Anni di rivolta. Nuovi sguardi sui femminismi degli anni Settanta e Ottanta 9791254692349, 9791254694206


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Table of contents :
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Indice
Paola Stelliferi, Stefania Voli, A che punto è la storia dei femminismi in Italia
1. Cinquant’anni di Rivolta: nuovi intrecci tra storia, memoria e politica
2. Nuovi sguardi, nuove ricerche
3. Dall’autobiografia alla storia: alle origini della storiografia sui femminismi
4. Il tempo delle ipotesi: alle soglie del nuovo millennio
Reti, relazioni, interazioni
Marta Panighel, La sorellanza è globale?La rappresentazione dell’Altra in «Effe» (1973-1982)
1. Una questione di sguardi
2. In bilico: «Effe» come archivio del femminismo diffuso
3. Ascoltare l’Altra che parla
4. «[Ne*re] e… femministe»
5. Suffraggette arabe e orientalismo
6. L’alterità interna
7. Riflessioni conclusive
Tommaso Rebora, Traduzioni, culture e pratiche dei femminismi tra Italia e USA: scambi transatlantici nei primi anni Settanta
1. Introduzione
2. Dal Collettivo CR al Collettivo delle compagne
3. Una frattura insanabile
4. Lotta di classe o lotta di casta?
5. Nuove prospettive
6. Conclusioni
Elisa Bellè, Centro o periferia? L’approccio reticolare nello studio del femminismo trentino
1. Un teatro inatteso del Sessantotto, tra storia e mitologia
2. I primi sviluppi teorici e le prime reti, tra gli Stati Uniti e Milano
3. Sesso, razza, casta
4. Dai percorsi paralleli alle reti
5. Dalle reti alla confluenza: la nascita di nuovi gruppi
6. Cenni conclusivi
La politica dell’esperienza
Anastasia Barone, «Facevamo un consultorio, ma era un progetto politico». I consultori a Roma prima e dopo la legge 405/1975
1. Introduzione
2. I consultori autogestiti e le lotte per la salute negli anni Settanta
3. Il caso del consultorio di San Lorenzo a Roma
4. Il dibattito sulle leggi e la nascita dei consultori pubblici
5. Il nodo della partecipazione nei consultori familiari:le assemblee delle donne
6. Un’ostinata continuità: la scelta dell’autogestione
7. Conclusioni
Elena Biagini, Grazie al femminismo e nonostante il femminismo: la soggettivizzazione politica delle lesbiche
1. Sotto due ombrelli
2. Grazie al femminismo
3. Nonostante il femminismo
4. Conclusioni
Chiara Colangelo, Dall’antiautoritarismo all’autorità delle magistrae. La pedagogia della differenza sessuale negli anni Ottanta
1. Un esercito di «vestali»?
2. Arrivano le “maestre”…
3. … e poi le comuniste
4. A scuola siam tutte per la differenza!
5. Pedagogia della differenza sessuale sì… forse no… meglio quasi
Giulia Sbaffi, Abbracci spezzati: la politicizzazione della prostituzione in Italia (1982-1986)
1. Un archivio tutto per sé
2. La nascita del Comitato dei Diritti Civili delle Prostitute (Pordenone, 1982)
3. Le proposte di riforma legislativa e la partecipazione italiana all’iniziativa internazionale
4. Puttane di tutto il mondo in lotta: il movimento transnazionale
5. Marginalia femministi e prostituzione
6. Conclusioni
Guardarsi, ascoltarsi, rappresentarsi
Dalila Missero, Guardare film insieme. I festival cinematografici femministi (1973-1980)
1. Cinema e femminismo: una storia “imperfetta”
2. L’organizzazione cinematografica negli anni Settanta: tra autogestione, supporto istituzionale e confronti transnazionali
3. Rassegne itineranti e dibattiti sperimentali
4. Kinomata
5. Le Rassegne del Cinema Femminista di Napoli e Sorrento e l’Occhio Negato di Firenze
6. La fine di un progetto utopico
Clarissa Ricci, Politiche dello Spazio aperto. Arte e femminismo alla Biennale di Venezia (1974-1978)
1. Introduzione
2. 1974. Cinema e teatro femminista in Biennale
3. Femminismo: una mostra mai realizzata
4. Le donne dello Spazio aperto
5. Il posizionamento di Materializzazione del linguaggio
6. Eredità femminista alla Biennale dopo gli anni Settanta
Illustrazioni
Eleonora Cirant, I microfoni femministi di Radiotre Rai (1978-1988)
1. Le fonti radiofoniche e il fondo Noi, voi, loro, donna - Ora D
2. Lo “spazio donna” nella Rai
3. Noi, voi, loro, donna. Dialoghi in diretta dedicati alle donne (1978-1982)
4. Ora D. Dialoghi in diretta dedicati alle donne (1983-1988)
5. Conclusioni
Indice dei nomi
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Anni di rivolta. Nuovi sguardi sui femminismi degli anni Settanta e Ottanta
 9791254692349, 9791254694206

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Anni di rivolta Nuovi sguardi sui femminismi degli anni Settanta e Ottanta a cura di Paola Stelliferi e Stefania Voli

VIELLA

società italiana delle storiche

Storia delle donne e di genere 15 Plurale

Storia delle donne e di genere Collana della Società Italiana delle Storiche Comitato editoriale Anna Bellavitis, Stefania Bernini, Elisabetta Bini, Isabelle Chabot, Nadia Maria Filippini, Marina Garbellotti, Tiziana Lazzari, Carlotta Sorba, Lucia Sorbera. La collana di Storia delle donne e di genere nasce dalla collaborazione tra la Società Italiana delle Storiche e la casa editrice Viella per arricchire il panorama editoriale italiano con testi che portino all’attenzione di un vasto pubblico i temi e il dibattito storiografico sulle donne e sul genere. La collana si articola in due serie: Singolare raccoglie monografie che sviluppano temi originali o sintesi in una prospettiva di lungo periodo. Plurale propone volumi a più voci nati da incontri di studio o da convegni. Tutti i testi sono sottoposti a peer review.

Anni di rivolta Nuovi sguardi sui femminismi degli anni Settanta e Ottanta

a cura di Paola Stelliferi e Stefania Voli

viella

Copyright © 2023 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: ottobre 2023 ISBN 979-12-5469-234-9 ISBN 979-12-5469-420-6 pdf

ANNI

di rivolta : nuovi sguardi sui femminismi degli anni Settanta e Ottanta / a cura di Paola Stelliferi e Stefania Voli. - Roma : Viella, 2023. - 314 p. : ill. ; 21 cm. (Storia delle donne e di genere / Società italiana delle storiche ; 15) Indice dei nomi: p. [303]-314 ISBN 979-12-5469-234-9 I. Stelliferi, Paola II. Voli, Stefania III. Società 1. Femminismo – Sec. 20. italiana delle storiche 305.420904 (DDC 23.ed) Scheda bibliografica: Biblioteca Fondazione Bruno Kessler

viella

libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

Paola Stelliferi, Stefania Voli A che punto è la storia dei femminismi in Italia

7

Reti, relazioni, interazioni Marta Panighel La sorellanza è globale? La rappresentazione dell’Altra in «Effe» (1973-1982)

31

Tommaso Rebora Traduzioni, culture e pratiche dei femminismi tra Italia e USA: scambi transatlantici nei primi anni Settanta

61

Elisa Bellè Centro o periferia? L’approccio reticolare nello studio del femminismo trentino

89

La politica dell’esperienza Anastasia Barone «Facevamo un consultorio, ma era un progetto politico». I consultori a Roma prima e dopo la legge 405/1975

119

Elena Biagini Grazie al femminismo e nonostante il femminismo: la soggettivizzazione politica delle lesbiche

149

6

Anni di rivolta

Chiara Colangelo Dall’antiautoritarismo all’autorità delle magistrae. La pedagogia della differenza sessuale negli anni Ottanta

171

Giulia Sbaffi Abbracci spezzati: la politicizzazione della prostituzione in Italia (1982-1986)

197

Guardarsi, ascoltarsi, rappresentarsi Dalila Missero Guardare film insieme. I festival cinematografici femministi (1973-1980)

223

Clarissa Ricci Politiche dello Spazio aperto. Arte e femminismo alla Biennale di Venezia (1974-1978)

241

Eleonora Cirant I microfoni femministi di Radiotre Rai (1978-1988)

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Indice dei nomi

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Paola Stelliferi, Stefania Voli A che punto è la storia dei femminismi in Italia*

1. Cinquant’anni di Rivolta: nuovi intrecci tra storia, memoria e politica «Il femminismo degli anni Settanta è ancora in Italia un tema marginale nella ricerca storica, il luogo di un vuoto storiografico, di un mancato confronto». Con queste parole si apre il volume del 2005 curato da Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Il femminismo degli anni Settanta.1 A quasi vent’anni da allora, lo scenario degli studi sugli anni Settanta appare ricco e diversificato: la storiografia italiana e internazionale ha iniziato a dedicare sempre più attenzione ai cambiamenti strutturali sul piano politico, economico e sociale, così come al tema della violenza politica.2 Non mancano inoltre gli studi dedicati al protagonismo femminile durante un decennio di eccezionale riformismo legislativo, nel quale le donne appaiono sia come agenti delle trasformazioni sociali, sia come instancabili promotrici di battaglie per una effettiva attuazione dei principi costituzionali. A livello internazionale, è la riflessione sull’eredità e sugli effetti del movimento femminista degli anni Settanta e Ottanta a suscitare le più accese riflessioni. Da un punto di vista metodologico, invece, a caratterizzare que* Il testo è frutto della collaborazione delle due autrici. Ai fini delle procedure di valutazione Stefania Voli è autrice dei paragrafi 1 e 2; Paola Stelliferi è autrice dei paragrafi 3 e 4. 1. Teresa Bertilotti, Anna Scattigno, Introduzione, in Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Eaed., Roma, Viella, 2005, p. VII. 2. Per ragioni di sintesi si rimanda al volume L’Italia degli anni Settanta. Narrazioni e interpretazioni a confronto, a cura di Fiammetta Balestracci e Catia Papa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019.

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Paola Stelliferi, Stefania Voli

sta fase è l’adozione di prospettive diacroniche e globali.3 Questa sensibilità ha profondamente segnato il panorama storiografico più recente, aprendo piste di ricerca che allargano la prospettiva di analisi e valorizzano le reti di scambio su vasta scala, le interconnessioni e gli intrecci anche grazie a chiavi di lettura articolate – care alla storia delle donne – che risultano in grado di rompere l’universale e dare voce alle diversità.4 Un’altra caratteristica del presente risiede nella compresenza di prospettive generazionali differenti. Le letture proposte da storicə che gli anni Settanta li hanno vissuti sono ormai affiancate da quelle di studiosə più giovani. Gli effetti sulla produzione e sul dibattito scientifico sono evidenti.5 Nuove domande si intrecciano con il bisogno e il dovere della testimonianza, allontanando il rischio di trasformare un imponente lavoro di costruzione della memoria in un «culto della memoria».6 3. Si vedano: The Women’s Liberation Movement: Impact and Outcomes, a cura di Schulz Kristina, New York, Berghahn Books, 2017; The Shock of The Global. The 1970s in Perspective, a cura di Niall Ferguson, Charles S. Manela, Daniel J. Sargent, Cambridge-London, Belknap-Harvard University Press, 2010; Lucy Delap, Feminisms. A Global History, London, Penguin Books, 2020; Florence Rochefort, Femminismi. Uno sguardo globale, Roma-Bari, Laterza, 2022 (ed. or. Histoire mondiale des féminismes, Paris, Puf, 2018). Si segnala anche la recente ricerca di Carolina Topini, Voyages, rencontres, traductions. La fabrique d’un féminisme transnational dans les années 1970-1990 (Italie, Europe, États-Unis), Tesi di dottorato, Faculté des Sciences de la Société, Université de Genève, a.a. 2022/2023. 4. Silvia Salvatici, Introduzione, in Storia delle donne nell’Italia contemporanea, a cura di Ead., Roma, Carocci, 2022, pp. 13-24. 5. Senza pretese di esaustività, segnaliamo alcune delle pubblicazioni più recenti: Separate in casa. Lavoratrici domestiche, femministe e sindacaliste: una mancata alleanza, a cura di Beatrice Busi, Roma, Ediesse, 2020; Anna Frisone, Femminismo al lavoro. Come le donne hanno cambiato il sindacato in Italia e in Francia (1968-1983), Roma, Viella, 2020; Elisa Bellè, L’altra rivoluzione. Dal sessantotto al femminismo, Torino, Rosenberg&Sellier, 2020; Mirka Pulga, Donne in scena. Il teatro femminista della Maddalena negli anni Settanta, Roma, Aracne, 2020; Virginia Niri, Dalla rivoluzione alla liberazione. Autocoscienza femminista e sessualità nel “lungo Sessantotto”, in «Italia contemporanea», 300 (2022), pp. 245-270; il numero monografico Maternità negata, maternità rifiutata. L’aborto nei secoli XX-XXI, «Annali ISIG», 48-2 (2022), particolarmente i saggi di Paola Stelliferi e Azzurra Tafuro; Nadia Filippini, “Mai più sole” contro la violenza sessuale. Una pagina storica del femminismo degli anni Settanta, Roma, Viella, 2022; il numero monografico Un roman de formation collectif. Les revues féministes en Italie des années 1970 à nos jours, «Laboratoire italien», 28 (2022); Victor Strazzeri, The Interweaving: Communist Women and Feminism in 1970s Italy, in «Contemporary European History», 2023, pp. 1-17. 6. Teresa Bertilotti, «Un oggetto di studio interessante» e «un imprescindibile nodo teorico»: fonti, trasmissione della memoria e storia del movimento femminista, in «Genesis», III/1 (2004), p. 229.

A che punto è la storia dei femminismi in Italia

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Nel complesso, il processo di storicizzazione degli anni Settanta sembra andare oltre narrazioni parcellizzate e restituzioni stereotipate fatte di cronologie aride, episodi assoluti o biografie eccezionali. Sempre più spesso la storia del femminismo contribuisce a complicare le letture del contesto in cui il movimento è esploso e con il quale ha interagito osmoticamente. Al tempo stesso, sempre meno plausibili appaiono le analisi che non tengono conto di come le pratiche e le rivendicazioni femministe abbiano – direttamente o indirettamente – contribuito a plasmare lo scenario politico, gli immaginari, le rappresentazioni e le autorappresentazioni di un’epoca. A incoraggiare questi progetti ci sono oggi gli archivi femministi e dei movimenti che di anno in anno aumentano di numero, si formano nelle grandi città come in provincia, saturano i loro armadi, avviano progetti di digitalizzazione, impiegano personale professionista e accolgono studiosə italianə e internazionali.7 Oltre alle case editrici, anche le università italiane stanno lentamente intercettando questo forte interesse scientifico e politico per la storia delle donne e di genere. Negli ultimi anni si è registrata una tendenza a una più ampia accettazione dei feminist studies in ambito accademico. Sebbene una resistenza (più o meno celata) permanga, le tesi di laurea, di dottorato e di master che indagano le esperienze dei femminismi sono tutt’altro che eccezionali. L’attenzione rimane viva su alcune biografie (quella di Carla Lonzi, fra tutte) e su esperienze considerate seminali, ma la ricerca inizia ad esplorare anche nuovi ambiti e aspetti. Tra questi si segnalano casi locali finora rimasti ai margini (che gettano luce sul Meridione d’Italia e su realtà di provincia); la produzione culturale (le case editrici, le librerie delle donne, i canzonieri femministi…); specifiche battaglie (quella per la depenalizzazione dell’aborto e contro la violenza sessuale); il peso delle differenze tra donne (gli studi sui limiti della sorellanza universale o quelli sul lesbofemminismo); i nessi tra movimenti (da quelli con la comunità LGBTQIA+ a quelli con l’ambientalismo);8 il confronto con e all’interno dei partiti (in primis quello comunista). 7. Si segnalano a titolo di esempi l’Associazione per un Archivio dei movimenti a Genova, l’Archivio di Lotta Femminista per il salario al lavoro domestico a Padova, l’Archivio Carla Lonzi presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, l’Archivio storico del MIT (Movimento Identità Trans) a Bologna. 8. Si rimanda alla rubrica Confronti a cura di Elena Musiani in corso di pubblicazione nel numero monografico Transnational Feminist Movements in History, in «Contemporanea», 4 (2023).

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Paola Stelliferi, Stefania Voli

In questo senso, evidenti sono i segni del dibattito politico a noi contemporaneo che pone al centro l’autodeterminazione in ambito riproduttivo e della salute, la violenza di genere, le connessioni tra sistema cis-eteropatriarcale e neoliberismo, i diritti delle persone di “genere non conforme”. È inoltre innegabile il ruolo delle nuove forme di attivismo dal basso con eco internazionale (si pensi alla campagna social #MeToo) e di quelle che sempre più spesso nascono nei paesi postcoloniali e dei cosiddetti Sud del mondo (si pensi all’esperienza globale di “Non una di meno/Ni una menos”). Alla luce di questi fermenti, alla fine del 2019 la Società italiana delle storiche ha deciso di organizzare un convegno per celebrare il cinquantesimo anniversario dell’evento che, convenzionalmente, segna la nascita del movimento femminista italiano: l’affissione sui muri di Roma e Milano del Manifesto di Rivolta femminile, nel luglio 1970. Il comitato scientifico e organizzativo ha lanciato nella primavera 2020 una call for papers per la costruzione del convegno intitolato Cinquant’anni di Rivolta. I movimenti femministi dal lungo ’68 a oggi.9 Il grande numero di risposte ricevute ha confermato che, con questa iniziativa, la SIS stava effettivamente intercettando un interesse storiografico forte, seppure più timido rispetto a quello che da tempo si stava registrando in altri ambiti disciplinari (la sociologia, la filosofia, la storia dell’arte…). L’esplosione della pandemia di Covid-19, con il suo carico di lutti, sofferenze e incertezze, ha avuto un forte impatto sull’organizzazione dell’evento.10 Le difficoltà non hanno però impedito il raggiungimento degli scopi principali dell’incontro: la condivisione e la valorizzazione delle più recenti e originali esperienze di ricerca e confronto sui movimenti delle donne (nazionali, transazionali e globali) dagli anni Settanta del Novecento ad oggi; la messa in dialogo di studiosə provenienti da ambiti disciplinari 9. Comitato scientifico-organizzativo composto da Rosanna De Longis, Simona Feci, Laura Schettini e le due curatrici del presente volume. Il testo della CFP e il programma del convegno sono disponibili ai link: http://www.societadellestoriche.it/images/sisnew2013/ convegni/2020/CFP_50_ANNI_DI_RIVOLTA-def.pdf; http://www.societadellestoriche.it/ images/sisnew2013/convegni/2020/50anni_locandina_programma.pdf (tutti i siti internet citati sono stati consultati l’ultima volta il 22 giugno 2023). 10. Il convegno si è tenuto on-line il 13-14 e 19 novembre 2020. Le tre giornate di studio hanno toccato numerosi temi: il rapporto tra politica, arte ed estetica femminista; le connessioni transnazionali; alcuni casi internazionali; la politica; le autorappresentazioni; la memoria e i nessi tra passato e presente. La prima sessione è stata organizzata in collaborazione con Archivia - Archivi Biblioteche Centri Documentazione delle Donne (Roma).

A che punto è la storia dei femminismi in Italia

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e prospettive generazionali e geografiche diverse. Possiamo anzi affermare che – giunto alla fine di un anno particolarmente faticoso – il convegno sia stato vissuto come un’occasione emozionante e preziosa per tornare a pensare collettivamente. 2. Nuovi sguardi, nuove ricerche L’idea da cui nasce questo volume si è mossa su un doppio binario: restituire almeno in parte la ricchezza emersa dal convegno e portare ulteriori spunti di riflessione allo scambio collettivo iniziato nel novembre 2020, mettendo contemporaneamente in luce gli elementi di novità e di persistenza rispetto alla storiografia già consolidata. Le dieci ricerche presentate contribuiscono ad ampliare lo spettro della conoscenza della storia dei femminismi degli anni Settanta e Ottanta: in alcuni casi, gli argomenti scelti sono originali e inediti, in altri originali e inedite sono le prospettive e gli approcci adottati. Seppur nelle loro differenze, numerose sono le interconnessioni, anche trasversali, sia tra le tre sezioni tematiche, sia tra i saggi che, infatti, “si parlano” attraverso i nomi di singole protagoniste e di gruppi, riviste, eventi e testi, rivelando legami nuovi tra esperienze finora non associate tra loro. La prima sezione, Reti, relazioni, interazioni fa interloquire attraverso le ricerche di Marta Panighel, Tommaso Rebora ed Elisa Bellè i percorsi di due collettivi dei primissimi anni Settanta (Comunicazioni rivoluzionarie di Torino e Il cerchio spezzato di Trento) con una delle principali riviste del femminismo italiano, «Effe». Insieme, questi primi saggi guardano in prospettiva transnazionale tanto alle “origini” del movimento, quanto ai nodi uguaglianza/differenza e differenza/differenze. In particolare, emerge da questi tre capitoli una specificità relativa ai rapporti con le femministe statunitensi11 (secondo Passerini «il primo rapporto fondativo del femminismo italiano»)12 e alla ricezione di posizioni e dibattiti elaborati oltreoceano nel contesto italiano. Mezzo e nutrimento di questo legame sono testi e relative traduzioni, frutto di rapporti interpersonali, viaggi e 11. Con Elena Biagini e Chiara Colangelo in questo volume si vedranno anche le relazioni, altrettanto fondative, con il femminismo francese. 12. Luisa Passerini, Corpi e corpo collettivo. Rapporti internazionali del primo femminismo radicale italiano, in Il femminismo degli anni Settanta, p. 184.

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scambi (tra singole e collettivi) che animano molteplici e diversi percorsi politici. Le ricostruzioni presentate – anche grazie a chiavi interpretative fornite dalla letteratura decoloniale e intersezionale – permettono così di aprire uno squarcio su una parte di storia meno pacificata e certamente ancora poco indagata. In questo modo, categorie centrali per i femminismi contemporanei (quali quelle di “razza” o classe, o Nord/Sud), così come utilizzate nel volume fanno emergere l’instabilità dell’ipotesi di un supposto “naturale ritardo” del femminismo italiano nell’elaborazione del rapporto con le “altre da sé”, «svelando invece i processi politici che lo generarono» (Panighel). La seconda sezione – La politica dell’esperienza – ricostruisce quattro percorsi di soggettivazione politica, a lungo considerati – dal femminismo e dalla storiografia stessa sui femminismi – periferici. Due fili rossi attraversano i contributi di Anastasia Barone, Elena Biagini, Chiara Colangelo e Giulia Sbaffi. Il primo, è il tema del riconoscimento: il sentirsi contemporaneamente dentro e fuori rispetto al movimento, e interne ed esterne alla genealogia femminista. In questa ambivalenza gioca un ruolo importante il carattere relazionale (e non solo conflittuale) del femminismo con realtà “altre” che con esso hanno rapporti di vicinanza, sostegno e accoglienza: il Partito Radicale con le sue diramazioni nel Fuori! (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario) e nel Mit (Movimento italiano transessuale); il Partito comunista e le sue militanti; l’Udi (Unione donne italiane). In particolare, la vicenda dei consultori autogestiti e quella del movimento delle prostitute fanno emergere il confronto costante con le forze istituzionali e il peso dei dibattiti sulle leggi di interesse diretto del femminismo (in questa sezione, la legge 405/1975, Istituzione dei consultori famigliari, ma anche la cosiddetta “legge Merlin” n. 75/1958). Il secondo filo rosso è rappresentato dalla sessualità: grazie al femminismo, quest’ultima esce dall’ambito del privato per diventare esperienza politica, e nella pratica politica femminista diviene leva per l’attivismo in luoghi e contesti imprevisti, generatori di dibattiti e scambi intensi: che si tratti di salute sessuale, soggettività lesbica, lavoro sessuale o di didattica nelle scuole. La terza e ultima sezione, Guardarsi, ascoltarsi, rappresentarsi, riunisce i lavori di tre studiose – Dalila Missero, Clarissa Ricci, Eleonora Cirant – che mettono al centro delle loro ricostruzioni metodologie, approcci e linguaggi tradizionalmente considerati come un “altrove” rispetto alla politica femminista. Il tema condiviso è quello della creazione

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di contenuti e progetti politici e culturali al tempo stesso: i festival di cinema, le esposizioni artistiche e la comunicazione radiofonica. L’aspirazione delle donne, provenienti da diverse anime del femminismo, è quella di tradurre la propria esperienza anche in contesti creativi e lavorativi presentati come “neutri”, con l’ambizione di arrivare – nonostante chiusure e ostracismi – a impattare sulle «pratiche egemoniche di fruizione culturale» (Missero). Non si tratta dunque solo di “performare” il femminismo: per le donne che hanno un percorso nel movimento, significa concretizzare un desiderio di condivisione di pratiche di (auto) rappresentazione, socializzazione e ricezione «non passiva» (Missero), anche oltre i confini della comunità politica di riferimento. Al contempo, questi contributi aprono uno squarcio sulla reale capacità (e volontà) di ricezione dei femminismi da parte di alcune grandi istituzioni culturali, quali la Rai (Cirant) oppure la Biennale di Venezia (Ricci). Il femminismo si conferma come momento decisivo di trasformazione del linguaggio e della produzione culturale in molti e diversi ambiti. Su un piano più generale, i lavori che compongono il volume condividono tra loro alcune caratteristiche “strutturali”. L’Italia è la cornice spaziale di riferimento ed è con la storia e gli eventi generali che attraversano il paese tra gli anni Settanta e Ottanta che queste dialogano intensamente, ancorando ciascun caso di studio all’interno di attente contestualizzazioni. Molti dei lavori presentati muovono i propri passi da una dimensione locale (Rebora, Bellè, Barone, Ricci), senza tuttavia iscriversi nell’ambito della microstoria. I luoghi rappresentano la cifra di originalità, grazie alla quale occasioni e possibilità di sviluppi reticolari prendono il via. Le relazioni che da questi si costituiscono, si intrecciano, si diramano, portano alla luce le interconnessioni in alcuni casi fondative delle esperienze stesse, capaci da una parte di aprire ai femminismi italiani orizzonti oltreconfine, e dall’altra di affrancare la storiografia sui femminismi dalla dicotomia centro-periferia, spostando l’accento «dai luoghi ai processi» (Bellè). A lungo, infatti, le riflessioni delle studiose hanno messo in evidenza la polarizzazione tra la difficoltà di una scrittura di una storia generale del femminismo e il «moltiplicarsi negli ultimi anni di ricerche di storia locale».13 In questo caso, invece, i diversi piani (locale, nazionale, transnazionale) non possono più essere 13. Nota introduttiva di Elda Guerra a Anna Rossi-Doria, Narrare e rappresentare una storia, in «Genesis», XVI/2 (2017), p. 105.

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considerati separatamente, ma nella loro interdipendenza, pena la perdita di elementi costitutivi delle esperienze, delle pratiche, delle traiettorie ricostruite. In ultima analisi, i contributi qui raccolti sottolineano non solo come il movimento femminista si sia diffuso al di là dei grandi centri urbani, ma anche come l’attivismo delle aree di provincia abbia ricoperto una funzione centrale nella storia nazionale. Questo approccio stimola uno sguardo nuovo sulla storia repubblicana. L’interlocuzione, a livello storiografico, non avviene infatti solo internamente – tra le diverse anime ed esperienze dei femminismi – o non è rivolta soltanto verso un esterno prossimo – i soggetti politici più vicini al movimento delle donne (i gruppi extraparlamentari, i partiti della sinistra, i sindacati). Le vicende ricostruite interrogano molte questioni della storia italiana: i fenomeni migratori e il razzismo sociale e culturale (Panighel); le conseguenze delle prime liberalizzazioni degli accessi universitari di inizio anni Sessanta (Bellè); le battaglie per il diritto universale alla salute e per il consolidamento di un servizio socio-sanitario (Barone); il processo di democratizzazione e femminilizzazione dell’istituzione scolastica (Colangelo); la riorganizzazione interna di quella artistica per eccellenza, la Biennale di Venezia (Ricci); la profonda trasformazione (e la lottizzazione) del servizio radiotelevisivo pubblico (Cirant); il drammatico diffondersi dell’epidemia di Aids/Hiv (Sbaffi). L’approccio interdisciplinare, inoltre, attraversa tutto il volume, a dimostrazione di come lo studio dei femminismi resti – per usare le parole di Bellè – «un campo ancora aperto, una sfida empirica stimolante, che esige sperimentalità metodologica, una reale attitudine interdisciplinare e la promozione di collaborazioni di ricerca». Abbiamo dunque accolto la disponibilità a ibridare l’indagine storica sui femminismi anche con metodologie non “puramente” storiche e ambiti disciplinari “altri”. Un ulteriore tratto di originalità si profila, inoltre, proprio sul piano delle fonti utilizzate. Molte delle riflessioni attorno alle cause delle lacune storiografiche sui femminismi hanno finora insistito da una parte sulla dispersione delle fonti e la loro problematicità,14 dall’altra sull’“indicibilità” e “intraducibilità”15 di alcuni tratti di quell’esperienza

14. Elda Guerra, Femminismo/Femminismi: appunti per una storia da scrivere, in «Genesis», III/1 (2004), p. 90. 15. Rossi-Doria, Il femminismo degli anni Settanta, p. 308.

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(una fra tutte, la pratica dell’autocoscienza).16 Questa, contrassegnata da un’oralità estrema e dalla fatica, al tempo, di immaginarsi come nodi in una catena di trasmissione della memoria per le generazioni successive, non è riuscita a lungo a tradurre la parola detta in parola scritta. Negli ultimi due decenni si è intensificato il «lavoro capillare di censimento, raccolta delle fonti»,17 costruzione, riorganizzazione e digitalizzazione di patrimoni documentari inediti che hanno reso possibile l’accesso a materiali prima non consultabili. Questo fenomeno ha risignificato i termini del lavoro di indagine storica, e nutrito un inedito e non gerarchico corpo a corpo soprattutto tra storia orale e documenti scritti. Fin dai primi anni Ottanta si è individuata nelle interviste la principale possibilità di colmare le lacune della documentazione,18 inoltrandosi nel complesso rapporto tra storia/memoria/autonarrazione/soggettività/politica. A questo proposito, lo sguardo d’insieme sui saggi che compongono il volume lascia intravedere un cambiamento che sembra rispondere all’auspicio, formulato da Passerini nel 2005, «di fare un salto qualitativo nell’approccio alla storia del femminismo italiano e di non tentare soltanto percorsi di memoria o genealogie, ma di proporre percorsi e domande per ricerche metodologiche innovative».19 Non sembra un caso, dunque, se nessuno dei lavori è esclusivamente basato su testimonianze, ma tutti (con l’eccezione di Panighel) vi fanno ricorso, restituendo un dialogo tra fonti disinvolto e “alla pari”. Oltre alle interviste, anche le fonti iconografiche e audiovisive (a lungo considerate accessorie), si attestano come indispensabili per narrare le esperienze indagate, ma anche e soprattutto per restituire l’eclettismo e il dinamismo dei femminismi dei decenni Settanta e Ottanta. Inoltre, non è banale sottolineare il fatto che chi adopera questi documenti intraprende con essi 16. Per autocoscienza si intende una pratica politica mutuata dagli Stati Uniti e sperimentata per le prime volte in Italia alla fine degli anni Sessanta. Attraverso l’ascolto e l’auto-narrazione all’interno di un “piccolo gruppo”, l’autocoscienza aveva l’obiettivo di riscoprire i nessi invisibili tra esperienza intima-individuale e condizione politica-sociale. 17. Guerra, Femminismo/Femminismi, p. 91. 18. Si pensa al bollettino «Fonti orali studi ricerche», 2-3 (1981) con una parte monografica dedicata alla storia delle donne; e agli atti del convegno Fonti orali e politica delle donne: storia, ricerca, racconto. Materiali dell’incontro svoltosi a Bologna l’8-9 ottobre 1982, Bologna, Alpha Beta, 1983. Si veda anche Lea Melandri, Gli oggetti seppelliti negli archivi delle donne, in «Genesis», I/2 (2002), p. 210. 19. Passerini, Corpi e corpo collettivo, p. 181.

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un rapporto quasi “fisico”, grazie ad un’immersione che coinvolge concretamente il corpo e i suoi sensi: si ascolta il femminismo, si sentono le donne protagoniste e le loro voci, e si osservano le loro produzioni artistiche.20 Sebbene sia complice di questo “passaggio” la distanza temporale rispetto all’oggetto di studio, non si tratta esclusivamente di una questione generazionale: piuttosto, di soggettività e di posizionamento all’interno del contesto disciplinare e socio-politico, inteso, per usare le parole di Donna Haraway, come «strumento cognitivo e politico capace di produrre un sapere più adeguato e storicamente contingente».21 Nel complesso, la graduale dissolvenza dei toni nostalgici delle testimonianze sembra situarsi in un contesto di insorgenza di una nuova costellazione transfemminista globale. L’ipotesi è che la presenza sulla scena pubblica odierna di una vivace e diversificata rete transnazionale e transfemminista non abbia soltanto la capacità di stimolare la curiosità storiografica, ma anche quella di fornire una legittimità politica che si traduce sul piano scientifico in termini di maggiore sicurezza e autonomia sia investigativa sia interpretativa.22 Un’ultima riflessione riguarda il tema delle periodizzazioni. La scansione più diffusa della storia dei femminismi degli anni Settanta distingue quattro fasi. La prima, quella delle origini, va dai “molti inizi” individuabili nei secondi anni Sessanta – la fondazione del Demau (1966) e di Rivolta femminile (1969), il Sessantotto etc. – fino alla comparsa sulla scena pubblica dei primi gruppi. Seguono il biennio 1972-1974 – con la diffusione di eterogenei collettivi separatisti da Nord a Sud; e quello 1975-1976, in cui il movimento raggiunge una dimensione larga, se non proprio di massa, soprattutto attorno alla battaglia per la depenalizzazione dell’aborto. Infine, una fase considerata di crisi che si inscrive all’interno di un passaggio 20. Recenti e molto promettenti sono i progetti che vanno in questa direzione: si pensa al progetto PRIN Fotografia femminista italiana. Politiche identitarie e strategie di genere (https://site.unibo.it/fotografia-femminista-italiana/it/progetto) o al progetto di tesi di dottorato di Maria Teresa Betancor Abbud, Une histoire sonore du mouvement féministe autonome italien des années 1970, presso l’EHESS di Parigi. 21. Donna Haraway, Testimone_Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopoTM: femminismo e tecno scienza, a cura di Liana Borghi, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 262. 22. Si segnala il dialogo a tre voci sulla storicizzazione del femminismo degli anni Settanta scaturito dal convegno Cinquant’anni di Rivolta: Paola Stelliferi, «Un legame che non si sa bene da dove venga, però c’è». Due interviste sul femminismo, con Anastasia Barone e Teresa Bertilotti, in «Il de Martino. Storie voci suoni», 33 (2022), pp. 89-122.

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eccezionalmente complicato della storia dell’Italia repubblicana, segnato da repressione politica, lotta armata e eversione nera (1977-1979).23 La cronologia prevalente nel volume sembra sfuggire a questa cornice: l’utilizzo di una prospettiva storica di più lungo periodo si dimostra efficace nell’analisi sincronica e non gerarchica dei femminismi e della cultura politica da questi prodotta,24 aiutando a ripensare alcune cesure assodate ma non sempre efficaci. Le ricerche presentate, inoltre, non si adagiano neppure sulle periodizzazioni più consuete della storia politica dell’Italia repubblicana, uscendo a tratti dagli steccati tradizionali dei momenti e delle fasi generalmente considerate spartiacque. Il Sessantotto resta un riferimento temporale che segna l’inizio di una nuova stagione di soggettività politica femminile e femminista. Scompare, invece, l’automatismo che assegna al passaggio tra il decennio Settanta e Ottanta un “cambio di pelle”, una transizione tra un femminismo “politico” e uno “diffuso” o “culturale”. Inoltre, in assonanza con una storiografia e sociologia dei movimenti ormai critica rispetto alla categoria del “riflusso” e dell’abbandono della politica a favore del privato tradizionalmente associata agli anni Ottanta,25 si delineano nuove strade interpretative, in direzione di un lungo ventennio di presenza femminista. 3. Dall’autobiografia alla storia: alle origini della storiografia sui femminismi Nel complesso, pertanto, i saggi raccolti ci sollecitano a ripensare alla produzione storiografica che si è stratificata nel tempo e a proseguire la riflessione sul nesso tra ricerca storica e femminismo che è stata cruciale in 23. Oltre ai saggi citati di Anna Rossi-Doria e Elda Guerra, si rimanda alle cronologie proposte in alcuni lavori di sintesi: Aida Ribero, Una questione di libertà. Il femminismo degli anni Settanta, Torino, Rosenberg&Sellier, 1999; Fiamma Lussana, Il movimento femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie, Roma, Carocci, 2012; Maud Anne Bracke, La nuova politica delle donne. il femminismo in Italia (1968-1983), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2019; Paola Stelliferi, I femminismi dall’Unità ad oggi, in Storia delle donne nell’Italia contemporanea, pp. 79-107. 24. Guerra, Femminismo/Femminismi, p. 111. 25. Beppe De Sario, Anni Ottanta. Passato prossimo venturo, in «Zapruder», 21 (2010), e tutto il numero della rivista; Marica Tolomelli, L’Italia dei movimenti. Politica e società nella prima Repubblica, Roma, Carocci, 2015.

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alcuni lavori dei primi anni Duemila. Pensiamo, in particolare, al volume del 2003 a cura di Anna Rossi-Doria, A che punto è la storia delle donne in Italia, che ha avuto il merito di elaborare il “primo esame critico” del rapporto tra cultura e politica del femminismo.26 L’anno dopo, in un fascicolo della rivista «Genesis» dedicato agli anni Settanta, Anna Bravo ha voluto interrogare il tema del «(quasi) vuoto storiografico» sui femminismi di quel decennio, parlandone come di una (doppia) anomalia.27 Un’anomalia con cui la SIS, nata nel 1989 «da una costola del movimento femminista», ha deciso di fare i conti all’alba del nuovo millennio, intitolando la prima edizione della nuova scuola estiva La sfida del femminismo ai movimenti degli anni Settanta (Fiesole, 29 agosto - 4 settembre 2004).28 Tutte queste iniziative hanno avuto il merito di costruire un ponte tra il passato e il futuro: da un lato ponendo le basi per una restituzione articolata di quella che era stata un’esperienza politica diffusa, ma anche una rivoluzione sociale e culturale; dall’altro raccogliendo i frutti di una riflessione di lungo periodo sulla “trasmissione”. I primi centri di documentazione femminista, infatti, furono immaginati e sperimentati già all’inizio degli anni Settanta con l’obiettivo principale di facilitare la controinformazione politica. Tuttavia, anche in questi progetti “immersi nel presente” è ravvisabile una prospettiva di lungo periodo: un precoce desiderio di lasciare le proprie tracce, comune a tutti i movimenti sociali del lungo Sessantotto italiano che non raramente si dedicarono alla costruzione di “archivi correnti” nella fase della loro più intensa mobilitazione.29 26. A che punto è la storia delle donne in Italia, a cura di Anna Rossi-Doria, Roma, Viella, 2003. 27. Così la storica spiegava la doppia anomalia: «Di solito i movimenti che hanno vinto le loro sfide non faticano a trovare velocemente storici e narratori. Se poi nelle loro file si contano un certo numero di intellettuali e una componente acculturata, la storia e il suo primo pubblico possono nascere dall’interno stesso del movimento»: Anna Bravo, Noi e la violenza, trent’anni per pensarci, in «Genesis», III/1 (2004), p. 17. 28. Cfr. Anna Scattigno, La Società delle Storiche – SIS, in Storia d’Italia nel secolo ventesimo. Strumenti e fonti, a cura di Claudio Pavone, vol. II, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Dipartimento per i Beni Archivistici e Librari, Direzione Generale per gli Archivi, 2006, pp. 506-512. Da questa edizione della scuola estiva prenderà vita il volume già citato Il femminismo degli anni Settanta. 29. Un esempio è costituito dal Centro documentazione studi sul femminismo inaugurato il 2 febbraio 1974 all’interno del collettivo Movimento Femminista Romano di via Pompeo Magno che, due anni dopo, stampò il libro Donnità: cronache del Movimento femminista romano, Roma, Centro Grafico GPR, 1976. Su questi temi si rimanda alla ricerca

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Veri e propri centri di documentazione del femminismo, però, nacquero soprattutto tra anni Settanta e Ottanta, proprio mentre molti dei collettivi delle origini si scioglievano “come neve al sole” e un ciclo fondamentale della storia politica delle donne sembrava chiudersi insieme con la stagione della “conflittualità sociale”. Non che mancassero le continuità tra i due decenni. Più o meno evidenti, più o meno esplicitamente rivendicate, queste erano ravvisabili nella lunga e articolata mobilitazione contro la violenza maschile sulle donne (nelle aule dei tribunali come nei centri antiviolenza)30 e nella “vigilanza” nei consultori famigliari.31 Tuttavia, come spiegato da Franca Bimbi, sembrava aprirsi una nuova fase – quella del “femminismo diffuso” – in cui veniva meno «l’influenza di un attore collettivo sino ad ieri rappresentato come omogeneo, almeno nella sua alterità rispetto al sistema politico».32 Da Nord a Sud, si iniziarono a diffondere progetti di archivi del femminismo nei quali conservare fogli volanti, bollettini e ciclostilati, ma anche appunti o trascrizioni di riunioni di autocoscienza, scambi epistolari, diari, agende personali e di gruppo, registrazioni fatte col magnetofono, fotografie… L’obiettivo era ambizioso: testimoniare anche i silenzi, fissare un vissuto emozionale ancora in divenire, restituire il senso di una militanza che aveva inventato nuove relazioni tra donne (e tra donne e uomini) travolgendo la vita quotidiana. Il desiderio di salvaguardare il patrimonio documentale prodotto da «un movimento in cui si parlava molto e si scriveva poco»33 stimolò anche l’orgadi dottorato di Rosa De Lorenzo, i cui risultati sono stati parzialmente condivisi nel saggio Il femminismo del passaggio degli anni Ottanta. Ritirarsi in un archivio come atto di resistenza, in Genere e r-esistenze in movimento. Soggettività, azioni, prospettive, a cura di Maria Micaela Coppola, Alessia Donà, Barbara Poggio, Alessia Tuselli, Trento, Università degli Studi di Trento, 2020. pp. 529-540; Guida alle fonti per la storia dei movimenti in Italia (1966-1978), a cura di Marco Grispigni e Leonardo Musci, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali - Direzione generale per gli archivi, 2003. 30. Oltre al già citato volume di Filippini, “Mai più sole”, si rimanda ai saggi di Beatrice Pisa, Laura Elisabetta Bossini e Maria Grazia Rossilli in La violenza contro le donne nella storia, Contesti, linguaggi, politiche del diritti (secoli XV-XXI), a cura di Laura Schettini e Simona Feci, Roma, Viella, 2017. 31. Su questo tema, si rimanda al saggio di Anastasia Barone in questo volume, e al fascicolo monografico Il corpo mi appartiene, «Venetica», 1 (2022). 32. Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Storie e percorsi a Milano dagli anni ’60 agli anni ’80, a cura di Anna Rita Calabrò e Laura Grasso, Milano, FrancoAngeli, 2004, p. 7. 33. Lea Melandri, Letture d’archivio, in Archivi del femminismo. Conservare progettare comunicare, Milano, Fondazione Badaracco, 2003, p. 43.

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nizzazione di una serie di iniziative di didattica, di ricerca e di divulgazione. Queste furono pensate con l’obiettivo di ricostruire una genealogia dei movimenti delle donne che fosse in grado di contrastare «l’amnesia originaria del femminismo»: espressione con la quale Luisa Passerini ha indicato la tendenza dei femminismi di ogni epoca a tagliare i ponti con gli antecedenti storici, come in balia di una ciclica ansia di rifondazione e innovazione.34 Nel corso degli anni Ottanta queste iniziative di stampo politico-culturale si moltiplicarono e, in molti casi, assunsero forme più o meno istituzionalizzate: si pensi alle associazioni culturali come l’Università delle donne “Virginia Woolf” (1979-1996)35 o al Centro di documentazione di Bologna fondato nel 1983. Non mancarono inoltre progetti professionali in cui far convivere lavoro, politica e affetti: dalle case editrici alle librerie.36 La storia delle donne, intesa come disciplina autonoma, conobbe in questi anni una sperimentazione straordinaria, strappando all’oblio la complessità dell’esperienza storica femminile, fino a quel momento schiacciata in un singolare collettivo universalizzante.37 Contemporaneamente, anche la disciplina archivistica si innovava. Ne derivò un ripensamento, in ottica di genere, della produzione di fonti, di strumenti di ricerca e di linguaggi descrittivi, ma anche una nuova consapevolezza: che la presunta mancanza di documenti prodotti dalle donne in epoche passate fosse in realtà uno specchio delle asimmetrie di potere vigenti nelle società.38 A differenza di quanto avvenuto negli Stati Uniti, dove il lavoro di recupero del passato attese l’arrivo di un’altra generazione politica, in Italia i centri di documentazione vennero progettati per lo più da coloro che nel corso degli anni Settanta avevano ingrossato le fila del movimento stesso.39 34. Luisa Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosenberg&Sellier, 1991, p. 96. 35. Annabella Gioia, L’Università delle donne. Esperienze di femminismo a Roma (1979-1996), Roma, Donzelli, 2021. 36. Maria Luisa Moretti, Progetti, progettualità, in «DWF», 2 (1986), pp. 13-14. 37. Per una ricostruzione storiografica sintetica si rimanda a Simona Feci, Storia di genere, in Dizionario di Storia, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2010: https:// www.treccani.it/enciclopedia/storia-di-genere_(Dizionario-di-Storia)/. 38. Cfr. Linda Giuva, Considerazioni archivistiche a margine di un censimento di fonti, e Paola Di Cori, Non solo polvere. Soggettività e archivi, entrambi pubblicati in Archivi delle donne in Piemonte. Guida alle fonti, a cura di Caterina Ronco e Paola Novaria, Torino, Centro studi piemontesi, 2014, rispettivamente a pp. 45-54 e 55-80. 39. Per gli USA si rimanda al testo di Kate Eichhorn, The archival turn in feminism: Outrage in Order, Filadelfia, Temple University Press, 2013.

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Alla luce di ciò, non sorprende che anche i primi “esperimenti” di storia del femminismo risalgano già alla fase del “post-movimento” durante la quale si elaborarono nuove pratiche rispetto a quelle che avevano dominato la scena degli anni Settanta. In questa cornice, il biennio 19861987 appare come uno spartiacque. Il processo di istituzionalizzazione degli archivi vide un’accelerazione rappresentata dal convegno nazionale di Siena del 1986 nel quale si ragionò sulle continuità e discontinuità rispetto agli anni Settanta, e furono raccolte le sfide dell’era informatica e telematica.40 Nello stesso anno, a Bologna, alla storia delle donne fu dedicato un fondamentale convegno che guardò al rapporto con il potere attraverso una chiave interpretativa nuova. Rifiutando di leggere le donne come oggetto passivo di dominio (o come soggetto inevitabilmente subalterno), si esplorarono le «ragnatele di rapporti»: ossia, le dinamiche di scambio, interdipendenza, condizionamento reciproco e complementarità fra donne e fra generi.41 Contemporaneamente, il disastro ambientale di Chernobyl fu un evento sconvolgente rispetto al quale attiviste, intellettuali, politiche e scienziate cercarono di reagire insieme, prendendo la parola e confrontandosi, da una prospettiva femminista, sulla «coscienza del limite» allo sviluppo tecnico-scientifico.42 L’anno dopo, nella primavera 1987, il convegno di Modena sugli studi femministi in Italia rappresentò un’altra cruciale occasione in cui intrecciare i saperi disciplinari con la politica delle donne. In questo appuntamento il binomio impegno politico-civile e ricerca scientifica (emblematico del lungo Sessantotto italiano) iniziò ad essere percepito come estremamente scivoloso, oltre che faticoso. Praticare la storia delle donne e di genere dentro e fuo40. Le donne al Centro. Politica e cultura dei Centri delle donne negli anni ’80, Roma, Utopia, 1988. Cfr. Simonetta De Fazi, C’era una volta la rete Lilith: e c’è ancora…, in «DWF», 2-3 (2007), pp. 14-15, disponibile anche online ; Paola De Ferrari, Thesaura, in «Zapruder», 47 (2018), pp. 26-41; Elena Petricola, Archivi delle donne, generazioni e ricerca: nuove domande a partire dalla storia dei femminismi in Italia, in «Revista catalana d’història», 13 (2020), pp. 166-189. 41. Gli atti del convegno furono poi pubblicati in Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazione tra donne in Italia, a cura di Lucia Ferrante, Maura Palazzi, Gianna Pomata, Torino, Rosenberg&Sellier, 1988. 42. Cfr. La ricerca delle donne. Studi femministi in Italia, a cura di Anna Rossi-Doria e Maria Cristina Marcuzzo, Torino, Rosenberg&Sellier, 1987, p. 36; il supplemento Scienza potere coscienza del limite. Dopo Cernobyl: oltre l’estraneità, a cura di Grazia Leonardi, «Quaderni di Donne e politica», 5 (1986).

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ri le università, così come negli istituti culturali, significava mettere a frutto l’empatia tra soggetto e oggetto e, al tempo stesso, tenere testa ai pregiudizi che pesavano sulla nuova disciplina: ai percorsi di ricerca femministi, del resto, veniva tributato uno scarsissimo riconoscimento istituzionale e accademico.43 È in questo dinamico scenario che si colloca l’uscita di una serie di pubblicazioni sul femminismo italiano che – rispondendo sia a una volontà di memoria, sia a un bisogno di storia e di storiografia – andarono a costruire una letteratura, ancora oggi, di riferimento.44 Tra queste, il primo tentativo di analisi storiografica, operato da «Memoria».45 Con l’obiettivo di iniziare a riflettere sull’eredità degli anni Settanta, la redazione della prima rivista di storia delle donne in Italia pubblicò, nel 1987, un doppio volume dedicato al femminismo. Tra i tanti temi affrontati, “il fascicolo d’oro” mise a fuoco, in particolare, la dimensione politica del movimento delle donne e la sua costante opera di correlazione con le altre culture politiche (quelle di sinistra, in particolare). Ne emerse «l’immagine di una oscillazione irrisolta» che confermava come in Italia, più che altrove, il pensiero femminista avesse individuato nel marxismo al tempo stesso un modello e una sfida.46 43. Rosanna De Longis, Femminismo e ricerca storica dentro e fuori le istituzioni, in Uguaglianza/differenza. Riflessioni per Anna Rossi-Doria, Milano, Annale IRSIFARFrancoAngeli, 2013, p. 62. 44. Dopo Le strategie delle minoranze attive (1985) sul caso milanese, uscivano: il volume di Yasmine Ergas, Fra le maglie della politica. Femminismo, istituzioni e politiche sociali nell’Italia degli anni ’70, Milano, FrancoAngeli, 1986, pubblicato in una collana di studi sociologici sulla famiglia; “l’autobiografia” della Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Torino, Rosenberg&Sellier, 1987; gli atti del seminario Esperienza storica del femminismo nell’età moderna e contemporanea, a cura di Anna Maria Crispino, Roma, Unione Donne Italiane – Circolo “La goccia”, 1988; la ricerca «empirica» di Franco Crespi e Angelica Mucchi Faina, Le strategie delle minoranze attive. Una ricerca empirica sul movimento delle donne, Napoli, Liguori, 1988; Passerini, Storie di donne e femministe. 45. «Memoria. Rivista di storia delle donne» è stata fondata nel 1981 da donne con un comune background nella politica del femminismo (il primo gruppo redazionale fu composto da Maria Luisa Boccia, Gabriella Bonacchi, Marina d’Amelia, Michela De Giorgio, Paola Di Cori, Yasmine Ergas, Angela Groppi, Margherita Pelaja e Simonetta Piccone Stella). Cfr. Angela Groppi, L’esperienza di “Memoria” fra invenzione e innovazione, in Storiche di ieri e di oggi. Dalle autrici dell’Ottocento alle riviste di storia delle donne, a cura di Maura Palazzi e Ilaria Porciani, Roma, Viella, 2004, pp. 241-253. 46. Il tema, in «Memoria», 19-20 (1987), p. 8.

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Nonostante questi promettenti avvii, gli anni Novanta furono un decennio di minore scrittura e di maggiori difficoltà nel riannodare i fili del passato con quelli del presente. Questa impasse riguardò la storia della partecipazione politica delle donne in generale, e non solo quella del femminismo,47 e fu segnata anche dalla contemporanea parabola discendente di alcune esperienze che avevano traghettato da un decennio all’altro il patrimonio dei movimenti: oltre «Memoria» (1981-1993), si pensa alle riviste «Reti» (1986-1992) e «Lapis» (1987-1997). Proprio in questo frangente, la Società italiana delle storiche – di recente costituzione – tematizzava lo stretto nesso soggettività, ricerca, biografia.48 Il rischio che la narrazione del femminismo degli anni Settanta potesse incagliarsi sul problema della trasmissione e della memorialistica appariva concreto. Riflettendo sui confini porosi tra impegno politico, ricerca e didattica, Paola Di Cori nel 1997 pose un quesito teorico che lasciava intravedere pessimismo: «È possibile una storia del femminismo italiano?». La sua sensazione era che dietro ciascuna narrazione del passato si nascondesse «una forma di chirurgia crudele, una operazione duramente selettiva e censoria» che tagliava fuori «dalla trama della ricostruzione, qualcosa di indefinito e di inesprimibile nella forma di un testo».49 Di Cori temeva non solo che «la memoria storica del femminismo» si inaridisse, ma anche che finisse per assomigliare «a una grande diva del muto»: invitata a fare un brindisi augurale al nuovo millennio, ieratica e autorevole nei suoi abiti fuori moda ma tanto lontana. Cammeo luccicante nelle ricostruzioni della storia generale; reliquia nostalgica di tempi ormai lontani nelle iniziative “trent’anni dopo” per le militanti di allora; sogno irraggiungibile

47. Simonetta Soldani, L’incerto profilo degli studi di storia contemporanea, in A che punto è la storia delle donne in Italia, pp. 63-80. 48. Discutendo di storia. Soggettività, ricerca, biografia, a cura della Società italiana delle Storiche, Torino, Rosenberg&Sellier, 1992. 49. Di Cori, Culture del femminismo, p. 806. Colpiscono le assonanze delle parole di Di Cori con quelle di un documento di venti anni prima del collettivo di via Pompeo Magno: «Rimane scoperta tutta quella parte, difficilmente inseribile in questo contesto, che noi giudichiamo la più importante: la ricerca e l’approfondimento di spazi affettivi fra noi, la costruzione di una solidarietà fra donne nell’accettazione, anche critica, delle differenze individuali: la nostra storia, le nostre contraddizioni; il nostro quotidiano di lotta […]; la lotta dentro di noi», in Donnità, p. 5.

