Il canto e il veleno. Bucolici greci minori 9788855292436, 9788855292443

Virgilio, Ovidio, Tasso e forse lo stesso Leopardi non sarebbero stati gli stessi senza i cosiddetti bucolici greci mino

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Italian Pages 160 [152] Year 2021

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Il canto e il veleno. Bucolici greci minori
 9788855292436, 9788855292443

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Il canto e il veleno Bucolici greci minori

a cura di Francesco Bargellini

La Collana Quella degli autori greci e latini è una biblioteca straordinaria: sono testi sopravvissuti, mai per caso, a millenni di cambiamenti e a infinite catastrofi. Alcuni li abbiamo conosciuti sui banchi di scuola, ma le gemme che gli antichi ci hanno lasciato sono assai di più. Molte meritano di essere riscoperte, in un formato accessibile anche ai non addetti ai lavori. Questi sono i “classici smarriti”, proposti in un percorso che permetterà di conoscere aspetti nuovi, inediti, inaspettati dell’antichità, e dunque di comprendere meglio anche il nostro mondo, e noi stessi. Prossime uscite: 2. Quel che Omero non disse, a cura di Damiano Fermi. 3. Le pietre di Orfeo, a cura di Sonia Macrì. 4. Plinio risponde (Medicina Plinii), a cura di Alice Borgna.

Classici smarriti

Collana diretta da Tommaso Braccini

Classici smarriti | 1

Mosco, Bione, Anonimi Il canto e il veleno Bucolici greci minori a cura di Francesco Bargellini Prefazione di Alessandro Fo

© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Classici smarriti ISSN: 2784-8221 n. 1 – aprile 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-243-6 ISBN – Ebook: 978-88-5529-244-3 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: A fragment of an ancient wall painting. Knossos Palace, Crete, Greece. © georgina198 – stock.adobe.com

Redatto in pieno 2020, e dunque in tempo di pandemia e relative chiusure, questo lavoro si appunta su una dimensione letteraria che vive, al contrario, en plein air e tra campi a distesa. La bucolica agisce nel fuori: se i suoi spazi non sono infiniti, tuttavia nessun tetto la separa dal cielo. Affrontando una tale materia, mi sono confermato nel pensiero che ogni nostra libertà possibile si fonda nel mondo, e precisamente nell’aderenza alla sua parte naturale, che è fatta di paesaggio e relazione. Non c’è stanza, benché riparata, che ci affranchi davvero; motivo in più per essere nostalgici di un tempo diverso, ed è bene lo siano in particolare i ragazzi più giovani, spesso allevati in video-serre e portati a simulare la vita soltanto, equivocandone le sedi e le forme. A loro soprattutto, e insieme alla mia esperienza di docente di scuola media, dedico questo libro.

Prefazione di Alessandro Fo

Non è impresa agevole chiamare ad adeguata evidenza, in una piccola monografia specificamente intesa a questo scopo, la personalità di autori la cui avventura umana resta pressoché del tutto sfuggente, e le cui opere si muovono all’interno di un genere che presenta, al contempo, confini sostanzialmente evanescenti, e un complesso di ricorrenti motivi, personaggi e atteggiamenti topici. Ed è appunto questa la condizione di fronte a cui ci troviamo con i cosiddetti bucolici greci minori, etichettati per tali tenendo come termine di confronto la produzione del rappresentante più cospicuo (anche sul piano della quantità di testi) di questa linea poetica, cioè Teocrito. Accanto a una rosa di testi di incerta paternità o attribuzione, si delineano appena, e in forma poco distinta e nebulosa, due individualità di maggiore rilievo, Mosco e Bione. All’impervio compito di cui si diceva si è dedicato qui con attenta e appassionata cura un poeta come Francesco Bargellini, che è anche un solido specialista di letteratura greca. Fra le sue raccolte (le altre sono Il significato e dresda, Pezzini, Viareggio 2009 e 2011 rispettivamente; Sono paura, Polistampa, Firenze 2013; L’impresa di ponte, Oédipus, Salerno 2019) la profonda convergenza delle sue “due anime” si misura soprattutto nella sensazionale operazione costituita dalla silloge

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Platone! (Aragno, Torino 2016). In questo singolare «esperimento», come lui stesso lo ha definito, Bargellini ha raccolto, tradotto e rielaborato in versi i passaggi più lirici di Platone, universalmente riconosciuto – e in particolare grazie ai suoi celebri “miti” – un prestigioso poeta della prosa. È un precedente che va portato ad adeguato risalto, perché illumina con eloquenza i presupposti in virtù dei quali abbiamo ora fra le mani, grazie al lavoro del poeta-filologo, un libretto elegante e incantevole, che sulla scorta dei progressi della critica che puntualmente Bargellini mette a profitto, e della vocazione del traduttore, restituisce quanto più possibile nettezza di lineamenti a queste antiche figure in ombra e freschezza di toni alle loro realizzazioni. Mosco “e dintorni”: di questo poeta sappiamo solo che fu di Siracusa, e fu anche filologo, amico e probabilmente allievo del famoso filologo Aristarco (215-144 a.C.), con il che riusciamo a situarlo nel II secolo. A ricondurlo alla categoria del “bucolico” – su cui Bargellini si diffonde con precisione e competenza nella preziosa Introduzione dal suggestivo titolo Greci minori nell’eterna bucolica – valgono forse soprattutto i suoi quattro «frammenti», e in particolare il primo, in cui l’ego, comparando vita di terra e vita sul mare, opta per il tipico locus amoenus caro all’universo stilizzato dei pastori-cantori. Per il resto, la tavolozza di Mosco ci porta nel pieno della sperimentazione ellenistica, che, partendo da un “genere” di riferimento, gioca a dilatarne i confini in fughe di preziosistiche innovazioni. In lui l’idillio – virato fra più o meno consistenti tratti bucolici, e maggiori apporti, invece, ora dell’epigramma e ora dell’epos – approda ai due mirabili risultati del cosiddetto Eros fuggitivo e dell’Europa. Il primo, di 29 (o forse 30) esametri, è un malioso e malizioso bando di Afrodite al fine di recuperare il capriccioso e pericoloso figlio Eros, presentato come “schiavo fuggitivo”. I due personaggi sono di casa anche nella bucolica, ma qui ne paiono piuttosto uscire fuori, per praticare stanze da loro stessi ampiamente frequentate nella leggera, delicata, fittissima produzione epigrammatica del tempo. Di

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strettamente “bucolico” c’è poco anche nell’Europa, idillio che strizza l’occhio all’epica (ne nasce la moderna designazione di «epillio»), ritaglio narrativo su un episodio degli amori di Zeus, nello spirito dell’aition (il rapimento della fanciulla “causerà” il nome del nostro continente), e in un raffinatissimo gioco di rispecchiamenti tematici fra la storia principale e quella di un’ékphrasis, la digressione che descrive il cestello in cui la fanciulla deporrà i fiori raccolti. Sul cestello di Europa (eponima del continente), destinata a essere rapita da est a ovest ad opera di Zeus tramutatosi in toro, è cesellata la storia di Io, amata da Zeus e trasformata da Hera in una vitella destinata a migrare dall’Argolide verso est (e dare il nome al Bosforo e alla Ionia), finché recupererà in Egitto le sue fattezze umane. A Mosco risultano erroneamente attribuiti altri due “cammei” che il lettore incontrerà in questo libro, ma giustamente in una separata sezione di componimenti anonimi e adespoti. Un altro epillio sui generis, la Megara, in cui la provocatoria scommessa tecnica è narrare senza narrare: a una prima battuta dell’infelice moglie di Eracle che dà il titolo al componimento, farà riscontro, dopo soli sei esametri di raccordo diegetico, il nuovo e consolatorio discorso diretto della madre dell’Eroe Alcmena. E, poi, l’Epitafio di Bione con il quale entriamo nel dominio dell’altro principale autore qui presentato. Bione “e dintorni”: di Bione – come puntualizza l’introduzione di Bargellini – sappiamo appena che era nato nei pressi di Smirne, e dobbiamo accontentarci di ricavare da argomentazioni filologiche una sua quasi sicura posteriorità rispetto a Mosco. Anche per questo non sembra poter essere di Mosco, cui pure è stato in passato attribuito, il ricordato Epitafio di Bione da cui si ricava, oltre a un convinto apprezzamento per il suo canto bucolico, la morte del poeta per avvelenamento, non si sa se di altrui o propria mano. Questo componimento è un commosso omaggio da parte di un poeta che dimostra di aver appreso a fondo i delicati insegnamenti del maestro. Molto di più non possiamo dire. La figura di Bione resta così, per noi, inscritta fra due Epitafi: questo appena rievocato, che un fe-

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dele e appassionato allievo scrisse per lui, e i 98 esametri (dal suo stesso allievo evocati) che Bione aveva elaborato a prezioso compianto di un seducente personaggio mitico, già amante di Afrodite: giustamente Bargellini, che poi ne valorizza in ogni modo i particolari, scrive nell’Introduzione che «la fama del poeta smirneo è essenzialmente legata a uno dei carmi più belli e straordinari dell’età ellenistica, l’Epitafio di Adone». Anche Bione si trovò a giocare con l’idillio narrativo, calibrando in “formale” veste di canto bucolico un Epitalamio di Achille e Deidamìa che purtroppo ci perviene incompleto. Per il resto, la sua voce si leva e si spegne con le intermittenze di una problematica sintonia radiofonica nei ben diciassette frammenti che conserviamo, spesso lasciandoci perfino incerti se si tratti oppure no di brevi componimenti tramandatici interamente. Mosco e Bione, dunque, e i loro dintorni, ovvero gli adespoti Megara ed Epitafio di Bione, cui Bargellini felicemente aggiunge «l’anacreontica tràdita dal codice Vaticano 1824 Per Adone morto, un carme di 46 versi eptasillabi (dimetri giambici catalettici) di età tardoantica e forse protobizantina», che «riprende e in un certo senso archivia, nella sua amena frivolezza, il motivo adonio al centro del più importante carme bioneo» (cito dalle pp. 33 e 46). Nella composita e seducente costellazione di carmi raccolta sotto questa copertina, gli astri che più splendono sono in sintesi l’Epitafio di Adone, cui Bargellini assegna – lo si è visto – un’importanza e un rilievo del tutto speciali; e l’accorato, così umano e autentico pur fra le volute di accademici preziosismi, Epitafio per Bione, voce toccante di un allievo devoto. E ancora, sul fronte di Mosco, l’Europa e l’Eros fuggitivo. L’inquadramento introduttivo di Bargellini è impeccabile, e così pure il cospicuo apparato di note a sussidio della lettura dei singoli componimenti – paratesti insigniti, l’uno e l’altro, del pregio di una prosa critica tanto aliena da frusta pedanteria, quanto pronta a impennarsi in personali espressioni icasticamente suggestive. Penso a escursioni come «il motivo del

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bacio è calcato per verba con un’ossessività che è tra le ragioni poetiche del carme, con la battente disperazione che vi si accompagna» (nota al v. 14 dell’Epitafio di Adone); o come l’appunto che vede il defunto Bione «trasferito nel mondo della sua poesia, stavolta come una sorta di ciclope ad honorem» (nota 24 all’Epitafio di Bione). E ancora il ribadire (nota 39 all’Epitafio di Bione) che «la bucolica, per quei tratti essenziali che si lasciano enucleare dalle sue pur disparate incarnazioni, non esclude per nulla dal suo perimetro né il dolore né la morte, che anzi è regolare ingrediente del canto. Canto e veleno, appunto, come si è voluto intitolare il libro presente». O infine una delle più personali conclusioni di Bargellini (introduzione, al contesto delle note 138-139) su quello che Seamus Heaney definirebbe «the Staying Power of Pastoral» (cito dal sottotitolo del suo saggio del 2002 Eclogues in extremis, facilmente reperibile in traduzione italiana di Gabriella Morisco nel reading intitolato Resistenza del Classico, a cura di R. Andreotti, BUR, Milano 2010, pp. 61-78): dalla fondazione teocritea ai suoi estremi esiti, la bucolica si configura allora come quanto di più vicino all’autorappresentazione della Fantasia. Alveo della poesia elle-même, nel suo nascere e nell’espletarsi (e così nel morire), indica al fondo, dietro l’istanza di fuga e il disegno di un mondo appagante nella sua finitudine, qualcosa di ancora più intimo: il potere seminale, forse, di certi recessi dell’anima.

I principi metodologici della traduzione sono dichiarati dallo stesso Bargellini in una breve indicazione alla fine dell’introduzione (al contesto di nota 153). Ci muoviamo linea contro verso, con attenzione alla costanza dei traducenti e, per quanto possibile, a un rispetto e a una valorizzazione della originaria collocazione di parole importanti. Per ragioni di spazio, o di understatement, Bargellini non indugia poi in particolari – che sono però quelli, notoriamente, in cui «Dio si nasconde». E il “dio della traduzione” si palesa qui, con estro e insieme amore, in molti accurati momenti di

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“trasposizione” dei modi espressivi di un universo antico nel raggio di una gradevole “leggibilità” di oggi. Siamo fin troppo abituati all’onnipervasività delle libidini di Zeus, e così non ci desta stupore la sua inclinazione a sedurre questa o quella giovinetta, nel nostro caso Europa. Ma con una semplice scelta lessicale Bargellini restituisce spessore a quelle sue pulsioni per noi ormai di routine: «perché come si accorse di lei fu sconvolto il Cronide» (Europa, 74). Il tessuto espressivo italiano rende plausibile il fascino del dio ormai nascosto sotto le mentite spoglie di un toro (v. 86): «sguardi elusivi, dagli occhi, scoccavano brama». E, quando Europa bacia l’animale, troviamo il letterale «muggì dolcemente» (v. 97) trasposto in chiave di sensualità: «egli, allora, muggì di piacere». Particolari problemi suscita la traduzione italiana dei composti, così caratteristici dell’antica dizione narrativa; qui troviamo eleganti “scomposizioni” come (v. 71) «la Nata da schiuma» per l’epiteto di Afrodite aphrogéneia; o come (v. 135) «“Dove mi porti e chi sei, toro dio?”» di fronte al «composto theótauros, […] hápax moschiano» (nota 21). Il passo poetico della resa di Bargellini si coglie facilmente laddove la si voglia confrontare con precedenti traduzioni orientate più a un compito “di servizio” che non a un’intenzione d’arte. Sarebbe inelegante, ora, citare interpretazioni più deboli: ma è giusto sottolineare la melodicità, per esempio, della connotazione dei Tritoni al v. 123 come «auleti del mare che suonano grave». Con grande efficacia il tratto del luttuoso vestimento assunto da divinità della poesia e dell’universo bucolico al momento della scomparsa di Bione è reso con un’opzione che, richiamando alla fantasia analoghi cortei di pie confraternite, rimarca il coefficiente sinistro e lugubre del particolare (Epitafio di Bione vv. 27-28, con relativa nota): «Apollo stesso, Bione, pianse la tua rapida morte, / e così i Satiri e i Priapi mantellati di nero».

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Garbato è il trattamento delle figure. L’insegnamento che chiude il frammento 2 di Mosco suona «perché siate amati in amore, apprezzate gli amanti»; lo stesso Bargellini dichiara di aver voluto in questo modo «rendere il ridondante poliptoto philéontas… philéete philésthe, sorta di “fuoco d’artificio finale” sul tema ossessivo di un éros da, appunto, continuamente coniugarsi» (nota 7 al passo). Un altro elegante poliptoto, al v. 7 dell’Epitafio di Adone, è non solo amministrato con maestria, ma rilevato anche tramite l’istituzione di un forte rigetto che non figura nel testo di partenza: «Giace Adone bello sui monti, alla bianca sua coscia da bianca / zanna ferito» (se ne veda anche la nota). Il frammento 16 di Bione, in cui affiora il tema bucolico del canto del ciclope per la ninfa Galatea, inizia con «Ma io andrò per la mia strada che scende / a quella riva sabbiosa». Qui Bargellini chiosa (p. 127) «letteralmente un’endiadi, “alla sabbia e alla riva” [potí psámathón te kái aióna]»: tuttavia sacrifica la figura, e non certo per trascuratezza, ma per ricerca di stile operata nella direzione di una tensione a immagini ed espressioni che siano più familiari nella lingua d’arrivo. Così come estremamente moderna è l’ardita (e pur letterale) resa del panýstaton di Afrodite ai vv. 42-43 dell’Epitafio: «Resta, Adone, / infelice Adone, resta, ché un’ultimissima volta ti colga» (corsivo mio). E, ancora, ai vv. 89-90 sfrutta abilmente il materiale a disposizione nella lingua d’arrivo per tradurre nel più naturalmente efficace dei modi il gioco dell’originale: «non più “Imene” intona il suo canto ma dice “Ahimè / ahimè” e “Adone”, più che “Imeneo”». E va onestamente riconosciuto che, senza voler per questo deprimere il valore di altri precedenti tentativi, la passione che Bargellini riversa nell’interpretare un testo da lui tanto amato fa sì che il lettore italiano giunga a gustarne pienamente tutta la teoria di bellezze. Lungo sarebbe inseguire ogni altra finezza di questa scrupolosa traduzione assistita da un’ispirazione costante e feconda. Per fortuna, il lettore interessato ad approfondire questi

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aspetti “traduttologici” troverà molti spunti già nelle sempre ricche e stimolanti note di corredo. Mosco, Bione (e dintorni) – «di cui si viene a colmare, nelle intenzioni, l’ininterrotta latitanza nell’editoria classica rivolta a un pubblico non specialistico» (introduzione, al contesto di nota 152) – sono ora qui in piena luce. Lo spettacolo può incominciare.

Introduzione Greci minori nell’eterna bucolica

Parli come se là ci fosse tanto spazio per un mondo intero. Boschi, / prati, rivi, laghi… Quante favole ci fili! (J.W. Goethe, Faust)

Opportuni distinguo Poesia bucolica, idillio, “Arcadia”. Andrà fatta in primo luogo chiarezza sui termini, pericolosamente contigui e che pure non soltanto non nascono insieme, ma a rigore si riferiscono a realtà ben distinte – per non dire, nel caso di idillio e derivati, della distanza storica che separa il significato corrente della parola dalla valenza tecnica, seppure alquanto sfumata, che assumeva in antico1. Boukolikós è aggettivo greco che significa “relativo ai bovari” (boukóloi), e che tuttavia può riguardare la pastorizia in generale. Attribuito alla poesia, esso designa un genere il cui inventor, o codificatore, è notoriamente Teocrito di Siracusa (310 ca./260 ca. a.C.), il quale del resto, nel suo carme Licida o le Talisie (cfr. vv. 35 ss.), manifesta piena consapevolezza del proprio valore entro tale specifico campo. Le peculiarità del carme bucolico sono l’ambientazione campestre, con ricorrente rilievo sulla serena amenità del luogo, e il protagonismo dei pastori, caprai pecorai o bovari, rappresentati solitamente cimentarsi in canti d’amore alternati o giustapposti, talora nel quadro di una vera e propria gara di abilità sovrintesa da un

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giudice2. Si tratta dunque di pastori-poeti, secondo una raffinata stilizzazione d’autore che tuttavia trarrà spunto, come oggi si è portati generalmente a credere, da reali tradizioni folkloriche3; appare viceversa poco credibile la notizia, premessa nella tradizione manoscritta ai carmi teocritei e attribuibile al grammatico di età augustea Teone, secondo cui il canto pastorale avrebbe un’origine religiosa legata al culto di una divinità invero pressoché assente nella bucolica letteraria (verrebbe da dire: incompatibile con il predominio di divinità a lei antitetiche come Eros e Afrodite), cioè Artemide4. Elementi bucolici preesistono certo, in maniera sporadica ma talora significativa, all’operazione teocritea, lungo una linea che va da Omero5 e Esiodo6 alla prima età ellenistica7, passando per Stesicoro8 e il teatro satiresco e comico9; per tacere della riscontrata evidenza di influssi mediorientali sul tema già avvertibili nell’Iliade10. Ma, appunto, si tratta di cenni a una realtà poetica ben al di qua di essere, per così dire, normata, secondo una chiara tipizzazione che non si può che ascrivere al poeta ellenistico, con il quale viene pure fissato in modo definitivo l’impiego dell’esametro eroico per una materia così lontana, nei contenuti, dalla tradizione dell’epos, così come l’uso – inedito nella poesia esametrica – del dialetto dorico11. “Idilli” italianizza eidýllia, il nome che i commentatori antichi davano ai componimenti teocritei, i quali mediamente attingevano la misura breve del poemetto. Il fatto che eidýllion si presenti come diminutivo di éidos (“visione”, ma anche “genere”, “tipo”) sottolinea certo il carattere di brevità di questi testi, sebbene resti poco chiaro il significato specifico da assegnare al termine – cui peraltro doveva afferire, anche, l’idea di varietà, o, a dir meglio, di disponibilità alla variazione di genere e anche alla contaminazione, come confermano altre testimonianze12. Per la critica antica sono “idilli”, in effetti, tutti i componimenti di Teocrito, e si tratta di un corpus, come vedremo più sotto, estremamente vario, di cui i carmi propriamente bucolici sono solo una parte, per quanto forse la più notevole.

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E tuttavia cosa intendiamo, oggi e da secoli, per idillio? In senso tecnico-letterario, un brano di poesia di ambito, per l’appunto, pastorale, caratterizzato da una speciale atmosfera di quiete e serenità13; nel linguaggio comune, questa medesima condizione di felice equilibrio, magari applicata al contesto domestico o a rapporti affettivi tout court. Una simile specializzazione semantica, rispetto al generico eidýllion antico-greco, si deve certo al precoce affermarsi, nella ricezione di Teocrito, degli idilli bucolici – più peculiari, cui già l’autore legava la propria fama – su quelli di altro genere; con generoso e determinante innesto, tuttavia, del Virgilio bucolico e della sua “Arcadia”. Appunto, “Arcadia”. Dopo Virgilio e le sue Bucoliche (42/4139/38 a.C.) carme bucolico e Arcadia, la regione centrale del Peloponneso per la prima volta mitizzata in sede letteraria proprio dal poeta latino, non sembrano più separabili, nel senso che la seconda diventa normativo scenario del primo14. Eppure Arcadia virgiliana e spirito della bucolica teocritea sono realtà sensibilmente diverse. Virgilio “inventa” l’Arcadia letteraria – probabilmente sfruttando una suggestione dello storico greco Polibio, sulla tradizionale inclinazione al canto dei pastori àrcadi15 – facendone il mitico sfondo di una vita pastorale affatto idealizzata, «una specie di aldilà terreno; il paese dell’anima che aspira alla sua lontana patria»16; Teocrito, nei suoi carmi bucolici, osserva invece una deliberata aderenza alla realtà dei suoi personaggi, stabilendo piuttosto lo specifico della sua arte, coerentemente alle poetiche del tempo17, nell’intarsio di elementi popolari con eletti riferimenti libreschi; nella raffinatezza dell’impianto formale al servizio di una materia nuova; nel superiore, sorridente distacco dell’autore rispetto alle vicende e ai personaggi e al loro páthos, segno di un difficile equilibrio raggiunto. Bisogna concludere allora che lo spirito idillico, e il concetto di idillio come è passato ai moderni, deve nella sostanza, se non nella forma, più al poeta romano che al greco – più anche, s’intende, che agli epigoni di Teocrito, che sono ogget-

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to precipuo del presente lavoro e rappresentano l’evoluzione del genere bucolico nel medio e tardo ellenismo, prima della decisiva creazione virgiliana. Vedremo che la conclusione è corretta, ma provvisoria. Cosiddetti bucolici minori E dunque è sotto la dicitura di “idilli” che la tradizione ci consegna l’opera di Teocrito, opera di cui va ribadito che i carmi strettamente bucolici rappresentano soltanto una parte, sebbene cospicua. Nel corpus dei trenta componimenti tràditi18, fatta la tara dei non autentici e di quelli di paternità dubbia19, si è in effetti di fronte alla seguente, ricca partizione tematica: poemetti pastorali o di ambientazione comunque agreste20 (1, 3-7, 10, 11), mimi21 (2, 14, 15), epilli22 (13, 18, 22, 24, 26), encomi23 (16, 17), carmi lirici in dialetto eolico (2830), un carme pederotico in metro epico e dialetto ionico (12). È poi il caso di far cenno che a tale varietà contenutistica risponde una complessa gamma di dialetti impiegati24, talora in spregiudicate ibridazioni e sia pure con prevalenza generale del dorico, la cui patina si stende sui generi più “siciliani”, i carmi bucolici e mimici25; mentre sul piano metrico, a eccezione dei carmi lirici che concludono la serie idillica, tutti i versi sono esametri dattilici. Il quadro degli idilli teocritei così delineato è necessaria premessa all’opera degli epigoni26, su cui appuntiamo il focus: Mosco e Bione, ma anche gli autori anonimi dei poemetti pseudo-moschiani Megara e l’Epitafio di Bione e, in ultimo, il poeta della tarda anacreontica Per Adone morto. S’impone in primo luogo una riflessione sul­l’etichetta di “bucolici”. L’epigramma 205 del nono libro dell’Antologia Palatina, attribuito al grammatico del I sec. a.C. Artemidoro e inserito tra gli scoli in più codici teocritei, sembra riferirsi a una prima edizione di carmi bucolici della quale, però, non sappiamo

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nient’altro27 – se riuniva le bucoliche di Teocrito soltanto, o anche degli epigoni; se la raccolta già si configurava, come da tradizione manoscritta, comprensiva di testi non soltanto pastorali (valga per Teocrito come per, eventualmente, Mosco e Bione), ecc. La tesi di Wilamowitz secondo cui si sarebbe trattato di una vasta silloge inclusiva di più autori, cui poi il figlio di Artemidoro, Teone, avrebbe fatto seguire un’edizione con commento del solo Teocrito, ha avuto fortuna ma non si basa su prove certe28. A un insieme di boukoliká greci, quale che fossero autore e criterio dell’edizione, plausibilmente si sarà riferito Virgilio per la composizione delle sue Bucoliche, ma non si può dire di più, salvo che la tradizione manoscritta medievale trasmette un corpus genericamente intitolato ai “bucolici” anche là dove, come si è visto per Teocrito, si tratta di una produzione, nel suo complesso, assai variegata29. Quanto a Mosco e Bione, la qualifica di bucolici è assegnata loro nella voce relativa a Teocrito all’interno dell’enciclopedia bizantina Suda (X sec. d.C.), ma anche nello scolio all’Eros fuggitivo di Mosco nell’Antologia Palatina, nei quali si legge di una terna canonica di “poeti di bucoliche” composta appunto da Teocrito, Mosco e Bione30. La dicitura è comprensibile e certo assai più antica della Suda ma, relativamente a quel che possediamo di questi autori, non del tutto soddisfacente. Se in Teocrito i componimenti bucolici sono solo una parte del corpus, e però di grande rilievo e secondo chi scrive precisamente inquadrata, al netto di aperture e contaminazioni31, né in Mosco, né in Bione, né tantomeno nell’autore della Megara (diverso è il caso del poeta dell’Epi­tafio di Bione) quel che abbiamo ottempera pienamente alle caratteristiche di genere che si è richiamato all’inizio32. L’Epitalamio di Achille e Deidamìa, peraltro mutilo e solo dubitosamente attribuibile a Bione, è sì incorniciato da un tipico dialogo tra pastori, con l’uno che sollecita l’altro a un canto erotikón e soprattutto sikelón, quindi bucolico33, ma quel che segue si attesta sull’esposizione “epillica” di un mito che ha ben poco di pastorale; ci sono frammenti, del resto,

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sia di Mosco che di Bione, che sembrano pertinenti al genere anche a prescindere dall’intitolazione nei codici, ma proprio il loro status di frammenti – si può parlare di carmi completi, per alcuni di essi, solo in via ipotetica – deve indurre a una sospensione di giudizio34. Verrebbe insomma la tentazione di riferirsi a questi poeti piuttosto come “idillici” che come “bucolici”, in considerazione del grado di alessandrina inafferrabilità, dopotutto, della loro produzione, incline a disparati influssi, in linea con quel che riusciamo a comprendere del lemma antico eidýllion; e nondimeno del chiaro “teocritismo” delle loro scelte formali e contenutistiche – questo prendere le mosse da un autore la cui opera complessiva si rubricava come, appunto, “idillica”, presumibilmente proprio in ragione della sua varietà35. A proposito di idilli. Il Leopardi che definì tali cinque suoi componimenti – alcuni dei quali arcinoti e basilari nella storia delle nostre lette­re36 –, più un sesto in forma di frammento37, e così li titolò pubblicandoli sul periodico milanese «Nuovo Ricoglitore» (dicembre 1825-­gennaio 1826) e poi nell’edizione bolognese dei Versi (1826), secondo il De Sanctis avrebbe compiuto un suo proprio apprendistato idillico anche traducendo, anni addietro, dal “bucolico” Mosco38; e si veda del resto il giudizio più che lusinghiero del giovane Leopardi allegato a chiosa alla propria traduzione del fr. 1 moschiano: La natura nelle poesie di Mosco non è coperta dagli ornamenti, non è offuscata dalle frasi poetiche, non è serva dell’arte. Questa viene ad assidersi al fianco della natura, e la lascia comparire in tutto il suo splendore […] è il Virgilio dei Greci.39

Certo, il giudizio leopardiano è fin troppo e candidamente generoso, eppure la poesia di Mosco nel suo complesso, e per quel che si può leggere, si caratterizza per una levigata grazia cui non disdice la nota del Recanatese circa la discrezione di un’arte capace, com’è poi dell’arte nelle sue prove migliori, di dissimulare la propria attiva presenza.

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Di Mosco sappiamo poco. Accluso, con Teo­crito e Mosco, alla lista esemplare dei poeti bucolici dalla Suda, ancora dall’enciclopedia bizantina apprendiamo, alla voce che lo riguarda, che fu siracusano come Teocrito, inoltre grammatikós (erudito e filologo; insegnante?) e ghnórimos, ossia in rapporti di familiarità – da intendersi di discepolato – con il sommo filologo di Samotracia Aristarco (215 ca.-144 a.C.). La notizia vale a collocarlo cronologicamente nel II secolo a.C. e a fare di lui, in linea con la prassi ellenistica cui il solo Teocrito, in effetti, pare estraneo, un poeta doctus dalle raffinate competenze linguistiche e filologiche40. Il fr. 1, tradotto e lodato da Leopardi, istituisce un confronto tra la vita di mare e quella a terra, con quest’ultima che risulta alla fine preferibile; il pezzo è in effetti di seducente poesia e della dolcezza tonale che si deve riconoscere come tipica dell’autore. I frr. 2 e 3, entrambi di argomento erotico, si incentrano, il primo sull’opportunità di corrispondere all’amore, dietro l’esempio di mitici amanti insoddisfatti, pure colpevoli di disprezzare a loro volta chi li ama; il secondo sulla nota vicenda di Alfeo e Aretusa e sui paradossali poteri di Eros. Tutti e tre i brani provengono dall’Antologia di Stobeo, lì rubricati come boukoliká – il che non disdice agli argomenti trattati ed è in linea con l’impianto esametrico e la facies linguistica dorica. E tuttavia, mentre il primo può ben apparire un estratto da una composizione più ampia di marca teocritea, 2 e 3 presentano una compiutezza epigrammatica che potrebbe farne dei brevi carmi conclusi, sui quali agirebbe appunto l’influsso, innestato sopra tematica e metro bucolico, dell’epigramma erotico alessandrino, in notevolissima voga per tutta l’età ellenistica.41 Vero e proprio epigramma sui generis, riportato tra l’altro dalla Palatina42, è lo straordinario Éros drapétes, Eros fuggitivo, 29 esametri che compendiano, in forma di bando emanato da Afrodite sul monello fuggiasco, la concezione “fanciullesca” di Eros tipicamente ellenistica43 – pur adombrando, la sorridente grazia delle immagini in contrasto, l’antico, pauroso potere di Eros come incoercibile forza cosmica, irriducibile alla

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ragione umana. Ed è un epigramma tout court l’“Eros aratore” di Antologia Planudea, 4, 20044, ascritto al Nostro, con tanto di distici elegiaci e dialetto ionico, nel quale il finale riferimento a Zeus come “bue di Europa” è parso sufficientemente probante ai sostenitori dell’autenticità dell’attribuzione, in quanto il poemetto Europa è, appunto, il lascito più consistente e rilevante di Mosco. L’Europa è un epillio di 166 esametri che tratta il rapimento dell’eroina eponima del continente a opera di Zeus, trasformatosi in splendido toro bianco; attratta la fanciulla a salire sulla sua groppa, il divino animale sfreccia sul mare con la ragazza rapita, magicamente attraversando i flutti come suolo terrestre, fino alla rivelazione finale. La storia, che riecheggia anche Omero45 e di lì è ricordata brevemente in più luoghi della letteratura arcaica e classica, è probabilmente di origine cretese (a Creta, dove nel mito Europa partorisce a Zeus Minosse, Radamante e Sarpedone, si celebravano le “Ellotie”, una festa consacrata all’eroina46); con Mosco è per la prima volta argomento specifico di un componimento esametrico – di qui l’esemplare pertinenza del testo al genere dell’epillio anche in quanto trattazione nuova, lontana dai cicli tradizionali47. Il tema, per di più, soddisfaceva all’interesse tipicamente ellenistico per gli áitia, le “cause”, ossia le radici mitiche – da sceverarsi di solito in miti minori, o diramazioni poco note dei maggiori – di nomi, riti, istituzioni, ecc.48 Di contro alla carente storia letteraria, la vicenda di Europa era del resto ben presente all’arte figurativa anche del tempo di Mosco49; il procedere stesso della narrazione moschiana, incline come a una partizione in blocchi50 e a un descrittivismo che pare la più autentica musa del testo, risente evidentemente del linguaggio iconografico, cui fornisce a sua volta nuovi apporti. Non solo: acquista importante rilievo, segno dei tempi e anche del passaggio a un’epica sempre più distante dal modello omerico – fino al trionfo di un epos fluviale ma radicalmente nuovo, come espresso ne Le Dionisiache di Nonno di Panopoli – il motivo dell’ékphrasis, ossia la descrizione di un particolare ogget-

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to (nel caso, il cestello d’oro per la raccolta dei fiori di Europa, meravigliosamente decorato51) che segna un’interruzione nel narrato ma è funzionale al dispiego di una perizia poetica che intende, per verba, sfidare l’icasticità dell’arte plastica e pittorica52. Il finale piuttosto improvviso, che interrompe la vicenda relegandola a poca cosa, nell’economia del testo, rispetto alla ricordata funzione descrittivo-­decorativa, è stato sospettato nel tempo di corruttela o lacuna53, ma conviene credere, con chi ha inteso salvare il finale tràdito54, che esso risponda semplicemente delle esigenze artistiche dell’autore. Mosco è dunque, nella sua opera più considerevole, un degno rappresentante delle poetiche ellenistiche e, quanto al genere epico, un autore essenziale nel passaggio a un diverso tipo narrativo. La storia di Europa, intanto, si avvia a conoscere, dopo di lui, una massiccia fortuna sia nella letteratura greca che nella latina, in seguito popolando stabilmente, non meno di altre “favole antiche”, il nostro immaginario55. Della vita di Bione conosciamo la nascita a Flossa, un sobborgo di Smirne, e quel che di anche notevole si può ricavare dall’anonimo Epitafio di Bione (su cui vd. infra) – come un vero e proprio magistero poetico, forse in Sicilia o comunque nell’Italia meridionale56, e la morte per avvelenamento, forse volontaria57 – sempre che si debba prestar fede al suo ignoto autore. Quanto alla cronologia, la collocazione a terzo nell’elenco canonico di poeti bucolici quale risulta dalla Suda e dallo scolio a A.P. 9.440, di cui si è già detto, non è di per sé garanzia di seriorità e potrebbe meramente risultare da un giudizio di valore; fu Bücheler58 il primo a leggere l’indicazione in senso cronologico, fino ai giorni nostri in cui l’appartenenza di Bione a una “terza generazione” di bucolici non è più in discussione, sulla scorta, talora, di ottimi argomenti59. La fama del poeta smirneo è essenzialmente legata a uno dei carmi più belli e straordinari dell’età ellenistica, l’Epitafio di Adone (98 vv.). Poemetto esametrico di patina dorica, di pertinenza bucolica nei riferimenti al Tirsi di Teocrito (Id., 1)

