio, le chiese cristiane siano orientate verso il luogo dove sorge il sole, è vero, perché il sole simboleggia Cristo. E vero è quel che si dice della mistica processione. Ma, nella circostanza specifica, il rilievo si rivela non pertinente per un eroe come Ulisse, che Dante costruì nel segno della massima fedeltà alla cultura di cui lo sapeva espressione, e al quale certo non poteva imputare, dall’esterno, di aver trascurato di considerare l’orientamento delle chiese cristiane e la simbologia, cristiana anch’essa, dell’oriente e dell’occidente. Che, del resto, navigando al di là delle colonne d’Ercole verso occidente, Ulisse avesse seguito una direzione che lo avrebbe condotto, e non necessariamente perché stesse procedendo in quella, alla catastrofe, e quindi a essere ospite dell’Inferno, era ovvio per il poeta che descriveva la sua estrema avventura e vi coglieva il segno della trasgressione. Non per lui che, nell’intraprendere quel suo viaggio, era consapevole non tanto di contravvenire a un divieto,27 quanto piuttosto di star superando il limite dell’umana prudenza e moderazione. Del resto, che la disubbidienza al divieto posto da Ercole non costituisca, nella logica dell’episodio dantesco, la ragione e la sostanza della condanna patita dall’antico eroe, è cosa ovvia (almeno per chi legga le parole che Dante usò). Nell’Inferno Ulisse non finì per aver osato di spingersi oltre la «foce stretta/ dov’Ercule» aveva segnato «li suoi riguardi». Non vi finì per aver sfidata e trovata la morte nel viaggio avventuroso e folle che ebbe la sua tragica conclusione nel momento in cui, dinanzi agli occhi suoi e dei compagni, si profilò una bruna montagna, che, così alta, mai era stata vista da loro. Se per Dante quella era, forse, la montagna del Purgatorio, e il simbolo quindi di un’espiazione che non poteva riguardare un eroe pagano, per Ulisse era soltanto una montagna, alta e minacciosa, dalla quale, misteriosamente, «nacque» il vento di tempesta che travolse la sua nave. La porta dell’Inferno gli fu spalancata dalle frodi perpetrate, l’una nei riguardi di Troia e dei suoi abitanti con «l’agguato del caval che fe’ la porta/ onde uscì de’ Romani il gentil seme», l’altra nei riguardi di Achille, che, con il miraggio delle armi, fu da lui e da Diomede convinto ad abbandonare Deidamia, la fanciulla che ne era stata sedotta, e presso la quale si trovava. Gli fu spalancata anche, e in aggiunta, dall’oltraggio recato, ancora in coppia con Diomede, al Palladio (sebbene, a rigore, riesca difficile ricomprendere quella profanazione sotto il segno specifico del peccato di frode).28 Di
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questo sarebbe stato necessario che, come del resto da tante parti era stato avvertito e detto, De Negri avesse tenuto conto, e che il fatale viaggio oltre le colonne d’Ercole fosse stato valutato in relazione al carattere del personaggio che, pur di compierlo, aveva rinunziato ai più puri affetti domestici, senza perciò includerlo, come se ne fosse stato l’ulteriore documento, nel peccato per il quale, specificamente, con Diomede Ulisse si trovava avvolto in una delle fiamme popolanti l’ottava bolgia. Ma alla distinzione che, in relazione alla condanna subìta, sarebbe stato giusto introdurre tra le frodi di cui Ulisse si era reso responsabile durante la guerra troiana, e l’ultimo suo viaggio, De Negri non badò. Vide frode dappertuto. Dopo averla colta persino nelle lucciole contemplate su questa terra dal contadino al termine della sua giornata, arrivò a scorgerne il segno, o quello almeno del peccato, persino nella rotta che Ulisse aveva impressa alla sua nave per l’ultimo viaggio al di là della colonne d’Ercole. De Negri ritenne infatti che, poiché (ma su questo si dovrà tornare), nell’intraprendere il suo estremo viaggio, «volta la poppa» «nel mattino», la nave si era trovata con la prua orientata a occidente, la conseguenza fu che il suo percorso fu inverso a quello della luce, dalla quale, quindi, fu come se si allontanasse e fuggisse. Fu questo, secondo lui, l’errore degli errori, quello da cui ogni altro era inevitabile che conseguisse. Il che, sia detto con il dovuto riguardo, non si riesce a credere che possa esser stato sostenuto e proposto da uno studioso di tanta esperienza e di altrettanto acume: proprio come non si riesce a credere che il viaggio di Ulisse possa esser stato messo a confronto, e a contrasto, con la mistica processione descritta nei canti del Purgatorio che vanno dal ventinovesimo al trentesimosecondo. La simbologia e l’allegoria (anzi le allegorie) presenti nella processione mistica sono, com’è noto, così complesse, e anche complicate, da richiedere discorsi che non potrebbero essere affrontati in questa sede; e non è detto, del resto, che tutto, anche se li si affrontasse, riuscirebbe a esserne chiarito. Certo è però che la processione ha andamento circolare, ossia si avvolge in circolo. Prima aveva proceduto da oriente a occidente. Ma quando, invertendo il senso della sua marcia, «lo glorioso essercito» prese a procedere, anziché da oriente a occidente, di qui a oriente, e venne perciò a trovarsi «col sole e con le sette fiamme al volto»,29 non per questo potrebbe dirsi che in quel suo primo segmento stesse fuori della grazia di Dio. Si dirà che altro è un viaggio che si compia in circolo, altro uno che, seguendo invece una linea, non conosca conversioni nel senso inverso a quello intrapreso? Altro quello che, per la logica del circolo, è destinato a ritornare là donde aveva avuto inizio, altro
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l’altro che, partendo da un punto, da questo si allontana tanto più quanto si approssima alla mèta? Ma il rilievo sarebbe sofistico: sia per quel che subito, qui di seguito, si vedrà, sia anche perché né il significato connesso all’oriente e all’occidente è qui, per Dante, oggetto di questione, né lo è la differenza che passa fra i punti che costituiscono la linea che si avvolge in circolo e quelli che si susseguono nell’altra che non congiunge l’inizio alla fine, e la fine all’inizio. Lo stupore, infatti, non diminuisce, ma si fa ancora più grande, se si considera che proprio dalla mistica processione De Negri avrebbe potuto ricavare che, non sempre né di necessità, quel che procede da oriente a occidente reca con sé, in Dante, il segno della perversione; e di qui anche avrebbe dovuto esser spinto a riflettere sulla circostanza che più, in questo contesto, sarebbe stato necessario che egli avesse considerata. Il viaggio che, per fare ritorno a Itaca, Ulisse intraprese partendo dalle coste della Troade, anche per Dante avrà conosciuto rotte diverse, disegnanti sul mare circoli, e non soltanto linee strettamente funzionali allo scopo. Ma resta che se Gaeta, da cui l’ultimo viaggio ebbe inizio («quando mi dipartii da Circe» etc.) si trova a occidente di Itaca, sì che, se avesse voluto farvi ritorno, Ulisse avrebbe dovuto navigare verso oriente, in direzione della luce, per raggiungerla dalla costa troiana dovette invece procedere verso occidente, avendo perciò la poppa all’incirca nella stessa posizione che la sua nave assunse quando egli la dispose al «folle volo». Insomma, da una parte deve dirsi che, se i fati, nonché l’ «ardore» che lo spingeva a sempre nuove avventure conoscitive, non gli avessero impedito di limitare il suo viaggio al semplice ritorno a Itaca, era tuttavia pur sempre da oriente a occidente che, per toccare le sponde della sua isola, Ulisse avrebbe dovuto procedere. Da un’altra, deve aggiungersi che altro è viaggiare da oriente a occidente per far ritorno in patria (che agli occhi di certi critici timorati di Dio è suprema virtù), altro è spingersi ancora più a occidente, incalzati dai fati e dallo spirito d’avventura, al di là delle colonne d’Ercole, su un mare sconosciuto e misterioso, alla ricerca di un «mondo sanza gente». Il che viene asserito, sia per suggerire che, se pure con rotta occidentale, c’è viaggio e viaggio, l’uno benedetto, l’altro non benedetto da Dio o dagli dèi, sia per ribadire quel che Dante sapeva bene, e cioè che in Ulisse il desiderio di sperimentare prevaleva sugli affetti domestici,30 e che perciò non era, da questo punto di vista, questione di oriente o di occidente. È la la prima di queste due osservazioni a dover essere considerata come, insieme, la più ovvia e la più importante.
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Tanto poco, infatti, un viaggio che si fosse compiuto da oriente a occidente, in direzione non del sole ma della notte, era, agli occhi di Dante, condannato a subire conseguenze catastrofiche, che se ne dette uno al quale, sebbene fosse diretto in quel senso, egli attribuì valore addirittura provvidenziale. È il viaggio di Enea, che, avendo avuto inizio dal luogo stesso che aveva vista la partenza di Ulisse e dei suoi, che tornavano in patria, condusse l’eroe troiano [ad] lavina litora,31 sulla costa laziale, soltanto un po’ più a nord del luogo in cui quello greco era sbarcato per essere poi attratto da Circe nella sua dimora. Bastava in effetti questa elementare considerazione, riguardante il cuore stesso della concezione dantesca della storia, per comprendere che, diretti entrambi nella stessa direzione, non avrebbe mai potuto esser questa a rivelare identici il viaggio di Ulisse e quello di Enea. A segnarne la differenza, a farne intendere la diversa natura, fu infatti la diversa qualità interna a quell’identità. E fu quella, infatti, a far sì che il punto di arrivo di Enea fosse invece un nuovo punto di partenza per Ulisse, deciso a proseguire nella direzione occidentale e a rifiutare quella orientale che, da Gaeta, lo avrebbe finalmente condotto a Itaca. Per decreto provvidenziale, il fato di Enea era di pervenire alla spiaggia latina, e di fondarvi una città dalla quale sarebbe poi sorta l’«alma Roma»: «non sponte», aveva detto a Didone nel difficile colloquio dell’abbandono, «Italiam sequor».32 Il fato di Ulisse fu di andar oltre e di naufragare, «come altrui piacque», in un mare ignoto. Il che non deve per altro indurre nella persuasione che se, anche per Dante, Enea è, virgilianamente, semper pius, Ulisse sia invece, sempre e comunque, empio, una demoniaca incarnazione del male, e sia, quello che si stabilisce fra i due, un rapporto di radicale esclusione reciproca. La differenza è, se mai, fra la pietas dell’eroe troiano e la «follia» di quello greco: con il quale termine deve intendersi il desiderio dell’oltre, o, se si preferisce, l’oltranza del desiderio, che, φύσει, non può non rinascere da sé stesso, senza soste e senza riposo.33 Questa differenza non è l’invenzione di un critico che, idealizzando Ulisse, dia corpo a una sua qualche preferenza ideologica. Appartiene alla consapevolezza di Dante che, con finezza, e superiore senso dell’arte, evitò che dalla sua si trasferisse in quella del personaggio, connotandolo in termini di dolorosa peccaminosità. Ulisse è, in effetti, per intero risolto nella sua avventura. A tal punto non ha pensieri se non per questa, che nemmeno il sentimento della superbia e della sfida rivolta al dio che vieta gli sarebbe attribuito con qualche ragione. Soltanto alla fine del racconto, l’accenno all’«altrui», a cui «piacque» che l’impresa fallisse, implicò che nel suo animo si era ac-
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cesa la luce di un dubbio, relativo, forse, al dio e al suo divieto. Ma fu, per dir così, un dubbio postumo, il frutto di una riflessione che non appartenne mai alla sua vita di uomo vivo. Potrà discutersi, naturalmente, se, come fu proposto da Pietrobono, e poi da Nardi, al pari di Lucifero e di Adamo,34 Ulisse sia, viceversa, il consapevole trasgressore del divieto divino, o se, pur trasgredendolo in re, del significato intrinseco al suo gesto egli fosse invece, come qui si sostiene, non consapevole. Ma non discutibile è che non furono, in quanto tali e astrattamente concepiti, la direzione impressa da lui alla nave e il suo progressivo piegare verso il «lato mancino», a travolgere l’arrogante e superbo navigante. Non fu infatti l’arroganza, non fu la superbia a determinare la sua catastrofe. Fu l’audacia che gli era imposta da un desiderio che aveva la sua radice nella necessità, nell’ananke, nella potenza irresistibile che governava la sua volontà e la sua vita. Fu la scelta di navigare dove nessuno si era mai avventurato, su un mare tanto più pericoloso quanto più era ignoto: ossia in quell’opposto emisfero nel quale, a differenza che nel nostro, la rotta occidentale avrebbe significato catastrofe e morte. Se l’«altro polo», nel quale per cinque mesi Ulisse si inoltrò follemente navigando, era un luogo proibito, anche la direzione occidentale assumeva in esso un significato diverso da quello che aveva nel nostro. E di questo, si ripete, agevolmente De Negri si sarebbe accorto se avesse considerato che, non solo Ulisse, ma (e già lo si è detto) anche Enea aveva navigato da oriente a occidente, nel suo viaggio provvidenziale; che a tal segno Dante considerò in questo suo carattere che quando, nel sesto del Paradiso, e lo si è già accennato, nel canto di Giustiniano, descrisse quello che, in senso inverso, l’aquila dovette compiere, non esitò a dire che il suo si era svolto «contr’al corso del ciel» (v. 2). Il che, per altro, non significa che, nel suo volo verso oriente, l’aquila avesse proceduto in senso inverso a quello della provvidenza.35 A una questione, che non sembra aver sollecitato l’interesse, né di De Negri, né, salvo errore, di altri, conviene concedere spazio. È quella posta ai vv. 124-25: «e volta nostra poppa nel mattino/ de’ remi facemmo ali al folle volo». Gli antichi commentatori e, per lo più, i moderni, furono concordi nell’interpretare il v. 124 nel senso che, volgendo la poppa della nave «nel mattino», e cioè a oriente, Ulisse la disponesse al «folle volo» al di là delle già superate colonne d’Ercole, verso occidente,36 e, più precisamente, nella direzione di sud-est, in modo tale che la luce del mattino illuminava
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la scia che essa lasciava dietro di sé sulle acque del mare. Ma non così, seguìto dal Grabher37 e, in parte, dal Pagliaro,38 aveva inteso Francesco Torraca;39 il quale, riprendendo una notazione di Benvenuto («nel mattino, idest in hora matutina»),40 osservò che, per imprimere alla nave quella direzione, non c’era alcun bisogno che Ulisse ne volgesse la poppa a oriente. In quella posizione, e dunque con la prua diretta verso occidente, la nave, che da oriente proveniva, si trovava già nel momento in cui, giunta allo stretto, si accingeva ad andar oltre. Donde, appunto, la conclusione secondo cui il «mattino» indica, non la direzione, ma l’ora; che, può aggiungersi, sta a significare una luminosità iniziale tanto più grande quanto più intensamente buia sarebbe stata, di lì in poi, la rappresentazione (poetica) del viaggio. A quale di queste due interpretazioni deve accordarsi la preferenza? In realtà, se si guarda con qualche cura, non sembra che, fra l’una e l’altra, la necessità della scelta si presenti in termini perentori. Fra l’una e l’altra non si dà infatti alcun autentico contrasto, e nessuna vera opposizione. Il «volgere» la poppa potrebbe infatti significare, non già che Ulisse la capovolgesse, mettendola dove prima era la prua e facendo sì che la nave compisse su sé stessa un giro completo (se s’intendesse così, Torraca non avrebbe avuto torto nel sostenere la sua diversa interpretazione), ma che ne modificasse la posizione quanto fosse bastato a farle assumere una rotta di sud/est. Vedremo di qui a poco che questo «aggiustamento» si era reso necessario a causa della direzione che la nave aveva presa dopo il sorpasso delle colonne d’Ercole. Ma, se è così, ne consegue che «mattino» può significare, senza contrasto, tanto l’ora in cui l’ultimo viaggio, il vero e proprio ultimo viaggio, ebbe inizio, quanto la direzione che fu impressa alla nave. Si è per altro determinata, a questo punto, la necessità di qualche ulteriore, niente affatto superflua, precisazione. Deve infatti aggiungersi che questa operazione ebbe luogo quando, superate le colonne d’Ercole, e navigato alquanto lungo le costa atlantica della Spagna, dopo essersi lasciata indietro, «da la man destra», Siviglia e, in precedenza, lungo la costa mediterranea del Marocco, Setta, ossia l’attuale Ceuta, Ulisse dovette scegliere. Avrebbe infatti potuto proseguire il viaggio lungo la costa, e non perdere contatto con la terra conosciuta, con il mondo abitato dagli uomini. Avrebbe invece potuto, lasciandosi alle spalle le terre conosciute, indirizzare la nave verso il mare aperto, alla ricerca del «mondo sanza gente». Scelta, dentro di sé, la seconda alternativa, si rivolse ai compagni e pronunziò l’«orazion picciola»,41 con la quale ruppe l’indugio, e superò
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l’esitazione, che possono forse cogliersi nel suo essersi tenuto, pur dopo aver oltrepassate le colonne d’Ercole, vicino alla costa. Se è così, deve dirsi che, con questa notazione fulminea, non ad altro, in apparenza, diretta se non a determinare la prima rotta della nave, Dante invitò invece a guardare nell’animo di Ulisse. Invitò a considerare i dubbi che in quel supremo momento vi si erano determinati, le esitazioni e le incertezze, che dovette superare per persuadere, attraverso i compagni, anche, e forse in primo luogo, sé stesso, al quale, se è così, l’«orazion picciola» fu, in primo luogo, rivolta. Per la seconda volta, se è così, rappresentò il personaggio che sì, certo, al suo destino non poteva sfuggire, e dell’ananke operante su di lui non poteva aver ragione, ma non perciò accadeva che dentro di sé non avvertisse la voce di una diversa persuasione. Quando si era «dipartito» da Circe, erano stati i sentimenti familiari a esser stati messi da parte dopo che erano insorti nel suo animo a rivendicare i loro diritti. Ora era il sentimento del timore e tremore quello che la prospettiva dell’ignoto gli accendeva nel profondo dell’animo. Era questo il sentimento che doveva esser vinto, e che l’ananke gli imponeva di vincere. Per due volte, dunque, nel momento stesso in cui cedeva al desiderio che in lui agiva con la forza imperiosa della necessità, dal suo animo emergevano sentimenti contrari e opposti a cui il desiderio dava forma e espressione. E il personaggio restituiva di sé un’immagine ben più complessa di quella che tante volte, in un senso o in un altro, si è delineata di lui, eroe della conoscenza o sordido maestro di inganni. Se Dante affidò alle cose stesse il compito di rivelare quel che Ulisse chiudeva nel fondo di sé, e doveva vincere per realizzare il suo destino, la ragione stava nell’intuizione di lui come personaggio epico, nella distanza che stabiliva nei confronti dei suoi interlocutori, che non erano, per lui, se non pretesti al suo solenne e obiettivo racconto: racconto di eventi, senza alcun commento. Fu dunque nel momento stesso in cui le sue parole stavano producendo, su sé stesso e sui compagni, i loro inarrestabili effetti, fu allora che egli impresse alla nave, che procedeva lungo la costa spagnola, il mezzo giro che mise la poppa nella direzione del mattino e orientò la prua verso occidente, nella direzione delle lontananze atlantiche. Se è così, ed è così, due punti richiedono di essere in breve toccati. Il primo è il più ovvio. L’«orazion picciola» non fu pronunziata perché, giunti dinanzi alle colonne d’Ercole, tutti ne traessero motivi per superarle, andare avanti e sfidare la sorte. Fu pronunziata quando, superate le colonne, si trattava di scegliere fra una navigazione che avrebbe tenuta la nave in vista della costa, e
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un’altra che con decisione, e irrevocabilmente, l’avrebbe spinta nel mare aperto e sconosciuto. Il secondo punto è più interessante. «Volgere» la poppa nella direzione del mattino fu, per Ulisse, una necessità, perché la nave stava viaggiando verso destra, in direzione nord, e per far sì che prendesse la direzione del mare aperto, lasciandosi alle spalle la terra conosciuta, occorreva che compisse, all’incirca, un mezzo giro. Il significato del v. 124 «e volta nostra poppa nel mattino» è questo. Il che non fu considerato dal Torraca e dal Grabher, che, se l’avessero invece colto, non avrebbero giudicata pleonastica l’osservazione relativa alla poppa volta nella direzione del mattino; e neppure fu considerato da coloro che, respingendola, non più che a impressioni affidarono la loro critica. Dubbi invece restano circa l’autentico significato del v. 126 «sempre acquistando dal lato mancino». Può intendersi che l’inclinazione verso sinistra (e, in questo caso, la nave sarebbe stata girata, rispetto alla precedente, di meno di due terzi) fosse conseguenza dell’avere Ulisse scelta quella direzione: consapevolmente e con libertà, anche se obbedendo, nel profondo, al volere irresistibile di un dio ignoto. E può intendersi che, non al volere di Ulisse, quella rotta obbedisse, ma, contro il suo volere, a una forza oscura e a lui sconosciuta, a quella stessa che, alla fine, nel racconto rivolto a Virgilio e a Dante, quasi a volerne sottolineare la radicale alterità e estraneità, egli nominò come l’«altrui». Sono, senza dubbio, due situazioni diverse: non però opposte. Quella dischiusa dalla seconda interpretazione non è infatti se non la prima, estremizzata e condotta alla sua vera conseguenza. Nel primo caso, il volere del dio si esprimerebbe attraverso il volere di Ulisse; e inautentica sarebbe perciò la sua consapevolezza di quello. Nel secondo, a non esserci sarebbe il volere di Ulisse, anche se, non per questo, a esserci sarebbe la sua consapevolezza del dio. Fra queste due interpretazioni, la scelta, se si rimane sul piano del significato letterale delle parole che costituiscono il v. 126, è difficile. E anzi impossibile, perché, inevitabilmente, dall’una si è risospinti verso l’altra, da questa, di nuovo, a quella. Certo è che, se il personaggio del ventiseiesimo canto è un eroe, non della virtù messa al servizio della conoscenza, ma dell’ananke che, di desiderio in desiderio, con la sua forza irresistibile è come se creasse essa la virtù del conoscere, facendo sì che in ogni conseguito «oltre» egli avvertisse, non la mèta, ma un limite da superare e rispetto a cui andare oltre, a questa idea è la seconda che si mostra meglio intonata e rispondente. Ananke, e soltanto ananke, è l’inclinazione della rotta verso sinistra. Ananke, e soltanto ananke, è il giungere della nave in vista della montagna bruna del
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Purgatorio, di fronte alla quale, a differenza di Dante che poté giungervi e scalarla dopo aver visitato, con la guida sicura di Virgilio, il regno delle «perdute genti», Ulisse fu travolto e inghiottito dalle acque.42 L’«altro polo», nel quale la tragedia giunse al suo culmine, è rappresentato da Dante con colori oscuri, e come se mai, durante il viaggio, Ulisse e i compagni fossero stati allietati dalla luce del sole. Che è la più nobile delle attribuzioni sensibili di Dio: con la conseguenza che la sua «privazione» è la più grave fra quelle che, pesando sulla natura e sul destino dell’uomo, rendono oscuro il suo mondo. Ma quella dell’oscurità incombente sull’ultimo viaggio è una suggestione poetica. È il Grundakkord fantastico del racconto. Nella realtà letterale non è così. Nel viaggio verso l’ignoto, che durò, come Dante ebbe cura di precisare, cinque mesi («cinque volte racceso e cinque casso/ lo lume era di sotto da la luna» [vv. 127-28]), i giorni si alternarono alle notti, queste si alternarono ai giorni, proprio come nell’altro, nel «nostro» emisfero. E se, a rigore, il mondo che si apriva allo sguardo di Ulisse e dei suoi compagni non offriva alla conoscenza se non lo spettacolo delle sempre identiche acque, del loro rischiararsi ai raggi del sole e del loro oscurarsi con il suo tramonto, vero è che, nella sua peculiarità, questa fu per sempre materia di una mai, prima di allora, vissuta esperienza. A accadere fu infatti proprio la «diversità» di questa da ogni esperienza che in precedenza Ulisse avesse compiuta. Fu l’esperienza, assolutamente altra, del «mondo sanza gente» che, nell’«orazion picciola», a sé stesso e ai compagni era stato indicato come quello che non sarebbe stato giusto negare al loro desiderio di conoscerlo. Fu l’ esperienza della disadorna alterità del sempre identico, con il senso di perplessa attesa che ne derivava, con quel misto di coinvolgimento, per un verso, e quasi di distacco, per un altro, con cui mirabilmente, nell’ultima parte del racconto, Dante ritrasse il compiersi inesorabile del destino, con l’«allegrarsi» dei naviganti, «tosto» «tornato in pianto», alla vista della montagna: che era un montagna, e perciò cosa nota, ed era invece il simbolo del disastro a cui il «folle volo» era destinato. Ancora. Se l’impressione è che il viaggio procedesse, monotono, o nell’oscurità, o in una luce livida e fredda, la ragione è da ritrovare in quei versi, «tutte le stelle già de l’altro polo/ vedea la notte», che, con suggestivo e misterioso effetto poetico, sembrano riferirsi all’intero viaggio, e non ne indicano, in realtà, se non la prima notte, succeduta al primo mattino. Con la decisione di intraprenderlo, il «folle volo» aveva avuto inizio nel «mattino»; che, come già si è osservato, indicava
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tanto il verso impresso alla poppa della nave, quanto l’ora in cui questa fu volta nella direzione dell’ignoto. Nella luce, che sembrò durare un attimo, perché Dante fece che subito la notte scendese sulla nave che aveva intrapreso quel viaggio fatale, questa non stette, dunque, se non un attimo; e fu «la notte» infatti a «vedere» le stelle dell’«altro polo». Il nesso che Dante stabilì fra il «mattino» del v. 124 e la notte stellata dei vv. 127-28 richiede di essere colto nella sua intenzione; che per un verso indicava le prime ore del viaggio, ma, per un altro, richiamava un’altra notte, quella in cui, con i suoi compagni, l’eroe dell’ananke perdé sé stesso. Postilla Questo articolo, che parrebbe esser stato scritto, e per un verso è così, allo scopo di dimostrare la fallacia di alcune tesi dantesche di Enrico de Negri, ha una piccola storia, che ritengo doveroso rendere nota al lettore. Durante un seminario svoltosi alcuni anni fa presso il Centro Bruno Nardi per gli studi danteschi, che ha la sua sede nell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, un gentile signore che seguiva la discussione insorta, fra i partecipanti, intorno all’«orazion picciola», mi chiese se conoscessi un saggio di Enrico de Negri, che, precisava, conteneva, al riguardo, osservazioni e conclusioni molto diverse da quelle svolte e raggiunte da me, ma meritevoli, forse, di essere discusse. Chiesi dove si trovasse questo saggio; e quando venni a sapere che era stato raccolto in un libro intitolato Tra filosofia e letteratura, e pubblicato a Napoli, da Morano, nel 1983, ne rimasi sorpreso. Dovetti ancora, fra me e me, constatare l’infida e ingannevole natura della memoria, del suo conservare alcune cose e altre, anche se assai vicine alle prime, cancellarle, in entrambi i casi con tale energia che, nel primo, sembra che le cose ricordate non possano non esser state sempre presenti alla coscienza, e, nel secondo, che presenti non le siano state mai. E anche cominciai a chiedermi se non si dovesse infine acconsentire alla tesi, da varie parti avanzate, secondo cui, se si dimentica, è perché, nel profondo, si vuole dimenticare. Ma, in questo caso, perché mai questo oscuro movimento di quella che, non con piena ragione, si chiama «volontà», si sarebbe determinato? Che cosa poteva mai esserci di così insopportabile in quel saggio, o nello studioso che l’aveva scritto, da costringermi a «rimuoverlo» e a fare come se non fosse mi esistito? In realtà, quel saggio lo conoscevo (o meglio l’avevo conosciuto) benissimo; e poi, appunto, per qualche ragione, l’avevo cancellato fino a non conservarne più alcuna memoria. L’avevo letto e conosciuto quando proprio io avevo incoraggiato De Negri che, negli ultimi anni della sua carriera, ebbi il piacere e l’onore di avere collega nell’Istituto di filosofia dell’Università di Roma, a raccogliere i suoi scritti sparsi in un volume che Claudio Cesa e Fulvio Tessitore si offrivano di
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pubblicare nella collana filosofica che dirigevano presso Morano. Con De Negri, la cui candidatura romana avevo sostenuta con energia quando, alla fine degli anni Settanta, si era profilata come possibile dopo la vittoria riparatrice da lui riportata in un concorso di filosofia, avevo poi avuto frequenti conversazioni; e fu su mia indicazione che Stefania Pietroforte scelse la sua opera come oggetto della sua tesi di laurea, discussa con me nel lontano 1981, e poi divenuta un libro, al quale premisi alcune pagine di introduzione. Avevo sostenuto con decisione la sua candidatura quando, vinto finalmente quel concorso, De Negri era alla ricerca di una Facoltà che lo «chiamasse». Ma la decisione, appunto, di sostenerlo in quella sua più che legittima aspirazione nasceva, non dalla conoscenza che allora avessi della sua persona, ma da tutt’altro. E cioè dalla viva impressione che avevo ricevuta quando, da ragazzo, leggendo una sua scelta di pagine giovanili di Hegel, mi ero imbattuto nel racconto che, nella Prefazione, egli aveva fatto delle sue disavventure accademiche: ossia di un concorso universitario vinto nel 1942, annullato per «mero vizio di forma» nel 1945, e quindi di un altro che nel 1949, con una commissione del tutto diversa, lo aveva invece visto soccombente (E. de Negri, I princìpi di Hegel, Firenze 1949, pp. vii-ix in nota). Dal 1942 al giorno in cui, tornato dagli Stati Uniti, De Negri aveva finalmente vinto il suo concorso, erano passati trentanove anni. Come accade in Italia, la giustizia aveva proceduto con passo lento e circospetto e, in itinere, si era trasformata nel suo contrario. Persa la sua occasione, quello studioso era infatti stato poi sistematicamente sconfitto da più giovani concorrenti, tanto che, disperando di poter ottenere il riconoscimento che per i suoi meriti scientifici avrebbe largamente meritato, aveva deciso di accettare un insegnamento negli Stati Uniti d’America dove, mi raccontò un giorno, aveva conosciuto molti dei grandi studiosi ebrei che vi si erano rifugiati dopo il 1933, e, fra questi, Erwin Panofsky, che in particolare l’aveva colpito. La sua disavventura mi apparve subito, quando ne venni a conoscenza, deplorevole, perché De Negri era autore di libri importanti, dai quali emergeva la personalità di uno che, a differenza di molti che scrivono «titoli» per i concorsi, e, se non li scrivessero, farebbero opera buona, aveva, appunto, una personalità, e un inconfondibile stile. Ricordo che quando ero studente all’Università di Roma, con alcuni giovani amici «filosofi», e non, parlavamo qualche volta delle vicende che avevano coinvolto, e coinvolgevano, uno studioso che nessuno di noi aveva mai visto e conosciuto, ma che ci era variamente noto attraverso i libri (su Varisco e Hegel, il Lutero era di là da venire) che leggevamo di lui. Ne parlavamo come di una cosa astratta, remota dalle nostre conoscenze dei misteri amministrativi, ma anche ingiusta, profondamente ingiusta, come di un arbitrio perpetrato ai danni di un professore che, come ho detto, non avevamo mai visto e che tuttavia, dalle pagine dei suoi libri, ci insegnava molte cose. Ci chiedevamo come un «vizio di forma» avesse potuto, e potesse, riguardare la sostanza di un giudizio. E ricordo che, insieme ad un altro, del quale pure si parlava in quegli anni, il «caso De Negri» era già divenuto ai nostri occhi paradigmatico della disonestà accademica, che ci
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preoccupava, non perché avrebbe potuto, domani, riguardare uno di noi (a queste cose francamente non pensavamo), ma perché eravamo giovani e la «disonestà» ci offendeva (debbo dire che, con il trascorrere degli anni, alcuni, al riguardo, sono rimasti «giovani», altri meno: ma questo è un altro discorso, che non concerne comunque i miei amici di allora). Tutto questo per dire che, non sapendomi dar conto dell’oblio di quel saggio, mi parrebbe troppo banale spiegazione sia quella, minimizzante, secondo cui la dimenticanza derivava dalla non buona impressione che, quando lo lessi, il saggio di De Negri aveva suscitata in me, sia l’altra drammatizzante e alludente alle cose orribili che, come diceva Amleto, chiudiamo in noi e che sono tali che, se potesse vederle, nostra madre avrebbe orrore di averci generato. Fra le due, conviene comunque, in questo caso, scegliere la prima, che sarà superficiale, sarà banale, ma ha il vantaggio di muoversi sul piano di fatti che, per essere verificabili, non richiedono l’analisi del profondo. In realtà, che, almeno nella parte riguardante Ulisse, il saggio di De Negri non mi fosse piaciuto, è un fatto attestato da quel che ne ho scritto qui su. È probabile che a spiacermi, quando la prima volta lo lessi, fosse stata sopra tutto la disposizione iperallegorizzante che, con qualche sorpresa, incontravo nelle pagine di uno che non avrebbe (pensavo) dovuto farsi troppo influenzare da certo dantismo nordamericano, a me non particolarmente gradito. E aggiungerò la tendenza a considerare Ulisse, non tanto come una replica, a suo modo eroica, del superbo Adamo e del superbo Lucifero, quanto piuttosto come un vecchio imbroglione, alquanto meschino persino nell’uso di quest’arte, come un disonesto fabbricante di guai e di imprese sbagliate. Tendenza e disposizione che possono comprendersi se si pensa a quanto impropriamente il personaggio dantesco fosse stato, in passato, assunto come l’anticipatore dell’eroe umanistico che, con l’intelligenza e l’audacia, intende alla costruzione di un mondo, e con la forza del braccio (è un’immagine albertiana) vince la forza delle onde. Ma che non possono invece avere giustificazione alcuna dinanzi all’intelletto: almeno quando si sia in grado di comprendere che, se non è l’umanesimo, con la sua retorica, a costituire l’atmosfera all’interno della quale il personaggio rivela i lineamenti del suo volto, non perciò la sua verità è nei suoi imbrogli e nelle nefandezze di cui Euripide immaginò che Ecuba facesse l’elenco in una scena delle Troiane. La sua verità è in effetti nel tragico desiderio che lo spinge ad andar oltre: un desiderio che tanto poco, in effetti, e per questo è tragico, può essere dominato quanto più, per contro, domini e conduca alla catastrofe. Fare di Ulisse un maldestro imbroglione significa in sostanza restare prigionieri, indocili sì ma prigionieri, dell’altra sua immagine; che tanto ci perseguita e ci è presente che, per liberarcene, non troviamo rimedio al di fuori della negazione che la ribadisce. Di questa diversa immagine, contro la quale De Negri polemizzò, e passò il segno, esiste un documento davvero singolare che, visto che il discorso sta intessendo il filo dei ricordi, desidero segnalare in questa sede. Ricordo dunque che, tanti anni fa, quando ero
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ancora studente universitario, mi accadde di trovare, su una delle bancherelle di libri vecchi che erano allora in gran numero nel centro di Roma, il testo di una «conferenza» che Gennaro Perrotta aveva tenuta, sulla figura di Ulisse, il 15 aprile 1921 all’Università popolare di Campobasso, e che costituisce il primo titolo della sua bibliografia (la si veda nel suo libro Cesare, Catullo, Orazio e altri saggi. Scritti minori, a cura di B. Gentili, G. Morelli, G. Serrao, I, Roma 1972, p. 308). Quando mi imbattei in quel suo opuscolo, Perrotta era il professore di letteratura greca dell’Università i Roma, e mi era ben noto, perché lo seguivo, alternando le sue lezioni, che non valevano i suoi bellissimi libri, con le esercitazioni di metrica impartite da Bruno Gentili. Quando tenne quella conferenza, Perrotta aveva ventun anni; e sebbene, qua e là, nello stile, rivelasse i tratti di quella che sarebbe stata la sua qualità di lettore di poesia, il suo discorso fu allora quale non avrebbe potuto non essere, l’acerbo discorso di un giovane di grande ingegno e di ancora debole esperienza, forte di studi filologici condotti alla scuola di Giorgio Pasquali, ma non insensibile, anzi, alla cultura, e persino alle sirene, dell’idealismo. Del debito intellettuale che, nel presentare il carattere dell’antico eroe, egli rivelò nei confronti di questa filosofia, dirò alla fine di questa «postilla». Ma è ad altro che ora occorre prestare attenzione. Non dalla qualità dei tempi, ma dal suo ingegno di filologo e di critico, derivarono infatti osservazioni come quella che egli dedicò alla più bella, come la definì, fra le Odi che Orazio avesse composto da giovane: la settima del primo libro (anche G. Pasquali, Orazio lirico, Firenze 1920, pp. 722-27, l’aveva, con altri, assegnata alla giovinezza, e anche lui l’aveva apprezzata: la seconda parte dell’ode, aveva scritto a p. 726, è un capolavoro). Un testo che, nell’ideare l’«orazion picciola», «certo Dante ebbe in mente» (G. Perrotta, Ulisse, Campobasso 1922, p. 23). Vi è narrata, come si sa, la storia di Teucro che, «tornato a casa dopo la guerra di Troia, è scacciato dal padre, e s’imbarca in cerca di una nuova patria». Dò il testo latino, che il lettore troverà tradotto da Perrotta a p. 23: … Teucer Salamina patremque cum fugeret, tamen uda Lyaeo tempora populea fertur vinxisse corona, sic tristes adfatus amicos: ‘quo nos cumque feret melior fortuna parente, ibimus, o socii comitesque! Nihil desperandum Teucro duce et auspice Teucro: certus enim promisit Apollo ambiguam tellure nova Salamima futuram. O fortes peioraque passi mecum saepe viri, nunc vino pellite curas; cras ingens iterabimus aequor (vv. 21-32).
