Magna Grecia. Una storia mediterranea 8829004332, 9788829004331

La Magna Grecia è parte della storia italiana e la sua vicenda in epoca preromana non si identifica strettamente con la

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Italian Pages 209 Year 2021

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Magna Grecia. Una storia mediterranea
 8829004332, 9788829004331

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Maurizio Giangiulio

Magna Grecia Una storia mediterranea

Carocci editore

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Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose - con­ clude -, ci si può spingere a cercare quel che c'è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile. I. Calvino, Palomar, Milano 1994, p. 57

1' edizione, febbraio >Oli ©copyright lOli by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Finito di stampare nel febbraio >Oli da Lineagrafica, Città di Castello (PG) ISBN

978-88-290-0433-1

Riproduzione vietata ai sensi di legge

(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n.

633)

Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

I.

2.



Introduzione

II

Alle origini: mobilità mediterranea

15

Dal Levante, da Cipro, dall' Eubea: una mobilità mediterranea intrecciata

15

Pitecusa e Cuma tra Mediterraneo e penisola italiana

20

La formazione

31

Un paesaggio dell' intreccio

31

Complessità coloniali

38

L'entroterra profondo (vn e VI secolo)

41

Prima e dopo Sibari

49

Città della costa ionica in guerra

49

Posidonia, Elea e il basso Tirreno

so

Sibari e i suoi alleati: interazioni culturali e forme di controllo

54

La fine di Sibari, e il dopo

Il tempo di Crotone

ss 61

8 4·



6.



8.

MAGNA GRE C I A

Trasformazioni: il v secolo

65

Un'epoca di fermento e di passaggio

65

Napoli, Cuma e i Campani

70

Crisi e democrazie : Taranto e Crotone

74

Un quadro nuovo: Atene e la Magna Grecia, la Magna Grecia e Atene

79

I Lucani e i Brettii

89

La formazione del mondo lucano

89

I Brettii dalla subalternità al protagonismo

96

Il politico, il sacro

IO l

Tiranni, genti italiche, "condottieri"

IO?

Alle prese con Dionisio I

IO?

La grande Taranto di Archita

I09

L'età dei "condottieri"

III

Pirro i n Magna Grecia e Sicilia

II?

Quadri ambientali, economie, società

Ili

Geografia, ecologia e storia

Ili

Sfruttare la terra

128

Società coloniali

I3 5

I Greci e gli "altri" ?

I 43

Un' immagine degli Enotri nel mito

I43

Tra Crotone e Sibari: lo spazio di Filottete

I 45

INDICE



9

Incontri culturali fra terra e mare : Palinuro e Poli te a Temesa

1-48

Culture politiche

153

Identità coloniali

153

Comunità cittadine in costruzione : le città dei Mille

157

Élite riformate : Pitagora e il pitagorismo

162.

Locri: la città dell ' "esattezza"

166

Cartine

17 1

Bibliografia

175

Indice dei nomi e dei luoghi

2.01

Introduzione

Il libro è una presentazione della Magna Grecia in una prospettiva me­ diterranea. Non si tratta di un profilo esclusivamente concentrato sulle aree di colonizzazione greca e l'attenzione è rivolta all ' Italia meridiona­ le preromana più in generale. Non si privilegia la storia politica e non si fa dello scontro tra Greci e genti italiche la chiave interpretativa di una vicenda secolare estremamente complessa. L'enfasi è posta invece sulla mobilità mediterranea per mare e per terra, sui fenomeni di interazione culturale tra società diverse, sulle iden­ tità multiple e sulle situazioni di mistione e osmosi. L'arco cronologico prescelto va da quella che è stata definita "l 'alba della Magna Grecia" nell ' viii secolo a.C. alla sconfitta di Pirro da parte di Roma e alle sue immediate conseguenze. La trattazione, che si rivolge agli studenti e al lettare colto, ha carat­ tere introduttivo e cerca di prescindere da dettagli e tecnicismi, mirando a mettere in luce i problemi principali della ricerca e le interpretazioni più accreditate. Non si è voluto riproporre conoscenze invalse traman­ datesi per inerzia, né aspirare alla perfetta sintesi di quanto è noto. Vi è invece particolare bisogno - sembra a chi scrive - di mettere a fuoco i problemi cruciali di una vicenda storica in sé complicata, che non è sem­ plicemente "coloniale" e ha un significato per la storia dell' Italia antica. Problematizzare non significa tuttavia trovare soluzioni, non è questo il compito che ci si è proposti. Basterà forse aver argomentato, tracciato i percorsi della ricerca odierna più accreditati e, in qualche caso, tentato di guardare sotto la superficie delle cose. Si comprenderà che la scelta dei pro hlemi e dei punti di vista non può essere stata che soggettiva. Se lo sia stata troppo giudicheranno i lettori. È il caso di avvertire che in questo libro non si troveranno estenuanti dis c ussioni delle cosiddette fonti scritte. Non solo perché esse eviden­ tem ente appartengono ad altre sedi, ma soprattutto perché il quadro

I2

MAGNA GRE CIA

dei problemi veramente importanti dal punto di vista storico non può essere definito dalla prospettiva degli autori antichi che hanno trattato di eventi e temi magnogreci. Assumono invece un ruolo importante in queste pagine l'archeologia e le scienze sociali. La lunga tradizione novecentesca di ricerca archeologica sulla Ma­ gna Grecia e di confronto con la riflessione storica è una delle imprese intellettuali più importanti dell' antichistica italiana, ma anche della vita culturale del paese. Di recente, tra l'altro, l'archeologia magnogreca ha conosciuto una stagione di grande fioritura, legata all'attività di mol­ ti giovani e di alcuni amici e maestri, tra i quali piace menzionare qui Angelo Bottini, Luca Cerchiai, Teresa Elena Cinquantaquattro, Bruno D'Agostino, Francesco D 'Andria, Miche! Gras, Emanuele Greco, Piero Guzzo, Dieter Mertens, Angela Pontrandolfo, Massimo Osanna, Carlo Rescigno, Mario Torelli e Fausto Zevi. Non si è certo inteso improvvisar­ si esperti di una disciplina che non è quella di chi scrive, ma l'attenzione portata alle acquisizioni, anche problematiche e talora discutibili, della ricerca archeologica intende testimoniare l' importanza cruciale che essa riveste per la comprensione della storia magnogreca. In definitiva, il volume vorrebbe offrire una visione della Magna Gre­ cia innovativa e plurale, attenta alle interazioni e agli intrecci a tutti i livelli, e impegnata a riconoscere dinamiche e processi. Una visione non condizionata dall'angolo visuale delle fonti classiche, né da interpreta­ zioni antiche e moderne in chiave di contrapposizioni e troppo facili distinzioni etniche e identitarie. I nove capitoli del testo appartengono idealmente a due parti. Nella prima ( CAPP. I -6) l'attenzione si concentra sullo svolgimento dei princi­ pali processi storici. Non vi si troverà peraltro una storia evenemenziale, se non nella misura in cui è sembrato inevitabile, mentre si è fatto posto a una trattazione delle interazioni sociali e culturali nei territori interni posti "alle spalle" delle città coloniali e inoltre un capitolo è riservato alla formazione delle strutture territoriali, sociali e politiche di Lucani e Brettii ( CAP. s). Nell'ordine, si discute prima della mobilità mediter­ ranea alle origini della Magna Grecia ( CAP. I ) , poi dei cruciali processi di formazione e definizione del quadro regionale ( CAP. 2), quindi del­ le vicende del VI secolo e del ruolo di Sibari ( CAP. 3); i mutamenti che contraddistinguono quell'epoca di passaggio e ridefinizione che fu il v secolo sono oggetto del CAP. 4, mentre la vicenda storica magnogreca nei secoli IV e I I I fino a Pirro e ai Romani viene delineata nel CAP. 6. I capitoli finali, che hanno un taglio attento ad alcuni aspetti struttu-

INT RODUZIONE

13

rali particolarmente significativi, discutono di quadri ambientali, econo­ m ie e società (CAP. 7 ) , dei Greci e degli "altri" nel mito e nell'immagina­ ri o ( CAP. 8) e di identità coloniali, istituzioni e culture politiche (CAP. 9 ). Al termine della trattazione sono forniti i n breve i riferimenti indi­ sp ensabili agli studi e alla documentazione che le pagine del testo pre­ suppongono ; la selezione e la sinteticità sono volute. I riferimenti biblio­ grafici degli studi citati chiudono il volume. Queste pagine sono state scritte in momenti non semplici, nella ana­ cronistica convinzione che l 'attività intellettuale non sia inutile. Sono dedicate come sempre alla mia famiglia, e inoltre all 'amico e maestro Mario Lombardo.

I

Alle ori gini : mobilità mediterranea

Dal Levante, da Cipro, dall'Eubea : una mobilità mediterranea intrecciata Da alcuni decenni ha avuto luogo nelle scienze umane un vero e proprio mutamento di paradigma, fondato sulla nozione di "mobilità''. Ne è sta­ to investito soprattutto il Mediterraneo. Di particolare rilievo è il modello interpretativo della "connettività" (Horden, Purcell, 2.000 ) , un termine che fa riferimento alle potenzialità di connessione proprie delle parti di un sistema: in questo caso l ' insieme dei microambienti locali tipici dell'ecologia mediterranea. Saremmo di fronte a un dato strutturale, costitutivo della geografia dello spazio me­ diterraneo. E in questa prospettiva i movimenti, gli scambi, le forme di redistribuzione delle risorse e del capitale umano sarebbero una conse­ g uenza della necessità di superare la frammentazione delle microecolo­ gie. Bisogna riconoscere che in questo quadro molto resta ancora da fare per ricostruire la mobilità connettiva superando i silenzi dei testi lette­ rari e le difficoltà a "processare" i dati archeologici. Un notevole seguito ha avuto anche una prospettiva in parte analoga, che soprattutto con le suggestive ricerche di Irad Malkin ( 2.oii ) ha fatto del Mediterraneo un' immensa rete (network). Anche in questo caso, come in quello del­ la connettività, le premesse teoriche del modello implicano che i punti della rete abbiano la tendenza intrinseca a saldarsi tra loro. E anche in questo caso quali siano i punti che si uniscono, quali i nodi e quali le reti non si può dare per scontato e va discusso caso per caso sulla base della documentazione. O ggi trova ampio consenso l ' idea che le origini della Magna Gre­ cia vadano in ultima analisi ricondotte alla mobilità mediterranea dei primi secoli dopo il Mille. Dopo la fine delle civiltà palaziali dell' Età del bronzo la mobilità marittima, sia nelle acque egee e orientali sia nel

MAGNA GRE C I A

Mediterraneo centro-occidentale, non si estinse del tutto e un impor­ tante ruolo di tramite tra il Levante, la Grecia e l ' Occidente, in partico­ lare la Sardegna, fu svolto da Cipro. Ma con il x e il IX secolo i circuiti di mobilità marittima e le reti di acquisizione e scambio a larga scala si intensificarono e si estesero, toccando ancora la Sardegna e arrivando all 'estremo Ovest iberico al di là di Gibilterra. Con l 'vm secolo a quei circuiti si legarono fenomeni di spostamento e insediamento di gruppi umani. Furono le cosiddette "colonizzazioni� la fenicia e la greca, che avrebbero segnato la storia successiva. La mobilità di questo lungo periodo ha oggi una fisionomia in parte diversa da quella che le si riconosceva qualche decennio fa, perché biso­ gna tener conto di novità di grande rilievo. Per quanto riguarda l' Egeo e il Mediterraneo orientale, nel x e IX secolo si conferma il quadro di una rete di circolazione, contatti e scambi che coinvolgeva la costa del Levante e vari ambienti della Siria, della Fenicia e della Palestina, Cipro, l ' Egeo meridionale e centrale, da Creta alle Cicladi, all' Eubea stessa. E diventa sempre più chiaro che ne erano protagonisti insieme Levantini, Fenici, Ciprioti e, in misura col tempo crescente, isolani dell 'Egeo ed Eubei. Si trattava di una mobilità che intrecciava merci e presenze sulle navi, provenienze e destinazioni, esperienze, tecniche, pratiche sociali e certamente conoscenze linguistiche. Tuttavia, anche quando si sviluppa Al Mina, forse intorno alla fine del IX secolo, un sito importantissimo presso la foce del fiume Oronte, dove la presenza di ceramica euboica di­ venne rilevante, lo scenario restava quello disegnato dalle attività fenicie, che coinvolgevano l'area costiera nord-siriana e si proiettavano verso la Cilicia e l'Anatolia interna, verso Cipro, Rodi, Cos e l' Egeo meridiona­ le, in particolare Creta ( Kommos ) . I Fenici non erano assenti nemmeno dall 'Egeo settentrionale, ma oggi sono ormai molte le testimonianze di un coinvolgimento diretto degli Eubei in una vasta area egea che andava dalla penisola calcidica alla Macedonia. Già nel IX secolo la diffusione della ceramica euboica e la presenza di imitazioni locali evidenziano la trasmissione di tradizioni artigianali, né mancano influenze euboiche nelle pratiche cultuali; con la prima metà dell'vm secolo si trovano nu­ merose testimonianze dell'uso dell'alfabeto euboico. Siamo di fronte non a sporadiche frequentazioni, ma a forme di presenza e inserimento nelle società locali che hanno in tutta evidenza alle spalle una mobilità intensa e continua nel tempo, riferita a numerosi ambienti locali diversi e quindi certamente non irrisoria dal punto di vista numerico. Il cen­ tro propulsore doveva essere l' euboica Lefkandi, una delle comunità più

ALLE

ORIGINI: MOBILITA MEDITERRANEA

17

avan zate di tutta la Grecia; più tardi, con l'VIII secolo, un importante ru olo della vicina polis di Eretria è testimoniato dalla documentazione e pig rafica. Dal punto di vista storico, è molto significativo il quadro del di n amismo euboico che ne risulta, esteso in forme diverse dall' Egeo set­ tentrionale al Mediterraneo orientale. Ne sono aspetti cruciali l 'estrema disponibilità al movimento, l 'eccezionale apertura ad ambienti e a cultu­ re diversi, l 'evidente multilinguismo, l'attenzione a risorse cruciali come i metalli e il legname, infine l'uso precoce, già intorno alnof76o a.C., della scrittura nella vita sociale. È sorprendente che questi stessi aspetti cruciali appartengano anche all'esperienza degli Eubei nel Mediterraneo centro-occidentale. Un dato, questo, di cui sinora le ricostruzioni delle attività occidentali degli Eubei non hanno tenuto conto a sufficienza. Che la storia degli Eubei in Occidente non sia cominciata con Pite­ cusa è stato giustamente osservato da tempo (Gras, 1 9 85, p. 7 06). O ggi sappiamo molto di più, vale a dire che l'Occidente frequentato da Eubei e Levantini sempre più intensamente a partire dallo scorcio del IX secolo comprendeva non solo l ' Italia meridionale e la Sicilia, ma anche l'area etrusco -laziale, la Sardegna, la costa della Tunisia e Cartagine, l'area ibe­ rica al di là dello Stretto di Gibilterra. Sappiamo anche che i navigatori venuti dal Mediterraneo orientale non entravano in uno spazio vuoto, ma si inserivano in circuiti di mobilità sul mare attivi da molto tempo, nei quali la marineria sarda aveva un ruolo di rilievo. Ed emerge sempre meglio quanto anche le reti occidentali fossero estremamente comples­ se e intrecciate, multietniche e multiculturali. Quella che sarebbe stata nell 'VIII e nel VII secolo la colonizzazione euboica aveva alle spalle tutto questo. I dati nuovi da pochi anni disponibili che hanno modificato profon­ damente il quadro della mobilità marittima del Mediterraneo centro­ oc cidentale sono offerti dall'indagine archeologica nell'area iberi­ ca atlantica e in Sardegna. li sito iberico più rappresentativo, ma non l 'unico, è Huelva, alla foce del Rio Tinto a poca distanza da Cadice, nel cuore di un distretto metallifero straordinariamente ricco. La do­ cumentazione, che copre un arco di tempo dalla seconda metà del IX se colo al 770/760 circa, rivela cospicue attività transmarine e presenze dei Fenici, ma anche una precoce presenza di elementi stanziali sardi, che evidentemente partecipavano direttamente a quelle attività; la cera­ mica euboica è scarsa, ed è probabile che facesse parte dei carichi misti delle navi fenicie. In Sardegna i dati che hanno rinnovato le prospettive della ricerca vengono da molti diversi contesti locali, ma soprattutto dal