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e nel setting naturale, l’Epitafio tuttavia contempera elementi di svariata ascendenza60 ed è da vedere piuttosto come un thrénos, un lamento rituale, non privo di caratteri innodici, considerato il protagonismo di figure divine; o se vogliamo uno iálimos, quel canto funebre che si aspetta di sentire, nelle Siracusane di Teocrito, una delle due protagoniste per bocca della cantante argiva, alla festa per Adone celebrata al palazzo reale di Alessandria61. La voce parlante deplora l’infelice sorte di Afrodite, il cui amante divino, Adone, è rimasto ferito a morte da un cinghiale durante una battuta di caccia; la ammonisce, al contempo, a prestare le dovute cure al morente assecondata dal suo corteggio di Eroti. Che il carme debba essere inteso come mimesi di un evento religioso è piuttosto evidente e rilevato dagli studi62; si dirà inoltre che l’evento in questione non è soltanto evocato, ma anche – in ossequio alla predilezione ellenistica per l’eziologia – riguardato all’origine, dato che ne sono attrici le divinità stesse oggetto di culto63. Chi vi ha trovato tracce di ironia o addirittura parodia64, non avverte quel che sembra palese: il poemetto è pervaso da un’aura dolorosa che ha pochi paragoni – e lo è credibilmente e per forza di poesia autentica, senza che l’intensità della passione esorbiti mai nel caricaturale. Peculiarità dell’Epitafio sono un marcato languore e una tendenza al páthos scomposto; l’insistenza sul corpo piagato del giovane e il richiamo ossessivo al sangue hanno qualcosa di morboso, quasi per macabro compiacimento65. Si tratta di caratteri, come si vede, remoti dai modelli dominanti alessandrini e forse greci in assoluto, che hanno facilmente indotto in tentazione gli amanti delle definizioni ante litteram ad applicare al poemetto la categoria di “decadentismo”, se non quella, ancora più volentieri abusata, di “barocco”. Mi sembra lecito, a patto che le categorie in questione siano intese in senso metastorico, nel qual caso sono esistiti momenti “decadenti” e “barocchi” un po’ in tutte le letterature; certo sono testi come questo di Bione che intaccano preconcetti monolitici e un po’ stantii, come quello di un’associazione obbligata tra grecità

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antica e la ricerca di equilibrio, anzi la lezione di un equilibrio raggiunto66. I 17 frammenti bionei in nostro possesso, alcuni molto brevi, sono tutti conservati da Stobeo tranne il 17, che è riportato dal grammatico Orione (V d.C.). Alcuni, come si è visto per Mosco, potrebbero essere carmi completi, quasi l’incontro tra la forma67 e alcuni motivi bucolici, e dimensioni e pointe68 dell’epigramma coevo, soprattutto erotico: penso a 2 (il più lungo, che è tuttavia estraneo alla dominante materia amorosa), e alla serie di 8-1469, mentre per gli altri è ragionevole pensare a contesti originari più ampi, tanto più là dove il contenuto è scarsamente intelligibile (come in 6). Entro la serie, segnata da una maniera poetica che ha pure richiamato certa leggera grazia anacreontica70 e dal ricorrente motivo del legame necessario tra eros e poesia71, spiccano, direi, 8 e 10. In 8, se l’io parlante che confessa la propria stanchezza di artefice e l’incerta accoglienza dei propri melýdria, “poesiole”, è lo stesso Bione, si registra per la prima volta in tutta la bucolica greca l’ingresso nel testo della persona dell’autore, fuori da schemi allegorici; il che va ribadito con maggior forza per 10, dove la coincidenza di Bione stesso con la persona loquens cui Afrodite domanda di impartire a Eros lezioni di canto, segnerebbe addirittura il primo caso di inserimento diretto del poeta bucolico entro il proprio stesso universo poe­tico72 – naturale preludio alla scena di compianto dell’intero mondo pastorale proprio sulla morte di Bione, tratteggiata nell’Epitafio appunto dedicato al poeta di Smirne73. Ma il frammento 10 riserva altri spunti. Il poeta-pastore incaricato di insegnare il canto al discolo bambino di Afrodite, ammette di avergli proposto tutte le sue bucoliche (hósa boukoliásdon… dídaskon, v. 5-6), le quali tra l’altro, piuttosto a sorpresa, sembrano consistere in racconti sulla mitica scoperta, da parte delle divinità, del proprio strumento musicale (vv. 7-8). Ma Eros si guarda bene dall’apprendere: piuttosto a sua volta, in un capovolgimento di ruolo, viene a insegnare al poeta i suoi erótyla, le sue «cosucce d’amo-

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re» – insomma una tenue versificazione di argomento erotico, che peraltro siamo abituati a considerare, da Teocrito, praticamente strutturale al genere. Si deve credere che la bucolica, al tempo di Bione, si fosse scostata dalla tematica amorosa, per assestarsi su racconti mitologici incentrati sull’origine divina della musica e del canto? E che Bione, o il personaggio che in 10 dice «io», dedicandosi agli erótyla su ammaestramento di Eros stesso, si volgesse allora a un nuovo tipo poetico? Questione quanto mai complessa su cui non si vuole insistere, salvo ancora una volta richiamare alle fluttuazioni negli statuti di genere, in un’età di profondi rivolgimenti culturali come l’Ellenismo – anche avanzato, nel caso del Nostro. Di discussa paternità bionea74 è il corrotto e mutilo Epitalamio di Achille e Deidamìa, di cui rimangono poco più di 30 esametri; il “canto per nozze” del titolo deve riferirsi alla porzione di testo scomparsa. Lo spunto riguarda ancora il Tirsi di Teocrito, stavolta per il motivo della richiesta di canto di un pastore a un altro: e infatti Mirsone chiede a Licida di cantargli le vicende di Achille travestito da ragazza alla corte di Licomede a Sciro, dove s’invaghì della principessa Deidamìa75. Il canto in oggetto è definito da Mirsone, al primo verso, un sikelón mélos, un canto siciliano, con topico riferimento alla patria di Teocrito e della bucolica – come poi si rivedrà nell’Epitafio di Bione; è questa la prima attestazione dell’antonomastica sicilianità del genere, lungo un percorso che porterà al ben noto Sicelides Musae con cui Virgilio attacca la sua quarta bucolica76. Altra cosa è stabilire perché la narrazione di un mito minore, e dunque una sorta di epillio, debba costituire un esempio di carme bucolico, dove risulta pastorale in senso stretto piuttosto la cornice. Ci siamo già soffermati sul tema poco sopra, e così sulla evidente fluidità del genere al tempo di Bione. E tuttavia può essere indicativa, credo, più che il rilievo su Paride «bovaro» al v. 10, la distinzione a seguire fra chi non si sottrasse a «Ares funesto» partendo per Troia, e chi come Achille inizialmente cercò scampo al massacro: come a sottolineare, nell’alveo della poesia esametrica dove si è det-

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to della notevole coesistenza di pratiche anche molto lontane, la necessaria esistenza di un genere, come la bucolica, che si occupi, tra le dimensioni umane di massima, della pace e non della guerra – in contrasto con l’epos canonico, sì, ma come a bilanciarlo. Lo scrivo pensando all’Epitafio di Bione composto da un continuatore del poeta di Smirne, che rappresenta per certi versi un prontuario di motivi bucolici e che in un interessante passaggio opera un confronto, appunto, tra il “bellico” Omero e il poeta bucolico scomparso (per cui vd. infra). Il motivo della pace e delle sue “idilliche” operazioni, l’amore su tutte, potrebbe dunque assicurare in questi estremi bucolici greci, e in anticipo su Virgilio, il vero e cosciente fondo comune a espressioni poetiche diversamente fin troppo variegate77. L’argomento dell’Epitalamio, già nei Canti Cipri78, si prestava a trattazioni leggere, come in Ovidio e in Stazio79; leggerezza qui declinata in arguta malizia, secondo uno stile che non disdice, perlomeno, al Bione dei frammenti. Il poeta dell’Epitafio di Bione – componimento di 126 esametri80 ascritto in alcuni codici a Teocrito, in un caso alternativamente a questi o a Mosco81, cui poi venne regolarmente attribuito a partire dal XVI secolo e fino a definitiva sistemazione ottocentesca82 – è, se ci atteniamo al testo, un anonimo discepolo del poeta di cui si piange la morte, vissuto con ogni probabilità verso l’inizio del I sec. a.C. Questi precisa di aver ricevuto in eredità dal maestro scomparso la “musa dorica”, cioè la padronanza del canto bucolico, mentre ad altri toccò l’ólbos, i beni83 del defunto. Forte di tale investitura, egli si lancia in un fragoroso compendio di tutti i cliché bucolici84, piegati alla celebrazione dell’autore dell’Epitafio di Adone – componimento chiaramente tolto a modello e esplicitamente echeggiato almeno ai vv. 65 ss. –: Bione è trasferito entro il regno incantato del genere, egli stesso tramutato in pastore, per ricevere un iperbolico tributo di lutto dalle divinità consuete alla bucolica, da piante, animali e elementi e persino dalle città natali di antichi poeti illustri, meno rimpianti di lui.

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E dunque il poemetto è qualcosa come un thrénos, seppure trattato sulle corde, per così dire, innodiche dell’imitato Epitafio di Adone, verso una sorta di apoteosi dell’umano defunto85. Il risultato è un carme che rincara ulteriormente il páthos del modello bioneo, legato com’è, più di quello, alla maniera retorica asiana86 e senza la naturalezza e la capacità di gestione del materiale che erano propri a Bione; prodotto di un dilettante, si è detto, e «assai mediocre»87, eppure non privo – azzardo – di momenti poeticamente felici, come la deplorazione della vanagloria mortale a fronte dell’annullamento che a tutti riserva la morte ai vv. 102 ss., o l’immagine, per quanto ridondante, della morte del miele dentro la cera, dacché è morto il miele della voce di Bione (34-35). È poi di sicuro interesse per la storia dei generi, e per la questione del posto della bucolica entro la tradizione della poesia esametrica88, la sýnkrisis, il confronto, tra Omero e Bione dei vv. 70-84 – una lunga digressione sul compianto che il fiume Melete presso Smirne tributò un tempo a Omero e ora indirizza al conterraneo Bione, autore di una poesia dai ben diversi argomenti. Si vedano in particolare i vv. 78-81: Cantò l’uno la bella figlia di Tindaro, il gran figlio di Tetide e Menelao Atride, l’altro non guerre, non lacrime, ma cantava di Pan e celebrava i bovari, pascolava cantando […].

La sýnkrisis non vuole stabilire un vincitore, ma operare un distinguo89; e questo distinguo è necessario come necessari sembrano, per sé, gli elementi da distinguere, cioè la guerra e il suo contrario. E qui la voce di questo discepolo bistrattato dalla critica, probabilmente l’ultimo della catena bucolica greca che inizia con Teocrito e autore di un carme-summa del genere, forse chiarisce, come sopra anticipato, il vero motivo unificante di una produzione che si andava fin troppo diversificando, nei contenuti e negli esiti: e questo motivo pare essere la pace e la sua ideale tutela, in una dimensione, dunque, non troppo lontana, già a questa altezza, dall’Arcadia virgiliana90.

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Un codice bucolico91 attribuisce la Megara a Teocrito e, con altri92, la colloca subito dopo l’Idillio 25 anch’esso relativo alla saga di Eracle93; altri la riportano a seguito dei carmi di Mosco94, e moschiana fu ritenuta nel ’50095, finché a partire dal XIX secolo fu riguardata come adespota96 e distinta, poco dopo, dall’autore del carme 25 teocriteo97. Inquadrabile in età medioellenistica98, il poemetto, di 125 esametri in lingua epica, è qualcosa come un epillio quasi interamente dialogato – con, dunque, venature drammatiche e forse mimiche, considerato il setting domestico99. Il tema guarda anzitutto all’Eracle di Euripide, alla strage, cioè, dei propri figli compiuta da Eracle, che però qui è presupposta e rievocata nel lamento di Megara, e giustifica d’altronde il successivo adempimento100, da parte dell’eroe, delle celebri fatiche quale espiazione per i delitti commessi. La moglie di Eracle sfoga dolori e turbamenti con la suocera Alcmena, che a sua volta ammette la propria angoscia per il futuro del figlio, confermata da un sogno nel quale Eracle è minacciato dal fuoco (chiara allusione alla pira sul monte Eta, su cui l’eroe, stremato da lancinanti dolori, avrebbe finito i suoi giorni101). Il testo risente, per l’attenzione alla psicologia dei personaggi, e del teatro di Euripide e dell’épos di Apollonio Rodio, che da Euripide in primis derivava, del resto, l’interesse per lo scavo psicologico delle figure femminili102. La presente raccolta include l’anacreontica tràdita dal codice Vaticano 1824 Per Adone morto, un carme di 46 versi eptasillabi (dimetri giambici catalettici) di età tardoantica e forse proto­bizantina – ci allontaniamo di molto, dunque, dal quadro medioellenistico degli altri testi –, che si propone per la sua gradevolezza e la sorridente ripresa del mito al centro del componimento più bello qui accolto, l’Epitafio di Adone bioneo. Nel carme è tradotto davanti alla dea resa vedova il responsabile stesso della morte di Adone, il cinghiale; il quale confessa candidamente che non si trattò di un feroce assalto, ma di

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un goffo tentativo di baciare il ragazzo, sì che alla fine l’animale è scusato e accolto tra i seguaci di Afrodite. L’anacreontica, che nel manoscritto affiancava il tragico Epitafio scritto da Bione, sigilla con lieve impertinenza la parabola della bucolica greca in versi, di cui proprio il componimento bioneo aveva segnato l’acme emotivo. Eterna bucolica L’Arcadia virgiliana, lo si è detto in principio, è il primo modello cui guarderanno i successivi bucolici di tutte le epoche. Al fondamentale testo di Virgilio seguono, nell’antichità, rivisitazioni dello standard bucolico che non possono più prescindere dal poeta latino nemmeno sul fronte greco, come dimostra il romanzo di età imperiale (II-III sec. d.C.) di Longo Sofista, le già citate Avventure pastorali di Dafni e Cloe, che ne è chiaramente influenzato. Peraltro, qui è curiosa l’opzione prosastica, che l’autore rivendica come altamente poetica103 secondo i dettami della Seconda Sofistica; caso unico, tuttavia, nel panorama della bucolica antica, come dimostrano in ambito latino le opere, poi, regolarmente poiematiche di Calpurnio Siculo e gli anonimi autori dei due Carmina Einsiedlensia (l’uno e gli altri di età neroniana) e Nemesiano (III d.C.). Il Cristianesimo trionfante si appropria, già negli ultimi sussulti dell’evo antico, anche del tema bucolico. Più che la ripresa di certi motivi nei Carmi di Paolino di Nola (IV-V sec.), è notevole il De mortibus boum (395 ca.) di Severo Santo Endelechio, nel quale il bestiame è salvato dal Titiro di turno grazie al signum crucis. Nel Medioevo il tentativo carolingio di rifondazione culturale favorisce certo ritorno in auge anche della bucolica; tra IX e X secolo si colloca del resto l’emblematica Ecloga Theoduli attribuita a Gotescalco il Sassone, tutta intesa alla confutazione della mitologia pagana in un canto amebeo tra la vergine cristiana Alethìa (= la verità) e il pastore Pseustis (= il mendace).

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Da questo momento in poi limitiamo il focus all’Italia, da cui comunque provengono gli esempi più cospicui di rivisitazione del genere. È noto che alla bucolica latina si dedicarono le nostre tre corone trecentesche, Dante104, Petrarca105 e Boccaccio106. Quanto a Boccaccio, più importante è il Ninfale d’Ameto, in cui il setting bucolico è per la prima volta ripreso in un notevole testo volgare, e la forma prosimetrica d’altronde prelude a un’opera di svolta come l’Arcadia di Jacopo Sannazaro (composta tra il 1480 e il 1485, ma edita nel 1501), tra i più significativi esempi della predilezione umanistico-rinascimentale per il mito bucolico107. Nei grandi poemi cavallereschi del nostro ’500 compaiono digressioni bucolizzanti – basti pensare agli ozi dei novelli sposi Angelica e Medoro nell’Orlando furioso, o all’episodio di Erminia tra i pastori ne La Gerusalemme liberata –; e tuttavia la fortuna del genere sembra ora legarsi a un discusso modello di teatro sui generis che si affermò nella seconda parte del secolo, cioè il cosiddetto dramma pastorale o boschereccio (o tragicommedia), che trovò il suo capolavoro nell’Aminta del Tasso – rappresentato sull’isolotto del Belvedere a Ferrara (1573)108 – e una sua più convenzionale e tuttavia efficace espressione nel Pastor fido di Battista Guarini (1590). Il dramma pastorale si convertì poi facilmente, supportato da un accompagnamento musicale che già il carattere di aerea cantabilità di quella poesia suggeriva, nel melodramma ideato dalla Camerata de’ Bardi a Firenze, in cui pure talune coordinate della bucolica antica non andarono perse. E siamo ormai nel ’600. Il “re del secolo” Giambattista Marino lascia, entro una produzione strabocchevole, anche gli idilli propriamente pastorali contenuti ne La Sampogna (1620) e, nello stesso anno, le Egloghe boscherecce – senza dire dei momenti bucolici che costellano lo sterminato poema Adone, i cui personaggi del resto, come ben sappiamo, appartenevano a un sia pur peculiare ramo della tradizione bucolica antica109. Su un fronte stilistico opposto, costituisce un trait d’union con il gracile classicismo arcadico di fine secolo già

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l’opera di Gabriello Chiabrera, autore peraltro di melodrammi e favole pastorali come Il rapimento di Cefalo (1600); per arrivare al 1690 e alla fatidica fondazione dell’Accademia di Arcadia, nata a Roma su patrocinio di Cristina di Svezia con il precipuo scopo di decantare, mediante il filtro classicistico dei tópoi della bucolica, la famigerata turgidezza del secolo barocco. Così nascono le “pastorellerie” di una nutrita schiera di affiliati àrcadi, ciascuno con il suo bravo nomen fictum greco, tra cui Pietro Trapassi grecizzato Metastasio. La lirica àrcade dettò legge nel gusto, tutt’uno con il rococò nelle arti, per tutta la prima metà del ’700, secondo un rinnovato ideale di razionalità e chiarezza che in un certo senso preparò, insieme a molto altro, la civiltà dei lumi. L’800 azzera o quasi la bucolica, almeno come genere specifico e secondo gli attributi esteriori che la classicità gli conferiva; anche, va detto, in opposizione proprio all’usurato classicismo arcadico. Mentre Leopardi elaborò un nuovo tipo di idillio anche a partire da una capillare conoscenza dell’antico, inclusi i cosiddetti minori – e tuttavia nell’idillio leopardiano non vi è niente di bucolico –, Pascoli fu piuttosto un consumato “georgico”. Nel ’900 c’è da aspettarsi ancora di meno, quanto a una precisa riesumazione delle forme dell’antico genere. L’idillio campestre è del tutto esaurito, sembra dirci Montale in Sub tegmine fagi…, dove la citazione al primo verso dell’incipit della prima ecloga virgiliana ne segna l’incolmabile distanza rispetto a un presente dove non si può che riparare all’ombra «di alberi di stucco», prima di venire cancellati da un qualche fatale «colpo di scopa»110. Va segnalato tuttavia il caso del grande poeta di Pieve di Soligo Andrea Zanzotto (1921-2011), che titola IX Ecloghe la sua raccolta del 1962 (Come una bucolica, del resto, era titolo della prima sezione del precedente Vocativo, 1957), così consacrando, nel riferimento alla tradizione del locus amoenus, e il proprio fondamentale legame con il paesaggio naturale e l’urgenza di un discorso meta­poetico sulla validità, oggi, della poesia stessa. Le “ecloghe” sono so-

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litamente organizzate, come da costume già teocriteo, in forma di dialogo, tra un parlante “a” (il poeta) e un “b” (la Poesia stessa, che in Ecloga IV prende il nome, bucolicamente emblematico, di Polifemo); l’insegna bucolica appare ora come un nume tutelare, ora come sintomo di obsolescenza culturale su cui si accampano le velleità del soggetto. Di Zanzotto, poi, l’ardita sintesi «teocrizìa virgilia» della raccolta seguente, che salda in un irripetibile plesso verbale i due numi del genere di cui ci stiamo occupando, suona, in qualche modo, a sigillo definitivo111. Ancora bucolica in questo primo scorcio di ventunesimo secolo: quando una poesia filologicamente avvertita e incline all’intarsio – in un gioco mai fine a sé stesso; in cui ne va sempre della vita, o almeno di suoi lacerti sensibili –, tributa a quel mondo elegante e sentito omaggio, ed è il caso delle (virgilianamente) dieci Bucoliche (al telescopio) di Alessandro Fo, contenute in Corpuscolo (2004). In queste, come precisa l’autore «porgendo i suoi auguri agli Arcadi», la Bucolica è chiamata a acclimatarsi, addirittura, tra i pastori di un presepio, «né queste presenze solo a metà concrete turberanno il fantasticare di cui si intesse ogni escursione bucolica, che, come il mare Oceano per gli antichi – o l’anello di Saturno ai nostri telescopi – dispone un cerchio di sogni ai margini della vita»112. L’Arcadia, si diceva. L’Arcadia come regno immaginario di quiete, poesia e amore; l’Arcadia dalla fantastica, incantevole geografia, dove il riferimento alla regione centrale del Peloponneso è poco più che pretestuoso, e non compariva, se non in via marginale, nel quadro della bucolica originale teocritea. Ma, ciò detto, e ribadita l’accentuazione idealistica di personaggi e ambienti in Virgilio, siamo poi così lontani dall’operazione di Teocrito? Non è dopotutto, anche il mondo poetico del Siracusano, un artificiale hortus conclusus di generale serenità, sì che si può dire, dell’Arcadia e di tutta la bucolica posteriore, che esse sono, di quello, una sorta di naturale sviluppo?

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Recentemente Emanuele Lelli ha criticato, sulla base di un’accurata ricerca etnoantropologica, alcune tradizionali letture “simbolizzanti” dell’opera di Teocrito, o comunque intese a cogliervi la preminenza della stilizzazione e del gioco letterario a discapito dei realia del folklore113. Ma non è questo il punto. Per quanto l’arte teocritea poggiasse su basi concrete e su una realtà personalmente esperita dall’autore, come Lelli sostiene, nella quale anzi «era profondamente immerso»114, non credo ci si possa aspettare, dalla poesia in genere, altro che una ben precisa e necessariamente ideale selezione della realtà; ideale, si badi, nel senso della naturale rispondenza alla visione del mondo e alle aspirazioni di chi “crea” (poiéi). E questo anche qualora la realtà non ne risulti contraffatta, che pure è quel che di solito, in varia misura, accade. Il grande poeta Teocrito avrebbe dunque scelto di presentare una realtà, cui più o meno solidamente attenersi: avrebbe, ammettiamolo pure, optato per la rappresentazione specifica e conseguente dei pastori della sua terra, un soggetto senz’altro umile e antieroico – e tuttavia negli stessi anni Leonida di Taranto, campione dell’epigramma dorico, inscenava un’altrettanto umile realtà (pescatori, marinai, contadini…) esprimendone, ben altrimenti, i disagi, gli affanni, la fatica di vivere115. In quale atmosfera sono calati, invece, i pastori di Teocrito? Cantano e suonano o conversano amabilmente, circondati da un paesaggio «quasi sempre dolce e tranquillo […] secondo i moduli tipici del locus amoenus»116. Certo, tutta una serie di riscontri, diligentemente presentati da Lelli117, indurrebbe a credere che Teocrito avesse di fronte proprio quei pastori, davvero impegnati (anche in forma di “trastullo”, come è stato detto118) in quelle attività, e proprio quel paesaggio – e che dunque non vi avesse poeticamente ricamato per ingentilirli ai nostri occhi; nondimeno sceglie di presentarci questo particolare côté della vita umana, con il proposito di dire, o forse dare, qualcosa al suo pubblico. E questo qualcosa poteva ben essere, in un’epoca di grandi, disorientanti novità per lo spirito greco, ivi incluso un nuovo urbanesimo dalle preoccupanti dimensioni, un quadro

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sognante – malgrado il suo fondo autentico – di rassicurante armonia tra gli uomini e tra uomo e natura119, il tutto sovrinteso dalla poesia e dal canto quali garanzia, potremmo azzardare ante litteram, di “gentilezza”. Così già l’iniziatore della bucolica si lascia includere in una visione che assegna unitariamente al genere carattere di raffinata evasione rispetto, non già alla realtà tout court, ma almeno alla grevità della Storia – principio che sarà in parte violato, come si sa, da Virgilio120; eppure, in un certo senso, proprio per confermare l’indistruttibile alterità di un mondo suscettibile di patire violenza, da fuori, ma non di lasciarsi assorbire. Del resto, la bucolica non bandisce il dolore, quale ne sia la provenienza; e quanto all’amore, che è il pensiero dominante e il precipuo oggetto del canto dei protagonisti, esso è, sin da Teocrito, soprattutto infelice. Però la lenizione del canto stesso121, la trasfigurazione poetica, in questa poesia che inscena costantemente il suo farsi, e così il meraviglioso accordo con il mondo naturale – il quale, umano e divino insieme, partecipa, con-patisce, con-piange122 –, sono tutti elementi che inevitabilmente depotenziano il male, gli sottraggono urgenza e lo trasportano in un luogo che davvero non ha le asperità della vita. E dunque il carattere di rifugio e buen retiro e in qualche modo di scampo in una dimensione atemporale (in cui pure si muore, ma pianti dagli dei, dalle cose e dagli uomini, e cantati, e cantando) sarà davvero il motivo centrale e unificante in grado di tenere insieme espressioni letterarie tanto diverse, nei tempi, nei luoghi e nelle culture, eppure ancora riconducibili al grande esperimento di Teocrito. E fra questo e l’eccellenza virgiliana si colloca, lo abbiamo visto, l’opera di successori e epigoni del Siracusano: i quali – benché qualunque affermazione in merito, data la povertà dei riscontri123, debba essere espressa cum grano salis – hanno, certo, manieristicamente calcato l’antico ideale bucolico; hanno introdotto se stessi, persino, entro il regno dei pastori, derogando all’ironica distanza teocritea124; hanno rotto e trasceso il «delicato equilibrio di contrasti»125 su cui si reggeva l’arte di Teocrito, verso

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una progressiva rinuncia a quei realia da cui Teocrito partiva; e tuttavia non hanno che sviluppato, come si vede, il carattere proprio della bucolica codificata, nella quale già la realtà dei pastori-poeti finiva per sovrapporsi alla Realtà, se non per proporsi come sua alternativa fantastica. Poi sarà l’impatto, decisivo, del capolavoro giovanile di Virgilio. Possibile che evadere equivalga a, in un certo senso, recludersi? Non coincide, la libertà, con l’infinito del possibile? E non è, il sogno, un perpetuo sconfinamento? Suppongo che le fondamentali ragioni di fascino della bucolica, nella sua lunga fortuna, siano almeno due, complementari e radicate entrambe, con le debite motivazioni storiche, nel tempo in cui il genere mosse i primi passi. Al motivo dell’evasione dovrà aggiungersi quello della riduzione della dimensione di approdo – la terra serena anteposta, sia pure in parentesi, al preoccupante tutto che è la vita nel suo complesso – a una (ir)realtà così decisamente perimetrata da sembrare, e forse essere, quasi l’equivalente di uno spazio domestico riadattato en plein air; e così, per forza suggestiva, da apparire in effetti un piccolo mondo squisitamente raccolto, alla cui primavera eterna scaldarsi come si farebbe presso l’intimità di un focolare, quando fuori è solo aspro, rigido inverno126. L’età ellenistica segue alle conquiste di Alessandro, che proiettano la grecità ben oltre i suoi tradizionali confini e consegnano agli immediati posteri il disagio sociopolitico e culturale di una realtà storica che, ormai cosmopolita, fa piazza pulita degli antichi istituti della pólis. Il cittadino di un tempo ora è suddito di un’entità statale di cui non percepisce i contorni e galleggia in una condizione di smarrimento cui non sono estranee, peraltro, ragioni economiche; ma è quest’idea generale di un’eccedenza di tutto, incontrollata e incontrollabile, che induce l’uomo comune a un senso di impotenza e ne mette in forse l’ubi consistam – quasi l’effetto di una rivoluzione copernicana. E qui, se la filosofia reagì alla temperie

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proponendo sistemi finalizzati non più alla conoscenza ma alla felicità (e questa legata, significativamente, alle risorse autonomistiche del singolo)127, la letteratura iniziò a valorizzare, contro la vastità dei nuovi orizzonti, esattamente il piccolo. Così nel teatro comico nuovo di Menandro, lontano dagli afflati di rivolta aristofanei e ridotto a “borghesi” contesti domestici; così nei fondamenti della nuova poesia delineati da Callimaco, che, e.g., trasformano l’epos in epillio e sposano, in genere, la causa della brevitas; così nella scelta tematica e nel gusto (talora leziosamente) miniaturistico di molti nuovi poeti128; così, infine, nell’“invenzione” della bucolica quale spazio, per i suoi protagonisti, delimitato da orizzonti beatamente ristretti. Ne Il Ciclope di Teocrito Polifemo, tentando di sedurre Galatea, redige un puntuale inventario degli elementi del suo mondo, che sono, fatte alcune eccezioni dovute all’entità mitica del personaggio, uno standard bucolico129 oltre il quale il gigante non concepisce realtà, e che anzi in tutto il carme contrappone, così precisamente delimitandolo, alla vita in mare della quale pure non sa nulla130. Certo, la sua è risibile e al tempo stesso commovente ignoranza, quando canta le virtù della sua bella nei modi grotteschi di 20-21 («tu più candida del latte cagliato, più morbida di un agnello, / più altera di un vitello, più brillante dell’uva acerba»; tr. Palumbo Stracca 1993); eppure nell’umorismo della scena risiedono anche le coordinate di un mondo che funziona, per chi lo abita e per chi ne legge, proprio nell’esclusivismo della sua povertà pratica e ideologica, nel suo rassicurante, perché limitato, perimetro di dolcezze campestri eternamente uguali a sé stesse. Per quanto la campagna si stenda, si sa che presto o tardi, che sia il mare o la città, una realtà differente ne segnerà il finis. Ed è bello, forse anche giusto così: tra queste pareti d’aria, al tepore incessante di primavera, si esperisce una sicurezza che somiglia alla felicità. Mi piace citare, allora, il mio conterraneo Niccolò Forteguerri (1674-1735), alias Nicalmo Teseo – suo nome di battaglia àrcade –, che con ineguagliata, radiosa semplicità esprime questa specifica idealità della bucolica in un

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madrigale oggi poco presente in antologie, nel quale si vagheggia di un mondo “scorciato”, appunto, sino a “farne poca cosa”: I pesci di vivagno, o di lago o di stagno, invidio: ed oh! mai quanto! Ma pietade altrettanto ho dei pesci di mare, dei pesci di fiumare. Sapresti tu arguire, Filli, ciò che vuo’ dire? Or ve’ se io dico il vero. Non punge già pensiero di partir dal compagno pesce di lago o stagno, ma da mattina a sera il pesce di riviera e quel del mar profondo, gira e rigira il mondo. Se potessi far io in tutto a modo mio, sai tu che vorrei fare? Vorrei il mondo scorciare, e farne poca cosa, ma però graziosa: un campo, una villetta, e quivi, o mia diletta, viver teco e morire, ma non poter partire.131

Per i motivi sopradetti e quello che significano per l’essere umano, lo spirito della bucolica rischia di non conoscere tramonto – soprattutto se il suo principio è la reazione a un urbanesimo cosmopolita e a un allontanamento dallo stato di natura che mi pare a oggi diano segno, con le condizioni in cui versa il pianeta oltre due millenni dopo Teocrito, di non volersi affatto contenere e rimodulare. E però credo che la sua eterna vitalità sia assicurata anche da un più profondo aspetto

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metastorico. Se anche le condizioni esterne fossero diverse; se anche non vi fosse ragione per evadere da una realtà deprimente e ricavarsi una nicchia con gli artifici del caso, ve ne sarebbe per raccogliersi – per rientrare in sé stessi. Che dire dello spazio fantastico bucolico, magari nella sua più tipica versione arcadica, come, non un prodotto della poesia, ma luogo necessario alla sua incubazione? Come metafora, cioè, di un raccoglimento fecondo delle migliori ispirazioni? Nella ricchissima tela del Faust di Goethe trova posto, come noto, anche il mito di Arcadia: incastonato al centro della sua seconda parte (vv. 9574 ss.), esso costituisce il culmine e lo scioglimento dell’evocazione dell’età classica incentrata sulla figura di Elena. La bellissima, concupita da Faust e infine conquistata, grazie agli uffici di Mefistofele, è prima difesa dal suo nuovo signore dall’esercito di Menelao, poi da lui trasportata, appunto, in Arcadia, evocata sin dai vv. 9528 ss. («[…] ma si scorge già verde la roccia […]»132), con accenti che ne richiamano, tipicamente, la separatezza e (pertanto) la dolcezza edenica («Qui stare bene si eredita. / Come la guancia è serena la bocca. / Ognuno di loro, al suo luogo, è immortale. / Sono contenti e sani»133). Poco dopo: «E per noi sia felice / l’arcade libertà», è il grido di Faust che prelude al completo mutamento di scena nei versi che seguono: compaiono una fila di grotte con pergolati e un boschetto ombroso incorniciato da balze rocciose. L’anziana Forcide, figura dietro cui si cela Mefistofele, rivela al Coro che «queste grotte, questi antri, queste pergole / hanno dato asilo e guardia, come in un idillio a due, / al signore e alla signora nostra»134, cioè a Faust e Elena, Abgesondert von der Welt, «isolati dal mondo»135. Si apprende poco dopo che in tale isolamento la coppia ha concepito un figlio, Euforione136: «scorrono nelle membra sue le eterne melodie», ed è tale che, scomparso in un abisso, ne riemerge adorno di vesti magnifiche e cinto da un diadema («È fiamma di intelletto sovrumano?»), con in pugno la lira dorata «proprio come un giovane Febo»137. Il simbolismo sotteso alla scena pare evidente anche senza l’indicazione che Goethe stesso fornì all’amico Eckermann il

