Per una rivoluzione africana. Il ruolo della cultura nella lotta per l'indipendenza 9788869481147

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Per una rivoluzione africana. Il ruolo della cultura nella lotta per l'indipendenza
 9788869481147

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Frontiere / 12



Amílcar Cabral





Per una rivoluzione africana



Il ruolo della cultura nella lotta per l’indipendenza



Introduzione e cura di Livia Apa

ombre corte

Opera sostenuta dalla Direzione Generale del Libro, degli Archivi e delle Biblioteche della Repubblica Portoghese e dell’Instituto Camões-IC

Prima edizione: maggio 2019 Traduzione dal portoghese di Livia Apa ombre corte Via Alessandro Poerio, 9, 37124 Verona Tel.: 045 8301735 www.ombrecorte.it Progetto grafico, copertina e impaginazione: ombre corte Immagine di copertina: Amílcar Cabral. Elaborazione grafica di una foto scattata da Bruna Polimeni ISBN: 9788869481147

Indice

7 Introduzione Per una rivoluzione africana, ovvero l’arma della teoria di Livia Apa 19 1. Appunti sulla poesia capoverdiana 26 2. Il ruolo dello studente africano 31 3. La verità sulle colonie africane del Portogallo 46 4. Liberazione nazionale e cultura 68 5. Il ruolo della cultura nella lotta per l’indipendenza 92 6. Resistenza culturale 119 I nomi

Introduzione

Per una rivoluzione africana, ovvero l’arma della teoria

Angela Davis, in un contributo raccolto nel corposo volume organizzato da Firoze Manji e Bill Fletcher Jr, Claim no easy Victories. The legacy of Amílcar Cabral1 in occasione del quarantesimo anniversario dell’assassinio del leader storico del Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde (paigcv) che ebbe luogo a Conakry il 20 gennaio 1973, ne presenta un appassionato ritratto restituendo al suo pensiero una forza rivoluzionaria intera, capace di influenzare tutti movimenti che negli anni Sessanta e Settanta non lottavano solo contro il colonialismo ma anche a favore di tutti i diritti civili: “Thanks to Cabral, we recognised that our very conception of Black liberation which distinguished our strategies and goals from that of an approach based strictly on civil rights, was closely linked to national liberations struggles in Africa”. Parliamo di un’epoca in cui, come è noto, i rapporti tra i leader dei movimenti anticoloniali africani, il movimento anti-apartheid e i movimenti anti-imperialisti, le Black Panthers e i movimenti di rivendicazione negra tessevano una fitta tela passando per città come Algeri, Conakri, Rabat, Kartum e La Havana. Angela Davis, dichiara nel suo saggio citato dal titolo Memories of Black Liberation2 che Cabral era più di un simbolo per lei e i suoi compagni di lotta, per la forza della sua teoria che aveva saputo creare un nesso inseparabile tra lotta di liberazione 1 Il corposo volume è stato pubblicato dal Council for the Development of Social Science Research in Africa (codesria). 2 Angela Davis, Memories of Black Liberation, in Firoze Manji, Bill Fletcher Jr (a cura di), Claim no easy Victories. The legacy of Amílcar Cabral, codesria, Dakar 2013.

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e rivoluzione culturale, elemento senza il quale nessun processo rivoluzionario avrebbe mai potuto essere considerato compiuto. Il pensiero di Cabral si muove, infatti, su una doppia dimensione: un costante richiamo alla specificità dei contesti in cui si avvia un determinato processo rivoluzionario e, al contempo, un modello di pratica rivoluzionaria universale perché universale è la necessità di ogni lotta per il riconoscimento del diritto alla specificità culturale di ogni contesto. La recente fortuna critica degli studi sul pensiero di Cabral3 mi sembra seguire questa traccia, promuovendo una riflessione che si allontana dalla sua mera celebrazione come eroe e mentore delle indipendenze africane che per quasi cinquant’anni lo ha dipinto come un’icona, una specie di Che Guevara della resistenza contro il colonialismo delle ex colonie portoghesi e non solo. La lettura più recente del suo pensiero privilegia invece un approfondimento della specificità delle sue posizioni teoriche rispetto ad altri pensatori anticoloniali soprattutto francofoni (primo fra tutti proprio Franz Fanon) che si articola proprio intorno al modo in cui Cabral struttura un’idea di cultura intesa come elemento centrale per portare a termine un radicale processo di decolonizzazione. La lotta di liberazione per Cabral è stata innanzitutto, come egli stesso ha più volte affermato, un atto di cultura, perché è solo partendo dalla conoscenza e dalla rivendicazione della dignità della propria cultura di appartenenza che si diventa liberi. Nelle pagine che seguono proponiamo sei saggi ancora inediti in italiano che riflettono sul concetto di cultura. Si tratta di saggi molto diversi tra loro, a causa dei diversi contesti in cui sono stati scritti, dei diversi tipi di pubblico/lettore per cui sono stati pensati, prodotti nell’arco di circa vent’anni, partendo dai primissimi anni europei di Cabral fino a poco prima della sua morte. Nato a Bafatá, in Guinea Bissau nel 1924, Amílcar Cabral, otto anni dopo, si trasferisce con la famiglia a Capo Verde, nell’isola di Santiago. Viene cresciuto dalla madre che faticosamente 3

Mi riferisco ad autori come Tomás, Rebaka, Lopes, Barros, citati in bibliografia.

introduzione 9

provvede alla sua formazione. Nel 1937 comincia i suoi studi nel liceo di São Vicente (una delle poche scuole superiori esistenti nelle colonie portoghesi), a Mindelo, capitale culturale dell’arcipelago, dove un anno prima dell’arrivo di Cabral era cominciata l’esperienza della rivista “Claridade”. Intorno a questa rivista si erano infatti agglutinati una serie di intellettuali che cominciano a veicolare una richiesta di emancipazione dal modello culturale imposto dal Portogallo, promuovendo l’importanza di un’educazione estesa a tutta la popolazione assieme ad un’idea di cultura che, veicolata dall’esperienza del romanzo nordestino brasiliano e del neorealismo portoghese, fosse capace di ritrarre la realtà locale. Si tratta di un’esperienza importante non solo per Capo Verde, visto che il loro richiamo alla necessità di una rappresentazione realista del contesto in cui ci si trova a vivere, servirà di esempio per le altre colonie portoghesi. Rivendicare una identità culturale capoverdiana specifica voleva dire, in quegli anni, contrapporsi all’ideologia assimilazionista del Portogallo che tendeva invece ad azzerare le specificità culturali dei paesi che aveva colonizzato, relegandole nello stretto recinto di un esotismo di maniera. Vale la pena forse ricordare alcuni fatti per meglio situare le riflessioni di Cabral. Pochi anni prima che entrasse al liceo, si era svolta a Porto la prima Esposizione Coloniale Portoghese e solo sei anni dopo a Lisbona avrebbe avuto luogo l’Exposição do Mundo Português, in cui furono riprodotti villaggi africani con tanto di “indigeni” esposti, secondo il modello degli zoo umani tanto in voga a partire soprattutto dalla fine dell’Ottocento in molte città europee. Il governo di Salazar (che decide di mantenersi neutrale durante la seconda guerra mondiale), vive la necessità di promuovere all’esterno del Portogallo un’immagine di nazione moderna e soprattutto “maggiore” della sua stessa geografia che la relegava ai confini dell’Europa. La famosa frase “Il Portogallo non è un paese piccolo” che accompagna un famoso manifesto salazarista del 1934, in cui le aree geografiche delle colonie vengono sovrapposte alla mappa dell’Europa4, diventa l’icona della megalomania di Salazar ma anche della cecità con 4 Https://goo.gl/images/5FdB1i

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cui il regime guarda a sé stesso e al resto d’Europa. In questo contesto, creare una classe di assimilati diventa uno degli obiettivi del colonialismo portoghese. Nel 1921, tre anni prima che la Francia promuovesse una legge analoga, l’approvazione dello Statuto dell’Indigenato aveva cominciato a sancire, infatti, la divisione della popolazione delle colonie in indigeni e assimilati. Il processo, dal punto di vista legislativo, culmina con atto coloniale del 1930 e si perfeziona ancora con la Carta Organica dell’Impero Coloniale Portoghese del 1933. Creare una classe di assimilati risponde anche a un’esigenza numerica vista la sproporzione esistente tra la misura dei territori coloniali e la scarsa popolazione portoghese. Salazar aveva quindi la necessità di creare una classe fatta sostanzialmente dei figli della piccola borghesia coloniale, a cui affidare parte dell’amministrazione della macchina coloniale. Questo processo prevedeva tre fasi: una prima di distruzione delle società tradizionali, una seconda in cui veniva inculcata la cultura portoghese ed una terza in cui gli africani “detribalizzati” e “portoghesizzati” sarebbero stati inclusi nella società portoghese. In linea con questo proposito, Salazar crea nel 1944 la Casa dos Estudantes do Império (cei)5, un centro di aggregazione che “rafforzasse la mentalità imperiale e il sentimento della portugalidade tra gli studenti delle colonie”6 e che facilitasse la convivenza tra studenti che erano venuti a studiare nella Metropoli. Cabral è uno di loro, arriva a Lisbona infatti nel 1945, con una borsa di studio per studiare agraria. Ben presto la cei si rivela essere invece un boomerang per il regime, visto che i giovani che venivano dalle colonie cominciano a mettere in discussione lo stesso ordine coloniale. Invece di “detribalizzarsi” i membri della Casa cominciano a discutere di autodeterminazione, indipendenza, negritudine. Cabral, fin dall’inizio, si impegna nella lotta antifascista facendo parte della gioventù Movimento de União Democrática (mud), dal quale però presto si allontana per divergenze proprio riguardo la questione coloniale. Si impegna invece a tempo pieno 5 Anche a Coimbra esisteva una cei, frequentata, fra gli altri, da Agostinho Neto. 6 Cit. in Cláudia Castelo, A casa dos Estudantes do Império: lugar de memória anticolonial, in https://repositorio.iscteiul.pt/bitstream/10071/2244/1/CIEA7_6_CASTELO,%20A%20Casa%20dos%20Estudantes%20do%20Imp%c3%a9rio.pdf (ultima consultatazione, 23 febbraio 2019).

introduzione 11

nelle attività della Casa, scrivendo sul bollettino, “Mensagem”7, come del resto facevano molti di quelli che verranno ad essere i principali mentori della lotta anticoloniale come gli angolani Mário Pinto de Andrade e Viriato da Cruz. Uno degli obiettivi di Mensagem era discutere e promuovere la cultura dei paesi di origine, restituendo dignità ai saperi ivi prodotti. A rileggerlo oggi Mensagem si presenta come una rassegna di controsaperi che si oppone alla retorica e a tutto l’ideario del colonialismo salazarista. Si scrive infatti sulle lingue africane, sulla danza, sulla letteratura, sulla musica ma anche sulla qualità dei suoli nelle colonie, sulle condizioni di produzione, sulla geografia dei luoghi. Si tratta di un percorso di riappropriazione culturale comune che va in una direzione completamente opposta a quella disegnata dal salazarismo. Cabral assume nella cei vari incarichi di dirigenza: tra il 1948 e il 1951 presiede il comitato cultura, e poi successivamente ne sarà segretario generale e l’anno dopo vice presidente. Nello stesso anno crea, assieme ad altri membri della cei, il Centro de Estudos Africanos, che aveva sede in casa della poetessa Alda de Espírito Santo di São Tomé, che svolgerà un’importante attività editoriale e di promozione di testi di scrittori provenienti dalle colonie che si fanno portatori delle istanze del movimento della negritudine. Nel 1952 Cabral ottiene un contratto come agronomo per realizzare il censimento agricolo della Guinea Bissau. Questa permanenza sarà fondamentale per conoscere capillarmente la realtà del suo paese che aveva lasciato da bambino e per cominciare a creare le basi locali per la lotta anticoloniale.8 In quegli anni, molti dei colleghi che frequentavano la cei lasciano il Portogallo perché il controllo della polizia segreta si fa sempre più duro. Nel 1956 Cabral fonda il Partido Africano para a Indipendência (pai), che successivamente diventerà il Partido Africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde, il paigcv, e, obbligato dall’amministrazione coloniale a lasciare la Guinea Bissau per attività politica sospetta, viene trasferito in Angola dove nel 7 8

Mensagem, edizione anastatica di tutta la raccolta pubblicata da alac, Lisbona 1996. Cfr. Filipa César, Meteorisations. Reading Amílcar Cabral’sAgronomy of Liberation in “Third Text”, vol. 32, 2018, pp. 254-272.

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mese di dicembre è tra i fondatori del Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola (mpla). Nel 1959, assieme ad altri membri del paigcv, partecipa all’organizzazione di uno sciopero degli scaricatori di porto a Pidjiguiti, in Guinea Bissau. La reazione dei coloni è però feroce: più di cinquanta morti e moltissimi feriti. I tempi sono ormai maturi per organizzare una più massiccia resistenza anti-coloniale, considerato soprattutto il fatto che, nel 1960, la maggior parte dei paesi africani raggiunge l’indipendenza. Il colonialismo portoghese diventa una anacronistica eccezione e guadagna via via forza a livello internazionale il sostegno ai movimenti che lottano contro il suo perdurare. Cabral diventa il simbolo di questa lotta, diventando la figura epigonale della lotta anti-coloniale nel continente. Comincia una lunga attività diplomatica. Nel 1960 Cabral partecipa alla Seconda Conferenza Pan-Africana di Tunisi e alla Conferenza di Quadri delle Organizzazioni Nazionaliste di Dakar, perché il futuro delle colonie portoghesi passava in quel momento soprattutto dalla denuncia a livello internazionale. Era importante infatti richiamare l’attenzione sulla questione coloniale portoghese perché, nonostante la recente vittoria della lotta anticoloniale combattuta negli ex possedimenti francesi, era difficile scardinare l’idea che nelle colonie portoghesi vigesse una specie di ordine multirazziale, idea supportata dal pensiero luso-tropicalista dell’antropologo brasiliano Gilberto Freyre9. Negli anni Cinquanta, Freyre aveva infatti difeso l’idea che i portoghesi, essendosi mescolati con le popolazioni autoctone, avessero dato origine “naturalmente” a delle società multirazziali, venendo a supportare “scientificamente” la costruzione ideologica che era alla base del colonialismo di Salazar. Denunziare la realtà delle cose era dunque urgente e riunioni come quelle di Tunisi o Dakar si rivelano occasioni irripetibili. Ma parte della partita diplomatica doveva essere giocata in Europa. Mentre ormai la maggior parte dei nazionalisti vicini alla cei si erano spostati in Africa, in quei paesi dove l’indipendenza aveva già avuto luogo come l’Algeria, Cabral prende contatti a Parigi e poi a Londra dove, contando anche sull’aiuto del giornalista Basil 9

Cfr. Cláudia Castelo, “O Modo Português de estar no Mundo”. O luso-tropicalismo e a ideologia colonial portuguesa (1933-1961), Edições Afrontamento, Porto 1999.

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Davidson autore del seminale The Africa Awakening10, pubblica, con lo pseudonimo di Abel Djassi, il panfletto The facts about Portugal’s African Colonies11, che presentiamo in traduzione nelle pagine a seguire. Nel 1961 fonda assieme al mpla e al Movimento di Libertação de São Tomé e Príncipe (mlstp), la Conferência das Organizações Nacionalistas das Colónias Portuguesas (concp), con l’intento di creare un fronte unico, un soggetto politico comune capace di farsi portatore ed interlocutore presso la comunità internazionale delle istanze indipendentiste. Fallito ogni tentativo di mediazione pacifica con il Portogallo, nel 1963, il paigcv esce dalla clandestinità dopo aver stabilito una delegazione a Conakri, e decide di passare alla lotta armata. Il primo atto militare è l’attacco alla caserma di Tite, in Guinea Bisssau. Cabral difenderà comunque fino alla fine l’idea che il paigcv era un partito di militanti armati, una forza politica e non militare costretta dalle circostanze ad impugnare le armi. Nel corso degli anni, per far conoscere la situazione nelle zone che via via il paigcv andava liberando in Guinea Bissau, Cabral decide di permettere a giornalisti e fotografi stranieri di visitare le zone liberate. Il francese Mario Marret è il primo giornalista straniero ad arrivare al fronte e nel 1966 filma Nossa Terra, sulla lotta liberazione del paigcv. Nello stesso anno Piero Nelli e Ansano Giannarelli sono anche essi in Guinea Bissau per realizzare il documentario Labanta Negro. Si succedono cineasti cubani come José Massip, britannici, insomma Cabral realizza ben presto che il potere dell’immagine è molto forte: mostrare la guerra anti-coloniale è più efficace di molte parole. Il contributo italiano in quegli anni è importante, molti sono i comitati di sostegno terzomondista sparsi soprattutto in alcune città del nord e centro Italia, basti pensare che molte delle immagini più famose di Cabral ai tempi della lotta armata sono fotografie di Bruna Polimeni, che ha documentato a lungo e dettagliatamente la vita nei territori liberati. Negli stessi anni Bruno Crimi e Uliano Lucas pubblicano Guinea-Bissau. Una rivoluzione 10 Basil Davidson, La riscoperta dell’Africa (1956), Feltrinelli, Milano 1963. 11 Pubblicato dalla Union of Democratic Control, London 1960.

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africana12, Romano Ledda Una rivoluzione africana13 e Mario Albano pubblica una piccola antologia di scritti di Cabral, Guerriglia: il Potere delle armi14. La situazione della Guinea Bissau e delle altre colonie portoghesi fa parte costantemente dell’agenda della sinistra italiana. Nel 1968 Cabral descrive la Guinea Bissau come uno stato indipendente con una parte di territorio nazionale, soprattutto urbana, occupata da forze straniere. In effetti nelle impervie zone dell’interno del paese l’esercito portoghese non ha gioco. La Guinea Bissau è stato il fronte più duro della guerra coloniale. L’impegno militare portoghese è massiccio: 30.000 soldati per difendere poco più di 3.000 portoghesi ancora presenti nel paese. Cabral continua a condurre la sua lotta sia sul piano militare sia su quello diplomatico. La rete di solidarietà italiana offre un’importante vittoria a quei movimenti anti-coloniali: l’1 luglio 1970 Amílcar Cabral, l’angolano Agostinho Neto e il mozambicano Marcelino dos Santos vengono ricevuti da Papa Paolo vi. Si tratta di un risultato diplomatico importante, che si deve a Marcella Glisenti, che Cabral aveva conosciuto a Parigi qualche anno prima, che gestiva a Roma la Libreria Internazionale Paesi Nuovi, che avrebbe poi divulgato opere legate alla cosiddetta rinascita africana. Visto che i tre anticolonialisti si sarebbero trovati a Roma per una conferenza di solidarietà con i popoli delle colonie portoghesi, organizzata dai sindacati vicini al Partito Comunista Italiano, conferenza a cui avrebbero partecipato quasi duecento organizzazioni di tutto il mondo, la Glissanti15 scrive a Paolo vi chiedendo di riceverli. Il pontefice, che poca simpatia nutriva per il regime di Salazar, accetta e li riceve nella sala dei paramenti, dove, peraltro, normalmente venivano ricevuti gli ambasciatori. È una vittoria importante perché è un segnale chiaro per il mondo cattolico in generale, ma soprattutto per quello antifascista che aveva crescente importanza anche nel Portogallo di quegli anni. Lo stesso anno, Cabral viene invitato negli Stati Uniti, a Syracuse, 12 Bruno Crimi, Uliano Lucas, Guinea Bissau. Una rivoluzione africana, Vangelista editore, Milano 1970. 13 Romano Ledda, Una rivoluzione africana, De Donato, Bari 1970. 14 Amilcar Cabral, Guerriglia: il potere delle armi, Partisan, Roma 1970. 15 Cfr. António Tomás, O Fazedor de Utopias, Tinta da China, Lisbona 2007, p. 239.

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in occasione di una celebrazione in memoria del mozambicano Eduardo Mondlane, vittima di un attentato l’anno precedente. Il discorso di Cabral che presentiamo in traduzione nelle pagine seguenti, Liberazione nazionale e cultura, riafferma in quel contesto il principio guida del pensiero di Cabral, per cui non ci può essere una vera rivoluzione senza resistenza culturale alla politica assimilazionista dei coloni. Durante la sua permanenza negli Stati Uniti, il leader del paigcv viene ricevuto al Congresso americano, riceve poi in un altro viaggio il sostegno militare dell’Unione Sovietica in termini di armamenti, riceve sostegno diplomatico dai paesi scandinavi. Finalmente nel 1972 l’onu decide di inviare un gruppo di osservatori internazionali in Guinea Bissau per rendersi conto della situazione al fronte guineano. Poco dopo, il 20 gennaio 1973, Cabral è assassinato a Conakri. La narrazione costruita negli anni immediatamente successivi alla sua morte negli ambienti anticoloniali ha indicato la pide, la potente polizia segreta portoghese, come vero mandante dell’assassinio, materialmente compiuto però da due uomini del paigcv. Effettivamente la pide in passato aveva provato ad uccidere Cabral, ma la morte del leader si perde in un’intricata tela di fattori, non ultimo il difficile rapporto tra capoverdiani e guineani all’interno dello stesso partito. Questa morte attraversa anche l’azione di figure come quella del generale portoghese Spínola che per la Guinea promuoveva una soluzione transitoria di dieci anni in cui una “comunità luso-africana”, avrebbe traghettato il paese verso un referendum popolare, soluzione che non dispiaceva nemmeno al presidente senegalese Senghor. La rivalità tra varie etnie fa parte anch’essa del complesso quadro che armò la mano dei due assassini. Amílcar Cabral aveva profetizzato la sua fine dichiarando più volte: “Se qualcuno mi farà male, sarà qualcuno che è qui tra noi, nessuno può distruggere il paigcv, solo noi”. Dopo la morte di Cabral la lotta sul piano militare si fa più dura, e il 24 settembre 1973, viene proclamata l’indipendenza unilaterale del paese. Quaranta paesi riconoscono l’indipendenza. Il paigcv si rivela però ben presto un partito costruito troppo ad immagine e somiglianza del suo leader. Continuare Cabral è stata ed è ancora oggi la maggiore sfida che la Guinea Bissau si

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trova ad affrontare. Resta però quello che da molti viene definito come essere cabralista16, posizionamento che si declina proprio intorno ad una lettura del pensiero di Cabral nel suo potenziale di rivendicazione culturale, anche e forse soprattutto nei contesti diasporici. Cabral scriveva che il colonialismo, per garantire la sua esistenza, si è trovato di fronte al dilemma di eliminare fisicamente le popolazioni locali o di assimilarle ai suoi valori culturali. L’alienazione culturale è l’arma che colonialismo sceglie per controllare i colonizzati, alienandoli soprattutto dalla loro vita culturale che viene cancellata in quanto ritenuta senza valore, specchio di una supposta arretratezza rispetto ad un’idea univoca di progresso. La lotta di liberazione è innanzitutto, in Cabral, un atto che ricongiunge il popolo con la sua storia, come un processo di autocoscienza collettiva destinato a recuperare il proprio posto nel mondo. Ma Cabral vede questa riappropriazione come un processo, non come un momento a quo, basti pensare alla sua posizione riguardo all’utilizzo delle lingue coloniali. Diversamente da Fanon, Cabral infatti riconosce nel portoghese un possibile fattore di unità nazionale – ben inteso per la prima fase del consolidamento del processo di indipendenza – “funzionale” alla concretizzazione del principale obiettivo che è appunto quello del superamento del tribalismo e della creazione di valori nazionali, come scrive nelle pagine di Resistenza culturale, che proponiamo in traduzione più avanti. Si tratta della trascrizione di un discorso pronunciato in una zona di guerriglia, in cui Cabral ricorre ad esempi concreti vicini alla vita quotidiana di chi lo ascolta, la cui articolazione si basa su due principi cardine: la dignità dei valori culturali africani e l’unità nazionale. La promozione della cultura di un popolo, intesa come espressione dei valori nazionali, trova nella pratica però un punto debole: la frammentazione etnica del paese tenuta peraltro tenacemente in vita dal Portogallo. Nella pratica l’idea di unità e lotta così cara a Cabral si scontra quindi con il fatto che la nazione sognata17 è 16 Un’interessante lettura del fenomeno è il docufilm Cabralista di Valério Lopes: https: //www.youtube.com/watch?v=KJab5uePfyk 17 Cfr. António Tomás, Cabral and the Postcolony: Postcolonial Readings of Revolutionary Hopes, in “Postcolonial Studies”, 19, 2016, p. 22-36.

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la somma di cose molto diverse tra loro e il movimento di liberazione nazionale non ha saputo dimostrare di essere pienamente efficace a gestirne la complessità. La riappropriazione culturale, come la lotta contro la frammentazione tribale, erano entrambi obiettivi primari della lotta di liberazione, ma solo in parte sono stati realizzati. Ciò che rende attuale il suo pensiero è proprio il fatto che Cabral lo áncora alla cultura e alla società di cui è il prodotto, e la rivendicazione della dignità della cultura africana è il tramite per riportare i soggetti colonizzati, anti-hegelianamente, dentro il tempo della storia. La liberazione è un processo che dall’individuale passa al collettivo e mette in connessione tutte le lotte, come ci ha ricordato Angela Davis. Cabral, come tanti altri pensatori che hanno attraversato il momento in cui la negritudine si afferma come opposizione al modello assimilazionista promosso dal colonialismo francese e da quello portoghese, ha avuto il merito di aprire la strada ad una riflessione teorica che richiama l’attenzione su un tema molto caro ai pensatori africani di oggi come pure agli attuali studi decoloniali, quello dell’urgenza della creazione di nuove epistemologie capaci di liberare il sapere da una gabbia gerarchica in cui non tutto ha lo stesso valore. Un sapere situato e, in virtù di questo, capace di dialogare dall’Africa con il resto del mondo.

Bibliografia

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1. Appunti sulla poesia capoverdiana1

Non mi duole niente che sia di me stesso Soffro per i cilici della comunità Acqua di un fiume dolce, sono entrato nel mare E ho fatto sale di me stesso nel sale dell’immensità. Miguel Torga, Cântico do Homem

I Quando ci si affaccia sul contenuto della poesia capoverdiana, alla ricerca del suo valore reale, due fasi nitidamente diverse si mostrano evidenti ai nostri occhi: quella precedente alla comparsa della rivista “Claridade”, e quella che comincia proprio con questo evento letterario. Queste due fasi sono così diverse che Osório de Oliveira2 non esita ad affermare che solo ora (cioè con “Claridade”) si può parlare di una letteratura capoverdiana. Forse che questo vorrà dire che tutto quanto è stato scritto prima delle produzioni dei collaboratori di “Claridade” non ha valore letterario? Che debba essere considerata poesia, nella vera accezione del termine, solo quanto hanno scritto i poeti di “Claridade” e quelli che sono venuti dopo? Poste queste domande, ci troviamo necessariamente di fronte al più che discusso problema della definizione di poesia, come espressione artistica. Ma non è obiettivo di questa nota affrontare questo problema. Si impone, comunque, una presa di posizione coerente con quanto si verrà ad affermare. La poesia, come qualsiasi manifestazione artistica, a prescindere dalle caratteristiche individuali relative alla personalità del poeta, è necessariamente prodotto dell’ambiente di cui è espressione, ciò vuol dire che per quanto sia ogni individuo a influen1 2

Pubblicato su “Boletim de Propaganda e Informação”, 28, 1 gennaio 1952. José Osório de Oliveira, autore nel 1944 del saggio Poesia de Cabo Verde, considerato la prima riflessione sulla poesia dell’arcipelago [N.d.C.].