MAGNA GRECIA

villaggio nuragico costiero di Sant ' Imbenia, una quindicina di chilome­ tri a nord-ovest di Alghero, che si rivela un ambiente misto, in cui nel contesto culturale locale si inseriscono importazioni orientali (anfore da trasporto, ceramica, oggetti "esotici" di lusso) ed euboiche (ceramica fine), la produzione ceramica locale viene influenzata dalle tecniche e dalle forme di quelle importate, ed erano certamente insediati artigiani, metallurghi, marinai e "agenti commerciali" fenici. In Sardegna, come nell' Iberia atlantica, presenze e attività di elementi orientali e sardi si intrecciavano, come mostra emblematicamente un' iscrizione fenicia su un frammento di un'anfora da trasporto trovata a Huelva ma prodotta a Sant' Imbenia. E un intreccio sostanzialmente analogo appare testimo­ niato dai rinvenimenti di materiali sardi a Cartagine, la cui fondazione ormai risulta da collocare in una data alta, nei primi decenni dell'vm secolo, non troppo lontano da una celebre quanto discussa data fornita dalla storiografia greca ( 8 14 a.C.). Nel quadro complessivo che ormai risulta acclarato la potente proie­ zione occidentale fenicia si inserisce in circuiti da secoli attivati e "gestiti" dalla marineria sarda. L'estensione all'Andalusia atlantica, a Cartagine e alla Sardegna stessa di cui i Fenici furono i protagonisti fu accompagnata sulla terra e sul mare da elementi sardi. Con l'vm secolo i Fenici, ormai già insediati in Andalusia e a Cartagine, ripresero anche i percorsi marit­ timi che dalla costa orientale della Sardegna e della Corsica le navi sarde da tempo percorrevano verso la valle del Tevere, le colline metallifere toscane e l' isola d' Elba. Si può dire che quasi tutto, in questo Mediterraneo "indaffarato� ruotava intorno alle risorse primarie e alle tecnologie metallurgiche. Tra le prime c 'erano anche il legname, la pece e le resine, ma di eccezionale importanza erano i metalli e la sfera della metallurgia. È assolutamente significativo che Huelva e il Rio Tinto, il fiume colorato di rosso dal fer­ ro e dal rame, fossero nel cuore del distretto metallifero più importante di tutto il Mediterraneo. Lo stesso, in proporzioni diverse, vale anche per il piccolo villaggio nuragico di Sant' Imbenia. Posto in un crocevia della navigazione in cui si incrociavano le rotte per l'estremo Ovest, per il Sud della Sardegna, la Sicilia e Cartagine, oltre che per il Tirreno, rap­ presentava lo sbocco al mare di un entroterra particolarmente ricco di ferro, rame, piombo e argento. Si discute in qual misura gli Eubei partecipassero all'acquisizione del­ le risorse e più in generale alle reti di scambio del Mediterraneo centro­ occidentale. Il loro ruolo sicuramente acquista pieno rilievo con l'viii

ALLE

ORIGINI: MOBILITÀ MEDITERRANEA

19

s ecolo nelle forme concomitanti e intrecciate della compartecipazione alle attività fenicie e delle iniziative in proprio. Le prove che gli Eubei erano pienamente coinvolti nella circolazione marittima anche prima di stabilirsi sull 'isola d ' Ischia non mancano. Vale la pena di ricordare l 'e­ no rme rilievo che ha non solo da questo punto di vista una breve iscrizio­ ne composta di cinque lettere dell 'alfabeto greco graffita su una piccola fiaschetta d' impasto rinvenuta in una sepoltura della necropoli laziale di Osteria dell ' Osa, nei pressi della latina Gabii. La datazione, basata su dati archeologici certi, non è posteriore al 770 a.C., e potrebbe essere anteriore di alcuni decenni se fosse assodata la cosiddetta "cronologia altà ' dell' Età del ferro, che è molto controversa ma non ancora defini­ tivamente rigettata. n testo dell' iscrizione è enigmatico, e potrebbe, ma è improbabile, essere non greco, ma paleolatino. In ogni caso, i dati sto­ ricamente salienti sono assodati. n primo è la diffusione in ambito me­ diotirrenico dell'alfabeto greco in un'epoca nella quale esso non risulta in uso in nessun altro ambiente. n fenomeno dev 'essere evidentemente ricondotto in modo più o meno diretto a presenze di Eubei nel Tirreno. Il secondo dato è rappresentato dalla tipologia dell'alfabeto utilizzato, che rimanda senza dubbio a quello dell' euboica Eretria, come tra l'altro nel caso della celeberrima iscrizione della "coppa di Nestore" da Pitecu­ sa. Ne viene una significativa conferma della pertinenza dei brandelli di memoria coloniale che le fonti letterarie preservano quando assegnano Pitecusa a iniziativa eretriese e calcidese. Presenze euboiche devono essere anche riconosciute a Cartagine e sulla costa tunisina. A Cartagine, che alle origini era una sorta di porto di scambio multietnico e multiculturale, vi è ceramica euboica di pieno VIII secolo che trova riscontro in quella di Pitecusa e che deve la sua presenza alla partecipazione degli Eubei ai circuiti della mobilità fenicia sul mare. Mentre sulla costa tunisina, poco a nord di Cartagine, una serie di toponimi quali Eubea, isole Nassie e proprio Pitecusa, deve risalire a epoca precedente il consolidamento politico e territoriale della colonia fenicia e spiegarsi con la frequentazione euboica dell'area. Da lì a poco gli Eubei avrebbero fatto seguire alla lunga fase di in­ trecci profondi con la mobilità levantina e sarda in tutto il Tirreno e n el Sud del Mediterraneo l' insediamento a Pitecusa e l'avvio di una se­ rie di fondazioni coloniali, da Cuma all 'area dello Stretto e alla Sicilia orientale. Oggi sappiamo che anche i Fenici fecero qualcosa di simile. Le fondazioni di insediamenti stabili, in più di un caso in grande stile, da Cartagine alla Sardegna e all 'Andalusia atlantica, ormai è pressoché

20

MAGNA GRECIA

sicuro vadano poste nella prima metà dell'viii secolo nella cronologia corrente. E a Pitecusa il primo insediamento euboico può essere ragio­ nevolmente collocato al 760 circa, o anche poco prima. Come si vede, si potrebbe dire che l' inizio delle "colonizzazioni" fenicia ed euboica in Occidente sia pressoché concomitante. Sarebbe ingenuo chiedersi chi avesse imparato da chi, e comunque non c 'è ragione di pensare che Pi­ tecusa sia stata un esempio p er la colonizzazione fenicia, come pure si è pensato ( Lane Fox, 2008). È chiaro che non solo le tecniche di "fonda­ zione" di un insediamento stabile destinato a diventare una città, ma an­ che quelle legate al controllo di ampie dimensioni territoriali facevano parte, pur con tutte le differenze, di un patrimonio di idee e di pratiche che accomunava Fenici ed Eu bei, come li aveva accomunati già da molto tempo l 'attività sul mare. A tale patrimonio fecero ricorso gli uni e gli altri, quasi contemporaneamente. Pitecusa e Curna tra Mediterraneo e penisola italiana

L' insediamento euboico a Pitecusa ( a quanto pare, alcuni nuclei distinti sul promontorio del Monte di Vico e sulla collina di Mezzavia) appare già realizzato e organizzato negli anni Cinquanta dell' vm secolo, come indicano sia il numero non irrisorio delle sepolture risalenti a quest 'epo­ ca, sia l'attività dell'area artigianale e metallurgica di località Mazzola­ Mezzavia. La necropoli potrebbe non includere le tombe della "prima generazione" dei nuovi abitanti dell' isola, ma, anche se così non fosse, si dovrebbe pur sempre pensare che l' insediamento risalga a un momento precedente, verosimilmente non dopo il 76o. E c 'è da chiedersi se la sua organizzazione, la cui complessità non può essere sottovalutata, non ab­ bia richiesto degli anni, forse anche una decina. Mancano però precise conferme archeologiche. Un dato essenziale è rappresentato dalle testi­ monianze di una presenza che coinvolge tutta l' isola già all'inizio della seconda metà del secolo. L'assunzione di forme iniziali di controllo e gestione del territorio rivela un' iniziativa insediativa di proporzioni rag­ guardevoli. La ricostruzione della demografia di Pitecusa tra il 750 e il 700, nonostante le inevitabili incertezze legate all ' interpretazione della documentazione funeraria, sembra andare nella stessa direzione. n calcolo del numero degli abitanti (uomini, donne, adolescenti, bambini) può essere tentato ipotizzando il numero delle sepolture pre­ senti nella totalità della necropoli di San Montano e presupponendo che

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ORIGINI: MOBILITÀ MEDITERRANEA

2.1

l a di stribuzione nello spazio di quelle databili al 75 0/700 fosse più o m e no costante. Se l'area scavata corrispondesse, come sembra, a poco m eno del 10% dell 'estensione della necropoli di San Montano, si avreb­ b ero poco più di cinquemila abitanti come media del periodo, il che vuo i dire un numero minore per il 750/72.5 e maggiore per il 72.shoo. Naturalmente incognite e variabili sono molte, dal rapporto tra area sca· vata ed estensione totale del sepolcreto all 'effettiva distribuzione nello spazio delle tombe dell'epoca, al tasso di mortalità di cui tener conto nel calcolo, per nòn dire del fatto che a San Montano non erano ccr· ramente sepolti tutti coloro che occupavano l' isola. Ne consegue che la media di cinquemila residenti per il cinquantennio in discussione è una stima molto prudenziale e il numero potrebbe essere stato più alto anche di qualche migliaio. Ne risulterebbe una densità insediativa, me­ dia, naturalmente, molto considerevole: tenendo conto dell'estensione dell ' isola ( 46,4 kmq) e di un totale di poco più di cinquemila, si arriva a un coefficiente di o,S s abitanti per ettaro. Per un significativo confronto si tenga, ad esempio, presente che nell 'Attica alla vigilia della guerra del Peloponneso, in pieno v secolo, che probabilmente rappresentava il più popolato territorio di unapolis in tutta la Grecia dell'epoca, le stime del­ la densità si collocano intorno a 1,2. 5 . In termini sia assoluti, sia relativi, cioè in rapporto agli insediamenti coevi, Pitecusa appare cosl uno degli abitati più popolosi di tutto il mondo greco arcaico. Nonostante la prosperità e il tumultuoso sviluppo di Calcide ed Ere· tria in Eubea, la madrepatria non poteva fornire contingenti coloniali così numerosi, e l'affluenza a Pitecusa di elementi provenienti da altri ambienti dev'essere ammessa necessariamente. Vi sarebbero ragioni per chiamare in causa il resto dell' Eubea, gli ambienti eolici dell'Asia Minore, in particolare Cuma, le Cidadi e anche il mondo corinzio. È comunque un fatto che a Pitecusa risiedevano anche indigeni, sia nativi del luogo sia immigrati, e Levantini. Esisteva sicuramente a Pitecusa, prima dell' insediamento euboico, al­ meno un abitato indigeno, quello posto sulla scoscesa collinetta costiera di Castiglione, tra Ischia Porto e Casamicciola, che aveva una tradizione risalente al II millennio e nell ' Età del ferro era in relazione con la terra· ferma, probabilmente con Pontecagnano e forse con l'ambito etrusco di Tarquinia e Cerveteri. La scarsa documentazione, che risale a indagini del 1 9 42 di Giorgio Buchner, il benemerito protagonista dello scavo dd­ la necropoli di San Montano, appare anteriore di alcuni decenni alle più antiche tombe "greche" note, ma il problema se l'abitato sia stato attivo

2.2.

MAGNA GRE C I A

fino all ' insediamento degli Eubei resta aperto. È un fatto, comunque, che diverse tombe della necropoli (tra quelle a inumazione con corredo scarso o nullo) possono essere assegnate a elementi indigeni in posizione probabilmente subordinata sul piano sociale, ma inseriti nella comunità al punto da non essere esclusi dal diritto di sepoltura. Peraltro, la celebre tomba "del carpentiere" (tomba 678) attesta una condizione ben diversa e l' autoconsapevolezza di un artigiano specializzato che è da riportare a un immaginario sociale italico e non ellenico. Quanto alle più di tre­ cento fibule dei corredi funerari noti, si tratta di esemplari o importati da ambienti indigeni siculi, enotri, campani, dauni, laziali e irpini - o presto imitati a Pitecusa. Costituivano un elemento caratterizzante dell'abbigliamento, nella maggior parte dei casi femminile, ma l' idea di riferirle alle "mogli indigene" degli Eubei è tutto sommato ingenua, an­ che perché nella gran parte dei casi siamo di fronte a defunte di età non adulta. Potrebbe trattarsi dell'adozione di un tratto culturale allotrio da spiegarsi nell'ambito di una cultura "mista". Ma in ogni caso bisognereb­ be riconoscere un ruolo non irrisorio a un elemento di origine anellenica delle pratiche di vita quotidiane. Le presenze levantine, per parte loro, sono testimoniate dalla carat­ teristica ceramica "rossà' di uso domestico e forse è pertinente anche un graffito con due lettere in alfabeto su un vaso prodotto a Ischia (tomba 2.32. ). Diverse tombe potrebbero appartenere a elementi di origine levan­ tina; il loro numero è molto incerto e probabilmente la percentuale di circa il 15% di quelle scavate (Ridgway, 1 984, pp. 132.-3) è sovrastimata, ma in ogni caso, se anche esse fossero molte meno, ci si troverebbe di fronte alla presenza stabile a Ischia, in un cinquantennio, di qualche cen­ tinaio di "Fenici" integrati nella comunità dei morti e quindi anche nella compagine sociale di Pitecusa. Essi, del resto, erano ancora parte della rete delle attività sul mare in cui gli Eubei erano stati coinvolti e conti­ nuavano a esserlo, come mostrano ad esempio i materiali pitecusani a Sulcis in Sardegna e a Cartagine. L'economia di Pitecusa integrava agricoltura, produzione artigianale e scambio, in una combinazione complessa che corrisponde all'artico­ lazione della società e alle molte diverse funzioni di un insediamento che per tutto l'VIII secolo rimase un crocevia del Mediterraneo centro­ occidentale. La fertilità del suolo vulcanico dell' isola e la struttura del rilievo si adattavano alle colture specializzate della vite e dell'olivo. Ve ne sono un riflesso nelle fonti antiche e un esempio su scala ridotta a Cuma eolica. La produzione si prestava perfettamente all'esportazione

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ORIGINI: MOBILITÀ MEDITERRANEA

rran smarina e allo scambio con risorse primarie, tra cui i cereali, la cui p ro duzione non garantiva la completa autosufficienza dell 'isola, dato il n umero degli abitanti in rapporto alla terra coltivabile. L'artigianato, ch e andava dalla produzione di ceramica fine e contenitori da trasporto all a metallurgia e all 'oreficeria, doveva aver raggiunto uno sviluppo tale

da indurre forme di forte autocoscienza degli artefici: com'è noto, la più antica firma di un artigiano che nel mondo greco si conosca viene pro­ ' p rio da Ischia e si data ancora nell vm secolo. Gli scambi a loro volta si fondavano su un collaudato partenariato con i Fenici e raggiungevano anche la Sardegna e Cartagine. Allocavano i prodotti dell 'agricoltura e deli ' attività metallurgica, della bronzistica, dell'oreficeria e dell ' artigia­ nato ceramico, che ebbero un particolare impatto soprattutto nel mon­ do mediotirrenico. Ed è da sottolineare l' importanza del trasferimento di tecniche e tratti culturali sia attraverso la circolazione degli oggetti, sia attraverso le presenze nelle comunità etrusco-laziali di esperti arti­ giani, tra i quali certamente i ceramisti. Naturalmente la diffusione della scrittura faceva parte integrante di questo quadro. Intorno alla fine del­ l'viii secolo gli Etruschi adottarono l'alfabeto euboico.

