L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. Il mutamento sociale [Vol. 2] 9788843071777, 8843071777

Il volume ripercorre la storia italiana degli ultimi trent'anni seguendone le dinamiche sociali, demografiche, migr

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Italian Pages 348 Year 2014

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L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. Il mutamento sociale [Vol. 2]
 9788843071777, 8843071777

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Carocci

@ editore

Il volume ripercorre la storia italiana degli ultimi trent'anni seguendone le di­ namiche sociali, demografiche, migratorie e di genere. Vengono così presi in considerazione i diversi aspetti di una realtà che è stata profondamente cambia­ ta dalla televisione, e nella quale emergono i nuovi problemi della cittadinanza legati alrimmigrazione, quelli del progressivo invecchiamento della popolazio­ ne, dell'indebolimento delle istituzioni della rappresentanza, della chiusura alle donne. Un paese, infine, nel quale le nuove identità generate dai consumi stanno contribuendo a ridefinire la stessa immagine e auto-percezione degli italiani.

Enrica Asquer svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Studi Umanisti­ ci dell'Università degli studi di Torino ed è membro della redazione di "Italia con­ temporanea" e di "Genesis. Rivista della Società Italiana delle Storiche': È autrice per i nostri tipi de La rivoluzione candida. Storia sociale della lavatrice in Italia,

(2007) ed ha curato Famiglie del Novecento. Conflitti, culture e relazioni (con M. Casalini, A. Di Biagio e P. Ginsborg, 2010). Ha inoltre pubblicato Storia

1945-1970

intima dei ceti medi. Una capitale e una periferia nell 'Italia del miracolo economico (Roma-Bari 2011).

Emanuele Bernardi svolge attività didattica e di ricerca presso il Dipartimento di Storia, Culture, Religioni della Sapienza Università di Roma. Collabora con la F ondazione Istituto Gramsci. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il mais ''miracoloso".

Storia di un'innovazione tra politica, economia e religione (Carocci 2014), Storia della Confederazione Italiana Agricoltori (con F. Nunnari e L. Scoppola Iacopini, il Mulino 2013) e Riforme e democrazia. Manlio Rossi-Doria dal fascismo al centro­

sinistra (Rubbettino 2010).

Carlo Fumian insegna Storia contemporanea e Storia globale presso rUniversità di Padova. A più riprese Visiting Scholar presso il Center for European Studies delrUniversità di Harvard, ha svolto attività di ricerca anche presso la Columbia University e la Boston University. Tra i suoi ultimi lavori: Verso una società plane­

taria. Alle origini della globalizzazione contemporanea 1870-1914 (Donzelli 2003), Terrore rosso. Dall'Autonomia al Partito armato (con P. Calogero e M. Sartori, La­ terza 2010), Per una storia della Tecnocrazia: utopie meccaniche e ingegneria socia­

le tra Otto e Novecento, in "Rivista storica italiana': 2012.

ISBN

978-88-430-7177-7

Il 1111111

9 788843 071777

€ 36,00

STUDI STORICI CAROCCI

/ 217

I lettori che desiderano

informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele n, 229 00186 Roma telefono o6 42 81 84 17 fax o6 42 74 79 31

Siamo su: http://www.carocci.it http://www.facebook.com/caroccieditore http://www.twitter.com/caroccieditore

L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi Volume secondo

Il mutamento sociale

A cura di Enrica Asquer, Emanuele Bernardi e Carlo Fumian

@ Carocci editore

Il volume nasce da ricerche e iniziative svolte da: FONDAZIONE LUIGI EINAUDI AOMA

FONDAZIONE ISTITUTO RAMSCionlus

G

PEA STUDI DI POUTICA ED ECONOMIA

Il volume è stato realizzato grazie al contributo del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo.

Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

GBID

DIREZIONE GENERALE PER LE BIBUOTEOtE, GLI ISTITUTI CULTURALI E IL DIRITTO D'AUTORE

2016 1' edizione, ottobre 2014 ©copyright 2014 by Carocci editore S.p.A., Roma r' ristampa, agosto

Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino ISBN

978-88-430-7177-7

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Parte prima Un quadro d'insieme

I.

2. 3·

Stratificazione sociale e disuguaglianza in un capitalismo di marginalità di Mauro Magatti e Giovanna Fullin

15

Un capitalismo di marginalità Statalismo, disuguaglianza, spesa pubblica e costruzione del consenso Bassa produttività, profitti, perdita di centralità del lavoro

15 16 21

3.1. Piccole imprese e quarto capitalismo l 3.2. li terziario l 3·3· Dal lavoro al capitale

4· 5·

I.

2. 3· 4· 5·

I.

2. 3·

Un a pluralità di faglie Immobilità sociale

25 30

Trent ' anni di transizione demografica nell ' Italia repubblicana (1980-2010) di Enrico Giovannini

35

Trasformazioni demografiche e sociali L' Italia e la prima transizione demografica Dalla prima alla seconda transizione demografica La crescita dei "nuovi" cittadini Conclusioni

35 36 42 49 55

Demografia e invecchiamento di Gustavo De Santis

57

Invecchiamento individuale e collettivo Le cause delle trasformazioni demografiche Modi diversi di guardare alla struttura per età

57 59 64

7

L ' I TALI A C O N T E M P O RA N E A D A G L I A N N I O T TA N TA A O G G I



Perché dovremmo avere paura d i invecchiare ?

70

4.1. Innovazione e produttività l 4.2. Invecchiamento e qualità della vita l 4·3· Invecchia­ mento e costi previdenziali l 4·4· Invecchiamento e costi sanitari



Conclusioni

Famiglie, rapporti di genere e generazioni, politiche sociali di Chiara Saraceno I. 2.

81

Premessa Uno sguardo d 'insieme sui cambiamenti nei modi di fare famiglia 2.1. Famiglie piccole e lunghe e invecchiamento delle parentele l 2.2. Persistente popola­ rità del matrimonio, ma in un quadro mutato l 2.3. Un contratto di genere in tensione l 2.4. La rete allargata della solidarietà familiare : funzionante, ma in tensione



Norme giuridiche e politiche sociali: adeguamenti timidi e contrad­ dittori 3.1. Le norme giuridiche, tra stallo e arretramenti l 3.2. Le politiche sociali: pochi sostegni,

ma molte aspettative nei confronti delle famiglie



Conclusioni

Parte seconda Nuovi dilemmi della cittadinanza sociale e politica

I. 2. 3· 4·

I. 2. 3· 4·

I dilemmi del femminismo nella Seconda Repubblica di Francesca lzzo

101

Una "rivoluzione passivà' Il femminismo nella crisi della Repubblica Quale libertà ? Sintomi di risveglio civile

101 103 IlO Il4

Tra diritti e sviluppo : le italiane, l'Europa, il mondo di Elisabetta Vezzosi

Il9

Premessa I ritardi italiani e la dimensione internazionale Verso la IV Conferenza dell' O N U sulle donne Portare a casa Pechino ?

Il9 121 125 132

8

INDICE

I. 2. 3· 4· S· 6.

I. 2. 3·

4· S·

Il passaggio alla diversità etnica e culturale di Maurizio Ambrosini

I37

Premessa La rincorsa della regolazione Il linguaggio dei numeri Utili invasori Dopo le braccia Conclusioni

I37 I37 I43 I46 IS O IS 2

Gli immigrati e i dilemmi della nuova cittadinanza di Paolo Morozzo della Rocca

I SS

Alle origini della questione: dagli anni Settanta alla legge Martelli La legge s febbraio I992, n. 9 I, sulla cittadinanza. Le ragioni di un fal­ limento legislativo Il dibattito pubblico su immigrazione e cittadinanza dal I99I ( prima Conferenza nazionale dell'immigrazione) al 2ooi (termine della XIII Legislatura) Proposte di riforma sulla cittadinanza degli immigrati nel nuovo mil­ lennio Pubblico dibattito su cittadinanza e società civile negli anni Duemila

I SS I 57

Parte terza L'agire di consumo e il ruolo dei media

I. 2. 3· 4· S· 6. 7· 8.

I consumi tra economia e cultura nell' Italia del "dopo boom" ( I973-20o 8 ) di Paolo Capuzzo

I79

Premessa Tendenze generali Una geografia del consumo Consumi e differenze sociali Tipologie di consumo Distribuzione Televisione e marketing Conclusioni

I79 I80 I83 I8 S I86 I90 I92 I96 9

L ' I TALI A C O N T E M P O RA N E A D A G L I A N N I O T TA N TA A O G G I

I.

2. 3· 4· 5· 6.

I.

2. 3·

I.

2.

Consumi e attori sociali: le nuove identità dei consumatori italiani di Emanuela Scarpellini

199

Premessa Genere Giovani Anziani Immigrati Conclusioni

199 20 1 203 20 6 208 210

Consumi, società e politica in Italia (19 80-2000) di Stefano Cavazza

21 1

Il boom dei consumi Media e consumi Culture politiche e consumi

211 214 218

La televisione tra due Repubbliche di Giovanni Gozzini

227

Il piccolo schermo nel contesto dei mutamenti della Seconda Repub­ blica Politica, consumi, economicismo. Una riflessione d 'insieme L' Italia in onda. Il palinsesto televisivo, dalle TV commerciali al digitale (1980-2010) di Massimo Scaglioni

I.

2. 3·

I.

2. 3·

227 229

243

Il palinsesto, o della televisione La scoperta del flusso, dall'avvento della TV commerciale al "duopolio imperfetto" Morte e rinascita del palinsesto, la TV verso il digitale

243

La globalizzazione dei media in Italia. Il caso della TV e del cinema di Giuseppe Richeri

255

Premessa Verso un nuovo assetto del sistema televisivo Modello commerciale e primato della fiction

IO

INDICE

4· 5· 6. 7· 8. 9·

Stati Uniti, Brasile, Giappone Televisione, pubblicità e globalizzazione La grande trasformazione del cinema L' industria cinematografica di Hollywood e l' Europa I film blockbuster Conclusioni

259 263 265 267 269 270

Parte quarta Soggetti organizzati e altri poteri

Il potere delle mafie: relazioni esterne, aree grigie ed espansione territoriale di Rocco Sciarrone I.

2. 3· 4·

Violenza e capitale sociale Le mafie e il potere Criminalità dei potenti e aree grigie I processi di espansione territoriale

Il paradosso del sindacalismo italiano. Forza organizzativa crescente con rappresentanza calante di Mimmo Carrieri I.

2. 3· 4· 5·

I.

2. 3· 4· 5· 6.

273

285

Crisi di rappresentanza ? Gli anni Ottanta: la scoperta della vulnerabilità Gli anni Novanta: la concertazione come strategia di aggiramento Il nuovo secolo : i problemi vengono a galla Un bilancio : eppure fu vera crisi di rappresentanza ?

Una nuova soggettività istituzionale: la CEI e il cattolicesimo italiano di Francesco Bonini

305

Premessa La fine del movimento cattolico Un a linea di risposta Un'istituzione di riferimento Una lunga continuità di indirizzo Un rafforzamento istituzionale

305 306 308 311 314 3 20 II

L ' I TALI A C O N T E M P O RA N E A D A G L I A N N I O T TA N TA A O G G I

Il mondo del volontariato (1980-2010) di Augusto D 'Angelo I.

2. 3· 4· S·

Premessa Gli inizi La strutturazione L' internazionalizzazione La coesione sociale nel cambiamento

3 23 325 32 8 332 336

Indice dei nomi

339

12

Parte prima Un quadro d' insieme

Stratificazione sociale e disuguaglianza in un capitalismo di marginalità d i Mauro Magatti e

Giovanna Fullin

I

Un capitalismo di marginalità

Se si esclude lo scorso quinquennio, sulla scala planetaria gli ultimi trent 'anni sono stati caratterizzati da una potente dinamica espansiva. Il combinato disposto della deregulation politica e dell' innovazione tecnica ha reso possibile l'avvento di un ciclo capitalistico che ha ridisegnato rapporti economici, politici, sociali, rinnovando quel processo di distruzione creatrice che, secondo Joseph Schumpeter, ne costituisce la caratteristica distintiva. L' Italia ha partecipato in maniera marginale a questo processo. Entrato in ritardo nelle dinamiche avviate con l'avvento del neoliberismo, negli ultimi vent'anni il nostro paese ha progressivamente smesso di crescere, da un lato dando fondo alla consistente eredità dei decenni precedenti, dall'altro scaricando una parte dei costi sulle generazioni future. E pur vero che la natura della riorganizzazione degli assetti capitalistici realizzatasi negli ultimi trent 'anni lasciava spazio, e addirittura per alcuni aspetti stimolava, questo tipo di soluzione. Sta di fatto che lo sprofondamento in quello che è stato efficacemente definito "nichilismo sorridente" ha raggiunto in Italia vertici ineguagliati. Questa cultura ha costituito il terreno su cui si è stabilita quell'al­ leanza "perversà' che ha retto l'assetto politico chiamato Seconda Repubblica e che ha poi favorito la formazione di un "capitalismo di marginalità". Arrivato al benessere da poco tempo, senza una tradizione solida in tema di apertura e proiezione esterna, nel momento in cui sono venuti meno i tradizionali punti di riferimento geopolitici internazionali (con la fine della Guerra fredda), il nostro paese ha vissuto una stagione involutiva, avvitandosi in un' autoreferenzialità regressiva che caratterizza buona parte dei suoi soggetti sociali. Per una lunga fase, il debito pubblico ha rappresentato il baricentro attorno al quale la società italiana ha ruotato. E dal bilancio dello Stato che sono state estratte le risorse necessarie per costruire e mantenere questo pseudo-equilibrio di margina­ lità, mentre la stagione delle privatizzazioni senza liberalizzazione tradiva le speranze di rilancio di quel patrimonio d' impresa pubblica - pur in grave crisi - ereditato '

'

IS

M A U R O M A G AT T I / G I OVA NNA F U L L I N

dai decenni precedenti. Il risultato è stato un capitalismo polarizzato tra pochi centri di potere economico-bancario - solo debolmente inseriti nei circuiti internazionali e prevalentemente interessati a sfruttare forme più o meno occulte di rendita sui mercati interni - e il tessuto disperso della piccola e piccolissima impresa che, in molti casi, ha cercato di far fronte alle nuove sfide storiche battendo la strada dell 'e­ vasione e della dequalificazione del lavoro. Da queste due polarità ha preso forma il capitalismo di marginalità che ha caratterizzato l'economia italiana degli ultimi due decenni. L'analisi dei processi di stratificazione e disuguaglianza non può mai prescindere dalla forma concreta del modello di capitalismo, di cui questi sono, in ultima istanza, una delle tracce più evidenti. Ed è per questo che l'interpretazione che se ne intende offrire qui si sforza di tenere insieme questi due piani di ragionamento, sviluppando l'indagine attorno a tre questioni che ci pare costituiscano la guida più efficace per dipanare la matassa del caso italiano. La prima fa riferimento al ruolo controverso svolto dallo Stato in rapporto alla strutturazione della disuguaglianza e alla fitta trama di scambi tra il sistema politico­ amministrativo e ampi strati della società e dell'economia italiana. La seconda que­ stione riguarda la configurazione del sistema produttivo e la linea di evoluzione seguita nel corso degli ultimi decenni, in relazione al processo di terziarizzazione, alla specializzazione nei settori manifatturieri a basso valore aggiunto e alla progres­ siva svalorizzazione del lavoro. Infine, l'ultima dimensione si concentra sui mecca­ nismi inceppati della mobilità sociale che toccano non solo la scarsa capacità di riconoscimento del merito, ma anche i rapporti tra le generazioni (con i padri che cannibalizzano il futuro dei figli ) e di genere (con l' insoluta vicenda del lavoro fem­ minile e delle politiche familiari ) .