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zare l’opera che produce, questa è sempre, in ultima analisi, un prodotto della complessità sociale che l’ha generata. Questa affermazione non è altro che un luogo comune in tutte le controversie che si riferiscono ai problemi dell’arte al giorno d’oggi. E visto che parliamo di controversie, non va dimenticato che non mancano le voci discordanti che si alzano per difendere l’esclusiva influenza di ciò che è individuale nelle manifestazioni artistiche. Riferendo questo fatto, ci si trova implicitamente di fronte alla non meno discussa questione del definire se l’arte deve essere “dipendente” o “indipendente”, cioè presente o esterna ai problemi sociali dell’ambiente in cui è prodotta, o, in altre parole molto semplificate, se l’arte oggi deve essere “interessata” o “disinteressata”. Mentre cresce, giorno per giorno, l’insieme di quelli che vorrebbero o vogliono un’arte con una funzione sociale, si chiudono le fila di quelli che testardamente sventolano la bandiera logora di un’arte assolutamente indipendente, della cosiddetta “arte per l’arte”. Qualificando come logora la bandiera di quelli che difendono un’idea di arte “disinteressata”, si sta, anche se implicitamente, prendendo posizione in tale dibattito. E che in realtà sembra – e con questa posizione non si sta dicendo niente di complicato – che alle questioni poste in precedenza, cioè una visione dell’arte considerata in funzione dell’ambiente e ancora dell’arte come funzione sociale, può essere data solo una risposta affermativa. Non è possibile infatti considerare l’arte (la poesia in questo caso) indipendentemente dall’essere sociale. L’arte è e deve essere, perché possa essere considerata tale, un prodotto dell’uomo per gli uomini. La poesia ha le sue radici (passi il termine, per capirci) che affondano nelle condizioni socio-economiche in cui essa è creata. Si noti che non si sta affermando che essa è funzione esclusiva di tali condizioni. Non è, né potrebbe essere estranea all’influenza di un’altra origine, come la morale, la religione, la scienza, la filosofia, ecc. Quanto alla sua funzione, ci sembra che quello che bisognerebbe discutere è la natura della funzione sociale di una determinata opera poetica, e non se tale funzione esiste o meno. Si intende cioè che esiste un’azione reciproca tra una realtà sociale e una

appunti sulla poesia capoverdiana

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determinata opera poetica, ammettendo che essa ha un qualche merito. Quello che interessa determinare è se tale opera rappresenti un bene o un male per quella realtà, cioè se è utile a essa o invece la tradisca. L’evoluzione delle società umane si trova alla base di tutta l’evoluzione letteraria. Anche quando questi due fenomeni si presentano disarmonici o antagonisti, ciò significa solo che essi non si sviluppano in concomitanza. L’evoluzione delle società umane è, a sua volta, una funzione dei fattori che determinano la struttura economica su cui essi si basano. II La poesia capoverdiana, come qualunque altra poesia, potrà dunque essere compresa se considerata in rapporto all’ambiente materiale e umano vissuto dal poeta. Sarebbe perciò utile determinare quali sono le caratteristiche dell’ambiente capoverdiano che si trovano alla base delle due scuole poetiche già riferite: quella precedente a “Claridade” e quella che comincia con questa rivista. La prima, rappresentata da Eugénio Tavares, José Lopes, Pedro Cardoso, Januário Leite, ecc., è caratterizzata da un distacco quasi totale dall’ambiente circostante, sublimandosi in un’espressione poetica che, eccezion fatta per alcune opere di Eugénio Tavares e Pedro Cardoso, non ha niente in comune con la terra e il popolo di quell’arcipelago. Mentre la poesia di Januário Leite, per esempio, offre nei suoi sonetti l’espressione della reazione puramente sentimentale del Poeta di fronte ai fenomeni che a lui e solo a lui interessano, quella di José Lopes traduce, più di qualsiasi altra, l’impronta della cultura classica, slegata dal contesto che caratterizza la formazione ideologica dei poeti, precedenti a “Claridade”. Anzi, è precisamente in questa formazione, acquisita principalmente nel seminario di São Nicolau, come fa notare Osório de Oliveira, o per un lodevole sforzo personale, che risiede la ragion d’essere delle caratteristiche della poesia precedente a “Claridade”. In possesso di una cultura classica, che in alcuni

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casi raggiunge un grado certamente alto, i poeti della generazione in questione dimenticano la terra e il popolo. Con gli occhi fissi su quanto avevano imparato sui libri e che forse consideravano insuperabile, non riescono a fare altro se non imitare gli autori che conoscevano, producendo una poesia in cui l’amore, la personalissima sofferenza, l’esaltazione patriottica e la malinconica nostalgia, sono tratti comuni. Non si nega il merito di alcune loro opere. Alcuni sonetti di Januário Leite, o alcune composizioni di Eugénio Tavares, certe opere di José Lopes e Pedro Cardoso sono, bisogna riconoscerlo, di un incontestabile valore. Si può dire che in Eugénio Tavares, quando canta l’ambiente dell’isola di Brava, e in Pedro Cardoso, quando traduce dal creolo quartine popolari dell’isola di Fogo, si trova qualcosa di quanto diventerà realtà nei poeti della nuova generazione: una comunione intima tra il Poeta e il mondo. È ancora l’influenza della cultura classica che caratterizza l’aspetto formale della poesia a cui ci riferiamo: il rispetto sacro della metrica, la triste sottomissione alle catene della rima. Ma, come scoprire l’influenza del contesto socio-economico in questi artisti? Si presti attenzione alle condizioni che seguono. Il popolo, in generale, vive estraneo alla cultura e alle manifestazioni artistiche. Il seminario di São Nicolau poteva essere frequentato da pochi. Vi si insegnava una cultura classica, alla quale rimangono saldamente legati coloro che hanno avuto la fortuna di averne accesso. È così forte il legame, che seminaristi (o autodidatti) di talento, trovando aperte le porte di una vita dove possono godere di posizioni di rilievo, ignorano o dimenticano la realtà che li circonda. Si opera in loro la supremazia di tutto quanto è meramente filosofico, religioso o morale, su quanto è invece economico. Meglio: è la stessa condizione economica in cui vivono che facilita il loro allontanamento dalla realtà capoverdiana. La terra e il popolo sono lontane. Nelle parole delle mornas, cantano i loro amori e le loro sofferenze, mentre quei poeti compongono sonetti perfetti per esaltare un sentimento o le trecce e gli occhi di Egeria, le bellezze della Grecia o una celebre data della storia.

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III Bruscamente però è arrivata una trasformazione. La poesia capoverdiana ha scoperto se stessa, nasce una nuova aurora. È la chiarezza che nasce, dando forma alle cose reali, mostrando il mare, le rocce brulle, il popolo che vive soffrendo in una situazione di crisi, la lotta del capoverdiano “anonimo”, cioè la terra e il popolo di Capo Verde. Per questo, il carattere intenzionale – e felicemente intenzionale- del nome della rivista che rivela questo profondo cambiamento nella poesia capoverdiana: Claridade, chiarezza. Jorge Barbosa, Oswaldo Alcantara (Baltassar Lopes), Corsino de Azevedo, Manuel Lopes, Teixeira de Sousa, Jaime di Figuereido ecc., sono i pionieri di questo progetto. I poeti adesso sono uomini comuni che procedono mano nella mano con il popolo e con i loro piedi ben fermi sulla terra. Capo Verde non è il sognato giardino delle Esperidi, ma l’“Arcipelago” e l’“Ambiente” dove gli alberi muoiono di sete e gli uomini di fame, ma la speranza non muore mai. Il mare non ha più sirene e le onde non baciano la spiaggia. Il mare è la strada della liberazione e della nostalgia, è l’andirivieni delle onde, è la tentazione costante, il ricordo permanente della disperazione “di voler partire e dover restare”. Persino una strada qualsiasi “vinta dal bestiame che la siccità ha ucciso” ha vita, come “gli alberi di cocco snelli” e “il cielo azzurro e ardente che non promette pioggia”. La terra, “la terra martire” è la mamma che sfama i figli “con la tenerezza delle sue viscere”, che non è morta, ma giace addormentata “in una briciola di terra in mezzo al mare”. La voce del poeta, adesso, è la voce della terra, del popolo e della stessa realtà capoverdiana. Come si è operata una così profonda trasformazione nella poesia capoverdiana? Tale evoluzione corrisponde a una evoluzione dell’ambiente economico-sociale? Si osservino le condizioni che seguono. Il popolo, in generale, continua a essere estraneo a tutte le manifestazioni artistiche e culturali. La cultura è ancora appannaggio di una parte ristretta della società capoverdiana. Ma è precisamente in questo settore che si è operata una trasformazione.

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Il liceo con la democratizzazione dell’insegnamento, indipendente dalla religione, ha portato maggiori facilità di accesso alla cultura. Tra le fila degli intellettuali è aumentata il numero delle persone provenienti dalla cosiddetta gente umile. Oltre a ciò, il fulcro della società capoverdiana, passando da São Nicolau a Mindelo, accanto al Porto Grande, si è trovato in contatto più ampio con il mondo, dove si opera, giorno per giorno, l’evoluzione della mentalità umana, e si concretizzano così le aspirazioni degli uomini. Bisogna ammettere che tale trasformazione è venuta principalmente da questo contatto, quello con la letteratura della capitale coloniale e del Brasile. In realtà le prime produzioni di “Claridade”, manifestano una certa influenza della corrente letteraria che ha caratterizzato il presencismo3 e della letteratura portoghese di allora. Influenza che si è limitata a cambiare la strada della poesia capoverdiana. Il Poeta, invece di guardare le nuvole, doveva cercare il senso della sua poesia nella realtà in cui vive. Putroppo, la prima fase di “Claridade” fu un fulmine. Ma fu sufficiente affinché una nuova generazione di poeti capoverdiani potessero vedere chiaro e capire che la poesia capoverdiana avrebbe avuto personalità e avrebbe posseduto un vero valore se, senza una intenzione premeditata, fosse “gli occhi e la bocca” dell’arcipelago della siccità. Anni dopo compare “Certeza”, purtroppo effimera, fondata dagli studenti del Liceo. Sulle sue pagine, Arnaldo França, Nuno Miranda, Tomaz Martins, G. Rocheteau e altri giovani, sperimentano un nuovo messaggio e mostrano che avevano compreso quello dei poeti di “Claridade”. Ma “Certeza” non si limita a essere un esercizio di comprensione di “Claridade”. I suoi poeti – il contatto con il mondo diventa sempre maggiore – sentono e sanno che oltre la realtà capoverdiana esiste una realtà umana, dalla quale non possono estraniarsi. Sentono e sanno che non solo a Capo Verde ci sono “grida lancinanti nella notte silenziosa” e “uomini vagabondi” che “fissano le stelle scolpite dall’alba”. E dicono, vogliono dire “un canto... incontri nei mari distanti e tra 3 Ci si riferisce qui alla rivista portoghese Presença che apre la strada a una letteratura più realista.

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i cuori degli uomini... un canto con contorni di pace e rilievi di speranza”. Di speranza. IV L’evoluzione della poesia capoverdiana non si può fermare. Deve superare l’“indignazione” e la “speranza”. L’“insularità totale” e la siccità non bastano a giustificare una stagnazione perenne. I messaggi di “Claridade” e “Certeza” devono essere superati. Il sogno di evasione, il desiderio di “voler partire” non può essere eterno. Il sogno deve essere un altro, e ai poeti - quelli che continuano a stare mano nella mano con il popolo, con i piedi ben fermi sulla terra partecipando del dramma comune, compete cantarlo. Il capoverdiano con gli occhi ben aperti comprenderà il suo sogno, scoprirà la sua voce, nel messaggio dei poeti. Sembra che António Nunes e Aguinaldo Fonseca siano all’avanguardia di questa nuova poesia. Non si rassegnano alla stagnazione. La prigione non si trova nel mare. Il primo, ascoltando la terra e il popolo, sogna un “domani” diverso, che vede però possibile. E descrive il cambiamento che bisogna operare: “Invece che campi senza niente...”, e profetizza, per la terra capoverdiana, la “vivificazione della vita”. Il secondo esprime, in tutta la sua grandezza, il “naufragio in terra” del popolo a cui appartiene. Descrive “gli uomini silenziosi” che soffrono il “dolore della Madre Terra”..., “di non esistere una cura”. Di uomini “prigionieri della non speranza”. E il suo sogno, non è “voler partire”, ma “un’altra terra dentro la nostra terra”4.

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I vigolettati sono citazioni di scrittori capoverdiani,

2. Il ruolo dello studente africano1

Che tipo di studi sceglie lo studente africano? Può aspettarsi in futuro una sistemazione corrispondente al suo valore? 1. Il negro delle colonie portoghesi in Africa, così come quello delle altre colonie, normalmente non dispone di risorse economiche compatibili con la sua dignità umana. La struttura del regime coloniale gli riserva, in modo esplicito o meno, posizioni che corrispondono – in una struttura sociale capitalista – a un livello socioeconomico considerato inferiore. Riassumendo, la quasi totalità delle masse negre (quelle che si trovano in contatto con la “civiltà occidentale”) occupano nella società coloniale una posizione paragonabile, ma non identica, a quella delle masse proletarie metropolitane2. Paragonabile ma non identica, perché quando un negro raggiunge il ristretto campo delle “opportunità che gli vengono offerte”, trova, tacitamente o meno, le limitazioni imposte dal razzismo. In certe colonie più che in altre (in Mozambico, per esempio), il razzismo alla portoghese, certo diverso ma pur sempre razzismo nella sostanza, impone limiti al progresso economico e sociale delle masse negre, negando loro la possibilità di migliorare le precarie condizioni di vita in cui vivono. Anzi, tale miglioramento del livello di vita non conviene affatto agli interessi, espliciti o impliciti, del colono. Le professioni riservate ai negri, quelli a cui il colonialista dà il 1 In Les Etudiants noir parlent, in “Présence Africaine”, Quaderno speciale, 14, 1953. 2 Qui Cabral si riferisce alla Metrópole, cioè al Portogallo [N.d.C.].

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nome di assimilado, tra le altre, sono: cameriere (la grande maggioranza), manovale, portiere, autista privato, operaio di seconda categoria, ecc.; oltre a ciò, un negro può essere un impiegato (senza però entrare in concorrenza con i bianchi nella maggioranza delle colonie) e, più raramente, commesso. Anche se esistesse un insegnamento medio e superiore nelle colonie portoghesi – cosa che non si verifica – sarebbe comunque evidente che un negro avrebbe difficoltà o non riuscirebbe affatto ad avere il minimo indispensabile per pagare i costi di un corso medio o superiore in Portogallo. Ossia, la barriera economica è la prima garanzia che la condizione di inferiorità dei negri cosiddetti civilizzati sarà eterna. Ciò detto, la verità impone di aggiungere che, nonostante tutto, alcuni negri sono riusciti a vincere tale barriera e a conquistare una certa indipendenza economica, riuscendo ad avere una professione (corso medio o superiore, funzionario pubblico). Questa verità non altera la sostanza del quadro presentato sopra. Dopo secoli di azione civilizzatrice, il numero di africani che possono assaggiare, sotto l’occhio vigile di un razzismo cristianizzato o cristiano, la torta della civiltà, è bassissimo. È necessario notare che questo fatto è presentato in altri termini, con la finalità di difendere il colonialismo (cioè lo sfruttamento delle masse africane). Il serpente, dice la leggenda, tentò Adamo e tutti gli uomini furono castigati. In conclusione: a) in generale un negro non ha i mezzi necessari per fare lo studente, in qualsiasi grado scolastico; b) un numero ridotto di africani può disporre di tali mezzi nelle colonie portoghesi; c) alcuni di loro possono accedere all’istruzione media e superiore esclusivamente in Portogallo. 2. Cerchiamo ora di rispondere alla seguente domanda: quali sono i corsi scelti di preferenza dagli studenti africani delle colonie portoghesi? Per fare questo è necessario prima rispondere a un’altra domanda: quali sono i fattori che condizionano questa scelta? I fattori che determinano la scelta una volta in Portogallo sono: a) Le circostanze che rendono possibili lo studio. Come abbia-

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mo detto, un negro non dispone in genere di mezzi per poter pagare i suoi studi. Così la maggioranza degli studenti africani in Portogallo è costituita da persone che, avendo rivelato qualità di intelligenza e capacità nelle colonie da cui provengono, hanno ricevuto una borsa di studio per continuare i propri studi. Nella maggior parte dei casi, la concessione di una borsa impone al candidato un certo numero di corsi, tra i quali poter scegliere. La sua scelta è limitata quindi da un fattore che solo eccezionalmente permette allo studente di seguire la sua vera vocazione. b) Probabilità di impiego. In Portogallo la mancanza di sbocchi lavorativi costituisce un problema. È per questo che gli studenti cercano di frequentare corsi nei quali questa difficoltà si prospetta minore, indipendentemente dalla propria vocazione. È una misura di difesa imposta dalle circostanze che regolano il lavoro intellettuale nella “civiltà occidentale”. Uno studente africano è obbligato a utilizzarle. Ma a queste difficoltà generali se ne aggiungono altre, quelle che derivano dalla sua condizione di africano colonizzato. Se egli si ingloba nella categoria a) può occasionalmente, nei corsi indicati al momento in cui riceve la borsa, trovarne uno che gli offra buone possibilità di lavoro. c) Vocazione. In generale questo fattore interessa solo gli studenti che possono pagare di tasca loro le spese relative agli studi e che non si preoccupano delle difficoltà di impiego. È difficile trovare un africano che si trovi in questa situazione. Se si include nelle categorie a) o b) può, tra i corsi che gli sono indicati o quelli che offrono maggiori probabilità di impiego, incontrarne uno che corrisponda alla sua vocazione d) Desiderio di possedere conoscenze che possano essere utili alle masse africane. È un fattore nuovo, davvero molto nuovo, che interviene nella scelta del corso per lo studente africano. Considerate le difficoltà economiche in cui si trova, è comprensibile che questo fattore non eserciti l’influenza sperata. Oltre a ciò, il negro che il colonialismo chiama “assimilato” è in genere lontano dai problemi delle masse africane. Assimilato vuol dire in genere sradicato. Bisogna dire che attualmente lo studente negro delle colonie portoghesi comincia a prendere poco a poco coscienza della sua posizione nel mondo: quella di un uomo negro

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che deve avere come principale preoccupazione servire la causa dell’emancipazione degli uomini negri, servendo così l’umanità. Nella misura in cui questa coscienza prende forma per un maggior numero di studenti africani, l’importanza di questo fattore crescerà sempre più. Lo studente africano deve utilizzare tutte le sue capacità per approfittare al massimo delle rare opportunità che il regime coloniale gli offre per lottare per la liberazione delle masse africane e per la sua stessa liberazione. 3. Dopo aver indicato i fattori che influenzano la scelta di un determinato corso di studi, possiamo ora rispondere alle seguenti domande: quali sono i corsi più frequentati dagli studenti africani? Come possono, questi lavoratori intellettuali, contare su opportunità corrispondenti al loro valore? I corsi più frequentati dagli studenti africani sono: – Corsi superiori: medicina, diritto, ingegneria, veterinaria, lettere, scienze economiche e finanziarie. – Corsi medi per: maestri, agronomi, aiutanti ingegneri. I corsi di medicina sono i più frequentati. Ciò si spiega perché: a) Questo corso è quasi sempre indicato nella concessione delle borse di studio; b) È un ramo di attività per il quale lo stato offre maggiori opportunità di collocamento, anche se non sono concesse al negro, rispetto al bianco – salvo rarissime eccezioni – uguali possibilità di accesso alle categorie più elevate, a prescindere dal suo valore. c) È l’attività che permetterà allo studente africano di avere maggior contatto con le masse negre. Va detto però che un medico negro ha grande difficoltà a esercitare la sua professione in Africa, al margine della tutela dello Stato, a causa del pregiudizio razziale. Gli altri corsi sono frequentati soltanto da un numero ridotto di africani. Le altre attività trovano grande difficoltà in Africa,

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a causa del razzismo imposto dal colonialismo. Per gli studenti di Lettere che volessero insegnare in Africa, in particolare, queste difficoltà sono, nella pratica, insormontabili. L’insegnamento secondario è riservato ai diplomati europei, anche se non esiste alcuna legge che lo dica apertamente. Le scuole militari sono assolutamente vietate ai negri.

3. La verità sulle colonie africane del Portogallo1

Undici milioni di africani sono sottomessi alla dominazione coloniale portoghese. Le colonie portoghesi hanno una superficie di circa due milioni di chilometri quadrati, il che corrisponde al 5% della totalità del continente e a una superficie maggiore di Spagna, Francia, Germania, Italia e Inghilterra messe assieme. La popolazione africana di queste colonie è stata ridotta in schiavitù da un piccolo paese, il più arretrato di Europa. Questi due milioni di chilometri quadrati possiedono immense risorse naturali. La terra è ricca di prodotti agricoli e bestiame. Il sottosuolo contiene ferro, carbone, manganese, petrolio, bauxite, diamanti, oro e metalli preziosi. La diversità e la bellezza della natura offrono possibilità per il turismo. Nonostante la ricchezza di queste risorse naturali, alcune delle quali sono sfruttate dai colonialisti, gli africani hanno un tenore di vita inferiore alla soglia di sopravvivenza. Vivono la condizione di servi nel loro stesso paese. Dopo il traffico degli schiavi, la conquista con le armi e le guerre coloniali, è arrivata la distruzione completa delle strutture economiche e sociali della società africana. Dopo la fase dell’occupazione europea e il popolamento crescente di questi territori da parte degli europei, la terra e gli averi degli africani furono depredati, i portoghesi imposero la “tassa di sovranità” e resero obbligatoria la coltivazione di certi generi, instituendo il lavoro 1

Questo testo fu scritto in inglese con lo pseudonimo di Abel Djassi, e pubblicato dalla Union of Democratic Control con il titolo The facts about Portugal’s colonies, con una prefazione di Basil Davidson a Londra nel giugno del 1960.

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forzato e organizzando la deportazione dei lavoratori africani. Cominciarono così a controllare totalmente la vita collettiva e quella privata del popolo, utilizzando la persuasione e la violenza. Con l’aumento della popolazione europea cresce il disprezzo per gli africani: sono esclusi da tutta una serie di impieghi, inclusi i lavori meno specializzati. In modo più o meno ipocrita, si pratica la discriminazione razziale. Gli africani furono così espulsi dalle ultime regioni fertili che restavano loro affinché gli europei potessero stabilire le loro colonie. Tutte le organizzazioni politiche, sociali e sindacali sono state vietate agli africani che non godono dei più elementari diritti umani. Quando le Nazioni Unite adottarono la Carta che sancisce il diritto di tutti i paesi all’autodeterminazione, il Portogallo si affrettò a cambiare la sua costituzione sostituendo il termine “colonia” con quello di “provincia d’oltremare”, il che gli ha permesso di affermare che non esistevano più le colonie né, di conseguenza, rapporti da presentare sui “territori africani”. Quando gli africani si sono svegliati e si sono lanciati nella conquista della loro libertà e dell’indipendenza, gli sforzi per continuare l’oppressione sono raddoppiati. Fu creata la polizia segreta, l’esercito coloniale venne rafforzato: in Portogallo crebbe la mobilitazione militare che cominciò a essere accompagnata da manovre belliche e da dimostrazioni di forza. Nelle colonie si crearono basi aeree e navali. Osservatori militari furono inviati in Algeria: furono elaborati piani strategici per la guerra contro gli africani e si conclusero accordi politici e militari con altre potenze coloniali. Furono fatte nuove concessioni, ogni volta più vantaggiose, a imprese straniere. Le rivendicazioni degli africani e il lavoro delle loro organizzazioni di resistenza, obbligate alla clandestinità, dettero origine a una grave repressione. Tutto questo si praticava e si pratica ancora oggi, in nome della “Civiltà e della Cristianità”, da parte del più retrogrado dei sistemi coloniali esistenti. Le risorse umane e naturali di queste colonie sono sfruttate e ipotecate. I colonialisti calpestano i principi cristiani quando disprezzano la persona umana e fanno tutto quello che possono per nascondere i veri effetti della loro “missione civilizzatrice”.

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Nel momento in cui l’umanità scopre l’unità e la lotta per una comunità di interessi basati sulla pace e il riconoscimento dei Diritti dell’uomo, nella libertà e nell’uguaglianza tra i popoli, i colonialisti portoghesi si preparano invece a intraprendere nuove guerre coloniali. Argomenti miserabili Il colonialismo portoghese può presentare solo miserabili argomenti sprovvisti di qualunque base umana o scientifica, per giustificare la sua esistenza o coprire i suoi crimini. Questi argomenti sono smentiti dalla realtà che i colonialisti portoghesi cercano di coprire. Gli argomenti addotti più frequentemente sono questi: a) “Diritti Storici” Risposta: per quanto riguarda l’Africa portoghese, questo concetto è stato sepolto dalle potenze coloniali con la Conferenza di Berlino (1885). In ogni modo, gli africani non lo hanno mai accettato. b) “Missione civilizzatrice” – i cui mezzi e risultati sono attentamente nascosti dal Portogallo. Risposta: questa “missione” è diretta da un paese sottosviluppato, con un reddito nazionale inferiore a quello del Ghana, per esempio, e che è stato incapace, fino a ora, di risolvere i propri problemi. c) La teoria colonialista della cosiddetta “assimilazione”. Risposta: Inaccettabile, non solo dal punto di vista teorico, ma anche pratico. Si basa su un’idea razzista “dell’incapacità e della mancanza di dignità” degli africani e sottende implicitamente il valore nullo delle culture e delle civiltà africane. d) L’idea di creare una “società multirazziale” nelle colonie, basata sullo statuto indigeno – in realtà un “apartheid” alla portoghese. Risposta: questo regime impedisce ogni contratto sociale con la popolazione detta “civilizzata” e riduce il 99% della popolazione africana a una condizione subumana. e) L’“Unità nazionale” con le colonie, concetto che il Portogallo

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si è affannato a introdurre nella costituzione per sfuggire alle responsabilità definite dalla Carta delle Nazioni Unite. Risposta: questo sotterfugio vergognoso va contro tutte le realtà geografiche, storiche, etniche, sociali e culturali e contraddice le proprie leggi che effettivamente reggono i rapporti tra le colonie e il Portogallo. f) Lo “Stato di Pace” tanto proclamato da Salazar. Risposta: in queste colonie gli africani non hanno alcun diritto politico e non possono fondare organizzazioni sindacali: non godono neppure dei più elementari diritti umani. Nonostante la crudele polizia segreta, l’amministrazione coloniale disumana, la brutalità dei soldati e delle milizie dei coloni, le organizzazioni nazionaliste africane svolgono una resistenza attiva al colonialismo portoghese. La situazione reale Ci chiederanno se il Portogallo ha avuto un’azione positiva in Africa. La giustizia è sempre relativa. Per gli africani che per cinque secoli si sono opposti alla dominazione coloniale portoghese, il colonialismo portoghese è un inferno, e dove regna il male non c’è posto per il bene; quanto alle altre persone, in particolare quelle che hanno avuto la fortuna di non conoscere la dominazione coloniale, è prioritariamente necessario che vengano informate di tutti i fatti, prima di esprimere un giudizio. Gli uomini veramente interessati alla verità e alla giustizia devono superare gli ostacoli sollevati dai portoghesi per chi visita le colonie. Devono andare lì senza farsi ingannare, studiando attentamente la situazione reale, osservando tutto quello che succede veramente, e solo dopo potranno giudicare “l’influenza civilizzatrice” del Portogallo. Quando sapranno la verità si renderanno conto della situazione disperata degli africani nei territori portoghesi. Questo colonialismo priva sistematicamente gli africani delle condizioni indispensabili per sopravvivere, obbligandoli a pagare un tassa enorme in vite umane, sofferenze e umiliazioni.

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Il Portogallo è un paese sottosviluppato con il 40% di analfabeti e il suo livello di vita è fra i più bassi di Europa. Se riuscisse ad avere una “influenza civilizzatrice” su un qualunque popolo sarebbe una specie di miracolo. Il colonialismo classico, fenomeno storico in via di estinzione, non ha mai contato sui miracoli per mantenersi vivo. Il Portogallo esercita l’unica “influenza civilizzatrice” di cui è capace, quella che corrisponde al tipo di colonialismo che ha adottato e alla sua posizione di potenza coloniale la cui economia, cultura e civiltà sono arretrate. Miseria economica Sono le leggi e l’azione comune dei coloni e delle autorità coloniali che impediscono agli africani di possedere beni rurali o urbani. La maggior parte dei contadini africani è obbligata a coltivare terre che non sono ufficialmente riconosciute come di loro proprietà. In Angola e in Mozambico circa il 70% della produzione agricola e in Guinea Bissau la sua totalità, provengono da coltivatori africani. Questi sono obbligati a vendere i propri raccolti ai coloni a prezzi artificialmente bassi, prezzi che le autorità portoghesi impongono e che i compratori abbassano ulteriormente. Le zone più fertili, da cui gli africani sono stati sistematicamente allontanati, sono state sfruttate da compagnie coloniali e sono via via occupate dai coloni europei. In Mozambico, per esempio un quinto del territorio – che rappresenta più della metà della superficie coltivata – è riservato a una piccola minoranza di europei e comprende le zone più fertili. In Angola più dei 4/5 delle piantagioni di caffè – prodotto di altissima resa – appartengono ai coloni che monopolizzano parte della terra sulle spalle degli africani e adesso la sfruttano grazie al lavoro forzato. Solo nella valle del Kuanza, più di centomila ettari sono riservati ai coloni europei e alle compagnie coloniali. Nell’isola di São Tomé, la quasi totalità delle terre coltivate

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(cacao e caffè) è nelle mani degli europei, conquistata dalla violenza di coloni e dalle autorità coloniali. Decine di famiglie africane (più di 14.000 famiglie nella colonia di Cela, in Angola) sono state espulse per fare spazio ai coloni venuti dal Portogallo. Le compagnie coloniali possiedono proprietà che superano le centinaia di ettari. Per esempio la Companhia Angolana de Agricoltura possiede 250.000 ettari di piantagioni di caffè. La Companhia dos Diamantes de Angola è l’unica concessionaria dell’estrazione dei diamanti della colonia. In Angola e Mozambico 570.000 africani sono obbligati a coltivare cotone e circa 60.000 famiglie contadine in Guinea Bissau coltivano l’arachide. Mentre gli africani vivono nella miseria, le compagnie coloniali e i coloni accumulano ricchezza e capitale che nella maggioranza dei casi è inviato all’estero. Prendiamo l’anno 1957 come esempio: Durante quest’anno, un certo numero di compagnie, la Sociedade de Agricultura Colonial (São Tomé), il Banco de Angola, la Companhia dos Diamantes de Angola, la Comgeral, la Petrofina, la Sociedade Agricola de Cassequel (Angola), la Sena Sugar States (Mozambico), hanno avuto un guadagno pari a circa il 49% del proprio capitale. Tale guadagno basterebbe di per sé a coprire tutte le spese pubbliche delle Isole di Capo Verde, Guinea Bissau e São Tomé per tutto il 1957, con un surplus di 50 milioni di escudos, e questo valore sarebbe maggiore della cifra spesa per l’istruzione pubblica in Angola lo stesso anno. La compagnia agricola e commerciale Mário Cunha (Angola) possiede immobili a Lisbona che valgono centinaia di milioni di escudos e ha fondato due istituzioni umanitarie con i guadagni ottenuti dal lavoro forzato – cioè schiavitù – degli angolani. Per proteggere le traballanti industrie portoghesi, gli africani sono obbligati a comprare prodotti portoghesi di seconda categoria a prezzi elevati e a vendere i propri prodotti ai colonicommercianti a prezzi molto più bassi di quelli che essi ricevono quando li rivendono. Il vino è una delle più importanti importazioni delle colonie portoghesi, viene subito dopo l’importazione di tessili.