I

La società pitecusana mostra i tratti di una comunità organizzata. costumi funerari appaiono stabiliti e validi per tutta la comunità nel

corso di più generazioni, e affermano distinzioni di livello sociale e di età, oltre che, per una parte della popolazione, una coerenza di gruppi fam iliari che detengono lo stesso "lotto" della necropoli per generazioni. Siamo di fronte a una società capace di integrare elementi di estrazione anellenica, e questo vale per i Levantini come per gli "indigeni": di en­ trambi non si conoscono costumi funerari peculiari e distintivi. Non solo essi non erano esclusi dal diritto formale alla sepoltura nella necropoli della comunità, ma anche ne praticavano i costumi caratteristici. Non è chiaro quanto socialmente subordinati fossero gli indigeni inumati in sepolture modeste, e comunque tale condizione doveva avere delle ecce­ zioni, come mostrano alcuni casi, tra cui quello della tomba del "carpen­ tie re". La stratificazione del corpo sociale si lascia riconoscere, anche se

non del tutto agevolmente, nella documentazione funeraria. Si nota la presenza significativa di un livello sociale definibile "medio-alto� che in alc uni casi corrispondeva a gruppi dallo stile di vita raffinato, in grado di praticare un rituale sociale che aveva già le caratteristiche principali del s im posio, compresi l'atmosfera Iudica ed erotica, l'uso della scrittura e riferimenti allusivi alla tradizione epica. La tomba 168 con il suo corredo

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di vasi per il simposio, compresa la celebre "coppa di Nestore� ne è una testimonianza emblematica. Se da un lato la matrice euboica della società pitecusana appare inne­ gabile, dall'altro essa mostra una profonda connotazione "cosmopolità' e multietnica. Si sono avanzate da più parti perplessità sul multicultu­ ralismo di Pitecusa. Non vi è dubbio che non troviamo realtà culturali distinte e giustapposte, mentre cultura materiale e pratiche quotidiane hanno una connotazione ellenica. Ma a ben vedere vi sono tratti ibridi o misti nel vestiario (le fibule) e nella cultura materiale riflessa nei cor­ redi funerari; si registrano presenze esterne, indigene e orientali, come mostrano i graffiti fenici e iscrizioni come quella di una Arne, una donna di cultura etrusca proveniente probabilmente da Pontecagnano ; il mul­ tilinguismo è sicuramente da ammettere, e O mero forse non lo capivano solo gli Eubei. Non si può non concludere che le diverstà etniche e cul­ turali improntavano di sé la comunità pitecusana. In sintesi, è fu or di dubbio che Pitecusa avesse caratteristiche che non erano quelle di un semplice punto di riferimento della circolazione ma­ rittima e delle reti di scambio mediterranee. Si trattava di un'esperienza stanziale autonoma, cospicua per dimensioni, capace di un controllo territoriale su vasta scala, complessa e polifunzionale nelle sue strutture sociali, come indicano chiaramente le manifestazioni della vita associa­ ta: l'uso della scrittura, la conoscenza dei poemi epici, le pratiche sociali di tipo simposiale, l' importanza dell'artigianato, l'articolazione sociale, la complessità della vita economica, l' integrazione di produzione agri­ cola e artigianale e attività di scambio a distanza. Pitecusa nacque in rap­ porto con la mobilità mediterranea funzionale alle esigenze acquisitive di una società metropolitana in tumultuoso sviluppo, ma di quella fase rappresentò un esito. Un esito, peraltro, di natura e proporzioni tali da avviare nuovi cruciali sviluppi. Poi presto fu la volta di Cuma. Quando esattamente e con quali modalità prese forma la città non è ancora noto nei dettagli, ma ormai, grazie alle ricerche archeologiche e alle indagini geomorfologiche degli ultimi decenni, il quadro d' insieme comincia a delinearsi. Conosciamo meglio l'area dove Cuma sorse. La costa era più arretrata e la collinetta dell'acropoli si protendeva sul mare ; le navi potevano essere tirate a sec­ co sulla riva a sud, e poco lontano, a nord, offriva loro un ottimo ripa­ ro un ambiente lagunare accessibile dal mare (la laguna di Licola). Più a nord si apriva una piana collegata alle terre più fertili della regione, bagnate dal Volturno ; a est e a sud alcuni rilievi chiudevano lo spazio

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dell ' insediamento. Non mancavano nelle adiacenze i boschi. Il sito era caratterizzato da apertura sul mare, grandi potenzialità agricole, facilità di contatti attraverso il Golfo e il Tirreno, ma anche da terra verso Ca­ p ua e verso il litorale del Golfo, fino a Napoli, alle isole e alla penisola sorrentina. Il Golfo era originariamente definito "cumana", e le ragioni s ono evidenti. Oggi sappiamo di più anche della cosiddetta "Cuma pre-ellenica� abitato indigeno, intorno al quale si disponeva una cintura di necro­ L' poli, è probabile occùpasse sia l'acropoli della Cuma greca, sia un'ampia area in piano ai suoi piedi. Con una tradizione insediativa e culturale che risaliva all' Età del bronzo, aveva dimensioni cospicue, e controllava un sito strategico, ricco di risorse e aperto alla mobilità mediterranea e alla frequentazione precoce di Levantini ed Eubei. Doveva essere uno degli insediamenti principali della Campania. La nascita di Cuma fu il frutto dell' interazione con questo contesto degli Eubei che muovevano dalla madrepatria e da Pitecusa, cui si aggiunsero Greci d'Asia da Cuma in Eolide. Si è a lungo pensato che tra le origini di Pitecusa e la fondazione di Cuma fossero intercorse diverse decine di anni. Oggi si fa strada la con­ vinzione che l' intervallo tra le due iniziative coloniali sia stato molto più ridotto e si comincia a capire che non di una semplice, immediata fondazione si trattò, ma di un processo di insediamento e prima organiz­ zazione di un abitato che durò a sua volta decenni. I dati di scavo recenti che orientano in questo senso vengono da un'area della città intorno al Foro romano e consistono in primo luogo in materiali ceramici databili a partire da poco prima della metà dell'viii secolo. Essi dunque coinci­ dono, e non solo per cronologia, con quelli delle prime fasi di Pitecusa, anche se, come si è osservato, l'avvio della presenza stanziale euboica sull ' isola potrebbe essere un po' anteriore. I materiali cumani più antichi non permettono di ricostruire le forme della presenza dei coloni, ma intanto il primo elemento di rilievo storico appare ora abbastanza chiaro : Pitecusa e Cuma furono sostanzialmen­ te contemporanee. Siamo dunque di fronte a un' iniziativa coloniale ad ampio raggio, che costruiva una presenza disposta in un vasto orizzonte sp aziale imperniato sulle acque del Golfo, con due punti chiave, a Ischia e appunto a Cuma. Il processo potrebbe essere considerato paragonabi­ le a quello che contraddistinse la colonizzazione della Cirenaica, dove, con trariamente a quanto emerge dal racconto di fondazione di Cirene in Erodoto, a essere interessato dalle nuove presenze greche fu un vasto

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ambito subregionale, da Cirene, a Tocra e a Euesperide. È chiaro che la prima presenza stanziale greca nel Golfo assume in questa prospet­ tiva un'altra dimensione, più complessa e di più rilevanti proporzioni. Il secondo elemento particolarmente significativo in questa microstoria archeologica delle origini di Cuma è dato dalla documentazione, che suggerisce forme di coesistenza e interazione ravvicinata tra "coloni" e "indigeni" nell'area della futura città, che sembrano essersi protratte per una generazione, forse due. Le prime tracce di un'organizzazione dell' impianto dell' insedia­ mento greco si collocano alla fine dell'viii secolo. Poi la strutturazione dell'abitato coloniale prese piede, occupando gli spazi che erano stati indigeni, con un cambiamento che segna l'avvenuta definizione di rap­ porti di forza e capacità organizzative a tutto favore dei coloni. Intanto il rapporto con gli indigeni doveva essere servito all'assunzione di quel patrimonio di conoscenze spaziali e territoriali senza le quali un sito del­ la complessità di Cuma non poteva essere gestito. Non sembra del tutto pertinente parlare di una "fondazione a due stadi": il caso è diverso da quello di Locri, ad esempio, dove il sito della polis fu diverso da quello del primo stanziamento, mentre il caso di Zancle deve essere ancora ana­ lizzato nel problematico rapporto tra fonti letterarie e nuova documen­ tazione archeologica. Maggiori analogie offre la situazione di Megara Iblea in Sicilia, con la sua prima complessa fase "degli accampamenti". Lì, come a Cuma, l' insediamento urbano nacque con una certa graduali­ tà, che il modello della "fondazione" non coglie e, anzi, inevitabilmente schematizza e deforma. Naturalmente ci sono gli "ecisti", ma questi non sono i "fondatori", bensì i leader della prima generazione dei coloni, gli esponenti delle élite di rango che erano in grado di promuovere e seguire i processi molto complessi dell'insediamento e dei rapporti con le realtà locali. Una sepoltura cumana, a quanto pare databile tra la fine dell'viii e l 'inizio del VII secolo, offre un'immagine impareggiabile di questa élite. Si tratta della tomba 104 del Fondo Artiaco, che fu pubblicata a inizi Novecento ed è oggi oggetto di rinnovato interesse. La cronologia scon­ siglia naturalmente sia di considerarla quella di un ecista, sia di ritenerla appartenente all'ultimo "capo" indigeno della Cuma pre-ellenica, come pure si è sostenuto, con un' ipotesi fin troppo seducente e colorita. Le analogie con il rituale funerario di una serie di tombe coeve di Eretria non sono perfette, ma indicano chiaramente un rapporto preciso, che per la tomba 104 non si ravvisa del resto con nessun altro contesto ar-

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ch eologico. La presenza, poi, di oggetti di importazione da ambienti m editerranei diversi, orientali, campani, etruschi, non deve essere letta, co me sempre del resto, in chiave di appartenenza etnica. Una cultura in definitiva "mista" quale quella che si deve ascrivere al defunto di rango della tomba 104, non è in quanto tale una caratteristica più indigena che greca. Tutt 'altro. Semmai, essa apre uno squarcio del massimo interesse sulla vastità e complessità degli orizzonti culturali e ideologici di un' in­ dividualità del massimo spicco nella società cumana tra VIII e VII secolo. Le fonti letterarie su Pitecusa, Cuma e gli Eubei nel Tirreno permet­ tono di ricostruire una complessa stratificazione delle memorie colonia­ li tra mobilità mediterranea e memoria sociale. li buon metodo induce non a "controllarle" sulla base della documentazione archeologica, ma a valutarie come un insieme di interpretazioni del proprio passato da parte degli ambienti cumano-pitecusani e napoletani. Occorre partire dalle origini di Zancle e Reggio. Secondo la stono­ grafia del v secolo ( Tucidide e Antioco di Siracusa), a Zancle nasce un insediamento a seguito dell 'arrivo di corsari da Cuma. Successivamen­ te, un più ampio gruppo di coloni provenienti da Calcide e dal resto dell' Eubea procedette a una fondazione sotto la guida di due ecisti, un cumano e un calcidese, e a una spartizione della terra. Poi fu fondata Reggio, quando Zancle fece arrivare coloni da Calcide e ad essi assegnò un ecista. Siamo di fronte -lo si vede - a un nucleo di memorie radicate nella mobilità mediterranea e nelle storie delle origini coloniali. Cuma appare in primo piano : fondazione più antica, e madrepatria di Zancle, protagonista nel Mar Tirreno, interessata allo Stretto, e potere navale e coloniale con una relazione privilegiata con l ' Eubea. È ragionevole ammettere che abbiamo a che fare con gli echi storia­ grafici di una tradizione arcaica che era centrata su Cuma, la sua identità e il suo primato e non faceva riferimento a Pitecusa. Evidentemente essa nacque a Cuma stessa. Doveva preesistere a Tucidide e Antioco, ed esse­ re anche anteriore alle trasformazioni che ebbero luogo a Zancle sotto Anassila di Reggio e certamente affievolirono le memorie legate all' i­ dentità calcidese. È verosimile che risalga almeno al VI secolo e sia pre­ cedente alla tirannide di Aristodemo a Cuma. Ma potrebbe affondare le sue radici nel VII secolo. Bisogna infatti tener conto che è anteriore al tardo VI secolo, che afferma un primato di Cuma nel Tirreno, ma non oblitera il suo rapporto con la lontana Eubea, e che al tempo stesso ogni riferimento a Pithecusae è assente. Da questo punto di vista è degno di nora che la tradizione colloca Cuma in un contesto litoraneo e maritti-

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mo coincidente con il "paesaggio" delle avventure tirreniche di Ulisse, da Scilla e Cariddi all' incontro con le Sirene, all'evocazione dall'Ade degli eroi defunti. La localizzazione di queste avventure tirreniche per molti è da connettersi con le navigazioni euboico-calcidesi. Si può forse affermare che la nozione di primato sul mare di Cuma e la connotazio­ ne odissaica del mondo tirrenico dalle coste del Golfo cumana al Lazio siano in rapporto reciproco e possano essere entrambe considerate ar­ tefatti culturali che interpretavano l'orizzonte spaziale, etnico e cultu­ rale dell'esperienza storica di Cuma. Quanto all' "assenzà' di Pitecusa, è come se il tema del primato di Cuma fosse intervenuto a "rimuoverlà', ponendo invece Cuma al centro di tutto. Tuttavia, la documentazione letteraria conosce anche le tracce di una rappresentazione piuttosto diversa delle origini coloniali campane. Cuma non vi appare l'assoluta protagonista, perché un ruolo significa­ tivo e prioritario spetta alle isole, specialmente a Pitecusa. La mobilità marittima vi gioca un ruolo, ma l'attenzione si concentra non sul qua­ drante tirrenico da Cuma a Zancle, come nella tradizione cumana, bensì su dinamiche che coinvolgono il Golfo di Napoli, le isole e la terraferma campana. E poi ai Calcidesi si affiancano gli Eretriesi. La testimonianza più importante è costituita da un oracolo sibillino che fa riferimento alla fondazione di Cuma ( in Flegonte di Tralle, Sto­ rie meravigliose, 10.53-56 Stramaglia [pp. 42-3, 507-10] = FGrHist [Die Fragmente der griechischen Historiker] 257 F 36 x B, 53-56) ed ebbe ori­ gine in ambienti sacerdotali cumani di cultura grecizzante nel I secolo a.C., probabilmente non dopo l'età di Silla (Breglia, 1983). Vi appaiono gli abitanti delle isole «che stanno a contraltare (della terraferma) » , de­ stinati a insediarsi « con la violenza e non con l' inganno» in quella che poi sarebbe stata Cuma e a organizzare nella città il culto di Hera. In tutta evidenza, qui il riferimento è alle origini di Curna, e l' insediamen­ to viene presentato come il risultato di una forte iniziativa delle isole del Golfo: è chiaro che si allude al ruolo decisivo svolto da Pitecusa. Un' im­ magine non troppo diversa si trova in Livio (8.22.5). Gli Eubei di Calci­ de, dai quali Napoli traeva origine, possedevano una flotta che veniva da lontano ed era potente sul mare; prima si stabilirono sulle isole (Enaria e Pitecusa) e poi con ardimento passarono a insediarsi a Curna. Le origini cumane qui hanno dunque una dimensione insulare nella quale spicca il ruolo di Pitecusa. La rilevanza storica di questo riferimento a Pitecusa è rafforzata da una serie di elementi che vanno a favore della pertinenza della tradizione liviana e della presenza in essa di informazione di origi-

A L LE O RI GINI : MOBILITÀ MEDITERRANEA

2.9

n e locale. Alle spalle di Livio si può riconoscere una tradizione napole­ tana. Napoli, a sua volta, doveva aver ereditato gli elementi chiave della m emoria culturale cumana già a partire dal momento in cui una parte dei Cumani, dopo la presa della città da parte dei Campani (42.1), furo­ n o accolti come cittadini a Napoli. Questa tradizione presenta anche un'altra peculiarità molto significa­ tiva, perché vi si trovano riferimenti a Eretria. Uno si legge in una famosa p agina straboniana che riguarda Pitecusa e risale all'eruditissimo storico occidentale Timeo ( Iv-m secolo). Un'altra eco del ruolo coloniale di Eretria, ma in riferimento alla fondazione di Cuma, si trova anche in Dionisio di Alicarnasso, il quale utilizzava elementi tradizionali locali mediati da una tarda ma informata "Cronaca cumana". Questi elementi che mettono in gioco Eretria appartenevano dunque a una rappresenta­ zione delle origini coloniali che abbandonava la prospettiva incentrata su Cuma e dava spazio a Pitecusa. Da sottolineare che proprio Pitecusa nel v secolo recuperò importanza per Napoli alla fine degli anni Set­ tanta e la conservò fino al 1 secolo a.C. Da Pitecusa dev 'essere, per così dire, percolata nella tradizione napoletana la memoria eretriese, sì che il passato calcidese regionale si faceva sia eretriese sia calcidese per Pitecusa e per Cuma. I riferimenti a Eretria sono troppo precisi perché si possa pensare a un caso. Se si prendono in esame i dati noti sulle fratrie napoletane, in particolare quelle degli Eunostidi e degli Eumelidi, vi si possono trova­ re attestati dettagli che perpetuano aspetti della realtà cumana indub­ biamente di matrice eretriese. È inoltre essenziale il fatto che la cultura genealogica e le tradizioni mitico-religiose di Cuma e Napoli risultano avvalorate dall'evidenza epigrafica. In effetti, il riesame delle più antiche iscrizioni euboiche, comprese quelle scoperte di recente sulla costa egea della Macedonia (Metone), sta rivelando l' incisiva presenza degli Ere­ triesi a Pitecusa e la netta influenza eretriese sia sulla cultura alfabetica etrusca, sia su quella latina ( Janko, 2.01 5 ). Il ruolo di Eretria nelle origini di Pitecusa e Cuma e nella storia altoarcaica del Tirreno ha dunque salde radici storiche, anche se esso fu recuperato solo in un secondo tempo dalla memoria culturale locale. Possiamo ora tornare alle memorie coloniali. Ci troviamo di fron­ te -sembrerebbe -da un lato a un forte indebolimento, nella Cuma di v secolo, delle tradizioni "cumanocentriche" arcaiche, e dall'altro allo sviluppo di una rappresentazione delle origini coloniali in buona parte diversa. In essa l'attenzione si concentrava sul Golfo di Napoli, le origini

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di Cuma si collocavano in un contesto in cui era importante Pitecusa e il potere navale non era tanto di Cuma, quanto di Pitecusa. Questa rappresentazione recuperava elementi storici molto antichi, risalenti alla fase della nascita di Cuma, ma al tempo stesso conobbe numerose rifor­ mulazioni dal v secolo in poi. Invece, per Strabone (5-4-4) Cuma sarebbe stata fondata assieme da Calcidesi e "Cumani". Che il geografo facesse riferimento a Curna eolica in Asia Minore appare ormai certo. Si pone però il problema di capire in quale rapporto stavano Eretria e Cuma eolica nelle tradizioni di fon­ dazione cumane. Non vi è motivo, naturalmente, di ritenere impossibile che Eretria e Cuma eolica fossero entrambe contestualmente presenti. Ma è vero che esse sembrano appartenere a due livelli differenti della memoria colonia­ le. La tradizione che potremmo definire "insulare-pitecusano-eretriese" emerge "tardi", nel v secolo. La tradizione che chiama in causa Cuma eolica, d'altra parte, non può essere nata successivamente, nonostante sia attestata più tardi. Essa conserva memoria degli ecisti, e anch'essa enfatizza il primato di Cuma in Occidente. Dunque, è verosimile che siamo di fronte a un aspetto della memoria "cumanocentricà'. Non sem­ brano esservi quindi ragioni per negare una presenza eolica all e origini di Cuma in Campania. Se è così, allora Cuma vide l'apporto originario sia di Calcidesi, sia di Eretriesi, sia di Cumani d 'Asia Minore. E, dunque, l'analisi della stratifi­ cazione delle memorie coloniali lascia pensare che il contesto coloniale pitecusano-cumano abbia origini multiple concomitanti, più articolate di quanto non si creda di solito. Se così è, saremmo di fronte a un caso in cui la memoria culturale, e specificamente la memoria della mobilità mediterranea di VIII secolo, è al tempo stesso fortemente plastica, e di­ sponibile sia alla costruzione sia alla decostruzione, ma anche in grado di recuperare dati di fatto risalenti ad alcuni secoli prima.