2

Statalismo, disuguaglianza, spesa p ubblica e costruzione del consenso

Il modello italiano - come più in generale quello europeo - attribuisce un ruolo preminente allo Stato, con una funzione di sostegno ai processi di modernizza­ zione e di riduzione delle diseguaglianze. In realtà, soprattutto negli ultimi decenni, entrambe queste funzioni non sembrano essere state svolte nel modo più adeguato. Più avanti si dirà qualcosa circa il primo aspetto. Sul secondo, i dati sono assai poco lusinghieri: se si considera l' indice di Gini quale indicatore più sintetico del livello di disuguaglianza, nell' intera area dell' Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ( O C S E ) l' Italia risulta essere messa peggio solo di Stati Uniti e Regno Unito, cioè dei due paesi più !iberisti, ben lontana da nazioni che hanno un 'incidenza analoga del ruolo dello Stato, come Francia e

S T R AT I F I C A Z I O NE S O C I A LE E D I S U G UA G L I A N Z A I N U N C A P I TA L I S M O D I M A R G I N A L I TÀ

Germania. Di fatto, dopo i miglioramenti degli anni Settanta e Ottanta, nei suc­ cessivi vent'anni la situazione è andata peggiorando con un aumento piuttosto sensibile dell ' indice di Gini nel corso degli anni Novanta, senza nessuna riduzione significativa registrata in seguito1• Il fatto che nell'ultimo decennio l ' indice di Gini sia rimasto stabile, tuttavia, non implica che non vi siano stati cambiamenti anche consistenti nella condizione reddituale di diversi gruppi sociali. Se, infatti, distin­ guiamo le famiglie a seconda della situazione occupazionale del principale percet­ tore di reddito ( da lavoro o da pensione ) , vediamo come tra il 1 9 9 3 e il 200 6 il reddito disponibile equivalente è cresciuto del 2,6 % all'anno per le famiglie dei lavoratori autonomi e solo dello 0,3% per quelle degli impiegati, dello o,6% per le famiglie degli operai e dell' 1,5 % per quelle dei pensionati2• Dunque, con l 'entrata nell'euro si assiste a uno spostamento di ricchezza dal lavoro dipendente a quello autonomo. Inoltre, negli ultimi dieci anni, mentre la distanza tra i due estremi della distri­ buzione del reddito si è complessivamente ridotta, le fasce intermedie hanno visto peggiorare la propria situazione relativa a seguito dell 'aumento del divario tra il loro livello di reddito e quello delle fasce più alte ( quintile più ricco ) , mentre il quintile più povero ha ridotto la propria posizione di svantaggio relativo. Ciò non implica un impoverimento assoluto del ceto medio ma una sua graduale depriva­ zione relativa nei confronti dei due quintili estremi\ All' interno della classe media, in realtà, a peggiorare è stata soprattutto la condizione relativa dei lavoratori dipendenti, in quanto i redditi medi di operai e, specialmente, di impiegati, sono sempre più distanti da quelli dei dirigenti e sono stati superati dai redditi medi dei lavoratori autonomi4• L'aumento della concentrazione della ricchezza risulta par­ ticolarmente evidente: secondo la Banca d ' Italia, oggi il 10% delle famiglie dispone del 45% della ricchezza, mentre il s o % dispone solo del 9,8%5• Su un piano diverso, negli ultimi decenni la forte presenza dello Stato non ha modificato l'altra faglia storica della disuguaglianza che caratterizza la società italiana, cioè quella tra le diverse aree del paesé. Nonostante i cospicui trasferimenti alle regioni meridionali, la capacità di incidere sulle cause storiche dell'arretratezza del A. Brandolini, Indagine conoscitiva sul livello dei redditi di lavoro nonché sulla redistribuzione della ricchezza in Italia nel periodo 1993-2ooS, X I Commissione permanente "Lavoro, previdenza sociale", Senato della Repubblica, Roma 2009. I.

2.

Ibid.

3· C. Ranci, M. Migliavacca, Trasformazioni dei rischi sociali e persistenza del welfare, in U. Ascoli

(a cura di), Il welfare in Italia, il Mulino, Bologna 201 1, pp. 4·

Ibid.

S· Banca 2oi2, 6s .

2 I -SS·

d' Italia, La ricchezza dellefamiglie italiane, in "Supplementi al Bollettino Statistico", XXII,

A. Brandolini, La diseguaglianza dei redditi personali: perché l'Italia assomiglia di piu agli Stati Uniti che alla Germania?, in R. Catanzaro, G. Sciortino (a cura di), La fatica di cambiare. Rapporto sulla societa italiana, il Mulino, Bologna 2009, pp. I33-52. 6.

17

M A U R O M A G A T T I / G I OVA NNA F U L L I N

Sud Italia rimane assai limitata: ancora oggi il Prodotto interno lordo ( PIL ) per abitante delle regioni del Mezzogiorno non raggiunge il 6o% di quello delle regioni settentrionali, un divario identico a quello degli anni Cinquanta. L'anomalia di questo quadro sta nel fatto che tutto ciò accade in un paese nel quale lo Stato ha giocato un ruolo di particolare rilievo. A fronte di un'imposizione fiscale che, nel corso degli anni, è diventata sempre più pesante, l'impatto redistri­ butivo delle politiche pubbliche è stato in Italia molto ridotto, collocandosi agli ultimi posti tra i paesi dell' Unione Europea a 1 5 (in termini di effetti sulle sperequa­ zioni nella distribuzione dei redditi)7• Questo significa che, contrariamente a ciò che sarebbe stato lecito aspettarsi, l'intervento dello Stato non ha diminuito la disugua­ glianza, sia a causa dell' inefficacia delle politiche adottate e della scarsa volontà di impiegare meccanismi redistributivi, sia per la tendenza a utilizzare la spesa pubblica a scopo di creazione del consenso elettorale. Ma articoliamo con maggior dettaglio questi due aspetti della questione. Innanzi tutto, va ricordato che in Italia l'offerta di servizi pubblici tende a realiz­ zare processi redistributivi "alla rovescia" che approfondiscono le diseguaglianze esistenti invece di ridurle. Un tale risultato si verifica per il combinarsi di diverse cause. Soffermiamoci sulle cinque principali. 1. In primo luogo, è noto il forte sbilanciamento della distribuzione della spesa sociale in Italia verso il rischio di vecchiaia. La spesa per vecchiaia in senso ampio (pensioni di vecchiaia e anzianità e prestazioni assistenziali per gli anziani) assorbe quasi l' So% della spesa sociale complessiva esclusa la spesa sanitaria8, per cui pochis­ simo rimane per interventi di altro genere che potrebbero avere un impatto più forte sul contenimento o sulla riduzione delle diseguaglianze. 2. Inoltre, è altrettanto nota la mancanza di una visione unitaria e di lungo periodo nello sviluppo normativa e istituzionale del sistema di welfare italiano, in cui ha prevalso una logica adattiva, cioè la tendenza a rispondere a pressioni politiche e sociali del momento e a ricercare un consenso di tipo clientelare più che a costruire un piano di intervento coerente e finalizzato a obiettivi chiari e condivisi9• Nel mol­ tiplicarsi delle prestazioni, nella loro graduale estensione - non sistematica - a seg­ menti diversi della popolazione e nelle modificazioni incrementali e progressive, che in alcuni casi vanno a toccare i principi stessi degli interventi senza dichiararlo esplicitamente, si è perso quasi del tutto l 'obiettivo redistributivo, e l'efficienza degli Alcune simulazioni mostrano come, nel 1 9 9 8, se in Italia al reddito familiare si sommano i trasferimenti e si sottraggono le imposte e i contributi, si rileva una riduzione dell' indice di Gin i del 29 % contro il 37 % rilevato in media nei paesi dell' Unione Europea a 1 5: Brandolini, Indagine conosci­ 7·

tiva sul livello dei redditi di lavoro nonché sulla redistribuzione della ricchezza in Italia nel periodo 1993-2ooS, cit.; Id., La diseguaglianza dei redditi personali, cit. 8. D. Benassi, Diseguaglianze nell'accesso al welfare, in D. Checchi (a cura di), Diseguaglianze diverse, il Mulino, Bologna 2012, pp. 255- 83. 9· Ascoli (a cura di), Il welfare in Italia, cit.; Benassi, Diseguaglianze nell'accesso al welfare, cit. 18

S T R AT I F I C A Z I O NE S O C I A LE E D I S U G UA G L I A N Z A I N U N C A P I TA L I S M O D I M A R G I N A L I TÀ

interventi ( in termini di rapporto tra risorse spese ed effetto sulla condizione di bisogno della popolazione ) risulta nel complesso sempre più ridotta10 • 3 · Ancora, il sistema di welfare italiano si presenta come fortemente differenziato su base territoriale, in quanto i processi di decentramento delle politiche sociali - parti­ colarmente forti negli ultimi decenni - sono avvenuti in un contesto caratterizzato da profonde differenze territoriali rispetto alla capacità di crescita economica e di creazione del benessere, contribuendo a cristallizzarle e, in parte, ad aggravarleu. La stessa espansione del settore pubblico in termini di occupazione, che ha sostenuto il processo di terziarizzazione delle regioni meridionali in assenza di un parallelo svi­ luppo di imprese private nel settore dei servizi, è stata concepita più come una riserva di occupazione stabile che come uno strumento di modernizzazione. Con il risultato che essa si è rivelata per nulla efficace nel ridurre le disparità sociali e territoriali. 4· D 'altra parte, le politiche in tema di istruzione hanno sì sostenuto il processo generale di aumento della scolarizzazione, ma non hanno saputo incidere a fondo sulle diseguaglianze sociali (e neppure su quelle territoriali ) . Infatti, sebbene le pro­ babilità di proseguire gli studi e di accedere all'università dipendano un po' meno che in passato dalla condizione sociale di origine, l'influenza del titolo di studio dei genitori - a parità di classe sociale - è rimasta sostanzialmente invariata12• Ciò signi­ fica che i figli dei laureati hanno molte più probabilità dei figli di diplomati o di coloro che hanno la licenza media di arrivare a conseguire un diploma di laurea. S· Infine, un sistema di welfare basato più su trasferimenti monetari alle famiglie che sull'offerta di servizi pubblici, che prevede relativamente pochi strumenti di sostegno mean-tested e che solo in alcuni casi impone la verifica da parte dell'am­ ministrazione pubblica sulle modalità di utilizzo dei trasferimenti, non può che ampliare le diseguaglianze di accesso alle attività ( formali ) di cura ( in particolare per anziani e bambini ) 13• Oltre alle caratteristiche dell'offerta di servizi pubblici, il secondo elemento che spiega la scarsa capacità delle politiche pubbliche italiane di incidere sulla diseguaglianza è la sostanziale mancanza di misure efficaci nella lotta all 'evasione fiscale14• In un certo senso, tollerare l'evasione è stato un modo per sostenere i redditi dei lavoratori autonomi che, d'altra parte, erano meno tutelati di quelli dipendenti - in termini di previdenza e di possibilità di usufruire di sistemi

IO.

Ibid.

E. Pavolini, We/fare e dualizzazione dei diritti sociali, in Ascoli (a cura di), Il we/fare in Italia, cit., pp. 257-82. I2. G. Ballarino, Le politiche per l'universita, ivi, pp. I97-224. I3. M. Albertini, Come a.ffrontare la cattiva salute in eta anziana: similitudini e dijfèrenze tra poveri e non, in Italia e in Europa, in A. Brandol ini, C. Saraceno, A. Schizzerotto (a cura di), Dimensioni della diseguaglianza in Italia: poverta, salute, abitazione, il Mulino, Bologna 2009, pp. 23I-so. I4. M. Paci, I mutamenti della stratifìcazione sociale, in F. Barbagallo (a cura di) , Storia dell'Italia repubblicana, 3· L'Italia nella crisi mondiale. L'ultimo ventennio, 1. Politica, economia, societa, Einaudi, Torino I996, pp. 699-764. 11.

