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Italian Pages 107 Year 2014
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AICI
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ASSOCIAZIONE DELLE ISTITUZIONI DI CULTURA ITALIANE
Italia - Europa Per una nuova politica della cultura
a cura di Gabriella Nisticò
viella
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Copyright © AICI - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: luglio 2014 ISBN 978-88-6728-365-1 (pdf)
Il volume raccoglie gli interventi ai convegni organizzati dall’AICI - Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane nel 2012: Politica e cultura. Un divorzio? (Roma, Camera dei deputati, Sala della Regina, 2 ottobre 2012) e Il ruolo degli Istituti di Cultura Italiani nella Strategia Europea 2020 (Roma, Istituto Luigi Sturzo, 8 ottobre 2012). Cura editoriale di Marina Chiarioni Impaginazione di Maria Luigia Mazzocchia
viella libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it
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Indice
ROSSANA RUmmO L’Italia della Cultura per una nuova idea d’Europa
9
I. Politica e Cultura. Un divorzio? VALDO SpINI Costruire un nuovo rapporto tra politica e cultura
15
ANTONIO pOLITO Anno zero della cultura?
23
mARC LAZAR La cultura e gli sviluppi contraddittori della democrazia
27
NADIA URbINATI Divorzio tra politica e cultura o tra politica e democrazia?
31
mAURO mAgATTI Uscire dalla crisi: una prospettiva europea
43
gIACOmO mARRAmAO Agire politico e responsabilità collettiva
47
gIUSEppE VACCA La necessaria transizione consapevole della politica
53
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II. Strategia Europea 2020. Il ruolo degli Istituti di Cultura Italiani VALDO SpINI L’AICI verso l’Europa
61
FRANCESCO TUFARELLI Sinergia tra politica e istituti di cultura per il ‘sistema Italia’
63
mARIO ALì Patrimonio culturale e internazionalizzazione della ricerca
67
mASSImO NEgRI Il potenziale italiano nella dimensione europea
75
pATRIZIA ASpRONI Il valore strategico ed economico del patrimonio culturale
79
IRENE pIVETTI Learn to be free: tra cultura, istituzioni e risorse economiche
83
RUggERO pARROTTO Piattaforme tecnologiche e culturali
87
CARLO RIZZUTO Reti europee di infrastrutture
91
Appendice ASSOCIAZIONE DELLE ISTITUZIONI DI CULTURA ITALIANE - AICI Manifesto per la Cultura gLI AUTORI
97
103
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Italia - Europa Per una nuova politica della cultura
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ROSSANA RUmmO
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L’Italia della Cultura per una nuova idea d’Europa
Il recente dibattito sul ruolo dell’Unione Europea ha dimostrato come l’Europa faccia fatica, in un contesto di globalizzazione, a proporsi come un progetto economico, una potenza commerciale o un’intesa politica sovranazionale. Viceversa, esistono motivazioni e larghe adesioni per proporsi come una casa culturale comune, nella quale si sviluppi quel senso di appartenenza e di condivisione che possa fare anche da sostegno alla costruzione di una Europa comune. In questo contesto, le nostre istituzioni culturali possono giocare un ruolo fondamentale, sottolineando, ancora una volta, la funzione di capofila svolta dall’Italia, essendo il Paese che per eccellenza può vantare un’identità, memoria ed eredità storica senza eguali. I valori come il rispetto per la diversità e il dialogo interculturale, la libertà di espressione, l’idea di democrazia, la dignità umana, la solidarietà e la tolleranza sono le fondamenta per lo sviluppo di una Unione Europea più coesa e forte di radici condivise: il consolidamento di questo processo è certamente sotteso al ruolo delle istituzioni culturali, in quanto propulsori di ricerca, integrazione ed approfondimento della reciproca conoscenza tali da infondere nelle coscienze dei cittadini europei la consapevolezza e l’interiorizzazione delle proprie origini. Con riferimento all’Italia, è importante evidenziare che gran parte del processo informativo e formativo dei cittadini europei passa proprio attraverso i servizi sociali e culturali offerti dalle numerose biblioteche, archivi, accademie, associazioni, fondazioni storiche, luoghi del sapere e dell’industria culturale nazionale capillarmente diffusi sul territorio e capaci di fare rete per agevolare l’orientamento dell’utente, il libero accesso alla conoscenza, l’approccio al multilinguismo e alle nuove tecnologie, lo
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Rossana Rummo
sviluppo delle competenze professionali, nonché stimolare l’interazione tra gli individui e le idee, sostenere conservazione e trasmissione della memoria, promuovere la creatività nell’educazione e tutelare la diversità culturale nell’unità europea. In un periodo in cui, da più parti, viene evidenziata la necessità di razionalizzare ed ottimizzare gli interventi finanziari, intraprendere un modo nuovo di produrre cultura, determinare nuove acquisizioni storiche e scientifiche ed ampliare la base partecipativa delle iniziative culturali, con particolare attenzione ai più giovani e al mondo della scuola, l’intero panorama degli istituti culturali appare la forza centripeta ed operativa più efficace per favorire una sempre più ampia ricaduta sul territorio ed assicurare ricerca, conservazione della memoria e divulgazione dell’operato di poeti, musicisti, artisti ed architetti, scienziati e letterati che hanno contribuito ad arricchire il nostro straordinario patrimonio culturale, a partire dalle bellezze paesaggistiche e monumentali, dai retaggi storici ed archeologici fino al cospicuo corpus manoscritto, al patrimonio archivistico e bibliografico sostanziato di rari e unicum ed alla lingua italiana, che effettivamente è stata forte simbolo comunitario ed elemento fondamentale per avvalorare i vincoli di coesione del Paese e per corroborare i fondamenti di unità politica e statuale, divenendo attraverso i secoli il quarto idioma tra i più studiati al mondo. Ferme restando le responsabilità politiche ed amministrative per la tutela del patrimonio nazionale, anche la filiera delle istituzioni culturali e bibliotecarie è chiamata, forse più che in passato, ad assumersi la responsabilità di partecipare attivamente al processo di cambiamento che attraversa il nostro Paese e l’Europa tutta. L’assunzione di impegni condivisi in ambito interistituzionale, la concertazione di azioni del settore pubblico e privato, l’attivazione di programmi pluriennali di interventi strategici per garantire il diritto alla cultura ed alla fruizione consapevole dell’enorme patrimonio di conoscenza che il passato ci ha tramandato e per potenziarne conservazione e valorizzazione, in forma integrata, rappresentano i primi passi perché la nostra lingua e la nostra cultura affrontino positivamente nuove sfide e superino le tante prove dettate dall’evoluzione della civiltà europea e mondiale. Nella dimensione europea e nel confronto con il processo di globalizzazione, ad un Paese come l’Italia, caratterizzato da una così forte vocazione culturale e turistica, non resta che utilizzare gli strumenti della modernità per continuare ad esportare la propria ricchezza e valorizzare
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L’Italia della Cultura per una nuova idea d’Europa
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l’unicità del suo patrimonio nel panorama internazionale, sempre rimanendo incline all’apertura intellettuale, agli influssi, alle modificazioni, alla penetrazione, alle peculiarità ed agli arricchimenti portati da altri popoli, extraeuropei e soprattutto europei. Con questi ultimi l’Italia ha, infatti, condiviso l’idea dell’Unione che si impose fortemente come conseguenza delle due guerre mondiali, per empito dei padri fondatori determinati a completare rapidamente la ricostruzione dell’Europa, prevenire la catastrofe bellica ed eliminare l’eventualità di nuovi, futuri conflitti fra le sue nazioni. Ma non fu questa la prima manifestazione del processo di integrazione europea e cooperazione intergovernativa fra gli Stati membri: fondamentali apporti volti a sostanziare la costituzione di una identità comune tra i Paesi dell’Europa furono già la cultura classica ed il Cristianesimo, tanto che nel Medioevo una prima unità europea si formò, nel segno di queste due radici, con il Sacro Romano Impero, erede di Roma e portatore di un nuovo slancio allo studio della cultura classica. A fronte di questa vivace anima culturale, il ruolo degli istituti culturali è quello di contemperare esigenze di conservazione, tradizione ed innovazione nell’esplicazione di due principali funzioni: in qualità di luoghi deputati alla salvaguardia e trasmissione del sapere, capaci di contrassegnare anche lo sviluppo e la fisionomia dello spazio urbano delle nostre città, hanno la responsabilità di proteggere la ‘memoria’ del passato; come servizi culturali, devono fornire l’informazione sul presente, attraverso i classici supporti della comunicazione scritta e i più innovativi strumenti multimediali utili all’aggiornamento continuo e lifelong learning, come si deve nella Società dell’Informazione. Con riferimento ai cambiamenti imposti dai nuovi sistemi di accesso alla conoscenza ed al processo di digital going, è importante ribadire il fondamentale ruolo che istituti bibliotecari e culturali hanno avuto nella promozione delle attività di digitalizzazione ed ottimizzazione della fruizione del patrimonio bibliografico, manoscritto, cartografico, fotografico, musicale, letterario e scientifico del Paese. Il Portale Europeana è certamente un concreto esempio del potenziamento dell’accesso generalizzato alla ricca e varia eredità culturale dell’Europa, compresa la memoria storica e di guerra. Proprio nel 2014 ricorre un appuntamento importante per l’Europa, ovvero il centenario della Prima guerra mondiale, teatro di tante vicende di vita militare e quotidiana, ora finalmente accessibile nello spazio digitale Europeana 1914-1918 realizzato ad hoc.
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Rossana Rummo
Ulteriori esempi di promozione dell’accesso remoto ed integrato alla conoscenza, tale da arginare i limiti fisici e temporali frapposti alla scambiabilità di beni e servizi, sono Internet Culturale, l’accordo di cooperazione tra il MIBACT1 e Google siglato nel 2010 e la realizzazione del Portale dedicato alla Via Francigena nell’ambito del progetto di Valorizzazione degli itinerari storici, culturali e religiosi, che vede l’Italia come punto di riferimento privilegiato per i cammini religiosi nel contesto europeo. Questi progetti rientrano certamente nel percorso volto a salvaguardare la diversità linguistica e culturale europea e rafforzare la competitività del settore scientifico, culturale e creativo, al fine di favorire una crescita economica intelligente, sostenibile e inclusiva. Se è vero che informazione, formazione e ricerca equivalgono a sviluppo e, quindi, occupazione, chiave di volta di questo sistema si confermano internazionalizzazione ed interdisciplinarità della ricerca, dialogo interculturale, tutela, valorizzazione e condivisione del patrimonio di conoscenze acquisite e di best practices, qualità della cultura ed efficace e innovativa organizzazione del sapere, per fare eco allo straordinario potenziale italiano nella dimensione europea.
1
L’acronimo assume anche l’abbreviazione di Turismo, le cui competenze sono state devolute al Ministero per i Beni e le Attività culturali (MIBAC) dal governo Letta nel 2013.
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Parte prima Politica e Cultura Un divorzio?
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VALDO SpINI
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Costruire un nuovo rapporto tra politica e cultura
Come Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane (AICI)1 e come Coordinamento delle Riviste Italiane di Cultura (CRIC) non è possibile rimanere silenziosi di fronte al vero e proprio dramma che si sta consumando nella politica e tra la politica e le cittadine e i cittadini italiani, nella convinzione che non ci sia reazione adeguata a tale situazione senza e al di fuori di una nuova presa di coscienza culturale. Da queste semplici convinzioni è nata l’iniziativa di Politica e Cultura. Un divorzio?2, per dibattere questi problemi in modo pluralistico e da vari punti di osservazione. Nel suo messaggio di saluto, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha sottolineato la sempre più avvertita «esigenza di modelli culturali capaci a interpretare le grandi trasformazioni sociali» degli ultimi anni e proprio per la necessità di nuove culture politiche, «prezioso» è considerato «il ruolo che svolgono le Fondazioni e Istituti culturali, un ruolo che la politica ha il dovere di incoraggiare e favorire». Avremmo potuto limitarci, come segno dei tempi, a una denuncia delle insostenibili condizioni materiali cui sono costretti i nostri Istituti e le nostre Fondazioni. Condizioni che, peraltro, non sono difficili da immaginare. Abbiamo voluto, invece, fare qualcosa di più e di meglio: provocare nel palazzo di Montecitorio, quello che riteniamo, malgrado tutto, il tempio della democrazia italiana, un dibattito spregiudicato sul rapporto tra politica e cultura. Non riteniamo di esaurire il problema con questa 1
L’Associazione, al momento dell’andata in stampa di questo volume di Atti, raccoglie e rappresenta 102 fra le principali fondazioni e istituzioni di cultura italiane, cfr. www.aici.it. 2 Il Convegno ha ricevuto il sostegno dell’allora presidente della Camera, Gianfranco Fini, che ha offerto l’ospitalità nella sede di Montecitorio.
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Valdo Spini
iniziativa: speriamo piuttosto di gettare il classico sasso nello stagno in modo da provocare tanti cerchi concentrici di ulteriori dibattiti e prese di coscienza. I partiti della prima Repubblica avevano una forte radice ideologica, (se non addirittura etico-religiosa) e quindi una spiccata dimensione culturale. Ai tempi dell’Assemblea Costituente si può ricordare, tra i tanti esempi, il valore formativo della Comunità del Porcellino3 riunita intorno a Giuseppe Dossetti. Talvolta, però, la cultura diventava il terreno di una vera e propria lotta politica. Per mia diretta esperienza, non posso non ricordare, nella seconda metà degli anni 1970, il dibattito inaugurato da Norberto Bobbio in «Mondoperaio» su Il marxismo e lo Stato4 o il ‘dibattito ideologico’ aperto da Bettino Craxi con il suo Vangelo Socialista5, che, in risposta a una intervista di Enrico Berlinguer sul leninismo6, si proponeva di operare una scissione del binomio socialismo-marxismo. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi. I Convegni di San Pellegrino della DC7 di fronte ai fermenti della società e in vista delle aperture di centro-sinistra, i convegni dell’Istituto Gramsci sulla sinistra e le tendenze del capitalismo, il ‘Convegno delle sei riviste’8 all’inizio degli anni 1960 sull’elaborazione di una politica economica del centro-sinistra che prevedesse uno sviluppo economico bilanciato, il dibattito nello stesso decennio sull’evoluzione del pensiero liberale, la peculiare dimensione culturale della ricerca della destra italiana e così via, senza dimenticare il significato politico di quel libro che, come sottolineava orgogliosamente 3
La Comunità del Porcellino nacque a Roma, nell’abitazione di Pia e Laura Portoghesi l’11 luglio 1947. Su di essa, si veda, da ultimo, TELEmACO pORTOghESI TUZI, gRAZIA TUZI, Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della Comunità del Porcellino, Milano, il Saggiatore, 2010. 4 Il marxismo e lo Stato. Il dibattito aperto nella sinistra italiana sulle tesi di Norberto Bobbio, Quaderni di «Mondoperaio,», n. 4, Roma 1976. 5 Il Vangelo socialista, in «L’Espresso», 27 agosto 1978. 6 Per noi Lenin non è un dogma, intervista rilasciata da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, in «la Repubblica», 2 agosto 1978. 7 I convegni di San Pellegrino della Democrazia cristiana si aprirono la prima volta nel settembre del 1961 e furono organizzati con regolarità negli anni seguenti. Si vedano gli Atti dei convegni pubblicati dal 1962 in poi (Roma, Edizioni Cinque Lune). 8 Il cosiddetto ‘Convegno delle sei riviste’ si svolse nell’ottobre 1961 a Roma, al Teatro Eliseo, organizzato da «Il Mondo», «L’Espresso», «Critica sociale», «Il Ponte», «Mondo operaio» e «Nord e Sud».
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Costruire un nuovo rapporto tra politica e cultura
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Sandro Pertini, i vecchi socialisti volevano nel loro simbolo insieme alla falce e al martello. La cosiddetta ‘seconda Repubblica’ e il ‘nuovismo’ che si portava dietro spazzava via buona parte di tutto questo. Ma in realtà il discorso è più complesso. È il modo stesso di comunicare, anche televisivo, con lo spazio crescente che assumevano momenti di volgarità e di qualunquismo, che restringeva la possibilità di trasmissione di questo patrimonio culturale alle nuove generazioni. L’aspirazione a un regime politico bipolare, se non addirittura bipartitico, avrebbe dovuto portarsi dietro, se non altro per simmetria, anche i caratteri di un modello culturale anglosassone, statunitense o inglese, e quindi l’ispirazione ai relativi filoni ideologici e culturali. Ma troppo diversi erano i valori e i principi che fungevano da collante sociale e culturale nel nostro e negli altri casi perché un’operazione culturale del genere avvenisse e, di fatto, non è avvenuta. Nel momento in cui anche la ‘seconda Repubblica’ ha visto l’incapacità dell’attuale sistema maggioritario di assicurare di per sé coalizioni coese e quindi governabilità, ora che ci si affaccia a scrutare un possibile ritorno al sistema elettorale proporzionale o magari a un ircocervo dei vari sistemi, tipico dell’arte italiana del compromesso, è legittimo chiedersi quale sarà il substrato culturale di questa nuova fase della politica italiana che potremmo chiamare per intendersi ‘terza Repubblica’. È un continente relativamente sconosciuto. Non potrà che essere diverso da quello dei vent’anni della seconda Repubblica, ma certo non potrà trattarsi nemmeno di un heri dicebamus, di un ritorno al passato. Se torneremo al sistema proporzionale, le forze politiche avranno la struttura e l’attrattiva ideologica di quelle del primo sessantennio di vita repubblicana? Sapranno adeguarsi ai nuovi filoni culturali che scaturiscono dai nuovi problemi della società moderna? E, nello stesso tempo, sapranno guardare all’Europa, dove la struttura delle forze politiche ha ormai preso una certa forma che, se non altro, permette a popolari e socialisti di dare un assetto di una certa stabilità alle istituzioni politiche europee? Le suggestioni possono essere tante, il rapporto tra etica ed economia e il rapporto tra etica e politica innanzitutto. In merito al primo aspetto, basta ricordare che il punto scatenante dell’attuale crisi economica e finanziaria è stata la vicenda dei mutui subprime negli Stati Uniti. Bene, i mutui subprime erano dati non tanto sull’attesa che il prestito venisse restituito, ma sulla scommessa
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Valdo Spini
probabilistica dell’incameramento dell’immobile dato a garanzia. Quando la bolla immobiliare è scoppiata, il sistema è deflagrato con reazioni a catena che hanno investito duramente anche l’Europa. È stata la dimostrazione che anche il capitalismo non può funzionare senza un’etica, come aveva sostenuto a suo tempo Max Weber. Dal punto di vista del rapporto tra etica e politica, gli scandali della prima Repubblica, in buona parte dovuti al finanziamento illegale dei partiti, impallidiscono di fronte ai ladrocini privatistici (anche fantasiosi) che stanno caratterizzando il tramonto della seconda. Torna alla mente la caduta dell’Impero romano, quando gli ultimi imperatori si contendevano l’investitura a suon di denari, a beneficio delle truppe mercenarie che dovevano sostenerli. Non vorrei dire che tutto questo è un portato della carenza culturale dei partiti, ma certo è conseguenza del venir meno di quel controllo sociale che scaturiva dall’idea di partecipare a una comunità di valori, di ideali e di programmi. Pure, il presente è pieno di nuove suggestioni culturali. Dalla rivoluzione femminile alla crisi delle giovani generazioni, all’affermazione dei problemi dell’ambiente sia sul piano planetario (cambiamenti climatici) sia sul territorio (qualità della vita), alla necessità di ‘recuperare’ la democrazia non solo a livello statuale ma a livello europeo e internazionale. Non solo, ma premono anche le questioni relative al nascere e al morire, che per quanto problemi di etica hanno un inevitabile riverbero politico e sociale. La globalizzazione mette poi a diretto contatto religioni e culture che precedentemente erano oggetto di studio e di curiosità a distanza. È l’idea stessa dello Stato che è stata poi messa in causa. Molto spesso assistiamo a clamorosi ritardi delle forze politiche su questi terreni, frequentemente colmati dalla mobilitazione emotiva contro questo o quel personaggio, contro questa o quella ideologia novecentesca, o contro questo o quel moloch dell’attualità italiana, cercando di coagulare in ‘anti’ qualcuno o qualcosa quello che non si riesce coagulare in ‘a favore’ di qualcuno o qualcosa. Una sorta di ‘tifo’ politico. Il ritardo nella comprensione della crisi finanziaria ed economica e la gravità della medesima nelle concrete condizioni italiane non hanno provocato un governo di unità nazionale come quello Churchill-Attlee, conservatori-laburisti nella Gran Bretagna della seconda guerra mondiale, quanto piuttosto un governo ‘tecnico’, nel senso che la condizione per essere chiamati a parteciparvi era quella di non avere ricevuto investiture politiche in consultazioni elettorali. Un governo, insomma, che si è presentato come
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Costruire un nuovo rapporto tra politica e cultura
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soluzione di continuità rispetto all’attuale sistema politico anche se dotato di una larga maggioranza parlamentare in questo sistema politico. Se la politica secondo Aristotele è l’arte del governare, e se la cultura, come sottolinea Edgar Morin9, è «l’insieme di abitudini, costumi, pratiche, […] saperi, regole, […] valori, miti che si perpetua di generazione in generazione», cos’è successo? È la nostra cultura che ha prodotto questa crisi del modo di governare o si è verificato un distacco tra i soggetti della politica, considerata in senso aristotelico come arte del governare, e la nostra cultura? Emerge allora la necessità di prendere in considerazione in tutti i suoi aspetti le fondamenta di un problema così grave, che ha portato Antonio Polito a parlare di «anno zero dei partiti»10. Non è sufficiente per affrontare una tale drammatica situazione né l’appello all’età anagrafica, né il richiamo alle posizioni consolidate, per quanto ben intenzionati ambedue questi richiami siano. Ogni rinnovamento reale cui abbiamo assistito partiva da un rinnovamento della mente, delle idee, cioè della cultura intesa come capacità critica di capire e vivere le contraddizioni, ma anche le opportunità del nostro tempo. È da questo substrato che scaturiscono poi le proposte politiche destinate ad affrontare i problemi concreti della realtà. Il 2013 è l’anno in cui si celebra il V Centenario della stesura de Il Principe di Niccolò Machiavelli. Un italiano che ha fondato o, a seconda dei punti di vista, rifondato, la Scienza Politica moderna. Un libro tra l’altro che, insieme a Pinocchio dell’altro mio corregionale Carlo Lorenzini (Collodi), è il libro italiano più tradotto nel mondo. Non si tratta di un riferimento retorico o di maniera. Sappiamo che c’è anche il quadro di comodo di chi considera la cultura italiana come viziata da un machiavellismo deteriore, nel senso della ricerca del fine a tutti i costi. Ma sappiamo anche che Antonio Gramsci, che vedeva il partito come intellettuale collettivo, ha definito il partito politico come un «moderno principe» e che così in realtà è stato nel 20° secolo appena trascorso. Oggi, questo partito politico «moderno principe» è venuto, sia pure in modo differenziato e articolato, in buona parte meno e navighiamo in mare aperto. 9
EDgAR mORIN, Sistema culturale e politica della trasformazione dei processi sociali, in Politica culturale? Studi, materiali, ipotesi, a cura di G. Bechelloni, Bologna, Guaraldi, 1970. 10 ANTONIO pOLITO, L’anno zero dei partiti, in «Corriere della Sera», 23 settembre 2012.