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di un’era di utopie dissacranti per le più giovani; paese di Cuccagna della politica delle donne, ahimè, per tutte quante.50

4. Il tempo delle ipotesi: alle soglie del nuovo millennio Disorientata dal vivido richiamo di un oggetto di studio “animato” che si ribellava ai tentativi di imbalsamazione, la storiografia ha atteso fiduciosa il volgere del millennio. È a questo punto che la SIS, intrecciando l’impegno pubblico femminista con quello strettamente storiografico e didattico, ha deciso di cogliere una sfida: quella di confrontarsi con «una storia “da fare”».51 Il biennio 2004-2005 si è rivelato straordinariamente florido: sono state poste domande cruciali sulla trasmissione e sulle fonti; sono state discusse periodizzazioni e peculiarità locali e nazionali; inoltre sono state tematizzate alcune questioni cruciali come la politicizzazione della sessualità, i rapporti con le culture politiche di sinistra, e la questione delle origini. In sintesi, mentre i progetti di divulgazione stavano iniziando a dare frutti preziosi,52 sono state tracciate le prime prospettive di ricerca essenziali per scrivere la storia del neofemminismo degli anni Settanta. L’intraducibilità di alcune pratiche femministe, come abbiamo visto, ha costituito uno dei nodi più difficili da sciogliere. Il “paradigma dell’indicibilità dell’esperienza” è stato evocato soprattutto per quanto riguarda la principale pratica politica degli anni Settanta, l’autocoscienza. «Sembra quasi che chi non l’abbia vissuta non possa raccontarla», ha scritto Anna Rossi-Doria nel 2005, condividendo le sue «ipotesi per una storia che verrà».53 50. Paola Di Cori, Silenzio a più voci. Neofemminismo e ricerca storica: un incontro mancato, in «Zapruder», 5 (2004), pp. 104-107. 51. Si rimanda al resoconto di Teresa Bertilotti della scuola estiva della SIS del 2004 pubblicato in «Genesis», III/2 (2004), pp. 217-220. 52. Si pensa al già citato volume di Ribero, Una questione di libertà, ma anche alla sfida colta dalla Fondazione Badaracco con il convegno Archivi del femminismo. Conservare progettare comunicare (Milano, 56 ottobre 2001) da cui è stato tratto, nel 2003, l’omonimo volume collettaneo che andava ad affiancare la collana Letture d’archivio diretta da Lea Melandri dal 2000 e pubblicata da FrancoAngeli. La collana nasceva con il fine di far conoscere materiali di archivio, scritture personali e collettive, edite e inedite, ad un pubblico il più ampio possibile. 53. Anna Rossi-Doria, Ipotesi per una storia che verrà, in Il femminismo degli anni Settanta, pp. 1-23. Il saggio è stato ripubblicato in occasione dell’uscita dell’antologia di

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Strettamente collegata a questo senso di insoddisfazione, era la questione delle fonti. Più che un problema di accessibilità, quantità o eterogeneità delle tracce lasciate, si poneva una questione di “efficacia”. Come riuscire a restituire la pienezza di un’esperienza che aveva lasciato segni profondi nei vissuti individuali, che aveva plasmato, innovandole, le relazioni (non solo sessuali e tra i generi, ma anche quelle amicali e professionali) e che – per citare Carmen Leccardi – aveva reinventato la vita quotidiana?54 «Nel rapporto tra la pratica e la scrittura, l’esperienza torna[va] a perdersi».55 Sebbene in molte rivendicassero il diritto di scrivere per prime la storia cui avevano partecipato, trent’anni dopo restava la sensazione che lo sguardo storico non restituisse la pienezza di quanto esperito. Sulla storia continuava a prevalere la memoria e sui progetti di ricerca gli esperimenti di chi, avendo fatto parte del movimento, provava a tradurre in scrittura la commistione tra individuale e collettivo.56 La storia del femminismo, inoltre, rimaneva separata dalla cosiddetta “storia generale”. Come notato da Anna Bravo, la memoria del lungo Sessantotto italiano appariva ricca, a tratti bulimica, ma sicuramente “compartimentata” dal punto di vista di genere: «di femminismo parlano le donne (e rari uomini), di tutto il resto gli uomini, e molte meno donne».57 Alla luce di queste difficoltà, si può meglio comprendere il bilancio in negativo stilato da Paola Di Cori ancora nel 2011: Pochissime sono le ricerche esistenti, in gran parte riguardanti esperienze di Milano e Torino, con l’aggiunta di alcuni studi su Firenze, Padova, Roma, Napoli, Catania; quasi fosse stato un fenomeno relativo solo a qualche centinaio di donne concentrate in massima parte nelle città del centro-nord. Il primo dato con cui confrontarsi riguarda la sproporzione e inadeguatezza di una bibliografia assai modesta rispetto a quanto, senza sforzo, la memoria scritti di Anna Rossi-Doria, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, Viella, 2007, con il titolo: Ipotesi per una storia del neofemminismo italiano, pp. 243-265. 54. Carmen Leccardi, La reinvenzione della vita quotidiana, in Il femminismo degli anni Settanta, pp. 99-117. 55. Bertilotti e Scattigno, Introduzione, p. VIII. 56. Emma Baeri, I lumi e il cerchio. Un esercizio di storia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, p. 10. 57. Anna Bravo, A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 14.

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Paola Stelliferi, Stefania Voli

restituisce come movimento di massa che ha coinvolto milioni di donne da un capo all’altro del Paese.58

In realtà, potenzialità e limiti di una storia in cui memoria e autobiografia si sovrapponevano erano evidenti in tutti i processi di storicizzazione dei movimenti sociali degli anni Settanta: «anni carichi nel ricordo di nostalgia e di lutto» per la generazione di storiche e storici che li avevano vissuti.59 Già in occasione del ventennale del Sessantotto, Luisa Passerini aveva evocato il rischio di un destino astorico che sembrava minacciare tanto il movimento delle donne quanto quello degli studenti.60 Nel farlo, Passerini aveva posto questioni metodologiche ancora oggi non sciolte, come la «negoziazione continua» tra il punto di vista della storica e quello della testimone.61 Emmanuel Betta e Enrica Capussotti, riflettendo sul tema della “memoria possessiva” da una prospettiva generazionale successiva, hanno parlato a tal proposito di un’«epica» oscillante tra storia e memoria.62 Il confronto è proseguito dunque tra differenti generazioni di attiviste, ma anche di studiose. È così che, tra i già citati progetti di storicizzazione avviati dalla SIS, nel 2005 si è tenuto il convegno Nuovi femminismi, 58. Paola Di Cori, Asincronie e discontinuità nella storia del femminismo, in Ead., Asincronie del femminismo. Scritti 1986-2011, Pisa, ETS, 2012, p. 35 59. Anna Rossi-Doria, Il femminismo degli anni Settanta, in Dare forma al silenzio, p. 305. 60. Cfr. Luisa Passerini, Postfazione, in Autoritratto di gruppo, Firenze, Giunti 1988. 61. Espressione di Francesca Socrate, Sessantotto. Due generazioni, Roma-Bari, Laterza, 2018, pp. XVI-XVII dove si legge: «Si è parlato e discusso di una memoria possessiva, di una presa di possesso cioè del ’68 da parte della memoria dei suoi protagonisti. Sono loro che prevalentemente fino ad oggi ne hanno fatto oggetto di storia, rendendo più difficile una sua storicizzazione, in nome della propria memoria e forse anche per un’urgenza autobiografica dettata dalla combinazione particolarmente felice dell’aver vissuto in prima persona quell’esperienza emozionante e dalla potente carica simbolica e identitaria, dall’averla vissuta nel tempo privilegiato della giovinezza e per di più in una congiuntura storica particolarmente fortunata, tutta dentro com’era all’«età dell’oro», come Eric Hobsbawm ha definito l’arco che va dalla fine della guerra alla crisi petrolifera. La questione è che condivido anch’io questa condizione […]. L’unica possibilità di affrontare la questione mi sembra quella di esserne io consapevole, e che ne sia consapevole chi mi legge». 62. Emmanuel Betta, Enrica Capussotti, «Il buono, il brutto, il cattivo»: l’epica dei movimenti tra storia e memoria, in «Genesis», III/1 (2004), pp. 113-123.

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nuove ricerche. Duplice l’intento delle organizzatrici: da un lato, riflettere sul femminismo “storico” «in un’ottica che non fosse più esclusivamente quella della memoria», ma espressione di un’esigenza politica e storiografica al contempo; dall’altro, includere la prospettiva di un pensiero che non si era fermato negli anni Settanta, che aveva sfidato l’eurocentrismo e che aveva seguito «percorsi, suggestioni, binari forse diversi, forse convergenti, ma tutti da esplorare».63 Nelle ricerche qui presentate, ci è parso di vedere i nuovi frutti di questo auspicato processo di esplorazione che, in modo continuo e collettivo, è stato capace di fare tesoro delle lenti e degli strumenti già a disposizione, ma anche di aprire nuove prospettive.

63. Altri femminismi. Corpi culture lavoro, a cura di Teresa Bertilotti, Cristina Galasso, Alessandra Gissi e Francesca Lagorio, Roma, Manifestolibri, 2006, p. 7. Il riferimento è a due numeri di «Genesis» che hanno adottato la prospettiva diacronica e transnazionale: Femminismi e culture. Oltre l’Europa, IV/2 (2005) e Femminismi senza frontiere, VII/2 (2009).

Reti, relazioni, interazioni

Marta Panighel La sorellanza è globale? La rappresentazione dell’Altra in «Effe» (1973-1982)

If the feminist movement is to realize its dream of becoming an intercultural, international movement, we will have to confront the ethnocentrism and racism within feminism on both the theoretical and the personal/practical level. Simons, Racism and feminism: a schism in the sisterhood, 1979

1. Una questione di sguardi L’avanzamento negli studi sulle migrazioni in ambito storico e sociologico1 ha ormai messo in discussione sia il carattere di “novità” delle migrazioni femminili, sia l’«assenza di ogni tipo di immigrazione e di multiculturalismo» nel nostro paese negli anni Settanta.2 Nonostante ciò, sembra ancora diffusa una sorta di assoluzione accordata al neofemminismo italiano quando si constata che non vi fu, in Italia, «nulla di simile a quello che negli Stati Uniti le femministe nere avevano, con molti scontri, insegnato alle bianche, e che le donne di classe popolare anche da noi ben

1. Si vedano Alessandra Gissi, Migrazioni femminili e neofemminismo: una prospettiva storica, in Separate in casa. Lavoratrici domestiche, femministe e sindacaliste: una mancata alleanza, a cura di Beatrice Busi, Roma, Ediesse, 2020, pp. 139-157; Pinar Selek, Frontières franco-italiennes: Criminalisation des femmes en mobilité, in «Policy Paper Note de recherche / Centre international de formation européenne», 72 (2018), pp. 1-4. 2. Anna Rossi-Doria, Ipotesi per una storia del neofemminismo italiano, in Ead., Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, Viella, 2007, p. 258.

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sapevano».3 Nella consapevolezza che gran parte delle osservazioni sui limiti del femminismo bianco, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, furono prodotte negli Stati Uniti, è noto anche che la produzione teorica del femminismo italiano fu attraversata da questa ondata.4 L’ipotesi di lavoro che ha mosso questa ricerca, pertanto, mette in dubbio la lettura comunemente accettata di un “naturale” ritardo del neofemminismo italiano sulle questioni che oggi definiremmo intersezionali, svelando invece i processi politici che lo generarono. Mentre varie sono le pubblicazioni dedicate all’«orientamento colonialista» dei femminismi dell’Ottocento e del primo Novecento,5 ancora poche ricerche storiche hanno indagato le implicazioni di quello che è stato definito razzismo strutturale (o sistemico) all’interno dei femminismi 3. Ibidem. Si veda anche Gissi, Migrazioni femminili e neofemminismo, pp. 153-154. 4. Tra gli altri si vedano: Combahee River Collective, A Black Feminist Statement, in This Brigde Called My Back. Writings by radical women of color, a cura di Anzaldua Gloria e Moraga Cherry, London, Persephone Press, 1981; bell hooks, Ain’t I a Woman, Boston, South End Press, 1981; e All the Women Are White, All the Blacks Are Men, But Some of Us Are Brave, a cura di Gloria Hull, Patricia Bell Scott e Barbara Smith, New York, Feminist Press, 1982. La prima edizione dell’articolo di Chandra T. Mohanty, Under Western Eyes (in «Boundary», 12/3, pp. 333-358) risale al 1984 e fa riferimento, nonostante un caso eclatante di lost in translation, al volume di Mariarosa Cutrufelli, Donna perché piangi? Imperialismo e condizione femminile nell’Africa nera, Milano, Mazzotta, 1976. Si veda Chandra T. Mohanty, Femminismo senza frontiere. Teorie, differenze, conflitti, Verona, ombrecorte, 2012 e, sull’equivoco generato dalla traduzione del titolo di Cutrufelli in inglese, Liliana Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano, in «Genesis», 2 (2011), pp. 33-35. 5. Mohanty, Femminismo senza frontiere, p. 58. Leila Ahmed ha definito «femminismo coloniale» l’impiego di discorsi e pratiche femministe «contro altre culture, al servizio del colonialismo»; Leila Ahmed, Women and Gender in Islam. Historical Roots of a Modern Debate, London, Yale University Press, 1992, p. 151. Tali pubblicazioni riguardano soprattutto il contesto anglofono e francofono: Antoinette M. Burton, The White Woman’s Burden: British Feminists and ‘The Indian Woman’, 1865-1915, in Western Women and Imperialism: Complicity and Resistance, a cura di Nupur Chaudhuri e Margaret Strobel, Bloomington, Indiana University Press, 1990, pp. 137-157; Kumari Jayawardena, The White Woman’s Other Burden: Western Women and South Asia during British Rule, New York, Routledge, 1995; Julia Clancy-Smith, Le regard colonial: Islam, genre et identités dans la fabrication de l’Algérie française, 1830-1962, in «Nouvelles Questions Féministes», 1 (2006), pp. 25-40; Felix Boggio Éwanjé-Épée e Stella Magliani-Belkacem, Les féministes blanches et l’empire, Paris, La fabrique, 2012. Rimangono invece ristrette le ricerche nel contesto italiano, tra cui ricordo Catia Papa, Sotto altri cieli. L’Oltremare nel movimento femminile italiano, Roma, Viella, 2009 e Anna Vanzan, La storia velata. Le donne dell’islam nell’immaginario italiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2006.

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degli anni Settanta.6 Grazie all’affermarsi di una concezione plurale dei femminismi, e nonostante gli scontri tuttora in corso, anche in Italia è stato scritto e tradotto molto su contesti e soggettività Altre.7 Tuttavia, sembra che lo sguardo adottato sia spesso quello della femminista occidentale sulla donna percepita e rappresentata come Altra. Resta pertanto ancora ampiamente da indagare, sia in ottica diacronica sia sincronica, il rapporto tra i femminismi bianchi/occidentali e quelli razzializzati/dei Sud globali a partire da posizionamenti situati.8 Francesca de Rosa, rileggendo bell hooks, ha ribadito infatti la necessità di «riflettere sulla relazione storica tra donne bianche e nere e [di] riconoscere il passato difficile che ancora oggi modella e influenza l’interazione contemporanea tra i due gruppi nell’immaginare possibili scambi dialogici».9 Questo saggio prende forma dalla necessità di contribuire a una storiografia ancora parziale sui rapporti tra i femminismi italiani e quelli dei Sud globali. Se i femminismi europei e statunitensi generarono una frattura epistemologica nel pensiero “occidentale”, non sempre riuscirono a smarcarsi da un inquadramento eurocentrato.10 A partire dal caso studio di un’analisi qualitativa condotta sulla rivista «Effe», questo testo traccia una 6. Si veda a questo titolo Françoise Vergès, Le ventre des femmes. Capitalisme, racialisation, féminisme, Paris, Albin Michel, 2017. 7. I testi da ricordare sono molti, per cui saranno qui elencate solo le riviste consultate per redigere questo saggio: «Genesis», 2 (2005), Femminismi e culture. Oltre l’Europa; «Zapruder», 13 (2007), Donne di Mondo. Percorsi transnazionali dei femminismi; «DWF», 3/3 (2008), Femminismi del mondo. A sud; «Genesis», 2 (2011), Attraversare i confini. 8. Sulla pratica del posizionamento si vedano Adrienne Rich, Notes toward a Politics of Location, in Blood, Bread, and Poetry, Ead., New York, W.W. Norton, 1986; Donna Haraway, Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, in «Feminist Studies», 14/3 (1988), pp. 575-599; The Feminist Standpoint Theory Reader, a cura di Sandra Harding, New York-London, Routledge, 2004; Mohanty, Femminismo senza frontiere. 9. Francesca De Rosa, Dai margini dei femminismi neri e della decolonialità. Rompere l’universale, praticare la libertà, in «Studi culturali», 1 (2021), p. 138. Si veda anche bell hooks e Maria Nadotti, Elogio del margine / Scrivere al buio, Napoli, Tamu, 2020. 10. Vincenza Perilli, «Sexe» et «race» dans les féminismes italiens. Jalons d’une généalogie, in «Les cahiers du CEDREF», 14 (2006), p. 123; Liliana Ellena, Elena Petricola, Femminismi di frontiera. Dagli anni Settanta a oggi, «Zapruder», 13 (2007), pp. 2-7; Liliana Ellena, “White Woman Listen!”. La linea del genere negli studi postcoloniali, in Gli studi postcoloniali: un’introduzione, a cura di Shaul Bassi e Andrea Sirotti, Firenze, Le Lettere, 2010, pp. 125-145; Anna Vanzan, Lo sguardo dell’Altra. Donne dell’islam e nuovi femminismi orientalisti, in «Altre modernità», 8/11 (2012), pp. 174-187.

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proposta di rilettura critica dei rapporti tra donne e femministe del Nord e del Sud globali nel contesto specifico del movimento femminista italiano degli anni Settanta e Ottanta,11 cercando di restituire l’eterogeneità della costruzione e della rappresentazione dell’alterità nei documenti analizzati. Inserendomi in un contesto di studi ancora poco strutturato in ambito italiano, ho deciso di privilegiare le definizioni di “Nord Globali” e “Sud Globali” per riferirmi ai contesti nazionali e sovranazionali in analisi. Tali definizioni, pur non superando la problematicità di quell’impostazione dicotomica a lungo criticata dagli studi postcoloniali e decoloniali, provano a veicolare la dimensione geopolitica e il rapporto storicamente stratificato – pertanto, né “naturale” né intrinseco – tra le aree a cui faccio riferimento.12 Con Chandra Talpade Mohanty assumo la transitorietà di questa scelta, in quanto la discussione terminologica su «un linguaggio analitico molto impreciso e inadeguato» è tuttora in corso.13 Questa ricerca si pone pertanto nel solco degli studi critici sulla “razza”, che hanno indagato – anche in Italia – la costruzione della bianchezza non tanto come “colore” ma in quanto «posizione sociale del gruppo dei dominanti nelle società strutturate sul razzismo e sull’esperienza del colonialismo».14 In questo senso, ritengo necessario rendere opaca la tra11. Nel corso del testo si eviterà la scansione per “ondate”, dal momento che già molte studiose ne hanno sottolineato le problematicità. Si veda Raffaella Baritono, Soggetti globali/soggetti transnazionali: il dibattito femminista dopo il 1985, in «Genesis», 2 (2009), pp. 191-192. 12. Si vedano a questo proposito Chandra Talpade Mohanty, Femminismo senza frontiere; Inderpal Grewal, Caren Kaplan, Identità globali. Per una teoria degli studi transnazionali sulla sessualità, in Femminismi queer postcoloniali. Critiche transnazionali all’omofobia, all’islmaofobia e all’omonazionalismo, a cura di Paola Bacchetta e Laura Fantone, Verona, ombrecorte, 2015, pp. 78-94; Southern feminisms, a cura di Celia Roberts e Raewyn Connell, numero speciale di «Feminist Theory», 17/2 (2016); Devaleena Das, What’s in a Term: Can Feminism Look beyond the Global North/Global South Geopolitical Paradigm?, in «M/C Journal», 20/6 (2017); Deirdre C. Byrne, Z’étoile Imma, Why ‘Southern Feminisms’?, in «Agenda», 33/3 (2019), pp. 2-7. 13. Mohanty, Femminismo senza frontiere, pp. 183 e ss. 14. Valeria Ribeiro Corossacz, Bianchezza e mascolinità in Brasile. Etnografia di un soggetto dominante, Milano-Udine, Mimesis, 2015, p. 13. Si vedano anche l’Introduzione di Gaia Giuliani a Tutti i colori del bianco. Prospettive teoriche e sguardi critici sulla “whiteness”, a cura di Ead., in «Studi culturali», 1 (2010), pp. 79-86 (Introduzione); Tatiana Petrovich Njegosh, Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia, in Parlare di razza. La lingua del colore tra Italia e Stati Uniti, a cura di Tatiana Petrovich Njegosh e Anna Scacchi, Verona, ombrecorte, 2012, pp. 13-45; Gaia Giuliani,

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sparenza15 del soggetto che guarda le “femministe altre”, quel «soggetto celato» che pretende «di non avere “determinazioni geo-politiche”» in nome della cosiddetta sorellanza globale.16 Sento pertanto di dover/poter dichiarare che questa ricerca è mossa dal desiderio17 – nato grazie all’attraversamento del movimento femminista e transfemminista a me contemporaneo – di andare più a fondo nelle questioni che oggi ci interrogano come femministe bianche e occidentali, indagando le sedimentazioni che il razzismo strutturale ha nelle nostre storie, sia private sia politiche.18 L’ipotesi di partenza19 muove, inoltre, dalla consapevolezza che «l’alterità non [segna] semplicemente lo spazio esterno ai confini dell’Europa, ma [risulta] insediata fin dall’inizio nei concetti e nelle categorie che articolano l’unità e l’omogeneità del soggetto politico femminista europeo».20 Come vedremo, le occasioni di incontro e di confronto fra femministe del Sud e del Nord globali (italiane incluse) non mancarono nel corso degli anni SettantaOttanta. Esse piuttosto furono delle occasioni mancate, come accadde anche in altri contesti:21 si pensi alla segregazione razziale che precluse l’ingresso in sala da pranzo delle delegate afroamericane al Congresso di Parigi del Cristina Lombardi-Diop, Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, FirenzeMilano, Le Monnier, 2013. 15. Antonia Anna Ferrante, Pelle queer maschere straight. Il regime di visibilità omonormativo oltre la televisione, Milano-Udine, Mimesis, 2019, pp. 42-49. 16. Gayatri Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza, Roma, Meltemi, 2004, p. 261. Sul concetto di sorellanza globale si veda Sisterhood is Global, a cura di Robin Morgan, New York, The Feminist Press, 1984. Sulle controversie rispetto alla definizione stessa di “globale” si veda Raffaella Baritono, Soggetti globali/soggetti transnazionali, pp. 200-201. 17. Nel 2017 lo slogan «Nos mueve el deseo» è stato usato dal collettivo argentino Ni Una Menos per lanciare lo sciopero femminista globale, come si può vedere nel video disponibile sulla pagina facebook del gruppo: https://www.facebook.com/watch/?v=597554307102422. Tutti i siti citati nell’articolo sono stati consultati l’ultima volta il 29 giugno 2023. Si veda inoltre Veronica Gago, La potenza femminista. O il desiderio di cambiare tutto, Alessandria, Capovolte, 2022. 18. Lea Melandri, Alfabeto d’origine. Memoria del corpo e scrittura di esperienza, Vicenza, Neri Pozza, 2017; Marta Panighel, Contro i confini, fuori dai margini, in «DWF», 3/131 (2021), pp. 57-63. 19. Sviluppata grazie a molte delle letture qui elencate, ma anche e soprattutto nelle assemblee, nelle autoformazioni e nelle piazze del movimento transfemminista globale Non Una di Meno (https://nonunadimeno.wordpress.com). 20. Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano, p. 19 21. Gabriella Rossetti, Il mondo in gabbia? Promesse, delusione e conflitti attorno alle conferenze ONU sulle donne, in «Genesis», 2 (2011), p. 169.

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1925;22 o alla critica al paradigma modernizzatore dello sviluppo portata avanti – alla conferenza su donne e sviluppo tenutasi presso il Wellesley College nel 1976 – dalle donne dei Sud globali, in quanto veicolo di «una forma sottile di imperialismo culturale».23 Gli incontri internazionali furono dunque momento di scontro non tanto (o non solo) tra soggettività diverse, ma anche e soprattutto tra visioni politiche contrapposte: se Fatima Mernissi e Mallica Vajarathon criticarono la conferenza di Wellesley in quanto «interamente pianificata e organizzata dalle donne americane e perché metteva le partecipanti del Terzo Mondo nella posizione del pubblico passivo»,24 Aili Mari Tripp, nel commentare la stessa conferenza, ha sostenuto che le donne del Sud non portarono solo una critica alle femministe del Nord, ma offrirono loro «visioni alternative» di femminismi plurali.25 Al tempo stesso, i grandi incontri internazionali rappresentano solo una parte di quanto si è mosso all’interno dei movimenti femministi: così come per arrivare a condensare le riflessioni collettive c’è bisogno di tempo e sedimentazione, allo stesso modo ritengo che la complessità quotidiana del femminismo non possa essere ridotta ai soli resoconti di alcune conferenze. Per questa ragione, immergersi negli scritti di una rivista composita come «Effe» – che negli anni è stata ricettacolo di vari frammenti di questa complessità – potrà servire a dare uno «schiaffo in faccia»26 a una visione lineare e pacificata della storia del femminismo italiano. 2. In bilico: «Effe» come archivio del femminismo diffuso Prodotta tra il 1973 e il 1982 nel contesto del femminismo romano ma con distribuzione nazionale, «Effe» affrontò vari temi in quel momento al 22. Baritono, Soggetti globali/soggetti transnazionali, p. 195. 23. Aili Mari Tripp, The Evolution of Transnational Feminisms. Consensus, Conflict, and New Dynamics, in Global Feminism. Transnational Women’s Activism, Organizing, and Human Rights, a cura di Myra Marx Ferree e Aili Mari Tripp, New York-London, New York University Press, 2006, p. 196. 24. Sabrina Marchetti, Le donne delle donne, in «DWF», 61-62 (2004), pp. 80-81. 25. Tripp, The Evolution of Transnational Feminisms, p. 103. 26. Luisa Passerini, Corpi e corpo collettivo. Rapporti internazionali del primo femminismo radicale italiano, in Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Roma, Viella, 2005, p. 182.

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centro del dibattito femminista, dall’aborto al divorzio, dal lavoro domestico ai consultori, dall’autocoscienza al lesbismo. Se le riviste sono una «fonte indispensabile per lo studio del femminismo»,27 «Effe» è stata definita a giusto titolo un «singolare esperimento»:28 a fronte dei numerosi bollettini, ciclostilati e periodici pubblicati a livello locale con continuità irregolare, «Effe» fu la prima rivista mensile pensata «per un pubblico nazionale e con grandi ambizioni anche in termini di diffusione e vendite».29 Nata come «settimanale di controinformazione al femminile»30 e trasformatasi poi in «mensile femminista autogestito»,31 «Effe» ebbe un editore barese, Dedalo, e una redazione romana con sede al Teatro La Maddalena.32 Tra il 1973 e il 1979 ebbe una periodicità mensile e una tiratura intorno alle 30.000 copie, distribuite in edicola su tutto il territorio nazionale. Crescendo e cambiando «insieme al movimento delle donne»,33 la parabola editoriale di «Effe» corrisponde in parte alla periodizzazione del femminismo degli anni Settanta proposta da Anna Rossi-Doria:34 i tentativi di cambiamento formale e gli appelli alla solidarietà delle lettrici per poter mantenere un’autonomia finanziaria non riuscirono, infatti, a traghettare la rivista al di là della crisi che lo stesso movimento femminista stava vivendo.35 Tra il 1980 e il 1981 il numero dei fascicoli pubblicati calò, come calò la tiratura, «ridotta a 6.000 copie, distribuite in modo non uniforme e vendute solo in alcune edicole»,36 fino alla chiusura definitiva dei battenti alla fine del 1982. Criticata da molte femministe che la considerarono «non una rivista del movimento ma sul movimento»,37 «Effe» rappresentò, sia per i temi trattati 27. Federica Paoli, Fantastiche. Periodici del femminismo romano nei primi anni Ottanta, in «Zapruder», 21 (2010), p. 27. 28. Paola Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei collettivi di quartiere, Bologna, Bononia University Press, 2015, p. 49. 29. Federica Paoli, La controinformazione femminista nelle pagine di «Effe», in «Genesis», 1-2 (2008), pp. 249-250. 30. Perché effe, in «Effe», 0 (1973). Gran parte degli articoli di «Effe» sono stati consultati nella versione digitalizzata sul sito della rivista, https://efferivistafemminista.it/. Per questa ragione in nota non vengono riportati i numeri di pagina. 31. Paoli, Fantastiche, p. 33. 32. Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta, pp. 50 e ss. 33. Paoli, La controinformazione femminista, p. 251. 34. Rossi-Doria, Dare forma al silenzio, p. 260. 35. Paoli, Fantastiche, p. 33. 36. Paoli, La controinformazione femminista, p. 254. 37. Ivi, p. 250.

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che per il linguaggio utilizzato, «l’instancabile tentativo di mediazione»38 tra dentro e fuori il movimento, tra i collettivi più radicali delle grandi città e l’isolamento delle donne di provincia. Riuscendo a «tenere insieme i fili di quanto avveniva sul territorio nazionale»,39 «Effe» anticipò le caratteristiche del cosiddetto «femminismo diffuso».40 Anche se risulta evidente che «Effe» non possa rappresentare in modo organico il movimento femminista tutto, ai fini di questa ricerca una scelta inizialmente “forzata”41 ha tuttavia avuto dei riscontri positivi: questo perché la longevità e la periodicità della rivista consentono di percorrere in maniera trasversale lo spirito del tempo, i temi che attraversarono la riflessione del femminismo italiano degli anni Settanta e Ottanta e i termini in cui se ne parlava. Allo stesso modo, se la metodologia storica si basa sull’incrocio di varie fonti, «Effe» si presenta come una rivista composita, attraversata da una grande varietà di materiali e punti di vista: articoli della redazione, traduzioni da giornali esteri, comunicati politici dei collettivi, lettere di singole. Certo, il punto di vista rimane limitato a quanto gravitò e si aggregò intorno a «Effe», ma nel lavoro di ridefinizione dell’archivio in chiave queer e transfemminista42 ritengo di poter considerare questa rivista 38. Paoli, Fantastiche, p. 32. 39. Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta, p. 53. 40. Anna Rita Calabrò, Laura Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso, Milano, FrancoAngeli, 2004, p. 8. 41. Con gli archivi e le biblioteche chiuse in base alle restrizioni fra il 2020 e l’inizio del 2021, ho potuto portare avanti lo spoglio che avevo in mente soltanto su «Effe» per due ragioni: perché era stata parzialmente digitalizzata nel dicembre 2015 (https://efferivistafemminista.it/), e dunque la consultazione di gran parte dei numeri poteva avvenire anche lavorando da casa; e perché esistono luoghi preziosi come la Libreria delle donne di Bologna, non semplice negozio di libri ma presidio femminista sul territorio. Le compagne che hanno dato vita alla Libreria nel 1994 e quelle che continuano a curarla, negli anni hanno costituito un piccolo archivio privato che, prima della riapertura al pubblico della Biblioteca Italiana delle Donne (10 febbraio 2021), è stato essenziale per visionare quei numeri di «Effe» non digitalizzati o digitalizzati solo in parte. 42. Queering Archives. Intimate tracing, a cura di Daniel Marshall, Kevin P. Murphy, Zeb Tortorici, numero speciale di «Radical History Review», 122 (2015); Sam Bourcier, Les politiques de l’archive vive, in «Revista Brasileira de Estudos da Homocultura», 3/11 (2020), pp. 7-21; Segnalo anche due conferenze, occasioni di discussione su un tema ancora poco indagato ma che sta ricevendo grande attenzione da parte di movimenti, centri di ricerca e associazioni transfemministe, queer e trans: CRAAAZI, Unsafewords. Per/ verso il valore queer (Bologna, 22-23 settembre 2018); ArchiviST*-Archivi Storia Trans, Archivi Divergenti. Storie fuori norma e pratica d’archivio (Bologna, 30 novembre 2021),

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un piccolo scrigno archivistico che permetterà di fornire una buona rappresentazione, ancorché parziale, dei dibattiti di quel periodo.43 In linea con l’assetto transnazionale che caratterizzò la presa di parola femminista fin dai suoi esordi,44 degli ottantaquattro numeri che compongono la rivista, quarantadue parlano di donne e femminismi non italiani. Al primo spoglio sono stati selezionati un centinaio di articoli, ma solo cinquantanove sono stati utilizzati per la redazione finale di questo saggio: inizialmente, infatti, ho isolato tutti gli articoli attraversati da storie e contributi di donne Nere,45 razzializzate46 e provenienti dai vari Sud, pensando di operare una scansione, e quindi un’analisi, per area geo-politica. Questa scelta avrebbe prodotto una suddivisione in gruppi che essenzialmente coincidevano con la suddivisione continentale (Sud America, Africa, Sud-est asiatico, Medio Oriente…). Tuttavia, ho ritenuto più interessante raggruppare i contenuti per aree tematiche, attraverso le quali far emergere con più coerenza le contraddizioni presenti nell’apparente dicotomia Nord-Sud. Gli articoli analizzati sono stati suddivisi in quattro gruppi, che corrispondono ai temi in esame nei prossimi paragrafi: le occasioni di incontro internazionali e la visione delle donne del cosiddetto “Terzo Mondo”; i femminismi Neri statunitensi e l’influenza che l’analogia sesso/“razza” ha prodotto; le donne e le femministe provenienti da paesi a maggioranza musulmana; il rapporto con le donne e le esperienze del Sud Italia. Un gruppo a parte avrebbe meritato l’analisi di copertine, fotografie e montaggi graregistrazione dell’evento disponibile online: https://mit-italia.it/archivi-divergenti-storiefuori-norma-e-pratica-d-archivio/ e @Divergenti Festival di Cinema Trans 2021. 43. Si veda a questo proposito Roberta Gandolfi, Teatro e danza su effe (1973-1982): la rivista come archivio del discorso femminista sulla corporeità, in «Itinera», 18 (2019), pp. 31-58. 44. Liliana Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano, p. 22; Raffaella Baritono, Soggetti globali/soggetti transnazionali, p. 201. 45. Il lessico per parlare di “razza” e razzismo nella lingua italiana è carente e spesso veicola il razzismo e la colonialità presenti nel contesto storico e sociale italiano. Tuttavia, un folto gruppo di attiviste e ricercatrici sta cercando di invertire questa tendenza. Sull’uso critico di “Nere” con la maiuscola si vedano Marie Moïse, Il femminismo nero, in Introduzione ai femminismi, a cura di Anna Curcio, Roma, DeriveApprodi, 2019, p. 27 e Mackda Ghebremariam Tesfau’, Aspettando Gloria, in bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica di libertà, Milano, Meltemi, 2020, p. 14. 46. Sulla produzione sociale della “razza” e sulla dimensione dinamica del termine “razzializzate”, si veda Colette Guillaumin, Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, a cura di Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz, Verona, ombrecorte, 2020, e in particolare l’introduzione ad opera delle curatrici.

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fici che strutturano la rivista allo stesso livello delle parti testuali: infatti, la «potenza comunicativa dell’immagine», curata da grafiche e fotografe professioniste, fu usata dalla redazione per costruire una comunicazione efficace.47 Per mantenere l’unitarietà del discorso, tuttavia, ho deciso di accorpare l’analisi delle eventuali immagini all’articolo in cui compaiono, e dunque al gruppo tematico di riferimento. 3. Ascoltare l’Altra che parla Malgrado le accuse rivolte ad «Effe» di voler dettare la propria linea al movimento,48 allo spoglio degli articoli si nota una grande pluralità di posizioni. Per quanto riguarda le conferenze internazionali, ad esempio, si incontrano visioni e immaginari diversi: alcune videro nella decisione dell’Onu di proclamare il 1975 Anno internazionale della Donna un «riconoscimento», anche se tardivo,49 «il segno della larghezza e della risonanza» che il femminismo assunse nel mondo;50 altre constatarono l’inutilità di questi grandi eventi, o peggio, temettero l’appropriazione «delle tesi femministe per restituirle, stravolte e manipolate, al grosso pubblico».51 Proprio perché quella delle Nazioni Unite apparve a molte come «una messa in scena», alcune commentatrici invitarono a «inghiottire la bile» e a partecipare alle conferenze per evitare che «formulazioni antifemministe si insinuino nelle dichiarazioni di pie intenzioni dell’Onu e là si cristallizzino e diventino inamovibili».52 Se Raffaella Baritono ha individuato il 1985, e dunque la conferenza Onu di Nairobi, come punto di svolta nel movimento femminista, grazie al47. Marta Severalli, Arte e femminismo a Roma negli anni Settanta, Roma, Biblink, 2013. Si veda anche Laura Iamurri, Agnese De Donato, il movimento femminista e la rivista ‘effe’, in Arte fuori dall’arte. Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta, a cura di Cristina Casero, Elena Di Raddo e Francesca Gallo, Milano, Postmedia, 2017, p. 140. 48. Paoli, La controinformazione femminista, p. 256. 49. Germaine Greer, 1975: anno della donna? Dall’Onu solo chiacchiere, in «Effe», 5 (1975). L’articolo è ripreso e tradotto dal New York Times. 50. Daniela Colombo, 1975: anno della donna? Un alibi programmato, in «Effe», 2 (1975). 51. Grazia Francescato, 1975: anno della donna? il femminismo governativo, in «Effe», 8 (1975). 52. Germaine Greer, Dall’Onu solo chiacchiere. Sulla consapevolezza «che l’ONU non libera le donne», si veda Maria Clara Donato, Introduzione, in «Genesis», 2 (2005), p. 15.

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l’«emergere dei movimenti delle donne del sud del mondo come protagonisti e interlocutori critici […] al punto da rideterminare l’agenda internazionale stessa»,53 dalle pagine di «Effe» tale presenza non sembra tanto emergere, quanto consolidarsi fin dal decennio precedente. Nella cronaca a firma di Grazia Francescato della conferenza del Messico 1975, infatti, la partecipazione «dei paesi del Terzo Mondo» viene descritta come «rafforzata», dopo che «già si era andata imponendo»54 alla conferenza mondiale della popolazione, tenutasi l’anno precedente a Bucarest.55 Numerose furono le delegate e le donne dei «movimenti di liberazione» dei Sud globali presenti già a Città del Messico, sia nelle delegazioni ufficiali sia nel «forum della società civile».56 Per protestare contro la divisione tra “Assemblea dei delegati”, «a cui spetta redigere e approvare il programma che dovrà essere implementato nei dieci anni successivi», e il “forum”, escluso «dalla stesura dei documenti programmatici», alla fine della conferenza alcune donne organizzarono «una marcia verso il Ministero degli Esteri per protestare contro i documenti ratificati dall’Assemblea»:57 tra queste, le femministe messicane, critiche verso l’impostazione di «stampa e organizzatori che davano ampio spazio alle ‘leaders’» occidentali, insieme alle «cinque o sei» europee presenti fecero irruzione alla conferenza,58 leggendo un proprio documento.59 Se le femministe dei Sud globali furono dunque presenti alle conferenze internazionali, con posizioni anche molto radicali, è interessante rivolgere l’attenzione allo sguardo che su di loro posarono le femministe occidentali. Si veda ad esempio questo articolo di Julianne Travers: 53. Baritono, Soggetti globali/soggetti transnazionali, p. 192. 54. Francescato, Il femminismo governativo. 55. Grazia Francescato, Demografia e femminismo. Non basta dire alt alle nascite, in «Effe», 9 (1974). A Bucarest come a Città del Messico emersero già molte questioni centrali, tra cui la «lotta all’imperialismo, al neocolonialismo, allo strapotere delle multinazionali», la critica all’«imperialismo culturale» del discorso femminista occidentale, e l’importanza di non imporre una visione universale del concetto di «liberazione». Si veda Rossetti, Il mondo in gabbia?, p. 170. 56. Bianca Pomeranzi, A che punto siamo tra Nazioni Unite, femminismo transnazionale e cooperazione. Una lettura dell’agire delle donne nel mondo globalizzato, in «DWF», 3-4 (2008), p. 17. 57. Silvia Salvatici, “Sounds like an interesting conference”. La conferenza di Città del Messico e il movimento internazionale delle donne, in «Ricerche di storia politica», 2 (2009), p. 242. 58. Francescato, Il femminismo governativo. 59. 1975: anno della donna? Documento latino americano, in «Effe», 8 (1975).

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donne di ogni razza e colore, di ogni età, piccole ed alte, vestite a volte con tessuti così colorati e belli da rivaleggiare con gli uccelli della foresta tropicale. Un gruppo di donne nere, altissime con le spalle larghe ed i capelli pettinati in tante treccioline lunghe fermate con delle perline, ti toglievano il fiato con la loro bellezza e ti portavano indietro nel tempo fino alle leggendarie amazzoni del sedicesimo secolo nel regno di Benin sulla costa occidentale dell’Africa.60

Oltre a un orientalismo primitivista, che richiama le cronache di viaggio delle esploratrici coloniali,61 questo breve passaggio veicola anche l’idea dell’Africa come spazio astorico, fuori dal tempo. Questa narrazione era del resto in linea con la letteratura e la storiografia coeve: la messa in discussione dei paradigmi storiografici eurocentrici era a quel tempo appannaggio di lavori ancora pionieristici alla ricerca di nuove categorie analitiche adatte alla comprensione di realtà extraeuropee.62 Il panorama storiografico tendeva infatti a leggere in chiave esotizzante le culture africane, a raccontare l’Africa come una alterità senza storia e a minimizzare il colonialismo italiano. Anche nelle parole di Daniela Colombo, che pure si mostra consapevole della necessità di «spogliar[si] di alcune categorie di giudizio»,63 risuona la visione monolitica della donna del “Terzo mondo”: senza distinzione di status, classe sociale, “razza”, religione e «pratiche materiali quotidiane»,64 le donne «di questi paesi» risultano appiattite sulla stessa condizione di inferiorità e sottosviluppo. I bisogni e i desideri delle donne di questi paesi sono molto diversi da quelli delle donne europee. Dobbiamo ricordarci che la vita di queste donne è scandita dalle stagioni: la loro giornata non ha mai sosta. Non esiste tempo libero. Coltivare i campi, allevare il bestiame, raccogliere legna, andare a prendere acqua, trasformare i prodotti agricoli, cucinare, allevare i figli. Per queste donne un miglioramento nelle condizioni di vita è rappresentato 60. Julienne Travers, Un bellissimo frutto magico, in «Effe», 9-10 (1980). 61. Vanzan, La storia velata, pp. 104 e ss.; Papa, Sotto altri cieli, pp. 157 e ss. 62. Si pensi ad esempio ai lavori di Angelo Del Boca, pioniere dello studio del colonialismo italiano che per primo ha decostruito il mito di un colonialismo italiano mite; e al lavoro di Enrica Pischel sulla Cina contemporanea. Su quest’ultima, cfr. Maria Pia Casalena, Le italiane e la storia. Un percorso di genere nella cultura contemporanea, Milano, Mondadori, 2016, pp. 149-152. 63. Daniela Colombo, Oltre Nairobi, in «Effe», 7-8 (1982). 64. Mohanty, Femminismo senza frontiere, pp. 53-54.

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da un pozzo d’acqua più vicino a casa, da una stufa al kerosene o da una macchina macina grano.65

Proprio il paradigma dello sviluppo, che da alcune venne messo fortemente in discussione,66 da altre fu invece riportato come necessario per «la piena integrazione delle donne» nei processi di sviluppo regionali e nella promessa di emancipazione che questi avrebbero comportato.67 Allo stesso tempo, fu incentivata la partecipazione delle donne “occidentali” a questo processo, attraverso le loro associazioni che avrebbero potuto essere usate come canali per i fondi dell’Onu destinati «ai bisogni […] della parte più povera delle popolazioni rurali».68 Come ha notato Baritono, se le femministe europee e occidentali alle volte non colsero «le implicazioni in termini di riproposizioni di politiche neocoloniali» dei paradigmi “donne & sviluppo”, «in alcuni casi ne sono state partecipi» a tutti gli effetti, riproponendo l’atteggiamento del femminismo imperialista.69 Un esempio di questo atteggiamento nei contesti delle conferenze internazionali è quello delle mutilazioni genitali femminili (mgf). Il tema delle mgf è affrontato nelle pagine della rivista soprattutto negli articoli dedicati ai paesi africani: su otto contributi, quattro trattano la pratica delle mgf, e tre di questi la menzionano esplicitamente nel titolo.70 In alcuni casi, l’occasione è fornita da alcuni eventi, come l’uscita del libro della sociologa senegalese Awa Thiam; la celebrazione della giornata internazionale contro le mutilazioni; o il resoconto di un incontro a Parigi sul tema. Più in generale, possono essere considerati testimonianza di un diffuso approccio internazionalista alle questioni femminili. In questi articoli la modalità di rappresentazione è quella del racconto di seconda mano o, quando viene fatto dalle donne che hanno esperienza diretta delle mgf, esso viene accompagnato da immagini che ricalcano stereotipi primitivisti: è questo il caso delle foto che ritraggono 65. Colombo, Oltre Nairobi. 66. Francescato, Il femminismo governativo. 67. Elena Marinucci, L’Onu e le donne, in «Effe», 9-10 (1980) . 68. Colombo, Oltre Nairobi. Colombo fu tra le fondatrici dell’Aidos, l’Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo. 69. Baritono, Soggetti globali/soggetti transnazionali, pp. 196-197. 70. Testimonianza di una pratica atroce: l’excisione, in «Effe», 3-4 (1976); Daniela Colombo, Essere donna in Africa, in «Effe», 9 (1978); Fran P. Hosken, Mutilazioni sessuali delle donne africane, in «Effe», 10-11 (1978); Contro le mutilazioni genitali, in «Effe», 1011-12 (1979).

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alcuni frammenti di quotidianità di donne “africane” di classe bassa e rurale che richiamano le fotografie coloniali del “buon selvaggio” e che accompagnano le parole dell’antropologa senegalese Awa Thiam.71 Al contrario, nel presentare alle sue lettrici i resoconti di un contesto di confronto e di scambio come quello degli incontri internazionali, «Effe» riporta direttamente le posizioni delle donne dei paesi interessati dal fenomeno. Queste definirono più volte come inopportuno, maternalista ed eurocentrico il modo in cui le donne occidentali affrontarono o cercarono di gestire la questione.72 Inoltre, alla seconda Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla donna tenutasi nel luglio 1980 a Copenaghen, alcune “donne africane” chiesero esplicitamente «di non parlare troppo della “circoncisione”» non perché fossero a favore, ma «perché gli uomini al potere nei Paesi in questione potrebbero irrigidirsi»,73 rendendo ancora più difficile una lotta autodeterminata dall’interno. Nonostante queste posizioni e richieste esplicite, le femministe bianche/occidentali presenti alla conferenza da una parte sottolinearono la loro contrarietà verso una pratica definita “barbara”, dall’altra perpetuarono quella visione infantilizzante delle “donne del Terzo mondo”, passive, marginali, incapaci di prendersi cura di loro stesse.74 Infine, è interessante notare che in molti dei testi di «Effe» qui presi in considerazione appare una tendenza diffusa a definire “femministe” solo le “occidentali”, indicando invece quelle dei Sud globali semplicemente come “donne”: anche se fino ai tempi più recenti il soggetto politico del femminismo è stato appunto la donna, o meglio le donne, sembra che in questa 71. Daniela Colombo, Essere donna in africa. Si vedano anche il disegno di una ragazzina Nera nuda e sanguinante dopo una presunta mutilazione, circondata da maschere e scudi “tribali” che accompagna l’articolo Testimonianza di una pratica atroce e la foto, oggi impubblicabile, che ritrae in primo piano i genitali mutilati di una bambina in Fran P. Hosken, Mutilazioni sessuali delle donne africane. Sul ruolo della visualità nel perpetrare razzismo e colonialità si vedano Il colore della nazione, a cura di Gaia Giuliani, Firenze, Mondadori Education, 2015 e Visualità e (anti)razzismo, a cura di InteRGRace, Padova, Padova University Press, 2018. 72. Si vedano Daniela Colombo, Una mostruosa violenza sessuale, in «Effe», 5-6 (1980); Julienne Travers, Un bellissimo frutto magico; La circoncisione femminile, in «Effe», VIII/9-10 (1980). In quest’ultimo viene anche riportata una dichiarazione in merito dell’AAWORD, associazione di donne africane per la ricerca e lo sviluppo, creatasi dopo la già citata Conferenza di Wellesley del 1976. 73. Travers, Un bellissimo frutto magico. 74. Colombo, Una mostruosa violenza sessuale.

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distinzione appaia una forse inconsapevole differenziazione tra soggetti con agency e soggetti che ne sono privi. Altre volte capita invece che le femministe europee o statunitensi vengano indicate con nome e cognome, soprattutto quelle più note, mentre per le altre vengano usate espressioni più generiche, come “alcune donne del Terzo Mondo”. Non specificare gli stati o almeno le regioni di provenienza di queste donne e femministe sembra dunque alimentare l’idea dei Sud globali come spazi al di fuori della Storia. 4. «[Ne*re] e… femministe»75 Il numero zero di «Effe» si apre con la prima di una serie di inchieste sul femminismo nel mondo, dedicata agli Stati Uniti, «dove per prima esplose negli anni ’60 la contestazione femminile».76 La consapevolezza del debito verso il femminismo statunitense si accompagna a quella dello stretto rapporto tra movimento antirazzista e movimento anti-sessista oltreoceano, le cui radici risultano essere strettamente intrecciate.77 Come rilevato da Vincenza Perilli, l’analogia tra oppressione di “sesso” e “razza” è costitutiva del movimento femminista statunitense e, a partire dagli anni Settanta, essa fu impiegata in modo sistematico anche in Italia e in Europa. Già allora, tuttavia, tale analogia è stata apertamente criticata come limitata e problematica, sia dal punto di vista teorico sia politico, tra le altre cose per l’invisibilizzazione 75. Colombo, Black women’s lib. [Ne*re] e… femministe, in «Effe», 2 (1973). Nelle citazioni da «Effe», non riproporrò l’utilizzo della “parola con la enne”. Se l’impiego diffuso che ne venne fatto negli anni Settanta e Ottanta non può essere equiparato all’utilizzo odierno, ritengo inaccettabile il suo uso in un testo contemporaneo, anche per iscritto o per fini di accuratezza documentaria. Per questa ragione sono intervenuta, anche nelle citazioni, con degli asterischi, inserendo la parola fra parentesi quadre a segnalare il mio intervento. Si vedano a questo proposito Annalisa Frisina, Razzismi contemporanei. Le prospettive della sociologia, Roma, Carocci, 2020, p. 30; Marie Moïse e Angelica Pesarini, Nota di traduzione, in Angela Davis, Blues e femminismo nero. Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, Roma, Alegre, 2022, p. 19. 76. Adele Cambria, Alma Sabatini, Daniela Colombo, Lara Foletti, Inchiesta sul femminismo nel mondo. Donne non si nasce, si diventa, in «Effe», 0 (1973). Sui rapporti delle femministe italiane con i femminismi statunitensi si vedano i saggi di Tommaso Rebora e di Elisa Bellè in questo volume. 77. «È molto importante sottolineare che [a metà ’800] le donne si muovevano […] nel solco della lotta per l’abolizione della schiavitù cui erano assoggettati i [ne*ri] d’America», si afferma nell’inchiesta. Cambria, Sabatini, Colombo, Foletti, Inchiesta sul femminismo nel mondo. Si veda anche Colombo, Black women’s lib.

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delle donne “non-bianche”.78 «Effe» tematizza precocemente «le specificità delle posizioni delle donne afroamericane», concedendo ampio spazio nelle sue pagine alla relazione tra diversi femminismi statunitensi, alle posizioni critiche delle teoriche e attiviste Nere verso il cosiddetto femminismo bianco, alle esperienze fondative del femminismo Nero.79 Luisa Passerini ha affermato che sebbene le statunitensi «avessero posto il problema del corpo colorato […] questo tema non era stato recepito in Italia».80 Tra gli esempi, la studiosa ha riportato la traduzione della risposta delle donne Nere all’appello del «Black Unity Party» di Peeksill (NY), che le invitava a evitare l’uso degli anticoncezionali in quanto «forma di genocidio commessa dall’uomo bianco contro il popolo nero»:81 nonostante la traduzione del testo, apparsa sia su «Effe» che sull’antologia Donna è bello, secondo Passerini «mancava nel movimento italiano il contesto di significanza» per comprenderlo.82 Daniela Colombo, ad esempio, commentò nel 1973 in questo modo la Lettera ai «fratelli neri» e la creazione della «National Black Feminist Organization»: fino a ieri le donne [ne*re], per timore di rompere la solidarietà [ne*ra] che ha consentito tante vittorie in questi ultimi vent’anni, esitavano ad impegnarsi nei movimenti femministi. […] L’importanza di questo fatto nuovo, [sta] soprattutto nel fatto che si è avuta così la riprova del successo del movimento femminista nella sua lotta per superare la falsa immagine […] che si tratti di un movimento sostanzialmente borghese, diretto soprattutto da donne dei ceti privilegiati.83

Come ha sottolineato Ellena, sembra che la presa di posizione delle donne Nere, più che per il valore politico in sé, venga letta come una legittimazione dell’universalità della lotta femminista, mentre rende «invisibili la disparità e la differente posizione delle donne nere rispetto alle donne bianche».84 78. Vincenza Perilli, L’analogia imperfetta. Sessismo, razzismo e femminismi tra Italia, Francia e Stati uniti, in «Zapruder», 13 (2007), p. 11 e pp. 17-18. 79. Laura Iamurri, Agnese De Donato, p. 141. Risaltano due articoli in cui viene presentata la figura e l’esperienza di Sojourner Truth: Keala Jewell e Maricla Tagliaferri, Femminismo u.s.a, un tentativo di analisi, in «Effe», 5 (1976); Sojourner Truth, in «Effe», 7-8 (1976). 80. Passerini, Corpi e corpo collettivo, p. 192. 81. Patricia Haden, Sue Rudolph, Joyce Hoyt, Rita van Lew, Catherine Hoyt, Patricia Robinson, Lettera ai «fratelli neri», in «Effe», 2 (1973). 82. Passerini, Corpi e corpo collettivo, p. 192. 83. Colombo, Black women womens’ lib. 84. Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano, pp. 26-27.