19

M A U R O M A G A T T I / G I OVA NNA F U L L I N

di protezione dalla disoccupazione come la cassa integrazione. Su questo punto rimane condivisibile l'analisi di Massimo Paci, il quale ha sostenuto che « nell'ope­ rare di questi meccanismi fiscali e previdenziali trova origine, almeno in parte, il processo di arricchimento della "neoborghesià' di piccola e media impresa delle regioni del Nord-Est » 15• Inoltre, sempre Paci ricorda come la crescita del debito pubblico abbia a sua volta contribuito ad ampliare le diseguaglianze attraverso !' "intreccio perverso" con l'evasione fiscale. Quest 'ultima è stata insieme « una delle cause dell'aumento del debito pubblico (per le minori entrate che ha provocato) e una delle fonti di risparmio che ha permesso la collocazione dei titoli di Stat0 » 16 che venivano emessi per coprire il debito. Un circolo vizioso che ha garantito l'arricchi­ mento di alcuni gruppi sociali - imprenditori e certe fasce del lavoro autonomo e professionale - contribuendo a costituire la base per la crisi fiscale dello Stato sociale oggi così evidente. Tutto ciò spiega come mai la forte presenza dello Stato abbia mantenuto, in questi anni, ampie zone di ambiguità perdendo quasi del tutto la capacità modernizzatrice che invece aveva mostrato nei primi decenni del dopoguerra17• Nel quadro del capitalismo di marginalità in cui l' Italia si è progressivamente inoltrata, l'azione della mano pubblica è sempre più diventata uno strumento di lotta politica e di stabilizzazione del consenso, all' interno di un paese che gradual­ mente ha rinunciato ad affrontare le sfide storiche che gli venivano poste. Anche per questo, la disuguaglianza ha potuto crescere nella sostanziale assenza di conflitto sociale : attraverso spesa pubblica ed evasione fiscale, l'azione dello Stato ha corri­ sposto più alla capacità di pressione dei vari gruppi sociali che non alle esigenze di integrazione e universalismo derivanti dal processo di modernizzazione. Una deviazione già evidente nella fase di declino della Prima Repubblica18, ma che è diventata strutturale nel corso degli ultimi vent'anni, quando, nonostante gli impulsi provenienti dal processo di integrazione europeo, hanno prevalso interessi e pratiche di stagnazione. E questa una delle ragioni che spiega perché il debito in trent'anni si sia raddoppiato, passando dal 6o% del P I L nel 19 8 0 al 120% di oggi. Una crescita - per la verità concentrata negli anni Ottanta - che, nel tempo, ha finito con l'alimentare la diffusione di forme di scambio clientelare, se non di vera e propria corruzione: un sistema politico-amministrativo debole e frammentato che non ha più avuto la forza per far fronte alle domande crescenti e disordinate provenienti da vari gruppi sociali, perdendo al tempo stesso la capacità di dare impulso alla crescita e di svolgere un ruolo di riequilibrio sociale e di universalizzazione dei diritti. '

15. lvi, pp. 762-3. 16. lvi, p. 764. 17. Confindustria, Italia 2015. Le imprese per la modernizzazione del paese, Roma 2012, in http:/ l www.confindustria.it/ Aree/DocumentiPub.nsf/ 8sBCA82C3 3 125F 6 6 C 12577 3 0 0 0 47 s 420/ $ File/ ltalia%2o2ois.pdf. 18. M. Magatti, Corruzione politica e societa italiana, U Mulino, Bologna 1996. 20

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Così, il bilancio pubblico è stato per una prima lunga fase il galleggiante di quel capitalismo all' italiana espressione di un intreccio, più che della contrapposizione, sempre più inestricabile tra interessi politici, economici e sociali. Solamente in una seconda fase - che è coincisa con l'entrata nell'euro - la mano pubblica da galleg­ giante si è trasformata in zavorra, affossando progressivamente le residua capacità di crescita e coesione sociale. Il risultato è stato molto insoddisfacente: in Italia la pratica della spesa ha finito per essere un fattore di strutturazione delle disuguaglianze sociali e di sostegno di molti centri di potere chiusi che dominano la vita sociale del paese, ottenendo il paradossale risultato di bloccare la crescita, aumentare le disuguaglianze e tacitare il conflitto sociale.

3

Bassa p roduttività, p rofitti, p erdita di centralità del lavoro

Al di là del ruolo dello Stato, la seconda dimensione da analizzare per ricostruire la trama della disuguaglianza sociale riguarda la conformazione del sistema produttivo italiano. A questo riguardo, due sono le principali linee evolutive che occorre qui considerare. 3.1. P I C C O L E I M P R ES E E QUA RTO C A P ITA L I S M O

La prima riguarda le trasformazioni avvenute all'interno del settore manifatturiero, quasi esclusivamente concentrato nelle regioni centro-settentrionali, che vede, oltre alla prevalenza di piccole imprese, l'ulteriore indebolimento delle grandi corporations e l'avvento di quello che Mediobanca ha chiamato "quarto capitalismo", vale a dire un tessuto di circa 4.o o o imprese di medie dimensioni che operano su scala internazionale e che costituiscono la nuova ossatura che sostiene la capacità esportativa del paese19• A partire dagli anni Ottanta, operare nel contesto internazionale è diventato per le imprese italiane sempre più difficile per il combinarsi di almeno tre fattori. In primo luogo, la presenza di condizioni ambientali - elevata pressione fiscale, ineffi­ cienza dei servizi, alti costi del lavoro e dell'energia, rigidità del mercato del lavoro, complessità burocratica e giuridica - ha reso molto difficile reggere la concorrenza internazionale. In secondo luogo, l'eccessiva frammentazione proprietaria spiega, almeno in parte, perché l' Italia rimane un paese nel quale la spesa in ricerca e sviluppo

Mediobanca, Unioncamere, Indagine sulle medie imprese industriali italiane, Ufficio Studi Mediobanca, Milano 20IO. I 9.

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è significativamente inferiore a quella dei principali paesi concorrenti20• Infine, la progressiva integrazione monetaria europea ha reso impossibile continuare a giocare sulla svalutazione per mantenere competitività sui mercati esteri, fattore su cui molti sistemi distrettuali del made in Italy avevano potuto contare nei decenni precedenti. Tutti questi elementi hanno aumentato in maniera considerevole la pressione sul sistema economico, che ha dovuto cercare forme alternative di adattamento. Come abbiamo già ricordato, forse il fatto più interessante è costituito dal formarsi di un nuovo sistema di medie imprese eccellenti definito "quarto capitalismo,. Mentre il primo è quello del decollo industriale, il secondo è rappresentato dalle imprese di Stato che sono state in parte smantellate dalle privatizzazioni, e il terzo può essere considerato quello dei sistemi distrettuali. Il quarto capitalismo è costituito dalla parte più dinamica del terzo, ovvero da una popolazione di imprese di medie dimensioni , che, a partire dalle vecchie forme distrettuali, facendo della conoscenza e dell innova­ zione il proprio punto di forza, sono riuscite a diventare competitive a livello globale pur operando prevalentemente nei settori tradizionali del made in Italy. Gli studi descrivono una realtà che, pur tra mille contraddizioni, punta a un , modello d impresa "integrale,, in quanto tecnologicamente avanzata ma al contempo , legata al contesto localer. La permanente capacità esportativa dell economia italiana è in larga misura legata a questa nuova componente del capitalismo italiano. Per quanto importante, il quarto capitalismo non ha costituito tuttavia l'unica forma di adattamento alle nuove sfide. Più massicciamente, il sistema delle piccole imprese ha infatti seguito una strada diversa, conformandosi a un modello produttivo concentrato in lavorazioni ad alta intensità, a bassa innovazione e alto sfruttamento , del lavoro, con forte incidenza di imprese artigiane specie all interno dei distretti. , , L utilizzo di lavoro nero, le piccole dimensioni d impresa, il subappalto, la flessibi­ lizzazione dei contratti e il ricorso alla forza lavoro immigrata costituiscono le archi­ travi di questa strategia che ha avuto conseguenze molto evidenti sulla struttura , dell occupazione. Lo dimostra il fatto che i lavoratori manuali specializzati conti­ , nuano oggi a rappresentare oltre un quinto dell occupazione, livello quasi doppio rispetto a quello registrato nel Regno Unito e in Francia22• Inoltre, un quarto degli operai specializzati italiani sono indipendenti: artigiani poco scolarizzati ma con grande capacità di apprendimento pratico sul lavoro, che sono stati uno dei fonda­ , menti della competitività dell economia italiana. In questo modo, l'aggiustamento del sistema produttivo non ha fatto altro che proseguire lungo la strada tradizionale del modello italiano, assai poco incline alla grande dimensione e alla formalizzazione. Non va sottovalutato, a questo riguardo, il ruolo svolto dal massiccio arrivo di forza Confindustria, Italia 20I5, cit. 2I. A. Colli, Il quarto capitalismo. Un profilo italiano, Marsilio, Venezia 2002; M. Magatti (a cura di), Nuovi modelli di business, Bruno Mondadori, Milano 20 1 1 . 22. E. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, il Mulino, Bologna 20I I. 20.

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lavoro immigrata disponibile a svolgere attività manuali pesanti a bassa remunera­ zione, in sostituzione di una manodopera autoctona sempre meno attratta da questo genere di occupazioni. Di fatto, sul piano economico, l' immigrazione ha rappresen­ tato un tassello importante per la costruzione degli equilibri degli ultimi anni, ren­ dendo possibile al sistema delle imprese una strada alternativa a quella centrata su innovazione e qualità. Inoltre, il fatto che, nel corso di questi decenni, sia stato relativamente facile trovare lavoro in questi settori anche per gli immigrati senza permesso ha costituito un elemento di attrazione per nuovi flussi in ingresso e la principale causa della presenza di un ampio segmento di immigrazione irregolare3•

3.2.

I L T E RZ I A R I O

La seconda linea evolutiva dell'economia italiana ha a che fare con la natura del processo di terziarizzazione. Lo spostamento di ampie quote di forza lavoro dall' in­ dustria al terziario, come nei primi decenni del secolo scorso dall'agricoltura all'in­ dustria, ha un impatto molto rilevante sulla struttura sociale perché ne modifica la composizione occupazionale e influisce sui processi di mobilità. Come negli altri paesi avanzati, anche in Italia, dagli anni Settanta a oggi, si è verificato un forte aumento dell'occupazione nel settore dei servizi, che ha raggiunto quota 67% del totale nel 20IO. Tuttavia, tale percentuale rimane ben sotto il livello degli Stati Uniti o di Regno Unito e Olanda dove si sfiora l' So% dell'occupazione complessiva. Inoltre, in Italia, rispetto ad altri paesi europei, tutti i comparti del terziario presentano quote più basse di professioni intellettuali. Le ragioni che spie­ gano questa evoluzione sono molteplici. Oltre alla tradizionale vocazione manifattu­ riera, la frammentazione del tessuto produttivo italiano in unità di piccole dimen­ sioni comporta una domanda relativamente ridotta di servizi ad alta qualificazione. Anche la forte presenza del settore turistico concorre alla crescita di opportunità di impiego poco qualificate4• Le specificità del percorso di terziarizzazione italiano sono poi strettamente legate alle caratteristiche del sistema di welfare che, secondo la nota tipologia di G0sta Esping-Andersen, ricade nel "modello continentale"2.s. Quest'ultimo assume in Italia una configurazione basata sulla centralità della famiglia che si accolla internamente una fetta rilevante dell'onere di cura, grazie alle proprie risorse interne e ai trasferi­ menti monetari da parte dello Stato. Gli effetti di questo tratto caratteristico sul Id., The Mass Legalization oJ Migrants in Italy: Permanent or Temporary Emergence Jrom the Underground Economy?, in "South European Society and Politics", 3, I 9 9 8, 3, pp. 83- I04. 24. Id., Sociologia del mercato del lavoro, cit. 25. G. Esping-Andersen, I fondamenti sociali delle economie postindustriali, il Mulino, Bologna 23.

2000.

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mercato del lavoro sono almeno due: la scarsa partecipazione femminile e l' insuffi­ ciente istituzionalizzazione di molti servizi, a cui si provvede o con risorse interne alla famiglia ( come nel caso dei nonni che badano ai nipoti ) o, più di recente, mediante il ricorso parcellizzato a forza lavoro esterna, come è stato per le badanti che si occupano della cura degli anziani. In termini sistemici, il combinarsi di un ampio settore manifatturiero basato sulla piccola impresa e di un settore dei servizi relativamente ristretto e arretrato costitu­ isce la miscela forse più tipica del sistema economico italiano, che ha, tra i risvolti negativi, quello di essere poco dinamico. Ciò si traduce in un'evoluzione insoddisfa­ cente della produttività che, misurata con il valore aggiunto per ora lavorata, è cre­ sciuta nell' industria dello o,6% all'anno nel periodo 1996-2007, contro il 3,3% nel 1981-95; un profilo analogo si è registrato nel settore privato, con tassi di crescita, rispettivamente, dello 0,4% nell'ultimo periodo contro il 2,2% della fase precedente6• Tale andamento non è dipeso solamente da un'accresciuta intensità di lavoro nei processi produttivi, in quanto ha riguardato anche la produttività totale dei fattori, che normalmente è utilizzata come misura della capacità di innovare, adottare nuove tecnologie e migliorare l'organizzazione dell' insieme dei fattori della produzione7• 3·3·

D A L LAV O R O A L CA P I TA L E

Tra le numerose cause che spiegano un tale risultato, non è trascurabile il ruolo svolto dalla redistribuzione del valore aggiunto tra i diversi fattori della produzione. Da un lato, in Italia gli ultimi trent'anni hanno visto declinare significativamente il peso del fattore lavoro a tutto vantaggio delle altre forme di reddito ( profitti e rendite ) : in termini di quota sul valore aggiunto, tra il 1976 e il 2008 nel settore privato il lavoro è sceso dal 68 al 58%18• Anche in questo caso, il dato nazionale accentua una tendenza più generale. Così, se all' inizio del periodo il nostro paese si poneva leggermente al di sopra della media O C SE, nel 200 6 il dato italiano risultava inferiore di quasi due punti percentuali. E mentre negli anni Settanta e Ottanta le retribuzioni lorde da lavoro dipendente crescevano in termini di potere d'acquisto del 2,1% all'anno, dal 1993 al 2008 sono cresciute a un tasso dello 0,2%, in pratica recuperando solo l' inflazione9• Parallelamente al calo del peso del lavoro, negli ultimi due decenni in Italia si è avuto un aumento dei profitti. Secondo i dati di Medio­ banca, a partire dal 199 5 e a esclusione del 2004 i profitti in Italia sono stati . . . . . . . costantemente pos1t1v1 e quantltattvamente conststentl. -

-

26. Brandolini, Indagine conoscitiva su/livello dei redditi di lavoro nonché sulla redistribuzione della ricchezza in Italia nel periodo I993-2ooS, cit. 27. Confindustria, Italia 20I5, cit. 28. Brandolini, Indagine conoscitiva su/livello dei redditi di lavoro nonché sulla redistribuzione della ricchezza in Italia nel periodo I993-2ooS, cit. 29. Ibid. 24

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Dall 'altro lato, però, ciò si è tradotto solo in parte in maggiori investimenti. Dai primi anni Novanta, la quota di investimenti fissi lordi sui profitti è diminuita rispetto alla fase precedente, rimanendo stabilmente inferiore al 70%. Se a ciò si aggiunge la modesta capacità di attrarre investimenti esteri ( l' Italia è solo quindice­ sima nella classifica internazionale con flussi concentrati nel settore commerciale ) e la limitatezza degli investimenti pubblici - che, nell'ordine del 3,5% del PIL negli anni Ottanta, sono scesi sotto quota 2,5% a partire dalla metà degli anni Novanta il quadro complessivo appare ben poco entusiasmante. A questo primo aspetto si aggiunga la ridefinizione dei rapporti interni alla stessa sfera del capitale, che ha visto una forte crescita della rendita immobiliare30• Nel suo insieme, nel corso degli anni, l'economia italiana si è progressivamente spostata verso un modello di sviluppo nel quale il lavoro, considerato una risorsa quantitativamente abbondante e qualitativamente irrilevante, ha poco per volta perso centralità. Ampi strati dell'economia italiana hanno scelto una linea di adattamento che ha puntato su lavoro dequalificato e su bassi salari, mentre altri hanno sfruttato mercati protetti o si sono rifugiati nelle diverse forme di rendita, a partire da quella immobiliare.