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Valdo Spini
Chi sarà il nuovo principe? Il moderno principe, se posso azzardare una risposta a questo interrogativo, non è e non può più essere il partito come nel Novecento. Il moderno principe non può che essere l’affermazione di un’etica della responsabilità collettiva che sappia coinvolgere sia la società civile sia la società politica. Dobbiamo averne tutti la consapevolezza. Può darsi che il sistema dei partiti si rifondi e si rimodelli con riforme istituzionali ed elettorali adeguate, può darsi invece che si vada a un rapporto più diretto tra istituzioni democratiche e società civile, con partiti più leggeri. In ogni caso la cultura, intesa alla Edgar Morin, come insieme di valori e principi, saperi e regole, costumi e abitudini rappresenterà un collante etico e sociale ineliminabile nella nuova fase politica e istituzionale che siamo chiamati ad attraversare. Dobbiamo averne tutti consapevolezza. Occorrono gesti forti sul piano della riforma, nel senso della pulizia e della trasparenza. Ma occorre anche riattivare un dibattito culturale, un’analisi approfondita di quello che è successo e di quello che sta succedendo. Ma, soprattutto, dobbiamo sostituire al ‘nuovismo’ fine a sé stesso una capacità di rielaborazione e di ripensamento delle nostre ispirazioni ideali e culturali, collocate non in una monade italiana, ma in un quadro europeo e internazionale che è sempre più determinante. Senza affrontare con impegno e con coraggio un’operazione del genere non usciremo da questa crisi della politica. Proprio perché siamo a Montecitorio, ci sentiamo di dire con Orazio «de te fabula narratur». Con questo confronto di idee dobbiamo rivendicare un ruolo della cultura per dire che gli esercizi positivi, costituzionali, di partecipazione hanno un senso se riusciremo a rilanciare un confronto di cultura politica italiana e a me sembra che con questo esperimento si possa raggiungere l’obiettivo. Credo che varrebbe la pena riproporlo su altre tematiche e su altri aspetti. Le grandi fasi della politica italiana sono state sempre accompagnate da momenti di riflessione comune, pensiamo ad esempio al Convegno delle sei riviste, di cui ho già parlato, che costruì la politica economica del centro-sinistra, grandi confronti che in quest’ultimo periodo si sono evitati, perché conveniva dire, in nome del ‘nuovismo’, che non esistevano più questi filoni culturali, politici e ideologici e che quindi ci si confrontava su un altro terreno. Ed è sull’Europa che si gioca il futuro del nostro progetto-Paese. Rispetto alla sovranità europea11, penso che i 11
Cfr. infra, mAURO mAgATTI, Uscire dalla crisi: una prospettiva europea.
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Costruire un nuovo rapporto tra politica e cultura
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cittadini comprendano benissimo che il loro voto a livello nazionale non tocca le decisioni che vengono prese a livello europeo e vorrebbero riguadagnare quella sovranità, ma i chiarimenti sono oscuri e perciò avviene la reazione opposta, populista, cioè il ragionamento comune diventa: giochiamo in casa nostra e non giochiamo più nella casa europea. Su questo, effettivamente, si può insistere, per dirla con Einaudi12, per avviare un’azione di riqualificazione delle forze politiche che possano togliere dalle ambiguità il discorso sulla politica europea nel nostro Paese. E certo questo dovrebbe portare, anche da parte delle forze politiche, la scelta di giocare di nuovo sino in fondo la carta dell’elaborazione culturale, della formazione del personale politico, del ruolo delle fondazioni e quant’altro e, quindi, anche di organizzarsi, perché un confronto, specialmente formativo, sia a livello europeo, coinvolga cioè altri soggetti della cultura politica europea. È necessario riconquistare e rinnovare una capacità di stare in un quadro politico europeo, di starci autorevolmente, di saperlo anche reinterpretare e sperare, ripensando a Marx, che ex malo bonum, cioè che la crisi sia tutto sommato un’opportunità, per quanto brutale, per quanto crudele, sia proprio un’opportunità di ristrutturazione e di mutamento. Affinché questo possa avvenire in democrazia e nel rapporto politica-democrazia, dev’essere gestito politicamente, altrimenti avremo con ogni probabilità un arretramento proprio delle forme della democrazia. I problemi e le filiere sono questi. E noi come Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane (AICI) non possiamo che sentirci incoraggiati, seppure in questa situazione di pesante crisi, a continuare la nostra azione per una cultura che, senza perdere la nostra specificità, faccia il passo verso l’Europa13.
12 Cfr. infra, NADIA URbINATI, Divorzio tra politica e cultura o tra politica e democrazia? e passim. 13 Cfr. infra, Seconda parte: Strategia europea 2020. Il ruolo degli Istituti di Cultura Italiani.
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ANTONIO pOLITO
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Anno zero della cultura?
Valdo Spini ha citato il mio articolo L’anno zero dei partiti1. In realtà, la formula potrebbe essere anche un auspicio: anno zero come l’anno in cui comincia la ricostruzione. Anzi, quando l’ho scritto mi sono anche domandato perché i partiti non accettassero di riconoscere, tutto sommato, che siamo a un anno zero. Citando Il Principe di Niccolò Machiavelli, Spini mi ha ricordato che in questi giorni2 abbiamo salutato per l’ultima volta uno storico, un intellettuale, Piero Melograni, che aveva scritto nell’ultima parte della sua vita una traduzione in italiano volgare del Principe, e che era un parlamentare, a dimostrazione del fatto che la seconda Repubblica era nata con qualche ambizione culturale, ambizione poi venuta meno nel corso del tempo. Che ci sia un rapporto tra il degrado della vita pubblica e politica e un degrado nella vita culturale del Paese è indubbio: dalla Comunità del Porcellino si è giunti alla comunità del porcellum. Questa è la parabola che possiamo usare, parafrasando Spini che ha sottolineato come la crisi attuale assomigli a quella dell’impero romano. Qualcun altro ha invece detto che questa crisi assomiglia alla caduta dell’impero romanesco, facendo riferimento al dialetto che ha caratterizzato l’ultimo scandalo, quello laziale. Vorrei però ragionare su un altro punto presente nella relazione di Spini, ovvero: è nato prima l’uovo o la gallina? In altre parole: è la crisi della vita culturale del Paese che ha prodotto questo imbarbarimento della vita pubblica o è avvenuto il contrario? Secondo molti critici della seconda Repubblica, in questi vent’anni è stata colpa della gallina: è stato 1 2
Cfr. supra, Spini, nota 10. Piero Melograni è scomparso il 2 ottobre 2012.
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Antonio Polito
il degrado del Paese a produrre una siffatta classe politica. In un articolo molto esplicito pubblicato sul quotidiano «la Repubblica»3, Alberto Asor Rosa sostiene che il popolo italiano è scomparso, si è spappolato, è rimasto una specie di «residuo immondo»; Asor Rosa lo definisce così, una classe senza valori e senza cultura che riempie gli outlet e i Consigli regionali, che si compra i Suv e vota Fiorito. Insomma, quello che è successo sarebbe colpa del Paese, di come è cambiato. È un argomento, questo, molto presente nella critica alla seconda Repubblica; e allora, quando lo sento, mi domando sempre: che ne facciamo di questa gallina? La deportiamo, la uccidiamo, la mettiamo in un campo di rieducazione, aspettiamo che nascano delle galline migliori? Questo discorso non è convincente: è a mio avviso molto faticoso, abbastanza difficile e perfino sconveniente cambiare il popolo prima di cambiare la leadership. Quindi, anche per comodità d’azione, suggerirei di provare a trovare la colpa dell’uovo e poi cambiarlo. E per uovo intendo la politica, i partiti, il modo in cui il consenso si forma e si trasforma in rappresentanza. È più facile cambiare i partiti che non il popolo. Con questo non voglio dire che non ci siano delle cose che non vanno bene nel popolo italiano: per due anni ho ricoperto la carica di senatore e devo dire che ho conosciuto un elettorato non completamente dissimile dai suoi eletti. D’altra parte, quando nel finanziamento pubblico ai partiti si stabilisce una cifra che va proprio a curare il rapporto eletto-elettore, direi che è proprio su quello che si stimola il peggioramento delle cose. Dopo questa premessa, penso che sia più conveniente e più realistico cambiare la politica, perché una forte immissione di valori e idee nella politica è innanzitutto un setaccio per selezionare una classe dirigente migliore e anche più onesta. In tal senso, a mio parere, Ernesto Galli della Loggia ha espresso un giusto concetto quando ha ammonito che non si deve cercare di risolvere la corruzione con norme e nomine economiche: è un problema di valori. La classe politica ormai non crede più in nulla, fa politica per arricchimento personale o anche per arricchimento della comunità di cui si sente un po’ rappresentante. Se non si modifica un tale quadro, non ci si può neanche aspettare l’onestà. Non può non colpire nella storia della Regione Lazio, una tabella che dava conto di come i gruppi regionali usassero i soldi: ad esempio la lista Polverini, con 13 consiglieri, aveva a disposizione 3
ALbERTO ASOR ROSA, La scomparsa del popolo, in «la Repubblica», 2 ottobre 2012.
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Anno zero della cultura?
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mille euro di spese per la cancelleria, diecimila euro per libri e giornali e duecentomila euro per mangiare: questo, secondo me, dà perfettamente il senso, era una autobiografia della politica di oggi. Come si fa allora a immettere idee e valori nella politica? Una prima risposta l’ha data il Capo dello Stato Giorgio Napolitano in un discorso tenuto a Venezia4; la risposta è: ‘europeizzare’, cioè tendere sempre più a un’arena politica europea, in cui i partiti siano i partiti europei, siano le famiglie europee trasformate in partiti; questo obbligherebbe le sezioni italiane di quei partiti a essere una cosa diversa. Vorrà dire qualcosa se nessuno dei partiti della flora politica italiana si richiama direttamente a una famiglia politica europea: è una specie di problema indigeno della nostra politica nazionale. Un altro intervento potrebbe essere finalizzare l’uso del denaro pubblico, cioè il finanziamento ai partiti, condizionando una consistente parte di tale finanziamento alla produzione di ricerche, di testi, di libri, all’esistenza di think tank, di gruppi di lavoro, di fondazioni. In Germania, una consistente parte del finanziamento pubblico non va direttamente ai partiti ma alle fondazioni; non va a curare il rapporto eletto-elettore, che è un’altra cosa, ma a produrre politica, a produrre idee. Infine, vorrei ancora aggiungere: se questa ‘immissione di cultura’ può servire a migliorare la politica, è vero anche il contrario. Perfino in questa vituperata seconda Repubblica i partiti producono cultura a livello di massa, popolare, e questo è un aspetto cruciale della salute di una comunità nazionale. Non sto pensando soltanto al dibattito storiografico che in Italia, soprattutto sulla sinistra comunista, è stato in gran parte merito del lavoro della Fondazione Istituto Gramsci, oppure del lavoro portato avanti dalla Fondazione Basso, dall’Istituto Sturzo e da altre istituzioni di cultura. Penso, per esempio, all’elevazione del dibattito culturale sul tema dell’ambiente: è nato in ragione dell’immissione nel dibattito politico italiano della presenza dei Verdi; lo stesso si può dire per il dibattito sulla bioetica: che cos’è un embrione, da quale momento lo si può definire persona, ecc., sono tutti argomenti introdotti nel dibattito pubblico italiano grazie alla lotta politica che su questi argomenti hanno fatto alcuni partiti. Perfino il tema dell’Unità d’Italia si è avvalso in questi anni della grande 4
Discorso del presidente della Repubblica, pronunciato il 6 settembre 2012 nell’ambito del Festival della politica, che ha rilanciato il progetto di integrazione europea, cfr. gIORgIO NApOLITANO, Discorsi veneziani, Venezia, Marsilio, 2013.
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Antonio Polito
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discussione pubblica accesa dal movimento della Lega: una discussione talvolta brutale ed eccessiva, con modi che possiamo considerare anche sbagliati, eppure, se mi passate la battuta, vorrei dire che persino la celebrazione del 150° dell’Unità italiana sarebbe stata meno intensa e meno sentita senza il dibattito sul separatismo e così via. Insomma, se la politica ha bisogno di questa irrorazione, di questa reimmissione di idee e di cultura, è vero anche il contrario: anche il dibattito culturale, il tono culturale del Paese ha bisogno di una siffatta politica.
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mARC LAZAR
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La cultura e gli sviluppi contraddittori della democrazia
Io ho cercato di riflettere sulla domanda posta da Valdo Spini e dagli Istituti dell’AICI: Politica e cultura. Un divorzio? Mi sono detto che se oggi c’è un divorzio, vuol dire che in passato c’era un bel matrimonio. Come storico, con una certa conoscenza delle vicende italiane, devo dire che non era un bel matrimonio. Però sono sicuro che siamo tutti d’accordo nel sostenere che c’è stata, in determinati periodi storici della prima Repubblica, una sintonia tra i partiti politici e le varie componenti della società italiana. Da un certo momento in poi questa sintonia non c’è stata più. Per diverse ragioni, su cui non abbiamo il tempo di soffermarci, a partire dagli anni Settanta del Novecento e poi negli anni Ottanta e Novanta si è acuito il divorzio tra politica e cultura e tra politica e società. Naturalmente, quando si parla di divorzi ci sono divorzi felici e altri meno felici. Nel caso italiano i torti di questo divorzio ‘infelice’ sono attribuiti tutti alla politica, e questa valutazione è effetto di una idea molto diffusa nel vostro Paese, ma molto presente anche in diversi osservatori fuori dall’Italia, ovvero l’idea dell’anomalia della politica italiana, dell’anomalia della democrazia. Secondo tale punto di vista, l’Italia rappresenterebbe un’anomalia, ancora più forte oggi, per diverse ragioni storiche, di cui possiamo fare un rapido elenco anche perché sono argomenti noti: il Risorgimento come rivoluzione mancata; l’assenza di una borghesia e di un popolo con un senso civico; la scarsa unificazione nazionale; l’assenza di senso dello Stato; la debolezza della classe dirigente; l’individualismo e il familismo; il clima di guerra civile permanente; la delegittimazione dell’avversario
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Marc Lazar
visto come un nemico da eliminare. Queste sarebbero le cause dell’anomalia italiana, idea ripresa per descrivere e spiegare l’Italia in vari periodi della sua storia: subito dopo la seconda guerra mondiale e poi negli anni Settanta e negli anni Novanta. La mia tesi è contraria e controcorrente rispetto all’idea dell’anomalia italiana. Intendo dire che, al di là delle peculiarità italiane, che certo esistono, quello che sta accadendo in Italia non è un effetto della crisi della cultura politica – la parola crisi è a mio avviso troppo abusata e banalizzata – bensì di un mutamento contraddittorio della democrazia che non è specifico della situazione italiana. In altre parole, se ci sono specificità italiane, ci sono anche molte tendenze comuni nei vari paesi a cominciare dal mio, la Francia, spesso descritta in Italia come Paese esemplare. Da questo punto di vista l’Italia non rappresenta un laboratorio, come si dice spesso, bensì un sismografo che registra i terremoti in anticipo, soprattutto in politica. Se la mia tesi ha un senso, è necessario allora chiedersi quali sono i mutamenti contraddittori della democrazia in Italia che si possono assumere come emblematici di quello che accade in altri paesi. Secondo me ci sono almeno cinque elementi da rilevare. Innanzitutto, lo sviluppo di quella che viene definita la ‘democrazia del pubblico’, dell’opinione, del leader, che appunto si diffonde a causa della disaggregazione delle culture politiche tradizionali. Il secondo elemento è il degrado dell’etica pubblica, dell’etica della politica, con la conseguente moltiplicazione di casi di corruzione e la diffusione di un sentimento sempre più forte dell’inefficienza della politica nel contesto di un capitalismo finanziario sempre più potente. Il terzo elemento è lo sviluppo dell’antipolitica che è espressione di due sentimenti distinti: da una parte il rifiuto della politica tout court e dall’altra il desiderio, la ricerca di un’altra politica rispetto a quella attuale. Il quarto elemento è il difficile tentativo di rinnovamento delle istituzioni, un’istanza posta dalla democrazia rappresentativa liberale, rispetto alla quale in tutti i paesi si stanno cercando soluzioni; in Italia, ad esempio, malgrado la situazione difficile negli anni Novanta, sono state introdotte le primarie, un esperimento molto interessante che è stato ripreso in Francia dal partito socialista, che sarà ripreso anche dal partito di centro-destra e che ha suscitato interesse anche in altri paesi. La quinta tendenza contraddittoria è la domanda sempre più forte di partecipazione delle popolazioni europee. Non è vero che le persone sono anestetizzate dalla televisione, che non si interessano più di
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La cultura e gli sviluppi contraddittori della democrazia
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politica; è vero piuttosto il contrario, cercano di intervenire e di partecipare al processo politico. Se la mia tesi ha un fondamento, se è vero cioè che non stiamo vivendo solo una crisi della politica ma stiamo dentro un processo contraddittorio di mutamento della democrazia, quali sono le necessità attuali? Secondo me è possibile individuarne almeno quattro. La prima è la necessità assoluta di rivitalizzare la democrazia rappresentativa; di regolare le istituzioni, di avere regole per il conflitto di interessi, di avere leggi contro la corruzione, di avere anche regole sul problema cruciale dell’accesso ai media. Questa è la prima sfida. La seconda è la necessità di favorire la democrazia partecipativa, con la quale non si intende, come si diceva una volta, la democrazia diretta: non si vuole mettere la democrazia diretta al posto della democrazia rappresentativa, ma completare la democrazia liberale classica con forme di partecipazione. Nei nostri Paesi gli elettori non vogliono limitarsi ad aspettare cinque anni prima di votare ma vogliono essere coinvolti permanentemente nel processo politico, quindi bisogna inventare una forma di partecipazione nuova. La terza sfida è la necessità di ridefinire la leadership politica, cioè limitare, per esempio, la durata dei mandati, cercare di formare meglio la classe dirigente e di darle oltre alle competenze anche un’etica della cosa pubblica. Occorre inoltre cercare di attrarre i migliori giovani verso questa carriera, un’esigenza forte anche in Francia dove c’è la famosa École nationale d’administration preposta alla formazione della classe dirigente. La maggioranza di coloro che fanno questa scuola però non si orienta più verso la politica. Dopo qualche anno nell’amministrazione pubblica vanno nel settore privato dove guadagnano molto di più. Quindi, anche in Francia c’è un problema di vocazione della classe dirigente e per questo occorre allargarne il reclutamento. Allargare socialmente, allargare alle donne, ai giovani e allargare anche alle diversità culturali che esistono nei vari paesi, perché altrimenti rischiamo di non avere una classe dirigente, bensì una oligarchia. Infine, concordo con Valdo Spini sulla necessità di ricostruire progetti alternativi, cioè non solo navigare a vista, ma cercare di elaborare progetti ai quali i diversi attori politici, partiti, associazioni, possano partecipare; in altre parole, cercare di dare una prospettiva all’agire politico. Quelle qui accennate sono ipotesi su cui ragionare per tentare di restituire e rivitalizzare un senso civico. E se non lo facciamo, è evidente
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Marc Lazar
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che un’altra sfida appare decisiva, che non è più l’opposizione tra destra e sinistra o tra centro-destra e centro-sinistra, bensì è l’opposizione tra i partiti di responsabilità e di governo e i populismi sempre più diffusi e in crescita. Se vogliamo un’Europa coesa bisogna assolutamente rispondere a questa sfida.
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NADIA URbINATI
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Divorzio tra politica e cultura o tra politica e democrazia?
Come Marc Lazar, che mi ha preceduto, ho preparato il mio intervento concentrandomi sul punto interrogativo che compare nel titolo di questo incontro il quale ci chiede se tra politica e cultura sia avvenuto un divorzio. Ho cercato di pensare a quali altri divorzi abbiamo registrato in passato e di capire perché oggi sentiamo di dover parlare di un nuovo divorzio e che cosa abbia esso di così grave da farci riunire qui nel tentativo di dare una risposta. Quello del rapporto tra politica e cultura è un tema ciclico nel nostro Paese e, direi, peculiare alle democrazie europee. Non appartiene agli Stati Uniti, dove politica e cultura marciano su due binari paralleli e nessuno si sognerebbe di presumere una qualche loro unione (o di paventare un divorzio che la minaccia); politica e cultura designano mondi diversi tra loro, professionalizzati e fortemente normativi, ciascuno con la sua deontologia e le sue finalità. Anche se la cultura certamente collabora nel creare i leader e nel dare qualità alle scelte politiche (i dipartimenti di scienze politiche sono disegnati quasi solo per produrre personale politico e amministrativo), tuttavia nessun opinionista o studioso o politico sentirebbe di poter dire che sarebbe auspicabile che ci fosse una qualche forma di rapporto tra cultura e politica, o lamenterebbe l’esistenza di un cattivo rapporto e così via. Altrettanto inconcepibile e perfino fastidiosa risulterebbe la proposta che ‘gli intellettuali’ (un termine di difficile comprensione oltre Atlantico) abbiano un ruolo autorevole, eccedente rispetto a quello dei cittadini ordinari e delle loro associazioni o a quello dei media. La società degli Stati Uniti veste in questo caso l’abito dell’eguaglianza democratica, che non tollera le rampogne degli intellettuali, o
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Nadia Urbinati
comunque se ne sente libera, così come respinge le loro pretese di avere una saggezza più elevata di quella dei loro concittadini. Nei Paesi europei, invece, il rapporto tra cultura e politica è stato ed è oggetto di interesse e di indagine, e il ruolo degli intellettuali eccede la loro funzione professionale, accademica e di ricerca, per acquistare un’investitura pubblica in qualità di consiglieri dei leader e prima ancora del ‘principe sovrano’ che è il popolo o la nazione. In questo contesto viene coltivato il desiderio che il rapporto tra cultura e politica si sviluppi in un certo modo piuttosto che in un altro, e agli intellettuali si chiede di rivestire una funzione critica, di guida civile ed educativa. A tali figure di pensatori che non sono tecnici della cultura perché non hanno alcuna specifica competenza, la nostra società, o per meglio dire il nostro costume civile, assegna un ruolo importante in vista del raggiungimento di un ideale politico o della realizzazione delle promesse della democrazia. Non sto qui a indagare sulle ragioni di questa specificità europea, anche se non è azzardato dire che una di esse risieda nel fatto che le nostre democrazie sono nate sulle nazioni (e sulla costruzione di sovranità non semplicemente popolari ma nazionali) e che le nazioni sono, come ha spiegato Benedict Anderson, creazioni artificiali degli intellettuali e delle classi politiche che hanno lanciato il progetto dell’auto-determinazione nazionale e visto in questa entità una condizione necessaria per edificare le istituzioni dello Stato costituzionale e la stessa cittadinanza, la quale nei nostri Paesi è infatti raramente dissociata dall’appartenenza nazionale. Conseguente a questa ragione storico-politica, che affonda le sue radici nella Rivoluzione francese, vi è poi il fatto che l’inclusione del ‘terzo’ e del ‘quarto’ stato nella sovranità nazionale sia avvenuta in seguito a rivoluzioni o a guerre di indipendenza contro poteri cetuali fortissimi e abbia dovuto, se così si può dire, acquistare una credibilità e legittimità morale oltre che legale e istituzionale. Infine, l’accettazione della democrazia in società tradizionalmente gerarchiche e oligarchiche come quelle del continente europeo ha comportato l’intrapresa di un lavoro di creazione dei ‘mores’, per rendere il grande numero, il ‘volgo’, competente a governare e non solo a essere governato, capace di diventare agente autonomo che obbedisce per consenso e libera partecipazione invece che per comando coercitivo e obbedienza passiva. Apprendere a diventare ‘popolo’, dismettendo la subalternità del volgo, e apprendere a sentirsi un’unica nazione, nonostante le interne differenze sociali e culturali, non sono stati compiti decisi dal popolo medesimo né dalla nazione: sono stati processi modulati da chi
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Divorzio tra politica e cultura o tra politica e democrazia?