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Nello stesso numero, appare la prima versione italiana di A Black Woman Speaks,85 performance in versi della drammaturga afroamericana Beah Richards la quale sostiene che l’oppressione delle donne Nere è agita in parte anche dalle donne bianche. La traduzione pubblicata da «Effe» è corredata dalla foto di Agnese De Donato a una performance di Carla Fracci, in cui la ballerina è alle prese con «una corda che sembra imprigionarla», in un gesto di liberazione collettivo quanto didascalico.86 A una lettura comparata dell’originale e della traduzione, tuttavia, emerge che il testo di Beah Richards fu tradotto solo parzialmente: se probabilmente la scelta fu dettata, almeno in parte, da ragioni editoriali (l’originale è piuttosto lungo), si può avanzare l’ipotesi che le motivazioni fossero in parte anche politiche. Mancano infatti i riferimenti alla “white supremacy”,87 alla responsabilità delle donne bianche nel perpetrare l’istituzione schiavista,88 alle critiche verso il successivo coinvolgimento nella lotta antirazzista.89 Se Passerini ha fatto notare – rispetto alla traduzione italiana delle Notes from the Third Year da cui vennero esclusi i materiali sul Black Feminism – la messa in atto di «un’operazione di whitening [della] visibilità delle donne africane-americane nel movimento degli Stati Uniti»,90 in questo caso l’operazione sembra diversa: le donne Nere sono visibili, ma le loro parole sono espunte ed edulcorate, in un tentativo di rendere la radicalità di partenza non solo comprensibile nel contesto italiano, ma soprattutto rassicurante. La situazione cambia negli anni Ottanta:91 nell’ultimo numero di «Effe» appare un articolo a firma di Rosolina Ciarduillo che riporta in modo diffuso le posizioni di varie donne Nere, le quali – si legge – «or85. Beah Richards, Io [ne*ra] ti parlo, bianca, in «Effe», 2 (1973). 86. Iamurri, Agnese De Donato, p. 141. 87. «The white supremacist, fixed/your minds with poisonous thought:/“white skin is supreme”./And therewith bought that monstrous change/exiling you to things». Beah E. Richards, A Black Woman Speaks and Other Poems, Inner City Press, New York, 1974. 88. «And you, women seeing/spoke no protest/but cuddled down in your pink slavery/ and thought somehow my wasted blood/confirmed your superiority./[…] Nor could you see that the platinum bracelets/which graced your wrists were chains/binding you fast to economic slavery». Ibidem. 89. «And you did not fight,/but set your minds fast on my slavery/the better to endure your own». Ibidem. 90. Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano, p. 26. 91. Secondo Ellena, anche a seguito della pubblicazione «sulle opposte sponde dell’Atlantico di due testi destinati a produrre un terremoto all’interno della teoria femminista»: la raccolta This Bridge called my Back. Writing by Radical Women of Color a cura di Cherrie Moraga e Glora Anzaldua nel 1981 e l’articolo di Hazel Carby White Woman

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mai premono da svariate posizioni per riformulare e ridefinire l’immagine complessiva del movimento femminista americano».92 L’autrice cita interi passaggi dei testi di Barbara Smith, Doris Davenport, Shulamith Firestone, Michele Wallace, Angela Davis e Alice Walker. L’analisi che ne esce risuona profondamente con le sfide del femminismo contemporaneo: il progressivo disimpegno delle nere è passato inosservato e qualche volta condannato come manifestazione di scarsa sensibilità ai problemi del femminismo. Solo la sincerità di poche bianche ha permesso di rendere pubbliche e motivate le ragioni di questa fuga, accettando così di rimettere in discussione il proprio status di privilegiate e la mancanza di coerenza delle bianche nel riassegnare alle nere il compito di “baby-sitter” mentre loro erano in “servizio” per la causa del femminismo.93

Quello che sembra mancare, tuttavia, è una riflessione sull’applicabilità di tali teorie nel contesto italiano ed europeo, che invece rimangono confinate ai luoghi da cui provengono.94 Come vedremo nell’ultimo paragrafo, lo spostamento di prospettiva richiesto per rendere produttive le critiche del femminismo Nero in Italia è stato rallentato dalla «doppia rimozione del colonialismo e delle lacerazioni introdotte nel processo di modernizzazione degli anni ’60 dalla diaspora migratoria italiana».95 5. Suffraggette arabe e orientalismo Tra le varie alterità presenti nella trattazione dei femminismi transnazionali da parte di «Effe», spicca la rappresentazione del cosiddetto mondo arabo-musulmano: a parte un articolo dedicato alla figura di Gheddafi su uno dei primissimi numeri,96 «Effe» affronta le tematiche legate ai paesi a maggioranza musulmana soprattutto in corrispondenza di eventi geopolitici di rilievo nelle regioni nord-africana e mediorientale. Anche rispetto Listen! Black Feminism and the Boundaries of Sisterhood nel 1982. Liliana Ellena, “White Woman Listen!”, p. 128. 92. Rosolina Ciarduillo, Inchiesta Usa. Donna nera te ne vai, in «Effe», 9-10 (1982). 93. Ibidem. 94. Edward Said, Travelling Theory, in Id., The World, The Text, and The Critique, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1983. 95. Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano, p. 27. 96. Laurence Deonna, Un antifemminista al mese. Gheddafi: se quattro mogli vi sembran poche, in «Effe», I/1 (1973).

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a questo tema, la complessità della rivista è tale per cui nei vari numeri coesistono impostazioni molto diverse: da una parte, critiche strutturate all’eurocentrismo, come quando – commentando «la violenza nel mondo, i massacri, la crudeltà, i soprusi» accaduti a livello globale – si fa notare che tali episodi «hanno più o meno rilievo […] quanto più una crisi è importante per l’Occidente. […] Una visione assolutamente occidentocentrica»;97 dall’altra, riproduzioni di dispositivi tipici dell’Orientalismo, fenomeno inizialmente riferito a costruzioni discorsive del periodo coloniale, ma che già nel 1981 Edward Said ha rivelato essere in continuità con la narrazione mediatica sul mondo islamico a lui contemporanea.98 Nell’articolo su Gheddafi, ad esempio, si incontra una lunga carrellata di immagini stereotipate dell’Oriente, descritto come distesa di «sabbia che cammelli addobbati falciavano con passo lento», dominata un tempo da «sceicchi» e oggi da un «manipolo di fanatici».99 L’appiattimento della “cultura” orientale a pochi dettagli ricorrenti, unito a una visione monolitica della religione islamica, appare diffuso negli articoli della rivista e particolarmente rilevante per quanto riguarda la visione delle donne musulmane le quali, secondo Daniela Colombo, avrebbero «da sempre accettato la loro condizione di schiavitù, di sottomissione, di rinuncia, di passività».100 La dimensione di genere dell’Orientalismo, evidenziata per la prima volta da Meyda Yeğenoğlu nel 1998, è infatti costitutiva del fenomeno, in quanto «l’immagine omogenea delle donne musulmane oppresse è stata fondamentale per i progetti imperialisti, che l’hanno usata come simbolo e prova tangibile dell’arretratezza delle società “Altre” in generale, e della barbarie degli uomini “Altri” in particolare».101 «L’oppressione della donna», affermò in un’intervista la regista egiziana Laila Abouf-Saif, sarebbe 97. Lucia Borgia, Stragi, in «Effe», X/9-10 (1982). 98. Si vedano Edward Said, Orientalismo. L’’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli, 2015 (ed. or. 1978); Id., Covering Islam: How the Media and the Experts Determine How We See the Rest of the World, New York, Random House, 1981. 99. Deonna, Un antifemminista al mese. 100. Daniela Colombo, Tcnoulour boulouk! (Siamo in tante), in «Effe», VII/3-4 (1979). 101. Maryam Khalid, Gendering Orientalism: Gender, sexuality and race in post-9/11 global politics, in «Critical Race and Whiteness Studies», 10/1 (2014), p. 9. Sulle evoluzioni del neo-Orientalismo di genere si vedano Meyda Yeğenoğlu, Colonial Fantasies: Towards a Feminist Reading of Orientalism, Cambridge, Cambridge University Press, 1998; Jamila M.H. Mascat, Neo-Orientalismo. Il ritorno di Shahrazad, in Femministe a parole. Grovigli da districare, a cura di Sabrina Marchetti, Jamila Mascat e Vincenza Perilli, Roma, Ediesse, 2012, pp. 189-195; Sara R. Farris, Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle

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stata «sancita dalla religione e da costumi quasi immutati da secoli»; a questa oppressione le donne egiziane/musulmane nemmeno si sarebbero rivoltate in quanto «serenamente rassegnate alla [propria] condizione».102 Come ha notato Biancamaria Scarcia Amoretti, la dualità Occidente/Oriente e la «superiorità del primo sul secondo», nonché la «lettura superficiale e soprattutto astorica di alcuni fenomeni esteriori – il velo, la poligamia», sono legate al pregiudizio sulla «diversità della posizione della donna nelle due culture: la nostra che garantirebbe prestigio e dignità, l’altra primitiva e barbara».103 L’«approccio etnografico»104 e dicotomico riservato alle donne arabe e musulmane anche da parte del movimento femminista non caratterizza tutti i contributi della rivista, che è attraversata da diverse anime e sensibilità. Commentando la rivoluzione iraniana del 1979, Maria Grazia Mostra affermava: La religione islamica riconosce la donna come soggetto religioso, le garantisce uno status preciso. […] la donna non è strumento di piacere per l’uomo, è libera di esprimere la sua sessualità senza che niente di peccaminoso venga riconosciuto in ciò. […] È certo che rispetto alla religione cattolica l’Islamismo può essere riconosciuto come meno violento e meno innaturale nei confronti della donna, questo soprattutto se si considera la sessualità, vissuta nel Cristianesimo come peccato o finalizzata solo alla procreazione.105

Anche Daniela Colombo, riportando un’ordinanza del governo iraniano degli ayatollah che obbliga a indossare il chador nello spazio pubblico e nei luoghi di lavoro, propose un parallelo tra islam e cattolicesimo nell’afdonne, Roma, Alegre, 2019; Marta Panighel, Unveiling (post)colonial République: Gendered Islamophobia in France, in «About Gender», 11/21 (2022), pp. 142-172. 102. Clelia Pallotta, Una feluca sul Nilo: intervista Laila Abouf-Saif, in «Effe», 4 (1981). 103. Biancamaria Scarcia Amoretti, Donna e Islam, in «DWF», 3 (1976), p. 55. La rappresentazione dei Sud come spazi fuori dalla Storia, ovvero dalla linearità evolutiva modernizzante che avrebbe caratterizzato i Nord, è una retorica frequente e funzionale a individuare questi luoghi, insieme alle culture, religioni e persone che li abitano, come intrinsecamente arretrati e primitivi. Si vedano in questo senso i riferimenti all’assenza dalla storia dell’Africa nel paragrafo Ascoltare l’Altra che parla. In ottica orientalista e coloniale, tale arretratezza serviva a giustificare la colonizzazione come atto benevolo di esportazione della civiltà. 104. Monica Luongo, Femminismi del mondo. A Sud. Introduzione, in «DWF», 3-4 (2008), pp. 10-11. 105. Mostra, Le donne iraniane e l’islam, in «Effe», 1 (1979).

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fermare che «i capelli [in Iran] sono tabù, come nelle chiese cattoliche».106 Al di là della legittimità di tali paralleli, essi sembrano efficaci in quanto tendono a restituire una generale normatività delle religioni, senza esotizzare o culturalizzare pratiche percepite come oppressive. Più spesso, tuttavia, prevale un’immagine dell’islam e dei paesi a maggioranza musulmana come arretrati e premoderni, così come arretrate e premoderne sono le donne musulmane, che vivono «una vita fuori dal tempo».107 Dall’Afghanistan all’Egitto, passando per l’Iran, esse «non hanno una loro ‘storia’» o hanno appena cominciato a scriverla,108 non hanno mai dato vita a un «movimento delle donne»,109 e solo agli albori degli anni Ottanta sfidano «per la prima volta […] il potere religioso e politico».110 Come ha affermato Mohanty «il fatto che le donne siano assenti dalla Storia […] non significa che non fossero/siano attori sociali e storici significativi»:111 le tesi sopra riportate, vengono infatti spesso smentite negli stessi articoli, o in altri numeri della rivista. Uno specchietto di approfondimento su «un episodio isolato di “femminismo”», ad esempio, racconta della «suffraggetta persiana» Qorrat al-’Ayn, che nell’Ottocento condusse una lotta per liberalizzare i costumi, parificare i sessi e ottenere libertà politica e religiosa.112 Ancora, nell’articolo Liberarsi con la guerriglia viene riportato un comunicato di RAWA in cui l’associazione sprona le donne afghane a scendere in piazza riprendendo l’esempio di Malalai di Maiwand, donna afghana che lottò contro il colonialismo inglese nel diciannovesimo secolo: «Malalai ha fatto del suo “tchaderi” coperto di sangue una bandiera della libertà. Come i nostri compagni, suoi fratelli, ella ha lottato contro gli inglesi. E li ha obbligati a lasciare l’Afghanistan».113 L’agency delle donne musulmane emerge non solo dagli articoli di «Effe»,114 ma anche da riflessioni coeve: Scarcia Amoretti dalle pagine di 106. Colombo, Tcnoulour boulouk! 107. Daniela Colombo, Liberarsi con la guerriglia, in «Effe», 4 (1982). 108. Ibidem. 109. Pallotta, Una feluca sul Nilo. 110. Colombo, Tcnoulour boulouk! 111. Mohanty, Femminismo senza frontiere, p. 125. 112. Una suffraggetta persiana, in «Effe», 3-4 (1979). 113. Colombo, Liberarsi con la guerriglia. RAWA è un’associazione rivoluzionaria di donne afghane nata negli anni Settanta e tuttora in attività. 114. Oltre agli esempi qui riportati, Laurence Deonna in Un antifemminista al mese afferma che Gheddafi è stato «Ricevuto dall’Unione delle Donne Egiziane, il più antico gruppo femminista del mondo arabo (fondato nel 1920)».

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«DWF» segnala le pratiche di resistenza delle donne algerine durante la guerra di liberazione dal colonialismo francese e il caso dell’Egitto con il suo femminismo di «avanguardia», sebbene borghese ed elitario.115 Le conquiste delle donne appartenenti all’élite sociale – insieme alla pratica, diffusa in Turchia, Medioriente e nord Africa del cosiddetto “femminismo di stato” – vengono più volte menzionate negli articoli, tuttavia senza che le autrici arrivino a mettere in discussione l’immagine della donna vittima.116 Anzi, spesso le interlocutrici con cui si dialoga sono apertamente definite «occidentalizzate», «istruite», appartenenti all’élite, ed è proprio per questo che si può conversare con loro, ascoltarle, comprenderle.117 Come nel caso delle mutilazioni genitali femminili, tuttavia, anche se le donne dei Sud globali parlano, non sempre vengono ascoltate: se l’«ossessione occidentale per il velo»118 fa sì che questo venga descritto in termini di imposizione e sottomissione, non viene letto l’uso mimetico che ne viene fatto (anche da chi non ha scelto volontariamente di portarlo) e che già nel 1959 Frantz Fanon descrisse rispetto al caso algerino.119 Ad esempio, Keshwar Kamal, leader di RAWA in clandestinità, confessa in un’intervista che «di ritorno nel suo paese rimetterà il tchaderi, non per seguire la tradizione, ma per sfuggire ai controlli polizieschi, per nascondere armi e messaggi da portare ai combattenti».120 115. Scarcia Amoretti, Donna e Islam, pp. 64-65. L’articolo è peraltro citato in Mostra, Le donne iraniane e l’islam. 116. Sul “femminismo di stato” si vedano Sonia Dayan-Herzbrun, Femmes et politique au Moyen-Orient, Paris, L’Harmattan, 2005; Salvatici, “Sounds like an interesting conference”, pp. 249-250. Per Salih la «condizione femminile nell’islam» appare appiattita anche perché si «tende a ignorare il contesto politico, sociale ed economico all’interno del quale le donne musulmane vivono le loro vite, un contesto nel quale l’islam non è che una delle variabili». Ruba Salih, Musulmane rivelate. Donne, islam, modernità, Roma, Carocci, 2008, p. 12. 117. Silvia Costantini e Maria Grazia Mostra, Iran. Intervista a Shanin, in «Effe», 1 (1979). 118. Yeğenoğlu, Colonial Fantasies. 119. Frantz Fanon, Scritti politici. L’anno V della rivoluzione algerina, Roma, DeriveApprodi, 2007. Sull’uso mimetico del velo si veda Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001 (ed. or. 1994). Sul mancato ascolto delle donne “subalterne” si veda Gayatri Chakravorty Spivak, Can the Subaltern Speak?, in Marxism and the Interpretation of Culture, a cura di Cary Nelson e Lawrence Grossberg, Basingstoke, Macmillan Education, 1988. 120. Colombo, Liberarsi con la guerriglia.

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6. L’alterità interna Il proposito di questa ricerca, come esposto nell’introduzione, è quello di mettere in discussione l’(auto)assoluzione comunemente accordata al neofemminismo italiano rispetto al ritardo nell’integrare nel proprio percorso le osservazioni e le critiche mosse al femminismo bianco dalle donne e dalle femministe dei Sud globali. Se fino ad ora ho cercato di argomentare tale ipotesi mettendo al centro gli scambi, fisici e teorici, con i femminismi globali per come questi venivano riportati da «Effe», rivolgerò ora lo sguardo ai rapporti tra femministe del centro-nord e del sud Italia. La critica femminista e transfemminista rispetto alla questione meridionale e al colonialismo interno è piuttosto recente e ancora oggi circoscritta.121 Eppure già nel 2012 Paola Di Cori ha notato che, a fronte della «scarsità di studi e riflessioni esistenti sul femminismo italiano», le poche ricerche storiche a quel tempo disponibili riguardavano soprattutto alcuni casi locali specifici (Milano e Torino), «con l’aggiunta di alcuni studi su Firenze, Padova, Roma, Napoli, Catania»: come se il movimento femminista degli anni Settanta fosse stato «un fenomeno relativo solo a qualche centinaio di donne concentrate in massima parte nelle città del centro-nord [e non un] movimento di massa che ha coinvolto milioni di donne da un capo all’altro del Paese».122 I processi di razzializzazione, alterizzazione e marginalizzazione interni al contesto italiano sono ancora poco studiati, e spesso confinati agli studi 121. Si vedano a questo proposito: Carla Panico, Dove comincia il Sud? Generazione, questione meridionale ed empatie ribelli al tempo della mobilità europea, in «Euronomade», 27 luglio 2016, http://www.euronomade.info/?p=7614; Alessia Acquistapace, Elisa A.G. Arfini, Barbara De Vivo, Antonia Anna Ferrante, Goffredo Polizzi, Tempo di essere incivili. Una riflessione terrona sull’omonazionalismo in Italia al tempo dell’austerity, in Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, a cura di Federico Zappino, Verona, ombrecorte, 2016, pp. 61-73; Ferrante, Pelle queer maschere straight, pp. 42-49; Benedetta Pintus, Il ritorno delle brùscias: femminismo decoloniale in Sardegna, in «menelique magazine», 5 (2021), pp. 90-95; Giusi Palomba, Teniamo che fare: femminismo e meridione, in «menelique magazine», 5 (2021), pp. 96-101; Giada Bonu, Le parole per dirlo. Uno sguardo femminista e de-coloniale sulla Sardegna, in Filosofia de Logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna, a cura di Sebastiano Ghisu e Alessandro Mongili, Milano, Meltemi, 2021, pp. 71-86; Antonia Anna Ferrante, Cosa può un compost. Fare con le ecologie femministe e queer, Bologna, Luca Sossella editore, 2022, pp. 11-15. 122. Paola Di Cori, Asincronie del femminismo. Scritti 1986-2011, Pisa, Edizioni ETS, 2012, pp. 34-35.

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sulle migrazioni interne.123 Aver interrogato solo marginalmente la formazione e la sedimentazione dei «pregiudizi antimeridionali» nello studio della costruzione dell’italianità – insieme al «colonialismo del XIX e XX secolo, [al] l’antigiudaismo cattolico, il razzismo (i razzismi) del fascismo, i pregiudizi […] antizingari» – ha permesso, tra le altre cose, il diffondersi dell’idea che il razzismo, nel nostro paese, sia nato «a un tratto quando arrivano in Italia gli immigrati».124 La scelta di inserire una riflessione sul sud Italia all’interno di un saggio che interroga lo sguardo dei femminismi italiani sulle donne e femministe dei Sud globali va pertanto nella direzione di sciogliere queste complessità, nel tentativo di indagare alla radice le forme di razzismo strutturale che si sono innestate anche all’interno del femminismo. Senza voler «equiparare forme diverse di razzializzazione di pratiche e soggetti diversi, che annullino i privilegi della bianchezza e della cittadinanza»,125 la rassegna di «Effe» fa emergere uno sguardo che potremmo definire orientalista, che percorre la penisola dal centro-nord al sud.126 La complessità dei contenuti presenti su «Effe», come già evidenziato in questo saggio, permette di portare alla luce questo sguardo e, insieme, di decostruirlo, grazie ai contributi che le femministe meridionali inviarono alla rivista. Come ha evidenziato Liliana Ellena, l’analogia tra «l’esperienza delle donne nel sud dell’Italia e la condizione delle donne nel sud del mondo»,127 123. Nuto Revelli, L’anello forte. La donna: storie di vita contadina, con la postfazione di Anna Rossi-Doria, Torino, Einaudi, 1998; Anna Badino, Tutte a casa? Donne tra migrazione e lavoro nella Torino degli anni Sessanta, Roma, Viella, 2008; Stefano Gallo, Senza attraversare le frontiere. Le migrazioni interne dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2019; Gissi, Migrazioni femminili e neofemminismo; Silvana Patriarca, Il colore della Repubblica. Figli della guerra e razzismo nell’Italia postfascista, Torino, Einaudi, 2021. 124. Perilli, L’analogia imperfetta, p. 24. Sulle stratificazioni del razzismo antimeridionale, si vedano Vincenza Perilli, Meridionali razza maledetta, in La Straniera. Informazioni, sito-bibliografie e ragionamenti su razzismo e sessismo, a cura di Chiara Bonfiglioli, Lidia Cirillo, Laura Corradi, Barbara De Vivo, Sara R. Farris, Vincenza Perilli, Roma, Alegre, 2009, pp. 41-42 e Carmine Conelli, Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno, Napoli, Tamu, 2022. 125. Ferrante, Pelle queer maschere straight, p. 47. 126. Sarebbe interessante indagare come questo processo si sia dato anche nei rapporti tra le grandi città e le aree periferiche del paese, così come nei rapporti tra centro e borgate all’interno delle grandi città. Si veda in questo volume il caso di Roma nelle lotte per la salute, nel saggio di Anastasia Barone. 127. Liliana Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano, p. 32. Ellena fa qui riferimento al volume di Maria Rosa Cutrufelli, Disoccupata con onore. Lavoro e

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«tra sottosviluppo meridionale e sottosviluppo del “Terzo mondo”»,128 era frequente a metà degli anni Settanta. Nel numero che uscì prima della Conferenza mondiale della popolazione tenutasi nel marzo 1974 a Bucarest, Grazia Francescato firma un lungo pezzo che tratta del rapporto tra demografia e condizioni socio-economiche in vari contesti globali. L’articolo si apre raccontando l’esperienza di «Ramsammy Allameen, donna hindu di 40 anni con 9 figli», seguita, qualche riga dopo, da quella di «Maria C., una raccoglitrice di olive a Nardò, nel leccese» di 38 anni e con otto figli: «anche per lei, come per Ramsammy, aver tanti figli è un corollario della sua condizione di sottosviluppo», chiosa Francescato.129 Che le italiane fossero viste come «una specie di donne del Terzo mondo» anche fuori dai confini della penisola fu esplicitato da Mariarosa Dalla Costa, la quale raccontò che per le donne afro-americane «la forte presenza italiana [alle conferenze internazionali] gli aveva reso concepibile di entrare a farvi parte perché le italiane avevano poco potere […]. Se si fosse trattato solo di americane o inglesi bianche, non sarebbero entrate».130 Il fatto che si facesse riferimento indistintamente alle italiane del nord e del sud apre alla questione della costruzione dell’identità nazionale: se all’interno della nazione stessa, come ha affermato Angelica Pesarini, l’italianità fu associata strutturalmente alla bianchezza fin dall’epoca coloniale, ciò non fu altrettanto vero per la percezione sugli italiani fuori dalla penisola.131 Trattazione a parte meriterebbe il caso di Elvira Banotti, che insieme a Carla Lonzi e Carla Accardi firmò il manifesto di Rivolta femminile ma che fino ai tempi più recenti è stata oggetto di una potente color erasure, e come ha notato Ellena, la sua nascita «ad Asmara fu al più considerata qualcosa che dava un tocco di esotismo alla stravaganza delle sue performance pubbliche».132 condizione della donna, nel quale l’autrice traccia un esplicito parallelo tra «una situazione tipica del nostro meridione» e il caso della Rhodesia e del Sud Africa. Ivi, p. 31. 128. Ivi, p. 38. 129. Francescato, Demografia e femminismo. 130. Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano, pp. 29-30. 131. Angelica Pesarini, “Blood Is Thicker than Water”. The Materialization of the Racial Body in Fascist East Africa, in «Zapruder World», 4 (2017). Si veda anche Giuliani, Lombardi-Diop, Bianco e nero. 132. Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano, p. 24 e p. 30. Si vedano su questo i commenti che vengono fatti a Banotti dalla stessa Carla Lonzi e da una donna incontrata a un «congresso socialista», Elvira Banotti, Una ragazza speciale. In appendice Manifesto di rivolta femminile, Aprilia, Ortica, 2011, pp. 20-21 e p. 24.

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Le conseguenze di tale prospettiva sulla rappresentazione delle donne del Sud Italia negli articoli di redazione si dà nella forma di un nemmeno troppo celato mix tra primitivismo e orientalismo. Il Sud Italia sarebbe pertanto intrinsecamente arretrato, luogo di «condizioni di vita inammissibili, problemi di prevenzione mai risolti, mancanza di informazione dovuta a strutture sanitarie inesistenti e spesso fatiscenti».133 La subalternità di una terra degradata si riflette nella condizione femminile: «per la donna del sud le radici dell’oppressione e dello sfruttamento che subisce sono più profondamente radicate di quelle del nord», a causa del «permanere al sud dei modelli di riferimento più arretrati, di schemi culturali più repressivi».134 È interessante notare, inoltre, come qualcosa di simile si riproducesse anche nella narrazione delle donne che vivevano ai margini delle città, nelle periferie e, data la redazione romana, in modo particolare nelle borgate della Capitale.135 Le «compagne» del CRAC136 invitate dal Collettivo donne di Amantea a un’assemblea su consultori e salute delle donne, confessarono di essere scese in Calabria con la «paura di trovarci in una situazione troppo arretrata in cui i modi di comunicazione risultassero difficili se non impossibili».137 L’ottica evoluzionista che costella l’articolo, tra le constatazioni di trovarsi in un luogo dove persistono «forme di repressione molto superate per noi» e in cui si avverte la «piena necessità storica […] di andare avanti», è corroborata anche dalla foto che lo accompagna: una contadina che, seppur in penombra, appare vestita con degli abiti tradizionali, mentre percorre una strada sterrata tra due buoi, probabilmente mentre si recano o tornano da un campo da arare.138 Alla fine dell’esperienza – che non si svolge nel mezzo del nulla storico, ma tra donne che facevano già parte di un collettivo femminista, e che si presentarono alle romane riportando le riflessioni svolte a partire da un’autoinchiesta su lavoro produttivo e di cura, e sulla 133. Silvia Costantini, La soluzione era semplice, in «Effe», 3-4 (1979). 134. Elena Vitas, Donne del sud: basta col velo nero, in «Effe», 9 (1977). È interessante notare che il “velo” del titolo appare come metonimia dell’oppressione vissuta dalle donne del sud, ma nel testo non vi sono riferimenti al suo uso contestuale. 135. Sopravvivere in borgata, in «Effe», 1 (1973); Grazia Francescato, Breda: una promessa fallita, in «Effe», 10-11 (1974), p. 15. 136. Coordinamento romano per la liberalizzazione dell’aborto e della contraccezione. Sull’esperienza del CRAC e dei consultori romani si veda il saggio di Anastasia Barone in questo volume. 137. Silvia Costantini, Sandra Sassaroli, Incontro del crac con le donne del sud, in «Effe», 3-4 (1976). 138. Ibidem.

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salute delle donne – Silvia Costantini e Sandra Sassaroli riconoscono di trovarsi di fronte a una «profonda discrepanza fra […] la condizione delle donne [del sud], e la forza politica e ideale che esprimono, la chiarezza degli obiettivi e la capacità di gestire le lotte».139 Nel racconto di un’«esperienza estiva di un gruppo di studentesse romane in una fabbrica della costa pugliese» emerge invece la lettura strutturale della condizione del meridione, «una riserva coloniale delle grandi ditte del Nord» da cui si estrae «il prodotto a costi bassissimi di mercato e di forza-lavoro, [per] lavorarlo in modo finito al Nord».140 Tale ribaltamento di prospettiva emerge anche osservando le posizioni che le donne e femministe del Sud Italia esprimono prendendo parola sulle pagine di «Effe», soprattutto nella sezione che accoglie le lettere delle lettrici e nella rubrica Documenti femministi (più tardi Rubrica aperta), uno spazio aperto «ai documenti di tutti i gruppi del movimento femminista anche quando le tesi sostenute non riflettono l’opinione della redazione».141 Da questi documenti emerge un’immagine delle donne del sud Italia molto diversa: dallo Spazio Donne di Palermo alle Nemesiache di Napoli, dal gruppo femminista di Gela alle singole posizioni di lettrici che scrivono alla redazione, le donne del Sud non solo si riuniscono facendo fronte alle difficoltà, ma elaborano anche delle posizioni politiche raffinate che mettono in discussione la visione essenzializzata di un Sud arretrato per natura, svelando invece le logiche padronali che producono tale arretratezza:142 Mentre nel Nord il capitalismo impone un certo modello di famiglia ideale, (padre, madre e al massimo due figli) nel Sud, in una realtà di sottosviluppo e di miseria, esso continua a non ritenere opportuna la limitazione della riproduzione proprio perché assoggetta in tal modo il meridione all’asservimento rispetto al Nord, rendendo funzionale la famiglia tradizionale con prole nu139. Ibidem. Ringrazio Rosa Tavella (storica militante femminista e comunista, tuttora attiva dentro il nodo lametino di Non Una Di Meno) con cui mi sono confrontata rispetto alla redazione di questo paragrafo e che ha riconosciuto in una delle donne di Amantea citate nell’articolo, Mariolina, una militante di Democrazia proletaria, confermando pertanto l’idea che la provincia cosentina non fosse poi uno spazio così fuori dal tempo e dalla storia. 140. Norma Sardella, Lavorare stanca, in «Effe», 7-8 (1982). 141. Documenti femministi: le femministe di Sicilia, in «Effe», 2 (1974). 142. Lina Noto, Risposta di una femminista siciliana a Leonardo Sciascia, in «Effe», II/2 (1974). Sullo sfruttamento del Sud Italia giustificato in termini di una “naturale” arretratezza, si veda Carmine Conelli, Razza, colonialità e nazione. Il progetto coloniale italiano tra Mezzogiorno e Africa, in Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli italiani, a cura di Valeria Deplano e Alessandro Pes, Milano, Mimesis, 2014, pp. 162-163.

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merosa e di conseguenza il perpetuarsi di una serie di valori che si rivoltano in primo luogo contro la donna meridionale.143

Inoltre esse prendono parola contro la violenza sulle donne e contro lo sfruttamento del lavoro produttivo e riproduttivo, ribadendo la propria «lotta contro il sistema patriarcale-capitalista»; organizzano eventi e rassegne con ospiti internazionali; prendono parola sui dibattiti politici interni al paese e agli eventi femministi globali.144 Oria Gargano, in un articolo di taglio storico che si propone di strappare «un briciolo di verità […] alla polvere degli archivi», contribuisce infine a decostruire l’immagine appiattita e immobile del Sud e delle donne che lo popolano, ricostruendo le Storie di brigantesse, drude e manutengole. Considerate «una terrificante incarnazione del male»145 tanto da non venir quasi nominate nella storia del brigantaggio, queste donne ora camuffate da briganti, ora da pastori, ora nel loro abito di donna andavano e venivano inosservate, portando notizie precise e sicure sui movimenti delle nostre truppe, o rifornimenti di munizioni, che celavano sotto le ampie sottane, ai compagni. […] Il brigantaggio femminile fu un fenomeno psicologicamente autonomo, collaterale e distinto rispetto al brigantaggio maschile. Una prima ribellione femminista allo stato di soggezione atavico e tradizionale della donna.146

7. Riflessioni conclusive In questo saggio ho cercato di mettere a critica il rapporto del neofemminismo italiano con le donne e le femministe dei Sud globali, attraverso una rassegna della rivista «Effe». Nel condurre questa analisi, sono partita 143. Le femministe di Sicilia. 144. Si vedano Lina, Lisetta, Maria, Marisa, Melania, Rosabianca, Rosamaria, Sara, Silvana, Tania, La famiglia che uccide, lettera da Palermo, in «Effe», V/9 (1977); Pallotta, Una feluca sul Nilo; Le Nemesiache, Opinione sul voto, in «Effe», VI/7-8 (1976); Le Nemesiache, Tribunale internazionale delle donne contro i crimini degli uomini, in «Effe», IV/5 (1976). 145. Oria Gargano, Storie di brigantesse, drude e manutengole, in «Effe», X/3 (1982). 146. Ibidem. Rispetto all’impiego delle fotografie di briganti e brigantesse, presenti anche nell’articolo di Oria Gargano, si veda il parallelo proposto da Conelli tra rappresentazioni inferiorizzanti dei briganti e dei soggetti colonizzati, Carmine Conelli, Razza, colonialità e nazione, pp. 164-165.

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dalla considerazione che il femminismo, come le società, non sia uno spazio monolitico o a compartimenti stagni, ma che anzi esso si è costituito fin dalle origini come movimento transnazionale. A prescindere dalla consistenza della presenza di donne razzializzate/ migranti nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, il dialogo con i femminismi globali, il confronto con le donne e femministe “Altre” fu infatti sempre presente e particolarmente intenso. La rassegna di «Effe» evidenzia che esso non avvenne solo sul fronte accademico, ma anche grazie alle traduzioni militanti, all’incontro fisico tra attiviste alle conferenze transnazionali, agli scambi epistolari e alla circolazione su scala nazionale, per mezzo della rivista, di documenti politici elaborati a livello locale. Queste evidenze invitano a riconsiderare quanto viene comunemente riconosciuto come un “naturale” ritardo del femminismo italiano sulle questioni collegate ai processi sociali di costruzione della “razza”, riposizionando tale ritardo come frutto di una più generale «difficoltà nel leggere le dinamiche complesse legate alla costruzione della razza in Italia, alla storica razzializzazione del Meridione e al processo attraverso il quale gli italiani sono razzializzati e razzializzanti».147 Ma l’analisi degli articoli di «Effe» spinge ad andare anche oltre: ritengo infatti che dai testi analizzati emerga non tanto un’improvvisa (o imprevista) apparizione delle femministe dei Sud globali sulla scena del femminismo transnazionale, quanto una rottura radicale tra le posizioni delle femministe del Nord e del Sud, fino a quel momento non presa in considerazione. Avanzo quindi l’ipotesi che le femministe dei Sud furono invisibilizzate non perché effettivamente assenti o poco presenti, ma perché portatrici di una posizione politica sempre meno pacificata, sempre più in conflitto con la lettura universalista del femminismo occidentale.148 Il percorso fatto fin qui, inoltre, porta all’apertura di nuove piste di ricerca. Le aperte contraddizioni rilevate fra gli articoli, apparsi nello stesso numero o a distanza di anni, tra autrici diverse, tra i commenti delle singole o dei gruppi che inviavano le proprie lettere o comunicati, non fanno della rivista una testimone incoerente, quanto piuttosto la rendono un piccolo scrigno archivistico, uno spazio composito e plurale, attraversato da varie voci e materiali che permettono di adottare uno sguardo d’insieme su quanto si muoveva nel movimento femminista italiano tra gli anni Settanta e Ottanta. 147. Acquistapace, Arfini, De Vivo, Ferrante, Polizzi, Tempo di essere incivili, p. 63. 148. Pomeranzi, A che punto siamo tra Nazioni Unite, pp. 18-19; Salvatici, “Sounds like an interesting conference”, p. 242 e p. 245.

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Tuttavia, per una maggiore comprensione di questo scenario complesso, sarebbe senz’altro proficua un’analisi comparata di più riviste, al fine di delineare una tendenza che pur emerge dalle pagine di «Effe», soprattutto per quanto riguarda temi ancora poco indagati dalla storiografia come il rapporto tra nord e sud Italia e la presenza delle donne italiane nei movimenti di solidarietà anticoloniale, a partire da quella delle militanti socialiste e comuniste dell’Unione donne italiane, associazione con una lunga tradizione internazionalista. Riviste come «Noi Donne», pubblicata a partire dal 1944 dall’UDI, ma anche la fugace esperienza di «Quarto Mondo», rivista del Fronte italiano di liberazione femminile, potrebbero essere utili per sondare un archivio sotterraneo, poco indagato ma esistito, di profonde connessioni tra donne e femministe italiane e lotte di liberazione coloniale. In questo senso sarebbe necessario anche un generale approfondimento dell’impatto che la stretta relazione tra Nuova sinistra e terzomondismo ebbe sulle culture politiche del femminismo, oltre che del ruolo specifico delle militanti extraparlamentari inviate a Sud nel “prendersi cura” della questione meridionale.149 Interrogarci oggi sui rapporti tra il neofemminismo italiano e gli Altri femminismi non serve a giudicare con sguardo anacronistico o antistorico le lotte degli anni Settanta e Ottanta: serve piuttosto a intraprendere uno sforzo collettivo per decolonizzare la Storia, seppur ancora in parte non scritta, del femminismo italiano, abbandonando le lenti universaliste e coloniali per posizionare il proprio sguardo e per farci carico della teoria critica e delle pratiche delle donne e femministe dei Sud globali.150 Per adottare questa postura serve innanzitutto superare il «paradigma innocenza/colpa»151 che, per utilizzare le parole di Audre Lorde, permane come un «inutile meccanismo di difesa» che impedisce di «trasformare il sentimento di colpa in senso di responsabilità».152 149. Andrea Brazzoduro, “Se un giorno tornasse quell’ora”. La nuova sinistra tra eredità antifascista e terzomondismo, in «Italia contemporanea», 296 (2021), pp. 255-275; Conelli, Il rovescio della nazione. Ringrazio le curatrici del volume, lɘ reviewer anonimɘ e Deborah Sannia della Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna per avermi esortato a fare questa riflessione. 150. Rachele Borghi, Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo, Milano, Meltemi, 2020. 151. Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano, p. 38. 152. Erika Bernacchi, Femminismo interculturale. Una sfida possibile?, Roma, Aracne editrice, 2018, p. 37.

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1. Introduzione Lo sviluppo globale dei movimenti di protesta degli anni Sessanta e Settanta favorì la nascita di reti transnazionali nella Nuova sinistra, che interessarono anche l’Italia.1 Recentemente una discreta attenzione storiografica è stata data alle nuove forme di internazionalismo, mediate soprattutto dalle lotte anticoloniali e dal cosiddetto terzomondismo, che giocarono un ruolo di primo piano nella formazione dell’immaginario e delle pratiche militanti.2 Le suggestioni ideologiche provenienti dai paesi a capitalismo avanzato, in particolare dagli Stati Uniti, rappresentano invece un aspet1. Lucia Bonfreschi, Frank Georgi, La transnazionalizzazione di reti e culture politiche negli anni Settanta. Introduzione, in «Ventunesimo Secolo», 46 (2020), pp. 5-10; Maud Anne Bracke, James Mark, Between Decolonization and the Cold War: Transnational Activism and Its Limits in Europe, 1950s-90s, in «Journal of Contemporary History», 50 (2015), pp. 403-417; Martin Klimke, The Other Alliance: Student Protest in West Germany and the United States in the Global Sixties, Princeton, Princeton University Press, 2011. In questo saggio ci si riferirà alla Nuova sinistra italiana come a un complesso eterogeneo di riflessioni teoriche, influenze culturali e gruppi politici organizzati che animarono gli ambienti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta e Settanta. Questo insieme di esperienze spaziava da riviste come «Quaderni piacentini» e «Quindici» ai gruppi operaisti riuniti intorno a «Quaderni rossi» e «classe operaia», fino a comprendere l’esperienza anomala del PSIUP e dei gruppi della sinistra extraparlamentare. Un importante contributo sulla definizione di Nuova sinistra italiana è contenuto in: Marica Tolomelli, L’Italia dei movimenti: politica e società nella prima Repubblica, Roma, Carocci, 2015, versione epub. 2. Cfr. Andrea Brazzoduro, “Se un giorno tornasse quell’ora”. La nuova sinistra tra eredità antifascista e terzomondismo, in «Italia Contemporanea», 296 (2021), pp. 255-275; Tullio Ottolini, Dal soutien alla cooperazione. Il terzomondismo in Italia fra il Centro di Documentazione «Frantz Fanon» e il Movimento Liberazione e Sviluppo, tesi di dottorato,

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to molto noto ma poco approfondito. Il contesto nordamericano è stato analizzato in relazione allo sdoganamento dei consumi di massa e delle culture giovanili nei primi anni Sessanta, o per quanto riguarda lo sviluppo dei movimenti per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam negli anni successivi.3 Una certa attenzione è poi stata riservata al sentimento “antiamericanista” storicamente presente nella sinistra italiana ed europea, ma distintivo anche dei nuovi movimenti di protesta.4 Una ricostruzione dei rapporti tra la New Left americana e la Nuova sinistra italiana, invece, risulta ancora parziale.5 Si tratta di esperienze articolate ed eterogenee, che presero forma negli anni Cinquanta grazie ai contatti tra intellettuali fuoriusciti dai partiti comunisti e socialisti, e si rafforzarono nel corso del decennio successivo. Intorno agli anni Settanta si spostarono da un piano divulgativo e intellettuale per assumere la forma di uno scambio di pratiche militanti, mutuate in primo luogo dai conflitti operai e studenteschi, dalle lotte degli African American e, infine, dai movimenti di liberazione delle donne. Queste ultime connessioni, che la storica Luisa Passerini ha definito «il primo rapporto fondativo del femminismo italiano»,6 ebbero una diffusione comune a molte esperienze nel mondo. Prendendo in prestito la Università di Bologna, 2018; The Third World in the Global 1960s, a cura di Samantha Christiansen e Zachary A. Scarlett, New York, Berghahn Books, 2013. 3. Cfr. Bruno Cartosio, I lunghi anni Sessanta: movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti, Milano, Feltrinelli, 2012; Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America: con un’antologia di materiali e documenti, Roma, Editori riuniti, 1988. 4. Marica Tolomelli, Dall’anticolonialismo all’anti-imperialismo yankee nei movimenti terzomondisti di fine anni Sessanta, in «Storicamente», 12 (2016), pp. 1-33; Ermanno Taviani, L’anti-americanismo nella sinistra italiana al tempo del Vietnam, in «Annali della facoltà di Scienze della formazione», 6, 0 (2011), pp. 165-185; L’antiamericanismo in Italia e in Europa nel secondo dopoguerra, a cura di Pietro Craveri e Gaetano Quagliariello, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004. 5. Si veda in particolare: Nicola Pizzolato, Challenging Global Capitalism: Labor Migration, Radical Struggle, and Urban Change in Detroit and Turin, New York, Palgrave Macmillan, 2013 e l’introduzione a Harry Cleaver, Reading capital politically, Edimburgh-Leeds, AK press, 2000, pp. 23-94. Alcuni spunti di ricerca sono presenti anche in: Il Sessantotto: gli Stati Uniti e l’Italia, a cura di Pier Paolo Poggio, in «Studi bresciani», 19 (2009). 6. Luisa Passerini, Corpi e corpo collettivo. Rapporti internazionali del primo femminismo radicale italiano, in Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Anna Scattigno, Teresa Bertilotti, Roma, Viella, 2005, p. 184.

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definizione del femminismo come una travelling theory,7 è quindi possibile mostrare come lo sviluppo e la circolazione di reti transnazionali abbia influenzato le riflessioni, le pratiche e l’organizzazione dei primi gruppi femministi in Italia. Esistono però alcune importanti differenze di contesto, relative allo sviluppo asimmetrico dei movimenti di protesta nei due paesi. Innanzitutto, negli Stati Uniti l’agenda politica femminista irruppe nei movimenti sul finire degli anni Sessanta. Qui il Women’s Liberation Movement si pose in antagonismo con le gerarchie maschiliste e patriarcali della Nuova sinistra, emergendo come risposta al sessismo delle organizzazioni principali.8 Al contempo, il pensiero femminista americano si contraddistinse per la nascita di numerosi gruppi e correnti, che differivano sia per l’elaborazione politica sia per il posizionamento culturale e identitario.9 L’impatto dei femminismi sui movimenti di protesta conobbe il suo apice nei primi anni Settanta, quando buona parte delle esperienze che avevano caratterizzato la conflittualità sociale dei Long Sixties subì una decisa battuta d’arresto. Al contrario, il rapporto tra il movimento delle donne e il 1968 in Italia fu “dialettico e multidirezionale”.10 Una delle direzioni verso cui guardarono le femministe italiane furono senza dubbio gli Stati Uniti: secondo Maud Anne Bracke, l’incontro con il movimento di liberazione delle don7. Transatlantic Conversations: Feminism as Travelling Theory, a cura di Kathy Davis e Mary Evans, Farnham, Ashgate Publishing, 2011. 8. Ricordo soprattutto la prima contestazione femminile alla dirigenza dello Student Nonviolent Coordinating Committee (SNCC) nel 1964 con il SNCC Position Paper e il documento Sex and Caste, proposto alla convention nazionale degli Students for a Democratic Society (SDS) del 1965, entrambi redatti da Mary King e Casey Hayden e ugualmente rifiutati dalla dirigenza delle due organizzazioni. Cfr: Sara M. Evans, Personal Politics: The Roots of Women’s Liberation in the Civil Rights Movement & the New Left, New York, Vintage Books, 2010, pp. 233-243; Cartosio, I lunghi anni Sessanta, pp. 299-309. 9. Alice Echols, Daring to Be Bad: Radical Feminism in America, 1967-1975, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1989, pp. 53-138; Aida Ribero, Emma Baeri Parisi, Una questione di libertà: il femminismo degli anni Settanta, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999, pp. 34-42; Benita Roth, Separate Roads to Feminism: Black, Chicana, and White Feminist Movements in America’s Second Wave, Cambridge, Cambridge University Press, 2004. 10. Andrea Hajek, Despite or in debt to 1968? Second-wave feminism and the gendered history of Italy’s 1968, in Women, Global Protest Movements, and Political Agency. Rethinking the Legacy of 1968, a cura di Sarah Colvin e Katharina Karcher, London, Routledge, 2018, p. 44.

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ne americane rappresenterebbe il vero e proprio «mito fondativo»11 del femminismo italiano degli anni Settanta. Lo sviluppo del pensiero femminista, però, avvenne all’interno di un contesto fortemente influenzato dalla nascita dei gruppi della sinistra extraparlamentare, all’indomani delle mobilitazioni studentesche e operaie del 1968-69.12 Il dibattito interno ai primi gruppi femministi fu quindi debitore delle riflessioni egemoni all’interno dei gruppi, principalmente di matrice neomarxista e operaista.13 Si sviluppò allora una dialettica complessa e disomogenea con i femminismi americani, che al contempo contribuì a una diffusione circolare del pensiero femminista: dagli Stati Uniti all’Italia e viceversa.14 Queste relazioni transatlantiche composero un flusso interconnesso: una vasta rete che a sua volta si costituiva di nodi locali ed extra locali, attraverso i quali gli immaginari, le riflessioni teoriche e le pratiche militanti confluivano in quella che, nel corso del decennio precedente, si era configurata come una «nuova sinistra transnazionale».15 L’obiettivo che mi prefiggo con questo saggio è duplice. In primo luogo, intendo mostrare come lo sviluppo di relazioni transatlantiche abbia influenzato l’attività e l’organizzazione dei primi gruppi femministi italiani. Il caso studio è quello del Collettivo CR (Comunicazioni rivoluzionarie) di Torino, un gruppo della sinistra extraparlamentare specializzato nella traduzione di giornali e documenti della New Left americana. Il Collettivo CR fu uno dei primi gruppi a organizzare viaggi di scambio con gli Sta11. Maud Anne Bracke, La nuova politica delle donne. Il femminismo in Italia, 19681983, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2019, p. 13. 12. Paola Stelliferi, Una originaria, irriducibile asimmetria: il rapporto della nuova sinistra con i femminismi in Italia (1972-1976), in «Italia contemporanea», 287 (2018), pp. 15-43. 13. Bracke, La nuova politica delle donne, pp. 171-193; Marica Tolomelli, Anna Frisone, Gender and Class in the Italian Women’s Liberation Movement, in The Women’s Liberation Movement. Impacts and Outcomes, a cura di Kristina Schulz, New York-Oxford, Berghahn Books, 2017, pp. 178-197. Si veda anche: Femminismo e lotta di classe in Italia (1970-1973), a cura di Biancamaria Frabotta, Roma, Samonà e Savelli, 1975. 14. Raffaella Baritono, ‘Dare conto dell’incandescenza’. Uno sguardo transatlantico (e oltre) ai femminismi del lungo ’68, in «Scienza & Politica», 59 (2018), p. 24. 15. Lo storico Gerd-Rainer Horn ha definito il Sessantotto «la prima rivolta giovanile transnazionale», in Id., The Spirit of ’68. Rebellion in Western Europe and North America, 1956-1976, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 23-27; Marica Tolomelli ha parlato esplicitamente di «nuova sinistra transnazionale» in diversi contributi, tra cui Tolomelli, Dall’anticolonialismo all’anti-imperialismo yankee, p. 9.

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ti Uniti e, soprattutto, a curare la traduzione dei documenti del Women’s Liberation Movement. Questa attività permise l’apertura di un confronto dialettico con le femministe americane, dapprima teorico e poi anche pratico, che negli anni successivi si sarebbe ripresentato in modi simili in altri contesti collettivi italiani, realizzando delle vere e proprie «transnational connections and affinities».16 In secondo luogo, analizzerò la ricezione del pensiero femminista italiano negli Stati Uniti nel corso degli anni Settanta, che fu mediata soprattutto dalle riflessioni della sinistra extraparlamentare. La documentazione proviene principalmente dagli articoli pubblicati sulla rivista «Radical America» e su altre testate della New Left americana degli anni Settanta. 2. Dal Collettivo CR al Collettivo delle compagne I contatti transatlantici della Nuova sinistra italiana e americana si svilupparono e si rafforzarono in diverse fasi. In un primo momento vi furono principalmente scambi di tipo intellettuale, che si estesero a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta tramite le numerose corrispondenze per le riviste politico-culturali sorte in quel periodo e i viaggi accademici di diversi studiosi trasferitisi negli USA. Queste relazioni non solo rafforzarono le convinzioni antimperialiste della sinistra italiana, ma la fecero entrare in contatto con «l’altra America» dei movimenti e delle controculture.17 Una fase successiva comprende i contatti maturati grazie alla mediazione di gruppi e organizzazioni politiche nate a ridosso delle mobilitazioni del 1968. Queste ultime si incaricarono di promuovere viaggi di auto-formazione politica negli Stati Uniti, finalizzati alla ricerca di un confronto ravvicinato con le pratiche organizzative e le suggestioni teoriche del Movement americano. 16. Maud Anne Bracke, Our Bodies, Ourselves: The transnational connections of 1970s Italian and Roman feminism, in «Journal of Contemporary History», 50 (2015), p. 561. 17. Cfr. Alessandro Portelli, Dall’antiamericanismo all’altra America: pacifismo, antimperialismo, controculture, in Giovani prima della rivolta, a cura di Paola Ghione e Marco Grispigni, Roma, Manifestolibri, 1998, pp. 133-141. A questo proposito è importante ricordare il lavoro di corrispondenza per le riviste della Nuova sinistra e la fiorente attività editoriale sui movimenti sociali negli Stati Uniti di fine anni Sessanta, a cui contribuirono soprattutto Fernanda Pivano, Renato Solmi, Roberto Giammanco, Massimo Teodori, Sandro Sarti, Bruno Cartosio, Ferruccio Gambino e Peppino Ortoleva, oltre al già citato Alessandro Portelli.