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La situazione è, in Orazio, diversa da quella descritta da Dante. Diversi i personaggi. Scacciato dal padre, al suo ritorno da Troia, Teucro prende il mare, con i compagni, alla ricerca di una nuova patria. Sebbene a dominare, nel fondo del suo animo, sia la tristezza, si fa coraggio e invita i compagni a non disperare: «nihil desperandum Teucro duce et auspice Teucro». Non scacciato da nessuno, ma spinto dall’ananke, che è la stessa cosa del suo irresistibile desiderio dell’oltre, Ulisse è costretto a intraprendere la via dell’ignoto. E nella scena che si svolge un attimo prima che la poppa della nave sia da lui volta a oriente e il «folle volo» stia per avere inizio, a dominare sono, non le corone, non il vino, non l’incoraggiamento rivolto ai socii comitesque, ma sono bensì le poche, essenziali, parole dell’«orazion picciola», che a tutti prospetta l’esaltante avventura nell’ignoto. Eppure, anche in Orazio, c’è il senso misterioso del mare che, con i suoi, Teucro domani navigherà, mentre i «cento milia perigli» richiamano il «o fortes peioraque passi/ mecum semper viri»: una circostanza, quest’ultima, dalla quale l’intui zione di Perrotta sembra ricevere una conferma testuale. Come egli stesso ebbe a scrivere quindici anni dopo, riprendendo, nel 1936, il suo giovanile giudizio, «l’ode è tutta un capolavoro, anche nella prima parte: ma il discorso di Teucro ne costituisce la maggiore grandezza. L’‘orazion picciola’ del duce ha qualcosa che fa pensare alla grande poesia ulissica di Dante» (Perrotta, Cesare, Catullo, Orazio e altri saggi, pp. 250-51). È una concordanza importante; che tanto più occorre valorizzare in quanto, sebbene dopo il Perrotta, per altro ignorato, fosse stata indicata da A. Monteverdi, Orazio nel Medioevo, in «Studi medievali», n.s., 9 (1936), p. 177 (e cfr. anche G. Brugnoli, ED, IV, 177), non risulta che sia passata nei commenti (ma in questa materia occorre essere cauti perché errare è facilissimo). Non ne trarrei, per altro, argomento per rivedere la tesi, sostenuta in modo pressoché concorde, secondo cui di Orazio Dante conobbe l’Ars poetica, nella quale lesse, tradotti, i primi versi dell’Odissea (Ars 140-42), ma nient’altro per esperienza diretta: il resto essendogli probabilmente pervenuto per via indiretta, attraverso la «letteratura grammaticale e scolastica» (Brugnoli, p. 174 a, che attenua così lo scetticismo di E. Moore, Studies in Dante, I, Oxford 1896, pp. 197-206). Aggiungerei che, mentre P. Renucci, Dante disciple et juge du monde greco-latin, Paris 1954, pp. 180-81 n. 606, non ha spiegato perché la «réminiscence des Odes (I, vii, 26), dubitativement signalée au v. 112» sia «beaucoup moins probable», le ragioni per le quali Dante accolse Orazio «satiro» fra i poeti antichi ospitati nel «nobile castello» apparvero deboli, per esempio, al D’Ovidio e a E.G. Parodi, Note per un commento alla ‘Divina Commedia’ (1916), in Lingua e letteratura, a cura di G, Folena, II, Venezia 1957, p. 341, dal momento che non c’è accordo fra la «tragedia» omerica e la «satira». Cfr., tuttavia, R. Mercuri, ED, IV, 178 b-179 a. Ma, nobile castello a parte, la pertinenza tematica del discorso di Teucro a quello di Ulisse è innegabile; e tanto più lo sarebbe se ragioni certe imponessero di escludere che quel testo oraziano fosse stato conosciuto da Dante.
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Dai tempi, e dallo stile che per certi aspetti li caratterizzò, derivò invece al Perrotta la metamorfosi della finezza critica in estrinseca retorica: qual è quella che, per esempio, rifulge nel finale del saggio (pp. 29-30), dove l’eroe omerico e dantesco è definito «così grande, da simboleggiare l’uomo di tutti i tempi e di tutte le età», e da fargli venire in mente il paragone con la filosofia di Giovani Gentile, di «quest’uomo che ha rotto davvero le colonne d’Ercole del pensiero umano» (p. 29). Che era un elogio, quanto retorico, altrettanto, per chi lo riceveva, imbarazzante: dal momento che rompere le colonne d’Ercole del pensiero umano avrebbe, a rigore, significato avventurarsi nel «non pensiero», e, per quanto intrinsecamente impossibile, questa era un’avventura che nemmeno un Ulisse della filosofia vorrebbe mai sul serio correre o aver corsa. Resta, beninteso, che la pagina del giovane Perrotta costituisce una testimonianza, una fra le molte, del modo in cui, nel 1920, subito dopo gli scritti palermitani e la Teoria generale dello spirito come atto puro (1916), il pensiero di Gentile era ricevuto e «sentito» in una pare della cultura italiana.
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Note 1. E. de Negri, L’Inferno di Dante e la teologia penitenziale, in Tra filosofia e letteratura, Napoli 1983, pp. 171-210. 2. F. da Buti, Commento sopra la Divina Commedia di Dante Alighieri, a cura di C. Giannini, I, Pisa 1858, pp. 673 e 675. 3. De Negri, L’Inferno di Dante, p. 189. 4. La migliore, anche se indiretta, spiegazione dell’arte che ha nome «frode» (Inf. XI 22-26, è quella data da Guido da Montefeltro in Inf. XXVII 778. 5. De Negri, L’Inferno di Dante, p. 187, dov’è detto che, «osservate più da vicino (?), le deliziose lucciole sono i corpi dei peccatori che, facendo rogo di sé medesimi, ne accolgono le anime». Ma quando mai! Le lucciole sono quelle che sono viste dal «villan ch’al poggio si riposa» (v. 25), e che sta su questa terra, non nell’ottava bolgia; né può dirsi che i corpi dei peccatori facciano rogo di sé stessi, in questo atto ospitando le anime, perché nell’Inferno giungono anime, non corpi, e il fuoco che le fascia, se bruciasse corpi, sarebbe destinato a spegnersi una volta che quelli fossero stati ridotti in cenere. Il che è impossibile, perché, nell’ottava bolgia, quel fuoco brucia in eterno. 6. Cfr. supra il mio L’ananke di Ulisse, n. 16, e, in particolare, infra, Dante, Ulisse, un’antilogia ovidiana e altre questioni. 7. Verg. aen. 1, 204-207. Per Lucano, alludo a Fars. 1, 299 ss; per Seneca, a de brev. vitae, 3,5. 8. Cfr. ora il commento di G. Inglese alla Commedia, I, Inferno, Roma 2007, p. 299. 9. XXVII 83: «il varco folle di Ulisse». 10. Verg. aen. 2, 44. E cfr. ib. 164: «scelerum inventor». 11. Una lettura non diversa dell’«orazion picciola», anche se molto più articolata e dotta, è stata data di recente da P. Boyde, Human Vices and human Worth in Dante’s ‘Comedy’, Cambridge 2000, pp. 231 ss. La sua tesi è, se non l’ho capito male, che, come nell’«orazion picciola», «the heroic Ulysses of the Odyssey» divenne «inseparable from the astute Ulysses of Metamorphoses xiii» (p. 261), così a conseguirne fu il suo essere «a ‘good speaker’», restando per altro aperta «the question whether he acted as a ‘good man’» (p. 262). Su altri aspetti dell’interpretazione che, arricchendola di molte e notevoli osservazioni particolari, Boyde fornì qui del personaggio dantesco, non è possibile fermarsi in questa sede, se non per dire che in lui egli vide, da una parte, l’alternarsi del «valore» (worth) e del «vizio» (vice), o, se si preferisce, il vizio delle sue virtù, da un’altra, la prevalenza di quello su questa: «he was “astute” rather than “prudent”. The criminal charges relate to his conduct during the Trojan war, but the style of his last speech to the crew shows that he had not changed. His counsels did not “lead himself or ohers to a good end’. He could not possibly be described as justus» (p. 270). Non credo sia necessario dire perché, con il «metodo» prima ancora che con le singole osservazioni, mi sia impossibile andare d’accordo. 12. Cfr. G. Padoan, Il pio Enea, l’empio Ulisse, Ravenna 1977, p. 195 n.80. A sua volta, R. Mercuri, Semantica di Gerione, Roma 1984, pp. 185-89, ha osservato la «reversibilità» dei «bruti» rievocati da Ulisse con quelli di Purg. XIV 43, e non ha indicato niente che vada al di là dell’uso che, in questo luogo, Dante fece di quella parola. Il che non impedì a G. Brugnoli, Studi danteschi, III, Dante filologo: l’esempio di Ulisse, Pisa 1998, p. 77, di dare a questi studiosi il suo consenso.
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13. Che Dante sapesse della trasformazione subìta dai compagni di Ulisse a opera di Circe, si deduce, non dal ventiseiesimo dell’Inferno, ma da Purg. XIV 40-42; e sua principale «fonte» fu certamente Ovid, met. 14, 251 ss, che, semplificando, riprende Od. k 210 ss, oltre a Verg. aen. 7, 10-20 e Hor. epist. 1, 2, 23-26, sì che, per questa parte, non occorre porsi la questione se egli conoscesse o no i racconti medievali relativi a queste vicende. 14. L’unico riferimento a Circe che, oltre questo, si trovi nella Commedia, è nel discorso di Guido Del Duca (Purg. XIV 42); ed è riferimento generico e indiretto. Par. XXVII 136-38, resta enigmatico anche dopo la spiegazione tentata da M. Barbi, Per una più precisa interpretazione della ‘Divina Commedia’ (1905), in Problemi di critica dantesca, I, Firenze 1934, pp. 292-93. Un equilibrato profilo della questione nel commento di N. Sapegno, La Divina Commedia, III, Paradiso, Firenze 1985, pp. 348-49. Non senza ironia, mi pare, G. Petrocchi, La Commedia secondo l’antica vulgata, IV, Paradiso, Milano 1965, p. 457, osservò come l’interpretazione resti oscura, e sicura sia invece «l’immagine della pelle che da bianca si fa nera» («così si fa la pelle bianca nera» [v. 136]). Cfr., in genere, A. Martina, Circe, ED, II, 19 b-20 a. 15. Od. k 277 ss. Su questo punto, commento e bibliografia in A. Heubeck (Omero, Odissea, intr. testo e commento di A. Heubeck, trad. it. di G.A. Privitera, III, Milano 1986, p. 239). 16. Basti qui il rinvio a Conv. IV vii 11. 17. Ibidem, III ii 14. 18. Ibidem, III ii 18. 19. Inf. XXVI 19-24. 20. F. d’Ovidio, Studii sulla Divina Commedia, Napoli 1900, p. 89. 21. Per le ragioni che fanno ritenere improponibile la datazione nardiana della Monarchia, cfr. il mio Dante. L’Imperatore e Aristotele, Roma 2002, pp. 184-85, passim. Cfr. ora P. Shaw, Introduction, a Monarchia, Firenze 2009, pp. 9 ss (208 ss). 22. Sulla decisione di Virgilio di esser lui l’interlocutore di Ulisse si è molto discusso, arrecando vari argomenti. Ma, a parte la stravaganza del Tasso, secondo il quale, com’è noto, per vincere la sospettosità e la ritrosia dei due greci, Virgilio si sarebbe finto Omero, resta il rilievo relativo al loro essere «schivi», se a parlare fosse stato Dante, del suo «detto»; e questo è un passaggio di difficile spiegazione. Se, per esempio, si supponesse che la sospettosità e l’alterigia dei greci avessero la loro origine, o una delle loro origini, nel disprezzo da essi nutrito nei confronti delle altre lingue, l’ipotesi si dimostrerebbe infondata, perché non in greco Virgilio si era rivolto a loro, ma, forse, in lombardo: come si deduce da XXVII 21. In realtà, deve supporsi che, come sempre, o con poche eccezioni, avviene nella Commedia, i personaggi che popolano l’al di là parlino, a parte subiecti, ciascuno, nella sua lingua, che a parte, per dir così, obiecti, tutti comprendono senza che ciò dia luogo a una koiné. Che dunque Virgilio si esprimesse nel suo dialetto nativo, non sorprende se, come Inglese, Inferno, p. 304, ha ben notato, secondo la dottrina storico-linguistica esposta da Dante nel de vulgari, «le parlate italiane sono anteriori alla creazione del latino, lingua artificiale (I x 1)». La migliore accoglienza che Virgilio riteneva di avere presso i due greci, e lo induceva a prender lui la parola, si spiega dunque, con ragioni, non linguistiche, ma letterarie («s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,/ s’io meritai di voi assai o poco/ quando nel mondo li alti versi scrissi» [vv. 80-82], con quel che segue); e dunque con la composizione dell’Eneide, che qui si suppone potesse senz’altro esser nota ai due eroi in forza di una fictio analoga a quella della reciproca comprensione dei diversamente parlanti. Così, in
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sostanza, già nelle Chiose filippine, a cura di A. Mazzucchi, I, Roma 202, p. 485. – Per una più compiuta interpretazione, cfr. infra il mio saggio Intorno a Inferno XXVI 79-84. 23. De Negri, L’Inferno di Dante, p. 188. 24. Cfr. supra, per ulteriore approfondimento di questo punto, L’ananke di Ulisse. 25. Cfr., al riguardo, W.B. Stanford, The Ulysses Theme. A Study in the Adaptability of a traditional Hero, Dallas 1963, pp. 283 ss. 26. De Negri, L’Inferno di Dante, p. 188. 27. Mi pare inappuntabile il rilievo che al Pietrobono e al Nardi fu opposto da M. Barbi, Con Dante e con i suoi interpreti, Firenze 1941, pp. 108-10, condiviso da M. Fubini, Il peccato di Ulisse e altri scritti danteschi, Milano-Napoli 1966, pp. 13 ss. E cfr., supra, anche il mio L’Ananke di Ulisse, pp. 22-23, 105. 28. Che è tuttavia quel che esplicitamente Dante disse ai vv. 61-63. Che la profanazione del Palladio sia eco virgiliana (aen. 2, 163-70) è ovvio, e sarà forse per la suggestione che questo testo esercitava su di lui che Dante la incluse, sebbene sia difficile considerarla così, tra le frodi dell’inventor scelerum, come Ulisse è definito in quei versi. 29. Purg. XXXII 18. 30. Inf. XXVI 94-96. 31. Verg. aen. 1, 1-2. 32. Aen. 4, 361. 33. Per l’interpretazione della «follia» di Ulisse in termini di «desiderio», e per il modo in cui questo concetto si atteggia in Dante, si veda, supra, L’ananke di Ulisse, pp. 83 ss. Ma si veda anche U. Bosco, Dante vicino, Caltanissetta-Roma 1985, pp. 55-75, e ora anche Boyde, Human Vices and human Worth, pp. 264-65. 34. Ho discusso la questione supra in Ulisse e Adamo, a cui rinvio anche per le essenziali indicazioni bibliografiche. 35. Cfr. quel che, al riguardo, ho scritto in Dante. L’Imperatore e Aristotele, pp. 163 ss. 36. Cfr., per es., N. Sapegno, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1985, p. 299. 37. C. Grabher, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1940, p. 323. 38. A. Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, I, MessinaFirenze 1967, p. 411. 39. F. Torraca, La Divina Commedia, Città di Castello 1992, p. 212. 40. Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super D. Alagheri Comoediam, a cura di G.P. Lacaita, II, Firenze 1887, p. 321. 41. Nella sua estrema concisione, il racconto è tuttavia puntuale. L’«orazion picciola» fu pronunziata dopo che, superata Setta (Ceuta) sulla sinistra, la nave aveva già oltrepassate le colonne d’Ercole (quella città è infatti collocata proprio sullo stretto dal lato della costa africana) e, lungo la costa spagnola, era andata oltre Siviglia. 42. Che la tragedia di Ulisse si consumasse, nel mare, in vista dell’alta montagna «bruna» del Purgatorio, segnando con ciò la differenza intercorrente fra il suo destino e quello di Dante, è stato notato da molte parti (cfr., tra gli ultimi, Boyde, Human Vices and human Worth, pp. 235-36, 262), dopo che Nardi, Dante e la cultura medievale, pp. 129-31, ebbe indicato il filo autobiografico che percorre l’episodio. Anche Dante aveva infatti conosciuta la hybris del desiderio che spinge ad andare oltre, e ne aveva indagata, non senza incorrere in varie difficoltà, l’ambigua e insidiosa natura (cfr. supra, L’ananke di Ulisse, pp.
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61 ss). Ma era riuscito a «raffrenare l’ingegno» nel segno della grazia che lo aveva assistito. È una connessione, questa, che non è illegittimo stabilire, a condizione che non si dimentichi che di essere arrivato in vista del Paradiso terrestre, sulla cui cima è riposta la beatitudo huius vite (Mon. III xv 7), certo Ulisse non sapeva. E solo entro questi limiti il paragone , e la conseguente contrapposizione, sono legittimi.
4. Intorno a Inferno XXVI 79-84 (e a un luogo del de vulgari eloquentia)
A proposito dei versi:
O voi che siete due dentro ad un foco, s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi o molto o poco quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l’un di voi dica dove per lui, perduto, a morir gissi.
non sembra condivisibile l’opinione di quanti, in vario modo, provarono a rendere univoca, materialmente univoca, la ragione per la quale Dante assegnò a Virgilio il compito di rivolgere a Ulisse la domanda che gli urgeva nella mente e attendeva risposta. Che, come fu suggerito dal Tasso, e poi, per esempio, fra i moderni, da Carlo Steiner,1 per ottenere da Ulisse quel che non sarebbe stato altrimenti ottenibile e conseguibile, Virgilio si fingesse Omero, è tanto una sottigliezza di gusto già secentesco quanto, come il Sapegno ha ben detto, tagliando corto, una «assurdità».2 L’ingannatore ingannato è un personaggio da commedia; che non starebbe al giusto posto qui, dove fin dall’inizio il tono è così alto che Virgilio avvertì la necessità di essere lui, grande poeta epico, quello a cui convenisse, nei confronti dei due eroi, assumere la parte dell’interlocutore. L’eventuale argomento che, a indiretta conferma di quello proposto dal Tasso, si aggiungesse con l’osservare che, in quanto greci, né Ulisse né Diomede sarebbero stati in grado di intendere la domanda che Dante avesse loro rivolta nella sua lingua, complicherebbe in effetti, e non risolverebbe in nessun modo, la questione. Se nell’oltretomba la molteplicità delle lingue producesse gli stessi inconvenienti che ne derivano nell’al di qua e, al pari di Ulisse, per farsene
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intendere Virgilio si fosse espresso in greco, il primo a non capire sarebbe stato Dante;3 che deve invece ben supporsi che, oltre la domanda, anche la risposta fosse in grado di intendere. In realtà, che nei tre regni dell’oltretomba cristiano immaginato da Dante vigesse una sorta di κοινή linguistica e, al di là o al di qua delle lingue parlate nella loro storica esistenza, le anime non incontrassero, nel comprendersi, alcuna difficoltà, è in effetti dato da lui per ovvio: senza che, forse proprio per questo, egli avvertisse la necessità di spiegare come, e per la forza di quale virtù, questa comunicazione avvenisse. Se non fosse stato così, la prima difficoltà avrebbe riguardato proprio Virgilio: al quale Dante sarebbe riuscito incomprensibile quando gli si fosse rivolto nella sua lingua, ossia in fiorentino, o comprensibile solo se, in ipotesi, si ammettesse che un lombardo potesse intendere un fiorentino per ragioni in tutto e per tutto identiche a quelle per le quali anche deve ammettersi la comprensione del primo da parte del secondo. Un’ipotesi, quest’ultima, da considerarsi altamente improbabile se i due volgari fossero assunti nelle loro rispettive peculiarità, e chiusi quindi in sé stessi come di norma due diverse lingue lo sono. A Virgilio, tuttavia, Dante si rivolse, nel poema, nella «loquela» che all’orecchio, per esempio, di Farinata lo rivelò come nativo di quella «nobil patria» che anche era la sua: come fiorentino, dunque (Inf. X 22-27); e la cosa è così ovvia che si prova quasi un senso di disagio a doverla ricordare. Se perciò, pur senza fornirne la teoria, Dante assunse che con i personaggi che abitano i tre regni oltremondani la comunicazione avvenisse al di là, o al di qua, della possibilità offerta dallo strumento linguistico che era stato, in vita, possesso di ciascuno, cercare di darla noi la teoria, come se questa se ne stesse nascosta fra le pieghe del discorso e altro non si chiedesse che di recarla alla luce, sarebbe certo cosa alquanto ridicola. Quella teoria, infatti, semplicemente non esiste. E nemmeno giova, salvo errore, ricorrere all’ipotesi, o, se si preferisce, alla tesi di John Freccero, il quale sostenne che «parlare » non ha, nel contesto dei vv. 79-84, «niente a che fare con la lingua»:4 dal momento che quella usata da Virgilio e da Ulisse non è se non «uno stile comune, l’alto stile dell’epica antica», le cui qualità e peculiarità non possono essere apprezzate dalla «volgare compagnia infernale, il cui linguaggio è il sermo humilis della comedia cristiana». Di qui, sempre a giudizio del Freccero, l’atteggiamento di Virgilio, il quale, dopo aver deciso di essere lui l’interlocutore di Ulisse (e Diomede), disdegnò invece di esserlo di Guido da Montefeltro, «dicendo: “parla tu,
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questi è latino”» (Inf. XXVII 33). Varie cose, in effetti, qui non tornano e, nel senso suggerito dal Freccero, non si lasciano spiegare. «Il linguaggio», egli scrisse, «usato da Virgilio» è «l’alto stile dell’epica», comune a lui e, per esempio, a Omero. Ma, gli si deve chiedere, l’alto stile dell’epica è o non è una lingua: quella latina, in un caso, e se per Virgilio s’intenda l’autore dell’Eneide, l’altra, greca, in un altro? Se lo è, la questione non è risolta, torna con il suo carattere: poiché lo «stile epico» è comunicato da una lingua, comprendere quello significa possedere questa. Lo stile epico può bensì, infatti, includere in sé e il greco e il latino, dai quali per un altro verso trae l’espressione. Ma, inclusi in quello stile, questi restano tuttavia il greco e il latino, che, per un verso si atteggiano, nel caso specifico, secondo lo «stile epico», al quale, per un altro, sono essi che conferiscono il carattere senza il quale quello non sarebbe: vale a dire, l’espressione. In altri termini, lo stile epico è, nel quadro di questa prima ipotesi, soltanto una modalità della lingua per mezzo della quale questa giunge alla sua espressione determinata. C’è l’altra ipotesi: che lo stile epico non sia una lingua e, per essere quello che è, non ne richieda una. Ma se non è una lingua, ed è tuttavia per sé stesso uno strumento di comunicazione, che cos’è? Forse una semplice comunicazione mentale, una sorta di non linguistica comunicazione di anime, che suppone bensì parole, senza che per altro siano queste a costituirla nella sua peculiare natura? Ma questa è una proposta che, quale che in un altro ambito concettuale possa esserne il valore, non ha nel testo alcun possibile appiglio. È estranea a ogni idea che Dante abbia avuta, e potesse avere, del linguaggio. E deve perciò essere esclusa. La spiegazione più semplice delle varie difficoltà che si sono indicate, e ciascuna delle quali risulterebbe insolubile se, per dibatterle, si scegliesse il piano o dell’immediatezza realistica o di varie possibilità metalinguistiche, è quella che già è stata adombrata. E che consiste nell’assumere che, data la questione relativa alla possibilità che nell’al di là giungessero senza sforzo a comprendersi uomini e donne che, in vita, avevano parlato lingue diverse, Dante si condusse nel modo più semplice e sbrigativo. Fece come se non ci fosse: ossia, semplicemente, la ignorò. Ricorse a una fictio:5 immaginando che, qualunque lingua avessero parlato prima di essere pervenuti a uno dei tre regni ultramondani, in questi s’intendessero e basta. Della lingua parlata da Ulisse si mostrò esperto, a differenza di quel che sarebbe accaduto se, per qualche ragione, di ascoltarla gli fosse stata offerta l’occasione nel mondo dei vivi: come già, del resto, era accaduto nel Limbo con Omero, quando, per
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un istante, insieme a Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano, gli era stato concesso di essere «sesto fra cotanto senno», e di partecipare alla loro conversazione, «parlando cose che ’l tacere è bello,/ sì com’era ’l parlar colà dov’era».6 Esperto, altresì, egli si era mostrato anche, per esempio, della lingua di Caronte: Inf. III 88-93: «“e tu che se’ costì, anima viva,/ partiti da cotesti che son morti”./ Ma poi che vide ch’io non mi partiva,/ disse: ‘per altra via, per altri porti/ verrai a piaggia, non qui per passare:/ più lieve legno convien che ti porti’»: come del resto dimostrerebbe, se questi versi non fossero espliciti di per sé, la glossa apposta da Virgilio: «quinci non passa mai anima buona;/ e però, se Caron di te si lagna,/ ben puoi sapere ormai che ’l suo dir suona» (vv. 127-29).7 Esperto si mostrò della lingua di Minosse che, Inf. V 16-20, direttamente gli si rivolse: «“o tu che vieni al doloroso ospizio/ […] guarda com’entri e di cui tu ti fide:/ non t’inganni l’ampiezza de l’intrare”». E se capace d’intendere quella di Pluto fu probabilmente, per qualche ragione (che è difficile per altro capire quale sia), solo Virgilio,8 che al suo allievo ne spiegò il senso, fu invece quest’ultimo che, senza bisogno d’interpreti, comprese quel che Flegiàs gli veniva gridando contro.9 Lo stesso, del resto, può dirsi di quel che accadde con i diavoli di Malebolge: l’esempio è quello del colloquio che Virgilio intraprese con Malacoda mentre, per non correre rischi e seguendo il consiglio ricevuto dal maestro, Dante se ne stava nascosto dietro una «scheggia» (Inf. XXI 61: ma 58-117), e del colloquio che intanto aveva luogo palesemente intendeva il senso. Come altrettanto bene fu in grado di capire le parole delle quali s’intessé il violento scambio di battute intervenuto fra Virgilio e Capaneo: i quali avrebbero dovuto parlare greco, o latino, se mai fosse stato possibile che l’uno avesse incontrato l’altro su nel «dolce» mondo. Un ultimo esempio, che non parrà eccessivo; e la serie potrà considerarsi conclusa. A giudicare da Inf. XXVII 31: «io ero in giuso ancora attento e chino», non sembra infatti discutibile che Dante avesse ben compreso quel che dall’eroe greco era stato narrato del suo ultimo viaggio. Non si assume questa posizione, e non si mostra «attenzione», nei confronti di uno che, in una lingua sconosciuta, pronunzi parole. Resta tuttavia da chiarire il piccolo, e tuttavia curioso, problema che, come il lettore si sarà accorto, si è venuto formando e delineando nel corso di questa indagine. I personaggi dell’al di là dantesco si comprendono l’un l’altro. Ma un conto è dire che si comprendono perché si comprendono, e che il fatto di questa reciproca, completa comprensione chiude in sé stesso la ragione, che non è possibile perciò indagare e trarre alla luce, del suo in-
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fallibile prodursi. Un altro è assumerla, questa ragione, come qualcosa che si può e si deve indagare, cercando di arrivare a comprenderne la natura. Ma se, come è evidente, si procedesse lungo questa strada, le complicazioni non tarderebbero a manifestarsi. Se, nell’al di là, la molteplicità delle lingue non costituiva un ostacolo alla reciproca comprensione dei parlanti, dovrà dunque intendersi che questa molteplicità appartenesse al passato storico di ciascuno, ma non al presente: nel quale la molteplicità si era come contratta in una sorta di κοινόν, di una lingua che a tutti era comune e a tutti perciò dischiudeva la possibilità di comprendere l’altro che, linguisticamente, non era un altro? Per quanto abbia le sue buone ragioni, e non manchi di logica, questa ipotesi urta tuttavia contro l’evidenza di qualcosa che non può farsi come se non fosse. In realtà, non solo nell’al di là Dante parla fiorentino, Virgilio (per lo più) lombardo, ma anche le anime parrebbe che di volta in volta, e quando l’occasione lo richiedesse, si servissero dell’idioma che, in vita, era stato il loro. Sarebbe ben strano, in effetti, che dopo aver riconosciuto in Dante un fiorentino («la tua loquela ti fa manifesto…», con quel che segue), a lui Farinata rivolgesse la parola in una lingua diversa da quella che aveva parlato in vita, che era stato lo strumento del suo comunicare, agire e soffrire, e che ora sentiva risuonare nell’Inferno, fra le arche infuocate degli «epicurei». A tal punto, in realtà, quando non doveva parlare la (quale che fosse) lingua alta dell’epica, Virgilio si esprimeva nel suo volgare lombardo (si ricordi, per esempio, l’incontro con Sordello in Purgatorio VI 64-75), che di questa lingua si servì per prendere congedo da Ulisse, al quale non con questa (e lo si vedrà meglio in seguito) si era rivolto nell’esordio del suo discorso di invito. Il ricorso al lombardo fu in effetti, in quel congedo, così esplicito e netto e brusco che la coerenza epica del suo dire ne fu, in quanto tale, certamente contraddetta: come tante volte si è rilevato, addirittura con qualche severità, da parte di non pochi critici.10 E allora, subito dopo aver sottolineata l’ovvia differenza, deve chiedersi: κοινή o particolarità? L’una infatti esclude l’altra. Ed entrambe tuttavia dovrebbero essere accolte nell’universo linguistico dell’al di là: in forza del fatto che in esso diverse lingue risuonano, e non di meno chi lo abita, e anche il vivo che miracolosamente lo visita, nessuno incontra difficoltà a capire l’altro e a farsi capire da lui. Ebbene, se è così, come si esce dalla difficoltà? Alla questione che via via si è delineata dovrà tornarsi con nuove attenzioni, perché certo sarebbe troppo comodo dire che è insolubile. Dovrà tuttavia, a questa ricerca, imporsi una breve pausa. Occorre infatti richiamare
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l’attenzione sulla battuta dialettale («istra ten va, più non t’adizzo»)11 con la quale Virgilio prese congedo da Ulisse. Ebbene, perché le pronunziò, quelle parole di così crudo accento, e proprio (occorre ribadirlo) alla fine di un dialogo che, da entrambe le parti, era stato fin lì tenuto sul piano dell’elevatezza epica? Perché questa battuta, brusca all’apparenza, e aspra, che, come tante volte è stato rilevato, ha l’aspetto di un tal quale stravaganza,12 che non è agevole in effetti spiegare? Che, in Purg. XXIV 55, Bonagiunta si servisse dell’espressione «issa», che era il modo tenuto a Lucca per dire «ora», «adesso»,13 può forse spiegarsi, non solo con l’essere quel poeta nativo di quella città, ma anche con l’intenzione di rappresentarlo come partecipe di uno stile che l’aveva tenuto al di qua di quello che poi sarebbe stato usato da Dante. In altri termini, il modo dialettale stava, in quel caso, a significare il segno tangibile dell’arretratezza stilistica della quale, con l’uso di quel termine, egli dava conferma nell’atto stesso in cui, per un altro verso, mostrava di averne piena consapevolezza. Nel vedere Dante comparirgli di fronte, il poe ta lucchese aveva chiesto se quello proprio fosse «colui che forse/ trasse le nove rime, cominciando/ Donne che avete intelletto d’amore» (vv. 49-51). E le parole che, dopo esserne stato assicurato, pronunziò, furono, com’è noto: «o frate, issa vegg’io […] il nodo che ’l Notaro e Guittone e me ritenne/ di qua del dolce stil nuovo ch’io odo» (vv. 55-57).14 Con il che sembra chiaro che, rendendo Bonagiunta consapevole del suo limite, e riprendendo perciò quel che aveva scritto nella Vita nuova, XVIII 1 e XIX 1-2, Dante intendesse porre in luce la differenza da lui stabilita con i poeti della precedente generazione in termini di «maturità espressiva», come il Sapegno15 ha ben detto, e di linguaggio: ossia di un’espressione nobile e depurata da ogni dialettale rozzezza e peculiarità. Ma, nel caso di Virgilio e del commiato suo da Ulisse, il ricorso ai modi dialettali non aveva, all’apparenza, alcuna reale necessità; e per questo è stato giudicato una stravaganza. Perché, dunque Dante fece che, iniziato nello stile più alto e con il ricordo esplicito degli «alti versi» che Virgilio aveva composti in vita, il suo discorso si concludesse invece in modo così «umile»? Fermi restando il paradosso, lo stridore e la conseguente sorpresa, una qualche spiegazione deve, e può, essere tentata: perché dire paradosso, dire stridore e dichiarare la propria sorpresa sarà giusto. Ma non è una spiegazione. Per provarsi a darne una, può dirsi che, dopo aver ascoltato il discorso di Ulisse e dopo avere lui pure, che l’aveva provocato, provata forte emozione, da questa Virgilio venisse fuori mercé il ricorso ad un’espressione, o, se si preferisce, a una esclamazione di sapore quasi
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popolare, assunte, entrambe, nella loro immediatezza e tanto più, per conseguenza, liberatorie. Se anche si assumesse che, in precedenza, a Ulisse Virgilio si era rivolto nella sua lingua lombarda e, per la legge vigente nell’al di là, quello lo avesse perfettamente compreso, sarebbe difficile, tuttavia, negare che, quando lo aveva richiesto di narrare il come e il dove della sua morte, la sua consueta, e particolare, parlata fosse stata da lui atteggiata, nelle forme che più fossero degne del personaggio che aveva di fronte. Sarebbe difficile negare che, non al lombardo virgiliano Dante aveva dato rilievo nelle parole dapprima rivolte a Ulisse, ma a parole che comunque lo trascendevano. Al pari della lingua parlata da quest’ultimo, quel dialetto era stato riassorbito nella lingua media della Commedia, nella quale le singole parlate regionali erano tutte risolte, per tacita convenzione, nel fiorentino in cui quell’opera è scritta e le singole parlate regionali sono come «tradotte».16 Il rilievo che intenzionalmente, e all’improvviso, Dante diede alla peculiarità dell’espressione dialettale usata da Virgilio, l’irruzione di quest’ultima nel silenzio seguito alle scabre, ma epiche parole pronunciate da Ulisse, ebbero perciò l’effetto di una particolare catarsi; ricondussero il discorso a quella che potrebbe definirsi la media quotidianità dell’oltretomba, dove i dialetti, per un verso risuonano per quel che sono, e per un altro, sono, come si è detto, riassorbiti nella lingua del poema. Anche altro, tuttavia, vi si deve cogliere. Da un lato, la reazione psicologica di Virgilio, che dal discorso di Ulisse si può supporre che fosse stato profondamente colpito e che ora, attraverso il rilievo conferito a quella sua espressione dialettale, era colto, da Dante (e fu notazione di straordinaria finezza), nell’atto in cui, nel ritornare in possesso di sé stesso e delle sue emozioni, aveva cura di allontanare da sé, con quella frase del suo mondo, il personaggio che, per un istante lo aveva tratto fuori da esso e trasferito in un altro, che era stato ma non era più il suo. Da un altro, la necessità strutturale, da Dante fortemente sentita, di operare il passaggio, dall’epica a cui il discorso era stato innalzato da Ulisse al mondo politico romagnolo di Guido da Montefeltro, ossia del personaggio che, ascoltate le parole lombarde di Virgilio, le citava nell’atto in cui gli si rivolgeva per aver notizie del mondo di lassù, e le faceva risuonare nella forma, emergente dal tono medio del poema, della loro pura e cruda dialettalità. Alla questione della lingua, o delle lingue, parlate nell’al di là deve dedicarsi ulteriore attenzione. Si è detto qui su che con Ulisse Virgilio parlò la lingua alta dell’epica. Ma si è, da parte di altri, fatto osservare che,