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20 dicembre 1829: Euforione è, almeno a quest’altezza, figura della Poesia stessa in forma quintessenziale e atemporale138. Il dato per noi notevole è la scelta del setting arcadico per la sua fioritura e la sua pur breve esistenza. Così che verrebbe da concludere che non solo l’Arcadia, e in assoluto il mondo bucolico, sono, fin dall’inizio, un frutto poetico in cui larga parte ha la rappresentazione del farsi della poesia stessa – con personaggi che, poeti in actu a loro volta, doppiano o triplicano la funzione dell’autore; ma quella stessa dimensione originata dall’afflato poetico e da esso pervasa, è a sua volta figura del paesaggio interiore che ne permette la nascita. Dalla fondazione teocritea ai suoi estremi esiti, la bucolica si configura allora come quanto di più vicino all’autorappresentazione della Fantasia. Alveo della poesia elle-même, nel suo nascere e nell’espletarsi (e così nel morire), indica al fondo, dietro l’istanza di fuga e il disegno di un mondo appagante nella sua finitudine, qualcosa di ancora più intimo: il potere seminale, forse, di certi recessi dell’anima. E sarà per questo una faccenda squisita, e molto privata, anche, data la naturale segregazione di tutte le arcadie. Non si esclude che in un certo senso, nella super-accezione che si è preso in esame, ognuno ne abbia una sua propria e non socializzabile, soprattutto nelle volgari declinazioni che oggi assume l’aggettivo. Nonostante sia popolata di canti e musiche di epoche diverse se ne siano impossessate, certo silenzio è, sospetto, la musa profonda della bucolica, e per sempre. «Qui non si cambia testo, / qui si ricade»139. Breve storia della tradizione bucolica. Il presente lavoro Si può dire ben poco delle antiche vicende editoriali dei bucolici greci, e le conclusioni di U. Wilamowitz in merito sono pur sempre in buona parte aleatorie140. La documentazione papiracea in nostro possesso (I-VII sec. d.C.), che con poche eccezioni trasmette i carmi del solo Teocrito, appare una con-

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sistente prova a sfavore dell’esistenza in antico di una raccolta di boukoliká estesa a Mosco, Bione e altri minori; la quale non prenderà forma, sulla scorta di un rinnovato interesse per l’inventor siracusano presso i dotti bizantini, che all’interno della tradizione manoscritta medievale. Allo stesso modo l’attribuzione del carme figurato Sýrinx – in effetti ancora discussa – a Teocrito, trarrà con sé, in alcuni codici, altri cinque cosiddetti technopáignia tutt’oggi stampati in edizioni complessive di bucolici, benché con i motivi del genere non abbiano (a parte La zampogna) a che spartire141. I manoscritti bucolici in nostro possesso sono circa 180, i più antichi dei quali risalgono alla fine del XIII secolo. Nel secolo scorso gli studi di Carlo Gallavotti142, a coronamento di un lavoro iniziato almeno con Carl Wendel nella sua edizione degli scolii teocritei143, portarono alla ripartizione dei codici in tre famiglie manoscritte, sulla base dell’ordine dei carmi al loro interno: l’Ambrosiana, la Laurenziana e la Vaticana; carmi posteriormente riconosciuti come non teocritei, inclusi i poemetti di Mosco e Bione, rientrano in un gruppo di codici, molti dei quali costituiscono la c.d. “Laurenziana ampliata” o “Tricliniana”, dal rilievo in essa del codice Tr (= Parisinus Graecus 2832, XIV sec.) che contiene note sticometriche e metriche di pugno del dotto bizantino Demetrio Triclinio (1280-1340). Esula dal quadro il cosiddetto Patavinus deperditus, il codice che il letterato e poeta greco Marco Musuro (1470 ca.-1517) aveva utilizzato per un corso di lezioni a Padova su Teocrito, corredandolo di annotazioni e varianti desunte in parte da un codice molto più antico di proprietà del padovano Paolo Capodivacca144. Per quanto riguarda le edizioni a stampa, dopo l’incunabolo milanese del 1480 curato da Bono Accursio, princeps per i primi 18 idilli teocritei, è la volta delle due edizioni del 1495 del Teocrito impresso da Manuzio, che per la prima volta stampava, con altri idilli teocritei, Mosco e Bione145; fanno seguito le cinquecentine Calliergiana e Giuntina146 – edite nello stesso anno e concordi nel testo, basato in parte anche sul Patavinus, come segnala la Giuntina in prefazione147 –, che arrecavano

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nuove aggiunte al corpus di Teocrito, fino alla pubblicazione decisiva di Henri Estienne (1566)148, dove il materiale bucolico era disposto nell’ordine tutt’oggi invalso (30 idilli attribuiti a Teocrito – carmi attribuiti a Mosco – carmi attribuiti a Bione). La storia editoriale della bucolica tout court – dunque a prescindere da edizioni di singoli autori149 – conosce poi un nuovo essenziale snodo nell’opera ottocentesca di H.L. Ahrens150, fondata su una collazione dei manoscritti di scientifica accuratezza; per proseguire nel ’900 con le tappe essenziali di Wilamowitz 1905, fondamentale per la disamina sulla storia della tradizione, e la prima stampa dei Bucolici Graeci di Gallavotti (1946), dal cui esauriente apparato prende le mosse Gow 1952 – che pure riporta per primo, nella serie dei carmi, il frammento bucolico restituito dal Papiro Viennese Rainer 29801151. Al momento in cui scrivo, la più recente edizione critica dei bucolici en ensemble si deve a Hopkinson 2015, che basa il suo testo su Gow 1952 e Gallavotti 1993. Faccio a mia volta riferimento a quella, con alcune deroghe di cui di volta in volta darò conto in nota, per un lavoro che non ha, ad ogni modo, ambizioni filologiche. Qui si propone, in nuova traduzione italiana, la seguente selezione di testi: Eros fuggitivo, Europa, i frr. 1-3 provenienti da Stobeo e l’epigramma 4.200 della Planudea (= A.P. 16.200), rubricato solitamente come fr. 4 di Mosco; l’Epi­tafio di Adone, l’Epitalamio di Achille e Deidamìa e i frr. 1-17 di Bione; l’Epitafio di Bione e la Megara di anonimi; il tardo e adespoto Per Adone morto. Si capisce che l’opera si incentra essenzialmente su Mosco e Bione, di cui si viene a colmare, nelle intenzioni, l’ininterrotta latitanza nell’editoria classica rivolta a un pubblico non specialistico; con, in coda, due poemetti pure ascritti un tempo a Mosco – qui sottratti alla tradizionale rubricazione all’interno dell’opera moschiana autentica152 – e una breve anacreontica che riprende e in un certo senso archivia, nella sua amena frivolezza, il motivo adonio al centro del più importante carme bioneo. Diremo che ancora per

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la comprensione di Bione e della bucolica in genere, e della “minore” e post-teocritea in particolare, sembra fondamentale un testo come l’Epitafio di Bione, e per questo lo si presenta con particolare piacere. A conti fatti, dal quadro della poesia pastorale successiva a Teocrito risultano assenti i carmi apocrifi interni alla raccolta di Teocrito stesso – presi in esame, di solito, dai curatori della sua opera; il frammento ricavato dal Papiro Rahner, il cui stato di conservazione non consente, ai non addetti ai lavori, una lettura particolarmente agevole né proficua; la serie dei carmina figurata, infine, che esula di molto dalla materia bucolica e non sembra di supporto alla lettura dei “bucolici minori” cui il lavoro è sostanzialmente dedicato. Presi assieme e in un quadro di più ampio respiro, Mosco e Bione sono stati tradotti per l’ultima volta in italiano (in prosa) da Vox 1997, mentre in questo secolo si devono a Bruna Palumbo Stracca due nuove versioni nella nostra lingua, filologicamente avvertite e in versi, dell’Epitafio di Adone e dell’Epitafio di Bione153. Per conto mio, ho scelto la poesia e la generale adesione. Ho seguito sommariamente la norma, cioè, non solo di far coincidere il numero dei versi originali con quelli del testo di arrivo, ma anche di far corrispondere nella mia versione, alle parole impiegate dall’originale in un dato verso, le stesse parole nello stesso luogo, cercando di evitare, in ogni caso, violenti stravolgimenti d’ordine. C’è da augurarsi di non aver tradito – entro una versificazione generalmente irregolare e idiosincratica, soltanto vincolata alla corresponsione di cui si diceva154 – da una parte la sostanziale “musa tenue” moschiana, dall’altra il più acceso páthos di Bione e del suo carme-capolavoro in particolare, per tacere delle caratteristiche degli epigoni senza nome dei carmi finali (asianesimo spinto nell’autore dell’Epitafio di Bione; afflato epico-tragico su setting mimico in quello della Megara; levità maliziosa in Per Adone morto…). E in verità è impossibile che ciò non sia successo, e l’augurio è in parte insincero, come dev’essere.

MOSCO

Eros fuggitivo

Gridava Cipride1 in cerca di Eros suo figlio: «Chi vide mai Eros sbandato nei trivi, è il mio fuggiasco2; chi lo denuncia avrà un dono. Tuo premio sarà il bacio di Cipride; ma se me lo porti non il semplice bacio tu avrai, o straniero, ma anche di più3.   Il ragazzo è arcinoto: tra venti insieme sapresti che è lui. Non è bianca la pelle, ma simile al fuoco4; i suoi occhi sono acuti e fiammanti; è malevolo, ma è dolce il suo eloquio5 – non pensa lo stesso che dice: la sua voce è di miele ma la mente è biliosa; è indocile, è depravatore, sincero mai, ingannevole bimbo, coi suoi giochi feroci6. In capo ha bei ricci, ma la fronte è impudente. Ha manine gentili, ma colpiscono lungi – colpiscono fino all’Acheronte e al regno di Ade. Nudo tutto è il suo corpo, ma l’animo è bello schermato, e alato, da uccello, giunge a volo sull’uno e poi l’altro, uomini e donne, si posa sull’anima. Ha un arco minuscolo, ma sopra è una freccia; la freccia è piccina, ma arriva anche in cielo7; è d’oro la faretra alle spalle, ma dentro ci sono,   amari, i dardi con cui anche me piaga spesso. Tutte cose, queste, feroci, ma molto di più la sua torcia: pur piccola fiaccola, incendia anche il sole. Se lo catturi, tu legalo senza pietà,

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52 e se vedi che piange, bada che non ti raggiri;   tu, se ride, trascinalo; e volesse baciarti, scappa: il suo bacio è rovina, le labbra veleno. Dovesse poi dirti: “Tieni, le armi che ho ti regalo”, non toccare i suoi doni bugiardi: sono tutti intinti nel fuoco»8.

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Europa

Una volta Cipride mandò un dolce sogno a Europa1, quando nei pressi dell’alba la notte è al suo terzo2, quando sopra le palpebre il sonno, più blando del miele, prostra e vincola gli occhi con molle catena, quando va al pascolo la stirpe dei sogni veraci3.   Allora, mentre dormiva nelle stanze più alte, Europa, la figlia di Fenice vergine ancora, credette che due continenti per lei si battessero, l’Asia e la terra di fronte; avevano aspetto di donna4. Una fra esse appariva straniera, l’altra sembrava   del luogo e più si stringeva a sua figlia – l’aveva fatta nascere e crescere, diceva così. Ma la prima di forza, con mani potenti la trascinava (e lei lo voleva!), perché fatalmente Europa doveva grazie a Zeus Egìoco5, disse, essere sua.   Lei balzò allora atterrita dalle coltri del letto, col cuore tremante, perché il sogno che ebbe le parve reale; rimase seduta in un lungo silenzio, ché ancora entrambe le donne vedeva con gli occhi sbarrati. Alla fine gettò, la ragazza, una voce impaurita:   «Chi mi mandò, tra i celesti, di queste visioni? Quali sogni sulle coltri del letto, nel talamo, mentre con tanta dolcezza dormivo, mi trassero su sbigottita? La straniera chi era, che vidi nel sonno?

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54 Come si prese il mio cuore la voglia di lei, come anche lei   mi accolse di gioia guardandomi come fossi sua figlia! Ah, che i beati a buon fine mi realizzino il sogno!»6. Così disse e si alzò, in cerca delle care compagne gradite, le nobili sue coetanee, con cui sempre scherzava apprestandosi al ballo,   o quando lavava il suo corpo alla foce del fiume o quando coglieva nel prato gigli odorosi. E subito esse le apparvero, ciascuna in mano un canestro di fiori; andavano ai campi a ridosso del lido, dove sempre si riunivano in gruppo   liete delle rose fiorite e del suono dell’onda7. Europa stessa portava un canestro dorato, mirabile, grande stupenda fatica di Efesto, che lo dette in dono a Libia quando nel letto di Ennosigeo entrò; lei poi lo dette alla splendida Telefassa   che aveva il suo sangue; infine a Europa priva di nozze Telefassa sua madre l’offrì in dono magnifico8. Vi erano tante figure brillanti lavorate con arte. C’era l’Inachide Io9 effigiata nell’oro, ancora vitella, priva di sembianze di donna.   Vagabonda, sulle zampe correva i sentieri salmastri come stesse nuotando, e il mare figurava in azzurro. Due10 uomini in alto, sull’orlo del lido, guardavano insieme la vacca percorrere il mare. C’era Zeus Cronide che con le sue mani dolcemente toccava   la vitella dell’Inaco e sul Nilo settemplice11 la cambiava, da vacca con le sue belle corna in donna di nuovo. Era d’argento la corrente del Nilo, la vitella di bronzo, Zeus stesso lavorato nell’oro. Attorno il paniere rotondo, sotto dall’orlo,   c’era Ermes foggiato; vicino giaceva abbattuto Argo dotato di occhi che non hanno riposo. Dal cupo sangue di questo s’alzava un uccello superbo delle sue ali screziate: a penne spiegate, come vele di nave veloce,   avvolgeva con le sue piume il bordo dell’aureo canestro. Così era il canestro di Europa bellissima.

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55 Quando vennero al prato fiorito, ognuna prendeva piacere da un fiore diverso: l’una coglieva il narciso odoroso, un’altra il giacinto,   65 e chi la viola, e chi l’erpillo: sbocciavano fitti per terra i petali sui prati alunni di primavera12. E ancora i ciuffi odorosi del croco biondo strappavano a gara; ma la regina fra loro che con le sue mani sceglieva rose splendide colore del fuoco   70 brillava come in mezzo alle Cariti la Nata da schiuma13. Ma non doveva a lungo scaldarsi l’anima ai fiori, né la fascia virginale conservare intatta: perché come si accorse di lei fu sconvolto il Cronide, nel cuore sopraffatto dalle frecce inopinate   75 di Cipri che sola può domare anche Zeus. E infatti guardandosi dalla rabbia di Era gelosa e per illudere la tenera mente della ragazza nascose il divino, volse il suo corpo e fu toro; non toro che si pasce nel chiuso, non come quello   80 che separa il solco tirando l’aratro ricurvo, né quale pascola in mandrie né quale trascina, domato, un carro pieno di merci. Il corpo era colore dell’oro eccetto un cerchio brillante d’argento in mezzo alla fronte;   85 sguardi elusivi, dagli occhi, scoccavano brama; uguali rampollavano in capo, opposte una all’altra, le corna curve come il disco della mezzaluna cornigera. Venne al prato e non spaventò, apparso, le ragazze, anzi vollero tutte accostarsi   90 e toccare l’amabile toro; il suo odore divino per lungo tratto vinceva il profumo dolce del prato. Si fermò sulle zampe davanti a Europa perfetta: le leccava il collo, seduceva la giovane. Lei lo palpava, con dolcezza le sue mani asciugavano   95 la schiuma abbondante della sua bocca; e baciò il toro. Egli, allora, muggì di piacere14: sembrò di sentire il suono dolce del flauto migdonio15 vibrante. Si accasciò ai suoi piedi, guardava Europa, girato il collo, e le mostrava il gran dorso.   100

56 Allora lei, rivolta alle fanciulle dai folti capelli: «Qua, mie care compagne, in groppa di questo toro, divertiamoci! Tutte, certo, distesa la schiena ci riceverà, tanto è buono e pacifico e dolce a vedersi, simile affatto   105 a altri tori; lo pervade una mente sensata, come di uomo; la voce soltanto gli manca». Dicendo così, sorridendo, gli montava sul dorso e le altre si apprestavano a farlo; ma il toro balzò rapendo colei che voleva e fu presto sul mare.   110 Ella, rivolta, chiamava le care compagne, tendeva le braccia, ma quelle non potevano raggiungerla. Venuta alla riva la bestia proseguiva la corsa, come un delfino affrontando, ma con zoccoli asciutti, la vasta marina. Il mare era placido sotto il suo passo,   115 guizzavano attorno e alle zampe di Zeus grandi pesci16, e un delfino, venuto dal fondo, capriolava gioioso sull’onda. Emersero Nereidi17 dall’acqua: tutte procedevano in fila a cavallo di mostri marini. Sul mare lo stesso Ennosigeo18 fragoroso   120 governando le onde per il sentiero marino guidava il fratello; a lui si riunivano attorno i Tritoni19, auleti del mare che suonano grave, soffiando nelle vaste conchiglie il loro canto nuziale. Seduta sul dorso bovino di Zeus la ragazza   125 con una mano a un lungo corno del toro aggrappata, con l’altra traeva il lembo della veste purpurea perché, sollevata, l’acqua infinita del mare canuto non la bagnasse. S’incurvò profondamente alle spalle il peplo a Europa come vela di nave, facendo più lieve il suo peso20.   130 Quando fu appunto lontana dalla terra dei padri e non si mostrava riva battuta dai flutti né un monte scosceso, ma aria al di sopra e sotto il mare infinito, guardandosi attorno mise una voce così: «Dove mi porti e chi sei, toro dio21? Come puoi   135 percorrere vie malagevoli ai buoi e il mare non temi? Corrono il mare le navi veloci, ma paventano i tori il sentiero marino.

57 Quale buona bevanda dal mare, che cibo avrai? Certo, sei un dio; conviene agli dèi ciò che fai.   140 I delfini non procedono a terra né i tori nel mare, ma tu in terra e sul mare ti avventi, impavido, e gli zoccoli ti fanno da remi22. Anche, forse, nell’aria azzurra ti solleverai e volerai come i rapidi uccelli.   145 Ahimè grandemente infelice, la casa lasciata del padre questo bove io seguo in questo assurdo viaggio marino, errabonda, sola. Ma tu Ennosigeo, protettore del mare canuto, a me vieni benigno: ti possa scorgere   150 dirigere questa navigazione, mia guida, perché non senza gli dèi queste vie d’acqua percorro»23. Così disse, e così a lei si rivolse il toro che aveva belle le corna: «Coraggio, ragazza, non temere il tumulto del mare. Sono Zeus in persona, anche se da vicino ho l’aspetto   155 di un toro; poiché posso apparire nella forma che voglio. La brama di te mi ha spinto a percorrere questo gran mare in sembianze di toro; Creta ti accoglierà, ora, che nutrì me persino24, e là le tue nozze tu avrai. Da me partorirai figli illustri   160 che saranno sovrani, tutti, fra gli uomini»25. Così disse, e quel che diceva era fatto. Appariva già Creta, e Zeus riprendeva il suo aspetto; sciolse la cinta a Europa, le Ore approntavano il letto; fanciulla una volta, fu subito sposa di Zeus   165 e diede figli al Cronide – fu subito madre26.

Frammenti

11 Se appena il vento solca il mare azzurro il mio cuore timido si accende e non più la terra mi è cara: il mare vasto mi chiama. Ma se l’abisso grigio tuona e il mare schiuma, tumido, e onde enormi infuriano, cerco il suolo e gli alberi, fuggo il mare, mi è grata la terra e fa piacere il bosco ombroso dove canta anche il pino, se tira intenso vento. Il pescatore certo ha vita grama, la barca è la sua casa, una fatica il mare e i pesci preda incerta. Il mio sonno, invece, dolce sotto un platano fronzuto, goda anche all’udire il fremito vicino di una fonte che mormorando allieta il villico, e non gli reca affanno2.

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23 Pan amava Eco sua vicina, Eco amava un Satiro danzante, il Satiro impazziva per Lide4. Come Eco Pan, così attizzava5 il Satiro Eco e Lide il Satirino. L’amore ardeva alterno: perché quanto ognuno disprezzava l’amante, altrettanto era spregiato amando e pativa lo stesso6.

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60 Agli incapaci di amare do questo precetto: perché siate amati in amore, apprezzate gli amanti7. 38 Quando l’Alfeo dopo Pisa procede alla volta del mare va portando a Aretusa un’acqua che fa crescere olivi9 e per doni di nozze fronde graziose, fiori e polvere sacra10; s’immerge profondo tra i flutti, scorre il mare da sotto e non confonde la sua acqua con l’acqua, né sa il mare che un fiume lo sta percorrendo. Esiziale ragazzo11, Eros maligno maestro d’orrori, anche a un fiume con una malìa insegnò a tuffarsi.

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Epigramma (Anth. Plan. 4.200 = A.P. 16.200)12 Deposti la torcia e l’arco, prese il bastone che stimola i buoi13 Eros funesto; portava una bisaccia alla spalla e messo al giogo il collo indefesso dei tori seminava il solco ferace di Dèo14. Poi rivolto all’alto, a Zeus, disse: «Matura i miei campi,   5 ché non ti metta all’aratro, bue di Europa».

BIONE

Epitafio di Adone

Io piango Adone: «È morto il bell’Adone»; «È morto il bell’Adone», si uniscono gli Eroti al pianto1. Non dormire, Cipride, più, in lenzuola di porpora: svegliati, misera, vesti di nero, battiti il petto e di’ a tutti «È morto il bell’Adone».  

5

Io piango Adone; si uniscono gli Eroti al pianto. Giace Adone bello sui monti, alla bianca sua coscia da bianca2 zanna ferito, nel dolore di Cipride spira pian piano, il sangue suo nero si sparge sulla carne di neve, gli occhi si appannano sotto la fronte,   fugge la rosa del labbro, su lui muore anche il bacio che mai coglierà Cipride. A Cipride è caro il suo bacio se anche non vive, ma Adone non sa che lei lo baciò3 che moriva. Io piango Adone; si uniscono gli Eroti al pianto.   Acre, acre ferita ha Adone alla coscia, però Citerèa4 ne serba una in cuore più vasta. Sul ragazzo i suoi cani guairono, lo piangono le Ninfe montane, Afrodite

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64 vagola5 a chiome disciolte nei boschi,   dolente, scapigliata, scalza, i rovi al passaggio la sfregiano, le colgono il sangue divino, nell’acuto pianto si trascina per lunghe vallate chiamando urlando lo sposo Assiro, invocando il ragazzo6. Ma su lui si allarga cupo all’ombelico il sangue,   dopo le cosce si colora in rosso il petto, i seni, di neve prima, diventano a Adone di porpora7.

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«Ahimè, Citerèa», si uniscono gli Eroti al pianto. Ha perduto lo sposo suo bello, ha perduto con lui la sua sacra bellezza. Era bello l’aspetto di Cipride quando Adone viveva,   30 e poi con Adone morì l’avvenenza: «Cipride, ahi», dicono i monti, tutti, e le querce: «Ahi, Adone»; di Afrodite i fiumi gemono il lutto, le fonti sui monti compiangono Adone, s’arrossano i fiori di spasimo8, mentre Citera9   35 per tutti i dirupi e ogni valle canta il lamento «Ahimè, Citerèa, è morto il bell’Adone». Eco10 ripete: «È morto il bell’Adone». Chi non avrebbe pianto «ahimè» sull’amore tremendo di Cipride? Quando vide, quando conobbe l’insoffribile piaga di Adone,   40 quando vide rosso il sangue sulla coscia sfiorente, spiegate le braccia gemeva: «Resta, Adone, infelice Adone, resta, ché un’ultimissima volta ti colga, ti abbracci e confonda le mie labbra alle tue. Svegliati un poco, Adone, e baciami per l’ultima volta,   45 baciami tanto quanto dura il bacio vivo, finché tu spiri nella mia bocca e nel mio cuore ti coli il respiro, che io sprema il dolce tuo filtro, che io beva intero l’amore e questo bacio io vegli come Adone stesso, perché tu sciagurato mi sfuggi,   50 fuggi lontano, Adone, vai all’Acheronte dal re tetro e crudele; io invece misera, che vivo e che sono una dea, non posso inseguirti.

65 Persefone, prendi il mio sposo, ché tu sei di me assai più forte e ogni bellezza precipita a te11,   mentre io infelicissima, la mia pena incolmabile, piango Adone a me morto e ti temo. Tu muori, amatissimo, la mia passione s’involò come un sogno, Citerèa è una vedova e desolati nelle stanze gli Amori. Con te si è perduto il mio cinto12. La caccia, perché, incosciente?  Perché così bello che eri13, smaniasti affrontare una bestia?».

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Così geme Cipride14; si uniscono gli Eroti al pianto, «Ahimè, Citerèa, è morto il bell’Adone». Tanto versa Pafia15 di pianto, così Adone il suo sangue, fiori tutti che nascono in terra:   rose dal sangue, dalle lacrime anemoni16.

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Io piango Adone: «È morto il bell’Adone». Non piangere più tuo marito, Cipri, nei boschi; non è per Adone un giaciglio adeguato, il nudo fogliame. Abbia ora il tuo letto, Citerèa, Adone da morto:   70 è bello pur morto, bel morto che pare dormiente. Stendilo sulle tenere coltri su cui coricato dormiva con te, nella notte, il sonno estenuante divino17, sul letto dorato che desidera Adone anche tetro18 così. Coprilo di ghirlande di fiori, i fiori tutti con lui,   75 ché sono tutti avvizziti quando quello è defunto. Bagnalo di unguenti siri, e profumi: che muoiano tutti i profumi poiché è morto il tuo, che era Adone19. Il tenero Adone è disteso su vesti di porpora, lo lamentano gli Eroti intorno e lo piangono,   80 rase per Adone le chiome: le frecce depongono20, e l’arco, e le penne, e la faretra; c’è chi scioglie il suo sandalo, altri in un lebete d’oro portano acqua, c’è chi gli terge le cosce e chi dietro, con le sue ali, fa vento a Adone.   85 «Ahimè, Citerèa», si uniscono gli Eroti al pianto.

66 Imeneo spegne21 ogni lume alle porte e disfà la corona nuziale: «Imene» non più, non più «Imene» intona il suo canto ma dice «Ahimè ahimè» e «Adone», più che «Imeneo».   Le Cariti22 piangono il figlio di Cinira, «È morto il bell’Adone» a vicenda si dicono e dicono forte assai più di te «ahimè», o Diona23. E richiamano Adone le Moire, Adone!24, ma lui non ascolta il loro canto malioso:   anche volendo, non lo libera Core25.

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Cessa per oggi, Citerèa, i tuoi lamenti, ferma il tuo lutto: dovrai piangere ancora, ancora spargere lacrime, fino a un altr’anno26.

Epitalamio di Achille e Deidamìa

MIRSONE

Vuoi cantarmi, Licida, un dolce canto siciliano1, leggiadro, suadente, amoroso, quale il Ciclope Polifemo cantò a Galatea sulla riva?2 LICIDA

Anche a me piace il canto bucolico, Mìrsone; quale, però?3 MIRSONE

L’amore di Sciro, Licida, che cantavi lodato:   i baci del Pelide furtivi, il furtivo letto, come, ragazzo, indossò mentite spoglie di donna, come poi tra le figlie di Licomede che non se ne accorsero Deidamìa si unì con Achille nel talamo.

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LICIDA

Rapì Elena un giorno il bovaro4 e la condusse sull’Ida:   per Enone5 fu una pena crudele. Si adirò Lacedemone, tutto il popolo acheo mise insieme, neppure un Elleno, né di Micene, né dell’Elide e né di Laconia restò a casa per scampare ai tormenti di Ares. Si celava tra le fanciulle licomedie il solo Achille6:  

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68 imparava i lavori alla lana anziché l’uso di armi, la mano candida brandiva una scopa muliebre, una fanciulla appariva; e infatti come loro si comportava da donna, era un fiore che arrossiva nelle guance di neve, il passo era un passo di ragazza e la chioma era avvolta da un velo.   20 Ma la voglia e l’amore appartenevano all’uomo: dall’alba fino a notte stava accanto a Deidamìa, a volte le baciava la mano; spesso di lei elogiava l’ordito e lodava i suoi tessuti screziati; con nessun’altra compagna mangiava e faceva di tutto   25 per dormire con lei. Le disse anche questo: «Si addormentano l’una con l’altra le altre sorelle, io invece dormo da sola, e tu anche, ragazza. Noi, le due vergini di identica età, le due belle! eppure da sole dormiamo nel letto; la cattiva   30 Nisèa7, l’infida, mi separa malignamente da te. Infatti io non ti…

Frammenti

11 Tanto soffriva, Febo, che diventò muto. Cercava ogni farmaco, ambiva un’arte sapiente, ungeva d’ambrosia e di nettare ungeva2 tutta la piaga; ma se destinata, ogni ferita è inguaribile. 23 CLEODAMO4

Primavera, Mìrsone, inverno, autunno o estate ti piace di più5? Cosa vorresti venisse? L’estate, quando tutta la nostra fatica dà frutto, il dolce autunno, quando la fame degli uomini è lieve, l’inverno inoperoso – perché tanti anche d’inverno   si scaldano e l’inerzia e l’ozio li seducono6 – o la bella primavera ti piace di più? Di’ il tuo cuore cosa vorrebbe, siamo a riposo, possiamo fare due chiacchiere7.

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MIRSONE

Non spetta giudicare ai mortali operazioni divine, perché tutte sono sante e gradite8; ma per te   dirò quale, Cleodamo, preferisco alle altre.

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70 Non voglio sia estate, perché il sole mi cuoce; non voglio autunno, perché reca malanni; l’inverno tremendo9 comporta la neve, e io temo il gelo; venisse primavera, ecco, un anno intero, amatissima,   quando né il gelo né il sole mi opprimono; primavera è feconda di tutto, tutto in lei è dolcezza nel fiore e la notte e il giorno sono uguali per gli uomini. 310 Eros chiami le Muse, le Muse portino Eros11: a me sempre innamorato le Muse concedano il canto, dolce canto di cui non c’è farmaco che piace di più12. 413 Dalla goccia frequente, si dice, che continua a cadere, anche la pietra si fende, incavata14. 515 Non è bello ricorrere, amico, all’artigiano ogni volta, non c’è bisogno di altri per tutto; anzi anche da solo puoi costruirti una siringa, è una facile impresa16. 617 Non lasciare che io non abbia compenso: anche Febo cantando è pagato. E poi premiare accresce il tuo potere.18 719 Non so e non è giusto si lavori a qualcosa, se non si conosce20.

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71 821 Se sono belle le mie canzoncine22, anche queste da sole che la Musa in passato mi offrì mi daranno prestigio; se invece non piacciono, perché me ne do ancora pena23? Ci avessero dato un tempo doppio di vita il Cronide o la Moira volubile, così da compiersi l’uno   nella gioia e in piaceri e l’altro in travaglio, forse chi ha sofferto potrebbe, più tardi, godere fortuna. Ma se gli dèi permisero che solo un tempo toccasse alla vita degli uomini, breve, per giunta, e impari a tutto24, ah miserabili, quanto vogliamo affannarci all’opera?   e l’anima, fino a quando a lavori venali25 la vincoleremo, per una sempre crescente ricchezza? Ci siamo scordati che tutti nascemmo mortali, che la Moira ci assegnò poco tempo26?

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927 Le Muse non hanno paura di Eros indocile, anzi lo amano sinceramente e passo passo lo seguono, e se qualcuno canta e ha il disamore nell’anima lo scansano e non gli vogliono far da maestre28; ma se uno canta con dolcezza, la mente scossa29 da Eros,   allora subito tutte si riversano su lui. Questa storia è sempre vera, e lo attesto: perché se canto di un altro mortale o di un dio mi s’inceppa la lingua30, non canta più come prima; ma se canto qualcosa per Eros e Licida31,   allora la voce mi scorre felice attraverso le labbra. 1032 Mi si accostò la grande Cipri mentre ancora dormivo: portava per la mano bella Eros piccino con la testa china a terra, e mi disse così:

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72 «Prendi Eros con te, caro pastore, e insegnagli il canto», diceva; poi se ne andò, e io tutti i miei canti bucolici,   sciocco, insegnavo a Eros quasi volesse impararli: di come Pan scoprì il flauto traverso e Atena l’aulo, come Ermes la lira, come Apollo soave la cetra, gli insegnavo di questo33; ma lui non badava, mi cantava piuttosto versucci d’amore illustrandomi   le brame di uomini e dei e le imprese materne. Allora anch’io mi scordai le mie lezioni per lui, ma appresi quelle di Eros, tutti i suoi versucci amorosi34.

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1135 Espero36, lume dorato dell’amabile Nata da schiuma37, Espero, caro, sacro ornamento della livida notte, così della luna più fioco come svettante fra gli astri, amico, salve: anche a me, che canterò38 per il pastore, da’ luce come tu fossi la luna, perché lei,   che oggi è al principio, è calata più presto. Non a rubare io vado, né a molestare i viandanti di notte, ma amo; ed è così bello compiacere gli amanti39.

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1240 Felici gli amanti41 se ricambiati di identico amore! Felice era Teseo se aveva accanto Piritoo, se anche discese all’inflessibile Ade42; felice era Oreste tra gli ostili Inospiti, perché condivise il suo cammino Pilade43;   beato l’Eacide Achille quando era vivo il compagno; e morì volentieri, per non avergli stornato l’orribile sorte44.

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73 1345 Ragazzo ancora, un cacciatore46 in una fitta foresta in cerca di uccelli vide Eros da un lato47 adagiato su un ramo di bosso; appena lo scorse si allietò ché gli parve un gran bell’esemplare48, e legando insieme una all’altra le canne49   spiava Eros saltare, di qua e di là. Sdegnato di non riuscire50, alla fine il ragazzo buttate le canne andò dal vecchio aratore che gli aveva insegnato quell’arte, gli disse e gli mostrò Eros posato. Il vecchio51   sorrise, scosse la testa e al ragazzo rispose: «Smetti la caccia e non star dietro a quest’uccello, scappa lontano! È una bestia cattiva. Felice sarai finché non l’avrai preso. Quando però sarai grande lui che ora fugge e è volato, spontaneamente   all’improvviso verrà e si poserà sul tuo capo»52.

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1453 Dolce Nata a Cipro, figlia di Zeus e del mare54, perché opprimi tanto i mortali e gli dèi? E dico poco! Perché così odiavi anche te stessa da generare il male grande comune di Eros selvaggio, cattivo, la mente dissimile in tutto dal viso?   Perché renderlo alato e infallibile arciere55 da non poterne evitare le punte56? 1557 Bello delle donne l’aspetto, dell’uomo la forza58.

5

74 1659 Ma io andrò per la mia strada che scende a quella riva sabbiosa60, bisbiglierò, pregherò Galatea la crudele; le dolci speranze io non deporrò, fino a estrema vecchiaia61. 1762 Tutto va a segno col favore del dio; tutto ai mortali per divina virtù sia agevole e non senza effetto63.

ANONIMI

Epitafio di Bione

Tristemente gemete, valli e acque doriche1, piangete, voi fiumi, il seducente Bione. Stillate lacrime, piante, adesso; ora lamentatelo, boschi; fiori, ora esalate da tetri corimbi; ora rose e anemoni, sia rosso il vostro abito a lutto;   ora, giacinto, di’ le tue lettere e più «ahimè» raccogli nei petali2: è morto il bel cantore.