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In Italia, questi scambi furono possibili grazie all’intercessione di singoli e singole militanti o di gruppi della sinistra extraparlamentare, interessati in primo luogo al fenomeno della controcultura underground, allo studio delle lotte operaie negli Stati Uniti e alle mobilitazioni del Black Power.18 Parallelamente, il consolidamento degli scambi internazionali avvenne tramite la mediazione dei gruppi femministi che nei primi anni Settanta raggiunsero un elevato grado di autonomia e si percepirono come “altro” rispetto ai soggetti sociali mobilitati nei movimenti di protesta. In questa fase il Collettivo CR aprì una sede a Boston e strinse dei legami molto proficui con il Women’s Liberation Movement, che culminarono nella fondazione del Collettivo delle Compagne, uno tra i primi gruppi femministi italiani, e la traduzione italiana del volume Our body, ourselves (Noi e il nostro corpo, 1974). Similmente, il collettivo femminista Anabasi di Milano entrò in contatto con la pratica dell’autocoscienza dopo un soggiorno di Serena Castaldi a New York nel 1970, durante il quale frequentò vari gruppi e raccolse un’abbondante documentazione portata con sé al ritorno in Italia.19 Sempre a New York la studentessa Silvia Federici partecipò, tra il 1969 e il 1972, a diversi gruppi di studio femministi, dopo essere entrata in contatto con alcuni esponenti di Potere operaio. Approfondì quindi i rapporti con Mariarosa Dalla Costa in seguito alla pubblicazione di Potere femminile e sovversione sociale (Marsilio, 1972), e insieme contribuirono alla fondazione del Collettivo internazionale femminista a Padova oltre che alla nascita della rete dei Gruppi e Comitati per il Salario al lavoro domestico.20 In Italia, le “traduzioni strategiche”21 di documenti provenienti dai movimenti nordamericani – e non solo – diventarono parte di un pen18. Cfr. Michela Nacci, California dreaming. Immagini dell’America nel Sessantotto italiano, in «Studi bresciani», 19 (2009), pp. 89-142; Nicola Pizzolato, Transnational Radicals: Labour Dissent and Political Activism in Detroit and Turin (1950-1970), in «International Review of Social History», 56 (2011), pp. 1-30. 19. È noto soprattutto il pamphlet Donne è bello pubblicato a Milano dal Gruppo Anabasi nel 1972 con una diffusione militante molto ampia. Raccolse, fra gli altri, alcuni dei più importanti testi del femminismo italiano, nordamericano e inglese. 20. Louise Toupin, Le salaire au travail ménager, 1972-1977: retour sur un courant féministe évanoui, in «Recherches féministes», 29 (2016), pp. 179-198. 21. «If we think seriously about the issue of translation, it becomes essential not only to situate US theory (as one theory among many) and to critique its privileged position globally, but also to think seriously about the issue of translation, how ideas that are gener-

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siero femminista che si stava sviluppando su base transnazionale.22 La rivoluzionaria idea di “partire da sé”, anteposta dalle femministe nelle riflessioni politiche, mise in crisi prima i movimenti dal loro interno, e poi la società nel suo complesso.23 In questo modo, si riconosceva che una specifica condizione di oppressione poteva generare pratiche dirompenti di contestazione e sovvertimento sociale, che si riproducevano a livello internazionale grazie all’emulazione e al contatto tra le attiviste di paesi differenti. Lo sviluppo interconnesso di queste tensioni emerse in maniera evidente nel contesto torinese, nei primi anni Settanta. Proprio a Torino, infatti, venne fondato nella primavera del 1969 il Collettivo Comunicazioni rivoluzionarie. Il promotore del gruppo era Sandro Sarti, un ex partigiano valdese che aveva preso parte alla costruzione della comunità evangelica di Agàpe in Valle Germanasca (TO), molto attiva negli scambi culturali con giovani provenienti da tutto il mondo.24 Sarti, che alla fine degli anni Sessanta viveva a Torino nella sede della rivista operaista «Quaderni rossi», decise di sfruttare i contatti di Agàpe per costruire una rete di relazioni con gli Stati Uniti.25 Questa decisione permise al Collettivo CR di entrare in contatto con lo University Christian Movement (UCM), espressione “radicale” del ated outside non-hegemonic language communities can be made accessible within global networks of circulation». Davis, Evans, Transatlantic Conversation, p. 20. 22. Secondo Maud Bracke, le «influenze nordamericane, britanniche e francesi tirarono il femminismo italiano in tante direzioni diverse»; Bracke, La nuova politica delle donne, p. 11. In particolare, a partire dal 1972, crebbe l’influenza del femminismo francese, che proponeva un’innovativa rilettura del rapporto tra psicoanalisi e politica; Passerini, Corpi e corpo collettivo, pp. 188-190. 23. Secondo Sarah Evans, «feminist movements grew rapidly in the aftermath of 1968 even as the movements that had given birth to them were disintegrating», in Ead., Sons, Daughters, and Patriarchy: Gender and the 1968 Generation, in «American Historical review», 114 (2009), p. 341. Si veda anche: Maria Luisa Boccia, Il patriarca, la donna, il giovane. La stagione dei movimenti nella crisi italiana, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, vol. II, Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marramao, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 253-282. 24. A questo proposito risultano di grande importanza i documenti relativi all’organizzazione dei Campi di formazione di Agàpe, tra i quali ricordo quelli denominati “Incontro America-Europa” organizzati nelle estati del 1967 e del 1968 per conoscere da vicino i movimenti di protesta negli Stati Uniti. Cfr. Archivio Vera Nocentini (AVN), Fondo Vittorio Rieser, Faldone 15; Archivio di Agape (AA), Categoria V, Mazzi 30, 32, 33, 34. 25. Archivio di stato di Torino (AST), fondo Questura di Torino, Faldone 6 – Cat. A6.

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movimento cristiano evangelico statunitense, che facilitò per diversi anni i viaggi dei militanti tra l’Italia e gli Stati Uniti.26 Tra il 1970 e il 1972 il collettivo organizzò soggiorni semestrali negli USA per due donne e due uomini (Maria Teresa Fenoglio, Alberto Demicheli, Fosca Pastorino e Peppino Ortoleva), con l’obiettivo di diffondere i materiali della Nuova sinistra italiana in America e, allo stesso tempo, raccogliere materiale sul Movement americano da inviare in Italia. I quattro risiedettero a Boston, dove fondarono lo Europe-America Communication Service, una sorta di “ufficio esteri” che avrebbe dovuto facilitare la diffusione dei documenti italiani in America sull’esempio di Liberation News Service (LNS), l’agenzia indipendente dei media underground americani.27 Il Collettivo CR iniziò così a tradurre e distribuire documenti sulla New Left, fino alla decisione di stampare un proprio bollettino autoprodotto. Il primo numero del quindicinale «CR - Informazioni internazionali» fu pubblicato a Torino il 15 agosto 1970. All’interno erano contenuti aggiornamenti sulla carcerazione di Huey P. Newton, uno dei fondatori del Black Panther Party (BPP), e sulle lotte degli operai afroamericani.28 Sul finire del 1970 le donne del Collettivo iniziarono a tradurre articoli e riflessioni sul movimento femminista statunitense. Nel settembre dello stesso anno nacque l’inserto «Il movimento di liberazione delle donne in America», che a partire dal numero 3 del bollettino divenne una presenza costante delle pubblicazioni. Questa esperienza si rivelò fondamentale, al punto da trasformare dall’interno la redazione del giornale e favorire la nascita del Collettivo delle compagne di Torino.29 Il primo numero dell’inserto si apriva con la Lettera di Lise alle compagne italiane, da parte di un’attivista statunitense che svolgeva una rapida analisi del “Women’s Lib” – come era comunemente chiamato – con criti26. Ada J. Focer, Frontier Internship in Mission, 1961-1974: Young Christians Abroad in a Post-Colonial and Cold War World, Tesi di dottorato, Boston University, 2016. Si veda anche: Sara M. Evans, Journeys That Opened Up the World: Women, Student Christian Movements, and Social Justice, 1955-1975, New Brunswick, Rutgers University Press, 2003. 27. Intervista dell’autore a Peppino Ortoleva, 18 maggio 2020. Sull’esperienza di LNS si rimanda a: Blake Slonecker, A New Dawn for the New Left: Liberation News Service, Montague Farm, and the Long Sixties, London, Springer, 2012. 28. Cr – Informazioni internazionali, 1, 15 agosto 1970. AVN, Fondo Vittorio Rieser, Faldone 4, Busta G. 29. Femminismi a Torino, a cura di Piera Zumaglino, Milano, FrancoAngeli, 1996, pp. 59-98.

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che rivolte sia verso l’interpretazione marxista della “liberazione della donna”, sia contro il “femminismo borghese”. Un breve commento redazionale, posto in apertura, esplicitava che l’intervento avrebbe aiutato a conoscere meglio l’evoluzione del movimento delle donne in America attraverso un «taglio di classe».30 Una frase in particolare esplicitava una grande distanza, in termini ideologici e terminologici, tra il movimento italiano e quello americano: «mentre voi in Italia lavorate sorrette dalle lotte della Fiat, qui parliamo tra di noi».31 Non è un caso che il confronto con gli Stati Uniti fosse mediato da continui riferimenti alle lotte operaie e alle categorie di analisi marxiste. Bice Fubini, del Collettivo delle compagne, ha dichiarato: Ho sempre pensato che la caratteristica di Torino, città operaia, città di lavoro, abbia influenzato molto l’evolversi dei vari gruppi di donne che in quegli anni si sono formati, dissolti, reincontrati in quel processo continuo che è stato il nostro Movimento.32

Il gruppo torinese, infatti, filtrò l’immaginario dei movimenti americani attraverso il paradigma marxista-leninista, sia a causa della forte presenza di questa corrente di pensiero nella Nuova sinistra italiana, sia per la ripresa delle lotte operaie che avevano avuto il loro epicentro proprio a Torino nel 1969.33 A questo proposito risulta fondamentale la prossimità con il Collettivo CR, che nasceva senza la velleità di configurarsi come un gruppo extraparlamentare, ma subiva ugualmente l’influenza operaista del contesto torinese. Il bollettino «Informazioni internazionali», per esempio, riportava un interesse quasi feticistico per le lotte operaie negli Stati Uniti e per la condizione degli African Americans. Particolarmente frequenti erano i servizi sugli operai neri della League of Revolutionary Black Workers (LRBW) di Detroit, un gruppo marxista-leninista oggetto di particolare interesse per i gruppi della sinistra extraparlamentare italiana.34 Molte volte, però, gli articoli di CR sugli operai neri trascuravano 30. Lettera di Lise alle compagne italiane, in «Il movimento di liberazione delle donne in America», 15 settembre 1970, p. 1. AVN, Fondo Vittorio Rieser, Faldone 4, b. G. 31. Ivi, p. 2. 32. Noi e la sinistra, in «Bollettino delle donne», 26 novembre 1979. ARPD, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 64. 33. Tolomelli, Frisone, Gender and Class, p. 180. 34. Cfr. Olivier Maheo, Radical Motown, Radical Heritage: The League of Revolutionary Black Workers, in «USAbroad - Journal of American History and Politics», 1

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l’attributo razziale dei soggetti coinvolti, e non evitavano di celebrare una certa «mascolinità operaia».35 Esiste una curiosa sovrapposizione nella pubblicistica della sinistra extraparlamentare italiana nei primi anni Settanta, che aiuta a comprendere meglio questa ambiguità. Si tratta della rappresentazione stereotipata e monolitica dei lavoratori afroamericani come proletari iper-sfruttati, la cui condizione – espunta delle coordinate razziali – veniva riprodotta come il modello idealizzato dell’operaio-massa in lotta nelle metropoli industriali.36 Questa interpretazione della classe operaia nera rimuoveva l’articolazione di un discorso complessivo sulla cosiddetta “linea del colore”,37 sposando implicitamente l’interpretazione del razzismo come conseguenza diretta dello sfruttamento capitalistico, e non come una specifica forma di oppressione. Questa lettura va affiancata all’interpretazione femminista sulla cosiddetta “doppia analogia” tra le donne e i neri, utilizzata dal femminismo bianco negli Stati Uniti per riconoscere l’oppressione femminile come una condizione universale, che quindi necessitava dell’alleanza tra tutte le donne (sisterhood) per essere combattuta.38 (2020), pp. 35-52. Si veda anche il pamphlet USA ’70. Le lotte. Il programma degli operai neri, a cura del Collettivo Esteri di Potere operaio, Padova, Edizioni politiche, 1971. 35. Due immagini sono esemplari a questo proposito: la prima illustrava l’allegato intitolato Sindacato, padroni e classe operaia in Usa, nel numero 7 del 15 novembre 1970, e mostrava un lavoratore nero armato di fucile che irrompe in una camera da letto dove due uomini bianchi, indicati come “sindacato” e “padrone”, dormono in una posa intima. La seconda immagine apre l’allegato Minatori USA, nel numero 8 del 30 novembre 1970, e rappresenta due minatori maschi molto muscolosi, uno bianco e uno nero, in piedi e appoggiati di spalle uno dietro l’altro. AVN, Fondo Vittorio Rieser, Serie 4, Faldone G. Si veda anche: Andrea Sangiovanni, Masculinités ouvrières dans l’Italie du second XXe siècle, in «Clio. Femmes, Genre, Histoire», 38 (2013), pp. 97-121. 36. Tra gli esempi più esplicativi, mi sembra importante riportare due articoli: Friulani: ne*ri d’Europa, in «Potere operaio», 14-21 marzo 1970; I «n*gri» a Porto Marghera, in «Lotta continua», 15 settembre 1970. In questo saggio si è deciso di non riproporre l’utilizzo della “parola con la enne” in forma esplicita, anche quando presente nelle fonti. Su questa scelta si rimanda alla nota 1 del saggio di Marta Panighel presente in questo volume. 37. Cfr. W.E.B. Du Bois, Sulla linea del colore: razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, Bologna, il Mulino, 2010; Alessandro Portelli, La linea del colore: saggi sulla cultura afroamericana, Roma, manifestolibri, 1994. 38. Roth, Separate Roads to Feminism, p. 192. Si veda anche: Raffaella Baritono, Il Femminismo americano degli anni ’60. Betty Friedan, Shulamith Firestone, Kate Millett, Robin Morgan, Frances Beal e Gloria Anzaldúa, in «Storicamente», 4 (2008), pp. 9-10.

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Il successo di questa “analogia imperfetta”, come l’ha definita Vincenza Perilli, fu tale da far sì che venisse ripresa anche in Europa, e risiedeva nella sostituzione di «figure concrete con dei simboli»,39 come nel caso dei “neri” identificati esclusivamente negli afroamericani attivi nelle lotte. Si trattava di vere e proprie tipizzazioni, utili per un immediato utilizzo politico, che però negavano le «caratteristiche specifiche del sessismo e del razzismo nelle loro complesse e diverse forme di articolazione».40 Nello specifico del contesto italiano, entrambe queste interpretazioni mancavano di comprendere un’analisi sui rapporti di potere esercitati nei confronti delle soggettività non-bianche ereditati dalla legislazione coloniale.41 Inoltre, non riconoscevano la costruzione di un legame di “colonialità”42 interno nella diaspora migratoria Sud-Nord negli anni dell’industrializzazione e, nel caso della “doppia analogia”, prefiguravano quella che, per il movimento femminista, si sarebbe configurata come una «rimossa, in gran parte irrisolta, “questione meridionale”».43 Anche il Collettivo delle compagne dedicò un’attenzione non secondaria alle dinamiche di oppressione innescate dai meccanismi di razzializzazione, nonché dalla loro intersezione con il posizionamento di classe.44 Se, da un lato, questo interesse contribuiva a rompere lo schematismo con cui la Nuova sinistra italiana aveva guardato alle “lotte dei neri” genericamente intesi – includendo al loro interno le mobilitazioni di donne afroamericane, messicane o latinoamericane –, dall’altro anche le femministe 39. Vincenza Perilli, L’analogia imperfetta. Sessismo, razzismo e femminismi tra Italia, Francia e Stati Uniti, in «Zapruder», 13 (2007), p. 23. 40. Ibidem. 41. Liliana Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano: viaggi, traduzioni, slittamenti, in «Genesis», 2 (2011), p. 27. 42. L’Italia postcoloniale, a cura di Cristina Lombardi-Diop e Caterina Romeo, Milano, Le Monnier, 2014, p. 7. 43. Bracke, La nuova politica delle donne, p. 19. Si veda il saggio di Marta Panighel in questo volume. 44. Il primo inserto sul Women’s Lib, per esempio, dava voce a tre differenti testimonianze: la prima era di Mabel Hobsen, una donna nera madre di 12 figli che affrontava il tema del diritto all’assistenza pubblica; la seconda dava voce a Ester Serrano, una giovane donna messicano-americana che raccontava delle discriminazioni sul posto lavoro e dell’impatto del movimento femminista nella sua vita privata; infine, vi era il punto di vista di Pam N., un’operaia bianca di uno stabilimento a maggioranza femminile che lamentava l’inadeguatezza delle organizzazioni della New Left nell’affrontate il tema del lavoro; Il movimento di liberazione delle donne in America, in «Collettivo CR - Informazioni internazionali», 3 (1970). AVN, Fondo Vittorio Rieser, Serie 4, Faldone G.

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torinesi tendevano a riproporre una lettura universalista dell’antirazzismo che vedeva nella lotta di classe il contesto deputato alla ricomposizione culturale del proletariato (anche femminile).45 Le problematicità interpretative del contesto statunitense, particolarmente evidenti nelle pubblicazioni del Collettivo CR, sono quindi riscontrabili anche nei bollettini sul Women’s Lib. Spesso, infatti, questi ultimi presentavano tesi opposte, persino contraddittorie, solitamente accompagnate da un’introduzione o da una nota editoriale che esplicitava la posizione (o le posizioni) delle femministe torinesi. Nell’allegato Impressioni sul movimento di liberazione delle donne pubblicato il 15 giugno 1971, per esempio, vennero tradotti alcuni documenti tratti da «Palante», il giornale del Young Lords Party, un’organizzazione rivoluzionaria composta in prevalenza da immigrati portoricani.46 Un documento in particolare, fortemente caratterizzato da una linea anticapitalista e marxista-leninista, venne utilizzato per sostenere che «il compito delle compagne non era quello di costruire un fronte femminile unitario, ma muoversi per la ricomposizione dell’unità di classe».47 I dubbi interni al Collettivo delle compagne emergevano anche nel contributo successivo, nel quale si descriveva un episodio avvenuto l’8 marzo 1971 presso la Judson Memorial Church di New York. Un uomo, che avrebbe dovuto intonare dei canti di lotta insieme a una donna, fu contestato da parte delle presenti che non accettavano una partecipazione maschile durante le celebrazioni della Giornata Internazionale della Donna. Seguì un’aspra discussione, al termine della quale fu deciso che l’uomo sarebbe rimasto, anche se ciò non contribuì a chiarire «la gran confusione di idee» che regnava tra le militanti.48 Non è chiaro se la scelta redazionale di selezionare due contributi così antitetici fosse legata alla volontà di fare emergere le problematicità legate a una scelta separatista o alla sincera volontà di conoscere le diverse sfumature che albergavano nel Women’s 45. La lotta delle donne bianche e nere unite è la rivoluzione nella rivoluzione, in «Collettivo CR - Informazioni internazionali», 15 maggio 1971. ARDP, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 15. 46. Cfr. Johanna Fernández, The Young Lords: A Radical History, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 2019. 47. Introduzione, in «Impressioni sul movimento di liberazione delle donne», 19 (1971), p. 1. ARDP, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 15. 48. Potere alle sorelle, ivi, pp. 3-4.

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Lib.49 In un certo senso, però, questa gestione sembrò prefigurare il doppio conflitto che caratterizzava il gruppo torinese: quello interno al Collettivo delle compagne, e quello tra il Collettivo e la redazione di «Informazioni rivoluzionarie». 3. Una frattura insanabile Inizialmente, il Collettivo delle compagne non fu un’esperienza contrapposta al Collettivo CR, bensì un’operazione di continuità trasversale al lavoro redazionale. Franca Tronca raccontò di essere approdata a CR seguendo l’esigenza personale di «fare qualcosa in campo politico» inserendosi, allo stesso tempo, in quello che «non era un gruppo di elaborazione politica».50 Nelle intenzioni di Sandro Sarti, il collettivo avrebbe dovuto svolgere un ruolo di collegamento tra i movimenti di protesta negli Stati Uniti e in Italia, al di là dei settarismi identitari e delle sfumature ideologiche della sinistra extraparlamentare.51 Anche l’interesse per il movimento delle donne fu incentivato dallo stesso Sarti, la cui «geniale intuizione politica»,52 secondo Franca Tronca, lo spinse a indagare tutte le sfumature di cui si componeva il Movement. Allo stesso tempo, la sua indole autoritaria e la sua differenza di età con le militanti lo resero quasi subito una figura ingombrante per molte donne del Collettivo CR.53 Nei primi mesi del 1971, mentre Maria Teresa “Emmetì” Fenoglio si trovava a Boston, emersero alcune contraddizioni interne al gruppo. Lo 49. La sola lettura delle fonti non è sufficiente a dirimere questo dubbio. Si può però propendere per la prima ipotesi, visto il crescente dibattito sulla scelta separatista delle donne presente in quasi tutti i gruppi extraparlamentari del periodo. Oltre alle opere già citate si veda anche: Stefania Voli, Quando il privato diventa politico: Lotta Continua 1968-1976, Roma, Edizioni Associate, 2006. 50. Intervista a Franca Tronca dic. ’86. ARDP, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 65. 51. Intervista dell’autore a Maria Teresa “Emmetì” Fenoglio, 26 aprile 2020. 52. CR, intervista a Franca Tronca - dicembre ’86. ARDP, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 65. 53. Vicky Franzinetti sostenne di aver lasciato il collettivo proprio per un litigio con Sandro Sarti. Cfr. Femminismi a Torino, p. 61. Al contrario, Maria Teresa Fenoglio mantenne sempre un ottimo rapporto con Sarti, pur riconoscendone i limiti caratteriali: «Certamente lui non era il leader democratico […] era veramente un carattere molto difficile, era un carattere difficile e in questo modo si è anche alienato probabilmente molte… alleanze»; Intervista dell’autore a Maria Teresa “Emmetì” Fenoglio, 26 aprile 2020.

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scontro avvenne tra le donne interessate al lavoro politico nelle fabbriche e quelle più vicine al femminismo radicale, che ponevano la questione dell’autocoscienza come metodo politico.54 Le militanti del Collettivo CR, inoltre, richiesero che le nuove arrivate partecipassero attivamente al lavoro redazionale, ma queste ultime rifiutarono sostenendo che le traduzioni per CR non avrebbero dovuto essere considerate come una scadenza del Collettivo delle compagne.55 Il rifiuto ampliò ulteriormente il divario tra i due gruppi, prefigurando quello scontro “generazionale” tra le due anime del Sessantotto italiano descritto dalla storica Francesca Socrate56 e, al contempo, ricalcando le differenze tra femminismo marxista e radicale. Maria Clara Ragozinsky, tra le fondatrici del Collettivo delle compagne, disse in un’intervista del 1976: «solidarity e sisterhood regnano in teoria, in pratica regnano i conflitti personali espressi in termini ideologici».57 Si produsse così una situazione in cui a un femminismo di matrice marxista se ne contrapponeva uno radicale, in un luogo in cui entrambe le fazioni tentavano però di distaccarsi il più possibile dalla sinistra extraparlamentare e dalle sue gerarchie patriarcali. Il ritorno dagli Stati Uniti di “Emmetì” Fenoglio, nell’ottobre del 1971, segnò la scelta di intraprendere definitivamente un percorso separatista, tramite la nascita di un nuovo esperimento collettivo: la Comune di via Petrarca. Nell’appartamento, sito per l’appunto in via Petrarca 8 a Torino, andarono ad abitare “Emmetì” insieme a Fosca Pastorino e Wilma Scattegni, ma vi si riunirono periodicamente le fuoriuscite dal Collettivo delle compagne alla ricerca di un luogo che non fosse una sede politica tradizionale, ma soprattutto un luogo in cui praticare l’annullamento tra “privato” e “politico”.58 Secondo Angela Miglietti in quella fase «cresceva l’autonomia e l’esigenza di autonomia»,59 segnando così un deciso cambio di passo rispetto alla continuità con il lavoro divulgativo del Collettivo CR. 54. Cfr. Virginia Niri, “Con questo nemico ci facevamo l’amore”. L’autocoscienza come metodo politico di costruzione di nuove identità nel lungo Sessantotto italiano, tesi di dottorato, Università degli studi di Genova, 2020. 55. Bollettino delle donne n.2., ARPD, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 65. 56. Francesca Socrate, Sessantotto. Due generazioni, Roma-Bari, Laterza, 2018. 57. Femminismo radicale e femminismo marxista a confronto, ARPD, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 67. 58. Femminismi a Torino, pp. 118-127. 59. Appunti presa di coscienza via Petrarca 8, ARPD, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 2.

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Il ritorno di “Emmetì” fu caratterizzato da un grande entusiasmo per l’esperienza negli Stati Uniti, che avrebbe voluto riprodurre nella sua complessità e radicalità.60 Durante il suo soggiorno aveva infatti avuto modo di condividere la vita nelle comuni, di confrontarsi con numerose esperienze politiche differenti tra loro e, soprattutto, di conoscere “compagni” che «vivono insieme, lavorano insieme, costantemente tesi a cambiare la situazione che li circonda, e a cambiare se stessi».61 Forte di questo impeto, “Emmetì” non riuscì però a comprendere a fondo i cambiamenti intercorsi nei mesi precedenti a Torino. Presto, infatti, si giunse a una riunione in cui venne richiesta una divisione più netta tra la Comune di via Petrarca e le attività della redazione. Angela Miglietti avanzò delle accuse dirette alla gestione maschilista della redazione e sostenne di essere stata «usata per la manovalanza», attaccando «la natura fascista di Sandro Sarti».62 Questi conflitti emersero a più riprese, lasciando spazio a divisioni interne che portarono infine all’emarginazione definitiva di “Emmetì” dal gruppo perché troppo vicina al Collettivo CR. La conseguente fine della Comune di via Petrarca segnò in qualche modo la fine di un esperimento che aveva esportato un inedito modello di condivisione ed esplorazione soggettiva, anticipando un’attenzione per il corpo e la sessualità che sarebbe diventata centrale nel femminismo italiano.63 Lo scarto tra la conoscenza diretta delle pratiche del movimento americano e le incomprensioni dei gruppi torinesi suggerisce una trasposizione disomogenea delle prime nel contesto italiano. Coloro che tornavano dall’estero sembravano quasi affermare una nuova soggettività, in grado di provocare una «rottura radicale con le forme e i linguaggi della politica».64 La stessa “Emmetì”, pur continuando a partecipare alle attività del Collettivo CR, era tornata da Boston con la chiara idea di dedicarsi «completamente alle 60. Per un resoconto dettagliato del viaggio di Maria Teresa Fenoglio negli Stati Uniti si rimanda al documento: Emmetì (1979) – America, in ARDP, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 67. 61. Corrispondenza dall’America. Lavoro di comunità a Boston, in «Collettivo CR – Informazioni internazionali», 22-23 (1971). ARPD, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 15. 62. Ibidem. 63. Ribero, Parisi, Una questione di libertà, pp. 46-48. 64. Elda Guerra, Una nuova soggettività: femminismo e femminismi nel passaggio degli anni Settanta, in Il femminismo degli anni Settanta, p. 33.

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donne».65 Molte femministe torinesi, al contrario, erano ancora attraversate da dubbi laceranti. Anche la traduzione del volume Noi e il nostro corpo, il momento di maggiore convergenza tra le istanze del movimento delle donne in America e lo sviluppo del femminismo a Torino, fu caratterizzata da conflitti e divergenze. Nel novembre 1972 Angela Miglietti scrisse al Women’s Health Book Collective di Boston per incaricarsi della traduzione di Women and their body, un pamphlet autoprodotto sui temi del corpo e della sessualità femminile che era stato portato in Italia da “Emmetì” dopo il suo soggiorno negli USA. Miglietti iniziò quella che sarebbe diventata la prima traduzione internazionale dell’opuscolo come parte di un lavoro collettivo nella Comune di via Petrarca.66 Successivamente, però, l’idea venne bocciata dalle compagne e Miglietti proseguì il lavoro da sola, mettendosi in contatto diretto con le donne di Boston, che a quel punto le inviarono l’edizione completa del volume Our body, ourselves del 1973. Il libro fu poi pubblicato da Feltrinelli nel 1974, alla condizione (dettata da Boston) che la traduzione fosse quella di Miglietti.67 Questo passaggio avviò per Angela Miglietti un periodo di ripensamento e solitudine: «Io ho pianto per questo libro, ho versato amare lacrime, perché mi guardavate annoiate e con aria di sufficienza».68 4. Lotta di classe o lotta di casta? Le contraddizioni e le incomprensioni interne al Collettivo delle compagne ebbero origine anche nella difficoltosa elaborazione del pensiero femminista d’oltreoceano e nel tentativo di integrare alcune espressioni del femminismo radicale con la riflessione marxista. Questa peculiare inclinazione ideologica non tardò ad essere notata negli Stati Uniti. Nel settembre 1971, la rivista della New Left «Radical America» pubblicò un numero monografico dedicato alle lotte operaie, dal titolo Italy 1969-1970. Nell’editoriale veniva affermato che l’autorganizzazione operaia praticata in Italia era un 65. Femminismi a Torino, p. 122. 66. Kathy Davis, The Making of Our Bodies, Ourselves: How Feminism Travels across Borders, Durham/London, Duke University Press, 2007, p. 52. 67. Noi e il nostro corpo. Storia di una traduzione, a cura di Stefania Voli, in «Zapruder», 13 (2007), pp. 108-115. 68. Angela Miglietti, Storia di una traduzione. Noi e il nostro corpo, in «Bollettino delle donne», 16 febbraio 1979. ARPD, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 64.

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esempio fondamentale di come si potessero superare le ambiguità dei sindacati e le divisioni in seno alla classe operaia.69 Al contempo lo storico Dan Georgakas, nella sua introduzione, faceva notare come i limiti delle lotte in Italia fossero dovuti al mancato sviluppo di un movimento femminista forte: The lack of a truly liberating counter-culture could become a serious flaw in the Italian revolution. Certainly the creation of a dynamic women’s liberation movement is absolutely essential to carry out any Italian revolution, especially with struggles opening up in areas like Calabria, Sardinia, and Sicily, where Italian male chauvinism reaches its peak. One hopeful aspect is that the women’s liberation movement in Italy, although still in its infancy, already puts a decided emphasis on the problems of working-class women.70

«Radical America» nasceva come voce degli Students For A Democratic Society (SDS), uno dei più grandi raggruppamenti della New Left bianca americana. Dopo la crisi organizzativa della sinistra statunitense nel 1969,71 che frammentò gli SDS in diverse fazioni fino alla loro dissoluzione, «Radical America» decise di assecondare lo sviluppo di un «movimento orientato verso la classe operaia»,72 allontanandosi dall’organizzazione e promuovendo una storia militante influenzata dal marxismo eterodosso. È da leggere in questo senso l’apertura della rivista verso l’estero, insieme al tentativo di «integrare l’analisi di classe con i problemi culturali che emergevano dal nazionalismo nero, dal femminismo e dalla cultura giovanile».73 Il legame con l’Italia, e con la tradizione operaista, si rafforzò nel tempo, a dimostrazione di una circolarità di suggestioni teoriche e pratiche che, nei primi anni Settanta, rappresentava ormai un dato di fatto.74 In questi scambi si inserisce anche il tentativo del Collettivo delle compagne di Torino di comunicare con la studiosa marxista canadese Margaret Benston, nel 1971. Il suo articolo, L’economia politica dell’emancipazione 69. Editor’s introduction, in «Radical America», 5 (1971), pp. 1-2. 70. Dan Georgakas, Italy. New Tactics & Organizations, ivi, p. 9. 71. Paul Buhle, Marxism in the United States: A History of the American Left, London/New York, Verso, 2013, p. 249. 72. James Green, Fare storia di movimento con “Radical America”, in «Ácoma», 15 (1999), p. 25. 73. Ibidem. 74. Nel 1973 «Radical America» pubblicò un nuovo numero intitolato Working Class Struggles in Italy, in cui l’influenza delle riflessioni operaiste era ancora molto forte. In generale, i riferimenti all’Italia furono presenti fino alla fine del decennio, in particolare quelli relativi al movimento femminista, come vedremo più avanti.

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della donna, pubblicato sull’edizione italiana della «Monthly Review» nel 1969,75 fu uno dei primi a utilizzare gli strumenti del marxismo per spiegare l’oppressione delle donne e conobbe una vasta diffusione internazionale, a partire dagli Stati Uniti. In una lettera indirizzata all’autrice, fu evidenziata l’importanza del testo, che definiva la donna «come caratterizzata da un particolare rapporto con la produzione», permettendo di uscire dal dilemma se le donne fossero una classe o una casta.76 La riflessione, secondo le torinesi, poteva diventare «un punto unificante per i gruppi organizzati»,77 nel momento in cui proponeva una teoria in grado di articolare l’autodeterminazione femminile all’interno di una cornice rivoluzionaria più classica. Benston postulò, come presupposti per l’emancipazione femminile, l’ingresso delle donne nella produzione industriale e la trasformazione del lavoro domestico da produzione privata a industria pubblica. Si possono intravvedere in questa posizione gli assi portanti del femminismo marxista, ma anche alcune intuizioni che sarebbero state riprese dalle campagne promosse dal Collettivo Internazionale Femminista a partire dal 1972.78 Le militanti del gruppo Lotta femminista di Padova, che inaugurarono queste riflessioni, vollero infatti estendere il concetto di «fabbrica sociale» già teorizzato da alcuni operaisti, includendo il lavoro di cura e di riproduzione sociale all’interno del processo di accumulazione capitalistico.79 Le cosiddette «traiettorie femministe dell’operaismo»80 permisero di approfondire ulteriormente queste riflessioni, e di uscire da una concezione di classe operaia definita esclusivamente dal lavoro salariato. Essa fu estesa a chiunque dipendesse dalla propria forza-lavoro per l’accesso a un reddito, a prescindere dal fatto che questo si manifestasse o meno sotto la forma di un rapporto salariale diretto, escludendo la «concezione del patriarcato e del capitalismo come due sistemi di dominazione autonomi».81 75. Margaret Benston, L’economia politica dell’emancipazione della donna, in «Monthly Review», 11 (1969), pp. 7-11. 76. Dear sister Benston, ARPD, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 1. 77. Ibidem. 78. Cfr. Collettivo Internazionale Femminista, Le operaie della casa, Venezia-Padova, Marsilio, 1975. 79. Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Verona, ombrecorte, 2014, p.22. 80. Morgane Merteuil, Traiettorie femministe dell’operaismo (disponibile all’indirizzo https://effimera.org/traiettorie-femministe-operaismo/). 81. Daniela Adorni, Chiara Stagno, Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato, in Contratto o rivoluzione! L’Autunno caldo tra operaismo e storiografia, a cura di

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Fu ancora «Radical America» a valorizzare il portato globale di queste riflessioni, pubblicando il seminale testo di Mariarosa Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, nel 1972.82 Il saggio intendeva contestare la concezione marxista secondo cui il lavoro domestico non sarebbe “produttivo”, ponendo il lavoro femminile come premessa necessaria per la produttività del lavoratore salariato. L’aspetto più interessante, ai fini di questo contributo, è rappresentato dalla corposa premessa al testo della femminista statunitense Selma James, che aveva già curato il saggio Il posto della donna nell’edizione italiana del libro.83 La prefazione, una breve genealogia del femminismo italiano, toccò molti dei temi cari al pensiero operaista e, soprattutto, ripercorse le incomprensioni ideologiche che avevano caratterizzato la nascita del movimento In buona sostanza, l’autrice sostenne che il movimento femminista doveva ancora elaborare «il suo modo autonomo di esistere contro la sinistra e il movimento studentesco».84 Al contempo, James riconosceva il valore delle analisi incentrate sulla classe operaia e la loro riproposizione pratica: Without the integration of women into its political perspective as an autonomous force, the politics of the extra parliamentary left are, to say the least, incomplete (which of course is to say that this Left is organizationally and politically dominated by male arrogance). But they concentrate on the class, despite jargon they have broken from the dominant European Leftist ideology which was eurocentric and intellectual, and above all they bring all this to bear to advance and engage in direct offensive action.85

Un altro aspetto da sottolineare è il parallelismo proposto dall’autrice tra il «lavoro di comunità» svolto dalle femministe italiane e quello teorizzato dalle femministe nere in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, entrambi

Marie Thirion, Elisa Santalena e Christophe Mileschi, Torino, Accademia University Press, 2021, p. 237. 82. Mariarosa Dalla Costa, Women and the Subversion of the Community, in «Radical America», 1 (1972), pp. 67-102. 83. Selma James prese parte all’esperienza del collettivo marxista Correspondence Publishing Committee, con il quale pubblicò per la prima volta il saggio A Woman’s Place, nel 1952. Si trasferì poi in Inghilterra nel 1955, dopo che il marito C.L.R. James venne espulso dagli Stati Uniti durante il periodo maccartista, e continuò qui la sua militanza. 84. Selma James, Introduction to the English translation (of the following article), in «Radical America», 1 (1972), p. 66. 85. Ibidem.

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contesti in cui l’autrice aveva vissuto.86 I Comitati internazionali per il salario al lavoro domestico, di cui James si fece promotrice insieme alle femministe “operaiste” italiane, furono infatti in grado di fondare una propria «scuola di pensiero», che attingeva tanto dal black feminism statunitense quanto dal sindacalismo femminista anglosassone, e che riuscì ad articolare una complessa critica alla divisione gerarchica del lavoro tra occupati e non occupati, tra il lavoro di produzione di beni e il lavoro di produzione e riproduzione della forza lavoro.87 Inoltre, i comitati articolarono quella che la storica Louise Toupin ha definito una prospettiva intersezionale ante litteram,88 vale a dire un’analisi dei rapporti sociali che teneva conto dei diversi gradi di subalternità e oppressione che scaturivano non solo dal posizionamento di classe, ma anche da quello di razza e di genere.89 Non a caso, il concetto di “classe sessuale” predominante nel primo femminismo, secondo Liana Borghi cadde proprio «di fronte alle differenze tra donne di razza, classe, sessualità».90 La peculiarità dei Comitati per il salario al lavoro domestico risulta rilevante poiché, nonostante si muovessero nel solco del femminismo marxista, la loro analisi si spinse oltre le tradizionali richieste retributive mettendo in discussione gli stessi assunti su cui si articolava la lotta di classe e arrivando a rivendicare un reddito «contro il lavoro».91 Le contraddizioni che si riscontravano nel bollettino sul Movimento di liberazione delle donne in America pubblicato a Torino, invece, erano radicate nella dialettica tradizionale della sinistra e nel conflitto con la “città-fabbrica”, e 86. Ibidem. Cfr. Ashley D. Farmer, Remaking Black Power: How Black Women Transformed an Era, Chapel Hill, UNC Press Books, 2017. 87. Toupin, Le salaire au travail ménager, 1972-1977, pp. 181-188. 88. Ivi, pp. 23-25. 89. Cfr. Vincenza Perilli, Il concetto di intersezionalità nel contesto europeo: il caso francese e italiano, in La Straniera. Informazioni, sito-bibliografie e ragionamenti su razzismo e sessismo, a cura di Chiara Bonfiglioli, Lidia Cirillo, Laura Corradi, Barbara De Vivo, Sara R. Farris, Vincenza Perilli, Roma, Alegre, 2009; Vincenza Perilli, Liliana Ellena, Intersezionalità. La Difficile Articolazione, in Femministe a parole. Grovigli da districare, a cura di Sabrina Marchetti, Jamila Mascat e Vincenza Perilli, Roma, Ediesse, 2012, pp. 130-135; Sabrina Marchetti, Intersezionalità, in Le etiche della diversità culturale, a cura di Caterina Botti, Firenze, Le Lettere, 2013, pp. 133-148. 90. Liana Borghi, Connessioni transatlantiche: lesbismo femminista anni ’60-’70, in «Genesis», 2 (2011) p. 42. 91. Silvia Federici, Wages Against Housework, Bristol, Falling Wall Press and the Power of Women Collective, 1975.

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ovviamente non contemplavano una riflessione sulle gerarchie del lavoro costruite sulla base del genere e della razza.92 Nell’allegato del 15 febbraio 1971, il Collettivo delle compagne decise di pubblicare le riflessioni del collettivo Cerchio spezzato di Trento.93 Pur approvando la scelta di una riflessione che partisse “da sé” per prendere «coscienza delle forme “specifiche” della propria oppressione», le donne di Torino non compresero la volontà di aprire «un fronte autonomo di lotta, separato dalla direzione della lotta di classe».94 Un’ipotesi che fu definita, senza mezzi termini, «inaccettabile».95 Lo stesso articolo conteneva poi il paragrafo Le donne e i neri. Il sesso e il colore, nel quale veniva definita in maniera esplicita quella “analogia imperfetta” che prevedeva una continuità tra «il processo di liberazione del popolo nero»96 e la lotta per l’autodeterminazione femminile. Come abbiamo visto, le conseguenze dell’adozione di questo paradigma erano riscontrabili soprattutto nello sviluppo del movimento femminista. Da un lato, vi erano le riflessioni che contemplavano le gerarchie del lavoro basate sul genere e non più solo sulla classe, sostenendo la necessità di «andare oltre Marx».97 Dall’altro, uno sviluppo autonomo e peculiare del pensiero femminista, in cui l’analogia tra genere e razza veniva spinta fino ad assumere «la forma-limite della denegazione, finalizzata ad assicurare il carattere fondamentale della differenza di “sesso”».98

92. Silvia Federici, Genere e capitale, Roma, DeriveApprodi, 2020, pp. 38-56. 93. Sulla storia del Cerchio spezzato e il suo sviluppo all’interno della Facoltà di Sociologia dell’università di Trento si rimanda al saggio di Elisa Bellè presente in questo volume. Si vedano inoltre i capitoli 3 e 4 del volume di Bellè, L’altra rivoluzione. Dal Sessantotto al femminismo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2021. 94. La posizione delle donne all’interno del movimento, in «Il movimento di liberazione delle donne in America», 15 febbraio 1971, ARDP, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 15. Il documento, ciclostilato e divulgato dal Cerchio spezzato nel dicembre 1970, in seguito sarebbe stato conosciuto con il titolo Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna e incluso nel volume I movimenti femministi in Italia, a cura di Rosalba Spagnoletti, Roma, Samonà e Savelli, 1971, pp. 158-164. Per la corrispondenza tra il Collettivo delle compagne e il Cerchio spezzato si rimanda a: ARDP, Fondo Margherita Plassa, MP 1.1.1, Faldone 5. 95. Ibidem. 96. Le donne e i neri. Il sesso e il colore, ivi. 97. Federici, Genere e capitale, pp. 9-14. 98. Perilli, L’analogia imperfetta, p. 14.

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5. Nuove prospettive Nel 1972, la nascita del gruppo Alternativa Femminista tentò di riunire le due anime del femminismo torinese – quella “politica” e quella “radicale” – con una posizione di compromesso: «presa di coscienza sì, ma anche attività all’esterno».99 Un volantino dello stesso anno, pubblicato come allegato a «Informazioni internazionali», è rappresentativo delle profonde, e ancora irrisolte, questioni teoriche dibattute nei primi anni Settanta. Da un lato, il gruppo si volle riconoscere come un movimento politico facente parte della sinistra, che non voleva togliere forza alla lotta di classe ma rafforzarla grazie alla consapevolezza che «fare scoppiare delle contraddizioni non è dividere il popolo, ma portare nuove forze al movimento rivoluzionario mondiale».100 Dall’altro, ripropose un metodo organizzativo separatista, sostenendo che per le donne «partire dall’esame delle specifiche oppressioni per cambiare la situazione generale significa diventare “soggetti politici”».101 L’adozione di un nuovo modo di intendere la soggettività segnò, infine, anche un momento in cui le attenzioni verso la salute, la cura del corpo e le nozioni biologiche del “femminile” si discostarono da una concezione collettiva del femminismo maggiormente influenzata dalla militanza politica.102 Questo mutamento fu riscontrato sempre nel 1972 da Ellen Cantarow, una delle attiviste che avevano accolto “Emmetì” Fenoglio a Boston e che si recò in Italia ospite del Collettivo CR, con l’obiettivo di scrivere un reportage sulla sinistra extraparlamentare per il giornale della New Left americana «Liberation». Il suo sguardo, militante e giornalistico allo stesso tempo, restituiva in maniera vivida l’esperienza vissuta in Italia anche grazie alla descrizione delle riunioni e degli incontri a cui prendeva parte e ai quali si sentiva partecipe e non ospite: «I was always la compagna americana».103 99. Alternativa Femminista, in «Bollettino delle donne», 5 (1979); ARPD, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 64. 100. Perché siamo un movimento politico. ARDP, Fondo Margherita Plassa, MP 1.1.1, Faldone 5. 101. Ibidem. 102. Amber Jamilla Musser, From Our Body to Yourselves: The Boston Women’s Health Book Collective and Changing Notions of Subjectivity, 1969-1973, in «Women’s Studies Quarterly», 35 (2007), p. 94. 103. Ellen Cantarow, Women’s Liberation and Worker’s Autonomy in Turin and Milan, in «Liberation», ottobre 1972, p. 4.

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La descrizione di una riunione a casa di “Emmetì” riportava soprattutto i formalismi presenti nella discussione, estranei ai gruppi di riflessione delle donne americane, e raccontava il rigetto delle istanze omosessuali dopo che un gruppo di compagne aveva preso parte a una riunione del Fuori!104 («the gay liberation is not soon to become part of the Italian left»).105 Questo aspetto è riscontrabile anche nel mancato arrivo a Torino di Ruth, una militante femminista lesbica di New York, invitata del Collettivo CR. Nonostante il lesbismo femminista106 abbia rappresentato un’importante connessione transnazionale nei primi anni Settanta, la mancanza di un movimento gay organizzato in Italia fu uno dei motivi che inibì maggiormente la donna a effettuare lo scambio.107 Il resoconto di un incontro a Milano, poi, restituì la complessa relazione nel movimento italiano tra la volontà di coadiuvare l’immaginario e le teorie provenienti da oltreoceano con la tradizione politica marxista-leninista: «Down the shelf from the volume of Marx, Lenin and Engels, is Sisterhood is Powerful».108 Lo stesso spaesamento spinse l’autrice, nel corso della stessa riunione, a far notare come il motto “Donna è bello” ricalcato sullo slogan “Black is beautiful” coniato dai militanti afroamericani fosse un’appropriazione straniante e che, in un certo senso, contribuiva ancora una volta a formalizzare il “mascheramento” del femminismo nero.109 104. Il Fuori! - Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano nacque a Torino nel 1971 con l’obiettivo di coniugare l’attività politica con la necessità di ottenere una visibilità pubblica per le istanze del nascente movimento omosessuale. Cfr. Myriam Cristallo, Uscir Fuori. Dieci anni di lotte omosessuali in Italia: 1971-1981, Roma, Sandro Teti Editore, 2017. 105. Cantarow, Women’s Liberation, p. 5. 106. Borghi, Connessioni transatlantiche, pp. 41-64. Si veda il contributo di Elena Biagini in questo volume. 107. Questa ipotesi è desumibile dall’intervista dell’autore a Maria Teresa “Emmetì” Fenoglio, 26 aprile 2020. In un’altra intervista, effettuata da Piera Zumaglino nel 1979, la stessa “Emmetì” sostenne che i rapporti con Ruth si erano raffreddati dopo un secondo viaggio negli USA insieme a Fosca Pastorino, durante il quale la donna americana avrebbe dichiarato di non voler partire per l’Italia per non abbandonare la propria compagna. Ruth, inoltre, avrebbe accusato “Emmetì” di essere una «donna straight» che sfruttava le donne omosessuali per il proprio tornaconto politico. Cfr. Cr e primi fermenti, ARDP, Fondo Zumaglino, Serie 1, Faldone 65. 108. Cantarow, Women’s Liberation, p. 5. Cfr. Robin Morgan, Sisterhood is Powerful, New York, Random House, 1970. 109. Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano, pp. 26-27.

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Infine, però, fu la stessa Ellen Cantarow a rendersi conto di come il movimento femminista in Italia fosse l’unico a trovare una sintesi innovativa tra le diverse anime della sinistra extraparlamentare: I am moved, even shaken, as I realize that in all of Italy the only part of the left that may be able to fuse the larger question of political economy, of class, of power, with the politics of personal experience, is the women’s movement.110

Alcuni anni più tardi, l’autrice trovò il modo di confermare questa ipotesi con un nuovo reportage, questa volta pubblicato su «Radical America». Il numero 6 del novembre-dicembre 1976 era nuovamente incentrato sull’Italia, e aveva come sottotitolo Italy: Women, the left, the communists. Nell’introduzione del numero si sosteneva che l’autonomia del movimento femminista avesse finalmente creato le condizioni in cui la sinistra poteva «address the needs of the working class as a whole, not just the working males».111 Il lungo contributo di Ellen Cantarow si focalizzò sugli sviluppi del movimento femminista, ormai in aperto conflitto con la sinistra extraparlamentare e attivo nelle mobilitazioni per la legalizzazione dell’aborto,112 e ripercorse diversi episodi dal 1970 in avanti. Tra le varie esperienze, l’autrice evidenziò la nascita del Movimento di Liberazione della Donna (MLD), federato al Partito Radicale, di cui veniva ricordata la fondazione in seguito alla lettura di alcuni documenti del Women’s Lib.113 L’articolo, inoltre, pose particolare enfasi al rapporto dialettico e conflittuale del movimento femminista con la sinistra (vecchia e nuova), con la Chiesa e con lo Stato. Secondo l’autrice, il movimento per il diritto all’aborto avrebbe rappresentato una possibilità senza precedenti per le donne italiane di disfarsi dell’ingombrante presenza della Chiesa cattolica nella vita civile. Questo aspetto, unito al forte influsso della coscienza di classe sul pensiero femminista italiano, per Cantarow avrebbe amplificato la portata della rabbia tra le donne italiane:

110. Cantarow, Women’s Liberation, p. 6. 111. Introduction, in «Radical America», 6 (1976), p. 6. 112. Cfr. Bracke, La nuova politica delle donne, pp. 107-129; Lorenza Perini, Quando l’aborto era un crimine. La costruzione del discorso in Italia e negli Stati Uniti (19651973), in «Storicamente», 6 (2010), pp. 1-47. 113. Ellen Cantarow, Abortion and feminism in Italy: Women against Church and State, in «Radical America», 6 (1976), p. 15.

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[M]uch of the first two years of the existence of such groups was spent trying to sort out the specifics of women’s oppression both in patriarchy and in capitalism; trying, too, to sort out how the groups might work in relation to the larger movement of the working-class and student left.114

Se però il peculiare sviluppo della Nuova sinistra italiana era riconosciuto dall’autrice e dagli altri osservatori americani, era sempre nell’opposizione a quest’ultima che veniva identificata la definitiva maturazione del movimento femminista: «It was only in the course of the abortion movement that these women began reacting angrily to male radicals’ definition of their role».115 6. Conclusioni Lo sviluppo di reti transnazionali nei circuiti della Nuova sinistra tra gli anni Sessanta e Settanta ha rappresentato un fenomeno peculiare, che pur ponendosi in continuità con l’internazionalismo delle culture politiche che ha caratterizzato l’intero XX secolo,116 fu fondamentale per la crescita dei movimenti di protesta e per la loro diffusione su scala globale. La trascendenza dei confini nazionali e l’interconnessione di teorie, pratiche e immaginari su differenti livelli fu sintomatico dei profondi mutamenti in atto non solo nelle culture politiche, ma anche nelle attività sociali.117 Inoltre, l’intensità e la diffusione degli scambi su scala transnazionale fu favorita dall’espansione dei mezzi di comunicazione e dall’alto grado di istruzione dei protagonisti di questi network, che offrì loro la possibilità di interfacciarsi con soggetti omologhi in termini di orientamenti politicoideologici e interessi sociali in altri paesi.118 114. Ivi, p. 13. 115. Ivi, p. 25. 116. Cfr. Internationalisms. A Twentieth-Century History, a cura di Glenda Sluga e Patricia Clavin, Cambridge, Cambridge University Press, 2017, p. 4. Per una definizione del concetto di cultural internationalism si rimanda a: Akira Iriye, Cultural Internationalism and World Order, Baltimore, Johns Hopkins Press, 2000. 117. Bonfreschi, Georgi, La Transnazionalizzazione Di Reti e Culture Politiche Negli Anni Settanta, pp. 6-7. 118. Sull’importanza dei media nello sviluppo dei movimenti di protesta si veda: The Global Sixties in Sound and Vision. Media, Counterculture, Revolt, a cura di Timothy Scott Brown e Andrew Lison, London, Palgrave Macmillan, 2014.

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Il caso del movimento femminista torinese rappresenta un esempio significativo di come si possa analizzare la diffusione internazionale di riflessioni e pratiche politiche a partire da un caso locale. Il contesto scelto, peraltro, risulta paradigmatico poiché fu il centro organizzativo e strategico della Nuova sinistra nel biennio 1968-’69, e può essere guardato – con le dovute cautele – come un luogo in cui si verificarono, in anticipo e in scala ridotta, gli stessi avvenimenti che avrebbero caratterizzato i movimenti di protesta negli anni successivi. Ciò è verificabile soprattutto in relazione agli scambi transatlantici promossi dal Collettivo CR, che durarono solo pochi anni ma permisero una proficua diffusione delle idee del Women’s Lib nel contesto nazionale, dal momento che il gruppo fu l’unico in Italia a occuparsi esclusivamente della New Left americana. Comunicazioni Rivoluzionarie, infatti, cessò ogni attività nell’autunno del 1972, poco dopo avere smesso di pubblicare il bollettino «Informazioni internazionali».119 La continuazione del movimento femminista torinese, nato con l’esperimento del Collettivo delle compagne, si diversificò invece attraverso numerose esperienze, all’interno delle quali il contributo del femminismo americano è riscontrabile soprattutto con la traduzione del volume Our Body, Ourselves. Con il rafforzamento di organizzazioni separate e il declino dei gruppi della sinistra extraparlamentare, il movimento femminista torinese acquisì una fisionomia autonoma, pur mantenendo al proprio interno importanti divergenze ideologiche. Il consolidamento del movimento portò, nel corso degli anni Settanta, alla nascita di esperimenti fondamentali come i primi consultori autogestiti, l’Intercategoriale donne e l’occupazione della Clinica Universitaria del Sant’Anna, in continuità con altre esperienze simili sul territorio nazionale.120 Nei primi anni Settanta, però, la riproposizione delle conoscenze apprese negli Stati Uniti non fu lineare, ma rappresentò piuttosto un «caotico miscuglio di umori e lucide elaborazioni».121 In questo senso, è importante evidenziare che la trasmissione e la mutua influenza dei 119. “Collettivo Cr” (Comunicazioni rivoluzionarie), AST, Fondo Questura, Elenco Digos, Faldone 6. 120. Liliana Ellena, Spazi e culture politiche nel femminismo torinese. Un percorso tra memoria e ricerca storica dagli anni Novanta ad oggi, in Il femminismo degli anni Settanta, pp. 225-243. Sull’influsso del pensiero femminista transnazionale nella costruzione dei consultori autogestiti, in particolare a Roma, si rimanda a: Bracke, Our Bodies, Ourselves, pp. 560-580. 121. Ribero, Parisi, Una questione di libertà, p. 139.