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La formazione

Un paesaggio dell ' intreccio Per tutto il VII secolo, lungo il grande arco ionico dell' Italia meridiona­ le, da Taranto fino all 'area a nord di Crotone e del fiume Neto, si dispon­ gono contesti locali caratterizzati da complessi fenomeni di interazione. Vi sono coinvolti le comunità anelleniche locali ed elementi provenienti soprattutto dali ' Egeo, ma anche da altre aree del mondo greco, come la lonia, con loro tutto un repertorio di tecniche artigianali e artisti­ che, pratiche religiose, storie mitiche. Le dinamiche in gioco appaiono oggigiorno essere state così intense e su larga scala che i vari ambien­ ti interessati possono senz'altro essere visti come altrettanti "paesaggi dell' intreccio": paesaggi antropici e culturali in cui ogni dicotomia etni­ ca, l 'opposizione tra Greci e indigeni prima tra tutte, ma anche cultura­ le, è inappropriata a caratterizzare l' inestricabile gioco delle interazioni reciproche. Per cogliere i lineamenti del fenomeno conviene chiamare in causa il sito dell ' Incoronata, una collinetta a pochi chilometri da Metaponto e dal mare, sul versante destro del Basento ormai prossimo alla foce. Un sito reso celebre da una fortunata stagione di scavi degli anni Settanta e Ottanta del secolo trascorso, che offrì al dibattito grandi novità di fatto e discusse interpretazioni dei dati, e che oggi può essere visto in nuova luce sulla base delle indagini recenti. Oggi si conosce meglio l'abitato di VIII secolo, indigeno, ma non estraneo a contatti con l ' Egeo, un agglomerato cospicuo, paragonabile a vari altri centri collocati nella fascia paracostiera che corre dal Tarantino alla Sibaritide, senz'altro uno dei più importanti dell ' Età del ferro nel versante costiero ionico della Basilicata. Risulta chiaro, inoltre, che non si può più sostenere sia stato sostituito, con il VII secolo, da un piccolo i ns ediamento greco a carattere "commerciale", il quale poi sarebbe stato

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distrutto dai coloni achei intenti a fondare Metaponto. Rispetto a que­ sta ricostruzione, che ha condizionato il dibattito per decenni, i dati ora disponibili sembrano andare in altra direzione. L'abitato indigeno mostra una continuità che si protrae per vari de­ cenni nel corso del VII secolo, quando intervenne una rilevante ristrut­ turazione. Prese forma così una complessa area produttiva e artigianale nella quale erano attivi contestualmente Greci di varia provenienza egea ed elementi locali. li contesto vedeva importazioni dalla Grecia, dali' E­ geo e dall 'Asia Minore, di ceramiche fini e contenitori da trasporto, e al tempo stesso produzioni in loco di vasellame dipinto di alto livello artistico. Siamo in tutta evidenza di fronte a un ambiente in cui pratiche e tradizioni culturali greche e anelleniche si sovrapponevano e si intrec­ ciavano. Insomma, una vera comunità mista greco-indigena appare sal­ damente impiantata sulla collina e intenta a un'esperienza di convivenza complessa, che prevedeva, com'è del resto naturale, anche attività rituali e non poteva mancare di una dimensione abitativa, per ora tuttavia non chiaramente documentata. Anche in vari punti del fondovalle destro del Basento vi sono tracce di presenze greche, così come nel non lontano sito di quella che sarebbe stata poi l'area urbana centrale di Metaponto ; in entrambi i casi nel contesto si intrecciavano presenze ed esperienze di elementi del popolamento locale ed elementi provenienti d'oltremare. È un quadro non compatibile con la vecchia idea dell' installazione di un centro (l' Incoronata "grecà') che raccoglieva dal Mediterraneo impor­ tazioni e le distribuiva nell' interno, in un'ottica centrata sullo scambio. La relazione tra questo ambiente e l' insediamento coloniale meta­ pontino appare più complessa di quanto sinora si sia creduto. È inevita­ bile puntualizzare in primo luogo che la cronologia del primo impianto di Metaponto non è così chiara come spesso si dà per scontato, vista la mancanza di elementi che lo ancorino a una data precisa. Certo, nella futura area urbana di Metaponto si riscontrano tracce di presenze del­ la seconda metà avanzata del VII secolo, ma non vi sono sicure ragioni per affermare che appartengano a una prima organica fase insediativa. Invece, le tracce dell'organizzazione di un assetto insediativo che rap­ presenta i primordi della colonia si collocano alla fine del VII secolo. Le preesistenze nell'area della città vengono ovviamente a cessare, ma l' Incoronata non viene distrutta. Verso la fine del secolo, o poco dopo, il sito sulla collina viene abbandonato, ma non a seguito di un'obliterazio­ ne "violenta"; a quanto pare, invece, l' insediamento e l'area artigianale vengono "chiusi" da chi lo abitava con una serie di elaborati interven-

LA F ORMAZIONE

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d sulle strutture che segnano con connotazioni simboliche evidenti la fi ne dell 'esperienza abitativa mista sulla collina. n che non implica la s ua eliminazione da parte dei coloni achei, ma si lascia interpretare nel quadro di un riassorbimento di quell 'esperienza nell 'ambito della nuo­ va organizzazione a marcato carattere insediativo che indubbiamente Metaponto rappresentava. Un "paesaggio dell ' intreccio" faceva posto in questo modo a una polis coloniale in statu nascendi; ma ci si deve chie­ dere se almeno la prima generazione di Metaponto non abbia interagito con quel paesaggio e non ne abbia accomodato i protagonisti nel conte­ sto della nuova compagine nascente. Tra gli importanti si ti indigeni della fascia paracostiera ionica si col­ loca anche quello nell'area di Policoro, sulla destra dell'Agri, dove sullo scorcio dell ' viii secolo sorse un insediamento organizzato in piccoli nuclei sparsi di capanne distribuiti nella vasta area che sarebbe stata poi di Eraclea e organizzati intorno alla dominante collina del Castello del barone Filangieri. L'abitato è chiaramente attestato a partire dal VII se­ colo e manifesta una sostanziale continuità fino alla metà del v. Sia le strutture abitative, sia le aree di necropoli sono caratterizzate dalla pre­ senza di ceramica indigena chiaramente affine a quella dell' Incoronata, delle preesistenze nell 'area urbana della futura Metaponto, di Taranto (compresa L'Amastuola), ma anche di centri enotri dell' interno (Chia­ romonte, Aliano). Contestualmente sono documentati materiali cera­ mici egei, soprattutto di area cicladica, e una vasta gamma di contenitori da trasporto attici, corinzi e greco-orientali. Insieme alla varietà degli usi funerari, la cultura materiale di Policoro testimonia indubbie forme di convivenza tra indigeni ed elementi greci di provenienza egea. L'assetto dell ' insediamento conosce delle trasformazioni verso la fine del secolo, probabilmente nel corso dell 'ultimo quarto. Al posto delle capanne vanno diffondendosi strutture abitative in mattoni crudi, ma le nuove strutture in vari casi continuano le precedenti, giustapponendosi ad esse, e non sembrano perciò il frutto dell'apporto di elementi esterni. La foggia greca delle abitazioni, insomma, non sembra testimoniare un "arrivo" di coloni greci. Fa parte della trasformazione dell ' insediamen­ to la costruzione in lunghi tratti dei bordi della collina del Castello di un pesante muro in mattoni crudi. La sua datazione all ' interno del VII se co lo, nonostante ricerche recenti, non pare allo stato definibile con sicu rezza. E anche la natura della struttura è quanto mai discussa, con proposte che oscillano tra l' ipotesi di un muro di contenimento e soste­ gno e quella di una fortificazione del sito. Vengono anche definiti spazi

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santuariali, la cui cronologia più probabile si situa intorno alla fine del VII secolo. A Policoro, dunque, si riconosce un paesaggio dell ' intreccio, che ave­ va natura simile a quello che caratterizzava il contesto territoriale meta­ pontino, dall' Incoronata all'area urbana di Metaponto, ma non viene meno con la fine del secolo, e invece continua, trasformandosi, nei suc­ cessivi. li problema storico chiave che coinvolge Policoro è quello del rap­ porto con la colonia greco-orientale (colofonia) di Siri, che le fonti scrit­ te collocano intorno al 66o a.C., facendo riferimento all'area presso la foce del Sinni, a una distanza di circa 4 chilometri da Policoro/Eraclea. Entrambi i dati della tradizione antica, che dipendono da informazione solida, non possono essere accantonati se non sulla scorta di uno scetti­ cismo tutto sommato pregiudiziale, e devono rappresentare un punto di riferimento per ogni valutazione complessiva del contesto. Si è tornati in anni recenti a sostenere che sulla collina del Castel­ lo a Policoro sarebbe sorta Siri: sminuito il valore informativo delle fonti, si sono attribuite all'arrivo dei fondatori di Siri le trasformazio­ ni dell'abitato di Policoro per quanto riguarda le strutture abitative e l'organizzazione degli spazi sacri, e si è visto nel muro sulla collina una fortificazione urbica. Ma per questa interpretazione le prove addotte non sembrano dirimenti, mentre le trasformazioni dell'abitato hanno nella documentazione relativa un carattere processuale che si dispone nel tempo, lungo quasi tutto l'arco del secolo, e che è molto difficile col­ legare a un intervento coloniale. Oltretutto, la distruzione di Siri ad ope­ ra di Sibariti, Metapontini e Crotoniati intorno al s6o dovrebbe avere qualche evidenza sul terreno, di cui peraltro non vi è traccia. Nonostante gli stimolanti contributi al dibattito che ne sono venuti, il nuovo quadro interpretativo proposto non si impone e allo stato si deve riconoscere che l'onere della prova spetta a chi se ne fa sostenitore. Conviene di con­ seguenza continuare a vedere nell 'abitato di Policoro una realtà origina­ riamente indigena e inserita nel paesaggio dell 'intreccio delle aree para­ costiere ioniche, nel quale le interazioni culturali e le conseguenze dei fenomeni di convivenza con elementi provenienti dall' Egeo e dall'Asia Minore produssero profonde trasformazioni culturali. L' insediamento coloniale greco-orientale di Siri a pochi chilometri di distanza avrà evi­ dentemente incrementato il carattere ibrido dell 'abitato sulla collina, che sarà stato in qualche modo integrato nella compagine politica e ter­ ritoriale sirita, ma non in tutto assimilato e inglobato, se è vero che esso

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continuò la sua vita fino alla metà del v secolo. In questa ricostruzione è e vidente che il rapporto Siri-Policoro è destinato ad apparire atipico, ma in definitiva non si tratterà che di una delle molte e intricate complessità della colonizzazione. n paesaggio dell ' intreccio si estende, in forme ancora diverse, nella p arte meridionale dell 'arco ionico, nell'area a nord di Crotone compre­ sa tra il fiume Neto, i rilievi intorno a Strongoli (le Murge di Strongoli) e il Capo Crimisa sul mare. Qui al VII secolo appartengono abitati in­ digeni strutturati, nei quali è marcata e diffusa la presenza di materiali greci di provenienza perlopiù crotoniate. Ma soprattutto - e questa è una notevole peculiarità del contesto - vi si registra la presenza di un santuario, quello dedicato ad Apollo Aleo (Alaios) , in cui sorge un edifi­ cio sacro già a metà del VII secolo, che viene poi ampiamente monumen­ talizzato nel corso di quello successivo. n santuario è il principale nodo di un' interazione greco-indigena inquadrata nel mito dell'eroe greco Filottete, il fondatore del tempio. Alle testimonianze archeologiche di una cultura mista dell 'area si associa, con un peso emblematico, il mito dell'eroe marginale per eccellenza dell ' immaginario greco che, come si dirà meglio più avanti, ha una connotazione squisitamente integrativa e non oppositiva e antagonistica, a segnalare la percezione crotoniate di un ambito territoriale "di frontiera" e al tempo stesso a marcare l' identi­ tà di comunità indigene coinvolte in un profondo rapporto di interazio­ ne con il mondo coloniale. Nel variegato quadro dei paesaggi dell' intreccio dd grande comparto ionico da Taranto a Crotone sembrano esservi due importanti eccezioni, rappresentate da Taranto e da Sibari. A costituire un elemento di etero­ geneità nel quadro è l' installazione di insediamenti da subito interessati al controllo del territorio agricolo immediatamente circostante e orga­ nizzati come comunità pronte a darsi un assetto politico-istituzionale. Ma i più dettagliati elementi di conoscenza disponibili a proposito delle dinamiche che nei due centri caratterizzano le prime generazioni della vicenda coloniale suggeriscono non tanto un' obliterazione del contesto locale, quanto una sua manipolazione che lascia spazio a fenomeni di in terazione. lnseritasi in un contesto locale ricchissimo di abitati indigeni so­ cialmente strutturati e in possesso di un buon grado di controllo delle risorse umane e materiali del territorio, Sibari interagisce da subito, già s ullo scorcio dell'viii secolo, con il complesso dei siti che fanno corona alla piana costiera. Si discute quanto peso sugli equilibri tradizionali del

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mondo indigeno abbia assunto la presenza sibarita. Le domande sono molte e ancora aperte. Si può parlare di disarticolazione del sistema in­ sediativo locale ? Che cosa significa esattamente la cessazione di alcuni si ti e la sopravvivenza e ristrutturazione di altri ? E le trasformazioni sono frutto di un divario nei rapporti di forza a favore dei coloni achei ? Segna­ no una crisi irreversibile o corrispondono a una strategia di adattamento rispetto a un nuovo contesto ? Infine, quali furono i tempi del processo ? Una nuova stagione di studio e riflessione sulla Sibaritide tende a vedere una ripercussione della presenza sibarita nell'area centrale del­ la piana già nel corso della prima generazione coloniale ( intorno al 7 2.0/710 ?). In particolare colpisce la fine, a quanto pare però non violen­ ta, di Torre del Mordillo, forse l'abitato più importante della zona. Nei decenni immedi atamente successivi cessano anche molti altri siti, men­ tre conoscono trasformazioni non irrisorie sia Francavilla Marittima, un centro dal complesso profilo sociale e culturale che era stato in contatto con le trafile della mobilità mediterranea prima della colonizzazione di Sibari, sia Amendolara, nella zona costiera settentrionale del territorio, nell'area di Cap o Spulico. L'una e l'altra, peraltro, si connotano a lun­ go come abitati in cui non solo si registrano presenze greche, ma anche le tradizioni ind igene si modificano, adottando tratti culturali greci in vari ambiti, da quello delle strutture abitative a quello religioso, in una situazione che assume i tratti dell'ibridazione. A lungo termine, quel che resta del mondo indigeno, anche in aree più lontane, come la valle del Crati, adotta pratiche e strutture proprie della cultura ellenica. Insom­ ma, il contesto loc ale è intaccato profondamente, ma non eradicato, for­ za e opportunismo devono aver proceduto fianco a fianco, ridislocazioni del capitale umano devono esserci state, nella dimensione territoriale, ma anche all' interno della compagine coloniale. Si potrebbe fo rse dire che siamo di fronte a un forte protagonismo coloniale volto a un inserimento del popolamento indigeno nella com­ pagine sibarita in posizione verosimilmente subordinata, in un quadro che vede una parz iale resilienza del mondo indigeno e fenomeni di ibri­ dazione e osmosi culturale. li caso di Taranto allo stato appare piuttosto diverso, perché una rico­ struzione delle vicende delle fasi più antiche della vicenda coloniale ( VII secolo) in termini di conquista e appropriazione del territorio circostan­ te non appare confortata dalla documentazione. Cruciali sono i dati che derivano dalle indagini in un sito nei pressi della moderna Crispiano, L'Amastuola. Si tratta di un abitato indigeno che si costituisce verso la