4

Una p luralità di faglie

L' impatto di questo modello di crescita economica sul sistema delle classi italiano è stato molto articolato. Attraversata da una pluralità di faglie, la società italiana non appare infatti riconducibile a rappresentazioni semplificate. Per fornire una chiave interpretativa è necessario affrontare la questione considerando almeno tre punti di ingresso analitici. 1. Il primo ingresso è costituito da quell' insieme frastagliato che in letteratura è normalmente indicato come ceto medio, tema attorno a cui si è sviluppato un ampio dibattito che in questa sede non possiamo che toccare tangenzialmente. Fanno parte di questo gruppo sociale - secondo Arnaldo Bagnasco31 non definibile come un'unica classe ma piuttosto come un insieme di classi e/ o di ceti - i titolari di piccole e medie imprese e gli artigiani, ovvero gli imprenditori dello sviluppo locale di ampie aree dell' Italia centro-settentrionale. Dopo la fase della "mobilitazione individualisticà'3\ negli anni Ottanta emerge una nuova immagine dei ceti medi quali attori principali dello sviluppo economico 30.

W. Tocci, L'insostenibile ascesa della rendita urbana, in "Democrazia e Diritto",

pp. I7-S9·

2009, I,

A. Bagnasco (a cura di), Ceto medio. Perché e come occuparsene, U Mulino, Bologna 200 8. 32. A. Pizzorno, I ceti medi nel meccanismo del consenso, in F. L. Cavazza, S. R. Graubard (a cura di), Il caso italiano, Garzanti, MUano I 974· 3 I.

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delle aree di distretto del Centro Nord-Est, dove i titolari di piccole medie imprese e gli artigiani, per un paio di decenni, hanno sperimentato percorsi di forte mobilità sociale ed economica e si sono trovati al vertice della struttura sociale, soprattutto nei centri urbani di piccole e medie dimensioni33. Come già messo in luce, tuttavia, alla fine degli anni Novanta le condizioni economiche di contesto cambiano come anche i modi di competere sul mercato, per cui non si può più dare per scontato che le reti a livello locale, e i sistemi di piccola impresa che ne fanno la loro risorsa principale, riescano a rimanere competitive. Il gruppo sociale delle classi medie in quest'ultima fase sembra divenire ancora più composito : da un lato emergono gli imprenditori leader del quarto capitalismo che crescono in dimensioni e si svinco­ lano almeno parzialmente dai legami con il territorio ; dall'altro lato troviamo le figure più tradizionali di artigiani e titolari di piccole imprese, che si trovano in difficoltà di fronte alla concorrenza e alla crescente pressione alla delocalizzazione. Questi cambiamenti si leggono anche nelle caratteristiche della struttura occupazio­ nale: da una parte si vede aumentare il numero di manager e professionals, ma, nello stesso tempo, si rileva una quota ancora molto elevata di lavoratori in proprio e titolari di piccola impresa con un livello di istruzione basso. Il lavoro autonomo, infatti, rimane tutt'oggi il principale canale di mobilità sociale ascendente per coloro che non hanno investito in istruzione34• All' interno di esso troviamo altresì un segmento sempre più ampio di artigiani e titolari di piccole imprese nati all 'estero, che cercano nel lavoro in proprio quelle possibilità di mobilità sociale ascendente che sono loro negate nel lavoro dipendente. Tra gli immigrati, tuttavia, a differenza che tra gli autoctoni, sono i più istruiti a mettersi in proprio perché sono loro a soffrire maggiormente della segregazione nei gradini più bassi della scala occupa­ zionale, sebbene molto spesso il passaggio al lavoro indipendente non garantisca reali possibilità di mobilità sociale ascendente ma riguardi comunque attività fati­ cose e poco prestigiose35• A ciò si deve aggiungere il già citato ruolo giocato dallo Stato : se, negli anni Ottanta e Novanta, quest'ultimo sostiene in qualche modo - direttamente e indi­ rettamente - l'espansione del ceto medio, nel momento in cui scoppia una nuova crisi fiscale dello Stato sono proprio i ceti medi a soffrirne particolarmente. 2. Il secondo ingresso analitico è costituito dalla classe operaia, un gruppo sociale che negli ultimi decenni è stato al centro di una profonda trasformazione. Se negli anni Settanta si raggiunge il livello massimo di espansione dell'occupazione indu­ striale manifatturiera, e della classe operaia al suo interno, alla fine degli anni Novanta 33· Bagnasco, Ceto medio, cit. 34· M. Pisati, A. Schizzerotto, Pochi promossi nessun bocciato. La mobilita di carriera in Italia in prospettiva comparata e longitudinale, in "Stato e Mercato", 1999, s 6, pp. 249-79. 3S· Si pensi, ad esempio, alle attività commerciali nei mercati rionali o alla panifìcazione: G. Fullin,

Quanto diversi? E in che cosa? Lavoratori autonomi immigrati e autoctoni a confronto, in A. Colombo ( a cura di ) , Stranieri in Italia, il Mulino, Bologna 2013.

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essa risulta notevolmente ridotta, in termini sia assoluti che relativi36• Il lavoro manuale, tuttavia, non scompare ma rimane concentrato - come era in realtà già in precedenza - nelle piccole imprese manifatturiere e progressivamente continua a crescere nel terziario : servizi di pulizia, trasporto e sorveglianza, occupazioni dequa­ lificate nelle attività di ristorazione e turistiche, addetti alla vendita nelle attività commerciali, servizi di cura di anziani e bambini e servizi di pulizia per le famiglie sono cresciuti nel tempo37, e c 'è chi si chiede se questo porti alla creazione di un vero e proprio "proletariato dei servizi". Da un lato, il fatto che queste occupazioni siano quasi sempre transitorie per chi le svolge (giovani e donne in specifici periodi della loro vita e immigrati appena arrivati) porterebbe a pensare che non vi siano le con­ dizioni per la formazione di una classe operaia dei servizi38 ma, d'altra parte, in Spagna39 e in Italia sembra vi siano forti rischi di intrappolamento in queste attività, che risultano quindi molto meno transitorie di quanto si potrebbe immaginare. Un ulteriore aspetto della trasformazione della classe operaia avvenuta in questi anni è rappresentato dall'ingresso massiccio di immigrati. Gli stranieri che entrano nel mercato del lavoro italiano, infatti, nonostante abbiano un livello medio di istru­ zione solo di poco inferiore a quello della popolazione autoctona, sono fortemente segregati nei segmenti più bassi della struttura sociale: gli uomini svolgono attività manuali nelle costruzioni, nell' industria manifatturiera e praticano i compiti più gravosi e meno prestigi osi nelle attività di servizio alle famiglie (trasporti, facchi­ naggio, lavapiatti e camerieri in ristoranti e bar) , mentre le donne hanno elevatissime possibilità di venire assunte come colf e badanti. Alcune analisi mettono chiaramente in luce come, a parità di età, livello di istruzione e regione di residenza la probabilità di svolgere attività di basso livello professionale è molto più alta per gli stranieri che per gli autoctoni40• I flussi migratori vanno a costituire quel bacino di forza lavoro disponibile a svolgere attività manuali - sia nelle piccole imprese del settore mani­ fatturiero che nelle attività del terziario - che l'aumento generalizzato del livello di benessere e del livello di istruzione della popolazione autoctona aveva con il tempo eroso. Questo processo di "sostituzione", tuttavia, risulta particolarmente penalizzante per gli immigrati perché in molti casi non lascia possibilità di transizione verso opportunità di lavoro migliori, neppure per coloro che hanno titoli di studio medio alti o che sono da più tempo insediati in Italia. All'aumentare del numero di anni 36. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, cit. 37· Il so% di coloro che sono classificati come operai attualmente lavora nel settore terziario, contro il 33% relativo all 'industria manifatturiera, il 12% nell'edilizia e il s% in agricoltura; ibid. 3 8. G. Esping-Andersen, Occupazioni o classi sociali: esiste un proletariato postindustriale?, in "Polis", VII, I993, 3, pp. 4S7-7S· 39· F. Bernardi, L. Garrido, fs There a New Service Proletariat? Post-Industrial Employment Growth and Social Inequality in Spain, in "European Sociological Review", 24, 2008, 3, pp. 299-3 I3. 40. E. Reyneri, G. Fullin, Labour Market Penalties ofNew Immigrants in New and Old Receiving West European Countries, in "International Migration", 49, 2011, I, pp. 3I-S7· 27

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di permanenza, infatti, il rischio di declassamento professionale per i più istruiti non si riduce in maniera sostanziale4\ a segnalare che il mercato del lavoro italiano offre posti di lavoro facilmente accessibili agli immigrati ma è al contempo molto "efficace" nel bloccare i processi di mobilità occupazionale ascendente, anche di coloro che sono maggiormente insediati. In generale, nel corso degli ultimi due decenni la condizione operaia subisce la modificazione e la diversificazione - e in molti casi il peggioramento - delle condi­ zioni contrattuali del lavoro soprattutto in seguito al processo di flessibilizzazione. La condizione lavorativa tende a diventare una situazione "singolare", sempre meno riconducibile a un processo collettivo. Anche quando è inserito in rapporti di lavoro dipendente, e quindi apparentemente lontano da un' idea di autonomia, il lavoro tende a divenire un'esperienza individuale attraverso la quale è possibile garantirsi l'indipendenza economica necessaria per poter accedere al consumo, concepito come principale elemento di integrazione sociale. A questa ricerca di autonomia si con­ trappone, o si affianca, una voglia di stabilità, di garanzia, che evidenzia la doppia struttura dei processi di individualizzazione42.. Ciò, oltre ad aumentare il senso di insicurezza, costringe a doversi misurare con decisioni complesse all' interno di un quadro di riferimento mutevole, dove non è possibile definire con precisione le con­ seguenze a cui il singolo va incontro. Tale processo acuisce la percezione soggettiva del rischio, mentre attenua quella sociale e collettiva dei problemi e della propria condizione. La parziale disaffezione sindacale e la forte riduzione della conflittualità sociale costituiscono il precipitato più importante di questa tendenza evolutiva. Nel complesso, questi mutamenti determinano la trasformazione culturale degli operai che, a parte qualche bastione, perdono la propria identità di classe per trasfor­ marsi in "ceti popolari"43. Un tale processo comincia con la diversificazione delle condizioni di lavoro che si traduce in una significativa disomogeneità dei destini personali. Ciò spiega come mai i tratti essenziali della trasformazione culturale degli ultimi decenni - caratterizzata dai valori dell'autonomia, dell'autorealizzazione, della "vita a progetto" - appaiono sufficientemente penetrati nell'ethos dei ceti popolari, a prescindere dall'effettiva possibilità di poter realizzare nella propria esistenza qualcosa di vagamente assimilabile a tali aspirazioni. Più in generale, la trasformazione della classe operaia in ceti popolari è un effetto del passaggio dalla centralità del lavoro a quella del consumo, passaggio che pervade in profondità i processi della costruzione identitaria dei gruppi subalterni. In questo modo, il lavoratore perde progressivamente la propria identità di classe, e di conseguenza, la propria capacità contrattuale, cen41. OECD Organisation for Economie Co-Operation and Development, International Migration Outlook, OECD, Paris 2007; ISTAT, Gli stranieri nel mercato del lavoro. I dati della rilevazione sulle forze di lavoro in un'ottica individuale e familiare, ISTAT, Roma 2008. -

42. M. Magatti, M. De Benedittis, I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia?, Feltrinelli, Milano 2006. 43· Ibid.

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trandosi sempre di più sulla sfera del consumo. E attraverso il consumo che la propria effettiva condizione diventa invisibile e perciò sopportabile. E questa la forma contemporanea della subordinazione, che lega i nuovi ceti popolari - per definizione poco dotati di risorse economiche e culturali - ai modelli culturali prevalenti. 3 · La terza e ultima dimensione analitica riguarda i ceti borghesi dell' Italia contemporanea. E prima di tutto necessario osservare che non sono disponibili studi esaurienti su questo gruppo sociale, che rimane opaco non solo socialmente ma anche alle stesse scienze sociali. Per ricostruire le principali tendenze degli ultimi decenni occorre considerare in breve la fase storica precedente. Come ha osservato Paci44, nel corso degli anni Ottanta, la borghesia produttiva e finanziaria del paese è rimasta organizzata attorno ad alcuni imperi economici familiari e alcune grandi strutture finanziarie. Da allora, quell'oligarchia si è ulteriormente ristretta, perdendo alcune delle grandi famiglie che la costituivano, e ha almeno in parte cambiato pelle - a causa degli effetti dovuti alla finanziarizzazione dell'economia globale e al processo di privatizzazione realizzato nei primi anni Novanta. La conseguenza è stata l'ulteriore riduzione della capacità propulsiva - economica e culturale - di questo gruppo sociale, sempre meno in grado di guidare l'economia italiana di fronte alla globalizzazione. Le ragioni di tale arretramento sono diverse: la crescente preferenza per le rendite invece che per l' investimento, confermata dall'aumento del loro peso all' interno della composizione del valore aggiunto (cfr. PAR. 3.3); il regime di protezione nel quale molte grandi imprese privatizzate si sono trovate a operare; l'accresciuta centralità acquisita dal sistema delle banche e delle fondazioni che hanno spostato gli equilibri dall'economia reale a quella finanziaria. Sta di fatto che, nella società italiana degli ultimi decenni, la borghesia non è stata capace di giocare un ruolo di leadership45, limitandosi - se così si può dire - ad ampliare la quota di reddito a propria dispo­ SIZione. Un quadro di sostanziale immobilità della borghesia italiana è confermato anche dall'analisi di Carlo Carboni ed Emmanuele Pavolini46, che sottolineano come l'età media delle élite italiane - pari a s6,8 anni nel 1990 - sia aumentata nel corso dei successivi quindici anni ( nel 2004 si avvicinava a 6 1 anni ) , lasciando trasparire come il ricambio delle classi dirigenti sia quasi del tutto bloccato. Le difficoltà nel gestire i passaggi generazionali di padre in figlio, all'interno delle imprese a gestione fami­ liare, e l'inesistenza di strumenti efficaci di valutazione dei risultati ottenuti dai dirigenti sono tra i fattori che spiegano perché nel nostro paese il processo di circo­ lazione delle élite è quasi del tutto fermo. ...

...