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movimenti sociali nello spazio transatlantico fu multidirezionale, e non rappresentò un semplice adattamento di nuove culture politiche in contesti differenti.122 È quindi possibile guardare all’incontro tra i femminismi italiani e statunitensi non solo interpretandoli come un rapporto «soggetto/oggetto»,123 distintivo di una prima fase in cui la conoscenza di esperienze politiche extra-nazionali era limitato a incontri sporadici e traduzioni saltuarie. Al contrario, la più importante ricaduta di queste reti transnazionali è apprezzabile nella circolarità dei contatti e nella loro riproposizione anche in fasi cronologiche differenti. Inoltre, bisogna tenere presente che la «ricontestualizzazione di concetti e pratiche» si trasformò spesso in una «decontestualizzazione»124 di queste ultime, forzando il contenuto di testi e idee straniere per adeguarle al contesto locale o nazionale nel quale venivano rielaborate. Il contributo del femminismo americano in Italia fu sicuramente più incisivo, ma in questo saggio si è voluto mostrare come anche la ricezione tardiva e parziale di alcune specifiche riflessioni maturate nel movimento italiano abbia permesso l’apertura di un dibattito oltreoceano, che guardava alla centralità della classe operaia e – contemporaneamente – alla necessità di una sua ridefinizione.125 La conoscenza parziale e settorializzata del femminismo italiano all’estero risultò quindi fortemente influenzata dall’antagonismo di classe e dalla centralità delle lotte operaie. Il patrimonio politico dei movimenti di protesta italiani in prospettiva transnazionale si affermò, così, tramite le elaborazioni teoriche più che attraverso le pratiche di contestazione. Allo stesso tempo, furono proprio le relazioni di scambio e confronto avviate dal movimento femminista a rendere più poroso il confine tra questi due aspetti. In questo senso si evidenzia come, oltre a rappresentare un fenomeno culturale e sociale di massa dalle spiccate caratteristiche locali, il femminismo italiano degli anni Settanta sia in larga parte analizzabile nella sua peculiare configurazione di «movimento politico»,126 e la sua ricezione 122. Bracke, Mark, Between Decolonization and the Cold War, p. 11. 123. Passerini, Corpi e corpo collettivo, p. 191. 124. Bracke, La nuova politica delle donne, p. 15. 125. Cfr. Kathi Weeks, The Problem with Work. Feminism, Marxism, Antiwork Politics, and Postwork Imaginaries, Durham and London, Duke University Press, 2011. 126. Paola Stelliferi, Is the Personal Political for Men Too? Encounter and Conflict between ‘New Left’ Men and Feminist Movements in 1970s Italy, in «Gender&History», 27 (2015), p. 846.

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negli Stati Uniti sia stata mediata quasi esclusivamente dal femminismo di matrice marxista. In Italia, infatti, l’allontanamento delle donne dai gruppi della sinistra extraparlamentare esplicitò anche una riformulazione – e in alcuni casi un rifiuto – delle categorie di analisi marxiste a favore di un’apertura verso l’esperienza del femminismo radicale americano. Al contrario, negli Stati Uniti, la minore prossimità della New Left al marxismo potrebbe avere favorito una maggiore attenzione verso un’interpretazione dei rapporti di genere intersecata con l’analisi di classe. Il limitato, ma attento, interesse per il contesto torinese mostra come l’attenzione per questi aspetti fosse evidente. Ancora di più lo fu con esperienze peculiari come i Comitati per il salario al lavoro domestico, la cui diffusione transnazionale li rese uno degli esempi più significativi della circolazione di teorie e pratiche politiche negli anni Settanta. L’affermazione di questi contatti fu fondamentale per lo sviluppo dei movimenti di protesta, e allo stesso tempo contribuì ad affermare un nuovo immaginario, mediato dallo sviluppo internazionale delle lotte sociali e propagato tramite il rafforzamento delle reti transnazionali della Nuova sinistra.

Elisa Bellè Centro o periferia? L’approccio reticolare nello studio del femminismo trentino

1. Un teatro inatteso del Sessantotto, tra storia e mitologia All’inizio degli anni Sessanta il Trentino è un luogo povero e periferico rispetto ai processi di crescita in atto nel resto d’Italia: l’economia si basa prevalentemente sull’agricoltura di sussistenza e dalle valli più povere si emigra ancora massicciamente. La politica e la società locali sono dominate dalla Dc e dalla chiesa. Nelle fabbriche esistenti vige un serrato controllo padronale, i pochi operai sindacalizzati e/o di tradizione socialcomunista sono isolati e subiscono pesanti ritorsioni. È in questo contesto non certo avanguardistico che l’allora presidente della Provincia autonoma, Bruno Kessler, democristiano di area progressista, decide di aprire una facoltà di Sociologia, la prima in Italia. L’obiettivo è duplice: inserire il territorio nelle dinamiche di sviluppo del Paese e formare al contempo una nuova classe di operatori sociali, in grado di gestire, governare, pianificare lo sviluppo su cui si scommette. La scelta sicuramente anticonvenzionale della Sociologia, invisa alla tradizione idealistico-crociana e guardata con sospetto dall’ala destra del partito, così come dal potere ecclesiastico, si accompagna ad altre decisioni di rottura. A Sociologia ci si potrà iscrivere anche con un diploma di istituto tecnico, che sino ad allora consentiva l’accesso alle sole facoltà di Agraria ed Economia e commercio. Una novità per l’Italia del tempo, in linea * Desidero ringraziare sentitamente le curatrici del volume e le due persone che hanno svolto le revisioni della prima stesura di questo capitolo per i loro commenti, le riflessioni e le critiche, che hanno significativamente contribuito a diverse e importanti modifiche in fase di seconda stesura.

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con l’approvazione, nel 1961, della prima “piccola liberalizzazione” degli accessi universitari. Questa serie di scelte politiche fa sì che a Trento giunga un manipolo di studenti particolarmente motivati/e, decise/i a correre dei rischi personali – il titolo di laurea non è ancora legalmente riconosciuto – spesso già engagé (la sociologia come strumento di cambiamento sociale e non di gestione tecnica), con una composizione di classe assai più mista che altrove. Ecco tratteggiato, seppure in maniera molto sintetica, il bizzarro connubio di elementi che rende Trento uno dei più imprevisti e radicali teatri del lungo Sessantotto italiano, divenuto poi oggetto di innumerevoli narrazioni, rappresentazioni e rielaborazioni: Trento avanguardia intellettuale e happening a cielo aperto, Trento l’occupazione più lunga, Trento culla della lotta armata (falso storico, giacché le Brigate rosse nasceranno in seguito, a Milano)…1 Eppure, in questo processo di costruzione della memoria pubblica e, con essa, di una piccola mitologia, vi sono importanti omissioni e non casuali dimenticanze. Trento è infatti una delle prime città, insieme a Roma e Milano, in cui fa la sua comparsa il femminismo di cosiddetta seconda ondata. Sulla scia dell’esperienza ambivalente del Sessantotto, alcune studenti cominciano a riflettere sulla propria condizione di donne, sulle dinamiche di leadership e verticismo maschile esperite nel movimento, sulla necessità di trovare altre parole per fare altri discorsi, meglio capaci di dar voce a conflitti ancora senza nome. Nasce così il Cerchio spezzato, gruppo femminista che tra i primi sperimenterà la pratica dell’autocoscienza, quando ancora non era che una vaga eco arrivata d’oltreoceano, contribuendo significativamente al primo sviluppo intellettuale e politico del movimento delle donne italiano. Nelle pagine che seguono cercherò di dare conto di questa storia, rimasta ingiustamente ai margini del racconto pubblico ma anche, seppure in misura minore, della memoria femminista stessa, a partire da un tentativo di decostruzione della dicotomia gerarchizzante tra centro e periferia. Se Trento, periferia divenuta centrale nel racconto del Sessantotto, torna a diventare marginale in quello del femminismo, forse non dobbiamo interrogare solo il ruolo della dominazione maschile nella costruzione dei “fatti storici” (aspetto ormai ampiamente assodato). Forse dobbiamo fare 1. Marco Boato, Il lungo ’68 in Italia e nel mondo, Brescia, La Scuola, 2018.

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un passo in più, e chiederci quanto anche il lavoro storiografico e sociologico sul femminismo abbia sinora risentito di una scarsa articolazione geografica, con uno sbilanciamento narrativo sui grandi centri rispetto alla provincia, come del resto messo in luce da diversi contributi.2 Alla gerarchia centro-periferia si è spesso accompagnata un’enfasi sul femminismo come produzione intellettuale e/o sui contributi teorici di singole pensatrici. Tale approccio rischia di non rendere giustizia all’effettiva esperienza storica del movimento, che in Italia più che altrove ha avuto un carattere eminentemente politico e una diffusione di massa;3 in anni recenti, esso comincia tuttavia a smussarsi, per fare spazio ad un racconto più polifonico, tanto in termini di temi,4 quanto di luoghi.5 Con questo saggio intendo contribuire al ribilanciamento geografico del racconto femminista, ma anche a una sua diversa elaborazione. Più che scavare nel caso di studio specifico, mi soffermerò sui processi di progressiva costruzione di reti intellettuali, amicali, politiche, che collegano Trento ad altre realtà, italiane e non. L’obiettivo è quindi quello di tenere assieme la restituzione di una specifica vicenda e la sua articolazione come snodo di una rete, punto su una mappa, a sua volta collegato 2. Luisa Passerini, Il movimento delle donne, in La cultura e i luoghi del ’68, a cura di Aldo Agosti, Luisa Passerini e Nicola Tranfaglia, Milano, FrancoAngeli, 1991, pp. 366380; Anna Rossi-Doria, Ipotesi per una storia che verrà, in Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Roma, Viella, 2005, pp. 1-24. 3. Rossi-Doria, Ipotesi per una storia che verrà. 4. Si vedano a questo proposito diversi lavori pubblicati in anni recenti, che pongono l’accento sulla ricostruzione delle vicende del movimento femminista in relazione a temi meno battuti, eppure dirimenti in termini di analisi dei processi organizzativi e politici, quali ad esempio il lavoro politico svolto nelle periferie (Paola Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei collettivi di quartiere, Bologna, Bononia University Press, 2015); il femminismo sindacale (Anna Frisone, Quando le lavoratrici si ripresero la cultura: femminismo sindacale e corsi 150 ore delle donne a Reggio Emilia, Bologna, Editrice Socialmente, 2014); il rapporto tra femminismo e organizzazioni della sinistra extraparlamentare (Stefania Voli, Quando il privato diventa politico: Lotta Continua 1968-1976, Roma, Edizioni Associate, 2006 e Stefania Voli, Soggettività dissonanti. Di rivoluzione, femminismi e violenza politica nella memoria di un gruppo di ex militanti di Lotta continua, Firenze, Firenze University Press, 2014). 5. Elisa Bellè, L’altra rivoluzione. Dal ‘68 al femminismo, Torino, Rosenberg&Sellier, 2021. Il volume si focalizza sulle vicende trentine, poste in relazione al contesto italiano, in una prospettiva di ricostruzione delle reti e degli scambi fra gruppi e luoghi del movimento.

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ad altri snodi che, come vedremo, si giocano su più scale spaziali e attraverso modalità di collegamento diverse: dalla circolazione di testi femministi provenienti d’oltreoceano, ai primissimi contatti tra gruppi allora nascenti, alle reti di relazioni personali che nel tempo daranno luogo a molti e diversi percorsi politici. Questo contributo si colloca all’interno di una più ampia ricerca,6 basata sul dialogo tra fonti orali e scritte. Da una parte, trenta interviste ad attiviste che hanno animato svariati gruppi attivi in Trentino nell’arco cronologico 1969-1983. Dall’altra, materiali documentari conservati presso il Centro di documentazione Mauro Rostagno (Museo storico del Trentino), l’Archivio delle donne della Biblioteca civica di Rovereto e, in misura minore, presso archivi privati messi a disposizione dalle intervistate stesse. 2. I primi sviluppi teorici e le prime reti, tra gli Stati Uniti e Milano La nascita del primo gruppo femminista trentino, il Cerchio spezzato, è inscindibile dalla vicenda del Sessantotto e da quelle della neonata Facoltà di Sociologia. Il collettivo politico si sviluppa infatti a partire da un precedente gruppo di studio, composto da quattro ragazze, Luisa Abbà,7 Gabriella Ferri,8 6. Il progetto di ricerca FemMe – Femminismo e memoria, realizzato grazie al finanziamento della Fondazione CARITRO, che è stato interamente condotto da chi scrive, ha visto come ente capofila il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento e come ente partner la Fondazione Museo storico del Trentino. La ricerca aveva come obiettivo la ricostruzione del movimento delle donne nel contesto trentino, nell’arco temporale 1969-1983 circa, così come delle connessioni tra movimento locale e nazionale. A tal fine, si è fatto ricorso all’analisi di documenti di archivio e a 40 interviste semi-strutturate (30 con le protagoniste del movimento, 10 con testimoni privilegiate/i). Per approfondimenti si veda Bellè, L’altra rivoluzione, e il sito dedicato al progetto, www. femme-unitn.it. 7. Luisa Abbà (Trieste, 1946), arriva a Trento nel 1966 come studente dell’Istituto superiore di scienze sociali, futura facoltà di Sociologia. Partecipa alle mobilitazioni del movimento studentesco ed è tra le fondatrici del Cerchio spezzato. Si laurea nel 1971 e insieme alle altre/agli altri del gruppo tesi si trasferisce a Milano, dove prosegue la militanza nel movimento delle donne. Dopo una breve esperienza nell’insegnamento, lavora come addetta stampa presso la Regione Lombardia, diventando poi giornalista professionista. Risiede tuttora a Milano. 8. Gabriella Ferri (Firenze, 1947 - Firenze, 2006), studente dell’Istituto superiore di scienze sociali di Trento, insieme al gruppo della tesi fonda il Cerchio spezzato. Dopo la

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Elena Medi,9 Silvia Motta,10 e da un ragazzo, Piergiorgio Lazzaretto,11 tutte/i variamente coinvolte/i nelle vicende del movimento studentesco. Il gruppo condivide un appartamento, una delle prime comuni cittadine (comincia a prendere forma in quel periodo l’esperienza dell’abitare politico) e decide, all’incirca nel febbraio del 1969, di lanciarsi nell’impresa di una tesi collettiva sulla condizione femminile. La tesi, discussa nel febbraio 1971 e pubblicata l’anno successivo da Mazzotta con il titolo La coscienza di sfruttata, costituisce in Italia uno dei primi tentativi di «di conciliare le tesi del materialismo storico con quelle del femminismo radicale chiedendo aiuto, per così dire, alle teorie psicanalitiche rivisitate anche loro in chiave femminista».12 Il libro conobbe un certo successo, in quanto risposta ai primi bisogni analitici e teorici del femminismo, allora in cerca di una sua autonomia rispetto alle categorie marxiste e all’esperienza del Sessantotto. È importante mettere in luce come, dietro a uno dei più fortunati “best seller” della prima produzione femminista, vi sia un lungo percorso di elaborazione: laurea in Sociologia si trasferisce a Milano, dove insegna matematica e prosegue l’attività nel movimento delle donne. Trascorre i suoi ultimi anni a Firenze. 9. Elena Medi (Milano, 1944), arriva a Trento nel 1964 come studente del neonato Istituto superiore di scienze sociali. Milita nelle associazioni studentesche d’ispirazione cristiana (Gdiut), partecipa alle attività del movimento studentesco e a quelle del movimento politico Lotta continua. È tra le fondatrici del Cerchio spezzato. Dopo il conseguimento della laurea si trasferisce con le/i compagni del gruppo tesi a Milano, dove continua le attività nel movimento delle donne. Decide poi di trasferirsi per un periodo a Parigi, dove entra in contatto con il femminismo francese. Al rientro, studia fisioterapia e lavora poi in tale ambito. Vive tuttora a Milano, ma ha risieduto per diverso tempo all’estero, soprattutto in Africa. 10. Silvia Motta (Civo, SO, 1947) si iscrive nel 1966 all’Istituto superiore di scienze sociali, dove partecipa alle attività del movimento studentesco e fonda il Cerchio spezzato assieme ad altre studentesse di Sociologia. Si laurea nel 1971 e si trasferisce a Milano, dove continua le attività politiche nel movimento delle donne. Ha lavorato come insegnante nella scuola superiore di secondo grado, poi come consulente aziendale nel marketing. Risiede tuttora a Milano. 11. Piergiorgio Lazzaretto (Venezia, 1942 - Trento, 1992). Dopo un periodo di studi teologici presso il seminario dei domenicani di Bologna si trasferisce con la famiglia a Trento e frequenta la facoltà di Sociologia. Conclusa l’università si sposta a Milano insieme alle compagne con cui ha scritto la tesi. Qui, oltre a fare l’insegnante, fonda Alia Musica, uno dei primi gruppi italiani di Musica medioevale. 12. Annarita Calabrò, recensione a La coscienza di sfruttata, in «Memoria», 19-20 (12, 1987), pp. 234-235. Luisa Abbà, Gabriella Ferri, Giorgio Lazzaretto, Elena Medi, Silvia Motta, La coscienza di sfruttata, Milano, Mazzotta, 1972.

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Luisa Abbà: Arrighi13 è stato professore a Trento di Economia, è stato un economista anche abbastanza importante. Siamo inciampate in Arrighi perché volevamo fare una tesi sulle donne, per tutte quelle storie personali o meno che avevamo avuto lì, e davamo molta importanza a questa lettura strutturale della società: marxismo, contraddizione principale, contraddizione secondaria… Io ho questo ricordo che lui, quando gli abbiamo detto queste cose disse “Ma voi siete pazze!”. Nel senso: questa qui è una lettura marxista e proprio non è che succede così. Ci ha dato da leggere Note del secondo anno, ci ha detto: “In America stanno succedendo delle cose […]” […] ci aveva portato Note del secondo anno. Ed è su quella lettura che poi è nata tra di noi tutta una grande discussione. Elena Medi: Poi Arrighi aveva il vantaggio di […] [essere prossimo al nascente movimento femminista milanese per via di alcune sue reti di relazione]. Luisa Abbà: […] avevano messo in piedi, nello stesso periodo, a Milano, un gruppo di donne. Silvia Motta: L’Anabasi.14

Gli studi di Arrighi sulle diseguaglianze tra paesi a capitalismo avanzato e paesi colonizzati, bianchi e neri, nord e sud del mondo fanno scattare una scintilla di riflessione che il gruppo trasla nell’analisi dei rapporti di genere. A questo proposito, è importante notare come la figura e gli interessi scientifici di Arrighi confermino, declinandolo nello specifico contesto locale, il processo di consolidamento di un dibattito terzomondista e anticoloniale che era andato formandosi tra gli anni Cinquanta e Sessanta, nutrito dai crescenti scambi tra New Left statunitense e Nuova sinistra europea ed italiana.15 Inoltre, è lo stesso Arrighi che per primo 13. Giovanni Arrighi (Milano, 1937 - Baltimora, 2009), laureatosi in Economia all’Università Bocconi (1960), nella sua prima fase di carriera, antecedente all’arrivo a Trento (1969), lavora per diversi anni in Africa, conducendo ricerche sul rapporto tra mercato del lavoro, colonialismo e movimenti nazionali di liberazione. È tra gli intellettuali italiani che nel periodo concorrono a sviluppare le prime riflessioni critiche sulle politiche coloniali. 14. Le interviste qui proposte sono state da me raccolte tra il 2017 e il 2018 nell’ambito del progetto FemMe, audioregistrate e integralmente trascritte. A seconda dei desideri delle intervistate, sono state rese esplicite le identità (è il caso degli stralci utilizzati nel presente articolo), oppure sono stati usati degli pseudonimi. 15. In questo senso gioca un ruolo pionieristico il Collettivo Comunicazione rivoluzionaria di Torino, specializzato nella traduzione di giornali e documenti della New Left, il Collettivo esteri di Potere operaio, che a partire dal 1969 lavora alla costruzione di reti militanti transnazionali, ma anche singole figure intellettuali, quali Bruno Cartosio, Fernanda Pivano, Roberto Giammanco, Peppino Ortoleva, Sandro Sarti, Renato Solmi, Massimo Teodori. Per un approfondimento si veda il contributo di Tommaso Rebora in questo volume;

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menziona al gruppo le elaborazioni femministe d’oltreoceano, portando i testi originali, non ancora tradotti. Il riferimento è a Notes from the Second Year,16 raccolta di scritti edita a New York nel 1970. Il primo numero della pubblicazione, a cadenza annuale, uscì nel 1968 con il titolo Notes from the First Year.17 Si tratta di un’antologia di voci e prospettive del femminismo statunitense che ebbe grande influenza nel contesto europeo, ispirando anche l’impostazione della rivista italiana «Sottosopra». Altre testimonianze e ricostruzioni disponibili in letteratura concordano sul fatto che i testi delle americane siano giunti a Milano principalmente tramite una delle attiviste di Anabasi, Serena Castaldi,18 che durante un viaggio negli Stati Uniti entra in contatto con vari gruppi e partecipa ad alcuni incontri di autocoscienza. Silvia Motta: È vero, lui [Arrighi] li aveva ottenuti dalla Passerini [Luisa]. Ci ha fatto avere i documenti americani, quelli di Berkeley, quelli dei gruppi che nascevano in America e che tu hai tradotto. Luisa Abbà: Note del secondo anno, libro fondamentale. Silvia Motta: Non ti ricordi? Li hai tradotti tu! [rivolgendosi a Elena Medi] Livia Abbà: Non tutto l’hai tradotto. Silvia Motta: No, alcune cose. Luisa Abbà: Mi ricordo che la sorella di Claudio ne ha tradotti quattro, tra cui Orgasmo vaginale e clitorideo. Aveva diciotto anni e diceva “Ma che cosa state leggendo!”. Perché lei era stata a fare un anno in America a sedici anni, quindi lei sapeva bene l’inglese e le erano stati affidati quattro pezzi delle Note del secondo anno, di cui appunto il testo fondamentale era Orgasmo vaginale e clitorideo [ridono].19

I ricordi delle protagoniste, per quanto incerti sui dettagli, tratteggiano piuttosto chiaramente il processo di costruzione delle prime reti femministe: una serie di collegamenti, seppur ancora mediati, vanno stadello stesso autore From Turin to Boston (and back): A Transatlantic Feminist Network, in «Journal of American History and Politics», 4/1 (2021), pp. 13-24; e Marica Tolomelli, Dall’anticolonialismo all’anti-imperialismo yankee nei movimenti terzomondisti di fine anni Sessanta, in «Storicamente», 12/27 (2016). 16. Notes from the Second Year: Radical Feminism, a cura di Shulamith Firestone e Anne Koedt, New York, 1970. 17. Notes from the First Year, New York, 1968. 18. Aida Ribero, Una questione di libertà. Il femminismo degli anni Settanta, Torino, Rosenberg&Sellier, 1999. 19. Intervista con Luisa Abbà, Elena Medi, Silvia Motta, 18 gennaio 2018

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bilendosi tra contesti lontani e sino ad allora estranei. Da notare inoltre l’accenno interessante a Luisa Passerini come fonte indiretta di arrivo dei testi americani. Le intervistate non sono state in grado di ricostruire esattamente il collegamento tra Arrighi e Passerini, ma anche quest’ultima si interessa in quel periodo ai movimenti anticoloniali in Africa, militando in quello di liberazione nazionale del Mozambico (non a caso, Passerini e Arrighi cureranno poi insieme un volume sull’analisi dei sistemi di parentela in Africa, uscito nel 1976).20 Le intervistate ricordano anche l’artigianalità delle pratiche di costruzione di queste prime reti, tra cui figura il lavoro di traduzione in proprio di alcune parti del volume. In questo caso il riferimento è al celebre saggio The Myth of the Vaginal Orgasm, di Anne Koedt, pubblicato appunto nelle Note, il cui titolo viene sovrapposto a La donna clitoridea e la donna vaginale, uscito nel 1971 a firma di Carla Lonzi per gli Scritti di Rivolta femminile. Come si vede, le reti già formatesi tra New Left statunitense e marxismo non ortodosso italiano si traslano e declinano in campo femminista. Anche in questo caso, Trento non è l’unico esempio di una dinamica che procede per epicentri geografici diversi. Abbiamo già citato il caso di Milano, ma anche Torino svolge un ruolo di connessione importante, grazie alle attività di traduzione e circolazione delle riflessioni provenienti da Oltreoceano, sia nel campo della sinistra, sia in quello femminista.21 20. La politica della parentela: analisi situazionali di società africane in transizione, a cura di Giovanni Arrighi e Luisa Passerini, Milano, Feltrinelli, 1976. I viaggi in Africa per Passerini coincidono con i primi lavori di ricerca, mentre per Arrighi fanno già parte di un primo lavoro politico, condotto anche insieme a Giovanni Pirelli, con il quale faceva parte del Centro Frantz Fanon di Milano. Un precedente collegamento tra Arrighi e Passerini risale alla comune militanza nel Gruppo Gramsci, collettivo della sinistra extraparlamentare nato dopo il 1969 da alcuni ex militanti del PCd’I, del Movimento studentesco di Milano e Varese e da altre sigle minori. Si ringrazia Tommaso Rebora per l’aiuto nella ricostruzione delle reti di scambio e della genesi relazionale tra i due studiosi. 21. È sempre il Collettivo Comunicazione rivoluzionaria Torino che traduce diversi materiali, portati da Boston da Maria Teresa Fenoglio. I contatti di Fenoglio con le femministe statunitensi si trasformano in una serie di scambi epistolari, che danno impulso alla costituzione, sempre a Torino, del Collettivo delle compagne, uno dei primi gruppi femministi italiani. Per approfondimenti sul caso torinese si vedano Rebora, From Turin to Boston (and back) e Femminismi a Torino, a cura di Piera Zumaglino, Milano, FrancoAngeli, 1996.

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Luisa Abbà: [Lo scambio con Arrighi e le letture dei testi femministi] è stato quello che ci ha fatto virare la testa dal marxismo all’altro. […] E noi siamo arrivate all’“in quanto donna” con un’accusa generale da parte degli altri che eravamo borghesi. Elena Medi: Di essere controrivoluzionarie. Luisa Abbà: Però per poter avere una sicurezza tale per cui l’accusa di borghese non era… ci è voluto, anche tra di noi. Silvia Motta: Infatti la tesi è tutto lo smontaggio di quella roba. Luisa Abbà: E quindi devo dire che forse la prima cosa di autocoscienza è stata veramente tra di noi ed è stata molto vivace, molto produttiva. Silvia Motta: Noi, Gabriella e Piergiorgio: eravamo cinque. Luisa Abbà: Abbiamo fatto quella vacanza anche per scrivere la tesi, e mentre la stavamo scrivendo… io proprio mi ricordo come sia iniziata quella discussione in quei mesi lì e come ne siamo uscite veramente diverse. […] Certo, perché poi le americane erano anche di esempio: loro facevano un discorso sull’autocoscienza perfettamente… Sivia Motta: Preciso. Luisa Abbà: E noi quando abbiamo discusso così non è che pensassimo di fare il gruppo di autocoscienza, ma discutevamo di come fare la tesi, però di fatto lo facevamo perché quasi tutte noi raccontavamo la nostra storia. Elena Medi: Anche perché eravamo un gruppo noi stesse, e poi perché raccontavamo… noi eravamo una casa con… quante donne eravamo, otto? Luisa Abbà: Sei. Silvia Motta: Eravamo sei donne.

Il percorso intellettuale, politico, personale per arrivare all’«in quanto donna» è segnato da conflitti stratificati e dalla necessità di discutere, anche accesamente. La complessità di questo percorso di progressiva autonomizzazione deriva dall’esigenza di assicurarsi una posizione di autentica indipendenza intellettuale, a sua volta legata al già citato processo di abbandono della prospettiva marxista, intesa in quanto dogma onnicomprensivo e identità politica. Questa ricerca si intreccia, inevitabilmente, con la messa in questione dell’esperienza politica maturata nel movimento studentesco, verso la quale vi è un forte debito («non era un’esperienza su cui tu potevi sputare quella di Trento», racconta una delle intervistate), che rende la critica viscerale e al contempo più difficile. Un altro elemento di estremo interesse del racconto è il legame inscindibile tra dimensioni diverse nel processo di costruzione di una nuova consapevolezza: l’abitare insieme, confrontandosi sulla condizione femminile nella quotidianità, apre a nuove forme relazionali, a una nuova con-

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sapevolezza, soggettiva e politica al contempo, che a sua volta si nutre dell’attività di studio e riflessione intellettuale. Troviamo qui, condensati in pochi passaggi, tutti i prodromi della riflessione successiva sul partire da sé non solo come prassi politica, ma anche come epistemologia scientifica del posizionamento.22

3. Sesso, razza, casta Uno dei primi nodi da sciogliere rimanda ad una delle questioni da sempre problematiche per il femminismo, tanto politicamente, quanto filosoficamente, vale a dire il rapporto tra uguaglianza e differenza, declinato qui nei termini di un conflitto tra obiettivi: rivoluzione proletaria o liberazione di tutte le donne? La questione sarà all’origine di una dialettica interna al movimento, in cui coesistono orientamenti diversi, e anche di una lunghissima querelle tra femminismo e gruppi della Nuova sinistra, protrattasi per tutto il decennio successivo.23 Il racconto delle intervistate è dunque particolarmente interessante, poiché fotografa le origini e il primo sviluppo di quel dibattito («un’accusa generale da parte degli altri che eravamo borghesi, controrivoluzionarie, eccetera»). Le discussioni interne si trasformano, per scelta del gruppo, in appuntamenti allargati, a cui prendono parte inizialmente soprattutto altre studentesse e poi, via via, anche ragazze e donne esterne al giro della Facoltà. Nel 1969 comincia così a prendere avvio l’esperienza femminista trentina, che nei primi mesi si basa esclusivamente sulla pratica dell’autocoscienza. Anche in questo caso il gruppo si muove lungo una frontiera di assoluta sperimentazione: sono i primi tentativi documentati in Italia, che avvengono sostanzialmente in contemporanea a Milano, Roma e Trento: 22. Sandra Harding, Is There a Feminist Method?, in Feminism and Methodology, a cura di Sandra Harding, Bloomington, Indiana University Press, 1987, pp. 1-14; Luisa Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosenberg&Sellier, 1991; Bellè, L’altra rivoluzione. 23. Si vedano in proposito: Mariella Gramaglia, Affinità e conflitto con la nuova sinistra, in «Memoria», 19-20/1-2 (1987), pp. 19-37; Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Roma, Viella, 2005; Voli, Quando il privato diventa politico; Paola Stelliferi, “Una originaria, irriducibile asimmetria”. Il rapporto della nuova sinistra con i femminismi in Italia (1972-1976), in «Italia contemporanea», 287 (2018), pp. 15-43.

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Luisa Abbà: Un classico gruppo di autocoscienza. Elisa Bellè: Allora c’era la consapevolezza che si chiamasse autocoscienza? Luisa Abbà: Sì, perché era americana... Silvia Motta: No, noi la chiamavano presa di coscienza, veramente. E secondo me è anche più giusto perché non è solo auto: è un’auto in collettivo, quindi diventa presa di coscienza. Elena Medi: Brava Silvia! Silvia Motta: A me non è mai piaciuto autocoscienza.

È estremamente interessante notare la risposta alla mia domanda rispetto all’uso del termine autocoscienza. A questa dicitura, che successivamente prevarrà, le intervistate preferiscono «presa di coscienza», di diretta derivazione dall’originale statunitense, consciousness-raising, letteralmente “elevazione di coscienza”.24 La scelta di quest’uso apre a diverse considerazioni. Innanzitutto, il carattere ancora sperimentale di quella che diverrà poi la pratica cardine del movimento, almeno fino alla prima metà degli anni Settanta, nonché uno dei suoi lasciti politici ed epistemologici più importanti. Vi è poi, chiaramente, l’influenza delle letture americane e delle Note del secondo anno, che infatti contiene una sezione interamente dedicata al tema.25 Inoltre, la preferenza per questa espressione non è solo, come ipotizzato da Passerini, dovuta al fatto che suggerisce l’idea «di un divenire anziché di un processo già tutto compiuto»,26 ma anche al suo più forte accento sull’aspetto collettivo del processo, come spiega Silvia Motta stessa nello stralcio sopra riportato. È sulla base di questo percorso e sugli appunti metodicamente presi nel corso delle riunioni che viene redatto il documento-manifesto del gruppo, il cui titolo diventerà poi uno dei più fortunati slogan del movimento italiano: Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna. Non c’è liberazione della donna senza rivoluzione, coclostilato nel dicembre del 1970. Lo scritto si apre con un’analisi vivida dell’esperienza di discriminazione fatta nel movimento studentesco. Le contraddizioni dell’egualitarismo as24. Su questo si veda Ribero, Una questione di libertà. Il femminismo degli anni Settanta. 25. La sezione si intitola appunto Consciousness-Raising e si compone di quattro contributi: The Personal is Political, di Carol Hanisch; A Program for Feminist “Consciousness Raising”, di Kathie Sarachild; Resistances to Consciousness, di Irene Peslikis; False Consciousness, di Jennifer Gardner; Man Hating, di Pamela Kearon. 26. Passerini, Il movimento delle donne, p. 168.

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semblearista e i limiti di un antiautoritarismo spesso di maniera vengono impietosamente evidenziati: […] i gruppi di lavoro politico hanno verificato la nostra sistematica subordinazione: noi siamo “la donna del tal compagno”, quelle di cui non si conoscerà mai la voce, limitate al punto da arrivare a crederci realmente inferiori. L’analisi delle assemblee ci ha portato a vedere un’élite di leaders, una serie di quadri intermedi maschili e una massa amorfa composta dal resto maschile e da tutte le donne. […] In un ambiente come il nostro, in particolare, la parola – maggior strumento di affermazione – è diventata lo strumento della nostra esclusione.27

Se la descrizione del contesto e dei conflitti è legata alla specifica esperienza del Sessantotto trentino, negli strumenti di analisi si ritrova invece l’influenza delle letture americane e delle Note del secondo anno. Più specificatamente, sembra aver avuto un particolare rilievo il saggio di Ellen Willis, Women and the Left: We must remember that women are not just a special interest group with sectarian concerns. We are half the human race […]. Our oppression transcends occupations and class lines. Femaleness, lake blackness, is a biological fact, a fundamental condition. Like racism, male supremacy permeates all strata of this society.28 Le donne sono la metà dell’umanità. La nostra oppressione trascende le occupazioni e le classi […]. Se quindi un certo tipo di sfruttamento è basato sulla discriminazione sessuale, esso fa di tutte le donne una casta oppressa. Ci sembra che il termine di casta sia particolarmente indicato per caratterizzare la situazione di tutte le donne. […] Il processo di liberazione del popolo nero ci ha fatto sempre più prendere coscienza della nostra reale situazione e delle strettissime analogie che esistono tra loro e noi. Essere donna come essere nero è un fatto biologico, una condizione fondamentale.29

Il documento del Cerchio spezzato riprende la categoria analitica di casta, nell’uso che ne fa il femminismo nordamericano, ovvero per delineare 27. Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna, sottolineatura nell’originale. Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio Movimento Studentesco, Fondo Elena Medi, b. 1. Il documento è reperibile, in versione integrale, in I movimenti femministi in Italia, a cura di Roberta Spagnoletti, Roma, Samonà e Savelli, 1971 e in Anabasi, Donna è bello, Casalfiumanese (BO), Liton, 1972. 28. Ellen Willis, Women and the Left, in Notes of the Second Year, p. 56, corsivo nell’originale. 29. Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna.

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un sistema di divisione e assegnazione degli individui (alla nascita e/o sulla base di attributi fisici) entro gruppi posti in relazione gerarchica fra loro. È importante evidenziare come il concetto sia mutuato dall’ambito degli studi critici sul colonialismo e sullo schiavismo, che in quella fase si intensificano, come già evidenziato (si noti come la figura di Arrighi incarni perfettamente quel tipo di contaminazione intellettuale nel contesto italiano). Tuttavia la congiunzione analitica tra sesso/genere e razza non ha origini solamente intellettuali, ma anche politiche. L’avvio del femminismo di seconda ondata nordamericano si intreccia infatti indissolubilmente con la vicenda del movimento per i diritti civili degli afroamericani della prima metà degli anni Sessanta.30 È infatti dentro quell’arena di mobilitazione che una nuova generazione di giovani donne e uomini si appassiona alla politica, proseguendo poi il proprio percorso nel movimento contro la guerra del Vietnam, nelle occupazioni dei campus, nelle formazioni della Nuova sinistra e nel femminismo. Ed è proprio sulla scia di quell’esperienza politica che nel 1964 viene redatto un importante scritto di critica in chiave (proto) femminista del movimento studentesco, il Position paper n. 24, Women in the Movement. Il documento, non firmato, venne redatto da alcune militanti, Elaine DeLott, Casey Hayden, Mary King ed Emmie Schrader, in occasione del raduno a Waveland, Missisipi, dello Student Non-Violent Coordinating Committee (SNCC), principale organizzazione per i diritti civili del tempo. Il testo formalizza una serie di tensioni già esistenti all’interno dello SNCC, denunciandone il sessismo interno, accostato appunto al paternalismo razzista bianco verso i “Negroes”. I suoi contenuti vengono poi parzialmente ripresi da due delle autrici, Casey Hayden e Mary King, che nel 1965 fanno circolare all’interno del movimento per la pace un nuovo scritto, Sex and Caste: A Kind of Memo, in cui per mettere in luce i processi di dominazione maschile interni al movimento viene introdotta l’analogia tra sesso e casta. Ma l’incontro politico sesso/genere-razza data ancor più indietro nel tempo, alla cosiddetta prima ondata femminista. Come noto,31 anche allora la campagna per i diritti civili delle donne e dei neri (tra cui l’abolizione della schiavitù) hanno numerosi punti di contatto e di conflitto: molte sono infatti le donne, bianche e nere, attive su entrambi i fronti; stretta è 30. Passerini, Il movimento delle donne. 31. Vincenza Perilli, L’analogia imperfetta. Sessismo, razzismo e femminismi tra Italia, Francia e Stati Uniti, in «Zapruder», 13 (2007), pp. 9-25.

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la continuità della critica a entrambe le tipologie di dominazione; vivida l’esperienza di discriminazione che le attiviste subiscono in seno alle organizzazioni abolizioniste, dove vengono relegate a ruoli ancillari e caritativi. Questo sedimentato intreccio storico e culturale contribuisce a spiegare il successo dell’analogia tra la condizione delle donne e quella dei neri nel primo dibattito statunitense, come testimoniato da alcuni testi chiave che la impiegano, quali ad esempio Woman’s Estate di Juliet Mitchell e The Dialectic of Sex (1970) di Shulamith Firestone; si conia inoltre in quel periodo il termine sexism, in analogia con racism.32 Tornando al ponte Trento-USA, l’analogia con la razza assume una notevole centralità nel documento del Cerchio spezzato, tanto che a essa viene dedicato un paragrafo dal titolo Le donne e i neri – il sesso e il colore. Lo stesso vale per La coscienza di sfruttata, che in una delle sue ristampe avrà peraltro come copertina una figura stilizzata che richiama chiaramente Angela Davis.33 D’altra parte, Trento non è il solo caso, in Europa e in Italia: ritroviamo l’accostamento donne-neri, sebbene in accezioni diverse, in alcuni scritti del movimento italiano (Rivolta, il Movimento femminista romano),34 così come del femminismo materialista francese (in particolare nel celebre L’ennemi principal, di Christine Delphy). La stessa scelta fatta dal gruppo Anabasi di intitolare la sua raccolta di scritti Donne è bello (1972), è del resto in evidente assonanza con lo slogan Black is beautiful, a riprova di una prossimità intellettuale, ma anche semiotica ed estetica, legata agli immaginari di lotta. Tuttavia, l’utilizzo di questa analogia sin dall’inizio è denso di contraddizioni e ambiguità: a questo proposito, è importante ad esempio segnalare come la pubblicazione di Anabasi privilegi comunque il tema del conflitto tra donne e uomini, rispetto alle questioni critiche che il femminismo nero comincia a portare all’interno del dibattito femminista.35 Inoltre, nella traduzione italiana di Notes from the Third Year viene esclusa la parte relativa al black femini32. Juliet Mitchell, Woman’s Estate, Harmondsworth, Penguin, 1971; Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex. The Case for Feminist Revolution, Farrar, Straus and Giroux, 1970. 33. Luisa Abbà, Gabriella Ferri, Giorgio Lazzaretto, Elena Medi, Silvia Motta, La coscienza di sfruttata, Milano, Mazzotta, 1976. 34. Per un’analisi specifica del tema si veda ivi. 35. Liliana Ellena, Spazi e frontiere della storia dei movimenti delle donne, in «Quaderni di Storia Contemporanea», 40 (2006), pp. 9-27.

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sm, privilegiando invece il conflitto tra donne e uomini nel movimento per i diritti civili stesso.36 E infatti il black feminism avanzerà ben presto una critica strutturale all’uso di questa analogia: ad essere accostate sono infatti le donne, tutte e senza distinzione, ai neri, uomini, schiacciando le donne nere in una tenaglia di invisibilizzazione, a sua volta frutto della presunzione universalizzante delle bianche (analogo discorso può essere fatto per il femminismo di matrice liberale in rapporto alle differenze di classe).37 Per quanto concerne la specifica vicenda italiana, pur a fronte dei molti rimandi condivisi tra gruppi e città in questa prima fase, va chiarito che la presenza del colore scomparirà ben presto dall’armamentario concettuale del femminismo italiano, che nel corso degli anni Settanta e per buona parte degli Ottanta rimarrà prevalentemente un femminismo di e per native.38 Questa precoce scomparsa può essere interpretata variamente ed è senz’altro un tema complesso e rilevante. Procedendo per spunti, va messa innanzitutto in luce una questione a monte, che potremmo definire di forzatura ideologica. L’utilizzo dell’analogia nelle riflessioni dei primi gruppi femministi risente infatti di un’impostazione astratta e disincarnata del sistema di dominio razziale. Non solo, come già chiarito, le donne afroamericane scompaiono dal discorso, ma anche gli uomini afroamericani tendono a venire rappresentati come un soggetto collettivo indistinto ed omogeneo, coralmente mosso da una vocazione rivoluzionaria altrettanto indistinta, che poco ha a che fare con un’analisi delle concrete condizioni di produzione del razzismo, e più invece con la rivendicazione ideologica del black power in chiave antimperialista.39 In questa strumentalità narrativa può essere a sua volta misurato, seppure indirettamente, tutto il peso della tradizione marxista sul primo sviluppo del movimento femminista italiano: il caso di Trento è in questo senso paradigmatico degli aspetti di contiguità fra Sessantotto, operaismo e fem36. Perilli, L’analogia imperfetta; Liliana Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano: viaggi, traduzioni e slittamenti, in «Genesis», 10/2 (2011), pp. 17-40. Si veda anche il contributo di Marta Panighel in questo volume. 37. Angela Yvonne Davis, Women, race and class, New York, Random House, 1981; Marie Moïse, Il femminismo nero, in Introduzione ai femminismi, a cura di Anna Curcio, Roma, Derive Approdi, 2019, pp. 27-42. 38. Perilli, L’analogia imperfetta; Paola Stelliferi, Sesso, classe, razza. Una critica femminista alla società capitalistica, in «Snodi», 15-16 (2017), pp. 252-255. 39. Perilli, L’analogia imperfetta; Rebora, From Turin to Boston (and back).

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minismo, così come della necessità di ricondurre immaginari e suggestioni entro un proprio alveo culturale, nel quale l’analisi di classe continua ad avere un ruolo centrale. Vi è da mettere in conto, con tutta probabilità, anche una certa difficoltà da parte della generazione delle prime femministe a dare concretezza alla riflessione sulla razza, entro un contesto sociale come quello dell’Italia della fine degli anni Sessanta, ancora distante culturalmente e demograficamente da tali questioni. Gioca poi senz’altro un ruolo la complessiva difficoltà dell’Italia a costruire una memoria pubblica condivisa dell’esperienza coloniale e delle responsabilità dirette che il paese ebbe nell’elaborare pratiche e politiche di segregazione e razzializzazione.40 Durante tutto il corso degli anni Settanta permarrà inoltre una difficoltà istituzionale a censire, dunque a rappresentare come un fatto sociale, la presenza di un numero significativo di donne immigrate, impiegate principalmente nell’assistenza domestica.41 Prova ne è il fatto che il fenomeno migratorio viene prevalentemente ed erroneamente periodizzato come un processo cominciato negli anni Ottanta.42 È peraltro interessante notare come questa presenza di donne straniere nella sfera domestica coincida con la fase culminante del movimento femminista stesso e dunque con un significativo avanzamento di diritti, nonché con l’ingresso massiccio delle donne italiane nel mercato del lavoro regolamentato. Una coincidenza che svela un’incapacità, da parte del femminismo italiano successivo alla prima fase, di estendere la scala d’analisi dello sfruttamento del lavoro domestico e della dicotomia pubblico-privato oltre i confini della condizione nativa. Infine, un’ulteriore ipotesi esplicativa della rapida scomparsa della questione del colore è legata al progressivo prevalere del femminismo della differenza nel dibattito italiano,43 e soprattutto nelle sue rappresentazioni, legate a loro volta a uno sbilanciamento di potere e visibilità tra gruppi. La tendenza di questa corrente a essenzializzare e ipostatizzare il soggettodonna, a sfavore delle contestualizzazioni e, con esse, della tematizzazione politica delle differenze tra donne, può aver giocato un ruolo sfavorevole all’articolarsi di una riflessione sulle differenze tra native e migranti. Per tornare a parlare sistematicamente di questioni etnico-razziali nel dibattito 40. Ellena, L’invisibile linea del colore nel femminismo italiano. 41. Alessandra Gissi, “Le estere”. Immigrazione femminile e lavoro domestico in Italia (1960-1980), in «Meridiana», 91 (2018), pp. 37-56. 42. Ibidem. 43. Perilli, L’analogia imperfetta.

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politico femminista si dovrà attendere la riflessione postcoloniale prima e il grande successo del concetto di intersezionalità poi, peraltro entro un contesto in cui globalizzazione, flussi migratori e cambiamenti sociodemografici rendono il tema pressoché ineludibile. 4. Dai percorsi paralleli alle reti Guardare ai percorsi delle singole attiviste fa emergere un dato importante e ancora poco studiato, vale a dire il carattere reticolare di quella prima fase del movimento. L’insieme degli incontri, delle amicizie, delle scelte individuali conduce infatti nel tempo allo sviluppo di collegamenti e contaminazioni tra città, gruppi ed esperienze, contribuendo a fare luce, quantomeno parzialmente, sulle pratiche organizzative del movimento in Italia. Si veda la testimonianza di Leslie Leonelli:44 Comunque, torno a casa a Pesaro e a mia madre […] hanno detto “Guarda che c’è il convegno nazionale dell’UDI: se vuoi andare...”. […] Poi dicono “Se non vieni te perché non vai tu, come movimento studentesco?” e io ho detto “Va bene, andiamo a Roma”, all’avventura. Era il convegno nazionale dell’UDI, in cui introducevano quelle non dei partiti e c’erano anche le donne che partecipavano al movimento studentesco. Io sono entrata a far parte dell’UDI e lì mi si è aperto un mondo su altre donne che non erano quelle dell’università. Quando arrivo a Roma, scopro delle cose belle e delle cose brutte: delle donne eccezionali, tipo delle comuniste che erano state in galera, una con la quinta elementare, separata dai figli che stavano in Russia, ma che aveva studiato e poi era stata Senatore della Repubblica. Erano coltissime, bravissime, preparatissime e toste. E poi queste direzioni centrali, quelle del direttivo di Roma, che non mi piacevano per niente. Si vedeva che paciugavano con i partiti, anche quelle dell’Emilia Romagna erano già molto riformiste, volevano, non so, la settimana corta… […] ho conosciuto una donna che si chiamava Orietta Avenati e che era la sorella di Luigi De Marchi, quello 44. Leslie Leonelli (Mercatello sul Metauro, 1945) arriva a Trento nel novembre 1966 per frequentare l’Istituto superiore di scienze sociali. In quel periodo prende parte al Movimento studentesco trentino ed è attiva anche nel nascente movimento delle donne, all’interno del quale si interessa soprattutto dei temi legati alla sessualità e alla contraccezione. Al termine del percorso di studi si trasferisce a Roma, dove continua a partecipare al femminismo, soprattutto nell’ambito dei consultori e contribuendo a fondare la rivista «Effe». Successivamente si interessa alla psicologia e diviene psicoterapeuta, occupandosi di affettività e sessualità (temi su cui ha pubblicato diversi libri). Risiede tuttora a Roma.

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che ha fondato l’AIED. Erano quelli che si occupavano di contraccezione, che era proibita fino al 1971. […] Lei mi disse “Se vuoi aprire un centro vieni a Roma e ti insegniamo come si fa”. Io lo volevo aprire a Trento e infatti l’ho aperto, anche se non ha funzionato quasi niente.45

Leslie Leonelli, che in quello stesso periodo partecipa alle riunioni del Cerchio spezzato, racconta di aver preso parte, in maniera piuttosto casuale, al quarto congresso dell’UDI (Unione donne italiane, oggi Unione donne in Italia), tenutosi dal 1° al 4 novembre 1968. Comincia così, come vedremo, un percorso politico all’interno dell’organizzazione che, seppure periferico e di breve durata, ha delle importanti implicazioni, come vedremo. Leslie conserva un ricordo ambivalente dell’esperienza, a metà tra l’ammirazione verso donne «eccezionali», con storie di vita durissime alle spalle, e la distanza critica verso prassi e obiettivi propri di una cultura politica che si muove in un alveo prevalentemente istituzionale, percepito come antitetico all’assemblearismo del movimento studentesco (così come, poi, di quello femminista). Il racconto testimonia dunque dell’intreccio tra dimensioni politiche che solitamente si tende a categorizzare come mutualmente esclusive, restituendoci un quadro più complesso rispetto a quello della mera contrapposizione tra culture e soggetti collettivi della vecchia e nuova sinistra. Grazie al suo breve passaggio nell’UDI, Leslie conosce inoltre Orietta Avenati,46 sorella di uno dei fondatori dell’AIED (Associazione italiana per l’educazione demografica), e accetta la proposta di aprire una sede dell’associazione a Trento. L’esperienza durerà poco e avrà scarso successo, ma contribuisce a rafforzare in Leslie l’interesse per i temi del corpo e della salute sessuale e riproduttiva: un balzo in avanti, un anticipo di quello che diverrà uno degli assi portanti della mobilitazione femminista qualche anno più tardi. Come vedremo a breve, tale interesse condurrà poi Leslie a nuovi approdi e snodi. Mi ricordo che leggo - perché nonostante venissi da quel paesino io leggevo, prendevo «l’Espresso», prendevo… – e leggo «A Roma è nato il movimento femminista» […]. Era un articolo sull’Espresso che parlava di questi 45. Intervista con Leslie Leonelli, 10 gennaio 2018. 46. Orietta Avenati prende partecipa ai primi incontri del Movimento di Liberazione della Donna ed è poi tra le fondatrici del FILF, Fronte italiano di liberazione femminile, nato nel 1970, federato alla Lega dei diritti dell’uomo e aperto alla partecipazione degli uomini. Nello stesso periodo dà alle stampe uno dei primi contributi femministi sul tema della procreazione, Condannate a procreare, pubblicato nel 1970 per Tindalo-Tempora.

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tre visi: Margie, che poi dopo stava a Pompeo Magno con noi, a Roma, questa Carla di cui non mi ricordo il cognome, Elvira Banotti. Tre visi di donne stupende. Ho detto “Toh, ma guarda, si muovono a Roma!” e per me era la rivoluzione, non Trento. Cosa faccio? Sempre con quei pochi soldi, […] parto da Trento e vengo a Roma a conoscere Elvira Banotti […] e la Banotti mi dice “Guarda, teniamoci in contatto, fate un gruppo anche a Trento!” Un’immersione con Rivolta Femminile, mi sembrava un altro mondo! A parte il linguaggio nuovo, che là parlavano ancora con il linguaggio di Marx e queste invece parlavano un linguaggio femminile. Non ce l’hai un documento di Rivolta Femminile? Allora dice “Dai, fate un gruppo e rimaniamo in contatto, dobbiamo fare tutta Italia”. Allora io arrivo a Trento e portavo la buona novella: vado al Bar Italia e non c’era una donna, non c’era nessuno! Tutti i maschi, i compagni, lì seduti che sbevazzavano: “Ma dove sono le compagne?”, “Come dove sono? Sono là, è nato un gruppo femminista” “Qui? Ma dove sono?” e loro mi danno l’indirizzo, perché io non sapevo dov’era, e subito corro là ed entro.47

Anche l’iniziazione femminista di Lara Foletti segue percorsi paralleli e autonomi, che le fanno decidere, prima ancora di entrare a far parte del Cerchio spezzato, di mettersi sulle tracce di Elvira Banotti a Roma. In questo caso, ad accendere la scintilla della curiosità è la copertina di un periodico, che nel ricordo di Lara è «L’Espresso».48 47. Intervista con Lara Foletti, 11 gennaio 2018. Lara Foletti (Alfonsine, RA), arriva a Trento nel 1967 per studiare Sociologia. Si avvicina al Movimento studentesco prima, ma soprattutto al gruppo del Cerchio spezzato, contribuendo al suo primo sviluppo. La sua tesi di laurea (1971) è una delle prime in Italia ad occuparsi di aborto e viene pubblicata nel 1972, in una versione rivista e cofirmata con Clelia Boesi (Per il diritto di aborto, Roma, Samonà e Savelli). Dopo il conseguimento della laurea si trasferisce a Roma, dove partecipa attivamente al movimento femminista, contribuendo a fondare il collettivo femminista noto come Pompeo Magno (precedentemente denominato Lotta femminista e Movimento femminista romano) e la rivista femminista «Effe». Vive tuttora a Roma, dove ha fatto l’insegnante. 48. In una testimonianza disponibile in rete, Elvira Banotti dichiara che il settimanale femminile «Annabella» nel 1969 le dedicò una copertina, a seguito della notizia, diffusa dalla casa editrice De Donato, dell’imminente uscita del suo lavoro di inchiesta sull’aborto, uscito nel 1970 con il titolo La sfida femminile. Maternità e aborto. Il libro suscitò una vasta eco, poiché fu tra i primi, insieme a Inumane vite, 1968, di Maria Lusia Zardini e al già citato testo di Avenati (1970), a parlare del tema a partire dalle durissime testimonianze delle donne. Si veda il sito: https://www.elvirabanotti.it/nascita-di-rivolta-femminile/ (tutti i siti internet citati sono stati consultati l’ultima volta il 22 giugno 2023). La vicenda della copertina descritta dalla Banotti tuttavia non coincide esattamente con quella ricordata da Lara Foletti, seppure le tempistiche tornino, giacché le prime riunioni di quello che diverrà

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L’incontro è rivelatore di «un altro mondo», soprattutto, ancora una volta, per una questione di linguaggio e con esso, inevitabilmente, di soggettività politica. Rivolta è infatti l’incarnazione più paradigmatica, nel panorama italiano, del rigetto delle categorie analitiche marxiste e dunque la questione del marxismo come alveo culturale, ma anche giogo da cui emanciparsi, ritorna: si cercano nuove parole per descrivere un nuovo mondo in cui le donne non siano più “secondo sesso” ma soggetto primario. Si tratta della medesima sfida nella quale sono impegnate le ragazze del gruppo tesi a Trento, che però, è bene sottolinearlo, avrà esiti diversi, in quanto il Cerchio spezzato non rigetterà la prospettiva del materialismo storico. Il tentativo del gruppo è infatti quello di declinare la lettura materialista classica in una prospettiva capace di rendere conto delle diseguaglianze tra uomini e donne, utilizzando strumenti teorici diversi: dal marxismo, alle teorie psicoanalitiche riviste in chiave critica, alla già tematizzata analogia tra sesso e razza. Al di là delle note differenze di orientamento interne al movimento, è qui interessante mettere l’accento sullo spirito che percorre le testimonianze: siamo nella fase, del tutto magmatica, della ricerca di nuovi strumenti e questo ribollire è generativo di scambi e contatti tra gruppi che avranno poi linee di sviluppo diverse, ma che sono allora accomunati dall’urgenza e dalla sperimentalità della ricerca. Il legame instauratosi con il movimento romano andrà intensificandosi nei mesi successivi, come testimoniano due diverse vicende, l’una romana e l’altra trentina. Il 27 e 28 febbraio 1971 si tiene a Roma il I congresso del Movimento di Liberazione della Donna-MLD, allora federato al partito radicale. Come emerso dalle interviste e da alcuni articoli di giornale del periodo,49 alla nota contestazione del carattere misto dei lavori prendono parte non solo Rivolta femminile e Lotta femminista,50 ma anche il Cerchio spezzato, a dimostrazione della presenza organica del gruppo trentino sulla prima scena femminista. Il secondo episodio è invece legato alla discussione della tesi di laurea di Lara Foletti, incentrata sull’aborto, nel luglio 1971. L’intervistata racpoi il Cerchio spezzato si tengono a partire dal 1969 (Bellè, L’altra rivoluzione), proprio come quelle di Rivolta femminile (Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta). 49. Si veda su questo l’edizione di «Paese sera» del 1° marzo 1971, disponibile sul sito Herstory, https://www.herstory.it/wp-content/uploads/2015/05/106.jpg. 50. Cfr. Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta.