5

Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto3. Usignoli piangenti nel folto fogliame dite alle correnti siciliane di Aretusa4   che è morto Bione il bovaro5 e con lui la musica è morta, e che si è perso il canto dorico.

10

Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto. Cigni affranti dello Strìmone6, piangete sull’acqua e con bocche lamentevoli intonate il canto a lutto   che la voce sa cantarvi alle labbra7. Dite alle figlie di Eagro8, dite a tutte le ninfe Bistonie9: «l’Orfeo dorico è morto»10.

15

78 Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto. Non canta più l’amato delle mandrie,   non più canta sotto querce solitarie, ma un carme leteo11 canta accosto a Plutone. I monti hanno perso la voce, le vacche vagabonde vicino ai tori piangono e non vogliono pascere.

20

Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto.  

25

Apollo stesso, Bione, pianse la tua rapida morte, e così i Satiri e i Priapi mantellati di nero12; sul tuo canto gemevano i Pani, le Crenidi13 del bosco dettero in singhiozzi e le lacrime diventarono acqua; tra le rocce Eco14 piange il proprio silenzio   ché non imita più le tue labbra, per la tua fine gli alberi gettarono i frutti, tutti i fiori si consunsero, le pecore non dettero più il bel fiotto di latte, gli alveari il miele che è morto addolorato nella cera perché non occorre raccoglierlo più, scomparso il tuo miele15.  

30

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Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto. Non tanto gemette Sirena16 sulle rive del mare, né mai così fra gli scogli cantò Aedòne17, né tanto a lungo si dolse Chelidòne sui monti, non così tanto Ceice gridò per i dolori di Alcione18,   né tanto Cerilo19 cantò tra le onde bluastre, né tanto per valli d’Oriente l’uccello di Memnone pianse il figlio di Eo20 volando attorno la tomba, quanto piansero la morte di Bione – Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto –   tutti gli usignoli e le rondini che compiaceva una volta, cui insegnava a cantare; posati sui rami di fronte l’un l’altro gemevano, e gli altri uccelli in risposta: «Il vostro dolore è anche il nostro»21.

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79 Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto.   Chi suonerà la tua siringa, amatissimo? Chi poserà la bocca ai tuoi calami, chi tanto audace? Infatti ancora spirano delle tue labbra e del fiato, e l’eco tra le canne ancora del tuo canto si nutre. A Pan do consegna del canto22? Ma forse anche lui temerebbe   a posarvi la bocca di arrivarti secondo23.

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Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto. Anche Galatea rimpiange il tuo canto, che allietavi una volta quando sedeva con te sulla riva del mare; tu non cantavi, infatti, come il Ciclope; fuggiva da lui   60 la bella Galatea, mentre tu eri più dolce al suo sguardo dell’acqua marina. Ora non sa più delle onde, siede sulla sabbia deserta e pascola ancora i tuoi buoi24. Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto. Bovaro, con te sono morti tutti i doni di Muse,   baci amorosi di fanciulle, labbra di ragazzi, piangono gli Eroti a lutto accanto alle tue spoglie e ti bacia Cipride più che il bacio che baciò prima Adone quando questi moriva25.

65

Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto.  

69a

Tu, il più melodioso dei fiumi, per te questo, Melete,   è un secondo e inatteso dolore26. Ti morì prima Omero, illustre, dolce bocca di Calliope27, e così tu dicono che piangesti il bel figlio scorrendo di lacrime e tutto il mare copristi della tua voce; adesso ancora piangi un tuo figlio e al nuovo lutto ti struggi.   Entrambi erano amori di sorgenti28: l’uno beveva alla fonte di Pegaso29, attingeva l’altro all’acqua di Aretusa30. E l’uno cantò la bella figlia di Tindaro,

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80 il gran figlio di Tetide31 e Menelao Atride; l’altro non guerre, non lacrime, ma cantava di Pan   e celebrava i bovari, pascolava cantando, fabbricava siringhe, mungeva dolci vitelle, insegnava a baciare ai ragazzi, allevava Eros in grembo e provocava Afrodite32. Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto.   Tutta, Bione, ti piange l’illustre contrada e ogni città33. Ascra ti piange molto più che Esiodo; non altrettanto i boschi beoti rimpiangono Pindaro; non così tanto l’amabile Lesbo si dolse di Alceo, né così tanto pianse la città di Teo il suo cantore;   ti rimpiange più di Archiloco Paro e più di Saffo ancora Mitilene rimpiange il tuo canto. ………………………………………………….. a Siracusa Teocrito34. Ma io per te esprimo un canto di dolore ausonio35, io che sono a parte del canto bucolico, erede anzi della dorica Musa   che impartivi agli allievi; con essa onorandomi agli altri lasciasti i tuoi beni, a me il canto36.

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Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto. Ah, dopo che sono passiti nell’orto la malva il sedano verde e l’anèto fiorito e crespo   100 poi vivono ancora e crescono per l’anno che viene; ma noi uomini, i grandi, i forti, i sapienti, una volta periti dormiamo sordi nella terra scavata un lunghissimo sterminato irreversibile sonno37. Anche tu, circonfuso di silenzio, starai nella terra,   105 mentre piacque alle Ninfe che la rana cantasse per sempre! Ma io non la38 invidio: il suo è un brutto canto. Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto.

81 Un veleno ti venne alla bocca, Bione, provasti39 un veleno? Si accostò a labbra tali, senza addolcirsi?   110 Che mortale fu al punto selvaggio da mescerlo a te? Lo porse alla tua musica, e il veleno non dileguò al canto40? Date inizio, siciliane Muse, date inizio al lutto. Ma tutti raggiunge Dike41; io per questo lutto spargendo lacrime lamento la tua morte. Potessi,   115 come Orfeo disceso al Tartaro, come allora Odisseo, come l’Alcide prima42, verrei forse anch’io al palazzo di Plutone a vedere se canti per lui, per ascoltare che cosa. Su, intona a Core un canto siciliano, qualcosa di dolce, bucolico43;   120 anche lei è siciliana, giocava alle pendici dell’Etna e conosceva il canto dorico44; avrà ricompensa il tuo canto, e come in passato concesse a Orfeo quando cantava dolcezze alla cetra che tornasse Euridice45, anche te, Bione, restituirà alle montagne. Se io zufolando   125 potessi qualcosa, dinanzi a Plutone anch’io canterei.

Megara

«Madre mia, perché ti dilani il cuore di dolore tremendo e non più il tuo colore si conserva sul volto? Perché mi ti affliggi così? Forse tuo figlio possente patisce infiniti dolori da un uomo da nulla, come da cerbiatto un leone1?   5 Ahimè, perché mi disprezzarono tanto gli dèi immortali? Perché mi generarono i miei a così grama sorte? Misera me, che da quando mi unii in amore a quest’uomo perfetto2 lo tenevo in onore come il lume degli occhi e ancora adesso lo adoro e lo rispetto nel cuore,   10 ma di lui nessun altro tra i vivi fu mai più infelice né fece di tanti dolori esperienza nell’anima. Disgraziato, che con i dardi che ebbe in dono da Apollo – spaventosi proiettili di Chere o Erinni3 – uccise i suoi figli, gli strappò l’anima   15 infuriando per casa che era piena di strage. Li vidi con i miei occhi, infelice, colpiti dal padre – nemmeno in sogno capitò ad altri – né potevo soccorrerli, benché chiamassero forte la loro mamma, perché era prossimo, ineluttabile il male.   20 Come piange un uccello i suoi piccoli persi, che neonati un orrendo serpente divora nella fitta boscaglia, e lei per essi, venerabile madre, vola e strepita forte,

84 ma non può aiutare i suoi figli, lei stessa   atterrita di andare più accosto allo spietato mostro4, così io, madre atroce, piangevo forte per la mia prole vagando nel vasto palazzo5 con piedi smaniosi. Magari fossi morta anch’io coi miei figli con un dardo avvelenato nel fegato,   o tu che disponi, Artemide delle tenere donne6; i genitori allora con le loro braccia, tra il pianto, ci avrebbero messo con dovizia di offerte su un’identica pira, e scelta un’unica dorata urna per le ossa di tutti ci avrebbero sepolto là dove in principio nascemmo.   Ora invece loro vivono a Tebe che pasce i cavalli, arano lì la zolla profonda della piana di Aonia7 mentre io nella rocciosa Tirinto di Era8 mi lacero il cuore nei tanti dolori, infelice, sempre ugualmente e senza tregua alcuna al pianto.   Vedono per poco i miei occhi il mio sposo in casa nostra, lo attende un’impresa dai molti travagli, per i quali attraverso la terra e il mare travaglia9 con animo forte di pietra o di ferro nel petto; e tu ti struggi come l’acqua10,   piangendo di notte e in tutti i giorni che sono da Zeus. Nessun altro parente mi può consolare standomi accanto, perché non li trattiene una parete domestica, ma tutti ben oltre l’Istmo coperto di pini dimorano, né ho a chi rivolgere il viso,   infelicissima donna che sono, che mi rianimi il cuore, eccetto Pirra, mia sorella11; ma lei anche di più per suo marito Ificle si angustia, tuo figlio; perché i più miserevoli figli di tutti tu hai generato, credo, a un dio e a un uomo mortale12».   Disse così; e lacrime più spesse di mele13 cadevano di sotto le palpebre sul seno adorabile, al ricordo dei figli e poi dei suoi genitori, e così bagnava di lacrime le pallide guance Alcmena14; e gemendo gravemente dal petto   si rivolse alla nuora così, con saggezza: «Figlia sventurata, che si è abbattuto sul tuo spirito

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85 accorto? Perché vuoi spazientire entrambe evocando dolori insoffribili, che non piangiamo da ora? Non basta, che quel che ultimamente ci opprime   65 risorga nei giorni15? Sarebbe un vero patito del lutto chi facesse la conta dei nostri dolori. Animo, ché non avemmo dal dio questa sorte16. Eppure ti vedo, cara figlia, che di interminabili affanni ti logori17; ma io ti perdono   70 di essere afflitta, perché anche di gioia si è sazi. E ti compiango, e ho tanta pena di te, perché ti toccò parte del nostro luttuoso destino che grave oscilla su noi, sul nostro capo. Che Core lo sappia, e Demetra dalle belle vesti,   75 per cui volentieri un nemico sconvolto spergiurerebbe18, che niente di meno nel cuore ti amo che se mi fossi venuta dal grembo e in queste stanze tu fossi la mia figlia adorata; né penso che affatto la cosa ti sfugga.   80 Così, mio ramoscello, non dire che non mi curo di te, anche se piango più fitto di Niobe dai bei capelli19. Non c’è biasimo infatti a compiangere un figlio in disgrazia, per una madre; perché soffrii dieci mesi20 portandolo sotto il mio fegato, prima di poterlo vedere;   85 quasi mi spinse da Ade che serra le porte21, tanto lo partorii con fatica, tra doglie feroci. Ora mio figlio è partito per una terra straniera a compiere una nuova fatica e non so, sciagurata, se ancora ritornerà qui e se potrò riaccoglierlo.   90 E poi mi ha spaventato un sogno orribile nel dolce22 sonno, così per aver visto l’atroce visione ho paura che qualche cosa funesta strisci verso i miei figli23. Mi sembrò che tenendo una vanga ben fatta24 con entrambe le mani mio figlio, Eracle forte,   95 come preso a salario scavasse con quella un’estesa fossa al margine di un campo in rigoglio, nudo, senza il mantello e il chitone ben cinto. Ma quando venne alla fine di tutto il lavoro e si adoprava a fornire alla vigna un robusto riparo,   100

86 poggiata la pala sopra un bordo sporgente era lì per rimettersi i panni che prima indossava; ma divampò all’improvviso sulla fossa profonda un fuoco violento e lo avvolse una fiamma indicibile. Allora lui indietreggiava, sempre di più, con i piedi veloci,   anelando a scampare alla forza mortale di Efesto25; sempre di fronte al suo corpo, come uno scudo, brandiva la pala, e si guardava d’intorno, badando a non farsi bruciare dal fuoco ferale. Lo voleva soccorrere, o così mi pareva,   il magnanimo Ificle, ma scivolò e crollò al suolo prima di giungere, né poté ancora rimettersi in piedi, ma giaceva immobile come un debole vecchio26 che seppure nolente l’amara vecchiaia costringe a cadere, e allora lui giace a terra, fermo, così,   fino a che per la mano lo fa alzare un passante nell’ossequio di un tempo27 alla barba canuta. Insomma era crollato a terra il bellicoso Ificle e io che osservavo piangevo e piangevo i miei figli impotenti, finché mi fuggì il dolce sonno   dagli occhi e in quella apparve la splendente aurora. Mi sconvolsero l’anima, cara, simili sogni per tutta la notte; ma ricada su Euristeo tutto, e non su questa casa28; sia profeta il mio cuore a danno di lui, né il dio realizzi qualcosa di altro o di più».  

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Per Adone morto

Quando vide Citera1 Adone ormai morto con scuri2 i capelli e pallido il viso di portarle il cinghiale   5 agli Eroti impose. Quelli subito in volo corso l’intero bosco scovarono l’odioso e lo misero in ceppi.   10 Da un laccio legato tirava uno la preda, dietro un altro, spingendo, lo batteva con l’arco; trepidava la bestia,   15 ché temeva Citera3. Afrodite a lui disse: «O pessima belva, questa coscia feristi4? il mio uomo colpisti?».   20 Così a lei la bestia: «Ti giuro, Citera, in nome tuo e dell’uomo e di questi miei lacci

88 e dei cacciatori, qui,   25 io l’uomo, il tuo bello non volevo colpire, ma mi parve una statua e non ressi alla vampa: c’era la coscia, nuda…   30 anelavo a baciarla5. ………………………6 Eccole, prendi e tagliale, ecco7, Cipri, puniscile: Perché tollerare oltre   35 queste amorose zanne8? E se poi non ti basta, ecco anche le labbra: che ardire, quel bacio!»9. Lo commiserò, Cipri,   40 e disse ai suoi Eroti di sciogliergli i lacci10. Da allora la seguì, non entrò più nel bosco e provata la fiamma   45 ardeva anche gli Amori11.

Note

Introduzione 1. Si potrebbe aggiungere, alla terna, il termine “ecloga”, grecismo di significato generico (ekloghé = “selezione”, e di qui “pezzo scelto”) che designa, tradizionalmente, i singoli componimenti delle Bucoliche virgiliane, e che tuttavia troppo spesso è stato sovrapposto al titolo complessivo dell’opera e ritenuto equivalente, anche nel senso, a “carme bucolico”. Basti la nota presente per chiarire l’equivoco. 2. È vero che i tratti del genere così delineati probabilmente semplificano il quadro. Secondo Grafton-Most-Settis 2010, p. 694, sarebbe improprio anche parlare di genere, piuttosto che di una serie di convenzioni trasversali a tradizionali comparti della letteratura, né Teocrito avrebbe pensato a sé stesso come a un inventor. Si è scelto di darne qui, invece, e con i rischi del caso, una lettura “forte”, evidenziando elementi ritenuti specifici e demarcanti, senza per questo misconoscere la tendenza tipicamente ellenistica all’ibridazione; il che servirà, come vedremo, a stabilire importanti differenze tra Teocrito e i suoi continuatori. 3. Ne è un derivato piuttosto eloquente la presenza di un motivo popolare come il ritornello o refrain, a partire dal Tirsi dello stesso Teocrito fino agli esempi forniti da Bione con l’Epitafio di Adone e dal suo anonimo discepolo autore dell’Epitafio di Bione. 4. Sull’origine popolare del genere, oltre il decisivo lavoro di R. Merkelbach, Boukoliastái (Der Wettgesang der Hirten), in «Rheinisches Museum für Philologie», XCIX, 1956, pp. 97-133, e di G. Serrao, La poesia bucolica: realtà campestre e stilizzazione letteraria, in R. Bianchi Bandinelli (a cura di), Storia e civiltà dei Greci, vol. 9, La cultura ellenistica: filosofia, scienza, letteratura, Bompiani, Milano 1977, pp. 180-199, cfr. il recentissimo Lelli 2017, che intende per l’appunto sottolineare l’osservanza, da parte del poeta siciliano, dell’elemento folklorico più di quanto sinora riconosciuto

90 («L’ipotesi […] è che di tutti questi elementi della quotidianità del mondo agropastorale Teocrito si fa[ccia] testimone, non imitatore erudito […], egli intende rendere protagonisti – questo il suo straordinario esperimento – i contenuti pragmatici del mondo agropastorale, che mai fino ad allora erano stati soggetto letterario non mitizzato»; p. 5). Quanto alla genesi religiosa della bucolica su cui ci ragguaglia Teone – se a lui, come già sosteneva Wilamowitz, si deve ascrivere, con l’edizione antica dei carmi teocritei, il trattatello premesso ai codici sull’origine della poesia pastorale –, la notizia (su cui cfr. C. Wendel, Scholia in Theocritum vetera, Teubneri, Lipsiae 1914, pp. 2-3) riferisce di tre diverse versioni: 1) in Laconia, al tempo dell’invasione persiana, i contadini si sostituirono alle vergini producendosi in “canti peculiari” in onore di Artemide Cariatide; 2) a Tindari, in Sicilia, gli abitanti del luogo inneggiarono ad Artemide Taurica con, ancora, “poesie particolari” allorché Oreste ne portò tra loro il simulacro; 3) a Siracusa infine (e questo sarebbe, per l’autore della notizia, il lógos alethés, il racconto cui prestare fede), i contadini del luogo festeggiarono la fine di una guerra intestina con gare di canto intitolate a Artemide, divinità ritenuta responsabile della pacificazione avvenuta. Mentre pure occorre evidenziare la coscienza della sostanziale “sicilianità” del genere, la valenza religiosa ricordata da questa nota, se mai fu presente ai primordi del canto bucolico, risulta nella forma letteraria assunta in Teocrito pressoché inesistente. Viene piuttosto da credere che la ricostruzione teoniana, di scuola peripatetica, intenda creare, per la bucolica, un parallelo genetico con la preistoria della poesia drammatica come tratteggiata nella Poetica di Aristotele, cfr. su questo E. Cremonesi, Rapporti tra le origini della poesia bucolica e della poesia comica nella tradizione peripatetica, in «Dioniso», n. 21-22, 1958-1959, pp. 109-122. 5. In Il., 18, 525-526, si dice di una scena pastorale rappresentata sullo scudo di Achille, entro la quale compaiono pastori che si dilettano del flauto; già il Ciclope omerico, del resto, in Od., 9, presenta tratti riconosciuti proto-bucolici anche in antico. 6. La celebre iniziazione esiodea sull’Elicona ha per protagonista, dopotutto, un pastore investito a poeta: a Esiodo le Muse consegnano un ramo d’alloro mentre pascola gli agnelli, e con esso il potere di un canto veridico (cfr. Theog., vv. 22 ss.). La scena è alla base, peraltro, della stessa investitura del personaggio di Simichida, che con ogni evidenza adombra l’autore, nei versi summenzionati de Le Talisie di Teocrito. E tuttavia si badi a come la categoria dei pastori appare, nel discorso delle Muse a Esiodo, pressoché impermeabile a ogni finezza, così che la consegna del canto a uno di loro suona del tutto eccezionale: «Pastori che dimorate nei campi, segni di biasimo, fatti unicamente di stomaco…» (ivi, v. 26; tr. mia). 7. È discusso, in tal senso, il ruolo di Filita (340 ca.-285 ca. a.C.), il poeta elegiaco di Cos che lo stesso Teocrito riguardava come un maestro (cfr.

91 Id., 7, vv. 41-42). Sicuramente Ermesianatte di Colofone, che di Teocrito fu contemporaneo, introduceva nella sua raccolta elegiaca Leonzio personaggi poi destinati a grande fortuna nella bucolica codificata, come Dafni e Menalca (cfr. i frr. 1-3 Powell). 8. Sua probabilmente la prima attestazione nella letteratura greca del mitico pastore Dafni, archegeta del canto bucolico, come da fr. 279 Page. 9. Presenta marcati tratti bucolici, e.g., il dramma satiresco euripideo Il Ciclope – in cui si prepara, peraltro, la trasformazione di Polifemo da epico mostro a figura risibile, quale apparirà in maniera pressoché definitiva e con molte altre suggestioni nel carme 11 teocriteo. 10. Cfr. J. Griffin, Theocritus, the Iliad and the East, in «American Journal of Philology», vol. 113, n. 2, 1992, pp. 189-211. 11. Rispetto all’utilizzo del metro eroico, il risultato sarebbe una sorta di operazione “serio-comica” in cui l’esametro è peraltro piegato a contesti dialogici simil-teatrali, nell’alveo dello spregiudicato sperimentalismo della poesia ellenistica; proprio l’uso dell’esametro, del resto, spiega la presenza piuttosto stabile di Teocrito entro i canoni antichi dei poeti appunto epici (cfr. e.g. Quintiliano, 10, 1, 55), benché il dato non possa che sorprenderci. Lelli 2017, all’opposto, motiva la veste esametrica con il desiderio dell’autore di aderire a schemi popolari, per i quali non mancherebbero documenti di impiego del verso tradizionalmente epico, cfr. pp. 11-13. Su tutta la questione cfr. anche Vox 1997, pp. 19 ss. Per l’uso del dorico sarà stata cogente non tanto la sicilianità dell’autore (nella poesia greca classica si sa che non vi è nesso tra origine etnica e scelte linguistiche) quanto, per i carmi bucolici, la realistica simulazione della naïveté dei pastori fatti agire, appunto, in Sicilia; per i mimi, i precedenti di Epicarmo e Sofrone, cfr. Palumbo Stracca 1993, pp. 18-19. E tuttavia per il tipo di dorico teocriteo, altamente letterario (Wilamowitz lo definiva Salondorisch, dorico da salotto) e se mai prossimo alle forme della antica lirica corale, cfr. ancora Palumbo Stracca 1993, pp. 20-2, e Vox 1997, p. 30. Secondo Reed 1997, pp. 3 ss., la compresenza di esametri e dialetto dorico sarebbe il principale, e pressoché unico, segno distintivo del genere “bucolico”, che lo studioso peraltro distingue, con una certa capziosità, dal “pastorale” (cui apparterrebbero i più diversi esperimenti letterari a sfondo rustico, come la prosa di Longo Sofista); e questo, come vedremo, tanto più a proposito della bucolica post-teocritea. Qui si è scelto invece di circoscrivere il genere anzitutto tematicamente, secondo le coordinate, non poi così lasche, offerte dall’inventio di Teocrito. 12. Una per tutte quella di Plinio il Giovane, che in Epist., 4.14, a proposito dei propri variegatissimi lusus poetici, ammetteva la possibilità di titolarli, appunto, idyllia. Su tutta la questione, cfr. Vox 1997, pp. 27-28. 13. È a parte il caso degli idilli leopardiani, su cui vd. infra, nota 38. 14. Cfr. Ecl., 4, 58-59; 7, 4; 10, 31-33.

92 15. Cfr. le Storie, 4, 20-1. Certo ha anche il suo peso la centralità in Arcadia del culto di Pan, dio boschereccio che è ricorrente comprimario nei carmi bucolici che possediamo, e a cui nel mito si deve, del resto, l’invenzione della siringa o zampogna, strumento pastorale per eccellenza. Si spiegano perlopiù con l’evocazione di Pan le comunque rare menzioni dell’Arcadia anche in Teocrito, cfr. 1, 123 ss.; 7, 106-108. 16. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr. it. di V. Degli Alberti e A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 2012 (19631), pp. 409410. Cfr. anche, recentemente, Grafton-Most-Settis 2010, p. 694: «It is in the work of […] the young Virgil, that we find an element of nostalgic sentimentalization of an ideal landscape, sometimes […] represented as “Arcadia”». 17. Si pensi in primis alle corpose novità poetologiche tematizzate da Callimaco di Cirene, contemporaneo di Teocrito e riconosciuto caposcuola della nuova maniera: in particolare l’invito alla leptótes – la levigata accuratezza formale, da applicare a un carme, contro il tradizionale poema “ciclico”, di ridotte dimensioni – e a una spregiudicata poikilía, una “varietà” da leggersi come tendenza alla contaminazione, oltre gli steccati dei generi tradizionali – dai quali del resto era ben lecito discostarsi in direzione del nuovo, cfr. ad esempio il ben noto prologo degli Áitia callimachei, frr. 1, 1738 Pfeiffer sulle «vie non battute» e i «sentieri inusitati». 18. Gli idilli sono 31, se si considerano gli scarsi resti di un altro componimento di argomento pederotico in dialetto eolico – dopo la terna di 28-30 – tramandato dal Papiro di Antinoe (VI-VII sec. d.C.). Vanno aggiunti all’opera di Teocrito 25 epigrammi, di discussa autenticità, e un carme figurato normalmente ritenuto spurio, La zampogna. 19. Sono considerati dubbi i carmi 8, 20, 25; senz’altro pseudoepigrafi 9, 19, 21, 23, 27. 20. Non prettamente bucolico è il carme 10, i cui protagonisti sono braccianti agricoli. 21. Il mimo era in origine una forma d’arte popolare basata sulla rappresentazione scenica (una scena modesta, allestita in piazza o anche in edifici privati) di motivi legati alla vita quotidiana, spesso sapidamente “plebei”. Ebbe particolare fioritura in Sicilia e Magna Grecia, non senza, c’è da credere, influssi italici; il siracusano Sofrone, nel V secolo, vi diede forma letteraria e fu ammirato da Platone, che, stando a Diogene Laerzio (3, 18), ne diffuse l’opera ad Atene. In età ellenistica non solo Teocrito, ma anche e soprattutto Eroda, vissuto ai suoi tempi e autore dei Mimiambi, ripresero il genere in ossequio alla tendenza alessandrina ad accostarsi, in una forma poetica artisticamente scaltrita e dottamente divertita, a rappresentazioni realistiche e popolareggianti. 22. L’epillio è una delle più tipiche creazioni letterarie ellenistiche, benché se ne possano avvertire forse i prodromi già in certi Inni attribuiti a

93 Omero. Praticamente codificato da Callimaco e dalla sua Ecale, il genere del “piccolo epos”, come da significato del termine, contempla la scelta di angolazioni inusuali del mito più noto o di episodi mitologici del tutto peregrini, nella consapevole distanza dal modello omerico e nella relativa brevitas della composizione. Oltre a Callimaco e Teocrito, furono autori di epilli Mosco (come vedremo), Eratostene ed Euforione; in ambito romano, il genere fu poi coltivato elettivamente dai neoterici, con la vetta rappresentata dal carme 64 del liber di Catullo. 23. Rispettivamente a Ierone II di Siracusa, divenuto re di Siracusa nel 275 a.C., e a Tolemeo Filadelfo sovrano d’Egitto (283-246 a.C.). I carmi sono fondamentali per la ricostruzione della vita e della cronologia teo­critea. 24. Riproponendo lo schema di Palumbo Stracca 1993, p. 19, inclusivo degli idilli spuri: dialetto dorico: carmi 1-11, 14, 15, 18-21, 23, 26, 27; dorico incrociato a ionico-epico: 13, 16, 17, 24; ionico-epico: 12, 22, 25; eolico: 28-31. 25. Siciliani erano del resto anche Epicarmo e Sofrone, riferimenti obbligati per il mimo teocriteo, cfr. supra, p. 91, nota 11. 26. … Tra i quali certo rientrano gli autori di idilli pseudo­teocritei come 8, 9 e 21, che tuttavia, normalmente affrontati dagli editori di Teocrito, non sono compresi nella presente trattazione. 27. «Le Muse bucoliche erano un tempo disperse; ma ora tutte / sono di un solo recinto e di un’unica mandria» (tr. mia). 28. Cfr. C. Gallavotti, P. Hamb. 201 e questioni varie della tradizione teocritea, in «Bollettino dei Classici dell’Accademia Nazionale dei Lincei», n. 7, 1986, pp. 3-36. 29. La questione del titolo di raccolta è in realtà piuttosto semplice e risponde a una meccanica consolidata: «Nel mondo antico era la norma che i libri prendessero il titolo del primo o dei primi carmi, e dalla concorde testimonianza della tradizione manoscritta e papiracea risulta che all’inizio del corpus bucolico si trovano sempre gli Idd. I e III-XIII, quasi tutti boukoliká» (così Fantuzzi 1993, p. 193). 30. Cfr. Suda, ϑ 166 Adler, e scolio a A.P., 9, 440 Stadtmüller. 31. … Secondo la poetica ellenistica della poikilía, oltre che per le naturali smagliature di un genere nuovo che solo con Teocrito guadagna un suo statuto. Si pensi a un carme come Il Ciclope, bucolico per ambientazione e perché Polifemo è un pastore, in cui tuttavia i personaggi (il Ciclope stesso e la ninfa Galatea), introdotti da narratore esterno, sono anche da epillio, e il testo si presenta d’altronde come un’epistola in versi all’amico Nicia. E tuttavia, cfr. quanto detto supra, nota 2. 32. Anche Halperin 1983, pp. 129-131, sottolinea l’apparente improprietà dell’inclusione di Mosco e Bione all’interno di una raccolta di “bu-

94 coliche” – e tuttavia lo fa a partire da una interpretazione “debole” dello statuto del genere anche in Teocrito, la cui peculiarità qui prendiamo, invece, a presupposto. 33. Per l’antonomasia, dovuta essenzialmente alla sicilianità dell’inventor Teocrito e delle ambientazioni dei suoi carmi, nonché alle presumibili radici folkloriche siciliane del genere, vd. anche supra, p. 90, nota 4. 34. Il loro arrivo frammentario, del resto, potrebbe denunciarne lo scarso rilievo all’interno della produzione complessiva di questi autori. 35. Preferisco questa definizione di respiro generale a quella, a mio giudizio fuorviante, di “bucolici”/non “pastorali” che Reed 1997 assegna a tutti i rappresentanti della storia antico-greca del genere, Teocrito incluso, individuando nel metro, nella lingua e più in generale in «formal features» le sole costanti di un genere che viene così a esprimere i contenuti più disparati – e questo a maggior ragione, secondo lo studioso, per gli epigoni, peraltro accomunati dall’ineludibile riferimento a Teocrito: «Late bucolic presents a controlled diversity, poems of several thematic types united by their metre, their dialect and their common retrospection to the mimetic Doric idylls of Theocritus» (p. 7). 36. L’infinito, Alla luna, La sera del dì di festa, La vita solitaria, Il sogno – tutti componimenti che risalgono agli anni 1819-1821. 37. Si tratta de Lo spavento notturno, meglio noto dall’incipit «Odi, Melisso…». 38. Trovo la notizia in W. Binni, Lezioni leopardiane, La Nuova Italia, Firenze 1994, p. 31; il quale, sul pensiero di De Sanctis in merito alle prove di traduzione del giovane Giacomo, genericamente rimanda, in nota alla pagina precedente, al saggio desanctisiano Giacomo Leopardi, ed. critica e commento a cura di W. Binni, Laterza, Bari 1961². Il Recanatese pubblicò un notevole Discorso su Mosco sullo «Spettatore» di Milano, il 31 luglio del 1816, nel quale si allineava, con ulteriori argomenti, a chi ne faceva un contemporaneo di Teocrito (cfr. M. La Rosa, Innanzi al comporre. Lettura delle traduzioni giovanili di Giacomo Leopardi, Ledizioni, Milano 2017, pp. 121 ss.) Probabile che l’apporto delle poesie di Mosco, per la formazione del poeta idillico Leopardi, non vada sopravvalutato; non bisogna dimenticare che il termine “idillio” guadagna, con il Recanatese, nuovo significato, a partire dalla definizione che egli stesso ne dava come di «situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo» – ne risulta insomma la vivissima componente lirica, e di qui ragionativa, secondo il “pensiero poetante” del nostro maggiore ottocentesco, sia pure calata in un “quadretto” (eidýllion, anche in tal senso?) naturale e paesistico con tratti del locus amoenus. Su Leopardi traduttore dall’antico in genere, cfr. G. Leopardi, Poeti greci e latini, a cura di F. D’Intino, Salerno Editrice, Roma 1999, e la recente, fine analisi di M. La Rosa, Innanzi al comporre, cit.