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in realtà, non in quella lingua Virgilio aveva parlato, ma nel suo volgare, e cioè in lombardo:17 come risulterebbe dall’indiretta testimonianza fornita da Guido da Montefeltro che con parole tratte da quel volgare sentì che il poeta prendeva congedo dall’eroe greco. Chi ha ragione: il critico che in queste parole avverte la rottura della continuità epica,18 o l’altro che non vi sente se non le parole conclusive di un discorso che, fin dall’inizio, si era servito di quel volgare? In realtà, che con Ulisse Virgilio avesse parlato lombardo, e soltanto lombardo, non risulta se non da questa battuta; della quale fra l’altro non sarebbe giusto dire che è «stridente» se non fosse che l’ultima di un discorso pronunziato nella medesima lingua. Ma, se nel congedo egli fece uso di quella espressione, niente tuttavia autorizza a ritenere che del volgare lombardo si fosse servito quando, ricordando gli «alti versi» da lui scritti nel mondo, aveva esortato l’eroe greco a fermarsi e rivelare dove, «perduto», fosse andato a morire. Niente lo autorizza, e tutto, per contro, consiglia di escluderlo. Sarebbe in effetti stato del tutto indegno del suo finissimo orecchio linguistico se, nel citare gli «alti versi» e nel rievocare l’atmosfera epica che fu ed è di Ulisse e Diomede, Dante avesse immaginato che Virgilio ricorresse a espressioni che, dopo tutto, non sarebbero state troppo diverse da quelle che, nel de vulgari eloquentia,19 aveva citate come altrettanti esempi di sgraziato, sgradevole e inelegante parlare. Sarebbe stato singolare e strano. E, in effetti, impensabile. Tre punti qui sono certi; e debbono considerarsi fuori questione. Il primo è che, qualunque lingua Virgilio avesse parlata con lui, al pari di Dante Ulisse non ebbe alcuna difficoltà ad intenderla: proprio come, subito dopo, non ebbe difficoltà a far sì che gli altri intendessero la sua. Il secondo è che, nell’esordio, e nel breve invito che gli rivolse, con l’eroe Virgilio parlò in una lingua al tutto degna di lui: una lingua alta. Il terzo è che, nel congedo, Virgilio usò il lombardo; e fu come se, invece che all’eroe, quelle volgari parole egli le rivolgesse a sé stesso, nel loro essergli in massimo grado familiari trovando come un freno o un argine all’emozione che gli era penetrata dentro. Sul primo punto, il dubbio è escluso in assoluto. E anche sul secondo e sul terzo, se li si consideri in sé, ciascuno nella sua specifica coerenza. Il dubbio torna invece a delinearsi e a prender forma se di questi due ultimi si cerchi la connessione, e questa sia a sua volta pensata in termini, non di dissidio, ma di coerenza. Vediamo. Il linguaggio alto dell’epica, che Virgilio parlò nel suo primo rivolgersi a Ulisse, è compatibile con il volga-
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re lombardo usato nel commiato? Parrebbe proprio di no; e l’ammissione del contrario suonerebbe infatti come un crudo paradosso. Se, come fino a contraria prova deve ritenersi legittimo, si sta al de vulgari eloquentia, nessun volgare regionale potrebbe, in quanto tale, essere considerato pari a questo compito: nemmeno quello parlato a Bologna, o in una parte di questa, e, pur nei suoi limiti, prediletto da Dante (I xv, 5-6). Guido Guinizzelli se ne sarebbe infatti servito se il parlar bolognese avesse avuto questo carattere di eccellenza; e invece non se ne servì, come risulta dalle sue poesie, nelle quali nettamente lo trascese. Ne consegue che se, nel rivolgersi a Ulisse, Virgilio non venne meno all’alta dignità dell’epica, la lingua da lui usata non poté, in quel caso, esser stata il lombardo, ma una che nettamente lo trascendesse: proprio come, secondo gli esempi forniti da Dante, era accaduto a quei poeti, il Guinizzelli, Sordello, i Siciliani, che, nel comporre le loro poesie, del loro volgare avvertirono l’angustia e l’inadeguatezza, e perciò lo trascesero.20 Se è così, deve ammettersi che, fra il secondo punto e il terzo, non c’è coerenza: ma contrasto, dissidio, addirittura contraddizione. E deve perciò tornarsi a chiedere: perché Dante fece che in un modo Virgilio si rivolgesse a Ulisse nell’esordio, in un altro nel congedo, incorrendo così nell’anomalia che già è stata oggetto, qui su, di qualche attenzione? Ebbene, se, ripercorrendo le fasi in cui la questione si articola, si torna sulla risposta che già è stata data, e di quest’ultima non ci si appaga, è a un’altra che allora ci si deve rivolgere. Una questione interessante; che si avrebbe torto a tralasciare e a non porre: quasi che appartenesse al genere dei rompicapo o degli indovinelli. Si è detto che la reciproca comprensione linguistica che ha luogo nell’al di là fra Dante e le anime, e quindi fra anima e anima, non è spiegata in termini di teoria, ma è esibita, per così dire, attraverso il fatto stesso del suo realizzarsi e verificarsi. Si è detto così; aggiungendo che, in luogo di una teoria, Dante pose una fictio. Sul cui carattere occorre tuttavia intendersi, proponendo la distinzione che è, in effetti, indispensabile se si vuol arrivare a capire di quale fictio propriamente si tratti. Non basta, infatti, dire che, postosi il problema della reciproca comprensione delle anime, Dante lo risolse «fingendo» che queste si comprendessero: dal momento che è pur sempre una lingua il tramite del loro reciproco comprendersi. E quindi: che lingua è quella che Dante finse fosse il tramite della reciproca comprensione? Dovrà intendersi che, nei tre regni dell’al di là, vigesse un’unica lingua, della quale, pur seguitando a parlare la sua, il personaggio Dante entrò in possesso, nel senso che,
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miracolosamente, si trovò a comprenderla? Ma se le anime si esprimevano in un’unica lingua, e, anche nell’al di là, Dante seguitò tuttavia a parlare il suo volgare fiorentino (come Virgilio, del resto, il suo lombardo), ecco che la situazione si complica. E deve infatti ammettersi che, almeno nel tempo impiegato da Virgilio e da Dante per percorrere la via dei primi due regni, a causa della loro presenza la situazione linguistica dell’al di là subisse un’alterazione che non può non essere tenuta in conto. La subì perché, trovandosi dinanzi una lingua diversa dalla loro, unica, questa perse di conseguenza il suo carattere; e seguitò bensì a essere la lingua prevalente, ma unica non fu più. Se, per altro, fosse così, occorrerebbe ammettere che come le anime, che parlano un’altra lingua, a tutte e a ciascuna comune, intesero tuttavia sia il fiorentino di Dante sia il lombardo di Virgilio, questi due ultimi, a loro volta, fossero in grado, se non di parlare, certo di comprendere la lingua in cui quelle gli si rivolgevano. Che è proprio quello a cui si accennava qui su; e che richiede tuttavia di essere ribadito perché è il punto della reciproca comprensione che qui è in gioco. Non basta. Si dà infatti, oltre questa, un’altra ipotesi: quella, si vuol dire, secondo cui, nei tre regni oltremondani, non vigeva né una lingua unica, né una conoscenza del fiorentino e del lombardo da parte delle anime. Ma vigeva bensì una sorta di universale poliglottìa, sia attiva sia passiva, in forza e in ragione della quale le anime parlavano, ciascuna, la lingua che ad esse era stata propria in vita, e intendevano tuttavia senza alcuno sforzo quelle parlate dalle altre. Che le ipotesi che qui sono state delineate siano astratte, ossia prive di specifici riscontri nei testi danteschi, non significa che siano superflue e oziose; né che la loro formulazione rechi danno ad alcunché. È vero al contrario che se non le formulassimo e discutessimo, se non cercassimo di capire con quale strumento, posto che si comprendevano, le anime si comprendevano, a restare più del lecito indeterminata sarebbe l’idea della fictio alla quale Dante ricorse per togliere di mezzo, e dare per risolta, la questione della comunicazione linguistica nell’al di là. Se la fictio è che, comunque, le anime si comprendano, perché non dovrebbe essere lecito chiedersi in che modo, ossia per il tramite di quale specifico strumento, questa reciproca comprensione si determini? Nell’Inferno, Dante si sentì interpellare persino da Maometto (XXVIII 30-44), e palesemente comprese quel che gli si diceva; sebbene fosse poi Virgilio, che del pari aveva compreso, a rispondere alla domanda che quello aveva formulata (vv. 46-51). Ebbene, Maometto parlò in arabo, e Dante e Virgilio tuttavia lo compresero? Virgilio rispose in lombardo, e il grande scismatico non ebbe difficoltà
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a capire che cosa quello gli dicesse? È così che deve intendersi? Oppure in altro modo: e cioè nel senso che, nel loro colloquio, Maometto e Virgilio si servirono di una lingua diversa dalla loro: una lingua che, ignorata in vita, era tuttavia nell’al di là loro saldo possesso? È così? Deve intanto dirsi che le alternative che, lungo questa via, si delineano e vengono alla luce, non si escludono in modo perentorio, e, per così dire, alla radice. Se l’ipotesi dell’unica lingua, comune nell’aldilà a Virgilio, a Dante e alle anime, è contraddetta dalla circostanza indubitabile che il primo parlava (per lo più) lombardo, il secondo fiorentino, e né l’uno né l’altro si servivano perciò della lingua delle anime, della quale pure intendevano il senso, non perciò deve ritenersi che l’ipotesi dell’universale poliglottìa, attiva e passiva, cada senza rimedio e senz’altro debba essere abbandonata. Sembra, al contrario, che rinunziarvi non si possa, e occorra tenervi fermo. Se Dante e Virgilio, che parlavano nella loro lingua volgare, comprendevano tuttavia quella che era propria delle anime, è chiaro che si dava almeno una lingua che, pur senza parlarla, essi conoscevano e intendevano: la lingua, appunto, delle anime. Le quali, d’altra parte, è ben necessario che, comprendendosi a vicenda in forza della lingua che avevano in comune, anche comprendessero il fiorentino di Dante e il lombardo di Virgilio, essendo perciò, per questo riguardo, tendenzialmente poliglotte. Non può escludersi che le diverse ipotesi che qui sono state distinte, e che tutte hanno tuttavia in comune l’idea della fictio, agiscano in qualche modo nella Commedia, vi siano presenti; e, ora prevalendo l’una, ora prevalendo l’altra, al lettore comunichino una tal quale incertezza interpretativa. L’incertezza e l’inquietudine sono del resto rese più acute da ciò, che, poiché può ritenersi certo che a Ulisse Virgilio si fosse rivolto in una lingua (quella dell’epica) diversa dalla sua consueta, che infatti dette improvviso e stridente segno di sé solo nelle estreme parole del congedo, l’esigenza che spinge a intendere che lingua fosse quella che si è definita come dell’epica allontana dalla meta la navicella dell’interpretazione, sospingendola al contrario verso il mare aperto. Se a Ulisse Virgilio non si rivolse in lombardo, forse che avrebbe senso riprendere l’idea che Torquato Tasso avanzò quando suppose che, fingendosi Omero, avesse parlato in greco? Le ovvie, e già viste, ragioni che rendono questa idea inaccoglibile conducono forse a ritenere che Virgilio avesse, con Ulisse, parlato nella lingua in cui furono da lui scritti gli «alti versi»? L’ipotesi è forse meno assurda di quanto non possa a prima vista sembrare; e ha un suo fondo di ragionevolezza se si
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considera che se il latino è, non già la lingua che quotidianamente Virgilio parlava, ma quella bensì della quale si servì per scrivere l’alto poema dell’Eneide, può ben assumersi che, dunque, fosse finalmente questa la lingua nella quale egli si rivolse all’eroe greco. Ma se, in linea generale, si tiene fermo al punto che quella dell’epica è bensì la lingua che Virgilio parlò nel rivolgere a Ulisse la sua richiesta, ma non è tuttavia una lingua in cui possa riconoscersene una storicamente determinata; se insomma non è né la lingua greca né quella latina, all’ipotesi che coincida con quest’ultima non si può concedere alcun credito.21 Se dunque la lingua che Virgilio parlò quando si rivolse a Ulisse è la lingua dell’epica; se, senza essere né il greco né il latino, è tuttavia una lingua fatta di parole, che lingua sarà? In che modo, si potrà identificarla come una lingua, tuttavia, fra le altre? La risposta a questa domanda è in realtà tanto meno semplice in quanto, fra le difficoltà che le si oppongono, se ne dà una specifica, che riguarda la sopravvivenza nella Commedia delle idee che Dante aveva esposte nel trattato latino, e rimasto interrotto alla metà circa del secondo libro, de vulgari eloquentia. Che almeno una delle tesi di quest’opera, quella cioè relativa alla lingua parlata da Adamo nel Paradiso terrestre, sia stata ritrattata da Dante nella terza cantica,22 è noto (anche se sulla questione occorra discutere).23 Ma fu così anche dell’idea più famosa e comunque centrale: quella del volgare illustre, che, senza aver ricevute critiche esplicite, potrebbe tuttavia averne subite di implicite, e di non meno radicali? Rispondere con certezza a questa domanda è senza dubbio difficile. Ma poiché non risulta in nessun modo che la tesi del volgare illustre abbia ricevuta nella Commedia, o altrove, una qualsiasi critica, sembra dopo tutto conforme al buon metodo la decisione di considerarla, non tramontata, ma ancora viva nella coscienza di Dante; e, in questa, variamente operante. Ebbene, per quanto grandi siano le difficoltà o, se si preferisce, le questioni a cui le tesi esposte nel de vulgari eloquentia danno luogo, una cosa non di meno resta al di fuori di ogni possibile discussione. Se nessuno dei volgari italiani era in quanto tale suscettibile di esser considerato degno di assoluto plauso; se nessuno, e nemmeno il bolognese,24 poteva aspirare a essere identificato con la famosa pantera a cui Dante aveva dato, per i monti e i pascoli, un’assidua caccia, come e dove si troverà questo volgare che, di qui in avanti, sarà detto illustre, cardinale, regale e curiale? Restando all’interno della metafora usata da Dante, deve dirsi, senza dubbio, che
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questo volgare coincide con la pantera; che si ostina tuttavia a non rivelare il luogo in cui pur si trova. Fuori, invece, di metafora, il volgare che Dante definisce illustre coincide con la sostanza, ossia con la simplicitas a cui, come vedremo, si può ridurlo. Ma, se è così (ed è così), occorre leggere per intero il testo in cui, la metafora cedendo in buona parte al concetto, quest’ultimo ricevette la sua specifica definizione: Resumentes igitur venabula nostra, dicimus quod in omni genere rerum unum esse oportet quo generis illius omnia comparentur et ponderentur, et a quo omnium aliorum ���������������������������������������������������������� mensuram accipiamus: sicut in numero cuncta mensurantur uno, et plura vel pauciora dicuntur secundum quod distant ab uno vel ei propinquant, et sicut in coloribus omnes albo mensurantur – nam visibiles magis et minus dicuntur secundum quod accedunt vel recedunt ab albo. Et quemadmodum de hiis dicimus que quantitatem et qualitatem ostendunt, de predicamentorum quolibet, etiam de substantia, posse dici putamus: scilicet ut unumquodque mensurabile sit, secundum quod in genere est, illo quod simplicissimum est in ipso genere. Quapropter ��������������������������������������� in actionibus nostris, quantumcunque dividantur in species, hoc signum inveniri oportet quo et ipse mensurentur. Nam, in quantum simpliciter ut homines agimus, virtutem habemus – ut generaliter illam intelligamus –: nam secundum ipsam bonum et malum hominem iudicamus; in quantum ut homines cives agimus, habemus legem, secundum quam dicitur civis bonus et malus; in quantum ut homines latini agimus, quedam habemus simplicissima signa et morum et habituum et locutionis, quibus latine actiones ponderantur et mensurantur. Que quidem nobilissima sunt earum que Latinorum sunt actiones, hec nullius civitatis Ytalie propria sunt, et in omnibus comunia sunt: inter que nunc potest illud discerni vulgare quod superius venabamur, quod in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla. Potest tamen magis in una quam in alia redolere, sicut simplicissima substantiarum, que Deus est, in homine magis redolet quam in bruto, in animali quam in planta, in hac quam in minera, in hac quam in elemento, in igne quam in terra; et simplicissima quantitas, quod est unum, in impari numero redolet magis quam in pari; et simplicissimus color, qui albus est, magis in citrino quam in viride redolet. Itaque, adepti quod querebamus, dicimus illustre, cardinale, aulicum et curiale vulgare in Latio, quod omnis latie civitatis est et nullius esse videtur, et quo municipalia vulgaria omnia Latinorum mensurantur et ponderantur et comparantur.25
In questo passo di rara efficacia sono molte le questioni che richiedono di essere individuate, sottolineate e discusse. Non senza, per altro, aver prima rilevato che c’è come un’ombra che la stessa potenza rappresentativa dell’immagine delineata da Dante proietta sulla sua trama concettuale, e
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ne rende non perfettamente plausibili le connessioni. Che, innanzi tutto, svolgendo il filo che la metafora offrì al concetto, debba dirsi che la pantera sta in un luogo che, poiché non è né fisicamente né geograficamente individuabile fra quelli che costituiscono la realtà, non è un luogo, eppure, per un altro verso, lo è, dal momento che, se esiste, la pantera non può non esistere in un luogo che l’accolga, – è, per certo, indiscutibile. E lo si comprende se ci si affida a quel suggestivo redolere che costituisce l’indizio indubitabile dell’esserci di quel che pure si assume che in nessun luogo possa mai essere trovato. Se la pantera è il volgare illustre del quale, nel de vulgari, Dante disse di essersi messo alla ricerca senza esser riuscito a trovarlo in nessuno dei luoghi nei quali era pur legittimo cercarlo, e cioè in uno dei municipalia vulgaria dei quali aveva storica e diretta esperienza, il paradosso del suo esserci, e anche non esserci, dev’essere preso nel suo carattere di paradosso ed essere tuttavia riconosciuto come indiscutibile. Al pari della pantera, anch’esso infatti, il volgare illustre, redolet, e nei luoghi in cui non c’è lascia il sicuro indizio del suo esserci. Che è, e proprio perché altrimenti l’indizio non sarebbe un indizio, indiscutibile: così che dovrà dirsi che, sebbene non si trovi nei luoghi che costituiscono il determinato reale nel quale lo si cerca, il volgare illustre dovrà comunque essere in un luogo che, senza appartenere all’ambito di quelli, è tuttavia un luogo che, o li sottende o li trascende, o, ab extra, li affianca. Per questo ricercarlo, questo luogo, individuarlo, e ricavarne quel che vi si nasconde lasciando tuttavia che il suo profumo si diffonda al di là del suo confine, costituisce l’impegno fondamentale di una ricerca che, con serietà, si faccia del volgare illustre. Del quale, se non può dubitarsi che sia, e anche che, di necessità, sia in un luogo, dovrà non di meno chiedersi che cosa sia; e di che natura sia il luogo in cui è ospitato. Non basterebbe infatti dire che il suo essere è «al di là» dei luoghi in cui si assume che la pantera, ossia il volgare illustre, non si trova. Non basterebbe; a meno che non si considerasse che è pur sempre un luogo quello che, e non per il gusto eventuale della sottigliezza dialettica, ci si divertisse a veder sorgere dai luoghi che a chi li ispezionasse appaiono vuoti di pantere e di volgari illustri. Insomma, se è e non può non essere un luogo quello in cui, non trovandosi in nessuno di quelli in cui potrebbe essere e non è, il volgare illustre si trova, dov’è questo luogo? Quale ne è la natura specifica? Sembra una domanda oziosa: perché chiedere dove un luogo si trovi, se ogni luogo dischiude e rivela il suo «dove», coincidendovi? Perché, si deve rispondere, non è indifferente decidere «dove» sia questo luogo che non coincide con nessuno dei luoghi
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che esauriscono la carta geografica della realtà in cui i municipalia vulgaria si sono costituiti, e quello illustre, invece, no. Non è indifferente, ed è invece essenziale, perché se, al di là o al di qua dei luoghi nei quali non è compreso e non occupa un luogo, si dà tuttavia, necessariamente, un luogo; se, non compreso nei luoghi che costituiscono il reale, questo luogo esiste e non può non esistere in una realtà, ecco allora che, come fra luoghi e luogo, così fra realtà e realtà, occorre distinguere: assegnando i luoghi alla prima, il luogo alla seconda. Se è così, è evidente che il redolere, al quale Dante suggestivamente ricorse per «rappresentare» la situazione della ricerca e della continua sua frustrazione, implica, nel concetto, la distinzione di questi due piani di realtà. Ed è evidente perché, in quanto tale, del problema non possa costituire la soluzione. Non ne costituisce la soluzione perché, necessariamente rinviando ad altro, e cioè alla res da cui si espande e proviene, richiede che di questa si penetri la natura. La pantera dell’immagine è certamente, nella realtà, qualcosa di essente. E qualcosa di essente è anche il volgare illustre che tuttavia, al pari della pantera, resta nascosto. Ma, pantera o volgare illustre, quel che qui resta nascosto, propriamente che cosa è? La risposta che Dante dette a questa domanda è che si tratta di una «cosa» che, dato un genere di cose, consente che queste siano misurate, soppesate, confrontate. Negli esempi dati al riguardo, e che concernono i numeri e i colori, la cosa che costituisce quel criterio è rispettivamente l’uno e il bianco. E il suo carattere è, per conseguenza, la semplicità. Del che dovrà naturalmente tenersi conto quando al ragionamento che sorregge l’interpretazione del passo occorrerà imprimere la necessaria energia. Se, per altro, giunti a questo punto, ci si chiede che cosa significhino le due linee nelle quali Dante precisò che il medesimo principio e criterio che affermiamo de hiis […] que quantitatem et qualitatem ostendunt, vale per ogni altro predicamento, e anche per la sostanza, la risposta non può essere semplice; perché non semplice, ma problematica, appare la loro decifrazione. Si lasci pure da parte, assegnandone l’oscurità al modo troppo veloce tenuto da Dante nell’alludere a questioni di per sé stesse intricate, la difficoltà offerta dal punto in cui è detto delle cose che quantitatem et qualitatem ostendunt; e ci si restringa a osservare che non si danno, nell’universo categoriale aristotelico, cose contrassegnate soltanto da quantità o da qualità, dal momento che non c’è sostanza sensibile che non sia predicata da tutt’intero l’arco costituito dai predicamenta, o, che si dica, categorie. Altresì si lasci da parte quel che più in questa sequenza reca sconcerto: e
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cioè la circostanza per la quale la categoria della sostanza è allineata con le altre, senza che al suo posto nella serie si assegni la preminenza e la priorità che, sia dal punto di vista logico sia da quello ontologico, si sarebbe dovuto assegnarle. Ma converrà invece, in sede di commento, soffermarsi su quel che in queste linee pur si dice con chiarezza, e genera, tuttavia, non poca sorpresa. E cioè sull’assunto che, non solo nelle categorie, ma anche nella sostanza, è possibile, e anzi necessario, ricercare e ritrovare quel principio semplicissimo, o, se si preferisce, la «cosa» semplice che, ritrovata, consente di condurre le operazioni necessarie al giudizio e al confronto. Se per «sostanza» s’intende qui ciò che fondamentalmente questo termine significa in Aristotele e nei suoi commentatori medievali, ne discende che assai problematico si rivela l’assunto secondo il quale, come nelle cose che si predicano della qualità e della quantità, così anche nella sostanza si dà quell’ἁπλοῦν, quel simplex, in forza del quale ogni altra cosa che si trovi in un genere è soppesata per sé stessa e paragonata con le altre che, anch’esse, vi siano incluse. Se, in effetti, si stesse alla definizione che a più riprese, nella Metafisica, Aristotele dette della sostanza, le cose da discutere sarebbero senza dubbio molte; e di non facile definizione e soluzione qualora s’intendesse, non già soltanto descriverle, ma pensarle nell’intrinseco, assumendone piena la responsabilità concettuale. Eppure, con un’eccezione26 che fra breve sarà indicata e che, se affrontata nel contesto, darebbe luogo anch’essa a difficoltà non lievi, sarebbe difficile negare che nell’insieme «sostanza» significhi, in e per Aristotele, «semplicità»; e che questa significhi «sostanza» (e in genere le categorie). La conseguenza è, se è così, che altamente problematico risulta l’asserto secondo cui, non la sostanza è semplicità, ma la semplicità è nella sostanza. L’asserto risulterebbe, del resto, non meno, ma altrettanto, sconcertante se, come del resto avviene in questo luogo del de vulgari, lo si riferisse alla quantità e alla qualità; e anche, si direbbe, nel caso in cui queste fossero prese, non di per sé e al di qua della sostanza di cui si predicano, ma, appunto, nel nesso con questa (che verrebbe perciò, in questo caso, a significare lo stesso che «materia» o «sostrato»). Prese e considerate di per sé, le categorie sono semplici, non potendo infatti essere altre da quel che sono. Ma semplice è altresì la sostanza, anche nel caso in cui, invece che come forma, la si prendesse nel senso di materia o di sostrato: come, infatti, la forma potrebbe essere altra dalla forma, e come, altre dalla materia e dal sostrato, potrebbero essere la materia e il sostrato? Ne consegue che, poiché in entrambi i termini non si ha se non semplicità, e il rapporto
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non potendo essere rapporto di semplici, di rapporto in questo caso non potrebbe parlarsi se non in modo metaforico e non rigoroso. Ma, e già lo si è accennato, anche se fosse riferito alla sostanza, l’asserto sarebbe sul serio insostenibile. Sia infatti che la sostanza sia presa nel senso di forma, sia che la si assuma in quello di materia o sostrato, sia ancora che la si intenda come il τόδε τι, sempre sostanza e semplicità si rivelano essere «lo stesso»: nel senso del non potere la prima, la seconda e la terza accezione implicare «cose» che possano stare «altrimenti» da come stanno e deviare, per così dire, dalla loro intrinseca necessità. Persino nel suo significato di sinolo, ossia di una situazione che, attraverso il σύν, dischiude l’idea delle parti e, perciò, del composto, persino in questo caso la sostanza non fa eccezione alla regola della semplicità. E, anche qui, per una ragione già vista; che torna in effetti a rendersi palese quando si consideri che, semplice essendo la forma, e semplice altresì la materia o sostrato, il rapporto che le stringe si configura come un rapporto del tutto sui generis: del quale, se proprio si volesse in questa sede rilevare l’interna aporeticità, dovrebbe comunque dirsi che è un rapporto originario e perciò, in questo segno, semplice. Resta comunque, al di là, o piuttosto al di qua, di questi svolgimenti e varie complicazioni, che «sostanza» è «semplicità»; che è infatti considerata come la stessa cosa della sostanza in quel luogo, 1017 b 10-14, dove a chiare lettere è detto che sostanza (οὐσία) si definiscono i corpi semplici (τὰ ἁπλὰ σώματα), per esempio la terra, il fuoco, l’acqua e ogni «altro» che sia della stessa natura; e sostanza altresì, e in generale, tutti i corpi e i loro composti, che tutti si dicono così, e cioè sostanze, in quanto, non predicati καθ’ὑποκειμένου, tutto il resto si predica di essi. Se la sostanza è semplicità, non è dunque possibile che questa sia nella sostanza; e riesce per conseguenza (si deve ribadirlo) poco chiaro il luogo dantesco in cui questo proprio si asserisce, o sembra che si asserisca: e cioè che, come in ogni altro predicamento, anche in quella, nella sostanza, può rinvenirsi il «semplice» che funge da criterio per le già viste operazioni di giudizio e di confronto. Il luogo dantesco riesce del resto poco chiaro anche per un’altra ragione: ossia per la tendenza che vi si rivela a contaminare categoricità e genere. Altro, infatti, è sostenere che, dato un genere di cose, in questo deve essercene una che, essendo semplice, funge da criterio di misurazione comparazione e giudizio: l’uno, per i numeri, il bianco, per i colori. Altro che, non solo nel genere, che è comunque un ambito, con estremi e μεταξύ, ma anche nelle categorie, che tutte sono semplici e
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non costituiscono un ambito in cui qualcosa possa aver luogo, abbia il suo luogo il «semplice». Se la sostanza è semplicità, non è dunque possibile che questa stia nella sostanza. È vero d’altra parte che il passo aristotelico, al quale prima si alludeva come a una sorta di eccezione, esiste, e potrebbe suggerire qualcosa di simile a quel che Dante accennò nelle linee che da tempo sono al centro dell’attenzione. Vero è anche, tuttavia, che si tratta di un luogo di difficile interpretazione; che, oltre tutto, niente autorizza a supporre che fosse stato tenuto presente da Dante nella stesura del suo testo. Il passo aristotelico è Metaph. Λ 1072 a 30-35; e vi si legge che, come l’intelletto è mosso dall’intelligibile (ὑπὸ τοῦ νοητοῦ κινεῖται) e intelligibili di per sé sono gli opposti (ἡ ἑτέρα συστοιχία), come in questo quadro la sostanza occupa la prima posizione, ma, in tale ambito, il primato spetta tuttavia alla sostanza che è prima e sempre in atto (ἁπλῆ ϰαὶ ϰατ’ ἐνέργειαν), così dovrà intendersi che vi siano sostanze alle quali la caratteristica della semplicità, che pleno iure appartiene alla πρώτη οὐσία, non può essere del pari assegnata. Questo luogo è, in effetti, difficile; e non è detto che, parafrasandolo nel modo che qui si è tenuto, se ne sia sul serio colto e reso il senso. Che Aristotele vi alludesse alla sostanza prima, e perciò a ciò che muove ed è eterno, può considerarsi certo. Che fra la sostanza prima e le altre egli distinguesse in forza dell’essere, quella soltanto e non queste, sempre in atto, questo pure è certo. Ma è altrettanto certo che la medesima distinzione fosse da lui operata nel segno, oltre che dell’attualità, anche della semplicità? Questo punto resta in dubbio. Non è forse evidente che se, anche nel segno di quest’ultima, Aristotele avesse distinto, in nessun modo sarebbe stato possibile tener fermo alla medesimezza di semplicità e sostanza, sostanza e semplicità, da lui più volte affermata e ribadita in altre parti della Metafisica? Non può dirsi dunque che la linea dedicata da Dante alla sostanza si lasci intendere con facilità, e a colui che la interroghi esprima con chiarezza il suo senso. Nemmeno, e lo si è visto, può dirsi che a una migliore comprensione di questo giovi il confronto con quel che della sostanza è detto da Aristotele nella Metafisica. Ma si danno, nel passo del de vulgari eloquentia, altre difficoltà. Si consideri, per esempio, quel che, operato nel modo che s’è visto l’accenno alla sostanza, Dante osservò intorno a unumquoque mensurabile sit, alla «cosa» dunque, al genere e a ciò che in esso si trovi con il carattere del simplicissimum. Poiché questi sono gli elementi
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in gioco, «in actionibus nostris, quantumcunque dividantur in species, hoc signum inveniri oportet quo et ipse mensurentur». Le cose stanno in un genere e qui si dividono in specie: ne deriva che occorre andare alla ricerca di qualcosa che consenta di misurarle. A prender forma è perciò il concetto della differenza specifica. E qui il discorso torna subito a farsi difficile: non perché non sia chiaro quel che Dante intese dire, ma perché il concetto della differenza specifica da lui messo in campo non ha, a rigore, con quello aristotelico, se non vaghi punti di contatto. In Aristotele, e proprio nel libro I della Metafisica, che sembrerebbe esser quello che, in queste linee, Dante tenne in particolar modo presente, la differenza specifica è presentata, non come un oggetto che, posto fra due cose, le distingue, ma come il distinguersi di queste, il loro essere, ciascuna, altra dall’altra, senza che di questo puro «esser altro» possa e debba cercarsi la consistenza ontologica. Se, pur senza la pretesa di scendere, in questa sede, verso la radice, se ne volesse la conferma, non si avrebbe che da leggere, in I, 1057 b 35-37, le parole con le quali Aristotele chiarì che τὸ δ’ἕτερον τῷ εἴδει τινὸς τὶ ἕτερόν ἐστι, ossia che quel che è diverso per specie è diverso da qualcosa in qualcosa: essendo necessario che ad entrambe le cose che si rivelano diverse questo sia comune o, che si dica, appartenga: δεῖ τοῦτο ἀμφοῖν ὑπάρχειν: questo, e cioè l’esser diverso. Se, quindi, la differenza specifica presuppone il genere, e soltanto in questo può aver luogo, se per genere s’intende ciò nel cui ambito ciascuna cosa, ossia questa cosa e quella stanno come tali che in sé stesse, μὴ κατὰ συμβεβηκός, si differenziano, la conseguenza evidente di questo modo di concepire τὴν διαφοράν è che, essendo e l’una e l’altra identicamente cose, ciascuna è in sé stessa diversa dall’altra: con quel che ne deriva, e cioè che fra l’una cosa e l’altra la differenza, essa, è non già un terzo, ma è l’identità dell’una e dell’altra che, ciascuna in sé, rivela la differenza. Che, per esempio, due animali, si dica l’uomo e il cavallo, siano diversi è, per così dire, conseguenza dell’identità di ciascuno; perché è appunto in forza del loro κοινόν, e cioè del loro essere entrambi animali, che l’uno tuttavia non è l’altro, che, in sé stesso, l’uno si differenzia dall’altro.27 Per quanto riguarda Aristotele, e certo quel che è stato detto è ben lontano dall’essere ciò che avrebbe dovuto, basti così: essendo infatti risultato con evidenza quel che premeva mettere in chiaro, e cioè che, per lui, la differenza non è un terzo; e tanto meno in quanto si pretendesse, o si fosse preteso, di assegnarle, addirittura, la consistenza ontologica di un oggetto. Ma, senza che perciò la distanza fosse voluta, e si riveli assoluta, in Dante