44· Paci, I mutamenti della stratijìcazione sociale, cit., pp. 699-764. 45· A. Bonomi, M. Cacciari, G. De Rita, Che fine hafatto la borghesia? Dialogo sulla nuova classe dirigente in Italia, Einaudi, Torino 2004. 46. C. Carboni, E. Pavolini, Una radiografia delle élite. Chi sono e che caratteristiche hanno, in C. Carboni (a cura di), Élite e classi dirigenti in Italia, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 3-52. 29

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La parte più dinamica dei ceti dirigenti, quella legata al quarto capitalismo, anche se è cresciuta numericamente non è stata in grado di determinare un effettivo cam­ biamento della borghesia del nostro paese. Nonostante il loro crescente rilievo econo­ mico, questi gruppi - intenti a guadagnarsi un posto nei mercati internazionali senza perdere il legame con il territorio - non hanno né elaborato né espresso una cultura comune in grado di orientare scelte e comportamenti del loro gruppo sociale di rife­ rimento. Di conseguenza, non sono riusciti a diventare il punto di riferimento di una , nuova classe dirigente e ad affermarsi all interno delle associazioni di rappresentanza.

s

Immobilità sociale

Come mettono in luce anche gli studi sulla stratificazione sociale, accanto alle dif­ ferenze di classe e di ceto - e a quelle legate alla dimensione etnica e territoriale a cui, in questa analisi, abbiamo solo brevemente accennato - negli ultimi decenni , all interno della società italiana sono diventate sempre più evidenti le diseguaglianze , generazionali, da un lato, e quelle di genere dall altro. Si tratta di una notazione molto importante, sia perché porta alla luce un tema spesso trascurato - quello delle donne -, sia perché permette di stabilire una relazione tra i processi di disuguaglianza e le dinamiche demografiche, relazione che è stata a lungo sottovalutata. Inoltre, soffermarsi a considerare questi cleavages, che sembrano tagliare in modo trasversale le differenze legate alla posizione sociale in realtà a volte semplicemente amplifican­ done la rilevanza, è cruciale per mettere in evidenza in che modo si inseriscono nel quadro complessivo che abbiamo cercato di delineare. Essi sono parte integrante del , modello italiano di capitalismo di marginalità che, nell ultimo decennio, ha messo a nudo in modo sempre più palese la sua incapacità di garantire livelli adeguati di mobilità sociale. La società italiana, infatti, benché interessata da alcuni processi di trasformazione di lungo periodo che vedono coinvolti (con tempi e ritmi diversi) tutti i paesi europei - quali r aumento del livello di istruzione, la crescita della par­ , tecipazione femminile al mercato del lavoro, la flessibilizzazione dell occupazione, r invecchiamento della popolazione e la crescita dei flussi migratori in ingresso appare tuttavia sempre più immobile. Ma facciamo un passo indietro. Tra il 1945 e la fine degli anni Settanta, l'Italia è , stata un paese dalle molte opportunità : Antonio Schizzerotto, attraverso un analisi longitudinale, mostra come le generazioni nate tra il 1 9 0 0 e il 1950 abbiano visto via via innalzarsi le loro opportunità formative e occupazionali, mentre per le generazioni successive tali opportunità sono rimaste inalterate o si sono addirittura ridotte47• Le 47· A. Schizzerotto (a cura di), Vite ineguali. Disuguaglianza e corsi di vita nell'Italia contempo­ ranea, il Mulino, Bologna 2002.

S T R AT I F I C A Z I O NE S O C I A LE E D I S U G UA G L I A N Z A I N U N C A P I TA L I S M O D I M A R G I N A L I TÀ

generazioni più giovani - rappresentate da coloro che hanno attualmente tra i 18 e i so anni - sono «le uniche generazioni nate nel secolo appena trascorso, a esperire un complessivo arretramento delle proprie chances di vita rispetto a quelle dei propri genitori » 48• Il modello postbellico si è inceppato a partire dagli anni Ottanta, nel momento in cui l'economia italiana ha cominciato a perdere di dinamicità. Raggiunto in pochi decenni l'obiettivo del benessere diffuso, la nostra società si è come bloccata. Prima, come si è appena visto, dal punto di vista economico, e poi anche - e conseguente­ mente - dal punto di vista della mobilità sociale. Se si guarda alla distribuzione dei redditi per fasce d 'età si nota, ad esempio, come negli ultimi dieci anni si sia verificata una notevole redistribuzione del reddito a svantaggio delle classi di età più giovani ( in particolare fino ai 34 anni ) e a vantaggio di quelle più anziane49• Anche guardando ai salari d'ingresso, si rileva come nel periodo 1986-2004 quelli dei più giovani si siano ridotti in termini reali, non com­ pensati da una più rapida progressione salariale nel corso della carriera lavorativa50• Per quanto riguarda i percorsi occupazionali le differenze più forti tra le ultime generazioni e quelle dei nati nella prima metà del Novecento riguardano l ' ingresso nel mercato del lavoro, che vede i giovani particolarmente penalizzati in termini di rischio di rimanere a lungo disoccupati e di vedersi offrire contratti a tempo deter­ minato. I dati sul tasso di disoccupazione giovanile e quelli sulla distribuzione dei rapporti di lavoro a tempo determinato mettono chiaramente in evidenza il peso delle differenze generazionali. Dal 1 9 85 al 2009 la percentuale degli occupati con contratti a termine tra i giovani è cresciuta dal 9 al 44%, mentre tra gli adulti solo dal 4 all' u %51• Ciò, oltre a essere uno sperpero di capitale umano, mortifica le aspettative individuali e, a lungo andare, spegne le energie migliori. Si potrebbe pensare che queste tendenze siano generalizzate e che non costitui­ scano una specificità del caso italiano. Ma non è così. Il processo di flessibilizzazione dell'occupazione ha sì riguardato tutta l'Europa e ha interessato ovunque più le coorti giovani di quelle adulte, ma i suoi esiti differiscono molto a seconda delle caratteri­ stiche del mercato del lavoro e del tipo di politiche che ne hanno accompagnato l'implementazione. In alcuni paesi, come la Germania, la diffusione di contratti temporanei a fini formativi e il sistema di formazione duale riducono moltissimo il rischio di intrappolamento nell' instabilità occupazionale, così come il noto modello della jlexicurity danese rende brevi e poco problematici i periodi di disoccupazione per coloro che hanno visto concludersi un contratto di lavoro. In Italia, invece, la

48. lvi, p. 3 6 6. 49· Ranci, Migliavacca, Trasformazioni dei rischi sociali e persistenza del welfare, cit. so. Brandolini, Indagine conoscitiva sul livello dei redditi di lavoro nonché sulla redistribuzione della ricchezza in Italia nel periodo I993-2ooS, cit. S I. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, cit. 31

M A U R O M A G A T T I / G I OVA NNA F U L L I N

diffusione dei contratti di lavoro cosiddetti flessibili è stata favorita senza progettare parallelamente una riforma delle tutele e del sistema di welfare, giocando sul fatto che sarebbero stati i giovani - e in minor misura le donne - a dover fronteggiare il peso della precarietà potendo contare sul sostegno della famiglia di origine e/ o del partner52• E così, di nuovo, le differenze generazionali si intrecciano con quelle rela­ tive alla condizione sociale di partenza, perché sono le risorse della famiglia di origine e/ o del partner a permettere ad alcuni di sostenere i costi della precarietà e a mettere altri in condizioni di forte vulnerabilità53, oltre a influire sulle possibilità di accesso a un'occupazione stabile (via livello di istruzione e/o capitale sociale)54• Questi problemi si aggiungono al malfunzionamento della scuola, che non riesce a costituire il canale di accesso e selezione dei nostri giovani. Da una parte, in Italia la quota di popolazione in età da lavoro che ha completato l' istruzione secondaria supe­ riore è di ben 18 punti percentuali più bassa della media O C S E, di 32 rispetto alla Ger­ mania. Il divario si riduce per le generazioni più giovani (tra i 25 e i 34 anni), ma resta comunque ampio: 1 1 punti rispetto all' ocsE e 17 rispetto alla Germania55• Dall'altra parte il numero di dropouts rimane molto elevato : nel 2008 il 7% del totale dei ragazzi di età compresa tra 14 e 17 anni è uscito precocemente dal circuito scolastico e il dato è ancora peggiore per i figli di genitori stranieri ( 12% ) . Infine, la percentuale di laureati rimane tra le più basse in Europa: solo il 14% della popolazione in età da lavoro ha un diploma universitario, la metà della media O C S E , e il divario aumenta se si considera la sola fascia dei venticinque-trentaquattrenni ( 19% contro una media del 34% ) 56• I problemi dei giovani si riscontrano non solo in relazione alle difficoltà di accesso a un'occupazione e a un'occupazione stabile, ma anche in relazione al rinvio del rag­ giungimento dell'autonomia abitativa57• La lunga permanenza dei giovani italiani nell'abitazione dei genitori è un fenomeno che non ha pari in altri paesi europei e che, sebbene sia determinato da vari fattori, può essere interpretato comunque come un segnale di difficoltà di un'intera generazione, che rischia di finire schiacciata tra la flessibilizzazione del posto di lavoro, la compressione dei salari e l'aumento del costo degli immobili. Lo scoppio della crisi, iniziata nel 200 8, ha poi definitivamente dete­ riorato la situazione, con l'esplosione della disoccupazione giovanile che, a fine 2012, è tornata attorno al 30% per la fascia di età inferiore ai 30 anni. Accanto alle differenze generazionali, quelle di genere devono oggi essere ugual52. Ibid.; G. Fullin, Vivere l'instabilita del lavoro, il Mulino, Bologna 2004. S3· G. Fullin, /nstabilita del lavoro e vulnerabilita: dimensioni, punti di equilibrio ed elementi di fragilita, in "Rassegna Italiana di Sociologia", 2002, 4, pp. 553-86. S4· P. Barbieri, S. Scherer, Labor Market Flexibilisation and lts Consequences in Italy, in "European Sociological Review", 25, 2009, 6, pp. 677-92. SS· OECD, Education at a Glance 2009. OECD Indicators, OECD, Paris 2009. s6. Ibid. S7· L. Mencarini, M. L. Tanturri, Una casa per diventare grandi. I giovani italiani, l'autonomia abitativa e il ruolo della famiglia d'origine, in "Polis", 2006, 3, pp. 405-30. 32

S T R AT I F I C A Z I O NE S O C I A LE E D I S U G UA G L I A N Z A I N U N C A P I TA L I S M O D I M A R G I N A L I TÀ

mente considerate come un fattore strutturante il sistema della disuguaglianza carat­ teristico della società italiana. Anche in questo caso, di fronte a una tendenza gene­ ralizzata a tutti i paesi europei - la crescente partecipazione femminile al mercato del lavoro - la società italiana rimane bloccata, sostanzialmente incapace di valoriz­ zarne le potenzialità. Dopo il calo avvenuto negli anni Sessanta e Settanta, da metà degli anni Ottanta il tasso di attività femminile in Italia ricomincia a crescere e raggiunge il 33,5% nel 2oo8 ( tasso lordo totale) . Si tratta di un livello molto basso rispetto a quanto si registra in altri paesi europei ( in Danimarca siamo al so%, in Olanda poco sotto e in Francia e Spagna attorno al 43%), ma la tendenza all'aumento è evidente e, essendo per buona parte connessa all'aumento del livello di istruzione58, si presuppone continuerà nei prossimi anni. Ma questa tendenza si scontra, in Italia più che in altri paesi, con una forte penalizzazione in termini di rischio di disoccu­ pazione, sia nelle regioni settentrionali che, in modo drammatico, in quelle meridio­ nali. Per tutti gli anni Ottanta i dati mostrano una notevole capacità di "resistenza" nel mercato del lavoro da parte delle giovani donne meridionali, che rimangono in cerca di impiego nonostante gli elevatissimi tassi di disoccupazione. Tuttavia da metà anni Novanta cominciano a rilevarsi alcuni segnali di scoraggiamento e un decennio più tardi si registra addirittura un declino dei tassi di attività femminili di trentenni e quarantenni, che al Sud preferiscono la condizione - non più scelta ma subita - di casalinghe alla lunga ricerca, spesso vana, di un impiego in un contesto sociale dove l'immagine della donna lavoratrice non sembra ancora essersi consolidata59• A ciò si aggiunga che le italiane che sono occupate, pur costituendo ormai la parte più qualificata della forza lavoro più giovane, continuano a subire forti discri­ minazioni in termini di possibilità di carriera e livelli retributivi. I dati della Com­ missione europea ( relativi al 2002)60, ad esempio, rilevano che le donne con ruoli manageriali o di supervisione in Italia sono il 5,7% contro il 14,2% degli uomini, rispetto a una media europea del 1 2,9% per le donne e del 23,9% per gli uomini. La presenza di un "soffitto di cristallo" contro cui si infrangono le aspettative di carriera femminile - che da tempo sono più istruite dei loro coetanei maschi - risulta per­ tanto innegabile, così come la presenza di differenziali salariali che vedono le donne pagate meno degli uomini a parità di attività svolta e di posizione occupazionale. Come se la componente femminile della popolazione italiana fosse quella che più ha investito sul futuro, ma anche quella che ha minori riconoscimenti e opportunità. Inoltre, l'aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro mette sotto tensione il sistema che ha garantito fino a oggi la cura di bambini e anziani in

Reyneri, The Mass Legalization ofMigrants in Italy, cit. S9· Id., Sociologia del mercato del lavoro, cit. 6o. EC 's Expert Group on Gender and Employment, The Gender Pay Gap and Gender Mainstre­ aming Pay Policy in EU Member States, 2002, in https:/ /research.mbs.ac.uk/european-employment/ Portals/ o/ docs/ gendersocial/paysynthesis.pdf. s 8.