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fi n e dell ' viii secolo nell 'ambito di fenomeni di mobilità e ridislocazio­ del popolamento locale, non troppo diversamente da quanto acca­ duto nei casi dell' Incoronata e dell'abitato di Policoro. Di dimensioni n on irrisorie ( forse circa 3 ha) , era posto in posizione dominante a 200 metri sul livello del mare, circa 14 chilometri a nord-ovest di Taranto, al di qua delle Murge, in un comprensorio ben collegato con i percorsi che att raversavano la piana. Nel corso del VII secolo il sito conosce una trasformazione signifi­ cativa: l'abitato capan:nicolo viene sostituito da strutture a pianta ret­ tangolare di tipo greco. Nella necropoli, le sepolture e i corredi funerari hanno una fisionomia ellenica, anche se non manca qualche manufatto tipicamente indigeno. Così come alla tradizione locale appartiene il si­ stema difensivo della collina, a doppio aggere, a quanto pare risalente alla prima metà del secolo. Se non mancasse ogni traccia di discontinuità o di violenza bisogne­ rebbe pensare che i coloni di Taranto poche generazioni dopo la fonda­ zione avessero assunto il controllo di un sito indigeno che rappresentava un nodo importante del sistema insediativo del territorio. Tuttavia, col­ pisce che la sostituzione delle abitazioni di tipo ellenico alle capanne sia graduale nel corso del tempo, che le due tipologie convivano e che non sembrano esservi tracce di un'obliterazione violenta delle capanne. Né la documentazione materiale suggerisce uno svuotamento del sito della sua popolazione locale e, anzi, la fortificazione, la ceramica indigena e alcuni manufatti (una "stele messapica" ) suggeriscono il contrario. Na­ turalmente l'assenza delle pratiche funerarie di tradizione locale è un problema. ne

L' interpretazione del difficile contesto potrebbe basarsi sull' ipote­ si che un' intensa fase di convivenza tra elementi greci e indigeni abbia dato luogo a un fenomeno di sovrapposizione e incrocio di identità e in definitiva di osmosi culturale. Né le abitazioni, né i costumi funerari devono essere necessariamente interpretati in chiave etnica. Saremmo allora di fronte a un abitato greco-indigeno misto in cui si innescarono fenomeni di assimilazione e osmosi. Anche in questo caso non bisognerebbe nascondersi però che l 'elemento coloniale deve aver avuto un forte peso condizionante e che l 'osmosi potrebbe essere stata u na dinamica di mimesi in una situazione di squilibrio nei rapporti in­ tercomunitari. ll paesaggio dell ' intreccio a L'Amastuola potrebbe essere stato più complesso di quanto sembra. In ogni caso, però, non si trattò di un esperimento effimero perché il sito fu vitale fino al v secolo.

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Complessità coloniali

Non pochi ormai, tra i quali chi scrive, sono del parere che la vicenda dell' Italia meridionale in età preromana non coincida con la storia e i problemi della colonizzazione greca. I processi di mobilità implicati, gli spazi e i paesaggi coinvolti, i protagonismi collettivi ali'opera vanno al di là delle città fondate dai Greci. E tuttavia di rado ne prescindono to­ talmente. Questo vale soprattutto per la lunga fase di formazione del mondo magnogreco, che si colloca grosso modo nell'vm e nel VII secolo. Il problema del rapporto con la colonizzazione è dunque ineludibile. Se per colonizzazione intendiamo la fondazione di nuove comuni­ tà politiche greche oltremare, diviene inevitabile intendere una serie di complesse dinamiche di mobilità che non si traducono in fondazioni di questa natura come fenomeni precoloniali o paracoloniali, vale a dire fenomeni che precedono la colonizzazione o ad essa si affiancano. Ma questa terminologia implica una valutazione del "prima" alla luce del "dopo� e di ciò che è "collaterale" alla luce di ciò che è "centrale". E poi si isola il fenomeno coloniale in una dimensione assolutamente specifica. E si pongono molti problemi. I fenomeni di insediamento sono propri solo della colonizzazione intesa in questo senso ? E le fondazioni sono veramente sempre tali, cioè eventi puntuali, invece che processi che si dispongono nel tempo ? Si tratta di fatti che per loro natura creano delle cesure nei contesti e nelle strutture locali in cui si inseriscono ? E le nuove comunità politiche sono tali sin dall' inizio ? A ben vedere, si possono individuare ragioni per non dare per scontata una risposta po­ sitiva a questi interrogativi e per introdurre una nozione di complessità e diversificazione in riferimento al fenomeno coloniale. Una discussione esaustiva è evidentemente impossibile, ma vale la pena almeno di avviar­ la radicandola nel concreto. Un osservatorio utile ad affrontare il problema è rappresentato in primo luogo dal paesaggio del!' intreccio nell'arco ionico del!' Italia me­ ridionale del quale si è tracciata la fisionomia, pur con tutte le sue diffe­ renziazioni. Se si considerano le situazioni del Metapontino e della Siritide, vale a dire i contesti da un lato dell ' Incoronata e delle aree circonvicine, compreso lo spazio urbano della futura Metaponto, e dali' altro l'abitato di Policoro, si deve sottolineare che siamo di fronte a presenze greche non irrisorie da alcun punto di vista, inserite in contesti indigeni, anzi a

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ben vedere impegnate in convivenze e interazioni intense. Ora, si tratta pur sempre di fenomeni di insediamento, vale a dire di radicamento di el em enti greci allotri in un contesto d'oltremare. Certo, non siamo di fro nte a poleis coloniali nascenti. Ma le dinamiche interessano vari am­ b i enti, coinvolgono fatti di mobilità e risorse umane non trascurabili e co mportano transfert culturali e tecnologici; infine, mostrano una certa co ntinuità temporale che si estende per molte generazioni. Non abbia­ mo a che vedere con fenomeni che rappresentano una forma stanziale di p resenza oltremare' di elementi greci ? Perché pensare che si tratti di singolarità che precedono o affiancano la colonizzazione, e non invece u na forma diversa di esperienza coloniale ? Certo, con l'organizzazione dell ' insediamento di Metaponto questa forma di presenza e i contesti indigeni in cui si inserisce vengono meno. Ma nella Siritide, la colonia di Siri, una volta installata, evidentemente convive e interagisce con l'a­ bitato misto sulla "collina del barone". E anche chi pensa che sulla colli­ na venne installata Siri deve ammettere che la fine politica della colonia non rappresenta la fine dell'abitato collinare, che continua. E poi, tor­ nando a Metaponto, non è veramente chiaro quanto tempo passi dopo l ' installazione della colonia, prima della destrutturazione del mondo indigeno circonvicino. E, inoltre, se è verosimile che le risorse umane indigene e greche preesistenti vennero inglobate nella città coloniale, questo significa comunque un forte rapporto, nelle primissime genera­ zioni, tra la colonia e il contesto in cui si inserisce. E ancora, quanto oggi sappiamo sulle sepolture più antiche di contrada Crucinia a Metaponto dice della presenza nella genesi della città di élite guerriere di difficile caratterizzazione in senso etnico (greche ? indigene ? ibride ?) che sono legate a un orizzonte culturale che è quello della Siritide mista di Polico­ ro. Insomma, da più di un punto di vista si potrebbe riconoscere nei casi di Metaponto e Policoro una complessità coloniale in cui il paesaggio dell ' intreccio si rapporta e si combina in vari modi alla formazione di una colonia nel senso canonico del termine. Va poi considerato il problema dei rapporti tra le colonie appena in­ stallate e gli indigeni. Ormai possiamo quanto meno porre degli interro­ gativi, di nuovo, che in un precedente stadio della riflessione erano qua­ si improponibili. La manipolazione degli equilibri sociali e territoriali d egli spazi in cui la colonia aveva a che fare con preesistenze indigene più o meno organizzate appare ora il principale problema delle prime ge n erazioni di Cuma, Sibari e Posidonia. I tempi e le soluzioni sono di­ ve rs i, così come gli esiti, ma persino nel caso della ristrutturazione più

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profonda, quella messa in atto da Sibari, è abbastanza chiaro che Sibari si forma e si organizza nella misura in cui affronta il rapporto con il mondo locale. E le cose probabilmente stanno in maniera non del tutto diversa per Taranto. Oggi si può legittimamente discutere se a Saturo il con­ testo indigeno sia stato semplicemente obliterato, mentre nello stesso centro della colonia spartana è tutt 'altro che chiaro nella documenta­ zione archeologica se delle preesistenze indigene con le quali nel pieno dell'viii secolo erano intercorsi contatti sia stata poi fatta tabula rasa. Così come di una "conquista" del territorio agricolo da parte di Taranto al momento della fondazione sembra difficile continuare a parlare, alla luce di quello che, al di là delle divergenti interpretazioni, un sito come L'Amastuola rappresenta, perché non sembra esservi spazio per ammet­ tere che l'importante sito indigeno sia stato occupato e trasformato con la violenza in un abitato greco. Anche dal punto di vista dei rapporti con gli indigeni, devono esse­ re quantomeno ricalibrate sia l'idea di un' intrinseca e radicale diversità dell'orizzonte coloniale rispetto al contesto locale indigeno, sia la nozio­ ne di "fondazione". In effetti, a collocare la nozione di fondazione in una dimensione di notevole complessità devono indurre, oltre alle dinamiche di relazione rispetto agli indigeni, anche almeno due altri aspetti. n primo, rappre­ sentato dai casi di "fondazione in due tempi", in Magna Grecia emble­ maticamente rappresentati da Posidonia e da Locri. In entrambi, l 'esito è l' installazione di un insediamento urbano che si sarebbe avviato a di­ ventare una polis, una comunità politica. Ma le fasi precedenti, vale a dire l' insediamento ad Agropoli e quello al Capo Bruzzano, indicano in maniera eloquente quale complessità potesse assumere il fenomeno dell' insediamento coloniale. n secondo aspetto è rappresentato dal caso di Napoli, in cui ormai si vede bene che la "nascita" della città non è esat­ tamente una fondazione, ma una "poleogenesi" che coinvolge diverse generazioni tra gli ultimi decenni del VI secolo e la metà del v. In questo quadro si può forse avanzare una nota di cautela anche sulla "fondazione" di Crotone. Se da un lato le storie di fondazione legate alla figura, come minimo eroizzata, dell'ecista Miscello e del suo rapporto con l'oracolo delfico sono costruzioni memoriali identitarie di VI seco­ lo, che non "riflettono" le realtà del tardo VIII secolo, la documentazione archeologica non deve tuttavia essere sovrainterpretata. Nel senso che non sembrano esservi ragioni solide per affermare che sin dal primo ini­ zio dell' insediamento venne disegnato lo spazio, con le sue articolazioni

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i nt erne, della futura città, anche se una corona di necropoli sembra aver­ n e delimitato grosso modo la collocazione. Probabilmente è prudente far con to su nulla di più di questo. Pur senza essere troppo recisi, vale la pena di osservare che non si può r da e per scontato che i Greci che arrivarono sulle coste della Basilicata io nica al di fuori e indipendentemente dai contingenti che si installa­ rono a Metaponto, Sibari e Siri, siano da collocare in un "prima" di mi­ grazioni e avventure commerciali. Essi fecero esperienze di stanziamen­ to. Né si può dare pet scontato che le fondazioni greche non abbiano interagito in maniera complessa con il contesto indigeno. E nemmeno che esse siano state eventi puntuali e non processi complessi disposti nel tempo.

L'entroterra profondo

(VII e VI secolo )

Nella lunga tradizione di studi sulla Magna Grecia ha sempre predomi­ nato la tendenza a discutere delle aree interne nella misura in cui ave­ vano intrattenuto rapporti con il mondo coloniale della costa. Le aree più remote, che possiamo chiamare qui "entroterra profondo", era in definitiva inevitabile fossero ritenute coinvolte nella vicenda storica re­ gionale solo in epoca più recente, quando si sarebbe dispiegata appieno la capacità delle compagini coloniali, soprattutto quelle dell'arco ionico, di esercitare influenze e praticare forme di contatto e di presenza a più lunga distanza. Tuttavia, dagli anni Ottanta del secolo scorso, l'archeologia dei po­ poli anellenici in Italia meridionale è andata mostrando le vivaci dina­ miche storico-sociali che in età arcaica caratterizzarono alcuni territori interni non direttamente soggetti all ' influenza - tra l'altro, nozione di per sé discutibile - di un centro coloniale. Un esempio significativo è certamente quello delle lunghe e rivelatrici indagini condotte nel set­ tore nord-orientale del Potentino, a est del Vulture, che hanno eviden­ ziato non solo il fermento sociale e l 'organizzazione comunitaria degli i ns ediamenti di Lavello e Banzi e di quelli del Melfese, ma anche i loro molteplici collegamenti: con il resto del comprensorio di cultura dauna, in particolare con Canosa, con la Campania etrusca e greca attraverso l ' asse Ofanto-Sele, e anche con il mondo coloniale del versante ionico attraverso il Bradano. Oggi questo quadro si è ulteriormente arricchito con importantis-

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sime ricerche in quello che è stato definito il "cantone nord-lucano� le quali hanno messo in luce complessi dinamismi interni al contesto del popolamento indigeno nel corso dell 'viii secolo, e nei secoli successi­ vi fenomeni molto rilevanti di strutturazione delle società locali, oltre che di interazione non superficiale con il mondo etrusco-campano e le colonie greche della costa ionica, in particolare, in questo caso, Taran­ to. L'area coinvolta, che comprendeva il Potentino centro-occidentale e parte dell'area del Vallo di Diano, ospitò in età arcaica una nutrita serie di si ti ( tra i quali Ruvo del Monte, Acerenza, Oppido Lucano, Serra e Braida di Vaglio, Torre di Satriano, Baragiano, Atena Lucana) e fu un distretto cruciale del mondo lucano fino all'età ellenistica. Nonostante il carattere aspramente montuoso e il clima rigido, il territorio dispone­ va di risorse importanti procurate dall'economia della selva, il legname in primo luogo, e dall'allevamento. La mobilità interna era favorita da una fitta rete idrografica, mentre i collegamenti a lunga distanza pote­ vano contare sulla valle del Basento, sull'asse Ofanto-Sele e sul Vallo di Diano. Si può comprendere che il comprensorio sia stato un punto di riferimento della mobilità indigena nel corso dell'viii secolo, quando fu fittamente popolato, nell'ambito di un processo che è stato inteso come un fenomeno di "colonizzazione interna" ( Osanna) , da gruppi provvisti di una cultura materiale non lontana da quella delle genti apule e invece distinta rispetto alla tradizione enotria. Il cantone nord-lucano conobbe precoci fenomeni di strutturazione interna delle comunità locali, intensi contatti esterni e uno sviluppo che poi nel VI secolo vide affermarsi vertici sociali dominanti provvisti di una forte identità e attivi al centro di una rete di relazioni di reciprocità che coinvolgeva le élite etrusco-campane e greco-coloniali. Una grande stagione di ricerche negli anni Duemila ha rivelato mol­ ti dettagli cruciali sui principali insediamenti, primo fra tutti quello di Torre di Satriano, un sito d'altura dominante, posto nella zona meridio­ nale del cantone, a un centinaio di chilometri da Posidonia e a circa 1 40 da Taranto. L' insediamento aveva carattere policentrico e consisteva, dall'viii secolo, di una maglia di piccoli villaggi sparsi, a loro volta parte di una rete più ampia che includeva gli altri insediamenti maggiori del cantone. A uno dei nuclei di Torre di Satriano apparteneva una struttura della seconda metà del vrr secolo che non ha uguali nell' interno della Basi­ licata e semmai qualche analogia in area ionica, a Francavilla Marittima nella Sibaritide. Si tratta di una "casà' absidata di non irrisorie dimen-

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sioni (ca. 2.2. x 12. m), verosimilmente sede di attività comunitarie gestite n ell 'ambito della dimora di un big man (Sahlins, 1963), un "capo': come [as ciano pensare la grande quantità di ceramica locale, le forme vasco­ lari potorie e a carattere rituale, la presenza di importazioni greche, la documentazione del consumo sociale del vino, e la presenza di forni e am bienti per l ' immagazzinamento di oggetti e derrate. Al vino e al suo consumo collettivo si deve attribuire una cruciale importanza socioculturale. n prodotto esotico di pregio mostrava em­ blematicamente che il generoso ospite che lo dispensava aveva il potere di estrarre benefici concreti e prestigiosi dai suoi rapporti esterni alla co­ munità. Inoltre si prestava particolarmente sia a intrecciare relazioni in­ terpersonali e intercomunitarie durante le complesse fasi del trasporto a lunga distanza, sia a costruire rapporti all ' interno della comunità. Infine la necessità di procurarsene consentiva al vertice sociale di giustificare la pressione sulla forza lavoro necessaria a produrre le risorse da immettere nei circuiti dello scambio. In questo quadro non c 'è motivo di pensare che il vino fosse vissuto come un consumo specialmente "greco", in una prospettiva di confronto tra coscienze etniche diverse. Poco prima della metà del VI secolo, la residenza absidata fu distrutta e sostituita, ma in un'area diversa, da una struttura di proporzioni cospi­ cue e caratteristiche straordinarie. Una vera e propria residenza signorile che alcuni decenni dopo arrivò a occupare circa 2.40 metri quadrati, ri­ sultando così la più grande struttura coperta sinora nota dell'area luca­ na. Era dotata di un tetto monumentale con strutture in legno, tegole e terrecotte architettoniche analoghe a quelle di un tempio greco. Le istruzioni di montaggio leggibili su un centinaio di frammenti dimo­ strano che la copertura dell'edificio fu prodotta e assemblata sul posto da qualificatissime maestranze provenienti da Taranto. E il rapporto con la colonia spartana è confermato dallo stile di un fregio in bassorilievo e dalle decorazioni e sculture architettoniche. All 'interno, la vasta sala centrale destinata al grande evento sociale di un banchetto-festino per molti ospiti era contornata da ambienti per lo stoccaggio di derrate, la raccolta delle suppellettili, per la cucina e la tessitura. I sistemi di oggetti funzionali alle pratiche sociali comunitarie, di cui il palazzo signorile era la sede, erano prevalentemente di importazione, a differenza di quanto avveniva nella residenza absidata. Grandi recipienti in bronzo proven­ gono dall 'area etrusco-campana, ma anche da Taranto, forse importati dalla Laconia, forse più probabilmente prodotti nella colonia, né man­ cano alcuni elementi dell 'armamento oplitico di provenienza magno-