95 39. Ed è poeticamente superiore al “rozzo” Teocrito: «Teocrito d’ordinario è più negletto, più povero d’ornamenti, più semplice, e talvolta più rozzo. Mosco è più delicato, più fiorito, più elegante, più ricco di bellezze poetiche artificiose» – dove nell’aggettivo “artificioso” va letta, s’intende, una più solida padronanza dell’arte, cfr. G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni e E. Ghidetti, vol. I, Sansoni, Firenze 1969, p. 409. 40. Apprendiamo da Ateneo (Deipnosofisti, 485a) che Mosco fu autore di un lessico di parole rodie. Del solo Teocrito, in effetti, tra i grandi ellenistici, non risulta un’attività erudita in parallelo a quella poetica. Si pensi, per contro, agli studi lessicografici di un Callimaco – oltre all’opera di riordinatore della biblioteca di Alessandria – e ai lavori filologici di Apollonio Rodio, senza scomodare la plurivocità di interessi e di contributi di Eratostene di Cirene. 41. Cfr. su questo le considerazioni di Vox 1997, p. 40. 42. Il testo compare anche nei codici bucolici e, parzialmente, nell’Antologia di Stobeo. 43. Come un bambino sedotto dai balocchi, Eros compare, ad esempio, in principio del terzo libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio, vv. 114 ss. 44. Nell’Appendix Planudea della Palatina (libro 16) corrisponde all’epi­ gramma 200. 45. Il., 14, 321. 46. Cfr. F. Ferrari - M. Fantuzzi - M.C. Martinelli - M.S. Mirto, Dizionario della civiltà classica, BUR, Milano 2007³, vol. I, s.v. 47. Vd. supra, p. 92, nota 22. 48. Così si spiega la preminenza, nell’opera di Callimaco e in tutto il quadro del primo ellenismo, di un poema come, appunto, gli Áitia, il più noto, importante e influente esempio del genere. 49. Cfr. W. Bühler, Europa: ein Überblick über die Zeugnisse des Mythos in der antiken Literatur und Kunst, Fink, München 1968. Del resto, sulle numerose raffigurazioni del mito nell’arte di età imperiale, cfr. O. Wattel-de Croizant, Les mosaïques représentant le mythe d’Europe (IVI siècles). Évolution et interprétation des modèles grecs en milieu roman, De Boccard, Paris 1995. 50. Utile e opportuna la scansione del testo proposta da Hopkinson 2015, p. 448, in four tableaux (Europa nel letto, Europa nel prato, Europa rapita che attraversa il mare, Europa eletta a madre dei figli di Zeus) incorniciati da una doppia profezia: l’iniziale, che si manifesta alla ragazza in sogno, e la finale, per bocca di Zeus. 51. Cfr. i vv. 37 ss. 52. Il motivo ecfrastico, che in ultima istanza prende le mosse dalla seminale descrizione dello scudo di Achille in Il., 18, 478-608, è largamente diffuso fino a diventare uno standard nella poesia ellenistica: infatti «i poeti

96 ellenistici […] si divertirono molto a enfatizzare la gamma di possibilità selettive che il controllo del poeta poteva esercitare. In quanto tale, l’ékphrasis opera in certa misura in una maniera analoga a quella con cui i poeti trattavano il corpus dei miti ereditati dalla tradizione» (Fantuzzi-­Hunter 2002, p. 299). Cfr. in particolare Le Argonautiche di Apollonio Rodio, 1, 721-767, per la descrizione del manto di Giasone, e il Tirsi di Teocrito, vv. 27-56, per quella della gran coppa istoriata premio al canto di Tirsi. Sull’importanza della pratica ecfrastica per il passaggio a un nuovo tipo di epos a partire dall’età ellenistica, cfr. I. Gualandri, Aspetti dell’ekphrasis in età tardo-antica, in Aa. Vv., Testo e immagine nell’alto medioevo, Atti della settimana di studio del 15-21 aprile 1993, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1994, pp. 301-341, secondo cui la ricorrenza dell’ékphrasis corrisponde a un «generale ripudio di schemi classici, che fa emergere nuovi equilibri: non, quindi, un’incapacità di narrare, ma un diverso modo di farlo, segno, tra gli altri, di un mondo mutato» (p. 325). 53. Cfr. il classico Wilamowitz 1906, p. 100, dove si postula la caduta della parte conclusiva del poemetto. 54. Come è il caso del determinante contributo di W. Ludwig, ΓΙΝΕΤΟ bei Moschos und Kallimachos, in «Hermes», Bd. 89, H. 2, 1961, pp. 185-190. 55. Sulla fortuna del mito in antico, cfr. L. Landolfi, Europa: da Mosco a Ovidio, in «Bollettino di studi latini», XIV, n. 2, 1994, pp. 500-526. Qui mi limito a citare Luciano, Dialoghi marini, 15, e Nonno, Dionisiache, 1, 46 ss. e 322 ss. per il mondo greco; Orazio, Odi, 3, 27, 25 ss., e Ovidio, Metamorfosi, 2, 846 ss. per quello latino. 56. Più che il richiamo, del tutto convenzionale e nel solco del “padre” della bucolica Teocrito, alle «Muse siciliane» nel refrain del testo, suona indicativo quel «canto del dolore ausonio» (v. 94), cioè italico, che il discepolo tributa al maestro. Sulla questione, cfr. Fantuzzi 1985, p. 144. 57. Cfr. Epit. Bion. vv. 109-112. Per i problemi relativi al passo, vd. p. 133, note 39-40. 58. Cfr. F. Bücheler, De Bucolicorum Graecorum aliquot carminibus, in «Rheinisches Museum für Philologie», XXX, 1875, pp. 33-61: p. 40. 59. Più che l’appello di Reed 1997, p. 2, a una generale influenza di Teocrito o Mosco sui carmi bionei, e d’altro canto alle eventuali imitazioni da parte di epigrammatisti di inizio I sec. a.C., Meleagro su tutti (della cui posteriorità non si dà, in effetti, alcuna evidenza, cfr. ivi, pp. 58-59), mi sembrano ancora convincenti le considerazioni di Fantuzzi 1985, p. 142, sul rapporto, deliberatamente contrastivo, tra il Nostro e l’opera del poeta didascalico del II secolo, forse coevo a Mosco, Nicandro di Colofone, quale risulterebbe da una attenta lettura in filigrana almeno dei vv. dell’Epitafio di Adone, 61 (vd. Nicandro, fr. 120 Schneider) e 66 (vd. Nicandro fr. 65 Schneider), su cui cfr. ivi, pp. 99 e 103; suonerebbe improbabile, in tal caso, una

97 precedenza cronologica di Bione, poiché «si dovrebbe postulare che il poeta di Smirne fosse insignito di rilevante autorità nel campo dell’erudizione etiologica-mitologica: ipotesi per cui non si trova alcun supporto». Ancora Fantuzzi 1985, p. 89, sulla base di una possibile ripresa bionea in Catullo (3, 14, vd. Epit. Ad., 55), pensa alla morte del poeta latino attorno alla metà del I sec. a.C. come terminus ante quem per la datazione di Bione; idea poi corroborata da Reed 1997, p. 2 e nota 7, che rileva il debito del celeberrimo carme 5 catulliano con i vv. 103-104, stavolta, dell’Epitafio di Bione, a sua volta sicuramente posteriore all’opera bionea. 60. Fra cui la tragedia attica, cui Fantuzzi 1985 accosta il carme bioneo fin dalla struttura – seppure, anziché tragico in senso stretto, «tenuemente melodrammatico», secondo lo studioso, «è […] il tono che predomina», cfr. p. 157. 61. Cfr. Teocrito, Id., 15, vv. 96-98. Nel mimo teocriteo le siracusane Gorgo e Prassinoa si recano alla festa di Adone al palazzo reale di Alessandria, dove ascoltano una celebre cantante intonare un inno (e non, in effetti, un lamento) per il giovane amante di Afrodite. Per Palumbo Stracca 2007, p. 249, il testo di Teocrito sarebbe allora riguardato da Bione, nel suo carme, secondo una oppositio in imitando, cioè «è da credere […] che Bione si sia proposto l’obiettivo di integrare e/o correggere il suo modello», presentando, s’intende, proprio quella lamentazione che era nelle attese delle donne di Siracusa. Insieme a Id., 1, Le Siracusane sono in ogni caso il primo referente per l’Epitafio bioneo – senza sottovalutare l’apporto formale degli inni “mimetici” callimachei (2 Ad Apollo, 5 A Pallade, 6 A Demetra), vicini al nostro carme per simulazione di funzionalità rituali, e, nel caso degli ultimi due, anche per la scelta del dialetto dorico (cfr. Fantuzzi 1985, p. 156; Hopkinson 1988, p. 218). 62. «Il poeta […] richiama esplicitamente la sacra rappresentazione annuale che egli intende ricreare nel componimento» (Fantuzzi 1985, p. 160), ossia il lamento rituale per la morte del giovane. L’Adone greco è figlio di Cinira e di sua figlia Mirra, metamorfizzata, a incesto avvenuto, nell’omonima pianta dalla cui corteccia uscì il ragazzo, presto concupito da Afrodite per la sua bellezza e però da lei condiviso, infine, con la regina degli inferi Persefone, presso cui Adone avrebbe trascorso un terzo dell’anno (per la vicenda cfr. soprattutto Ovidio, Met., 10, 503 ss. – ove però non si fa parola di Persefone – e Pseudo-Apollodoro, Bibl., 3, 14, 3-4). L’origine della figura – di trasparente attinenza al ciclo naturale di morte e rinascita – affonda in area mesopotamica; di lì il suo culto si diffonde in territorio semitico, dove essa è onorata con il nome di Tammuz e l’epiteto di ādōn (“signore”), da cui presumibilmente il nome greco. Attraverso la Fenicia i suoi riti appaiono in Grecia già attorno al VII secolo, come dimostra il frammento saffico 168 Voigt, che riporta l’invocazione rituale Ó tón Ádonin. In varie città greche si celebravano “Adonie”, nelle quali i partecipanti, donne soprattutto, piangevano la morte del

98 ragazzo accompagnandone infine l’immagine, insieme a pianticelle seminate in appositi vasi e rapidamente appassite (i cosiddetti “giardini di Adone”), in una processione che terminava con la deposizione degli oggetti nell’acqua di un fiume o del mare. Mentre sulle “Adonie” alessandrine ricaviamo, come si è visto, i più copiosi ragguagli da Teocrito, Id., 15, alle celebrazioni ateniesi fa cenno Aristofane nella Lisistrata, vv. 389-396; da Luciano conosciamo invece la dinamica delle feste di Biblo in Fenicia, dove si celebrava di Adone, dopo il lutto della sua morte, l’ascesa in cielo nel giorno seguente (De Syria dea, 6-9). In età ellenistica sopravviveva a Smirne, la città di Bione, un culto adonio ancora venato di elementi orientali, come nota C. Schneider, Kulturgeschichte des Hellenismus, Bd. II, Beck, München 1969, p. 860. 63. Cfr. Reed 1997, pp. 16-17. 64. Cfr. la lettura proposta da Th. Gelzer, Bemerkungen zum Ἀδώνιδος ἐπιτάφιος des Bion von Smyrna, in «Hyperboreus», vol. 8, n. 2, 2002, pp. 256-265, contro cui vd. Palumbo Stracca 2007 p. 249. 65. Di quasi-necrofilia parla Vox 1997, p. 41. 66. Non sono mancati, in tal senso, episodi robustamente “anticlassici” nella storia della letteratura greca antica – tanto che sarebbe auspicabile, prima o poi, un lavoro antologico dedicato alla materia: penso all’acceso colorismo delle scene rappresentate nel nomo (canto lirico in origine destinato a Apollo) I Persiani di Timoteo di Mileto (V-IV sec. a.C.); all’esorbitante gravità macabra di alcuni epigrammi di Leonida di Taranto (III a.C.); al barocchismo destrutturante, rispetto all’epica tradizionale, delle Dionisiache di Nonno (V a.C.). 67. Anche nel caso di Bione, si tratta di frammenti regolarmente esametrici e di coloritura linguistica dorica. 68. La “punta” finale, il culmine, spesso (anche ironicamente) sentenzioso, del componimento epigrammatico, su cui il testo intero converge. 69. Cfr. tuttavia, su 10, il pensiero di Fantuzzi sull’eventualità che il testo introducesse un’opera più ampia, in M. Fantuzzi, Bion, fr. 10 Gow, in «Museum Criticum», n. 15-17, 1980-1982, pp. 159-160. Reed 1997, d’altronde, è dell’avviso che solo il fr. 13 possa essere un carme intero («Fr. 13 […] is the only fragment likely to be a complete poem»; p. 11), seguito da Hopkinson 2015, p. XI, nota 6. 70. Cfr. Vox 1997, p. 41. 71. Sul motivo cfr. M. Fantuzzi, Eros e Muse: Bione, fr. 9 Gow, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», n. 4, 1980, pp. 183-186. 72. Secondo Nauta 1990, p. 135, il motivo sarebbe tipico del passaggio alla bucolica post-teocritea. 73. L’Epitafio di Bione potrebbe addirittura richiamarsi al nostro frammento, nelle sue considerazioni sulla caducità umana ai vv. 99 sgg; vd. p. 132, nota 37.

99 74. Accolto nel corpus bioneo da Wilamowitz 1905, Legrand 1925-1926, Gow 1952 e infine Hopkinson 2015, è considerato adespoto da Gallavotti 1993 e Reed 1997. «Lessico, metrica e argomento non sono indegni di Bione e la sua scuola», chiosa Vox 1997, p. 465, considerazioni espresse anche da Reed stesso, il quale tuttavia aggiunge che per ragioni strutturali – l’anomalia di un «epic narrative within a pastoral dialogue» – e per il trattamento stesso della materia, meno organico e rifinito rispetto al Bione autentico, l’autore del testo «has more in common […] with Moschus or the author of the Epitaph of Bion» (p. 29). Qui ci allineiamo a Hopkinson, che stampa l’Epitalamio tra i carmi di Bione, benché non sia impossibile che il componimento appartenga a un suo discepolo, forse lo stesso autore dell’Epitafio di Bione, come Reed suggerisce. Potrebbero tuttavia rafforzare l’attribuzione bionea: 1) la richiesta in incipit di Mirsone per un sikelón mélos, che nell’Epitafio di Bione l’allievo riconosce di squisita pertinenza al maestro (cfr. v. 120; e qui si noti l’analoga presenza dell’aggettivo hadý), costellando la sua lamentazione di riferimenti alla “sicilianità” del canto (sin dal refrain, con invocazione delle Sikelikái Móisai); 2) il fatto che Bione, memore delle Talisie teocritee e della pregnanza simbolica, nell’idillio, della figura di Licida, possa aver attribuito a se stesso il senhal proiettandosi nel testo – circostanza ricorrente, si è visto, nella bucolica del tempo e sua propria –, come narratore della vicenda centrale, non prima di un accenno alla storia di Polifemo e Galatea (vv. 2-3) che era sicuramente parte del suo repertorio, come risulta almeno dal fr. 16 (ma cfr. anche il lutto di Galatea per la morte del suo cantore in Epitaph. Bion., vv. 58 ss.). 75. Quanto a un’eventuale influenza dell’Epitalamio di Elena di Teocrito (Id., 18), niente sembra rimandarvi, nel nostro testo, se non il titolo tràdito. 76. Cfr. tra gli altri Di Nino 2009, pp. 87-88. 77. Non si fatica a credere, peraltro, che implicitamente il motivo sorreggesse anche l’operazione di Teocrito, se è vero, come credo, che l’evasione dalla Storia (e dunque dal conflitto come sua costante) animasse l’invenzione bucolica fin dal suo nascere. Leggo nella vivace prefazione di Romagnoli al lontano Teocrito. Idilli, in I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli, Zanichelli, Bologna 1925, p. 31: «Teocrito non è certo uno spirito eroico. Anche se non lo dimostrassero le circostanze della sua vita, basterebbe a provarlo il tono delle sue poesie eroiche. Tono, lo vedemmo, calante. La sua voce torna invece giusta quando ricorda i benefizi e le gioie della pace»; e qui cita, Romagnoli, i vv. 90-97 dell’Idillio 16 Le Grazie o Ierone (nella traduzione di Palumbo Stracca 1993: «[…] lavorino i campi fiorenti; e le innumerevoli / migliaia di greggi, ingrassate dal pascolo, / belino per il piano, e le mucche, a torme, tornando / alla stalla, indichino al viandante verso sera che è ora di affrettarsi; / siano preparati i maggesi per la semina, quando la cicala, / che i pastori sorveglia nel meriggio, in alto, tra i rami / degli alberi frinisce;

100 i ragni sulle armi distendano / le loro tele sottili, e della guerra non rimanga neanche il nome»), per concludere sul “pacifismo” teocriteo («Dunque, un pacifista»). Un passo splendido, quello citato, connotato sì da elementi bucolici, e tuttavia interno all’encomio del nuovo signore di Siracusa e, soprattutto, legato a una precisa circostanza storica: la pace che qui si auspica è quella successiva a una guerra definitiva, e che si ha ancora da combattere, tra i Siracusani guidati da Ierone e i Cartaginesi. 78. Cfr. Poetae Epici Graeci. Testimonia et Fragmenta, ed. A. Bernabé, pars I, in aedibus B.G. Teubneri, Stutgardiae-Lipsiae 1996, p. 41.2. 79. Per Ovidio, cfr. Met., 13, 162 ss.; per Stazio ovviamente l’Achilleide, la dantesca «seconda soma» (Purgatorio, XXI, 93) incompiuta della sua produzione epica, la cui parte iniziale era appunto dedicata ad Achille in Sciro, cfr. in particolare 1, 207 ss., e 2, 18 ss. 80. E tuttavia, cfr. la questione testuale al v. 93, per cui vd. p. 131, nota 34. 81. Nel manoscritto Viennese 311. 82. Cfr. F. Bücheler, cit., p. 40. La posteriorità a Bione rendeva impossibile l’identificazione dell’autore con Mosco. 83. La questione del significato da attribuire a ólbos non è pacifica. Vd. p. 132, nota 36. 84. Di Nino 2009 riguarda all’operazione del nostro anonimo nel segno de «l’inequivocabile emergere della consapevolezza di appartenere a un genere letterario di cui l’autore dà sfoggio in più punti del carme» (p. 86). Genere cui la studiosa ascrive, si badi, un «repertorio tematico e lessicale suo proprio», secondo un’interpretazione che dunque trascende il mero formalismo metrico-linguistico evocato da Reed 1997, alle pp. 3 ss., e che mi vede concorde. 85. Di Nino 2009, p. 91, richiama in proposito a un filone funerario, alternativo all’erotico, interno alla poesia bucolica, sulla linea che dal Tirsi di Teocrito arriva all’Epitafio di Bione passando per il bioneo Epitafio di Adone. Negli ultimi due casi, tuttavia, mancano i boukóloi. 86. Un tipo di retorica, in voga a partire dall’età ellenistica, caratterizzata, come noto, da un’accesa espressività; cfr. Palumbo Stracca 2010, p. 121. 87. «Ein Stümper», per Wilamowitz 1906, p. 243; «composizione assai mediocre», per Gallavotti 1968, p. 65. 88. Cfr. supra, p. 91, nota 11. 89. Vox 1997 rileva che nel passo la bucolica è considerata «nient’altro che una sottospecie di epica, un’epica solo con temi speciali e alternativi rispetto a quella canonica del preteso conterraneo Omero» (p. 20). Si ricorda che Smirne era in prima linea, con Colofone, tra le città che rivendicavano di aver dato i natali al sommo poeta dei Greci. 90. Sulla pace come attributo essenziale della bucolica virgiliana – esplicitamente in antitesi con il suo contrario, cioè il conflitto –, più che Ecl., 6, 3-5

101 («Quando però mi accinsi a cantare di re e di battaglie, Cinzio [cioè Apollo] mi tirò le orecchie e mi ammonì: “Al pastore, Titiro, si addice di pascolare le grasse pecore, di cantare una canzone dimessa”»; cfr. Publio Virgilio Marone, Bucoliche, tr. it. a cura di M. Geymonat, Garzanti, Milano 1981), dove si fa questione di programma poetico, mi pare indicativo 5, 60-62 («Né il lupo tende insidie al bestiame, né le reti da caccia trappole ai cervi: benefico Dafni predilige la quiete»; tr. it. cit.), se si consideri il valore emblematico del personaggio di Dafni; per non dire dello spirito che permea tutta la decima ecloga, in cui, come noto, Virgilio dà ricovero nel regno bucolico all’amico e protettore Cornelio Gallo, fiaccato dall’amore per Licoride che, appunto, «ha seguito un altro attraverso nevi e attraverso accampamenti irti di armi» (v. 23; tr. it. cit.) – cfr. inoltre, più avanti, i vv. 44 ss. Del resto, il «cantare di Pan» di cui al v. 80 dell’Epit. Bion., come pratica da contrapporre allo sviluppo del tema eroico/ guerresco, fa pensare a quanto Pan stesso, nel tardo romanzo di Longo Sofista (ovviamente debitore, nel setting pastorale della vicenda, di tutta la tradizione bucolica anteriore, Virgilio incluso), rimprovera in sogno al capo dei pirati metimnesi responsabili del rapimento della giovane Cloe: «Perché avete osato tanto, folli, i più empi e sacrileghi di tutti gli uomini? Avete riempito di guerra la campagna a me cara…» (Le avventure pastorali di Dafni e Cloe, 2, 27, 1; tr. e corsivo miei) Si capisce che il regno di Pan è affatto incompatibile con la prassi militare, dal contatto con la quale può solo uscirne gravemente inquinato. Là dove il dio suscita prodigi, del resto, in un passo di poco precedente, l’accento sul paradosso – una zampogna dal suono marziale, che a un certo punto i marinai di Metimna odono da un promontorio – è ancora un segnale del carattere costitutivamente pacifico del mondo bucolico: «Si sentì anche il suono della siringa […] e non rallegrava come fa la siringa, ma spaventava chi l’ascoltava come una tromba di guerra» (ivi, 2, 26, 3; tr. mia). 91. Parigino Greco 2832. 92. Parigino D e Laurenziano W. 93. Si tratta di un epillio, con ogni verosimiglianza non teocriteo, per la maggior parte incentrato sul racconto dell’uccisione del leone di Nemea da parte dell’eroe. 94. Laurenziano S e Viennese 311. 95. Dallo Stephanus in Poetae Graeci Principes, Excudebat Henricus Stephanus, illustris viri Huldrichi Fuggeri typographus, Basilea 1566. 96. Così nell’edizione curata da E. Hiller, Theokrits Gedichte, Teubner, Leipzig 1881. 97. In Wilamowitz 1905, e Legrand 1925-1927. 98. Legrand 1925-1927 ascriveva il pezzo, con buone probabilità, al secolo di Mosco, cfr. vol. II, p. 169. 99. Legrand 1925-1927, vol. II, p. 166, parla senz’altro di «gineceo borghese», se non fosse per l’altezza tragica delle vicende di contesto. Sulle ca-

102 ratteristiche di genere del poemetto, si cfr. in ogni caso Breitenstein 1966, pp. 94-102. 100. Prossimo, o in atto. Sulla questione, vd. p. 135, nota 9. 101. Come si legge nelle Trachinie di Sofocle. 102. Cfr., in primo luogo, il dialogo tra Medea e Calciope in Arg., 3, 667 ss. Hopkinson 2015, p. 483, richiama opportunamente, per i lamenti delle donne, anche i modelli di Ecuba, Elena e Andromaca nei libri 22 e 24 dell’Iliade. 103. Cfr. e.g. 2, 35, 1. 104. Autore di due Ecloghe in risposta al dotto bolognese Giovanni del Virgilio, che sono forse i due primi casi medievali di bucolica non religioso-­­ allegorica. 105. Suo un Bucolicum carmen, comprensivo di dodici ecloghe. 106. Autore a sua volta, in chiaro rimando all’amico e maestro Petrarca, di un Buccolicum carmen. 107. Di poco precedenti sono i Pastoralia (ma in latino) di Matteo Maria Boiardo, e praticamente coevi i poemetti bucolici di Lorenzo de’ Medici Corinto e Ambra (ma più notevole, del Magnifico, la Nencia da Barberino, pure di argomento bucolico ma giocata su corde parodistiche, nei paraggi del Ciclope teocriteo). 108. La favola di Aminta e Silvia è peraltro, per così dire, sovrintesa dal quadro delle ubbìe di un Amore in fuga dalla madre Venere, come ci informa il dio stesso sotto mentite spoglie pastorali nel prologo dell’opera: con vasto ricorso, sin nei dettagli, all’Eros fuggitivo di Mosco («ella mi segue, / dar promettendo a chi m’insegna a lei / o dolci baci o cosa altra più cara», vv. 32-34). Va aggiunto che in coda al dramma, nell’edizione ferrarese del 1581, compariva proprio un tassiano Amor fuggitivo, sorta di rifacimento ampliato dell’antico carme moschiano e ideale chiusura del cerchio, nel segno del languido incanto da bucolica post-teocritea, appunto, che permea il testo. Ma per tornare al prologo, mi pare giusto segnalare ciò di cui poetando, e cioè candidamente, ci ammonisce il Tasso, a proposito dell’infinita querelle sulle definizioni di genere e, in particolare, sul “problema” della veste esametrico/epica della “leggera” bucolica: «[…] ovunque i’ mi sia, io sono Amore, / ne’ pastori non men che ne gli eroi, / e la disagguaglianza de’ soggetti / come a me piace agguaglio; e questa è pure / suprema gloria e gran miracol mio: / render simili a le più dotte cetre / le rustiche sampogne» (vv. 82-88). 109. Nel canto 18 dell’impressionante collettore di suggestioni letterarie che è l’Adone mariniano, sono sicuri modelli l’Epitafio di Adone di Bione e persino l’anonima anacreontica Per Adone morto, al tempo di Marino ascritta a Teocrito; ma vi si risente, nella generale amplificazione retorica dei diversi moduli genialmente “saccheggiati” dal poeta secentesco, anche, direi, l’Epitafio di Bione pseudo­moschiano – per esempio nel reiterato in-

103 vito al pianto, diretto non solo a Venere ma a ogni elemento naturale, nelle ottave 134 ss. Argomento del canto 18 dell’Adone è appunto la morte del giovane e il lutto di Venere, seguiti dal processo al cinghiale innamorato – e perciò maldestramente omicida – e dal suo pietoso proscioglimento. Qui guardano in particolare all’Epitafio di Adone le ottave 98, 100, 111, la sequenza 133-137 (replica rivisitata del thrénos bioneo, qui pronunciato dalle ninfe con identico incipit: «È morto Adone […] / […] Il bell’Adone è morto»; 133, 1-2), 162, 189 ss.; all’anacreontica Per Adone morto, 94 s. e 233 ss. 110. Testo (del 1975, compreso in Quaderno di quattro anni) perfettamente in linea con la produzione del sardonico, apocalittico Montale ultimo: «Sub tegmine fagi / non si starà molto allegri / sotto alberi di stucco. // Se non fosse così / perché-su chi si abbatterebbe il grande / colpo di scopa?». 111. In Profezie o memorie o giornali murali, 6, 10, nella fondamentale silloge del 1968 La beltà: cfr. i vv. 5-10: «Che fulmini e potenze sull’antenna della tivù / rimasta sulla casina abbandonata laggiù, / obsoleta né più cantante tivù / sulle specie cantanti dei còrili dei bàccari / acanti arbuti colocasie, /della teocrizia virgilia […]» 112. A. Fo, Bucoliche (al telescopio), in Id., Corpuscolo, pres. di M. Bettini, Einaudi, Torino 2004, p. 65. 113. Cfr. Lelli 2017, pp. 11 ss., in cui si intende ridimensionare in Teocrito la letterarietà, nell’ordine, della scelta metrica, della figura del pastore e del paesaggio. 114. Lelli 2017, p. 10. 115. Si cfr., a titolo di esempio, epigrammi come A.P., 6, 226 e 302. 116. Cfr. Di Marco 2006, p. 330. 117. Lelli 2017, pp. 13 ss. 118. Cfr. Fantuzzi-Hunter 2002, p. 186. 119. Siamo ben lontani, naturalmente, dal mito dell’“età dell’oro”, mito che nei bucolici a venire, e certo su suggestione della virgiliana quarta ecloga, verrà spesso sovrapposto al già radioso setting pastorale. Su Teocrito, cfr. la limpida diagnosi di D. Del Corno, Letteratura greca, Principato, Milano 1988, p. 418: «La letteratura libresca dei poeti eruditi presuppone le grandi biblioteche delle metropoli, è un fatto di cultura urbana. Forse non è il caso di vedere nell’idillio [si riferisce ovviamente all’idillio bucolico] teocriteo già la nostalgia di un’esperienza diversa, il vagheggiamento consapevole di un ritorno alla genuinità della vita agreste; tanto meno il compiaciuto artificio in cui poi questa aspirazione si travestirà. Ma al suo pubblico egli offriva la compensazione di spazi aperti e verdi, di boschi e prati e campi, di sole, canti d’uccelli e suono di cicale, del profumo dei fiori e del gusto di frutti appena colti: il richiamo ineludibile dell’autenticità della natura, perduta ma non dimenticata nel chiuso dei palazzi, nel premere della folla, fors’anche nella polvere dei libri». Pure è stato riconosciuto che tra i carmi bucolici teocritei

104 il caso di più accurata descrizione del setting naturale – la celebre conclusione delle Talisie, vv. 130 ss., cui certo si riferiva primariamente Del Corno nelle sue considerazioni – è anche il solo dai connotati palesemente “idillici” (cfr. Fantuzzi-Hunter 2002, p. 191); ma il fatto è tanto più rilevante perché le Talisie sono un carme programmatico nel quale l’autore si autoinveste a campione del genere, di cui nel finale pare appunto delineare l’ambientazione standard. Quanto allo sviluppo dell’urbanesimo quale fattore determinante per la nascita del sentimento bucolico, cfr. anche A. Masaracchia, Virgilio e Teocrito: nascita e fortuna dell’ideale bucolico, in «Sandalion», n. 6-7, 1983-1984, pp. 75-91. 120. Emblematico il caso della prima e della nona ecloga, con la questione della espropriazione di terre a vantaggio dei veterani delle guerre civili; e così sono notevoli gli interventi nella sfera bucolica di personaggi appartenenti all’attualità, in primis il Cornelio Gallo di Ecl., 10. 121. Cfr. e.g. Il Ciclope di Teocrito, vv. 1-8, e il fr. 3 di Bione. 122. Fin dal Tirsi di Teocrito, in cui la natura partecipa al dolore per Dafni morente (cfr. vv. 71 ss.). Il motivo è poi ulteriormente caricato nell’Epitafio di Adone bioneo e nell’Epitafio di Bione. 123. Si è detto della scarsezza di materiale prettamente bucolico, per autori come Mosco e Bione; cfr. supra, pp. 23-24. 124. Sul trasferimento in prima persona dell’autore entro il mondo bucolico – segno distintivo di una mutazione nel genere, secondo Nauta 1990, p. 135 – cfr. quanto detto supra, pp. 29-30; sul distacco ironico come ingrediente essenziale dell’arte di Teocrito, cfr. Effe-Binder 1989, pp. 19 e 29 ss. 125. Vox 1997, p. 26. 126. Come nel fr. 2 di Bione, vv. 5-6: «perché tanti anche d’inverno / si scaldano e l’inerzia e l’ozio li seducono». Stessa abbandonata dolcezza nell’opzione bucolica. 127. Sono filosofie eudaimonistiche tanto l’Epicureismo che lo Stoicismo, le principali scuole del tempo, entrambe intese a promuovere, nell’uomo, la resistenza a ogni fonte di turbamento. 128. Si pensi a certo gusto per il dettaglio minuto nell’epigrammatica; si pensi a un’epigrammatista come Anite di Tegea e ai suoi epitafi per animaletti, come A.P., 7, 190: «A un grillo, usignolo dei campi, / e a una cicala, ospite delle querce, / piangendo molte lacrime infantili, / una tomba comune fece Miro. / Ade crudele le strappò di colpo / i suoi amati trastulli» (cfr. Antologia Palatina, tr. it. di S. Quasimodo, Garzanti, Milano 1977). 129. Cfr. Teocrito Polifemo, Il Ciclope, vv. 34 ss. («[…] mille bestie porto a pascolare / e da esse il miglior latte mungo e bevo / e il cacio né d’estate mi manca, né d’autunno, / e neanche nel cuore dell’inverno, ma i graticci sono sempre stracolmi. / E come nessuno dei Ciclopi so suonare la zampogna […]») e 45 ss. («là sono i lauri, là sono gli ondeggianti cipressi, / l’edera scu-

105 ra e la vite dai dolci frutti, / e c’è l’acqua fresca, bevanda divina che per me / fa scendere dalla candida neve l’Etna selvoso»; tr. Palumbo Stracca 1993). 130. Cfr. ivi, vv. 60-62: «Ora voglio subito imparare a nuotare, ragazza, / se capita qui con la nave un forestiero, / così vedrò che gusto c’è per voi ad abitare nell’abisso»; tr. Palumbo Stracca. Vi è contrasto tra mare e campagna, a vantaggio, alla fine, della quiete connaturata alla seconda, anche nel primo frammento di Mosco, cfr. i vv. 9 ss.: «Il pescatore certo ha vita grama, la barca è la sua casa, / una fatica il mare e i pesci preda incerta. / Il mio sonno, invece, dolce sotto un platano fronzuto, / goda anche all’udire il fremito vicino di una fonte /che mormorando allieta il villico, e non gli reca affanno». 131. La lirica apparve nel secondo volume delle Rime degli Arcadi, per Antonio Rossi alla piazza di Ceri, Roma 1716, p. 322. 132. Traggo il testo da J.W. Goethe, Faust, intr., tr. it. con testo a fronte e note a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 1970, p. 87 (lo stesso da cui ricavo l’esergo alla presente Introduzione). 133. Ibidem (corsivo mio). Mi piace pensare che la traduzione particolarmente assertoria, “battente” di Fortini per questa strofa (contro la punteggiatura originale il traduttore mette un punto fermo alla fine di ogni verso) si debba proprio alla sua definizione, giudicata essenziale, della felicità bucolica. 134. Ivi, vv. 9586-9588, pp. 841-843. 135. Ivi, v. 9589, p. 843. 136. Il mito classico conosce un Euforione figlio dell’unione post mortem di Elena e Achille nelle Isole dei Beati. 137. L’episodio si trova ivi, vv. 9614 ss., pp. 845 ss. 138. Lo stesso Goethe spiegava a Eckermann dell’assolutezza della sua visione (Cfr. J.P. Eckermann, Conversazioni con Goethe. Negli ultimi anni della sua vita, tr. it. di A. Vigliani, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2008, p. 293). Euforione è, prima di tutto, poesia come fecondità e ricchezza del suo stesso donarsi, come da etimo (in greco euphoría significa feracità, abbondanza). È noto come nella escalation che porterà alla fine della scena il ragazzo a morire (cfr. almeno a partire dal v. 9811), si debbano tuttavia riconoscere tratti specifici della poesia romantica, e in particolare la figura di lord Byron, morto a Missolungi per la libertà della Grecia. 139. A. Zanzotto, Ecloga IV, in IX Ecloghe, ora in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano 20182, p. 180. 140. Già si è detto dell’ipotesi del grande filologo tedesco circa la curatela di qualcosa come gli opera omnia bucolici da parte del grammatico Artemidoro nel I sec. a.C. Di Wilamowitz è tuttora in complesso accettata, invece, la teoria secondo cui Teocrito non avrebbe curato personalmente un’edizione delle sue opere (Wilamowitz 1906, pp. 123 ss.), benché voci autorevoli, nel tempo, abbiano tentato di attribuire al liber teocriteo una

106 qualche organizzazione autoriale, cfr. e.g. J. Irigoin, Les bucoliques de Théocrite. La composition du recueil, in «Quaderni urbinati di cultura classica», n. 19, 1975, pp. 27-44. 141. Si tratta in effetti di composizioni epigrammatiche che restituiscono graficamente la forma di un determinato oggetto grazie alla varia misura e disposizione dei versi, e che appunto l’Antologia Palatina tramanda nel miscellaneo quindicesimo libro (21-22 e 24-27). Pare siano del poeta e grammatico del III sec. a.C. Simmia di Rodi i primi tre (Ali, Scure e Uovo); seguono la (pseudo?) teocritea Siringa, il cui argomento – la dedica al dio Pan dello strumento pastorale da lui inventato – attiene effettivamente il mondo bucolico; e infine i due Altari, ascritto l’uno a Dosiada di Creta, vissuto probabilmente nel II sec. a.C., e l’altro a un misterioso Besantino poi identificato da C. Häberlin (in De figuratis carminibus Graecis, Diss., Göttingen 1886) con un Giulio Vestino grammatico di età adrianea (II sec. d.C.). 142. In Theocritus quique feruntur bucolici Graeci, Typis Officinae Poly­ graphicae, Romae 19461. 143. Cfr. C. Wendel, Scholia in Theocritum vetera, cit. 144. Le informazioni sul codice perduto sono ordinatamente presentate e vagliate da C. Gallavotti, Intorno al codice Patavinus di Teocrito, in «Illinois Classical Studies», vol. 6, n. 1, 1981, pp. 116-135. 145. Tade enesti en teide tei bibloi. Theokritou Eidyllia tout’esti mikra poiemata triakonta…, characteribus ac studio Aldi Manucii Romani, Impressum Venetiis 1495. 146. Theocrítou boukoliká. Theocriti castigatissima opera omnia…, ed. E. Boninus, in aedibus Philippi Juntae, Florentiae impressa 1516; Theocrítou eidýllia héx kái triákonta, ed. Z. Callierges, Romae 1516. 147. In C. Gallavotti, Intorno al codice Patavinus di Teocrito, cit., pp. 116 ss. 148. Poetae Graeci Principes…, excudebat H. Stephanus, Basilea 1566. 149. Le edizioni a solo di Teocrito sono comunque relativamente numerose, sino a Teocrito, Gli idilli e gli epigrammi, a cura di V. Pisani e L. Di Gregorio, Nuovo istituto editoriale italiano, Milano 1984. Di Mosco e Bione non si danno edizioni critiche monografiche, se non di singoli carmi (come Fantuzzi 1985), altrimenti sono editi assieme: cfr., in ultimo, l’ormai lontano Bionis et Moschi carmina ex codicibus Italis a se collatis, ed. Ch. Ziegler, Laupp, Tubingae 1868. 150. Bucolicorum Graecorum Theocriti Bionis Moschi reliquiae, accedentibus incertorum idylliis, 2 voll., ed. H.L. Ahrens, Teubner, Lipsiae 1855-1859. 151. Pubblicato per la prima volta da H. Oellacher (in Mitteilungen aus der Papyrussammlung der österreichischen Nationalbibliothek in Wien,

107 Bd. I, Druck der Österreichische Staatsdruckerei, Wien 1932, pp. 77-82) dalla collezione dell’arciduca Rainer, il papiro, databile al III sec. d.C., riporta sul recto e sul verso scampoli di una vicenda che ha per protagonista il dio Pan, prima schernito – se è corretta la ricostruzione che va per la maggiore, e che anche Hopkinson 2015 adotta – da Sileno per non avere con sé la zampogna, poi intento a costruirsene una. Il testo è ricco di riferimenti a personaggi e situazioni tipici della bucolica ed è stato negli anni variamente attribuito. È per noi di particolare interesse l’ipotesi di C. Gallavotti, Il papiro bucolico viennese e la poesia di Bione, in «Rivista di filologia e d’istruzione classica», XIX, 1941, pp. 233-258, che attribuirebbe il carme a Bione sulla base di una serie di motivi ben attestati nei frammenti bionei, in particolare 5 e 10 (vd. la mia nota a 5, 3, p. 121, nota 16). 152. Rispettivamente in terza e quarta posizione, dopo Eros fuggitivo e Europa. 153. Del 2008 la prima, del 2010 la seconda. 154. Un’eccezione è la mia resa dell’anacreontica Per Adone morto, in cui agli eptasillabi originari ho corrisposto settenari italiani – della cui eventuale malagrazia non posso che scusarmi. MOSCO

Eros fuggitivo 1. Afrodite, nata a Cipro (cfr. Esiodo, Theog., 191 ss.). 2. Il termine drapétes (qui in variante dorica e con diminutivo, drapetídas) è solitamente riferito agli schiavi fuggiaschi – bandi per il ritrovamento dei quali sono ben attestati, come e.g. nei Papiri di Ossirinco 73 e 1209. Una gustosa rivisitazione del bando moschiano per Eros è in un epigramma di Meleagro di Gadara (Anth Pal., 5, 177: «Ricercate Eros il selvatico […]», v. 1; cfr. Meleagro, Epigrammi, tr. it. a cura di G. Guidorizzi, Mondadori, Milano 1992), la cui pointe è però una galanteria per l’amata Zenofila («Ma eccolo vicino al suo covo! Non mi sfuggi, / arciere: stai in agguato negli occhi di Zenofila», vv. 9-10; tr. it. cit.) – e così nell’epigramma a seguire (178), nel quale al motivo del bando si sostituisce la vendita («Sia venduto, anche se dorme ancora in seno alla madre, / sia venduto! […]», vv. 1-2; tr. it. cit.). Topico in età ellenistica il conflitto, spesso declinato in toni bonari da commedia borghese, di Afrodite con il piccolo Eros, di cui la madre non riesce a arginare la ribelle esuberanza – esiziale per lei stessa, cfr. e.g. Apollonio Rodio, Arg., 3, 91 ss., e, tra i testi qui presentati, il fr. 14 di Bione, vv. 3-4. È dunque vano in partenza il tentativo di inibirlo, come in questo caso, mettendolo in catene.