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le cose vanno in modo assai diverso. Presso di lui, in quanto dividantur in species, e siano perciò diverse, nelle nostre azioni occorre trovare un signum con il quale sia possibile riconoscerle e misurarle. E questo signum è esso la differenza specifica; che non coincide tuttavia, come in Aristotele, con l’identico differenziarsi delle cose incluse nel genere, ma si identifica invece in quel simplicissimum che, a sua volta, costituisce il criterio in forza del quale il bene si differenzia dal male, quel che è conforme al positivo comportamento civile da quel che, non a questo è conforme, ma all’opposto, il nobile (vedremo) dal non nobile. Questo signum, questo criterio distintivo e discriminativo è perciò, a tutti gli effetti, non già il puro differenziarsi nell’identico dell’identico, in cui Aristotele aveva indicata la differenza specifica, ma è invece qualcosa che in senso stretto pertiene a un altro mondo di valori: non ontologici (o logico/ontologici), ma etici piuttosto, e, se si vuol dire così, estetici. Questo signum è la virtù, quando le azioni da giudicare, e cioè da dividere e discriminare secondo il valore che a queste è intrinseco, siano le nostre, di uomini in quanto uomini. È la legge, quando le azioni siano bensì ancora di uomini, ma, secondo la specificazione dantesca, di homines cives, di cittadini. E in quanto invece, non come uomini in generale operiamo, e nemmeno come cives, ma come italiani, a distinguerle, le azioni che questi compiano, a differenziarle, a descriminarle, sono determinati costumi, determinate abitudini, determinate loquele: tutte cose, insomma, che in sé stesse lasciano trasparire una simplicitas, una tonalità, uno stile, che, senza appartenere a un costume, a un’abitudine, a una loquela, vi sono presenti tuttavia e di lì diffondono, al pari della pantera, il loro profumo. Non è certo senza intenzione che a questi signa Dante appose il superlativo simplicissima, che ha infatti valore, non generico, ma tecnico, stando appunto a significare quel segreto κοινόν, quell’anima segreta che, poche linee più oltre, identificherà addirittura in Dio, simplicissima substantiarum, che in homine magis redolet quam in bruto, e così via. Così, come si vede (e quale che fosse, o riuscisse a essere, la specifica coerenza del suo discorso), il ragionamento che in questo luogo Dante svolse intorno alla differenza specifica, si allontanava in modo deciso, se ne rendesse conto oppure no, da quello di Aristotele. Non solo, a differenza di quanto avveniva in quest’ultimo, dava luogo a un terzo (la virtù, la legge, i costumi) che, ponendosi fra una cosa e un’altra, le separava e discriminava secondo il valore che a questo si rivelava intrinseco. Ma il valore che conferiva al terzo era non tanto ontologico, o, se si preferisce,
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logico/ ontologico, ma etico, piuttosto, come si è detto; e, nel caso delle lingue, estetico, connesso cioè alla loro bellezza o bruttezza, gradevolezza o sgradevolezza. Il mutamento che in tal modo egli provocava nel quadro aristotelico era tanto più notevole quanto più questo fosse stato, nelle grandi linee, tenuto presente e assunto come fondamento. E non importa che l’esempio della virtus quale criterio discriminativo delle azioni, e elemento «semplicissimo», egli lo deducesse, piuttosto che dalla Metafisica, dall’Etica nicomachea e ancor più, forse, dal commento tomistico di quest’ultima.28 A rendere possibile l’utilizzazione di quest’opera in un quadro categoriale che avrebbe dovuto invece sconsigliarla fu infatti proprio il mutamento che, intenzionalmente o no, Dante vi aveva introdotto. Fu la ritraduzione in termini etici ed estetici di quel che in Aristotele non presentava, nei confronti della differenza, altra valenza che logica. E di questo converrebbe, nel commento che si tornasse a fare di questo luogo del de vulgari eloquentia, tenere conto adeguato. Poiché Dante aveva ragionato in modo tale che il volgare illustre aveva finito col configurarsi come quel tratto comune alle parlate municipali italiane che, proprio perché è comune, sta in tutte e in nessuna, sta in nessuna e in tutte, la difficoltà di afferrarlo andava al di là del riconoscimento che si fosse infine ottenuto della natura propria del «luogo/non luogo» in cui aveva occultato sé stesso. Il quale «luogo/non luogo» non era infatti, e in ultima analisi, un luogo ulteriore ai luoghi in cui, dividendovisi, l’Italia mostrava il suo variopinto volto linguistico. Ma coincideva piuttosto con quel tratto comune, con quel signum simplicissimum, che, per la sua natura intrinseca, era come se sottendesse ogni luogo, e lì facesse sentire la sua indiretta presenza. Era come se, in altri termini, quel segno semplicissimo e comune avesse via via, nel tempo, acquisito determinazioni molteplici che, dando luogo alla varietà delle parlate italiane, lo avevano, invece di arricchirlo, soffocato, discacciato, reso irraggiungibile. Era come se, per risalire al primo esempio, comportamenti vari e difformi a tal punto avessero oscurato il volto puro della virtù da renderlo irriconoscibile; ed era altresì come se, per ridiscendere al secondo esempio, un simile trattamento avesse, dalle cose storiche e naturali, ricevuto la legge, oscurata anch’essa dalle violenze subite e incapace perciò di riemergerne imponendo il suo imperio. Era infine come se, alla virtù, alla legge, al volgare illustre del quale andava in cerca, Dante avesse pensato come a qualcosa che, non storico in sé ma «ideale», al potere alterante e deformante e snaturante della storia non
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avesse potuto sottrarsi: al punto di rendersi invisibile agli occhi dei più così com’era ormai del tutto inconsueto alle orecchie di questi. La conseguenza era dunque che, mentre da una parte egli teneva fermo all’idea della naturalità e storicità delle lingue, da un’altra questa idea si configurava ai suoi occhi con su impresso un forte segno negativo: quasi che storia non potesse per lui, in ultima analisi, significare se non deformazione, degenerazione, corruzione. È difficile, e sarebbe comunque procedimento contrassegnato da una tal quale violenza e arbitrarietà, cercar di stabilire il nesso che, nella coscienza di Dante, legava insieme questa sua rappresentazione delle vicende linguistiche con l’idea della storia delineata nel quarto trattato del coevo Convivio. Resta comunque che il concetto secondo cui alla storia dovesse essere attribuito il corrompimento delle lingue agiva con forza irresistibile in queste sue pagine. E a tal punto dischiudeva l’immagine di ciò che è negativo che, per intrinseca necessità, non poteva non richiamare il tema opposto: quello del rimedio. Il quale non avrebbe potuto consistere, se questa era la logica del discorso, se non nel procedere in senso inverso a quello seguìto dalle cose storiche e naturali nel loro sviluppo, nel risalire la corrente fino ad arrivare alla sorgente, nella quale le acque sono limpide e incontaminate e chiare. Naturalità e storicità dei processi, dunque, da una parte. Ma, da un’altra, non naturalità, non storicità; quanto, piuttosto, in luogo di queste, la richiesta di un esercizio puramente intellettuale volto a far cadere quel che la storia aveva accumulato sulle lingue in modo che, finalmente, potesse emergerne il tratto comune e nobile che, al pari della famosa pantera, era stato come sommerso e reso invisibile dal peso deformante delle determinazioni via via acquisite da quelle. «Intuearis ergo, lector, actente quantum ad exaceranda egregia verba te cribrare oportet: nam si vulgare illustre consideres, quo tragici debent uti poete vulgares, ut superius dictum est, quos informare intendimus, sola vocabula nobilissima in cribro tuo residere curabis» (II vii 3-4). Il discorso non è stato breve; e molto, del resto, ci sarebbe ancora da dire. Ma era necessario, e si doveva affrontarlo, perché si arrivasse a capire quale, nella mente di Dante, potesse essere il linguaggio epico che Virgilio usò per indurre Ulisse a fermarsi e a raccontare come e dove la sua vita avventurosa si fosse conclusa. Se, come niente esclude che possa ritenersi, il modello del volgare illustre era ancora presente nel poeta della Commedia, se agiva nella sua mente e produceva conseguenze nella sua fantasia, dovrà allora pensarsi che, nel costruire il suo discorso, il personaggio Virgilio
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non procedesse in modo diverso da quello tenuto dai poeti, che Dante aveva citati nel de vulgari eloquentia, quando composero i loro versi volgari, che di molto infatti si innalzarono, per dignità ed eleganza, sulle parlate municipali della loro vita privata. In altri termini, la lingua del discorso che Virgilio rivolse a Ulisse non fu da lui ottenuta se non attraverso un’opera di sceveramento del buono dal cattivo, della parola originariamente pura da quelle che ad essa si erano aggiunte deformandola; un’opera che in tanto poté essere eseguita da lui in quanto a lui era accaduto di saper pervenire a quel che in essa era rimasto sepolto e nascosto. Un’opera, dunque, di archeologia linguistica, necessaria al reperimento dell’originario perduto. Un’opera altamente intellettuale, movente sé stessa nella direzione opposta a quella seguita dalla storia. E certamente artificiosa; che, in quanto tale, può anche pensarsi che con questo carattere apparisse a Dante quando vi tornava sopra con la mente, inducendolo a non insistervi e a lasciare interrotta l’opera in cui aveva preso a svolgerla, ma che non per questo dovrà ritenersi che l’avesse ripudiata e, dentro di sé, confutata anche in questa parte concernente il volgare illustre. Se non l’aveva confutata, e l’idea che s’era fatta di quel volgare seguitava ad agire dentro la sua mente, può ben pensarsi che alla tensione intrinseca allo sceveramento del nobile dal non nobile, del bello dal brutto, corrispondesse quella che non poteva non appartenere alla situazione altamente epica che egli stava evocando, e nella quale, anzi, era ormai immerso. Può ben pensarsi che, caduta quest’ultima con la conclusione del discorso di Ulisse, anche l’altra cadesse; e, all’improvviso, ne emergesse la battuta crudamente lombarda che tanto filo da torcere ha dato agli interpreti. Quando disse a Dante che sarebbe stato lui a rivolgere la parola a Ulisse per indurlo a narrare quel che il suo discepolo tanto desiderava di sapere, Virgilio usò, per giustificare la sua decisione, un argomento, non linguistico, ma culturale e, potrebbe aggiungersi, addirittura sociologico. Disse infatti che, «perché fuor greci», del «detto» di Dante i due eroi sarebbero stati «schivi». Che cosa significa questa espressione? E a quale fama propriamente qui Dante alluse? Che, letteralmente l’espressione rinvii a una sorta di ritrosia e, comunque, di superba diffidenza che, se a loro fosse stata diretta da Dante una domanda, essi avrebbero dimostrata e resa palese nella risposta, è più che probabile: quale che poi sia il modo in cui tale ritrosia debba essere intesa, come implicante la superba diffidenza o, semplicemente, la diffidenza. Si sono al riguardo, da parte dell’antica glossa e
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della moderna, invocate molte ragioni: tutte, per altro, convergenti nell’assunto della fama negativa dei Greci, considerati, nel Medioevo, infidi oltre che superbi, mendaci oltre che orgogliosi, e così via.29 Al luogo comune di questa fama negativa Dante, si disse e, per lo più, si dice, non ebbe niente da obiettare; e nella sostanza, anzi, la confermò. Che, per altro, sia così, o soltanto così, c’è ragione di dubitare; e l’iscrizione di Dante al partito antigreco richiede di essere considerata con qualche cautela. Certo, la fama dei Greci come superbi, orgogliosi, mentitori, ingannatori, era saldamente affermata nella cultura medievale. E, del resto, per averne una conferma, solenne e, per così dire, estrema, non c’era che da rivolgersi all’Eneide, che di quella fama negativa fu autorevole fonte: senza dire che un riscontro eloquente di essa poteva ben essere indicato nelle imprese di Ulisse e di Diomede che, come maestri di inganni e di frodi, si trovavano nell’ottava bolgia. Può aggiungersi che un ulteriore riflesso di questa fama si avverte, anche se per la verità il luogo non sia fra i più significativi, in Inferno XXVIII 84; e in un altro di Un dì si venne a me malinconia, v. 6: un verso che, sia pure che, come intese il Contini, alluda alla superbia dei Greci e anticipi perciò le «cautele di Virgilio […] innanzi a Ulisse»,30 ma che certo non può essere interpretato come se dal suo interno derivassero, e lì si riflettessero, i temi antigreci che alcuni testi, dottamente addotti, documentano. «Ed ella», dice il verso dantesco, «mi rispose come un greco». Se ne può forse dedurre quel che, per esempio, si legge nell’Anonimo genovese, «quasi ogni greco per comun/ è lairaor [latratore], necho [malvagio], e soperbo»; o che tutti sono «fieri e oltraggiosi», come li definisce la Istorietta troiana31 e, in sostanza, anche il Tesoretto, vv. 2591 ss. ribadisce? Più di quel verso, che per certo è opera di Dante e riecheggia un topos, un giudizio passato in proverbio, varrebbe allo scopo la lirica trilingue che gli fu attribuita e che, quasi con certezza, invece, non gli appartiene: Aï faux ris, pour quoi traï avés oculos meos? Et quid tibi feci, che fatta m’hai così spietata fraude? Iam audivissent verba mea Greci. E selonch autres dames vous savés che ’ngannator non è degno di laude.
Se, per altro, come il Contini ebbe a osservare,32 il «discorso attribuito a Dante non costituisce se non una prova d’abilità intorno alla situazione
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convenzionale della donna impietosa», e si mantiene tutto entro questi confini, tanto più il riferimento ai Greci e alla loro infida natura fraudolenta appare esso stesso convenzionale e, nel caso specifico, poco impegnativo. Al contrario, dunque, di quel che necessariamente doveva accadere nel ventiseiesimo dell’Inferno, dove l’altezza tragica e la complessità concettuale che Dante incontrava fuori e dentro di sé ben altra attenzione richiedevano da lui. Che, in altri termini, ogni connessione alla media e vaga proverbialità dei luoghi comuni fosse, in questo canto, esclusa dall’altezza dell’argomento e dalla decisione presa da Virgilio di far tacere Dante e di parlare lui, che nel mondo aveva composto gli «alti versi», è, se non si perde di vista il suo centro, evidente. La decisione, in effetti, di restituire Ulisse alla sua dimensione epica e tragica di colpo dissolveva l’altra, quella della vaga e media quotidianità, intessuta di proverbi e luoghi comuni. E al lettore imponeva tutt’altro compito da quello che si fosse considerato assolto quando, dell’essere i due eroi «schivi», forse, del «detto» di Dante, si fosse indicata la causa nella diffidenza e persino nella loro disposizione all’inganno. Deve perciò considerarsi come una grave caduta del gusto e, dispiace dirlo, dell’intelligenza, la tesi dello studioso che, nelle parole rivolte da Virgilio all’eroe greco, colse il segno dell’«evidente antipatia» e dell’«ironico sarcasmo»,33 aggiungendo, e l’ironia fu questa volta, sua e soltanto sua, che bene aveva meritato di Ulisse il poeta che nell’Eneide, aveva scritto versi come questi:
Omnis spes Danaum et coepti fiducia belli Palladis auxiliis semper stetit. Impius ex quo. Tydides sed enim scelerumque inventor Ulixes, fatali adgressi sacrato avellere templo Palladium, caesis summae custodibus arcis, corripuere sacram effigiem manibusque cruentis virgineas ausi divae contingere vittas, ex illo fluere ac retro sublapsa referri spes Danaum, fractae vires, aversa deae mens.34
In realtà, trattandosi di studiosi di tanta esperienza e dottrina, sarebbe persino irriguardoso se li si invitasse a considerare che, appartenenti a Virgilio, questi versi sono espressione dello sdegno dolente dell’eroe a cui Didone aveva imposto di infandum renovare dolorem. E che questo fosse il suo sentimento, che il ricordo dello scelerum inventor nell’animo di
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Enea, e di riflesso, se si vuole, in quello di Virgilio, suscitasse raccapriccio e orrore, è ovvio. Ma è pur vero, e altrettanto ovvio, che il poeta che nella Commedia ricordava a Ulisse e a Diomede gli «alti versi» dedicati da lui alle loro imprese era bensì l’autore dell’Eneide, ma anche era, e lo era anzi in primo luogo, un personaggio del poema di Dante: sì che sarebbe ben singolare se fra i due non si tenesse ferma la distinzione e all’uno si assegnassero i sentimenti dell’altro. Nei versi del secondo dell’Eneide non c’è, naturalmente, né ironia né sarcasmo; e di struggente malinconia è fatta la sostanza del canto poetico che vi si espande. Ma, per non parlare dell’antipatia, l’ironia e il sarcasmo non appartengono nemmeno al personaggio che nella Commedia si chiama Virgilio: nelle cui parole si avverte se mai, prima facie, la cautela e la circospezione che a lui appariva necessario esercitare nei confronti di due eroi, greci, e di così grande fama. Dopo di che, resta pur sempre da spiegare in che senso Dante dicesse che, in quanto greci, Ulisse e Diomede sarebbero forse stati «schivi» del suo «detto». Il senso di questa espressione non può infatti esser colto, con immediatezza, mercé l’assunto che anche per Dante la Grecia era terra di menzogne, e superbi crudeli nefandi erano coloro che la abitavano: come se con piena evidenza queste fossero le note del concetto espresso dall’aggettivo «schivi» e, per renderle evidenti a chiunque, altro non occorresse che indicarne la presenza dietro il velo, e, squarciato questo, esporle alla luce del sole. In realtà, al «soggetto» che nel ventiseiesimo dell’Inferno assunse i nomi di Ulisse e di Diomede quei predicati non appartenevano e non erano riferibili. O meglio, non lo erano al primo dei due e al racconto che egli faceva delle sue estreme, fatali imprese. Se, al contrario, si pensasse che gli appartenessero e gli fossero riferibili, se si ritenesse che, nella sua ultima avventura, la nobiltà delle parole e dei concetti non fosse stata che il vano manto sotto il quale, con la menzogna, all’opera erano la crudeltà e la nefandezza, la superbia e l’inganno, allora, certo, nel punto dell’impropria confluenza dell’immaginario e dell’iperrealistico, a prodursi sarebbe stata una singolare assurdità. L’immaginario dev’essere ammesso nel suo carattere extra-, per così dire, realistico, perché così il testo impone; e fu Virgilio, infatti, che, nel rivolgersi ai due greci, dette per ovvio e scontato che entrambi avessero letto il suo poema e si fossero, al riguardo, scambiati giudizi e opinioni. Ma anche deve esserlo nel dato realistico che, quale che sia, si assume costituisca il suo contenuto: in modo tale che se, nell’immaginario dantesco si
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ritenesse operante l’opinione che ritrae i Greci come mentitori, crudeli e nefandi, ecco allora che Virgilio si mostrerebbe ben ingenuo nel credere che proprio a lui che così l’aveva dipinto, lo scelerum inventor Ulixes, il maestro degli inganni e dell’empietà, dovesse e potesse confidare «dove per lui, perduto, a morir gissi» (v. 84). In effetti, da questo presunto intreccio di sentimenti ostili, di ironie, di sarcasmi, un tono di suprema meschinità deriverebbe al canto, che da tutt’altro carattere è invece segnato. Attraverso la fictio per la quale Ulisse e Diomede sanno di Virgilio e del suo poema, a dischiudersi è una grande scena epica e tragica, che non tollera l’intromissione e la presenza di cose ambigue e meschine, recanti sopra di sé il segno dell’insinuazione e dell’inganno. Del «detto», che Dante avesse loro rivolto, Ulisse e Diomede si sarebbero ritratti, non perché, genericamente, furono greci. Ma perché, in primo luogo, furono Ulisse e Diomede: greci bensì, senza dubbio, ma viventi nella dimensione epica ad essi conferita da Omero. Di varcare la soglia e di entrare nel tempio in cui, malgrado la loro condizione di dannati, essi tuttavia in qualche modo seguitavano a soggiornare, a Dante non era concesso. Per guardare dentro a quel mondo, gli occorreva che il suo occhio fosse potenziato da quello di Virgilio. Per ascoltare la voce dell’eroe greco, era necessario che a rispondere questo fosse sollecitato dalla domanda di Virgilio. Con una mossa drammatica di eccezionale intensità, Dante preparò in tal modo la scena e pose la condizione del racconto. Attraverso le parole, scabre e solenni, di Ulisse, delineò l’immagine di una Grecia epica quale soltanto un genio suo pari poteva, con materiali a disposizione così modesti, imprimere per sempre nella mente e nella fantasia dei suoi lettori dopo averla, quasi miracolosamente, concepita nella mente e nella fantasia sue. In realtà, se, invece di inseguire proverbi e luoghi comuni, anche a questo riguardo si tenesse conto di quel che, a proposito della cultura e della poesia greca, si trova scritto nelle sue opere, e nella stessa Commedia, non dovrebbe tardarsi a comprendere che dell’una e dell’altra Dante ebbe il più alto concetto, che all’una e all’altra costruì, nella sua mente, un autentico altare. Che di Omero conoscesse solo qualche verso, volto in latino dagli scrittori a lui noti, e per l’alta opinione che aveva di lui debba rinviarsi alle fonti nelle quali la trovava delineata e attestata, è ben noto. E noto è altresì che del non averlo a disposizione in latino si consolò, nel Convivio, osservando che in tanto dei suoi poemi non era stato possibile
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fornire la versione latina in quanto «nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza e armonia» (I vii 14-15).35 Ma l’alta opinione che s’era fatta di lui come «sire» di ogni altro poeta, greco e latino, la potenza fantastica con la quale la venne intensificando dentro di sé, il mito che costruì della sua grandezza, – tutto questo lo condusse a delineare un’idea del mondo classico e, in special modo, della Grecia che, quanto meno era da lui conosciuta per diretta esperienza delle sue opere, tanto più sollecitava la sua capacità di immaginazione. Alla domanda che, nel ventiduesimo del Purgatorio gli fu rivolta da Stazio («“tu dunque, che levato hai il coperchio/ che m’ascondeva quanto bene io dico,/ mentre che del salire avem soverchio,/ dimmi dov’è Terrenzio nostro antico,/ Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:/ dimmi se son dannati, e in qual vico”»,36 la risposta di Virgilio andò ben oltre il piano della semplice enumerazione dei nomi che pure vi figurano e vi sono contenuti. Nella ripresa del tema che può esser detto del Limbo si avverte in effetti una vibrazione profonda, che si vorrebbe dire determinata da un desiderio di conoscenza e di possesso, tanto più intenso e struggente quanto più lo si sapesse irrealizzabile:
‘Costoro e Persio e io e altri assai’ rispuose il duca mio, ‘siam con quel greco che le Muse lattar più ch’altri mai, nel primo cinghio del carcere cieco: spesse fiate ragioniam del monte che sempre ha le nutrici nostre seco. Euripide v’è nosco e Antifonte, Simonide, Agatone e altri piùe greci che già di lauro ornar la fronte. Quivi si veggion de le genti tue Antigonè, Deifilè e Argia, e Ismenè sì trista come fue. Vedeisi quella che mostrò Langìa evvi la figlia di Tiresia e Teti e con le suore sue Deidamìa’.
Per la seconda volta, nella Commedia, Omero è il «sire», è il «greco/ che le Muse lattar più ch’altri mai»; e dopo l’accenno ai poeti latini, della cui sorte Stazio aveva chiesto notizie, e a Persio,37 l’elenco virgiliano non comprende se non nomi di poeti e di personaggi ellenici. Non è questa la sede nella quale possa esser ripreso, e discusso, il concetto che, tante
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volte e da più parti, è stato delineato e proposto dell’umanesimo, o del preumanesimo, di Dante. Chi scrive deve confessare che per questioni siffatte non ha mai avuto, e meno che mai ha ora, reale interesse; e, a risolverle, nessun talento. Gli sembrano altrettanto retoriche che oziose (e si inverta, se si vuole, l’ordine degli aggettivi). Ma la percezione che Dante ebbe prepotente della grandezza della Grecia, questa sì che non può non colpire e, qualunque talento si abbia nel segnarne il carattere, non suscitare interesse. È quella, è la percezione che egli ebbe della grandezza di Omero e degli altri, che conviene richiamare quando ci si trovi di fronte alle parole che, decidendo di esserne lui l’interlocutore, Virgilio rivolse a Ulisse perché questi dicesse «dove per lui, perduto, a morir gissi». Postilla La ragione per la quale a Ulisse Virgilio si rivolse in lombardo fu oggetto, da parte di Antonino Pagliaro, di una spiegazione acuta e ingegnosa: anche se forse, in questo caso, più ingegnosa che acuta. Va da sé, ma dev’essere tenuto presente, che, a suo giudizio, non soltanto nel congedo Virgilio si servì di quel volgare, ma anche nell’esordio; non soltanto quando disse «istra ten va, più non t’adizzo», ma anche prima, quando, per indurre Ulisse al racconto, gli ricordò i suoi «alti versi». Che in questa lingua sempre Virgilio avesse parlato a Ulisse, non è tesi che qui su sia stata condivisa. Al contrario. Ma l’interpretazione del Pagliaro merita di essere esaminata: senza dunque che, criticata nella sua premessa, non ci sia più ragione di esaminarla nella conseguenza che egli ne trasse. Il Pagliaro sostenne che, decidendo di far parlare a Virgilio il volgare della sua terra lombarda, Dante avrebbe inteso assegnarlo a un’area linguistica, geografica e storica non sospettabile di aver mai ospitato in sé città inclini a simpatie filotroiane, che necessariamente sarebbero riuscite sgradite a colui che del «superbo Iliòn» era stato il più strenuo nemico e, da ultimo, il distruttore. Di qui la necessità, per Dante, di rivedere la questione dell’origine di Mantova e di correggere la tesi che, al riguardo, proprio Virgilio aveva esposta nel decimo dell’Eneide. Come fiorentino, Dante era latino; come latino, discendente di Enea. Non era perciò il caso che fosse lui a rivolgere la parola a Ulisse. Ma perché a rivolgergliela potesse, pleno iure, essere Virgilio, occorreva che Mantova, la sua città natale, fosse esclusa dal numero delle città etrusche che avevano concesso il loro aiuto ai Troiani, e collocata «nell’area che avrà più tardi il nome di Lombardia» (Pagliaro, Ulisse, p. 444). Ancora. Perché questo risultato fosse persuasivamente raggiunto, era indispensabile che la tesi condivisa nell’Eneide, quella secondo cui sarebbe stata la tebana Manto, figlia di Tiresia, la fondatrice della città che da lei aveva preso il
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nome di Mantova, fosse criticata, nella Commedia, dal poeta che l’aveva accolta e accreditata. Nell’Eneide, 10, 198-203, si leggono, e Dante leggeva, queste linee: Ille etiam patriis agmen ciet Ocnus ab oris, fatidicae Mantus et Tusci filius amnis, 200 qui muros matrisque dedit tibi, Mantua, nomen, Mantua dives avis, sed non genus omnibus unum: gens illi triplex, populi sub gente quaterni, ipsa caput populis, Tusco de sanguine vires.
Qui, dunque, Virgilio aveva scritto di Mantova come di una città che, fondata da Ocni, figlio di Manto e del fiume Tosco (Tusci amnis), vantava innanzi tutto sangue etrusco: ipsa caput populis, Tusco de sanguine vires. E Dante che, secondo Pagliaro, a quel punto già aveva nella mente Ulisse, e, in sé stesso, ne dibatteva la questione in tutti i suoi aspetti, si trovava nella necessità, volendo che quello fosse interpellato da uno che non ne suscitasse la diffidenza o, addirittura, l’ostilità, di modificare il rapido racconto virgiliano, strappando Mantova all’area etrusca. Di qui, dunque, la correzione che egli in effetti gli apportò: di qui, e non, come per lo più si intese, dalla sua volontà di assegnare alla città del suo maestro e autore un’origine più nobile di quella che potesse essere riconosciuta in Manto: ossia in un’indovina, in una grave peccatrice, volta con le sue arti a sconvolgere il sacro ordine della natura: insomma, in una figura, sotto ogni punto di vista, perversa, e degnamente, perciò, condannata nell’Inferno. Ebbene, chi ha ragione? Il Pagliaro che ritiene che Dante pensasse a Ulisse e che, in vista dell’episodio che lo avrebbe avuto protagonista, preparava il terreno? Oppure i critici che, incapaci di così sottili connessioni, si attennero a quel che più, in effetti, sembra evidente? In realtà, se alla luce della diversa interpretazione proposta dal Pagliaro, si torna sui vv. 52-102 del ventesimo canto dell’Inferno, non si direbbe proprio che l’altra, di gusto razionalistico, accennata qui su, meriti di essere abbandonata. Si direbbe, in effetti, il contrario. Manto vi è rappresentata come una «vergine cruda», ossia crudele, dedita, come Dante aveva appreso da Stazio, a feroci riti e sortilegi, a magiche frodi: un’inquietante creatura, dunque, che, avendo incontrata, dopo molte peregrinazioni, una terra «nel mezzo del pantano/ sanza coltura e d’abitanti nuda» (vv. 83-84), «lì, per fuggire ogne consorzio umano,/ ristette con suoi servi a far sue arti,/ e visse, e vi lasciò suo corpo vano» (vv. 85-87). Senza dunque che l’indovina avesse provveduto a fondare alcuna città, la sua vita trascorse in quel luogo inospitale fino al momento della morte; e solo dopo che questo evento si fu prodotto, Mantova fu fondata da uomini «che ’ntorno erano sparti». Dall’indovina greca essa non derivò dunque se non il nome; che le fu dato in omaggio per aver quella trascorso, nel luogo in cui poi la città fu fondata, un tratto ragguardevole della sua vita. Se è così, che cosa si ricava, da questo testo, che possa recare qualche conforto alla tesi del Pagliaro? In realtà, la puntigliosità che Dante mise nel far sì che,
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senza dirlo, fosse lo stesso Virgilio a confutare la tesi che, circa la fondazione di Mantova, era stata esposta nell’Eneide, non sembra possa essere connessa ad altro che alla sua volontà di ricondurne l’origine a qualcosa di, non mitico, ma razionale. Altro non sembra possibile vedervi: meno che mai il sotterraneo annunzio di un tema destinato ad essere svolto nel canto di Ulisse. Ma tant’è: altro è quel che il Pagliaro vi ha visto. Altro, e cioè proprio quel sotterraneo annunzio. Il che importa una conseguenza, alla quale non può sottrarsi chi abbia deciso di esaminare la sua tesi e di non respingerla se non dopo averla soppesata in ciascuno dei suoi aspetti, in ciascuno dei suoi possibili sviluppi. Poiché non si dà, nella immediata materialità (o se si preferisce: letteralità) del testo, niente da cui possa essere confermata, ma niente, altresì, da cui possa positivamente essere contraddetta, ecco dunque che esaminarla in un ulteriore contesto si rende necessario: per decidere quale sorte sia per avere in questo. Una sorte, per la verità, non propizia al suo mantenimento. Se, nel prospettare diversamente da Virgilio la questione dell’origine di Mantova, lo scopo era di far vedere come in effetti la città fosse nata, non greca o etrusca, e perciò connessa ai Troiani, ma lombarda e soltanto lombarda; se questo scopo fosse stato perseguito in vista dell’altro, consistente nel liberare il futuro interlocutore di Ulisse dal fondato sospetto che i suoi antenati avessero avuto a che fare con il «superbo Iliòn», ebbene, nessuno potrebbe dire che lo scopo fosse stato raggiunto. Sia pure che, come il Pagliaro propose e intese, Virgilio fosse etnicamente lombardo, e in quanto tale, nonché parlante quel particolare volgare, non suscettibile dunque di attrarre su di sé l’ostilità di Ulisse. Sia pure. Ma, palesemente, etnos e lingua non bastano a definire una personalità; né può pretendersi che confini di quella natura possano contenerla e esaurirla in sé. Sebbene fosse lombardo, ed esprimentesi nel conseguente volgare, Virgilio era l’autore dell’Eneide, il rivendicatore dei Troiani vinti nella prospettiva e nella dimensione del loro provvidenziale riscatto nel cielo romano. Era, senza dubbio, anche un personaggio del poema dantesco: ma conservando in questo alcuni suoi caratteri essenziali, che anche il suo autore, del resto, condivideva, per questa ragione non effimera avendolo eletto a suo «maestro» e «duca». Come, se è così, potrebbe immaginarsi che, nel peculiare tempo che è proprio dell’al di là, Ulisse non sapesse di Virgilio, dell’Eneide, e della scelta «ideologica» che, nello scriverla, quello vi aveva compiuta della parte troiana? Come si potrebbe immaginarlo, se fu proprio Virgilio a informarlo degli «alti versi»? È noto, fu Dante stesso a spiegarlo in Inferno X 94 ss, che i dannati antevedono con chiarezza le cose appartenenti al più lontano futuro, ma non altrettanto bene quelle che sono a loro più vicine: così Cavalcante de’ Cavalcanti non sa se il figlio Guido sia, mentre avviene il suo incontro con Dante, vivo o morto. Non c’è prova, per altro, che, a giudizio di Dante, anche il passato si contraesse e si facesse presente nel loro attuale guardare; o se questo comunque lo discernessero nelle sue più remote età così come, spingendosi oltre il presente, gli era dato di
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afferrare quel che soltanto al più lontano futuro apparteneva, e in esso soltanto, avrebbe preso forma. Che, in ogni caso, in forza della fictio dell’oltretomba, Dante immaginasse che Ulisse sapesse di Virgilio, e del poema che da lui era stato scritto, già si è detto perché si debba tenerlo per fermo. E se è così, è chiaro allora perché, per questa, sopra tutto, più stringente ragione, la tesi del Pagliaro non possa essere accolta.