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sapeva (o credeva di sapere) che cosa significasse o dovesse significare essere ‘popolo’ ed essere ‘nazione’, e si è posto come guida intellettuale e civile che aveva con i più umili connazionali un rapporto come di docente a discente. Pertanto, il problema di come unificare le nazioni, di come dar loro un senso unitario che facesse sentire tutti parte integrante dello Stato, è stato un progetto e una costruzione, e soprattutto il fattore determinante nell’assegnare una funzione politica alla cultura. Si può ricordare il commento di Massimo d’Azeglio all’inizio della storia unitaria del nostro Paese: fatta l’Italia, si trattava di «fare gli italiani», un compito demiurgico affidato alle istituzioni politiche e a quelle culturali, come la scuola e la stampa, e soprattutto ai più competenti tra i sudditi del Regno. Nel richiamo al ruolo degli intellettuali era ‘incapsulata’ un’attitudine paternalistica della cultura verso la politica che, con il consolidarsi della democrazia, è diventata prevedibilmente obsoleta. Se dunque ancora nell’Italia dei primi decenni del secondo dopoguerra questa funzione costruttiva della coscienza politica democratica era affidata alla guida degli intellettuali, progressivamente, con il consolidarsi della democrazia, questo tradizionale rapporto di autorità della cultura sulla politica si è allentato: oggi, gli intellettuali sono spesso visti come fastidiosi predicatori, presuntuosi snob che rivendicano un’autorità cognitiva e morale che confligge con la sovranità democratica che risiede nel giudizio individuale di ciascun cittadino. Elencherò quindi brevemente alcune tappe salienti del rapporto tra politica e cultura per concentrarmi alla fine sul suo stato presente. Le tappe del rapporto tra politica e cultura All’inizio del 20° secolo, quando l’Italia stava con diffidenza e tentennamenti espandendo la cittadinanza1, il problema del rapporto tra politica e cultura fu sollevato dagli uomini di cultura per denunciare la potenziale degenerazione della loro missione di custodia del sapere a causa della cultura di massa che l’espansione del suffragio elettorale e le forme di partecipazione dei movimenti sindacali e politici sembravano comportare. Da questo punto di vista, Julien Benda parlò di «tradimento» dei grandi 1
Dopo la guerra di Libia si pervenne al suffragio universale maschile con legge 30 giugno 1913, n. 666, che prevedeva l’elettorato attivo composto da cittadini maschi di età superiore ai 30 anni.
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Nadia Urbinati
valori culturali (come la verità e il giudizio storico competente) da parte di quegli intellettuali che si mettevano al servizio delle partigianerie di partito o nazionalistiche, e Benedetto Croce assegnò all’uomo di cultura il compito di trascendere la politica pratica per farsi rappresentante della grande politica, quella incorporata nella storia nazionale (ed europea) in cammino verso la realizzazione della libertà. Nel secondo dopoguerra, il tema del rapporto tra cultura e politica prese nuova veste, affrontato da un’angolatura democratica nella quale l’intellettuale aveva il compito di contribuire alla formazione delle opinioni politiche. Dal 1945, dopo la liberazione dal nazifascismo, la cultura si confrontò dunque con il ruolo egemonico del partito politico, protagonista centrale della liberazione e poi della costruzione della nuova società. Rispetto ai decenni prefascisti, quando la cultura rivendicava una superiorità rispetto alla politica, ora il rapporto era invertito e la cultura, se voleva preservare un ruolo politico, si trovava a essere al servizio del partito politico, il ‘nuovo principe’ che con una pluralità di interventi si prefiggeva di guidare i lavoratori e i cittadini verso l’autogoverno della società in tutte le sue sfere. Il ‘nuovo principe’ si trovò tuttavia a dover operare all’interno di un quadro internazionale che bloccava ogni sua possibilità di intraprendere progetti politici di trasformazione e creava anzi steccati profondi all’interno della società democratica. In quegli anni di manicheismo dogmatico, la manifestazione più interessante della relazione tra cultura e politica fu senza dubbio la strategia del dialogo ingaggiata da Norberto Bobbio con il PCI. Essa infatti cercò di sovvertire gli steccati, dimostrando come la cultura critica fosse naturalmente disposta a favorire il confronto dialogico e come il ruolo degli intellettuali fosse non quello di educare o guidare verso un fine collocato oltre la politica democratica, ma quello di incalzare e criticare, chiedere conto alla politica del proprio operare nel nome dei diritti sottoscritti nel patto costituzionale. Questi sono stati, in sintesi, i passaggi più salienti della relazione tra politica e cultura nell’Italia liberale e democratica. La situazione attuale Qual è oggi la natura dei problemi che ci porta a sollevare di nuovo la questione di una crisi nel rapporto e addirittura di un divorzio tra politica e cultura? Mi sembra che nelle democrazie consolidate del nostro tempo
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Divorzio tra politica e cultura o tra politica e democrazia?
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si possano individuare due tipi di divorzio che vorrei per sommi capi analizzare, soffermandomi soprattutto sul secondo. Il primo tipo di divorzio – per il quale proporrei di rinunciare al punto interrogativo – è quello di cui leggiamo tutti i giorni sui giornali: tra la politica praticata e i principi e i valori fondamentali dell’uguale rispetto dei diritti e della legalità. In questo caso è la constatazione di un fatto – il divorzio tra etica pubblica, morale privata e pratica politica – che ci induce a riflettere sulle distorsioni dell’uso del potere politico da parte dei nostri rappresentanti. Non si tratta di un problema di interpretazione rispetto alle modalità attraverso le quali la cultura e la politica si rapportano o dovrebbero rapportarsi, ma di un problema di vero e proprio ‘sfiguramento’ delle istituzioni e di crisi della legalità e della legittimità. L’abuso dei finanziamenti pubblici ai partiti da parte dei politici per favorire sé stessi o i propri amici, invece che per svolgere al meglio la loro funzione pubblica di rappresentanza, è una piaga che deve suscitare estrema preoccupazione, una distorsione gravissima che si dimostra inoltre un fattore di impoverimento della società e di destabilizzazione delle istituzioni. La responsabilità della crisi della democrazia rappresentativa che l’Italia sta subendo pesa anche sui politici, sul loro dissennato desiderio di privilegio e la loro miopia sulle conseguenze della loro appropriazione indebita delle risorse pubbliche2. Non è solo l’aspetto dell’illecito che deve far riflettere tuttavia, ma la larghezza stessa dei mezzi economici di cui la politica istituzionale e i politici dispongono. Se consideriamo l’ammontare degli emolumenti dei politici si nota come questi aumentino progressivamente mano a mano che dal Nord dell’Europa si scende al Sud: più si va verso i Paesi che soffrono maggiormente la crisi economica, più aumentano gli emolumenti alla classe politica. Il problema in Italia è estremamente serio: la dispendiosità della politica è a un tempo un fattore di corruzione e di impoverimento. Ed è serio a tal punto che chi entra in politica in questa fase3, non sarà, c’è da temere, stimolato a riformare la politica, perché avrà tutto l’interesse a preservare lo status quo, a non cambiare nulla per evitare di 2
Lo straordinario risultato elettorale delle consultazioni del 24 e 25 febbraio 2013, con il Movimento 5 Stelle secondo partito in Parlamento è l’esito di questo divorzio tra etica pubblica, morale privata e pratica politica. 3 Il riferimento è soprattutto ai giovani che, privi di prospettive di lavoro, possono pensare di trovare nella politica una risposta ai loro problemi e addirittura una stabilità economica.
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Nadia Urbinati
ritornare alla situazione precedente, ovvero a una condizione lavorativa che si prospetta forse di mille euro al mese invece che di diverse migliaia. I troppi soldi nella politica costituiscono un problema gravissimo anche perché disincentivano qualsiasi riforma ragionevole e razionale e favoriscono il consolidamento di un ceto politico separato, di una rottura dell’eguaglianza tra cittadini a causa di un benessere materiale associato alla politica come professione che è al di là di ogni immaginazione per chi vive del proprio lavoro. La distanza tra cittadini ordinari e cittadini che entrano in politica diventa così enorme da lasciare intravedere una trasformazione oligarchica della democrazia. Questo aspetto è testimoniato quotidianamente dalla cronaca ed è legato a un altro tipo di divorzio sul quale vorrei soffermarmi più estesamente. Il secondo divorzio è più tradizionale ed è avvenuto nell’ambito del rapporto tra intellettuali e politica nella democrazia. Abbiamo accennato a come democrazia e intellettuali (o filosofia più in generale) non siano in sintonia, e in effetti non siano mai andati d’accordo. Dal tempo dell’antica democrazia ateniese che ha dato i natali a Platone ̶ il campione del governo aristocratico o della competenza contro quello democratico o del numero ̶ il governo dell’assemblea o, per venire ai nostri tempi, del suffragio universale e del Parlamento, ha incontrato forti resistenze da parte dei filosofi o degli intellettuali. Abbiamo sopra accennato alla coincidenza tra la rinascita del mito dell’intellettuale come custode del vero contro la cultura di massa nei decenni nei quali il suffragio elettorale veniva esteso agli analfabeti e ai lavoratori. Chi cerca la verità tradizionalmente guarda con sospetto a un sistema politico fondato sull’opinione, alla conta dei voti di egual peso, in altre parole alla quantità invece che alla qualità, alla maggioranza invece che alla competenza. Che la volontà di tutto un popolo possa decretare quel che il Paese dovrebbe fare o non fare non è mai piaciuto agli uomini di cultura. Il problema è antico e rinasce periodicamente, ogni qualvolta la politica democratica mostra i suoi lati deboli, o perché diventa populista o perché è inconcludente e inefficiente o perché diventa corrotta. In questa fase, dunque, la crisi di legittimità della politica che abbiamo sopra tratteggiato si incontra con una rivendicazione da parte della cultura di svolgere un ruolo dirigente, sopra e perfino contro la politica. Vorrei provare a esaminare questo nuovo attacco alla politica dei ‘non competenti’ che può assumere spiacevoli inclinazioni antidemocratiche, servendomi delle stimolanti indicazioni contenute in un articolo scritto
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Divorzio tra politica e cultura o tra politica e democrazia?
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nel 1954, in piena Guerra fredda, da Luigi Einaudi: un articolo di esemplare chiarezza e attualità dal titolo Conoscere per deliberare4. Einaudi propose un’acuta interpretazione del rapporto tra cultura e politica, stilizzando quattro tipi di intellettuali. Negli stessi anni tentò una simile analisi anche Elio Vittorini su «Il Politecnico», una delle più belle riviste di cultura politica e politica culturale uscite nel nostro Paese, e poi lo stesso Bobbio. Ma il ritratto delle tipologie intellettuali proposto da Einaudi è quello che meglio si applica all’Italia del nostro tempo. Einaudi si rifà agli schemi già proposti dalla filosofia classica5, usandoli e rielaborandoli nel quadro della democrazia costituzionale in una società di mercato, e ce li restituisce in un modo di grande interesse e utilità per interpretare i problemi che si trova ad affrontare la nostra democrazia, in bilico tra tecnocrazia e populismi. Secondo Einaudi, le figure dell’intellettuale nella politica o rispetto alla politica democratica (fondata cioè sul consenso, il voto e la regola di maggioranza) sono quattro: i teorici, i tecnici, i leader politici e i demagoghi o dottrinari (elencati nell’ordine suggerito dallo stesso Einaudi). Il primo tipo di intellettuale corrisponde ai teorici, coloro che propongono indirizzi o idee per l’interpretazione dei bisogni esistenti in una società; essi combinano principi e conoscenza, politica ed etica («Dicendo teorico, non si vuole accennare agli “esperti” – in lingua italiana detti “periti”...», ma a coloro che tracciano «il filo conduttore atto a scoprire il vero problema da risolvere»). Il secondo tipo corrisponde ai tecnici, coloro che hanno una conoscenza specifica in settori particolari e che sono al servizio dei teorici (i tecnici o periti «conoscono tutto del problema nei minimi particolari: precedenti, esperienze comparate estere, discussioni passate, presenti e future; tutto salvo il filo conduttore atto a scoprire il vero problema da risolvere»). Il terzo tipo corrisponde ai leader politici (e anche ai rappresentanti), coloro che hanno il compito difficile di scegliere tra le varie soluzioni e proposte offerte dai tecnici e «di scartare analisi e soluzioni politicamente popolari e di accogliere invece quelle buone, necessariamente 4
LUIgI EINAUDI, Prediche inutili. Dispensa 1: Conoscere per deliberare; Scuola e libertà, Torino, Einaudi, 1956. 5 Il pensiero va naturalmente ai dialoghi platonici nei quali troviamo una chiara distinzione, relativa alla società democratica, tra filosofi, tecnici, cittadini e sofisti.
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Nadia Urbinati
impopolari»; fatto questo, ai politici spetta «il compito specifico di far trangugiare all’opinione pubblica le soluzioni buone e spiacevoli travestendole da cattive e gradite». Si vede come secondo Einaudi il politico debba non seguire l’opinione pubblica ma formarla, farla riflettere su scelte e decisioni spesso impopolari. I leader politici non parlano a vanvera su ciò di cui la società ha bisogno, ma si avvalgono del lavoro dei teorici e di quello dei tecnici e operano attraverso un soggetto collettivo che sono le associazioni politiche, ovvero i partiti e i movimenti e gli organi di stampa e di informazione, cioè la sfera larga e complessa dell’opinione. Infine, il quarto tipo corrisponde ai dottrinari o demagoghi, che secondo Einaudi sono una forma di negazione dei teorici perché, contrariamente a questi ultimi, che sono sempre disposti ad abbandonare un’idea se si dimostra non cogente, ragionano a partire da «punti di vista» assunti come dogmi da cui tutto viene derivato e ricavato. Il dottrinario «sa già quel che deve dire. Anche se non è iscritto ad alcun partito; anche se non teme di essere espulso dal suo gruppo parlamentare; anche se non parla e non vota in conformità alle tavole statutarie deliberate nelle assise della sua parte, egli è genericamente liberale o socialista o comunista o democristiano o socialdemocratico o laburista o corporativista. Quindi sa che, “al punto di vista” della sua fede sociale e politica, la soluzione è quella». Il dottrinario non è fedele ai ‘principi’ ma ad assunti che sono predefiniti come validi e certi senza bisogno di passare per il fuoco dell’esperienza, scientifica o storica che sia. Soprattutto, il dottrinario lo si trova in tutti i campi politici, anche quelli liberali (il campo di Einaudi). Vorrei soffermarmi su questa quadripartizione per cercare di comprendere il problema del quale stiamo discutendo. I dottrinari o demagoghi, il liberale Einaudi li situava all’interno delle due grandi ‘chiese’ del suo tempo, che egli chiamava in questo modo: «social-ismi» e «liber-ismi». Quell’‘-ismo’ rappresentava la demagogia e il dottrinarismo. Entrambi gli ‘-ismi’ erano, secondo lui, deviazioni da prospettive legittime: quella che faceva capo alla giustizia sociale e quella che faceva capo alla libertà economica. Dottrinari o demagoghi svolgevano un ruolo negativo nella deliberazione perché annullavano la necessità della conoscenza (che invece era una condizione per una buona deliberazione, come il titolo dell’articolo einaudiano recitava), rendevano inutile la discussione e la dialettica politica, e soprattutto i teorici, i tecnici e i politici, ovvero tutti coloro che in forme e con metodi diversi usavano la ragione critica, la competenza, la riflessione e la deliberazione pubblica.
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Divorzio tra politica e cultura o tra politica e democrazia?
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I dogmatici rendono inutili i teorici perché i loro principi non sono aperti all’adattamento in quanto non sono in effetti «principi», bensì «punti di vista» o assunti a priori di verità; essi pretendono che la società si adatti ai loro assunti. I dogmatici o demagoghi rendono inutili anche i tecnici, perché la loro dottrina è onnicomprensiva e non ha bisogno di specialisti. E rendono inutili i politici ai quali si sostituiscono, perché non cercano di formare l’opinione pubblica ma di conquistarla per celebrare plebiscito e unanimismi; non amano cioè la dialettica politica, ma vogliono avere seguaci senza dubbi e senza scismi. Nella fase attuale della nostra democrazia ci troviamo a dover ancora una volta constatare l’insorgenza di queste forme, soprattutto dell’ultima, che vorrei approfondire. A essere a rischio di scomparsa sono oggi i teorici e i politici, cioè coloro che prestano la cultura all’interpretazione dei problemi della società, alla realizzazione di ciò che è utile e giusto per tutti, non per un ceto, per un gruppo, o per singoli individui, e nemmeno per la scienza. Sono coloro che intendono la politica come un servizio utilizzando uno strumento organizzativo (sia esso partito o associazione) per la formazione democratica dell’opinione e che mettono le conoscenze al servizio non della verità ma di una verità che deve essere mediata con l’opinione pubblica. La democrazia richiede questo poiché è e vuole restare governo fondato sull’opinione, il voto individuale e libero, e la regola di maggioranza. Ora, il declino del filosofo pubblico ̶ cioè del teorico nella tipologia einaudiana della figura critica di intellettuale ̶ e la crisi di legittimità del politico come rappresentante di un’attività pubblica finalizzata alla deliberazione e alla decisione lasciano un vuoto che è occupato dalla figura del dottrinario o del demagogo (il quale oggi è peraltro più ‘liber-ista’ che ‘social-ista’); si tratta però di un nuovo tipo di dottrinario, perché fa credere che la tecnica economica sia la sola forma scientifica e corretta di cultura, che può e anzi dovrebbe governare la società in tutti i suoi settori come se fosse un metodo magico che serve a capire tutto della società e dei comportamenti individuali (una versione nuova del vecchio materialismo dialettico che, come è noto, voleva spiegare tutto). Assistiamo a una reazione all’assenza di politica: il dottrinario-tecnico ‘liber-ista’ fa emergere il suo alter ego speculare che è il demagogo einaudiano, il negatore di ogni tecnica, di ogni teoria critica e di ogni forma politica. L’uno è pantecnicismo, tecnica che diventa dogma, l’altro è audience, opinione che diventa sovrano plebiscitario; tecnici dottrinari e demagoghi plebiscitari
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Nadia Urbinati
sono le figure che oggi occupano il posto lasciato dal declino del discorso politico e dal lavoro del teorico, dal declino cioè delle funzioni riflessive della cultura e della politica democratica. Einaudi nel 1954 diceva di aborrire i dottrinari di ogni risma ai quali contrapponeva il ‘politico’ come operatore della politica del consenso e il ‘teorico’ come figura di pensatore che ben si adattava al modello socratico di indagine: la vespa che pungola, che solleva problemi, che incalza i governanti e l’opinione pubblica nel nome dei principi di libertà e di giustizia scritti nel patto costituzionale. Il teorico come mente critica che si sforza di promuovere una sana distanza tra la mente dell’individuo cittadino e la mente dell’opinione diffusa o imperante, che rispetta l’opinione ma non affoga il pensiero in essa. Questa figura è oggi in declino come lo sono i liberi istituti culturali, come lo sono molte riviste di cultura, spesso vicine alla chiusura, segnali di una crisi profonda della teoria di cui la politica ha invece bisogno per non farsi assorbire dalla tecnica economica e dalla demagogia. Il suo declino è dunque legato e anzi è un riflesso del declino della politica, la quale senza la teoria si fa praticismo e affarismo, utile a chi la svolge, non ai cittadini nel nome dei quali è svolta. È proprio in relazione al declino di queste figure e tipi intellettuali che oggi parliamo del divorzio tra cultura e politica. In questo tempo di democrazia plebiscitaria e tecnocrazia della finanza, il mondo delle decisioni di governo diventa una sottospecie del mondo della tecnica che si fa dogma mentre quello dell’opinione diventa il mondo roboante dei demagoghi. Al contrario, la funzione civile della cultura in una democrazia dovrebbe consistere nel raffinare le competenze teoriche, tecniche e politiche. Si assiste, insomma, a un processo di semplificazione, di superamento della separazione dei ruoli e si ha l’impressione che, in questa geografia desertificata di teorici e di politici, ai cittadini resti ben poco da fare, perché o non sono tecnici abbastanza per capire e giudicare che cosa il governo dei tecnici fa, oppure assistono nel ruolo di un’audience passiva divertita e rumoreggiante – come la plebe nel Colosseo o nel Foro dell’antica Roma – a uno spettacolo di immagini e di parole messo in scena da oratori e gladiatori: i demagoghi di turno e i loro esperti di tecnologia informatica. In tale panorama semplificato possiamo verificare come il primo divorzio, quello tra politica praticata ed etica, si intrecci a questo. Si tratta infatti di due forme speculari dello stesso processo, cresciute nell’assenza dello spazio della politica come teoria critica ragionata e riflessiva e come
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Divorzio tra politica e cultura o tra politica e democrazia?