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greca. La ceramica fine e decorata è attica, corinzia, greco-orientale, con pezzi rari ed esotici, interi "servizi da simposio", vasi figurati di partico­ lare impegno. Tutto lascia pensare che Torre di Satriano non sia un caso isolato. Edifici coperti e decorati con tecniche artigianali e artistiche greche, in cui si sono potuti riconoscere sistemi di oggetti composti da importa­ zioni da vari ambienti etruschi e greci, sono presenti, anche se in forme per quel che sappiamo meno clamorose, in altri centri del comprensorio (Baragiano, Braida di Vaglio), dove è documentata anche l'esistenza di prestigiosi vertici sociali guerrieri in grado di procurarsi un armamento "oplitico" di altissimo livello. Nel VI secolo l' intero comparto appare una realtà locale in cui sono presenti diverse comunità fortemente strutturate e gerarchizzate, proba­ bilmente anche con modalità non del tutto omogenee, ma tutte inserite in un sistema di relazioni esterne ad ampiissimo raggio. Come il Melfese, e probabilmente in modo ancora più organico, il comparto nord-lucano appare impegnato in una rete di relazioni che raggiungeva Posidonia e l'area etrusco-campana da un lato, la costa ionica e soprattutto Taranto dali ' altro. Queste relazioni dei vertici sociali ali' interno della rete intere­ litaria regionale e mediterranea si trovavano a essere proiettate nel cuore dell'evento sociale del banchetto dai sistemi di oggetti esotici ed esclu­ sivi importati e contribuivano in misura decisiva a costruire il capitale sociale che legittimava e rafforzava la leadership. n contatto con le élite esterne doveva avvenire attraverso trafile com­ plesse e mediate, ma sicuramente prevedeva il ricorso a doni ospitali di pregio. È molto significativo da questo punto di vista che esattamente la procedura del dono ritualizzato sia attestata da un'iscrizione etrusca su un bacile di bronzo, facente parte del corredo di una tomba della necro­ poli di Braida di Vaglio (tomba 106) , che è considerato di sicura prove­ nienza dall'area etrusco-campana, forse dal Salernitano. n dono intere· litario "apre" i rapporti e istituisce vincolanti legami di reciprocità tra i vertici sociali. A loro volta questi si pongono, come molti modelli antro­ pologici hanno evidenziato, a fondamento e garanzia di ulteriori trafile di contatti e scambi in cui entrano in gioco beni d 'uso e materie prime. Ali' interno di queste reti di relazioni dev 'essere anche visto l' intervento delle maestranze tarantine per la costruzione del palazzo signorile. Non può trattarsi di altro se non di un esito di accordi tra il "signore" di Torre di Satriano ed esponenti di vertice della società tarantina. In questo quadro, le relazioni, i beni e gli oggetti in movimento non

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potevano avere una connotazione etnica, anche se conservavano carat­ teristiche proprie che ne richiedevano l' integrazione nella cultura che li sceglieva. Era inevitabile che prendesse forma una cultura "mista" che in­ tegrava forme c: codici simbolici esterni. Doveva esservi anche un aspet­ to linguistico, non solo perché, come si vede su grande scala nel Vicino Oriente, i vertici della società dovevano avere conoscenze linguistiche multiple, ma anche perché un fenomeno come quello della presenza e attività delle maestranze tarantine a Torre di Satriano implicava una re­ sidenza sul posto di non irrisoria durata e dunque necessità di comuni­ cazione a vari livelli. Questa società si rivelò abbastanza instabile, forse per l ' inadeguatez­ za delle sue strutture a sostenere un vertice che richiedeva di avere conti­ nuamente a disposizione risorse ingenti. All'epoca delle guerre persiane, in un contesto internazionale ormai mutato, con la crisi del grande com­ mercio mediterraneo greco-orientale, la fine di Sibari e le difficoltà di Taranto, il palazzo signorile crollò e non fu più ricostruito. Si avviò per quella società un lungo e molto complesso processo di trasformazione e ridefinizione che più tardi ne fece un'area cruciale del mondo lucano. Anche territori diversi dell'entroterra profondo offrono particolari elementi di interesse che mostrano bene come il dinamismo delle comu­ nità locali non derivasse dal contatto con le società coloniali. Si conside­ ri, ad esempio, l'area posta tra la media valle dell'Agri e la valle del Sauro, a circa 70-8 0 chilometri da Potenza e a una cinquantina dalla costa io­ nica, un'area attraversata da itinerari che la collegavano da una parte alla Campania meridionale, da Posidonia all'ambiente etrusco-campano, e dall 'altra al mondo coloniale ionico, soprattutto a Siri. Anche in questo caso è possibile osservare come siano ugualmente presenti, sia pure in un contesto culturale diverso, fenomeni di intersezione e mistione culturale interni alla realtà locale. In effetti, è il ruolo attivo delle società loca­ li nella selezione dei sistemi di oggetti acquisiti da lontano a dar vita a forme di plasmazione e riorganizzazione delle pratiche sociali sulla base dell ' incrocio di svariati codici culturali "esterni". Ad Alianello di Aliano una grande necropoli, corrispondente a un abitato nucleare di proporzioni non irrisorie, mostra a partire già dai primi decenni del vn secolo un contesto fortemente legato alla tradi­ zione protostorica ma tute ' altro che chiuso in sé stesso. Viene importata in effetti un 'ampia gamma di oggetti da contesti indigeni, dal mondo coloniale greco e dalla Campania etrusca: ceramica e ornamenti per­ sonali in bronzo dal Vallo di Diano, contenitori in ceramica dagli am-

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bienti dell' immediato entroterra ionico (Incoronata, Policoro) che era­ no contraddistinti da forme di convivenza e condivisione di esperienze culturali e artigianali tra coloni e genti locali, vasi in bucchero di foggi a etrusca, oggetto anche di imitazione locale, ceramica greca di stili, for­ me e funzioni diversi, pregiati vasi di bronzo etruschi e altri oggetti in bronzo, spesso funzionali al banchetto carneo, di produzione etrusca e greca. Qui la mistione culturale va al di là della "cultura materiale" e investe le pratiche sociali, dal banchetto a base di carne arrostita e bollita al consumo conviviale del vino, incrociando e sovrapponendo oggetti e codici locali ed esterni, "indigeni': coloniali ed etruschi. Giungono fino a noi i lineamenti di uno stile di vita elitario di nuovo stampo, in cui si sovrappongono e si fondono l'espressione di nuove gerarchie locali e gli echi della condotta sociale delle aristocrazie etrusche e greche. Considerazioni in parte analoghe possono essere proposte in rappor­ to al fenomeno molto cospicuo, per diffusione e consistenze materiali, della presenza di armi nelle necropoli. Si è di fronte a « una presenza generalizzata nelle compagini apulo-lucane » (Bottini, 2013, p. 38), che coinvolge svariati elementi dell'armamento tipico dell'oplita greco, dall'elmo alle armi da getto, alla spada, allo scudo, alle protezioni degli arti, e in diversi casi intere panoplie in cui tutti questi elementi sono rappresentati. Le ancora diffuse letture in chiave di "adozione" dell'armamento gre­ co non rendono giustizia alla complessità del fenomeno. In primo luo­ go si deve pensare che le armi "oplitiche': difensive e offensive, fossero utilizzate in maniera selettiva ai vari livelli sociali cui appartenevano i combattenti. Le unità in campo, poi, non erano corpi di fanteria pesante organizzati a ranghi serrati, perché gli "opliti" erano in realtà un'élite di opliti a cavallo, tra i quali non mancavano figure di vertice di alta dignità equestre, come mostra l' iconografia di noti bronzetti. Siamo dunque ab­ bastanza lontani dagli eserciti oplitici delle poleis greche. In un contesto del genere le armi oplitiche, più che omologare, differenziavano ranghi e livelli sociali, contribuendo alla gerarchizzazione della società. E poi, la presenza delle armi nel corredo funebre a connotare lo status del defun­ to era una pratica del tutto estranea, e anzi incompatibile, con l'ordine simbolico della comunità politica greca. Viceversa, il ricorso alle armi greche, alle quali peraltro si accompagnavano spesso imitazioni locali, modifiche tecniche e manipolazioni dell'assemblaggio complessivo, rappresenta, accanto alla differenziazione dell'armamento in rapporto allo status, al suo uso esibitorio in vita (le armi "da paratà') e al suo valo -

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re simbolico nell' ideologia funeraria, un insieme di scelte culturali che a ssumono un significato nel quadro delle strutture delle società locali. L'esplorazione delle differenze e specificità territoriali di fenomeni del genere, ad esempio tra i centri del medio corso dell 'Agri come Alia­ nello e Armento e quelli del medio corso del Sinni come Chiaromonte, p ossono dire molto delle dinamiche interne delle società locali, ben più che delle influenze del mondo coloniale. Queste ci furono e non furo­ no irrilevanti, basti pensare che entrambe queste aree dopo la caduta di Siri entrarono a far parte del sistema sibarita di controllo dell 'entroterra. Ma, come si vedrà, Sibari mise in opera modalità complesse di negozia­ zio ne e manipolazione delle relazioni, partnership sbilanciate e forme di integrazione e subordinazione politiche, forse anche a livello militare, e tuttavia non si può dire che abbia veramente avuto luogo un' assimilazio­ ne culturale a modelli ellenici.

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prima e dopo Sibari

Città della costa ionica in guerra Il mondo delle colonie achee appare sulla ribalta internazionale della Magna Grecia prima della metà del VI secolo a.C. È il momento della conquista di Siri da parte di una coalizione formata da Metaponto, Si­ bari e Crotone e di un successivo scontro tra Crotone e Locri noto come " battaglia della Sagrà' (dal nome antico del fiume nei pressi di Caulonia, verosimilmente l 'Allaro, dove si combatté). La cronologia dei due eventi è di difficile ricostruzione. La battaglia fra Crotone e Locri è collocata dalla tradizione antica in un periodo che va dal s8o/s7S al s6s/s6o cir­ ca, ma sul piano della ricostruzione storica è raccomandabile pensare agli anni s6o/ sso. La ragione sta nel fatto che nei tardi anni Settanta un membro dell'élite sirita (Damaso) è tra quanti a Sicione si contendono la mano della figlia del tiranno Clistene, per cui la fine di Siri dovette aver luogo successivamente (nei primi anni Sessanta ?) e occorre lasciare un intervallo rispetto alla Sagra. La cooperazione delle colonie achee in occasione dell'attacco alla io­ nica Siri non va letta in chiave etnica. Essa doveva fondarsi su affinità culturali, su omogeneità economiche rivelate dalle coniazioni di qual­ che decennio dopo, e soprattutto sulla forza centripeta di Sibari. Una certa estraneità di Siri all 'ambiente acheo e la sua collocazione tra Sibari e Metaponto ne segnarono la sorte. Una guerra tra città confinanti che se mbra l'esito finale di contese territoriali e di ambizioni metapontine e si barite eliminò la colonia di Colofone dal novero dei centri autonomi. A questi avvenimenti si collegò lo scontro fra Crotone e Locri. Tra­ dizioni locali locresi preclassiche attribuiscono alla città un interven­ to in soccorso dei malcapitati Siriti, dopo il quale sarebbe intervenuto l'attacco crotoniate. Locri allora avrebbe chiesto aiuto ali ' amica Sparta, ricevendone il consenso ad avvalersi della protezione dei Dioscuri. In

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battaglia, il disperato valore dei Locresi e l' intervento dei divini gemel­ li a cavallo avrebbe avuto ragione della superiorità numerica dei nemi­ ci. Nonostante i particolari miracolosi, in realtà tipicamente arcaici, lo scontro va ritenuto storico. Si deve dubitare però dell'aiuto locrese a Siri e dell 'aggressione crotoniate. Lo lascia pensare soprattutto la localizza­ zione della battaglia a sud di Caulonia, una polis achea strettamente le­ gata a Crotone. Lo scenario sembrerebbe dunque quello di una "guerra tra vicini" in cui era in gioco l' interesse locrese a dare respiro al proprio orizzonte territoriale a sostegno del proprio sviluppo interno. Forse an­ che Reggio appoggiò Locri, magari per favorire intese relative al versante della costa tirrenica. Locri attraversava una fase espansiva che più tardi, ali' inizio del VI secolo, la portò a consolidare la sua presenza sul Tirreno con le due subcolonie di Medma (Rosarno) e Ipponio (Vibo Valentia) e ad affermare un crescente controllo sul centro calcidese di Metauro. Con Ipponio, in particolare, i Locresi si portavano all'estremità tirrenica del più stretto istmo calabrese fra Tirreno e Ionio (tra i golfi di Sant ' Eu­ femia e di Squillace). L'estremità ionica dell' istmo era nella sfera di in­ fluenza crotoniate, e si può comprendere che Locri in questo quadro mirasse a indebolire, intervenendo contro Caulonia, la gravitazione ero­ toniate verso sud, sui due versanti, ionico e tirrenico. L'attrito tra le sfere d' influenza di Locri e Crotone avrebbe continuato a lungo a produrre tensioni, come indica una vittoria su Crotone conseguita da Ipponio, alleata di Me dm a e Locri, che un' iscrizione dedicatoria da O limpia per­ mette di collocare nel tardo VI secolo. Posidonia, Elea e il basso Tirreno

È solo con il VI secolo che il comparto costiero tirrenico, dal Golfo di Salerno a quello di Sant ' Eufemia, vede sorgere due insediamenti colo­ niali di importanza storica: Posidonia (poi Paestum) ed Elea (poi Velia) . Le origini di Posidonia sono sibarite e devono essere collocate nello scorcio del VI I secolo, forse poco prima del 6oo a.C. Il geografo Strabo­ ne ( s .4.13 c 251) preserva un circostanziato frammento della memoria coloniale locale che continua a far discutere: «i Sibariti stabilirono una piazzaforte sul mare, ma i coloni si spostarono più oltre » . Sappiamo ora che materiali ceramici inequivocabilmente acheo-sibariti fanno pensare a una presenza sulla rocca di Agropoli anteriore alla fine del VII secolo . Ne viene definitivamente rafforzata una brillante interpretazione ( Gre-

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co, 19 74-7 5) avanzata da tempo, secondo la quale la "piazzaforte" è quel­ la di Agropoli e lo spostamento dei coloni fu ali' incirca di una decina di chilometri in direzione nord. Posidonia, dunque, nacque in due tempi, come avvenne in altri casi, dei quali è notevole in Magna Grecia quello di Locri. Fu stabilita al centro della fertile pianura costiera attraversata dal Sele, in un'area vicinissima al mare sulla sinistra del fiume, contrad­ distinta dalla presenza di lagune costiere e paludi e attraversata da corsi d'acqua, in un paesaggio che davvero ricorda quello di Metaponto e di Sibari. Era al centro di una rete di percorsi che attraverso il Sele portava­ no nel cuore dell'area etrusco-campana, fino a Pompei, e lungo la costa, a sud, ad Agropoli e al Golfo di Policastro; mentre, risalendo il bacino del Sele, si potevano raggiungere il Potentino e il Basento o il Vallo di Diano per raggiungere il bacino dell'Agri. NeU' area di Posidonia vi erano presenze indigene che dovettero esse­ re assorbite nel quadro di una prima organizzazione del territorio che fu precoce e venne segnata soprattutto dallo stabilimento all'inizio del VI secolo di un santuario sul Sele (il cosiddetto Heraion), non esattamente alla foce del fiume, ma lungo il suo ultimo tratto, che era navigabile. Lì, nel secondo quarto del secolo, iniziò una cospicua monumentalizzazio­ ne, mentre l'organizzazione dell'area cittadina, con i suoi assi stradali, i santuari e i templi urbani, ebbe luogo verso la fine del secolo. Pare evi­ dente che prima fu necessario approntare l'organizzazione del fertile ter­ ritorio agricolo e iniziarne a sfruttare le risorse. La maturazione di una comunità politica in grado di compiere impegnative scelte collettive fu segnata dall'inizio della monetazione (intorno al 530-52.5), significativa­ mente poco prima dello sviluppo urbanistico e monumentale della città. La monetazione ebbe un ruolo nel quadro dei rapporti con le aree cam­ pane, ma anche nell'ambito della rete di scambi che attraversava il Tirre­ no da Marsiglia allo Stretto di Messina. Lo testimonia l'organizzazione ponderale, che riprendeva quella della focea Elea e aveva caratteristiche che ne agevolavano l'uso in Campania e nel contesto del commercio ma­ rittimo ionico-calcidese. Che da Posidonia si guardasse anche a sud del Cilento si ricava non solo dalle sue monete, ma anche dalla storia della nascita di Elea. Erodo­ to la inserisce in una complessa vicenda mediterranea e tirrenica, nella quale furono coinvolti Greci della Ionia d'Asia, in particolare Focei e S ami, Etruschi e Cartaginesi. I Focei avevano fondato intorno al 6oo a.C. Massalia (Marsiglia), e d erano i protagonisti, insieme ad altri Ioni, di un'intensa attività di