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Gli africani sono obbligati al pagamento di varie tasse, tra le quali “la tassa della sovranità”. Quella conosciuta come “tassa indigena” costituisce la più importante fonte di lucro nel bilancio di ognuna delle colonie. Tutti gli africani che hanno più di quindici anni devono pagare una tassa che in molti casi supera un quarto della loro minuscola rendita annuale. Il Portogallo vorrebbe trasformare queste colonie, particolarmente Angola e Mozambico, in un altro Sudafrica, il che gli permetterebbe di sfruttare ancora meglio le loro risorse e il lavoro degli africani. Per riuscirci il Portogallo considera che il suo compito principale in Africa è l’immigrazione in massa degli europei e per questo spende cifre considerevoli. Solo in Angola sono stati spesi più di 500 milioni di escudos nella colonia di Cela per costruire 530 piantagioni su una superficie di 40.000 ettari. Questa cifra, costituita soprattutto dal ricavo ottenuto dal lavoro degli africani, è pari a venti volte la spesa realizzata in Angola per i servizi di agricoltura e silvicoltura nel 1957. La sistemazione di ogni famiglia europea costa all’Angola un milione di scudi. Perché una famiglia di contadini possa guadagnare questa cifra dovrebbe vivere mille anni e lavorare sempre, senza pausa. Il ritardo economico del Portogallo si riflette nella vita economica e finanziaria delle sue colonie. Il Portogallo non può, né potrà creare le basi necessarie allo sviluppo economico delle sue colonie. Esso stesso non dispone delle condizioni di base, e le colonie meno povere – Angola e Mozambico – si trovano attualmente in una grave situazione economica che il Portogallo non è capace di risolvere. Situazione sociale Il 99,7% della popolazione africana dell’Angola, della Guinea Bissau e del Mozambico è considerata “non civilizzata” secondo le leggi coloniali portoghesi e lo 0,3% è considerata “assimilata”. Affinché una persona “non civilizzata” ottenga lo statuto di “assimilata”, deve dare prova di stabilità economica e godere di un

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livello di vita più alto di quello della maggioranza della popolazione portoghese. Deve vivere “all’europea”, pagare le tasse, fare il servizio militare e saper leggere e scrivere correttamente in portoghese. Se i portoghesi dovessero rispondere a questi requisiti, più del 50% della popolazione non avrebbe diritto allo stato di “civilizzato” o di “assimilato”. Colui che è definito “non civilizzato” è trattato come un oggetto e lasciato alla mercé dei capricci dell’amministrazione coloniale e dei coloni. La sua condizione è assolutamente indispensabile per il mantenimento del sistema coloniale portoghese. Fornisce un’inesauribile massa di mano d’opera per il lavoro forzato e l’“esportazione” di lavoratori. Classificandolo come “non civilizzato”, la legge ufficializza la discriminazione razziale e giustifica la dominazione portoghese in Africa. L’infima minoranza degli africani “civilizzati” – che teoricamente sono considerati cittadini portoghesi – non gode dei privilegi riservati agli europei. Alcuni di loro si trovano in una situazione di isolamento tra la massa della popolazione africana e i coloni, e questi ultimi li rifiutano attraverso una discriminazione dichiarata o camuffata. La comunità multirazziale è un mito. La realtà è che questa definizione copre una totale segregazione razziale, eccezion fatta per i rapporti di lavoro, che serve i propositi del colonialismo. Salvo rare eccezioni – come si possono trovare anche in Sudafrica – non c’è alcun contatto sociale tra le famiglie africane e quelle europee. Gli unici contatti diretti si praticano nelle scuole o in altri luoghi esterni all’ambiente familiare, tra i bambini europei e i pochissimi bambini “assimilati”. I bambini si mescolano innocentemente, ma questi rapporti sono comunque pieni di preconcetti e forieri di complessi. I cinema, i caffè, i bar, i ristoranti, etc. sono quasi esclusivamente frequentati da europei. Un africano sufficientemente audace da entrare in uno di questi luoghi deve essere pronto ad affrontare una umiliazione. A Lourenço Marques e a Beira (Mozambico), Nova Lisboa e Lobito (Angola), la segregazione razziale è praticata apertamente. Il razzismo portoghese quasi non esisteva all’inizio della colo-

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nizzazione. È nato e cresciuto con l’aumento della popolazione europea. Non è per caso che tra i dieci milioni di abitanti dell’Angola e del Mozambico esistano solo 60.000 persone “di colore” e che nell’ultimo mezzo secolo la proporzione di questa popolazione “di colore” si sia rimasta praticamente costante. Sono quasi tutti figli illegittimi abbandonati dai loro padri, di origine europea. Una coppia mista, particolarmente se l’uomo è africano e la donna europea, è talmente soggetta a insulti e al disprezzo verbale dei coloni, che raramente compare assieme in pubblico. Nei distretti rurali, gli africani vivono in condizioni miserabili. Nelle città, gli africani “non civilizzati” vivono in quartieri sempre più lontani dal centro, in sordidi quartieri di case di latta, come i musseques di Luanda. Poche delle case occupate da africani potrebbero essere considerate abitabili secondo i minimi criteri di salubrità. Sono state costruite dalle autorità in zone riservate, come in Sudafrica. Dopo aver superato innumerevoli ostacoli, alcuni “assimilati” hanno cercato di trovare un alloggio accettabile: ma ci riesce solo una piccola parte, quelli che frequentano l’Università e quelli che, sempre più numerosi, entrano, nonostante il razzismo, nel pubblico impiego. Queste persone sono sempre citate dalla propaganda coloniale. La maggior parte degli europei, nel frattempo, vive in grandi case, alcune delle quali sono veri palazzetti coloniali, paragonabili alle più ricche ville portoghesi. Gli africani “non civilizzati”, particolarmente quelli delle città, devono portare con sé i rispettivi libretti di riconoscimento e rispettare il coprifuoco alle nove di sera. Un “assimilato” previdente porta con sé sempre la carta di identità. Quando le autorità e i coloni lo vogliono riconoscere, essa è l’unica prova valida che si tratta di un essere umano. Il lavoro forzato 20.000 lavoratori angolani, mozambicani e delle isole di Capo Verde lavorano dodici ore al giorno nelle roças dei coloni di São Tomé, nel cuore della zona dell’equatore. In Guinea Bissau, Mozambico e Angola esiste il lavoro forzato per le opere pubbli-

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che. In questi due ultimi paesi si estende anche alle compagnie private. Tutti gli anni vengono affittati 250.000 angolani per le piantagioni, società minerarie e imprese di costruzione. Tutti gli anni 400.000 mozambicani sono sottoposti al lavoro forzato, di loro 100.000 uomini sono esportati nelle miniere del Sudafrica e della Rodesia. Questo commercio del lavoro forzato fornisce al Portogallo una delle fonti più stabili di valuta straniera. Henrique Galvão, un ispettore dell’amministrazione coloniale che ha avuto il coraggio di dire la verità, ha dichiarato che “solo i morti sfuggono al lavoro forzato [...] la situazione attuale è peggiore di quella creata dalla schiavitù [...] alcuni padroni hanno una tassa di mortalità del 30% tra i loro lavoratori e non hanno mai avuto difficoltà a trovarne di nuovi. La Companhia dos Diamantes de Angola utilizza 20.000 lavoratori all’anno. Questa nuova forma di schiavitù – non possiamo chiamarla in altro modo – ha distrutto milioni di famiglie africane. Le autorità che appaltano il lavoro forzato hanno guadagni annuali sostanziali per ogni uomo inviato fuori dal paese. I lavoratori ricevono il 75% del salario quanto tornano al loro luogo di origine. Ma questo pagamento è fatto dalle autorità e non dai padroni, e la media annuale del guadagno realizzato è di circa 1500 scudi per ogni uomo, mentre il salario annuale netto è di 1200 scudi. Questo salario è pagato dopo che sono state dedotte tutte le tasse e dopo che il lavoratore ha dato allo stato quindici giorni di lavoro gratuito. In teoria egli beneficia di assistenza medica ma, nella maggior parte dei casi, essa in realtà non esiste. Hanno anche diritto ai pasti, ma i tecnici portoghesi hanno stabilito che i pasti dei lavoratori africani sono insufficienti dal punto di vista del valore nutritivo. Gran parte del lavoro forzato è svolto da bambini o adolescenti. Oltre il lavoro agricolo, i coloni si servono degli africani “non civilizzati” per i lavori più pesanti e come piccoli corrieri. Il lavoratore “assimilato” guadagna tre o quattro volte meno di un lavoratore europeo, pur facendo lo stesso lavoro. Anche quando è qualificato, è un lavoratore di “seconda categoria”. Eccezion fatta per alcuni impiegati e lavoratori pagati miseramente, gli “assimilati” sono permanentemente minacciati di disoccupa-

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zione e i loro figli più grandi normalmente non hanno lavoro. Anche i lavori meno qualificati, come aiuto manovale o venditore di lotteria, sono riservati agli europei. Nella pratica in Angola e Mozambico gli africani non sono autorizzati a diventare autisti di taxi o venditori. Il lavoratore africano non ha mai avuto il diritto di difendersi. I “non civilizzati” non hanno diritto di organizzarsi e gli “assimilati” non possono farsi sentire neanche nei “sindacati” fascisti di Salazar. Nelle piantagioni, nelle miniere e ovunque, gli orari di lavoro dipendono interamente dalla volontà del padrone, e il lavoratore africano rimane esposto ai capricci e alle sanzioni dei coloni – incluso le violenze fisiche. Cure mediche Trecentottanta medici si “occupano” della salute di undici milioni di abitanti che vivono in un territorio di più di due milioni di chilometri quadrati. Le comunicazioni sono le peggiori dell’Africa. Nelle isole di Capo Verde, che proporzionalmente hanno il maggior numero di medici, c’è un medico ogni diecimila abitanti. In Angola, dove la situazione è migliore rispetto alla Guinea Bissau e al Mozambico, c’è un ospedale ogni 280.000 abitanti, un medico ogni 20.000, un’infermiera e trenta letti per 10.000 abitanti. Il tasso di mortalità infantile è, si dice, superiore al 40% e in certe regioni, arriva all’80%. Tra gli africani morti nel 1956, 84% delle morti registrate sono state attribuite a “cause oscure o sconosciute”, ma queste “cause” possiamo dirlo con certezza, uccidono solo gli africani. Tra il 1940 e il 1950, la siccità e la fame nelle Isole di Capo Verde hanno provocato la morte di 40.000 persone. Proporzione di alfabetizzati: 1% Le missioni cattoliche detengono il monopolio dell’educazione dei cosiddetti “non civilizzati”. Secondo gli accordi conclusi tra il Portogallo e il Vaticano, l’educazione deve essere “confor-

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me ai principi dottrinali della Costituzione portoghese e seguire la linea di progetti e dei programmi emanati dal Governo”. Ciò significa che al 99,7% della popolazione africana è vietato di frequentare scuole laiche. A causa di questo monopolio cattolico, l’influenza di altre missioni cristiane sull’educazione è debole. In Angola, Mozambico e in Guinea Bissau il 99% della popolazione è analfabeta. Regioni ben più vaste del Portogallo non hanno un’unica scuola. Nel 1937 per una popolazione di quattro milioni di abitanti, 40.000 bambini hanno frequentato le scuole delle missioni in Angola. Nello stesso anno, in Congo belga, 1.300.000 bambini hanno frequentato la scuola elementare (ossia, in proporzione dieci volte più che in Angola). I figli degli “assimilados” (0,3% della popolazione) hanno il diritto di frequentare le scuole elementari ufficiali, le scuole secondarie e l’università. Ma le varie forme che la discriminazione razziale assume nelle scuole coloniali, soprattutto in Angola e Mozambico, così come l’enorme miseria delle famiglie africane, limitano il numero di alunni che possono arrivare al diploma. Solo gli alunni capaci di uno straordinario sforzo riescono a terminare gli studi. Le scuole secondarie sono quasi esclusivamente frequentate dai figli dei coloni. Non c’è nessuna università nelle colonie. Cento africani frequentano le università portoghesi o si preparano a frequentarle - cento africani su una popolazione di undici milioni! La maggior parte dei professori delle scuole elementari e di tutti i professori delle scuole superiori sono europei, tranne che a Capo Verde, dove gli africani diplomati possono insegnare nella scuola secondaria. Tutta l’educazione portoghese disprezza la cultura e la civiltà degli africani. Le lingue africane sono proibite nelle scuole. L’uomo bianco è sempre presentato come un essere superiore e quello africano come un essere inferiore. I conquistatori coloniali sono descritti come santi ed eroi. I bambini africani acquisiscono un complesso di inferiorità quando entrano alle elementari. Imparano ad aver paura dell’uomo bianco e ad aver vergogna di essere

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africani. La geografia, la storia, la cultura dell’Africa non sono menzionate, o sono adulterate e il bambino è obbligato a studiare la storia e la geografia del Portogallo. Marionette e fantocci Gli africani non hanno alcun diritto politico. L’antica struttura della vita politica africana è stata completamente distrutta dal colonialismo portoghese. I rari organismi africani che sussistevano sono passati a essere controllati dalle autorità coloniali, che si servono dei capi africani come fantocci. La maggior parte di questi capi sono stati messi “a capo” delle loro comunità di origine. Nel cosiddetto Consiglio del Governo Locale, scelto dal Governatore, hanno posto a volte alcuni membri in rappresentanza del popolo africano. Questi uomini sono generalmente europei. In ogni modo i rari africani che accettano questo incarico sono obbligati ad accettarlo e non potranno in nessun caso intervenire per difendere gli interessi africani. È già successo che un membro “di colore” del Consiglio del Governo d’Angola si sia dimesso per aver tentato di criticare il governo, per sostituirlo è stato invitato uno dei rari medici africani. Ha rifiutato dicendo che si sentiva competente solo in medicina. L’incarico alla fine è stato ricoperto da un prete africano, dopo essere stato oggetto di intimidazioni e pressioni da parte del Vescovo di Luanda. Al parlamento di Lisbona, solo uno dei cento venti deputati “eletti” è africano. Si tratta del deputato di São Tomé. Il deputato per le isole di Capo Verde, di origine europea, dirige il partito fascista in quella colonia e è inamovibile. I “rappresentanti” d’Angola, Mozambico e Guinea Bissau sono europei strettamente legati alle grandi compagnie coloniali. Tutti i deputati delle colonie hanno fiducia assoluta nel governo coloniale fascista. Non hanno nulla in comune con gli africani, il 99,7% de quali, in ogni modo, non ha diritto di voto. Tre africani sono utilizzati come fantocci, o come campioni artificiali di un prodotto che non esiste, dalla delegazione porto-

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ghese alle Nazioni Unite e in altri organismi internazionali. Questi tre uomini, il negro Jaime Pinto Bull (Guinea Bissau), l’uomo “uomo di colore” Augusto Santos Lima (di origine capoverdiana) e “l’uomo di colore” Júlio Monteiro (capoverdiano) sono considerati traditori dai loro compatrioti. Sono funzionari amministrativi al servizio, ben remunerato, del colonialismo portoghese. Tutte le manifestazioni e organizzazioni sono proibite se non severamente controllate dalle autorità portoghesi. La segregazione razziale esiste persino nelle squadre di calcio. Con l’eccezione di un inoffensivo giornale mozambicano – O Brado Africano, controllato dal governo – nessuna tipo di stampa africana è autorizzata. Cosa vogliono gli africani Noi africani delle colonie portoghesi lottiamo contro il colonialismo portoghese per difendere i diritti del nostro popolo e i veri interessi di tutti i popoli del mondo. Gli africani vogliono che il Portogallo rispetti rigorosamente le osservazioni definite nella Carta delle Nazioni Unite. Esigiamo che il Portogallo segua l’esempio dell’Inghilterra, della Francia e del Belgio e riconosca ai popoli che domina il diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza. Le organizzazioni africane anticoloniali delle colonie portoghesi, che rappresentano le aspirazioni legittime dei loro popoli, vogliono ristabilire la dignità umana degli africani, la loro libertà e il diritto di decidere il loro futuro; queste organizzazioni vogliono che il popolo benefici di un vero sviluppo sociale, basato su un lavoro produttivo e sul progresso economico, sull’unità e sulla fraternità africana, sull’amicizia e sulla pace al servizio dell’umanità. Le organizzazioni africane che lottano contro il colonialismo portoghese credono nell’esistenza di mezzi pacifici per la conquista dell’indipendenza. Nel frattempo, non abbiamo illusioni e visto che il Portogallo vuole usare la violenza per difendere i suoi interessi, siamo obbligati a rispondere con la violenza. Le nostre

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organizzazioni si mantengono vigili. Seguono da vicino tutte le manovre diplomatiche del Portogallo. Sono convinte che nessun governo democratico vorrà compromettere la sua reputazione alleandosi al colonialismo portoghese, condannato come tutti i regimi coloniali. Sono convinte che la ricchezza materiale e umana dei propri paesi fa parte del patrimonio dell’umanità e che essa dovrebbe servire il progresso e la felicità dei propri popoli e dei popoli di tutti i paesi. Gli africani delle colonie portoghesi distruggeranno il colonialismo portoghese. Sarà forse l’ultimo regime coloniale a scomparire, così come è ultimo nello sviluppo economico e tecnico e l’ultimo a rispettare i diritti umani. Ma in ogni modo, il colonialismo portoghese ha i giorni contati.

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Siamo molto felici di poter partecipare a questa cerimonia realizzata in omaggio del nostro compagno di lotta e figlio d’Africa, il compianto Dottor Eduardo Mondlane, ex Presidente del Frelimo, vigliaccamente assassinato dai colonialisti portoghesi e dai suoi alleati il 3 febbraio 1969 a Dar-Es-Salaam. Vogliamo ringraziare l’Università di Syracuse e particolarmente il Programma di Studi sull’Africa Occidentale, diretto dall’erudito professor Marchal Segall, per questa iniziativa. È una prova non solo del rispetto e dell’ammirazione sentita nei riguardi dell’indimenticabile personalità del Dottor Eduardo Mondlane, ma anche della solidarietà verso la lotta eroica del popolo mozambicano e di tutti i popoli dell’Africa per la liberazione nazionale e il progresso. Accettando il vostro invito – che consideriamo diretto al nostro popolo e ai nostri combattenti – abbiamo voluto dimostrare la nostra amicizia militante e la nostra solidarietà con il popolo mozambicano e alla sua amata guida, il dottor Eduardo Mondlane al quale siamo stati legati profondamente nella lotta comune contro il più retrogrado dei colonialismi, quello portoghese. La nostra amicizia e la nostra solidarietà sono ancora più sincere considerato che non sempre siamo stati d’accordo con Mondlane, la cui morte è stata una perdita anche per il nostro popolo. Altri partecipanti hanno già tracciato il suo ritratto e lo hanno meritatamente elogiato. Vogliamo qui solo riaffermare la nostra 1 Si tratta del testo di una conferenza letta in omaggio al nazionalista mozambicano Eduardo Mondlane presso l’University of Syracuse il 20 febbraio 1970.

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ammirazione per la figura dell’africano patriota e dell’eminente uomo di cultura che è stato. Vogliamo riaffermare che il grande merito di Mondlane non fu l’aver deciso di lottare per il suo popolo, ma essere stato capace di integrarsi nella realtà del suo paese, di identificarsi con il suo popolo e di acculturarsi attraverso la lotta che ha saputo guidare con coraggio, intelligenza e determinazione. Eduardo Chivambo Mondlane, uomo africano originario di un ambiente rurale, figlio di contadini e di un capo tribale, un bambino educato dai missionari, alunno negro delle scuole bianche del Mozambico coloniale, studente universitario nel razzista Sudafrica, aiutato in gioventù da una fondazione americana, borsista di una università degli Stati Uniti, dottore presso la Northwestern University, alto funzionario delle Nazioni Unite, professore dell’Università di Syracuse, presidente del Frente de Libertação de Moçambique (Frelimo), caduto da combattente per la libertà del suo popolo. La vita di Eduardo Mondlane è davvero ricchissima di esperienze. Se consideriamo il breve periodo durante il quale ha lavorato come stagista operaio nel settore agricolo, verifichiamo che il suo ciclo vitale ingloba praticamente tutte le categorie della società africana tradizionale: dall’esperienza contadina alla “piccola borghesia” assimilata e, sul piano culturale, dall’universo rurale a una cultura universale, aperta al mondo, ai suoi problemi, alle sue contraddizioni e prospettive di evoluzione. La cosa importante è che dopo questo lungo percorso, Mondlane è stato capace di mettere in atto il suo ritorno al villaggio nei panni di un combattente per la liberazione e per il mondo di oggi. Ha dato così un esempio fecondo: affrontando tutte le difficoltà, fuggendo dalle tentazioni, liberandosi dall’alienazione culturale (e quindi politica) ha saputo rincontrare le sue radici, identificarsi con il suo popolo e dedicarsi alla causa della liberazione nazionale e sociale. Questo è quello che gli imperialisti non gli hanno perdonato. Invece di limitarci a problemi più o meno importanti della lotta contro i colonialisti portoghesi, ci concentreremo su un problema essenziale: le relazioni di dipendenza e reciprocità tra lotta di liberazione nazionale e cultura.

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Se riusciremo a convincere i combattenti della rivoluzione africana dell’importanza decisiva di questo problema nel processo di lotta, avremo reso un significativo omaggio a Eduardo Mondlane. Un dilemma crudele per il colonialismo: eliminare o assimilare Quando Goebbels, il cervello della propaganda nazista, sentiva parlare di cultura, impugnava la pistola. Questo dimostra che i nazisti – che sono stati e sono l’espressione più tragica dell’imperialismo e della sete di dominio – anche se erano tutti malati come Hitler, avevano una chiara nozione del valore della cultura come fattore di resistenza alla dominazione straniera. La storia ci insegna che, in determinate circostanze, è facile per lo straniero imporre il suo dominio ad un popolo. Ma ci insegna anche che, qualunque siano gli aspetti materiali di questo dominio, esso si può mantenere in piedi con una repressione permanente e organizzata della vita culturale di questo stesso popolo, non potendo garantire definitivamente il controllo se non attraverso l’eliminazione fisica di una parte significativa della popolazione dominata. In effetti, prendere le armi per dominare un popolo vuol dire innanzi tutto prendere le armi per distruggere o, per lo meno, neutralizzare e paralizzare la sua vita culturale. Il fatto è che fin quando esiste una parte di questo popolo che riesce ad avere una vita culturale, la dominazione straniera non è sicura del suo perpetuarsi. In qualsiasi momento, che dipende da fattori interni ed esterni che determinano l’evoluzione della società in questione, la resistenza culturale (indistruttibile) potrà assumere sempre nuove forme (politiche, economiche, armate) per contestare con vigore la dominazione straniera. L’ideale per questo tipo di dominio, imperialista o meno, sono due alternative: – Eliminare tutta la popolazione del paese dominato, cancellando così la possibilità di una resistenza culturale;

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– Riuscire a imporsi senza danneggiare la cultura del popolo dominato, cioè armonizzare il dominio economico e politico di quel popolo con la sua personalità culturale. La prima ipotesi implica il genocidio della popolazione indigena e crea un vuoto che ruba al dominio straniero contenuto ed oggetto: il popolo dominato. La seconda ipotesi non è stata confermata dalla storia. La grande esperienza dell’umanità ci permette di dire che ciò non è possibile nella pratica: non è possibile armonizzare il dominio economico e politico di un popolo, qualunque sia il suo grado di sviluppo. Per fuggire a questa alternativa – che potremmo definire il dilemma della resistenza culturale – il dominio coloniale imperialista ha cercato di creare teorie, che nella pratica non sono altro che interpretazioni del razzismo e che si traducono nella pratica nella creazione di un permanente stato di assedio per le popolazioni native, basate su una dittatura (o democrazia) razzista. È il caso per esempio della cosiddetta teoria dell’assimilazione progressiva delle popolazioni native che non è altro che il tentativo più o meno violento di negare la cultura del popolo in questione. Il chiaro fallimento di questa teoria messa in pratica da alcune potenze coloniali, tra le quali il Portogallo, è la prova più evidente della sua impraticabilità e del suo carattere disumano. Nel caso portoghese, in cui Salazar afferma che l’Africa non esiste, si raggiunge proprio il grado dell’assurdo. È lo stesso caso della cosiddetta teoria dell’apartheid, creata, applicata e sviluppata sulla base del dominio politico ed economico di un popolo dell’Africa Australe da parte di una minoranza razzista, con tutti i crimini di lesa umanità che ciò implica. La pratica dell’apartheid si traduce nello sfruttamento sfrenato della forza lavoro delle masse africane, incarcerate e represse nel più cinico e più vasto campo di concentramento che l’umanità abbia mai concepito.