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impegno civico nella costruzione di una opinione pubblica democratica. Se questa diagnosi non è destituita di fondamento, allora un terzo divorzio potrebbe imporsi alla nostra riflessione, con un punto interrogativo ancora più inquietante, perché in questo caso si tratterebbe di un divorzio non tanto tra politica e cultura, ma tra politica come azione deliberativa e critica, e quindi democratica, e una politica ridotta a conoscenze specifiche che solo pochi possiedono. Penso sia questo il vero problema oggi, ovvero che la politica in sé stessa sia in questione. Ed è a tale riguardo che ci si dovrebbe interrogare sul rapporto tra democrazia e politica. Sembra un paradosso dirlo, perché la democrazia è il luogo della politica, è, anzi, la politica nella sua espressione più ricca. Ma il fatto stesso che oggi la parola democrazia sia coniugata con tanti aggettivi ̶ epistemica o della competenza, populista, demagogica o dell’audience ̶ ci induce a sospettare che a venir meno o ad affievolirsi sia proprio la dimensione della politica. Perché se la democrazia è epistemica è solo per i tecnici, per coloro che sanno e questo è davvero un ritorno al platonismo, la più radicale forma di antidemocrazia perseguita nel nome del bene generale, che solo i saggi o i sapienti vedono e comprendono. Se invece è demagogica, la politica è per coloro che hanno il linguaggio roboante delle emozioni non riflessive e i mezzi per farlo circolare. In ogni caso, a essere in crisi sarebbe il connubio tra una politica fatta di deliberazione critica, partecipazione e passione per l’‘interesse generale’6 e la democrazia come forma di governo e di politica che include tutti, sapienti e non sapienti, e la cui materia è l’opinione, non la verità, perché fondata sulla premessa che ogni decisione possa essere cambiata a giudizio dei cittadini e con l’apporto della loro partecipazione, per via di voto e di formazione delle opinioni. In conclusione, se questa diagnosi che ho proposto con l’ausilio della riflessione di Einaudi è ragionevole, allora il divorzio su cui dovremmo riflettere non è tanto quello tra politica e cultura, ma quello tra democrazia e politica.
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Va ricordato che nel 2012 si è celebrato anche il 300° anniversario della nascita di JeanJacques Rousseau e il 250° anniversario del suo Contratto sociale.
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mAURO mAgATTI
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Uscire dalla crisi: una prospettiva europea
Le mie considerazioni si inseriscono nel quadro tracciato da Nadia Urbinati: la breve riflessione che propongo si ricollega infatti alle motivazioni che hanno condotto alla crisi delle quattro figure di intellettuale individuate da Einaudi – e alla loro ridefinizione, ovvero alla crisi dei politici e dei teorici e al successo dei demagoghi e dei tecnici – per ragionare sulla crisi italiana e valutare le possibili prospettive future. L’Italia ha vissuto l’ultima grande stagione storica (1989-2008) attraverso l’esperienza della seconda Repubblica; si è trattato di un periodo di cambiamenti epocali, in cui il mondo è stato ribaltato sottosopra e in cui fondamentalmente c’è stata una straordinaria riorganizzazione capitalistica. Siamo stati brutalmente trascinati dalla corrente – lasciandocene in parte sommergere – e abbiamo colto solo le parti più banali di questa grande trasformazione. Per questa ragione, nel momento in cui assistiamo al profilarsi di una nuova stagione storica, ci troviamo in una crisi drammatica. In altri termini, abbiamo preso solo la parte meramente comunicativa e consumistica di una stagione che proponeva un altro versante molto impegnativo, quello tecnico, legato ai processi di globalizzazione e a tutti gli aspetti a essi collegati. Si tratta di un fenomeno che non ha coinvolto soltanto il nostro Paese, credo che la crisi dell’Europa segnali una mancanza di comprensione da parte del Vecchio continente rispetto agli ultimi trent’anni. Io sostengo che l’Europa non ha ben capito cosa stava succedendo e che fondamentalmente la politica che è stata giocata ha avuto un unico attore in campo, gli Stati Uniti, con un disegno che era politico, economico e strategico. Il divorzio tra cultura e politica che si registra in Europa, e ancora più gravemente in un Paese marginale come l’Italia,
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Mauro Magatti
nasce appunto dal fatto che noi abbiamo seguito un processo che aveva altri piloti, seguiva altri ragionamenti e si fondava su un discorso politico che noi abbiamo solo orecchiato. Penso, quindi, che il divorzio tra cultura e politica, l’appannamento dei teorici e dei politici e l’emergere dei tecnici e dei demagoghi siano espressione di una incapacità di leggere il tempo, di una insufficiente interpretazione e quindi non adeguata capacità di lettura, accompagnata dal semplice inseguimento di eventi dominati da altri. È questo sostanzialmente un difetto legato a una condizione di marginalità storica, e quando si è marginali si tende spesso a seguire determinati processi senza nemmeno avere compreso con chiarezza di che cosa si tratti. Faccio queste affermazioni perché a me non sembra corretto dire che negli ultimi decenni non c’è stata una visione politica. C’è stata invece. Negli Stati Uniti, il modello neoliberista introdotto da Ronald Reagan e riclassificato in una versione differente da Bill Clinton è stato una grandissima visione politica, che ha portato gli Stati Uniti e i loro alleati inglesi a essere stabilmente al centro del mondo. Da questo punto di vista, desidero anche sottrarre queste riflessioni alla dimensione di provincialismo in cui sempre vengono confinate: il consueto discorso legato all’inadeguatezza della classe dirigente, oppure all’anomalia del popolo italiano, le considerazioni sul rifiuto della politica di investire in cultura e quindi in comprensione – che significa i centri di ricerca e le università – ha fatto sì che la politica si riducesse al massimo a tecnica, e in Italia tendenzialmente a poca tecnica e a tanta demagogia. È chiaro, infatti, che sono le forme sociali ad aver subito un cambiamento radicale. La gran parte delle categorie che non solo l’uomo della strada ma anche i politici hanno in mente sono categorie che non c’entrano quasi più nulla con la realtà con la quale ci confrontiamo. In una situazione in cui sono proprio le categorie a essere inadeguate, la cosa più semplice e più ovvia, l’aggiustamento più immediato, è la capacità di agire in un’ottica di breve periodo per creare consenso, inteso con il trattino in mezzo, cioè ‘con-senso’: ‘sentire’ qualche cosa insieme per un momento, un fenomeno che permette di aggregare una realtà tendenzialmente non comprensibile e non spiegata, per raggiungere un potere che è di per sé traballante. Da tale punto di vista abbiamo avuto in Italia degli straordinari interpreti nella creazione del ‘con-senso’. L’obiettivo era di raggiungere il consenso, non governare, nella convinzione che il ‘consenso’ fosse di per sé il risultato massimo che si potesse ottenere.
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Uscire dalla crisi: una prospettiva europea
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D’altra parte, i cittadini dimostrano di avere consapevolezza di tutto questo. Quando sostengono che la politica ‘non serve a niente’ registrano questa incompetenza, questa inadeguatezza; si accorgono che i processi hanno altre logiche, altre dinamiche, rispetto alle quali la capacità di mediazione della politica è largamente insufficiente e dunque tendono progressivamente a diffidare di chi si propone sulla scena pubblica come un riferimento politico. Su questo piano la crisi – e introduco il secondo punto che vorrei sottolineare – è la crisi profonda di una cultura politica europea, e l’abbiamo visto in questo anno di estrema difficoltà. Valdo Spini diceva che la crisi nasce in America e si sposta in Europa, ed è vero: ma si sposta in un’Europa dove palesemente c’è stata una domanda non soddisfatta di sovranità. Nel momento in cui è venuta alla luce la gravità del debito pubblico, negli Stati Uniti il governo interviene e, in ultima istanza, lo Stato americano si fa carico del debito. In Europa, invece, in questo periodo chiaramente la questione irrisolta era: chi alla fine avrebbe sostenuto questo debito che si spargeva per l’Europa? E c’è stata una fortissima domanda non soddisfatta di sovranità. Mentre la politica sembra occuparsi di questioni oscure, il tema vero è se l’Europa vuole raccogliere la sfida che le è posta dalla crisi. Tutto il resto sono disquisizioni effimere. Io credo ancora che la crisi sia una grande opportunità, nonostante i rischi terrificanti che essa comporta, in particolare in questo Paese. In realtà, la crisi potrebbe essere l’occasione per risvegliare sia il pensiero, stimolando un’analisi maggiormente realistica della situazione, sia l’iniziativa politica: questa crisi sta sottolineando che il progetto politico nato negli anni Ottanta del Novecento ormai è terminato e non regge più. Perciò la situazione attuale sta chiedendo nuova politica laddove ci sarà qualcuno che sia in grado di dare risposta politica. È chiaramente il tema dell’Europa la questione politica; un tema che si riallaccia – ed è un altro aspetto molto difficile da affrontare – alla sfida al populismo. Negli ultimi vent’anni, soprattutto in questo continente al traino di un progetto gestito altrove, il populismo ha dilagato; un populismo che nasce dall’insoddisfazione della politica, da un disagio soggettivo e dall’assenza di categorie interpretative del mondo che erano fornite sino agli anni Ottanta dalle grandi ideologie. Oggi il cosiddetto uomo della strada non comprende letteralmente più nulla di quel che sta accadendo, perché gli mancano le categorie cui
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Mauro Magatti
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ricondursi. È molto importante, a mio parere, che questa crisi sia affrontata, naturalmente giorno dopo giorno, mantenendo un saldo legame con la realtà e con la consapevolezza che la via di uscita dalla crisi sta nel restituire dignità e spazio ai teorici e ai politici. C’è bisogno in Italia e in Europa di lanciare un ponte che consenta ai Paesi che ne fanno parte di compiere un passaggio difficile, e questo lo possono fare solo i politici; ma i politici possono esporsi solo se dietro hanno una visione teorica basata su un’analisi e non su una mera invenzione. La via di uscita dunque, per quanto difficile, dalla crisi attuale è in un rapporto necessario tra cultura e politica, altrimenti l’avvitamento che stiamo drammaticamente constatando è destinato a durare.
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gIACOmO mARRAmAO
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Agire politico e responsabilità collettiva
Gli interventi che mi hanno preceduto hanno focalizzato l’interrogativo intorno a cui si snoda il nostro incontro – se vi sia stato un divorzio tra politica e cultura in Italia – su un piano non provinciale. Premetto rapidamente che non penso ci sia stato un divorzio nel senso pieno della parola, con l’intervento di un giudice e una attribuzione di colpa: ritengo, piuttosto, che si tratti di una separazione di fatto che dura ormai da tempo, con la politica che continua a negare qualunque forma di estraneità o ostilità alla cultura. In primo luogo, mi pare molto importante che i precedenti interventi abbiano posto una questione a mio avviso decisiva: le vecchie mappe di navigazione non servono più; se ci ostiniamo ad adoperarle, corriamo il rischio di imbatterci in cose diverse da quelle che cerchiamo. In secondo luogo, occorre dire che ci troviamo sulla soglia di una nuova grande trasformazione i cui tratti siamo ancora però ben lontani dall’aver individuato. Con ogni probabilità quel sistema che chiamiamo ‘capitalistico’ non esiste più nel senso della razionalità moderna del termine. In terzo luogo, siamo eredi di due crisi che non si annullano a vicenda ma si sommano: la crisi del 1989 e quella del 2008, cioè la crisi del comunismo di Stato e la crisi del mito del mercato autoregolato, che troppo a lungo è stato ritenuto in grado di garantire spontaneamente razionalità e problem solving. Questa duplice crisi ha comportato la fine anche dell’oscillazione pendolare, che ha caratterizzato quattro secoli di modernità, tra mercato e Stato, tra principio di mondialità e principio di territorialità. Se si leggono i testi dell’ex ministro dell’economia e finanze
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Giacomo Marramao
Giulio Tremonti1, vediamo che oggi egli punta a curare con il ricorso allo Stato gli squilibri di mercato, mentre nella fase in cui era entrato in crisi il Welfare State, e in generale il modello statalista, lui stesso aveva promosso (o, se non sbaglio, quantomeno avallato) un approccio ‘mercatista’. In altre parole, il pendolarismo non funziona più: non possiamo uscire dalla crisi né con il mercato né con lo statalismo in senso classico. Un altro tema, che ponevano sia Nadia Urbinati sia Marc Lazar, è che siamo al centro di mutazioni insidiose e profonde del sistema democratico. Nadia Urbinati ha svolto considerazioni sul dualismo tecnocrazia/ demagogia per taluni aspetti analoghe a quelle da me dette o scritte in altre occasioni. Bisogna tuttavia intendersi sul concetto di populismo, distinguendo il populismo classico di tipo movimentista, a un tempo eversivo e costituente, destabilizzante e istituzionalizzante (come nel caso del peronismo e di altri populismi, non solo ibero-americano), dal neopopulismo mediatico di casa nostra: se il primo infatti punta alla costruzione politico-ideologica della nozione di Popolo, il secondo punta invece a decostruirla, derubricando il popolo a mera audience, secondo una sindrome ‘spettatoriale’, che ha indotto alcuni sociologi a definire la nostra ipermodernità postdemocratica come un’epoca ‘neobarocca’. Resta da comprendere come si collochi l’Italia in questo quadro: di certo si colloca dentro tali processi e non è certo da escludere – come sostengono alcuni colleghi filosofi come Slavoj Žižek e altri – che il nostro Paese sia una sorta di laboratorio, in cui si anticipano trasformazioni che coinvolgeranno in seguito altre democrazie. In ogni caso, penso che in Italia abbiamo avuto un ulteriore e cruciale problema riconducibile a un processo, iniziato negli anni Ottanta, di ‘deculturalizzazione’ della politica, che è andato di pari passo con un processo di deindustrializzazione dell’economia italiana. Andando indietro nel tempo, ci rendiamo conto che l’Italia ha intanto potuto avere una straordinaria crescita economica tra gli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta, in quanto quella crescita si basava su un progetto-Paese imperniato su un investimento culturale molto forte e su una grande cultura e dinamica industriale che affondava le sue radici in una cultura imprenditoriale di notevole livello. In altri termini: la grande 1
Giulio Tremonti è stato più volte a capo dei dicasteri dell’Economia e delle Finanze nei vari governi Berlusconi (1994-95, 2001-04, 2005-06, 2008-11).
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Agire politico e responsabilità collettiva
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industria italiana per un verso e, per altro verso, la grande produzione culturale italiana di quel periodo hanno determinato, con il loro circolo virtuoso, una fisionomia del Paese che poi si è venuta decomponendo e sgretolando. Come si è detto, ed è indubbiamente vero, il profilo postmoderno – e disinvoltamente etichettato come postindustriale da certi sociologi – di alcuni governi della seconda Repubblica, si è tradotto di fatto in uno smantellamento progressivo del sistema industriale, con la conseguenza di una frantumazione dell’identità culturale collettiva che io vedo, al contrario di Pier Paolo Pasolini, non nella fase industrialista dell’Italia, ma nella fase cosiddetta postindustrialista. La decomposizione, in altre parole, è coincisa con l’avvento di un sistema che ha determinato uno sfaldamento dell’industria e dunque la frantumazione anche della stessa identità culturale. Su questo punto sono d’accordo con Antonio Polito quando osserva che il popolo si disgrega proprio nel momento in cui viene meno il progetto-Paese e il soggetto politico che dovrebbe supportarlo. Si è affermato dunque, in questi anni, un modello neopopulista mediatico che, anziché costruire politicamente il concetto di popolo (e non esiste, come sappiamo, democrazia senza costruzione politica del concetto di Popolo), lo destruttura, lo frantuma in audience, secondo la sindrome spettatoriale neobarocca sopra evocata. Va detto, tuttavia, che questa sindrome non ha funzionato, proprio per le ragioni che illustravano prima Marc Lazar e Mauro Magatti: nel nostro Paese, e in generale in tutti i Paesi europei, i cittadini si mobilitano, i movimenti di protesta pongono delle domande nuove, in un tessuto che è attraversato da profonde trasformazioni sociali, culturali e antropologiche. Per l’Italia, in particolare, una delle mutazioni più profonde è dovuta al fatto che il lavoro indipendente sta diventando più consistente sul piano numerico del lavoro dipendente, con tutte le problematiche legate alla tassazione che tale fenomeno comporta, tra cui non ultimo il fatto che le tasse vengono avvertite come un fattore di pressione e di coercizione all’interno di una economia che è ormai divenuta una economia del rischio. Si pone, dunque, con forza la questione del rapporto tra etica ed economia, tematica weberiana toccata anche da Valdo Spini, che non può non rimandare a un altro nodo ormai al centro del dibattito dei teorici dell’economia: quelli seri, non di quelli che operano sulla base di un registro tecnico-contabile (e mi riferisco soprattutto alla ossessione tedesca per la contabilità). Finalmente, anche gli economisti più avvertiti sono
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Giacomo Marramao
giunti alla conclusione che l’elemento della fiducia, della motivazione etico-culturale, dell’identità collettiva è un fattore imprescindibile per la rigenerazione dell’economia stessa. Su etica e politica, Max Weber ha sostenuto a suo tempo qualcosa di molto importante: una verità che, proiettata sul caso italiano, ci offre oggi una chiave di lettura di estrema rilevanza, facendo emergere come la corruzione italiana dipende certo in parte da una antropologia italiana radicata, ma soprattutto da un sistema che induce corruzione. Su questo tema, Weber si esprime con molta chiarezza quando afferma che è certo fisiologico che in ogni democrazia si dia la presenza di una massa di persone che vivono e si alimentano attraverso la politica. Ma, aggiungeva Weber, la fisiologia si ribalta in patologia quando il numero di coloro i quali vivono «di» politica supera di gran lunga il numero di coloro i quali vivono «per» la politica: allora il meccanismo democratico inevitabilmente entra in crisi2. Lo dice in maniera molto chiara: è una ragione di equilibri. L’estensione enorme dei costi della politica in Italia, che non riguarda solo i parlamentari ma anche un largo strato politico-amministrativo, situato soprattutto nei consigli regionali, induce corruzione, anche in persone che sarebbero magari antropologicamente meno inducibili in tentazione. E allora io penso che il nostro tempo dei diritti – l’età dei diritti di cui parlava Bobbio3 – in Occidente va completato con un discorso molto serio intorno ai doveri. Il mio richiamo ai doveri non allude ad alcun modello verticale-gerarchico, autoritario e impositivo, ma piuttosto a un modello orizzontale, capace di saldare i due poli della co-decisione e della co-responsabilità. Appunto di responsabilità ha parlato Valdo Spini: senza una assunzione di responsabilità collettiva rispetto al nostro destino comune, rispetto alla straordinaria ricchezza del patrimonio storico e culturale, materiale e immateriale, che caratterizza il nostro Paese, ma anche gli altri Paesi dell’Europa, è difficile pensare di uscire dalla crisi. Si tratta di comprendere, prima che sia troppo tardi, che il sentimento di appartenenza a un destino comune non è un’assunzione ideologica o un residuo del passato, ma un fattore fondamentale per la stessa credibilità sul terreno economico. 2
Per tale problematica, cfr. mAx WEbER, La politica come professione (1919), in Id., Il lavoro intellettuale come professione, nota introduttiva di Delio Cantimori, traduzione di Antonio Giolitti, Torino, Einaudi, 1948 (9a ed. 1985). 3 NORbERTO bObbIO, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990 (11a ed. 2011).
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Agire politico e responsabilità collettiva
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Questa assunzione di responsabilità può avvenire naturalmente non solo attraverso l’etica, ma soprattutto attraverso la politica, e la politica oggi non può non radicarsi all’interno di una dimensione macroregionale (o, per riprendere una felice definizione di Habermas, «postnazionale») come quella della sfera pubblica europea. La tesi che intendo in conclusione proporre parte da un presupposto: se una lezione va tratta dal secolo grande e tragico che abbiamo alle spalle è la smentita dell’idea della morte della politica predicata in paradossale convergenza tanto dai liberali quanto da Marx: per entrambi, non solo lo Stato ma la stessa politica erano destinati gradualmente ad estinguersi. Sono al contrario convinto che dobbiamo incominciare a pensare alla democrazia del futuro, alla democrazia del 21° secolo, come una democrazia che può vivere unicamente attraverso una rigenerazione della politica intesa come dimensione permanente del nostro essere nel mondo e non come una dimensione che è destinata a scomparire in un’auto-organizzazione del ‘sociale’. La politica è il nostro modo di stare insieme come comunità umana: questo sosteneva Hannah Arendt. Ma è anche ciò che diceva il vecchio Aristotele: fuori della Polis non si danno soggetti umani ma soltanto bestie o dèi.
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gIUSEppE VACCA
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La necessaria transizione consapevole della politica
Mi soffermerò a ragionare su un aspetto della introduzione di Valdo Spini che più direttamente interpella il lavoro delle nostre fondazioni, cioè la necessità di rispondere innanzitutto alla domanda se sia possibile contribuire alla costruzione di quello che lui ha chiamato il substrato culturale della terza Repubblica, per poi vedere come. Naturalmente, si parla di seconda Repubblica, terza Repubblica per pura convenzione, ma non vedo nessuna terza Repubblica alle porte, a meno che non si verifichino verso la fine dell’anno determinate condizioni. Partiamo dall’avvento della seconda Repubblica. Condivido pienamente la considerazione sull’‘antieccezionalismo’ cui ci richiama Marc Lazar: in termini indifferenziati i problemi riguardano tutti i Paesi europei, anche se non arrivo alle conclusioni, secondo me troppo pesanti, di Mauro Magatti circa l’inadeguatezza dell’intera Europa e la visione dell’ultimo trentennio come un trentennio di storia mondiale a un solo protagonista egemonico, cioè gli Stati Uniti. A mio parere, è vero il contrario, ma senza entrare in una questione che richiederebbe maggiore approfondimento, mi domando: come è finita la prima Repubblica? È finita perché si è concluso il trattato di Maastricht. Mi limito, a questo proposito, a rinviare alle poche ma densissime pagine di Guido Carli1 di ritorno da Maastricht, quando ricordava che la classe politica italiana non si era resa conto di aver sottoscritto la sua fine per come era e per come erano le sue culture e i suoi stili di governo. Guido Carli, ministro del Tesoro dal 1989 al 1992, è stato uno dei firmatari del trattato di Maastricht (7 febbraio 1992). Si vedano le sue considerazioni in Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari, Laterza, 1993.