33

M A U R O M A G A T T I / G I OVA NNA F U L L I N

un sistema di welfare, quale quello italiano, che delega prevalentemente alla famiglia .. lo svolgimento di queste attività. E sulle donne, infatti, che nella stragrande maggioranza dei casi grava il lavoro di cura dei bambini piccoli e degli anziani non autosuf­ ficienti, in Italia come negli altri paesi europei6r, e la scarsa diffusione dei contratti di lavoro part time non fa che esasperare le tensioni tra desiderio/ esigenza di rimanere attive nel mercato del lavoro e necessità di cura verso bambini e anziani. Il calo dei tassi di fecondità delle italiane - in parte causato da questi problemi - e l'abbandono del lavoro da parte delle donne che hanno avuto un figlio, contribuiscono a ridurre le pressioni sul sistema famiglia-lavoro ma non rappresentano ovviamente una solu­ zione a queste contraddizioni62• In realtà la presenza di un ampio bacino di mano­ dopera immigrata disponibile a svolgere lavori di cura (con salari medio-bassi e spesso senza contratto regolare ) è l'elemento essenziale che ha consentito l'affermarsi di un nuovo modello di care per gli anziani, in cui le famiglie possono trovare sul mercato i servizi di cura che il sistema di welfare non è in grado di offrire, a prezzi accettabili anche per coloro che appartengono al ceto medio63• Ciò ha permesso di ottenere, in modo molto veloce, una soluzione relativamente facile per un problema sociale emergente, ma non ha consentito di avviare una stagione di innovazione istituzionale ed economica significativa. Se alla discriminazione verso i giovani e verso le donne si aggiunge il blocco demografico che consegue alla riduzione del tasso di fertilità femminile - sceso fra il 1960 e il 2007 da 2, 4 1 a 1,29% - emerge il profilo di un paese che sembra aver rinunciato a investire sul futuro. Si torna così al punto da cui siamo partiti. I duri colpi della crisi hanno spezzato i fragili equilibri su cui si reggeva il capitalismo di marginalità che ha caratterizzato l'Italia negli ultimi decenni. L'aggravarsi delle disuguaglianze sociali, l'impoverimento dei ceti medi, la debolezza delle classi dirigenti, la chiusura verso i giovani, le donne e gli immigrati, il permanere di ampi divari territoriali rendono sempre meno social­ mente sostenibile un tale modello. Diventa sempre più necessario, pertanto, non solo cercare una via di uscita dall'attuale crisi economica, ma far sì che essa costituisca anche una sfida per individuare un percorso di crescita che, più consapevole delle condizioni nelle quali il paese deve oggi operare, sia capace di legare insieme moder­ nizzazione tecnico-economica e integrazione sociale. 61. M. Naldini, C. Saraceno, Conciliarefamiglia e lavoro. Vecchi e nuovi patti tra sessi e generazioni, il Mulino, Bologna 201 1; F. Bettio, G. Solinas, Which European Mode/Jor Elderly Care? Equity and Cost-Ejfectiveness in Home Based Care in Three European Countries, in "Economia & Lavoro': XLIII, 2009, pp. 53-7 1; G. Costa, C. Ranci, Disability and Caregiving: A Step Toward Social Vulnerability, in C. Ranci (ed.), Social Vulnerability in Europe: The New Configuration oJ Social Risks, Palgrave Mac­ millan, Basingstoke-New York 2010, pp. 159-87. 62. Naldini, Saraceno, Conciliare famiglia e lavoro, cit. 63. G. Sciortino, Immigration in a Mediterranean Welfare State: The Italian Experience in Com­ parative Perspective, in "Journal of Comparative Policy Analysis", 6, 2004, 2, pp. 1 11-29. 34

Trent 'anni di transizione demografica nell' Italia repubblicana ( 1 9 80-2010 )* di Enrico

Giovannini

I

Trasformazioni demografiche e sociali

I demografi chiamano "transizione demografica" il processo di trasformazione di una popolazione da uno status naturale, risultato di dinamiche tendenzialmente spon­ tanee, a uno più evoluto, regolato in misura crescente dal potere d' intervento degli individui. Ebbene, lo straordinario incremento della sopravvivenza, avviatosi con il drastico abbattimento della mortalità infantile ed estesosi poi a tutte le età grazie ai successi ottenuti in campo medico e, soprattutto, alle migliorate condizioni di vita della popolazione, ha consentito, in cento anni, a milioni di individui del nostro continente di superare lo scoglio dei primi anni di vita, lasciando traccia di sé stessi nella discendenza e nella società. A sua volta, l' incremento della speranza di vita ha dato un senso all' investimento affettivo e alla progettualità dei genitori e degli indi­ vidui stessi, al punto che, quando i progressi di sopravvivenza hanno iniziato a inte­ ressare le età avanzate, sono apparsi nuovi soggetti sociali, gli anziani, le cui necessità e i cui comportamenti condizionano la vita e le scelte dell'intera collettività. Parallelamente, i mutamenti culturali legati ai processi di secolarizzazione delle nostre società hanno determinato profondi cambiamenti nelle opzioni individuali relative ai processi di formazione delle unioni familiari e delle scelte riproduttive, al punto che l ' invecchiamento della popolazione, combinazione dell'incremento pro­ gressivo della sopravvivenza e del calo della fecondità, pone oggi alle società avanzate problemi di sostenibilità economica e sociale molto seri (cfr. TAB . 1 ) . Infine, a queste trasformazioni riguardanti la dinamica naturale della popolazione si aggiungono quelle indotte dall' immigrazione dai paesi a forte pressione migratoria. Fare i conti con tale fenomeno e con l' integrazione di questi nuovi soggetti sociali è una sfida cui il nostro paese e l'intera Unione Europea, così come tutto il mondo sviluppato, non potranno sottrarsi. * Si ringraziano Antonella Guarneri, Sabrina Prati, Linda Laura Sabbadini e Valerio Terra Abrami

per il contributo fornito nella preparazione di questo testo. 35

E N R I C O G I O VA N N I N I

TABELLA I

Popolazione per classe di età, indicatori di vecchiaia e di dipendenza (1951-2051) Composizione percentuale Indice di

Popolazione al

Anno

1 o gennaio (valori assoluti in migliaia)

0-14

I S- 64

6s +

di cui ss +

Indice di vecchiaia"

Indice di dipendenza dipendenza strutturale*" degli anziani""*

1951

47·51 6

26,1

65,7

8,2

0,3

31,4

52,3

1 2,5

1961

50.624

24,5

66,0

9·5

0,5

3 8.9

51,6

1 4,5

1971

54·137

24,4

64.3

1 1,3

o,6

46,1

55 · 5

17,5

1981

56.557

21,4

65,3

13,2

0,8

61,7

53,1

20,3

1991

56.778

15 ,9

68,8

15,3

1,3

96,6

45 ·3

22,3

2001

56·996

14,2

67,1

18,7

2,2

131,4

49,0

27,8

201 1

59·434

14,0

65,2

20,8

2,8

148.7

53 · 5

3 2,0

20 21

62.63 2

13,5

63,8

22,7

3.8

!68,9

56,8

35 ·7

2031

63·545

1 2,6

6o,8

26,7

4.6

212,2

64.5

43 · 9

2051

63·452

1 2,6

54 ·3

33,1

7· 9

263,1

84,1

60,9



Rapporto tra popolazione di 65 anni e più e popolazione di età o-14 anni, moltiplicato per 100. Rapporto tra popolazione in età non attiva (o- 14 anni e 65 anni e più) e popolazione in età attiva (15-64 anni), moltiplicato per 100. *"'* Rapporto tra popolazione di 65 anni e più e popolazione in età attiva (15-64 anni), moltiplicato per 100. Fonte: Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (18 61-192.1); ISTAT, XII Censimento generale della popofazione: 25 ottobre I98I, I STAT, Roma 1 9 8 2.- 8 9 ; ISTAT, XIII Censimento generale della popolazione: 20 ottobre I99I, ISTAT, Roma 19 92.-97; ISTAT, XIV Censimento generale della popolazione: 20 ottobre 200I, I STAT, Roma 2.00 2.-0 6; previsioni della popolazione (scenario centrale, base 2.0 I I, anni 2.02.1, 2.031 e 2.051). . ..

2

L' Italia e la p rima transizione demo grafica

Il quadro politico, economico e sociale al cui interno si innestano, e acquistano progressivamente intensità, le dinamiche della prima transizione demografica della storia repubblicana è ben noto. La ricostruzione del secondo dopoguerra ha aperto scenari sociali e soprattutto economici di grandissima rilevanza, sintetizzabili nel contrasto tra la necessità di un forte sviluppo, a sostegno della ripresa economica, e la storica arretratezza e l'isolamento del Mezzogiorno. Sono gli anni del Piano Marshall, che si traduce soprattutto nei grandi investimenti nell ' Italia nord-occiden­ tale, nella ricostruzione (o costruzione tout court) delle grandi infrastrutture di comunicazione, nella riorganizzazione del settore pubblico, con un' impronta "cen­ tralisticà' sul modello francese, più marcata di quanto la stessa Costituzione preve-

T RENT 'A N N I D I T R A N S I Z I O NE D E M O G RA F I C A NE L L ' I TA L I A RE P U B B L I C A NA

FIGURA

I

Funzione di sopravvivenza (lx), Italia (1890-2009) Maschi

. .... �

c u > . ....





� V')

Femmine

100.000

100.000

9 0.000

9 0.000

8o.ooo

8o.ooo . .... �

7 0.000

c u > . ....

6o.ooo



so.ooo



7 0.000 6o.ooo s o.ooo

� 4 0.000

40.000

V')

30.000

30.000

2.0.000

2.0.000

10.000

10.000

o

o

o

IO

2.0

30

40

;o

6o

70

So

90

IOO

Età

o

IO

20

30

40

so

6o

70

So

90

IOO

Erà

Fonte: elaborazioni su dati I STAT ; Istituto centrale di statistica, Sommario di statistiche storiche dell,Italia I80I­ If)7S, Roma 1976; I STAT, Tavole di Mortalita della popolazione per provincia e regione di residenza - Anni I97420I2, in http :/ /demo.istat.it.

desse, per orientare la ripresa e gli investimenti. Nel 1 9 5 1 l' Italia, come testimoniano i risultati del censimento demografico, contava 47,5 milioni di abitanti. I flussi in uscita dal Mezzogiorno diretti verso le regioni del Nord e del Centro, considerate tutte insieme, hanno mobilitato, nel periodo che va dal 1955 al 1970, quasi 3,5 milioni di persone. In questo lasso di tempo, circa 21o.ooo persone in media all'anno si sono trasferite, con picchi di 26o.ooo/3oo.ooo unità nel 1961-63. Si è trattato di migrazioni davvero epocali che hanno trasformato irreversibilmente il contesto sociale e ambientale sia dei territori di origine sia di quelli di destinazione, provocando forti squilibri. Sono gli anni della "transizione rurale-urbana" e dell'esplosione del settore delle costruzioni e dell'espansione delle aree urbane di Torino, Milano e Roma. E in questo contesto che si consolida il processo di transizione demografica, nel quale risulta particolarmente sostenuto l'incremento della sopravvivenza (cfr. FIG. 1)1• Infatti, ali' inizio degli anni Cinquanta la speranza di vita alla nascita, rispettivamente per donne e uomini, era di 67,2 e 63,7 anni. Nel 1980 si sono raggiunti valori rispetti­ vamente pari a 77,2 e a 70,5 anni: un incremento di 10 anni per le donne e di quasi 7 per gli uomini, pari a circa 4 mesi di sopravvivenza guadagnati all'anno (cfr. TAB. 2). La ragione principale di questi guadagni di sopravvivenza va individuata, rispetto al ventennio precedente, nell'ulteriore e fortissima riduzione della mortalità infantile, scesa in trent 'anni dai 63,8 morti nel primo anno di vita per 1.ooo nati vivi nel 1950 ai 1 4 ,6 per 1.ooo nel 19 80. Questa importante riduzione di un indicatore tipico del '

1. Cfr. ISTAT, I comportamenti demografici: posticipazione, invecchiamento e mobilita territoriale, in Id., La situazione del Paese nel 2002, ISTAT, Roma 2003.

37

5 8,8a

47,0b

37,9c

3 2,0d

6 7, 5 a

54.9b

4 5 ,7c

3 8,8d

3 0,8e

6 3 ,8

5 0, 9

43·9

3 6,0

2 9,6

21,2

Anno

1 9 50

1 9 55

1 9 60

1 9 65

1 97 0

1 975

1 9 80

1 4,0

1 8,1

1 2, 3

9. 4

7.5

5 ,2

4 ,0

3.7

1 4 ,6

10, 5

8,2

6,2

5 ,0

3 ,8

3. 2

1 9 85

1 99 0

19 9 5

2000

200 5

2010

3. {

79.of

7 8,1 84 ,{

22,{

21,0

1 9,0

8 3.7

7 6, 5

4. 6

3.5

81,1

74. 8

6,0

1 9 ,0

20,0

8 0,1

73. 6

7. 6

1 8,o

82,3

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7 2,1

9·9

1 7,0

9. sr

?.c/

26,of

9,6

7.7

2 5 ,7

9.0

7.3

2 4,7

8,7

7,1

2 3.9

7 2 4, 4 7 11,7

1. 394 ,0

7 0 9,2

660, 4

1. 4 1 3 ,8

1. 3 21,2

1.2 5 6,o

1.1 9 3 ,1

599 .7

28,9

1.357.9

6 5 1,8

8,1

6,7

2 3 ,0

28,1

6 6 4.7

1.447. 8

7. 4

3 0,2 3 0.3

3 1. 4

2 9,6

28,6

28,1

26,9

2 5.9

2 5 ,1

5.4

5.4

5 ,6

6,2

5 ,1

5.7

5.9

6,8

7. 8

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT ; Istituto centrale di statistica, Sommario di statistiche storiche dell'Italia I86I-I975, Roma 19 7 6; Istituto centrale di statistica, Sommario di statistiche storiche I926-I985, Roma 1986; I STAT, L'Italia in IJO anni. Sommario di statistiche storiche I86I-20IO, Roma 2012; ISTAT, Tavole di Mortalità della popolazione perprovincia e regione di residenza - Anni I974-20I2, in http:/ ldemo.istat.it; Istituto nazionale di statistica, I997, Lafecondità nelle regioni Italiane. Analisi per coorti. Anni I952-I993· in "Informazioni� 35 ; ISTAT, Tavole di Fecondità della popolazione italiana per regione di residenza - Anni I952-2004, in http:/ l demo.istat.it.

5 ,0

6, 3

4. 3

3 ,0

0,9

1,9

0, 5

0,7

1,0

2 4,7

10,9

9. 6

- 0, 4 - 0, 4

10,3

8,0

(%o)

Tasso migratorio interregionale

- 0,1

- 0,6

(%o)

Saldo migratorio con l'estero

2 5 ,1

2 5 ,4

2 5 ,8

2 5 ,8

2 5.9g

Età media al primo figlio

3 1 .3

3 0, 9

3 0, 4

2 9,8

27,5

77 0, 9

1.68 3.7

27,6

28, 3

7,1

955 ,2

94 0,1

28,7

2 9 ,2

29 .5

2 9.7g

Età media al parto

2.206,3

2. 4 2 4.9

1.01 3.4

9 02,2

2. 4 0 7,8 2.66 5 , 3

82 5 , 4

7 86,9g

2. 333 ,8

2.337. 2g

TFT

TFT primo ordine

6,6

6,1

5 ,8

5 ,6

6,7e

6,4d

6, 4c

5 ,8b

5.5 a

F

21,9

21,1

20, 4

5. 8e

5 ,7 d

1 9, 5d 20,2e

5.7c

1 9 , 3c

5 ,2b

5 ,0a

M

Speranza di vita a 8o anni

Legenda: a = 19 5 0- 5 2; b = 19 5 4- 57 ; c = 1960-62; d = 196 4-6 7 ; e = 1970- 7 2;/= 2009; g = 19 5 2; TFT = tasso di fecondità totale.