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La liberazione nazionale, atto di cultura Questi fatti rendono bene la misura del dramma della dominazione straniera di fronte alla realtà del popolo dominato. Dimostrano ugualmente l’intimo legame di dipendenza e reciprocità che esiste tra il fatto culturale e il fatto economico (e politico) nel comportamento delle società umane. Difatti, in ogni momento della vita di una società (aperta o chiusa), la cultura è il risultato più o meno cosciente delle attività economiche e politiche, l’espressione più o meno dinamica del tipo di rapporti che prevalgono in seno a tale società, da una parte, tra l’uomo (considerato dal punto di vista individuale e collettivo) e la natura, e dall’altro, tra gli individui, i gruppi di individui, gli strati sociali o le classi. Il valore della cultura come elemento di resistenza alla dominazione straniera risiede nel fatto di essere una manifestazione vigorosa, sul piano ideologico o ideale, della realtà materiale e storica della società dominata o da dominare. Frutto della storia di un popolo, la cultura determina simultaneamente la storia attraverso l’influenza positiva o negativa che esercita sulle relazioni tra l’uomo e il suo ambiente e tra gli uomini e i gruppi umani in seno alla società, e tra diverse società. Il fatto che lo si ignori potrebbe spiegare il fallimento di diversi tentativi di dominazione straniera e anche quello di alcuni movimenti di liberazione nazionale. Vediamo cosa è la liberazione nazionale. Consideriamo questo fenomeno della storia nel suo contesto contemporaneo, ossia la liberazione nazionale riguardo alla dominazione imperialista. Come è noto, esso è, tanto nelle forme come nel contenuto, diverso da altri tipi di dominio straniero che lo hanno preceduto (tribale, aristocratico-militare, feudale e capitalista del tempo della libera concorrenza). La caratteristica principale, come in qualsiasi specie di dominazione imperialista, è la negazione del processo storico del popolo dominato per mezzo dell’usurpazione violenta della libertà del processo di sviluppo delle forze produttive. Ora, in una determinata società, il livello di sviluppo delle forze produttive e

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il regime di utilizzo sociale di queste forze (regime di proprietà) determinano il modo di produzione. Per noi, il modo di produzione, le cui contraddizioni si manifestano con maggior o minor intensità attraverso la lotta di classe, è il fattore principale della storia di ogni gruppo umano, essendo il livello delle forme produttive la vera e permanente forza motrice della storia. Il livello delle forze produttive indica, in ogni società, in ogni insieme umano considerato come un tutto in movimento, lo stato in cui si trova questa società ed ognuno dei suoi componenti di fronte alla natura, la sua capacità di agire e reagire coscientemente di fronte alla natura. Indica e condiziona il tipo di relazioni materiali (espresse oggettivamente e soggettivamente) esistenti tra l’uomo e il suo ambiente. Il modo di produzione, che rappresenta in ogni fase della storia il risultato della ricerca incessante di un equilibrio dinamico tra il livello delle forze produttive e il regime di utilizzazione sociale di queste forze, indica lo stato in cui si trova una società e ognuno dei suoi componenti rispetto se stessa e la storia. Indica e condiziona, d’altra parte, il tipo di relazioni materiali (espresse oggettivamente e soggettivamente) esistenti tra i diversi elementi o i diversi insiemi che formano la società in questione: rapporti e tipi di relazioni tra i componenti individuali o collettivi di una determinata società. Parlare di questo vuol dire parlare di storia, ma vuol dire anche parlare di cultura. La cultura, qualunque siano le caratteristiche ideologiche o idealiste delle sue manifestazioni, è un elemento essenziale della storia di un popolo. È, forse, il risultato di questa storia, come il fiore è il risultato di una pianta. Come la storia, o perché è la storia, la cultura ha come base materiale il livello delle forze produttive e il modo di produzione. Affonda le sue radici nell’humus della realtà materiale dell’ambiente in cui si sviluppa e riflette la natura organica della società, potendo essere più o meno influenzata da fattori esterni. Se la storia permette di conoscere la natura e l’estensione degli squilibri e dei conflitti (economici, politici e sociali) che caratterizzano l’evoluzione della società, la cultura permette di sapere quali sono state le sintesi dinamiche, elaborate e fissate dalla coscienza sociale per la soluzione di questi conflitti,

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in ogni tappa dell’evoluzione di questa stessa società, alla ricerca di sopravvivenza e progresso. Come succede con il fiore in una pianta, è nella cultura che risiede la capacità (o la responsabilità) dell’elaborazione e della fecondazione del germe che garantisce la continuità della storia, garantendo, simultaneamente, le prospettive dell’evoluzione e del progresso della società in questione. Si comprende la ragione per cui la pratica del dominio imperialista, come qualsiasi altro dominio straniero, esiga, come fattore di sicurezza l’oppressione culturale e il tentativo di liquidare, direttamente o meno, dati essenziali della cultura di un popolo dominato. Lo studio della storia delle lotte di liberazione dimostra che esse sono, in generale, precedute dall’intensificazione delle manifestazioni culturali che si concretizzano progressivamente per un tentativo, vittorioso o meno, dell’affermazione della personalità culturale del popolo dominato come atto di negazione della cultura dell’oppressore. Qualunque siano le condizioni di soggezione di un popolo al dominio straniero e l’influenza dei fattori economici, politici e sociali nella pratica di questo dominio, è in generale nel fatto culturale che si situa il germe della contestazione, portando allo strutturarsi e allo sviluppo del movimento di liberazione. Quanto a noi, il fondamento della liberazione nazionale risiede nel diritto inalienabile che ha ogni popolo, qualunque siano le forme adottate al livello del diritto internazionale, ad avere la propria storia. L’obbiettivo della liberazione nazionale è, perciò, la riconquista di questo diritto, usurpato dalla dominazione imperialista, ossia la libertà del processo di sviluppo delle forze produttive nazionali. Così, c’è liberazione nazionale soltanto quando le forze produttive nazionali sono totalmente liberate da un qualunque tipo di dominazione straniera. La liberazione delle forze produttive e, di conseguenza, la facoltà di determinare liberamente il modo di produzione più adeguato all’evoluzione di un popolo liberato, apre necessariamente nuove prospettive al processo culturale della società in questione, conferendo ad esso tutta la capacità di creare il progresso. Un popolo che non si libera del dominio straniero non sarà culturalmente libero, senza complessi e, senza sottostimare l’im-

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portanza dei contributi positivi della cultura dell’oppressore e di altre culture, deve riprendere il cammino che proviene dalla sua cultura che si alimenta della realtà viva dell’ambiente negando tanto le influenze nocive con qualsiasi specie di subordinazione alle culture straniere. Vediamo dunque che, se il dominio imperialista ha come necessità vitale praticare l’oppressione culturale, la liberazione nazionale è, necessariamente, un atto di cultura. Il carattere di classe della cultura Sulla base di quanto detto poc’anzi, possiamo considerare il movimento di liberazione come l’espressione politica organizzata della cultura del popolo in lotta. La direzione di questo movimento deve avere dunque una nozione chiara del valore della cultura nell’ambito della lotta e conoscere profondamente la cultura del suo popolo, qualunque sia il livello di sviluppo economico. Attualmente è diventato un luogo comune affermare che ogni popolo ha la sua cultura. Nel tentativo di perpetuare il dominio dei popoli, la cultura era considerata appannaggio dei popoli e delle nazioni privilegiate in cui, per ignoranza e cattiva fede, si confondeva cultura e capacità tecnica, quando non cultura e colore della pelle o forma degli occhi. Il movimento di liberazione, rappresentante e difensore della cultura del popolo, deve aver coscienza del fatto che, qualunque siano le condizioni materiali della società che rappresenta, essa è portatrice e creatrice di cultura, che essa non è, né potrebbe essere, appannaggio solo di uno o di alcuni settori della società. In una analisi profonda della struttura sociale che qualsiasi movimento di liberazione deve essere capace di fare in funzione degli imperativi della lotta, le caratteristiche culturali di ogni categoria hanno un ruolo di grandissima importanza. Ma, sebbene la cultura ha un carattere di massa, essa non è uniforme, non si sviluppa in modo uguale in tutti i settori della società. L’atteggiamento di ogni categoria sociale di fronte alla lotta è dettato dagli interessi economici, ma è anche profondamente influenzato dalla sua cultura. Possiamo davvero dire che sono le differenze

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dei livelli di cultura che spiegano i diversi comportamenti degli individui della stessa categoria socio-economica riguardo al movimento di liberazione. Ed è lì che la cultura raggiunge il significato completo per ogni individuo: comprensione e integrazione nel suo ambiente, identificazione con i problemi fondamentali e le aspirazioni della società, accettazione della possibilità di cambiamento in direzione al progresso. Nelle condizioni specifiche del nostro paese – possiamo dire dell’Africa in generale – la distribuzione orizzontale e verticale dei livelli di cultura ha una certa complessità. Infatti, dai villaggi alla città, da un gruppo etnico all’altro, dal contadino all’operaio o all’intellettuale indigeno più o meno assimilato, da una classe sociale all’altra, e anche, come abbiamo detto, da individuo ad individuo in una stessa categoria sociale, ci sono cambiamenti significativi del livello quantitativo e qualificativo di cultura. Considerare questi fatti è una questione di primordiale importanza per il movimento di liberazione. Se nelle società di struttura orizzontale, come quella balanta, per esempio, la distribuzione dei livelli di cultura è più o meno uniforme, e le variazioni sono legate alle caratteristiche individuali ed ai gruppi d’età, nelle società di struttura verticale come i fulani, per esempio, ci sono variazioni importanti dall’apice alla base della piramide sociale. Questo dimostra ancora una volta l’intimo legame tra il fattore culturale e il fattore economico e spiega anche le differenze di comportamento globale o settoriale di questi due gruppi etnici nei confronti dei movimenti di liberazione. È chiaro che la molteplicità delle categorie sociali ed etniche crea una certa complessità nel determinare il ruolo della cultura nel movimento di liberazione, ma è indispensabile non perdere di vista l’importanza decisiva del carattere di classe della cultura nello sviluppo del movimento di liberazione, anche nei casi in cui questa categoria è o sembra essere ancora embrionale. L’esperienza del colonialismo dimostra che, nel tentativo di perpetuare lo sfruttamento, il colonizzato non solo crea un sistema perfetto della vita culturale del popolo colonizzato, ma provoca e fa crescere l’alienazione culturale della popolazione, sia

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attraverso la pretesa assimilazione della popolazione indigena, sia attraverso la creazione di un abisso sociale tra le élite autoctone e le masse popolari. Come risultato di questo processo di divisione o approfondimento delle divisioni all’interno della società, succede che parte considerevole della popolazione, specialmente la “piccola borghesia” urbana o rurale, assimila la mentalità del colonizzatore e lo considera culturalmente superiore al popolo a cui appartiene e i cui valori culturali ignora o disprezza. Questa situazione, caratteristica della maggioranza degli intellettuali colonizzati, si cristallizza nella misura in cui aumentano i privilegi sociali del gruppo assimilato o alienato, avendo così implicazioni dirette nel comportamento degli individui di tali gruppi nei riguardi del movimento di liberazione. Diventa quindi indispensabile una riconversione degli spiriti, delle mentalità per la loro vera integrazione nel movimento di liberazione. Questa riconversione – re-africanizzazione, nel nostro caso – si può verificare prima della lotta, ma solo se si completa nel suo decorso, con il contatto quotidiano con le masse popolari e nella comunione dei sacrifici che la lotta esige. È necessario, quindi, prendere in considerazione il fatto che, di fronte a una prospettiva di indipendenza politica, l’ambizione e l’opportunismo che segnano in generale il movimento di liberazione possono portare alla lotta individui non riconvertiti. Questi, in base al loro livello di istruzione, con le loro conoscenze scientifiche o tecniche, e senza perdere nulla dei propri preconcetti culturali di classe, possono arrivare ai posti più alti del movimento di liberazione. Questo rivela come vigilare sia indispensabile, sia sul piano della cultura che della politica. Nelle condizioni concrete e assai complesse del processo di creazione del movimento di liberazione, non è tutto oro quello che luccica: dirigenti politici – più o meno celebri – possono essere culturalmente alienati. Ma il carattere di classe della cultura è ancora più sensibile nel comportamento delle categorie privilegiate dell’ambiente rurale, specialmente per quanto riguarda le etnie che dispongono di una struttura sociale verticale in cui, nel frattempo, le influenze dell’assimilazione o alienazione culturale sono nulle o praticamente nulle. È il caso per esempio della classe dirigente fulani.

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Sotto la dominazione coloniale, l’autorità politica di tale classe (capi tradizionali, famiglie nobili, dirigenti religiosi) è puramente nominale e le masse popolari hanno coscienza del fatto che la vera autorità risiede e agisce nell’amministrazione coloniale. Ciò nonostante, la classe dirigente mantiene, essenzialmente, la sua autorità culturale sulle masse popolari del gruppo, con implicazioni politiche di grande importanza. Cosciente di questa realtà, il colonialismo, che reprime e inibisce alla radice le manifestazioni culturali significative della parte delle masse popolari, sostiene e protegge, a livello di cupola, il prestigio e l’influenza culturale della classe dirigente. Mette al comando capi che godono della loro fiducia e che sono più o meno accettati dalla popolazione, concede loro vari privilegi materiali, inclusa l’educazione dei figli più grandi, crea posti di dirigenza dove prima non esistevano, stabilisce ed incrementa relazioni di cordialità con i capi religiosi, costruisce moschee, organizza viaggi alla Mecca ecc. E soprattutto garantisce, attraverso l’azione degli organi repressivi dell’amministrazione coloniale, privilegi economici e sociali della classe dirigente in rapporto alle masse popolari. Ma neanche tutto questo rende impossibile che, tra queste classi dirigenti, ci siano individui o gruppi di individui che aderiscano ai movimenti di liberazione, anche se meno frequentemente di quanto accade con la “piccola borghesia” assimilata. Vari capi tradizionali e religiosi hanno integrato la lotta dall’inizio o durante il suo decorso, dando un contributo entusiasta alla causa della liberazione. Ma, ancora in questo caso, la vigilanza è indispensabile: mantenendo ben saldi i propri preconcetti culturali di classe, gli individui di questa categoria vedono, in generale, nel movimento di liberazione l’unico processo valido per riuscire, servendosi del sacrificio delle masse popolari, ad eliminare l’oppressione coloniale sulla propria classe e ristabilire così il dominio politico e culturale assoluto sul popolo. Nell’ambito generale della contestazione della dominazione coloniale imperialista e nelle condizioni concrete che abbiamo riferito, si verifica che, tra i più fedeli alleati dell’oppressore, si trovano alcuni alti funzionari e intellettuali di professioni liberali, assimilati e un elevato numero di rappresentanti della classe diri-

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gente di ambiente rurale. Se questo fatto dà la misura dell’influenza (negativa e positiva) della cultura e dei preconcetti culturali nel problema della scelta politica riguardo i movimenti di liberazione, rivela ugualmente i limiti di questa influenza e la supremazia del fattore classe nel comportamento delle diverse categorie sociali. L’alto funzionario o l’intellettuale assimilato, caratterizzato da una totale alienazione culturale, si identifica, nella scelta politica, con il capo tradizionale o religioso, che non ha patito alcuna significativa influenza culturale straniera. È che queste due categorie mettono al primo posto sollecitazioni di natura culturale – contro le aspirazioni del popolo – loro privilegi economici e sociali e i propri interessi di classe. È una verità che il movimento di liberazione non può ignorare, correndo il rischio di tradire gli obbiettivi economici, politici, sociali e culturali della lotta. Definire progressivamente una cultura nazionale Così come sul piano politico e senza minimizzare il contributo positivo che le classi o la popolazione privilegiate possono dare alla lotta, il movimento di liberazione deve, sul piano culturale, basare la sua azione sulla cultura popolare, qualunque sia la diversità dei livelli di cultura nel paese. La contestazione culturale del dominio coloniale – fase primaria del movimento di liberazione – può essere vista efficacemente solo basandosi sulla cultura delle masse lavoratrici rurali e urbane, includendo la “piccola borghesia” nazionalista (rivoluzionaria), re-africanizzata o disponibile per una riconversione culturale: qualunque sia la complessità di questo panorama culturale di base, il movimento di liberazione deve essere capace di distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario, ciò che è positivo da ciò che è negativo, ciò che è progressista da ciò che è reazionario, per caratterizzare la linea maestra della definizione progressiva di una cultura nazionale. Affinché la cultura possa svolgere il ruolo importante che le compete nell’ambito dello sviluppo del movimento di liberazione, essa deve saper preservare i valori culturali positivi di ogni

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gruppo sociale ben definito, di ogni categoria, realizzando la confluenza di questi valori nella lotta, dando ad essi una nuova dimensione – la dimensione nazionale. Di fronte a questa necessità, la lotta di liberazione è innanzi tutto una lotta per la preservazione e per la sopravvivenza dei valori culturali del popolo attraverso l’armonizzazione e lo sviluppo di tali valori all’interno di un quadro nazionale. L’unità politica e morale del movimento di liberazione e del popolo che rappresenta e dirige, implica la realizzazione dell’unità culturale delle categorie sociali fondamentali per la lotta. Questa unità si traduce, da una parte, nell’identificazione totale del movimento con la realtà dell’ambiente e con i problemi e le aspirazioni fondamentali di un popolo e, dall’altra parte, con un’identificazione culturale progressiva delle diverse categorie sociali che partecipano alla lotta. Il processo deve armonizzare gli interessi divergenti, risolvere le contraddizioni e definire obbiettivi comuni, ricercando libertà e progresso. La presa di coscienza di questi obbiettivi da parte di ampie fasce della popolazione, riflessa nella determinazione di fronte a tutte le difficoltà e a tutti i sacrifici, è una grande vittoria politica e morale. Così, si tratta, allo stesso tempo, di una realizzazione culturale decisiva per lo sviluppo ulteriore e il successo del movimento di liberazione. La sconfitta culturale del colonialismo Quanto maggiori sono le differenze tra la cultura del popolo dominato e quella dell’oppressore, più possibile diventa la vittoria. La storia mostra che è meno difficile dominare che preservare la dominazione su un popolo di cultura simile o analoga a quella del conquistatore. Forse si può affermare che la sconfitta di Napoleone, qualunque siano state le motivazioni economiche e politiche della sua guerra di conquista, fu non aver saputo (o potuto) limitare le sue ambizioni al dominio dei popoli la cui cultura era più o meno simile a quella della Francia. Lo stesso si potrebbe dire di altri imperi, antichi, moderni e contemporanei. Uno degli errori più gravi, se non il più grave, commesso dalle

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potenze coloniali in Africa, è stato quello di ignorare o sottovalutare la forza culturale dei popoli africani. Quest’atteggiamento è particolarmente evidente per quanto riguarda la dominazione culturale portoghese, visto che essa non si è accontentata di negare complemente l’esistenza dei valori culturali degli africani e la loro condizione di essere sociale, ma ha soprattutto proibito loro di svolgere qualunque attività politica. Il popolo portoghese, che non ha goduto delle ricchezze usurpate ai popoli africani dal colonialismo portoghese, ma che ha assimilato, nella maggior parte dei casi, la mentalità imperialista della classe dirigente del suo paese, paga oggi molto caro, precisamente con tre guerre coloniali, l’errore di aver sottostimato la nostra realtà culturale. La resistenza politica e armata dei popoli delle colonie portoghesi, così come di altri paesi o regioni dell’Africa, è stata schiacciata dalla superiorità tecnica del conquistatore imperialista con la complicità o il tradimento di alcune classi dirigenti indigene. Le élite fedeli alla storia e alla cultura sono state distrutte. Sono state massacrate intere popolazioni. L’era coloniale è stata caratterizzata da tutti i crimini di sfruttamento. Ma la resistenza culturale del popolo africano non è stata distrutta. Repressa, perseguitata, tradita da alcune categorie sociali colluse con il colonialismo, la cultura africana è sopravvissuta a tutte le tempeste, si è rifugiata nei villaggi, nelle foreste e nello spirito di generazioni vittime del colonialismo. Come il seme che aspetta molto tempo le condizioni propizie alla germinazione per preservare la continuità della specie e garantire la sua evoluzione, la cultura dei popoli africani fiorisce oggi di nuovo, in tutto il continente nelle lotte di liberazione nazionale. Qualunque sia la forma di queste lotte, i successi e le sconfitte e la durata della sua evoluzione, esse segnano l’inizio di una nuova fase della storia del continente e sono, nella forma e nel contenuto, il fatto culturale più importante della vita dei popoli africani. Frutto e prova di vigore culturale, la lotta di liberazione dei popoli africani apre nuove prospettive per lo sviluppo della cultura, al servizio del progresso.

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Ricchezza culturale dell’Africa È passato il tempo in cui era necessario cercare argomenti per provare la maturità culturale dei popoli africani. L’irrazionalità delle “teorie” razziste di Gobineau o Lévy-Bruhl interessano e convincono solo i razzisti. Nonostante il dominio coloniale (e forse a causa di questo dominio), l’Africa ha saputo imporre il rispetto dei suoi valori culturali. Si è rivelato come uno dei continenti più ricchi in valori culturali. Da Cartagine o Guizeh in Zimbabwe, da Moroé a Benin e Ifé, dal Sahara o da Timbuctu a Kilwa, attraverso l’immensità e la diversità delle condizioni naturali del continente, la cultura dei popoli africani è un fatto innegabile: nell’arte e nelle tradizioni orali e scritte, nelle concezioni cosmogoniche, nella musica e nella danza, nelle religioni e credenze come nell’equilibrio dinamico delle strutture politiche e sociali che l’uomo africano ha saputo creare. Se il valore universale della cultura africana è, in questo momento, un fatto incontestabile, non dobbiamo però dimenticare che l’uomo africano, le cui mani, come dice il poeta “hanno messo pietre nelle fondamenta del mondo”, l’ha sviluppata in condizioni se non sempre, per lo meno frequentemente ostili: dai deserti alle foreste equatoriali, dai pantani della costa alle sponde dei grandi fiumi soggetti a piene frequenti, attraverso e contro tutte le difficoltà, incluso i flagelli distruttori non solo delle piante e degli animali ma anche degli uomini. Si può dire con Basil Davidson e altri storici delle società e delle culture africane, che la realizzazione del genio africano, sul piano economico, politico, sociale e culturale, di fronte al carattere poco ospitale dell’ambiente, è una epopea comparabile con i maggiori esempi storici della grandezza dell’uomo. La dinamica della cultura Come è ovvio questa realtà costituisce un motivo di orgoglio e un elemento stimolante per quelli che lottano per la libertà e il progresso dei popoli africani. Ma è importante non perdere di vi-

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sta il fatto che nessuna cultura è di per sé perfetta e compiuta. La cultura, come la storia, è necessariamente un fenomeno in espansione, che si sviluppa. Ma è ancora più importante considerare che la caratteristica fondamentale di una cultura è il suo intimo legame, di dipendenza e reciprocità, con la realtà economica e sociale di un certo ambiente, con il livello delle forze produttive e il modo di produzione che una società crea. La cultura, frutto della storia, riflette ogni in momento la realtà materiale e spirituale della società, dell’uomo individuo e dell’uomo essere sociale, di fronte ai conflitti che si oppongono alla natura e agli imperativi della vita comune. Ecco perché ogni natura implica elementi essenziali e secondari, forze e debolezze, virtù e difetti, aspetti positivi e negativi, fattori di progresso e di stagnazione e regressione. Da qui il fatto che la cultura – creazione della società e sintesi degli equilibri e soluzioni che elabora per risolvere i conflitti che la caratterizzano in ogni fase della sua storia – sia una realtà sociale indipendentemente dalla volontà degli uomini, dal colore della pelle o dalla forma degli occhi. In una analisi più profonda della realtà culturale, non si può pretendere che esistano culture continentali o razziali. E questo perché, come la storia, la cultura si svolge in un processo disuguale al livello di un continente, di una “razza” o anche di una società. Le coordinate della cultura, così come quelle di ogni fenomeno in evoluzione, variano nello spazio e nel tempo, sia che siano materiali (fisiche) o umane (biologiche e sociali). Il fatto di riconoscere l’esistenza di tratti comuni e specifici nelle culture dei popoli africani, indipendentemente dal colore della pelle, non implica necessariamente che esista un’unica cultura nel continente, nello stesso modo in cui, dal punto di vista economico e politico, si verifica l’esistenza di varie Afriche, ci sono anche varie culture africane. Non c’è dubbio che la scarsa valorizzazione dei valori culturali dei popoli africani, basata su sentimenti razzisti e sull’intenzione di perpetuare il loro sfruttamento per mano straniera, fa molto male all’Africa. Ma di fronte alla vitale necessità del progresso i seguenti fatti o comportamenti non sono meno nocivi: gli elogi non selettivi, l’esaltazione non sistematica delle virtù senza

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condannare i difetti, la cieca accettazione dei valori della cultura senza considerare quello che essa ha o può avere avuto di negativo, di reazionario e di regressivo, la confusione tra ciò che è espressione di una realtà storica obbiettiva e materiale e quello che sembra essere una creazione dello spirito o il risultato di una natura specifica, il legame assurdo delle creazioni artistiche, che siano valide o meno, a pretese caratteristiche di razza, e infine la valutazione critica non scientifica o a-scientifica del fenomeno culturale. Allo stesso modo, la cosa importante è non perdere tempo in discussioni più o meno bizantine sulla specificità o meno dei valori culturali africani, ma inquadrare questi valori come una conquista di una parte dell’umanità per il patrimonio comune di tutta l’umanità, realizzata in una o in diverse fasi della sua evoluzione. Quello che interessa è procedere all’analisi critica delle culture africane rispetto al movimento di liberazione e alle esigenze di progresso – di fronte a questa nuova tappa della storia dell’Africa. Possiamo così aver coscienza del suo valore nel quadro della civiltà occidentale, ma paragonare questo valore con quelli delle altre culture, non per determinare la sua superiorità o inferiorità, ma per determinare, in un ambito generale della lotta per il progresso, qual è il contributo che ha dato e deve dare e quali sono i contributi che può e deve ricevere. Il movimento di liberazione deve, come abbiamo già detto, basare la sua azione nella conoscenza profonda della cultura del popolo e saper apprezzare, per il suo giusto valore, gli elementi di questa cultura, assieme ai diversi livelli che raggiunge in ogni categoria sociale. Deve ugualmente essere capace di distinguere, nell’insieme dei valori culturali del popolo, ciò che è essenziale o secondario, ciò che è positivo o negativo, ciò che è progressista o reazionario, i punti di forza da quelli deboli, tutto ciò in funzione delle esigenze della lotta per potere concentrare la propria azione su ciò che è essenziale senza dimenticare ciò che è secondario, provocando lo sviluppo degli elementi positivi e progressisti e combattere, con la diplomazia e con il rigore, gli elementi negativi e reazionari, e infine perché si possano usare efficacemente le forze e eliminare le debolezze, e trasformarle in forza.

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La cultura nazionale condizione dello sviluppo della lotta Quanto più prendiamo coscienza che la principale finalità del movimento di liberazione supera la conquista dell’indipendenza politica per situarsi sul piano superiore della liberazione totale delle forze produttive e della costruzione del progresso economico e sociale e culturale del popolo, più evidente diventa la necessità di procedere ad una analisi selettiva dei valori della cultura nell’ambito della lotta. I valori negativi della cultura sono, in generale, un ostacolo allo sviluppo della lotta e alla costruzione di tale progresso. Tale necessità diventa più acuta nei casi in cui, per affrontare la violenza colonialista, il movimento di liberazione deve mobilitare e organizzare il popolo sotto la direzione di una organizzazione politica solida e disciplinata, per ricorrere a una violenza liberatrice – la lotta armata di liberazione nazionale. In questa prospettiva, il movimento di liberazione deve essere capace, oltre l’analisi sopra citata, di effettuare passo a passo, ma solidamente, nel decorso dell’evoluzione della sua azione politica, la confluenza dei livelli di cultura delle diverse categorie sociali disponibili alla lotta e trasformarli nella forza culturale nazionale che serve da base allo sviluppo della lotta armata che è la sua condizione. Bisogna notare che l’analisi della lotta rappresenta perciò un contributo valido alla strategia e alla tattica da seguire, sia sul piano politico che militare. Ma durante la lotta, realizzata a partire da una base soddisfacente di unità politica e morale, la complessità dei problemi culturali sorge in tutta la sua ampiezza. Questo fattore obbliga con frequenza ad adattamenti successivi della strategia e della tattica alle realtà che solo la lotta può rivelare. L’esperienza della lotta dimostra come è utopico e assurdo voler applicare schemi utilizzati da altri popoli durante la loro lotta di liberazione e trasferire soluzioni trovate per i problemi che si sono dovuti affrontare, senza considerare la realtà locale (e specialmente la realtà culturale). Si può dire che, all’inizio della lotta, a prescindere dal grado di preparazione, né la direzione del movimento di liberazione né le masse militanti popolari hanno una coscienza nitida del peso dei valori culturali nella sua evoluzione: quali possibilità crea, quali

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limiti impone e, principalmente, come e quanto la cultura è, per il popolo, una fonte inesauribile di coraggio, di mezzi materiali e morali, di energia fisica e psichica che permette di accettare sacrifici e fare “miracoli”, e ugualmente, sotto alcuni aspetti fino a che punto può essere una fonte di ostacoli e difficoltà, di concezioni errate della realtà, di distrazione nel compimento del dovere e delle limitazioni del ritmo e dell’efficacia della lotta di fronte alle esigenze politiche, tecniche e scientifiche della guerra. La lotta armata, strumento di unificazione e di progresso culturale La lotta armata di liberazione, svolta come risposta all’aggressione dell’oppressore colonialista, si rivela come uno strumento doloroso ma efficace per lo sviluppo del livello culturale, sia dei compagni dirigenti del movimento di liberazione, sia delle diverse categorie sociali che partecipano alla lotta. I dirigenti del movimento di liberazione, originari della “piccola borghesia” (intellettuali, impiegati) o di ambienti di lavoratori delle città (operai, autisti, stipendiati in generale) dovendo vivere quotidianamente con diversi strati della popolazione rurale, finiscono per conoscere meglio il popolo e scoprono alla fonte la ricchezza dei loro valori culturali (filosofici, politici, sociali e morali), acquisiscono una coscienza più nitida delle realtà economiche del paese, dei problemi, delle sofferenze e delle aspirazioni delle masse popolari. Constatano, non senza un certo sgomento, la ricchezza di spirito, la capacità di argomentazione e di esposizione chiara delle idee, la facilità di comprensione ed assimilazione dei concetti da parte delle popolazioni ancora ieri dimenticate e disprezzate e considerate dal colonizzatore, e da qualche connazionale, come esseri incapaci. I dirigenti arricchiscono così la loro cultura – si coltivano e si liberano dai complessi, rafforzando la capacità di servire il movimento, al servizio del popolo. Da parte loro, le masse lavoratrici e, specialmente i contadini, normalmente analfabeti, che non hanno mai superato i confini del loro villaggio o della loro regione, perdono, nei contatti con

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le altre categorie, i complessi che li limitavano nelle relazioni con gli altri gruppi etnici e sociali: comprendono la loro condizione di elementi determinanti della lotta, rompono le catene dell’universo del villaggio per integrarsi progressivamente nel paese e nel mondo. Acquisiscono una infinità di nuove conoscenze utili all’attività immediata e futura nell’ambito della lotta, rafforzano la coscienza politica, assimilando i principi della rivoluzione nazionale e sociale postulata dalla lotta. Diventano più adatti così a svolgere un ruolo decisivo di forza principale del movimento di liberazione. Come si sa, la lotta armata di liberazione esige la mobilitazione e l’organizzazione di una significativa maggioranza della popolazione, l’unità politica e morale delle diverse categorie sociali, l’uso efficace delle armi moderne e di altri mezzi di guerra, la liquidazione progressiva di ciò che resta della mentalità tribale, il rifiuto delle regole e dei tabù sociali e religiosi contrari allo sviluppo della lotta (gerontocrazia, nepotismo, inferiorità sociale della donna, riti e pratiche incompatibili con il carattere razionale e nazionale della lotta ecc.), e operare ancora molti altri cambiamenti profondi nella vita delle popolazioni. La lotta di liberazione implica, quindi, una vera marcia forzata nel cammino del progresso culturale. Se a questi fatti inerenti ad una lotta armata di liberazione, mettiamo accanto la pratica della democrazia, della critica e dell’autocritica, la responsabilità crescente delle popolazioni nella gestione della loro vita, l’alfabetizzazione, la creazione di scuole e l’assistenza sanitaria, la formazione di quadri provenienti da ambienti contadini e operai – così come altre realizzazioni – vedremo che la lotta armata di liberazione non è solo un fatto culturale ma anche un fattore di cultura. Questa è senza alcun dubbio, per il popolo, la prima ricompensa per gli sforzi e i sacrifici che sono il prezzo della guerra. Di fronte a tale prospettiva, è compito dei movimenti di liberazione definire chiaramente gli obbiettivi della resistenza culturale, parte integrante e determinante della lotta.