108 3. Cfr. nell’Aminta del Tasso il prologo di Amore in abiti pastorali, che, ricercato dalla madre Venere, racconta: «ella mi segue, / dar promettendo a chi m’insegna a lei / o dolci baci o cosa altra più cara»; tuttavia aggiungendo «quasi io di dare in cambio non sia buono, / a chi mi tace o mi nasconde a lei, o dolci baci o cosa altra più cara» (vv. 32-37), su cui cfr. il finale del nostro componimento, dove pure solo di baci si parla. In antico, la ricompensa di Afrodite/Venere ha toni di più sfacciata sensualità nel bando della dea per, stavolta, la schiava fuggiasca Psiche, in Apuleio, Metamorfosi, 6, 8, emesso per bocca dell’araldo Mercurio: il delatore avrebbe ricevuto, stavolta, septem savia suavia et unum blandientis appulsu linguae longe mellitum («sette bei baci e uno al sapore intenso del miele, di invitante lingua che si insinua»; tr. mia). 4. Abbondano nel testo riferimenti al fuoco, atavica metafora dell’azione di éros: nell’aspetto del ragazzo, come qui e al v. seguente, e nei suoi attributi – la torcia (vv. 22-3) e le armi stesse, tutte passate alla fiamma, anzi come intrise di essa (v. 29), il che le rende altrettanto venefiche che il bacio del tremendo fanciullo (v. 27). 5. Comincia da qui una serie di opposizioni tra quel che di Eros appare e la sua vera natura, che ne segnalano l’elusiva ambiguità e anche la contraddittorietà (tenerezza e ferocia); graziose allusioni, secondo la levigata “sottigliezza” alessandrina, all’incoercibile potere cosmico del sentimento d’amore. 6. Cfr. l’Amor fuggitivo del Tasso, con consueta dilatazione rispetto al più conciso modello: «ed ha giuoco e trastullo / di puerili scherzi; / ma il suo scherzar è pieno / di periglio e di danno», vv. 79-82. 7. Sulla riduzione “fanciullesca” degli attributi di Eros, e tuttavia la fattiva potenza celata dal loro innocuo aspetto, cfr. anche lo pseudoteocriteo Id., 19, sorta di epigramma bucolico sul piccolo dio punto da un’ape mentre rubava il suo miele, vv. 5-8: «[…] si lagnava: “L’ape è una bestiola / così piccola, e procura ferite così grandi!” / E la madre ridendo: “E tu non sei come le api? / Sei piccolo, e procuri ferite così grandi!”» (tr. Palumbo Stracca 1993). 8. Segue in due soli codici (V = Vaticanus 1824; X = Vaticanus 1311) un verso consensualmente espunto dalla critica: aiái, kái tó sídaron, hó tón pyróenta kathéxei (si potrebbe tradurre «ahimè, anche le armi che possederanno l’ardente [d’amore]!»; cioè si paventa ciò che avverrebbe se il malcapitato toccasse le armi regalategli eventualmente da Eros: non le possederebbe, ma, colto dal fuoco d’amore, ne verrebbe posseduto).

Europa 1. In prima posizione nel verso originale, a immediato focus sulla protagonista; la mia collocazione in clausola, subito prima di interpunzione, vuole rendere tale rilievo.

109 2. Risale a Omero la suddivisione della notte in tre parti (cfr. Il., 10, 251 ss., di cui il nostro passo risente anche ad verba). Con Hopkinson 1988, p. 201, è pure da ricordare che nel poemetto di Mosco la veste metrico-linguistica è del tutto tradizionale, benché sia poi «unhomeric» (p. 202) il trattamento della materia – ossia rispondente ai canoni di raffinata letterarietà sottesi al genere dell’epillio alessandrino. 3. Erano considerati veridici i sogni avuti presso l’alba, cfr. e.g. Ovidio, Her., 19, 195-196. Vd. sul tema G. Guidorizzi (a cura di), Il sogno in Grecia, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. XI, XVI e 205, nota 3. 4. Il passo è debitore de I Persiani di Eschilo, vv. 176 ss., in cui la regina madre Atossa racconta di un sogno in cui suo figlio Serse tentava di pacificare e aggiogare a uno stesso carro due figure femminili in discordia, personificazioni, appunto, dei continenti Asia e Europa; ma la recalcitrante (in Eschilo) Europa è qui la figura che con analoga foga cerca di appropriarsi la fanciulla da cui deriverà il suo nome; un atteggiamento uguale e opposto, dunque, come entrambi veridici e opposti negli esiti sono i sogni in questione. Si direbbe insomma un arguto esperimento, in Mosco, di oppositio in imitando. 5. Epiteto omerico (e.g. Il., 2, 375): portatore dell’ègida, vale a dire lo scudo rivestito, secondo alcune versioni, della pelle della capra Amaltea che allattò Zeus bambino. 6. L’escamotage narrativo del sogno, che prelude a un profondo rivolgimento, attraverso l’esperienza dell’éros, nella vita della protagonista, risente in primo luogo del grande modello odissiaco del sogno di Nausicaa, che Atena induce nella ragazza per favorire il suo incontro con Odisseo (Od., 6, vv. 20 ss.); ma anche del brano eschileo de I Persiani, già menzionato per il contenuto specifico del nostro sogno, e, ancora di Eschilo, della vicenda onirica di Io – sorta, come vedremo, di «convitato di pietra» nell’Europa – nel Prometeo incatenato, vv. 645 ss.; fino al referente ellenistico di Apollonio Rodio, Arg., 3, 619 ss. con l’incubo di Medea innamorata di Giasone. 7. Il (breve) viaggio a scopo ludico dell’eroina con le ancelle è un topos ancora da Omero, Od., 6, 71 ss., e almeno Apollonio Rodio, Arg., 3, 869 ss. «Danza, bagno e raccolta di fiori», tutte circostanze menzionate ai vv. 30-2, «sono occasioni classiche nel mito per la seduzione o il rapimento di una fanciulla», chiosa opportunamente Vox 1997, p. 418, nota 4, con nutrita serie di riferimenti in merito. La fanciulla sarà rapita, qui, durante una raccolta di fiori, il che richiama specificamente il modello di Core nell’Inno Omerico, 2, vv. 5 ss. 8. E siamo al tradizionale “pezzo forte” dell’ékphrasis, la descrizione di oggetti in cui così spesso si misurava, in età ellenistica, il potere icastico della parola poetica (vd. Introduzione, pp. 26-27, e p. 95, nota 52). Il mirabile canestro opera di Efesto giunge a Europa, dice Mosco, attraverso la nonna

110 Libia – prima destinataria del dono – e la madre Telefassa, figlia di quella e di Poseidone; una genealogia un po’ divergente dalla consueta, secondo cui Telefassa era solo nuora di Libia, di cui aveva sposato il figlio Agenore. 9. È nota la vicenda di Io figlia di Inaco, sacerdotessa di Era amata da Zeus che, mutata in vacca, fu data da Era in custodia al mostro Argo; questi fu poi ucciso da Hermes, e Io, liberata, vagò per terra e per mare tormentata da un tafano, pure inviatole da Era, finché non giunse in Egitto e riprese le sue sembianze per intervento di Zeus. La storia è qui lumeggiata dalle splendide immagini del canestro, inclusa l’uccisione di Argo con la nascita dal suo sangue – invero non altrove attestata – di un uccello le cui ali, avvolte al bordo dell’oggetto, ne costituiscono un motivo decorativo (vv. 59-61). Io, nonna di Libia a sua volta nonna di Europa, non è soltanto imparentata con l’eroina del nostro poemetto: il ricordo del mito che la riguarda anticipa qui, in forma argutamente antitetica, quel che di lì a poco accadrà a Europa stessa. Amata da Zeus e trasformata in vacca, Io «correva i sentieri salmastri / come stesse nuotando» (vv. 46-47), muovendo da ovest a est e finendo per dare il nome alla regione asiatica poi chiamata, appunto, Ionia, prima di riprendere sembianze umane grazie a Zeus; Europa, amata da Zeus, è da lui rapita in forma di toro, il quale la trasporta sull’acqua «come un delfino / affrontando, ma con zoccoli asciutti, la vasta marina» (vv. 113-114), in direzione est-ovest verso un continente che prenderà nome dalla ragazza. In entrambi i casi un’avventura erotica di Zeus inquadra una metamorfosi bovina: dell’amata, nel caso di Io, di Zeus-amante nel caso di Europa. Di gusto esemplarmente alessandrino è dunque quella che appare, nell’epillio, una mise en abyme per contrasto, e calata per giunto all’interno di un’ékphrasis, cioè un canonico pezzo di bravura dei poeti del tempo; con, infine, l’ironia “tragica” di una protagonista che non coglie (a differenza del lettore avvertito, e per questo compiaciuto) l’ammonimento implicito che la storia dell’antenata sembra rivolgerle. Sul «contrappunto» fornito dalla digressione di Io rispetto alla trama principale del testo, cfr. Hopkinson 1988, p. 202. 10. Hopkinson 2015 accoglie l’emendamento di Hermann doioú – genitivo da accordare, in tal modo, con aighialóio, la spiaggia (ne verrebbe l’immagine di spettatori sulle due rive del Bosforo, lo stretto attraversato da Io nella sua corsa). A me non pare necessario e non tale, comunque, da preferirsi al tràdito doiói, nominativo connesso a phótes, gli uomini. 11. Eptapóro, ossia, letteralmente, “dai sette sbocchi”, in riferimento al delta del fiume. 12. La mia arcaizzante traduzione di earotrephéon, aggettivo riferito ai prati (leimónon) al v. 67, con «alunni di primavera» (ossia: che la primavera nutre, alleva), è già leopardiana. Così il giovane Giacomo, estimatore di Mosco (cfr. Introduzione, p. 24), rendeva i vv. 66-67: «Frattanto / in copia sparse di que’prati alunni / di primavera, spicciolate foglie / cadean sul verde

111 suol», cfr. F.M. Pontani - B. Costantini, Lo specchio delle Muse. Poeti e prosatori greci tradotti da scrittori italiani, Barjes, Roma 1962, p. 547. Quantomeno sorprendente, peraltro, è qui la lettura leopardiana di thalétheske pétela con «foglie […] cadean», che sembra del tutto incongrua rispetto al contesto. Leopardi traduttore non è nuovo a una certa infedeltà rispetto al testo di partenza – in direzione, quanto almeno al lavoro su Mosco, di una amplificatio patetica sottolineata talvolta da determinati effetti di suono (cfr. M. La Rosa, Innanzi al comporre, cit., pp. 141 ss.). In questo caso il Recanatese potrebbe – azzardo – aver sfruttato la normale (in effetti, dato il suffisso -ze = -de, persino più appropriata) pertinenza al moto a luogo dell’avverbio éraze al v. 66, per fabbricare una versione alternativa alla più ovvia, eppure grammaticalmente giustificabile: e dunque le sue “foglie” sarebbero i pétela caduti di mano verso il suolo alle ragazze durante l’allegra, copiosa raccolta. La resa resta molto disinvolta – il verbo thaléthein, nel senso suo proprio, non mi pare le sia compatibile. La faccenda meriterebbe un’ulteriore e mirata indagine; ringrazio per adesso la collega Laura Diafani, esperta leopardista, per avermi instradato, in una conversazione privata, a una possibile soluzione, benché aleatoria. 13. La rassegna floreale è memore dell’omerico Inno a Demetra (vv. 6 ss.); la rosa, simbolo erotico e fiore riservato non casualmente alla regina, è peraltro pyrsós, rossa come il fuoco, ancestrale metafora della passione d’amore. La Nata da schiuma è Afrodite, secondo il racconto esiodeo di Theog., vv. 188 ss. 14. La scena è di grande, morbida sensualità. La mia traduzione di meilíchion mykésato, (alla lettera “muggì dolcemente”) focalizza sulla reazione del toro al bacio di Europa: la dolcezza del muggito è anzitutto quella provata dall’animale. 15. La Migdonia era una zona della Frigia; il flauto migdonio era caratterizzato da un suono piuttosto grave. 16. Comincia la descrizione del corteggio marino, debitrice dell’arte figurativa coeva e non solo; determinante, a sua volta, per i futuri sviluppi dell’iconografia. In sede letteraria, la scena è anzitutto un fastoso ampliamento dell’essenziale corteggio di Poseidone in Iliade, 13, 27 ss. (poi modello per Virgilio, Eneide, 5, 819 ss.) 17. Ninfe marine, figlie del dio del mare Nereo. La più celebre tra loro fu Teti, madre di Achille. 18. Lo “Scuotiterra”, tradizionale epiteto per Poseidone, cui si attribuiva, in antico, l’origine dei terremoti. Poseidone era fratello di Zeus, come si ricorda poco dopo (v. 122). 19. Originariamente al singolare, figlio di Poseidone e Anfitrite, suonatore di conchiglia e cavaliere di mostri e cavalli marini (cfr. Esiodo, Theog., 930 ss.), poi regolarmente rifranto (come Eros negli Eroti, Pan nei Pani o

112 Panischi) in una pluralità di Tritoni a partire dall’Ellenismo, e con funzione, come in questo caso e nell’arte, perlopiù decorativa. 20. L’atteggiamento di Europa risente chiaramente dell’arte. A questa e insieme al testo di Mosco, all’incrocio fra tradizione figurativa e letteraria, guarda l’inizio delle Avventure di Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio (seconda metà del II sec. d.C.), in cui l’autore racconta di essersi imbattuto, a Sidone, in un meraviglioso quadro raffigurante il mito di Europa – cui dedica un’accurata ékphrasis prima di incontrare Clitofonte stesso, protagonista del romanzo. Vi si dice, tra l’altro, che un mantello color porpora velava la parte inferiore del corpo della ragazza (1, 1, 10, vd. Eur., 127), la quale era aggrappata, con la mano sinistra, a un corno del toro (ibidem, vd. Eur., 126), mentre il peplo «si curvava, teso da ogni parte; così il pittore simulava il vento. Dunque lei stava seduta sul toro come su una nave in viaggio, usando il peplo come vela» (1, 1, 12, tr. mia, vd. Eur., 129-130). I motivi della mano stretta sul corno (non si specifica se destra o sinistra) e del rigonfiamento del peplo per effetto del vento, qui direttamente personificato in Borea, tornano poi nella lunga descrizione della scena in Nonno di Panopoli, Dion., 1, 68 ss. 21. Il composto theótauros, dio-toro o toro-dio che dir si voglia, è hápax moschiano. 22. Il motivo del paradossale viaggio per mare dell’animale terrestre, assimilato a una nave sui generis, è poi fastosamente sviluppato da Nonno nel discorso del marinaio acheo che osserva rapitore e rapita in Dion., 1, 93-124. 23. Come nel suo primo discorso (vv. 21-27), questo secondo e ultimo di Europa consta di una serie di espressioni di stupore concluse da una preghiera; d’altro canto il primo seguiva un momento profetico (il sogno), questo lo precede (la rivelazione di Zeus). Sono elementi di una simmetria interna che non sono sfuggiti a Hopkinson 1988, p. 202. 24. Canonizzati da Esiodo (Theog., vv. 477 ss.) sono la nascita e l’allevamento di Zeus a Creta, benché sulla prima infanzia del dio più luoghi reclamassero di esserne stati teatro. Callimaco, nel suo Inno a Zeus, propone una nascita in Arcadia (v. 10) e un allevamento cretese (42 ss.). 25. Sono Minosse, Radamante e Sarpedone (cfr. Pseudo-Apollodoro, Bibl., 3, 1, 1; Esiodo, fr. 140). 26. Il finale indubbiamente ex abrupto di 162-166 ha, come già si ricordava (cfr. Introduzione, p. 27), fatto presumere la perdita della vera e propria conclusione, o è stato almeno avvertito come insoddisfacente. Hopkinson 1988, pp. 214-215, difende il testo tràdito secondo una puntuale articolazione di argomenti, tra cui mi pare spicchi il richiamo all’“effetto sorpresa” del genere epillico – là dove si omette di raccontare, e.g., il trasferimento eziologico del nome della ragazza al nuovo continente, certo atteso dai lettori –, e così il motivo dell’immediatezza dell’azione e della

113 rapidità degli accadimenti come contrassegno del divino. A me sembra un finale splendido, incluso il doppio, incalzante autíka, «subito», e l’allitterazione nel verso conclusivo greco (téke tékna kái autíka…) di cui purtroppo la traduzione non rende ragione e che pare esprimere la concitazione del fato nell’adempiere, con la maternità di Europa, quel che dev’essere. Che lo hýsteron próteron nel verso finale, poi (Europa che prima genera figli, poi è/diventa madre, anziché il contrario), sia tale da costituire un problema e un indizio di corruttela, mi pare discutibile (stessa figura di posizione, del resto, al precedente 164: il Cronide scioglie il cinto della ragazza e le Ore preparano il letto, diversamente da una più logica inversione dell’ordine), mentre non suona per nulla infelice poeticamente: al nýmphe che chiude il penultimo verso corrisponde la raggiunta condizione di méter, ultima parola del testo che ridefinisce la condizione e sigilla il ruolo di quella Európe che svettava nell’incipit.

Frammenti 1. In Stobeo, 4, 17, 19. 2. Hopkinson 2015, p. 497, nota 1, non esclude trattarsi di un testo completo. Il contrasto tra mare e terra ha forse un retroterra letterario siracusano, come ricorda Vox 1997, p. 450, nota 1, allegando i titoli di un mimo di Sofrone e di una commedia di Epicarmo (V a.C.), rispettivamente Il pescatore [critica?] il contadino e Terra e mare (di cui cfr. i frr. 23-32 Kaibel); il pensiero va però in prima battuta al canto di Polifemo nell’undicesimo idillio di Teocrito, e al suo tentativo di sedurre Galatea contrapponendo il proprio mondo pastorale al marino della ninfa (cfr. vv. 42 ss.). 3. In Stobeo, 4, 20, 29. 4. La catena d’amore include personaggi di area bucolica, tranne Lide, nome che tuttavia appartiene alla letteratura erotica grazie alla Lide, appunto, di Antimaco di Colofone (IV sec. a.C.), poema elegiaco perduto caro a molti alessandrini (ma non a Callimaco, cfr. il fr. 398 Pfeiffer). Non consueto il legame tra Pan e Eco, della quale è noto invece l’amore infelice per Narciso (cfr. Ovidio, Met., 3, 339-510); e tuttavia cfr. Longo Sofista, Dafni e Cloe, 3, 23. 5. Traduco così, con popolana malizia ma fedelmente, il greco phléghen, “infiammava”. 6. Alla lettera: pativa ciò che faceva (lui stesso), pásche d’há poiéi. Sul tópos dell’amore respinto da chi è rifiutato a sua volta, cfr. Teocrito, Id., 6, 15-17: «[Galatea] anche di laggiù […] civetta con te; come la lanugine / secca che si stacca dal cardo, quando l’inaridisce la bella estate, / fugge chi l’ama e insegue chi non l’ama [phéughei philéonta kái ou philéonta diókei:

114 con anche qui rilevanti, come si vede, artifici fonico-sintattici incentrati su philéo]» (tr. Palumbo Stracca 1993). 7. La traduzione vuole rendere il ridondante poliptoto philéontas… philéete philésthe, sorta di “fuoco d’artificio finale” sul tema ossessivo di un éros da, appunto, continuamente coniugarsi. Con le tre ultime voci di philéo sono 8, nel breve testo, le occorrenze di verbi legati all’amore, più 3 varianti metaforiche (epeménato, v. 2; phléghen, v. 3; esmýcheto, v. 4). 8. In Stobeo, 4, 20, 55. 9. Leggiamo del mito del dio fluviale Alfeo, capace di scorrere sottoterra per riunirsi alla ninfa Aretusa, che Artemide trasformò in fonte nell’isola di Ortigia, nelle Metamorfosi di Ovidio (5, 572 ss.), nella Geografia di Strabone (6, 270) e successivamente nella Periegesi di Pausania (5, 7, 2), oltre che in alcuni epigrammi della Palatina (9, 362, 536, 683). Che la sua acqua faccia crescere olivi rimanda alla prassi di coronare con oleastro i vincitori di Olimpia, presso cui – e presso Pisa, altra città dell’Elide – l’Alfeo scorreva. La figura di Aretusa, connessa a Siracusa, patria di Mosco e soprattutto di Teocrito, è parte fin dall’inizio dell’immaginario bucolico, cfr. Teocrito, Id., 1, 117; e cfr., soprattutto, Epit. Bion., 77, in cui lo specifico dell’arte bucolica del maestro Bione è simboleggiato proprio dall’acqua di Aretusa metaforicamente bevuta dal poeta, contro l’epico Omero che avrebbe invece attinto alla fonte Ippocrene sull’Elicona. 10. È la polvere del terreno su cui si svolgevano le gare olimpiche, sacre perché in onore di Zeus. 11. Traduco con «esiziale» deinothétas dei codici, hápax in sostituzione del quale ha avuto fortuna, nella storia editoriale del testo, la congettura agonothétas di Hemsterhuys (la adotta ancora Legrand 1925-1927), ossia “istitutore di gare”; lezione seducente, considerati i diversi riferimenti olimpionici del testo – una sorta di gara, certo una sfida, è anche quella di Alfeo, che impara a tuffarsi, appunto, secondo disposizioni di Eros. Non mi pare, tuttavia, che ci siano motivi cogenti per rifiutare il testo tràdito. 12. L’Antologia Planudea, curata da Massimo Planude attorno al 1300, conteneva alcune centinaia di componimenti non presenti nella Palatina. Troviamo qui apposto il lemma Móschou eis Érota arotriónta («Di Mosco, su Eros aratore»). 13. L’immagine di Eros bovaro si ritrova in Nonno, Dion., 1, 80 ss., e a proposito del rapimento di Europa – qui richiamato nella pointe dell’epigramma –: egli sospinge il toro «come un bovaro […] e portando l’arco sulle spalle alla stregua di un bastone da pastore, / conduce lo sposo di Era con questa verga di Cipride / verso i pascoli bagnati di Poseidone» (cfr. Nonno di Panopoli, Le Dionisiache, vol. I, Canti I-XII, intr., tr. it. e comm. di D. Gigli Piccardi, BUR, Milano 2003). 14. Altro nome di Demetra.

115 BIONE

Epitafio di Adone 1. I primi due versi compendiano, con l’esclusione di aiái tán Kythéreian («Ahimè, Citerèa»: prima occorrenza al v. 28), tutti i ritornelli o refrain del testo. La traduzione italiana non rende sufficiente ragione dello splendido effetto eco tra l’apóleto dopo la cesura del primo verso e l’óleto iniziale del secondo, del resto analoghi per significato («È morto»). Si sarebbe forse restituito evitando di tradurre di nuovo, al v. 2, «il bell’Adone» – sacrificando troppo, tuttavia, la lettera del testo e soprattutto il protagonismo del personaggio e della sua bellezza. Altrettanto inerme è la versione italiana rispetto alla calcatissima allitterazione della “a” di lamento in questi primi due versi, a partire dal verbo iniziale che è un derivato dell’interiezione luttuosa aiái: Aiázo tón Ádonin, «apóleto kalós Ádonis» / «óleto kalós Ádonis», epaiázousin Érotes (10 occorrenze della vocale). Sul fonosimbolismo nel carme bioneo, cfr. Fantuzzi 1985, pp. 25 e 27, nota 14. 2. Il poliptoto al v. 8 leukó leukón (peraltro in chiasmo con i sostantivi alla fine del v. precedente, cui gli aggettivi si riferiscono), accosta e fa stridere due ben diverse qualità di bianco: quello di Adone, emblema di bellezza e innocenza, e quello della zanna dell’animale, la brutalità cieca, l’orrore (cfr. l’Adone di Marino, 18, 136, 5-6, certo memore di questi versi: «Il fianco, oimè, del bell’Adone ucciso / più del dente che ’l morse è bello e bianco»). Con quel che immediatamente segue – ancora il bianco di Adone, bruttato dall’orrida cupezza del sangue –, è il primo saggio dell’espressionistica pregnanza dei colori nel poemetto. 3. Il motivo del bacio è calcato per verba con un’ossessività che è tra le ragioni poetiche del carme, con la battente disperazione che vi si accompagna (cfr. anche i vv. 45 ss.). 4. Epiteto di Afrodite, particolarmente venerata nell’isola di Citera. 5. Si è inteso rendere, con il verbo desueto, la suggestione fonica dell’originale aláletai. 6. La qualifica di “assiro” rimanda all’origine orientale del culto adonio. Quanto al «ragazzo», conservo nella mia traduzione il páida dei codici – Adone è sposo e fanciullo, da gridare e invocare, senza soluzione di continuità –, cui Hopkinson 2015 preferisce l’emendamento di Hermann pollá («invocandolo molto» o «molte volte»), che tuttavia finisce, a mio avviso, per normalizzare indebitamente un testo giocato, di base, sugli effetti d’accumulo. 7. Traduco con «si allarga» il tràdito, dibattutissimo aoréito, da un aioréomai “oscillare”, “librarsi” del v. 25, che Hopkinson 2015 conserva e da par suo traduce «was floating the dark blood» (p. 509), tuttavia ammettendo trattarsi, nella nota ad locum, di una «very strange expression», anche ammesso che

116 Adone venga immaginato riverso con il busto collocato più in basso rispetto alle gambe, così che il sangue vi può scivolare dalla coscia ferita («pose in itself improbable», scriveva già Hopkinson 1988, p. 221). Nell’Adone secentesco di Giambattista Marino, autentico deposito della tradizione antica, anche la più peregrina, sul mito adonio, la ferita inferta dal cinghiale al corpo del ragazzo interessa una zona che oscilla dalla coscia subinguinale (18, 97), al fianco (107), al costato (152), addirittura al petto (178); il che non può certo essere d’aiuto al mantenimento della lezione dei codici, ma esprime forse, da parte del poeta barocco, una sensibilità non lontana da Bione in questo estendere la piaga da una zona circoscritta a una generale contaminazione dell’intero corpo, che è la bellezza di Adone e dunque tutto ciò che Adone è, nel mito che lo riguarda: pura forma insudiciata dalla morte. 8. È, con espressione anglosassone, la classica pathetic fallacy, l’associarsi della natura bruta, animata e inanimata, al lutto degli uomini (o degli dèi, come in questo caso); ne fa parte anche il guaito dei cani al v. 18, e così l’avvizzire dei fiori a 76. Modello diretto è il Tirsi teocriteo per la morte di Dafni; in seguito, il motivo terrà banco in tutto l’ipermanierista Epitafio di Bione. Mi piace ricordare, in proposito, anche la tarda ripresa del motivo in Nonno di Panopoli, Dionisiache, 12, 124 ss., notevole per la consueta dilatazione “barocca”, tipica dell’épos nonniano, di spunti ellenistici: «[…] si fermano fra le canne le acque dell’Ermo di Lidia, / i vortici impetuosi delle rapide cascate, / né si cura più di scorrere, il Pattolo color zafferano, / nelle cui onde scorre la ricchezza, trattiene l’acqua in segno di dolore, […] / il Sangario, che fa scorrere i suoi flutti in Frigia, / respinge indietro i suoi gorghi verso le faglie sorgive […] / il pino silvestre, lamentandosi insieme al pino marittimo, suo coetaneo, / mormora lieve; anche l’albero dell’intonso Febo, / proprio lui, l’alloro, sparge la chioma / ai venti addolorati; il lucente olivo che non si taglia mai / dissemina a terra le foglie, pur essendo la pianta di Atena» (tr. it. cit.). 9. Nominalmente si tratterebbe dell’isola (se mai personificata) e non della dea, benché paia difficile riferire il passo ad altri che Afrodite. Fantuzzi 1985, p. 69, mentre ricorda che l’uso metonimico di Cythéra in luogo del nome della dea lì venerata è generalmente post-bioneo e tardo, segnala tuttavia, nel nostro, una certa «originalità nell’onomastica divina». Il nome Cythére è senz’altro antonomastico per Afrodite al primo verso dell’anacreontica Per Adone morto da noi riportata. 10. La ninfa scarnificata e ridotta a pura voce è una habitué della poesia bucolica: cfr., per restare ai nostri testi, Mosco, fr. 2; Epitafio di Bione, v. 30. 11. Fantuzzi 1985, p. 142, ricorda le malae tenebrae / Orci, quae omnia bella devoratis di Catullo 3.13-4. 12. È il famoso kestós fonte, secondo Il. 14. 214 ss., del potere di seduzione di Afrodite.

117 13. Concessivo: nonostante fosse così bello, Adone ha deciso di affrontare una bestia sanguinaria – un concetto di bellezza che non ha niente a che spartire, come si vede e diversamente dalla topica antica, con il valore guerriero di giovani uccisi, su cui cfr. Palumbo Stracca 2007, pp. 254-255. Non c’è nulla di marziale, s’intende, in questo «virgulto di Eros» (érnos Érotos), come è invocato al v. 8 del bell’Inno orfico a lui dedicato (56 Ricciardelli). In Ovidio, Venere ammonisce Adone prima del ferale incidente: «Evita di essere temerario […] e non stuzzicare le belve che la natura ha fornito di armi […]. La tua età, la tua bellezza e tutte le altre tue doti che hanno ammaliato Venere in persona non toccano i leoni e gli irsuti cinghiali […]» (Met., 10, 545-549, in Ovidio, Le Metamorfosi, tr. it. di G. Faranda Villa, note di R. Corti, BUR, Milano 1994). Fantuzzi 1985 sottolinea la singolare temerarietà di questo Adone bioneo, rispetto alla tradizione che lo dipinge piuttosto come imbelle e codardo, cfr. pp. 98-99. 14. Piattamente didascalico, in confronto, il discorso di Venere in Met., 10, 724 ss., dove predomina il motivo eziologico dell’origine delle feste di Adone: «Levando il suo lamento contro i fati formulò questa promessa: “Me lo avete strappato, ma non resterà completamente in vostro potere. Il ricordo del mio lutto, o Adone, durerà in eterno! La tua morte sarà commemorata ogni anno e la cerimonia riprodurrà le manifestazioni del mio dolore […]”» (tr. it. cit.). 15. «Pafia» ossia di Pafo in Cipro, sede di un importante tempio di Afrodite. 16. Variante bionea alla più diffusa versione dell’origine dell’anemone, e non della rosa, dal sangue di Adone, su cui cfr. Nicandro, fr. 65 Schneider; Ovidio, Met., 10, 738 s.; Plinio il Vecchio, che in Nat. Hist., 21, 60 si riferisce al fiore direttamente con il nome di Adónion; ecc. Del resto, Palumbo Stracca 2007, pp. 255-257, fa notare la singolarità delle abbondanti lacrime versate in questo carme dalla dea, in controtendenza con una tradizione che non mostra quasi mai divinità piangenti; il che si spiega, secondo la studiosa, con il desiderio dell’autore di umanizzare la figura di Afrodite, magari “smontando” il modello teocriteo della dea terribile e impietosa di Id., 1, 95 ss. 17. Passo assai controverso. L’interpretazione erotica di hierón ýpnon emóchthei, secondo Hopkinson 2015, «sounds grotesque» (p. 513, nota 20); e però credo si possa sottoscrivere che «è solo la valenza sessuale di hýpnon a rendere accettabile la presenza di mochthéo nella valenza positiva di “impegno” e non in quella negativa di “sofferenza”» (Palumbo Stracca 2007, p. 259), che oggettivamente sarebbe qui improponibile. Da par mio mi limito a tradurre seguendo la lettura erotica e provando a garbatamente velare, come nell’originale, il riferimento all’amplesso, benché l’uso di «estenuante» sia, nelle mie intenzioni, una spia abbastanza evidente.