2011

1 7,0

75. 8

6 9.4

21,0

26,2 77,2

1 6,7e

74,9e

6 9 ,0e

2 4,8e

7 0, 5

1 6,od

73 ,0d

6 7. 9d

1 6,7c

7 2.3(

18,2b

1 7,5 a

1 6,oa 1 6,ob

F

M

6 7,2c

6 7,2a

F

Speranza di vita a 6o anni

7 0,0b

6 3 ,7 a

M

Speranza di vita alla nascita

6 6,ob

F

M

Quoziente di mortalità infantile

Probabilità di morte a o anni

Principali indicatori demografici, Italia ( 1 9 S0-2on)

TABELLA 2

T RENT 'A N N I D I T R A N S I Z I O NE D E M O G R A F I C A NE L L ' I TA L I A RE P U B B L I C A NA

livello di "sviluppo sociosanitario" di una popolazione segnala tanto un evidente miglioramento delle condizioni di vita, quanto la diffusione di un crescente accesso , alla prevenzione durante la gravidanza e i progressi sanitari nell assistenza alle madri e al neonato al momento del parto. Nello stesso periodo si assiste a un progressivo incremento nella nuzialità, deter­ , , minato sostanzialmente dall anticipazione dell età media al (primo) matrimonio di entrambi i coniugi. Dal 1952 al 1975, anno in cui questo indicatore ha cessato di diminuire per iniziare a risalire, retà media al primo matrimonio delle donne è scesa di quasi un anno e mezzo, da 25,1 a 23,7 anni, e quella degli uomini addirittura di due, da 29 a 27 anni (cfr. TAB . 3 ) . Questa anticipazione del calendario della nuzialità ha determinato un forte incremento del numero dei matrimoni (per la quasi totalità primi matrimoni), passato dai circa 330.000 del 1 9 5 1 ai circa 40o.ooo annui in media del quindicennio 1960-74, con picchi prossimi ai 42o.o oo annui nei due bienni 1963-64 (il massimo assoluto è di oltre 42o.ooo nel 1963 ) e 1972-732• La correlazione positiva tra nuzialità e fecondità - rimasta, sino alla fine degli anni Sessanta, così marcata da poter associare con notevole precisione la stagionalità dei matrimoni a quella delle nascite - spiega il fenomeno noto come baby boom, cioè il , forte incremento dell indice di fecondità totale di periodo, salito dai circa 2,3 figli per donna dei primi anni Cinquanta del Novecento fino ai 2,7, massimo valore postbellico, raggiunto nel 1964, che si è mantenuto a livelli elevati (superiore o vicino a 2,5 figli per donna) fino alla fine degli anni Sessanta. Di conseguenza, il nrunero di nati vivi in ciascun anno, stabilizzatosi dopo l'immediato dopoguerra in prossimità degli 85o.ooo nati, nei primi anni Cinquanta è risalito progressivamente, sino al massimo relativo di oltre un milione ( 1.o16.ooo ) di nati nel 1964, per rimanere sopra i 90o.ooo per tutti gli anni Sessanta. , In realtà, anche l'incremento dell intensità della fecondità nasconde l'effetto , dell anticipazione del calendario : si anticipano le nozze e, di conseguenza, la procre­ , azione della discendenza. L età media della madre alla nascita del primo figlio, dal 1952 ai primi anni Settanta, scende di oltre un anno (da 26 a 24,7 ) e altrettanto accade per l'età media alla nascita del secondogenito (da 28,7 a 28 anni) . Si tratta di modi­ ficazioni molto sensibili, considerando il breve lasso di tempo in cui si manifestano, ma di natura congiunturale. A esse, infatti, non corrisponde un effettivo incremento della discendenza delle generazioni progressivamente coinvolte nella riproduzione (cfr. F I G . 2 ) , cosicché il numero medio di figli per donna continua a scendere senza solu­ zione di continuità da 2,4 delle generazioni nate nei primissimi anni Venti (cioè subito dopo la Grande Guerra) fino al cosiddetto livello di sostituzione ( 2 figli per donna) , delle generazioni nate nell immediato dopoguerra ( 1945-49 ) 3• Un secondo aspetto da sottolineare è come il baby boom si sia manifestato con 2. Ibid. 3· Ibid.

39

993 ·5 1.017,9 912,8

1,3

2,3

8,4

399.009

395·509

373·784

322.968

298·523

1960

1 965

1970

1975

1980

1985

1990 591,7 550,0 512,1 461,9

20,0

24,7

32,8

3 6,5

290.009

284.410

247·740

217.70 0

204.830

1995

2000

2005

2010

2011

33 · 4 33 ·7

487,2

32,6 3 0,6

30,4

29,8

15,2

1 4,5

12,4

9 ·7

27,6

30,5

8,3

26,7

6,9

4 ·7

29,6

516,6

577·9

590,0

621,7

24,5

5,2

4 ·9

25,6

27,6

676,0

23,9

23,7

2,9

3,0

3·4

4,0

5,2

405,1

332,2

253,0

1 8 0,4

137,7

1 1 7,8

91,2

51,2

1 7,3 25,4

1 8 9.9 248,8

132,1

293b

317

319

8,1 10,2

317

6,5

8 6,6 93,2

392

5· 4

514

536

di abortività totale**

Tasso

52,4

4 ·3

2,6

2,2

26,0

2,4

3,1

3·4

matrimonio (per 1 0 0 nati)*

Nati fuori dal

2,0

3 6,7

(per 1.ooo matrimoni)

Divorzi

14,1

1 2,9

14,7

15,4

Separazioni

successivi al primo (per 1.ooo (per 100 matrimoni) matrimoni)

Matrimoni

28,6

27,1

778,0 693,1

27,0

24,0

24,3

28,0 27,4

24,8

24,9

25,13

Spose

28,5

28,7

29,03

Sposi

938,8

1.003,0

1.027,9

1.oo8,2

949,1

862,03

Spose

al primo matrimonio

=

2012; http:/ /demo.istat.it.

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT; ISTAT, Indicatori di nuzialita efecondita, I952-2on; ISTAT, Statistiche demografiche, anni vari (Annuari); ISTAT, Statistichegiudiziarie civili, anni vari (Annuari); ISTAT, Matrimoni, separazioni e divorzi, anni vari (Annuari); ISTAT, L'Italia in IJO anni. Sommario di statistiche storiche rS6r-2oro, Roma

**

*

La quota di nati fuori dal matrimonio deriva dalla rilevazione degli eventi demografici di stato civile. Somma dei tassi di abortività specifici per età (calcolati su classi quinquennali), moltiplicata per cinque. Rappresenta il numero di aborti totali verificatisi in una coorte fittizia di 1.ooo donne; i tassi sono stati calcolati con riferimento alla classe di età 15-49 anni. Legenda: 1 952; b 2009.

43 6.7

685,9

1 6,8

3 1 9.71 1

3 9,2

693,6

13,9

=

1.007,5

1,6

3 87.683

1955

a

958,8

2,2

3 66.718

1 950

785,5

900,23

2,3

356.079

Anno

1 2,4

Sposi

civili (per 100 matrimoni)

Tassi di primo-nuzialità

Matrimoni (valori assoluti)

Matrimoni

Età media

Principali indicatori relativi ai comportamenti della seconda transizione demografica, Italia ( 1950-2011)

TABELLA 3

T RENT 'A N N I D I T R A N S I Z I O NE D E M O G RA F I C A NE LL ' I TA L I A RE P U B B L I C A NA

FIGURA 2.

Numero medio di figli per donna per generazione (192.0-70) e anno di calendario (19 52.-2.010 ), Italia l

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l 1

2. , 5 2. ,0 1 ·5

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- Anno di calendario - Generazione

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Fonte: ISTAT, Indicatori di nuzialita ejècondita, 1952.-2.010.

evidenza soltanto nel Nord e nel Centro del paese, con particolare intensità in quelle regioni che, nello stesso periodo, hanno costituito la destinazione privilegiata delle migrazioni interne dal Mezzogiorno : Piemonte (da 1,5 figli per donna nel 1952 a 2,2 nel 1964 ) e Liguria (da 1,4 a 2,1 ) su tutte, ma anche Lombardia (da 1,9 a 2,4) e Lazio (da 2,2 a 2,7 ) . Nel Mezzogiorno, invece, questo fenomeno è stato pressoché imper­ cettibile (da 3,2 a 3,3) o completamente assente, in quanto il leggero aumento del dato ripartizionale è attribuibile in via pressoché esclusiva all'incremento verificatosi nella sola Campania (da 3,2 a 3,6)4• In sostanza, il baby boom - che peraltro ha comportato un "sovradimensionamento" delle generazioni degli anni Sessanta e Settanta molto rilevante per il presente e il futuro della storia demografica nazionale nel suo complesso - è stato determinato dall' im­ patto, concentrato in un breve lasso di tempo, dell'esportazione di modelli nuziali e riproduttivi caratteristici del Mezzogiorno nelle regioni di immigrazione del Nord e del Centro. Infatti, questo transfer di comportamenti familiari e riproduttivi ha avuto durata limitata e anche la fecondità di periodo ha iniziato rapidamente a scendere, prima sotto il livello di sostituzione ( 1977 ), poi sempre più rapidamente negli anni Ottanta, evidenziando i primi segnali dell'avvio della seconda transizione demografica5• 4· Cfr. ISTAT, La jècondita nelle regioni italiane. Analisi per coorti. Anni 1952-1993· "Informazioni", 35, ISTAT, Roma 1997· 5· Cfr. ISTAT, I comportamenti demografici, cit.

41

E N R I C O G I OVA N N I N I

3

Dalla prima alla seconda transizione demografica

Per "seconda transizione" i demografi intendono un processo profondo di trasfor­ mazione dei comportamenti individuali che riguardano la formazione e lo sciogli­ mento delle famiglié. L'avvio di queste trasformazioni si osserva nel Nord Europa nella seconda metà degli anni Sessanta; successivamente, con velocità e intensità diverse, esse si diffondono anche verso il Sud Europa. Nel nostro paese è possibile individuare due tappe principali che riguardano tre distinte determinanti della dinamica demografica: la fecondità, la formazione/ dissoluzione familiare e i modelli familiari. La prima tappa va, orientativamente, dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Novanta. Gli anni Settanta si aprono all' insegna della legge sul divorzio e si concludono con l'approvazione della legge 22 maggio I978, n. I94, sull' interru­ zione volontaria di gravidanza. Alla fine del I975 viene finalmente approvato il nuovo diritto di famiglia e tra le modifiche sostanziali apportate vi sono il passaggio dalla potestà del marito alla potestà condivisa, l'eguaglianza tra coniugi, un nuovo regime patrimoniale della famiglia (separazione dei beni o comunione legale/ convenzionale), la revisione delle norme sulla separazione dei coniugi. E il calo della nuzialità e della fecondità il tratto distintivo di questa fase della seconda transizione. All' inizio degli anni Settanta circa il 97% delle nozze celebrate in un anno era costituito da unioni di celibi e di nubili (primi matrimoni) e le nascite al di fuori del matrimonio rappresentavano ancora una proporzione esigua del totale delle nascite ( 2,2% ) . Dieci anni dopo, lo scenario non è ancora sostan­ zialmente mutato : nel I98o, nonostante il lieve aumento delle seconde nozze dovuto al reingresso nel mercato matrimoniale di sposi divorziati, i primi matrimoni rap­ presentano ancora il 95% del totale delle celebrazioni e le nascite fuori del matri­ monio il 4,3%. Inizia ad apprezzarsi l'aumento della scelta del rito civile, dal livello (potremmo dire quasi "fisiologico") del 2% dei matrimoni deli' inizio degli anni Settanta al I2,4% del I98o. Il periodo che va dagli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta è particolar­ mente significativo per l 'avvio della seconda transizione nel nostro paese. Nel I995 si celebrarono circa 29 o.oo o matrimoni, 33.000 in meno rispetto al I98o ( - Io% ) , fenomeno questo tutto da attribuire al calo dei primi matrimoni, passati dai 30 6.ooo circa del I98o ai 266.ooo del I995 ( - I3% ) ; i secondi matrimoni o successivi, al con­ trario, aumentarono da I7.ooo a 24.0 0 0, l' 8,3% del totale delle celebrazioni del I995 · In quel periodo cresce rapidamente anche la quota di matrimoni civili ( I su 5 nel I995 ) : la proporzione di primi matrimoni celebrati con rito civile, in particolare, '

6. D. ]. van de Kaa, Europe's Second Demographic Transition, in "Population Bulletin", 42, March I 9 8 7, I, pp. I- 59· 42

T RE N T 'A N N I D I T R A N S I Z I O NE D E M O G RA F I C A NE L L ' I TA L I A RE P U B B L I C A NA

FIGURA 3

Quozienti di primo-nuzialità per età, Italia (anni 19 52, 1 9 8 0 e 2011) Femmine

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Età

Età

Fonte: ISTAT, Indicatori di nuzialita efecondita, I9S2.-2.0II.

raddoppia tra il 1980 e il 1995, arrivando al 15%. L'importante decremento della propensione alle prime nozze è poi testimoniato dal crollo dei tassi di primo-nuzia­ lità, che consentono di rapportare i primi matrimoni per età alla corrispondente popolazione maschile e femminile7• Nel 1 9 8 0 si registravano ancora livelli decisa­ mente elevati sia per gli sposi ( 786 primi matrimoni per I .ooo uomini) sia per le spose (778 primi matrimoni per I.ooo donne), ma già quindici anni dopo si scende a 592 e 622 primi matrimoni rispettivamente per I.o oo uomini e I.ooo donne. Questa forte riduzione dell'intensità della primo-nuzialità è in parte il risultato della pro­ gressiva posticipazione delle prime unioni: dal 1975 al 1995, infatti, l 'età media al primo matrimonio inizia una rapida risalita da 23,7 a 26,7 anni e da 27,0 a 29,6 anni, rispettivamente per donne e uomini. Si osserva, inoltre, un avvicinamento del modello nuziale femminile a quello maschile (cfr. F I G . 3 ) : le curve dei quozienti specifici di primo-nuzialità delle spose mostrano chiaramente come il modello nuziale femminile risulti tradizionalmente anticipato rispetto a quello maschile, con i quozienti specifici di primo-nuzialità delle donne che superano quelli degli uomini fino a 25 anni (30 per il periodo più recente), mentre nelle età successive la tendenza SI Inverte. L'avvicinamento del modello nuziale femminile a quello maschile è in parte il risultato di una progressiva riduzione delle differenze di genere in termini di ruoli nella società e di storie di vita. Lo straordinario incremento dell' istruzione femminile .

.