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Gli obbiettivi della resistenza culturale Da tutto quello che abbiamo appena detto si può concludere che, nel quadro della conquista dell’indipendenza nazionale e nella prospettiva della costruzione del progresso economico e sociale del popolo, gli obbiettivi possono essere i seguenti: – Sviluppo di una cultura popolare e di tutti i valori culturali positivi, autoctoni. – Sviluppo di una cultura nazionale basata sulla storia e sulle conquiste della stessa lotta. – Costante crescita della coscienza politica e morale del popolo (di tutte le categorie sociali) e del patriottismo, spirito di sacrificio e dedizione alla causa dell’indipendenza, della giustizia e del progresso. – Sviluppo di una cultura scientifica, tecnica e tecnologica, compatibile con le esigenze del progresso. – Sviluppo, sulla base di un’assimilazione critica delle conquiste dell’umanità nel campo dell’arte, della scienza, della letteratura ecc., di una cultura universale tendente a una sua progressiva integrazione nel mondo attuale e secondo le prospettive della sua evoluzione. – Elevazione costante e generalizzata dei sentimenti dell’umanismo, solidarietà, rispetto e dedizione disinteressata per la persona umana. La realizzazione di questi obbiettivi è possibile visto che la lotta armata di liberazione, nelle condizioni concrete della vita dei popoli africani, affrontando la sfida imperialista, è un atto di fecondazione della storia, l’espressione massima della nostra cultura e della nostra africanità. Si deve tradurre, al momento della vittoria, in un salto in avanti significativo della cultura del popolo che si libera. Se questo non succede, allora gli sforzi e i sacrifici realizzati nel corso della lotta sono stati vani. Essa non avrà raggiunto i suoi obbiettivi e il popolo avrà perduto la possibilità di progredire nell’ambito generale della storia.

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Al celebrare con questa cerimonia la memoria di Eduardo Mondlane, prestiamo omaggio all’uomo politico, al combattente per la libertà e specialmente all’uomo di cultura. Non solo la cultura acquisita durante la sua vita personale e sui banchi dell’università, ma principalmente in seno al suo popolo, nel quadro della lotta di liberazione del suo popolo. Si può dire che Eduardo Mondlane è stato assassinato selvaggiamente perché è stato capace di identificarsi con la cultura del suo popolo, con le sue aspirazioni più profonde, attraverso e contro tutti i tentativi o le tentazioni dell’alienazione della sua personalità di africano e di mozambicano. Per aver forgiato una cultura nuova nella lotta, è caduto come un combattente. È evidentemente facile accusare i colonialisti portoghesi e gli agenti dell’imperialismo, suoi alleati, del crimine abominevole commesso contro la persona di Eduardo Mondlane, contro il popolo mozambicano e contro l’Africa. Sono stati loro ad assassinarlo codardamente. È perciò necessario che tutti gli uomini di cultura, tutti i combattenti della libertà, tutti gli spiriti assetati di pace e progresso – tutti i nemici del colonialismo e del razzismo – abbiano il coraggio di prendere sulle loro spalle la parte che loro compete di questa tragica morte. Perché se il colonialismo portoghese e gli agenti imperialisti possono ancora assassinare un uomo come il Dottor Eduardo Mondlane, è perché qualcosa di marcio continua a vegetare in seno all’umanità: il dominio imperialista. È perché gli uomini di buona volontà, difensori della cultura dei popoli, ancora non hanno realizzato il loro dovere sulla superficie del pianeta. E tornando a noi, tutto questo dà bene la misura delle responsabilità, di coloro che ci ascoltano in questo tempio della cultura, nei confronti del movimento di liberazione dei popoli oppressi.

5. Il ruolo della cultura nella lotta per l’indipendenza1

Prologo Solo il desiderio cosciente di corrispondere all’amabile invito dell’Unesco e una profonda convinzione dell’importanza del tema che ci è stato proposto hanno permesso l’elaborazione di questo modesto lavoro, in un momento in cui i nostri obblighi, nell’ambito della difficile lotta di liberazione del nostro popolo, esigono la mobilitazione di tutto il nostro tempo per lo studio e la soluzione dei problemi nazionali. Invece di approfondire i diversi punti proposti per la discussione, senza voler in alcun modo minimizzarne l’interesse e l’intensità, preferiamo puntare la nostra attenzione sull’importanza della cultura nel movimento pre-indipendenza o di liberazione. Non disponendo evidentemente di tempo per maneggiare libri e documenti che con certezza avrebbero permesso di argomentare e arricchire il contenuto del nostro lavoro, ci limitiamo nella pratica a trasmettere il risultato della nostra esperienza e delle nostre osservazioni, tanto nell’ambito della nostra lotta come nello studio delle altre lotte contro il dominio imperialista. Nella parte che si riferisce al ruolo della cultura nel movimento di liberazione, utilizziamo e sviluppiamo alcune delle idee e delle considerazioni contenute nella conferenza che abbiamo tenuto nel febbraio 1970 presso l’Università di Syracuse (Usa), sul tema “liberazione nazionale e cultura”. 1 Questo testo è stato letto, in assenza di Cabral, presso l’unesco a Parigi nel luglio 1972.

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È inutile ricordare che le condizioni in cui questo lavoro è stato scritto, assieme ai limiti delle nostre conoscenze, fanno sì che ci siano delle lacune che la generosità del lettore saprà, se non scusare, per lo meno comprendere. Nel frattempo, se riusciremo a convincerlo (o a rafforzare le sue convinzioni) dell’importanza decisiva della cultura nell’evoluzione del movimento di liberazione, questo lavoro sarà stato utile. Personalmente, spero che l’unesco non abbia commesso un grave errore confondendo coraggiosamente un combattente con un ricercatore. La lotta per la liberazione e il progresso del popolo è anche, e deve esserlo, uno studio permanente nei campi dell’educazione, della scienza e della cultura.

Giugno 1972

Introduzione La lotta dei popoli per la liberazione nazionale e per l’indipendenza, contro il dominio imperialista, è diventata una forza immensa di progresso per l’umanità e rappresenta senza dubbio uno dei tratti essenziali della storia del nostro tempo. Un’analisi obbiettiva e spassionata dell’imperialismo in quanto fatto o fenomeno storico “naturale” ossia “necessario” nel contesto dell’evoluzione economico-politica di una grande parte dell’umanità, rivela che il dominio imperialista, con tutta la sua corte di miserie, razzie, crimini e distruzione di valori umani e culturali, non è stato altro che una realtà negativa. L’immensa accumulazione monopolista del capitale in una mezza dozzina di paesi dell’emisfero nord, concretizzatasi nella pirateria, nel saccheggio dei beni di altri popoli e nello sfruttamento sfrenato del lavoro di questi popoli, ha provocato il monopolio delle colonie, la spartizione del mondo e il dominio imperialista. Nei paesi ricchi, il capitale imperialista, sempre alla ricerca di vantaggio e profitto, ha fatto aumentare la capacità creatrice dell’uomo, ha operato una profonda trasformazione dei mezzi di

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produzione (forze produttive materiali) grazie ai processi accelerati dalla scienza, dalla tecnica e dalla tecnologia, ha accentuato la socializzazione del lavoro e permesso in scala considerevole l’ascesa sociale di vaste fasce della popolazione. Nei paesi colonizzati, dove la colonizzazione ha bloccato, in generale, il processo storico di sviluppo dei popoli dominati, quando non ha addirittura proceduto alla sua eliminazione radicale o progressiva, il capitale imperialista ha imposto nuovi tipi di relazioni in seno alle società autoctone, la cui struttura è diventata più complessa. Ha suscitato, fomentato, avvelenato contraddizioni e conflitti sociali. Ha introdotto, particolarmente con il ciclo della moneta e lo sviluppo del mercato interno ed esterno, nuovi elementi nell’economia. Ha portato, sotto l’influenza di un nuovo tipo di dominazione di classe (colonialista e razzista), alla nascita di nuove nazioni a partire da gruppi umani e di popoli che si trovavano in stadi diversi dello sviluppo storico. È sicuro che l’imperialismo, come il capitale in azione, non ha compiuto nei paesi stranieri dominati la missione storica che ha realizzato nei paesi ricchi. Non significa difendere il dominio imperialista riconoscere che esso ha dato nuovi mondi al mondo, riducendone le dimensioni, rivelando nuove fasi dello sviluppo delle società umane e, a dispetto o a causa dei preconcetti, delle discriminazioni e dei crimini ai quali ha dato luogo, ha contribuito a dare una conoscenza più profonda dell’umanità come un tutto in movimento, come un’unità nella diversità complessa delle caratteristiche del suo sviluppo. Il dominio imperialista sui diversi continenti ha favorito un confronto multilaterale e progressivo (a volte ex abrupto) non solo tra uomini diversi ma anche tra società diverse, tanto dal punto di vista delle caratteristiche somatiche delle popolazioni, come principalmente dal punto di vista del grado e del tipo del suo sviluppo storico, del livello delle sue forze produttive, dei dati essenziali della struttura sociale e della cultura. La pratica del dominio imperialista – la sua affermazione e la sua negazione – ha richiesto (richiede ancora) una conoscenza più o meno corretta dell’oggetto dominato e della realtà storica (economica, sociale, culturale) in seno alla quale essa si muove, conoscenza questa che si esprime

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necessariamente in termini di paragone con il soggetto dominatore e con una sua precisa realtà storica. Una conoscenza di questo tipo è una necessità imperiosa della pratica del dominio imperialista, che risulta dal confronto, in generale violento, di due identità diverse in termini di contenuto storico e antagoniste nella loro funzione. La ricerca di tale conoscenza, per difendere o per contestare il dominio imperialista, contribuisce ad un arricchimento generale delle scienze umane e sociali, nonostante il carattere unilaterale, soggettivo e molte volte pieno di preconcetti dalla maggior parte degli approcci e dei risultati ottenuti da questa ricerca. In realtà, l’uomo non si è mai interessato tanto alla conoscenza di altri uomini e di altre società come durante questo secolo di imperialismo e di dominio imperialista. Una quantità senza precedenti di informazioni, ipotesi e teorie si è così accumulata specialmente nel campo della storia, dell’etnologia, dell’etnografia, della sociologia e della cultura, riguardo ai popoli e ai gruppi umani sottomessi al dominio imperialista. I concetti di razza, casta, etnia, tribù, nazione, cultura, identità, dignità e tanti altri ancora sono diventati il bersaglio di un’attenzione crescente da parte di quanti studiano l’uomo e le società dette “primitive” o in “evoluzione”. Più recentemente, con l’incremento della lotta di liberazione che è la negazione del dominio imperialista, è sorta la necessità di analizzare e conoscere le caratteristiche di questa società in funzione della lotta e determinare i fattori che provocano e frenano questa lotta esercitando un’influenza positiva o negativa sulla sua evoluzione. I ricercatori sono d’accordo in generale che, in questo contesto, la cultura ricopre un ruolo essenziale. Si può quindi ammettere che qualsiasi tentativo che chiarisca il vero ruolo della cultura nello sviluppo del movimento di liberazione (pre-indipendenza) può essere un contributo utile alla lotta generale dei popoli contro il dominio imperialista. I Il fatto che i movimenti per l’indipendenza sono in generale segnati, subito nella fase iniziale, da un’epidemia di manifestazio-

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ni di carattere culturale, fa ammettere che questi movimenti sono preceduti da un rinascimento culturale del popolo dominato. Si va anche oltre, ammettendo che la cultura è un metodo di mobilitazione di gruppo e persino un’arma nella lotta per l’indipendenza. A partire dall’esperienza della nostra lotta e, possiamo dire, da quella di tutta l’Africa, crediamo che si tratti di una concezione troppo limitata, se non addirittura erronea, del ruolo primordiale della cultura nello sviluppo del movimento di liberazione. Questo limite o questo errore provengono, crediamo, da una generalizzazione scorretta di un fenomeno reale ma ristretto, che si situa ad un determinato livello delle élites o delle diaspore coloniali. Generalizzazione questa che ignora o trascura il dato essenziale del problema. Il carattere indistruttibile della resistenza culturale del popolo – delle masse popolari – di fronte alla dominazione straniera. La pratica del dominio imperialista esige, come fattore di sicurezza, l’oppressione culturale e il tentativo di eliminare, direttamente o meno, i dati essenziali della cultura del popolo dominato. Ma esso può solo creare e sviluppare il movimento di liberazione, per conservare viva la sua cultura, nonostante la repressione permanente e organizzata della sua vita culturale, per potere, annullata la sua resistenza politico-militare, continuare a resistere culturalmente. Ed è la resistenza culturale che, in un determinato momento, d’accordo con i fattori interni ed esterni che condizionano l’evoluzione della società in questione, così come le sue relazioni con la potenza coloniale, può assumere nuove forme (politiche, economiche, armate) per contestare il dominio straniero. Con eccezione dei casi di genocidio delle popolazioni autoctone o della loro riduzione violenta a un minimo sociale e culturalmente insignificante, il tempo della colonizzazione non è stato sufficiente per permettere, per lo meno in Africa, una distruzione o un disprezzo significativo degli elementi della cultura e delle tradizioni del popolo colonizzato. L’esperienza coloniale del dominio imperialista in Africa rivela che (eccetto il genocidio, la segregazione razziale e l’apartheid) l’unica soluzione cosiddetta

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positiva, trovata dall’infimo potere coloniale per negare la resistenza culturale del popolo colonizzato, è l’assimilazione. Ma l’insuccesso totale della politica di “assimilazione progressiva” delle popolazioni native è la prova evidente tanto della falsità di questa teoria, come della capacità di resistenza dei popoli dominati a un tentativo di distruzione e deprezzamento del loro patrimonio culturale2. D’altra parte, anche nelle colonie di popolamento, in cui una grande maggioranza della popolazione continua ad essere composta da autoctoni, l’espansione dell’occupazione coloniale e, specialmente, dell’occupazione culturale, è in generale ridotta alle zone costiere e ad alcune zone ristrette dell’interno. L’influenza della cultura della potenza coloniale è quasi nulla nella struttura orizzontale della società dominata, oltre i limiti della capitale e dei centri urbani. Solo è sentita in modo significativo nella verticale piramide sociale del colonialismo – quella creata dallo stesso colono – e si esercita specialmente su quello che si può chiamare “piccola borghesia autoctona” e sul numero molto ridotto di lavoratori dei centri urbani. Si nota quindi che le grandi masse rurali, così come una parte importante della popolazione urbana, per un totale del 99% della popolazione indigena3, rimangono libere, o quasi, da qualsiasi tipo di influenza culturale della potenza coloniale. Questa situazione è originata, da un lato, dal carattere necessariamente oscurantista del dominio imperialista che, disprezzando e reprimendo la cultura del popolo dominato, non ha alcun interesse a promuovere l’acculturazione delle masse popolari, fonte di mano d’opera per il lavoro forzato e principale vittima dello sfruttamento, dall’altra l’efficacia della resistenza culturale di queste masse che, sottomesse al dominio politico e allo sfruttamento economico, trovano nella loro cultura l’unica possibilità capace di preservare la propria identità. Questa difesa del patrimonio culturale è ancora rafforzata, nei casi in cui la società autoctona 2 Dopo cinquecento anni di presenza “civilizzatrice” e cinquanta di “pace coloniale, la percentuale massima di assimilati dell’intera popolazione della Guinea Bissau è dello 0,3%”. 3 Un minimo del 99,7% nelle colonie portoghesi.

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possiede una struttura verticale, visto l’interesse della potenza coloniale a proteggere e rafforzare l’influenza culturale delle classi dominanti, loro alleate. Quanto detto fin qui implica che non solo per le masse popolari del paese dominato – per lo strato sociale dei lavoratori delle campagne e delle città – ma anche per le classi dominanti autoctone (capi tradizionali, famiglie nobili, autorità religiose), non c’è in generale altro che distruzione o significativo disprezzo della cultura e delle tradizioni. Repressa, perseguitata, umiliata, tradita da un certo numero di categorie sociali compromesse con lo straniero, rifugiata nei villaggi, nelle foreste e nello spirito di generazioni vittime di dominazione, la cultura sopravvive a tutte le tempeste per riprendere, grazie alla lotta di liberazione, tutta la sua facoltà di sviluppo. Ecco perché il problema di un “ritorno alle fonti” o di una “rinascita culturale” non si può né avrebbe potuto porsi per le masse popolari, visto che esse sono portatrici della propria cultura, sono la fonte della cultura e, allo stesso tempo, l’unica entità veramente capace di preservare e creare cultura – di fare la storia. Per una valutazione corretta del vero ruolo della cultura nello sviluppo del movimento di liberazione è necessario, dunque (per lo meno in Africa), fare una distinzione tra la situazione delle masse popolari, che preservano la loro cultura, e quella delle categorie sociali più o meno assimilate, sradicate e culturalmente alienate o semplicemente sprovviste di qualsiasi elemento nativo nel processo della loro formazione culturale. Al contrario di quanto si verifica con le masse popolari, le élites coloniali autoctone, forgiate durante il processo di colonizzazione, sebbene siano portatrici di un certo numero di elementi culturali propri della società autoctona, vivono sia materialmente sia spiritualmente la cultura dello straniero colonialista, con la quale cercano di identificarsi progressivamente, sia nel comportamento sociale sia nella stessa valutazione dei valori culturali indigeni. Durante due o tre generazioni di colonizzati, si forma uno strato sociale costituito da funzionari di Stato e impiegati dei diversi rami dell’economia (specialmente del commercio) così come da membri delle professioni liberali e da qualche proprietario

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urbano e agricolo. Questa nuova classe – la piccola borghesia autoctona forgiata dalla dominazione straniera e indispensabile per il sistema di sfruttamento coloniale – si situa tra le masse popolari lavoratrici delle campagne e dei centri urbani e la minoranza di rappresentanti locali della classe dominante straniera. Anche se può avere relazioni più o meno sviluppate con le masse popolari o con i capi tradizionali, aspira in generale a uno stile di vita somigliante, se non identico, a quello della minoranza straniera; simultaneamente mentre limita i suoi rapporti con le masse, cerca di integrarsi in questa minoranza, anche se molte volte a svantaggio dei legami familiari o etnici e sempre grazie a sforzi individuali. Ma non basta, qualunque siano le eccezioni apparenti, a superare le barriere imposte dal sistema, è prigioniera delle contraddizioni della realtà culturale e sociale in cui vive, perché non può fuggire, nella pace coloniale, alla sua condizione di classe marginale o “marginalizzata”. Questa marginalità costituisce, tanto localmente come in seno alle diaspore impiantate nella metropoli coloniale, il dramma socio-culturale delle élites coloniali o della piccola borghesia indigena, vissuto più o meno intensamente a seconda delle circostanze materiali e del livello di acculturazione, ma sempre sul piano individuale e non collettivo. È nel contesto di questo dramma quotidiano, sullo sfondo di un confronto generalmente violento tra le masse popolari e la classe coloniale dominante, che nella piccola borghesia indigena nasce e si sviluppa un sentimento di amarezza o un complesso di frustrazione e, parallelamente, una necessità urgente, di cui essa prende piano piano coscienza, di contestare la sua marginalità e di scoprire la sua identità. È il risultato del non riuscire ad identificarsi con la classe dominante straniera verso la quale è spinta tanto dagli elementi essenziali della sua formazione culturale come dalle sue aspirazioni sociali, questa necessità di liberarsi dal complesso di frustrazione e della condizione di marginalità porta la piccola borghesia autoctona a rivolgersi verso l’altro polo del conflitto socio-culturale dove si trova a vivere – le masse popolari indigene – cercando una sua identità. Come vediamo, la società dominata (perché vinta, oppressa e repressa sul piano economico e politico) preserva, nonostante tutti i tentavi di distruzione

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da parte della potenza coloniale, l’essenziale della sua cultura e continua la sua resistenza culturale, che è indistruttibile. Solo nell’ambito della cultura, la piccola borghesia autoctona può cercare di soddisfare questa necessità di liberazione e di conquista di una identità. Da qui il “ritorno alle fonti” che sembra ancor più imperioso quanto maggiore è l’isolamento della piccola borghesia (o delle élite native) e quanto più il suo sentimento o complesso di frustrazione è acuto, come succede con le diaspore africane stabilitesi nelle capitali coloniali razziste. Non è per caso che teorie o “movimenti” come il panafricanismo e la negritudine, due espressioni pertinenti del “ritorno alle origini” che si basano soprattutto sull’idea dell’identità culturale comune di tutti gli africani negri, sono state concepite in spazi culturali diversi dalla stessa Africa negra. Più recentemente la rivendicazione, fatta dai negri americani ,di un’identità africana è un’altra manifestazione, forse disperata, di un tentativo di “ritorno alle origini” sebbene nitidamente influenzata da una nuova realtà – la conquista dell’indipendenza politica della maggior parte dei popoli africani. Si caratterizza principalmente nei suoi aspetti visibili, dalla manifestazione, molte volte ostensiva, di un desiderio più o meno cosciente di identificazione culturale. Ma il “ritorno alle origini” non è, né potrebbe essere, un atto di lotta contro il dominio straniero (colonialista e/o razzista) e non significa necessariamente un ritorno alle tradizioni. È la negazione, per la piccola borghesia indigena, della pretesa supremazia della cultura della potenza dominante sul popolo dominato, con il quale ha necessità di identificarsi per risolvere il conflitto socio-culturale in cui si dibatte creando un’identità. Il “ritorno alle fonti” non è una “demarche” volontaria, ma l’unica risposta possibile alla sollecitazione imperiosa di una necessità concreta, storica, determinata dalla contraddizione irriducibile che oppone la società colonizzata alla potenza coloniale, le masse popolari sfruttate alla classe straniera sfruttatrice, contraddizione in rapporto alla quale ogni strato sociale o classe indigena è obbligata a definire una posizione. Quando il “ritorno alle fonti” supera il caso individuale per

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esprimersi attraverso il “gruppo” o il “movimento”, i fattori che condizionano, sia internamente che esternamente, l’evoluzione politico-economica della società, hanno già raggiunto il livello in cui questa contraddizione si trasforma in conflitto (aperto o meno), preludio del movimento pre-indipendenza o della lotta di liberazione dal giogo straniero. Così, il “ritorno alle origini” è storicamente conseguente se implica un compromesso reale nella lotta per l’indipendenza, ma anche un identificarsi in modo totale e definitivo con le aspirazioni delle masse popolari, che non contestano solo la cultura dello straniero, ma anche globalmente la dominazione straniera. In altre parole, il “ritorno alle origini” non è altro che una soluzione che vuole ottenere vantaggi temporanei, un modo, cosciente o meno, di opportunismo politico da parte della borghesia. Bisogna notare che il fenomeno del “ritorno alle origini”, sia esso apparente o reale, non si produce in modo globale, simultaneo o uniforme, in seno alla piccola borghesia autoctona. Si tratta di un processo lento, discontinuo e disuguale il cui sviluppo, al livello di ogni individuo, dipende dal grado di acculturazione, dalle condizioni materiali di esistenza, dalla formazione ideologica e dalla stessa storia in quanto essere sociale. Questa diseguaglianza è alla base della scissione della piccola borghesia autoctona in tre gruppi diversi nei confronti del movimento di liberazione: a) una prima minoranza che pur desiderando la fine della dominazione straniera, rimane attaccata alla classe coloniale dominante e si oppone apertamente a questo movimento per difendere la sua sicurezza sociale; b) una maggioranza di esitanti e indecisi; c) una seconda minoranza i cui elementi partecipano nella creazione e nella direzione del movimento di liberazione di cui sono il principale elemento di fecondazione. Ma questo ultimo gruppo, che svolge un ruolo decisivo nello sviluppo del movimento di pre-indipendenza, non riesce a identificarsi veramente con le sue masse popolari (con la loro cultu-

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ra e le loro aspirazioni) se non attraverso la lotta, dipendendo il grado di questa identificazione dalla forma o dalle forme di lotta, dal contenuto ideologico del movimento e dal livello di coscienza morale e politica di ogni individuo. II Il principale problema del movimento di liberazione – quello dell’identificazione della piccola borghesia nativa con le masse popolari – presuppone una condizione essenziale: che, contro l’azione distruttiva del dominio imperialista, le masse popolari possano preservare la propria identità, diversa e distinta da quella della potenza coloniale. Ci sembra, quindi, interessante determinare in quali casi questa preservazione è possibile, perché, quando e a che livelli della società dominata si pone il problema della perdita o dell’assenza dell’identità e, quindi, la necessità di affermare o di riaffermare, nell’ambito del movimento di pre-indipendenza, un’identità diversa e distinta da quella della potenza coloniale. L’identità di un individuo o di un determinato gruppo umano è una qualità bio-sociologica, indipendente dalla volontà di tale individuo o di un gruppo, ma che ha significato solo se espressa in rapporto ad altri individui o ad altri gruppi umani. La natura dialettica dell’identità risiede nel fatto che essa identifica e distingue, perché un individuo (o un gruppo umano) non è identico a determinati individui (o gruppi) se non si distingue da altri individui (o gruppi umani). La definizione di una identità, individuale o collettiva, è perciò simultaneamente affermazione e negazione di un determinato numero di caratteristiche che definiscono individui o collettività in funzione di coordinate storiche (biologiche e sociologiche) in un determinato momento della sua evoluzione. In realtà, l’identità non è una qualità immutabile, precisamente perché i dati biologici e sociologici che la definiscono sono in permanente evoluzione. Sia dal punto di vista biologico che da quello sociologico, non esistono nel tempo due esseri (individuali e collettivi) assolutamente identici o assolutamente diversi, perché è sempre possibile trovare caratteristiche che li distinguano

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o li identifichino. Allo stesso modo, l’identità di un essere umano è sempre una qualità relativa, non esatta, anche circostanziale, perché la sua definizione esige una selezione più o meno rigorosa o restrittiva delle caratteristiche biologiche e sociologiche dell’essere in questione. Bisogna notare che, nel binomio fondamentale della definizione dell’identità, l’elemento sociologico è più determinante di quello biologico. Se è sicuro che l’elemento biologico (il patrimonio genetico) è la base materiale indispensabile all’esistenza e alla continuità evolutiva dell’identità, non si può negare che l’elemento sociologico è il fattore che, dandogli contenuto e forma, imprime un significato oggettivo a questa qualità, permettendo il confronto o il paragone tra gli individui o tra i gruppi di individui. Per una definizione integrale dell’identità, la caratterizzazione dell’elemento biologico è indispensabile, ma non implica una identificazione sul piano sociologico, mentre due esseri o più, sociologicamente identici, hanno necessariamente un’identità simile sul piano biologico. Questo fatto, da un lato rivela la supremazia della vita sociale sulla vita individuale, perché la società (umana, per esempio) è una forma superiore di vita, d’altro suggerisce la necessità di non confondere, nella valutazione dell’identità, quella originaria in cui l’elemento biologico è la determinante principale, con l’identità attuale, nella quale la determinante principale è l’elemento sociologico. È evidente che l’identità che va considerata in un determinato momento dell’evoluzione dell’essere umano (individuale e collettivo) è l’identità attuale e qualsiasi valutazione fatta sulla base della sua identità originale è incompleta, parziale e piena di preconcetti, considerando che non si dimentica né si ignora l’influenza decisiva della realtà sociale (materiale e spirituale) sul contenuto e la forma dell’identità. Nella formazione e nello sviluppo dell’identità individuale o collettiva, la realtà sociale è un agente oggettivo, risultante da fattori economici, politici, sociali e culturali che caratterizzano l’evoluzione e la storia della società in questione. Se consideriamo che, tra questi fattori, quello economico è fondamentale, possiamo affermare che l’identità è in certo modo l’espressione di una

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realtà economica. Questa realtà – qualunque sia la geografia e la via di sviluppo della società, è definita dal livello delle forze produttive (rapporto tra l’uomo e la natura), dai modi di produzione (rapporto tra gli uomini e le categorie degli uomini all’interno della stessa società). Ma se ammettiamo che la cultura è la sintesi dinamica della realtà materiale e spirituale della società e che essa esprime i rapporti tra l’uomo e la natura, ma anche tra le diverse categorie di uomini all’interno di una stessa società, possiamo affermare che l’identità è, a livello individuale o collettivo, oltre che una realtà economica, l’espressione di una cultura. Per questo, attribuire, riconoscere o affermare l’identità di un individuo o di un gruppo umano vuol dire innanzi tutto situare quest’individuo o gruppo all’interno di una cultura. Ora, come tutti sanno, la base principale della cultura è in tutte le culture la struttura sociale. Si può quindi concludere che la possibilità di un determinato gruppo umano di preservare (o perdere) la sua identità di fronte alla dominazione straniera dipende dal grado di distruzione verificato nella sua struttura sociale da quella stessa dominazione. Quanto all’azione e agli effetti della dominazione imperialista sulla struttura sociale del popolo dominato, bisogna considerare qui il caso del colonialismo classico contestato dal movimento pre-indipendenza. In questo caso qualsiasi sia il grado di sviluppo storico della società dominata, la struttura sociale può subire le seguenti azioni ed effetti: a) distruzione totale, con la liquidazione immediata o progressiva della popolazione indigena e la sua sostituzione con una popolazione allogena; b) distruzione parziale, con l’insediamento di una posizione allogena piò o meno numerosa; c) conservazione apparente, condizionata dalla reclusione della società autoctona in zone geografiche o riserve, generalmente sprovviste di possibilità di vita, con l’insediamento massiccio di una popolazione allogena. L’esperienza della dominazione imperialista dimostra che la distruzione completa della struttura sociale, che implica la per-

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dita dell’identità, è possibile solo con la cancellazione completa della popolazione indigena o con la sua riduzione ad un minimo insignificante socialmente e culturalmente. In contropartita, negli ultimi due casi che sono quelli che devono essere considerati in Africa, c’è la possibilità di preservare la cultura e quindi l’identità, anche se la struttura sociale soffre un’importante distruzione parziale. Come è naturale, questa possibilità varia a seconda del tipo e del tempo di colonizzazione. Possiamo però affermare che la dominazione politica, lo sfruttamento economico e la repressione culturale praticate dalla potenza coloniale hanno provocato una “cristallizzazione” della cultura e una “sopravvalutazione” dell’identità da parte dei gruppi dominati, con il principale effetto del blocco del suo processo storico operato dalla dominazione imperialista. Il carattere fondamentalmente orizzontale della struttura sociale dei popoli africani – molteplicità e profusione di gruppi etnici – fanno sì che la resistenza culturale e il grado di preservazione dell’identità non siano uniformi. Così, se è un fatto che i gruppi etnici sono riusciti, in generale, a preservare la propria identità e che quindi non c’è una perdita di questa qualità ad un livello sociale orizzontale, succede che i gruppi etnici più resistenti sono quelli che hanno avuto uno scontro più violento con la potenza coloniale nella fase dell’occupazione effettiva4 o quelli che a causa della propria localizzazione geografica, hanno avuto meno contatto con la potenza straniera5. Bisogna notare che la potenza coloniale affronta, in modo insolubile, una contraddizione nel suo comportamento riguardo ai gruppi etnici: da una parte ha la necessità di dividere e di mantenere la divisione per regnare e, per questo, mantiene e fomenta la separazione e anche i litigi tra gruppi etnici; dall’altra, per cercare di mantenere il suo dominio, ha bisogno di distruggere la struttura sociale di questi gruppi, la cultura e quindi la loro identità. Oltre a ciò è obbligata ad adottare una politica di protezione della struttura sociale e di difesa delle classi dirigenti dei gruppi (i 4 Nel nostro paese [la Guinea Bissau N.d.C.] è il caso dei Mandjaco, degli Oinca, dei Balanta e dei Beafada. 5 È il caso dei Pajadinca e di altre minoranze dell’interno.