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Giuseppe Vacca
E naturalmente, c’è da chiedersi, le culture politiche degli attori politici del tempo l’hanno percepito? Si può rispondere, molto sinteticamente: no, non l’hanno percepito; perché altrimenti non si comprende perché in Italia questo mutamento di fase storica sia avvenuto – qui sì con una peculiarità che non si riscontra in nessun Paese occidentale – con l’espianto dell’intero sistema dei partiti. Intanto, va tenuto presente il fatto che con il 1991 è venuto meno il PCI, cioè uno dei presupposti che teneva in equilibrio un sistema politico in cui l’asse della legittimazione a governare era l’anticomunismo (ed è anche questo un mutamento che non viene messo a tema immediatamente in maniera utile da nessuno). Ma soffermiamoci poi sulle elezioni del 1992, quando già il pentapartito era finito, perché i repubblicani si erano tirati fuori dopo un anno di bombardamento delle istituzioni europee sul fatto che l’Italia doveva ricominciare a convergere con i parametri dell’integrazione europea: non troverete traccia (se non in qualche documento che non fu mai al centro dei comizi e della campagna elettorale, per esempio del gruppo parlamentare della Democrazia cristiana alla Camera) del fatto che quel passaggio alla dimensione europea cambiava i paradigmi della politica nazionale. Perché in fondo quelle elezioni si sarebbero dovute giocare intorno a un sì o a un no su come, cambiando il vincolo esterno, doveva cambiare anche la politica italiana. Data la profonda inadeguatezza di tutte le culture politiche a quel punto della storia d’Italia, noi siamo andati ad affrontare la transizione di quel periodo con il seguente obiettivo: semplificare, semplificare, semplificare. Un approccio sostenuto da parte di varie forze che l’hanno trainato sul terreno politico, e tra queste il partito a cui io appartenevo all’epoca, i DS (Democratici di sinistra). Si vuole un Paese normale? Allora il sistema da adottare è quello del bipolarismo del maggioritario, perché questo dà nuova razionalità ed efficienza a un sistema politico attardato dalla mediazione e dalla complessità della vecchia democrazia dei partiti di massa. La semplificazione ascrivibile al bipolarismo del sistema maggioritario ha avuto come effetto l’emergere di una certa figura della destra italiana e di una certa figura della sinistra italiana, nonché di un certo panorama politico che il Paese non è in grado di reggere, e i quindici anni successivi lo hanno dimostrato. Il punto estremo e drammatico in cui siamo, se ne guardiamo gli effetti nella vita reale del Paese, sta nell’esasperazione dei suoi dualismi, delle sue asimmetrie e delle sue incongruenze. Allora su che terreno si
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La necessaria transizione consapevole della politica
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deve lavorare per dare sostrato culturale alla terza Repubblica? Si deve cercare di lavorare perché, se e quando matureranno le condizioni, il nesso europeo della politica italiana non venga cosi ignorato, bistrattato o gratuitamente manipolato come è stato nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica o per tutta la storia della seconda Repubblica. Guardando al futuro, su cosa dunque possiamo investire? Sulla possibilità che Obama vinca le elezioni americane2, perché sono due anni che cerca di strattonare l’Europa affinché prenda in considerazione la possibilità di favorire una convergenza fra euro e dollaro. Quella che si chiama ‘crisi finanziaria’ all’origine ha proprio una progressiva insostenibilità del dualismo competitivo fra euro e dollaro rispetto alle ragioni del contendere in una economia mondiale sempre più multipolare e conflittuale. Se vogliamo individuare qual è il nodo centrale da risolvere perché prima o poi si arrivi a una regolazione del sistema monetario internazionale su basi che non possono essere più quelle di Bretton Woods, dobbiamo affrontare il tema della convergenza euro-dollaro. Se l’Occidente arriva a questo confronto continuando a farsi la guerra, non solo arriva male l’Europa ma arrivano male anche gli Stati Uniti e vorrei ricordare3 che gli Stati Uniti hanno un debito pubblico di gran lunga maggiore di quello europeo e lo hanno accumulato per ragioni che qui sarebbe interessante analizzare, perché questa crisi non comincia nel 2007 ma nel 2000, quando, con la bolla della Clinton economics, la crisi da globalizzazione deregolata e asimmetrica colpisce il centro dell’economia mondiale. Se invece si verificasse il primo presupposto, ovvero la vittoria di Obama, e poi l’anno venturo le elezioni italiane e successivamente le elezioni europee avessero un certo esito4, può darsi che si possa avviare una politica innanzitutto di convergenza euro-dollaro, altrimenti tutto ciò che adesso, date le turbolenze, viene dato come qualcosa che può essere accelerato (l’unione politica europea, la convergenza fiscale, ecc.), si blocca un’altra volta. Barack Obama ha vinto le elezioni presidenziali il 6 novembre 2012, aprendo così il suo secondo mandato il 20 gennaio 2013. 3 Il riferimento è in risposta a Mauro Magatti, cfr. supra. 4 Le elezioni europee del 25 maggio 2014, durante il governo di Matteo Renzi (PD), hanno registrato l’attestazione del Partito democratico al 40,89%, corrispondente al più forte gruppo del PSE. 2
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Giuseppe Vacca
Non dimentichiamo che l’Europa si è costruita sulla base di un’idea che poi si è concretizzata nel trattato di Maastricht, ma era stata concepita vent’anni prima: era il piano Werner, secondo cui creare una seconda moneta serviva come scudo dal signoraggio del dollaro. Quando siamo arrivati a fare la moneta unica, l’abbiamo realizzata come ce l’hanno dettata i tedeschi, i quali ce l’hanno dettata perché erano in condizioni di farlo, considerato che, a loro volta, avevano il problema del passaggio dal marco all’euro in condizioni di forte pressione del dollaro; basti pensare a quanti capitali tedeschi ha pompato negli Stati Uniti la Clinton economics. Nel momento in cui l’Europa riprenderà il suo cammino (secondo il modello del manifesto di Parigi5 o secondo il modello del manifesto di Monti6 e di altri dodici leader di Paesi europei, centrato su un processo di integrazione che renda più simile l’Europa agli Stati Uniti) sarà chiaro a che cosa noi dobbiamo parametrare la costruzione del sostrato culturale della terza Repubblica: a un sistema politico italiano che tragga le conseguenze intorno alle grandi opzioni reali dettate dal vincolo esterno, dai processi di mondializzazione, dal nesso europeo. È chiaro che ciò porta a inserire questo discorso in quello – già accennato da altri relatori – sulla dimensione sempre più sovranazionale esplicita dei partiti, perché è già dalla rivoluzione neoconservatrice americana che i partiti nazionali sono derivazioni più o meno sgangherate di partiti sovra-nazionali progettati con estrema coerenza fra programma economico, programma politico, programma culturale e morale. Su questo aspetto dobbiamo riflettere per vedere se riusciamo a mettere un po’ più di conoscenza innanzitutto nelle classi dirigenti italiane, e non solo politiche, su quali sono i termini del gioco, su come li si affronta e su come si dovrà poi agire se questo processo andrà avanti. Noi dovremo partire da una costituente, perché dovremo rifare la Costituzione italiana o almeno la sua parte ordinamentale e non avere più l’illusione pre-quarantottesca del Novecento di ricavare modelli da applicare a calco dalla Francia, dalla Germania, dall’Inghilterra, oppure di fare semplicisticamente un ‘Paese normale’ che non si capiva in realtà che cosa dovesse 5
Il documento programmatico delle Fondazioni progressiste europee, Un nuovo Rinascimento per l’Europa, firmato a Parigi il 16 marzo 2012. 6 Il riferimento è al Manifesto programmatico in sette punti, lanciato da Mario Monti il 2 gennaio 2013, per dare una svolta alla politica italiana.
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La necessaria transizione consapevole della politica
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essere. Occorre provare a riorganizzare un sistema politico italiano inserendolo dentro un processo di integrazione di cui dovremo tenere conto in maniera un po’ più consapevole; un processo che sicuramente non dovrà avere l’andamento confuso della transizione 1989-1994.
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Parte seconda Strategia Europea 2020 Il ruolo degli Istituti di Cultura Italiani
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VALDO SpINI
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L’AICI verso l’Europa
Da una Unione Europea che si poneva gli obiettivi della strategia di Lisbona1, cioè di primeggiare nella innovazione, nella ricerca e nel soft power a livello planetario, siamo passati a una Unione Europea che ha di fronte problemi molto gravi. Questo forse proprio perché si è trascurato di mettere in atto gli obiettivi ambiziosi che si erano invece giustamente individuati. Oggi le fondazioni e gli istituti dell’AICI si pongono il problema di fare un salto in avanti. Le nostre Fondazioni e i nostri Istituti sono le prime vittime dei tagli ai contributi culturali sia del MIBAC sia del MIUR, ma non vogliamo limitare il nostro discorso a dolerci di questo; vorremmo invece riaffermare che la nostra realtà è pronta a inserirsi in uno sforzo di attuazione sia nell’Agenda 2020 a livello europeo sia, nell’Agenda digitale che il governo italiano sta predisponendo, perché noi possiamo offrire un ricchissimo patrimonio culturale, composto da biblioteche, archivi e documentazione storica, che potrebbe operare isolatamente come singolo istituto conservatore, ma che noi ci proponiamo invece di far operare congiuntamente. Intendiamo, cioè, proporci come interlocutore collettivo. Proprio per questa ragione per noi è estremamente importante rapportarci con chi nel governo può essere il nostro interlocutore. Riteniamo che proprio perché si tratta oggi di un governo tecnico2 tanto più deve essere attento ai problemi della cultura, della ricerca e dell’innovazione ed è questa parte che noi vogliamo rappresentare. Il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, è entrato in vigore il 1° dicembre 2009. 2 Il governo tecnico presieduto da Mario Monti è stato in carica dal 16 novembre 2011 al 21 dicembre 2012 (e fino al 28 aprile 2013 per la cura degli affari correnti). 1
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Valdo Spini
Vorrei altresì sottolineare, in tale strategia che corre verso l’Europa, un aspetto che reputiamo fondamentale: l’Italiano è la quarta lingua studiata al mondo e gli scrittori politici Italiani sono largamente conosciuti nel mondo, valorizzare quindi il prezioso patrimonio archivistico degli istituti di cultura non è un’operazione provinciale, si tratta all’opposto di una operazione che si inscrive nel rilancio complessivo del sistema-Paese. Vorremmo però che la filiera cultura, università, beni culturali avesse più importanza nelle politiche di governo. Esiste già un progetto che fa convergere una serie di fondazioni e istituti e che aggiorneremo per presentarci unitariamente; abbiamo anche un programma ben preciso, quello di digitalizzare il patrimonio storico e documentale degli Istituti di Cultura italiani; ma i Beni culturali devono essere coinvolti nell’Agenda digitale del governo, sarebbe altrimenti difficile anche rivolgersi all’Europa. In caso contrario, il governo italiano darebbe il segnale di non comprendere la rilevanza, anche economica, che ha il patrimonio culturale italiano per il rilancio del nostro Paese. Mi auguro, quindi, che la battaglia riesca e naturalmente, come AICI, ci predisponiamo anche a una sensibilizzazione dei gruppi parlamentari. Considerando però l’uso eccessivo che si fa della fiducia, con la conseguenza che gli emendamenti automaticamente cadono, riteniamo che l’azione di governo sia anche più importante dell’azione in parlamento. Questo nostro incontro darà certamente nuovi e significativi risultati.
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FRANCESCO TUFARELLI
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Sinergia tra politica e istituti di cultura per il ‘sistema Italia’
Provo a esporre in chiave non formale la ragione per cui mi fa piacere essere qui1. L’altro giorno parlavo con i miei collaboratori dell’agenda digitale, su cosa inserire, sulle cose da dire, e loro sostenevano che definire gli istituti culturali come ‘luogo di cultura’, come ‘luogo di occasioni’, come ‘luogo di partenza’ era un po’ parlare per frasi fatte. E invece io leggendo quel che Luisa Sacco e gli altri miei collaboratori mi scrivevano mi sono un po’ ritrovato, perché io ricordo che nel 1989 e nel 1990, fu proprio qui, all’Istituto Sturzo che ci ospita, che iniziai a lavorare su un programma di ricerca ‘Dalla Resistenza alla Costituente’, nell’ambito del quale ebbi, allora fresco di laurea, la possibilità di confrontarmi con Maestri del diritto come Ugo De Siervo, Leopoldo Elia e molti altri. L’Istituto Sturzo era, ai tempi, sostanzialmente una culla di una serie di pubblicazioni; l’aspetto importante, però, non erano solo le pubblicazioni, ma la possibilità, anche per noi giovanissimi, di venire a contatto con un certo tipo di dinamiche che consentivano di crescere in un ambiente protetto, un ambiente dove lo studio, le opportunità di ricerca e di approfondimento potevano svolgersi senza esporci alle critiche che il mondo ‘aperto’ ci avrebbe rivolto perché troppo giovani; una attività di ricerca che però aveva, nello stesso tempo, la possibilità di essere guidata da maestri che in quel tempo l’università non ci permetteva di avvicinare, perché affogata dai grandi numeri: da questo punto di vista, quindi, almeno per me e per molti altri, si è trattato di un vero e proprio laboratorio. Quando allora i 1
Per rispetto dei criteri editoriali, è stato omesso nel testo l’incipit gratulatorio: «Ringrazio Valdo Spini, ringrazio l’istituto Sturzo e tutti gli intervenuti per questa occasione di incontro».
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Francesco Tufarelli
miei collaboratori mi hanno detto che ‘gli istituti sono luoghi di cultura’, a loro poteva forse sembrare una frase fatta, ma non a me, perché io ho sperimentato direttamente e personalmente quanto gli istituti culturali possano essere luogo di formazione e cultura viva. La mia esperienza è poi continuata quando per volontà del ministro di allora mi sono ritrovato per un anno a fare il capo di gabinetto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali2, periodo durante il quale mi sono reso conto della drammatica sproporzione che esiste nella valorizzazione dei diversi asset culturali del Paese; nel senso che a un certo punto mi sono reso conto che il settore istituti culturali, i settori beni librari e beni archivistici, il settore biblioteche venivano estremamente penalizzati nell’attribuzione di attenzione oltre che di risorse. Insomma, allora come oggi, il problema è che non riusciamo ad avere una visione prospettica. Come tutti quelli che non hanno una visione prospettica, chiediamo la collaborazione degli altri, e quindi chiediamo una collaborazione agli istituti culturali – proprio in questi giorni in cui come governo abbiamo approvato con un po’ di ritardo le prime norme di attuazione dell’agenda digitale – per quello che noi riteniamo essi possano e debbano fare in sinergia con la politica e le istituzioni dello Stato. Ciò che chiediamo è evitare l’eccessiva parcellizzazione degli interventi e dei progetti e quindi sostanzialmente chiediamo di lavorare insieme per darci l’occasione di rappresentare a livello europeo, un’Italia di sistema, un’Italia che in questo campo costruisce una rete e non presenta ‘iniziative spot’. Purtroppo, proprio questo aspetto a livello di Commissione europea viene visto in maniera molto negativa, è il classico modo di fare che viene definito ‘all’italiana’. È chiaro che non si possono ingabbiare l’azione culturale e le idee, però un maggiore coordinamento e l’attuazione di un intervento comune danno anche ai rappresentanti politici la possibilità di sostenere la strategia nel modo migliore nelle sedi opportune. Per quanto riguarda l’azione del governo Monti, premetto che siamo entrati in carica il 16 novembre 2011, in un momento particolarmente difficile, nel quale si sono dovuti affrontare problemi, oltre che di assetto di bilancio, proprio di cassa; per questa ragione abbiamo dovuto fare interventi impopolari che assestassero le finanze del Paese; purtroppo, per 2
Francesco Tufarelli è stato, presso il MIBAC, capo di gabinetto del ministro per i Beni culturali Rocco Buttiglione, durante la XIV legislatura, nel III Governo Berlusconi (23 aprile 2005 - 17 maggio 2006).
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Sinergia tra politica e istituti di cultura per il ‘sistema Italia’
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avere la cassa immediata non ci sono ricette magiche, si possono fare soltanto tagli e quindi novembre, dicembre 2011 e gennaio 2012 sono stati caratterizzati fondamentalmente da tagli a spese. Nello stesso tempo, ci siamo pure trovati ad affrontare un tema un po’ particolare, il dibattito sul fiscal compact e sui provvedimenti richiesti dall’Unione Europea. Le misure che in questo momento stiamo attuando sono infatti misure che da un anno e mezzo tutti i Paesi europei hanno firmato e condiviso; il fatto che siano oggetto di così accesa discussione nelle cronache di questo periodo è dovuto al fatto che verso settembre 2011, cioè prima che entrasse in carica il governo Monti, Angela Merkel, avendo avuto la sensazione che non tutti i suoi colleghi avessero capito e ben comunicato quello che avevano firmato, ha chiesto di codificarlo in un trattato; è così che sostanzialmente ci siamo trovati il fiscal compact, figlio di quel six pack3 che da tempo avevamo già firmato tutti. Questo sottolineo spesso, per dare chiarezza agli interventi, perché altrimenti sembra che si sia trattato solo di tagli indiscriminati. È l’Europa che ha deciso questa misura, ecco perché per quanto riguarda lo Sviluppo Italia e il Cresci-Italia4 abbiamo circa cinque mesi di ritardo e sull’agenda digitale siamo arrivati solo adesso; anche perché non sarebbe serio studiare un modello di crescita senza le risorse necessarie per coprirlo, e quindi abbiamo dovuto aspettare che queste risorse si rendessero, se non disponibili, almeno visibili, ipotizzabili. Riguardo all’agenda digitale, abbiamo approvato l’ultimo decreto legge il 5 ottobre 2012, siamo ancora sostanzialmente in una fase di drafting; in questo documento vengono recepite le iniziative dettate dall’agenda digitale, e vengono recepite anche – sebbene siano soltanto citate – tutte le attività relative alla digitalizzazione e tutte le attività che riguardano i beni culturali e, eventualmente, anche l’attività stessa degli istituti culturali. È chiaro che la semplice citazione di questi aspetti è molto meno di quel che ci si potrebbe augurare. Però avere una norma di questo tipo non danneggia: è una norma di apertura, prevede la possibilità che l’Agenda digitale si occupi di questi ambiti, lasciando alla saggezza del parlamento la possibilità di specificarla; ma potrebbero specificarla anche 3
Il six-pack, entrato in vigore nel dicembre 2011, consta di cinque regolamenti europei e di una direttiva (da qui il nome), intesi a rafforzare il Patto di stabilità e crescita. 4 Il decreto per le liberalizzazioni Cresci-Italia 1/2012, convertito in legge 27/2012, contiene disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività.
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Francesco Tufarelli
circolari successive, che potrebbero farla ‘esplodere’, come si dice in termini giuridici. Normalmente, quello che crea problemi nella Pubblica Amministrazione sono le norme ‘mute’, o norme di cesura, ma quando una norma, seppur scarna come questa, si limita anche solo ad accennare ad alcuni aspetti, dà ampia possibilità di sviluppo e approfondimento. Gli interventi devono essere di due tipi: il primo, quello nostro, consiste nel far ‘esplodere’ la norma nella maniera più coerente possibile e soprattutto più adatta alle attività degli istituti culturali; il secondo, da parte degli istituti, deve operare nel senso di rendere le attività il più coerente possibile con l’obiettivo di un compattamento delle iniziative, con l’intento di avviare un’azione comune degli istituti, che noi possiamo poi, nella sede europea, presentare, promuovere e difendere come una iniziativa dell’intero ‘sistema Italia’. Perché questo è l’unico modello difendibile in Europa; presentare ‘iniziative spot’ o microiniziative senza respiro va bene per un Paese ricco e in periodi floridi. Noi oggi abbiamo la necessità di presentare delle iniziative forti, coordinate, che prevedano un lavoro concertato di tutte le strutture che vi partecipano. In questo senso, un’azione comune degli istituti sarebbe in linea con l’operato del governo che ha la necessità di continuare a dimostrare che esiste un ‘sistema Italia’ e che è in grado di rappresentare delle iniziative comuni anche dal punto di vista culturale, soprattutto perché all’estero questo è un asset che ci riconoscono. In altri termini, quello che chiediamo agli istituti è di procedere compatti e di dare un’immagine di ‘sistema Italia’ che è poi l’immagine che stiamo tentando di dare nelle iniziative economiche, o sulle politiche fiscali e, in generale, sulle politiche di tutti i settori. Con gli istituti culturali potremo portare avanti un’azione comune, perché questa è l’unica strategia valida a livello di Unione Europea.
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mARIO ALì
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Patrimonio culturale e internazionalizzazione della ricerca1
Vorrei tentare di affrontare, nel tempo a mia disposizione, alcuni punti relativi alla ricerca, che ritengo fondamentali, riferendomi in particolare alla ricerca internazionale, e soffermandomi su come questa possa essere utilizzata a favore di alcuni settori, come quello relativo al cultural heritage. Questa iniziativa dell’AICI ci fornisce l’occasione di dimostrare come, partendo da un settore di tipo umanistico – sviluppato con intelligenza e con una visione a 360 gradi – si possa andare a coinvolgere differenti e molteplici campi disciplinari, fino ad arrivare a settori più specifici di tipo scientifico. C’è da chiedersi allora come mai settori così centrali soffrano di carenza cronica di attenzione. Ma la risposta è abbastanza semplice e scontata, anche se non condivisibile. In una situazione in cui la tecnologia è in continua espansione, se guardiamo al contesto Europeo, ci accorgiamo immediatamente che la globalizzazione ha consentito un’apertura massima nel settore scientifico ed economico. Da qui infatti, è partita e si è 1
Per rispettare i criteri editoriali è stato omesso dal testo dell’intervento l’incipit gratulatorio: «Esimi Professori, Colleghi, Signore e Signori, è per me un onore essere oggi qui a partecipare a questa giornata, permettetemi di ringraziare l’amica Prof.ssa Flavia Piccoli Nardelli per aver voluto promuovere questo importante incontro dedicato al ruolo degli Istituti di cultura italiani nell’ottica della Strategia Europea “Europa 2020”. A Lei e ai suoi collaboratori vanno i complimenti più sinceri per l’opera instancabile che riescono a portare avanti all’interno della Fondazione Don Sturzo superando, il più delle volte enormi difficoltà, se vogliamo anche di tipo finanziarie, cercando di tenere viva la nostra storia sopperendo, in molti casi, alla scarsa sensibilità che vi è oggi di fronte ai temi della diffusione della cultura, che significa trasmettere alle nuove generazioni e al mondo intero, i capisaldi della nostra cultura, della nostra grande tradizione Italiana».