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Note 1. C. Steiner, La Divina Commedia, Torino 1943, p. 258. 2. N. Sapegno, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1985, p. 258. 3. Lo rilevò, giustamente, M. Porena, La Divina Commedia, I, Inferno, Bologna 1957, p. 239. 4. J. Freccero, Dante. La poetica della conversione, Bologna 1989, p. 201. 5. A. Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, II, Messina-Firenze 1967, p. 434. 6. Inf. IV 103-105. 7. Cfr. sul che del v. 129 la nota del Sapegno, Inferno, p. 39, che a ragione, a parer mio, accoglie l’interpretazione del Pagliaro, Ulisse, pp. 719-720, che lo intese come «congiunzione modale», e non quella di F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla «Divina Commedia», Firenze 1967, p. 448. 8. Cfr., al riguardo, Pagliaro, Ulisse, pp. 459-460, e l’interpretazione che vi dette di Inf. VII 1. Su questo famoso verso, che rappresenta l’«astruso» linguaggio dei diavoli, ha dato luogo a infinite dispute e variamente ha diviso gli interpreti, sembra esser oggi prevalente contro l’opinione (cfr., per es., C. Grabher, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1940, p. 87: ma già in modo simile, anche se con diversa sensibilità, G. Poletto, La Divina Commedia, I, Inferno, Roma-Tournay 1894, p. 141) di chi non vi coglieva se non un incontro di suoni dissonanti, volti a spaventare, quella di chi lo ritiene decifrabile: prima del Pagliaro, nella decifrazione si era cimentato D. Guerri, Di alcuni versi dotti della «Divina Commedia», I, Papé Satan, Papé Satan Aleppe (1908), in Scritti danteschi e d’altra letteratura antica, a cura di A. Lanza, Anzio 1990, pp. 11-20. Ma cfr. ora G. Inglese, Commedia, I, Inferno, Roma 2007, p. 102. 9. Inf. VIII 18. 10. Cfr., al riguardo, gli esempi forniti da Pagliaro, Ulisse, pp. 437-438. 11. Che istra (issa) sia un lombardismo, è asserito concordemente, salvo errore, dai commentatori moderni: cfr., per es., la nota di G. Petrocchi, La Divina Commedia secondo l’antica vulgata, I, Inferno, Milano 1966, pp. 455-456. Ma che appartenesse anche alla parlata lucchese si deduce in primo luogo da Purg. XXIV 55-57, ossia dalle parole attribuite da Dante a Bonagiunta. Cfr. comunque, E.G. Parodi, Lingua e letteratura. Studi di teoria linguistica e di storia dell’italiano antico, a cura di G. Folena, I, Venezia 1957, pp. 261 e 291 (e anche pp. 165-166). 12. Sapegno, Inferno, p. 303. 13. Cfr. qui su n. 12. 14. E cfr. de vulgari eloquentia, I xiii 1. 15. Sapegno, Purgatorio, pp. 268-269. Ma cfr. anche U. Bosco, Dante vicino, Caltanissetta-Roma 1966, pp. 34-35. 16. Sulla questione mi sono intrattenuto in una breve nota Sui versi 1-3 e 21 di Inferno XXVII, di prossima pubblicazione. 17. Pagliaro, Ulisse, pp. 464-465. 18. Cfr., per es., A. Momigliano, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1951, p. 204.
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19. De vulg. eloq. I xi, 2 ss. 20. Ibidem, I xv, 2; xii, 6. Per il Guinizzelli, cfr. I xv, 6. 21. Il latino non è, nella Commedia, se non una lingua fra le altre; e a parlarla, nel Paradiso, è Cacciaguida (Par. XV 27-29): per altri esempi, cfr. Pagliaro, Ulisse, pp. 451452. Ma al suo antenato Dante attribuì esplicite parole latine, per conferire, è stato detto, particolare solennità al suo discorso. Il che, francamente, non avrebbe avuto senso nel caso di Ulisse e del discorso che Virgilio gli rivolge. 22. Par. XXVI 124-132. 23. Sulla questione cfr. il mio Qualche variazione su Dante e Vico in tema di linguaggio, in Humanistica. Per Cesare Vasoli, a cura di F. Meroi e E. Scapparrone, Firenze 2003, pp. 263-78. 24. De vulg. eloq., I xvi, 2. 25. Ibidem, I xvi, 2-6. 26. Metaph. Λ, 1072 a 30-35. 27. Ibidem, I, 1057 b 35-1058 a 2. 28. Cfr. Eth. nic. K 176 a 15 ss. E sopra tutto il commento tomistico (IV, 1083). 29. K. Heisig, Perché fuor Greci, in «Romanisches Jahrbuch», 6 (1953), pp. 83-91; F. Ageno, La fama di superbia dei Greci, in «Lingua nostra», 16 (1955), p. 2. 30. Nel commento alle Rime di Dante, Torino 19462, pp. 89-90. 31. E. Gorra, Testi inediti di storia troiana preceduti da uno studio sulla leggenda troiana in Italia, Torino 1887, p. 383. 32. Contini, Rime, p. 233. 33. G. Padoan, Il pio Enea e l’empio Ulisse, Ravenna 1977, p. 190. 34. Verg. aen. 2, 162-170. 35. Che la fonte di questo passo sia Jeron. interpretatio Chronicorum Eusebii, PL, 22, 223, fu sostenuto da M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di Dante, Torino 1896, p. 479, e ribadito da P. Toynbee, Dante Studies, Oxford 1896, pp. 50-52: e si veda anche, per il significato di «musaico», l’informata nota di C. Vasoli nella sua edizione commentata del Convivio (Opere minori, a cura di C. Vasoli e D. de Robertis, I/2, Milano-Napoli 1988, p. 48). Sulla questione della differenza intercorrente fra il senso stabilito da Busnelli e Vandelli nella loro edizione del Convivio, I, Firenze 1954, p. 45 («come Musa vale “poesia”, così musaico vale qui “poetico”»), e quello proposto da P.V. Mengaldo, Parole di Dante: musaico, in «Lingua nostra», 30 (1969), pp. 33-34, dovrebbe tornarsi. Per le conoscenze omeriche di Dante, basti qui il rinvio a G. Martellotti, Omero, ED, IV, 145-148, poi in Dante e Boccaccio e altri scrittori dall’Umanesimo al Romanticismo, Firenze 1983, pp. 51-60. 36. Purg. XXII 94-99. Per l’identificazione di Varro che, sul fondamento di Hor. ars poet., 53-54, potrebbe essere L. Vario Rufo, cfr. Bosco, Dante vicino, pp. 391-398. 37. Non è questa la sede in cui possa decidersi se quelli citati qui fossero soltanto nomi (come, per es., sostiene Sapegno, Purgatorio, p. 249), o se di Persio, in particolare, Dante avesse esperienze diretta (E. Paratore, Tradizione e struttura in Dante, Firenze 1968, pp. 87-88).
5. A proposito di Inferno XXVI 94-98. Variazioni biografiche per l’interpretazione
Si sa che, dal Fornaciari1 (grosso modo) ai giorni nostri, non è mancato chi, fra i dantisti, in questi versi famosi ha ravvisato qualcosa come un rimprovero rivolto a Ulisse che, nel sacrificare gli affetti domestici alla sete della conoscenza e al gusto delle mondane esperienze, avrebbe in sostanza rivelato un ulteriore aspetto della sua malvagia natura di peccatore.2 Più sfumata in alcuni, più decisa in altri, questa tesi suppone infatti che, non solo come consigliere e tessitore di frodi, l’eroe greco fu condannato da Dante, ma anche come colui che consapevolmente oltrepassò il limite posto (da Dio) all’umano desiderio di conoscere. Se, per esempio,3 dopo averlo definito come un secondo Adamo, Luigi Pietrobono, che in questo fu seguìto da Bruno Nardi,4 non riuscì a tener chiusi gli occhi dinanzi allo spettacolo offerto dal suo eroismo, e al personaggio non poté, per conseguenza, sottrarre il predicato della «sublimità», altri, in tempi recenti, furono assai più recisi nello svelare la vera (per loro) sostanza di quest’ultima; e cioè l’arroganza e il dispregio di ogni umana idea di moderazione e di saggezza. Nell’eroismo videro e deplorarono quel che nella lingua del primo autore di Ulisse ha il nome di ὕβρις; nel desiderio di conoscere videro e deplorarono una forma di tracotanza; nella sete di esperienze e nella rerum novarum cupido, lo spirito del sovvertitore che della regola non tiene conto se non per poterla, appunto, sovvertire e infrangere.5 Inutile dilungarsi sugli esempi che di questa tendenza critica potrebbero darsi. Più interessante sarebbe, se mai, indicarvi la conseguenza di un cambiamento di clima intervenuto in una sede ulteriore agli studi danteschi, e diversa, comunque, da questa: nello «spirito», insomma, del nostro tempo, quanto mutato da quello in cui di Ulisse si celebrava l’eroismo e in Dante, che lo esaltava, il preannunzio dell’umanesimo. Ma il discorso non sarebbe adatto al luogo in
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cui deve svolgersi, e all’oggetto che non deve perdere di vista. E piuttosto converrà chiedersi: alla formazione dell’idea secondo la quale nel sacrificio degli affetti familiari al desiderio di conoscere Dante vide un’ulteriore ragione per ribadire la condanna di Ulisse, chi fu il primo che, nel segno della consapevolezza, sebbene non senza ambiguità, dette il più deciso contributo? Vedremo fra breve che, per scoprirlo, sarà necessario risalire molto indietro nei secoli, a un periodo di non molto posteriore alla morte di Dante: segno evidente che l’anzidetto mutamento si è manifestato bensì in tempi recenti, ma partendo da una radice lontana. Quando, alla metà del quattordicesimo secolo, Giovanni Boccaccio prese a cimentarsi nella scrittura di una biografia di Dante, che non sarebbe giunta alla redazione definitiva se non, all’incirca, vent’anni più tardi,6 sull’esilio del poeta e sul modo in cui vi si era condotto nei confronti dei suoi familiari, della moglie Gemma Donati, innanzitutto, e quindi dei molti figli che aveva avuti da lei, varie, e non tutte benevole, dovevano essere le voci in circolazione. Non si capirebbe altrimenti perché, nell’accennare alla questione e nell’apprestare la sua apologia, tanto il Boccaccio dovesse insistere sul peso che, per chi sia dedito allo studio e alla contemplazione delle cose supreme, è rappresentato, sopra tutto se sono mogli, dalle donne; che questa tendenza non assecondano ma piuttosto, perché ne sono gelose, contrastano, e quanto più la mente del consorte si spinga in alto, di altrettanto la trattengono nel suo volo per quindi ricondurla in terra. Una Vita di Dante non era la sede adatta a proporre variazioni sul tema della μισογυνία. Ma è tuttavia più che probabile che, in un ambiente qual era quello in cui il Boccaccio viveva e che di risentimento, e vario rancore, nei confronti di Dante e della sua memoria, non poteva non essere saturo, di occasioni atte a stimolare questa sua vena, o il topos letterario che comunque agiva in lui, se ne dessero molte. E per più di una ragione, la prima delle quali era nell’esigenza che Dante fosse difeso dall’accusa che gli si rivolgeva di aver anteposto sé stesso alla famiglia, il suo onore al bene di quella. In ogni tempo, chi sia visitato dal dubbio, e dal conseguente rimorso, di aver procurato l’altrui infelicità, può, per viltà e pochezza d’animo, disconoscere il suo torto e raddoppiare l’ingiuria attraverso l’aggiunta della maldicenza. E tanto più questa tendenza avrà dato segno di sé, nel caso di Dante e di chi, dopo averlo offeso, ne giudicava le azioni, in quanto il rigore, la coerenza, l’intransigenza morale sono virtù scomode; che si sopportano con difficoltà da chi, per difendersene, sia incline a non vedervi se non la
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maschera di una diversa realtà, e voglia altresì persuadersi che questa, solo questa, sia la vera sostanza di quella presunta virtù. Il rigore, la coerenza, l’intransigenza morale erano coltivati, da Dante, fino al limite, se non del compiacimento, della provocazione. Nell’atto in cui erano affermate, queste virtù chiamavano al proscenio il loro opposto, e ne decretavano la condanna. È perciò ben comprensibile che l’uomo che aveva dichiarato di considerare come un «onore» l’esilio che gli era stato dato;7 che aveva scritto quel che si legge nell’epistola all’anonimo amico fiorentino;8 che più e più volte si era rappresentato come una torre ferma che non crolla giammai la cima per soffiar di venti,9 dovesse, con la segreta ammirazione, suscitare l’esplicito dispetto di quanti, se mai una volta avessero anch’essi provato a essere altrettanto fermi di quella, ora erano costretti a ricercarne i pezzi nella sabbia dov’era caduta. È ben comprensibile, insomma, che in margine alla «solitudine» di Dante, al suo orgoglio, al superbo puntiglio e alla tenacia con cui, giorno dopo giorno, aveva costruito il mito della sua purezza, e dell’esilio aveva fatto un exemplum di sublimità morale, dovessero, per contrasto, fiorire le voci malevoli di cui s’è detto. È comprensibile che, non potendo, se non con estrema difficoltà e pericolosità, dirigersi all’ingegno e all’opera che ne era stata prodotta, quelle voci si rivolgessero al carattere e, con pia unzione, costruissero il dramma negativo dell’uomo, non importa se grande, che al culto di sé stesso aveva sacrificato gli affetti e i relativi, «sacri» doveri. Il paradosso che, a questo riguardo, comincia a delinearsi, fu che, prendendo in mano da questa parte il filo della questione che in tal modo era stata come posta all’ordine del giorno, il Boccaccio in sostanza, sotto altro segno e altro colore, finì col confermare la materiale verità di quel che le voci malevoli insinuavano: e cioè che, alla resa dei conti, nell’esilio Dante avesse bensì badato al suo «onore», avesse bensì avuto riguardo alla purezza e, quasi si direbbe, alla bellezza della sua immagine morale, ma della moglie e dei figli si fosse invece disinteressato, essendo inoltre stato ben lieto di non occuparsene. Insomma, la fama negativa diceva che al richiamo degli affetti domestici Dante era stato, nel tempo dell’esilio, affatto insensibile. E, con vivo senso del paradossale capovolgimento, il Boccaccio la trasformò, questa fama, in positiva. Come se, invece che con una biografia o, magari, una laudatio, fosse stato alle prese con una delle sue novelle (almeno in questo Leonardo Bruni non ebbe torto),10 alle accuse che sapeva rivolte a Dante rispose confermandone il materiale contenuto e indicandovi tuttavia un assai diverso significato. Che altro infatti avrebbe potuto fare un uomo dell’ingegno e delle attitudini poetiche e speculative,
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quale Dante era, se non lasciare là dove si trovava la moglie querula e tediosa che, quando era giovane, quasi gli era stata imposta, e il cui peso molesto era impensabile che egli aggiungesse al dolore e alle sofferenze che l’esilio gli procurava? Quella moglie, tale è il senso che il Boccaccio si compiaceva di conferire alla sua narrazione, gli era stata, appunto, imposta, quando, avendo i suoi parenti constatato che le «lagrime» suscitate dalla morte di Beatrice erano «cessate» insieme ai «cocenti sospiri» che ora in effetti davano qualche «sosta al faticato petto», ritennero venuto il momento in cui la sofferenza avrebbe potuto iniziare a trasformarsi in «allegrezza». Si dettero perciò da fare, e «sanza mettere guari di tempo in mezzo, al ragionamento seguì l’effetto: e Dante fu sposato».11 Non ci voleva altro perché, in uno scrittore del talento di Boccaccio, il racconto chiamasse ed esigesse altro racconto; perché, come si è detto, la biografia si trasformasse in novella e, visto che l’argomento consisteva nel dichiarare i fastidi che la vita coniugale arreca a chi sia dedito alla filosofica contemplazione della realtà, la novella assumesse i toni ironici di un trattatello diretto a rendere evidenti i guai rappresentati e provocati dalle mogli. Ne varrebbe forse la pena, ma non sarà il caso, di trascrivere qui per intero il lungo catalogo che il Boccaccio compilò di questi guai:12 anche perché all’eleganza della scrittura, che presso di lui non poteva mancare, non si unì allora altrettanta originalità nel pensare, o ripensare, quel che tante altre volte era stato, in questa materia, detto e pensato. Ma a qualche passo dovrà tuttavia concedersi attenzione: come a quello, per esempio, nel quale si dice di Dante che, «usato liberamente di ridere, di piangere, di cantare o di sospirare, secondo che le passioni dolci o amare il pungevano, ora o non osa, o gli conviene non che delle maggiori cose, ma d’ogni picciol sospiro rendere alla donna ragione, mostrando che ’l mosse, donde venne e dove andò; la letizia cagione dell’altrui amore, la tristizia essere del suo odio estimando».13 Oppure a quest’altro, del quale più volte i biografi di Dante si sono occupati quasi sempre per escludere che meritasse piena fiducia,14 ma che nell’economia di questo discorso deve comunque essere tenuto in molta considerazione per l’ausilio che, indirettamente, offre a chi debba interpretare i versi 94-98 del ventiseiesimo dell’Inferno. Scrisse, dunque, il Boccaccio: …se le cose che di sopra son dette son vere (che il sa chi provate l’ha) possiamo pensare quanti dolori nascondano le camere, li quali di fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacità trapassi le mura, sono riputati diletti. Certo io non affermo queste cose a Dante essere avvenute; ché nol so; come che vero sia
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che, o simili cose a queste, o altre che ne fosser cagione, egli, una volta da lei partitosi, che per consolazione de’ suoi affanni gli era stata data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che dove egli fusse ella venisse giammai; con tutto che di più figliuoli egli insieme con lei fosse parente.15
Non è sulla veridicità o sulla verisimiglianza di questa asserzione che qui s’intende discutere: anche perché, non essendo in possesso di documenti che a quel che si sa aggiungano la nota della certezza, non potremmo se non ripetere quel che i più diligenti biografi hanno da tempo concluso; e cioè che non si dà prova alcuna che, fra Dante e Gemma Donati, le cose andassero nel modo indicato dal Boccaccio, il quale potrebbe aver avuto ragione nell’asserire quel che asserì, ma anche, invece, torto. Che egli abbia qui fatto uso del topos della fastidiosità, per l’uomo delle lettere e della scienza, delle donne e, in particolare, delle mogli, non significa necessariamente che non fededegne fossero le fonti alle quali le notizie concernenti Gemma Donati e Dante furono da lui attinte: dal momento che il topos letterario potrebbe aver corrisposto a una notizia vera ed essersi perciò determinato sul fondamento di questa. Ma niente, per altro verso, vieta di pensare che al Boccaccio non fossero giunte se non voci, e che, preso dalla sua particolare misoginia e dagli svolgimenti letterari che questa gli consentiva, egli non si fosse data la pena di saggiarne per altra via la consistenza. Dallo spirito alquanto bigotto di quanti pretenderebbero che dell’amor coniugale di Dante non si dubitasse in nessun caso, ci si deve, naturalmente, guardare. Ma quella del Boccaccio è tuttavia un’asserzione che non esibisce il documento che dovrebbe sostenerla nel segno della certezza; e contro di essa stanno, almeno in parte, altre asserzioni che, poiché proprio a Dante appartengono, sarebbe assurdo non tenere in conto, facendone oggetto di qualche considerazione. Occorrerà in effetti richiamarle e passarle in rassegna, a cominciare da quella relativa al suo struggente desiderio di essere di nuovo accolto nel «dolce seno» della «bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza», nel quale, scrisse in una pagina famosa del Convivio, «nato e nutrito fui in fino al colmo della vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato» (I iii 4). A cominciare da questa. E non solo perché il tema doloroso dell’esilio accenni ai toni alti della sua più alta poesia («veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade»),16 ma anche perché (e con questo si rientri da parte nostra, nella prosa) dall’asserzione di Dante, e
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da altre sue consimili, il giudizio del Boccaccio è, per un suo tratto, smentito. Sia pure che fossero quelle addotte da lui le ragioni per le quali Dante non volle che nel suo vario e doloroso peregrinare gli fosse compagna la moglie. Ma tornare a Firenze, e realizzare così il più grande dei suoi desideri, significava rientrare nella dimora coniugale; e, per questa parte, quel che, trascinato dal suo estro novellistico e dal gusto, altresì, delle corrispondenze, il Boccaccio asserì non trova alcuna conferma. Non trova conferma nemmeno, e anzi meno che mai, nei famosi versi del decimosettimo del Paradiso, in cui è contenuta la profezia dell’esilio. Versi mirabili, e dei quali non è richiesto che si parli qui; dove, prescindendo dai modi tenuti da Dante nel costruire la statua della sua grandezza orgogliosa («non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,/ poscia che s’infutura la tua vita/ vie più là che ’l punir di lor perfidie»),17 converrà restringersi a quelli, celeberrimi, che, per bocca di Cacciaguida, fanno risuonare il grande tema dell’esilio («tu lascerai ogni cosa diletta/ più caramente; e questo è quello strale/ che l’arco de l’essilio pria saetta»).18 Qui, in effetti, dove la poesia raggiunge uno dei suoi vertici, non c’è coraggio che basti a guidarci nella discesa verso la più minuta, e persino banale o pettegola, vicenda biografica. Ma tant’è. Visto che anche per questa via si può forse contribuire all’interpretazione dei versi dell’Inferno, a cui questo articolo è dedicato, bisogna cercar di darselo e cimentarsi nell’impresa in cui tale discesa consiste. Il che, per altro, non significa che il coraggio debba prevalere sull’intelligenza, e alla discesa non debba imporsi un limite. La tesi del Boccaccio non potrebbe infatti essere difesa fino al punto in cui il coraggio trapassasse in eroismo; e le parole di Cacciaguida fossero intese nel senso che fra le «cose» da Dante più caramente «dilette » ci fosse bensì Firenze, ci fossero bensì i figli, ma la povera Gemma Donati non ci fosse.19 C’è infatti un limite a tutto: anche, com’è noto, all’eroismo. Nel Trattatello, prima redazione, c’è un passo importante, che presenta, nella seconda, alcune varianti, alle quali dovrà, sia pure in breve, concedersi qualche attenzione. Scrisse, dunque, il Boccaccio nella prima redazione: E crescendo insieme con gli anni l’animo e lo ’ngegno, non a’ lucrativi studii, alli quali generalmente oggi corre ciascuno, si dispose, ma da una laudevole vaghezza di perpetua fama [tratto], sprezzando le transitorie ricchezze, liberamente si diede a volere avere piena notizia delle finzioni poetiche e dello artificioso dimostramento di quelle. Nel quale esercizio familiarissimo
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divenne di Virgilio, d’Orazio, d’Ovidio, di Stazio e di ciascuno altro poeta famoso; non solamente avendo caro il conoscergli, ma ancora altamente cantando, s’ingegnò d’imitarli, come le sue opere mostrano, delle quali appresso a suo tempo favoleremo. E, avvedendosi le poetiche opere non essere vane o semplici favole o maraviglie, come molti stolti estimano, ma sotto sé dolcissimi frutti di verità istoriografe o filosofiche avere nascosti; per la qual cosa pienamente, senza le istorie e la morale e naturale filosofia, le poetiche intenzioni avere non si potevano intere; partendo i tempi debitamente, le istorie da sé, e la filosofia sotto diversi dottori s’argomentò, non senza lungo studio e affanno, d’intendere. E, preso dalla dolcezza del conoscere il vero delle cose racchiuse dal cielo, niuna altra più cara che questa trovandone in questa vita, lasciando del tutto ogni altra temporale sollecitudine, tutto a questa sola si diede. E, acciò che niuna parte di filosofia non veduta da lui rimanesse, nelle profondità altissime della teologia con acuto ingegno si mise. Né fu dalla intenzione l’effetto lontano, perciò che, non curando né caldi né freddi, [né] vigilie né digiuni, né alcuno altro corporale disagio, con assiduo studio pervenne a conoscere della divina essenzia e dell’altre separate intelligenzie quello che per umano ingegno qui se ne può comprendere.20
La determinazione cronologica delle cose di cui, in questo passo, il Boccaccio trattò, non è agevole: anche se, nell’insieme non dovrebbe essere in errore chi giudicasse che, nel delineare i tempi e le fasi della giovanile formazione di Dante, egli sorvolasse alquanto su quella che potrebbe esser detta «stilnovistica», per concentrare l’attenzione sull’altra, filosofica e teologica. Del pari non sarebbe in errore chi osservasse che, non solo sugli anni della formazione il Boccaccio tenne qui fermo lo sguardo, ma anche su ciò che ebbe a conseguirne; sull’intera sua opera, dunque, e su tutte le fasi della sua vita, sempre allo stesso modo dominata dall’amore esclusivo del vero e del rifiuto opposto a «ogni altra temporale sollecitudine». Questa tendenza ad abbracciare, con la giovinezza, anche quel che ne conseguì e le tenne dietro, si rivela del resto con chiarezza anche maggiore nella revisione a cui il passo fu sottoposto nella riscrittura che il Boccaccio ne fece intorno, grosso modo, al 1360. In questa seconda redazione non solo, là dove si dice dello studio da lui intrapreso delle «istorie» e della filosofia, manca l’accenno che nella precedente il Boccaccio aveva fatto all’avere Dante le prime studiate «da sé», e la seconda «sotto diversi dottori»; ma altro, per contro, vi si trova. Vi si trova, ed è sintomatico dell’intenzione di tracciare, sotto il profilo degli studi, l’intero arco della sua vita, la notizia relativa al riconoscimento che gli venne da parte di chi gli si rivolgeva chiamandolo «maestro», «filosofo», «teologo»;21 e anche
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l’altra vi si trova, ma questa era anche nella prima redazione, del viaggio che, «già vicino alla sua vecchiezza»,22 lo condusse a Parigi. Che quindi nella prima e, ancor più nella seconda redazione del Trattatello, il Boccaccio intendesse, non restringere la sua considerazione alla giovinezza e agli anni della formazione, ma ampliarla invece fino a comprendervi l’intera vita di Dante, è del resto provato da quel che osservò quando, avendo l’occhio al suo compiuto sviluppo, scrisse che «né gli amorosi desiri, né le dolenti lagrime, né gli stimoli della moglie, né la sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de’ publici ofici, né le faticose circuizioni, né il lungo e misero esilio, né la intollerabile povertà, tutte imbolatrici di tempi a gli studianti, non poterono con le loro forze vincere, né dal principale intento rimuovere, cioè da’ sacri studii della filosofia, sì come chiaramente dimostrano l’opere che da lui composte leggiamo».23 È questa, in effetti, l’osservazione alla quale, quando si debba ragionare intorno ai versi 94-98 del ventiseiesimo dell’Inferno, è necessario tener ferma la mente. È qui, infatti, che l’amore degli studi e le sollecitudini familiari sono messe in contrasto, o in un rapporto, quanto meno, che non a queste ultime concede il primo posto. È qui, infine, che s’intrecciano alcune delle questioni alle quali, in una famosa Familiare inviata nel 1359 a lui, Giovani Boccaccio, Francesco Petrarca si riferì, per esprimere intero il parere che, insistentemente, dall’amico e discepolo, gli era stato richiesto, sulla poesia, sull’arte, sulla personalità di Dante Alighieri. Nessuno, per quanto consti, fornì di questa lettera, sapiente e sfuggente, un’analisi altrettanto ampia di quella che, nel 1867, ebbe a dedicarle, in un saggio famoso, Giosue Carducci.24 Nell’indicarne il tono, come, per altro verso, nel determinare il tempo dell’iniziazione del Petrarca alla lettura della Commedia, non potrebbe per altro dirsi che sempre egli riuscisse persuasivo e fosse nel giusto. A rendere meno sicura e conclusiva una lettura che sarebbe forse, altrimenti, riuscita perfetta, fu l’esigenza, da lui (che, come diceva, in letteratura «almeno», non amava la monarchia e si sentiva «inchinare al politeismo»)25 fortemente avvertita, di reagire a quanto, per questo riguardo, era stato scritto da Ugo Foscolo26 e da Cesare Cantù,27 convinti entrambi che, nel giudicare di Dante, il Petrarca fosse stato vittima dell’invidia, o non capace abbastanza di vincere in sé il relativo sentimento. Accadde così che il giusto proposito di intendere il Petrarca, e il suo giudizio su Dante, piuttosto nella concretezza del suo gusto, della sua cultura e delle scelte che l’avevano determinata, che non nelle vere o
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presunte debolezze della sua indole, si trasformasse in un’apologia della sua schietta disposizione al vero: a tal segno che il Carducci finì col perdere di vista il fitto intreccio di giudizi, di pregiudizi, di, talvolta, balenanti perfidie in cui, come ogni altra cosa sua in prosa, anche questa lettera trova il suo autentico carattere. Non si tratta, beninteso, e, se qualcuno se ne preoccupasse, si ricreda, di sottomettere le ragioni della storia a quelle della psicologia. Nell’ambiguo chiaroscuro in cui il giudizio formulato su Dante trova la sua collocazione, nel suo mostrarsi per subito ritirarsi nella zona più buia, nel suo apparire con un segno per presentarsi poi con un altro, si tratta piuttosto di riconoscere uno «stile» di pensiero e, forse, sopra tutto le ragioni di una profonda, persistente perplessità (storica e culturale).28 Si è anche detto, qui su, che non sempre in questo suo scritto il Carducci fu nel giusto: e deve intendersi nella ricostruzione, innanzi tutto, di alcuni fatti. Non è vero, infatti, che l’ipotesi del Mehus, secondo cui il Petrarca sarebbe stato uno dei sei fiorentini illustri deputati nel 1350, per iniziativa di Giovanni Visconti, arcivescovo di Milano, all’illustrazione della Commedia, sia insostenibile per le ragioni addotte da lui, Carducci.29 E cioè che la conoscenza del Visconti il Petrarca non la facesse prima del 135330 e quella della Commedia prima del 1359. In realtà, è vero invece che il poema di Dante era entrato nella biblioteca del Petrarca, che prima d’allora (a quanto dice) s’era astenuto dal ricercarlo e dal leggerlo,31 o, perlomeno, dal tenerlo presente, anni prima: vi era entrato per la sollecitudine di Giovanni Boccaccio in persona, che gliene aveva fatto dono nel 1353,32 a questo aggiungendo l’altro della sua epistola metrica latina Ytaliae iam certus honos, scritta in lode dell’autore della Commedia. L’equivoco, o, se si preferisce, l’errore del Carducci fu con ogni probabilità determinato dalla confusione in cui egli incorse a proposito di due episodi, assai simili, ma accaduti tuttavia a vari anni di distanza l’uno dall’altro. È possibile, in altri termini, che il Carducci sovrapponesse la visita che il Boccaccio aveva fatta al Petrarca, a Padova, nel 1351, e che fu occasione che all’illustre amico egli inviasse in dono, insieme alla già ricordata epistola metrica, un codice contenente la Commedia di Dante,33 all’altra, avvenuta nella primavera del 1359, a Milano, e che, anch’essa, fu seguìta dall’invio di un dono; che fu bensì, secondo la congettura del Billanovich, duplice, anche questa volta duplice, ma solo perché a un testo contenente una nuova redazione dell’epistola già inviata anni prima aggiungeva una copia del Trattatello.34 Insomma, si ripete, il Carducci confuse gli episodi e i tempi; e, erroneamente, si convinse che la Commedia di Dante non entrasse nella biblioteca del Petrarca se non nel 1359, in occasione del
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dono che in quell’anno il Boccaccio gli avrebbe fatto di essa. Equivoco, o errore, del Carducci a parte, fu questa invece la circostanza in cui, rispondendo all’invito del Boccaccio (e tenendo fede forse a una promessa fatta a lui otto anni prima), il Petrarca scrisse la famosa Familiare che, a proposito di Dante, avrebbe dovuto porre fine a ogni dubbio o malinteso, e invece, come si è cominciato a vedere, a più di uno dette conferma, rendendo ancora più ardua la decifrazione di quel che il suo autore chiudeva nell’anima. Non è questa la sede nella quale un testo così complesso e, si ripete, persino sfuggente, possa essere analizzato in ogni sua parte, scrutato nelle sue pieghe, valutato e soppesato nel gioco sottile delle affermazioni e delle negazioni. Ma, in relazione a quel che qui interessa, e cioè al modo in cui può presumersi che alle dantesche peregrinazioni dell’esilio il Petrarca guardasse come se costituissero una sorta di replica di quelle di Ulisse, qualcosa deve dirsene. E sia ben chiaro. Se, per eseguire il compito e mandarlo ad effetto, anche di altro dovrà parlarsi, non perciò dovrà ritenersi che la «totalità» sia stata comunque attinta e che la precedente non fosse se non una dichiarazione di modestia. Niente di tutto questo. Nella Familiare non si cercherà se non quel che, qui ed ora, interessa. Non altro. E si cominci perciò con un’osservazione che senza, in alcun modo, riguardare la veridicità di quel che fin dall’inizio il Petrarca aveva affermato, contiene tuttavia in sé, e decisamente sollecita, l’esigenza di un chiarimento. Che, a quanto asseriva, egli si fosse da giovane astenuto dal ricercare e dal leggere il poema di Dante perché temeva che a risentirne sarebbe stata la sua originalità e che contraddetta sarebbe perciò risultata la sua volontà di non piegarsi all’«imitazione», può recare sorpresa. Ma è così. E non di meno la sorpresa resta. E per almeno due ragioni. La prima è che il segno della Commedia è stato ritrovato anche in poesie sue anteriori alla data del 1353, che fu quella in cui, come si è visto, donatagli dal Boccaccio, il poema di Dante finalmente entrò nella sua gloriosa biblioteca.35 La seconda, non meno importante, concerne l’idea stessa dell’originalità, della non imitazione, del pericolo congiunto al suo opposto, che qui il Petrarca metteva innanzi, e che, francamente, anche se, con il massimo della radicalità, si procuri d’intenderla nel contesto, è lungi dal riuscire persuasiva. Ma si osservi innanzi tutto il testo nel quale, dopo aver escluso (su questo punto dovrà comunque tornarsi) che nei confronti di Dante egli avesse mai avuta ragione di odio e di disprezzo, il Petrarca disse di sé stesso quando, da giovane, anche lui vulgari eloquio ingenium exercebat:
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Ea vero michi obiecte calumnie pars altera fuerat, cuius in argumentum trahitur quod a prima etate, que talium cupidissima esse solet, ego librorum varia inquisitione delectatus, nunquam librum illius habuerim, et ardentissimus semper in reliquis, quorum pene nulla spes supererat, in hoc uno sine difficultate parabili, novo quodam nec meo more tepuerim. Factum fateor, sed eo quo isti volunt animo factum nego. Eidem tunc stilo deditus, vulgari eloquio ingenium exercebam; nichil rebar elegantius necdum altius aspirare didiceram, sed verebar ne si huius aut alterius dictis imbuerer, ut est etas illa flexibilis et miratrix omnium, vel invitus ac nesciens imitator evaderem.36
È una confessione per molti versi sconcertante; e, senza la minima intenzione di sollevare il problema della sua veridicità, a qualche rilievo dovrà pur darsi, nel commentarla, qualche spazio. Che qui, in modo quasi dimesso e tanto, perciò, più pungente, di sé stesso il Petrarca dicesse che, versato nelle cose della volgare eloquenza, non ancora aveva imparato a rivolgere la mente alle più alte, non sorprende. Altro, per la verità, è quel che nell’asserzione del Petrarca suona sorprendente. Per evitare un rischio, per sfuggire a un pericolo, per non incorrere nell’errore dell’imitazione servile dell’altrui stile, è innanzi tutto necessario che di questo si abbia notizia; e non per voci estrinseche che al riguardo si siano ascoltate, ma per letture e esperienza diretta. Chi si esercita vulgari eloquio, e fa perciò letteratura, si è, in questo atto, reso interno a quello; e per uscire dalla particolare prigione che lo stile altrui gli costruisce intorno, e, per liberarsene, è inevitabile che in quella, nella prigione, appunto, sia, prima, entrato, si sia rassegnato ad accettarne le regole e a soggiornarvi perciò alquanto. Che, allora, quand’era giovane e ambiziosamente, nelle cose volgari, tuttavia, cercava la sua strada e perseguiva il mito della sua propria originalità, il Petrarca si astenesse dal cercare, e dal possedere fra gli altri suoi, librum illius,37 ossia la Commedia di Dante, è quasi la miglior prova dell’averlo lui letto, del suo esserne rimasto colpito: al punto di non voler possedere, nella sua biblioteca, il documento di un’opera di cui ben intuiva che avrebbe sempre costituito, se mai avesse voluto entrare in competizione con essa, la dura pietra di un aspro e più che incerto paragone. Chi, leggendolo, si sia fatta un’idea del valore effettivo che i libri rivestivano per il Petrarca, e come nel possederli egli mettesse in atto una forma intensa di eros, che mai avrebbe tollerato di non essere ricambiato con pari intensità, può ben comprendere che della Commedia, libro ammirato, senza dubbio, ma temuto anche e non amato, egli si astenesse dal ricercare e dal trovare e quindi dall’entrare in possesso di un codice che la ponesse a breve distanza dal suo occhio e dalla
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sua mano. Ma perché, almeno una volta, l’aveva letta: non perché del suo valore avesse sentito parlare da altri. Quando scriveva le linee che si sono fin qui commentate, si direbbe che il Petrarca si studiasse, non già di evitare, ma al contrario di ricercare l’ambiguità e la sua ombra protettrice. Sebbene non potesse non sapere che con grande facilità la sua asserzione avrebbe potuto essere fraintesa, e che da più parti la si sarebbe interpretata nel senso che il non aver ricercato e collocato nella sua biblioteca il libro di Dante fosse la stessa cosa del non averlo letto, non solo della falsità di questa identificazione si guardò dal rendere avvertito il lettore, ma, in qualche modo e pur senza proporselo, finì col suggerire che l’una cosa (il non averlo cercato) importasse e fosse la stessa cosa dell’altra (il non averlo letto). Nell’ambigua luce che l’avvolgeva, il testo sembrava suggerire che la causa era la stessa cosa dell’effetto, questo la stessa cosa della causa. E il Petrarca, in effetti, finì col far credere, o non impedì che si credesse, che, se non aveva cercato il libro di Dante, era perché non intendeva leggerlo. Fra il legere e lo habere non segnò infatti con nettezza la differenza. Non suggerì quel che pure era, e avrebbe dovuto essere, ovvio: e cioè che, come è ben possibile che non di ogni libro materialmente posseduto uno sia di necessità lettore, così può accadere, e infatti di norma accade, che altri, non inclusi fra i suoi, siano da quel medesimo stati letti e studiati. Insomma, e lo si ripete, fra il legere e lo habere il Petrarca non distinse; e così gli accadde di mettere fuori strada anche qualche illustre studioso della sua opera e della sua cultura. Non è questo, per altro (e ai fini di questa ricerca), il punto essenziale. Per coglierlo, occorre fare un passo indietro, e leggere per intero il brano in cui, negando di aver mai avuto nei confronti di Dante alcuna ragione di odio e di disprezzo, il Petrarca ricordò l’amicizia che lo strinse al padre nella comune sorte dell’esilio, e sul significato che questo, l’esilio, aveva assunto presso l’uno e presso l’altro, fece battere con forza l’accento. È un passo per certi aspetti sconcertante. Ma poiché è anche, nell’economia di questa indagine, il più importante, lo si osservi con attenzione: In primis quidem odii causa prorsus nulla est erga hominem nunquam michi nisi semel, idque prima pueritie mee parte, monstratum. Cum avo patreque meo vixit, avo minor, patre autem natu maior, cum quo simul uno die atque uno civili turbine patriis finibus pulsus fuit. Quo tempore inter participes erumnarum magne sepe contrahuntur amicitie, idque vel maxime inter alios accidit, ut quibus esset preter similem fortunam studiorum et ingenii multa
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similitudo, nisi quod exilio, cui pater in alias curas versus et familie solicitus cessit, ille obstitit, et tum vehementius cepto incubuit, omnium negligens soliusque fame cupidus. In quo illum satis mirari et laudare vix valeam, quem non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle distraheret, cum multi quam magni quam delicati ingenii sint, ut ab intentione animi leve illos murmur avertat; quod his familiarius evenit, qui numeris stilum stringunt, quibus preter sententias preter verba iuncture etiam intentis, et quiete ante alios et silentio opus est.38
La costruzione retorica di questo passo è a tal segno abile da poterla definire perfetta. Con così grande puntualità la lode si capovolge nella riserva, questa nella lode che, di nuovo, passa nel suo contrario, che sarebbe difficile pensare che, per dire e disdire, affermare e negare, si potesse fare di più e meglio. Non per caso, si è parlato di «perfezione». E lo si chiarisca attraverso l’analisi. In questa stessa lettera, poche linee oltre quelle citate, il Petrarca (e lo accennammo) aveva una volta per tutte messo in chiaro quel che per lui non era discutibile; e cioè che la vera eccellenza letteraria e poetica, la vera eloquenza, erano nei classici e nelle loro lingue:39 in modo tale e a tal punto che, qualunque cosa dovesse pensarsi dell’opera sua, certo era che fra Dante e, per esempio, Virgilio, senza dubbio alcuno la palma dovesse essere data a questo, non a quello che, per grande che fosse stato, in volgare aveva scritto il suo poema, non in latino. Ma, nel testo che si è citato, il discorso del Petrarca stringeva assai più da presso il suo oggetto. E, senza che mai il suo nome fosse pronunziato, su Dante cominciarono a esser emessi giudizi nei quali la dolcezza del riconoscimento non tardava un attimo a risolversi nell’amaro del rimprovero o, quanto meno, del secco rilievo critico. Sconcertante è stato definito questo passo.40 E se vorrà concedersi che non convenga al suo insieme, certo sarà difficile negare che almeno ad alcune sue parti questo aggettivo appaia adeguato. Ha la forma, o, se si preferisce, l’aspetto di un sofisma dialettico (e nemmeno, per la verità, a sufficienza abile), l’argomento con il quale il passo esordisce. Che il Petrarca non potesse avere alcuna ragione di odio nei confronti di una persona che solo una volta, e prima pueritie […] parte, gli si era mostrata, non è affermazione che mai persuaderebbe chi, per suo conto, non a torto fosse convinto che quel sentimento non riguarda solo uomini e donne che si siano incontrati e conosciuti, ma può ben sorgere, e mantenersi, e fortificarsi anche nei confronti di uno che, non essendo presente con la sua persona, lo sia invece con l’opera, con la fama, con il valore che si sia
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comunque costretti a riconoscergli. Se «odio» è parola per certo troppo forte, e implicante in ogni caso un sentimento assai più definito e lineare di quello che il nome e l’opera di Dante gli accendevano dentro, sarebbe tuttavia difficile convenire con il Petrarca quando asseriva che, per contro, il carattere del sentimento che nutriva nei suoi confronti era invece l’amore: odii materia nulla […], amoris autem plurime. In realtà, se sul serio un sentimento siffatto fosse stato vivo nel suo animo, difficilmente, per grande che fosse l’affetto che nutriva nei confronti del padre, il Petrarca avrebbe potuto spingersi fino a scrivere che, con Dante, quello aveva affinità (similitudo) non solo di studi, ma anche di ingegno. Per interessante che la personalità di ser Petracco potesse essere, e vivissimo l’amore dei libri, dal quale il figlio Francesco avrebbe poi derivato il suo,41 il personaggio con il quale egli lo metteva a confronto era Dante, era l’autore della Commedia, era l’uomo e lo scrittore che il suo amico Boccaccio aveva collocato sul suo stesso piano e considerato guida e maestro. E, senza che con ciò s’intenda rinverdire polemiche di ieri e di ieri l’altro, senza che si desideri proporre scelte che, qualunque significato abbiano di volta in volta avuto, non potrebbero, oggi, averne alcuno, è difficile tuttavia resistere all’impressione che vi sia della letteraria e pungente perfidia in questo modo petrarchesco d’introdurre il personaggio sul quale era stato invitato a pronunziare finalmente il suo meditato giudizio. «Letteraria perfidia» sarà espressione troppo cruda; e si dica allora di una tal quale, nei riguardi di Dante, voluntas minuendi, quasi che il nascosto proposito fosse di ridurre il grand’uomo nell’ambito di una sua vicenda familiare, in un quadro domestico, dominato bensì dall’esilio, e quindi tragico, ma, appunto, domestico, e richiamato al di qua del suo significato morale e politico.42 Dopo la nota minore, ecco, in sequenza, quella maggiore. Accomunati dall’esilio, oltre che dagli studi e dall’ingegno, nel vivere, e nel sopportare il primo, i due uomini furono diversi; e mentre la figura di ser Petracco è mantenuta nell’ambito degli affetti familiari che nella nuova situazione egli seguitò tuttavia a coltivare al di sopra di ogni altra considerazione, quella di Dante assume il rilievo di una statua altera e sdegnosa, ritraente un personaggio che nemmeno gli affetti familiari avevano potuto trattenere dal perseguire il cammino degli ideali e della fama. Eppure, anche qui, anche all’interno della nota che risuona, o sembra risuonare, a gloria di Dante, è presente qualcosa come il principio di una dissonanza. Non sarebbe infatti facile, se qualcuno se lo proponesse, decidere se fra l’uomo in alias
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curas versus et familie solicitus e l’altro omnium negligens soliusque fame cupidus, fra quello che exilio […] cessit, e l’altro che, per contro, obstitit, il Petrarca preferisse il primo o il secondo; se, ai suoi occhi, l’amore che si nutre per la famiglia valesse di più, oppure di meno, di quello che, nel segno dell’intransigenza, si dirige a ciò da cui nasce la fama. È difficile deciderlo perché, si direbbe, bastò al Petrarca aver fatto in modo che il dubbio nascesse. Gli bastò aver suggerito che, come in filigrana, dietro quello di Dante a delinearsi era il volto di Ulisse, l’eroe che, come aveva letto nel ventiseiesimo dell’Inferno, all’amore della conoscenza aveva sacrificato la «dolcezza» del figlio, la «pietà» del vecchio padre, «’l debito amore/ lo qual dovea Penelopé far lieta ».43 E anche gli bastò che, raddoppiandosi, l’ambiguità intrinseca alla prima situazione passasse nella seconda, concernente Ulisse: a proposito del quale, e del modo in cui Dante l’aveva raffigurato, certo non era facile stabilire se, per aver sacrificato gli affetti domestici al desiderio di conoscere oltre ogni oltre, meritasse la condanna oppure l’elogio. Da parte di più di uno studioso, in tempi relativamente recenti (e anche, per la verità, recentissimi), in questa lettera del Petrarca si è letta un’allusione, coperta, a Ulisse, al pari di Dante, neppur lui nominato.44 Là dove, in effetti, il Petrarca scrisse che non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas, – non uno insomma di questi eventi e sentimenti ebbe la forza di distrahere Dante ab arrepto semel calle,45 sembrò evidente che egli si ricordasse di Inferno XXVI 94-98. E l’osservazione avanzata qui su non ha perciò il pregio dell’originalità, se da tanti era già stata proposta. Giustizia, se mai, vorrebbe che si dicesse che a proporla per primo fu in realtà non uno dei critici ai quali qui si è alluso, ma il Carducci; al quale, per altro, non accadde che questo merito fosse riconosciuto insieme all’altro di aver colto l’allusione che il Petrarca fece a sé stesso là dove parlò dei multi quam magni tam delicati ingenii che basta un tenue murmur perché si distolgano dal lavoro intrapreso:46 quod his familiarius evenit, qui numeris stilum stringunt, quibus preter sententias preter verba iuncture etiam intentis, et quiete ante alios et silentio opus est.47 In realtà, quel che da parte di alcuni si è aggiunto al giudizio che, con sostanziale lucidità, già il Carducci aveva formulato, non è se non questo: che in Ulisse deve vedersi una sorta di «doppio» di Dante che, lui pure, costretto dal suo destino a navigare il mare tempestoso dell’esilio, della
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eventualità, che in qualche modo gli si sarebbe potuta presentare, di tornare indietro, non volle sapere, e preferì restare fedele a sé stesso fino all’estrema conseguenza. Ma questa, che non era nel Carducci, è per certo un’esagerazione. Rilevarlo sarà banale e persino alquanto prosaico. Ma pure è un fatto che gli affetti ai quali Ulisse non poté, secondo Dante, restare fedele, furono bensì ricordati dal Petrarca, che esplicitamente parlò dell’amore per la moglie e della pietas filiorum, ma in un quadro che anche ad altro alludeva. E cioè all’ingiuria che a Dante era stata arrecata dai suoi concittadini, all’esilio, alla povertà, alla lotta delle fazioni: a un quadro insomma in cui tutti gli elementi della sua vicenda di esule sono presenti, e che dovrebbe perciò far riflettere sul grado di conoscenza al quale, nei riguardi della vita e dell’opera, il Petrarca si era elevato.48 In realtà, la teoria del «doppio» era estranea alla sua cultura, alla sua immaginazione, al criterio con il quale gli era dato d’intendere gli uomini e quel che scrivevano. E estranei a quella dovremmo essere, e dichiararci, anche noi, ai quali, per quante analogie possano apparirci presenti nelle due vicende, non dovrebbe sfuggire la circostanza, banale, se si vuole, ma non eludibile, che un conto è parlare di analogia, un altro di «doppio»: nel quale ultimo caso l’analogia deve cedere il passo all’identità e questa deve essere intesa almeno secondo le elementari indicazioni fornite dal suo concetto. Ciò che duplica non può, se si parla con un minimo di rigore, essere se non identico al termine al quale si riferisce, e rispetto al quale dichiara la sua propria identità. Deve cioè essergli identico sul serio, per intero, senza differenze; ché se queste fossero ammesse, di nuovo avremmo l’analogia, non la identità, e di «doppio» non potrebbe a rigore parlarsi. Parlarne è, per altro, impossibile. Se infatti, secondo il racconto dantesco, non per far ritorno agli affetti domestici Ulisse riprese il mare, ma per navigare, lontano da questi, alla ricerca dell’oltre, niente di simile potrebbe esser detto di Dante. Il gusto dell’audace sperimentare, il desiderio di conoscere, la curiosità intellettuale che, per contrasto, richiamava l’esigenza del freno e del controllo, – tutto questo, certo, lo avvicinava all’eroe greco. Lo predisponeva a comprenderne l’ardimento e persino l’imprudenza. Ma queste sono analogie generiche; che non bastano a fare dell’un personaggio, di quello reale e dell’altro, fantastico, il doppio dell’altro. Non, infatti, perché la passione del conoscere e dell’esperire, l’insofferenza del limite e l’ansia dell’ignoto lo chiamassero «altrove», Dante lasciò la patria e quel che questa chiudeva in sé. Ma per la sconfitta patita nelle cose della politica, per l’esilio che gli fu dato, per la persecuzione alla quale fu sottoposto e che gli impose
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il «duro calle» della dolorosa sua peregrinazione in terre lontane dalla sua. E in nessun aspetto analogo a quello compiuto da Ulisse nel Mediterraneo e poi, oltre le colonne d’Ercole, nelle acque mai solcate dell’Atlantico, fu il viaggio simbolico e allegorico che egli intraprese nei tre regni dell’al di là: un viaggio (l’audacia degli interpreti richiede talvolta la ripetizione di cose ovvie) che ebbe origine non dalla volontà sua di intraprenderlo e di trarsi in salvo dall’oscurità della selva nella quale si era smarrito, o, se si preferisce, «perduto», ma dall’intervento della grazia e delle sante donne che in cielo provvidero a renderla efficiente. Se a un’analogia proprio non vuole rinunziarsi, la si veda allora dove effettivamente potrebbe dirsi che sia, e la si consideri tuttavia nella sua natura; che è quella di un’analogia asimmetrica, o per contrasto, dal momento che l’esser «perduto» costituì per Dante, soccorso dalla grazia divina, l’inizio, e per Ulisse invece la fine, – la fine senza redenzione della sua umana avventura. Resta, per tornare al modo in cui, con ogni probabilità, il Petrarca lesse e interpretò il canto di Ulisse e, in particolare, i versi in cui Dante disse del suo «non ritorno» in patria, – resta da decidere se sia stato lui il primo a far risuonare la nota del rimprovero. E altresì resta da stabilire se, rimproverando Dante per la simiglianza sua con Ulisse, per l’amore e per la pietà sottratti alla consorte e ai figli, anche lo rimproverasse per non aver connotato con il segno della negatività la decisione e il comportamento dell’eroe greco. Una duplice questione, dunque. O, se si preferisce (e sembri più chiaro), due questioni, che tendono per altro a passare l’una nell’altra e a non distinguersi. Quando al poeta, omnium negligens soliusque fame cupidus, il Petrarca contrapponeva l’esempio del padre, familie solicitus, il paragone tornava a favore di questo, non di quello: del padre, che non a sé e alla sua propria immagine aveva pensato, ma al bene della sua famiglia; non di Dante, che di questa invece si era disinteressato per coltivare solo e unicamente quel che potesse procurargli la fama della quale sopra ogni altra cosa era desideroso. Eppure, si deve ripeterlo, nella sapiente tessitura del discorso petrarchesco la nota negativa accennava a risolversi nella positiva quando l’occhio si fosse diretto a considerare il duro travaglio che la ricerca della fama aveva imposto a Dante; che, a differenza di ser Petracco, era rimasto fermo nella sua intransigenza, non si era piegato ai compromessi, non aveva accettato l’umiliazione che avrebbe comportato il suo ritorno a Firenze, e aveva perciò rivelato un animo che quello non aveva mostrato di possedere in egual misura. E c’è di più. Se, nella prima battuta, era stato il padre a prevalere su Dante, e nella seconda era stato
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invece questo a prevalere su quello, nella terza e conclusiva era ancora il poeta della Commedia a prevalere; e questa volta proprio su colui che ne delineava il carattere e lo giudicava: sul Petrarca, dunque, che, attento non solo ai sentimenti e alle parole, ma anche, e sopra tutto, alla loro iunctura, non possedeva un animo che fosse tale da restar fermo se un alito di vento lo avesse sfiorato. Se quindi, da Dante passando a Ulisse, che certo (e non per caso) il Petrarca aveva nella memoria quando delineava l’umana vicenda del poeta della Commedia, ci si chiede se sia stato lui il primo a suggerire che i versi relativi al sacrificio che l’eroe greco fece degli affetti familiari contengano una nota negativa e implichino una condanna, la risposta non può essere univoca. E deve infatti dirsi che, per un verso, il discorso del Petrarca accennava alla negatività nell’atto stesso in cui, per un altro, faceva risuonare una nota tutt’altra; e che, per un altro ancora, imponeva tuttavia una nuova distinzione e andava oltre. Se, malgrado la diversità innegabile, fra Dante e Ulisse egli suggerì l’analogia e al poeta riferì le parole che questi aveva adoperate per il personaggio, non per questo il ragionamento perverrebbe alla sua conclusione se, per poterlo aggirare, non si considerasse lo scoglio che gli sta dinanzi. L’analogia stabilita fra il poeta e il personaggio imponeva infatti, essa proprio, una distinzione ulteriore e diversa da quella a cui si accennò quando si avvertì che l’analogia non è l’identità. Se Dante avesse voluto persuadere il suo lettore, e sé stesso, che per aver trascurato figlio, padre, consorte, Ulisse meritava una condanna in qualche modo ulteriore a quella per la quale si trovava nell’ottava bolgia, allora dovremmo intendere che, nella consapevolezza che egli ne aveva, anche di lui la favola narrava: di lui che, nei confronti dei familiari non si era condotto in modo diverso e meritava perciò un non diverso rimprovero. Dopo tutto, sebbene fosse stato lui pure travolto e coinvolto nella tragedia dell’esilio, della famiglia ser Petracco era stato sollecito. E lui, Dante, non altrettanto. Ma di un siffatto rimorso non c’è, nel suo testo, alcun indizio. Se anche li riferissimo alle avventurose e pericolose tentazioni che gli provenivano dalla sfera intellettuale abitata dal suo «ingegno», i vv. 19-22 («allor mi dolsi, e ora mi ridoglio/ quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,/ e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,/ perché non corra che virtù noi guidi») implicano pur sempre il possesso di un’esercitata attitudine al controllo e al dominio di ciò che altrimenti condurrebbe al di là del confine. Se quella del rimprovero per i non rispettati doveri familiari è una delle note che s’intrecciano nella sapiente orchestrazione che il Petrarca fece della sua musica, ricercarla e
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ritrovarla in quella di Dante, così diversa e, nella sua grandezza, così aliena da siffatte atmosfere, sarebbe impresa vana, e, per definizione, destinata al fallimento. Ribadirlo, sarà un’ovvietà. Ma tant’è. Dante non era Petrarca; e, decisamente, non era facile, per quest’ultimo, comprenderlo. È dunque, quella che si è tentato di mostrare in alcuni dei tanti e tanti fili che la compongono, una rete insidiosa, una rete che, con la sua alta e raffinata sapienza retorica, per esprimere e poi per velare quel che pure aveva espresso ed esprimeva, il Petrarca intessé; e nella quale tanto più rischia di restare involto e impigliato chi cerchi di afferrare il filo che ogni altro riconduca sotto il segno dell’unità. Questo filo, di per sé, non esiste. Non è isolabile. Questa rete non ha un centro che non ne preveda altri, e corrisponda perciò alla sua definizione. La si potrebbe al più definire un intreccio il cui nome è ambiguità. Se è così, se, tenendola ben lontana da ogni possibile moralismo, è questa l’unica, possibile conclusione, il discorso deve aver fine. È infatti giunto al suo termine, perché niente resta che si possa e si sappia aggiungergli.
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Note 1. R. Fornaciari, Ulisse nella Divina Commedia, Milano 1883, p. 104. Ma il primo che in questa decisione di Ulisse cogliesse il segno della sua magna crudelitas fu Guido Da Pisa, Expositiones et glose super Comediam Dantis, ed. V. Cioffari, Albany NY 1974, p. 537. Tutt’altra, invece, fu per esempio, la interpretazione di C. Landino, Comento sopra la Divina Comedia, a cura di P. Procaccioli, II, Roma 2001, p. 897, a giudizio del quale i tre «amori» elencati ai vv. 94-98, «dimostra el poeta che possono essere vinti dall’amore del sapere». Il tono è qui quello dell’obiettività; ma l’inclinazione del Landino non sembra tuttavia dubbia. 2. Cfr., per es., W.B. Stanford, Dante’s Conception of Ulysses, in «The Cambridge Journal», 1953, pp. 239-240; e G. Padoan, Il pio Enea e l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Ravenna 1977, pp. 192-193. 3. L. Pietrobono, La Divina Commedia, I, Inferno, Torino-Milano ecc. 1943, p. 318. 4. B. Nardi, La tragedia di Ulisse (1937), in Dante e la cultura medievale, Bari 19833, p. 137. 5. Basti ricordare, su questo, R. Montano, Suggerimenti per una lettura di Dante, Napoli 1956, pp. 150-152. 6. Per la cronologia del Trattatello in laude di Dante, ossia delle sue tre redazioni, cfr. l’Introduzione di P.G. Ricci alla sua edizione dell’operetta in G. Boccaccio, Opere, a cura di V. Branca, III, Milano 1964 (d’ora in avanti Trattatello), pp. 426-427: e cfr. V. Branca, Giovanni Boccaccio. Un profilo biografico, Firenze 1997, p. 108, n. 39. 7. Si ricordi la grande Canzone dell’esilio, Tre donne intorno al cor mi son venute, 7379: «e io, che ascolto nel parlar divino/ consolarsi e dolersi/ così alti dispersi,/ l’essilio che m’è dato ognor mi tegno:/ ché, se giudizio o forza di destino/ vuol pur che il mondo versi/ i bianchi fiori in persi,/ cader co’ buoni è pur di lode degno». 8. Ep. XII 3: «estne ista revocatio gratiosa qua Dantes Alagherii revocatur ad patriam, per trilustrium fere perpessus exilium? Hocne meruit innocentia manifesta quibuslibet? hoc sudor et labor continuatus in studio? Absit a viro phylosopie domestico temeraria tantum cordis humilitas, ut more cuiusdam Cioli et aliorum infamium quasi vinctus ipse se patiatur offerri!». 9. Purg. V 14-15. 10. L. Bruni, Della vita studi e costumi di Dante, in Le vite di Dante, a cura di G.L. Passerini, Firenze 1917, pp. 209-210. 11. Così nella prima redazione del Trattatello, p. 448. 12. Ibidem, pp. 448 ss (e nella seconda redazione, 505-506). 13. Ibidem, pp. 449-450. 14. Cfr., da ultimo, G. Petrocchi, Vita di Dante, Bari 1983, p. 199, il quale pensò che almeno a Ravenna Gemma Donati potesse aver raggiunto il marito. Ma cfr. già, più diffusamente, U. Cosmo, Vita di Dante, Bari 1930, pp. 111-112. 15. Trattatello, p. 451. Nella seconda redazione il passo è semplificato, ma non mutato: identiche sono le parole con le quali il Boccaccio ritrasse il non volere Dante andare dove la moglie fosse, o che questa andasse da lui. 16. E cfr. quel che si legge nel de vulgari eloquentia, I vi 3, dove la dichiarazione orgogliosa «nos autem, cui mundus est patria velut piscibus equor» e il dichiarato propo-
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sito di appoggiare rationi magis quam sensui spatulas nostri iudicii, quasi maggior rilievo conferiscono all’espressione dell’affetto: Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste. 17. Par. XVII 97-99. 18. XVII 55-57. 19. Cfr. il mio articolo Una postilla per Nella e Gemma Donati, in «La Cultura», 40 (2002), pp. 443-451. 20. Trattatello, pp. 442-443. 21. Ibidem, p. 501. 22. Ibidem, p. 509. 23. Ibidem, pp. 509-510. 24. G. Carducci, Della varia fortuna di Dante (1867), in Opere, VIII, Bologna 1907, pp. 133-298. 25. Ibidem, p. 233. 26. U. Foscolo, Parallelo fra Dante e il Petrarca, in Saggi e discorsi critici, a cura di C. Foligno, Firenze 1953 (ed. naz., X), pp. 279-280. 27. C. Cantù, Storia della letteratura italiana, Firenze 1887, pp. 71-72. 28. Dice bene, mi pare, a questo riguardo, M. Feo, Francesco Petrarca, ED, IV, 45152. Ma sull’incapacità del Petrarca di comprendere la Commedia, cfr. F. Neri, Il Petrarca e le rime dantesche della Pietra, in Letteratura e leggende, Torino 1951, p. 21. 29. Carducci, Opere, VIII, 269-270: «mess. Francesco non conobbe Giovanni Visconti prima del 1353 né la Commedia prima del 1359». E che, per quanto concerne quest’ultima, non si tratti di una svista, ma di una (per quanto errata) convinzione, è confermato da quel che si legge a p. 260 («a noi italiani che guardiamo solo il poeta italiano può dispiacere ch’egli aspettasse a cinquantacinque anni a leggere la Commedia», e poi, di nuovo, a p. 265 («il Petrarca fin da giovane conosceva Dante come poeta d’amore forse anche troppo: e per ciò a punto si tenne da leggere la Commedia»). 30. La conoscenza diretta dell’arcivescovo di Milano è posta al 1353, perché quella fu la data in cui il Petrarca si stabilì a Milano. Ma, si fossero o no incontrati di persona prima di quella data, è impossibile che non si conoscessero di fama: è impossibile che il poeta non sapesse dell’arcivescovo, e questo del poeta. Non gli avrebbe altrimenti, Giovanni Visconti, affidata l’ambasceria a Venezia (A. Foresti, Aneddoti della vita di Francesco Petrarca, n. ed., Padova 1977, pp. 308-309). 31. F. Petrarca, Le Familiari, ed. critica a cura di V. Rossi e U. Bosco, IV, Firenze 1942, p. 96 (XXI 15, 10-11). 32. Feo, Francesco Petrarca, p. 451 a. 33. G. Billanovich, Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947, pp. 233-239. 34. Ibidem, p. 239. Perplessità su questa congettura furono espresse da U. Bosco, Dante vicino, Caltanissetta-Roma 1966, p. 183, n. 12. Ma riterrei che il Billanovich avesse visto giusto. 35. Il Feo, Francesco Petrarca, p. 454 b, ha osservato che «il metodo petrarchesco di appropriamento insaziato […] della fonte amata, ci rende ancora una volta sfiduciati sulla possibilità di definire la cronologia degli influssi, perché appar chiaro che ogni volta che le letture del Petrarca intridono varie parti della sua opera e non solo quella che ha momentaneamente fra le mani: a ogni nuova esperienza egli ritorna sparsamente sui suoi scritti e
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li arricchisce di correzioni, aggiunte, sfumature». Ed è giusto, naturalmente, e ben detto: anche se la sfiducia concernente la cronologia non può raggiungere il punto estremo dello scetticismo. Per non parlare del Canzoniere, presenze dantesche sono state rinvenute, e il Feo le registra, nell’Africa, 5, 546-50; e 6, 65-67, che con certezza raggiunse la sua ultima forma prima del 1353; e certo sono nei Trionfi (anche se, per questi, la cronologia è sul serio incerta). 36. Fam. XXI 15, 10-11 (ed. cit., p. 96). 37. Si noti del resto che il Petrarca non dice di essersi astenuto dal leggere la Commedia, ma di non habere il libro, e di non averlo voluto possedere, quasi per impedirsi di tornare liberamente a leggerlo e poi, ancora, a rileggerlo, come era sua consuetudine fare con gli altri, con i quali fitto e ininterrotto, o di continuo ripreso, era il suo dialogo. 38. Fam. XXI 15, 7-8 (ed. cit., pp. 95-96). 39. Fam. XXI 15, 11, dove la superiorità del latino è sottilmente affermata e quasi insinuata: «eidem tunc stilo deditus, vulgari eloquio ingenium exercebam; nichil rebar elegantius necdum altius aspirare didiceram, sed verebar ne si huius aut alterius dictis imbuerer, ut est etas illa flexibilis et miratrix omnium, vel invitus ac nesciens imitator evaderem». E cfr. ibidem, §§ 21-22. 40. E. Pasquini, Dante e le figure del vero, Milano 2001, p. 98, ha parlato di «geniale ipocrisia». Il Neri, Il Petrarca e le rime dantesche della Pietra, p. 71, riprese, in generale, la questione dell’invidia; e la riprospettò con grande eleganza: «non lo invidiò – sia detto con discrezione, perché una venatura d’invidia è pure in quel suo fastidio della gloria altrui –, ma, insomma, non lo invidiò, perché non lo intese». 41. Notizie su ser Petracco, il suo amore per i libri e il grande contributo finanziario che dette al figlio perché li acquistasse, in Foresti, Aneddoti, pp. 2 12, e in G. Billanovich, Fra Dante e Petrarca, in «Italia medioevale e umanistica», 8 (1965), pp. 21-22. È un peccato che A. Campana non abbia resa pubblica la relazione da lui tenuta al Convegno linceo su Francesco Petrarca (Roma 1976), e che io, allora, non potei ascoltare. 42. Varie inesattezze sono state riscontrate nella Familiare che qui è oggetto di analisi. Se effettivamente, come fu stabilito dal Foresti, Aneddoti, pp. 11-12, ser Petracco nacque nel 1266 o nel 1267, ed era quindi di pochissimo più giovane di Dante, suona quanto meno singolare, per la sua ovvietà, l’affermazione che il futuro autore della Commedia fosse invece più giovane del nonno (ma cfr. Carducci, Opere, VIII, 257-58, e Foresi, Aneddoti, p. 9). Errata è poi la notizia del comune esilio. Dante fu bandito nel gennaio 1302. Ser Petracco nell’ottobre (cfr. per es., Petrocchi, Vita di Dante, p. 152). 43. Il primo che, con grande finezza, nelle linee del § 8 «non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto calle distraheret», avvertisse una citazione implicita, o, meglio, una assonanza «casuale» (egli era nella persuasione che solo in quell’anno 1359 il Petrarca avesse iniziata la lettura della Commedia), fu il Carducci, Opere, VIII, 255, non ricordato dal Bosco, Dante vicino, pp. 183-184, e neppure dal Pasquini, Dante e le figure del vero, pp. 97-98 (e cfr. p. 121). Sarebbe purissima pedanteria aggiungere che, poiché la sequenza dantesca (figlio, padre, moglie) non è rispettata dal Petrarca né nell’ordine né nella compiutezza, per questo potrebbe essere stato nel giusto il Carducci a giudicarla «casuale». 44. Cfr., qui su, n. 43. 45. È eccessivo avvertire in questo sostantivo un’eco di Par. XVII 59.