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conta delle difficoltà a trovare un relatore, così come del ruolo di intermediazione svolto dalla direzione stessa della Facoltà, a riprova del clima di sperimentazione e apertura all’intellettualità di movimento che Sociologia seppe esprimere in quella fase (soprattutto ma non solo durante la direzione di Alberoni):51 […] io invece preparavo quella sulla legge sull’aborto clandestino, perché era ancora reato. Quindi l’ho preparata con Carinci, professore di Diritto di Bologna, che lui non la voleva accettare, la mia tesi. Quello che mi ha aiutato molto a convincerlo è stato Alberoni [alla direzione della Facoltà dal 1968] e la Laura Bonin [docente di Antropologia]. Allora lui accettò. […] arrivò a Trento l’equipe di Rony Daopoulo e Annabella Miscuglio, che dopo sono state nel gruppo di Pompeo Magno […], per riprendere la mia tesi. Il gruppo di Elvira [Banotti] ha detto “Là a Trento Lara Foletti fa una tesi così”. Che poi la Rony Daopoulo52 ha fatto un documentario, Aggettivo Donna, con la mia tesi e con quella di Leslie.53

Trento si riconferma, anche dal punto di vista accademico, un’avanguardia del pensiero femminista, che avanza anche grazie ai lavori di tesi delle studenti. Se La coscienza di sfruttata avrà grande fortuna nel movimento, la ricerca di Lara Foletti è una delle prime, se non la prima, a portare il tema dell’aborto in accademia. Anche in questo caso la tesi diventerà uno dei primi libri femministi sul tema, Per il diritto di aborto, edito nel 1972 da Samonà e Savelli, curato da Lara Foletti e Clelia Boesi (il volume somma la parte di analisi socio-giuridica di Foletti ad alcune interviste a donne condotte da Boesi). Il momento della discussione è anche e non 51. Bellè, L’altra rivoluzione. 52. Annabella Miscuglio e Rony Daopoulo sono entrambe attive nel movimento femminista romano. Girano insieme L’Aggettivo donna, che è anche il film di diploma di Daopoulo presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e segna la nascita del Collettivo Femminista Cinema, sviluppatosi a partire da un piccolo gruppo di autocoscienza del Movimento Femminista Romano del Pompeo Magno. Il Collettivo realizza nel 1972 un secondo documentario sul movimento, La lotta non è finita. Nel 1976 Daopoulo e Miscuglio organizzano insieme la rassegna Kinomata. La storia del cinema al femminile. Nel 1979, insieme a Maria Grazia Belmonti, Anna Carini, Paola De Martis, Loredana Rotondo, girano Processo per stupro, primo documentario sul tema mandato in onda dalla Rai, che ebbe una vastissima eco nel dibattito pubblico. Il documentario è parte della campagna di mobilitazione politica che il movimento femminista decise di avviare in quel periodo sulla questione dello stupro e della violenza istituzionale ad esso associata nei tribunali, oggi detta anche vittimizzazione secondaria. 53. Intervista con Lara Foletti, 11 gennaio 2018.

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secondariamente politico, com’era del resto allora in uso presso la Facoltà: l’appuntamento richiama una folla di studenti, femministe, militanti del movimento studentesco. Grazie ad un passaggio di informazioni interno al movimento, Rony Daopoulo e Annabella Miscuglio, attive nel femminismo romano, salgono per filmare la discussione. Stanno infatti lavorando a un documentario sul femminismo, che uscirà nel 1971, con una sezione intitolata per l’appunto “Università di Trento. Discussione di una tesi femminista”.54 Lara mi racconta che non vennero autorizzate a girare durante la discussione: le immagini ritraggono la Facoltà, l’ingresso, i corridoi, e si alternano con fotogrammi di manifestazioni femministe, volti di donne, cartelli. Vi sono poi degli scorci, piuttosto scuri, nei quali si riconosce una delle aule a gradoni (e ciò lascia pensare che le due autrici abbiano ovviato al divieto con delle riprese fatte in condizioni tecniche non ottimali). Si vede una folla di studenti che ascolta attenta, tra tazebao e pugni chiusi. In sottofondo, la voce di Laura Foletti recita: Quello di oggi non vuol essere un momento burocratico, ma soprattutto l’occasione per fare un atto di denuncia. Esiste la realtà di un mercato clandestino, per cui le cifre ufficiali parlano di 850.000 aborti secondo il Ministero della sanità, 1.200.000 secondo le indagini dell’Unesco, 3.500.000 secondo i ginecologi. […] La normativa sull’aborto distribuisce a caso la pena di morte tra le donne povere, che più rischiano. Migliaia di donne muoiono ogni anno, o rimangono sterili. […] Le leggi sull’aborto, inoltre, favoriscono il fiorire di un commercio speculativo, fatto da ginecologi e ostetrici, che si arricchiscono sulla pelle delle donne, che sono costrette a versare somme esose, anche pagandole a rate, contribuendo così al rafforzamento dell’illegalità abortiva. Questo è il vero aspetto criminologico del reato d’aborto, che io voglio denunciare, e mi rivolgo alle donne presenti perché divenga una denuncia collettiva.

Applausi in aula e un «brava!» in lontananza accolgono la conclusione del discorso: il femminismo entra in accademia, portando alla luce il tema forse più scomodo, perturbante e silenziato. Un momento storico, e le compagne del movimento romano sono lì per darne testimonianza.

54. Il documentario è disponibile online: http://patrimonio.aamod.it/aamod-web/film/ detail/IL8600001849/22/l-aggettivo-donna.html?startPage=0&idFondo=; la parte dedicata alla discussione della tesi va dal minuto 29’47 al minuto 33’16.

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5. Dalle reti alla confluenza: la nascita di nuovi gruppi Esiste un ulteriore passaggio di trasformazione delle reti femministe, un processo di contaminazione e trasformazione attraverso il quale nascono nuovi gruppi, anche e non secondariamente grazie all’apporto di esperienze precedenti, fatte altrove, in questo caso a Trento. Questa terza fase si sviluppa con il trasferimento di alcune delle fondatrici del Cerchio spezzato in altre città e l’anno cruciale è, ancora, il 1971. Mentre la formazione trentina continua la propria attività, ampliandosi, dividendosi in sottogruppi di lavoro e decidendo di darsi un nome, il gruppo-tesi de La coscienza di sfruttata si laurea, nel mese di febbraio. È tempo per le fondatrici di lasciare Trento e, dopo una serie di valutazioni sul da farsi, il gruppo al completo decide di trasferirsi a Milano. Silvia Motta: Dopo questo lavoro a Trento abbiamo detto “E adesso cosa facciamo nella vita? Andiamo a continuare quello che stiamo facendo, andiamo a Milano”. Tiri su baracca e burattini e insieme veniamo a Milano; poi a Milano ognuna cerca un lavoro, senza particolare impegno a quei tempi […], mentre mi interessava continuare a fare i gruppi delle donne, ed è quello che facevamo, o che facevo.

Il desiderio prioritario, in quella fase di intensa partecipazione, in cui vita e politica tendono a coincidere, è quello di continuare l’attività femminista. Tutto il gruppo della tesi, anche Gabriella e Piergiorgio, si trasferisce a Milano, dove le ragazze trovano subito un contesto adatto a veicolare questo desiderio di continuare: la fondazione di un asilo popolare a Quarto Oggiaro, esperienza di «sovrapposizione, di riscoperta», come la definisce Elena Medi, che permette di ri-mettere insieme lotta femminista e di classe, in contesti di nuova proletarizzazione urbana.55 Silvia Motta: All’inizio incontrando le persone proprio nelle case. Elena Medi: Facevamo delle riunioni in quella specie di androne che c’è qui in Via Col di Lana. Luisa Abbà: Beh, quello molto dopo. No, all’inizio con il gruppo Anabasi: ti ricordi che stava in Loreto? […] 55. La scelta di lavorare nei quartieri periferici proletari è propria di molte esperienze del femminismo di orientamento marxista che fioriscono in quegli anni. Una vicenda di estremo interesse anche per il suo carattere di frontiera, a cavallo tra diverse culture e dimensioni politiche. Per un approfondimento sul tema nel contesto romano si veda Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta.

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Silvia Motta: Eh sì, perché siamo arrivate a Milano e l’unico gruppo femminista che io ho incontrato era l’Anabasi. […] Abbiamo ripreso e così, non so bene per che vie – nomi, parole, non lo so – incontriamo delle femministe di Milano e poi, a poco a poco… Elena Medi: Tra cui anche la Sisa [amica attiva nel femminismo milanese]. Silvia Motta: Tra cui anche la Sisa. Luisa Abbà: Tra le prime. Silvia Motta: Però le prime riunioni di nuovo le abbiamo fatte in Via Montello, a casa nostra, e c’era anche la Lea [Melandri]. Di nuovo sono state fatte lì. Dopo da lì è nata l’idea di prendere... Elena Medi: Di prendere un posto, perché eravamo in troppe. Silvia Motta: A Milano comunque c’erano già dei gruppi, cominciavano già a muoversi. Luisa Abbà: Rivolta era già presente Elena Medi: Era molto chiusa ed era molto elitaria. Silvia Motta:. […] Molto intelligenti e bravissime, però che andava attraverso i documenti e non come luogo di movimento. Credo non gli interessasse neanche, il movimento.

Pur nelle incertezze della memoria, che fatica a ricostruire luoghi e nomi a tanto tempo di distanza, la dinamica appare chiara. Oltre all’attività dell’asilo, ricominciano le riunioni, ancora una volta in casa, ancora una volta (anche se non esclusivamente), a casa loro. E qui un cerchio si chiude: il primo contatto è infatti proprio con il gruppo Anabasi, tramite il quale erano giunti i documenti delle americane a Trento. A partire da questi primi incontri, entro un contesto politico che è già di pieno sviluppo, nasce l’esigenza di avere uno spazio più ampio e pubblico, in grado di ospitare il numero crescente di donne e gruppi. È interessante notare come la stessa esigenza si presenti anche a Trento, proprio nel medesimo periodo: venuto a mancare l’appartamento della comune che le ragazze avevano lasciato una volta laureatesi, e cresciuto il numero delle partecipanti, il Cerchio spezzato decide infatti di affittare una sede (nella centrale via Roma). A Milano, dopo i primi incontri pubblici quindicinali alla Società Umanitaria, fra il 1971 e il 1972, si costituisce il gruppo di via Cherubini, cosiddetto dal nome della via in cui aveva sede, come avviene per altri gruppi importanti del femminismo italiano (Pompeo Magno, Governo Vecchio). Si tratta di una delle esperienze principali del movimento milanese, in cui convergeranno provenienze diverse.56 È interessante notare inoltre il passaggio 56. Fiamma Lussana, Il movimento femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie, Roma, Carocci, 2012.

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critico sull’esperienza di Rivolta femminile, alla quale si riconosce un debito intellettuale ma al contempo si attribuisce anche una certa chiusura elitaria, in stretta continuità con quanto vedremo di seguito per il contesto romano. Pochi mesi più tardi, nel luglio dello stesso anno, anche Lara Foletti e Leslie Leonelli si laureano e decidono entrambe di spostarsi a Roma. E anche in questo caso, alcuni cerchi si chiudono, per dare luogo a nuovi snodi: Poi dopo noi siamo venute a Roma. C’era Leslie Leonelli, che era molto allegra e aveva fatto il discorso sui ruoli sessuali, c’ero io che parlavo dell’aborto, però ci piaceva l’idea dei girotondi, l’idea della festa […] poi c’era Paola Baroncini, Bibi Dentale, sempre del Cerchio spezzato, che erano romane. Poi c’era Anna Giulia Fani. Il gruppo che è venuto a Roma […] avevamo questa impostazione di cambiare la vita delle donne e di renderla gioiosa, basta pensare solo al lavoro e ai figli! E quando sono arrivata a Roma Elvira Banotti e tutte queste qua di Rivolta Femminile ci prendono nel loro vortice. Però noi avevamo un po’ l’anima sessantottina, assembleare. Con il gruppo che è venuto a Roma abbiamo fatto la prima riunione. […] decidiamo di fare un nuovo gruppo femminista, che si doveva chiamare Collettivo femminista e che poi è diventato Pompeo Magno. Sulla scia di quello di Cerchio spezzato e con delle componenti di Rivolta, però che si apre alla società, non come Rivolta che non voleva uscire: niente manifestazioni, niente cose, sono maschili queste cose. Invece noi dicevamo “No, per conquistare le donne dobbiamo aprirci e fare cose”…57

Lara partecipa alla fase di consolidamento del collettivo che diventerà poi noto come Pompeo Magno, uno dei più importanti gruppi del femminismo italiano. La testimonianza coincide perfettamente con quanto emerso in altre ricerche, che mettono in luce le perplessità di alcune delle fondatrici, sino ad allora vicine a Rivolta femminile, ma insoddisfatte dall’esperienza per il «troppo stretto e soffocante separatismo radicale invocato da Carla Lonzi».58 Il racconto di Lara è storicamente importante per due principali ordini di motivi. In primo luogo, perché dimostra una presenza “trentina” nella fase di fondazione del gruppo, confermando e specificando quanto sinora sappiamo sulle sue origini. In secondo luogo, perché evidenzia l’apporto specifico dell’esperienza di Trento nel produrre uno scarto e un’alternativa rispetto al modello di Rivolta (l’anima sessantottina, assembleare, ma anche lo spirito giocoso, proprio dell’happening trentino). 57. Intervista con Lara Foletti, 11 gennaio 2018. 58. Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta, p. 23.

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Sono venuta direttamente a Roma: […] ho fatto parte del numero zero di «Effe», dentro c’è la mia fotografia e sono stata partecipe di tutto il primo femminismo romano. […] questi gruppi all’inizio erano tre o quattro, a Roma. Io facevo parte di un gruppo che si chiamava Movimento per la Liberazione della Donna, avevamo una sede ed era sempre aspecifico, ci occupavamo di tante cose. Poi da lì, ad un certo punto abbiamo aperto un gruppo – dopo che era già nata «Effe»– sulla salute della donna. […] Nel ’73 venne una femminista americana… perché erano nati i primi speculum di plastica e questa – in un gruppo tutto femminile – ci insegnò come si vede dentro la vagina e come individuare le infezioni, perché se conosci la macchina non ti fai fregare dal meccanico! Poi si erano diramati perché c’erano quelli [i gruppi] che facevano gli aborti.59

Anche per Leslie il trasferimento a Roma è preludio di nuovi percorsi, che si agganciano però agli interessi maturati sino ad allora. Leslie è infatti da subito attiva nel MLD sulle questioni legate alla sessualità e al corpo e partecipa alla fase di prima elaborazione del tema.60 Una traccia di questo impegno la si ritrova anche in una delle più interessanti antologie di scritti del movimento, uscita nel 1976 a cura di Biancamaria Frabotta.61 Tra i vari documenti raccolti, vi è lo scritto Speculum: la magia delle streghe di oggi, contributo a firma del Gruppo femminista romano per la salute della donna e a cura proprio di Leslie Leonelli. Nel testo si rivendica l’esperienza storica di gestione della salute femminile da parte delle donne, il processo di progressiva alienazione di tale sapere, in favore del controllo maschile-istituzionale medico e l’importanza di riappropriarsene. Infine, Lara e Leslie collaborano entrambe, in quella stessa fase, alla fondazione di «Effe», rivista femminista destinata diventare uno dei principali punti di riferimento del movimento.62 59. Intervista con Leslie Leonelli, 10 gennaio 2018. 60. Nell’intervista si accenna a una femminista americana arrivata nel ’73 a insegnare l’autovisita: con tutta probabilità il riferimento è a un momento cruciale per il femminismo italiano, ovvero la tappa romana di Carol Downer e Debra Law, del Women Health Centre di Los Angeles. È il 6 novembre e al teatro Eliseo le due americane conducono una sessione collettiva di self-help, illustrando anche l’utilizzo dello speculum. 61. Politica del femminismo. Il movimento femminista, l’Unione delle donne italiane, le forze politiche di sinistra di fronte al femminismo nei documenti (1973-1976), a cura di Biancamaria Frabotta, Roma, Savelli, 1976. 62. Il numero zero della rivista, inizialmente pensata come settimanale, esce nel febbraio 1973, mentre il numero 1, mensile, è del novembre dello stesso anno. «Effe» verrà

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6. Cenni conclusivi In chiusura, desidero richiamare brevemente gli scopi e i principali risultati emersi dalla ricerca, per poi collegarli ad una più ampia proposta di ricerca. Nel mio contributo, ho cercato di utilizzare un caso specifico del femminismo italiano di seconda ondata, per provare a fare un lavoro di collegamento tra questo e altri snodi del movimento. L’analisi della vicenda trentina in prospettiva di rete ha permesso di delineare diverse modalità organizzative che, in un’ottica di ampliamento del quadro di ricerca, gioverebbero dell’integrazione in chiave comparativa con altri casi locali. Una prima modalità, osservabile in corrispondenza dello stato nascente del movimento a Trento, ci presenta delle reti dal carattere prevalentemente mediato: Arrighi, relatore della tesi e giovane economista interessato all’analisi delle diseguaglianze prodotte dal colonialismo, fa da anello di congiunzione intellettuale e politica con le milanesi del gruppo Anabasi e con le femministe statunitensi. È la fase, embrionale e affascinante, di formazione di un quadro intellettuale, di un immaginario politico, dei primi punti di riferimento, ancora tra loro disorganici, ma capaci di tessere invisibili fili tra diversi punti di una mappa ancora appena tratteggiata. Vi è poi una seconda modalità, legata al capitale relazionale delle singole attiviste: conoscenze, contatti, esperienze che vengono riportati nel contesto locale. Alcuni di essi andranno consolidandosi nel tempo, portando il Cerchio spezzato ad assumere centralità nel primo movimento italiano, tanto intellettualmente, quanto in termini più strettamente politici. Vi è infine una terza declinazione della rete, quella che più si discosta dal caso singolo, corrispondente ad una fase successiva, in cui il primo nucleo di attiviste lascia Trento (dove la vicenda femminista continuerà a svilupparsi vivacemente). Le due grandi direzioni migratorie, Roma e Milano, tendono a coincidere in parte con l’area di provenienza di alcune delle attiviste (per esempio, Elena Medi è di Milano e Silvia Motta di Sondrio), ma anche e soprattutto con le amicizie, le esperienze e le reti di movimento precedentemente createsi. È così, seguendo lo spirito, proprio di quel tempo, della mobilitazione permanente e della vita come politica, che molte delle fondatrici si spostano, per andare altrove a «continuare quello che stavano facendo». Ed è seguendo quegli stessi fili di collegamento che pubblicato poi sempre come mensile, per i primi due anni dall’Editore Dedalo; successivamente e sino alla chiusura l’editore diverrà invece un’omonima cooperativa autogestita.

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le ritroviamo a fondare altre importanti esperienze: via Cherubini, il Pompeo Magno, «Effe», i primi consultori autogestiti, gli asili nido popolari nei quartieri di periferia. Come si vede, la ricostruzione di percorsi, scambi e passaggi che in quella fase collegano Trento ad altri contesti ci invita, dal punto di vista metodologico ed epistemologico, a spostare l’accento dai luoghi ai processi, disarticolando la dicotomia gerarchizzante centro-periferia, in favore di una diversa geopolitica del femminismo. Il presente contributo costituisce solo un primo tentativo, certamente sperimentale e non privo di lacune, che ha tuttavia portato a risultati interessanti, tanto in relazione al caso in sé, quanto per il contributo che esso apporta allo studio del movimento più ampiamente inteso. La letteratura sui movimenti sociali ha spesso evidenziato una certa fluidità organizzativa del femminismo.63 Questo elemento di resistenza a modelli di militanza più formalizzati rende lo studio delle pratiche e delle reti di attivismo femministe un campo ancora aperto, una sfida empirica stimolante, che esige sperimentalità metodologica, una reale attitudine interdisciplinare e la promozione di collaborazioni di ricerca che colleghino non solo i casi, ma anche le studiose e gli studiosi, per andare verso la costruzione di un’agenda di ricerca collettiva. L’invito è aperto.

63. Donatella della Porta, Mario Diani, Social Movements, Oxford, Blackwell, 2006.

La politica dell’esperienza

Anastasia Barone «Facevamo un consultorio, ma era un progetto politico». I consultori a Roma prima e dopo la legge 405/1975*

1. Introduzione Nella storiografia sul femminismo degli anni Settanta, le esperienze femministe nell’ambito della salute sono spesso rimaste ai margini. Si devono soprattutto all’impegno delle protagoniste dell’epoca la trasmissione di documenti, la raccolta di testimonianze, così come i primi tentativi di ricostruzione storica.1 È grazie a loro, infatti, che un racconto delle vicen* Il lavoro qui presentato è parte di una più ampia ricerca tuttora in corso, dedicata al consultorio come pratica di salute nei movimenti femministi in Italia tra passato e presente. L’articolo si basa su fonti d’archivio conservate presso Archivia e presso l’Archivio centrale UDI di Roma. A queste sono state affiancate due fonti orali prodotte tramite l’intervista a due protagoniste dell’esperienza del consultorio autogestito di San Lorenzo. L’intervista in profondità ha inteso ricostruire il percorso biografico delle intervistate intrecciato con le esperienze politiche cui hanno preso parte. Il ricorso a testimonianze orali è stato necessario per integrare attraverso la viva voce delle protagoniste il racconto dell’epoca. Va segnalato a questo proposito che, sebbene negli ultimi anni i materiali d’archivio siano stati resi via via più accessibili, molto lavoro rimane ancora da fare. Nel caso di questa ricerca, è stato fondamentale consultare il Fondo Liliana Barca, cui ho potuto accedere mentre i lavori di inventario erano ancora in corso. Tuttavia, molto materiale risulta ancora non consultabile. Desidero quindi ringraziare in particolare Michela D’Angelo, per il lavoro che ha svolto sul Fondo Liliana Barca ma soprattutto per la precisione, la dedizione e la cura con cui mi ha aiutata in varie fasi della ricerca archivistica. Ringrazio inoltre Ilaria Scalmani dell’Archivio UDI; Ylenia Di Blasio e Giovanna Olivieri di Archivia per l’accoglienza, la disponibilità e per il prezioso lavoro che svolgono nel rendere quotidianamente accessibile la storia del femminismo. 1. Cfr. Clara Jourdan, Insieme Contro. Esperienza dei consultori femministi, Milano, La Salamandra, 1976; Liliana Paggio, Avanti un’altra. Donne e ginecologi a confronto, Milano, La Salamandra, 1976. Per ricostruzioni successive invece cfr. Luciana Percovich, La

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de dei consultori autogestiti e dei gruppi per la salute e per la medicina della donna ha potuto trovare spazio. Il presente saggio indaga un aspetto particolarmente rilevante di questa storia che, tuttavia, è rimasto finora sottotraccia, ovvero il rapporto tra le realtà di autogestione e la nascita di un nuovo servizio socio-sanitario: il consultorio familiare pubblico. Nel corso degli anni Settanta il femminismo ha immaginato, ideato e praticato forme di autogestione nell’ambito della salute che, da un lato, hanno risposto a una pressoché totale carenza di servizi dedicati alla donna, dall’altro hanno messo in atto una concezione diversa di salute, attraverso approcci critici alla medicina, forme di condivisione del sapere, pratiche innovative e relazioni non gerarchiche tra “esperte” e “utenti”. I consultori femministi autogestiti rappresentano un tentativo di riappropriazione dei saperi sul corpo da parte delle donne; in un contesto in cui parlare di sessualità, piacere e contraccezione è un tabù e abortire è reato, essi sono luoghi in cui informazioni, conoscenze e tecniche sono messe a disposizione e condivise. Luciana Percovich chiama queste esperienze «un movimento nel movimento», caratterizzato da due elementi fondamentali: da un lato l’essere stato vittorioso circa il raggiungimento degli obiettivi a breve termine che, volenti o nolenti, ci si erano configurati davanti nel corso degli anni Settanta (ossia l’accoglimento della richiesta di modifica delle condizioni materiali riguardanti l’accesso alla contraccezione e all’aborto) e dall’altro quello di essere sempre stato considerato in qualche misura “altro” rispetto alle correnti più teoriche del movimento stesso.2

Come sostiene Fiamma Lussana, il movimento femminista degli anni Settanta si è trovato imbrigliato nella ricerca di «una difficile combinaziocoscienza nel corpo. Donne, salute e medicina negli anni Settanta, Milano, FrancoAngeli, 2005; i saggi di Silvia Tozzi, Corpo e scienza nel movimento per la salute. Un percorso di difficile lettura, in Atti del seminario Esperienza storica femminile nell’età moderna e contemporanea, a cura di Anna Maria Crispino, 2 voll., Roma, Unione Donne Italiane Circolo «La goccia», Roma, 1989, vol. 2, pp. 167-180; Il movimento delle donne, la salute, la scienza. L’esperienza di Simonetta Tosi, in «Memoria», 11-12 (1984), pp. 128-144; Molecolare, creativa, materiale: la vicenda dei gruppi per la salute, in «Memoria», 19-20 (1987), pp. 153-180 e la raccolta di testimonianze Il corpo, la salute (Silvia Tozzi, Vicky Franzinetti, Laura Cima, Luciana Percovich), in «Memoria», 19-20 (1987). Si segnala inoltre la recente pubblicazione di un numero monografico di «Venetica», 1 (2022), Il corpo mi appartiene, a cura di Alfiero Boschiero e Nadia Olivieri. 2. Luciana Percovich, La coscienza nel corpo, p.15.

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ne tra il desiderio di liberare la propria soggettività e il bisogno di “cambiare il mondo”».3 Il movimento ha avuto, infatti, la capacità travolgente di disfare i confini del politico e mettere al centro l’esperienza personale, la vita concreta e quotidiana, le relazioni. La sessualità è stata uno dei temi cardine su cui in primo luogo si è ancorata, e da cui ha preso le mosse, questa rivoluzione della pratica e del metodo. Il “piccolo gruppo” è stata la matrice prima e il luogo privilegiato dell’autocoscienza, ed è lì che le donne hanno potuto «riconoscersi l’un l’altra come esseri umani completi»4 e quindi emergere come soggetto, facendo apparire la soggettività e la coscienza femminili. Questa ricerca di sé e delle altre, tuttavia, ha vissuto in una tensione costante con il desiderio e la necessità di uscire dal piccolo gruppo e confrontarsi con il mondo fuori, per cambiarlo. Specchio e concretizzazione, o addirittura sintesi, di questa tensione sono state proprio le esperienze di ricerca e autogestione nell’ambito della salute, che almeno in parte hanno saputo provare a ricucire i fili di queste trame complesse. Rispetto all’ipotesi del piccolo gruppo, tali realtà hanno rappresentato un inevitabile confronto con “l’esterno”, anzi, “gli esterni”: da un lato, le “altre” donne, non incluse nel piccolo gruppo o non interne al movimento femminista, ma raggiunte da queste esperienze tramite la scelta dell’intervento “sociale”, il mutuo-aiuto, l’investimento nella “pratica”; dall’altro, le istituzioni. Uno dei nodi centrali dell’intervento nell’ambito della salute e della medicina ha riguardato, infatti, proprio il rapporto con la “politica esterna”, quella dei gruppi, dei partiti e dei governi. Nel 1975 il Parlamento, con l’approvazione della legge 405,5 istituisce i consultori familiari pubblici. Nati sulla spinta dell’esperienza femminista e, come molte delle leggi riformiste di quegli anni, frutto di un delicato compromesso tra le forze politiche, i consultori familiari costringono i gruppi femministi a un confronto con le istituzioni che essi non avevano davvero cercato. 3. Fiamma Lussana, Le donne e la modernizzazione. Il neofemminismo degli anni Settanta, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale, t. 2, Istituzioni, politiche, culture, a cura di Francesco Barbagallo, Torino, Einaudi, 1997, p. 473. 4. Carla Lonzi, Significato dell’autocoscienza nel piccolo gruppo del femminismo, in Ead, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Milano, Scritti di Rivolta femminile, 1974, p. 145. 5. Legge 29 luglio 1975 n. 405, Istituzione dei consultori familiari.

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Una volta approvata la legge quadro 405/1975, i consultori autogestiti si trovano proiettati in un contesto mutato, in cui prende corpo l’ipotesi di un servizio pubblico dedicato alle donne, che da un lato rappresenta un avanzamento evidente rispetto alla situazione precedente, e dall’altro sottrae terreno all’autogestione e all’autodeterminazione femminista, incarnando in larga parte un’ipotesi profondamente diversa da quella che il movimento stava sperimentando. Il saggio indaga tali questioni a partire dal contesto romano e, nello specifico, a partire dal consultorio femminista di San Lorenzo, uno dei più celebri e dei più longevi nella storia del femminismo romano e italiano (l’esperienza è proseguita anche dopo l’istituzione dei consultori familiari). Dopo aver mostrato le ragioni e i metodi con cui i tentativi di autogestione in salute sono nati all’interno del movimento femminista romano, mi addentrerò nel dibattito che ha preceduto e attraversato dapprima l’approvazione della legge 405/1975 e poi la legge regionale 15/1976 che ha istituito i consultori nel Lazio. Infine, mi concentrerò sulle assemblee delle donne all’interno dei consultori, la cui storia rimane ancora in larga parte da raccontare. Come vedremo, quello romano costituisce un caso particolarmente rilevante da tutti questi punti di vista. Malgrado i gruppi femministi abbiano riconosciuto profondi limiti nell’assetto istituzionale dei consultori, essi hanno in ogni caso e in modi diversi provato a contribuire allo sviluppo degli stessi. Inoltre, una volta avviati, i consultori familiari romani hanno visto, almeno per alcuni anni, la partecipazione diretta delle utenti, nella forma delle assemblee delle donne dei consultori. È questo uno dei temi che il saggio affronta, mettendo in luce il modo in cui alcuni gruppi femministi romani hanno saputo cercare un equilibrio dentro situazioni spurie e delicate, conciliando la critica istituzionale con il tentativo di influenzare il futuro servizio pubblico. Inoltre, il panorama romano delle lotte sulla salute mette in luce un aspetto rimasto opaco nella storia del femminismo, ovvero il suo rapporto con l’associazionismo femminile dell’UDI – Unione donne italiane,6 e il ruolo di quest’ultimo nella storia dei consultori. 6. L’UDI è un’associazione femminile di orientamento socialista e comunista nata durante la Resistenza. Seppure non formalmente definita, la relazione con i partiti è forte. Le cose iniziano a cambiare negli anni Sessanta ed esplodono al congresso del 1982 che ne sancisce l’autonomia. Parallelamente i rapporti sino ad allora complessi tra UDI e movimento femminista si fanno più organici. Cfr. Unione Donne Italiane, Fare storia, custodire memoria. 1945-2015. I primi settant’anni dell’UDI, a cura di Vittoria Tola, Roma, Ediesse,

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2. I consultori autogestiti e le lotte per la salute negli anni Settanta Le esperienze femministe nell’ambito della salute si sviluppano in un contesto particolarmente vivace per quanto riguarda le lotte nel campo della medicina. Sono infatti gli anni in cui intense battaglie mettono al centro la salute sui luoghi di lavoro, rivendicano un’assistenza sanitaria nuova (in assenza di un servizio sanitario nazionale) e in cui un forte e complesso movimento di deistituzionalizzazione investe gli istituti psichiatrici, sfondandone letteralmente le porte. Con le lotte nell’ambito della psichiatria e con le battaglie di Medicina Democratica, le lotte femministe sulla salute e le esperienze di autogestione dei consultori condividono una radicale critica della medicina, l’ipotesi di una riappropriazione del basso della gestione della salute, la messa in pratica di un diverso rapporto tra curanti e curati, la ridefinizione del concetto di salute in chiave sociale e non soltanto sanitaria.7 I consultori autogestiti e i gruppi per una medicina della donna sorgono, inoltre, in un panorama internazionale fatto di reti, relazioni, incontri e scambi intensi con femministe di altri paesi,8 in particolare Francia e Stati Uniti, dove si sviluppano le prime esperienze di cliniche autogestite dalle donne. Nel 1971 il neonato Movimento di Liberazione della Donna, federato al Partito Radicale, organizza una conferenza sul movimento per la salute delle donne negli USA. Nel 1974 viene tradotto in italiano Noi e il nostro corpo, un testo scritto negli Stati Uniti da un gruppo di donne che 2016 e Marisa Rodano, Memorie di una che c’era. Una storia dell’UDI, Milano, Il Saggiatore, 2010. 7. Sull’esperienza del movimento per la riforma dell’assistenza psichiatrica e sul concetto di salute e malattia che ne emerge cfr. L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, a cura di Franco Basaglia, Torino, Einaudi, 1968; Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, Merano, Edizioni Alphabeta Verlag, 2020 e John Foot, La “Repubblica dei Matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, Milano, Feltrinelli, 2014. Sull’esperienza di Medicina Democratica, “Movimento di lotta per la salute” cfr. Giulio Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Milano, Feltrinelli, 1979. Sul ruolo dei movimenti nella riforma del servizio sanitario cfr. Chiara Giorgi, Ilaria Pavan, Le lotte per la salute in Italia e le premesse della riforma sanitaria. Partiti, sindacati, movimenti, percorsi biografici (1958-1978), in «Studi Storici», 2 (2019); Chiara Giorgi, Ilaria Pavan, Storia dello stato sociale in Italia, Bologna, il Mulino, 2021 e La salute è un diritto. Giovanni Berlinguer e le riforme del 1978, a cura di Fabrizio Rufo, Roma, Ediesse, 2020. 8. Cfr. Luisa Passerini, Corpi e corpo collettivo. Rapporti internazionali nel primo femminismo radicale, in Il femminismo degli anni Settanta, pp. 170-181.

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intendono riappropriarsi della conoscenza medica e diffondere informazioni sul corpo femminile in un linguaggio accessibile. La circolazione del libro sarà immensa, tanto da farne un caso editoriale.9 In mezzo a queste due date, un evento cruciale: nel 1973 Carole Dawner e Debra Law, del Los Angeles Women’s Health Center, presentano a Roma al Teatro Eliseo la pratica del self-help, mettendo in mostra l’autovisita sul proprio corpo. Le due femministe americane praticano davanti al pubblico una delle tecniche che diventerà centrale anche per il femminismo italiano: attraverso l’uso di uno speculum di plastica, una pila e uno specchio, infatti, dimostrano che è possibile osservare le pareti della vagina e il collo dell’utero. La sensazione di meraviglia per chi vi assiste non è facilmente descrivibile: «È come ritrovare la piena identità di se stesse».10 Proprio attraverso tali scambi, inoltre, arriva in Italia il metodo Karman, pratica abortiva meno invasiva e più semplice da svolgere rispetto al raschiamento, che rimaneva in quegli anni ancora l’unico metodo conosciuto e applicato. È grazie all’intensa relazione tra i gruppi femministi italiani e quelli francesi del MLAC (Mouvement pour la liberté de l’avortement e de la contraception), che tale metodo viene appreso, praticato e diffuso. Si tratta di una piccola grande rivoluzione: il metodo Karman, infatti, necessita soltanto di pochi strumenti e risulta praticabile anche da personale non specializzato.11 Sarà il metodo con cui molti gruppi inizieranno a praticare l’aborto autogestito. Nel frattempo, in Francia 343 donne firmano un manifesto in cui si autodenunciano per aver abortito e nel 1973 si svolge a Padova il processo per aborto a Gigliola Pierobon, che catalizza molte energie del movimento.12 Inoltre, nei primi anni Settanta si susseguono una serie di eventi legislativi destinati a segnare il dibattito politico di tutto il decennio. Tra questi, la storica sentenza della corte di cassazione che nel 1971 dichiara illegittimo il divieto di propaganda anticoncezionale previsto dal Codice penale fascista. Ed è in quello stesso anno che il Movimento di Liberazione 9. Stefania Voli, Angela Miglietti. Storia di una traduzione, in «Zapruder», 13 (2007), pp. 108-115. 10. Leslie Leonelli, Pirko Peltonnen, Self-help. Le streghe son tornate, in «Effe», 5 (1975). 11. Cfr. Aborto libero? Il metodo Karman e la sperimentazione sulle donne, a cura di Gruppo femminista per una medicina della donna, Milano, La Salamandra, 1976. 12. Lorenza Perini, Il corpo del reato. Parigi 1972, Padova 1973: Storia di due processi per aborto, Bologna, Bradypus, 2014.

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della Donna13 annuncia la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare per la depenalizzazione dell’aborto. È in questo contesto che, a partire dal 1973, si formano i primi consultori e centri per la salute della donna a Padova, Torino, Milano e Roma. Essi «non fanno parte di un piano comune: i consultori sorgono per l’iniziativa di singoli gruppi che si muovono autonomamente e spesso non si conoscono nemmeno».14 Fortemente influenzate da quanto accade negli Stati Uniti, tali iniziative si caratterizzano per una severa critica alla medicina tradizionale, considerata escludente e patriarcale, alla medicalizzazione e alla patologizzazione del corpo della donna e al controllo medico sulla sessualità e sul piacere femminili. Uno dei temi centrali è sin da subito l’autodeterminazione, specialmente per quanto riguarda la riproduzione. In un contesto in cui l’aborto è illegale e di contraccezione si parla solo bisbigliando, le donne decidono di autorganizzarsi. I consultori autogestiti nascono dunque come tentativo di superamento della gerarchia tra esperto e utente, tra medico e paziente. Alla base di tali esperienze vi è, infatti, l’idea che sia possibile praticare la salute in modo diverso e socializzare saperi, competenze e strumenti affinché tutte le donne possano appropriarsi delle conoscenze necessarie per comprendere se stesse, il proprio corpo e la propria sessualità. Alcuni gruppi si concentrano sulla ricerca, attraverso l’autovisita e l’autocoscienza; altri sul fare informazione; altri ancora prendono la forma vera e propria del consultorio; altri, infine, praticano l’aborto. Pur nelle differenze, nel loro insieme i gruppi si muovono su più piani, unendo elementi di autocoscienza e autoriflessione, ricerca personale e scientifica, ma anche una funzione di “servizio”. Anche se tutti i centri dichiarano di non voler essere un ambulatorio alternativo, in alcuni casi viene sottolineato l’aspetto di servizio per le donne, sia pure con lo sforzo di differenziarsi oltre che di supplire alle carenze 13. Il MLD, inizialmente federato al Partito Radicale, di ispirazione libertaria e antiautoritaria, sarà tra i primi a organizzare gruppi di self-help e a praticare l’aborto come forma di disobbedienza civile. Cfr. Beatrice Pisa, Una esperienza di femminismo laico e libertario: il Movimento di Liberazione della Donna in Donne negli anni Settanta. Voci, esperienze, lotte, a cura di Beatrice Pisa e Stefania Boscato, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 15-53 e Beatrice Pisa, Il Movimento di Liberazione della Donna nel femminismo italiano. La politica, i vissuti, le esperienze (1970-1983), Roma, Aracne, 2017. 14. Jourdan, Insieme contro, p. 23.

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in questo campo: in altri casi invece si nota la ricerca di un rapporto politico veramente nuovo, e questo a scapito dell’efficienza del servizio.15 3. Il caso del consultorio di San Lorenzo a Roma Per quanto riguarda la scena romana, due sono i gruppi più attivi nell’ambito della salute: il Gruppo Femminista per la Salute della Donna (GFSD) e il consultorio di San Lorenzo, cui si affiancheranno progressivamente altre esperienze in diversi quartieri che tuttavia non assumeranno mai propriamente la forma del consultorio. Il primo pratica il self-help: le partecipanti svolgono l’autovisita ogni martedì per più di dieci anni, mettendo in atto una delle tecniche più innovative di produzione di saperi sul proprio corpo. Essa permette infatti non soltanto di scoprire e conoscere una parte del corpo considerata inaccessibile e misteriosa, ma anche di individuare precocemente alterazioni che possono indicare infezioni o malattie.16 Il gruppo sceglie di non avere alcuna forma di relazione con “l’esterno”, se non quella di diffondere le informazioni che, nel corso del tempo, raccoglie a partire dall’autovisita e dall’autosservazione. Negli anni il GFSD, infatti, pubblica una serie di quaderni dedicati all’autovisita, agli anticoncezionali, alla menopausa, alle mestruazioni, alla pillola, alle infezioni e alla visita ginecologica.17 Soltanto in una fase successiva, il gruppo inizia anche a portare l’autovisita nei collettivi che lo richiedono, puntando a diffondere uno strumento di riappropriazione della conoscenza di sé.18 Il GFSD, tuttavia, continua risolutamente a non svolgere alcun tipo di “servizio” come gruppo, sebbene alcune delle partecipanti vengano coinvolte nei nuclei di autogestione dell’aborto.19 15. Ivi, p. 27. 16. Gruppo Femminista per la Salute della Donna, Leslie Leonelli, Speculum, la magia delle streghe di oggi, in «Effe», 1 (1976). 17. Tali pubblicazioni a cura del GFSD, edite come Cooperativa gruppo femminista per la salute della donna, Roma, sono consultabili presso Archivia. 18. Cfr. Federica Paoli, La pratica politica del self-help: i saperi sul corpo, una via per la liberazione delle donne, in «Storia e problemi contemporanei», 71 (2016); Paola Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi esperienze e memorie dei collettivi di quartiere, Bologna, Bononia University Press, 2015, pp. 41-49 e il già citato Luciana Percovich, La coscienza nel corpo. 19. Cfr. Aborto/CRAC in Lessico politico delle donne 2. Donne e medicina, Milano, Gulliver, 1978.

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Frutto di una matrice simile ma di impostazione diversa è, invece, il consultorio di San Lorenzo, che sin da subito si apre verso l’esterno. Nato da un gruppo dedicato ad aborto e contraccezione sviluppatosi all’interno del collettivo femminista Pompeo Magno, il gruppo di San Lorenzo decide di darsi una struttura autonoma e trovare una sede per aprire un consultorio. La scelta del luogo non è casuale: San Lorenzo negli anni Settanta è, infatti, un quartiere popolare, proletario, fortemente antifascista e sede di molti gruppi politici extraparlamentari. In questo senso esso rappresenta un terreno fertile per il futuro consultorio, poiché politicamente vivace e abitato da donne di estrazioni sociali diverse. Il percorso del consultorio si intreccia a doppio filo con le biografie delle donne che l’hanno animato: una su tutte Simonetta Tosi.20 Medica e biologa, Simonetta Tosi avrà un ruolo fondamentale nell’ideazione del consultorio, nel lavoro di ricerca, nell’insegnamento di pratiche innovative e nel tentativo di influenzare la medicina con lo sguardo del femminismo. Come altre esperienze di questo genere sorte contemporaneamente in Italia, il consultorio di San Lorenzo nasce perché la totale assenza di servizi spinge le femministe ad «agire direttamente e in prima persona».21 Tuttavia non si tratta soltanto di questo: l’idea alla base del consultorio non è la costruzione di un semplice ambulatorio. Al contrario, l’obiettivo principale è costruire un luogo di incontro tra donne, in cui sia possibile condividere esperienze riguardanti la propria vita, la propria sessualità e la salute, ma anche socializzare conoscenze e saperi. Così lo ricordano alcune delle partecipanti al collettivo: R.: Si scendeva una scaletta e si andava quasi sottoterra, al numero 100. E Simonetta Tosi, l’ha affittato come studio medico, professionale. Da lì si è formato via via il collettivo che è stato un’ottima sede dove parlare delle nostre vite, fare autocoscienza e poi subito autovisite. Abbiamo parlato dei problemi dell’aborto ma non solo… anche della contraccezione, della salute in generale, soprattutto quasi per tutte era importante combattere il verbo medico. Per Simonetta era questo l’argomento principale. È stato un decennio molto molto intenso.22 G.: le donne non venivano a un orario predefinito per un appuntamento, alle quattro si riunivano tutte in una stanza per parlare e chiacchierare. Quelle che 20. Silvia Tozzi, Il movimento delle donne, la salute, la scienza. 21. Luciana Percovich, La coscienza nel corpo, p. 10. 22. Intervista dell’autrice a R., Consultorio San Lorenzo, maggio 2021.

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uscivano dalla stanza delle visite dove avevano fatto la misurazione del diaframma, si fermavano per raccontare com’era andata e condividere con le altre. Si passava l’intero pomeriggio insieme. Lo stesso accadeva per chi chiedeva informazioni sui viaggi a Londra, tutto quello che si faceva lo si faceva collegialmente […] facevamo un consultorio, ma era un progetto politico.23

Il consultorio di San Lorenzo corre lungo un doppio binario, che prova a tenere assieme la politica del femminismo con la pratica medica. Al suo interno si forma sia un gruppo di autocoscienza, sia un’assemblea aperta, mentre nei giorni di apertura al “pubblico” si svolgono diverse attività: dalla consulenza sulla contraccezione, alla misurazione del diaframma; dalla diffusione di informazioni all’organizzazione dei “viaggi a Londra”, ossia verso le cliniche di un paese in cui è possibile interrompere legalmente la gravidanza. Come già evidenziato, centrale per il consultorio autogestito è l’idea che molte, se non tutte, possano acquisire alcune pratiche e conoscenze finalizzate ad una maggiore autonomia di gestione del proprio corpo. Da questo punto di vista, sebbene delle persone esperte siano presenti, e quindi delle differenze sostanziali in termini di sapere e di potere sussistano, il tentativo almeno idealmente è quello di condividere collettivamente i saperi. È quanto racconta G., la quale oggi si occupa di Salute della donna presso l’Istituto Superiore di Sanità. Entrata nel collettivo del consultorio di San Lorenzo quando ancora frequentava il liceo, G. ricorda come, malgrado la giovane età, abbia potuto imparare tecniche rilevanti: Io ho iniziato ad andare il martedì pomeriggio per imparare a misurare i diaframmi insieme a Simonetta, e a Ulla Tennenbaum, un’ostetrica che partecipava alle attività del consultorio… Io ero una studentessa del liceo, ma loro mi insegnavano e io imparavo come inserire uno speculum, come misurare un diaframma, come rispettare l’igiene e l’aspepsi, sterilizzare i ferri, tutto ciò che occorreva per mandare avanti le attività della stanza delle visite… ma principalmente assorbivo quello che mi avrebbe poi segnato nella relazione con le donne, nelle future scelte della vita e della professione di medico. Da questo punto di vista è stata un’esperienza unica e impagabile.24

Non si tratta soltanto di tecniche o pratiche, ma di un metodo politico vero e proprio, che include l’idea di un modo diverso di fare salute. 23. Intervista dell’autrice a G., Consultorio San Lorenzo, luglio 2021. 24. Ibidem.

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Lì ho imparato la misurazione dei diaframmi, ho imparato tante cose ma ho imparato principalmente non tanto queste cose pratiche che si possono imparare ovunque, forse la misurazione dei diaframmi no. Ma ho imparato ad ascoltare le donne, a lasciar spazio alle donne.25

Tuttavia, se l’ambizione di socializzare saperi e conoscenze si realizza effettivamente, o almeno in parte, all’interno del collettivo, il coinvolgimento delle “altre” donne appare più problematico. Molto presto, infatti, si diffonde il timore che la riappropriazione della medicina e dei saperi sul corpo possa rimanere un interesse quasi avanguardistico e di poche, nei confronti del quale “le altre” conservano un interesse marginale. Un documento prodotto dal consultorio di San Lorenzo nel 1974 attesta questa tendenza: c’è un’abitudine storica a richiedere servizi e a delegare comunque molte conoscenze agli specialisti, e c’è quindi una distanza tra utente e tecnico che ostacola duramente sia la presa di coscienza sia la collaborazione tra persone diverse.26

Qualche anno dopo la questione appare ancora aperta. Presentando la propria esperienza al convegno internazionale sulla salute tenutosi a Roma nel 1977, le donne impegnate nel consultorio di San Lorenzo ricordano che, nella fase iniziale, il gruppo si è concentrato principalmente sull’acquisizione di conoscenze tecniche (soprattutto per quanto riguarda la misurazione di diaframmi, cavallo di battaglia del collettivo), ma che a un certo punto ha realizzato di aver perso il contatto con le donne del quartiere. Una soluzione a tale problema sembra essere il recupero dell’esperienza iniziale di apertura di gruppi nei quali sia le femministe del collettivo sia le donne del quartiere potevano lavorare insieme sui problemi che le riguardavano come la sessualità, la salute mentale, l’attività fisica.27 Come molte esperienze femministe di autogestione e ricerca nell’ambito della salute, anche il consultorio di San Lorenzo si ritrova infatti tra due poli, in perenne tensione tra loro: da un lato il rischio di avanguardismo e chiusura insito nel gruppo di ricerca per una pratica medica alternativa, 25. Ibidem. 26. Qualche informazione sul consultorio femminista San Lorenzo, Archivia, Fondo CRAC, u.a. 10, Documenti per la storia del movimento per la salute delle donne (74-84). 27. La politica dei consultori gestiti dalle donne, in «Differenze», Convegno internazionale sulla salute della donna, a cura di Gruppo Femminista per la salute della donna, 6-7 (1977).

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dall’altro la perdita del proprio carattere politico e la trasformazione in un ambulatorio che offre un servizio. La costante ricerca di un equilibrio tra queste differenti prospettive può essere considerata, però la forza di questa esperienza: un’esperienza che ha cercato negli anni di attività di incarnare un’idea di salute non gerarchica e non patriarcale, basata sulla condivisione di saperi e su un approccio femminista alla relazione. Il consultorio di San Lorenzo, inoltre, tenta di trovare una sintesi anche nella relazione tra autogestione e istituzionalizzazione. L’istituzione dei consultori familiari pubblici, infatti, non soltanto genera un intenso e a tratti duro dibattito tra le esperienze di autogestione sorte all’inizio del decennio, ma contribuisce ad accelerare la chiusura di molte di esse. Il consultorio di San Lorenzo invece rimane attivo dopo l’approvazione della legge 405/1975 e anche dopo l’approvazione della legge 194/1978 sull’aborto.28 4. Il dibattito sulle leggi e la nascita dei consultori pubblici La legge 405 viene approvata il 29 luglio del 1975. Essa prevede la creazione di un servizio di «assistenza alla famiglia e alla maternità» che tiene assieme elementi profondamente innovativi e tratti conservatori. Da un lato l’impostazione familiare, che delude le aspettative delle femministe; dall’altro l’idea innovatrice di un servizio che sia al contempo sociale e sanitario, basato sul lavoro di un’equipe multidisciplinare che include diverse figure professionali (ginecologhe, psicologhe, assistenti sociali), e improntato a una visione olistica di salute. Seppur in maniera diversa rispetto al successivo dibattito relativo alla legge sull’aborto,29 la discussione politica sui consultori pubblici accende gli animi del movimento e forza molte realtà femministe ad aprire una precoce riflessione sui rapporti da tenere con il processo legislativo, nonché sul futuro dell’esperienza di autogestione. Luciana Percovich vi fa riferi28. Legge 22 maggio 1978 n. 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza 29. Cfr. Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Torino, Rosenberg&Sellier, 1987; Cristina Papa, Dibattito sull’aborto. Documenti a confronto, Firenze, Guaraldi, 1975; Paola Stelliferi, An Apparent Victory? The Struggle for Abortion in Italy prior to the 194/1978 Law, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 2(2022), pp. 97-121.

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mento parlando di una legge «tempestivamente varata per tamponare un fenomeno che stava dilagando a macchia d’olio, e tentare di rimetterne il controllo in mani istituzionali nonché mediche e religiose».30 Un ruolo di primo piano lo ricopre, in questa vicenda, il CRAC, Coordinamento romano aborto e contraccezione, costituito nel 1975. Coordinamento la cui composizione ampia e diversificata (Collettivo femminista comunista romano, Collettivo femminista Magliana, Movimento femminista romano di via Pompeo Magno, MLD, Nucleo femminista medicina, Donne di Lotta continua, Avanguardia operaia e Partito di unità proletaria), con il dichiarato intento di intervenire nella sfera del dibattito politico, ne farà un organismo tanto efficace quanto contraddittorio per molte femministe, al punto da essere definito, nei momenti di maggiore crisi interna, «il partito del movimento».31 Ciò nonostante esso avrà un ruolo fondamentale nel coordinare le realtà romane e nell’organizzare le principali manifestazioni nazionali. Il CRAC, inoltre, coordinerà i nuclei di autogestione che si occupano di praticare l’aborto autogestito in assenza di una legge che ne garantisca il diritto. A inizio febbraio del 1975 il CRAC presenta al coordinamento nazionale dei consultori (che tiene assieme molti consultori autogestiti e gruppi femministi d’Italia) un documento in cui sostiene la necessità di misurarsi con tale processo di istituzionalizzazione imponendo il modello femminista alla proposta pubblica: a febbraio entra in vigore la legge nazionale sui consultori pubblici: noi li vogliamo come quelli che stiamo sperimentando. Non vogliamo che i consultori siano ambulatori con un’assistenza limitata alla semplice visita ginecologica, un servizio pubblico autoritario ancora una volta subito dalla donna, costretta poi ad affrontare tutti gli altri suoi problemi nel chiuso delle pareti domestiche. Il consultorio deve essere dunque la sede politica per un reale momento di incontro tra donne, per assemblee sulla nostra salute, la conoscenza del nostro corpo, la riappropriazione della nostra sessualità e per organizzare su questi e altri aspetti della nostra oppressione obiettivi di lotta comune.32

Dichiarandosi insoddisfatto delle proposte di legge in discussione, il CRAC propone che i consultori femministi vengano finanziati con fondi 30. Luciana Percovich, La coscienza nel corpo, p. 11. 31. CRAC, in Lessico politico delle donne 2. Donne e medicina, p. 40. 32. Piattaforma del CRAC per i consultori, Archivia, Fondo CRAC, u.a. 10, Documenti per la storia del movimento per la salute della donna (74-84).