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Mario Alì
stratificata la costruzione di uno Spazio Europeo Comune, rendendo sempre più aperte e permeabili le frontiere al movimento di merci, capitali, servizi e persone. E ciò è stato rafforzato attraverso la costruzione di una moneta unica. La stessa attenzione, almeno nel nostro Paese, non vi è stata verso tutto ciò che serviva a incrementare la crescita qualitativa dei cittadini, ossia conoscenze e competenze che costituiscono il bagaglio culturale per affrontare le sfide europee e internazionali. Una grave mancanza di attenzione responsabile di una più netta divisione tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica, che ha fatto aumentare negli ultimi 20 anni le diseguaglianze sociali, di genere, territoriali tra Nord e Sud del nostro Paese, tra Sud e Sud e che ha fatto aumentare la distanza tra la nuova ricchezza e la nuova povertà. La cultura scientifica sempre più vicina allo sviluppo tecnologico, e quindi con un impatto positivo e immediato sui bisogni della società e sullo sviluppo del sistema produttivo, attraverso un duplice obiettivo della pura conoscenza e utilitaristico, è rafforzata dal fatto che in essa si adottano metodologie unitarie, ovunque si sviluppino. La seconda, la cultura umanistica meno direttamente coinvolta nel sistema produttivo, non utilizza linguaggi o metodologie comuni ed è caratterizzata da un forte grado di diversità e radicamento nella lingua e nella cultura di ciascun sistema nazionale. Ma forse proprio questo aspetto ci dovrebbe far comprendere che le scienze umane, per le loro peculiarità intrinseche, possono essere considerate come il nocciolo duro della difesa della identità nazionale. Ed è questo uno dei motivi che ci dovrebbero spingere a investire di più nelle scienze umanistiche sia in termini di capitale finanziario da destinare a queste finalità sia in termini di capitale umano. Un tale investimento però non è stato fatto o è stato fatto in modo non strategico, senza una continuità, in modo sporadico, accentuando a mio avviso negli anni la nostra crisi, non solo dal punto di vista finanziario ma anche e soprattutto dal punto di vista dei valori. Mi riferivo prima alla creazione di una Europa della scienza e della tecnologia: una nuova dimensione dell’impresa culturale e scientifica, che sarà sicuramente capace nel tempo, di risvegliare le attenzioni politiche, sociali e culturali, oggi distratte da urgenti e molteplici problemi. Qualcuno prima di me e in maniera molto più profonda ebbe a dire: «La realizzazione dell’Europa della scienza e della tecnologia è al tempo stesso, un processo ed un’impresa. Un processo sostenuto da una logica storica, geopolitica e propriamente scientifica, in parte autonoma, nella cui
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Patrimonio culturale e internazionalizzazione della ricerca
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dinamica è opportuno inserirsi; ma anche un’impresa che mobilita uomini e istituzioni, che avrà successo solo grazie all’immaginazione, all’energia, alla perseveranza, in una parola grazie all’entusiasmo»2. L’autore di questa frase è uno dei padri dello Spazio Europeo della Ricerca, Antonio Ruberti, la cui visione del futuro, ovviamente con i dovuti distinguo e i diversi ambiti di applicazione, è paragonabile a mio parere a quella con cui Robert Schuman tratteggiò il profilo dell’allora nascente Unione Europea: una prospettiva nata dalla consapevolezza che solo dalla coesione europea poteva venire pace e prosperità all’Europa stessa e al Mondo intero. Dietro alle idee di questi due grandi uomini c’era una strategia complessiva rivolta al futuro che travalicava sia lo stretto dominio della politica sia quello della scienza. Il grande Aristotele, un vero europeo, sottolineava che delle quattro cause la più importante è il fine, il telos, ciò a cui si tende. Noi italiani, a tutto abbiamo pensato tranne che alla cosa principale: a programmare e investire a lungo termine sui temi della cultura in generale, della ricerca e incentivare la crescita del capitale umano come investimento sicuro per il futuro. Si vive guardando alla quotidianità, all’oggi, ma mentre prima le nostre scelte erano ristrette nei confini regionali e al massimo nazionali – e quindi ci si poteva limitare a gestire le questioni contingenti –, in un contesto come quello attuale, ormai europeo e internazionale, vince chi ha investito in una strategia a lungo e medio termine. Non si può non sottolineare che mentre noi ci aggrovigliamo nei nostri problemi interni, l’Europa corre a più velocità; e non ci accorgiamo neppure che il mondo, negli ultimi venti anni ha avuto uno stravolgimento profondo. Paesi che consideravamo non industrializzati sono oggi all’avanguardia in tema di ricerca, sviluppo e innovazione. Mi riferisco alla Cina, all’India, alla Corea del Sud, al Brasile e a una parte consistente dell’Africa. Una programmazione e una strategia seria, rivolte a settori così fondamentali per la crescita di un paese, che coinvolgono tematiche sociali e culturali, non possono limitarsi ai ristretti ambiti e domini quotidiani. Esse dovrebbero tener conto dell’impatto che scelte così fondamentali avranno sul contesto sociale e culturale di riferimento; si dovrebbe inoltre compiere un’attenta valutazione per verificare se la strategia adottata risulterà confacente e adeguata, non solo alle esigenze interne delle singole 2
ANTONIO RUbERTI, mIChEL ANDRé, Uno spazio europeo della scienza, Firenze, Giunti, 1995, p. 6.
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Mario Alì
nazioni, ma soprattutto ai progressivi criteri di integrazione europea e alle sfide della mondializzazione. E ancora, negli ambiti più di frontiera, non è possibile senza un piano, una logica politica, una vera e propria strategia affrontare i problemi etici posti oggi in essere dalla ricerca scientifica, rimanendo al passo con i tempi nel contesto globale – nell’era dell’informatizzazione più spinta che apre nuovi scenari, nuove realtà, nuovi problemi in un tempo quasi immediato – e restando al contempo all’interno di quei confini etici che costituiscono i capisaldi della nostra cultura, della nostra tradizione e della nostra storia. Proprio riflettendo su questa differenziazione tra le due culture, la scientifica e l’umanistica, in un momento di forte difficoltà per la nostra economia e anche per il settore dell’alta formazione e della ricerca, la Direzione Generale per l’Internazionalizzazione della Ricerca del MIUR ha voluto portare avanti una battaglia per ottenere, nel novembre 2010, il coordinamento generale europeo della Joint Programming Initiative (JPI) del Cultural Heritage. E qui mi corre l’obbligo ringraziare pubblicamente Antonia Pasqua Recchia. È una grande responsabilità, ma anche un compito che riempie di orgoglio, dedicarsi a un’attività che coinvolge molteplici aspetti: coordinare congiuntamente, a livello europeo, la definizione e l’implementazione dell’iniziativa europea di programmazione congiunta nel settore della conservazione e la sicurezza del patrimonio culturale in un contesto di cambiamento; sostenere la partecipazione italiana a detta iniziativa; favorire, in tal modo, l’aggregazione e la collaborazione di soggetti pubblici e privati che siano interessati a partecipare, direttamente e/o indirettamente, a detta iniziativa. Dopo le numerose e le varie sollecitazioni da parte del nostro Paese, ‘l’orientamento generale parziale’, adottato dal Consiglio competitività e ricerca del 31 maggio 2012, dedica una maggiore attenzione al tema del patrimonio culturale. Nel corso del negoziato è stato possibile dare maggiore evidenza al patrimonio culturale, in particolare sul terzo pilastro, quello dedicato alle grandi sfide sociali, per il quale vi sarà un budget di circa 36.000 milioni di euro. Rispetto alla proposta iniziale della Commissione che prevedeva una sola priorità denominata ‘società inclusive, innovative e sicure’ nella quale venivano riunite in un’azione unica sia la ricerca socioeconomica sia quella dedicata alla sicurezza, nel nuovo testo, queste tematiche vengono supportate in due priorità distinte, una per la ricerca socioeconomica
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Patrimonio culturale e internazionalizzazione della ricerca
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e una per la sicurezza. Questo ha consentito di dare maggiore coerenza e visibilità agli aspetti peculiari dei due settori. L’Europa ci richiama oggi tutti con forza al tema della ricerca scientifica come motore propulsivo delle società evolute che mirino al vero benessere umano, culturale e spirituale, e vorrei ricordare che il documento comunitario EU 2020 pone proprio con forza al centro della programmazione, tre priorità che si rafforzano a vicenda: crescita intelligente; crescita sostenibile; crescita inclusiva. Gli anni che ci dividono dal 2020, devono servire a organizzarci, a coordinarci, a creare quello che è il senso prioritario della Direttiva Europa 2020, una coesione più reale tra tutti gli attori della ricerca. Vorrei partire da questo concetto per sottolineare, come ho riferito all’inizio del mio intervento che, probabilmente, aver concepito nel passato il tema della globalizzazione o mondializzazione, in modo prevalentemente mercantilistico, basato cioè più allo scambio delle merci e dei materiali, ci ha fatto trascurare un elemento a mio avviso centrale per una crescita qualitativa, ossia la consapevolezza che la crescita di una società è profondamente legata alla produzione dei saperi, alla ricerca. L’obiettivo deve essere quello di una ‘knowledge-based society’, in cui far convergere ‘conoscenze e competenze’, il ‘capitale immateriale’ che è stato indicato come la nuova ricchezza delle nazioni. Infatti, più si investe sul capitale immateriale, sulla produzione di conoscenza, più sarà possibile quell’auspicata crescita anche occupazionale che tutti invocano. I dati contenuti nella comunicazione della Commissione europea Innovation Union rilevano che, se nel 2020 si raggiungesse l’obiettivo del 3% del prodotto interno lordo (PIL) europeo investito in Ricerca e Sviluppo, si avrebbe come probabile conseguenza la creazione di circa 3,7 milioni di posti di lavoro, di cui 1 milione per nuovi ricercatori, con un conseguente aumento del PIL europeo di circa 800 miliardi di euro entro il 2025. Siamo tutti affannosamente concentrati al raggiungimento del pareggio di bilancio, che è sicuramente un obiettivo importante, ma anche questo, ancora una volta di tipo prettamente finanziario. Ma una domanda nasce spontanea, come riusciremo, come Paese, non dico a raggiungere ma almeno ad avvicinarci ai 5 punti fondamentali della Strategia Europa 2020, punti che non a caso riguardano molto più l’aspetto immateriale che quello materiale. I cinque punti sono i seguenti: 1) il 75% delle persone di età tra 20 e 64 anni deve avere un lavoro;
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Mario Alì
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2) il 3% del PIL dell’UE deve essere investito in Ricerca, Sviluppo e Innovazione; 3) i traguardi “20/20/20” in materia di clima/energia devono essere raggiunti (compreso una ulteriore riduzione del 30% delle emissioni se le condizioni lo permettono); 4) il tasso di abbandono scolastico deve essere inferiore al 10% e almeno il 40% dei giovani devono aver conseguito la laurea; 5) 20 milioni di persone in meno devono essere a rischio di povertà. Se è vero che ricerca e formazione equivalgono a sviluppo e quindi occupazione, di fronte a una difficoltà di finanziamento in questi ambiti fondamentali, la nostra attenzione dovrebbe essere rivolta a quei settori in cui esistono margini di manovra e in particolare credo che una delle chiavi di volta più importanti sia proprio l’internazionalizzazione della ricerca. Infatti, vediamo che mentre a livello nazionale i finanziamenti in attività di formazione e di ricerca sono andati negli anni sempre più diminuendo, a livello europeo vi è stato un progressivo aumento: il valore finanziario è passato da circa 4 miliardi di euro del 1° Programma Quadro (PQ), ai 18 miliardi di euro del 6° PQ, ai 50 miliardi di euro del 7° PQ, fino ad arrivare agli oltre 81 miliardi di euro di Horizon 2020 – The framework programme for research and innovation dall’inizio del 2014. Dobbiamo organizzarci in modo coeso, con una sinergia tra pubblico e privato, su grandi progetti che ci permettano di passare da una logica di politica della ricerca di inseguimento a una politica di anticipazione. È necessario definire oggi le nostre priorità, creare delle roadmap tematiche e negoziarle con un minimo di anticipo con gli organismi istituzionali di Bruxelles. Se guardiamo al titolo dell’incontro di oggi posso dire, senza essere smentito che il nostro Paese possiede una incomparabile ricchezza racchiusa nelle fonti librarie e negli archivi degli oltre cento Istituti di cultura italiani che testimoniano della dimensione sociale e politica della cultura italiana nel contesto della storia europea. Sono questi patrimoni che debbono essere valorizzati, rendendoli accessibili e fruibili alle comunità dei ricercatori e ai cittadini e che possono costituire l’insieme di risorse da mettere in condivisione all’interno di un progetto europeo centrato sui servizi altamente specializzati che le fonti librarie degli Istituti possono offrire. Ecco dunque che diviene centrale il ruolo degli Istituti di cultura italiani nella prospettiva della Strategia Europea 2020.
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Patrimonio culturale e internazionalizzazione della ricerca
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Come ha sottolineato di recente Mario Monti, l’Italia possiede un soft power che le è riconosciuto in Europa e nel mondo: è l’influenza che il nostro Paese può esercitare, e che esercita, in virtù del suo straordinario patrimonio culturale e artistico e del suo ruolo nella storia europea. Le radici profonde di questo patrimonio di storia e cultura – che ci caratterizza molto più della capacità di produrre tecnologia industriale di avanguardia – devono essere sostenute per portarle a valore, sposandole alla creatività progettuale e all’innovazione tecnologica. In questa prospettiva, l’approccio metodologico delle Infrastrutture di Ricerca europee e internazionali può offrire una occasione importante per rendere visibile e fruibile questa ricchezza. Come ama ricordare sempre l’amico Carlo Rizzuto3, le prime infrastrutture di ricerca della storia d’Europa sono state le abbazie e i monasteri benedettini che accoglievano gli ‘scolari’ di tutta Europa nelle proprie biblioteche. Le Infrastrutture moderne sono centri di eccellenza, concentrazioni di risorse ‘uniche’, che si caratterizzano per offrire ai migliori ricercatori di tutto il mondo l’accesso ‘aperto’ ai propri patrimoni di servizi e di strumenti. Nella strategia elaborata dall’Europa, e in particolare da ESFRI (European Strategy Forum on Research Infrastructures), per la programmazione condivisa delle infrastrutture prioritarie, il campo delle Scienze umane e sociali è riconosciuto e incoraggiato perché forse più di altri settori della scienza e della tecnologia, necessita di coordinamento. Una infrastruttura di ricerca nel settore delle Scienze umane e sociali rappresenta il prototipo di una infrastruttura distribuita. Ma di questo parlerà certamente Carlo Rizzuto. Io voglio qui sollecitare una riflessione sull’importanza di realizzare già a livello nazionale l’integrazione delle risorse presenti negli archivi degli Istituti di cultura e di inserire questo intervento nell’ambito delle azioni previste per l’attuazione dell’Agenda digitale europea. Condivido l’idea espressa nel comunicato stampa di questo convegno, cioè che la digitalizzazione applicata al patrimonio culturale possa essere un prezioso strumento per conservare e archiviare i documenti. La creazione di infrastrutture europee di ricerca diventa dunque un’occasione importante per dare vitalità agli Istituti di cultura e per sostenere la ricerca in questo specifico settore: permette di esplorare il pianeta beni culturali e ambientali da diverse angolazioni, di portare alla luce questioni relative 3
Cfr. infra, CARLO RIZZUTO, Reti europee di infrastrutture.
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Mario Alì
alla tutela e alla valorizzazione dei manufatti di interesse storico-archeologico, artistico, architettonico, monumentale, archivistico, librario, musicale, facendo convergere formazione e ricerca. È indispensabile proporre strumenti incentivanti che consentano finalmente di migliorare la nostra partecipazione e realizzare una effettiva e libera mobilità dei ricercatori, una pari opportunità di genere, un’attenzione primaria da parte delle istituzioni di ricerca deve essere prestata alla qualità della formazione e della vita delle risorse umane per la ricerca europea, per dare, nei tempi previsti, concretezza allo Spazio europeo della ricerca. Ritengo infatti che la presente contingenza vada sfruttata per favorire il passaggio da un approccio lineare a un approccio di sistema e che la ricerca debba essere organizzata su grandi obiettivi, specialmente ora che si guarda sempre con maggiore interesse all’unificazione degli strumenti di finanziamento europei a sostegno della Ricerca e dell’Innovazione. Il coordinamento delle politiche nazionali e regionali, in particolare la collaborazione tra Europa, Stati membri e Regioni deve essere sviluppato su più piani, dalla programmazione congiunta della ricerca, all’allineamento delle procedure delle strategie per il sostegno della filiera formazione-ricerca-innovazione-produzione, con una ottimizzazione dell’impiego di risorse finanziarie che sia guidata dagli obiettivi. L’uso intelligente delle politiche della ricerca internazionale può contribuire positivamente alla creazione di contesti sociali e culturali sostenibili anche in quei paesi dove ora questi settori sono carenti, e quindi gli aspetti della cooperazione internazionale nel futuro programma comunitario per la ricerca dovranno essere attentamente valutati. Nel concludere devo sottolineare che ritengo indispensabile, per l’ottenimento degli obiettivi, investire sull’istruzione, sulla formazione e sulla qualità delle risorse umane, incoraggiando la valorizzazione basata sul merito e sulla effettiva parità tra uomini e donne nel mondo della ricerca scientifica. Tutto questo per il futuro e per le giovani generazioni del nostro Paese.
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mASSImO NEgRI
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Il potenziale italiano nella dimensione europea
L’incontro, organizzato dall’AICI e dall’Istituto Sturzo, è inusuale perché non si è dimostrato storicamente facile nel nostro Paese creare un elemento catalizzatore delle varie energie che vengono spese nel campo della cultura, ed è proprio questo l’elemento sotteso alla idea di una agenda culturale italiana in una prospettiva europea. Non è stato facile principalmente a causa di una certa frammentazione metodologica e di contenuti che caratterizza il nostro sistema culturale, ma anche in misura cospicua per via della parcellazione territoriale del nostro Paese, che rispetto ad altre nazioni è molto più evidente; un elemento quest’ultimo, che si traduce a volte in un campanilismo che potremmo definire quasi ‘molecolare’. Le fondazioni bancarie sono un esempio tipico di questo fenomeno: da un lato rappresentano un elemento di ricchezza e di propulsione su scala territoriale e dall’altro sono entità le cui iniziative rimangono sovente limitate proprio dall’ambito territoriale in cui sono costrette. Un altro dilemma tutto italiano con cui si deve fare i conti quando si parla di patrimonio culturale è quello che contrappone patrimonio materiale e immateriale1. L’Italia, rispetto ad altri Paesi, non è certo stata pioneristica per quanto riguarda l’immateriale, per converso sappiamo che possiede e ha sulle spalle un patrimonio tangibile che viene considerato il più importante del mondo, e questa dicotomia ha sempre creato una certa tensione nell’elaborazione dei progetti e nella allocazione delle risorse. Nel nostro caso, per quel che riguarda il patrimonio culturale di Bologna, la Fondazione Carisbo ha assunto due impegni prevalenti. Il primo, Una 1 Su tale problematica, si veda l’intero numero di «Parolechiave», 2013, 49: Patrimonio culturale.
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Massimo Negri
città degli archivi, è un progetto focalizzato sul digitale che copre tutti gli aspetti del settore: dalla ricognizione delle condizioni di una serie di archivi nati nella città e squisitamente cittadini sino alla formazione degli operatori, alla digitalizzazione e alla creazione di un portale (quindi l’intera filiera), un progetto che ha ricevuto uno stanziamento di sei milioni di euro per la sua realizzazione, nell’ambito della quale si sono dovute affrontare questioni non semplici rispetto alla gestione del patrimonio digitale, come ad esempio la questione relativa ai diritti d’autore e di riproduzione. Il secondo è il progetto Genius Bononiae, che è quanto di più tangibile e materiale ci possa essere, poiché riguarda il restauro di sette edifici nel centro storico di Bologna (più il grande complesso di San Michele in Bosco situato alle propaggini cittadine, in collina) e il loro recupero per uso culturale. Questi due progetti sono un esempio molto calzante di tutela e valorizzazione del patrimonio sia materiale sia immateriale, due elementi che, intrecciandosi in maniera sempre più complicata, ma anche interessante e stimolante, sono imprescindibili nel dibattito sul patrimonio culturale in Italia. Se ci soffermiamo su aspetti quali la determinazione, la costanza nel tempo e la chiarezza degli obiettivi di una iniziativa culturale, va sottolineato che i due progetti di cui ho appena parlato sono programmi pluriennali, non iniziative spot. La Fondazione Carisbo ha scelto di evitare finanziamenti a pioggia e di assumere la gestione diretta di programmi duraturi nel tempo. Per stare nei limiti del tempo a mia disposizione vorrei fissare alcuni punti e portare una piccola testimonianza. Io sono stato tra i membri fondatori della European Digital Library Foundation (ovvero Europeana) il portale europeo della cultura che negli ultimi anni ha avuto un’accelerazione notevole. L’interesse destato è stato tale che quando nel 2008 è stato reso accessibile il nuovo portale, si è verificato un vero e proprio collasso per l’attivazione di 10 milioni di contatti in solo due ore. Un successo del tutto imprevisto per gli stessi promotori dell’iniziativa. Ho anche visto quali sono state le criticità problematiche della presenza italiana all’interno di Europeana, che tuttora permangono. Mi sono trovato nel board di quella Fondazione in una situazione un po’ complicata, poiché pur essendo italiano ero in rappresentanza di un trust inglese, e in questa posizione ho potuto constatare come il Paese che dovrebbe essere leader in termini di influenza culturale rispetto agli altri partner europei aveva e ha una presenza sottostimata rispetto al potenziale. Per esprimermi con
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Il potenziale italiano nella dimensione europea
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un’immagine: c’erano molte munizioni ma un solo cannone. E questa situazione si è trascinata nel tempo. Per fare un esempio, nel 2014 ricorre un appuntamento importante per l’Europa: il centenario della Prima guerra mondiale. Tutti vi stanno lavorando in vari settori, ed Europeana avrà un particolare impegno su questo tema, ma patrimoni italiani rilevantissimi in questo campo non trovano lo spazio che meriterebbero. Va anche constatato a proposito di un’affermazione che è stata fatta in precedenza, relativa alla crescita dei finanziamenti dei Programmi Quadro, che solo negli ultimi due Programmi Quadro ci sono stati alcuni bandi nel campo delle scienze umane: fino ad allora questa tipologia era del tutto episodica. Un altro aspetto fondamentale è quello della mobilità delle risorse: quando parliamo di risorse digitali e di patrimonio culturale dobbiamo pensare che dietro ci sono sempre le persone, e che quindi la mobilità degli esperti e delle risorse umane è un fattore strategico. Mentre il flusso dall’Italia verso fuori è attivo, è molto più difficile far venire esperti qualificati dall’estero in Italia. Accenno a un ultimo punto, ovvero la complessità della dimensione plurilinguistica e pluriculturale delle iniziative in ambito europeo. Chiunque di noi abbia lavorato in un ambito europeo sa quanto la dimensione plurilinguistica e pluriculturale sia un aspetto impegnativo che richiede oltre alle abilità linguistiche anche notevoli capacità di adattamento e di comprensione dei comportamenti e degli atteggiamenti mentali degli altri. Io mi fermo qui, ma penso che un’idea come quella emersa nel Manifesto2, che ho visto riprodotto nel documento di convocazione dell’AICI relativa al potenziamento di infrastrutture europee di ricerca, valga la pena di essere messa a fuoco con molta attenzione nei suoi risvolti anche concreti; mentre infatti nel campo scientifico essa ha già delle sue specificazioni, in ambito umanistico è un’idea nuova che potrebbe sollecitare l’interesse dell’Europa e aiutare il passaggio da una concezione della dimensione europea della ricerca intesa come sovrapposizione di strati a una dimensione di maggiore integrazione, il che implica anche un revisione metodologica molto stimolante e molto importante. Il delinearsi di un’agenda culturale italiana in Europa – e per l’Europa – ne risulterebbe alimentato da una visione innovativa di sicuro interesse. 2
Cfr. infra, in Appendice.