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fulani, per esempio, etnia e nazione nel nostro paese) che appoggiano le loro guerre di conquista coloniale, politica che favorisce la conservazione dell’identità del gruppo. Come abbiamo già detto, in generale non si verificano modifiche importanti per quanto riguarda la cultura, al vertice della piramide o delle piramidi sociali indigene (gruppi o società con uno Stato). Ogni fascia o classe conserva la sua identità, sia nei centri urbani che in alcune zone dell’interno del paese; dove l’influenza culturale della potenza coloniale è grande, il problema è più complesso. Mentre la base e il vertice della piramide sociale (rispettivamente, la maggioranza delle masse lavoratrici, costituita da individui di etnie diverse, e la classe straniera dominante) mantengono la loro identità, la zona centrale di questa piramide (la piccola borghesia autoctona), culturalmente sradicata, alienata e più o meno assimilata, si dibatte in un conflitto socioculturale, cercando una identità. È necessario notare ancora che, anche se solidamente legata ad una nuova identità – quella della potenza coloniale – la classe dominante straniera non riesce a liberarsi delle contraddizioni e dei limiti della sua stessa società, che trasferisce nell’area della colonizzazione. Quando, attraverso l’azione di una minoranza della piccola borghesia autoctona alleata alle masse popolari indigene, si sviluppa il movimento di pre-indipendenza, queste masse non hanno nessuna necessità di affermare o riaffermare la propria identità che non hanno mai confuso o potuto confondere con quella della potenza coloniale. Nel frattempo, come succede nei casi di necessità di una identificazione culturale, la riaffermazione di una identificazione culturale, la riaffermazione di una identità diversa da quella della potenza coloniale non è un fatto generalizzato in seno alla piccola borghesia. Solo una minoranza riafferma questa differenza, mentre un’altra minoranza afferma, molte volte in modo esuberante, la sua identificazione con la classe straniera dominante, e la maggioranza, silenziosa, si dibatte nell’indecisione. È importante osservare anche che, pure in seno a quella parte della piccola borghesia che rivendica una identità diversa da quella della potenza coloniale, e quindi identica a quella delle masse popolari, tale riaffermazione non sempre si realizza allo

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stesso modo. Parte di questa minoranza, integrata nel movimento pre-indipendenza, utilizza elementi culturali stranieri per esprimersi, ricorrendo principalmente alla letteratura e alle arti, più alla scoperta della sua identità che alle aspirazioni e alle sofferenze delle masse popolari che le servono come tema. E siccome per esprimersi utilizza precisamente il linguaggio e la lingua della potenza coloniale, solo eccezionalmente riesce a influenzare le masse popolari, nella maggior parte dei casi illetterate e familiarizzate con altre forme di espressione. Ma questo fatto non diminuisce, nonostante tutto, il valore del contributo di questa piccola borghesia nel processo di sviluppo della lotta, visto che riesce ad influenzare con la sua riaffermazione identitaria sia parte degli indecisi e dei ritardatari della sua stessa categoria sociale, sia un importante settore dell’opinione pubblica della metropoli coloniale, principalmente gli intellettuali. L’altra parte della piccola borghesia, che si impegna ab initio del pre-indipendenza, scopre nella partecipazione immediata alla lotta di liberazione e all’integrazione nelle masse popolari la miglior forma di esprimere una realtà diversa da quella della potenza coloniale. È per questo che l’identificazione con le masse popolari e la riaffermazione dell’identità possono essere temporanee o definitive, solo apparenti o reali. Di fronte agli sforzi e ai sacrifici quotidiani che la lotta esige, essendo una espressione politica organizzata di cultura, è anche, e necessariamente, una prova non solo di identità ma soprattutto di dignità. Durante il processo della dominazione colonialista, le masse popolari, qualsiasi siano le caratteristiche della struttura sociale del gruppo a cui appartengono, resistono alla potenza coloniale. In una prima fase, quella della conquista, cinicamente denominata “pacificazione”, resistono, prendendo le armi, all’occupazione straniera6. In una seconda fase – l’età dell’oro del colonialismo trionfante – oppongono alla dominazione straniera una resistenza passiva, quasi silenziosa, ma molte volte smaltata di ribellioni, generalmente individuali e raramente collettive, specialmente 6

Mezzo secolo di resistenza armata nel nostro paese.

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nell’ambito del lavoro, del pagamento delle tasse, anche nel contatto sociale con i rappresentanti stranieri e autoctoni della potenza coloniale. In una terza fase, quella della lotta di liberazione, sono le masse popolari che costituiscono la forza principale per la resistenza politica o armata che contesta e mette fine alla dominazione straniera. Questa resistenza, lunga e multiforme, è possibile solo perché, preservando la loro cultura e la loro identità, le masse popolari mantengono intatto il sentimento di dignità individuale e collettiva, nonostante le vessazioni, le umiliazioni e le sevizie di cui sono tante volte vittima. Ciò è ancora più vero quando gli individui o le categorie sociali, che si mettono “volontariamente” al servizio della potenza coloniale, lo fanno, consapevolmente o meno, a beneficio degli interessi di gruppi o classi contrari a quelli della stragrande maggioranza delle classi popolari. L’affermazione o la riaffermazione di una identità diversa da quella della potenza coloniale da parte di una piccola borghesia autoctona contribuisce unicamente, quindi, a restituire un sentimento di dignità a questa stessa categoria sociale. Ancora su questo piano, bisogna osservare che il sentimento di dignità in seno alla piccola borghesia dipende dal comportamento oggettivo, morale e sociale di ogni individuo, dal grado di soggettività del suo comportamento di fronte ai due poli del conflitto coloniale, tra i quali è obbligato a vivere il dramma quotidiano della colonizzazione. Questo dramma è tanto più intenso considerato che in campo professionale la piccola borghesia, svolgendo le sue funzioni, è forzata ad un confronto permanente sia con la classe straniera dominante che con le classi popolari. Questa soluzione fa sì che, da un lato, l’elemento piccolo borghese sia bersaglio di umiliazioni frequenti, quasi quotidiane, da parte degli stranieri e, dall’altro lato, guadagni una coscienza nitida, sia delle ingiustizie a cui sono soggette le masse popolari e sia della loro resistenza e del loro spirito di rivolta. Da qui deriva il paradosso apparente della contestazione della dominazione coloniale: è in seno alla piccola borghesia autoctona, categoria sociale nata dalla stessa colonizzazione, che sorgono le prime iniziative che hanno come obbiettivo la mobilitazione e l’organizzazione delle masse popolari per la lotta contro la potenza coloniale.

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Questa lotta, attraverso tutte le vicissitudini e in tutte le forme che assume, riflette la coscienza e la presa di coscienza di una identità propria, generalizza e consolida un sentimento di dignità, rafforzato dallo sviluppo di una coscienza politica e cerca la sua origine nella cultura o nelle culture delle masse popolari in rivolta, una delle sue principali forze. III Una valutazione corretta del ruolo della cultura nel movimento di liberazione della pre-indipendenza o della liberazione esige che si faccia una nitida distinzione tra la cultura e le manifestazioni culturali. La cultura è la sintesi dinamica, a livello della coscienza dell’individuo o della collettività, della realtà storica materiale e spirituale di una società e di un gruppo umano, delle relazioni esistenti tra l’uomo e la natura, come tra gli uomini e le categorie sociali. Le manifestazioni culturali sono le diverse forme attraverso cui questa sintesi si esprime, a livello individuale e collettivo, in ogni tappa dell’evoluzione della società o del gruppo umano in questione. Si è verificato che la cultura è la vera base del movimento di liberazione e che le uniche società che possono mobilitarsi, organizzarsi e lottare contro la dominazione straniera sono quelle che preservano la loro cultura. Essa è, qualunque siano le caratteristiche ideologiche e idealiste della sua espressione, un elemento essenziale del processo storico. È in essa che risiede la capacità (o la responsabilità) di elaborare o di fecondare elementi che assicurino la continuità della storia e determinino, allo stesso tempo, le possibilità di progresso o regressione della società. Visto che il dominio imperialista è la negazione del progresso storico della società dominata, è chiaro quindi che esso rappresenta anche la negazione del suo processo culturale. Anche – e perché una società che si libera veramente dal gioco straniero riprenda il cammino che proviene dalla sua cultura – la lotta di liberazione è innanzi tutto un atto di cultura. La lotta di liberazione è un fatto essenzialmente politico, di

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conseguenza si possono utilizzare solo mezzi politici (incluso l’uso della violenza per eliminare la violenza, sempre armata del dominio imperialista) nel decorso del suo sviluppo. La cultura non è, né potrà mai essere, un’arma o un metodo di mobilitazione di gruppo contro la dominazione straniera. È molto più di questo. È nella conoscenza concreta della realtà locale, specialmente di quella culturale, che si basa la scelta, la strutturazione e lo sviluppo dei metodi più adeguati alla lotta. Da qui la necessità per il movimento di liberazione di concedere un’importanza primaria non solo alle caratteristiche generali della cultura della società dominata, ma anche a quelle della categoria sociale. Sebbene abbia un carattere di massa, la cultura non è uniforme né si sviluppa in modo uguale in tutti i settori, orizzontali e verticali della società. La posizione e il comportamento di ogni categoria o di ogni individuo di fronte alla lotta e al suo sviluppo sono certamente dettati dai suoi interessi economici e anche profondamente influenzati dalla sua cultura. Si può affermare infatti che è la differenza tra i livelli di cultura che spiega i diversi comportamenti degli individui di una stessa categoria sociale riguardo il movimento di liberazione. È su questo piano quindi che la cultura raggiunge il suo significato completo per ogni individuo: comprensione e integrazione nell’ambiente sociale, accettazione e negazione della possibilità di una trasformazione nel senso del progresso. È evidente che la molteplicità delle categorie sociali, specialmente le etnie, rende più complessa la definizione del ruolo della cultura nel movimento di liberazione. Ma questa complessità non può né deve diminuire l’importanza decisiva, nello sviluppo del movimento, del carattere di classe della cultura, molto più sensibile nelle categorie urbane e nelle società rurali di struttura verticale (Stato), ma che deve essere presa in considerazione nei casi in cui il fenomeno di classe sorge ancora allo stadio embrionale. L’esperienza dimostra che, di fronte alla necessità di una scelta politica voluta con forza dalla contestazione della dominazione straniera, le categorie privilegiate, nella loro maggioranza, collocano i loro interessi immediati di classe davanti agli interessi del gruppo o della società, contro le aspirazioni delle masse popolari.

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Nella valutazione del ruolo della cultura nel movimento di liberazione, non va dimenticato che la cultura, come risultato e determinante della storia, implica elementi essenziali e secondari, forze e debolezze, virtù e difetti, aspetti positivi, fattori di progresso e di stagnazione e persino di regressione, insomma, contraddizioni e anche conflitti. Qualunque sia la complessità del panorama culturale, il movimento di liberazione ha la necessità di localizzare e definire in esso i dati contradditori per preservare valori positivi, effettuare la confluenza di questi valori nel senso della lotta e nell’ambito di una nuova dimensione – la dimensione nazionale. È necessario però notare che solo nel discorso della lotta la complessità e l’importanza dei problemi culturali sorgono in tutta la loro grandezza, fatto che obbliga frequentemente a adattamenti e correzioni successive della strategia e della tattica in funzione delle realtà che solo la lotta può rivelare. Allo stesso modo, solo la lotta rivela come e quanto la cultura sia una fonte inesauribile di coraggio, di risorse materiali e morali, di energia fisica e psichica per le masse popolari, come anche sotto certi aspetti, di ostacoli e difficoltà, concezioni errate della realtà, deviazioni nel compimento del dovere e limitazioni del ritmo e dell’efficacia della lotta di fronte alle esigenze politiche, tecniche e scientifiche che essa impone. Tutto ciò implica un permanente confronto tanto tra i diversi elementi della cultura, come tra questa e le esigenze della lotta. Si svolge così un’azione reciproca tra cultura e lotta. Tanto i dirigenti del movimento di liberazione, nella maggior parte dei casi originari dei centri urbani (piccola borghesia e lavoratori salariati), come le masse popolari (la cui schiacciante maggioranza è composta da contadini) migliorano il loro livello culturale, maggiore è la conoscenza della realtà del paese, la liberazione dai complessi e pregiudizi di classe, l’allargamento dell’universo nel quale si evolvono, la distruzione delle barriere etniche, il rafforzamento della coscienza politica, l’integrazione nel paese e nel mondo, etc. Qualunque sia la sua forma, la lotta esige la mobilitazione e l’organizzazione di una maggioranza significativa della popolazione, l’unità politica e morale delle diverse categorie sociali, l’eliminazione progressiva dei resti della mentalità tribale e feudale, il

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rifiuto delle regole e dei tabù sociali e religiosi incompatibili con il carattere razionale e nazionale del movimento di liberazione, e opera ancora molte altre modifiche profonde nella vita delle popolazioni. Ciò è tanto più autentico quanto è sicuro che la dinamica della lotta esige anche la pratica della democrazia, della critica e dell’autocritica, la partecipazione crescente delle popolazioni nella gestione della propria vita, l’alfabetizzazione, la creazione di scuole e di servizi sanitari, la formazione di quadri venuti dall’ambiente rurale o dagli operai, e molte altre realizzazioni che implicano una vera marcia forzata della società sulla strada del progresso culturale. Si dimostra così che la lotta di liberazione non è solo un fatto culturale, ma anche un fattore di cultura. Nella società indigena, le influenze della lotta si riflettono nei risultati multilaterali delle realizzazioni sopra menzionate, così come nello sviluppo e /o nel consolidamento della coscienza nazionale. L’azione del movimento di liberazione sul piano culturale porta alla creazione di una lenta ma solida unità culturale, di natura simbiotica, corrispondente all’unità morale e politica necessaria alla dinamica della lotta. Con la rottura dell’ermetismo del gruppo, l’aggressività di carattere razziale (tribale o etnico) tende a scomparire progressivamente per dar luogo alla comprensione, alla solidarietà e al reciproco rispetto tra i diversi settori orizzontali della società, uniti ed identificati nella lotta e in un destino comune nei confronti dello straniero – sentimenti questi di cui le masse popolari prendono facilmente coscienza se l’opportunismo politico, caratteristico delle classi sociali medie, non viene a turbare questo processo. Si nota ugualmente un rafforzamento dell’identità di gruppo e un corrispondente ravvivarsi della dignità. Questi fattori non pregiudicano in niente la struttura e il movimento dell’insieme sociale nel senso di un avanzamento armonioso e in funzione di nuove coordinate storiche – quelle della dimensione nazionale – di cui solo un’azione politica intensiva ed efficace, elemento essenziale della lotta, può definire la traiettoria e i limiti e garantire continuità. Tra i rappresentanti del potere coloniale e nella logica portoghese, la lotta di liberazione – prova attiva della cultura, dell’identità e della dignità del popolo della colonia – ha creato pri-

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ma un sentimento di sgomento, sorpresa e incredulità. Una volta superato questo sentimento, che è frutto del pregiudizio e della deformazione sistematica che caratterizza l’informazione colonialista, le reazioni variano a seconda degli interessi e delle scelte politiche e del grado di cristallizzazione di una mentalità colonialista o razzista delle diverse categorie sociali, cioè degli individui. I progressi della lotta e i sacrifici imposti dalla necessità di esercitare una repressione colonialista, poliziesca e/o militare, provocano nell’opinione portoghese una scissione che si traduce in prese di posizione diverse, o addirittura opposte, e nell’emergere di nuove contraddizioni politiche e sociali. A partire dal momento in cui la lotta si impone come un fatto irreversibile, e anche se i mezzi utilizzati per dominare sono molto grandi, si opera un cambiamento qualitativo nell’opinione portoghese che, nella sua maggioranza, accetta progressivamente la possibilità, o meglio, la fatalità dell’indipendenza della colonia. Un tale cambiamento traduce il riconoscimento, consapevolmente o meno, del fatto che il popolo colonizzato in lotta ha una cultura e un’identità propria. E questo nonostante il fatto che una minoranza attiva, attaccata ai suoi interessi e ai suoi pregiudizi, continua durante tutto il conflitto a rifiutare il diritto all’indipendenza e a non ammettere l’equivalenza delle culture che questo diritto implica. Equivalenza che, in una tappa decisiva del conflitto, è implicitamente riconosciuta e accettata, anche dalla potenza coloniale, quando, per sviare la lotta dai suoi obbiettivi, applica una politica demagogica di “promozione economica e sociale”, di “sviluppo culturale” basato nella personalità del popolo colonizzato, ricorrendo, sul piano politico, a nuove forme di dominio. Di fatto, se il neocolonialismo è innanzi tutto la continuazione del dominio economico imperialista mascherato da una direzione politica autoctona, è anche il riconoscimento tacito, da parte della potenza coloniale, del fatto che il popolo che essa domina e sfrutta ha la sua identità, la quale esige una direzione politica propria, per la soddisfazione di una necessità culturale. Va notato anche che, accettando l’esistenza di un’identità e di una cultura del popolo colonizzato e quindi il suo diritto inalienabile all’autodeterminazione e all’indipendenza, l’opinione

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metropolitana (o per lo meno una parte importante di questa opinione) riflette un progresso significativo di ordine culturale e si libera di un elemento negativo della sua cultura: il pregiudizio della supremazia della nazione colonizzatrice sulla nazione colonizzata. Questo progresso può avere conseguenze importanti, anche trascendenti, nella via e nell’evoluzione politica della potenza coloniale, come provano alcuni fatti della storia recente o anche attuale della lotta dei popoli contro la dominazione straniera. Alcune affinità genetico-somatiche e culturali tra i vari gruppi umani di uno o di diversi continenti, così come situazioni più o meno simili riguardo al dominio coloniale e/o razzista, hanno portato a formulare teorie e a creare “movimenti” basati sull’ipotesi dell’esistenza di culture razziali o continentali. L’importanza del ruolo della cultura nel movimento di liberazione, generalmente riconosciuta o presentita, ha contribuito a dare a questa ipotesi un certo pubblico. Senza voler minimizzare l’importanza che tali teorie o “movimenti” hanno avuto o hanno in quanto tentativi, di successo o meno, di ricerca di una identità come mezzo di contestazione dello straniero, possiamo affermare che un’analisi obbiettiva della realtà culturale porta a negare l’importanza di culture razziali o continentali. In primo luogo, perché la cultura, come la storia, è un fenomeno in espansione e intimamente legato alla realtà economica e sociale dell’ambiente, al livello delle forze produttive e al modo di produzione della società che l’ha creata. In secondo luogo, non meno importante, lo sviluppo della cultura prosegue in modo disuguale, al livello di un continente, di una “razza”, anche di una società. Difatti, le coordinate della cultura, come quelle di qualunque fenomeno che si sviluppa, variano nello spazio e nel tempo, sia che siano materiali (fisici) o umani (biologici e sociologici). Questo perché la cultura, creazione della società e sintesi degli equilibri e delle soluzioni che essa provoca per risolvere i conflitti che la caratterizzano in ogni fase della storia, è una realtà sociale indipendente dalla volontà degli uomini, dal colore della pelle, dalla forma degli occhi o dai limiti geografici. La valutazione corretta del ruolo della cultura nei movimenti di liberazione esige che siano considerati globalmente e nei suoi rapporti interni i fattori che la definiscono, che sia rifiutata l’ac-

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cettazione cieca dei valori culturali senza tenere in considerazione quello che possono avere di negativo, reazionario o regressivo. È da evitare qualunque confusione tra ciò che è espressione di una realtà storica e materiale e ciò che sembra essere una creazione spirituale, separata da questa realtà o il risultato di una natura specifica, così come che sia stabilita una connessione assurda tra creazioni artistiche, valide o no, e pretese caratteristiche psichiche e somatiche di una “razza”, così come qualsiasi valutazione critica, non scientifica o ascientifica, del fenomeno culturale. Queste condizioni sono ancor più necessarie affinché la cultura possa svolgere al meglio il ruolo che le compete nel movimento di liberazione avendo chiari gli obiettivi da esso definiti per la conquista dei diritti del popolo, che rappresenta e dirige, per avere accesso alla sua storia e per disporre liberamente delle sue forze produttive, avendo in vista l’ulteriore sviluppo di una cultura più ricca, popolare, nazionale, scientifica ed universale. La lotta di liberazione, che è la più complessa espressione del vigore culturale del popolo, della sua identità e della sua dignità, arricchisce la cultura e le apre nuove prospettive di sviluppo. Le manifestazioni culturali acquisiscono un nuovo contenuto e nuove forme di espressione, diventando un poderoso strumento di informazione e formazione politica, non solo nella lotta per l’indipendenza, ma anche nella battaglia di fondamentale importanza per il progresso.

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Dobbiamo ricordare che non basta produrre, avere la pancia piena, far buona politica e fare la guerra. Se l’uomo, la donna, un essere umano fa tutto questo senza progredire come essere intelligente, come primo essere della natura, senza lui stesso sentire che ogni giorno aumentano nella sua testa le conoscenze del suo ambiente e del mondo in generale, cioè, senza progredire sul piano culturale, tutto quello che fa – produrre, far buona politica, combattere – non dà alcun risultato. Nella nostra situazione concreta dobbiamo prestare una grande attenzione alla resistenza culturale. Il nostro partito fin dall’inizo, ha dedicato molta importanza a questo aspetto ed ha preso misure importanti a riguardo, a cominciare dal congresso di Cassacá, anche se in precedenza avevamo già dichiarato che per procedere nella nostra lotta bisognava fare resistenza culturale. Anzi, dobbiamo dire concretamente che la stessa condizione del nostro Partito, che ha pianificato e messo in atto la nostra lotta di liberazione nazionale, è un fatto di cultura. Si tratta di una chiara prova di resistenza culturale perché noi vogliamo essere noi stessi, africani della Guinea Bissau e di Capo Verde e non tugas2. La nostra cultura non è uguale a quella dei tugas, anche se la nostra cultura subisce oggi una certa influenza di quella dei tugas. Perciò tutti i nostri combattenti responsabili e militanti coscienti devono 1 Questo testo è la trascrizione dal creolo di un discorso pronunciato da Cabral in occasione del Seminario di Quadri del paigcv svoltosi dal 19 al 24 novembre 1969. 2 Tuga (da portuga = portoghese) è un termine dispregiativo per designare i portoghesi [N.d.C.].

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sapere chiaramente che la nostra lotta è anche resistenza culturale, se non il principale aspetto della nostra resistenza culturale – la lotta armata. Eliminazione della cultura coloniale e degli aspetti negativi della nostra cultura Dobbiamo lavorare molto per eliminare dalle nostre teste la cultura coloniale, compagni. Che lo vogliamo o no, nelle zone rurali o urbane, il colonialismo ha messo un sacco di cose nella nostra testa. E il nostro lavoro deve essere quello di togliere quello che non vale niente e lasciare quello che ha valore. Perché il colonialismo non ha molte cose buone. Dobbiamo essere capaci, quindi, di combattere la cultura coloniale e lasciare nella nostra testa quell’aspetto della cultura umana, scientifica che per caso i tugas hanno portato nella nostra terra e che è entrato anche nelle nostre teste. Concretamente: per esempio, io sono africano, poteva succedere che, come altri africani, io mi convincessi che affinché certe cose succedessero nella mia vita, fosse necessario che io soddisfacessi la volontà dell’iran3, e l’iran dicesse che quello che gli ho chiesto nella nostra conversazione, si può realizzare solo se io faccio offerta di una bambina di tre anni, perché bisogna fare un sacrificio e allora tutto quello che chiedo si potrà realizzare. Questa è una cosa che esiste ancora in Africa e se vediamo bene, esiste ancora gente che crede in queste cose nel nostro paese. Mi ricordo di un compagno chiamato Alfucene che abbiamo mandato a combattere nella regione del Gabu, ti ricordi Lúcio? Una volta mi venne a cercare per dirmi che l’iran in quella zona non voleva che lottassimo, a meno che suo figlio non fosse sacrificato. Io feci questa interpretazione: lui, originario del Gabu, cercava un modo per diventare capo e allora volle dimostrare che l’iran era interessato a suo figlio, per questo lui doveva essere il capo. Io gli dissi: compagno, se è così che lotteremo nella regione del Gabu, andiamo a cercare que3

Sacerdote tradizionale.