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scambio in tutto il Mediterraneo, in particolare occidentale, che coin­ volgeva il mondo etrusco e in parte toccava quello cartaginese. Poco più di una trentina di anni dopo, essi si garantirono una base di appoggio tirrenica in Corsica, ad Alalia, e lì andarono a stabilirsi quando Foce a cadde nelle mani dei Persiani nel S 4 S a.C. La loro attività nel Tirreno fu osteggiata soprattutto dall'etrusca Cerveteri, che era legata a Carta­ gine : così, intorno al S 40 a.C., i Focei dovettero affrontare una flotta etrusco-cartaginese di centoventi navi, che sconfissero a caro prezzo, al punto da dover abbandonare Alalia. Inizia qui la storia di una diaspo­ ra strettamente intrecciata con una mobilità mediterranea nella quale convivevano attività di scambio e insediamento, relazioni interetniche e conflittualità. I Focei lasciarono la Corsica a bordo delle venti navi che rimanevano loro, sulle quali avevano imbarcato anche le famiglie e quanto possedevano. Si rifugiarono a Reggio, evidentemente contando su una rete di solidarietà nel quadro del commercio tirrenico ionico­ calcidese, e partiti da lì si «procurarono» in Enotria quella che sarebbe divenuta Elea ( Erodoto, I.I6 7.3) . Come aggiunge la storia, un posido­ niate ( certo un esperto di oracoli) avrebbe rivelato loro che l'oracolo di fondazione di Alalia era stato mal interpretato e andava in realtà inteso come sanzione delfica della fondazione di Elea. Come spesso accade, una memoria comunitaria ( in questo caso eleate) rielaborava le proprie origini. n ruolo del posidoniate, in più, forse adombra il consenso e l'in­ teresse della città achea all'insediamento foceo, solo una ventina di chi­ lometri a sud di Agropoli. Come queste vicende lasciano sospettare e la numismatica spinge a credere, in quei decenni Posidonia, Elea e Reggio erano proiettate verso l'orizzonte tirrenico e le sue reti di scambio, sia pure con modalità e direttrici non esattamente coincidenti. n sito di Elea era all'epoca piuttosto diverso dall'attuale. li ripido promontorio su cui sorse l'acropoli si protendeva sul mare per alcune centinaia di metri ed era intagliato a nord e a sud da piccole insenatu­ re dove era possibile mettere alla fonda le navi. Il litorale da entrambe le parti era piuttosto ampio e orlato di pescose lagune, saline e palu­ di, le quali, come nel caso di Sibari e Posidonia, avevano una non irri­ soria importanza economica. Notevole l'affinità di questo p aesaggio costiero con quello della madrepatria Focea e di Massalia. Il territo­ rio agricolo della città, con le sue sorgenti e i piccoli corsi d'acqua che lo attraversavano, era fertile, e la ricerca sul terreno ha ormai mostra­ to, al di là di certi stereotipi della tradizione letteraria sulle coloni e

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foc ee, c he aveva dimensioni non irrisorie. Con una stima prudente si p otrebbe calcolarne un'estensione tra i I.ooo e i 2..ooo ettari (vale a di re tra i 10 e i 2.0 kmq). Non è affatto chiaro se i coloni abbiano "acquistato" Elea, come si è voluto far dire a Erodoto ( I . I 6 7.3). n verbo usato non implica necessa­ riamente una transazione economica e abitanti del luogo che ne siano stati partner non sono menzionati. Le cose stanno in maniera verosi­ milmente più complessa. Si deve anzitutto tener presente la situazione dell' intero arco litoraneo compreso tra Capo Palinuro e il corso del Sa­ vuto tra Amantea e il Golfo di Sant' Eufemia. Siamo nel cuore della terra degli Enotri, aperta al mare e alla Sibaritide. Nei decenni successivi alla fondazione di Posidonia e in quelli della fondazione di Elea il fenomeno rilevante è una gravitazione delle genti dell'entroterra montuoso verso la costa, in un fermento di nuove presenze e di interazioni trasversali da Palinuro a Sapri (Santa Croce), a Maratea (Capo La Timpa), a Paleca­ stro di Tortora, a Petrosa di Scalea. Si tratta certamente di comunità di connessione con l'entroterra (gateway communities) che si raccordavano alla circolazione marittima (di cabotaggio e a lunga distanza), mettendo i n contatto la rete di scambi da questa attivata con le risorse del!' interno. Al tempo stesso erano collegate con le aree alle spalle della fascia costiera e aperte per questa via alle valli fluviali che conducevano alla Sibaritide. In alcuni siri, tra i quali il caso di Palinuro è emblematico, si verificano fenomeni di mistione e di incontro culturale, del resto tipici di questo tipo di comunità. Tutto lascia pensare che questa vera e propria inter­ faccia assolvesse la funzione di convogliare e immettere nella circolazio­ ne marittima e terrestre il vino sibarita, i prodotti pregiati coloniali e soprattutto i recipienti di bronzo, l'olio dall'Attica, le risorse dell'eco­ nomia silvopastorale dell' interno. Si creavano così le premesse di una crescita delle comunità enotrie dell'area, alcune delle quali entrarono nella sfera di influenza di Sibari, adottarono la tecnica della scrittura e l'alfabeto acheo e in taluni casi la moneta coniata, giungendo a maturare esperienze di organizzazione politico-comunitaria significative, come a Castelluccio sul Laos e soprattutto a Tortora. In questo contesto è verosimile che la nascita di Velia abbia implicato un' interazione con il mondo indigeno, ad esempio di Palinuro, e forme di negoziazione della nuova presenza ellenica focea. n caso di Palinuro è veramente emblematico per l' importanza di un insediamento che ri­ mane vitale fin' oltre l'età classica e già nel tardo VI secolo si caratterizza come un insediamento misto in cui nativi e Greci convivono, il sacro

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assume forme esteriori di tipo ellenico, si consuma socialmente il vino e vengono importati e imitati manufatti metallici e ceramici etruschi e greco-coloniali. Sibari e i suoi alleati: interazioni culturali e forme di controllo «I Sibariti e i loro alleati e i Serdaioi hanno convenuto di unirsi in un patto basato sulla fiducia e la lealtà, valido in perpetuo. Garanti: Zeus, Apollo, gli altri dèi e la città di Posidonia » (Meiggs, Lewis, 1988, n. ro, trad. mia) . Questo il testo di un trattato affisso nel santuario di Olim­ pia, che fu redatto verso la fine del VI secolo a.C., più probabilmente prima che dopo la caduta di Sibari. Ma di questo si continua a discute­ re. Si tratta, in ogni caso, di una testimonianza di valore straordinario, che fornisce elementi cruciali per comprendere le modalità del controllo esercitato dalla città achea in una vasta area territoriale estesa tra la co­ sta ionica e il versante tirrenico a sud di Posidonia. «l Sibariti e i loro alleati » è formula analoga a quelle usate nell'ambito della Lega pelo­ ponnesiaca e della Lega delio-attica e definisce un'alleanza tra città che si suole definire egemoniale perché, stretta intorno a una città guida, si manifestava, nell'ambito delle relazioni esterne, come un'unità. Una s truttura interstatale del genere vede una dominante (Sparta, Atene, Si­ bari) legare a sé una serie di altri centri, formalmente alleati, ma in realtà politicamente subordinati, in un rapporto che, come l 'esempio ateniese dimostra, arriva a configurare forme di soggezione e la trasformazione dell'alleanza in dominio (arché) , e degli alleati (symmachoi) in sogget­ ti (hypekooi). Ora, l'alleanza incentrata su Sibari era indubbiamente un dominio, in ragione dell 'innegabile asimmetria sul piano del potenzia­ le umano, politico e socioeconomico tra la polis achea e i partner. La storiografia per parte sua sapeva, come dice Strabone ( 6.1.13 c 263), che Sibari dominava su quattro popoli (ethne) delle vicinanze e venticinque poleis soggette (hypekoous). Non ci viene detto di più, ma è verosimile c he le città soggette coincidessero, come minimo per una parte, con gli "alleati': Se poi effettivamente Sibari dominava anche compagini etnico­ territoriali (ethne), allora si potrà pensare che fossero in campo forme di subordinazione assimilabili, in senso molto lato, a quelle dell'impero persiano. Una consapevolezza dei modelli organizzativi di quest'ultimo

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no n dovrà meravigliare : Sibari, ma anche Crotone, avevano relazioni con Mileto, la Ionia e la Persia, che per parte loro frequentavano l'Oc­ cidente greco. Inoltre, l'eco nel mondo greco delle forme organizzative d eli' impero persiano fu talmente forte che si è potuto riconoscerne a b u ona ragione anche l' influenza sull ' assetto dell'alleanza egemoniale/ do minio ateniese. Quali e quanti fossero gli "alleati"/soggetti di Sibari ci sfugge nei det­ ragli, ma certo tra di essi dovevano esservi comunità anelleniche enotrie dell' interno. Un testimone di eccezione quale Ecateo di Mileto, nell'o­ pera geografica del quale si rifletteva, per il tramite delle attività ioniche in Occidente, un'ampia visione dell'entroterra magnogreco a partire dalle coste, menzionava nove poleis degli Enotri poste "nella terra che è in mezzo" (mesogeia), ma anche almeno altre otto devono aver fatto parte della lista presente nell'opera, che ci è pervenuta solo in scheletrici frammenti citati da autori più tardi. Perlomeno molte di quellepoleis de­ gli Enotri saranno state appunto comunità "alleate" /soggette di Sibari. La struttura del dominio e del controllo sibarita dev'essere stata tut­ tavia più complessa. L'enorme eco nella tradizione antica della potenza, della ricchezza e della popolosità della colonia achea, al di là di esagera­ zioni e aneddoti, è probabile abbia un fondamento storico. Sibari è vero­ simile incorporasse nel suo territorio anche comunità dipendenti, a vari livelli integrate nella società, non troppo diversamente da Sparta e dalle sue comunità di perieci. E le meno lontane tra queste potrebbero coinci­ dere con alcuni dei centri enotri menzionati da Ecateo; di altre, come ad esempio Francavilla e Amendolara, né le fonti, né l'archeologia hanno fornito il nome. Vi erano poi, nel comparto tirrenico a sud di Posidonia e Velia, nell'area grosso modo incentrata intorno al Golfo di Policastro, comunità alle quali appartengono coniazioni di indubbio stampo acheo per il tipo sibarita del toro retrospiciente, l'alfabeto della legenda e il valore ponderale (Ami, Sirinos-Pyxoes, So); in un caso (Pal-Mol) il tipo monetale diverso è comunque forse riconducibile alla Siri ormai achea. L'esperienza della monetazione risale a prima della caduta di Sibari e difficilmente non sarà stata "guidata" da esperti achei. Non si tratta che di uno degli aspetti di un coinvolgimento delle compagini locali enotrie in un sistema di interazioni con il mondo sibarita a livello socioecono­ mico, culturale e linguistico, del resto ormai documentate molto signifi­ cativamente da archeologia ed epigrafia lungo l'arco della costa tirrenica fino al Savuto. Per quanto attiene al rapporto con Sibari, le realtà locali enotrie (e/o "miste") cui queste coniazioni appartenevano avrebbero le

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caratteristiche per essere considerate anch'esse formalmente alleate e nei fatti soggette alla dominante, a meno che non si voglia pensare - abb a­ stanza improbabilmente - che la loro monetazione esprima autonomia e autodeterminazione politica. Che solo alcune delle numerose comunità di quell 'area e di altre, ad esempio della valle del Crati, avessero cono­ sciuto l'esperienza della monetazione non basta ad attribuire ad esse uno statuto di minore subordinazione alla dominante. La complessità delle relazioni in atto nella sfera del dominio sibarita è ulteriormente testimoniata dal fatto che nel trattato i Serdaioi figurano come un partner "esterno" all 'alleanza, anche se essi erano molto proba­ bilmente dislocati in un'area coincidente con quella delle compagini cui si attribuiscono le coniazioni di cui si è appena detto, molto probabil­ mente nel comparto tra le valli del Bussento e del Laos, forse nel bacino del Noce. E si deve pensare che anche altri partner intrattenessero con l'alleanza rapporti consimili. n documento non stipula in alcun modo un patto "di amicizià', perché il sostantivo philotes significa "patto vinco­ lante", dunque non esiste nemmeno una categoria di ph ilo i ( partner ami­ ci ) con cui Sibari entrava in relazione. In realtà, il testo del documento lascia inequivocabilmente pensare che dietro la solenne convenzione e lo scenario di pariteticità disegnato dal lessico e dal formulario vi sia una realtà asimmetrica, nella quale i Serdaioi riconoscevano la preminenza di SibarL Da questo momento, insomma, la gravitazione dei Serdaioi nell'orbita di Sibari e della sua alleanza avrà assunto i caratteri di una realtà ancorata a un atto ufficiale. La symmachia sibarita avrà quanto­ meno acquisito nei Serdaioi un centro "collegato", partner asimmetrico di relazioni concrete garantite dalla cornice del patto solenne concluso. In definitiva, l'alleanza egemoniale sibarita doveva inquadrare sia compagini etnico-cantonali ( gli ethne di Strabone ) , sia "alleati" l soggetti tra i quali vi erano comunità enotrie identificate da un toponimo, talora ellenico, e altre coinvolte in esperienze monetali, mentre poteva stabilire rapporti diplomatici formalmente paritari, ma nei fatti di influenza e di subordinazione, con comunità "esterne" all'alleanza stessa, come appun­ to nel caso dei Serdaioi. Ne emerge il quadro di un sistema di controllo in capo a Sibari assai articolato, affidato a modalità relazionali diverse e sancite da procedure e atti diplomatici differenziati, tale però da costituire una rete comples­ sivamente riferita a una dimensione territoriale vasta. Siamo in tutta evidenza di fronte al fenomeno storico che è alla base del ruolo macrore­ gionale di Sibari, della sua demografia e della sua leggendaria prosperità .