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Massimo Negri
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Gli Istituti di cultura italiani diventerebbero i pilastri naturali di questa costruzione, essendo in grado di fornire solide basi concettuali e operative a un programma di costruzione di reti di ricerca europee come quello evocato dal Manifesto, importante piattaforma per i futuri sviluppi.
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pATRIZIA ASpRONI
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Il valore strategico ed economico del patrimonio culturale1
Io rappresento Confcultura, l’associazione che raggruppa in Confindustria le imprese che gestiscono i luoghi della cultura, le aziende che operano nel turismo culturale e le aziende tecnologiche che erogano servizi per i beni culturali e il patrimonio culturale in generale. Sono anche chairman per la piattaforma europea per i Beni culturali, che abbiamo deciso di formare in Confindustria – grazie all’apporto di Laura Dettinger che si è molto impegnata per rinsaldare i legami tra l’Italia e l’Europa – proprio per creare una rete, per non restare fuori dalle grandi sfide europee. Mario Alì è stato un altro protagonista di questa strategia di connessione tra impresa, istituti di ricerca e università, le altre importanti parti attive del Paese che stanno combattendo perché i Beni culturali, intesi come patrimonio culturale, siano uno degli argomenti chiave in Europa, soprattutto per quel che riguarda la ricerca e l’innovazione. Mario Alì ha parlato di Horizon 2020, nel quale la cultura italiana deve inserirsi con decisione perché, in realtà, forse non tutti sanno, hanno cercato di tagliarci fuori, dato che ogni Paese porta avanti le sue priorità. Come Confindustria abbiamo addirittura lanciato una petizione sul web, a cui ha aderito per primo un istituto privato tedesco, il quale ha ritenuto che la nostra petizione – che chiede con forza che l’Europa prenda in considerazione il patrimonio culturale come sfida da qui al 2020 – fosse un obiettivo per il quale combattere insieme. 1
Per rispettare i criteri editoriali è stato omesso nel testo l’incipit gratulatorio: «Grazie al Presidente dell’AICI Valdo Spini, grazie a Flavia Nardelli e grazie a Lucia Zannino per questo invito; vi ringrazio sia come persone sia come rappresentanti delle fondazioni».
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Patrizia Asproni
Possiamo dire che siamo riusciti nel nostro intento, anche se non siamo del tutto soddisfatti, perché in realtà il patrimonio culturale non è diventato una priorità-Paese, ma è stato almeno inserito all’interno delle societal challenges. In altre parole, abbiamo ottenuto un risultato anche se non completamente soddisfacente. Il ministro dell’istruzione università e ricerca Francesco Profumo2, per preparare le imprese, gli istituti di cultura, le università, quindi tutti gli elementi che compongono il settore dei Beni culturali alla sfida di Horizon 2020, ha deciso di lanciare un programma preliminare denominato Horizon Italia3. Un’occasione da prendere al volo. È un momento importante: finora ci siamo rivolti all’Europa con tantissimi progetti, siamo il Paese che presenta più progetti di tutti, però siamo anche il Paese meno performante, perché ci proponiamo in Europa ognuno per conto proprio, non siamo capaci di lavorare insieme, di fare squadra, di avere obiettivi condivisi. La situazione in questo campo è lo specchio di quell’individualismo che poi vediamo anche in tutti gli altri settori del nostro Paese. E proprio per questo credo che l’opportunità di Horizon Italia sia assolutamente da raccogliere, anche per dimostrare che riusciamo a fare sistema. Invito quindi gli amici delle fondazioni e di tutti gli istituti di cultura a introdurre il loro Manifesto dentro Horizon Italia, in modo che poi arrivi a Horizon 2020 quando ci saranno i bandi di gara. Alì ha parlato di Horizon 2020 e della sua altissima dotazione su ricerca e innovazione; questa volta sono 80 miliardi di euro rispetto ai 50 del programma precedente. Si tratta quindi di un’occasione importante, anche perché fondi in Italia non ce ne sono più, e quei pochi che ci sono andranno a diminuire; per questo motivo l’Europa è, oggi, il nostro interlocutore e il nostro orizzonte. D’altro canto, io credo che ci sia una nuova consapevolezza sull’importanza economica del patrimonio culturale, lo dicevano prima sia Mario Alì sia Valdo Spini, ma la cultura non è nell’agenda del governo, d’altra parte non è mai stata nell’agenda dei precedenti governi, quindi non possiamo stupirci. Non abbiamo mai fatto sentire in maniera forte la nostra voce e, a mio avviso, non l’abbiamo mai fatto in maniera unitaria. La crisi che stiamo attraversando, da questo punto di vista, può essere considerata anche come un’opportunità, un modo per ripensare le 2
Francesco Profumo è stato ministro del MIUR nel governo Monti (16 novembre 2011 21 dicembre 2012, dimissioni; in carica per gli affari correnti fino al 28 aprile 2013). 3 Horizon 2020 Italia è stato presentato dal MIUR nel marzo 2013.
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Il valore strategico ed economico del patrimonio culturale
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modalità di gestione della cultura e del patrimonio culturale. Intanto, dobbiamo essere consapevoli che la crisi non è solo italiana, è una crisi europea. Qualcuno di certo conosce il libro scritto da quattro grandi intellettuali tedeschi dal titolo Der Kulturinfarkt4, un libro che ha innescato un enorme dibattito in Germania, con tesi molo forti che affermano che abbiamo un eccesso di musei, un eccesso di teatri e istituti di cultura che non producono cultura ma che vivono di assistenzialismo. La proposta degli autori è di finirla con gli sprechi e di chiuderne la metà (anche perché con la riunificazione la Germania s’è trovata tutto al raddoppio). Da una parte la carenza di risorse e dall’altra anche un ripensamento delle forme di consumo culturale, sta portando l’Europa a stigmatizzare lo spreco di risorse che finisce col non dare importanza alle cose che sono veramente importanti e che hanno davvero una valenza di tipo culturale. Questo è un altro punto importante da sottolineare. Si parlava prima di consapevolezza economica. Le imprese sono molto consapevoli di questo aspetto: noi pensiamo che la cultura sia la vera leva economica di sviluppo del Paese, anche perché vediamo cosa sta succedendo con l’industria pesante che abbiamo forzato in luoghi che non potevano sopportarla (pensiamo alle vicende dell’Alcoa, dell’Ilva di Taranto, ecc.). È in corso una fase di forte ripensamento del Paese, e secondo noi la cultura può essere la chiave per uscire dalla crisi. Devo dire che se le imprese, gli istituti sono consapevoli di questa valenza economica, anche altri cominciano a rendersene conte. Sul «Corriere della Sera» di oggi c’è una pagina intera a firma di Gian Antonio Stella5 dedicata al saccheggio continuo del predatore dei libri, il delegato del ministero che ha trafugato 4000 volumi6. Può essere divertente per chi non è ministeriale leggere di questi sconci ma la cosa più interessante è che finalmente si dà una valenza economica a questo patrimonio. Il testo trafugato di Galileo Galilei ha un valore monetario enorme, chi ce lo ripaga se non lo troviamo più? È 4
DIETER hASELbACh et al., Der Kulturinfarkt. Von Allem zu viel und überall das Gleiche. Eine Polemik über Kulturpolitik, Kulturstaat, Kultursubvention, München, Knaus Albrecht, 2012 (trad.it. Venezia, Marsilio, 2012). 5 Quel saccheggio continuo del predatore di libri, in «Corriere della Sera», 8 ottobre 2012. 6 Il riferimento è alla vicenda di Marino Massimo De Caro, delegato del MIBAC, direttore della Biblioteca dei Girolamini di Napoli, che ha sottratto, per fini di lucro, 4000 volumi rarissimi e preziosissimi dalla Biblioteca da lui diretta e da molte biblioteche italiane da lui ufficialmente visitate, sostituendoli con riproduzioni facsimilari.
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Patrizia Asproni
stato sostituito con un facsimile ma non si sa più dov’è l’originale. Allora, quello è il nostro patrimonio, un patrimonio che può, deve essere anche monetizzato nel momento in cui se ne parla. E io trovo molto importante che un giornale come il «Corriere della Sera» e un giornalista attento come Gian Antonio Stella non dedichi una notizia breve a questo argomento, ma una intera pagina. Significa che il messaggio dell’importanza del valore economico della cultura sta passando non solo a livelli elitari, ma anche presso l’opinione pubblica del nostro Paese. Anche questo è un aspetto molto importante. Infine, per ricapitolare quanto detto. L’Europa ritiene che preoccuparsi e occuparsi di archivi e biblioteche agevoli la ricerca, favorisca la democrazia partecipata, permetta lo sviluppo di imprese specializzate. Si sottolinea cioè l’importanza di quella filiera virtuosa di cui parlava Mario Alì. È tutto ciò che dobbiamo valorizzare e a questo scopo dobbiamo avere uno sguardo a 360 gradi al di sopra delle parti. Vorrei concludere consigliandovi di andare a vedere un film che ha sbancato negli Stati Uniti tutti i botteghini: si intitola Codice Genesi ed è la storia della ricerca spasmodica dell’ultimo libro rimasto sulla terra, che io penso sia la Bibbia, il libro dei libri. Tutti combattono per quest’ultimo libro perché il ‘cattivo’ dice: «solo con un libro si può comandare sul mondo» e il ‘buono’ risponde: «il sapere è ciò che ci rende liberi».
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IRENE pIVETTI
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Learn to be free: tra cultura, istituzioni e risorse economiche1
L’associazione che presiedo si chiama Learn to be free il classico nome che è tutto un programma, nel senso che siamo profondamente convinti che la conoscenza renda liberi e siamo anche convinti che la libertà si impara e non va data per scontata, ma deve essere anche oggetto di una conquista di maturità. Entro quindi nel merito delle attività della nostra associazione la cui azione non parte da un ambito culturale: lo scopo principale di Learn to be free è di generare sviluppo dove questo non c’è. Siccome l’esperienza ci ha insegnato che purtroppo gli indicatori di povertà si trovano tutti concentrati sullo stesso genere di soggetti, ci siamo trovati a operare con grandissima frequenza, e quindi a concentrare la nostra attenzione, sui territori periferici, marginali del Paese. Il concetto di periferia o di marginalità è un concetto ovviamente del tutto relativo perché per chi vive in periferia, quello è il centro e il resto è periferia. L’Italia approcciata in questo modo è un coacervo di territori periferici, è un meraviglioso intreccio di periferie e bene ha fatto Massimo Negri a sottolinearne la diseconomicità, perché chiaramente questo alza di molto il livello di complessità del nostro Paese; tuttavia, sappiamo quanto questo sia anche una risorsa. Tralascio in questa sede, perché non sarebbe opportuno, l’attenzione all’aspetto socio-economico che connota la nostra associazione, e sottolineo che ci siamo resi conto quasi da subito che uno dei nostri principali alleati per generare sviluppo dove non c’era niente era la cultura. La nostra azione si è concentrata nel fare leva su quelle risorse culturali che comunque sono presenti, devo dire quasi sempre, 1
Per rispetto dei criteri editoriali, è stato omesso dall’intervento l’incipit gratulatorio: «Grazie Valdo, grazie molte di questo invito, in realtà io sono qui soprattutto per ascoltare».
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Irene Pivetti
nel territorio anche se – e purtroppo anche qui devo dire quasi sempre – sono inespresse, ovvero sono affidate a ‘contenitori-sacrari’: un archivio parrocchiale noto a pochissimi oppure una manifestazione culturale importante però riservata solo ai residenti di un determinato quartiere. Con queste modalità, anche dove la cultura è preservata nel tempo non riesce a diventare un oggetto dinamico, negoziato con altri contesti e quindi capace di generare sviluppo. Consapevole di questo aspetto, Learn to be free è partita da un progetto base, che ha chiamato con un nome quasi plebeo: festival. Il Festival delle identità è una iniziativa che mette in correlazione le diverse risorse culturali presenti nel territorio con i diversi attori che possono entrare in gioco: imprese, istituzioni, o altro, guardando naturalmente all’Unione Europea perché è solo dall’Europa che possono arrivare risorse in un momento come questo. Anche le istituzioni locali restano per noi un fattore critico – inteso in senso positivo – anche quando, quasi sempre, non hanno denaro, perché l’istituzione è depositaria di un potere legittimante di qualsiasi iniziativa che da solo è ‘denaro contante’. Noi scegliamo dove intervenire anche in base a questo: se troviamo un interlocutore locale attivo avviamo la nostra azione, altrimenti la rimandiamo, cercando di fare massa critica là dove si può agire. Mi fa piacere comunicarvi che il Festival delle identità è al suo quarto anno di vita: abbiamo messo in relazione molti territori marginali, ma anche marginalità presenti dentro le grandi città. Per raggiungere questo obiettivo, abbiamo fatto un largo uso delle tecnologie e contiamo di farlo ancor di più con l’andar del tempo: non soltanto abbiamo un portale e un canale video, ma cerchiamo di acquisire anche delle competenze che non abbiamo, tentando di trovare imprese che portino la banda larga nei territori marginali, per metterli in condizione di fruire di contenuti elevati. Noi siamo degli operatori ‘con la zappa e il rastrello’, lavoriamo con la terra; però, poiché abbiamo visto quanto la cultura anche a livello minimo possa essere importante, ci mettiamo a disposizione di questo consesso, dove ognuno di voi ha più titolo, esperienza, competenze di me per essere qui. Un lavoro in questi anni l’abbiamo fatto e lo continuiamo a fare, e siamo fortemente determinati a continuare a presidiare questa fascia di interconnessione; siamo cioè una specie di tessuto connettivo, di disco della frizione che serve a mettere in contatto il mondo dell’elaborazione culturale, il mondo delle istituzioni (che non è maldisposto spesso è non
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Learn to be free: tra cultura, istituzioni e risorse economiche
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acculturato su quali possano essere gli strumenti per dialogare con questo mondo, specie a livello periferico), e il terzo polo che sono le risorse economiche, le imprese, le banche, ovvero tutti quei soggetti che hanno bisogno di un business plan per avviare un ragionamento. Far quadrare questa tripletta di conti è il nostro lavoro; siamo molto felici di essere inseriti nel vostro percorso e ci consideriamo messi a disposizione dello sviluppo dell’insieme. Tra l’altro, non abbiamo nessuna passione per l’esclusiva, per cui se ci fossero più soggetti come noi che amano ‘zappar la terra’ alla stessa maniera sarebbe anche meglio, perché più giardinieri ci sono, più piante si riescono a coltivare.
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RUggERO pARROTTO
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Piattaforme tecnologiche e culturali1
Desidero contribuire con la mia testimonianza, o meglio la testimonianza di Poste Italiane, che per storia e per scelta sta cercando di svolgere un ruolo significativo nell’ambito dei temi attuali, e in particolare relativamente all’Agenda digitale, di cui tanto si parla in queste settimane, perché pensiamo che il settore sia importante e sia centrale. Poste Italiane già nel 2009 ha fatto una scelta di impegnarsi in alcuni progetti rilevanti, che rientrano tra i ‘progetti-Paese’. Tra questi ve ne sono due, Digicult e Fibac, che sono completamente dedicati al tema dei Beni culturali; li abbiamo avviati nel 2011 e sviluppati insieme al ministero dell’Istruzione, con il sostegno di Mario Alì che ci ha accompagnato e guidato nel raggiungere accordi strategici che valorizzano il nostro ruolo. In questo momento noi abbiamo 50 giovani ricercatori impegnati in questo settore, che stanno lavorando insieme alle università e agli esperti più accreditati in Italia e all’estero su due temi particolari. Il primo progetto, Digicult, riguarda l’individuazione di nuove piattaforme che consentano di rendere disponibili i giacimenti culturali diffusi. Il secondo progetto, Fibac, riguarda anch’esso il tema della valorizzazione del patrimonio culturale e mette al centro il fruitore dei beni culturali, il cittadino, con una focalizzazione molto forte: intende fornire piattaforme che permettano al fruitore di organizzare in base alle proprie conoscenze e alle proprie esigenze dei percorsi culturali personalizzati all’interno dei circuiti museali. Questi sono solo 1
Per rispetto dei criteri editoriali, è stato omesso dall’intervento l’incipit gratulatorio: «Grazie Presidente, io sono molto grato a Carmine Marinucci con il quale abbiamo instaurato un confronto importante, di contenuto ma anche di emozioni e soprattutto finalizzato a fare il punto su quello che effettivamente serve».
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Ruggero Parrotto
due esempi, due progetti che porteremo a compimento nel 2014, ma già dalle prime evidenze possiamo constatare che ci troviamo di fronte a opportunità straordinarie. Questi progetti stanno facendo emergere l’enorme patrimonio culturale che esiste in Italia e, allo stesso tempo, l’enorme potenzialità che le nuove tecnologie possono mettere a disposizione al fine di far emergere i 2/3 del nostro patrimonio, spesso collocato nei cosiddetti piani bassi, nei sottoscala non solo fisici, ma anche culturali e psicologici del Paese e delle sue istituzioni. Desideravo portare questa testimonianza per sottolineare l’impegno e il coinvolgimento di Poste Italiane relativamente a un tema che riteniamo attualissimo. Questo è il primo messaggio che ci tenevo a trasmettere: noi ci siamo, siamo presenti e partecipi. Il secondo messaggio è che, a mio avviso, su questi temi bisogna dire basta alle parole e passare ai fatti, quindi bene ha fatto Patrizia Asproni2 a usare il termine ‘monetizzazione’, perché questo è un elemento decisivo: la cultura è un valore non solo culturale, ma anche economico. Il punto è che oltre a parlare, e spesso si parla fin troppo, noi dobbiamo, a mio avviso, passare a una fase concreta, ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale sulla base di piattaforme soprattutto tecnologiche, che porterebbe una grande disponibilità economica e finanziaria, cosicché anche gli stimoli che pervengono potrebbero essere rielaborati in modo diverso. Ci sono due aspetti decisivi su cui occorre riflettere. Il primo aspetto è quello dell’approccio verticale, un problema gravissimo che ci ha fatto disperdere enormi potenzialità e risorse, e quindi bene ha fatto il ministero a ‘orizzontalizzare’ e integrare, ma in modo concreto. Occorre lavorare in squadra: chi non entra nel gioco stia pure fuori, ma chi partecipa deve fare rete, essere integrato. Il secondo elemento di riflessione è che le piattaforme tecnologiche da sole non bastano; da questo punto di vista noi abbiamo la netta sensazione che la vera piattaforma che deve accompagnare il cambiamento in corso è una piattaforma culturale. In altri termini, il successo passa per un gioco di squadra, che ancora non c’è; se ne parla molto, è molto auspicato, ma ci si aspetta che siano gli altri a cominciare, e noi ci accorgiamo che su molti temi ognuno si muove autonomamente. Il sistema, lo ripeto ancora una volta, ha bisogno di gioco di squadra, di gioco integrato. Di fronte alle opportunità che si apriranno nei prossimi mesi voglio ribadire che Poste Italiane non solo è presente e sta già lavorando su questi 2
Cfr. supra.
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Piattaforme tecnologiche e culturali
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temi, ma è disponibile a fare ancora di più. Il tema della digitalizzazione, il tema delle Smart Cities sono tutti aspetti che devono essere integrati: dobbiamo evitare di fare progetti svincolati uno dall’altro, dobbiamo evitare di disperdere energie. La testimonianza concreta del nostro impegno sono le piattaforme su cui stiamo lavorando, su cui siamo pronti e disponibili; e quando ci saranno i primi rilasci saremo anche contenti di raccontare cosa sta emergendo, quali potenzialità possono venir fuori. E che tipo di innovazioni questi giovani ricercatori straordinari stanno mettendo in pratica per rendere il patrimonio culturale fruibile, con una valorizzazione del fruitore che nel progetto è centrale. Avremo piacere a rendere pubblica questa esperienza innovativa, perché consideriamo queste piattaforme una risorsa per l’intero sistema-Paese. Un altro aspetto da rilevare è che per quanto concerne i prossimi appuntamenti – i PON (Programmi Operativi Nazionali) Smart Cities del Centro-Nord, ma soprattutto Horizon 2020 – noi riteniamo che si possa fare un lavoro di squadra e quindi siamo disponibili e interessati a parteciparvi in partnership con altri, soprattutto se riusciremo a far sì che alle nostre piattaforme tecnologiche si affianchino anche piattaforme culturali, sollecitando l’associazione e l’integrazione tra istituzioni, istituti di cultura, imprese, e aggiungerei anche i centri di ricerca e i centri universitari. Riteniamo, infatti, che anche su questo tema vadano coinvolti, da subito, tutti i soggetti che possono dare il proprio contributo. Da parte di Poste Italiane c’è quindi una conferma della centralità del tema, ma anche un invito alla concretezza e al gioco di squadra, perché gli investimenti che si sono fatti in questi anni non sono sufficienti, ma soprattutto sono troppo in ordine sparso. Dal mio punto di vista ritengo che gli intenti testimoniati dalle presenze a questo convegno permettano di dare vita in tempi brevi a un’agenda concreta, un piano di lavoro in cui noi di Poste Italiane, ripeto, ci siamo.
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CARLO RIZZUTO
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Reti europee di infrastrutture1
Spero di poter contribuire a questa giornata di lavori con alcuni elementi utili, ma penso che per comunicarli efficacemente io debba chiarire il mio punto di osservazione, ovvero delineare la mia provenienza, la mia esperienza professionale e le mie competenze. Sono stato coinvolto dai primi anni duemila nella costruzione a livello europeo della rete delle infrastrutture di ricerca, ultimamente come presidente del Forum strategico europeo, costituito dai Paesi membri e associati dell’Unione Europea, per sviluppare una politica integrata a livello europeo. Questa azione ha preso il suo avvio da alcune infrastrutture già esistenti, che riguardavano discipline molto compatte e ben collegate a livello internazionale come la fisica, l’astronomia e la biologia strutturale. In particolare, su mia proposta, il raggio d’azione si è allargato alle infrastrutture di ricerca di tutte le discipline, a cominciare dalle scienze umane fino alla medicina e all’ambiente, un ampliamento che intendeva anche essere una risposta alla difficoltà di fare rientrare la parte più culturale, di ricerca di base, nei programmi europei. Ricordo che i programmi di Ricerca e Sviluppo europei erano nati come programmi di salvataggio di industrie o di settori dell’industria più o meno in crisi, prima il carbone e l’acciaio, poi la chimica, la farmaceutica e così via. La loro programmazione era sotto il controllo delle grandi industrie di Stato e quindi era molto difficile inserirsi in quel contesto, soprattutto quando si parlava di cultura in generale, e di apertura alla ricerca detta blue sky research. 1
Per rispettare i criteri editoriali è stato omesso dal testo l’incipit gratulatorio: «Grazie Valdo, e grazie a chi ha organizzato questa giornata».