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sto iran fino a trovarlo perché questo è un iran dei tugas, sono stati loro a metterlo lì, non è della nostra terra. Ma poteva essere che io, come africano, avessi ancora queste cose nella mia testa. In questo stesso momento, mentre sto dicendo ciò, ci sono bambini in Africa che sono ammazzati per fare quello che dice l’iran. Io non ho mai pensato così. Sono cresciuto in Africa, ma ho imparato questo: la cosa più meravigliosa e più delicata del mondo sono i bambini. Ai bambini dobbiamo dare il meglio di quello che abbiamo. Dobbiamo educarli a crescere con spirito aperto, a capire le cose, ad essere buoni, buoni per poter evitare ogni spirito di cattiveria: perciò non dobbiamo mai far loro del male, ancor meno ucciderli. Perciò ho l’obbligo di difendere nella mia terra tutte quelle persone che difendono questo aspetto culturale. Ma io, come africano, ho avuto molti contatti con i portoghesi e avrei potuto mettermi in testa che sono figlio di gente civilizzata, sono civilizzato, sono stato a scuola, non ho mai vissuto nella foresta dove è tutto sporco, avevo una casa decente, anche se mia madre era povera. Potevo pensare che non avevo niente a che vedere con la gente della foresta, che quelli sono fratelli lontani e che io ero superiore. Questa è la mentalità coloniale, è copiare la mentalità dei tugas colonialisti. Dobbiamo combattere questo, nella mia testa e in quella di tutti. Vi ho dato degli esempi concreti, di quello che dobbiamo conservare nel contatto con altre realtà e di quello che dobbiamo eliminare del contatto con la nostra stessa realtà. Voi compagni avete già capito cosa è la resistenza culturale. La nostra resistenza culturale consiste in questo: mentre eliminiamo la cultura coloniale e gli aspetti negativi della nostra cultura dal nostro spirito, dal nostro ambiente, dobbiamo creare una cultura nuova basata anche sulle nostre tradizioni, ma rispettando tutto quello che il mondo ha conquistato oggi per servire l’uomo. C’è molta gente che pensa che l’Africa, per poter resistere culturalmente, deve fare sempre quelle stesse cose che faceva cinquecento o mille anni fa. Sì, l’Africa ha la sua cultura, certo, questa è la nostra opinione concreta. Alcuni aspetti di questa cultura sono eterni, non finiscono mai, possono trasformarsi sempre per

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la strada, ma non finiranno mai. Per esempio le nostre danze, il nostro ritmo proprio dell’Africa. Ma non bisogna pensare che il tamburo è solo dell’Africa o che certi modi di vestire sono solo dell’Africa, i gonnellini di paglia, le foglie di palma ecc., che nessuno pensi che mangiare con le mani sia una cosa solo africana. Sedersi a terra non è solo una cosa africana. Tutti i popoli del mondo lo hanno fatto e ce ne sono ancora, per esempio in Brasile che sono peggio di noi in questo, o in Indonesia, Polinesia o in Estremo Oriente. Molta gente pensa che per difendere la cultura dell’Africa, per resistere culturalmente in Africa dobbiamo difendere le cose negative della nostra cultura. No, noi non la pensiamo così. Pensiamo invece che la cultura è il prodotto del livello economico di un popolo. La nostra opinione è che mangiare con le mani, o persino cantare un certo tipo di canzoni, o danzare in un certo modo, dipendono dalla vita che fa il popolo, dal punto di vista della produzione, della produzione di ricchezza e di produrre cose per se stesso. Per questo le canzoni dei balanta sono diverse da quelle dei mandinga per esempio. Le canzoni dei balanta, analizzate in profondità, sono canzoni di chi vive nella pianura. Quando le paragoniamo con quelle europee vediamo che sono simili a quelle dell’Alentejo portoghese, lente e con il coro. Perché certi tipi di vita economica e certe geografie producono un certo tipo di canzoni. Le persone che vivono in montagna hanno un certo tipo di canzoni, chi vive nella foresta, solo, senza animali, ha un altro modo di danzare. Chi vive nel deserto, dove ci sono le giraffe e altre cose, ha ancora un altra danza. E questo è così in Africa come in Asia o in America. E a seconda della nostra economia e del nostro sviluppo economico c’è il nostro tipo di rapporto con la natura. Chi crede che la vacca è una divinità, la mette lì, in alto. Nella stessa danza la vacca è rappresentata come Dio. Ma per chi crede che Dio è nascosto nella foresta, la danza deve essere una danza di rispetto per la foresta, le canzoni portano una musica speciale e parole speciali, in rapporto a questo fattore. Questo si ripete dappertutto nel mondo dove c’è questa situazione economica che rende concreto il rapporto con la natura. Le danze sono di un certo tipo per

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chi ha ancora paura dei fulmini, delle piene dei fiumi, dei tuoni. Ci può essere qualche differenza, certo, ma sono tra esse simili. Chiaro che se paragoniamo le nostre danze con quelle dell’Europa vediamo che non si somigliano, quelle sono ultra moderne, ma se le paragoniamo con il folclore, cioè con le arti e i costumi di altri popoli dell’Europa orientale o ancor più dell’Asia, troviamo alcune danze molto simili alle nostre, compagni. Il nostro punto di vista è quindi che nella nostra cultura dobbiamo fare resistenza per conservare quello che di fatto è utile e costruttivo, ma nella certezza che quanto più andiamo avanti, più il nostro abbigliamento, il nostro modo di mangiare, di danzare, di cantare deve cambiare piano piano come la nostra testa, il nostro senso del rapporto con la natura e persino dei rapporti fra di noi. Paura della natura Per esempio: noi africani siamo in una situazione in cui abbiamo bisogno di sicurezza. Precisamente, di quello che si chiama sicurezza organica, che è tanto maggiore quanto maggiore è il numero delle persone che sono vicine a noi. Se io sono nella foresta, ho paura, ma se sto con altre persone è meglio. Ma questa sicurezza organica ha una contraddizione, il non aver fiducia in quelli che stanno intorno a noi. C’è tanta necessità di sicurezza che si ha sempre bisogno di qualcuno vicino a noi, ma siccome la sicurezza non è garantita, la necessità è così grande che si comincia a dubitare di quelli che stanno con noi. Allora succede questo nel nostro ambiente, anche con una persona di cui si ha fiducia. Ieri avevamo fiducia, ma quando questa persona arriva e ci dà la mano, non ci fidiamo di quella mano. Le si dà la mano, ma si diffida sempre. Ci sono addirittura quelli che dopo si vanno a lavare le mani per paura di qualcosa di cattivo. Si diffida anche degli occhi. E c’è tra di noi chi se ne approfitta per fissarci. Mi ricordo del nostro compagno L., forte, coraggioso, irascibile, alle volte capo della nostra casa, nel periodo di preparazione dei compagni. C’era un poveretto a Conakry che aveva la mania di essere uno stregone, e se la faceva con gli opportunisti di quel tempo. La

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verità è che non era una brava persona e L. aveva paura di lui, lo voleva solo picchiare. Una volta lui venne dalle parti della nostra casa, L. avanzò verso di lui facendolo arrabbiare... quello prese il suo corno e gli disse: ah! L. indietreggiò per paura di quel corno. Compagni, noi ora ci ridiamo, ma molti compagni che sono qui seduti hanno ancora paura di un corno. Oggi ridiamo e abbiamo paura, ma siamo certi che domani, nella nostra terra, i figli del nostro popolo in Guinea e a Capo Verde, dove c’è pure molta paura di queste cose, nell’interno (non pensiate che quando arrivano i ragazzini di São Vicente, con le loro fissazioni, o quelli di Praia, non pensiate che nell’interno di Capo Verde non abbiano paura dei mouros. Mia madre, una volta che mi ero ammalato, mi portò da uno stregone perché pensava che qualcuno mi avesse fatto male. Paura di leggere le carte, paura dei capelli. Fanno amuleti con i capelli per liberarsi dal male), dicevo che tanto in Guinea che a Capo Verde i figli del nostro popolo non avranno certo paura di un corno. Il corno è una cosa molto ricca di calcio e cresce sulla testa di certi animali, non dei compagni. Se vogliamo, ha un odore speciale, prodotto dalle proteine e da altri prodotti chimici di cui è fatto. Il corno non fa niente di male. Ma oggi posso urlare quanto voglio, nessuno mi ascolta, non mi credete. Per questo non farò lo sbaglio di lottare contro di voi. Vi dico solo di afferrare con forza la strada della lotta, di lavorare molto, perché i figli dei vostri figli non ci crederanno più a queste cose, se davvero faremo il nostro dovere verso il nostro popolo, nella maniera giusta. Perché gli svedesi, questi due che avete visto, anche i padri dei padri dei loro padri credevano nelle corna. E il modo di seppellire gli antichi svedesi nella loro terra era uguale al modo in cui seppelliamo oggi le persone qui. Il modo in cui seppellivano i re anticamente era uguale a come seppelliamo i nostri re: andavano nella fossa con tutte le loro cose, e a volte uccidevano la moglie per farla stare con loro nella stessa fossa. I Vichinghi, che sono gli antenati degli svedesi, non andavano in guerra senza amuleto. Una volta eravamo a Cuba, io e Osvaldo, e vedevamo un film di Vichinghi alla televisione: io ne avevo visti tantissimi di film di Vichinghi, Osvaldo ne stava vedendo uno la prima volta. All’improvviso comparvero i guerrieri

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e Osvaldo disse: “Compagno, guarda qui! Questi hanno un sacco di amuleti!” Chiaro, nessuno pensi che noi africani siamo migliori e che siccome abbiamo gli amuleti possiamo fare la guerra. I Vichinghi hanno usato un sacco di amuleti, i Franchi, compagni, gente dell’antica Francia, quando hanno combattuto contro Cesare di Roma, c’erano solo amuleti, ovunque. Gli antichi inglesi, gli Indiani d’America pure. In Cina Mao Tse Tung ha dovuto fare un gran lavoro per eliminare gli amuleti, fino ad oggi non c’è riuscito, la stregoneria non è finita in Cina. Ci sono gruppi etnici in Cina che fanno magie. Se leggete le opere dei vietnamiti, vedrete che anche lì c’è la magia. Uno dei grandi capi vietnamiti ha detto che loro hanno dovuto accettare gli amuleti del loro popolo per poterli portare alla lotta. Quelli si rapavano la testa, e anche noi ci rapavamo la testa prima di far qualcosa, facevamo cerimonie sapendo che era sbagliato, abbiamo solo messo qualcosa di razionale in tutto questo per evitare disgrazie. Nessuno pensi che queste cose esistono tra di noi perché siamo africani, che siamo meglio degli altri perché conosciamo amuleti che gli altri non conoscono. Lopé è una cosa che tutti hanno usato nel mondo e c’è chi lo usa ancora ovunque. I boubou, i vestiti come quelli dei ghanesi, si usavano simili a Roma. Guardate i film sui Romani, tutti i loro vestiti si chiamano toghe, ma erano vestiti come i nostri, nient’altro. Ma oggi ci sono persone che si vestono così, come se solo in Africa ci si vestisse in questo modo, come se solo in Africa esistessero. Si tratta di un riflesso dello stato economico, nient’altro. È bello, è nostro, ma non pensiamo che è solo nostro. Verrà il giorno in cui i figli dei vostri figli dimenticheranno tutto questo. Peccato che non vivremo abbastanza per vederlo. Come noi quando oggi vediamo le cose dei Vichinghi, pensiamo che erano pazzi, non capiamo che i Vichinghi vivevano la loro vita, di quel tempo. Non facevano un passo senza consultare prima lo stregone. Il re andava ovunque con lo stregone affianco. I romani prima di andare a combattere, anticamente, aprivano la pancia di una gallina per vedere se il momento era propizio per fare la guerra o no. C’erano persone chiamate àuguri che i capi consultavano per sapere se potevano o meno andare in guerra.

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Nell’antica Grecia, che è stata il centro della civiltà del mondo, c’erano delle streghe che vivevano sulle montagne, chiamate pitonisas, che venivano consultate per conoscere il destino delle guerre, delle persone ecc., e il popolo portava offerte, perché Dio era dentro di loro. È come il nostro “iran” di Cobiana, compagni. Ma questo succedeva in Grecia tremila anni fa. Quanto più in Egitto, nell’Antico Egitto, tutti i faraoni avevano i loro stregoni e Dio era un bue, il bue Apis, non si potevano toccare le mucche, come in India ancora oggi. In India non si mangiano le vacche, c’è gente che muore di fame davanti alle proprie vacche, perché non si possono uccidere, le vacche sono Dio. Si porta la vacca al fiume per farla lavare e tutti entrano in acqua con la vacca, per lavarsi nell’acqua di Dio. Sviluppare nuove idee Dobbiamo capire questo molto bene, per poter fare la nostra resistenza culturale, su quale base dobbiamo fare la nostra resistenza culturale. Dobbiamo ripulire la nostra terra dall’influenza nociva della cultura coloniale, compagni. E il primo atto di cultura che dobbiamo fare nella nostra terra è questo: unità del nostro popolo, necessità di lottare e sviluppare in ognuno di noi un’idea nuova che è il patriottismo, l’amore per la nostra terra. E dobbiamo dimostrare il valore che ha resistere al nemico, allo straniero nella nostra terra. Riunire le forze per non permettere che il nostro popolo, i figli della nostra terra siano schiacciati, umiliati da altra gente. Capire che noi, nella nostra terra, abbiamo gli stessi diritti di altre persone che vivono nella loro terra. Questo sarà un grande progresso per la nostra cultura se riusciamo a portarlo avanti e a farlo in poco tempo, la stessa guerra lo farà nella nostra terra. Oltre a questo, compagni, dobbiamo elevare lo spirito di ognuno di noi, soprattutto, nello spirito di ogni combattente, il valore dell’eroismo, essere capaci ed avere il coraggio di portare a compimento le parole del Partito. Se sarà necessario uccidere il nemico in una certa situazione, bisogna andare ed ucciderlo. Questo è cultura, compagni. Quando un uomo è capace di farlo,

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è un uomo colto. E nella misura in cui un gruppo di uomini, come quelli che sono qui, sono capaci di unirsi, come se fossero un solo uomo, questi sono molto colti. Vediamo un esempio: la nostra popolazione mandinga è molto rissosa, litiga molto, alcuni pensano di essere più importanti di altri, furti, discussioni; addirittura, si dice che quando i mandinga dicono una cosa stanno pensando esattamente il contrario. Ma di fronte ad un atto culturale, come per esempio pregare, loro sembrano un solo uomo. In un altro gruppo etnico, per esempio, davanti a un iran, non c’è niente da fare. Per esempio, se diciamo a un balanta o mandjiaco: “guarda che Bobô è un bravo ragazzo”, lui dice subito che siamo amici di Bobô e ripete la stessa cosa agli altri. Ma se diciamo che l’ha detto l’iran di Cobiana, anche se stanno in Unione Sovietica o da un’altra parte, basta che si dica che l’ha detto l’iran, tutti ci credono, mandinga, mancanha, papel, balanta, tutti. Vedete bene come di fronte ad una situazione culturale, un popolo è capace di unirsi, anche se il nostro popolo è stato sempre diviso. Per questo diciamo che quando siamo capaci di unirci per resistere al nostro nemico, stiamo facendo crescere la nostra cultura. Si tratta di una prova del fatto che abbiamo cultura e che dobbiamo essere capaci, come Partito, come organizzazione politica, di far aumentare ogni giorno di più nello spirito della nostra gente, in Guinea e a Capo Verde, questa idea concreta: solo il figlio del nostro popolo è patriota. E ancora in questa fase della lotta, quello che ha amore per il nostro Partito. Questa è la cultura della nostra terra oggi. Fondamentale per la nostra lotta oggi non è insegnare a leggere e a scrivere, per quanto sia necessario, ne abbiamo già parlato, ma fare il secondo passo, cioè capire bene quello che vuole il nostro partito, cosa vogliamo noi, quello che cerchiamo, quello che stiamo facendo, quale è la nostra lotta, dove andiamo. Questa è la cosa importante, compagni. Essere capaci di dare la propria vita. Chi oggi è capace di dare la sua vita senza chiedere niente, per il nostro Partito, questo è un uomo colto nella nostra terra. E di fronte a questa lotta possiamo paragonare diverse razze della Guinea per vedere quale è la più colta o quella che lo è

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meno. Alle volte compaiono come meno colte quelle che sanno più di certe cose. E qualsiasi Mané o N’Bana dell’interno, che ha fatto con fermezza il suo lavoro, è più colto di un Alvarenga o un qualsiasi altro molto istruito che ha continuato a stare dietro ai tugas, perché lui corrisponde a quella relazione dell’uomo nella società e dell’uomo in rapporto alla natura che serve l’interesse del suo popolo, per conquistare domani un livello di vita più alto. Questo è cultura, compagni. Capire la situazione concreta della propria terra per trasformarla nel senso del progresso. Dobbiamo incutere, mettere nello spirito di ognuno la certezza della nostra vittoria, fiducia nella vittoria. Anche questo è un atto culturale, compagni. Dare supporto a ognuno per non desistere mai, per non disperare di fronte a una sconfitta, perché non c’è nessuna lotta che non abbia sconfitte. Nella nostra lotta anche ci sono sconfitte, ma fa parte della lotta, per questo c’è la lotta. Ma dobbiamo ogni giorno elevare di più la fiducia nella vittoria, dobbiamo fare di tutto per far disperare il nemico, per far disperare gli agenti del nemico, per dimostrare che non c’è nulla da fare, il nemico perderà. Questo è cultura, compagni. E noi dobbiamo, partendo dall’amore per la nostra terra, e per il nostro popolo, partendo dall’amore per il nostro Partito, sviluppare le nostre danze, le nostre canzoni, le nostre musiche, fare teatri, addirittura acrobazie, imitazioni, ecc. Per esempio quando imitiamo i coloni, il signor Tizio e Caio, è molto importante. Dobbiamo sviluppare tutto questo, al servizio della nostra lotta, al servizio della nostra causa di oggi, con contenuto, cioè con parole e fatti nuovi. Questo è il grande valore, per esempio, delle canzoni che i balanta, i beafada, i mandinga e altri, il creolo, il mancagna, il papel ecc. o le mornas e le coladeiras che già si fanno sulla base della nostra lotta, portando alto il nostro Partito, il nome dei nostri combattenti coraggiosi, cantando le nostre armi, battaglie, attacchi contro gli aerei portoghesi ecc., mostrando il lungo cammino del nostro popolo in questa guerra. Questa è la nostra cultura, questo è quello che dobbiamo sviluppare oggi. Parallelamente, è chiaro che dobbiamo andare avanti per aprire la testa della nostra gente, riguardo alla letteratura, alla scienza

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ecc. perché noi sappiamo che non sono gli analfabeti che possono fare buona una terra. C’è bisogno di persone che leggano e scrivano. Tutti quelli che sanno leggere e scrivere devono insegnare a farlo a quelli che non lo sanno fare. Da molto tempo il nostro Partito ha lanciato questa parola d’ordine e da molto tempo il nostro Partito ha cominciato ad aprire scuole, a migliorare la preparazione dei professori, a formare quadri per poter avanzare nel cammino della conoscenza scientifica della vita e del mondo. Sviluppare una cultura scientifica e popolare Dobbiamo mettere la nostra nuova cultura al servizio della nostra resistenza, fuori e dentro la scuola e al servizio del programma del Partito. Così deve essere, compagni. La nostra cultura deve svilupparsi a livello nazionale, dalla nostra terra. Ma senza disprezzare né considerare meno la cultura degli altri, tutto quello che è buono per noi e che può essere adattato alle nostre condizioni di vita. La nostra cultura deve svilupparsi sulla base della scienza, deve essere scientifica, cioè non deve credere a cose immaginarie. La nostra cultura deve evitare che domani qualcuno di noi possa pensare che un fulmine è la prova che Dio si è arrabbiato, il tuono è la voce del cielo che parla o un iran arrabbiato. Nella nostra cultura tutti devono sapere domani, sebbene danziamo quando ci sono i tuoni, che i tuoni sono due nuvole che si scontrano, una carica di energia positiva e l’altra di elettricità negativa. E quando si scontrano fanno una scintilla che è il fulmine e un rumore che è appunto il tuono. Come quando si prendono due fili elettrici, positivo e negativo e si mettono vicini uno all’altro e c’è una scintilla. Questo è il fulmine in cielo provocato dall’elettricità delle nuvole. Il rumore è l’incontro di due nuvole che si chiama tuono. A tal punto è così che, tenendo considerando la velocità del suono, quando si sente un tuono si può fare un calcolo per sapere dove una nuvola si è scontrata con l’altra, perché la luce è più veloce del suono. Si vede il fulmine e dopo un po’ si sente il rumore

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del tuono. Tra il momento in cui si vede il fulmine e il momento in cui si sente il rumore, se si tratta per esempio di cinque secondi, possiamo calcolare dove è che le due nuvole si incontrano, a che distanza da noi, perché la velocità del suono nell’aria è di 340 metri al secondo. Perciò se nel momento in cui si vede il fulmine si contano i secondi, per esempio, si moltiplica 5 per 340 metri e si ottengono 1700 metri. Vuol dire che alla distanza di 1.700 metri da dove stiamo, due nuvole si sono scontrate e hanno provocato un tuono e un fulmine. Il raggio non è altro che una scintilla elettrica, che per condizioni speciali cade a terra e può arrivare con la forza sufficiente a distruggere qualcosa, come del resto accade dentro una casa se facciamo scatenare la corrente elettrica. Ma può venire con poca forza, entrare in qualsiasi posto, passare, scomparire. Può anche passare nel corpo umano e scomparire per terra perché anche la terra è carica di elettricità e siccome è una elettricità contraria, attrae la scintilla. È per questo che si mette un parafulmine sulle case, perché così il fulmine entra lì e passa direttamente per terra senza far male a nessuno. Compagni, dobbiamo basare la cultura sulla scienza. Dobbiamo togliere dalla nostra cultura tutto quello che c’è di antiscientifico, se non oggi, domani. Se lavoriamo bene oggi, avremo la certezza che questo sarà probabile domani. La nostra cultura deve essere popolare, cioè una cultura delle masse, tutti hanno diritto alla cultura. Inoltre dobbiamo rispettare quei valori culturali del nostro popolo che meritano di essere rispettati. La nostra cultura non può essere per una élite, per un gruppo di persone che sa molto, che conosce le cose. No. Tutti i figli della nostra terra, Guinea e Capo Verde, hanno il diritto di progredire culturalmente, di partecipare ai nostri atti culturali, di manifestare e creare cultura. Dobbiamo mettere ben chiaro nel nostro spirito la situazione comparativa tra città e campagna. Dobbiamo notare che nelle nostre città si sono sviluppati, giorno dopo giorno, modi di vita stranieri, alcuni buoni, altri meno. La nostra tendenza è seguire le cose peggiori: l’alcolismo, la prostituzione, il banditismo, le truffe, le rapine, e i ladri di un certo tipo... nelle zone rurali la

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vita è più pura anche se questo non vuol dire che non ci sia gente che rubi. Ma c’è una grande differenza tra un ladro di Bissau e un ladro balanta che ruba dappertutto. Il ladro balanta, normalmente ruba – forse ancora di più dopo l’arrivo dei colonialisti, ma lui ruba senza essere interessato a tenersi quello che ha rubato, quello che gli interessa è rubare. Per questo lui molte volte ruba una cosa, la passa ad un’altra persona e non ne sa più niente, perché il furto nei costumi dei balanta è una specie di sport, serve a mostrare capacità, intelligenza. Solo io ho questi occhiali, li conservo bene, ma uno di loro può pensare: devo giocare fino a quando riesco a prenderglieli senza che se ne accorga. Questa persona dimostra che ha una capacità superiore alla mia, la capacità di ingannarmi. Questo è il significato del furto balanta. È il rubare come esercizio intellettuale, come un esercizio di capacità fisica ed intellettuale, senza alcun interesse per quello che si ruba. Proprio per questo un giovane balanta, quando deve festeggiare il suo passaggio all’età adulta, può contare i furti realizzati, per mostrare il suo valore, la sua capacità e gli uomini grandi gli fanno i complimenti e se si tratta di un loro figlio sono contenti perché è una persona di qualità. I furti di città no. Il ladro di città ruba per far mangiare la sua gente o per arricchirsi. Oltre a quell’altro tipo di furto che nel commercio è per esempio legale, un furto legale. Dobbiamo paragonare le nostre zone rurali con la città, per evitare che tutte le impurità della città arrivino nelle zone interne e per fare in modo di portare nelle nostre città la purezza di lì. Ripeto che questo non vuol dire che non ci siano cose negative nelle zone rurali. Ce ne sono molte, sacrifici, il fatto che si picchiano i bambini. È terribile il modo come si picchiano i bambini nella nostra terra. Anche questo va combattuto. Non possiamo partire dall’idea che qui è tutto puro, che non c’è niente di male e che in città invece è tutto cattivo. No, tanto in città come nelle zone rurali ci sono cose cattive e cose buone, solo che, comparativamente, la città è meno pura dell’interno. E dobbiamo lavorare per far progredire le zone rurali ogni giorno dipiù, sul piano culturale e non solo.

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Sviluppo dell’idea di perfezione Dobbiamo sviluppare in tutto il nostro popolo, compagni, a partire da oggi, nei nostri combattenti, come nei nostri militanti e nella nostra popolazione, questa coscienza: quando un essere umano sta facendo un lavoro, deve farlo bene, in modo perfetto e il più rapidamente possibile e in modo semplice. Dobbiamo sviluppare nel nostro spirito e nello spirito della nostra gente l’idea di perfezione. Non abbiamo ancora sufficiente spirito di perfezione. Guardate quella tenda, non c’è un unico compagno che la vede e si alza per aggiustarla. Un chiodo che si mette su un muro, un vestito che si cuce, se non è ben fatto non è un problema per noi. Noi non abbiamo l’idea di perfezione. Dobbiamo combattere questo spirito, per incutere, invece, nella nostra gente l’idea di perfezione. Se facciamo un’imboscata la dobbiamo fare nel miglior modo possibile. Un compagno che è stato a prepararsi all’estero o che già sa più degli altri, sa come si fa un’imboscata: devi mettere l’arma da questa parte, l’altra qui, tanti uomini qui, tanti lì, tanti di riserva, in che punto attaccare il nemico. Quanti compagni lo fanno? Quando fanno bene i risultati sono straordinari, ma i compagni in generale neanche se ne ricordano. Tanto in una imboscata come in una riunione in cui devono parlare. In una riunione il compagno deve parlare, ma non prende neanche appunti, sta lì e inventa. Può valersi molto della discussione, ma deve studiare un poco, ricordare le cose. Oggi c’è una riunione in questo villaggio, bisogna sedersi e pensare ai problemi che ci sono lì, prendere gli appunti necessari. È un commissario politico, il Partito ha fiducia in lui, lui è il Partito in questo momento: come può parlare solo per parlare? Bisogna studiare, non vuol dire prepararsi un discorso intero, non vale la pena per la nostra gente nelle zone rurali. Alle volte però è necessario prender nota dei vari problemi, pensare ai problemi che si discuteranno. Questo è molto importante. Riunioni di responsabili, a cui tutti vogliono partecipare ma nessuno sa cosa dirà. O allora si fanno le riunioni così: vari responsabili si riuniscono al Nord o al Sud, per decidere cosa? Le parole d’ordine del Partito. Ci sono compagni che mi mandano relazioni di riunioni

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e quando vado a vedere cosa si è deciso sono cose che non hanno a che vedere con le parole d’ordine del Partito, e si capisce che non le hanno lette. E hanno deciso cose molto peggiori di quelle che c’erano già, come se non bastasse. Quando si fa una riunione di responsabili bisogna procedere così: in che misura abbiamo già messo in pratica le parole d’ordine del Partito? Si prendono appunti e si discute. O allora è sorto un problema nel comitato inter-regionale, si sono presi appunti solo per discutere. Perfezione nel nostro lavoro, è molto importante, lo è anche nel nostro modo di vestire. Quante volte io dico ai compagni di sistemarsi il colletto, di mettere la camicia dentro. Un popolo che sta lottando per la sua indipendenza e per la sua dignità, fin da oggi deve andare con i piedi puliti. Quando si cammina nel fango, pazienza, ma poi bisogna lavarsi i piedi. Vestiti puliti, se ce n’è solo uno, ci si spoglia, ci si mette un pezzo di stoffa alla vita, ci si lava e ci si riveste puliti. Pettinarsi i capelli, se non c’è un pettine, si faccia un pettine di legno se è necessario, se non lo si può comprare. Ma ci sono compagni che sembrano avere orgoglio nell’andare spettinati. Sembra una cosa che non ha importanza, ma invece ce l’ha. Per la nostra dignità, per aprire nuove strade, ha una grande importanza il modo come ci comportiamo. I portoghesi, prima, dicevano che noi eravamo molto sporchi, ma quando ci vestivamo bene ci chiamavano dottori, “negri che fanno i dottori”. Questa era la loro posizione. Ma noi non abbiamo questo complesso, noi siamo contro tutto quello che è sporco, siamo contro la sporcizia. A me colpisce per esempio come alcuni compagni riescono a coricarsi in un letto o per terra, per alcuni è la stessa cosa, per fortuna non per tutti. È la stessa cosa una stanza piena di spazzatura o pulita. Addirittura, compagni responsabili, non sono capaci di pulire, ma sono capaci di dare la loro vita per la loro terra. Non sono capaci di pulire in terra, di fare una spazzata, di pulire un cortile, incapaci di fare un piccolo giardino, quando, nonostante il molto lavoro, c’è tempo per farlo. Ci sono nostri compagni nella nostra terra che hanno fatto la loro base bella, ben sistemata e mai, pur essendo contro le basi, io non ho mai detto nulla perché ho visto lo sforzo, la voglia di

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sistemare. Quando un uomo o una donna vogliono dare la loro vita per una causa, devono essere puliti, in un ambiente pulito, e far sì che tutti quelli che lo circondano siano puliti. Perché così il suo spirito può essere ogni giorno più pulito. Dobbiamo avere la nozione del tempo, della nostra cultura e della nostra azione. Non siamo stati noi ad inventare l’orologio, ma dobbiamo avere la nozione del tempo, compagni. I nostri compagni, noi in generale, contrariamente al nostro popolo, che sa bene, molto bene cosa è il tempo, perché per esempio, sa che se non lavora la terra fino ad una determinata ora, muore di fame oppure che dopo tanti giorni dalle prime piogge bisogna seminare, altrimenti è un guaio. Tanti giorni dopo che cresce la pianta vicino a casa, il riso di vivaio, deve poi metterlo in un terreno limaccioso altrimenti non cresce. Un certo tempo dopo, può cominciare a piantare, non prima, perché c’è ancora sale... Molti dei nostri compagni oggi non hanno la minima nozione del tempo. Se bisogna svegliarsi alle cinque del mattino, si alzano alle nove, bisogna fare un’imboscata dopo le quattro del pomeriggio ma non compaiono, arrivano solo il giorno dopo e si rendono conto che i portoghesi già sono passati. Bisogna attaccare una caserma alle sei del pomeriggio, ma arrivano a notte fonda, se dovevano arrivare a mezzogiorno arrivano il pomeriggio e lo fanno il giorno dopo. Il giorno dopo è la stessa cosa. Quante volte i nostri comandanti hanno fallito attacchi o imboscate solo per una questione di ritardo. Alcuni ritardi sono giustificabili, perché le nostre condizioni sono difficili, ma in alcuni casi è solo una questione di mancanza di interesse, mancanza di coscienza, di ordine e di decisione. Alle volte si affida ad un compagno la missione di portare una lettera rapidamente. Per strada trova una scusa per divertirsi, si trattiene per tre o quattro giorni, un giorno deve arrivare a destinazione... Non va bene. Così non si vince la guerra e ancor meno si costruisce una terra. Dobbiamo avere la nozione di tempo. I compagni commissari politici, di sicurezza ecc., devono essere puntuali. Che nessuno mi venga a dire che non ha l’orologio. Non abbiamo bisogno di orologio per essere puntali. Possiamo decidere di incontrarci quando il sole è alto. Nella nostra terra c’è

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sole. Quando il gallo canta per la prima volta, bisogna svegliarsi. Non c’è bisogno dell’orologio per rispettare il tempo, compagni. L’orologio è un aiuto in più. Il nostro popolo ha vissuto secoli senza orologio, ma quello che ha potuto fare nelle condizioni economiche in cui si trovava l’ha fatto. Non è stato l’orologio che ha fatto progredire l’Europa. È stato il lavoro fatto puntualmente, e sono andati tanto avanti che hanno inventato l’orologio, l’orologio moderno, perché quello antico ce lo hanno tutti, basta mettere un’asticella nella terra, perché l’ombra diminuisce e le gira intorno e in base a dove c’è l’ombra si sa che ora è. È un orologio solare. L’ombra di una persona può essere un orologio, perché di mattina l’ombra sta da una parte e la sera da un’altra. A mezzogiorno, molta gente dice che a mezzogiorno si perde l’ombra perché rimane sotto i piedi, il sole è a picco sopra di noi. Dobbiamo lavorare molto, compagni, per approfittare del tempo. Dobbiamo cercare di essere pratici nel nostro lavoro, dobbiamo incutere nello spirito dei nostri compagni l’idea di ciò che è pratico. Bisogna smettere di complicare le cose. O allora perdere nel nostro spirito l’interpretazione magica della realtà, ciò vuol dire che abbiamo ancora da imparare, che se ci sediamo e discutiamo molto sull’argomento, e siamo tutti d’accordo, pensiamo che la cosa è già fatta, siamo contenti come se avessimo già fatto tutto e magari facciamo pure festa, perché la discussione è stata molto buona. Ma finisce la discussione, tutti se ne vanno contenti ma non cercano di metterla in pratica perché già sta nella loro testa. Ma se riflettiamo bene vediamo che questo corrisponde alla nostra vita, eravamo convinti che gli stregoni sono capaci di indicarci e farci cadere. Prima o poi vedremo che è falso, che non possono nulla. Ma questo sta nella nostra testa, lo pensiamo e ci crediamo. E tante altre cose. Per esempio pensiamo a una imboscata, siamo soddisfatti, ma non prendiamo nessuna misura politica perché vada a buon fine, senza errori perché nella nostra testa va tutto bene, perché nella nostra interpretazione magica della realtà ci crediamo. Dobbiamo combattere questo tra di noi, dobbiamo farlo tutti come alcuni compagni già fanno. Discutere ma passare alla pratica, senza errori perché la nostra disgrazia è cominciare e non