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pubblici, poiché «autogestione non significa autofinanziamento».33 Questa proposta desta scalpore in alcuni gruppi femministi: alcune donne provenienti dall’esperienza milanese, ad esempio, si scagliano contro il CRAC accusato di avviare una «collaborazione democratica con i nostri stessi controllori». Rivendicando una separazione netta tra i consultori femministi e quelli pubblici, le donne che firmano il documento in questione dichiarano che il ruolo delle femministe in relazione ai consultori pubblici dovrà essere quello di «vigilare e contestare la pratica svolta all’interno di questi spazi».34 All’interno di questo dibattito, il consultorio di San Lorenzo, parte attiva del CRAC, mantiene, come ricorda R., un certo realismo nei confronti delle istituzioni e delle effettive possibilità di una traduzione istituzionale della pratica femminista: Si, nei loro confronti ha prevalso, come per la legge in fondo, ha prevalso il realismo… era sempre preferibile alla situazione che c’era stata prima, è chiaro la prima cosa nei confronti dell’aborto era stata la depenalizzazione, di fronte al fatto che l’aborto era reato… abbiamo cercato… sperato… in una legge che riconoscesse e rispettasse più la volontà della donna… poi però una volta che ha prevalso il verbo anche della sinistra, la rappresentanza degli interessi delle donne, comunque era già qualcosa di più rispetto a quando eravamo in mezzo a reati alla clandestinità e così anche per quanto riguarda i consultori c’era la prospettiva di poter comunque avere uno strumento, a disposizione… quando prima non c’era niente… in questo senso io parlo di realismo e poi tutto… il proseguire del lavoro di rete per esempio anche donne che erano nostre amiche, nostre compagne, negli anni Settanta, che poi sono andate a lavorare nei consultori ed erano punti di riferimento.35

La legge quadro nazionale delega alle regioni l’effettiva implementazione e regolamentazione del servizio, ed è su questo terreno che si rivelano particolarmente importanti gli interventi dei gruppi femministi e delle associazioni. Per quanto riguarda il Lazio, l’UDI, in particolare, interviene a più riprese lungo l’iter necessario all’attivazione del servizio. In primo luogo, l’associazione si vede costretta a sollecitare l’approvazione stessa 33. CRAC, I consultori: luoghi di incontro delle donne, in «Il Quotidiano dei Lavoratori», 4 febbraio 1976, riportato in Luciana Percovich, La coscienza nel corpo, p. 254. 34. Ida Faré, Luciana Percovich, Andreina Robutti, Maria Castiglioni, Rina Cuccu, A proposito della piattaforma del CRAC sui consultori, in «Sottosopra», 4 (1976), pp. 67-70 e riportato in Luciana Percovich, La coscienza nel corpo, pp. 255-257. 35. Intervista dell’autrice a R., Consultorio San Lorenzo.

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della legge regionale. A soli quindici giorni dalla scadenza per la presentazione delle proposte di legge alla Giunta regionale, infatti, soltanto il PCI ha presentato la propria,36 facendo correre così il rischio di uno slittamento ulteriore delle tempistiche. Una volta avviato il dibattito sulla legge regionale, l’UDI interviene emendando e tamponando alcuni dei limiti della legge nazionale. Ad esempio, l’associazione si oppone in maniera significativa al finanziamento pubblico agli enti privati, ma soprattutto esercita efficaci pressioni sul tema della gestione partecipata del servizio. La legge regionale 15/1976 viene approvata ad aprile. Grazie agli sforzi compiuti dall’UDI e da alcune femministe, essa presenta caratteristiche uniche nel panorama nazionale: all’articolo 8, la legge menziona esplicitamente la possibilità dell’esistenza di un’assemblea delle donne del consultorio. La legge nazionale apre le porte alla possibilità della presenza di gruppi e associazioni, ma nella maggior parte delle leggi regionali questa verrà tradotta nei termini della partecipazione dell’associazionismo femminile tramite rappresentanti. Soltanto la legge del Lazio prevede la possibilità di un organismo aperto e orizzontale quale quello delle assemblee delle donne.37 Anche sulla legge regionale, tuttavia, si manifestano ipotesi e prospettive diverse. Nel 1977 si svolge all’Università La Sapienza un dibattito sui consultori in cui si confrontano e scontrano da un lato Simonetta Tosi, per il consultorio di San Lorenzo e per il CRAC, e dall’altro Luciana Viviani dell’UDI. È interessante confrontare le due posizioni. Simonetta Tosi sostiene che «le varie leggi regionali sono uscite non rispecchiando le richieste delle donne, tanto è vero che ci si muoverà nell’ambito delle leggi che ci sono state date per cambiarle, ed eventualmente rovesciarle». A suo giudizio molti sono i limiti della legge, innanzitutto l’impostazione di coppia e familiare, che sottrae al consultorio una delle sue caratteristiche fondamentali: l’essere un luogo delle donne. In secondo luogo «l’atteggiamento del ginecologo e del medico, che dev’essere completamente riveduto». Come nei consultori gestiti dalle femministe, infatti, il medico deve riacquistare la funzione di «tecnico», in modo che «la donna ridiventi soggetto invece di essere oggetto su un lettino ginecologico». 36. Le donne vogliono abortire nei consultori, in «la Repubblica», 11 febbraio 1976, Archivio centrale UDI, Inventario tematico CO/AB Contraccezione e Aborto, b. 10, fasc. 109. 37. Legge Regionale del Lazio n.15 del 16 aprile 1976 Istituzione del servizio di assistenza alla famiglia e di educazione alla maternità e paternità responsabili.

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Luciana Viviani individua nelle parole di Simonetta Tosi la volontà che il consultorio sia «un momento in cui le donne si organizzano come gruppo a parte». Al contrario, per l’UDI il consultorio è uno strumento tramite cui imporre alla società di farsi carico della condizione della donna. Da questo punto di vista l’UDI vede nella rivendicazione di un finanziamento pubblico ai consultori autogestiti femministi il rischio di una conferma della delega alle donne della gestione di un problema sociale e collettivo. L’autogestione rappresenta in questo senso per l’associazione una pratica di autoisolamento, contrastante quindi con l’obiettivo del gruppo ovvero l’assunzione da parte della società tutta, e quindi delle strutture pubbliche dello stato, della responsabilità dei problemi e dei bisogni delle donne. È questo, ad esempio, che l’UDI intende per «concezione sociale della maternità»: si tratta di far riconoscere la maternità come una questione riguardante tutta la società e non soltanto le donne. In una prospettiva emancipazionista, infatti, l’UDI ritiene che lo Stato debba progredire verso delle riforme sociali in grado di raccogliere le istanze delle donne come settore della società. Così, sin dalle discussioni relative alla legge 405/1975, infatti, l’UDI contrappone all’idea di autogestione quella di gestione sociale del servizio.38 Infine, una differenza fondamentale riguarda l’aborto: mentre Simonetta Tosi e il consultorio di San Lorenzo rivendicano la necessità che il consultorio sia la sede in cui è garantito il diritto all’aborto, l’UDI si oppone a tale idea, vedendovi il rischio di far confluire nell’iter legislativo relativo ai consultori quello «ben più complesso e controverso dell’aborto» con il risultato di «bloccare sia l’una che l’altra legge».39 Mentre si discute la legge regionale approvata, l’effettiva esistenza e il funzionamento dei consultori sembrano ancora un miraggio. Come affer38. Luciana Viviani, Perché i consultori pubblici, in «il manifesto» 29 febbraio 1975, Archivio centrale UDI, Inventario tematico CO/AB Contraccezione e Aborto, b. 6, fasc. 90. L’idea di gestione sociale del servizio incarna, in tal senso, le distanze che l’organizzazione mantiene in questa fase rispetto alla dimensione di movimento del femminismo. Per l’UDI, le donne, l’associazionismo e i gruppi femministi devono esercitare pressione “dall’interno” per determinare l’indirizzo del servizio. Quest’ultimo, tuttavia, deve essere delegato allo Stato, che è tenuto a farsi carico delle istanze poste dalle utenti. Al contrario, in questa fase i gruppi femministi rivendicano una totale autogestione, e non una funzione di mediazione. 39. Luciana Viviani, Relazione introduttiva al Convegno Nazionale Unione Donne Italiane (Roma, 22 aprile 1975): Consultori di maternità: caratteristiche – finalità – proposte dell’UDI, Archivio centrale UDI, Inventario tematico CO/AB Contraccezione e Aborto, b. 6, fasc. 83.

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mano le donne dell’UDI: «si trattava innanzitutto di pubblicizzare la legge, il servizio pubblico di prossima apertura, poiché sull’argomento non solo persisteva un totale silenzio stampa, ma lo stesso ente locale non aveva provveduto a pubblicizzare i consultori e ad illustrarne le finalità».40 UDI, donne dei collettivi e dei partiti costituiscono i comitati unitari che premono per l’effettiva apertura dei consultori. In molti casi sono proprio questi comitati a individuare i locali adeguati ai consultori in ogni circoscrizione, e quasi sempre sono i comitati a dover premere sull’ente locale affinché si dia effettiva attuazione alle delibere che istituiscono il servizio.41 In aggiunta, sia l’UDI sia diversi collettivi femministi si impegnano, subito dopo l’approvazione della legge regionale, nell’organizzazione di un programma di riqualificazione del personale dei consultori. Tale percorso è interessante per mostrare come anche le donne dei collettivi femministi, e del consultorio di San Lorenzo in particolare, malgrado il giudizio genericamente negativo sulle leggi relative ai consultori, provino a influenzare il futuro servizio pubblico con la partecipazione femminista. Donata Francescato, fondatrice della rivista «Effe» e tra le protagoniste del femminismo romano degli anni Settanta, riporta l’esperienza della preparazione e poi dello svolgimento di questo corso in un articolo intitolato significativamente Consultori, val la pena partecipare.42 Secondo la sua testimonianza la partecipazione femminista ha risposto alla volontà di immettere «elementi di femminismo» nel corso stesso e nel futuro del consultorio. Così, ad esempio, si è ottenuto che il corso sia in larga parte strutturato sulla base del piccolo gruppo, che femministe attive nell’ambito della salute, come Ulla Tennenbaum e Simonetta Tosi del consultorio San Lorenzo e la stessa Donata Francescato possano partecipare in qualità di “esperte” alla commissione preparatoria e successivamente ai corsi, e che, all’interno del corso, dei nuclei tematici siano dedicati al racconto delle esperienze già esistenti di consultori, inclusi quelli femministi. Tuttavia, conclude Francescato, se alcuni risultati sono stati ottenuti, in particolare per quanto riguarda il rapporto con il personale medico, mol40. Chi ha paura del consultorio, a cura di Liliana Barca, Nora Fabrizi, Anna Grignola, Lucia Pierantoni, Roma, Editori Riuniti 1981, p. 35. 41. Ivi, p. 36. 42. Donata Francescato, Consultori: val la pena di partecipare, in «Effe», 6 (1977).

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ti ostacoli si sono riscontrati nell’affermare una concezione del consultorio come momento di aggregazione politica delle donne: Trincerandosi dietro la legge dietro lo specifico professionale, alcune partecipanti hanno mostrato di essere ancora attaccate al vecchio modello di servizio ambulatoriale, rassicurante anche se riconosciuto come carente. Credo che su questo punto, cioè sul problema della gestione sociale dei consultori – delle modalità e dei contenuti della partecipazione delle donne alla programmazione e controllo delle attività dei consultori – ci sia una grossa battaglia da fare. Occorre tener presente anche che la maggior parte degli operatori di questo nuovo servizio tendono a sentirsi incerti e insicuri e perciò da un lato desiderano, ma dall’altra risentono e temono un controllo esterno.43

A partire già da questa fase di gestazione e nascita dei consultori familiari, dunque, si nota come l’impegno profondo messo in campo dalle donne dell’UDI e in molti casi anche dai collettivi femministi si scontri con una certa lentezza burocratica e un disinteresse istituzionale. Si deve in larga parte all’intervento dal basso delle donne e alla tenacia dei gruppi l’effettiva implementazione del consultorio pubblico, che tuttavia, talvolta, ha trovato nell’istituzione, come ricordano le donne dell’UDI del Lazio, «un interlocutore sensibile».44 Sarà soprattutto l’UDI a cercare di influenzare dall’interno il senso dei consultori pubblici tramite le assemblee delle donne. 5. Il nodo della partecipazione nei consultori familiari: le assemblee delle donne Dopo l’approvazione della legge 405/1975 nascono e si sviluppano le forme di organizzazione delle donne in seno ai consultori stessi. In molte regioni la partecipazione delle donne alle attività del consultorio prende la forma dei comitati di gestione o dei comitati cosiddetti di partecipazione. A Roma, invece, si costituiscono le assemblee delle donne, che al contrario dei comitati, non prevedono forme di rappresentanza e sono aperte a tutte le donne. Si tratta di un’esperienza realmente singolare: le donne utenti possono immaginare e costruire un servizio nuovo, relazionandosi con operatori e operatrici del consultorio, e incidendo sulla realtà a partire dai propri bisogni e da ciò che desiderano. 43.  Ibidem. 44.  Chi ha paura del consultorio, p. 35.

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Non è facile trovare tracce dell’esperienza delle assemblee delle donne dei consultori romani. Uno dei racconti più dettagliati e vivaci si deve a Liliana Barca, Nora Fabrizi, Anna Grignola e Lucia Pierantoni, militanti dell’UDI e curatrici di un testo intitolato Chi ha paura del consultorio.45 Secondo la loro testimonianza, le prime assemblee delle donne risultano particolarmente caotiche, a causa della larga partecipazione e della presenza di esigenze diverse. La prima assemblea del consultorio di via Salaria del 1977 si apre nella confusione più totale: le donne presenti hanno idee molto diverse, alcune ritengono che la priorità sia discutere di sessualità, altre vogliono invece concentrarsi sul tema sottovalutato della menopausa, altre ancora ritengono che l’assemblea debba dedicarsi al funzionamento del consultorio stesso. Uno dei primi temi delicati su cui le partecipanti si confrontano riguarda il ruolo che devono avere i medici. Alcune ritengono che uno sguardo specializzato sulle questioni sia indispensabile, altre sono profondamente contrarie alla presenza di esperti nell’assemblea delle donne. Si decide di iniziare l’assemblea con la partecipazione delle sole utenti e di coinvolgere medici e specialisti solo in un secondo momento e unicamente su questioni specifiche. Nel corso dei mesi le assemblee danno vita a gruppi di approfondimento tematico, in modo da rispondere alle esigenze di ognuna. Tuttavia, ben presto si capisce che i vari gruppi sono uniti da un filo rosso comune a tutte: la sessualità. Un’altra esperienza significativa di cui resta testimonianza si trova nel testo, pubblicato con il contributo della ASL RM9, L’equilibrio di vetro. Si tratta del racconto di un gruppo dedicato a Donne e disagio psichico che per due anni si è riunito all’interno del consultorio di via Aulo Plauzio. Iniziato con un percorso largo e aperto a tutte, si è poi trasformato in un piccolo gruppo, chiuso, di otto persone. Il gruppo iniziale, pur riproponendo la stessa composizione della Assemblea delle donne (donne di varie estrazioni sociali, dai 25 ai 60 anni, dalle diverse professionalità, insegnanti casalinghe studentesse impiegate, dalle diverse storie personali, dalla differenziata esperienza politica), ha avuto una fisionomia particolare. Infatti, a questo gruppo hanno partecipato nella prima fase anche le esperte.46 45.  Ivi. 46. L’equilibrio di vetro. Sul disagio psichico femminile, a cura di Gabriella Bacarini, Marina Canale, Rita Cortonesi, Marinella Cucchi, Patrizia Cupelloni, Antonietta Dalla

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Questi esperimenti, però, arrivano presto a un punto di stallo. A partire dal 1982, in concomitanza con l’ultimo congresso dell’UDI (in cui verrà decisa l’autonomia del gruppo rispetto ai partiti e in cui l’associazione stabilisce di darsi una struttura organizzativa meno burocratica e non gerarchica), l’UDI stessa prenderà le distanze dall’idea di “gestione” e dichiarerà la fine della stagione di “gestione partecipata”. Le considerazioni che portano a questa scelta riguardano l’incancrenirsi di una situazione che vedeva le assemblee delle donne sempre più costrette dentro burocratismi e problemi amministrativi del servizio, e sempre meno libere di sostenere percorsi autonomi come quelli sopra citati. Se questa situazione riguarda in larga parte i comitati di gestione, e in misura minore le assemblee delle donne dei consultori di Roma, è proprio il gruppo romano ad affermare in un numero di Noi Donne di aver capito, attraverso lunghe discussioni, che «a volte senza rendercene conto, avevamo spostato il nostro obiettivo iniziale: avevamo cioè inseguito un ipotetico obiettivo del benessere del consultorio (vissuto come fine e non come mezzo) invece di quello del nostro benessere».47 Si forma così, dapprima informalmente, poi nel 1985 ufficialmente, il Coordinamento nazionale donne per i consultori, che intende rappresentare un modo per continuare il lavoro sui consultori in una forma diversa, non attraverso la presenza fisica all’interno del servizio, ma con l’obiettivo di sviluppare contenuti nuovi. Si è chiaramente evidenziato dal confronto delle esperienze e dall’analisi dei risultati che il terreno istituzionale non è il nostro terreno, per cui la partecipazione perde forza e pressione politica. Ci siamo dette cosa sono stati, per noi donne, i comitati di partecipazione e di gestione dei consultori e siamo state tutte concordi nel ritenerli delle gabbie che ci hanno fatto vivere con ambiguità il rapporto con le donne sia quello con gli operatori e con l’istituzione… Decidiamo di uscire da qualsiasi comitato, non in sordina, non alla chetichella, ma con grande clamore.48

E ancora: Nave, Luciana Marzilli, Maria Minazzio, Consultorio Familiare Aulo Plauzio, Unità Sanitara Locale RM 9, 1983, p. 10. 47. Per il nostro benessere, in «Noi Donne. Dal mondo delle donne», aprile 1985, in Archivio centrale UDI, Fondo Liliana Barca, Coordinamento nazionale donne per i consultori, b. 8, fasc. 24, sottofasc. 2. 48. Verbale della II Assemblea del Coordinamento 18-19 dicembre 1982, Archivio centrale UDI, Fondo Liliana Barca, Coordinamento Nazionale donne per i consultori, b. 8, fasc. 25.

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Dopo l’approvazione della legge 405 e dopo il nostro ingresso nei consultori come assemblea delle donne, abbiamo ben presto dovuto subire l’impatto con una volontà politica che si opponeva ad ogni elemento innovativo, avendo tutto l’interesse a non intaccare poteri consolidati (e cioè poteri economici, politici, medici). E questo ci ha portato, dopo oltre cinque anni di presenze e di proposte, a una situazione statica sia sul fronte dei servizi socio-sanitari pubblici (che, pur continuando a espandersi numericamente, avevano perso gli elementi innovativi e svolgevano il più delle volte lavoro di routine) sia sul fronte della partecipazione delle donne, che all’interno del servizio non trovavano risposte adeguate alla loro spinta ideale per la costruzione di una nuova cultura della salute e della sessualità.49

Si chiude così un capitolo di gestione partecipata, e si apre una nuova intensa fase di riflessione, animata dal Coordinamento, che vede coinvolte militanti dell’UDI, attiviste femministe, operatrici e amministratrici dei consultori. Il 23-24-25 settembre 1983 si svolge il primo grande convegno del Coordinamento dal titolo “Per una nuova cultura della sessualità”. Il convegno fa parte di un ampio progetto di ricerca che si propone innanzitutto di mappare la situazione nei consultori, ma che in verità rappresenta un’occasione per riprendere in mano proprio metodi e temi che l’esperienza di partecipazione diretta alla vita del consultorio aveva costretto a lasciare da parte. Il dibattito, tuttavia, non è semplice: se da un lato è forte l’esigenza di rimettere al centro la sessualità, dall’altro non si vuole in alcun modo abbandonare il terreno di lotta rappresentato dal consultorio. Così, anche nel tentativo di rompere i margini in cui erano state costrette e di recuperare un percorso autonomo di ragionamento sulla sessualità e sulla salute, le partecipanti al Coordinamento si ritrovano spesso a confrontarsi con i problemi che le avevano impegnate già in precedenza. In primo luogo, si pone nuovamente l’annoso tema del rapporto che le donne dovrebbero avere con il servizio pubblico, con l’istituzione. Il riemergere quasi sistematico di questo dibattito scalda gli animi delle presenti: Questa discussione sul rapporto movimento-istituzione l’abbiamo già fatta e di preciso un anno fa quando ci siamo incontrate nel primo Coordinamento nazionale delle donne per i consultori. Abbiamo detto che eravamo tutte stufe e arcistufe di avere lavorato nei comitati di gestione, nei comitati di parte49. Relazione di due rappresentanti del Coordinamento nazionale donne per i consultori alla conferenza-dibattito sulle tecnologie sulla riproduzione artificiale promossa da Il filo di Arianna presso la Società Letteraria di Verona, 1988, in Archivio centrale UDI, Fondo Liliana Barca, Coordinamento nazionale donne per i consultori, b. 8.

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cipazione dei consultori e nelle varie associazioni collaterali, scontrandoci sempre con le istituzioni perché appunto dovevamo andare a discutere sui regolamenti, sui bilanci, sul rubinetto che perdeva, sull’assistente sociale che non era in collegamento con i vari servizi e avevamo perso per strada il nostro progetto di movimento e cambiamento, eravamo ingabbiate in discorsi che non ci riguardavano.50

Il percorso iniziato dal Coordinamento proseguirà poi con altri due importanti convegni: “I luoghi della sessualità, i luoghi della scienza – riunifichiamo i saperi delle donne”, tenuto nel 1985, e “La parola alle donne sulla riproduzione artificiale”, svoltosi nel 1987. Il convegno del 1985 rappresenta un tentativo da parte del Coordinamento di coinvolgere più direttamente donne con traiettorie professionali nell’ambito medico-scientifico, le cosiddette “esperte”, al fine di provare, appunto, a “riunificare i saperi”: «la ricomposizione tra l’esperienza delle donne e le professionalità segnate e non dal femminismo, tra percorsi isolati di ricerca e percorsi integrati, può dare risposte al disagio collettivo che deriva dalla frantumazione che la scienza ufficiale fa del nostro essere persone complete?».51 L’obiettivo è qui un confronto serrato con il discorso scientifico e con la pratica medica, questa volta però a partire da reti di relazioni con donne, mediche, ginecologhe, ostetriche, operatrici di consultori a vario titolo. Anche nei resoconti delle assemblee preparatorie al secondo convegno non mancano i riferimenti al permanere di questioni aperte: nel susseguirsi di interventi qualcuna dice «si fa ancora grande confusione tra gestione e partecipazione… è bene riflettere sulla partecipazione che non è presenza fisica nella istituzione ed è qualcosa di molto diverso dalla rappresentanza e dalla cieca delega»; oppure «Partecipazione… torno a dire che in questi termini è una parola vecchia… io personalmente sento l’esigenza di riprendere innanzitutto una riflessione nostra, ho la necessità di arricchirmi di contenuti nuovi».52 50. Spunti dal Convegno 23-24-25 settembre ’83 “Per una nuova cultura della sessualità”, Archivio centrale UDI, Fondo Liliana Barca, Coordinamento Nazionale Consultori, b. 9, fasc. 26. 51. L’incipiente scienza. Per una nuova cultura della sessualità, in «Noi Donne. Le pagine autogestite», marzo 1986, Archivio centrale UDI, Fondo Liliana Barca, Coordinamento nazionale donne per i consultori, b. 9, fasc. 26, sottofasc. 2. 52. Verbale della discussione del Coordinamento Nazionale della mattina del 13 aprile 1985, in Archivio centrale UDI, Fondo Liliana Barca, Coordinamento nazionale consultori, b. 8, fasc. 25.

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Successivamente nel corso del 1987 il Coordinamento svolge un’inchiesta tramite un questionario sulla riproduzione artificiale, cui seguirà un convegno dedicato intitolato Un figlio a tutti i costi? Sì, no, non so. La parola alle donne sulle nuove tecnologie della riproduzione. L’intento, in questo caso, sarà affrontare in maniera non pregiudiziale un tema complesso che nuovamente rimette al centro il rapporto tra medicina, tecnologie, corpi femminili e maternità. L’esperienza del Coordinamento rappresenta in tal senso un segnale significativo di come siano state proprio le difficoltà incontrate all’interno dei consultori a spingere i gruppi che vi partecipavano a tentare di ripartire su un terreno diverso, tornando in qualche modo alle origini e ripartendo dalla sessualità. Così è proprio l’UDI, che maggiormente ha investito nella presenza all’interno del consultorio, che più ha creduto nella possibilità di una gestione sociale del servizio e che con forza ha sperimentato forme di partecipazione al consultorio, a consegnare un’analisi lucida e spietata delle contraddizioni di questa esperienza. 6. Un’ostinata continuità: la scelta dell’autogestione Come già anticipato, con l’apertura dei primi consultori, molte delle esperienze femministe di autogestione che erano sorte all’inizio degli anni Settanta in Italia si sciolgono. Con l’approvazione della legge 194/1978 sull’aborto le iniziative dei nuclei di autogestione dell’aborto del CRAC vengono abbandonate.53 Rimangono però fortemente attivi sia il GFSD che il consultorio di San Lorenzo. Il primo continua le proprie attività di informazione e ricerca. Il 53. Una celebre eccezione, da questo punto di vista, è rappresentata dall’occupazione del “Repartino”: a giugno, in risposta alla pressoché nulla applicazione della legge approvata il mese precedente, il consultorio di San Lorenzo, insieme ad altri collettivi femministi, al collettivo autonomo del Policlinico e al personale delle liste di lotta, occupa la clinica ostetrica del Policlinico Umberto I di Roma. In continuità con l’esperienza dei nuclei di autogestione dell’aborto, per tre mesi il reparto viene mantenuto in funzione dall’impegno delle occupanti che, praticando aborti autogestiti all’interno delle mura di un ospedale pubblico, mettono in atto la prima effettiva applicazione della nuova legge. Sgomberato definitivamente a settembre, il reparto occupato rappresenta un tentativo di pratica dell’autogestione dentro i confini dell’istituzione. Si veda Roma Policlinico, un reparto occupato dalle donne, supplemento a «Rivolta di classe», 1 (1978), e le testimonianze raccolte in Speciale di Politica, in «Differenze», 11 (1979).

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consultorio rimane aperto, per le visite e la contraccezione; l’unica attività che viene realmente abbandonata è infatti la pratica dell’aborto autogestito. Non cessa, tuttavia, l’organizzazione dei viaggi a Londra, che continueranno a esistere al fine di sostenere tutte quelle donne che non sarebbero potute rientrare nella casistica prevista dalla nuova legge.54 La scelta di proseguire nell’esperienza di autogestione del consultorio può sembrare un atto meramente ideologico e rivendicativo, ma, in verità, essa va compresa nel quadro di quel “realismo” nei confronti delle istituzioni di cui parlano le stesse protagoniste. Da un lato, infatti, pur mantenendo un approccio profondamente critico, San Lorenzo non si sottrarrà mai al confronto con le istituzioni, né tanto meno al rapporto pur complesso con realtà quali l’UDI e le organizzazioni femminili. Al contrario, come abbiamo visto, il collettivo interviene lungo tutto il processo di formazione dei consultori pubblici, inclusi i corsi di formazione del personale. D’altro canto, una volta fallito il tentativo promosso dal CRAC di ottenere il finanziamento pubblico ai consultori autogestiti, il consultorio di San Lorenzo decide di proseguire con l’autogestione, riconoscendo a quest’ultima una propria specificità e delle qualità intraducibili all’interno dell’istituzione. Quando nel 1984 il consultorio si presenta sotto la nuova veste dell’associazione IRIS, Iniziative ricerche e informazione sulla salute della donna («abbiamo cambiato la sigla Consultorio femminista San Lorenzo che ci associa nella memoria al femminismo da strada e da trincea»), le partecipanti spiegano molto chiaramente le ragioni di questa scelta: Perché una continuità così ostinata? I tempi sono cambiati, ci sono i consultori, la legge sull’aborto, le richieste delle donne attraversano le istituzioni e non sono più gridate da fuori. Non si occupano reparti ospedalieri come ci è capitato di fare insieme ad altri gruppi nel ’78. Dunque non faremmo meglio a scioglierci, o se proprio ci teniamo a restare insieme, perché non facciamo lavori di altro tipo, senza sovrapporre il nostro a quello dei servizi pubblici? Ce lo siamo chieste; ma intanto la domanda che riceviamo ci conferma che il nostro modo di lavorare non è intercambiabile con le prestazioni istituzionali. E non solo perché mandiamo le donne a Londra. Ci sono qualità a cui teniamo… la strada da fare è molta… intanto ci ostiniamo a tenere aperto uno spiraglio, a cercare ogni possibilità di far passare contenuti nostri che 54. La legge 194/1978 riconosce alla donna la possibilità di richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni di gestazione, ovvero entro la dodicesima settimana di gravidanza. Nel Regno Unito l’Abortion Act del 1967 garantisce tale possibilità fino alla ventiquattresima settimana.

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verifichiamo con il rapporto tra donne di formazione diversa. Il trovarsi fuori da luoghi istituzionali aiuta a mantenere antenne sensibili, stimola le donne medico a cercare risposte diverse ai disagi delle altre donne (e propri), serve a far circolare informazioni aggiornate senza aspettare che i soloni di turno le facciano conoscere al pubblico.55

Lo scarto tra il neonato servizio pubblico e l’esperienza femminista traspare chiaramente anche dai ricordi, un po’ sarcastici, un po’ orgogliosi, di R.: Ma mi ricordo come un fatto curioso che quando è stato istituito il consultorio pubblico a San Lorenzo a Largo degli Osci, le ostetriche venivano da noi per chiederci consigli (ride), avevamo proprio la consapevolezza di detenere un fondo, un qualcosa di prezioso che stentava a svilupparsi nelle istituzioni.56

7. Conclusioni La storia dei consultori autogestiti e della nascita dei consultori pubblici rappresenta un punto di osservazione privilegiato per indagare alcuni temi centrali della storia del femminismo. In primo luogo, l’esperienza dei consultori femministi autogestiti permette di guardare al modo in cui essi hanno affrontato la tensione tra una forma di ricerca nell’ambito della sessualità, della salute e della medicina e l’apertura verso l’esterno di un “servizio”. La coesistenza di queste anime è rimasta nel corso degli anni Settanta un tema discusso e a tratti lacerante. Come mantenere un equilibrio tra le diverse tensioni compresenti nell’ideazione stessa del consultorio? Se tale contraddizione rimane irrisolta, essa rappresenta forse proprio la matrice della potenzialità di queste esperienze, così complesse e così radicali. Il rapporto tra ricerca di un metodo politico nuovo e offerta di un servizio, infatti, si sovrappone alla polarizzazione tra il piccolo gruppo di autocoscienza da un lato e l’intervento nel sociale dall’altro. Per qualificare e riempire di senso la scelta di un “intervento” verso “l’esterno” è necessario che esso possa rappresentare la traduzione, la pratica, di un’idea femminista di salute e di rapporto tra donne. Così, lo scoglio fondamentale con cui si 55. Associazione IRIS, 1984, Archivia, Fondo CRAC, u.a. 10, Documenti per la storia del movimento per la salute della donna (74-84). 56. Intervista dell’autrice a R., Consultorio San Lorenzo.

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confrontano e scontrano i gruppi che scelgono di praticare l’autogestione, è quel complesso equilibrio tra l’allargamento a tante e la tenuta di una prospettiva propria. Inoltre, sebbene i consultori autogestiti abbiano realmente rappresentato delle incarnazioni di rapporti diversi, in cui la circolazione e condivisione di conoscenze poteva portare persone non specializzate ad appropriarsi di strumenti e tecniche relativi al corpo e alla salute della donna, il rischio della delega all’esperta è rimasto all’ordine del giorno come un problema con cui confrontarsi costantemente. Esso esploderà poi nella maniera più evidente a proposito del tema dell’aborto e all’interno degli stessi nuclei di autogestione dell’aborto. La domanda potrebbe essere allora: qual è il limite oltre il quale una pratica politica si trasforma in mera assistenza? In secondo luogo, la storia dei consultori pone al centro il complesso rapporto tra femminismo e istituzioni. Maud Anne Bracke ha definito la nascita dei consultori pubblici «un esempio da manuale di (rapida) istituzionalizzazione di un’iniziativa di movimento, inizialmente autorganizzata e per certi aspetti antagonista nei confronti dello stato».57 Da questo punto di vista, sebbene decisamente meno acceso e meno lacerante del dibattito apertosi sul tema dell’aborto, l’istituzionalizzazione dell’esperienza dei consultori ha rappresentato un terreno di discussioni, conflitti interni e di confronto di ipotesi diverse. Nelle sue Ipotesi per una storia che verrà, Anna Rossi-Doria riflette sul rapporto tra femminismo e democrazia e ricorda che, nel corso degli anni Settanta, «in generale il femminismo si disinteressa completamente dell’elaborazione e approvazione di leggi molto avanzate che per altro erano sue conquiste». A suo giudizio, questa contraddizione si sarebbe dovuta storicamente indagare «nel contesto del problema, ancora tutto da affrontare, di un riformismo che i movimenti degli anni Settanta tanto rifiutarono in teoria quanto realizzarono indirettamente nella pratica».58 La legge sui consultori ha sin da subito aperto un acceso dibattito nel movimento che, in fin dei conti, si poneva una domanda fondamentale: è possibile una pratica femminista dentro i confini dello stato e delle istitu57.  Maud Anne Bracke, Feminism, the state and the centrality of reproduction. Abortion struggles in 1970s Italy, in «Social History», 42/4 (2017), p. 538 (traduzione dell’autrice). Cfr. anche Maud Anne Bracke, La nuova politica delle donne. Il femminismo in Italia, 1968-1983, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2019. 58.  Anna Rossi-Doria, Ipotesi per una storia che verrà, in Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Roma, Viella, 2005, p. 15.

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zioni? La risposta prevalente era senza dubbio negativa, e tuttavia il processo aperto dall’istituzionalizzazione dei consultori ha visto reazioni e atteggiamenti diversi. È interessante, da questo punto di vista, sottolineare come il consultorio di San Lorenzo abbia saputo tenere assieme una critica serrata agli effetti dell’istituzionalizzazione e il tentativo di influenzare il futuro del servizio pubblico, mettendosi in gioco. In questo senso il rifiuto di relazionarsi con le istituzioni appare molto meno ideologico di quanto possa sembrare e improntato a un atteggiamento “realista”. Così, una realtà che rivendica l’importanza dell’autogestione e l’impossibilità di costruire dentro un servizio statale un approccio femminista e critico nei confronti della medicina, decide ugualmente di prendere parte ai corsi di formazione del personale dei neonati consultori della città con l’intento di immettervi “elementi di femminismo”. Il quadro generale restituisce l’impressione di una legge arrivata effettivamente molto presto sulle spalle di un movimento che sino ad allora pochi o nulli rapporti ha avuto con l’istituzione e che ancora fa i conti con le proprie difficoltà interne. Quanto poi il femminismo sia effettivamente riuscito a determinare le sorti del servizio consultoriale rimane una domanda aperta. L’esperienza dei consultori autogestiti e poi pubblici ha rappresentato una sperimentazione di un modello di salute radicalmente innovativo che ha prodotto, almeno idealmente, un servizio socio-sanitario nuovo, profondamente influenzato dalle esperienze femministe, capace di non ridurre all’ambito medico-sanitario la salute delle donne e basato sul lavoro di un’equipe multidisciplinare attiva sia dentro sia fuori le mura del consultorio stesso. Il tentativo dei gruppi femministi e delle organizzazioni femminili di aprire il consultorio pubblico alla partecipazione diretta delle donne-utenti, poi, proponeva e incarnava allo stesso tempo un’idea diversa di salute e benessere, e un’idea nuova di rapporto con l’utenza nel welfare locale, particolarmente rilevante poiché situata proprio negli anni immediatamente precedenti alla nascita del Servizio sanitario nazionale. Malgrado questo livello di innovazione e l’effettiva conquista di un servizio nuovo, tuttavia, il ruolo giocato dal movimento femminista nell’ideazione del consultorio e poi nel rapporto con l’istituzione mostra, da un lato, tutti i limiti del legislatore e della struttura sanitaria e, dall’altro, l’impossibile traduzione lineare di una pratica femminista dentro i confini di un servizio pubblico. D’altro canto, l’impegno dei gruppi femministi e delle associazioni femminili, prima per l’elaborazione della legge regionale, poi per

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l’effettiva apertura dei consultori, e poi ancora per l’implementazione del servizio e infine l’impegno nelle assemblee delle donne, fino ad arrivare alla difesa strenua del consultorio cui tutt’oggi si assiste, è qualcosa di estremamente significativo e raro, che mostra il profondo legame con un servizio che è anche un simbolo, un tentativo di concretizzare ciò che il femminismo aveva ideato e poi praticato. Un elemento fondamentale che emerge dal racconto della storia dei consultori autogestiti e pubblici è rappresentato dal ruolo di gruppi quali l’UDI, la cui storia e le cui relazioni con il femminismo rimangono ancora in larga parte da raccontare. Nel contesto romano, l’UDI ha rappresentato un attore cruciale di mediazione tra femminismo e istituzioni. Sebbene il rapporto tra UDI e gruppi femministi sia a lungo stato complesso e a tratti conflittuale, e malgrado le differenze di vedute che si sono confrontate anche nella storia specifica dei consultori, risulta particolarmente evidente l’influenza che il femminismo ha avuto sulle vicende dell’organizzazione, soprattutto a Roma. È interessante, da questo punto di vista, e andrebbe indagato ulteriormente, il percorso di cui è stato protagonista il Coordinamento nazionale delle donne dei consultori animato principalmente dall’UDI. Che nel corso degli anni Ottanta proprio quei gruppi che più avevano investito sulla presenza delle donne all’interno del consultorio pubblico, finiscano per ritenere più efficace un ritorno a un dibattito aperto sui temi della sessualità, da farsi fuori dai burocratismi inevitabili dell’istituzione, è significativo. Che nel fare ciò non si sia in alcun modo voluto rinunciare al consultorio come spazio delle donne, lo è ancora di più. Pur nei limiti e nelle difficoltà, infatti, il consultorio rimane uno spazio che questi gruppi considerano proprio, nei confronti del quale rivendicano un’appartenenza. È naturale chiedersi cosa rimanga nel presente di questa storia. I consultori versano oggi e ormai da tempo in una condizione di precarietà. La legge 39/1996 ha stabilito che debba esistere un consultorio ogni 20.000 abitanti e tuttavia, allo stato attuale, i consultori rimangono in media presenti nel numero di uno ogni 32.000 con una distribuzione profondamente diseguale tra regioni (nel Lazio, ad esempio, risulta esserci un consultorio ogni 44.000 abitanti).59 Essi, inoltre, sono stati spesso oggetto di attacchi da parte di gruppi antiabortisti e in particolare del Movimento per la vita. 59. Indagine nazionale 2018-2019 sui Consultori Familiari, a cura di Epicentro, Istituto Superiore di Sanità.

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Nel 2010 nel Lazio ciò è avvenuto con la proposta di legge regionale Tarzia (21/2010), che portava il nome di una delle massime esponenti del Movimento per la vita stesso. La proposta di riforma dei consultori, secondo cui essi dovevano essere ridefiniti come «istituzioni vocate a sostenere e promuovere la famiglia ed i valori etici di cui essa è portatrice […] a tutela della vita e del figlio concepito»,60 è stata affossata anche grazie alle intense mobilitazioni in difesa del servizio e della sua storia. La pratica dell’obiezione di coscienza, prevista dalla legge 194/1978, inoltre, si è insinuata in misura sempre maggiore anche nei consultori, limitando la possibilità di accesso all’interruzione di gravidanza. Nel 2014 la regione Lazio ha approvato delle linee di indirizzo per i consultori che ribadiscono che l’obiezione di coscienza è pratica adottabile dal solo personale impegnato nell’interruzione di gravidanza, e poiché tale personale non è presente nei consultori, non devono esservi obiettori all’interno degli stessi.61 Tuttavia, numerose sono le denunce di utenti e attiviste secondo cui il personale obiettore nei consultori del Lazio esiste e produce effetti nefasti sull’autodeterminazione delle persone che intendono abortire. Sebbene infatti il consultorio non pratichi direttamente l’aborto, è qui che molte persone si recano al fine di ottenere il certificato medico che secondo la legge è necessario per procedere all’operazione. Inoltre, nel corso del tempo, il numero di consultori ha continuato a ridursi e il personale risulta spesso carente. Queste trasformazioni del consultorio vanno inserite, inoltre, nel quadro di una più generale trasformazione della sanità pubblica, stravolta da processi di privatizzazione e aziendalizzazione. Se dunque i consultori, che sin dalla loro nascita hanno incontrato ostacoli e contraddizioni, si trovano oggi in una condizione di crisi, si deve, ancora una volta, ai gruppi femministi la loro difesa. A Roma da anni è attivo un Coordinamento delle assemblee delle donne dei consultori che tenta di riaprire tali spazi di partecipazione dentro i consultori della città e di difenderli. Non è un caso che questo percorso prenda corpo proprio a Roma, dove evidentemente la storia della partecipazione femminista e femminile all’interno dei consultori ha lasciato tracce importanti. Molte sono inoltre le donne 60. Proposta di legge regionale del Lazio “Riforma e riqualificazione dei consultori familiari” su iniziativa del Consigliere Olimpia Tarzia. 61. Regione Lazio, Linee di indirizzo regionali per le attività dei Consultori Familiari.

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che hanno lavorato a lungo nei consultori, portandovi la propria biografia e immettendo in questi luoghi un approccio femminista alla salute e alla medicina, e che oggi lottano per difenderli. In un intreccio inestricabile tra passato e presente, i consultori rappresentano ancora per i gruppi femministi della città un simbolo delle conquiste del femminismo, un servizio socio-sanitario da difendere e, allo stesso tempo, l’incarnazione dell’incapacità delle istituzioni di recepire fino in fondo le richieste del movimento e delle donne. Roma, dicembre 2018. Presidio di fronte alla regione Lazio. Uno striscione dice «Obiezione Respinta» e un altro reca il nome collettivo delle protagoniste del presidio: Coordinamento delle assemblee delle donne dei consultori. S. al megafono ricorda la sua partecipazione all’occupazione del “Repartino” del Policlinico nel 1978 e pretende che i responsabili in Regione aprano un confronto immediato con le assemblee delle donne. «Alla fine lo sappiamo che solo la lotta paga», dice.

Elena Biagini Grazie al femminismo e nonostante il femminismo: la soggettivizzazione politica delle lesbiche

Dedicato a Rina Macrelli, storica del lesbismo prima di tutte1

1. Sotto due ombrelli È difficile stabilire quando in Italia, e forse nel mondo, nasce il movimento delle lesbiche: si tratta infatti di un processo di soggettivazione politica che in molti paesi avviene sotto due ombrelli – quello omosessuale2 e quello femminista – per poi, in modi diversi a seconda dei contesti, costruire organizzazioni autonome. Anche negli Stati Uniti d’America, dove ha preso forma la seconda ondata sia del movimento LGBTIQ sia del femminismo, per le lesbiche c’è stato questo doppio canale: partecipano alla rivolta di Stonewall, mito fondativo dei movimenti LGBTIQ,3 prendono parte dall’inizio alla costru1. Rina Macrelli (1929-2020), femminista del collettivo di via Pompeo Magno di Roma, attiva nel lesbofemminismo, autrice di articoli e saggi che hanno iniziato a tracciare la storia del lesbismo politico in Italia, più volte citata anche in questo articolo, è morta pochi giorni prima del Convegno della Sis “Cinquant’anni di Rivolta. I movimenti femministi dal lungo ’68 a oggi”, da cui parte questo volume. Per questo mi è sembrato imprescindibile ricordarla. Cfr. I talenti di Rina Macrelli: tra creatività e impegno: studi presentati in occasione dell’incontro promosso dalla biblioteca comunale “A. Baldini”, Santarcangelo di Romagna, 23 novembre 2019, a cura di Pier Angelo Fontana e Simonetta Nicolini, Rimini, Raffaelli, 2021. 2. Omosessuale è il termine, neutro rispetto al genere, prevalente, almeno in Italia, negli anni Settanta, superato poi per l’assunzione della parola lesbica nell’ambito del femminismo lesbico e per la diffusione del termine gay per i maschi. Oggi è egemone l’acronimo LGBT (LGBTIQ++). 3. Nerina Milletti, Stonewall: lezioni dal passato, in Una ribellione necessaria. Lesbiche, gay e trans, 40, 30, 20 anni di movimento, Atti del convegno (Firenze, novembre 2009), a cura di Elena Biagini, Firenze, S.i.p. da Azione gay e lesbica, 2011, pp. 18-39.

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zione del Gay Liberation Front ma nel 1970 contestano dall’interno il National Organization for Women (Now), per protestare contro l’invisibilizzazione del lesbismo nel Second Congress to Unite Women organizzato a New York. In quell’occasione, il collettivo lesbico Lavender menace sale sul palco e distribuisce il documento The Woman-Identified Woman,4 un testo molto forte che sfida le femministe a cambiare la loro considerazione delle lesbiche e del lesbismo e non negare loro un posto nel femminismo. In Italia, la prima organizzazione omosessuale, il Fuori (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano), nasce alla fine del 1971, composta da uomini e donne: alcune lesbiche sono presenti alle prime riunioni dell’organizzazione, alcune scrivono sul giornale di questa fin dal numero zero. Ma in questo contesto politico le lesbiche, pur presenti e visibili, sono poco numerose e minoritarie. Sono invece in massa nel femminismo dove, come vedremo, non trovano visibilità né individuale né collettiva. Il nesso soggettivazione lesbica / femminismo è centrato sulla pratica del separatismo,5 a cui è strettamente legata l’emersione: le lesbiche nei luoghi separati del femminismo italiano trovano spazi di vita collettiva per la prima volta in un paese che per loro non aveva visto forme di aggregazione precedenti agli anni Settanta. In altri contesti nazionali la storia pregressa è decisamente diversa, in particolare negli Stati Uniti: The Daughters of Bilitis, la prima organizzazione omofila lesbica, viene fondata nel 1955 e assicura collegamento e aggregazione.6 In Italia, invece, solo negli anni Settanta, grazie al femminismo, le lesbiche trovano quelli che oggi diremmo spazi safe, si incontrano fuori da luoghi nascosti e privati, condividono le lotte per l’autonomia femminile. Lo dimostra la riconoscenza verso il femminismo che viene espressa da molte lesbiche, financo da una militante del Fuori spesso poco tenera con loro come Stefania Sala, la quale, nella lettera aperta alle femministe pubblicata sul numero speciale della rivista omosessuale denominato Fuori! Donna, esprime gratitudine per l’accoglienza negli spazi di Rivolta femminile e ricorda loro: «[Alcune lesbiche] approdando alle vostre riunioni 4. Lillian Faderman, The Gay Revolution. The Story of the Struggle, New York, Simon & Schuster, 2015, pp. 235-237. 5. Cfr. Lessico politico delle donne. Teorie del femminismo, a cura di Manuela Fraire, Milano, Gulliver, 1978, p. 26. 6. Maya De Leo, Queer. Storia culturale della comunità LGBT+, Torino, Einaudi, 2021, p. 128.

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dagli orrori della provincia, non dimenticheranno mai il sollievo sparso sulle loro ferite dalla vostra premura».7 Analogamente, Piera Zanotti, lesbica dichiarata fin dai primi anni Settanta, racconta il suo incontro all’inizio del decennio, con il gruppo femminista di via Cherubini a Milano: A me è sembrato un approdo, ero nata, […] io aspettavo il sabato per ascoltare, perché loro si riunivano il sabato dalle 7 alle 10, […] grazie a loro Piera, le Piere sono nate. Perché se non c’era il femminismo, io non so se avremmo avuto tanto lesbismo.8

Si tratta di esempi di militanti “pioniere” ma le espressioni di gratitudine verso il femminismo accomunano interamente la prima generazione delle lesbiche che arrivano al femminismo: «Sono rinata», «È stata una seconda nascita» sono affermazioni frequenti.9 Questa riconoscenza la troviamo anche nel movimento francese, sebbene il parallelo possa essere solo parziale, dal momento che oltralpe la visibilità lesbica è assicurata fin dal 1971, quando nasce Gouines Rouges. Marie-Joe Bonnet, infatti, scrive: Je dirai que le Mlf a été pour moi le lieu d’une renaissance. C’est là où je me suis acceptée comme femme, où je suis devenue fière d’être une femme rebelle unie à d’autres femmes rebelles et où j’ai assumé ouvertement mes désirs. C’est là aussi où la sexualité a cessé d’être une frontière séparant d’un côté les hétéros et de l’autre les homos.10

Ma nel femminismo italiano degli anni Settanta, il lesbismo rimane per lo più un non detto: materialmente molte che vivono la propria affettività e sessualità rivolta alle donne, in cerca o meno di un’identità politica che le comprenda, partecipano a gruppi femministi, spesso però non vi trovano parola e visibilità. Questo limite viene anzitutto sottolineato da chi, 7. Stefania Sala, senza titolo, in «Fuori!», estate 1974, p. 4. 8. La vita politica di una lesbica proletaria a Milano dagli anni Cinquanta a oggi, in Comunità lesbica libertà di movimento, Atti della seconda settimana lesbica, a cura di Comitato promotore della seconda settimana lesbica, Roma, S.i.p., 1997, pp. 57-66. 9. Numerose affermazioni di questo tenore sono presenti nelle interviste da me realizzate per la tesi di dottorato Le donne con le donne possono. Nascita dei movimenti delle lesbiche in Italia tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, Sapienza Università di Roma, a.a. 2015/16. 10. Marie-Jo Bonnet, Révolution et/ou réformisme homosexuel dans les années 1970, in Mouvement des lesbiennes, lesbiennes en mouvement. Dans le cadre des 40 ans du MFL. Actes du colloque et des ateliers. Chronologie lesbienne, a cura di Coordination lesbienne, Montreuil, Prospero, 2010, pp. 15-24.

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alla fine del decennio, inizia una spinta a costruire forme politiche autonome del lesbismo: un dibattito rintracciabile, per esempio, in E la madre tra l’altro è una pittrice… Dialoghi tra lesbiche,11 una sorta di auto-inchiesta interna al Governo Vecchio (la prima casa delle donne a Roma) e, negli atti del Convegno di donne lesbiche tenuto a Roma nel dicembre 1981.12 La seconda conferma, stavolta in negativo, è il fatto che il collettivo di via Pompeo Magno sia considerato un unicum perché vi si può vivere l’agio di essere e mostrarsi lesbiche fra le altre, in primis da Rina Macrelli13 e Fufi Sonnino, esponenti del gruppo.14 Ma si trovano anche testimonianze dirette di un disagio dentro il femminismo (come vedremo nel terzo paragrafo). In questo senso si può affermare che l’emersione del lesbismo politico avviene grazie al femminismo ma anche nonostante il femminismo: le femministe rendono possibile in Italia l’emersione del lesbismo aprendo spazi (materiali o meno); di contro da una parte sono preoccupate di dover mettere in discussione il concetto di sorellanza, dall’altra sembrano subire la paura causata dagli attacchi esterni che schiacciano tutte sotto l’etichetta di lesbiche. Un timore che non riguarda tanto la discussione politica dei gruppi quanto piuttosto il personale, la sensibilità delle singole che in alcuni casi non si sentono di assumersi la mostrificazione del lesbismo; infine c’è anche chi, tra le femministe, preferisce evitare l’assunzione del lesbismo nella convinzione che sarebbe uno strumento funzionale per i detrattori del femminismo. Questa complessa relazione con il femminismo è almeno una delle cause per cui solo tra il 1979 e il 1981 prende forma un movimento autonomo di lesbiche, quando il movimento omosessuale, composto da uomini e donne, esiste ormai da dieci anni in Italia come in altri paesi: fra questi Stati d’Uniti d’America e Francia, i contesti politicamente più vicini alle 11. Matilde Finocchi, Rosetta Froncillo, Alice Valentini, E la madre tra l’altro è una pittrice… Dialoghi tra lesbiche, Roma, La Felina, 1980. 12. Atti del convegno di donne lesbiche, a cura di Collettivo Vivere lesbica in «Differenze», 12 (1982), pp. 1-80. 13. Percorsi del lesbofemminismo in Italia. Il caso romano: incontro con Rina Macrelli e Rosanna Fiocchetto, in Un posto per noi: atti e misfatti della prima settimana lesbica: Bologna, 1-5 maggio 1991, a cura di Coordinamento Nazionale per la Settimana Lesbica, Roma, S.i.p., 1992, pp. 78-89. 14. Michèle Causse, Maryvonne Lapouge, Écrits, voix d’Italie, Paris, Éditions des femmes, 1977, pp. 420-421. Traduzione in http://www.leswiki.it/cultura-lesbica/biografie/ voix/1977-michele-causse-intervista-a-fufi/.