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46. Carducci, Opere, VIII, 255. 47. Fam. XXI 15, 8-9 (ed. cit., p. 96). 48. Che queste notizie il Petrarca le ricavasse dal Trattatello che, secondo il Billanovich, gli avrebbe inviato in dono in quello stesso anno, è possibile; e anche probabile. Ma non è detto che gli derivassero solo di lì; e non anche, per es., dalla stessa Commedia.
6. Dante, Ulisse, un’antilogia ovidiana, e alcune altre questioni
È lecito sottolineare con sfavore la tendenza, che ora è di molti, a dedurre il carattere che Dante attribuì a Ulisse da quel che egli poteva aver trovato nelle «fonti» a lui ostili, oltre che in quelle favorevoli: quasi che queste stessero nel suo discorso come altrettanti elementi costitutivi, e non fosse invece, e comunque, il suo discorso a conferire senso a quelle, pur dopo esserne stato in vario modo sollecitato e condizionato? È lecito esprimere disappunto nei confronti della tendenza consistente nell’operare nella propria mente la sintesi delle fonti favorevoli e delle sfavorevoli e, quindi, nel trasferirla nella mente di Dante, pretendendo che a quella, alla sintesi, egli avesse ispirata la sua delineazione del personaggio (come avviene, salvo errore, nelle pagine recenti di Patrick Boyde)?1 La tendenza è in effetti più che discutibile; e produrrebbe inconvenienti gravi se fosse vero che delle fonti latine che, quale più quale meno, gli erano note, Dante avesse operata una sorta di estrinseca sintesi nella quale i pregi fossero stati bilanciati dai difetti, questi fossero stati corretti da pregi, e il tutto, ossia la sintesi, fosse stato tenuto insieme nel segno non del ripensamento, ma del compromesso e della indecisione. Produrrebbe, in effetti, inconvenienti persino più gravi dell’altra, che opera in coloro che, semplicemente, poiché nelle fonti, che a Dante potevano esser note, si diceva che Ulisse era stato lo sleale maestro della parola ingannevole, conclusero che tale era stato anche per lui che, in quella chiave, aveva narrato, nel ventiseiesimo dell’Inferno, il suo ultimo viaggio. Discuterla, questa tendenza, in entrambe le sue determinazioni, e criticarla, non significa, per altro, nutrire, nei confronti di ricerche vòlte a decifrare la stratigrafia culturale di un testo, e del personaggio che vi sta come protagonista, un qualsiasi pregiudizio sfavorevole. E non per questo aspetto, infatti, la si discute, e la si critica. Non
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perché di fronte a quel che una volta aveva il nome di «fonte», e oggi magari quello, decisamente meno gradevole, di «intertesto», ci si faccia vittime del pregiudizio (che tale è veramente) dell’originalità negata. Se la si critica, è per l’assai diversa ragione che, se molti sono i volti di Ulisse che, analiticamente considerate, le fonti restituiscono, si tratterà di capire che cosa l’occhio di Dante vi avesse colto, quali elementi vi avesse individuati, come li avesse ricomposti nel personaggio che, mentre procedeva lungo quelle vie, la sua fantasia intanto veniva delineando nella sua unità e nella sua coerenza. Di una cosa almeno, a proposito di Ulisse quale Dante lo delineò, non si dovrebbe dubitare; e cioè che egli lo vide e lo immaginò come un personaggio, senza dubbio complesso e, nel fondo, persino enigmatico, ma unitario, tuttavia, coerente: come un personaggio che, sebbene si fosse macchiato del peccato della frode, non era tuttavia tale che, come per tanti altri ospiti dell’Inferno era accaduto, la condanna implicasse avversione. Ulisse è un personaggio complesso, come si è detto, un personaggio enigmatico, chiuso nel suo mondo remoto, dal quale, per altro verso, non aspirava che ad evadere alla ricerca di luoghi sconosciuti. Nei suoi confronti, l’atteggiamento di Dante fu anch’esso enigmatico. La sua tendenza fu a risolvere nella rigorosa obiettività di un racconto, aperto ai fatti e, quasi per intero, chiuso alle valutazioni, le perplessità che la vicenda dell’antico eroe gli faceva nascere dentro; fu a vincere il timore che la condanna che pur aveva eseguita dei suoi inganni trapassasse, mentre narrava del viaggio, in ammirazione; fu a evitare che a tal segno nell’oltranza del personaggio egli riconoscesse la sua da esserne indotto a, più che non solesse, «raffrenare» il suo ingegno. La contrapposizione di Ulisse a Enea era nelle fonti, in alcune fonti; e, per Dante, nella più importante. Era nell’Eneide, infatti; e tanto dovrebbe bastare a farci ritenere che egli ne fosse stato condizionato in modo decisivo. Ma non fu così.2 La contrapposizione dei due personaggi in Dante non ha luogo. Chi pretendesse di introdurvela, non aiuterebbe la sua intelligenza, la ostacolerebbe; e non comprenderebbe che, nella non avversione che in Dante era sempre sul punto di risolversi in positività, agiva qualcosa per cui, se il personaggio avesse fatto la sua comparsa, non nella Commedia, dove condannarlo era inevitabile, ma nel quarto trattato del Convivio o nel secondo libro della Monarchia, la sua valutazione non avrebbe potuto essere che positiva. In quelle opere, dominate dal senso vigoroso che Dante ebbe della provvidenzialità della storia a cui sia Enea, sia, indirettamente, Ulisse, appartenevano entrambi, le ragioni della condanna non avrebbero trovata una voce che le potesse esprimere. Nel tracciare
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con mano potente il quadro provvidenziale in cui inseriva gli episodi e i personaggi fondamentali della storia di Roma e del suo obiettivo tendere all’Impero universale, non è né impossibile né impensabile che Dante arrivasse a considerare che, come la violenza era stata necessaria alla nascita dell’Impero, altrettanto doveva dirsi del più importante fra gli inganni di Ulisse: «l’agguato del caval che fe’ la porta/ onde uscì de’ Romani il gentil seme».3 Un agguato e un inganno che, anche nel ventiseiesimo canto, furono avvertiti come provvidenziali: tanto che non è congettura astratta immaginare che in quelle due opere sarebbero stati assunti e prospettati nelle conseguenze che ne erano scaturite. Nell’obiettività del suo pensiero, Ulisse era la radice di Enea, il personaggio che, distruggendogli la patria, lo aveva messo sulla via lungo la quale avrebbe cercata e infine trovata quella a cui gli dèi avevano deciso che infine pervenisse. Come si sa, nella varia tradizione che lo riguarda, Ulisse non è sempre lo stesso personaggio.4 Egli era l’ἀνήρ πολύτροπος che di troppe astuzie era maestro per mostrare sempre e solo lo stesso volto. Se, per fare qualche esempio, nell’Eneide Ulisse era scelerum inventor (2, 164) e fandi fictor (9, 602), maestro di un dire consapevolmente volto all’inganno («o miseri», dirà invano Lacoonte ai troiani, all’inizio del secondo libro, «quae tanta insania, cives?/ creditis avectos hostis aut ulla putatis/ dona carere donis Danaum? Sic �������������������������������������������������������������� notus Ulixes?» ������������������������������������������� [vv. 42-44]), presso Orazio le cose cambiarono di aspetto. La necessità in cui Virgilio si era trovato di contrapporre Ulisse a Enea, il distruttore di Troia all’eroe che lavina venit litora e pose le condizioni per la fondazione di Roma, non era tale per lui. Nella sua visione, i due personaggi potevano coesistere, senza entrare in conflitto. Se, con Tullo e Anco Marzio, Enea gli aveva suggerito i versi dolenti dell’ode IV 7, 14-16: «nos ubi decidimus/ quo pater Aeneas, quo Tullus dives et Ancus,/ pulvis et umbra sumus», Ulisse tendeva ad assumere i connotati del savio stoico, nei versi famosi dell’epist. 1, 2, 14-22: Quidquid delirant reges, plectuntur Achivi. Seditione, dolis, scelere atque libidine et ira Iliacos intra muros peccatur et extra. Rursus,quid virtus et quid sapientia possit, utile proposuit nobis exemplar Ulixem, qui domitor Troiae multorum providus urbes et mores hominum inspexit, latumque per aequor, dum sibi, dum sociis reditum parat, aspera multa pertulit, adversis rerum inmersabilis undis.
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Contrapposta alla follia, e al vario peccare, di greci e di troiani, la sapientia di Ulisse fu spinta, qui, al grado supremo dell’esaltazione;5 più alto, comunque, di quello a cui il personaggio era stato collocato da Cicerone che, in un passo, famoso anch’esso, del de finibus, 5, 18, 49, ne aveva esaltato bensì l’intelligenza e l’amore della conoscenza al punto da fornire dell’episodio delle sirene l’interpretazione simbolico/allegorica che, unica, gli era sembrata degna di tanto uomo, ma del suo sociis parare reditum, del suo aspera multa perferre, a differenza di Orazio, non parlò: Vidit Homerus probari fabulam non posse si cantinculis tantus irretitus vir teneretur; scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupido patria esse cariorem. Atque omnia quidem scire cuiuscumquemodi sint cupere curiosorum, duci vero maiorun rerum contemplatione ad cupiditatem scientiae summorum virorum est putandum (5, 18, 49).
Proprio come poi accadde a Seneca, che in più di un luogo trattò di Ulisse, ma in nessuno forse con maggiore eloquenza che in questo del de constantia sapientis, dove, con Ercole fra gli antichi e Catone fra moderni, la sua figura è innalzata, sebbene a un grado, rispetto al secondo, più basso, a modello di sapienza e virtù: Pro ipso quidem Catone securum te esse iussi; nullum enim sapientem nec iniuriam accipere nec contumeliam posse, Catonem autem certius exemplar sapientis viri nobis deos immortales dedisse quam Ulixen et Herculem prioribus saeculis. ���������������������������������������������������������������� Hos enim Stoici nostri sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum (2, 1-2).
L’accenno che qui Seneca fece all’opinione degli Stoici,6 che quei personaggi, e anche Ulisse dunque, innalzavano a modello di saggezza, non deve essere dimenticato. Dove l’accento batteva piuttosto sulla sapienza che sull’astuzia, lì la figura dell’eroe greco era al riparo dalle interpretazioni malevole; che, implicite, del resto, fin dalle più antiche sue rappresentazioni come eroe della μῆτις,7 si erano intensificate nel corso del Medioevo, e sopra tutto, come Stanford ebbe a osservare, nel periodo in cui, in seguito al grande successo conseguito dal Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure, la sua fama volse decisamente al negativo e tanti scrissero per ribadirne l’astuzia ingannatrice, la crudeltà e, insomma, la cattiveria.8 Ciò non ostante, i documenti della sua rappresentazione positiva non furono cancellati. Cicerone, Orazio, Seneca erano lì; e l’occhio di Dante poteva ben raggiungerli, mettendo a confronto quel che vi trovava detto dell’antico eroe, e facendone un contrappeso a quel che, a cominciare da Virgilio,
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leggeva presso altri scrittori. Da quel che aveva letto e imparato su di lui, risultava che Ulisse non era stato solo il maestro della frode, l’eloquente e seduttivo oratore dell’inganno. Dietro quello negativo egli intravvedeva l’altro suo volto, quello dell’eroe della conoscenza, e della saggezza. E, teorico com’era del desiderio e della sua intrinseca ambiguità, a quelle qualità aggiungeva questo carattere, tanto affascinante, per lui, e coinvolgente e inquietante, quanto, senza essere senz’altro ascrivibile alla dimensione della virtù, nemmeno poteva essere considerato intrinseco al «peccato» del quale, nell’ottava bolgia, Ulisse pagava le conseguenze. A tal punto da questo carattere, che di Ulisse faceva un eroe, non tanto o non soltanto della conoscenza, quanto piuttosto del desiderio che rinasce intatto dal suo stesso appagamento, Dante era affascinato che, forse, se l’avesse conosciuta, sarebbe rimasto disorientato dinanzi alla pagina nella quale, avviandosi ormai alla conclusione il racconto del mito di Er, Platone accennò all’eroe che nell’Ippia minore aveva definito πολυτροπώτατος;9 e lo rappresentò mentre, fra le molte possibilità che, al riguardo, gli erano concesse, era intento a scegliersi un βίον ἀνδρὸς ἰδιώτου ἀπράγμονος,10 una vita di uomo privato e dedito all’ozio, perché, per il ricordo τῶν προτέρων πόνων, delle precedenti traversie, aveva vinto la malattia dell’ambizione. Era un omaggio, questo, che, mentre capovolgeva il vecchio uomo nel nuovo, che a quello risultava infatti in ogni senso opposto, Platone sottilmente rivolgeva alla sua virtù di sempre, alla prudenza, alla capacità di imparare dai travagli e dalle sofferenze, alle qualità insomma che, anche nell’al di là descritto da Er, lo confermavano diverso da Aiace che aveva scelto un λέοντος βίον, per il ricordo delle armi di Achille, che gli erano state negate. Ma può dubitarsi che, mentre si accingeva a costruire il suo personaggio, questa saggezza platonica da Dante sarebbe stata apprezzata. A comporre in un quadro coerente le discordanti qualità del personaggio, e a bilanciare perciò il positivo e il negativo, è evidente che Dante non pensò mai. Non era questo quel che a lui interessava. A lui interessava l’ultimo viaggio dell’eroe, interessava di sapere dove, «perduto», fosse andato a morire. E, a ribadire che, nel contesto penitenziale del ventiseiesimo canto, il racconto del viaggio ritagliava una sorta di peculiare eccezione, deve notarsi che il viaggio in cui Ulisse trovò la morte, non è elencato fra i peccati di frode che gli meritarono quel luogo d’Inferno.11 Del resto, se dalle «fonti» avesse cercato di ricavare una sintesi, con difficoltà sarebbe riuscito nell’impresa; e questa anzi gli sarebbe apparsa tanto impossibile
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quanto lo sarebbe stato il tentativo di uno che, quando al fatale cavallo fu consentito l’ingresso a Troia, avesse provato a persuadere Laocoonte che quello non nascondeva un inganno. Certo, non mancavano, nella letteratura antica, testi nei quali le diverse dimensioni del carattere di Ulisse si intrecciavano a determinarne la complessità, irriducibile a una sola di queste. Se, per diretta lettura, Dante avesse conosciuto l’Odissea, subito avrebbe visto che dall’eroe della prudenza, della curiosità e dell’intelligenza, non andava disgiunto l’uomo della vendetta eseguita con gelida e notturna ferocia, e che, se Achille uccideva con la lancia e con la spada nell’impeto della battaglia aperta, con freddo calcolo Ulisse sceglieva il momento e colpiva con l’arco, «arma», com’è stato ben detto, «dell’insidia e dell’ombra».12 Se avesse saputo di Pindaro e di Simonide, avrebbe incontrato, nel primo, la condanna, non priva d’ironia,13 dell’eroe che degradava la polytropía a deteriore spregiudicatezza, e, nel secondo, il suo elogio incondizionato:14 due «fonti», e due volti, perciò, diversi fino all’opposizione. Se avesse letto il Filottete di Sofocle e lì si fosse soffermato sul dialogo che a protagonisti ha Odìsseo e Neottolemo, il personaggio gli sarebbe apparso nelle vesti di un implacabile teorico, e pratico, della frode elevata a criterio supremo di utilità: λέγω σ’ ἐγὼ δόλῳ Φιλοκτήτην λαβεῖν.15 Se avesse potuto accedere a Euripide e si fosse messo sotto gli occhi il testo delle Troiane, certo non gli sarebbe sfuggito il lamento che uscì dal petto di Ecuba quando seppe che sarebbe stata presa come schiava da Odisseo, il perverso nemico della giustizia, il supremo ingannatore, l’uomo uso a far crescere il deserto dell’odio dove prima regnava l’amore.16 E basti così, perché l’elenco si allungherebbe, altrimenti, senza reale necessità. Ma se non conosceva i poeti di cui s’è detto, Dante era per contro esperto lettore di Ovidio e delle Metamorfosi, ossia del poema che, com’è stato detto tante volte, per lui, ignaro di greco, fu una sorta di abbreviata Odissea.17 Non importa qui stabilire a quale dei diversi caratteri del personaggio Ovidio, lui, desse la palma: se ai suoi occhi Ulisse fosse fandi fictor e inventor scelerum, oppure un sapiens assetato di conoscenze, oppure, ancora, l’una e l’altra cosa insieme, in un inscindibile intreccio nel quale scegliere era impossibile. Non importa perché, oltre tutto, una decisione, in questa materia, è pressoché impossibile. È impossibile perché, come più volte era accaduto presso gli scrittori greci, in Pindaro, per esempio, in Sofocle, nelle Troiane di Euripide, la delineazione del carattere di Ulisse fu eseguita a riscontro di quello dell’eroe che più di ogni altro avrebbe meritato di avere le armi di Achille, che i capi achei gli avevano invece negate, provocandone la follia; e cioè di Aiace. Fu eseguita attraverso la costruzione di
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una vera e propria ἀντιλογία, ossia di due discorsi contrapposti, nei quali entrambi i contendenti negavano per sé il carattere che l’altro gli imputava, senza tuttavia che lo schema antilogico riuscisse al completo pareggiamento delle parti, che, in astratto, avrebbe dovuto conseguirne. A trarne giovamento fu, in effetti, il personaggio che in sé stesso chiudeva più note e anche più contrasti, il personaggio di più complessa tessitura psicologica. Non fu Aiace, eroe della forza, dell’impeto, della ingenua schiettezza, e di niente, invece, che appartenesse alla sfera, se non del logo, della μῆτις. Ma Ulisse: nella cui anima tante qualità la natura aveva intrecciate che impossibile sarebbe stato sceglierne una e farne il Grundakkord del suo essere. Del resto, quando sia costituita, non da concetti, dei quali si ritenga di poter assumere che, nel significare cose opposte, stiano ciascuno presso di sé e, nell’escludersi, permangano tuttavia nell’ambito della realtà, ma da discorsi umani dominati da umane passioni, un’ἀντιλογία non può non far prevalere sulle parti che vi si affrontano, o quella più ricca, o, addirittura, l’insieme che risulta dal loro conflitto; e che alle parti, dunque, è superiore. Posto che la vera definizione della natura di Ulisse non ha la sua sede nel discorso di Aiace, e nemmeno, nel suo, era come se, a chi leggeva, l’autore dell’ἀντιλογία avesse rinviato e affidato il compito di osservare le parti, prima in sé e, quindi, nel tutto, invitandolo a ricercare in questo la verità delle due situazioni in conflitto. Era come se lo avesse avvertito che, nel dibattito che i due eroi avevano intrapreso, era impossibile che la verità stesse dalla parte di Aiace o da quella di Ulisse, e che uno dei due avesse al suo arco più frecce di quante non fosse disposto a dichiararne. Ulisse non era così scevro di malizia e di astuzia come, nel presentare sé stesso all’assemblea dei duces achei, pretendeva di essere? Certo, non era scevro di malizia e di astuzia. La sua astuzia non era che saggezza? No, era astuzia, sopra tutto astuzia. Ma non per questo egli era tuttavia quel mostro di viltà, doppiezza, slealtà, cattiveria che, nel suo furore, Aiace si era compiaciuto di dipingere: il personaggio subdolo e malvagio che, senza dubbio, Ovidio aveva incontrato in Pindaro, in Sofocle, nelle parole di Filottete, per esempio, e poi in quelle stesse, così esplicite, come vedemmo, nel predicare la necessità, per il proprio utile, della frode, che proprio lui gli attribuiva. Impatiens irae, Aiace Sigeia torvo/ litora respexit classemque in litore vultu, e, protendendo le mani, a quanti si erano riuniti per ascoltarlo rivolse un discorso duro e furente, dominato da un tema unico, e non suscettibile, in quel contesto, di variazioni. Se Ulisse era un eroe della parola, se per
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lui era più sicuro (tutius) fictis contendere verbis/ quam pugnare manu, tutt’altra era la virtù che apparteneva a lui, Aiace, figlio di Telamone, e perciò di nobile origine. Grande il padre che moenia […] forti Troiana sub Hercule cepit/ litoraque intravit Pagasaea Colcha carina (vv. 23-24). Non meno grande il figlio. Ecco, per esempio, un episodio della lunga guerra combattuta sotto le mura di Troia: Hector adest secumque deos in proelia ducit, quaque ruit, non tu tantum terreris, Ulixe, sed fortes etiam: tantum trahit ille timoris. Hunc ego sanguineae successu caedis ovantem eminus ingenti resupinum pondere fudi; hunc ego poscentem, cum quo concurreret, unus sustinui, sortemque meam vovistis, Achivi, et vestrae valuere preces. Si quaeritis huius fortunam pugnae, non sum superatus ab illo. Ecce ferunt Troes ferrumque ignesque Iovemque in Danaas classes: ubi nunc facundus Ulixes?18
Questo è un bell’esempio della tecnica oratoria di Aiace: impetuosa, e di altrettanto, maldestra. Nell’esaltare il suo coraggio, nel deprimere quello del suo avversario, egli non s’avvedeva infatti di star commettendo un’indelicatezza quando, non solo Ulisse offendeva, ma altresì i fortes che, anch’essi, alla vista di Ettore, erano stati presi dalla paura: tantum trahit ille timoris. Ma questo era Aiace. E a lui spettavano le armi di Achille, perché Aiax armis, non Aiaci arma petuntur (v. 97). Egli agisce di giorno, alla luce del sole, in modo che tutti possano vedere le imprese che ne sono compiute. A differenza di Ulisse che, per contro, opera di notte, protetto dalle tenebre. Di giorno no, perché è vile, e dinanzi al nemico non sa se non fuggire. Ma in quanto è vile, è anche sleale, ingeneroso, incapace di riconoscenza nei confronti di chi, come una volta Aiace, pur lo protesse in una pericolosa circostanza e gli salvò la vita. Argomenti netti, tali che nessuna replica avrebbe, a giudizio di chi li proponeva, potuto infirmarli. Che cosa Ulisse avrebbe infatti avuto da contrapporre alla loro evidenza? «Conferat his Ithacus Rhesum inbellemque Dolona/ Priamidenque Helenum rapta cum Pallade captum:/ luce nihil, gestum nihil est Diomede remoto» (vv. 98-100). Diomede remoto, la sua virtù non sarebbe esistita e non esisterebbe: al punto che se le armi di Achille fossero negate a lui, Aiace, e date a Ulisse, sarebbe come averle consegnate al nemico che, lungi dal temerlo a causa di quelle, subito le strapperebbe dalle sue mani.