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finire. Quando cominciamo una cosa, si comincia con entusiasmo per esempio, facciamo un magazzino sotterraneo per conservare del materiale. Cominciamo con entusiasmo ma poi ci fermiamo e ce lo dimentichiamo. Vediamo l’Africa indipendente, quante cose cominciate e non finite. Perché per noi basta metterci una cosa in testa e basta così, è come se fosse fatta. Quante cose che abbiamo pianificato nella nostra lotta, sul piano politico, su quello militare, nell’educazione, la salute, non abbiamo fatto. Abbiamo cominciato, ma di fronte ad una difficoltà, non siamo più andati avanti. Dobbiamo combattere questa cosa, con gran forza. Possiamo fare l’esempio di molte cose cominciate che non sono state finite. I popoli che cominciano una cosa e non la finiscono, le organizzazioni che cominciano una cosa e non la finiscono... bisogna scegliere: o riconoscere che non valeva la pena farlo o allora non sono stati capaci di portarla a termine. Se si riconosce che non valeva la pena farlo, allora stanno facendo una cosa che non avrebbero dovuto fare, certamente hanno studiato male il problema. Prima di cominciare a fare una cosa, dobbiamo studiarla bene per sapere se vale o meno la pena e non cominciare a farla per poi abbandonarla. Questa è una perdita di energia, è uno spreco. O succede che non si può finire. Ma chi non può finire una cosa che ha cominciato a fare, è rovinato perché non può fare niente. Dobbiamo combattere questo, compagni. Dunque, perfezione, approfittare del tempo e avere senso pratico delle nostre realizzazioni fino alla fine di ogni cosa, ogni cosa che dobbiamo fare è molto importante compagni, fondamentale per la nostra cultura. Nuovi elementi per la nostra cultura, nella nostra terra. Perché anche se ci vuole una settimana intera per fare un’imboscata ben fatta, in un punto preciso della strada, dobbiamo farla, una settimana o un mese se è necessario. Dobbiamo organizzare le nostre truppe in modo che il gruppo stia sempre su quella strada, presidiando, cambiando... ma deve essere sempre così. Se sappiamo che il nemico deve passare da lì, non dobbiamo andar via, bisogna fare il lavoro fino alla fine. E non, come vi ho già detto, arrivare, fare un’imboscata, aspettare un’ora, due, tre, quattro ore ed arriva il nemico. C’è chi dice che viene, altri il contrario, e quindi si va via. Poi il nemico passa e va a rifornire

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la sua caserma. Nei fiumi la stessa cosa. L’ora dell’attacco deve essere quella stabilita, altrimenti a che serve? Un attacco è stato deciso per le cinque, ma passano le cinque, le sei e persino un altro giorno e dell’attacco niente. Perché i compagni giocano con la loro testa? Perché? Ci siamo decisi per le cinque perché siamo sicuri che deve essere alle cinque, se decidiamo alle dieci è perché siamo sicuri che deve essere alle dieci. Oltre a questo conoscendo il nemico come bisogna sempre conoscerlo, noi sappiamo quale è l’ora migliore per attaccarlo. Dobbiamo approfittarne al massimo. Costruzione di una vita nuova Dobbiamo essere capaci di fare una grande propaganda della nostra resistenza, anche questo è un atto di cultura. Con tutti i mezzi di cui disponiamo. È per questo che una delle maggiori vittorie del nostro Partito è Radio Libertação, il nostro giornale, la nostra stampa e la nostra informazione dentro e fuori la nostra terra. Tutti conosciamo la forza, il valore che ha la nostra emittente del Partito che fa propaganda per la nostra gente e noi dobbiamo essere capaci di migliorare ogni giorno, perché si tratta di un elemento essenziale, uno strumento essenziale per la nostra propaganda e per propagare la nostra resistenza. E nel quadro della nostra azione dobbiamo alzare ben alto contro l’analfabetismo nella nostra terra. Siamo contenti perché molti compagni hanno già migliorato le loro conoscenze in questa lotta. Molti uomini adulti della nostra lotta hanno imparato a leggere e scrivere e ancora di più i ragazzi. Oggi è difficile che ci sia un gruppo dove qualcuno non sappia leggere e scrivere, ma prima erano molti quelli che non sapevano leggere e scrivere. C’erano molti gruppi in cui quasi nessuno sapeva leggere e scrivere. Dobbiamo rafforzare ogni giorno l’apprendimento. Ci sono molti compagni che hanno il secondo grado, il primo, il secondo anno e dottori che possono passare intere giornate senza far nulla o riposando nelle ore libere, distesi o contando i passi, e non gli viene in mente di dire: compagni non sapete nulla, venite qui che vi aiuto ad imparare qualcosa di nuovo. O nel caso in cui sanno già qualcosa “venite qui che vi

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aiuto ad imparare ancora”. Ma i compagni non ci pensano, preferiscono contare i passi, passeggiare nella boscaglia, a Conakry, Zinguichor o a Dakar. Dobbiamo lavorare molto per costruire una nuova vita nella nostra terra, compagni. Dobbiamo per esempio, e il Partito già ha cominciato a farlo, inculcare nella nostra gente l’idea di pulizia ed igiene, come abbiamo detto. Il nostro popolo è pulito, gli piace lavarsi, lavarsi i denti sempre, ma non a tutti. Ci sono quelli a cui non piace molto e che magari si lavano ma poi vanno nel fango per qualche motivo. Dobbiamo lavorare per dimostrare al nostro popolo che la sua vita, il prolungamento della sua vita dipende molto dalla pulizia della sua casa. Se un popolo vive mischiato con la sporcizia ed altre cose, non va bene, perché questo va bene per far aumentare gli animali che fanno male agli uomini. Per le mosche e altri animali che portano molte malattie. Dobbiamo spiegare al nostro popolo le norme di igiene, questo è un aspetto importante della nostra resistenza culturale. Abbiamo cominciato con le brigate della salute, ma dove siamo arrivati? Poco lavoro in rapporto a quello che sarebbe necessario fare. Ma il commissario politico deve essere un agente di igiene, la sicurezza deve avere un agente di igiene, il comandante delle Forze Armate deve essere un agente di igiene. Ovunque arriva deve esigere che si pulisca. Ma anche a Boké, per esempio, o in una casa, i compagni responsabili che passano trovano tutto sporco e non dicono niente. Solo qualcuno si preoccupa della pulizia. Non può essere tutto così sporco, bisogna spazzare, pulire. Dobbiamo far crescere questa cosa nel nostro spirito, compagni, pulizia ed igiene. Ogni responsabile o militante di Partito deve essere un agente di igiene nella nostra terra. In qualunque posto si arriva bisogna esigere pulizia e come buon responsabile deve essere il primo a prendere la scopa se necessario, per pulire e mostrare agli altri che devono avere vergogna, che stanno lottando per la loro terra, che sta dando la sua vita per la nostra lotta, ma non è capace di vivere in mezzo alla sporcizia, perché nessuno si mette a pulire, perché pulire è abbassarsi di rango. Come è possibile indicare così al nostro popolo la strada per alzarsi, per uscire dalla sporcizia?

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Perché se vogliamo una risposta per la nostra lotta, se possiamo dire che la nostra lotta in Guinea Bissau e Capo Verde è perché domani non ci siano più poveri disgraziati, né porcheria e promiscuità intorno a noi. Quando la faremo finita saremo andati molto avanti nella nostra lotta. Siamo arrivati a dire ai compagni di chiedere alla nostra gente di fare le latrine, per esempio. Questo non significa che le latrine sono un segno di progresso, no, una latrina non lo è, un popolo che fa i suoi bisogni all’aria aperta può essere più progredito di uno che ha le latrine. Ma facendo le latrine si progredisce in altri campi, perché quando si allontana il posto dove si fanno i propri bisogni si evitano malattie per il nostro popolo. Sappiamo che ci sono posti che per poterci passare bisogna tapparsi il naso, altrimenti... Ma in altri paesi africani pure è così, anche nelle città ci sono posti dove per passarci bisogna tapparsi il naso. Sporcizia ovunque. Noi che siamo disposti a morire nella lotta, per il nostro progresso e la felicità del nostro popolo, dobbiamo essere capaci di pulire perché è più facile pulire che morire. Chiaro che nelle nostre scuole dobbiamo togliere tutto quello che hanno fatto i colonialisti, tutto quello che mostra la mentalità dei colonialisti. Cominciamo a farlo subito, pubblicando libri nuovi, parlando del nostro Partito, della nostra lotta, della nostra terra, del presente e del futuro del nostro popolo, dei diritti del nostro popolo. Ci sono compagni che pensano che per insegnare bene ai nostri bambini non bisogna parlare del nostro Partito! Che assurdità! La pedagogia che dice così non è una pedagogia. Per noi la pedagogia è quella che insegna ai bambini la nostra lotta, i diritti del nostro popolo, il Partito, l’inno del Partito, il valore del nostro Partito, oltre che l’abc, il gatto e la volpe, il lupo e Chibinho, ecc., la direzione del Partito deve essere presente, i dirigenti del Partito, la forza della nostra lotta, la forza del nostro popolo, la forza del nostro Partito, i doveri della nostra gente. Quando io andavo a scuola, si insegnava la nascita di Gesù Cristo, che la Vergine Maria aveva avuto un figlio rimanendo vergine, io le ripetevo queste cose e sembrava che ne capissi a quel tempo. Il miracolo dell’Ascensione nei libri adottati in quell’epoca, come i miracoli, delle rose e tutto il resto. Perché se allora si insegnavano i miracoli ai bambini, noi non possiamo insegnare il

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più grande miracolo alla nostra terra: uomini e donne che si sono riuniti per mobilitare il nostro popolo alla lotta, per finirla con la sofferenza, con la miseria, con la disgrazia, con gli schiaffi, i calci, il lavoro forzato. Chi non riesce a capirlo? Qualsiasi bambino lo capisce. E noi dobbiamo fare di ogni responsabile del Partito e di ogni militante del Partito che ha qualche conoscenza, un professore. Non solo i professori delle scuole hanno l’obbligo di insegnare, chiunque, un comandante, un membro della direzione del Partito, un commissario politico, quello della sicurezza, un infermiere, chiunque ha l’obbligo di insegnare, insegnare sempre parlando o chiarendo, spiegando, aiutando, compagni. Non dobbiamo lasciare il compito di insegnare solo ai professori. Dobbiamo approfittare di ogni discorso con un compagno – e i compagni che mi sono stati vicino, che mi conoscono bene, sanno che io faccio così nella vita – ogni discorso di un compagno, qualunque sia il suo livello, farne uno studio, una lezione. Qualcuno impara sempre. Ogni nostro discorso deve essere una lezione, così possiamo guadagnare tempo, possiamo progredire. Ma se noi ci sediamo per contare i passi del pelon di Mansoa, o di un altro posto, se pensiamo di imparare, perdiamo tempo e non andiamo avanti, compagni. Dobbiamo evitare il complesso di superiorità di quelli che sanno qualcosa e quello di inferiorità di quelli che sanno poco. Perché una persona che è capace di insegnare, non deve allontanarsi da nessuno, e ancora di più dal nostro popolo. Al contrario deve stare con il nostro popolo sempre di più. Io l’ho spiegato ai compagni per esempio che vanno a studiare e tornano. Fino ad adesso ci sono state due tendenze: una è quella di chi arriva, si infiltra tra la nostra gente, confondendosi così tanto con essa che fa soltanto gli errori della nostra gente. Altri tornano ingegneri e vogliono subito fare i dirigenti. Era Bobo Keita che comandava? Ma come, se Bobo non ha il mio livello, io sono ingegnere e lui a stento è andato a scuola, deve rimanere fuori, fa solo errori, ha intralciato il lavoro del nostro Partito, ha rovinato tutto. Sono due estremi che non vogliamo. Quello che noi vogliamo è che chi è andato a studiare ed ha acquisito più conoscenze deve rispettare i nostri dirigenti, perché loro sono i veri dirigenti, anche se non

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sono andati a scuola. Ma se ha visto qualche deficenza deve penetrare il più possibile tra i compagni e aiutare a migliorare ogni volta di più il livello delle cose. Questo si confà ad una persona che sa di più, che ha studiato di più e che ci viene ad aiutare. Mischiarsi, confondersi ma non dimenticare che bisogna aiutare ad alzarsi ogni giorno di più. Contro l’opportunismo nella cultura: il problema dell’insegnamento delle lingue Dobbiamo combattere ogni tipo di opportunismo, anche nella cultura. Per esempio, ci sono compagni che pensano che per insegnare nella nostra terra è fondamentale insegnare in creolo. Altri pensano che è meglio farlo in fulani, in mandinga o in balanta. Tutto ciò è molto bello da sentire, i balanta se lo sentissero rimarrebbero contenti ma adesso non è possibile. Come potremmo scrivere balanta oggi? Chi conosce la fonetica balanta? Ancora non la conosciamo, bisogna prima studiare, anche quella del creolo. Per esempio, io scrivo n’ca na bai, un altro può scrivere n’ka na bai. È la stessa cosa, ma non si può insegnare così. Per insegnare una lingua scritta bisogna avere un modo corretto di scriverla, perché tutti la possano scrivere nello stesso modo, altrimenti è una confusione enorme. Ma molti compagni, con senso opportunista, vogliono andare avanti con il creolo. Lo faremo, ma dopo averlo studiato bene. Adesso la nostra lingua per scrivere è il portoghese. Per questo qui bisogna parlare il creolo e il portoghese. Non siamo più figli della nostra terra se parliamo creolo, non è vero. Ma figlio della nostra terra è quello che mette in pratica le leggi del Partito, gli ordini del Partito per servire bene il nostro popolo. Nessuno deve sentirsi complessato perché non sa il balanta, il mandinga, il fula, il papel o il mancanha. Se le conosce è meglio, ma altrimenti deve fare in modo che gli altri lo capiscano, anche a gesti. Ma se sta lavorando bene nel partito, va avanti. Chi sa più mandjaco del traditore Joaquim Batican? Compagni chi sa più fulani del traditore Sene Sané, chi sa più “dotorindade” dei

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fulani del traditore Tcherno Rachid? Compagni, per piacere, ma chi conosce più balanta del traditore Fuab? Dobbiamo avere il coraggio di raccontare ai compagni le cose per bene. I nostri valori, certo, ma senza opportunismo. Dobbiamo avere un senso reale della nostra cultura. Il portoghese (lingua) è una delle cose migliori che ci hanno lasciato i portoghesi perché la lingua non prova niente, è solo uno strumento per far sì che le persone si relazionino tra loro, è uno strumento, un mezzo per parlare, per esprimere i rapporti della vita e del mondo. Così come l’uomo ha inventato la radio per parlare a distanza, senza parlare la lingua, solo con i segnali, l’uomo attraverso il tempo della sua evoluzione, ha cominciato a parlare, la necessità di comunicare lo ha fatto cominciare a parlare. Ha sviluppato le corde vocali fino a cominciare a parlare. E siccome la lingua dipende dall’ambiente dove si vive, ogni popolo ha creato la sua lingua. Se vediamo bene per esempio la gente che vive vicino al mare, ha in comune molte cose legate al mare, così per chi vive nel contesto rurale, la sua lingua ha molte cose legate alla foresta. Un popolo che vive nella foresta non sa dire “barca”, non sa cosa sia, non vive sul mare. Per esempio nella vita di certi popoli d’Europa, le cose del mare, le navigazioni si dicono come in portoghese, perché i portoghesi vivevano vicino al mare. Tutto ha una ragion d’essere. La lingua è lo strumento che l’uomo ha creato attraverso il lavoro e la lotta per comunicare con gli altri, e questo gli ha dato una nuova forza grande, perché nessuno è più rimasto chiuso in sé stesso, hanno cominciato a comunicare gli uni con gli altri, uomini con gli uomini, società con società, popolo con popolo, paese con paese, continente con continente! Che meraviglia! Il primo mezzo di comunicazione esistente, la lingua. Ma il mondo è andato molto avanti, noi non siamo andati avanti come il resto del mondo e la nostra lingua è rimasta al livello di quel mondo dove siamo arrivati, dove viviamo, mentre per un portoghese, per quanto colonialista, vivendo in Europa, la sua lingua si è evoluta molto più della nostra, potendo esprimere verità concrete, relative, per esempio la scienza. Per esempio noi diciamo così: la luna è un satellite della

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terra. Satellite naturale, ditelo in balanta, ditelo in mancanha. Ce ne vuole per dirlo, si può fare, ma si devono dire molte cose per far capire che un satellite è una cosa che gira intorno a un’altra. Mentre in portoghese basta una parola. Dicendo così, qualsiasi popolo del mondo capisce. E la matematica? Noi vogliamo imparare la matematica, vero? Per esempio, la radice quadrata di 36, come si dice radice quadrata in balanta? Bisogna dire la verità per capirci. Io dico per esempio: l’intensità della forza è uguale alla massa moltiplicata l’accelerazione di gravità. Come facciamo a dirlo? Come si dice accelerazione di gravità in una delle nostre lingue? In creolo non c’è, dobbiamo dirlo in portoghese. Ma per far andare avanti la nostra terra, tutti i suoi figli da qui a qualche anno deve sapere cosa è l’accelerazione di gravità. Ma non ve lo spiego adesso, perché non c’è tempo e abbiamo molto lavoro da fare. Ma compagni, domani per progredire davvero, non solo i dirigenti, ma tutti i bambini di sei anni dovranno sapere cosa è l’accelerazione di gravità. In Germania per esempio i bambini sanno queste cose. Ci sono molte cose che non possiamo dire nella nostra lingua, ma c’è chi vuole mettere da parte la lingua portoghese, perché noi siamo africani e non vogliamo la lingua dello straniero. Vogliono andare avanti loro, non far andare avanti il loro popolo. Noi, il Partito, se vogliamo portare avanti il nostro popolo, ancora per molto tempo, per scrivere, per farlo progredire nella scienza, dobbiamo scegliere il portoghese. E questo è un onore. È l’unica cosa di cui possiamo ringraziare i portoghesi, il fatto di averci lasciato la lingua dopo aver rubato tanto della nostra terra. Fino al giorno in cui, dopo aver studiato profondamente il creolo, dopo aver trovato tutte le regole buone per il creolo, potremo scrivere in creolo. Noi non proibiamo a nessuno di scrivere in creolo, se qualcuno vuole scrivere una lettera a Tchutchu in creolo può farlo, ma lui nella risposta che manderà scriverà diversamente, ma si farà capire. Ma per la scienza, il creolo ancora non serve. Anche il balanta. Mi ricordo di un nostro compagno, che purtroppo è morto, Ongo. Noi scrivevamo in portoghese, poi lo passavamo in creolo e lui lo scriveva in balanta. Perché è possibile scrivere in balanta, chi sa bene il portoghese può scrivere in balanta. Per esempio, si dice watna

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o n’calossa. Io so scriverlo, ma lo scrivo a modo mio, un altro lo scriverà in un altro. Anche djarama, in fulani, si può scrivere con la d e j o anche solo con la j, ma si legge djarama perché la j ad inizio di parola può avere valore di dj. Ma dobbiamo trovare una regola, come in mandinga o in altre lingue, bisogna trovare prima una regola. Così deve essere perché dobbiamo prendere il massimo dall’esperienza di altri popoli, non solo dalla nostra. Se vogliamo impiegare questa esperienza per usarla nella nostra terra, dobbiamo utilizzare le espressioni di altre lingue, ma se abbiamo una lingua che può spiegare tutte queste cose, usiamola, non c’è niente di male. Per noi è uguale usare il portoghese, il russo, il francese, l’inglese, basta che ci serva, così come per noi è uguale usare trattori russi, inglesi o americani basta che, una volta ottenuta l’indipendenza ci servano per lavorare la nostra terra. Perché la lingua è uno strumento e può succedere che abbiamo già una lingua che può andar bene e che tutti comprendono. Non ci metteremo tutti a imparare il russo, non ne vale la pena, visto che abbiamo una lingua, che è il creolo, simile al portoghese. Se nelle nostre scuole insegniamo ai nostri alunni come il creolo viene dal portoghese e dall’africano, tutti sapranno il portoghese molto più velocemente. Il creolo danneggia chi impara il portoghese, perché non sa quale è il legame che esiste tra il portoghese e il creolo, ma se si conosce il legame, se ne facilita l’apprendimento. Dobbiamo farla finita con l’indifferenza della nostra gente nei confronti della cultura, con la coscienza delle nostre decisioni, con la nostra determinazione nel fare le cose. Siamo già riusciti a combattere questo. E dobbiamo evitare che, siccome una cosa viene da fuori, non va bene e la rifiutiamo. Questa non è cultura, è una mania, un complesso di inferiorità, una stupidaggine. Dobbiamo sapere accettare le cose buone che vengono da fuori e rifiutare quello che non ci serve. Dobbiamo essere capaci di fare critica. E la nostra lotta se ci pensiamo bene, è stata, in una parte della nostra azione, l’applicazione costante del principio di assimilazione critica, cioè di approfittare degli altri, criticando però nel senso di scegliere quello che può essere positivo o meno per la nostra terra. Accumulare esperienza e creare.

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Questi sono alcuni degli aspetti della nostra resistenza sul piano culturale, di cui volevo parlare ai compagni.

I nomi

Alvarenga, cognome portoghese molto diffuso. Assimilado, soggetto colonizzato che aveva superato le prove di assimilazione previste dalla legislazione coloniale. Azevedo, Corsino P., poeta capoverdiano della prima metà del secolo xx, legato al gruppo della rivista Claridade. Balanta, Gruppo etnico presente in Guinea Bissau, Senegal e Gambia. Beafada, lingua del Senegambia, influenzata dalla lingua Mandinga. Boké, regione della Guinea confinante con Senegal e Guinea Bissau. Boubou, lunga tunica usata in tutta l’Africa Occidentale. Bull, Jaime Pinto, deputato del parlamento portoghese negli anni Sessanta, originario della Guinea Bissau. Brava, isola dell’arcipelago di Capo Verde. Cardoso, Pedro, scrittore capoverdiano della prima metà del xx secolo, esperto di folclore capoverdiano. CEI, Casa dos Estudantes do Império, istituzione voluta dal governo di Salazar con l’intento di riunire gli studenti arrivati dalle colonie. Certeza, rivista capoverdiana pubblicata nel 1944 e poco dopo sospesa dalla censura portoghese. Chibinho, protagonista di una favola capoverdiana intitolata Chibinho e il lupo. Claridade, rivista capoverdiana dove si avvia una riflessione sulla letteratura dell’arcipelago indipendente dal modello estetico della letteratura portoghese.

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Cobiana, lingua minoritaria parlata in Guinea Bissau. Coladeira, danza di coppia capoverdiana. CONCP, Conferenza delle Organizzazioni Nazionaliste delle Colonie Portoghesi, fondata nel 1961 a Casablanca. Congresso di Cassacá, primo congresso del paigcv. Davidson, Basil, storico britannico specialista della storia delle colonie portoghesi e della Rivoluzione dei Garofani. Djarama/jarama, grazie in lingua fulani. Escudo, moneta portoghese usata anche nelle colonie. Figuereido, Jaime, poeta e saggista capoverdiano, da molti considerato il fondatore della rivista Claridade. Fonseca, Aguinaldo, poeta capoverdiano che fece parte della cei. França, Arnaldo, scrittore capoverdiano, partecipò all’esperienza della rivista Certeza, tradusse i classici della letteratura portoghese in creolo. Gabo, regione della Guinea Bissau. Glisenti, Marcella, è stata una delle fondatrici dell’ipalmo (Istituto per relazioni tra Italia e i Paesi dell’Africa, America Latina e Medio Oriente), terzomondista, divulgatrice dell’opera di molti importanti pensatori extra-europei. Iran, nome con cui si designano gli stregoni in alcune zone della Guinea Bissau. Keita, Bobo, membro del paigcv. Leite, Januário, uno dei primi scrittori capoverdiani. Lopé, termine creolo che indica il tanga usato dagli uomini. Lopes, Baltassar, scrittore capoverdiano membro di Claridade, autore di Chiquinho, considerato il romanzo fondatore della letteratura capoverdiana. Lopes, José, uno dei primi scrittori capoverdiani. Lopes, Manuel, uno degli scrittori più importanti della letteratura capoverdiana, autore di Flagelados do vento leste sul tema dell’emigrazione capoverdiana. Mancagna, lingua minoritaria parlata in Guinea Bissau, Senegal e Gambia. Mandinga, o malinké, è uno dei gruppi etnici più importanti dell’Africa Occidentale. Mandjaco, popolazione della Guinea Bissau.

i nomi

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Mané, cognome della Guinea Bissau. Mansoa, regione della Guinea Bissau. Mensagem, bollettino della cei. Miranda, Nuno , scrittore capoverdiano vicino alla rivista Certeza. Mindelo, capitale dell’isola di São Vicente nell’arcipelago di Capo Verde. MLSTP, Movimento di Liberazione di São Tomé e Príncipe. Mondlane, Eduardo, leader del frelimo, Fronte di Liberazione del Mozambico, assassinato nel 1969. Morna, composizione musicale tipica di Capo Verde. Mouros, spiriti negativi. MPLA, Movimento Popolare per la liberazione dell’Angola. MUD, Movimento de União Democrática , è stato un movimento portoghese di opposizione al salazarismo. Musseque, nome con cui si designavano i quartieri di baracche della periferia urbana di Luanda, capitale dell’Angola. Neto, Agostinho, nazionalista angolano, poeta, primo presidente dell’Angola indipendente. Nunes, António, scrittore capoverdiano che trasferitosi a Lisbona fu vicino al movimento neorealista. O Brado Africano, pioniera rivista mozambicana, fondata dai fratelli Albasini negli anni venti, si batteva per maggiori diritti per la popolazione autoctona, ma non per l’indipendenza. Oio, regione della Guinea Bissau. PAI, Partito Africano per l’Indipendenza, da cui scaturì il paigcv. PAIGCV, Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e Capo Verde. Pajadinca, lingua minoritaria della Guinea Bissau. Papel, popolazione della Guinea Bissau. Radio Libertação, radio del paigcv che ebbe un ruolo importantissimo durante la lotta armata. Roça, piantagione di difficile accesso, tipica di São Tomé e Príncipe. Salazar, António de Oliveira, dittatore portoghese, fu primo ministro dal 1932 al 1968. Fondatore dello Estado Novo, che durò fino al 1974 quando ebbe luogo la Rivoluzione dei Garofani. São Nicolau, isola dell’arcipelago di Capo Verde.

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São Vicente, isola dell’arcipelago di Capo Verde. Sousa, Teixeira de, uno dei più rappresentativi scrittori della letteratura capoverdiana. Santos, Marcelino dos, storico nazionalista mozambicano, dirigente del frelimo. Tavares, Eugénio, poeta capoverdiano dei primi anni del secolo xx, autore dei testi di molte mornas. Tugas, termine dispregiativo con cui si designano i portoghesi o il Portogallo. Union of Democratic Control, Gruppo di pressione britannico che si occupava di politica estera, opponendosi all’influenza dei militari. Zinguichor, capitale della Casamansa regione del Senegal che confina con la Guinea Bissau e il Gambia.



Nella stessa collana

Frantz Fanon, La rivoluzione algerina e la liberazione dell’Africa. Scritti politici (1957-1960), edizione italiana a cura di Gabriele Proglio Melinda Cooper, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, a cura di Angela Balzano, Postfazione di Rosi Braidotti Miguel Mellino (a cura di), Fanon postcoloniale. I dannati della terra oggi Sandro Mezzadra, Maurizio Ricciardi (a cura di), Movimenti indisciplinati. Migraziomi, migranti e discipline scientifiche Fiorenzo Iuliano, Altri mondi, altre parole. Gayatri Chakravorty Spivak tra decostruzione e impegno militante Chandra Talpade Mohanty, Femminismo senza frontiere.Teorie, differenze, conflitti, Introduzione e cura di Raffaella Baritono Christian De Vito (a cura di), Global Labour history. La storia del lavoro al tempo della globalizzazione Frantz Fanon, Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale, Introduzione e cura di Roberto Beneduce Mauro Turrini (a cura di), Biocapitale. Vita e corpi nell’era del controllo biologico Gigi Roggero (a cura di), La testa del drago. Lavoro cognitivo ed economia della conoscenza in Cina

Finito di stampare nel mese di maggio 2019 per conto di ombre corte presso Sprint Service - Città di Castello (Perugia)