7· ll tasso di primo-nuzialità viene calcolato come somma dei quozienti specifici di nuzialità degli sposi celibi/nubili per singolo anno di età tra i I 6 e i 49 anni, moltiplicati per I.o oo. 43

E N R I C O G I O VA N N I N I

FIGURA 4

Tasso di fecondità totale per ordine di nascita delle generazioni di donne nate dal 1933 al 1970, Italia 2.5 0 0,0

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Generazione

Fonte: I STAT, Indicatori di nuzialita efecondita, 1952-2011.

osservato a partire dagli anni Sessanta non ha precedenti per la velocità con cui si è realizzato. Peraltro, il tempo necessario al completamento degli studi è uno dei prin­ cipali fattori di posticipo tanto della nuzialità quanto delle nascite: non a caso nei paesi sviluppati lo studio e la maternità appaiono in concorrenza tra di loro e una maggior propensione allo studio contribuisce a procrastinare la decisione in tema di formazione della famiglia e, conseguentemente, di procreazione. Parallelamente al calo della nuzialità si assiste al crollo della fecondità. A partire dal 1965, il numero medio di figli per donna mostra una netta tendenza alla dimi­ nuzione, che si fa ancora più accentuata a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, cosicché nel 1995 l'indice tocca il minimo storico di 1,19 figli per donna (cfr. F I G . 2) . Dopo il boom di matrimoni e nascite della prima metà degli anni Ses­ santa, praticamente tutti i paesi dell' Europa occidentale hanno sperimentato una fase di calo forte e persistente della fecondità, ma verso la fine degli anni Ottanta e nel corso degli anni Novanta la maggioranza dei paesi europei ha fatto registrare un rallentamento della diminuzione della fecondità, se non un recupero. Alcune nazioni come la Francia, il Regno Unito e i paesi scandinavi presentano infatti alla fine degli anni Novanta livelli di fecondità prossimi a 2 figli per donna, ovvero al livello che teoricamente garantisce il ricambio delle generazioni senza alterazioni della struttura per età della popolazione. In Italia, al contrario, la fecondità stenta a riprendersi e il lieve recupero che si osserva dal 1995 è solo di natura congiunturale e, come si dirà più avanti, in gran 44

T RENT 'A N N I D I T R A N S I Z I O NE D E M O G R A F I C A NE L L ' I TA L I A RE P U B B L I C A NA

parte dovuto a fattori esogeni (cfr. PAR. 4), in primis i comportamenti riproduttivi dei cittadini stranieri. L'andamento della discendenza finale delle generazioni, infatti, a differenza di quanto avviene per l' indice di fecondità di periodo, non mostra significative discontinuità: se i processi demografici si modificano con gradualità, nel caso della fecondità la riduzione delle nascite si configura come un vero e proprio "progetto generazionale" iniziato da lungo tempo (cfr. F I G . 2). Il valore del tasso di fecondità totale scende da 2,5 figli per donna della generazione degli anni Venti a 2 figli per quella del 1946, fino a raggiungere il livello di 1,56 figli per una donna della generazione del 1965 e di 1,4 figli per donna per la generazione del 1975. Una diminuzione della fecondità così consistente lascia immaginare quali pro­ fonde modificazioni si siano prodotte in termini di composizione della discendenza per ordine di nascita, mentre i tassi di fecondità riferiti alle nascite del primo ordine hanno subito una variazione relativamente più contenuta : da o,84 figli per ogni donna nata nel 19 20, a o,82 per quelle del 1963, a 0,74 per il 1975 (cfr. F I G . 4) . Le donne italiane mostrano, cioè, un'elevata propensione a diventare comunque madri, anche se di un solo figlio, ma vale la pena di sottolineare che la proporzione delle donne senza figli, dopo essere scesa al di sotto del 10% (fino a toccare un minimo dell' 8,9% per la generazione del 1946), ha mostrato un aumento non trascurabile per la popolazione più giovane, raggiungendo il 16% per la generazione del 1963. Il pas­ saggio dal primo figlio a quelli di ordine successivo è diventato, invece, sempre meno frequente e l'evoluzione dei tassi di fecondità del secondo ordine presenta un anda­ mento simile a quello dei primogeniti: un aumento fino alle generazioni di donne del 1946 e un'intensa riduzione per quelle successive, da o,65 figli per le donne nate nel 1920 a 0,55 per quelle nate nel 1963. Per le stesse generazioni, i tassi di fecondità del terzo ordine si sono addirittura dimezzati, passando da 0,40 a 0,20 figli per donna. Per gli ordini superiori al terzo, infine, si può parlare di progressiva "estin­ zione" (da 0,58 a soli o,o6 figli per donna) . La diminuzione della fecondità italiana è stata quindi, in buona parte, il risultato del drastico calo dei figli di ordine successivo al secondo, e il figlio unico si configura come il modello familiare prevalente nel nostro paese, anche se, guardando alle generazioni, il fenomeno è più attenuato di quanto non appaia dagli indicatori con­ giunturali. Inoltre, l'età media alla nascita del primo figlio, dopo una fase di diminu­ zione da 25 ,9 anni per le donne del 1933 a 24,9 anni per quelle del 1946, si è sostan­ zialmente stabilizzata fino alle generazioni della metà degli anni Cinquanta. Da allora, le donne hanno mostrato una tendenza sempre più decisa alla posticipazione della nascita del primo figlio (per le generazioni della fine degli anni Sessanta si supera la soglia dei 27 anni) e questo fenomeno è una delle principali cause dell'ul­ teriore accelerazione osservata nella diminuzione della fecondità per contemporanei a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. I cambiamenti di intensità e calendario dei comportamenti riproduttivi sono ben evidenti dalla FIG. 6 (cfr. PAR. 4), che mostra le curve di fecondità per età riferite agli 45

E N R I C O G I OVA N N I N I

anni 1952, 1980 e 201 1 ; si apprezza, infatti, sia la forte diminuzione nei livelli di fecon­ dità complessiva (l'area sottesa alle singole curve), sia il posticipo del calendario delle nascite, desumibile dall'aumento in termini relativi della quota di fecondità realizzata dopo i trent'anni (si noti, in particolare, il sorpasso della curva del 201 1 rispetto a quella del 1980 ). Le trasformazioni sociali ed economiche prodottesi negli anni Settanta e Ottanta hanno, dunque, innescato profondi cambiamenti sul piano del costume e dei modi di vivere, dell' investimento in capitale umano e della partecipazione al mercato del lavoro delle generazioni che via via sono entrate nella vita adulta, in particolar modo quella femminile. In questa prima fase si tratta di cambiamenti lenti, che non hanno ancora dato luogo all'emergere di eventi e modelli demografici non tradizionali, come è avvenuto, nello stesso periodo, in altri paesi europei. Le nascite al di fuori del matrimonio, ad esempio, nonostante l'aumento osservato a partire dagli anni Ottanta, costituivano alla metà degli anni Novanta una quota esigua del complesso dei nati ( l' 8,1 % nel 1995 ) , mentre nei paesi dell'Europa settentrionale già raggiunge­ vano o superavano il so%. Il matrimonio, nonostante il processo di secolarizzazione in atto, restava comunque la modalità prevalente scelta dalle coppie italiane per formare una famiglia con figli. I matrimoni tra celibi e nubili, pur avendo subito un'importante flessione, alla metà degli anni Novanta rappresentavano sempre il modello nuziale tipico del nostro paese (il 9 2% di tutti i matrimoni celebrati in un anno) e al loro interno si realizzava circa il 90% della fecondità complessiva. La nuzialità sempre più bassa e tardiva, non com­ pensata da una crescita importante delle libere unioni, svolgeva quindi un ruolo determinante nel mantenere bassa la fecondità italiana. L'instabilità coniugale, nono­ stante l'aumento di separazioni e divorzi, appariva ancora decisamente contenuta e nel 1995 si scioglievano per separazione 180 matrimoni su 1.ooo (una proporzione raddoppiata rispetto al 1980 ), mentre si contavano 9 3 divorzi ogni 1.ooo matrimoni. Dalla metà degli anni Novanta il quadro inizia a mutare più rapidamente e i comportamenti familiari "innovativi", che costituiscono il tratto distintivo della seconda transizione demografica, diventano evidenti. Per quanto riguarda la fecon­ dità, gli indicatori di periodo mostrano, fino al 20 08, un lieve recupero del numero medio di figli per donna: da 1,19 a 1,43 per il complesso delle donne residenti. Se si considerano solo le italiane, tuttavia, la fecondità resta decisamente bassa ( 1,3 figli per donna) e tardiva (il primo figlio arriva in media a 30 anni) . Il lieve aumento della fecondità delle italiane è dovuto a un parziale recupero della posticipazione da parte delle baby boomers che si accingono a completare la loro carriera riproduttiva. Questa evoluzione è andata di pari passo con rilevanti mutamenti che hanno interessato le famiglie italiane. In primo luogo, è aumentato il numero delle famiglie ed è diminuito il numero dei loro componenti: il primo è passato da circa 20 milioni all' inizio degli anni Novanta a 24 milioni nel 2010-I I, il secondo da 2,7 componenti a 2,4. La famiglia tradizionale composta dalla coppia coniugata con figli non è più

T RENT 'A N N I D I T R A N S I Z I O NE D E M O G RA F I C A NE L L ' I TA L I A RE P U B B L I C A NA

TABELLA 4

Nuove forme familiari: medie dei periodi 1993-94 e 2010-11, Italia 1 993 -9 4

1010 - I I Numero

Numero

Forme familiari

Numero

di persone

di fam iglie

che ci vivono (in migliaia)

(in migliaia)

di persone che ci vivono (per 100 abitanti)

Numero Numero

di persone

Numero

di persone

di famiglie

che ci vivono

che ci vivono (per 100

(in migliaia)

(in migliaia)

abitanti)

Single non vedovi

2.164

2.164

3.8

4·357

4·357

7· 3

Monogenitori non vedovi

624

1.522

2,7

1.393

3·3 54

5,6

Padre non vedovo

92

23 2

0,4

208

491

o,8

Madre non vedova

532

1.290

2,4

1.185

2.8 63

4.8

227

63 5

1,1

972

2.657

4·4

Celibi e nubili

67

160

0,3

578

1.525

2,5

Famiglie ricostituite non coniugate

160

47 5

0,8

394

1.132

1,9

Famiglie ricostituite coniugate

443

1.3 25

2,3

499

1.43 8

2,4

Totale

3·458

5·646

9 ·9

7.221

11.8 07

19 ,7

Libere unioni

Fonte: elaborazione su dati I STAT, Aspetti della vita quotidiana (indagine multiscopo); ISTAT, Rapporto annuale 20I2 - La situazione delpaese, 2.012..

il modello dominante e nel biennio 2010-II rappresenta ormai solo un terzo del totale. Al contrario, si sono andate affermando in modo progressivo le nuove forme familiari, prevalentemente nelle regioni del Nord e del Centro, ma anche nel Mez­ zogiorno, dove la famiglia tradizionale, ancora maggioritaria nel 1993-94 ( 52,8 coppie coniugate con figli per 100 famiglie ) , costituisce oggi poco più del 40% del totale. Aumentano le famiglie unipersonali e le coppie senza figli. La crescita dei single riguarda anziani soli, in genere donne, ma altresì giovani e adulti - soprattutto single non vedovi - che nell'ultimo ventennio sono quasi raddoppiati, anche in conseguenza dell'aumento delle separazioni e dei divorzi. Le libere unioni sono quadruplicate: più diffuse nel Nord-Est, interessano in modo più accentuato coppie composte da soggetti dotati di un titolo di studio più elevato e che lavorano. Le convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili sono la componente che fa registrare gli incrementi più soste­ nuti, essendo cresciute 8,6 volte rispetto al 1993-94 (cfr. TAB . 4) . Conseguentemente, si osserva un incremento senza precedenti della quota di nati da genitori non coniugati, passata dall ' 8,1% del 1995 al 19,6% del 2o1o (oltre 142.000 nati ) . Nel Centro-Nord, in particolare, questa percentuale è pari al 30%. 47

E N R I C O G I OVA N N I N I

Si esce dalla famiglia più tardi, cambiano le esperienze di vita delle diverse gene­ razioni e si assiste a uno spostamento in avanti di tutte le fasi della vita. Nel 1993-94 le giovani di 25-34 anni che vivevano in coppia con i propri figli erano la maggioranza delle loro coetanee, ma già dieci anni dopo questa situazione familiare riguardava solo poco più di un terzo delle donne della stessa fascia di età (il dato del 2010-1 1 si assesta sullo stesso livello, 3 5 ,1% ) . Diminuisce, dunque, il ruolo di "genitore" tra i giovani adulti, mentre cresce la permanenza nel ruolo di "figlio": nel 2010-11 vive nella famiglia di origine il 49,6% dei maschi tra i 25 e i 34 anni e il 34% delle fem­ mine della stessa classe di età. La permanenza dei figli adulti all' interno della famiglia d 'origine è stata favorita dall'allungamento dei tempi impiegati per il percorso formativo e dall' instaurarsi di rapporti tra genitori e figli sempre meno basati su gerarchie. A ciò si aggiungono i fattori socioeconomici: il 45% dei giovani di 25-34 anni dichiara di restare in famiglia perché non ha un lavoro e/o non può mantenersi autonomamente. Se la principale causa di uscita dalla famiglia è sempre il matrimonio, soprattutto per le donne, pas­ sando dalle generazioni del 1959-68 (i venticinque-trentaquattrenni del 1993-94) a quelle del 1976-85 (ovvero i venticinque-trentaquattrenni del 2010- 1 1 ) tale motiva­ zione ha perso rilevanza: la percentuale di quanti si sposano all'uscita dalla famiglia di origine è scesa dal 68,9 al 36,7%, mentre è cresciuta quella di quanti hanno speri­ mentato un'unione libera (dal 5,2 al 1 6,3%), di quanti sono usciti per lavoro (dal 9,1 al 15,7%), per studio (dal 4,4 al 12,5%) e per esigenze di autonomia e indipendenza (dal 5,6 all ' 1 1,5%). Nel 2010 sono state celebrate in Italia poco più di 217.000 nozze (3,6 matrimoni ogni 1.000 abitanti) : alla metà degli anni Novanta erano circa 90.000 in più. A diminuire sono proprio le unioni più "tradizionali", ovvero i primi matrimoni tra sposi di cittadinanza italiana, mentre i matrimoni successivi sono in continuo aumento (cfr. TAB . 3). Chi decide di convolare per la prima volta a nozze lo fa sempre più tardi: l'età mediana era di 22 anni per le coorti di donne nate a metà anni Qua­ ranta, mentre per la generazione delle ipotetiche figlie (le nate all' inizio degli anni Settanta) è pari a 28 anni. Se queste tendenze di periodo dovessero essere confermate anche nelle generazioni più recenti, più della metà delle donne nate negli anni Novanta non si sposeranno. Sono progressivamente aumentati i matrimoni celebrati con il rito civile, più che raddoppiati in meno di vent'anni, anche se il dato medio nazionale nasconde pro­ fonde differenze territoriali: in particolare, è celebrato con il solo rito civile oltre il 48% dei matrimoni registrati al Nord e il 43% di quelli registrati al Centro, mentre nel Sud questa proporzione è intorno al 20%. La quota di convivenze prematrimo­ niali è cresciuta notevolmente negli ultimi decenni: se solo l' 1,0% dei matrimoni celebrati prima del 1975 era stato preceduto da una convivenza, questa quota sale all' 8,2% per quelli celebrati a cavallo degli anni Novanta (1985-94), per poi crescere rapidamente, fino a raggiungere il 37,9 % dei matrimoni contratti nel periodo 2005-09.

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FIGURA 5

Saldi migratori con l'estero (o/oo ), Italia (1955-2011) IO

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