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Carlo Rizzuto
Uno degli elementi che mi è stato molto utile nell’argomentare in sede di Parlamento europeo e di Consiglio di ministri della ricerca a favore della ricerca ‘pura’ è il fatto che la base della cultura europea è stata costruita su una rete di infrastrutture di ricerca che facevano ricerca ‘del cielo’ (o blue sky) e cioè la rete delle abbazie e biblioteche benedettine che erano sorte durante la crisi, nel Medioevo. Una rete che non solo rappresenta la prima infrastruttura europea di ricerca, ma consente anche di rispondere a uno dei problemi che veniva sollevato in ambito di istituzioni europee, ovvero: qual è il beneficio economico apportato da queste reti? Qual è il ricavo? Se si studia la rete delle abbazie benedettine, si può notare che esse hanno generato anche delle attività di produzione ‘industriale’, come per es. produzione della birra, degli amari, ecc. che, sebbene siano produzioni di nicchia, hanno successo ancora adesso. L’altro elemento piuttosto importante è che la costruzione delle reti di abbazie venivano programmate dall’ordine benedettino o dagli altri ordini, in modo che avessero un impatto sul territorio tale da autoalimentarle. Sulla base delle conoscenze che si venivano a tramandare o a recuperare (di origine romana, greca o araba), si riusciva a rilanciare l’agricoltura, la farmacia o parafarmacia, le industrie artigianali, il cui sviluppo serviva poi a generare quel livello economico che avrebbe consentito in seguito di raccogliere le tasse, i contributi o le donazioni, che alimentavano a loro volta il ciclo economico dell’abbazia locale. Insisto su questo modello, che è incontestabile perché mostra quale può essere il collegamento tra ricerca blue sky, che apparentemente non ha nessuna ricaduta immediata ‘diretta’ di tipo commerciale, e le ricadute ‘indirette’ commerciali, educative, strutturali nei territori che ospitano questa ricerca. Naturalmente, se si vuole che gli effetti siano maggiori, la gestione deve essere analoga a quella dei benedettini, che era fatta in maniera tale per cui ad esempio gli amanuenses (per pura semplificazione, assimilabili con una certa cautela agli odierni digitalizzatori), o quelli che preservavano i libri o preparavano la carta, gli incunaboli ecc. potessero anche produrre sul territorio alcuni risultati di tipo economico. Questo è un modello molto chiaro in cui la cultura, che non ha una applicazione concreta, ha, però, degli effetti applicativi molto importanti se non altro attraverso l’educazione. L’iniziativa europea sulle infrastrutture di ricerca adesso vede il coinvolgimento di diverse entità, che vanno dalle banche dati relative a vari
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Reti europee di infrastrutture
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aspetti (mediche, linguistiche, culturali, sociali, ecc.), sino a infrastrutture ‘fisiche’ (nel senso concreto di edifici e strumentazioni concentrate), come quelle per l’analisi dei materiali simili a quella che presiedo io a Trieste2. La posizione delle infrastrutture di ricerca nel programma quadro è confermata anche nel prossimo programma Horizon 2020 e anche Horizon 2020 Italy sarà dedicata a questo tema in maniera particolare; sarà importante fare in modo che venga opportunamente alimentato, in collegamento con la parte europea, per valorizzare il patrimonio che abbiamo. Gli umanisti, che pure avevano ‘inventato’ le infrastrutture di ricerca nel Medioevo, sono rimasti abbastanza fuori dal giro delle infrastrutture di ricerca sino a non molto tempo fa. Abbiamo alcune infrastrutture di tipo informatico, meno di carattere librario o di collezione di fondi archivistici e museali; un recupero di questa centralità può essere favorito dalla digitalizzazione, dalla informatizzazione, ma soprattutto deve essere aiutata dalla mobilità internazionale tra questi centri. Quali sono le regole del gioco per diventare dei centri europei? È fondamentale ‘essere europei’, quindi, in qualche modo, essere attivi nel trovare contatti negli altri Paesi che possiedono patrimoni come i nostri, costruire una piattaforma culturale comune che porti a integrare questi patrimoni; come, ad esempio rafforzando la conoscenza e la condivisione delle storie politiche o di alcuni grandi movimenti che hanno pervaso l’intera Europa. L’ultima che è stata inserita nella roadmap del forum europeo delle infrastrutture è quella per la storia della Shoah; questo crea un’apertura per il coinvolgimento di infrastrutture di tipo storico; altri ambiti in cui è opportuno fare rete sono i movimenti politici, oppure ad esempio le grandi migrazioni che si sono verificate in Europa. Qualunque patrimonio esistente può essere messo in gioco. Cosa facciamo in Italia per cercare di avviare questo processo di costruzione delle infrastrutture? Io presiedo anche il comitato, ai sensi della legge 6/2000, per la divulgazione della cultura scientifica e tecnica, che gestisce un piccolo fondo di circa 10 milioni di euro, usato senza tanti errori ma anche senza tante ambizioni. Il bando del 2012 è stato radicalmente cambiato e tende a chiedere ai proponenti di progetti un certo numero di aspetti importanti. Abbiamo tre tipi di progetti. Un progetto è quello degli istituti che vengono inseriti in una tabella triennale e quindi hanno una continuità di 2
Carlo Rizzuto dal 1999 è presidente della Società Sincrotrone di Trieste.
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Carlo Rizzuto
finanziamenti per tre anni. La seconda tipologia riguarda gli accordi di programma e la terza sono i progetti annuali. Per la tabella triennale e per gli accordi di programma abbiamo chiesto che la proposta venga scritta in inglese perché verrà sottoposta a un peer rewiew internazionale; inoltre, uno dei criteri per quest’anno, per quanto riguarda gli accordi di programma e possibilmente anche i progetti annuali è che i partecipanti incomincino a creare delle reti, che non si presentino quindi istituti isolati, ma che venga fatto uno sforzo di collegamento in rete almeno a livello nazionale, e possibilmente europeo. Questo permetterebbe anche di raggiungere una massa critica per rapportarsi con altre istituzioni che già operano in rete, con la massa critica negli altri Paesi europei. I bandi sono usciti e a breve usciranno i risultati. Io spero che ci sia stata una risposta adeguata alle richieste, che serva a mettere in risonanza quello che si fa in Italia con quello che è previsto a livello europeo. La digitalizzazione è un tema di grande importanza, ma una delle opportunità che la creazione di queste reti offre, e che bisogna sfruttare, è anche quella di formare, addestrare le persone a muoversi tra istituzioni e Paesi diversi; insegnare che, alla fine, se vogliamo una società e anche un governo stabile e ragionevole, questo deve essere un governo europeo. La strategia deve essere quindi la strategia dell’educazione di una nuova generazione di giovani che si sappiano muovere molto bene in Europa, pur avendo le radici qui e pur riuscendo a valorizzare queste radici. Il che significa, in altri termini, formarli alla mobilità con un addestramento di tipo internazionale. Potrebbe essere utile in questo contesto fare in modo che i trainees che si formano in Italia siano anche stranieri. Io sto costruendo in questi ultimi tempi una rete di istituzioni con i Paesi dell’Europa centro-orientale ho potuto rilevare che l’entusiasmo per l’Europa che una parte del vecchio Continente ha perso è ancora vivo in quell’area. I patrimoni librari e documentali che quei Paesi possiedono sono enormi e sono molto più collegabili con la nostra storia, con le nostre incertezze e instabilità che non quelli di Paesi che hanno avuto Napoleone o la regina Vittoria e mostrato, quindi, una stabilità molto maggiore della nostra. Anche questo è uno spunto che potrebbe essere molto importante seguire.
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APPENDICE
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ASSOCIAZIONE DELLE ISTITUZIONI DI CULTURA ITALIANE (AICI)
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Manifesto per la Cultura
Il Presidente dell’Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane (AICI), Valdo Spini, diffonde il documento sui problemi della cultura approvato dall’esecutivo nazionale dell’AICI stessa1. Il documento afferma la necessità di rafforzare il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MIBAC) nella sua struttura e nelle sue competenze, convocare gli stati generali della cultura2, adottare subito tre misure di sollievo per gli istituti culturali e intraprendere cinque iniziative per elevare il tono della ricerca culturale nel nostro Paese. Valdo Spini si riferisce anche all’esempio del Ministero della Cultura e della Comunicazione in Francia dove, fermo restando l’autonomia della televisione, ci si pone il problema dei media attraverso i quali la cultura viene veicolata e diffusa. Il documento dell’esecutivo nazionale dell’AICI è stato inviato alle forze politiche. Premessa In questi anni il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (MIBAC) è stato lasciato deperire e ha visto una tremenda diminuzione di fondi che ne ha messo in crisi la possibilità di tutelare e di restaurare i beni culturali ad esso affidati nonché, con il blocco del turnover, la stessa possibilità di 1
Il documento è stato diffuso l’8 febbraio 2013. La Conferenza nazionale degli Istituti culturali è stata indetta dall’AICI, in collaborazione con l’Università di Torino e gli Istituti culturali torinesi, con il patrocinio del MIBACT, per la fine di settembre del 2014. Le precedenti Conferenze, curate dal Ministero, si erano tenute negli anni: 1978, 1984, 1991, 1995, 2002, 2008.
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Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane (AICI)
provvedere al trasferimento dei saperi negli istituti di restauro, nelle biblioteche e negli archivi. Più in generale la frase «Con la cultura non si mangia» ha sintetizzato un disprezzo per la mission del ministero contro il quale peraltro si è verificata una grande mobilitazione di ambienti e di forze culturali e non, manifestatasi ad esempio negli ‘Stati Generali della Cultura’3, promossi da «Il Sole 24ore» cui ha partecipato lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Peraltro, un’elaborazione in proposito era già venuta dalla ultima Conferenza sugli Istituti culturali4. Tutte queste, ed altre, elaborazioni hanno tra l’altro sottolineato il rapporto che in un Paese come l’Italia intercorre tra valorizzazione dei beni e delle attività culturali e sviluppo economico sotto varie forme, dal brand più generale del nostro Paese e dei suoi prodotti, al turismo, all’industria culturale vera e propria. Ci si aspetta dalla nuova legislatura, dal nuovo governo un’inversione di tendenza sostanziale, sia nelle risorse sia nel peso che la politica culturale deve avere nella politica più generale del Paese. Il nuovo governo dovrà subito convocare gli Stati generali della cultura per dare un segnale concreto di inversione di tendenza a favore delle politiche per i beni culturali e per lo sviluppo della cultura in generale. In questo senso allo stesso nome del MIBAC (Ministero per i Beni e le Attività Culturali) deve esser data sostanza comprendendo la cultura italiana a tutto tondo. Crediamo che il problema sia di sostanza e non di nome. Il nome attuale del ministero è sufficientemente comprensivo. Il problema è permettergli di rafforzare la sua struttura con una nuova leva di esperti e di tecnici dei vari rami della sua attività. Semmai sull’esempio francese (Ministère de la Culture et de la Communication) dovrebbe estendere la sua attività ai mezzi più moderni con i quali la cultura viene oggi trasmessa in particolare alle giovani generazioni. Certamente deve interessarsi alla televisione, ma non solo, alla digitalizzazione dei beni e alla diffusione mediante l’informatica con mezzi e strumenti adeguati. Non basta difendere, come è necessario quanto si ha, ma occorre investire in innovazione e modernizzazione. Cambiare quindi marcia al motore senza fermarlo. Questo deve essere l’obiettivo di una rifondazione non di facciata del Ministero. 3
Iniziativa promossa da «Il Sole 24ore» il 15 novembre 2012 presso il Teatro Eliseo di Roma. 4 Si tratta della VI Conferenza nazionale, tenutasi al Teatro La Pergola di Firenze, il 25-26 gennaio 2008.
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Manifesto per la Cultura
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In tale quadro è grande quanto non sufficientemente avvertita l’utilità per l’oggi del patrimonio di conoscenze che gli Istituti di cultura Italiani conservano e possono mettere a disposizione del Paese, in una fase nella quale lo scadimento della vita civile e politica deriva in misura assorbente dall’imbarbarimento del dibattito pubblico. Negli ultimi 10 anni, Istituti di Cultura e Riviste di Cultura hanno visto diminuire fino quasi a scomparire i trasferimenti pubblici, senza che si evidenziasse una politica pubblica sostitutiva o integrativa per questo universo di base della cultura italiana. È invece necessario adeguare agli standard europei il sostegno dato alle Fondazioni culturali: in Europa le iniziative crescono, in Italia le Fondazioni languono per mancanza di fondi e di agevolazioni. Il lavoro di produzione e distribuzione di cultura svolto da archivisti, bibliotecari, amministratori di ricerca e organizzatori di eventi negli istituti culturali dovrebbe invece ricevere anche una considerazione specifica nelle politiche del lavoro. Priorità5 1) Affrontare in maniera organica la questione della sopravvivenza degli Istituti di Cultura e delle Riviste di Cultura, raccolti rispettivamente intorno all’AICI e al CRIC, e del mantenimento delle molte loro funzioni e servizi, non solo con il MIBAC ma con tutti i possibili interlocutori (MIUR, MISE, Coesione, Agenzia Digitalia, Dipartimento Informazione Editoria, Regioni). Utilizzo delle tabelle degli istituti culturali riconosciuti dal MIUR come istituti di ricerca, dal MIBAC per contributi istituzionali o per il finanziamento di progetti nonché le fondazioni che alcune Regioni riconoscono di interesse regionale, come base per un Albo nazionale degli istituti culturali atto a costituire un riferimento permanente per la legislazione e gli interventi; 2) razionalizzare e ripensare la funzione di supporto del potere pubblico alla sopravvivenza di questi gangli vitali della vita civile ed economica 5
Una seconda edizione del Manifesto, del 20 maggio 2013, prevede un ulteriore punto: «Non dimenticare le piccole ma significative associazioni culturali, che abbiano al loro interno biblioteche specializzate e aperte al pubblico e archivi storici dichiarati di notevole interesse storico ai sensi del d.p.r. 1409/1963, utilizzate anche come sostegno alle università per stage e tirocini soprattutto in importanti indirizzi di ricerca», come per es. per la storia delle donne e i gender studies.
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Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane (AICI)
del Paese, anche con utilizzo, al Sud, dei Fondi Strutturali Europei, finanziando la conservazione del patrimonio ivi detenuto; 3) individuare utili sinergie che gli Istituti possono garantire nell’attivazione di promettenti filiere di ‘economia della cultura’, in aderenza a quanto affermato dal Presidente Napolitano in occasione degli Stati generali della cultura del novembre 2012.
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Misure improcrastinabili 1) Eliminare i disincentivi all’autonoma sopravvivenza degli Istituti e delle Riviste: • Eliminazione pagamento dell’IVA sugli acquisti degli Istituti (che non ricercano utili) • Riduzione dell’IVA per le riviste che scelgano di pubblicare in formato digitale (e che oggi passerebbero dal 4% di IVA del formato cartaceo all’aliquota unica del 21% valido per tutte le transazioni on line) • Tariffe differenziali se non gratuità per alcune spese come quelle postali • Sistema differenziato di sussidi e sgravi per investimenti e per alcune categorie di spese degli Istituti e delle Riviste • Revisione delle modalità di sgravi relative alle erogazioni liberali • Eliminazione IRAP per le Fondazioni • Istituzione di un congruo numero di borse di studio pluriennali specificamente rivolte al riordino degli archivi in possesso degli Istituti di Cultura che potrebbero promuovere, integrandosi tra loro, idonee formazioni professionali di alto livello. 2) Pianificazione di uno specifico supporto finanziario pubblico per programmi di digitalizzazione e conservazione del patrimonio esistente (digitalizzazione dei fondi archivistici e del patrimonio documentale e librario, modernizzazione tecnologica di uffici e redazioni). A questo fine, ricognizione, finalizzata al riutilizzo, dei tanti fondi stanziati nel tempo e mai spesi per programmi di digitalizzazione (Comitato dei Ministri per la Società dell’Informazione, Delibere CIPE, programmi europei), quindi tuttora ‘dormienti’ presso Amministrazioni dello Stato (Dipartimento Informazione e Tecnologie, DigitPA, MIUR, ecc.) • Adozione di uno specifico programma per gli Istituti del Sud nell’ambito del Piano d’Azione del Ministro per la Coesione.
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Manifesto per la Cultura
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3) Quantificazione, ripensamento e rifinalizzazione di tutti i fondi pubblici destinati in qualsiasi forma a enti e Istituti culturali e a riviste ed editoria. Privilegiare le pubblicazioni culturali rispetto a quelle puramente giornalistiche (è paradossale che si chieda a chi presidia la memoria storica e di scienza sociale di sopravvivere sul mercato, mentre si finanziano quotidiani generalisti). Rivisitazione della tabella di finanziamento del MIBAC, con una valutazione rigorosa ma trasparente e partecipata di requisiti minimi prefissati di solidità, di quantità e qualità dei servizi offerti (archivi, biblioteca, formazione, editoria), di stabilità dell’attività condotta, e con un altrettanto rigoroso monitoraggio nel tempo. 4) Assicurare uno spazio alle Riviste di Cultura nel Centro per il libro e la lettura che attualmente le esclude. Possibili iniziative 1) Valorizzazione degli Istituti e delle Riviste di Cultura, attraverso investimenti pubblici ad hoc inseriti nel contesto di specifiche progettualità finalizzate allo sviluppo territoriale, non in modo episodico ma attraverso una pianificazione su base regionale con una regia nazionale. 2) Organizzare attraverso il MIBAC incontri tra AICI (Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane) e Rai-Tv per discutere dei programmi culturali. 3) Organizzare triangolazioni tra il Ministero, il Comitato delle Regioni e l’AICI, investendolo anche della necessità del sostegno istituzionale agli istituti di rilevanza regionale. 4) Creazione di sinergie con il MIUR e con il mondo delle Università e degli Istituti d’istruzione superiore, momento importantissimo di collaborazione per mettere a disposizione della formazione delle nuove generazioni il patrimonio culturale, archivistico, librario e documentale posseduto, con copertura dei relativi costi. 5) Coinvolgimento degli Istituti di Cultura in progetti finalizzati a sollecitare la nascita di specifiche filiere di ‘economia della cultura’ in ambito locale, attraverso gli strumenti esistenti (progetti di sviluppo locale, contratti di sviluppo, finanziamenti Invitalia, ecc.).
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Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane (AICI)
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In particolare gli Istituti di Cultura con il loro patrimonio, di immagini, filmati d’epoca e carte d’epoca, volumi rari o specialistici, se digitalizzato con gli interventi sopra descritti, opportunamente classificati e catalogati da personale archivistico e bibliotecario, possono diventare importanti fornitori di contenuti per l’industria editoriale, cinematografica, audiovisiva, e in particolare per una Rai che riprenda la sua vocazione di grande azienda culturale, e stringa accordi di collaborazione con gli istituti culturali a questo scopo, istituti in grado anche di fornire consulenza sulla interpretazione dei documenti agli autori dei programmi.
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Gli autori
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mARIO ALì, direttore generale per l’internazionalizzazione della ricerca del MIUR, ha ricoperto numerosi e prestigiosi incarichi relativi alla ricerca scientifica e tecnologica a livello nazionale e comunitario. pATRIZIA ASpRONI, manager, ha ricoperto e ricopre numerosi incarichi di vertice nell’ambito della cultura e dei beni culturali: presidente Confcultura, presidente Fondazione industria e cultura di Confindustria, presidente della Fondazione Torino Musei, chairman Piattaforma tecnologia europea Beni culturali, direttrice Beni culturali Giunti. mARC LAZAR, professore di storia e sociologia politica all’Institut d’études politiques (IEP) di Parigi; specialista di storia dell’Italia contemporanea, docente alla LUISS-Guido Carli di Roma, dove presiede il Consiglio scientifico della School of Government, con incarico didattico nel Master sugli Affari italiani. mAURO mAgATTI, economista e sociologo, professore ordinario e preside della Facoltà di sociologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ricopre vari incarichi a livello internazionale; è anche componente del Comitato d’indirizzo dell’Istituto Luigi Sturzo (Roma). gIACOmO mARRAmAO, professore ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università Roma Tre; membro del Comitato d’onore del Collège internationale de philosophie (Parigi) e direttore scientifico della Fondazione Lelio e Lisli Basso – ISSOCO (Roma). mASSImO NEgRI, direttore dell’European Museum Academy, direttore scientifico di Genus Bononiae, Musei nella città - Fondazione Carisbo; direttore scientifico del master di museologia europea alla IULM di Milano e professore di archeologia industriale presso l’Università di Padova.
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gLI AUTORI
IRENE pIVETTI, giornalista e conduttrice televisiva, è stata deputata dal 1992 al 2001, presidente della Camera dei deputati, attualmente presidente della Fondazione Learn to be free.
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ANTONIO pOLITO, giornalista e politico, senatore per una legislatura, ha costituito e diretto «Il Riformista»; editorialista del «Corriere della Sera», dal 2014 direttore del «Corriere del Mezzogiorno». CARLO RIZZUTO, professore ordinario di Fisica dello stato solido all’università di Genova; presidente della Società Sincrotrone Trieste; presidente del Comitato tecnico scientifico per la diffusione della cultura scientifica del MIUR; membro del Comitato di esperti per la politica della ricerca (CEPR). Tra i numerosi incarichi, è stato presidente del Forum Europeo per le infrastrutture della ricerca (ESFRI). ROSSANA RUmmO, direttore generale per i Beni librari, gli Istituti culturali e il Diritto d’autore, e dal 2012 anche per gli Archivi, ha ricoperto dal 1996 in poi prestigiosi incarichi nazionali (MURST/MIUR, Ricerca e innovazione, MIBAC) e internazionali. Tra il genn. 2008 e il genn. 2012 è stata direttore dell’Istituto Italiano di Cultura nella sede di Parigi e, come tale, vicepresidente del Forum des Instituts culturels étrangers à Paris (FICEP). VALDO SpINI, deputato dal 1979 al 2008, ha ricoperto numerosi incarichi politici; presidente dell’Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane (AICI), del Coordinamento delle Riviste italiane di Cultura (CRIC) e della Fondazione Fratelli Rosselli di Firenze, della quale dirige anche la rivista «QCR/Quaderni del Circolo Rosselli». FRANCESCO TUFARELLI, dirigente generale della presidenza del Consiglio, capo di gabinetto del ministro per i Beni culturali nel 2005-2006, del ministro per gli Affari europei nel governo Monti, consigliere giuridico del ministro per gli Affari europei nel governo Letta, rappresentante della presidenza del Consiglio per la preparazione del semestre europeo di presidenza italiana; docente di Diritto comunitario all’università Roma Tre. NADIA URbINATI, docente di Teoria politica alla Columbia University, New York, componente della direzione scientifica del PhD in Politics, Human Rights, and Sustainability della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa.
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gLI AUTORI
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gIUSEppE VACCA, presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, di cui è stato direttore sin dal 1988; deputato per due legislature, è stato professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bari.
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Finito di stampare nel mese di luglio 2014 dalla Grafica Editrice Romana s.r.l. Roma
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