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Insomma l' arché sibarita deve aver funzionato, in una certa analogia con il ruolo di quella ateniese nell'Egeo, come fattore di omologazione di u n intero ambito geografico, oltre che come vettore di mobilitazione e attrazione di risorse, in questo caso non dal mare ma dall' interno. La polis sibarita deve essere stata il grande baricentro e il punto di gravita­ zione delle dinamiche di circolazione e convergenza delle risorse umane e materiali movimentate. Tutto questo presuppone una rete fittissima di percorsi, incontri, relazioni e scambi sul piano economico, mediazioni e intrecci sul piano culturale e religioso. Una fondazione come quella di Posidonia, cosl legata a Sibari, implica peraltro appunto questo tessuto di relazioni e ne dà al tempo stesso la misura dell'estensione territoriale. Questo contesto acheo doveva aver acquisito già nel corso del VI se­ colo, ben prima del trattato con i Serdaioi, una dimestichezza profonda con il mondo enotrio dell'interno. Ne sono certo un riflesso non solo la conoscenza dei centri enotri presenti in Ecateo - il cui numero, tra l'al­ tro, è lecito pensare sia inferiore a quello della storica realtà territoriale locale -, ma anche e soprattutto la nozione di "mesogea", che come sot­ tolineava opportunamente Nenci (1 9 8 7 ) , non emerge altrove nell'opera geografica ecataica ed è verosimile rifletta la profondità e il radicamento delle esperienze relazionali achee nei confronti delle realtà territoriali e antropiche dell' interno. Si osserverà, in aggiunta, che un'altra ripercus­ sione di quelle esperienze deve essere stata un impulso all' aggregazio­ ne dei contesti enotri in compagini locali dotate di un' identità che le rendeva idonee a una designazione toponimica, tra l'altro in alcuni casi palesemente debitrice del greco. In questo quadro generale, ulteriori elementi molto significativi sono forniti sia dal trattato con i Serdaioi, sia dalla documentazione epigrafica di Tortora, nei pressi della foce del Noce, e di Castelluccio, nell'alta valle del Laas, entrambi ambiti territoriali che tra l'altro non dovevano essere lontani dalle sedi dei Serdaioi. ll trattato coinvolge una comunità eno­ tria, quella dei Serdaioi, che non certo improvvisamente aveva assunto una strutturazione tale da farne una partner di un accordo diplomatico. Inoltre, è quanto mai significativo che il trattato avesse una forte conno­ tazione religiosa e avesse modelli culturali greci di ascendenza epica, evi­ dentemente comprensibili ai parmer indigeni e anzi per essi attrattivi. Dunque siamo in ogni caso di fronte a interazioni socioculturali con il mondo sibarita che dovevano avere forti implicazioni linguistiche, poli­ tiche e religioso-culturali. Del resto la monetazione che i Serdaioi adot­ tarono, sia pure qualche decennio dopo la caduta di Sibari, e in partico-

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lare l'alfabeto acheo della legenda e l' iconografia dionisiaca dei tipi ne danno ampia conferma. Con tutto questo è coerente la documentazione epigrafica di Castelluccio e ancora di più quella di Tortora, rappresenta­ ta dal testo epigrafico anellenico più lungo e complesso in tutta l' Italia meridionale. In entrambi i casi siamo di fronte a una ricezione, molto profonda nel caso del testo di Tortora, di modelli alfabetici e cultura scrittoria achei, ma anche, e molto significativamente, di una pratica di comunicazione scritta pubblica. Inoltre l' iscrizione di Castelluccio ri­ manda, attraverso l'aggettivo derivato da touta, all'esistenza di una di­ mensione comunitaria, e dunque a una formalizzazione dell'assetto et­ nico-politico, necessaria premessa per rapporti internazionali anch'essi formalizzati. Poi essa fa probabilmente riferimento a un culto di Giove, mentre l' iscrizione di Tortora, che sembra contenere complesse statui­ zioni di valore regolativo non prive di implicazioni sacrali, documenta in altro modo una maturazione di assetti comunitari complessi fondati su pratiche ordinamentali e dunque di fatto politiche. Siamo evidentemente nel cuore della mesogea enotria tirrenica, che si manifesta come uno dei punti chiave per lo sviluppo del mondo eno­ trio sulla base degli incontri e delle interrelazioni con il mondo acheo­ sibarita. Pur tra molte lacune e incertezze delle nostre conoscenze è dato di in­ tuire dunque i tratti di un'organizzazione egemonica articolata ed este­ sa su un quadro territoriale che non aveva uguali all'epoca nella grecità d'Occidente e che era inevitabile rappresentasse un polo d'attrazione su scala regionale. La fine di Sibari, e U dopo

La sconfitta di Sibari e la sua uscita di scena furono un evento che se­ gnò un'epoca: così lo percepì già la tradizione antica e così certo do­ vrà apparire a chi consideri la successiva storia della Magna Grecia, per buona parte imperniata appunto su processi di ridefinizione degli equi­ libri politico-territoriali cui la città achea aveva presieduto. L' impatto dei problemi che si aprirono dopo dovette essere tanto forte perché non sembra essersi verificato, prima della sconfitta, un progressivo ridimen­ sionamento della formazione egemonica sibarita. Le ragioni del crollo andranno cercate sia nella fisionomia stessa della società sibarita, sia nell' intreccio di eventi che precedettero e accampa-

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gnarono la sconfitta militare e determinarono l'impossibilità o la diffi­ coltà di mobilitare nel momento cruciale le forze e le risorse su cui erano fon date prosperità e influenza della città. Le tensioni con Crotone dovevano avere radici complesse. La vicen­ da storica posteriore mostra, ad esempio, che Crotone era matura per un'espansione territoriale: i conflitti per la lottizzazione della terra di Sibari conquistata, le fondazioni (come quella di Terina, sul Golfo di Sant ' Eufemia) e l'ambizione al controllo della valle del Crati, così come la proiezione sul versante tirrenico, rappresentano la manifestazione di esigenze che non potevano non essere maturate già nel tardo VI secolo, ma difficilmente sarebbero state soddisfatte finché Sibari avesse conser­ vato il suo ruolo preminente. Anche sul piano diverso delle relazioni in­ ternazionali le scelte crotoniati erano differenti e contrastanti con quelle sibarite: manca il rapporto, che fu tanto importante per Sibari, con la grecità dell'Asia Minore e in particolare la grande rete mediterranea del commercio ionico; ma soprattutto, a differenza di Crotone, Sibari sembra aver avuto rapporti competitivi con i grandi santuari panellenici di Olimpia e Delfi. Probabilmente la tradizione antica coglie nel segno quando adombra un ruolo "concorrenziale" di Sibari nei confronti di Olimpia quale sede dei più prestigiosi agoni del mondo greco, il che, tra l'altro, dovette alienarle le élite sacerdotali del santuario, da Crotone viceversa privilegiate. Quanto a Delfi, non si coglie alcun tratto delfico deli' identità sibarita, mentre Crotone del rapporto con il santuario di Apollo faceva un emblema e un tratto identitario privilegiati. È verosimile però che nonostante tutto la situazione non sarebbe pre­ cipitata se a Sibari gravi rivolgimenti interni non avessero innescato una dinamica rovinosa. Le notizie di cui disponiamo indicano che in una data verosimilmente non posteriore al 520 a.C. circa prese il potere a Sibari un certo Teli, che la storiografia antica vede come un demagogo che avrebbe spinto i cittadini a esiliarne cinquecento fra i più ricchi e confiscarne le proprietà. Tuttavia non ci sono elementi per ricostruire un quadro che veda Teli come interprete di un moto antiaristocratico espresso da un maturo strato sociale intermedio inquadrato in strutture militari oplitiche e pronto a rivendicare il diritto alla guida della comu­ nità. Sembra invece raccomandabile pensare alla fase di una lotta interna all'élite dominante nella quale uno spregiudicato esponente del gruppo dirigente adottò strumentali comportamenti di stampo demagogico. Comunque, gli esuli si sarebbero rifugiati a Crotone, con un inevitabile aggravamento della tensione tra le due città.

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Le cerchie dirigenti "pitagorizzanti" di Crotone non potevano non vedere nel governo di Teli la minaccia dell'estensione del male terribile della contesa civile. Né mancavano i segnali delle intenzioni di Teli: per­ ché questi aveva promesso in sposa sua figlia all 'olimpionico crotoniate Filippo. Non era la prima volta nel mondo arcaico che un olimpioni­ co contraeva matrimonio con la figlia del tiranno di una città vicina. S i profilava dunque il rischio di una "quinta colonna" sibarita a Crotone. Allora Filippo fu cacciato in esilio, e il suo matrimonio, non a caso pro­ prio allora, sfumò. Quanto a loro, gli esuli sibariti difficilmente avranno mancato di tramare per il proprio rientro con l'appoggio di Crotone. Si arrivò così alla richiesta ultimativa rivolta da Teli ai Crotoniati: restituire gli esuli o affrontare la guerra. I Crotoniati, riuniti per l'occa­ sione in un consesso che accoglieva accanto alla compagine dei Mille an­ che quanti, pur non titolari della piena cittadinanza erano nondimeno chiamati a portare le armi, esitarono a lungo, risolvendosi solo alla fine, per l' influenza determinante di Pitagora, a rigettare la richiesta dell'au­ tocrate sibarita. Era la guerra, che fu risolta da uno scontro sulle rive del Traente (odierno Trionto), il corso d'acqua tributario dello Ionio prossimo al confine meridionale della Sibaritide. La tradizione indica una schiacciante superiorità numerica sibarita, che è certo un dettaglio funzionale alla prospettiva dei vincitori, ma non è necessariamente in­ credibile. Si trovano anche riferimenti a una defoillance della cavalleria sibarita: piuttosto che a un "tradimento" degli aristocratici cavalieri si­ bariti, sarà più opportuno pensare a un riflesso nella tradizione antica dell' inadeguatezza degli ordinamenti militari sibariti rispetto a quelli crotoniati. Una tradizione filosibarita raccolta da Erodoto a Turi accusava i Crotoniati di essersi avvalsi del decisivo apporto del principe spartano Dorieo, il quale si stava dirigendo verso la Sicilia nordoccidentale per fondarvi una colonia, accompagnato da altri quattro condottieri e pro­ prio dall'esule Filippo. L'aiuto di Dorieo, ma non la sua sosta, era negato dai Crotoniati, in una versione contrapposta a quella sibarita (Erodoto, 5 .44-4 5 ). Dal tenore delle due versioni sembra lecito ricavare che Do­ rieo e Filippo aiutarono sì i Crotoniati, ma contro il desiderio di costoro, ovvero che lo fecero perché Filippo potesse riacquistare una posizione influente nella sua città. Tuttavia qualcosa non dovette andare per il ver­ so giusto: l'ostilità crotoniate per Filippo e Dorieo perdurò ; entrambi si allontanarono per l' Ovest siciliano, e la successiva tradizione locale crotoniate prese le distanze dai due personaggi.

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Che la città sia stata distrutta e inondata dalle acque del fiume Crati deviato per l'occasione è affermato dalle fonti antiche, ma non è accetta­ bile. Un nucleo sibarita nell'area della città rimase, esattamente in quali rapporti con i vincitori è oggetto di discussione. Certo, in breve dovette prevalere una soluzione "oltranzista� e Sibari venne sottoposta al con­ trollo di una sorta di governatore, di nome Cilone. Una parte dei Siba­ ri ti dovette disperdersi nel territorio, alcuni gruppi avranno raggiunto i centri "amici" e "alleati" dell'interno, altri si rifugiarono, come ricorda Erodoto ( 6.2.1), nei centri tirrenici di Lao e Scidro. Si apriva così la vicen­ d a del dopo-Sibari e Crotone saliva sulla scena. Nel più vasto contesto dell' Italia meridionale, la fine dell' influenza di Sibari su Crotone, Metaponto e Posidonia, e al tempo stesso delle for­ me di influenza e controllo esercitate sulle aree interne, avviò trasforma­ zioni lente ma molto profonde, che determinarono la storia di tutta la regione nell'età classica. n complesso gioco di rapporti di forza, interessi e ambizioni che si stabilì sia tra le città greche, sia tra queste e le potenze esterne (Siracusa, gli Etruschi e più tardi Atene), sia tra le società colo­ niali e le genti anelleniche dell'interno, nel volgere di alcune generazioni cambiò il volto dell' intera regione. Col tempo prese avvio un tormenta­ to passaggio dalle strutture politiche arcaiche a equilibri interni di tipo "democratico" e, insieme a un nuovo protagonismo, quello delle genti italiche, primi fra tutti i Lucani. Il tempo di Crotone

Crotone tentò un'esperienza di controllo e influenza territoriali per al­ cuni versi non dissimile da quella sibarita, che però si rivelò più limitata, e soprattutto più precaria e tormentata. L'area affacciata sullo Ionio tra Crotone e Sibari venne stabilmente annessa, e le locali comunità profondamente ellenizzate che divennero satelliti di Crotone ( Crimisa, Petelia) svilupparono strutture politico­ istituzionali tipiche dellapolis. Sul Tirreno si accrebbe il peso di Terina, che era stata fondata per affermare la presenza crotoniate nella piana di Sant ' Eufemia e tentare il controllo sia dell'area immediatamente a nord, intorno al basso corso del Savuto, dove sorgeva Temesa, sia del distret­ to di Lao e Scidro, dove si era rifugiato un nucleo di Sibariti (Erodoto, 6.21.1). Naturalmente, presenza e influenza crotoniati avevano campo l ibero anche nella valle del Crati. Sono giunte sino a noi monete recanti

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simboli e talora sigle riconducibili sia a Crotone, sia ad altre comunità, coniate da Crotone per queste ultime. Sono coniazioni Crotone/Sibari, Crotone/Temesa, Crotone/Pandosia (non lontana dall'odierna Cosen­ za). Quelle Sibari/Lao sembra fossero anch'esse battute a Crotone. De­ finite nella tradizione degli studi moderni ora "monete d'alleanza", ora "monete d'impero", in realtà non riflettono semplici alleanze tra città e nemmeno l'esistenza di un presunto "impero": doveva trattarsi, invece, di una forma organizzativa sovracittadina piuttosto peculiare, forse di natura formalmente "federativa", ma di fatto finalizzata al controllo ero­ toniate di realtà locali subordinate. Crotone acquisì così un' influenza di portata subregionale, da Sibari al Tirreno, alla valle del Crati. Ma l'estensione e la complessità della sfe­ ra del dominio crearono tensioni e dinamiche centrifughe, che tuttavia non è facile ricostruire. Terina nel corso del v secolo divenne sempre più autonoma, e con Temesa dovette opporsi con un certo successo nel lun­ go periodo alla pressione di Locri, Medma e Ipponio. La monetazione Crotone/Temesa durò fino a metà secolo, mentre le altre si esaurirono nel giro di un decennio o poco più. Non sappiamo esattamente in che cosa consistesse la pertinenza di Pandosia alla sfera ero toniate. E quanto ai Sibariti di Lao e Scidro, furono loro i principali attori di rinnovati tentativi di ricostituire Sibari come comunità autonoma. Intorno al 476 uno di questi tentativi dovette assumere una fisionomia tale che Croto­ ne prese le armi, e nel conflitto tentò di intromettersi il tiranno di Sira­ cusa !ero ne. Ma Crotone prevalse e forse fu questa vittoria, e non quella del 5 1 0, l'occasione della dedica a Delfi di un colossale tripode votivo, che quantomeno uguagliava per la sua visibilità nel cuore del santuario il tripode donato dai Greci dopo la vittoria di Platea sui Persiani. Anche sul piano interno, la gestione della vittoria su Sibari fu tute' al­ tro che facile. Si scontrarono due tendenze: da una parte quella de gli am­ bienti più vicini a Pitagora, inclini a considerare Sibari "liberata" e non assoggettata, dall'altra quella degli oltranzisti, guidati dal "governatore" di Sibari Cilone, forse un capo militare incline alla demagogia. Cilone era probabilmente pronto a farsi il campione dei soldati che avevan o guadagnato la vittoria alla città e il patrono di quei gruppi sociali politi­ camente emarginati che in occasione della guerra erano stati mobilitati sul piano militare e avevano preso a pretendere che la terra sibarica fosse loro distribuita. Le tensioni devono essere state fortissime: ci giungono echi di ambizioni tiranniche, di lotte di consorterie e, soprattutto, di un'ostilità a Pitagora e ai suoi amici e sociali, i quali certo non potevan o

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avere alcuna inclinazione a consentire le trasformazioni socioeconomi­ che che la distribuzione delle terre sibarite avrebbe comportato. Ma l'ab­ bandono della città da parte di Pitagora, il quale si spostò a Metaponto, dove più tardi morl, implica che si fossero create tensioni anche rispetto all 'élite sociale e politica della città. Già durante la permanenza di Piea­ gora a Crotone doveva aver cominciato a prendere forma un sodalizio pitagorico vero e proprio, che era facile per i maggiorenti considerare i n cline ad anteporre la solidarietà di gruppo all ' appartenenza all'élite cittadina. Un'ulteriore conferma delle profonde componenti sociopolitiche che caratterizzarono per diversi anni il dopoguerra a Crotone viene dall'attestazione di una tirannide, legata al nome di un certo Clinia. La cronologia è molto insicura, ma la sua collocazione nei cardi anni No­ vanta sembra la più probabile. Nel quadro di una force caratterizzazio­ ne come malvagio tiranno appoggiato dalle masse e intento a sovvertire l'ordine sociale, gli viene anche attribuita la liberazione degli schiavi. n quadro è nel complesso anacronistico, ma la connotazione "sovversiva" dell'episodio potrebbe avere un fondamento. Basti comunque constata­ re il facto stesso che una tirannide sia stata possibile. n che è sufficiente a testimoniare la crisi degli equilibri crotoniati. Peraltro l'episodio do­ vette rimanere cale, ed esaurirsi nel giro di pochi anni. In definitiva, le d ifficoltà e le tensioni interne a Crotone furono superate, e su entrambi i versanti, quello sociopolitico e quello attinente al ruolo di Pitagora e dei suoi sadali. Le terre conquistate ai Sibariti non furono distribuite, e il regime politico interno si rinsaldò nuovamente. n sodalizio picagorico di Crotone dovette aver trovato un' intesa con l'élite e con quanti ne era­ no esponenti ma pitagorici in senso stretto non erano. Questi ultimi, per parte loro, fecero verosimilmente la scelta di non contrapporsi in quanto sodalizio esclusivo alle cerchie dirigenti, ma di inAuenzarle, contribuen­ do a orientare le scelte collettive della comunità. Il ventennio tra la fine degli anni Settanta e gli avanzaci anni Cin­ qu anta vide Crotone rafforzarsi sul piano esterno e interno. I pitagori­ ci favorirono le relazioni con un vasco orizzonte di città: quelle in cui si erano consolidaci sodalizi in contatto con i picagorici crotoniati, da Metaponto in primo luogo, a Caulonia, ai centri minori della sfera di i nfluenza; quelle governate da gruppi dirigenti di ispirazione politico­ i ntellettuale affine, Velia soprattutto, e forse anche Agrigento in Sicilia; qu elle infine sensibili al prestigio etico-politico pitagorico soprattutto i n materia di leggi pubbliche e ordinamenti istituzionali, come Reggio

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