118 18. Tetraggine più che mestizia, in questo aggettivo styghnós (come vorrebbe invece Fantuzzi 1985, p. 113) – ossia il senso di orrore, più che di tristezza, che ancestralmente evoca la presenza di un cadavere; ebbene, il letto del passato amore desidera Adone pur in queste condizioni, «con efficace ossimoro» (Palumbo Stracca 2007, p. 254, nota 2). 19. Hopkinson 1988, p. 224, ravvisa in questi versi un richiamo eziologico alla pratica di cospargere l’effigie di Adone, durante la festa in suo onore, con fiori e profumi; fiori «avvizziti quando quello è defunto», si dice qui al v. 76, così com’erano allestiti apposta per essiccarsi in corrispondenza degli «Adonia» i cosiddetti “giardini di Adone”, su cui cfr. p. 97, nota 62. 20. Sul tipo di gesto indicato dal verbo, i più vi leggono una deposizione delle armi/attributi degli Eroti sul corpo del defunto (così Hopkinson 2015, che traduce «One casts on him his arrows […]»). Palumbo Stracca 2007, pp. 260-261, opta invece, a mio avviso persuasivamente, per un «deporre uno sull’altro», da parte degli Eroti, i consueti strumenti di seduzione, dal momento che la morte ha separato i due amanti (aggiungo: è morta, con Adone, la bellezza stessa fomento dell’eros, cfr. v. 31) e sono adesso inutili. Può suffragare la scelta anche la scena, immediatamente a seguire, delle cure prestate al morto degli Eroti stessi (vv. 83 ss.), poco compatibile subito dopo o in contemporanea con la deposizione sul cadavere dei loro attributi. Del resto, non è forse un caso che il Marino, nella scena di marca bionea dei «piccioli Amori» che partecipano al lutto per Adone e prestano le cure al morto, scriva che gli Eroti «sfaretrati e con spuntate frecce, / rotte le reti d’or, sciolti i legami, gittate a terra fiaccole e focili, / fanno a le triste essequie ossequi umìli» (Ad., 18, 189, 4-6, corsivo mio). 21. Imeneo è divinità preposta ai matrimoni, il cui nome è modellato sull’invocazione rituale Hymén – talora sovrapponendovisi, come al v. 90. Il dio spegne la fiaccola (ésbese) come si è spenta la vita di Adone, invocato del resto nell’Inno Orfico, 56 Ricciardelli, al v. 5, come colui «che si spegne e si accende» (sbennýmene lámpon te). 22. Personificazione della grazia e della bellezza, le Cariti o Grazie sono parte, tradizionalmente, del corteggio di Afrodite. 23. Contro il testo di Hopkinson 2015, che accoglie l’antico emendamento di Ahrens 1849 Paióna (il Peana, canto sacro a Apollo che dunque le Cariti, pure connesse al suo culto, intonerebbero assai meno di “ahimè” per Adone), mi allineo ad altri traducendo la lezione dei manoscritti tý, Dióna. Dione, madre di Afrodite in alcune versioni del mito (e.g. Il., 5, 370 ss.), si identifica talora con la dea stessa dell’amore, come in Teocrito, Id., 7, 116, e assai di frequente nella poesia latina (cfr. e.g. Catullo, 56, 6). L’apparente bizzarria secondo cui le Cariti piangerebbero Adone in misura maggiore, dunque, persino di Afrodite (se non si vuole introdurre davvero ex abrupto una figura sin qui assente come la madre della dea), potrebbe spiegarsi e

119 con un «hyperbolic compliment to Adonis», come scrive Reed 1997 p. 248, e, direi, con l’incarnazione della grazia stessa (chàris) che Adone rappresenta, sì che la sua morte significa in un certo senso la nullificazione di ciò che le Cariti essenzialmente sono, fonte di una disperazione, pertanto, del tutto giustificata. 24. Hopkinson 2015 stampa en Áda, anziché conservare il tràdito Ádonin; iterazione del nome nello stesso verso, che tuttavia mi pare assolutamente in linea con lo stile ridondante del carme. Quanto al richiamo “magico” (epaéido significa “incantare”) delle Moire, certo esso si giustifica, per quanto inefficace, con la pertinenza delle dee del destino alla vita e alla morte; in contesto analogo, nelle Dionisiache di Nonno, 12, 138 ss., la Moira Atropo è introdotta a rassicurare Dioniso sul fatto che Ampelo, il suo amasio, tornerà alla vita, poiché, gli dice, «il tuo pianto ha trovato il modo / di revocare gli inflessibili fili della Moira immutabile»; tr. it. cit.). 25. Altro nome di Persefone, regina degli inferi. 26. «Dopo aver “rappresentato” in modo diretto un mito, senza esplicito richiamo del rito celebrativo che vi si connetteva, […] Bione si riferisce direttamente alla celebrazione annuale che rievocava la morte del giovinetto semidio» (Fantuzzi 1985, p. 136). Si risente un’eco, nell’ultimo verso, di Callimaco, Hymn., 6, 123: étos d’eis állo phyláxei («[Demetra] farà guardia fino a un altr’anno»; tr. mia].

Epitalamio di Achille e Deidamìa 1. Vale a dire bucolico, cfr. Introduzione, pp. 23 e 30. 2. Cfr. il fr. 16 di Bione e p. 127, note 60 e 61. 3. Così la lettera del testo: «anche a me piace suonare la zampogna [syrísden], Mirsone, ma cosa dovrei cantare [mélpso]?». È evidente che qui «suonare la zampogna», ossia lo strumento pastorale per eccellenza, equivale del tutto a «eseguire un canto bucolico», che è quanto – con nostra sorpresa, dato l’argomento – Licida farà tra breve. 4. Naturalmente Paride, per cui cfr. anche lo Pseudo-Teocrito di Id., 27, 1; ma si badi come il poeta bucolico cita antonomasticamente il suo status pastorale, in fortissima posizione pre-cesura (e cesura bucolica!). 5. Ninfa del monte Ida, sposa di Paride prima che questi partisse per rapire Elena; cfr. e.g. Nicandro, fr. 107 Schneider e soprattutto Ovidio, Her., 5. 6. La madre Teti, come noto, intese scamparlo in questo modo alla sorte che lo attendeva se avesse preso parte alla spedizione troiana. 7. Hopkinson 2015 segna tra cruces l’incomprensibile testo tràdito e non traduce. Seguo invece Gallavotti 1993³, che adotta la congettura di Wilamowitz Nýsaia, in riferimento alla nutrice di Deidamìa che, consapevo-

120 le della tresca – a differenza delle sorelle della ragazza –, avrebbe spesso interferito.

Frammenti 1. In Stobeo, 1, 5, 7. Il bellissimo Giacinto, amato da Apollo, fu da questi inavvertitamente ucciso mentre giocavano al lancio del disco. Il mito era stato trattato in età ellenistica da Euforione, frr. 40-43 Powell, e da Nicandro, Theriaká, 901-902; più tardi terrà banco la più corposa versione di Ovidio, Met., 10, 162 ss., prima che anche questa storia confluisca nell’immenso bacino collettore delle Dionisiache di Nonno, 3, 155 ss. Un paio di passaggi in Ovidio, in particolare, suonano vicini al nostro testo: i tentativi del dio di curare la ferita dell’amasio (animam admotis fugientem sustinet herbis: / nil prosunt artes, vv. 188-189) e soprattutto, direi, la sententia divina per cui fatali lege tenemur, v. 203, che si accorda perfettamente con il verso finale del frammento. Secondo Reed 1997, p. 28, era del tutto plausibile che Bione avesse scritto sulla morte di Giacinto un altro “epitafio” simile nello spirito a quello che possediamo su Adone, tanto più che il mito giacinzio è richiamato anche dal misterioso discepolo autore dell’Epitafio di Bione (v. 6), che più tardi introduce tra i partecipanti al lutto lo stesso Apollo (v. 26) – altrettante possibili allusioni alla stesura, da parte del maestro, di un carme sul tema. 2. Si fa notare l’iterazione di chríen, «ungeva», secondo un modulo di tremebonda concitazione che richiama la Stimmung dell’Epitafio di Adone. Apollo cosparge di ambrosia il cadavere di Sarpedone in Il., 16, 680, che forse il verso riecheggia. 3. In Stobeo, 1, 8, 39. Il brano si presenta come una svagata conversazione tra uomini di campagna (cfr. v. 3: «L’estate, quando tutta la nostra fatica dà frutto […]») incentrata sul confronto tra le diverse stagioni, con finale vittoria della primavera. Potrebbe trattarsi di un breve carme completo, nonostante le perplessità di Reed 1997 sulle dimensioni standard di un dialogo bucolico, cfr. p. 138. 4. Il nome non è altrimenti menzionato nella tradizione bucolica. 5. Convengo con Reed 1997, p. 138, sull’opportunità di intendere la serie di genitivi del primo verso come un solo partitivo in serie, equivalente a senso a tón horón («fra le stagioni»). Del resto, il brano è tutto giocato sulla comparazione delle stagioni tra loro, e non tra le diverse prerogative di ciascuna. Diversamente Hopkinson 2015, p. 525: «In spring, winter, autumn and summer […] what is pleasing to you?». Un confronto tra primavera e inverno è al centro di una favola esopica (297 Hausrath-Hunger), mentre Vox 1997, p. 469, nota 2, allega opportunamente epigrammi della Palatina

121 che esaltano la stagione primaverile (9, 363; 10, 1-2, 4-6, 14-6), cui il carme, soprattutto se completo, potrebbe venire accostato con qualche profitto. 6. Sul piacere dell’ozio in inverno è particolarmente notevole, perché di area bucolica e forse non immemore di questo passo, Longo Sofista, Dafni e Cloe, 3, 4, che parla di uno sgravio delle fatiche per contadini e pastori (gheorgói kái noméis… pónon… apellaghménoi), sì che la stagione invernale finisce per gratificarli più delle altre stagioni, primavera inclusa (thérous kái metopórou kái héros autoú glykýteron). 7. Letteralmente: «il tempo libero ci consente di discorrere», laléein gár epétrapen ha scholá ámmin. 8. Una ghnóme di sapore stoico; non la sola incursione, come vedremo, della filosofia in questi frammenti. 9. Il testo tràdito è perfettamente sensato e sembra imprudente emendarlo, benché la congettura di Ameis, adottata da Hopkinson 2015 (ou ló, «non voglio», in luogo di oúlon, «funesto»), sia senz’altro attraente, allineando in elenco anaforico il v. 14 ai due precedenti, tutti e tre sulle stagioni «scartate». 10. In Stobeo, 1, 9, 3. 11. Alla lettera: Móisas Éros kaléoi, Móisai tón Érota phéroien. Assente nell’originale, credo che il chiasmo Eros-Muse/Muse-Eros restituisca al meglio, in italiano, il rilievo e la predicata complementarietà dei termini in gioco. Eros trasforma in poeta anche chi prima sia digiuno di Muse, già secondo Euripide, fr. 663 Kannicht; Platone poi, nel Simposio (196e), fa esporre lo stesso concetto al personaggio di Agatone. Sul rapporto necessario tra amore e poesia, cfr. anche e soprattutto il fr. 9 a seguire. 12. La poesia come farmaco per le pene d’amore guarda soprattutto al Ciclope di Teocrito, vv. 1-4: «Non c’è altro rimedio contro l’amore, / Nicia, né unguento, a me pare, né polvere, / fuor che le Pieridi: rimedio lieve, e dolce, è questo / per i mortali […]» (tr. Palumbo Stracca 1993). 13. In Stobeo, 3, 29, 52. 14. Proibitiva la ricostruzione del contesto. Il motivo è proverbiale fin dal filosofo eleatico Melisso (D.-K. 30 B 8.3), poi lungamente frequentato dalla letteratura greca e latina. Prova a delimitare il campo Reed 1997, p. 147, immaginando la frase come parte degli ammonimenti di un accorto consigliere («wise advisor»), o come l’autoincitamento di un amante deciso a perseverare fino al successo. 15. In Stobeo, 3, 29, 53. 16. La presenza del motivo nel Papiro Viennese Rainer 29801 – Pan si costruisce una zampogna dopo (se l’ordine postulato è corretto) essere stato rimproverato da Sileno di non averne una – suggeriva a Gallavotti la paternità bionea di quel testo, in C. Gallavotti, Il papiro bucolico viennese, cit., pp. 233258. Se è lecito cogliere nella trama dell’Epitafio di Bione dell’anonimo al-

122 lievo del poeta di Smirne una serie più o meno sistematica di allusioni a testi perduti del Nostro (così soprattutto Manakidou 1996, p. 48), allora è verosimile che i vv. 80 e 82, dove si legge, rispettivamente, che il defunto cantava di Pan (Pána émelpe) e costruiva siringhe (sýringas éteuche), si riferiscano a un carme sul tema di cui qui avremmo un estratto, cfr. Reed 1997, p. 149. 17. In Stobeo, 4, 1, 8. 18. Al testo tràdito aéidein / misthón édoken che ancora Hopkinson 2015 assume, pur arrendendosi in nota a quella che giudica una corruttela insanabile (cfr. p. 529), preferisco la stampa di Gallavotti 1993³, che accoglie le congetture di Hermann (aéidon per aéidein al v. 1) e Edmonds (mistodokéi per mistón édoke), tali da restituire, a mio avviso, un senso complessivo migliore e anche più conseguente rispetto al capitolo dell’Antologia di Stobeo che riporta il frammento, intitolato Perí politéias (Sul governo). Con tali premesse e consapevole dell’azzardo, mi sono permesso di tradurre la conclusione del v. 2 connotando più peculiarmente tá prághmata con un significato che il termine assume, invero, soprattutto nella prosa attica (benché sia attestato in Eschilo, Persiani 714), ossia quello, appunto, di “potere (politico)”, aggiungendo il riferimento a un “tu” da identificarsi con un virtuale, potente mecenate. Ne verrebbe che l’onore tributato ai poeti rende a tutti gli effetti kréissona, più forte (aggettivo che a questo punto, nel senso suo proprio, pare assai congruente) il potere del signore – vuoi perché egli, in tal modo, guadagnerebbe consenso dando prova di finezza e di quella liberalità su cui calca l’accento, del resto, anche Teocrito nel suo Encomio di Ierone (Id., 16, vv. 22 ss.); vuoi perché il consenso sarebbe a quel punto orientato anche dalla celebrazione encomiastica da parte del poeta beneficiato. 19. In Stobeo, 4, 16, 14. 20. Il frammento è stato talvolta unito dagli editori moderni (cfr. e.g. Edmonds 1912) al successivo, che in Stobeo segue immediatamente. In realtà i contesti paiono alquanto diversi: quel che non si conosce, qui, è una determinata tecnica, mentre nel fr. 8 è in forse il gradimento dei prodotti della téchne poetica. 21. In Stobeo, 4, 16, 15. 22. Nell’originale: melýdriai. Il diminutivo sarà autodenigratorio, secondo lo spirito del brano, anziché dovuto alla pratica della Musa tenuis bucolica. Se il parlante sia un personaggio più o meno identificabile con l’autore, o l’autore stesso che in prima persona deplora i rovesci della sua attività di poeta cortigiano (cfr. Reed 1997, pp. 12-13), è impossibile stabilirlo. 23. Fa bene Reed 1997, p. 12, a enucleare nel contrasto tra poetare e vivere – vivere nella sua più cinica materialità – il Leitmotiv del frammento. 24. Letteralmente: «minore di ogni cosa», méiona pánton. Si risente in questi versi un’eco di Epicuro, fr. 204 Usener, circa l’impossibilità umana di vivere più di una vita e le dovute attenzioni per non sprecare quell’unica.

123 25. Leggo potí kérdea kái potí téchnas – letteralmente e da traduzione di Vox 1997, p. 473, «negli affari e nelle arti» – con valore di endiadi, dato che non si parla disgiuntamente di opere/arti e di guadagno, ma del tema unico di un’arte intesa alla remunerazione. 26. Reed 1997, p. 13, e particolarmente per i versi finali (cfr. p. 156), connette il bizzarro lacerto alla tradizione diatribica – tutta quella produzione a sfondo etico-polemico, di area cinica, iniziata da Bione di Boristene tra il IV e il III secolo a.C. e che sta alla base dell’invenzione latina della satira. Rispetto al resto dell’opera di Bione, esso appare certo un unicum, per quanto ancora una volta risulti, dal gioco non indebito delle presunte allusioni a opere bionee contenute nell’anonimo Epitafio di Bione, un possibile aggancio a un carme del genere sulla base dei vv. 99 ss.: «Ah, dopo che sono passiti nell’orto la malva / il sedano verde e l’anèto fiorito e crespo / poi vivono ancora e crescono per l’anno nuovo; / ma noi uomini, i grandi, i forti, i sapienti, / una volta periti dormiamo sordi nella terra scavata / un lunghissimo sterminato irreversibile sonno». Naturalmente la difficoltà è insormontabile, incluso stabilire se il brano presente possa essere o no un breve carme completo di tipo epigrammatico, un dubbio che trovo plausibile. 27. In Stobeo, 4, 20, 7. 28. Cfr. sul tema del nesso naturale tra amore e poesia il precedente fr. 3. Ma le Muse non temono Eros anche in un epigramma della Palatina attribuito a Platone, 9, 39. 29. Donéin, “scuotere”, è verbo saffiano, cfr. fr. 130.1 Voigt. 30. Rimanda anche qui a Saffo, se non il verbo, la situazione della balbuzie; e tuttavia è un’allusione rovesciata, perché all’io parlante della famosa «ode della gelosia» (fr. 31 Voigt), la lingua si inceppa se parla all’oggetto del suo amore, qui invece accade se non canta per lui o se fa poesia su temi alternativi all’erotico – il che suonerebbe programmaticamente notevole se la persona loquens coincidesse in qualche modo con l’autore, benché il predominio della tematica erotica nel mondo bucolico sia pressoché scontato. 31. Tradizionale nome bucolico, da Teocrito, Id., 7, in poi (e cfr. l’Epitalamio di Achille e Deidamìa, verosimilmente bioneo, dove è il nome di uno dei due interlocutori). Sarà spia di un contesto pastorale, se si tratta di un estratto da un’opera più vasta; di un riferimento comunque al genere d’elezione dell’autore, o in ogni caso a un genere poetico paradigmatico per la tematica erotica, se il carme è completo. 32. In Stobeo, 4, 20, 26. 33. Il catalogo eurematico degli strumenti musicali, in questo passo, doveva essere presente a Longo, Dafni e Cloe, 3, 23, dove l’educazione musicale di Eco passa, pressappoco, attraverso gli strumenti elencati da Bione e nello stesso ordine. In Nonno, Dion., 41, 372-374, compare un altro elenco simile e con relative divinità inventrici. Il “flauto traverso” di Pan

124 (plaghíaulos) è strumento che non compare tra i canonici della poesia pastorale, se non nello pseudoteocriteo Id., 20, 29; né Pan è altrove ricordato come suo inventore, piuttosto Plinio il Vecchio attribuisce il ritrovato a Mida, in Naturalis Historia, 7, 204. È anche possibile che l’autore si riferisse con plaghíaulos alla più consueta sýrinx, costruita da Pan con le canne palustri in cui si era mutata l’amata ninfa Siringa, cfr. Ovidio, Met., 1, 691 ss. Atena inventò l’aulo, secondo una versione del mito, per riprodurre il lamento delle fauci della Forcide Euriale, cfr. Pindaro, Pitiche, 12, 19 ss. L’invenzione da parte di Hermes della chélys, più nota, avvenne poco dopo la nascita del dio e da un guscio di tartaruga, cfr. l’Inno omerico a Hermes, vv. 17 ss. La kítharis vale, nel citato inno omerico, come sinonimo della chélys stessa e Apollo si limita a riceverla dalle mani di Hermes, che lo vuole così risarcire del furto delle sue mandrie; non ne risulta dunque inventor, benché la cetra compaia poi regolarmente tra i suoi attributi e tra quelli dei suoi protetti, come Orfeo. Della bizzarria secondo cui le storie citate in questo frammento sarebbero argomento di bucolica – genere poi tralasciato, nel finale, per “cosucce d’amore” che quindi andrebbero intese estranee ad esso – parlo nell’Introduzione, pp. 29-30. 34. Reed 1997, p. 163, evidenzia da subito l’arguto ribaltamento del rapporto insegnante-allievo, proprio come nel fr. 13 il cacciatore è destinato a essere preda della sua preda. L’iniziazione poetica in cui consiste il frammento poteva farne, secondo M. Fantuzzi, Bion, fr. 19 Gow, cit., il proemio di un carme più vasto – alla maniera, mutatis mutandis, della Teogonia esiodea. 35. In Stobeo, 4, 20, 27. 36. È la “stella della sera”, per noi il pianeta Venere e già in antico in connessione con Afrodite, cfr. e.g. Pseudo-Platone, Epinomide, 987b. 37. Cfr. Mosco, Europa, v. 71 e nota. 38. Alla lettera «che guido un kómos», espressione qui senz’altro equivalente al komásdo di Teocrito, Id., 3, 1, in cui il capraio protagonista dichiara di accingersi a far la serenata alla sua bella Amarillide. Da scartare, come ben vede Reed 1997, p. 174, l’ipotesi di un kómos inteso come corteo di giovani gaudenti freschi di simposio, visto che qui «our speaker seems to be alone». 39. La chiusa epigrammatica potrebbe far pensare a un breve testo completo. Reed 1997, p. 170, pensa all’estratto di un carme che poteva comprendere un paraklausíthyron, un «lamento presso la porta» dell’amante, che è situazione ampiamente sfruttata nella poesia ellenistica e che già Teocrito delineava, da par suo, nel Comaste (Id., 3). 40. In Stobeo, 4, 20, 28. 41. Apparente ribaltamento della ghnóme teocritea di Id., 13, 66, schétlioi hoi philéontes, «sventurati gli amanti».

125 42. Teseo discese agli inferi con Piritoo per rapire Persefone. Cfr., tra i vari, Apollonio Rodio, Arg., 1, 101-103; Pseudo-Apollodoro, Bibl., 2, 5, 12. 43. Oreste e Pilade andarono a rubare una statua di Artemide nel Chersoneso Taurico sul Mar Nero, terra inospitale per antonomasia. Wilamowitz 1905, per primo, stampa Axénoisi con la maiuscola. La vicenda in questione è al centro dell’Ifigenia in Tauride di Euripide. 44. Completa il catalogo di note amicizie del mito, intese qui come altrettanti legami omoerotici, probabilmente la più nota, quella di Achille («l’Eacide», cioè nipote di Eaco) e Patroclo, la cui interpretazione in chiave omosessuale era ben radicata già in età classica, cfr. e.g. D.M. Halperin, One Hundred Years of Homosexuality, Routledge, New York-London 1990, pp. 85-87. Le tre coppie menzionate si trovano assieme anche in Senofonte, Simposio, 8, 31, e in più luoghi nell’opera di Ovidio, cfr. Epistulae ex Ponto, 2, 3, 41-45, e Tristia, 1, 9, 27-34; per Achille e Patroclo cfr. inoltre Ars Amandi, 1, 743-746. Secondo Reed 1997, p. 176, la serie di exempla mitici poteva essere funzionale, in un carme di proporzioni più vaste, a lamentare il caso di un amore viceversa non corrisposto, come è il caso di Teocrito, Id., 3, 40 ss. 45. In Stobeo, 4, 20, 57. 46. Propriamente un cacciatore di uccelli o uccellatore, che prepara trappole con il vischio (ixós, da cui ixeutás). Il racconto in terza persona distingue il frammento dagli altri e concorre, secondo Reed 1997, p. 11, a far pensare a un carme completo – l’unico, secondo lo studioso (qui seguito da Hopkinson 1988, p. 215, e 2015, p. XI, nota 6, e p. 533, nota 2), per il quale sembra lecita una simile ipotesi. Il carattere di narrazione autosufficiente e la pointe finale, tuttavia, non mi sembrano tratti esclusivi di questo componimento. 47. Conservo la lezione dei codici apótropon, «che sta separato, in disparte», contro l’emendamento di Briggs hypópteron, «alato», adottato da Gallavotti 1993³, da Reed 1997 e anche da Hopkinson 2015: che si tratti di figura alata sarebbe, in contesto, una nota superflua – al v. 2 si dice che Eros è avvistato dal ragazzo mentre è a caccia di uccelli, e al v. 4 della fortuna di imbattersi, appunto, in un così méga órneon –, né la presenza dell’articolo prima dell’aggettivo (così da implicare il senso di «il famoso […]», secondo Hopkinson 1988, p. 216) mi pare una ragione sufficiente per rinunciare al testo tràdito: si potrebbe se mai intendere «vide Eros in persona che stava da parte», senza che la sfumatura sia peraltro necessaria alla traduzione. 48. Eros-uccello è in Teocrito, Id., 15, 120-122 (qui in pluralità di Amorini, assimilati a usignoli) e soprattutto nell’Eros fuggitivo di Mosco, v. 16. 49. La tecnica dell’uccellatore consisteva nel legare uno all’altro dei kálamoi con il vischio, sino a avvicinare l’uccello e lasciare che si attaccas-

126 se all’estremità. Cfr. e.g. A.J. Butler, Sport in Classic Times, Benn, London 1930, pp. 184-191. 50. Lett. «che nessun successo gli si presentasse». 51. Si tratta, con Hopkinson 1988, p. 215, di una tipica figura di «maestro d’amore», il cui archetipo risiederà nella sublime Diotima del Simposio platonico, per poi felicemente incarnarsi, più tardi, in un personaggio non a caso pertinente alla tradizione pastorale come il Fileta di Longo, Dafni e Cloe, 2, 3-7. 52. Ineludibile, per questi ultimi versi, il modello dell’Eros fuggitivo di Mosco, nella cui rappresentazione del dio sta tutta la kakótes che gli addebita il vecchio; ma soprattutto vi risale l’immagine del furfante alato che inopinatamente si posa sulle sue vittime, una dopo l’altra (v. 16: ephíptatai állon ep’állo), ragion per cui l’uccellatore, qui, finirà uccellato – proprio come il velleitario maestro del fr. 10 finisce per andare a scuola dal presunto allievo. Hopkinson 1988, p. 216, ricorda che è uno standard epigrammatico che sia Eros a uccellare le sue vittime (cfr. e.g. Meleagro, Anth. Pal., 12, 132), cosicché avremmo, nel nostro testo, una «ingenious inversion of this idea», non fosse che il finale riassegna al dio le consuete funzioni. 53. In Stobeo, 4, 20, 58. 54. Naturalmente Afrodite, approdata a Cipro dopo essere emersa dalla schiuma marina, secondo Esiodo Theog., 188 ss., e dunque «figlia del mare»; di Zeus secondo Omero, cfr. e.g. Il., 5, 312. 55. Tutto il frammento risente in maniera palmare dell’Eros fuggitivo di Mosco, a partire dall’aggettivo hámere rivolto a Afrodite, al v. 1, che a titolo di captatio benevolentiae, come a distinguerla dal figlio pestifero, si oppone all’anámeros che in Mosco v. 10 designa il piccolo Eros. Quando al v. 3 la voce parlante denuncia lo status di vittima della dea stessa – quasi generare quel figlio fosse stato un gesto masochista –, deve sovvenire, tra l’altro, anche Eros fug. 21; ma cfr. soprattutto il v. 5, sulla doppiezza del giovane dio, vd. Eros fug., 9-10 e 15 – e inoltre, ancora in 5, la definizione bionea di ágrion, vd. Eros fug., 11: ágria páisdon, e 22: pánta ágria; il v. 6, infine, su Eros infallibile arciere alato, compendia Eros fug., vv. 16 ss. 56. Più letteralmente: «così che non possiamo evitarlo, crudele com’è». Rifacendomi al valore concreto di pikrós, “acuto”, “pungente”, non di rado riferito proprio alle frecce (sin da Omero, cfr. e.g. Od., 22, 8; ma cfr. ancora Mosco, Eros fug., 21: tói pikrói kálamoi), traduco insistendo sull’allegoria dell’arciere, come da v. precedente – assecondando forse un deliberato calembour dell’autore. 57. In Stobeo, 4, 21, 3. 58. Irrecuperabile il contesto. Reed 1997, p. 189, pensa a una Priamel, ossia a una rassegna di situazioni esemplari cui contrapporre il caso specifico del parlante, come spesso nella bucolica, da Teocrito (e.g. Id., 10, 30-1; ma

127 cfr. anche lo spurio Id., 8, 57-59 e passim) a Virgilio (Ecl., 2, 63-65, ecc.): nella fattispecie, una serie di prerogative e valori “belli”, perché pertinenti alle varie categorie, cui sarebbe seguita la dichiarazione di ciò che è o sarebbe bello secondo la persona loquens. L’antica congettura di G.R. Holland, De Polyphemo et Galatea, Typis J.B. Hisrschfeldi, Lipsiae 1884, p. 251, per cui il verso sarebbe appartenuto al carme perduto di Bione sul ciclope innamorato – parte cioè del discorso con cui Polifemo avrebbe tentato di persuadere Galatea ad amarlo, ricordandole, appunto, che un bell’aspetto non è necessario a un maschio – è seducente ma avventurosa. 59. In Stobeo, 4, 46, 17. 60. Letteralmente un’endiadi, «alla sabbia e alla riva» (potí psámathón te kái aióna). Sulla riva marina come setting per il canto amoroso del Ciclope, cfr. l’Epitalamio di Achille e Deidamìa, v. 3, e naturalmente l’archetipo di Teocrito, Id., 11, 14. 61. Nell’Epitafio di Bione i vv. 58-63 mettono in scena il lutto di Galatea per la morte del suo cantore, a lei ben più caro dell’infelice Ciclope – secondo quella tendenza, già plausibilmente in atto in Bione stesso, a trasferire la personalità del poeta bucolico entro il suo stesso mondo fantastico (cfr. Introduzione, pp. 29 e 39). La concreta evenienza che l’ipermanieristico carme in morte di Bione contenga tutta una serie di riferimenti, più o meno cifrati, all’opera perduta del Nostro, giustifica dunque l’ipotesi di un carme bioneo su Polifemo e Galatea – ipotesi suffragata dal richiamo alla vicenda nei vv. 2-3 dell’Epitalamio di Achille e Deidamìa –, e che il presente frammento ne facesse parte. Reed 1997, p. 10, si spinge a ipotizzare che allo stesso carme potessero appartenere i frr. 4, 14 (quest’ultimo sulla scorta di S.T. Schmitz, Adnotationes ad Bionis et Moschi carmina, ex typographia E.C. Brunn, Monasterii 1856, p. 39), 17 e soprattutto 3, dove ritorna il tópos già teocriteo (in relazione appunto alla vicenda del Ciclope, Id., 11, 1 ss.) del canto come medicina per l’amore infelice. La questione, ovviamente, non è resolubile. 62. Il frammento è conservato nella raccolta di sentenze del grammatico del V sec. d.C. Orione di Tebe (Antolognomicon, 5, 20). Fu accluso per la prima volta al corpus bioneo da G. Hermann (Bionis et Moschi carmina, apud Weidmannos, Lipsiae 1849). 63. Il pezzo ha un «philosophical pedigree», come giustamente rilevato da Reed 1997, p. 192, che lo avvicina, più che alle istanze diatribiche del fr. 8, alla pur cursoria riflessione teologica del fr. 2, vv. 9-10. Sorprendente l’affinità di contenuto con il distico attribuito al mitico cantore Lino riportato nella Vita di Pitagora del neoplatonico Giamblico (139): élpesthai chré pánt’, epéi ouk ést’oudén áelpton· rhádia pánta theó telésai kái anényton oudén («bisogna sperare tutto, perché niente è insperabile; grazie al dio si può compiere tutto con facilità, e niente è impossibile»).

128 ANONIMI

Epitafio di Bione 1. Sta per “siciliane”, ossia di antonomastica pertinenza alla bucolica e ai suoi cantori, come poi nel virgiliano Sicelides Musae di Ecl., 4, 1; vd. Introduzione, pp. 23 e 30. 2. Il graptá yákinthos, il «giacinto iscritto», è in Teocrito, Id., 10, 28, e si riferisce alla credenza che i segni sulla corolla del fiore indicassero, o le lettere iniziali del nome di Aiace (miseramente uccisosi dopo un accesso di pazzia, cfr. l’Aiace di Sofocle) o dell’interiezione di lamento aiái – in entrambi i casi espressione di un lutto che ben si addiceva alla fine del ragazzo amato da Apollo, poi metamorfizzato in fiore. Sulla vicenda di Giacinto, cfr. il fr. 1 di Bione e p. 120, nota 1. 3. Il refrain è chiaramente modellato su Teocrito, Id., 1, 70 e passim: Árchete boukolikás Móisai phílai árchete aoidás, «Date inizio, care Muse, date inizio al canto bucolico». E del resto le Muse del genere sono siciliane proprio perché era siciliano il suo fondatore, cfr. anche Di Nino 2009, pp. 87-88. 4. Su Aretusa, cfr. Mosco, fr. 3 e p. 114, nota 9. Sulla pregnanza del riferimento nel nostro carme, cfr. Di Nino 2009, pp. 89 ss. 5. La definizione assorbe il poeta bucolico nel suo stesso mondo fantastico, il che forse, come più volte si è detto, era un vezzo già in Bione – se, e.g., è riconducibile a lui la voce parlante nel fr. 10, cfr. Introduzione, p. 29; e si cfr. l’allocuzione ò boùta, con variatio lessicale, al v. 65, nonché, al v. 20, «l’amato delle mandrie». Sulla funzione (auto)rappresentativa in senso poetologico del nesso, cfr. Di Nino 2009, pp. 88-89. 6. Fiume tracio, oggi Struma. La Tracia era patria di Orfeo. 7. Hopkinson 2015 stampa il verso 16 tra cruces, pure adottando la congettura di Wilamowitz ghéras, “vecchiaia”, cioè quella prossimità alla morte che, come da Fedone platonico (84e-85a), ispira ai cigni i loro canti più belli. Ma è una soluzione che forse non occorre. Si può infatti, io credo, mantenere la lezione dei codici ascrivendo la “voce” di 16 ai cigni stessi, senza che la ridondanza dell’espressione, nel nostro poeta, debba più di tanto sorprendere. Il «saper cantare» della mia resa vuol proprio riferirsi alla consuetudine di cantare soavemente in circostanze di lutto, come da v. precedente. 8. Dio fluviale, considerato nella tradizione re di Tracia e padre di Orfeo. 9. I Bìstoni sono una popolazione della Tracia frequentemente citata nella poesia ellenistica, cfr. Fanocle, fr. 1.7, Apollonio Rodio, Arg., 1, 34, Anth. Pal., 7, 10. 10. Ricalcato sul bioneo apóleto kalós Ádonis (Epit. Ad., 1), di cui rileva struttura metrica e ordine delle parole. In virtù dei chiari rimandi del testo all’Epitafio di Adone di Bione – che, non va dimenticato, impronta idealmente di sé l’intero carme dell’epigono –, Reed 1997, p. 26 ss., ritiene di

129 poter cogliere ulteriori accenni a carmi bionei in più luoghi del poemetto; i vv. 17-18 alluderebbero, nello specifico – assieme a 116 ss. – a un carme perduto su Orfeo e Euridice, una traccia cui si era affidato, molto tempo addietro, anche F. Skutsch, Aus Vergil Frühzeit, Teubner, Leipzig 1901, pp. 59-60. Secondo Palumbo Stracca 2010, pp. 122 ss., del resto, la figura di Orfeo «sembra comparire in filigrana per tutto il componimento», anche se «l’operazione di sovrapposizione tra le due figure è esplicita solo al v. 18». 11. Ossia un canto di morte. Il Lete era il noto fiume infernale la cui acqua induceva oblio in chi la bevesse. 12. Priapo era dio della fertilità, dall’aspetto grottescamente itifallico; qui, come nel caso di altre divinità (vd. i Pani, al v. seguente), moltiplicato in più figure con funzione esornativa. Il fatto che i Priapi vestano a lutto (anzi: che siano vestiti tout court) è un’inedita stravaganza sottolineata anche da Hopkinson 2015, p. 471, nota 6. 13. Ninfe delle fonti (krénai). 14. Sulla presenza di Eco in contesti bucolici, cfr. Mosco, fr. 2, 1 e nota. 15. Cioè la dolcezza nel canto. Il passaggio, pur lambiccato, è assai suggestivo. 16. Comincia una rassegna di personaggi del mito metamorfizzati in uccelli a seguito di vicende dolorose. Le note Sirene marine di Odisseo (qui bizzarramente al singolare) erano anche, in più tarde versioni, figure legate a Persefone e al suo rapimento, nonché alle anime dei morti e al loro trapasso. Si legge in Ovidio che divennero uccelli proprio perché affrante della scomparsa di Persefone (Met., 5, 551 ss.), oppure, secondo Igino (Favole, 141) perché Demetra le volle in tal modo punire di non aver vegliato sulla figlia. 17. È nota la vicenda metamorfica di Procne e Filomela (cfr. Sofocle, frr. 581-595b Radt; Ovidio, Met., 6, 424 ss.; Pseudo-Apollodoro, Bibl., 3, 14, 8), le sorelle trasformate la prima in usignolo (aedón) e la seconda in rondine (chelidón; ma le parti si trovano anche invertite), dopo che Tereo, marito di Procne, violentò la cognata e le due donne, per vendetta, gli imbandirono le carni del figlio Iti. 18. Gli sposi Ceice e Alcione furono trasformati entrambi in uccelli marini dopo la morte del primo e il tentativo di suicidio della seconda (cfr. Ovidio, Met., 11, 410 ss.; ma il mito è ricordato anche da Diodoro Siculo, Bibl., 4, 62, 1, e Pseudo-Apollodoro, Bibl., 1, 52 – secondo il quale, tuttavia, la loro trasformazione si dovette alla hýbris di aver assunto per sé i nomi della coppia divina Zeus e Era). 19. Il personaggio non è altrove menzionato. 20. Dalle ceneri di Memnone figlio di Eo, principe etiope ucciso da Achille – evento al centro del poema ciclico Etiopide –, nacquero uccelli che ogni anno tornavano a piangere sulla sua tomba, cfr. Ovidio, Met., 13, 500 ss.; Strabone, Geografia, 13, 1, 11.