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Per quanto riguarda la sostanza, il discorso di Aiace è tutto qui. È il discorso di un eroe schietto, tanto preso e dominato dalla sua virtù guerriera che gli è impossibile trasferirla nell’area della persuasione. Paragonata con quello di Ulisse che, esplicitamente porrà la forza dell’ingegno al di sopra di quella della mano, l’orazione di Aiace si rivela cosa di uomo semplice e troppo, si direbbe, incolto per essere sul serio virtuoso: sì che, non a torto, rivolto a lui, Ulisse gli dirà: «tibi dextera bello/ utilis, ingenium est, quod eget moderanime nostro» (vv. 361-62). Il che sembra trovare conferma nelle parole stesse di Aiace, che, nella conclusione del discorso, erano suonate, sopra tutto, arroganti. «Denique (quid verbis opus est?) spectemur agendo!/ Arma viri fortis medios mittantur in hostes:/ inde iubete peti et referentem ornata relatis» (vv. 120-23). È difficile, ma forse non impossibile, dire quale impressione, quando lo lesse, Dante ricevesse da questo discorso. Ma certo è che, se ne fu confermato nell’opinione relativa all’astuzia e alla frode, non perciò ne sarà stato indotto a condividere il punto di vista di Aiace e a pensare che quelle significassero anche viltà. Presso di lui Ulisse tutto era fuor che un vile. Eppure, viltà a parte, qualcosa del discorso di Aiace Dante ritenne: il riferimento al Palladio (v. 99), per esempio, a proposito del quale potrebbe anche darsi che dalla risposta data da Ulisse («nempe capi Troiam prohibebant fata sine illo!»19) tanto egli fosse stato colpito da indurlo a fare di quel «furto» una delle ragioni della condanna infernale del personaggio, mentre nel modo astuto messo in atto per risvegliare in Achille lo spirito guerriero e per sottrarlo al luogo nel quale la madre Teti lo aveva nascosto, è possibile che, oltre che da Ovidio (vv. 163-69), l’informazione gli derivasse da quel che, in Ach. 1, 885-86, Stazio aveva scritto di Deidamia: «ast alia plangebat parte retectos/ Deidamia dolos».20 Se questo fu, in Ovidio, il discorso di Aiace, e poco, molto poco, fu quel che Dante poté ricavarne per la delineazione del personaggio che gli urgeva nella fantasia e nella mente, di quale giovamento gli fu l’altro che proprio Ulisse ebbe ad autore? Di non grande giovamento, deve dirsi. Il contributo che, facendolo parlare, il poeta latino dette alla costruzione della sua complessità, è notevole, senza dubbio, sopra tutto se la si paragona alla scontata sommarietà dell’orazione attribuita a Aiace. E Dante ne sarà stato ammirato, anche se, a differenza di quel che era accaduto nel canto precedente, questa volta evitò di entrare in competizione con lui.21 In Ovidio Ulisse parla molto: con un compiacimento della sua bravura così grande che occorsero non meno di duecen-
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tocinquantatre versi perché il suo discorso pervenisse alla mèta e si esaurisse. Quando toccò a lui di farlo parlare, con il testo ovidiano Dante non si cimentò se non per rendere breve quel che lì era stato lungo e prolisso: l’«orazion picciola» fu contenuta in undici versi, che andarono a far parte dei centodue dedicati all’intero episodio. Se quella che Ulisse pronunziava in Ovidio era essenzialmente un’apologia, nella quale egli giungeva persino a identificare sé stesso con Achille, che solo per suo merito, infatti, era stato nel campo acheo e aveva dirette le sue armi contro i nemici troiani, sì che opera illius mea sunt (v. 171), in Dante le cose andarono in modo assai diverso. Presso di lui Ulisse non parlò se non per dire l’essenziale a colui che gli aveva chiesto dove, «perduto», fosse andato morire. E nel racconto delle sue imprese non ci fu vanteria, non ci fu compiacimento. Aiace aveva vantata la sua nobile discendenza; e così anche il suo antagonista che, per altro, aveva soprattutto insistito sul punto che non degli antenati ci si dovesse vantare, non delle imprese da essi compiute: di quelle quae non fecimus ipsi (v. 140) vix ea nostra voco, aveva detto, lasciando intendere che un’altro era il concetto della nobiltà che gli stava nella mente. Ma nemmeno a questo spunto, che non era in disaccordo con quello che egli stesso aveva svolto nel quarto trattato del Convivio, Dante trovò il modo di accennare. Il suo personaggio guardava alle cose, e in queste, soltanto in queste, faceva che altri, eventualmente, ritrovasse il senso della sua propria nobiltà. Che, per esempio, agli affetti domestici egli avesse preferito la conoscenza del mondo, era un fatto, registrato con la stessa, quasi fredda, obiettività che poi egli mise nel parlare dell’ultimo viaggio e della catastrofe che lo concluse. Se, per conseguenza, è giusto definirlo un eroe dell’ananke, anche deve dirsi che il genio della sua oratoria fu, in Dante, una sobria essenzialità. Se nel tessere due fra i suoi inganni più famosi,22 Ulisse ebbe compagno Diomede, ed è questa la ragione per la quale con lui fu incluso nella stessa fiamma, nell’ultimo viaggio invece fu solo (il che costituisce, fra l’altro, la riprova che, comunque lo giudicasse peccaminoso, quell’estrema avventura non rientrava fra i peccati di frode, sì che, nel ventiseiesimo canto, ebbe un rilievo, per dir così, extrastrutturale).23 E suo, soltanto suo, fu il coraggio con il quale lo decise, lo intraprese, lo spinse al di là del limite che era stato posto all’audacia dei naviganti. Fra l’inventor scelerum di virgiliana memoria, che di quelli pagava il fio nell’ottava bolgia, e l’eroe che aveva sfidata la sorte dell’ultimo viaggio al di là delle colonne d’Ercole,
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non c’era, dunque, continuità.24 Non c’era nemmeno frattura o contraddizione. C’era, questo sì, disparità. Richiamare il viaggio nell’area della frode, farne qualcosa come il momento culminante e conclusivo di questa, vedere il suo segno nel contrappasso per il quale l’ingannatore fu infine ingannato proprio nei paraggi della montagna che sembrava potesse offrire la sicurezza di un approdo («noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto») è, o il frutto di un’autentica Blendung, o la conseguenza di un’astratta disposizione al sofisma. Nella fiamma si puniscono peccati che furono commessi con Diomede. Ma il viaggio fu compiuto remoto Diomede, per usare l’espressione polemica di Aiace. Era inevitabile perciò non includerlo fra le ragioni che ai due eroi avevano meritato l’Inferno. Un’ultima considerazione, e, su questo punto, potrà concludersi. Se sul serio Dante avesse mai pensato che fu nel segno dell’inganno che Ulisse aveva pronunziata la famosa «orazion picciola», questo suo peccato avrebbe allora dovuto essere punito, non nell’ottava bolgia, dove in effetti a patire la pena erano coloro che a chi non aveva ragione di fidarsene avevano rivolto l’inganno, ma nella nona, dove si trovavano quelli che a gente che si fidava avevano tesa la rete. Di Ulisse i compagni si fidavano: non erano passati con lui, protetti da lui, attraverso «cento milia perigli»? A differenza dei Troiani che in quel greco noto per la sua astuzia non avrebbero potuto non vedere un nemico, e, anche se «dona ferentem», temerlo, di diffidarne i compagni non avevano alcun motivo. Per questo deve dirsi che se, a ragione, e cioè per le frodi che aveva ordite, Ulisse era stato collocato nell’ottava bolgia, per certo la «ragione strutturale» sarebbe stata infranta se a quel peccato si fosse aggiunto l’altro, consistente nell’avere ingannato chi si fidava di lui. E a fortiori infranta quella ragione sarebbe stata se, nel «peccato» di Ulisse si fosse preteso che, insieme alle frodi, anche fossero compresi l’orgoglio, la superbia, l’impazienza del limite, che lo avevano indotto a intraprendere un viaggio che di queste qualità negative poteva ben essere considerato come la sintesi simbolica. Insomma, se fu in ragione del primo peccato che Ulisse fu collocato nell’ottava bolgia, proprio per questo il secondo, che non fu di frode, non avrebbe dovuto essergli aggiunto come se, rientrando nello stesso ambito, avesse richiesta la stessa pena. Se questo Dante avesse preteso, gli sarebbe stato impossibile sfuggire all’incoerenza: proprio come sistematicamente accadde a quanti, succubi di quello che bene potrebbe esser detto il culto superstizioso dell’unità, non si accorsero di vedere la frode dove altri, se mai, e non con piena ragione, aveva visto
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la superbia. Che, se è superbia, è ribellione a Dio, oltraggio recato alla sua maestà, e peccato perciò gravissimo; che a nessun titolo avrebbe, per altro potuto essere considerato come un peccato anche di frode. In realtà, come non fu compiuto nel segno della frode, nemmeno il viaggio lo fu in quello della superbia. Se, oltre che per aver frodato e ingannato, nell’ottava bolgia Ulisse fosse stato punito anche per la superbia, se, come parve al Pietrobono, e ad altri con lui, l’eroe greco avesse ripetuto il gesto di Lucifero, e il testo (si badi: il testo) autorizzasse questa tesi, a delinearsi sarebbero due questioni, non parimenti spinose, ma spinose tuttavia entrambe: anche quella che, in un certo senso, lo è di meno. La prima è che nessuno degli ospiti dell’Inferno vi è condannato per due, o per più peccati. Se così fosse, come questi sono puniti in luoghi diversi della regione infernale, così, rimanendo sé stesso, l’autore di due peccati avrebbe, nello stesso tempo, dovuto occuparne due: il che, come ben si comprende, è impossibile. È ben vero che Filippo Argenti, Capaneo, Vanni Fucci, lo stesso Farinata, che sembrava avere l’Inferno «in gran dispitto», sono personaggi superbi, disdegnosi del dio che li ha puniti.25 Ma vero è anche che la loro punizione riguarda peccati diversi in luoghi diversi. In quanto peccato, la superbia ha il suo posto, non nell’Inferno, dove, come già il Witte26 ebbe a notare, sono condannati i peccati che i teologi definiscono «attuali»,27 ma nel Purgatorio, dove si espiano quelli capitali.28 Donde, a ben guardare, la seconda questione; che, al di là delle distinzioni e delle più o meno plausibili classificazioni; al di là della stessa differenza introdotta fra i peccati attuali e peccati capitali, riguarda il perché: e invita perciò a cercare la ragione per la quale, tanti essendo i superbi che affollano il suo Inferno, a riunirli in un unico luogo Dante incontrasse la difficoltà che invece non gli si parò dinanzi quando quel peccato gli si ripresentò fra quelli che erano in via di espiazione nel Purgatorio.29 È una questione non semplice, la cui soluzione non si trova in luoghi nei quale Dante l’abbia resa esplicita. E la si deve forse cercare nelle imbarazzanti conseguenze a cui sarebbe andato incontro se a quel peccato avesse cercato una precisa collocazione in un preciso luogo dell’Inferno. L’imbarazzo e la difficoltà si sarebbero subito resi evidenti se si fosse considerato che, in realtà, c’è un luogo dell’Inferno in cui la superbia è punita; un luogo che è, e, tuttavia, anche non è, un luogo, e il superbo che vi è punito non è tale da poter dividerlo con altri. Il superbo di cui si parla, e il cui destino è di star solo, in quel luogo che è, e non è, un luogo d’Inferno, – questo superbo è, naturalmente, Lucifero. È noto quale sia stata al riguardo la invenzione di Dante. Quando cadde giù dal cielo empireo, e, per sfuggire il contatto con lui, la terra si
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ritrasse, l’angelo ribelle andò a occupare il vuoto che, formatosi al suo centro, divenne la parte più stretta del cono capovolto che ospitò l’Inferno.30 Non è questa la sede nella quale possa riprendersi la questione relativa alla differenza che può notarsi fra questa descrizione delle conseguenze scaturite dalla caduta del grande angelo ribelle e quel che, a proposito dello stesso fenomeno, si legge nella Quaestio de aqua et terra, dove la «grandiosa concezione fantastica»31 svolta nel trentesimoquarto dell’Inferno fu riformulata, se l’autore ne fu Dante, in termini scientifici.32 Poiché si sta alludendo all’ordinamento dei peccati nell’al di là infernale, e l’attenzione deve perciò rimanere concentrata sulla prima cantica, conviene dir chiaro che, in tanto qui si è parlato della solitudine di Lucifero e del suo occupare un luogo che è, e non è, un luogo d’Inferno, in quanto, nella visione cosmologica che Dante assumeva dalle sue fonti e, in parte, adattava alle sue esigenze, dal suo essere stato proiettato al centro della terra derivò che quello vi si trovasse imprigionato in modo che le gambe rimasero in un emisfero, mentre il busto e il capo tricipite occuparono la parte più bassa dell’altro, sì che egli se le trovò di fronte quando, con Virgilio, ebbe percorso l’ultimo tratto della Giudecca. Se perciò fu la stessa voragine infernale a essersi formata in seguito alla, e come conseguenza della, caduta di Lucifero, può ben comprendersi perché, in quanto tale, la superbia non avesse, nell’Inferno, un luogo specifico nel quale fosse accolta e punita negli individui umani che in vita se ne erano resi vittime. Può comprendersi perché, «si accipiatur», come si legge nel de malo di Tommaso d’Aquino,33 «peccatum superbiae secundum effectum, communiter invenitur in omni peccato: est enim quidam effectus superbiae non subdi regulae superioris, quod facit quicumque peccat in quantum non subditur legi Dei».34 Se, come altri aveva asserito, la superbia è la radice di ogni male, in termini aristotelici potrebbe dirsi che come, nel suo nome, l’Inferno è il «genere» in cui rientrano tutte le species peccaminose, così in queste sono inclusi gli individui peccatori: in modo tale che, se l’individuo rientra nella specie e questa nel genere, per questa ragione è impossibile che a trovar posto, attraverso gli individui, nella specie sia il genere. Può perciò ulteriormente comprendersi perché l’angelo ribelle stia solo, e non abbia compagni in un luogo che, per una parte soltanto appartenendo a quella regione, è in effetti occupato per intero da lui che non ha, in quel peccato, chi possa essergli pari. Poiché, sia pure involontariamente, Lucifero è la «causa», si direbbe, fisica, dell’Inferno, anche è comprensibile che debba, per un verso esserne compreso e, per un altro, rimanervi estraneo: proprio come, dal punto di
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vista metafisico, potrebbe aggiungersi che, essendo all’origine del male stesso del mondo e, perciò, dell’Inferno in cui è punito, il suo peccato sia, non una parte, e quindi, in questo senso, un effetto, ma l’origine, la causa, e, in questo senso, coincida perciò con il tutto. Anche da altro la questione era resa acuta: e cioè della considerazione che doveva farsi del peccato di Adamo. Anch’esso infatti era consistito in un atto di folle superbia, nella trasgressione dell’unico divieto che Dio aveva imposto ai due abitanti del Paradiso terrestre: con la conseguenza tuttavia che, se di esso Dante avesse giudicato con lo stesso criterio che necessariamente aveva fatto valere nei confronti di Lucifero, evidenti difficoltà sarebbero insorte nel momento in cui avesse dovuto trattare, non solo dell’ordinamento dell’al di là e, in particolare, del peccato commesso dai progenitori del genere umano, ma del senso da attribuire alla storia, intesa come storia della caduta e della salvezza. Come ribelli al volere di Dio, entrambi, Lucifero e Adamo, avrebbero dovuto essere condannati: più gravemente, se si vuole, il primo, che era un angelo e non un uomo, con minore gravità, il secondo che, essendo un uomo, e non un angelo, aveva tuttavia commesso un peccato così grave e radicale da coinvolgervi, con il suo specifico destino, il piano stesso della creazione divina. Ma se in Lucifero e nella sua caduta era stata individuata l’origine dell’Inferno, che era la sua eterna sede, e il luogo in cui i peccati commessi in terra sarebbero stati puniti, perché non altrettanto era avvenuto e avveniva per Adamo? L’affermazione della sua salvezza non era stata, agli inizi, senza contrasti; né era mancato chi, sollevando per altro molte proteste, aveva ritenuto che egli fosse stato non salvato, ma condannato all’eterna pena: così Taziano, per esempio, e i suoi seguaci, verso la fine del secondo secolo.35 Poi la tesi della salvezza aveva prevalso; e sebbene non fosse mancato chi, di tempo in tempo, la contestasse, alla fine si affermò. Dal vecchio Adamo, nella Epistola ai Corinzi, 15, 45, Paolo di Tarso aveva visto sorgere il novissimus, che anche aveva interpretato come forma futuri.36 Per parte sua, sulla salvezza di Adamo che, dopo la morte, era disceso «all’infernale ambascia»,37 Dante non ebbe alcun dubbio: in Inferno IV 55-60, disse che Cristo («un possente/ con segno di vittoria coronato») era disceso al Limbo per trarnelo fuori insieme ai Patriarchi, e, con questi, trasferirlo in cielo. Che in tutto questo vi fosse una logica, e l’assunto della salvezza a tal segno concordasse con l’idea del Cristo redentore dell’umanità che, come Dante aveva scritto nel Convivio IV v 3, «per lo peccato della prevaricazione del primo uomo, da Dio era partita e disformata», da non poterne essere
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disgiunto, è evidente. E questa è, per farla breve, l’altra ragione per la quale al peccato della superbia Dante non poté trovare un posto nell’Inferno. A impedirlo furono, sebbene diverso fosse il loro destino, sia Lucifero sia Adamo. Si è visto perché la specifica, e non ripetibile, punizione inflitta da Dio all’angelo ribelle impedisse che a quel peccato si trovasse un luogo determinato. E ora deve constatarsi che, malgrado la diversità del suo destino, anche Adamo, che dopo la sua morte terrena, era stato accolto nel Limbo e quindi assunto in cielo, dava testimonianza dell’impossibilità che il peccato della superbia, il suo peccato, fosse incluso fra quelli specificamente puniti nell’Inferno. A sua volta, perché è a lui che, finalmente, deve ritornarsi, Ulisse non può essere paragonato né a Lucifero né ad Adamo che, diversi l’uno dall’altro, ed entrambi, tuttavia, prototipi della superbia, nell’Inferno, ossia in una parte specifica dell’Inferno, non avevano trovato posto. Sebbene in senso proprio Dante non lo asserisse, può ben ammettersi che ci fosse della superbia nell’animo di Ulisse, o che, come qui si preferisce dire, quella si esprimesse nel desiderio da cui, ἀναγκαίως, egli era spinto ad andar oltre ogni oltre: anche se, stando per esempio a quel che al riguardo fu ragionato da Tommaso d’Aquino, dovrebbe dirsi che non tanto espressione di superbia fu il suo desiderio di sapere, quanto piuttosto di curiositas, un peccato, questo, uguale e contrario all’altro che ha nome negligentia. Quia ad rationem pertinet dirigere appetitum, et praecipue secundum quod est lege Dei informata, ideo si appetitus feratur in aliquod bonum naturaliter desideratum secundum regulam rationis, erit appetitus rectus et virtuosus, si vero transcendat regulam rationis vel ab ea deficiat, erit utrobique peccatum; sicut appetitus sciendi est homini naturalis: unde si homo scientiae intendat secundum quod recta ratio dictat, erit virtuosum et laudabile, si vero transcendat aliquis regulam rationis, ertit peccatum curiositatis, si vero deficiat, erit peccatum negligentiae.38
Ma, se l’impresa di Ulisse poteva essere ascritta alla curiositas e alla sua peccaminosità intrinseca, resta che altro il desiderio dell’oltre, altra la frode; che non ha a che fare, infatti, con il desiderio dell’oltre. Chi perciò, nel nome di un’idea, non critica ma retorica, della «struttura», pretendesse che il «folle volo» fosse messo in serie con l’agguato del cavallo e con l’«arte» onde Achille fu sottratto all’amore di Deidamia, – chi insomma pretendesse di dare, per questo aspetto, una lettura «unitaria» del ventiseiesimo canto, mostrerebbe di non aver capito che è proprio per ragioni strutturali, e soltanto strutturali, che a quella presunta lettura unitaria il canto non può essere
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sottoposto. È per ragioni strutturali, infatti, e non solo, o non tanto, per la libertà che eventualmente Dante si fosse presa nei confronti della struttura, che l’«orazion picciola» si esclude dall’ambito determinato dal peccato di frode, e sta a sé. È per ragioni strutturali che il racconto del viaggio e della morte che ne costituì l’esito si inscrive nell’area, non della frode, ma dall’«ardore» della conoscenza; che con quella non ha niente che fare. Il paragone con Lucifero e con Adamo ha senso, perciò, solo se si arriva a capire che se, pur appartenendo alla sua anima, la superbia non poté essere contata fra le cause della condanna di Ulisse, è perché solo per i primi due quella si era configurata nella forma pura e originaria di un attuale peccato. Di un peccato che, in quanto tale, Dio, perciò, punì imprigionando Lucifero al centro della terra e scacciando il primo uomo e la prima donna dal Paradiso terrestre. Che perciò il peccato di orgoglio, o di superbia, rimanesse sullo sfondo in modo che si avrebbe torto se lo si aggiungesse a quello che, esso solo, determinò la pena di Ulisse nell’ottava bolgia, dovrebbe comprendersi, a questo punto, con facilità. Ed è giusto, è in perfetto accordo con la ragione strutturale, che, nel descrivere il «folle volo» e nello spiegarne i motivi, il personaggio parlasse bensì dell’«ardore» che aveva avuto «a divenir del mondo esperto» (v. 98), ma dell’orgoglio e della superbia tacesse. Del resto, Ulisse rispondeva a quel che gli era stato chiesto, e che più di ogni altra cosa gli stava nel cuore. E che di questo parlasse, e non delle ragioni per le quali era stato condannato, non deve sorprendere. Questa è infatti una peculiarità sua, come anche, tuttavia, di altri dannati che, nel luogo della pena, soprattutto ad altro, e in presenza di un ospite vivo, avevano la mente, e di questo parlavano a Dante. Così Farinata non alluse all’eresia che gli aveva meritato il castigo nell’arca infuocata: parlò di politica fiorentina, e sulla immortalità o mortalità dell’anima non dissertò. Brunetto Latini non accennò, se non in modo veloce e obliquo, al peccato da lui commesso e che, non certo per aver scritto in francese il suo Tresor,39 lo aveva condotto sulla sabbia rovente, e sotto la pioggia di fuoco, che tormentava i sodomiti. Pier della Vigna si riferì bensì al gesto con cui si era data la morte («credendo col morir fuggir disdegno,/ ingiusto fece me contro me giusto» [XIII 71-72]), ma, per il resto, rievocò le fasi essenziali della sua vita, ricordò l’affetto e la confidenza che lo avevano legato a Federico II, del cui cuore aveva tenute «ambo le chiavi», parlò dell’invidia di cui era stato oggetto e che della sua vita aveva fatto un dramma e, alla fine, un’autentica tragedia.
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Il personaggio che, fra le tante storie narrate nell’Inferno, raccontò la più fosca e sinistra e orribile, persino il conte Ugolino fece che la sua rabbia esplodesse contro la crudeltà esercitata su di lui e, in primo luogo, sui suoi figli, senza che del tradimento egli parlasse come di cosa che appartenesse a lui e non invece ai suoi nemici: «al traditor», dice, «ch’i’ rodo» (XXXIII 8). A tal punto il conte Ugolino si dichiarava innocente di quel crimine, che, pur nel vivo della furente invettiva antipisana, fu proprio Dante a rimettere le cose in equilibrio, sollevando, quanto meno, un dubbio sulla sua innocenza; «che se ’l conte Ugolino aveva voce/ d’aver tradito te de le castella,/ non dovei tu i figliuoi porre a tal croce» (vv. 87-88). A parte i minori, fra i grandi personaggi dell’Inferno, solo Francesca da Rimini e Guido da Montefeltro parlarono in modo che il racconto della loro umana vicenda di fatto coincidesse con il racconto dell’evento peccaminoso che li aveva perduti. Il che si dice, non per diminuire l’importanza del loro esempio, ma solo per ricordare, ancora una volta, con quanta libertà Dante sapesse, non eludere, ma rendere concreta, la struttura che, con le sue articolazioni e distinzioni, aveva conferita al regno infernale.
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Note 1. P. Boyde, Human Vices and human Worth in Dante’s “Comedy”, Cambridge 2000, pp. 231 ss. 2. È inaccettabile, per conseguenza, quel che si legge in G. Brugnoli, Studi danteschi, III, Dante filologo: l’esempio di Ulisse, Pisa 1998, pp. 25-26, passim. E lo stesso deve esser detto per G. Padoan, Il pio Enea e l’empo Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Ravenna 1977, e per J. Scott, Dante magnanimo. Studi sulla «Commedia», Firenze 1977, pp. 117 ss. 3. Inf. XXVI 59-60. 4. Per le essenziali indicazioni bibliografiche, cfr. supra il mio L’ananke di Ulisse, nn. 7 e 10. Altre indicazioni in seguito. 5. E. Fraenkel, Horace, Oxford 1966, pp. 270-71, ha osservato che, «the experiences of certain daring Ionian sailors, who ventured to distant coasts and saw strange peoples, played a part in forming the figure of Odysseus, and thousands of years later, when Greece had become a dim saga, the genius of Dante created in his Ulisse the eternal prototype of the man to whom it is an axiom that πάντες ἄνθρωποι τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται φύσει and who Donde, se la connespays with his life for l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto». �������������������� sione può sembrare audace, risulta comunque evidente che Fraenkel interpretava l’Ulisse di Dante in modo conforme alla linea positiva della tradizione che lo riguarda. 6. Cfr. anche C. Diano, Forma ed evento. Principii per un’interpretazione del mondo greco, Venezia 1952, pp. 76-79. 7. M. Detienne, J-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, trad. it., Bari 1977, pp. 10 ss, passim. 8. Cfr, in particolar modo W.B. Stanford, The Ulysses Theme. The Study in the Adaptability of a traditional Hero, Oxford 1964, pp. 382 ss. 9. Plat. Hip. mi. 364 E 2-3. Il passo è stato ricordato da Brugnoli, Studi danteschi, III, 31, che non solo però non ha tenuto conto di quello della Repubblica, ma nemmeno dall’Ippia minore ha tratto quel che avrebbe potuto, in relazione sia alla sua tesi generale, sia al contesto in cui, nel dialogo platonico, il contrasto tra Socrate e il protagonista si svolge. In realtà, deve notarsi che, sottoponendo a esame il discorso che Ippia aveva tenuto poco prima, Socrate lo aveva condotto ad ammettere che l’«astuto» (πολύτροπος) o il «più astuto» (πολυτροπώτατος) significano, nel caso specifico, nient’altro che «mendace» (365 B 7 τὸν πολύτροπον ψευδῆ λέγεις): sì che, al di là delle incertezze terminologiche e concettuali riscontrabili in Omero, su questo doveva convenirsi e, lasciando da parte il poeta, dar mano all’analisi dei concetti. 10. Plat. resp. 620 C 6. 11. Di qui la necessità, per quanti ritengano che tutto in Ulisse fosse menzogna e inganno, tutto, e anche perciò, e sopra tutto, il discorso con il quale indusse i compagni a seguirlo nell’ultimo viaggio, di ritenerlo intessuto con il filo della frode. Ma che, così facendo, si sovrapponga al testo di Dante la tradizione negativa del personaggio, e poi si pretenda che questa vi sia presente e vi operi, è evidente: cfr. infra, al riguardo, il mio saggio Delle lucciole, della frode e di alcune altre cose. 12. Diano, Forma ed evento, p. 75.
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13. Pind. Nem. 7, 20-22 ἐγὼ δὲ πλέον’ ἔλπομαι/ λόγον Ὀδυςςέος ἢ πάθαν/ διὰ τὸν ἁδυεπῆ γενέσθ’ Ὄμηρον. E cfr. su Odisseo e Aiace in lotta per le armi di Achille, Nem. 8, 25-29. 14. Cfr. H. Fränkel, Dichtung und Philosophie der fruehen Griechentums. Eine Geschichte der griechiscen Literatur von Homer bis Pindar, New York 1951, p. 406. E cfr. B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, n. ed., Milano 2006, p. 235. 15. Soph. Philottetes, 101. 16. Eur. Troi. 279-92. 17. Per la larghissima presenza di Ovidio nel Medioevo, rinvio alla nota bibliografica apposta da E. Paratore alla «voce» Ovidio, ED, IV, 236-37, nella quale, oltre al primo contributo di A. Monteverdi, Ovidio nel Medioevo, in «Studi medievali», n.s., 9 (1936), pp. 162-82, qui non citato, sono da tenere particolarmente presenti E. Moore, Dante and Ovid, in Studies on Dante, Oxford 1896, pp. 206 ss, S. Battaglia, La coscienza letteraria del Medioevo, Napoli 1965, pp. 23 ss, e G. Martellotti, Dante e i classici, in «Cultura e scuola», 13-14 (1965), pp. 125 ss. 18. Met. 13, 83-92. 19. Met. 13, 339. 20. Brugnoli, Studi danteschi, III, 30 n.15. Aggiungo che, a proposito dei vv. 61-62: «piangevisi entro l’arte per che, morta,/ Deidamia ancor si duol d’Achille», contro l’interpretazione prevalente, che in «morta» vede la conseguenza del dolore di Deidamia per essere stata abbandonata, Brugnoli ha bensì fatto notare che, se fosse così, Dante si sarebbe allontanato sia dal mito sia dal racconto di Stazio. Ma, se ho visto bene, non ha spiegato come, collocato in quel punto, quel participio passato debba essere inteso. Avrebbe, a mio parere, reso completo e inconfutabile il suo rilievo se avesse notato che, collocato là dove si trova, il participio passato «morta» non può significare che Deidamìa fosse morta per il dolore del subìto abbandono, perché Dante dice che, morta, ossia da morta, essa ancora «si duol di Achille»: con il che dovrà intendersi che fosse la sua anima a provare ancora, nel luogo che la ospitava, quel dolore: altrimenti si verrebbe a dire che, da morta, essa provava il dolore che l’aveva uccisa! Vedo ora che nel suo recentissimo commento alla Commedia, I, Inferno, Roma 2007, p. 294, senza per altro citare Brugnoli, Inglese ha interpretato così il participio passato «morta», individuando «nel Limbo» il luogo in cui il dolore di Deidamia seguita a essere vivo, e rinviando, per il riscontro a Purg. XXII 114, dove Virgilio fa a Stazio, che ne aveva fatta richiesta, un elenco delle anime pagane ospitate in quel luogo (cfr. vv. 100-114). 21. Inf. XXV 97. 22. Confermo quel che, al riguardo, già ebbi a notare altrove (cfr. supra, L’ananke di Ulisse, pp. 16 ss, passim, e anche, con più decisione, Delle lucciole, della frode e di alcune altre cose), e cioè che la contaminazione del Palladio non sembra essere inscrivibile fra i peccati di frode. 23. Non è pedantesco osservare, anche perché non mi risulta che lo sia stato, che, poiché Dante indicò, ai vv. 58-63, i peccati di frode per i quali Ulisse è in quel luogo d’Inferno, fra questi avrebbe compreso anche il viaggio se l’avesse considerato come frutto dell’inganno perpetrato da lui ai danni dei compagni. 24. Credo sia giusto ricordare che su questo punto aveva visto giusto, polemizzando con Pietrobono, M. Barbi, Con Dante e con i suoi interpreti, Firenze 1941, p. 108. 25. Cfr. A. Mellone, ED, IV, 359 b-360 a.
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26. K. Witte, Dantes Sündensystem in Hölle und Fegefeuer, in Dante Forschungen. Altes und Neues, Halle 1896, p. 137. 27. Cfr., per es., Thomae Summa theol. II, q. 8, 5 ad 1. 28. Purg. IX 112-14. Sul significato, e la costruzione, della scena penitenziale descritta in questa parte del canto, cfr. osservazioni e letteratura. in E. Raimondi, Semantica del canto IX del “Purgatorio” (1968), in Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca, Torino 1970, pp. 116-18. 29. Purg. X 97-139. 30. Inf. XXXIV 121-26. 31. N. Sapegno, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1985, p. 385. 32. Si veda la spiegazione che, senza far ricorso alla causa (seconda) rappresentata dalla caduta di Lucifero, Dante dette nella Questio de aqua et terra, XX 23 ss, XXII 1 ss. Non entro qui nella controversia relativa all’autenticità di quest’opera, per la cui storia rinvio all’Introduzione di G. Padoan alla sua edizione del de situ et forma aquae et terrae, Padova 1968 (e cfr. anche il suo articolo La “Questio de aqua et terra”, in «Cultura e scuola», 4, 13-14 (1965), pp. 758-67) e a quella di F. Mazzoni al testo riprodotto in Opere minori, a cura di P.V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F. Mazzoni, II, Milano-Napoli 1979, pp. 693 ss. Di recente l’autenticità è stata negata da B. Nardi, La caduta di Lucifero e l’autenticità della “Quaestio de aqua et terra” (1959), in ‘Lecturae’ e altri studi danteschi, a cura di R. Abardo, Firenze 1990, pp. 227-67, e affermata da F. Mazzoni, nei due studi raccolti in Contributi di filologia dantesca, I, Firenze 1966, pp. 38-79, (80-125), il primo dei quali traccia la storia della questione. 33. Thomae de malo, q. 8, 2. 34. Tommaso non fu del resto il primo a considerare la superbia come la radice di ogni peccato. Già Agostino si era orientato in quel senso (De genesi ad litteram, XI 14, 18), influenzando nettamente Gregorio Magno, Moralia in Job, XXXI 87, PL 76, 621 a): «radix quippe cuncti mali superbia est, de qua Scriptura attestante (Sir. 10, 15) dicitur: initium omnis peccati est superbia». Altri testi, e letteratura in A. Solignac, Pèchès capitaux, in Dictionnaire de spiritualitè ascétique et mystique, fondè par M. Viller, F. Cavallera, J. de Guibert, S.J., LXXVIII-XXIX, Paris 1984, cc. 853-62. 35. X. Le Bachelet, Adam, in Dictionnaire de théologie catholique, I/1, Paris 1923, c. 380 a. 36. Rom. 5, 14 τύπος τοῦ μέλλοντος. 37. Par. XXVI 133. 38. Thomae de malo, q. 8, 2. 39. Come fu invece sostenuto da A. Pézard, Dante sous la pluie de feu, Paris 1950.
Indice dei nomi
Abelardo, Pietro, 152 Ageno, F., 115, 117, 220 Agostino, Aurelio, 29, 117, 120, 133, 151, 153, 263 Alberti, Leon Battista, 113 Alighieri, Jacopo, 120 Alighieri, Pietro, 120 Amann, E., 117 Ariani, M., 105 Aristotele, 24, 47, 48, 56, 61, 75, 80, 113, 117, 119, 202, 204, 205, 206, 277, 220 Arnaldi, G., 13 Auerbach, E., 99, 151 Avalle, d’A. S., 90, 91, 92, 114 Averroè, 80, 99 Babbi, A.M., 95 Baldacci, O., 114 Baldelli, I., 104 Barberi Squarotti, G., 107 Barbi, M., 36, 90, 103, 183, 184, 263 Battaglia, S., 263 Becker, C., 95 Beltrami, P.G., 91 Benvenuto da Imola, v. Rambaldi B. Billanovich, G. 229, 241, 243 Blondel, M., 97 Boccaccio, Giovanni, 91, 92, 112, 222, 224, 26, 227, 228, 229-243 Boezio di Dacia, 97, 98, 99, 100 Boitani, P. 95
Boyde, P., 182, 184, 245 Borgia, Cesare, 107 Bosco, U., 105, 111, 120, 151, 184, 220 Branca, V, 112, 240 Brugnoli, G., 104, 111, 182 Bruni, Leonardo, 221 Buonaiuti, E., 152 Busnelli, G., 109, 220 Buti, Francesco da, 120, 155, 182 Campana, A., 242 Cantarella, E., 112 Cantù, Cesare, 228, 241 Capitani, O., 13 Carducci, Giosue, 228, 229, 241, 243 Carugati, G., 104, 105 Cavalcanti, Guido, 81 Cavallera, F, 264 Cecchini, E., 117 Cesareo, P., 104 Chiavacci Leonardi, A.M., 105, 107, 113, 114, 117 Christensen, H., 114 Cicerone, Marco T., 104, 248 Cioffari, V., 152 Colonne, Guido delle, 103 Contini, G., 91, 92, 152, 210, 220 Cooper, L., 107 Corrado, M., 103 Corti, M., 95, 96, 97, 98, 99, 112 Cosmo, U., 240
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Cratilo, 12 Croce, B., 103, 110 Curtius, E.R., 119 Curzio Rufo, 51, 52 Darete, 103 De Negri, 155, 156, 157, 166, 168, 171, 176, 177, 178, 182, 184 De Robertis, D. 113, 118, 151, 220 De Sanctis, F., 108 Del Lungo, I., 105 Detienne, M., 112 Diano, C., 262 Diels, H., 113 Ditti, 103 Dolfi, A., 113 Donati, Gemma, 222, 225, 226, 240 D’Ovidio, F., 104, 110, 163, 180, 183 Eckhart, Johannes, 105, 106 Eraclito, 45 Esposito, E., 101 Euripide, 250 Eusebio di Cesarea, 127 Federico II, di Svevia, 260 Feo, F., 241, 242 Festa, N., 95 Fiammazzo, A., 153 Flasch, K,152, 153 Folena, G., 108 Foresti, A., 241, 24 Fornaciari, R., 221 Forti, F., 110, 112 Foscolo, Ugo, 228, 241 Freccero, J., 113, 188, 219 Fraenkel, E., 262 Fränkel, H., 263 Fubini, M., 101, 102, 105, 108, 109, 115, 184 Gaeta, F., 151 Gagliardi, A., 99, 100 Garboli, C., 153 Gaudel, A., 153
Gautier de Châtillon, 51, 57 Gentile, G., 181 Gentili, B., 120, 179 Gentili, S., 13 Gesù, 127, 128, 130, 134, 142, 148 Getto, G., 108, 114, 115 Gilson, E., 118 Giovanni, evang., 133, 151 Ghisalberti, A., 108 Gorni, G., 113 Gorra, E., 220 Grabher, C., 110, 172, 174, 184, 219 Gregorio di Lissa, 152 Gregorio Magno, 152 Gregorio di Nazanzio, 152 Guerri, D., 219 Guibert, J. de, 264 Guido da Pisa, 120, 240 Guinizzelli, Guido, 195 Güntert, G., 103 Hagen, H., 112 Hauvette, H., 115 Hegel, G.W.F., 177 Heisig, K., 115, 220 Heubeck, A., 95, 183 Hollander, R., 119 Iannucci, A.A., 119 Ilario di Poitiers, 152 Inglese, G., 13, 104, 113, 117, 154, 182, 219, 263 Ireneo, 152 Isidoro, 120 Jacopone, 11 Kranz, W., 113 Lana, Jacopo della, 102, 116, 120 Landino, Cristoforo, 153, 240 Latini, Brunetto, 90, 91, 120, 210, 260 Le Bachelet, X., 151, 152, 154 Lombado, Pietro, 152
Indice dei nomi Lotman, J.M. 111 Lucano, Anneo M., 159, 182 Machiavelli, Niccolò, 111 Mancini, A., 113 Mangenot, E., 117 Manzoni, A., 96 Marchesi, C. 102 Mariano, E., 107 Marlowe, Cristopher, 111 Martellotti, G., 103, 111, 220, 263 Martini, A., 183 Martorana, M., 104 Mattalia, A., 105 Mazzoni, F., 219, 264 Mazzucchi, A., 184 Mengaldo, P.V., 108, 220 Mercuri, R., 180. 182 Mehus, L., 229 Mellone, A., 264 Meroi, F., 220 Momigliano, Att., 104, 19 Montano, R., 103, 240 Monteverdi, A., 180, 263 Moore, E., 111, 180, 263 Mori, A., 107 Nardi, B., 6, 102, 105, 108, 110,113, 115, 117, 118, 151, 154, 164, 184, 221, 140 Neri, F., 241 Omero, 43, 89, 103, 183, 213 Ossola, C., 105, 106, 116 Orazio, Flacco, 111, 161, 179, 180, 183 Ottimo, L’, 101 Ovidio, Nasone P., 111, 182, 183, 250, 251, 252, 253, 254, 255, 263 Padoan, G., 107, 108, 110, 113, 151, 153, 182, 220, 240, 264 Pagliaro, A., 101, 113, 114, 116, 117, 172, 184, 215, 216, 217, 218, 219 Panofsky, E., 177 Paolo di Tarso, 61, 80, 106, 152, 154, 258 Paratore, E., 104, 220, 263
267
Parodi, E.G., 103, 104, 108, 180 Pascoli, G., 106, 113 Pasquali, G., 179 Pasquini, E., 105, 117 Passerini, G.L., 240 Pastore Stocchi, M., 108 Pazzaglia, M., 101 Perrotta, G., 1789, 188 Pertile, L., 104 Petracco, 234, 237 Petrarca, Francesco,228, 229-243 Petrocchi, G., 108,116, 117, 183 Pézard, A., 107 Picone, M., 103, 108, 111, 112 Pietrobono, L., 101, 102, 151, 184, 227, 240 Pietroforte, S., 177 Pindaro, 250,26 Platone, 119, 249 Poletto, G., 112, 151 Porena, M., 104, 105 Privitera, G.A., 95 Procaccioli, P., 153 Quaglio, A.E., 117, 119 Raimondi, E., 113, 264 Rajna, P., 118 Rambaldi, Benvenuto da Imola, 19, 101, 102, 103, 105, 120, 172, 184 Reggio, G., 105, 117 Renaudet, A., 107 Renucci, P., 180 Ricci, P.G., 240 Ristoro d’Arezzo, 114 Romagnoli, S., 108 Ronzoni, D., 108 Rossi, M., 110 Rossi, V., 103 Rüegg, A., 110 Ruffini, F., 110 Sainte-Maure, Benoît de, 107, 248 Sanesi, I., 102 Sapegno, N., 102, 105, 108, 110, 113, 115, 183, 187, 190, 219, 264
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Ulisse e il desiderio
Sasso, G., 104, 110, 117, 20, 151, 182, 183, 241 Seneca, Lucio Anneo, 111, 120, 139, 248 Seriacopi, M., 101, 102, 114 Servio, 41, 111 Scapparrone, E., 220 Scherillo, M., 220 Schneider, F., 153 Scott. J.A., 1078, 113, 151 Shakespeare, W., 111 Schwartz, E., 95 Shaw, P., 183 Sigieri di Brabante, 96, 97, 98, 99, 100, 115 Simonelli, M., 117 Simonide, 119 Sofocle, 160, 251, 263 Solignac, A., 264 Sordello, 195 Squillacioti, P., 91 Stanford, W.B., 101, 112, 184, 240, 248 Stazio, Publio P., 253, 263 Steiner, C., 105, 187, 219 Tasso, Torquato, 187 Terracini, B., 120 Thilo, G., 112 Toynbee, P., 220 Tommaso d’Aquino, 55, 64, 97, 98, 108,
117, 118, 119, 120, 128, 131, 132, 139, 140, 141, 152, 153, 154, 257, 259, 264 Torraca, F., 172, 174, 184 Torri, P., 91 Tartaro, A., 13 Uberti, Fazio degli, 91, 92 Vacant, A., 117 Vandelli, G., 105, 116, 117, 220 Van der Meersch, J., 117 Varisco, B., 117 Vasoli, C., 118, 119, 220 Vatteroni, S., 91 Vernant, J.P., 112, 113 Vicinelli, A., 106 Viller, M., 264 Virgilio, Marone P., 17, 46, 104, 112, 113, 159, 182, 183, 184, 211, 220, 245, 249 Visconti, Giovanni, 229, 241 Vivaldi, Sorleone, 113 Vivaldi, Ugolino, 113 Vivaldi, Vadino, 113 Vossler, K., 107 Witte, K., 256, 264 Zardini, V., 95 Zottoli, V., 95