130 21. Alla lettera: «Voi soffrite a lutto? Ma anche noi» (lypéisth’ hai penthá­ des; allá kái ámmes). Il passo è testualmente problematico, cfr. Palumbo Stracca 2010, pp. 126 ss. 22. Hopkinson 2015 traduce, più concretamente, mélisma con «pipe», «zampogna»; si è già visto tuttavia come in questi contesti suonare possa equivalere a cantare – ovvero: «suonare la zampogna» sia talvolta espressione metonimica per “intonare un canto bucolico”, cfr. l’Epitalamio di Achille e Deidamìa, v. 4 e p. 119, nota 3. 23. Cfr. Virgilio, Ecl., 4, 58-59: Pan etiam, Arcadia mecum si iudice certet, / Pan etiam Arcadia dicat se iudice victum, «Anche Pan, se gareggiasse con me e fosse l’Arcadia giudice, anche Pan, giudice l’Arcadia, si dichiarerebbe vinto» (tr. mia). 24. Inevitabilmente il brano è stato connesso dalla critica al fr. 16 di Bione, che ha per tema senz’altro l’amore infelice di Polifemo per la bella Nereide (peraltro vi compare al v. 2, come qui a 62, il termine psámathos): cfr. e.g. Reed 1997, p. 10 e passim. Manakidou 1996, p. 48, trovava addirittura lecito, sulla base di questo passaggio, dedurre una sistematica rete di allusioni, nel carme, all’opera di Bione; secondo Palumbo Stracca 2010, pp. 131-132, tuttavia, il più ovvio referente per questi versi, con cui giocare secondo una oppositio in imitando, è ancora Teocrito, Id., 11: qui risulta infatti che il defunto Bione (trasferito nel mondo della sua poesia, stavolta come una sorta di Ciclope ad honorem) abbia precisamente ottenuto quello per cui il Polifemo teocriteo si struggeva (vv. 63 ss.), ossia che Galatea rinunci al mare per abbracciare la vita dei pastori. Aggiungo che non è affatto da sottovalutare il riferimento al carme su Polifemo del misterioso Licida cui accenna l’altro interlocutore, Mirsone, al v. 2 dell’Epitalamio di Achille e Deidamìa; anzi, è forse utile per corroborare l’attribuzione del pezzo a Bione, cfr. le mie considerazioni a p. 99, nota 74. 25. Philéei… pléon é tó phílema… tó phílesen è figura etimologica di più crassa ridondanza rispetto all’insistenza sul motivo del bacio ai vv. di Bione, Epit. Ad. che indubbiamente sono qui chiamati in causa (13-14 e soprattutto 45-6); ed è un chiaro riferimento al capolavoro del maestro anche la menzione degli Eroti a lutto, che vi costituiscono una presenza assidua sin dal ritornello (v. 2, epaiázousin Érotes). Anche più notevole il fatto che qui, come nel riferimento alla vicenda di Polifemo e Galatea, Bione defunto venga come assorbito nel mito da lui stesso trattato: novello Adone, riceve infatti da Afrodite e dagli Amori, in analogo contesto funebre, le stesse e anzi maggiori attenzioni che il suo personaggio. 26. Il fiume Melete presso Smirne, patria di Bione e grande indiziata, in antico, per aver dato i natali a Omero, secondo una certa tradizione era padre del poeta dell’Iliade, cfr. l’Agone fra Omero e Esiodo, 2 West.

131 27. Calliope è Musa dell’epica ma anche, a partire almeno dall’età ellenistica, della poesia lirica. Sovviene il «dolce di Calliope labbro» de I sepolcri foscoliani (v. 176: la perifrasi indicava Petrarca): notevole che la memoria letteraria di Foscolo comprendesse e valorizzasse a tal punto il nostro carme da replicarne fedelmente una tessera nel suo testo forse maggiore. 28. Letteralmente: “amati da”, pephileménoi. 29. È naturalmente la fonte Ippocrene sul monte Elicona, scaturita da un calcio di Pegaso, cfr. Ovidio, Met., 5, 256 ss. 30. Vd. supra, nota 4. 31. Si tratta, ovviamente, di Elena (figlia di Tindaro) e Achille (figlio di Tetide). 32. Sul confronto tra Omero e Bione, come dire tra epica e bucolica, vd. Introduzione, p. 32. Quanto ai vv. 82-84, vari i probabili agganci con alcuni frammenti bionei: la fabbricazione di siringhe di cui al v. 82 è anche evocata dalla persona loquens nel fr. 5 (vd.); l’allevamento di Eros in 83-84 può essere un rimando generico alla tematica erotica, ma anche alludere al fr. 10 (vd.) e all’apprendistato del piccolo dio presso il poeta-pastore; l’irritazione, infine, arrecata a Afrodite in 84, infine, può richiamare il fr. 14, nel quale la voce parlante rimprovera la dea di aver generato la piaga di Eros (vd.). S’intende che non è affatto necessario che tale voce, nei frammenti in esame, coincida con quella dell’autore – benché la questione credo rimanga aperta; si è constatato che è comunque abitudine del nostro anonimo proiettare la figura del defunto entro il suo stesso mondo poiematico. 33. Così traduco il nesso sinonimico pólis… kái ástea pánta; non del tutto fuori luogo, peraltro, riferirsi genericamente a “contrada” per la patria di Bione, dal momento che questi nacque a Flossa e non propriamente in Smirne-città. 34. Il catalogo di località addolorate per la morte di Bione più di quanto non lo fossero state per la perdita dei loro celebri poeti (e qui si precisa che al v. 90 l’aoidón lamentato da Teo è Anacreonte, il solo “criptato” tra i poeti in elenco), si chiude con una variatio repentina e inassimilabile al contesto: i manoscritti danno infatti, al v. 93 (e qui si mantiene, con Hopkinson 2015), en dé Syrakosíoisi Theókritos, «tra i Siracusani Teocrito». «Sull’esistenza della lacuna […] mi pare vi siano ben pochi dubbi»: così Palumbo Stracca 2010, p. 134, e così presume anche Hopkinson 2015, p. 477, nota 23, cui mi allineo. Nell’edizione di Calliergis del 1516, basata su una copia di Marco Musuro, comparivano in effetti tra i vv. 92 e 93 sei versi aggiuntivi che qui riporto nella traduzione di Vox 1997, p. 435, nota 26: «Tutti i poeti bucolici che hanno bocca sonora, / grazie alle Muse, compiangono il tuo fato di morte: / piange Sicelida, gloria di Samo, e fra i Cidòni / lui, prima con sguardo sorridente, allegro d’aspetto, / Licida, ora piangendo versa lacrime e fra i cittadini / Triopidi presso il fiume Alente si duole Fileta». L’onomastica del

132 brano è attinta pressoché integralmente dalle Talisie di Teocrito, con una grossolanità che tuttavia disdice anche al nostro autore, e l’ipotesi più probabile è che si tratti di una interpolazione dello stesso Musuro per ovviare alla difficoltà del passaggio (cfr. Gallavotti 1968, pp. 67 ss., e le considerazioni di Palumbo Stracca 2010, pp. 134 s.). La questione rimane aperta. 35. “Ausonio” e non “siciliano”: più del convenzionale riferimento alla patria della bucolica, il «dolore ausonio» potrebbe riferirsi all’origine italica dell’autore del carme (cfr. Palumbo Stracca 2010, p. 135), nonché costituire una possibile prova di un soggiorno bioneo nel meridione della nostra penisola, dove il poeta avrebbe esercitato il suo magistero, cfr. supra, p. 96, nota 56. 36. I versi 93-97 (con la movenza iniziale autár egó che rappresenta, secondo Di Nino 2009, p. 97, una sorta di sphraghís, di firma, dell’autore del poemetto) trasmettono le sole informazioni nel testo direttamente utilizzabili in chiave biografica. Il poeta rivela forse di sé, lo si è visto, la patria «ausonia»; e certamente la lettera è chiara su un suo rapporto di discepolato con il defunto, e il privilegio di aver ottenuto da questi l’eredità del canto, anziché il materiale lascito dell’ólbos, la «ricchezza» destinata invece agli altri mathetái in quanto, s’intende, «eredi imperfetti» (ibidem). Difficile anche solo provare a definire l’entità di questo ólbos, un bene o un complesso di beni per il quale si fosse disposti persino a uccidere, se la morte di Bione – di cui si va a parlare tra breve – è stata voluta da altri e non dal poeta medesimo, e quando non si sia trattato di esacerbate rivalità legate alla poesia, su cui cfr. Palumbo Stracca 2010, pp. 139-140. 37. Difficilmente contestabile il rapporto di questi versi con il celeberrimo Catullo, 5, 5-6, «nobis cum semel occidit brevis lux, / nox est perpetua una dormienda». E tuttavia la constatazione dell’anonimo segue il notevole passaggio sulla pretesa eccellenza del genere umano («noi uomini, i grandi, i forti, i sapienti…»), che la condizione mortale implacabilmente disattende; qualcosa che rimanda alle amare considerazioni del “diatribico” fr. 8 di Bione (cfr. in particolare i vv. 8-9 e 13-14). 38. Ha più senso il tóis dei codici, in riferimento plurale alle rane (il singolare di 104 può essere pur sempre metonimico), del táis congetturato da Meinecke e accettato da Hopkinson 2015, che dovrebbe riguardare le Ninfe (e che però Hopkinson, saggiamente, non traduce). Qui seguo la lezione di Calliergis tó (dativo), adottata da Gallavotti 19933 e da Palumbo Stracca 2010, evidentemente, nella sua traduzione a p. 146. Quanto alla rana, potrebbe ben trattarsi di una metafora per designare un cattivo poeta, magari sulla scorta di Teocrito, Id., 7, 41, dove il personaggio di Simichida ammetteva umilmente di sentirsi, in confronto a Sicelida di Samo e a Filita, come una rana paragonata ai grilli.

133 39. Un ramo della tradizione manoscritta riporta il verbo éides, “vedesti” = “conoscesti”, “facesti prova”; un’altra édes, contrazione di áedes, “spiacevole”, o imperfetto di édo, “mangiare”, come pare intendere Hopkinson 2015, p. 479 («you ate poison»). La lezione éides, accolta da Gallavotti 19933, mi sembra preferibile per l’ulteriore penombra in cui lascia l’evento – troppo grevemente esplicito, a mio parere, il riferimento al cibo. Siamo al passo cruciale in cui l’anonimo ci ragguaglia sulla morte violenta del maestro, dovuta a un misterioso phármakon (misterioso è il veleno e misterioso è l’autore dell’omicidio, nonché il suo movente, e questo valga anche per l’ipotesi di suicidio), benché l’interrogativa, certo interpretabile come retorica espressione di stupore per qualcosa che è successo, non possa che stendere un velo sulla realtà dei fatti. Secondo Manakidou 1996 bisogna pensare al veleno in senso figurato: sarebbe stato un amore infelice – ovvero un tópos bucolico – a provocare la morte di Bione. D’altra parte, la menzione dell’ólbos di Bione al v. 97 – che suona potentemente concreta, specie se vi si oppone l’orgogliosa eredità ideale del canto, cioè della poesia – sembra una spia di realia cui si può ben ascrivere anche l’evento in questione, tanto più che poco dopo (v. 114) si invoca un intervento di Giustizia con piglio solonico e in modo quasi urtante, rispetto al compattissimo setting letterario-­bucolico del carme. Alla fine converrà come al solito sospendere il giudizio, ribadendo, tuttavia, come la bucolica, per quei tratti essenziali che si lasciano enucleare dalle sue pur disparate incarnazioni, non esclude per nulla dal suo perimetro né il dolore né la morte, che anzi è regolare ingrediente del canto. Canto e veleno, appunto, come si è voluto intitolare il libro presente. 40. Mi baso, in traduzione, sul testo ricostruito da Gallavotti 1968 e seguito da Palumbo Stracca 2010, dove i vv. 111-112 risultano: tís dé brotós tossoúton anámeros hos kerásai toi / é doúnai laléonti; tó phármakon ou phýghen odán, contro Hopkinson 2015, che segue a sua volta Gow 1952 e stampa così il v. 112: … é doúnai kaléonti tó phármakon; é phýghen odán. La lettura di Gallavotti mi pare assai più conveniente e anche più perspicua: si riprende così il motivo della naturale incompatibilità tra il veleno e la dolcezza del canto bioneo già trattato in 110, dove si trovava sorprendente che il phármakon, incontrando tali labbra, non si fosse addolcito; e quindi lo si rilancia in 112, in una modalità ben confacente alle caratteristiche di stile dell’autore, al termine della serie di interrogative retorico-encomiastiche. È notevole la questione del participio al dativo accordato al toi di 111, cioè a Bione. I codici danno, quali kaléonti, quali laléonti, e si capisce che la differenza è capitale: nel primo caso, Bione avrebbe chiesto (kaléo) il veleno e si sarebbe dunque suicidato, nel secondo gli sarebbe stato propinato surrettiziamente mentre cantava (laléonti). Ora, credo che soprattutto l’invocazione alla Giustizia del v. 114 debba far pensare piuttosto a un omicidio che a un suicidio; e così far

134 preferire laléonti a kaléonti. Nella mia versione, per non riferirmi due volte al canto, traduco laléonti con «alla tua musica». 41. Ghnóme di sapore arcaico: cfr. Solone, fr. 4.16 West. 42. Rassegna di note catabasi: quella di Orfeo, per recuperare Euridice; quella di Odisseo, nel famoso episodio odissiaco della Nékyia (libro 11); quella di Eracle, infine, sceso all’Ade per catturare il cane Cerbero. 43. Tale il canto, con lo stesso aggettivo hadý, che Mirsone richiede a Licida nel bioneo Epitalamio di Achille e Deidamìa, v. 1. 44. Sulla Sicilia come tradizionale teatro del rapimento di Persefone/ Proserpina a opera di Ade/Plutone, vd. e.g. Cicerone, Verrine, 4, 106 ss. 45. Sulla base di questi versi, combinati al richiamo al mito orfico in 1718 – e della probabile prassi dell’autore del carme di disseminare il suo testo di riferimenti a carmi di Bione che non si sono conservati – Reed 1997, con altri, pensa a un carme bioneo che, tra l’altro, avrebbe incluso una performance orfica alla presenza di Persefone. Palumbo Stracca 2010 riguarda il brano come la dimostrazione di una strutturale e poetologicamente significativa equiparazione, nell’Epitafio, di Bione a Orfeo, qui «divenuta ormai esplicita: come Orfeo, un tempo, sceso nell’Ade, in virtù della sua musica melodiosa riebbe l’amata Euridice, anche Bione, non meno valente del mitico cantore, se eseguirà i suoi canti bucolici al cospetto della “siciliana” Persefone, otterrà certamente di poter ritornare nel mondo dei vivi» (p. 139). Credo, a dire il vero, che più che dinanzi all’“orfizzazione” di Bione siamo qui di fronte alla “bucolizzazione” di Orfeo, o meglio: a un ulteriore tassello di un quadro tutto fondato sull’eccellenza e la pervasività del modello bucolico, per nulla inferiore, come qui si dice, all’epico-omerico.

Megara 1. Espressione proverbiale per paradossi: cfr. Luciano, Dialoghi dei morti, 8. L’“uomo da nulla” è Euristeo, re di Tirinto che sottopone Eracle alle dodici fatiche in espiazione della strage familiare compiuta dall’eroe in preda alla pazzia, che è la vicenda qui presupposta e già al centro della tragedia Eracle di Euripide – dove tuttavia l’accesso di follia era posteriore all’adempimento delle fatiche, e vi restava uccisa la stessa Megara. Il tema era già nei Canti Cipri (Poetae Epici Graeci, cit., p. 40.29) e tornava in Stesicoro (fr. 230 Page) e Paniassi (fr. 1 Bernabé), fino al repertorio dello PseudoApollodoro (Bibl., 4, 31, 1) e a Diodoro Siculo (Bibl., 4, 101, 11); in questi ultimi, come nel nostro carme, la servitù presso Euristeo seguiva alla strage. 2. Si riserva a Eracle – che è figura tutt’altro che irreprensibile nelle stesse premesse del poemetto – l’epiteto omerico amýmon (cfr. e.g. Odissea, 1, 29). Hopkinson 2015, p. 483, rimarca giustamente il diffuso «epicstyle» interno al carme.

135 3. Chere ed Erinni – dee della morte e del fato le prime, della colpa e della vendetta le seconde –, finiscono per assimilarsi, a partire dall’età classica, nella generica rappresentazione di spiriti maligni. Nell’Iliade e nell’Odissea le Chere, molto presenti, oscillano tra riferirsi al destino di morte o al destino tout court – sono le Chere di Achille e di Ettore, e.g., a venire pesate sulla bilancia di Zeus in Il., 22, 210-211. 4. La similitudine è chiaramente ripresa da Il., 2, 308 ss., là dove si parla del «gran segno» (méga séma) occorso agli Achei in Aulide per volere di Zeus – un grosso serpente che divora passerotti e infine la madre, indizio della durata decennale della guerra troiana. Qui però la madre è sopravvissuta, e lamenta tra poco di non essere morta coi figli. 5. Vox 1997, p. 443, traduce katá pollón come locuzione avverbiale, «a lungo»; Hopkinson 2015 glissa su pollón. Per mio conto lo preferisco aggettivo di dómon, così sostituendo all’idea di una lunga ricerca l’immagine della donna come smarrita, nella propria impotenza, nella stessa vastità del palazzo. 6. Era comune credenza che la morte improvvisa e indolore fosse causata dalle frecce di Artemide (cfr. e.g. Od., 5, 123-124), soprattutto di donne (Il., 21, 483-484, ecc.). Ma qui le invocate frecce della dea sono le stesse con le quali Eracle pazzo ha ucciso i figli di Megara, e quindi sono prive di qualsiasi dolcezza eutanasica (per di più avvelenate: non risulta altrove che in questa vicenda lo fossero, cfr. le perplessità di Hopkinson 2015, p. 487, nota 4). 7. Come dire tebana, forse più che genericamente beota (cfr. Strabone, Geog., 9, 2, 31). Padre di Megara era Creonte, re di Tebe. 8. A Tirinto sorgeva un noto santuario di Era. 9. Le celebri fatiche erculee sono ricordate in più luoghi della letteratura antica, sebbene in ordine, e anche in numero, spesso divergente; cfr. e.g. Sofocle, Trachinie, 1091 ss.; Euripide, Eracle, 359 ss. e 1270 ss.; Seneca, Hercules furens, 205-248; Quinto Smirneo, Posthomerica, 6, 208 ss. È forse un problema di scarso rilievo, se la locuzione temporale páuron chrónon di 41 si riferisca a un’assenza intermittente di Eracle e già in atto, oppure alla partenza che avverrà di lì a poco; certo Hopkinson 2015, p. 487, traduce: «It is rarely that I set eyes on my husband at home; he is often called away to perform the Labors […]», contro, e.g., la versione di Vox 1997, p. 443: «Mio marito posso vedermelo per poco tempo […] perché lo attende l’impresa di molte fatiche […]». Più probabile, credo, la seconda lettura, nel rispetto della tradizione – che non racconta di parziali ritorni a casa dell’eroe – e soprattutto dell’espressione complessiva dei vv. 42-43 poléon… érgon…/ móchthon, «impresa di molti travagli», da cui si evince che le fatiche, nel loro insieme, sono da compiersi. Fa specie il presente mochthízei, in relazione a qualcosa che dunque già starebbe svolgendosi; e tuttavia il poeta del carme sarà stato più interessato alla figura etimologica in anafora di 43-44,

136 móchthon…/mochthízei (che certo sottolinea, nella mente esacerbata della donna, la cogenza di tutto quel penare), e alla funzione attualizzante che proprio il presente potrebbe assolvere, come di qualcosa che deve avvenire ma già lo si sente, in tutto il suo peso. 10. Nel paragone è significata – e tuttavia in funzione, mi pare, per nulla “borghese”, ma verso una grande nobiltà di sentire – tutta la riduzione dell’epos a una dimensione muliebre: al nóos erculeo di pietra o di ferro fa immediato riscontro l’abbandonato dolore, liquefatto in lacrime, che è della madre ma naturalmente anche della sposa dell’eroe. 11. Si tratta dunque della sorella minore di Megara che, nel racconto dello Pseudo-Apollodoro (Bibl., 2, 4, 11), fu data in sposa da Creonte a Ificle dopo che questi, con il fratello semidivino Eracle, aveva sconfitto Ergino, re dei Minii, che teneva in scacco Tebe con un tributo gravoso. 12. Eracle era figlio di Zeus, Ificle di Anfitrione, già nello Scudo dello Pseudo-Esiodo, vv. 48 ss. 13. L’espressione è già in Teocrito, Id., 14, 38 – dove anzi non si dà nemmeno comparazione, ma identificazione immediata: dácrya mála rhéonti, lett. «lacrime-mele scorrono». 14. In bella evidenza, giusta l’enjambement, il nome della madre di Eracle, il cui discorso si protrarrà fino alla fine del carme. 15. Pressoché letterale, per ouk hális, hóis echómestha to déutaton, aién ep’hémar / ghinoménois. Sono sufficienti, dice Alcmena, le sciagure ultime, che si ripropongono al cuore piagato giorno dopo giorno, senza bisogno di risalire ab ovo a riguardare tutto un destino improntato al dolore. 16. Hopkinson 2015, segue, per i vv. 67-68, Gow 1952, che stampava hóstis arithmethéisin eph’hemetérois achéessi / tharsóie· toiésd’ echyrésamen ek theoú áises («[sarebbe un vero amante del lutto] chi traesse coraggio dai nostri dolori contati; e noi avemmo dal dio tale sorte») accogliendo gli emendamenti di Wilamowitz (arithmethéisin in luogo di arithméseien dei codici) e Hermann (tharsóie per il tràdito thársei· ou). In realtà mi sembra che le lezioni originarie garantiscano un senso migliore, così come riproposte in Gallavotti 19933 e poi accolte da Vox 1997 per la sua traduzione, cui la mia è ispirata: «Davvero affezionato ai pianti sarebbe chi, durante le nostre sofferenze, volesse tenerne il conto. Coraggio! Non è dal dio che abbiamo ottenuto simile fato». 17. Mochthízousan, lo stesso verbo che designa al v. 44 il travagliare del figlio e marito di Megara. 18. Dysmenéon, all’inizio di 77, è probabilmente corrotto, come sostiene Hopkinson 2015, p. 491, nota 13, che traducendo postula, anziché un “nemico”, un «real madman», un pazzo, il solo che potrebbe spergiurare volentieri (ekón epíorkon omóssai) il nome di Core e Demetra. Certo va inte-

137 so il participio blaphthéis di 76 nel senso figurato di “sconvolto”, “smarrito” («stravolto», traduce Vox 1997, p. 445). 19. Niobe, figlia di Tantalo e moglie di Anfione re di Tebe, vide tutti i suoi figli sterminati dalle frecce di Apollo e di Artemide perché presumeva di essere superiore a Latona loro madre, che aveva generato due figli appena; sconvolta dal dolore, fu mutata da Zeus in una pietra sul monte Sipilo. La storia è accuratamente narrata, al solito, nelle Metamorfosi di Ovidio, 6, 146 ss. 20. La gravidanza di dieci mesi, per Eracle, ricordata anche in abbrivio dell’Id. 24 di Teocrito (v. 1, Herakléa dekámenon), ha a che fare con il ritardo della sua nascita voluto da Era, per cui cfr. Il., 19, 119, e Ovidio, Met., 9, 285 ss. 21. Pylártes è epiteto omerico (e.g. Il., 8, 367; Od., 11, 277). Significa, naturalmente, l’irrevocabilità della morte. 22. Conservo, in traduzione, l’accostamento deliberatamente stridente degli aggettivi glykýn e ainós – certo poeticamente inteso a rendere l’idea di una visione tanto più orribile quanto meno attesa. È anche vero che «dolce» è epiteto tradizionale per il sonno, e infatti così risulta anche poco dopo pur nella variante lessicale nédymos, vd. v. 120. 23. Difficile pensare che il sogno non tanto contenga deliberate allusioni a vicende della saga erculea, ma sia mera espressione della mente esacerbata di Alcmena, come presume Vox 1997, p. 448, nota 13; troppo pregnante la sua posizione in chiusura del carme, oltre al fatto che una tale “innocenza” disdice a un prodotto di scuola ellenistica. Come già vide Breitenstein 1966, pp. 59-60, sarà in primo luogo evocata la morte sul rogo dell’eroe sul monte Eta (cfr. Le Trachinie di Sofocle e l’Ercole Eteo pseudosenecano); e del resto è aiutando il fratello (cfr. qui al v. 110), durante la guerra contro Lacedemone re di Laconia, che secondo il mito morì Ificle, cfr. lo PseudoApollodoro, Bibl., 2, 7, 3, e Pausania, Descrizione della Grecia, 8, 14, 9-10. 24. Con nota ironicamente realista, Teocrito, nel suo Id. 24, dice che le cene del giovane Eracle avrebbero saziato uno zappatore (v. 138). Che vi sia il ricordo del campagnolo (epárouros) con cui volentieri si sarebbe scambiato il defunto Achille, pentito di avere scelto da vivo una rapida ma gloriosa morte, nel celebre episodio della Nékyia odissiaca (Od., 11, 487 ss.), è un’idea non suffragata, in effetti, dal testo; tuttavia questo Eracle armato di vanga, anziché di clava, potrebbe ben proiettare il desiderio della madre Alcmena di una vita normale, anzi umile e persino volgare, per un figlio logorato dall’aderenza a straordinari doveri eroici – prima che il sogno, sin qui glykýs, trascenda nell’incubo. 25. Efesto, il dio-fabbro, indica spesso antonomasticamente il fuoco, essenziale alla sua attività (cfr. e.g. Il., 2, 426).

138 26. Il rapido invecchiamento di Ificle dovrebbe agevolmente leggersi, ancora dal punto di vista della madre, come rappresentazione del suo statuto, rispetto al fratello, di debole e comune mortale. E comunque uomo e semidio sono infine ridotti entrambi al dolore dell’impotenza (v. 119, amechanéontas); che è poi lo stesso della madre, che è lo stesso che lamentava Megara nella similitudine ai vv. 21 ss., e pare dunque l’autentico Leitmotiv del carme. 27. Letteralmente: «avendolo rispettato dell’antico rispetto», con accusativo dell’oggetto interno (aidesthéis ópida protéren). 28. Alla lettera: «tutte le cose [cioè gli infausti presagi del sogno] si volgano contro Euristeo, via da questa casa» (tá pánta prós Eurysthéa trépoito / óikou aph’hemetéroio). Simili scongiuri apotropaici a seguito di un sogno stanno alla base, nella tragedia, di veri e propri sacrifici offerti alla divinità, cfr. e.g. Eschilo, Persiani, 201 ss.; Sofocle, Elettra, 406 ss.

Per Adone morto 1. Come in Bione, Epit. Ad., 35, è appellativo piuttosto eccezionale per Afrodite, cfr. p. 118, nota 23. 2. Hopkinson 2015, p. 545, traduce questo styghnán, riferito alla chioma di Adone, con «disheveled», qualcosa come “scarmigliati”. In verità credo che il testo proponga un contrasto cromatico tra l’estremo pallore del viso di Adone, consueto ai cadaveri, e la cupezza dei suoi capelli, che è tale soprattutto rispetto a quel pallore. L’aggettivo styghnós, del resto, ha una particolare pertinenza al senso di orrore emanato naturalmente dai morti, cfr. la nota al v. 74 dell’Epitafio di Adone, p. 118, nota 18; riferito poco dopo al cinghiale, ne indicherà invece, più semplicemente, l’odiosità (benché l’animale sia macchiato a fortiori della stessa impurità funebre, essendo l’omicida). 3. Il canto 18 dell’Adone di Marino tesaurizza, in modo forse sorprendente, le scene dipinte dal nostro breve carme. Sui vv. 10-6, cfr. la ripresa mariniana in 233, 3 ss.: «Chi sferza con la corda il fianco lasso, / chi da tergo con l’arco oltre la caccia; / move tardo e ritroso il piede e ’l passo, / timida trema e sbigottita agghiaccia / l’orrida prigioniera […]». Il femminile si riferisce a «fera» dell’ottava precedente, v. 4. 4. Cfr. Marino, Adone, 18, 234, 1-3: «O di qualunque mostro aspro e selvaggio / più maligna e crudel, furia non fera, / tu far ardisti a quel bel fianco oltraggio […]». Naturalmente nella versione mariniana la rampogna di Afrodite si prolunga per due eloquentissime ottave. 5. Cfr. Adone, 18, 237, 5 ss.: «[…] io far non volsi al tuo leggiadro amante /con alcun atto ingiurioso offesa; / ma la beltà, che vince un cor divino, / può ben anco domar spirito ferino. / Vidi senz’alcun velo il fianco ignudo, /

139 il cui puro candor l’avorio vinse / […] / […] / onde il mio labbro scelerato e crudo / per un bacio involarne oltre si spinse». 6. Il tràdito kái meu katesínaze è posto tra cruces da Gow 1952 e così da Hopkinson 2015, che prova a tradurre: «Deal harshly with me» («trattami con durezza»). Vox 1997 non traduce, e in questo caso mi sembra l’opzione migliore, anche se il senso difficilmente si discosterà di molto da quanto postulato da Hopkinson. Giangrande 1987 tentava un emendamento ingegnoso, kái meu kat’ésin háze, «perciò adirati nei riguardi del mio ardore amoroso». 7. Così restituisco l’anafora toútous… toútous di 33-34. Il pronome anticipa notevolmente il suo referente odóntas (36) con effetto di suspence. 8. Cfr. Adone, 18, 239, 1-4: «Questo dente crudel, dente rabbioso, / d’ogni dolcezza tua fu l’omicida. / Questo a le gioie mie tanto dannoso / punisci e di tua man or si recida». 9. Letteralmente: «perché osarono baciare [lui]» (tí gár philéin etólmon)? 10. Cfr. Adone, 18, 240, 3 ss.: «[…] del rozo rival mossa a pietate / di quel fallo il perdon pur gli concesse; / […] / […] / men fosco il guardo a’ suoi scudier rivolto, / subito comandò che fusse sciolto». 11. Come Vox 1997, sulla scorta della sottile riflessione di Giangrande 1987, pp. 373-374, accolgo la lezione tràdita Érotas, altrove ritenuta corrotta e sostituita da un più banale odóntas (così Hopkinson 2015, che di conseguenza traduce: «he burned his tusks»): stravagante ma poeticamente notevole, assumendo il fuoco di 45 come una metafora della passione amorosa, pensare che il cinghiale, una volta provatala, sarebbe ora capace, entro il corteggio di Afrodite in cui è stato ammesso, di “scottare” persino gli Amori incarnati.

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Indice

Prefazione di Alessandro Fo Introduzione. Greci minori nell’eterna bucolica

p. 11 p. 19

Mosco p. 51 p. 53 p. 59

Eros fuggitivo Europa Frammenti Bione Epitafio di Adone Epitalamio di Achille e Deidamìa Frammenti Epitafio di Bione Megara Per Adone morto

p. 63 p. 67 p. 69

Anonimi p. 77 p. 83 p. 87

Note Bibliografia essenziale e sigle

p. 89 p. 141

Gli Autori Mosco di Siracusa (II sec. a. C.), di cui conserviamo per intero un epillio, l’Europa, un lungo epigramma esametrico (Eros fuggitivo) e quattro cosiddetti frammenti, fu poeta, grammatico (allievo del filologo Aristarco di Samotracia) e lessicografo. Bione di Flossa presso Smirne, terzo, anche cronologicamente, nel canone bucolico (II-I sec. a. C.), lascia un carme completo, l’Epitafio di Adone, e vari frammenti; dell’autore dell’Epitafio di Bione sappiamo soltanto che fu allievo di questi; degli autori della Megara e dell’anacreontica Per Adone morto è impossibile tracciare i contorni.

Classici smarriti | 1 Con la prefazione di Alessandro Fo

Collana diretta da Tommaso Braccini ISSN: 2784-8221

€ 8,00

Virgilio, Ovidio, Tasso e forse lo stesso Leopardi non sarebbero stati gli stessi senza i cosiddetti bucolici greci minori e il loro contributo all’evoluzione del sogno pastorale. Il tempo non è stato cortese con questi autori, che per molti aspetti ancora sono avvolti da un fitto mistero. Quel che abbiamo è però sufficiente per apprezzarne il rilievo storico-letterario e soprattutto godere momenti di avvincente poesia, si tratti della dolce eleganza di Mosco Siracusano, del pathos bruciante dell’Epitafio di Adone di Bione di Smirne, o del vertiginoso compianto dedicato a quest’ultimo da un oscuro seguace. Ignorata sinora dai non specialisti, con una nuova e aggiornata traduzione in versi e un’Introduzione di ampio respiro, l’opera di questi poeti è per la prima volta presentata al vasto pubblico, che potrà riconoscervi, peraltro, i motivi fondanti della bucolica di sempre: il canto d’amore e l’amore del canto, vanamente insidiati dai diversi veleni del comune soffrire; il disegno di un mondo alternativo al presente, nel quale soggiornare fantasticamente ad libitum.

ISBN ebook 9788855292443