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femministe italiane, dove soggetti autonomi lesbici sono nati a inizio anni Settanta. Per gli USA abbiamo accennato all’irruzione della “questione lesbica” sul palco del Second Congress to Unite Women nel 1970, in Francia la prima formazione lesbica, Gouines Rouges, nasce già nel 1971, scegliendo una via autonoma tra il Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire (Fhar) e il Mouvement de Libération des Femmes (Mlf). 2. Grazie al femminismo Il primo incontro tra gruppi femministi in Italia si svolge a Milano nel giugno 1971 e, dal resoconto pubblicato e da testimonianze raccolte,15 il lesbismo non è all’ordine del giorno; compare invece almeno tra i temi d’interesse comune, nell’assemblea dei collettivi femministi romani che si svolge al Teatro Belli nell’ottobre 1973: non si va oltre l’enunciazione ma, visto il silenzio precedente, questa labile presenza viene segnata già come un risultato positivo da Rina Macrelli e Giovanna Pala, due lesbiche del Movimento Femminista Romano (MFR), più noto come collettivo di via Pompeo Magno, le quali nel 1983 diffondono una loro ricostruzione del percorso del lesbismo nel femminismo e in particolare nel loro collettivo.16 Il pamphlet viene divulgato durante il convegno lesbico che si svolge a Bologna nel gennaio 1983 dove, secondo Macrelli, emergeva un rischio politico: Il lesbismo cominciava a parlare da solo come se non avesse attorno, alle spalle e dentro alle donne stesse che stavano nei gruppi e che avevano organizzato il convegno, il femminismo. Era un convegno che avrebbe potuto diventare afemminista.17

Nell’Introduzione, le autrici sostengono che negli anni Settanta «molte donne lesbiche in Italia e nel mondo sono entrate nel movimento femmi15. Si veda il parziale resoconto del convegno di gruppi femministi che si svolge nel giugno 1971 a Milano in L’Anabasi, Al femminile, Milano, S.i.p., 1972, pp. 11-16 e, come testimonianza diretta, l’intervista a Giovanna Olivieri nel corpus delle interviste da me realizzate per la tesi di dottorato, Le donne con le donne possono. 16. Giovanna Pala e Rina Macrelli, Lesbismo Femminismo. Contributo di donne lesbiche di Pompeo Magno, Roma, S.i.p, 1983. 17. Separatismo oggi, Atti del Convegno (Roma, 29-30 ottobre 1983) – Le donne con le donne possono, Atti del Convegno (Roma, 11- 12-13 maggio 1984), Roma, S.i.p. dal Centro Femminista Separatista Romano, p. 6.

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nista» per interrompere la «spirale di colpevolizzazione» che le aveva rese «complici dell’emarginazione esterna accettando l’autoemarginazione»; ed è poi nel femminismo – e nello specifico nel Pompeo Magno – che si sarebbe fatto avanti il discorso lesbico come patrimonio di tutto il movimento. È la posizione di chi vuole la visibilità del lesbismo ma dentro il femminismo: una posizione che alcune del collettivo romano continuano a proporre, come vediamo in questo caso, sebbene in solitaria, quando già sono nati i gruppi del lesbofemminismo (il movimento lesbico femminista autonomo che anima gli anni Ottanta).18 Dei primi anni Settanta, Macrelli e Pala scrivono che si tratta di un periodo caratterizzato da una «presenza individuale di lesbiche» nel Pompeo Magno, da «scontri violenti con alcune compagne etero, timorose di spaccature settarie», ma soprattutto dalla lotta comune, di lesbiche e non, «tenacemente impegnate a imporre il separatismo»:19 questo nella loro lettura è il protagonismo lesbico che rivendicano prima di lavorare sul lesbismo come sarebbe accaduto dalla metà del decennio con i gruppi di autocoscienza. Nei grandi raduni femministi di Pinarella di Cervia (1974 e 1975) e di Paestum (1976), la situazione non cambia molto rispetto ai primi incontri, anche se bisogna segnalare che nel 1975 a Pinarella un gruppo di lesbiche si era riunito in modo autorganizzato – e per questo del tutto ignorato nei resoconti – per quello che Pala e Macrelli definiscono «il primo confronto di tutto il movimento sul lesbismo».20 Comunque, anche se il lesbismo non trova spazio nei programmi dei raduni, per molte delle lesbiche che vi partecipano questi sono la prima occasione per uscire dall’isolamento e incontrare altre. Un’occasione ancora molto parziale perché manca la visibilità, pratica fondamentale per tutte le soggettività non eterosessuali ma ancor di più per il lesbismo per cui il silenzio è stato lo specifico dispositivo repressivo.21 La visibilità lesbica che manca in quasi tutto il femminismo degli anni Settanta non è solo quella rivolta all’esterno, ma talvolta è anche quella 18. Cfr. Bianca Maria Pomeranzi, Per una breve storia del lesbo-femminismo in Italia, in Le cinque giornate in teoria, a cura di Liana Borghi, Francesca Manieri e Ambra Pirri, Roma, Ediesse, 2011, pp. 23-32. 19. Pala, Macrelli, Lesbismo Femminismo. 20. Ibidem. 21. Nerina Milletti, Donne “fuori della norma”, in Fuori della norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima metà del Novecento, a cura di Nerina Milletti e Luisa Passerini, Torino, Rosenberg&Sellier, 2007, pp. 21-41.

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praticata all’interno, quel passaggio tra “uguali” che permette di riconoscersi, incontrarsi, costruire comunità e che chiede alle altre – le femministe – riconoscimento e messa a tema. Eppure il lesbismo quando emerge come soggettività politica autonoma, tra la fine degli anni Settanta e primi anni Ottanta, lo fa grazie al femminismo. Anzitutto, emerge nei luoghi del femminismo, i collettivi che definiscono il percorso del lesbofemminismo, infatti, fin dall’inizio trovano spazio nelle sedi femministe: a Milano, il collettivo lesbico Da donna a donna si riunisce nella sede del Movimento di Liberazione della Donna (MLD) dal 1980, stesso anno in cui Realtà lesbica a Firenze inizia i suoi incontri nella casa occupata dal Collettivo Casalinghe in via di Novoli. Anche il Collegamento Lesbiche Italiane (Cli), perno di questo percorso politico, nasce nel 1981, a Roma, nelle stanze del Governo Vecchio, ossia all’interno del palazzo occupato sede e simbolo di tutto il movimento femminista romano. Qui in precedenza c’erano già state tre esperienze lesbiche, i gruppi Artemide e le Furie e L’Identità negata e la casa editrice lesbica La Felina; ancora al Governo Vecchio vengono organizzati i convegni lesbici del 1981, il primo a giugno e il secondo, varo del lesbofemminismo, in dicembre. Sempre al Governo Vecchio ha sede «Quotidiano Donna», il giornale che fa da collettore delle iniziative lesbofemministe, contribuendo a costruirne una dimensione nazionale, e che ospita anche uno spazio autogestito, la «Pagina lesbica». Lo stesso «Bollettino del Cli», periodico lesbofemminista che esce dal 1981, viene promosso sui giornali di donne – «Effe», «Il Paese delle Donne» e «Noi Donne» – attraverso i quali si pensa di intercettare le lesbiche che ancora vivono nell’isolamento. In generale, il nome sottolinea il legame con il femminismo in cui le lesbofemministe vedono la propria genesi, il primo riferimento politico, l’ambito in cui alla fine degli anni Settanta emerge il lesbismo inteso come «posizione politica», «più che una preferenza sessuale».22 Inoltre, le possibilità che si aprono per le lesbiche sono di diverso tipo, non solo luoghi e sedi ma anche spazi editoriali: attraverso le relazioni internazionali tra femministe, arrivano da contesti dove il lesbismo è ampiamente tematizzato anche testi lesbici tradotti in italiano e diffusi nel paese. Tra questi, agli albori del femminismo, gli scritti pubblicati nel 1971 dal gruppo 22. Liana Borghi, Connessioni transatlantiche: lesbismo femminista anni ’70, in Attraversare i confini, a cura di Teresa Bertilotti, Elisabetta Bini e Catia Papa, «Genesis», X/2 (2011), pp. 41-64.

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L’Anabasi in Donne è bello, una raccolta in cui spiccano due testi americani esplicitamente lesbici: Manifesto di Bitch di Joreen e Il mito dell’orgasmo vaginale di Anne Koedt. Perfino in un testo a larga diffusione come Our Bodies Ourselves, il manuale di self help scritto dalle donne di Boston e tradotto da Angela Miglietti per un’edizione Feltrinelli del 1974,23 si parla esplicitamente di lesbismo in un capitolo intitolato Siamo lesbiche.24 Inoltre, Il corpo lesbico di Monique Wittig arriva in Italia per i tipi delle Edizioni delle Donne. Dobbiamo poi sottolineare che anche alcuni testi del femminismo italiano aprono spazi politici alle lesbiche, primo fra tutti La donna vaginale e la donna clitoridea di Carla Lonzi che risulta dirompente per le lesbiche in forza della teorizzazione dell’autonomia dell’eros delle donne, nonostante l’autrice, qualche anno dopo, spieghi come il discorso sulla donna clitoridea non riguardi specificamente il lesbismo.25 Comunque «tra Rivolta, il movimento omosessuale e quello femminista lesbico», come scrivono Milletti e Pintadu, esistono «nella “nebulosa di rapporti” tipica del femminismo degli anni ’70» «legami, contaminazioni e passaggi ‒ quanto meno a livello individuale»26 tali da determinare la riconoscenza delle lesbiche verso un femminismo che pure non le nomina. Le femministe, come abbiamo detto, in termini generali non sono un supporto all’emersione del lesbismo, anzi spesso la ostacolano. Tuttavia, in questo contesto è utile esaminare l’eccezione che, d’altro canto in quanto tale conferma la regola: il collettivo di via Pompeo Magno che rappresenta un unicum, come sottolinea Rina Macrelli. In questo collettivo le lesbiche vivono l’agio di essere e di mostrarsi lesbiche tra le altre, in forza della loro visibilità interna (che le lesbiche presto iniziano a spendere anche esternamente), e dell’aver messo a tema il lesbismo almeno dal 1975.27 Secondo 23. Sulla storia del testo si veda Stefania Voli, Angela. Miglietti. Noi e il nostro corpo, in «Zapruder», 13 (2007), pp. 108-115. 24. The Boston Women’s Health Book Collective, Noi e il nostro corpo. Scritto dalle donne per le donne, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 78-100. 25. Carla Lonzi, Itinerario di riflessioni, in È già politica, a cura di Maria Grazia Chinese, Carla Lonzi, Marta Lonzi e Anna Jaquinta, Milano, Scritti di Rivolta femminile, 1977, pp. 13-39. 26. Nerina Milletti, Ivana Pintadu, Il giardiniere, il giardino e le rose. L’omoerotismo in Rivolta Femminile e negli scritti di Carla Lonzi, in Culture della sessualità, a cura di Enrica Asquer, «Genesis», XI 1-2 (2012), pp. 67-93. 27. Sicuramente il lesbismo è uno dei temi dell’incontro che il MFR tiene nei giorni 18, 19 e 20 aprile 1975 su un barcone sul Tevere come si legge in Percorsi del lesbofemminismo in Italia.

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Fufi Sonnino, la “menestrella” del MFR, il merito di Pompeo Magno è «aver fatto comprendere la convergenza tra discorso femminista e discorso lesbico»:28 racconta infatti che nelle manifestazioni le militanti del collettivo parlano sia di aborto sia di omosessualità come cantano in gruppo le sue canzoni, comprese quelle a tematica lesbica.29 Non sembra quindi un caso che nel 1972, il primo atto di visibilità lesbica – anzi più in generale LGBTIQ – avvenga in una piazza organizzata dal Pompeo Magno. Mariasilvia Spolato30 infatti partecipa al primo 8 marzo del femminismo italiano, a Roma, in Campo dei Fiori: Spolato milita nel Fuori dalla sua fondazione ma frequenta anche il Pompeo Magno ritenendo che le lesbiche debbano essere presenti sia nel movimento omosessuale che in quello femminista e, nel 1972, in quella piazza del femminismo, mostra un cartello con la scritta «Liberazione omosessuale».31 Edda Billi, altra lesbica del MFR, oggi descrive Spolato nell’atto politico di affermare la visibilità lesbica, come «sola, dannatamente sola»;32 ma possiamo interpretare all’opposto questo gesto politico leggendo la prima emersione della lotta lesbica-omosessuale come conseguenza dell’apertura di una piazza femminista: Spolato è potuta scendere in piazza con quel cartello perché si è sentita protetta tra le compagne del collettivo che anche lei frequentava. Possiamo però affermare l’unicità del Pompeo Magno solo in linea generale a causa di un atavico «vuoto storiografico»,33 ancora solo parzialmente colmato. 28. Causse, Lapouge, Écrits, voix d’Italie, p. 423. 29. Fufi Sonnino ha pubblicato due album, entrambi autoproduzioni del MFR (il secondo è stato poi riedito nel 1976 per i Dischi dello Zodiaco); Mi guardo in uno specchio, scritta nel 1972 e da allora cantata nelle piazze, esplicitamente indaga l’identità lesbica; altre due canzoni a tema sono Una donna nella tua vita e Lesbìca. 30. La figura di Mariasilvia Spolato, dopo la sua morte avvenuta il 31 ottobre 2018, è stata “riscoperta” tanto che è stato ripubblicato il suo libro I movimenti omosessuali di liberazione, da Asterisco edizioni (Milano, 2019, la prima edizione del 1972 era uscita per i tipi di Samonà e Savelli) ed è stata valorizzata sia sul piano della ricerca, sia su quello della divulgazione storica. Il podcast Prima di Sara Poma https://choramedia.com/podcast/ prima/?gclid=Cj0KC; Giovanni Focardi, Nicolò Da Lio, Adriano Mansi, Essere esseri umani. Il coraggio di Mariasilvia Spolato, in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 46, 2 (2021) http://www.studistorici.com/2021/06/29/focardi_dalio_mansi_numero_46/. 31. Pala, Macrelli, Lesbismo Femminismo. 32. Elena Biagini, L’emersione imprevista. Il movimento delle lesbiche in Italia negli anni ’70 e ’80, Pisa, Ets, 2018, p. 31. 33. Teresa Bertilotti, Anna Scattigno, Introduzione, in Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Roma, Viella, 2005, pp. VII-XVIII.

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In generale comunque, come abbiamo detto nell’introduzione, la prima generazione di lesbiche che negli anni Settanta arrivò al femminismo oggi esprime per lo più riconoscenza verso quel movimento: quando arrivano al femminismo sono donne di età diverse, alcune ventenni, altre trentenni, altre ancora quarantenni, ma condividono tutte l’esperienza di conoscere il prima e il dopo rispetto all’affermazione del femminismo. 3. Nonostante il femminismo La presenza lesbica nei primi collettivi femministi – quelli nati tra il 1970 e il 1971 – in alcuni casi è testimoniata a posteriori, in altri dedotta ma silente, se non silenziata. Alessandra De Perini che frequenta in Veneto uno dei collettivi che basano la propria analisi sull’ottica donna - forza lavoro - capitale, anni dopo analizza la sua esperienza in quel contesto: Ho subito la sofferenza del misconoscimento, e a mia volta ho accusato la vita dell’altra, la donna “eterosessuale” che mi appariva costantemente stanca, poco disponibile alla relazione faccia a faccia, eccessivamente paurosa dell’omosessualità.34

Un problema relazionale tra chi sceglie l’amore tra donne e chi no e, ancora più forte tra chi si definisce lesbica e chi no, sembra essere presente in modo analogo in tutti i contesti e in tutte le città con eccezioni a cui abbiamo accennato. Paola Cavallin, ad esempio, per una ricerca sul lesbismo a Bologna, raccoglie la testimonianza amara di una militante di Lotta Femminista, che spiega di essersi sempre sentita «stramaledettamente il diverso».35 Anche quando l’istanza di lasciare emergere il lesbismo è recepita positivamente, nei collettivi femministi sembra che ci sia una gerarchia delle lotte, una individuazione delle priorità che fa sì che non se ne parli come nel caso che racconta Lorenza Accorsi nel collettivo di via Cherubini a Milano: «Ovviamente il problema era lì il salario, l’asilo nido, il divorzio, tutti argomenti che portavano via tutte le serate impegnate su questo. Per cui io andai al Partito Radicale [cioè al Fuori]».36 Accorsi non è 34. Alessandra De Perini, Sorelle, amiche, amanti, in «Quaderni dell’associazione Livia Liverani Donini», 6, III (1990), p. 76. 35. Paola Cavallin, Nespole, nunzie e camionare. Il lesbismo a Bologna tra gli anni Settanta e Ottanta, Firenze-Roma, BLI, 2002, p. 25. 36. Biagini, L’emersione imprevista, p. 41.

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l’unica a essere arrivata al movimento omosessuale per il disinteresse delle femministe verso la tematica del lesbismo: racconta di aver fatto lo stesso anche Mariasilvia Spolato.37 Nel già citato E la madre tra l’altro è una pittrice… Dialoghi tra lesbiche, le intervistate raccontano che all’inizio dell’occupazione del Governo Vecchio (1976) di lesbismo non si parlava,38 che si sentono «non rappresentate, non esistenti in quanto lesbiche»39 sebbene riconoscano che gli spazi separati abbiano rappresentato la possibilità di uscire dall’isolamento e per alcune anche la possibilità di farlo senza esporsi come lesbiche.40 D’altro canto, anche la “sessualità diffusa” di cui molto si parla nei gruppi femministi, ossia una sessualità non finalizzata alla riproduzione né incardinata nell’organizzazione sociale basata sulla famiglia, da alcune lesbiche viene letta come un ostacolo alla costruzione di identità, da altre persino come un “alibi” per poter vivere una sessualità tra donne senza doversi dichiarare lesbica.41 Gli stessi due testi lesbici introdotti dagli Stati Uniti grazie al femminismo citati nel paragrafo precedente inducono a una riflessione: il lesbismo è ampiamente tematizzato nei gruppi statunitensi, per cui, quando i loro testi giungono nel nostro paese, cozzano con una realtà in cui l’emersione del lesbismo è rara e spesso ostacolata. Per paradosso, l’azione di ostacolo è in qualche modo giustificata a sua volta dal travaso del pensiero statunitense: in Lessico politico delle donne viene messo in luce come il Movement abbia sviluppato il concetto di casta per le donne puntando sulla similarità dell’oppressione che accomuna donne, neri, popoli colonizzati, poveri, ma in Italia si sceglie di non far proprio il concetto di casta e premere su l’omogeneità profonda che lega tutte le donne a partire dall’oppressione sessuale.42 Questa scelta però finisce per silenziare le differenze tra le donne, il lesbismo nello specifico. A questa posizione si aggiunge l’orientamento che prende l’avvio dal pensiero di Antoinette Fouque e del suo gruppo Psychanalyse et politique che trova accoglimento nell’area milanese di via Cherubini/Libreria delle Donne, ed è alla base del pensiero della differenza: questa area bolla il lesbismo di insignificanza politica. Infatti, Angela Miglietti, la già citata tra37. Mariasilvia Spolato, I movimenti omosessuali di liberazione, Milano, Asterisco edizioni, 2019, p. 142. 38. Finocchi, Froncillo, Valentini, E la madre tra l’altro è una scrittrice, p. 15. 39. Ivi, p. 17. 40. Ivi, p. 98. 41. Biagini, L’emersione imprevista, p. 102. 42. Lessico politico delle donne, p. 66.

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duttrice di Our Bodies, Ourselves, sente la necessità di aggiungere una nota al capitolo cinque per “giustificare” l’impiego delle parole lesbica e lesbismo spiegando che le americane non comprendono la connotazione negativa che questi termini hanno in alcuni settori del femminismo europeo – “noi” scrive Miglietti – cioè di «rapporto omosessuale tra donne che riproduce i ruoli sessisti tra uomo e donna».43 Un altro paradosso se si tiene conto del silenzio generalizzato sul lesbismo, è la denuncia diffusa di una sorta di “egemonia omosessuale” che metterebbe in discussione chi non sceglie le donne anche nella vita privata. Pala e Macrelli raccontano che già nel 1972, di ritorno dal primo campeggio internazionale organizzato dal Mlf in Vandea, a Tranche-sur-Mer, tra le partecipanti di Pompeo Magno «le etero» tornarono con una riserva sul lesbismo identica a quella avanzata sulla rivista femminista francese «Le torchon brûle» del cui intervento riportano un brano da loro tradotto: Il movimento femminista è di natura omosessuale, il che non vuol dire che tutte le donne del movimento abbiano una pratica omosessuale. Anzi, a La Tranche è comparso un certo antagonismo tra l’omosessualità di gruppo, che si esprime nella presenza calda di corpi seminudi al sole, nella comunicazione affettiva profonda, nella tenerezza, nella sensualità, che non richiede alcun ‘atto’, e le relazioni omosessuali di coppia, il rapporto a due che poteva viversi solamente escludendo il gruppo. Questa omosessualità di gruppo è un fenomeno politico che favorisce la conoscenza di sé tramite il riconoscimento reciproco; ma può degenerare in valorizzazione politica, in norma omosessuale, accompagnata dalla colpevolizzazione dell’eterosessualità.44

In un altro passo dello stesso intervento su «Le torchon brûle» viene esplicitata con più forza la critica alla visione “omosessuale” del movimento: A La Tranche, ça s’est manifesté clairement; l’homosexualité avait été présentée comme le chemin révolutionnaire, le but vers lequel on devait toutes tendre, en se débarrassant de la nécessité que certaines n’avaient pas encore dépassé de relations avec des hommes.45

In questi discorsi si mescolano due posizioni e due livelli che ritroviamo anche in altri contesti: il primo è il disagio individuale di chi ha una vita amorosa con gli uomini e si sente messa in discussione. Un’altra testimo43. The Boston Women’s Health Book Collective, Noi e il nostro corpo, p. 78. 44. Pala, Macrelli, Lesbismo Femminismo, pp. 7-8. 45. Homo-hétéro, in «Le torchon brûle», 5 (1972), p. 17.

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nianza su questo disagio è quanto racconta ad esempio Marina Genovese, femminista poi passata al lesbismo separatista: Avveniva perciò che, anche se in un collettivo c’erano dieci etero e una lesbica, ogni volta che tu intervenivi, loro si sentivano accusate, giudicate. Si sentivano minacciate nella loro coerenza. […]. Si creavano, quindi, situazioni di tensione mostruosa.46

L’altro livello invece è il portato di una precisa linea politica, quella elaborata negli anni Settanta da Psychanalyse et politique: “omosessualità politica” è per questa area il «legame sensuale e affettivo»47 esistente tra tutte le donne e quindi la relazione tra donne attraverso la pratica del separatismo ma anche il disconoscimento, persino lo svilimento del lesbismo.48 Questo orientamento politico, che si diffonde fino a diventare egemonico negli anni Ottanta, porta alle lesbiche nel femminismo un duplice e opposto problema: il rifiuto politico del lesbismo ma anche l’accusa alle lesbiche di porsi come le uniche “vere” femministe. Così la critica che «le etero» del Pompeo Magno portano a Roma da Tranche-sur-mer viene raccolta e riproposta nella seconda metà del 1973 durante la preparazione di «Effe», la prima rivista femminista a diffusione nazionale, determinando, secondo Pala e Macrelli, l’esclusione del lesbismo da questo giornale per circa un anno.49 Concretamente infatti bisogna aspettare il 1975 per la pubblicazione dei primi interventi sul lesbismo su «Effe» e il 1976 per la pubblicazione di un documento politico lesbico.50 Dall’altra parte, troviamo ricorrenti le testimonianze di femministe radicali che si definiscono eterosessuali e affermano che l’omosessualità era diventata una specie di norma per cui era colpevolizzata l’eterosessualità. Per la verità, sembra che siano più le eterosessuali a difendersi dall’accusa di essere poco radicali perché compromesse con i maschi nel privato che le lesbiche a porre questo biasi46. Cavallin, Nespole, nunzie e camionare, p. 27. 47. Chiara Zamboni, La pratica dell’inconscio. Un ponte tra “Psychanalyse et Politique”, Antoinette Fouque e il pensiero femminista italiano, in «Per amore del mondo», 16 (2019). 48. Cfr. Elena Biagini, “Sottosotto”: contraddizioni manifeste. La critica lesbofemminista al pensiero della differenza, in LGBTQIA+: sessualità, soggettività, movimenti, linguaggi, «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 47/3 (2021), pp. 106-126. 49. Cfr. Pala, Macrelli, Lesbismo e femminismo, pp. 7-8. 50. Marie-Jo Bonnet, Documento delle lesbiche francesi, in «Effe», 3-4 (1976).

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mo. Tutt’al più, anche qui si tratta dell’eco di un dibattito importato da altri contesti, in particolare dagli Stati Uniti, dove le lesbiche radicali pongono effettivamente una critica all’eterosessualità delle femministe e, basandosi su una concezione universalizzante del lesbismo, lo propongono come pratica per tutte. Queste posizioni delle statunitensi talvolta arrivano in Italia dove probabilmente vengono attribuite genericamente alle lesbiche. Per esempio, Emmetì Fenoglio, femminista torinese della prima ora, di ritorno dagli States, dove era stata ospitata da una comune delle Radicalesbians,51 porta l’idea che solo le omosessuali siano vere femministe.52 Un altro esempio è la traduzione del pamphlet di Anne Koedt, Lesbianism and Feminism53 pubblicata nel secondo dei due Quaderni di Lotta Femminista,54 che descrive le lesbiche come l’avanguardia del femminismo radicale per la rottura dei ruoli sessuali. L’assenza invece di visibilità lesbica e tematizzazione del lesbismo viene confermata anche dalla storia del Movimento di Liberazione della Donna e del Fuori, realtà, la prima femminista, la seconda omosessuale, entrambe legate al Partito Radicale sebbene con parabole inverse: MLD si “sfedera” nel 1978, Fuori si federa nel 1974. L’MLD è un’organizzazione nazionale diffusa anche nelle città di provincia, in alcune delle quali è l’unico presidio femminista esistente frequentato anche da molte lesbiche, di cui si trovano molte testimonianze. Tra queste, Marina Genovese la quale, rispetto al gruppo bolognese dell’MLD, sottolinea la distanza tra la relazione tra donne e il lesbismo: C’era un vero e proprio amore di gruppo, stavamo molto tempo insieme. Si viveva liberamente il rapporto tra donne inteso come solidarietà. Si potevano fare anche dichiarazioni d’amore, dirsi ti amo, perché tanto per loro erano parole vuote.55 51. Radicalesbians è stato un gruppo fondamentale nella storia del lesbofemminismo statunitense; si veda Linda Rapp, Radicalesbians, in «Glbtq Encyclopedia» online: http:// www.glbtqarchive.com/ssh/radicalesbians_S.pdf. 52. Cfr. Intervista a Emmetì Fenoglio nel corpus delle interviste da me realizzate per la tesi di dottorato, Le donne con le donne possono. Sul femminismo torinese si veda anche il saggio di Tommaso Rebora in questo volume. 53. Testo originale online in https://www.uic.edu/orgs/cwluherstory/CWLUArchive/ lesbianfeminism.html. 54. Anne Koedt, Lesbismo e femminismo, in «Quaderni di lotta femminista», 2 (1973), pp. 79-92. 55. Cavallin, Nespole, nurzie, camionare, p. 26.

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Lucia Giansiracusa del collettivo lesbico Da donna a donna, che si riunisce nella sede milanese dell’MLD, addirittura assicura: «L’Mld era tenuto in piedi dalle lesbiche quasi... magari non solamente dalle lesbiche ma moltissime erano lesbiche».56 Eppure anche la storia dell’MLD non fa che confermare lo stesso paradigma: molte le lesbiche presenti nei gruppi locali per tutti gli anni Settanta, accoglienza delle prime esperienze lesbofemministe, ma l’MLD non si è assunto il lesbismo, anzi nella sua parabola non c’è traccia di una tematizzazione specifica, nonostante la convivenza con il Fuori nella Federazione Radicale, che determina la collaborazione su progetti comuni come la costituzione della Lega per la Difesa per i Diritti Sessuali della Persona. Su questo è significativa la testimonianza di Antonia Paternò, militante prima dell’MLD di Catania, poi lesbica separatista, la quale sugli ultimi anni dell’organizzazione che chiude i battenti nel 1983 racconta: Sono iniziati i viaggi a Roma per i convegni dell’Mld dove c’erano tantissime lesbiche ma nessuna lo diceva. Moltissime lesbiche ma non si diceva ai tempi. Si parlava di lesbismo però non era la cosa prioritaria, ecco. Erano anni in cui probabilmente il movimento lesbico aveva ancora bisogno di autorizzarsi ad essere e quindi anche questo era importante. […] Dei convegni a Roma io ricordo anche le liti che proprio sul lesbismo si faceva, proprio per la visibilità, o per dirsi, dentro l’Mld, dentro ai convegni.57

Riguardo al Fuori, tra le donne che ne fanno parte e le femministe, almeno nel primo lustro degli anni Settanta, c’è una tensione continua ed esplicita o meglio una continua ricerca di relazione da parte delle omosessuali non riconosciute dalle altre a causa della non condivisione della pratica del separatismo. D’altro canto, le donne del Fuori, che hanno scelto di militare in un’organizzazione mista con uomini gay marcando così il porsi fuori dall’eterosessualità piuttosto che l’appartenenza di genere, vedono nei gruppi femministi soprattutto l’ennesima cancellazione del lesbismo e criticano spesso le lesbiche che vi militano, accusandole di mimetizzarsi tra le femministe. E sono proprio le donne del Fuori, le più lontane tra le lesbiche dalle femministe, a ribadire a più riprese che una liberazione femminile che non comprenda l’omosessualità non è completa e in alcuni casi ad affermare 56. Biagini, L’emersione imprevista, p. 77. 57. Intervista ad Antonia Paternò nel corpus delle interviste da me realizzate per la tesi di dottorato, Le donne con le donne possono.

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che è una vera femminista solo chi non ha compromissione con i maschi come fa Margherita Leist Jorino sul primo numero della rivista «Fuori!»: La donna omosessuale che sa prendere coscienza della condizione femminile in generale può diventare la femminista perfetta, la sola che possa raggiungere uno stile di vita che esclude in modo assoluto la temuta prevaricazione da parte del maschio. Per questo suo realizzarsi in un mondo dalla dimensione prevalentemente femminile, la donna omosessuale deve trovare un suo posto nei movimenti femministi.58

È a questo punto evidente che la soggettivazione politica del lesbismo in Italia avviene sì grazie al femminismo, nei sensi che abbiamo cercato di sottolineare nel paragrafo precedente, ma anche nonostante il femminismo, anzitutto per la pratica molto agita di non dichiararsi lesbiche e di non parlare di lesbismo che è di fatto una forma di oscuramento. Una pratica non solo italiana, tanto che questo nascondimento dell’esperienza lesbica viene fortemente criticato anche in un saggio che ebbe grande circolazione in Italia a inizio anni Ottanta, Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence59 di Adrienne Rich, poeta e teorica statunitense. In questo panorama, le realtà femministe che parlano esplicitamente di lesbismo o anche di omosessuali, se anche lo fanno per segnare una distanza, scardinano comunque questo dispositivo del silenzio. Mi riferisco, tra gli altri, anzitutto agli scritti di Rivolta femminile, dove, almeno parzialmente, si riflette sull’eterosessualità: «Non ci pronunciamo sull’eterosessualità: non siamo così cieche da non vedere che è un pilastro del patriarcato, non siamo così ideologiche da rifiutarla a priori».60 Ma si può citare anche il Manifesto del gruppo femminista napoletano Le Nemesiache (1971) dove leggiamo: «Il femminismo non è lesbismo; non vogliamo mettere al sesso un’altra etichetta o gli uomini che ci accusano cercano solo di neutralizzarci e di isolarci».61 Con questa affermazione il collettivo napoletano in parte reagisce 58. Margherita Leist Jorino, La liberazione della donna, in «Fuori!», 1 (1972), p. 11. 59. Adrienne Rich, Compulsory heterosexuality and Lesbian Existence, in «Signs. Journal of Women in Culture and Society», 5 (1980). Uscirono parti del saggio nel 1981 sulla rivista «Effe», la prima traduzione integrale è invece Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, in «Nuova DWF. Amore proibito. Ricerche americane sull’esistenza lesbica», 23-24 (1985), pp. 5-40. 60. Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Milano, Scritti di Rivolta femminile, 1974, p. 83. 61. Dattiloscritto online in http://www.femminismo-ruggente.it/femminismo/pdf/napoli/nemesiache.pdf.

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alla diffusa accusa di lesbismo rivolta alle femministe, dall’altra percorre il solco di contrapporsi a “etichette” che sarebbero costruite dal patriarcato per dividere le donne e quindi indebolire la loro lotta. È la già menzionata idea che alla base del femminismo debba esserci un soggetto indivisibile, la donna, attraverso la pratica della sorellanza. In Italia, come nel resto del mondo, le conseguenze dei dispositivi repressivi del silenziamento e della mostrificazione del lesbismo vengono disattivati dalla pratica politica della visibilità, quello che invece rimane come ostacolo posto dal femminismo alla soggettivazione politica del lesbismo sono le riserve teoriche. Anche il collettivo di via Pompeo Magno sostiene con forza e a lungo questa idea. Nel 1974 distribuisce un volantino il cui testo lo afferma con chiarezza: Donne, per poterci sfruttare e opprimere ci hanno sempre divise: le brutte dalle belle le mamme dalle figlie le ricche dalle povere le negre dalle bianche le ‘oneste’ dalle ‘puttane’ le suocere dalle nuore le istruite dalle ignoranti le cognate dalle cognate le zitelle dalle maritate le omosessuali dalle eterosessuali le grasse dalle snelle le vecchie dalle giovani ecc. Abbiamo rifiutato queste divisioni, ci siamo unite, lottiamo insieme per la nostra liberazione.62

Eppure le compagne del MFR distribuiscono questo volantino mentre mettono in scena uno spettacolo sui vari aspetti dell’oppressione delle donne, compresa la denuncia della repressione dell’omosessualità, al mercato di San Lorenzo e ai giardini di Testaccio, «quartieri popolarissimi dove il femminismo non-separatista diceva che non si poteva andare a parlare di sessualità, perché le proletarie non erano preparate»,63 scrivono Pala e Macrelli. 62. Il volantino è riprodotto in Donnità. Cronache del Movimento Femminista Romano, a cura di Centro di documentazione del MFR, Roma, S.i.p., p. 153. 63. Pala, Macrelli, Lesbismo Femminismo, p. 8.

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Edda Billi racconta che quando, nel 1973, a Padova viene processata per aborto Gigliola Pierobon che aveva praticato l’interruzione di gravidanza a diciassette anni, tra le tante femministe che si autodenunciano assumendosi la lotta in prima persona, c’è anche lei perché non riconosce un discrimine basato sulla sessualità; ritiene infatti che nel movimento non debba esserci divisione tra omosessuali ed eterosessuali e anzi asserisce che in Italia non si è sentita l’esigenza di un’autonomia politica delle lesbiche: Non a caso in Italia non esistono movimenti omosessuali femministi. Guardate, che è una cosa enormemente importante, perché il caso vuole – meno male, sarà il sole, o non so per quali ragioni contingenti – ma laddove in Francia c’è, in Germania c’è, in America c’è, dove c’è un movimento femminista c’è un movimento femminista lesbico, da noi non si è sentita assolutamente l’esigenza. Se vogliamo fare un’analisi, questa andrebbe veramente fatta, perché è veramente importante…64

Ma al contrario durante il convegno lesbico del dicembre 1981 alcune accusano le femministe di non essere al fianco delle lesbiche come queste ultime hanno fatto nella lotta per l’aborto.65 Effettivamente però nel 1975, quando Billi pronuncia la frase citata in una tre giorni organizzata dal suo collettivo su un barcone sul Tevere, in altri paesi si erano già formati gruppi lesbici in relazione con il femminismo ma autonomi. Questo era accaduto in contesti politicamente vicini al femminismo italiano, come Francia e Stati Uniti d’America. In Francia infatti nel 1971 nasce, come accennato, Gouines rouges, scegliendo una via autonoma tra il movimento omosessuale e quello femminista. Le promotrici di questo collettivo – tra cui Monique Wittig, Christine Delphy, Marie-Jo Bonnet – che avevano partecipato al processo di formazione sia del Mouvement de Libération des Femmes che del Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire, arrivano alla via della autonomia politica, dopo aver tentato di far emergere la questione lesbica sia nel movimento femminista che in quello omosessuale. Alcune attiviste lesbiche del Mlf, che si riuniva da almeno sei mesi e aveva organizzato campagne per l’aborto e la contraccezione, nella primavera del 1971 avevano fondato insieme ad alcuni gay provenienti dalla rivista omofila «Arcadie» il Fhar, trovando il loro collante nella lotta contro la fallocrazia e per l’auto64. Percorsi del lesbofemminismo in Italia, pp. 78-89. 65. Cfr. Atti del convegno di donne lesbiche.

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determinazione del corpo. Una di loro, Anne-Marie Fauret, scrive sul numero 12 della rivista «Tout» – numero curato dal Fhar – che è necessario collocarsi all’intersezione tra il movimento che libererà le donne e quello che libererà le persone omosessuali, un posizionamento analogo a quello di Mariasilvia Spolato in Italia. Ma poco tempo dopo, il collettivo delle Gouines rouges esce dal Fhar di cui critica la misoginia e, mantenendo la sua autonomia di collettivo, si struttura come sottogruppo dell’Mlf.66 Nel movimento femminista però ricevono da subito forti attacchi dall’area di Psychanalyse et politique, fino a subire un ostracismo più ampio che porta nel 1980 alla chiusura della rivista del femminismo materialista francese «Questions Féministes» rimpiazzata nel 1981 con «Nouvelles Questions Féministes»: una nuova rivista priva di teoria lesbica che rappresenta, secondo Ilana Eliot, l’ultima e la più duratura cancellazione del lesbismo dal femminismo francese.67 Negli Stati Uniti il lesbismo, come accennato, aveva letteralmente fatto irruzione nel femminismo quando, il 1° maggio del 1970, all’apertura del Second Congress to Unite Women a New York, il collettivo Lavander menace era salito sul palco e aveva distribuito il documento The woman-identified-woman per protestare contro l’invisibilizzazione del lesbismo operata dal convegno. Il nome stesso del gruppo che irrompe sul palco del Now è una provocazione: l’espressione “lavender menace”, “minaccia omosessuale”, era stata usata l’anno precedente, nel 1969, dalla presidente del Now Betty Friedan per definire la presenza delle lesbiche nell’organizzazione femminista. Friedan aveva poi licenziato Rita Mae Brown,68 responsabile della newsletter dell’associazione e tutte lesbiche della sezione newyorchese a partire dalla presidente Ivy Bottini.69 Infine, aveva tolto dalla lista degli sponsor del primo congresso l’associazione lesbica The Daughters of Bilitis e non aveva incluso 66. Marie-Jo Bonnet, Gouines Rouges, in «Ex-Aequo», 11 (1997). 67. Ilana Eliot, American lesbians are not French women: heterosexual French feminism and the Americanisation of lesbianism in the 1970s, in «Feminist Theory», 20/4 (2019), pp. 380-404. 68. Rita Mae Brown è una scrittrice statunitense e attivista lesbica, divenuta famosa grazie alla sua prima pubblicazione, Rubyfruit Jungle (La giunga dei frutti rubini), un romanzo autobiografico di formazione, dove racconta la sua giovinezza di lesbica negli USA degli anni Sessanta. 69. Ivy Bottini (1926-2021) è stata per tutta la vita un’importante attivista del movimento LGBTIQ statunitense e un’artista visiva.

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nemmeno una lesbica nel programma.70 Il femminismo lesbico negli Stati Uniti diviene allora la prospettiva egemone per tutto il decennio, praticando il separatismo e proponendo una lettura «universalizzante» del lesbismo, per usare le parole di Sedgwick, cioè il lesbismo inquadrato come «questione di rilevanza costante e determinante nello spettro della sessualità della vita di ogni persona», che riguarda quindi tutte le donne e non solo un gruppo minoritario, «distinto» e «stabile».71 Tutto questo in Italia non accade per quasi tutti gli anni Settanta. Edda Billi avrebbe successivamente rivendicato questa assenza nel movimento italiano come una scelta: è un altro dei punti, insieme alla supposta indifferenza delle etero per la causa lesbica, su cui, a fine decennio, si sviluppa una conflittualità interna ed esterna al collettivo di via Pompeo Magno che porta alcune a costituire gruppi autonomi di lesbiche. Billi aggiunge poi le motivazioni teoriche della sorellanza, anche queste fondamentali per cogliere la distanza con chi, soprattutto in Francia, aveva scelto la via dell’autonomia lesbica: Tanto per cominciare mi scoccia da matti usare la definizione “omosessuale”. Io sono una donna che vive la sua sessualità come meglio mi aggrada. Veramente, almeno noi che si cominci una volta per tutte a parlare di sessualità. Io sono strabuggeratamente stufa della ennesima divisione che c’è tra le donne – le belle, le brutte, le corte, le grasse, le lesbiche, le etero. Stiamo attente, è un’altra etichetta che radicalmente va buttata via!72

Rivendica quindi la “donnità”, la sorellanza femminista che non vuole essere incrinata dalla divisione tra eterosessuali e omosessuali – come da quella tra proletarie e borghesi o tra nere e bianche –, un posizionamento in cui è facile cogliere un’incongruità con l’esigenza di dirsi lesbica. Eppure, nei fatti, le lesbiche di Pompeo Magno escono fuori, contribuiscono fortemente all’emersione del lesbismo attraverso se non altro l’organizzazione dei convegni del 1981, come si evince chiaramente dagli atti del Convegno di Donne lesbiche pubblicati dal numero 12 della rivista «Differenze»; con il tempo inoltre abbandonano la parola omosessuale per adottare la parola lesbica la quale però viene usata come aggettivo di donna, “donne lesbiche”, a conciliare l’esigenza di unità fra le donne 70. Liana Borghi, Connessioni transatlantiche. 71. Eve Kosofsky Sedgwick, Stanze private, pp. 33-34. 72. Percorsi del lesbofemminismo in Italia. Il caso romano: incontro con Rina Macrelli e Rosanna Fiocchetto.

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con quella di dirsi lesbica; rimangono comunque in gran parte contrarie a staccarsi dal femminismo, a organizzarsi autonomamente, vedono in questo il rischio di posizionarsi fuori dal femminismo se non contro. Alcune invece escono dal Pompeo Magno e contribuiscono a fondare gruppi lesbici, prima Artemide e le furie poi il Collegamento Lesbiche Italiane, si tratta delle più giovani o comunque di coloro che sono arrivate più tardi al Pompeo Magno, che non hanno condiviso un decennio di lotte con le compagne “eterosessuali”. “Donne lesbiche” rimane comunque la definizione usata, senza messa in discussione, per tutti gli anni Ottanta dal lesbofemminismo. 4. Conclusioni È di una dinamica complessa quella tra femminismo e lesbofemminismo, in cui bisogna senza dubbio tener conto delle progressive trasformazioni nell’arco di due decenni, gli anni Settanta e Ottanta, che vedono in Italia nascita, sviluppo e cambiamenti del femminismo tanto forti che forse già per quell’epoca dovremmo parlare di femminismi al plurale. Bisogna tener conto, inoltre, come abbiamo cercato di esplicitare in più passaggi, che è fuorviante proporre una storia unitaria e omogenea sia del femminismo sia del lesbismo sia ovviamente delle loro interconnessioni. Il femminismo degli anni Settanta è un movimento grande, sfaccettato e ancora poco studiato nelle sue diverse articolazioni. Sarebbe infatti necessario verificare la presenza delle lesbiche, la loro visibilità e la messa a tema del lesbismo nei diversi contesti cittadini, nelle diverse aree politiche, collettivo per collettivo ma è una ricerca ancora poco praticabile perché sono gli stessi contesti cittadini, aree politiche, collettivi del femminismo a essere ancora in gran parte non studiati: il femminismo degli anni Settanta in Italia è un fenomeno parzialmente trascurato sia dalla storiografia che dai media che tendono a confinarlo nei limiti di importanti battaglie civili, quali il divorzio e l’aborto. Attraverso le pagine del numero monografico dedicato al femminismo degli anni Settanta della rivista «Genesis», nei primi anni Duemila si snoda un dibattito sulle cause di questa «anomalia»: Elda Guerra sottolinea come si tratti, nonostante «tentativi di ricostruzione e narrazione storica», di «una storia ancora da scrivere» per difficoltà legate al metodo, alla complessità e non linearità dell’oggetto e alle «generazioni di studiose

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che hanno vissuto quella stagione».73 In merito a queste, Betta e Capussotti, introducono la categoria della «memoria possessiva», sebbene mitigata rispetto ad altri movimenti, attraverso la quale individuano «una egemonia della testimonianza che limita le possibilità per altri soggetti di partecipare all’elaborazione di quella esperienza».74 Le curatrici, Bertilotti e Scattigno, come accennato, ribadiscono le mancanze storiografiche. Da parte mia aggiungo quello che è evidente ossia una generale mancanza di valorizzazione del femminismo e della sua storia da parte delle istituzioni culturali e delle università in specifico. Rimane il dato di fatto che il percorso di soggettivazione autonoma del lesbismo in Italia inizia solo alla fine degli anni Settanta, discostandosi in questo da contesti sentiti come molto vicini quali quello francese e quello statunitense: tra le cause di questo “ritardo” italiano c’è senza dubbio la relazione specifica con il femminismo. Il lesbismo politico, fuori dal movimento omosessuale, separatista e femminista per definizione, nasce grazie al femminismo, ma in molti casi il femminismo è anche un ostacolo, sia per la difficoltà – teorica ma anche affettiva – di dividersi tra lesbiche e non; sia per il silenziamento del lesbismo che per tanto tempo, in tanti luoghi e in tanti posizionamenti è stato praticato (e continua a essere praticato).

73. Elda Guerra, Femminismo/femminismi: appunti per una storia da scrivere, in Anni Settanta, a cura di Anna Bravo e Giovanna Fiume, «Genesis», 1 (2004), pp. 87-111. 74. Emmanuel Betta, Enrica Capussotti, Il buono, il brutto e il cattivo: l’epica dei movimenti tra storia e memoria, ivi, pp. 113-123.

Chiara Colangelo Dall’antiautoritarismo all’autorità delle magistrae. La pedagogia della differenza sessuale negli anni Ottanta

Il contributo si propone di indagare l’importanza che, negli anni Ottanta, assunse la riflessione femminista sull’identità professionale delle insegnanti e sulla produzione e la trasmissione di saperi sessuati a scuola. Attraverso l’analisi delle fonti a stampa di area femminista e dell’associazionismo professionale progressista, si farà luce sul “patto tra donne” stretto tra comuniste e alcune frange del femminismo e sulla conseguente diffusione della “pedagogia della differenza sessuale”. 1. Un esercito di «vestali»? I sociologi Barbagli e Dei, con un’indagine pubblicata nel 1969 sull’opposizione violenta e silenziosa degli e delle insegnanti alle innovazioni introdotte dalla istituzione della scuola media unica, hanno fissato nell’immaginario collettivo un profilo del professore e della professoressa italiani destinato a durare. L’improvvisa ascesa dei «barbari» (gli studenti appartenenti alle classi sociali inferiori), avrebbe infatti convinto le «vestali» di un «patrimonio storicamente superato»1 che a ciò stesse corrispondendo una indiscutibile perdita di status e un definitivo declassamento del proprio ceto. Chiusura e conservatorismo, però, sembrano suggerire i ricercatori, sarebbero stati tipici delle insegnanti più che dei loro colleghi di sesso maschile, dal momento che su un campione di 374 intervistati, 317 erano donne. Professoressa era, d’altronde, anche «la signora» che «ne ha 1. Marzio Barbagli, Marcello Dei, Le vestali della classe media. Ricerca sociologica sugli insegnanti, Bologna, il Mulino, 1969, p. 329.

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bocciati tanti»,2 la destinataria della celebre denuncia, scritta da Don Milani e i ragazzi di Barbiana, del classismo dell’istituzione scolastica.3 La scuola del lungo Sessantotto italiano fu un’istituzione in cui la presenza delle donne, al di qua e al di là della cattedra, divenne sempre più visibile. In quegli anni, infatti, iniziò ad incrinarsi quell’antico adagio che vedeva il ruolo della maestra declinata al femminile e quello del professore al maschile: le docenti, da sempre maggioritarie ai gradi inferiori, alla fine degli anni Settanta raggiunsero quasi la parità anche nella secondaria.4 Si trattò di un’ascesa favorita dalla scolarizzazione di massa5 che viaggiò in parallelo alla percezione di una dequalificazione del ruolo professionale: insegnare, anche alle superiori, godette di sempre minor prestigio, scarsa considerazione sociale e, come spesso accaduto nella storia del lavoro delle donne, divenne una professione mal pagata.6 Come ha notato, non senza un’eccessiva semplificazione, Alba Porcheddu: «anche se duramente pagato nel passato, il privilegio di accedere all’istituzione scolastica e di esservi progressivamente cooptate come insegnanti, ha reso le donne – subordinate socialmente, economicamente, culturalmente e sessualmente – le vestali della situazione data».7 Nonostante molte ricerche condotte nel decennio Settanta invitassero ad una maggiore cautela nei giudizi,8 non poche osservatrici, più o 2. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Milano, Mondadori, 2017, p. 7. 3. Per una recente rassegna bibliografica sull’argomento: Alessandro Santagata, Il 2017 di don Milani. Un bilancio storiografico, in «Italia contemporanea», 289 (2019), pp. 187-202. 4. La percentuale di donne nel corpo docente della scuola statale elementare, secondaria di primo grado e di secondo grado era, rispettivamente, del 70,8-58,6-44 nell’ a.s 1952-53 e del 85,3-64,7-48,7 nell’ a.s 1978-79, in Paolo Pistoi, Insegnanti. Atteggiamenti verso il lavoro tra professione e ideologia, Torino, Rosenberg&Sellier, 1985, p. 31. 5. Tra gli ultimi lavori: Tiziana Pironi, Le donne a scuola, in Manuale di storia della scuola italiana, a cura di Fulvio De Giorgi, Angelo Gaudio, Fabio Pruneri, Brescia, Morcelliana, 2019, pp. 287-318. 6. Cfr. Ester De Fort, Gli insegnanti, in La scuola italiana dall’Unità ai nostri giorni, a cura di Giacomo Cives, Firenze, La Nuova Italia, 1990, pp. 199-261, p. 238; Simonetta Ulivieri, Genere e formazione scolastica nell’Italia del Novecento, in Con voce diversa. Pedagogia e differenza sessuale e di genere, a cura di Duccio Demetrio, Mariangela Giusti, Vanna Iori et. al., Milano, Guerini studio, 2001, pp. 13-36. 7. Alba Porcheddu, Femminilizzazione dell’insegnamento e nuova professionalità, in Educazione e ruolo femminile. La condizione delle donne in Italia dal dopoguerra a oggi, a cura di Simonetta Ulivieri, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 213-243, p. 214. 8. Per quanto riguarda le insegnanti della scuola secondaria si veda, ad es.: Antonio Cobalti, Marcello Dei, Insegnanti: innovazione e adattamento. Una ricerca sociologica sugli insegnanti della secondaria superiore, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. 229-265.

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meno vicine al movimento femminista, denunciarono il ruolo delle insegnanti, considerate trasmettitrici autolesioniste di pratiche e contenuti sessisti. Il saggio di Elena Gianini Belotti del 19739 costituì in questo senso l’analisi meglio riuscita di tutti quei condizionamenti culturali che, sin dalle elementari, finivano per affossare la creatività, l’affermazione e l’autonomia delle bambine. Quel filone di ricerca fu seguito, solo due anni dopo, da Ileana Montini10 che estese la sua indagine alle scuole medie, ma è abbondantemente presente in tutta la pubblicistica femminista del decennio.11 Sotto accusa era un sistema formativo orientato all’oppressione del sesso femminile, come testimonia un documento del gruppo Lotta Femminista di Ferrara: PARLARE DELLA NOSTRA SITUAZIONE DI DONNE ALL’INTERNO DELLA SCUOLA SIGNIFICA PARLARE DELLA NOSTRA COLLOCAZIONE NELL’INTERA SOCIETÀ […] Anche quando ci riteniamo “fortunate” perché abbiamo ottenuto un tipo di lavoro considerato privilegiato (insegnamento), questo avviene perché tale lavoro ha perso l’importanza che aveva prima ed è quindi considerato dequalificato e dequalificante.12

La convinzione che l’insegnamento fosse una professione costruita sulla duplicazione del ruolo materno e compatibile con il lavoro a casa non faceva sconti però alla certezza che la donna, in ogni caso, «la si colpevolizza come madre prima e come insegnante poi».13 Da una parte, dunque, sulla scia del Sessantotto si assistette ad una presa di parola di collettivi di studentesse delle scuole superiori contro le “scuole ghetto”, ed in particolare l’istituto tecnico femminile, nato nel 1956 con lo scopo di «preparare all’esercizio delle attività tecniche più proprie della donna», al grido di «[non ]casalinghe diplomate ma lavoratrici 9. Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano, Feltrinelli, 1973. 10. Ileana Montini, La bambola rotta: famiglia, chiesa, scuola nella formazione della identità maschile e femminile, Verona, Bertani, 1975. 11. Cfr. Anna Balzarro, Scuola e scuole negli anni Settanta: un laboratorio femminile in movimento, in Donne negli anni Settanta. Voci, esperienze, lotte, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 149-155. 12. Lotta Femminista di Ferrara, Documento sulla scuola, in Femminismo e lotta di classe in Italia: 1970-1973, a cura di Biancamaria Frabotta, Roma, Savelli, 1975, p. 135. 13. Padova-Lotta Femminista, Trattatello sulla gloriosa facoltà di Magistero, in Femminismo e lotta di classe, p. 142.

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qualificate».14 Dall’altra, la partecipazione di alcune insegnanti alla contestazione, soprattutto tra le più giovani, significò una rimessa in discussione del tradizionale moderatismo e del ruolo di «istruttore-giudice».15 Le tematiche althusseriane, che vedevano nella scuola nient’altro che un «apparato dello Stato»16 con cui la società borghese si assicurava la sua autoriproduzione, si legarono a doppio filo alle tesi “descolarizzanti” di Ivan Illich17 e ad una fitta produzione di riflessioni ispirate ad una pedagogia antiautoritaria.18 Per la prima volta, il rinnovamento auspicato dagli e dalle insegnanti delle superiori cercò punti di riferimento nelle maestre e nei maestri e nelle esperienze dei gradi inferiori, guardando all’infanzia come a una fase della vita da preservare dall’oppressione normativa dell’adulto. Il cambiamento della scuola attraverso l’innovazione didattica, la problematizzazione del voto e delle bocciature, la messa in discussione delle pratiche disciplinari e del ruolo trasmissivo degli insegnanti furono al centro delle iniziative portate avanti dal Movimento di cooperazione educativa, ispirato all’attivismo del pedagogista Célestin Freinet e composto principalmente da donne. Ma c’era anche chi vedeva la scuola come un luogo irriformabile, decretando il rifiuto integrale dei suoi spazi e tempi. L’argomento, in particolare, fu al centro delle analisi del convegno Esperienze non autoritarie nella scuola svoltosi a Milano nel giugno del 1970, da cui nacque il volume L’erba voglio19 e la rivista omonima, attiva fino al 1977. L’obiettivo, per gran parte del personale docente vicino alla Nuova sinistra, era lavorare 14. Lanfranco Rosso, La scuola agli studenti. Gli anni settanta nell’istruzione secondaria italiana, Tesi di dottorato, Università degli studi di Urbino Carlo BO, a.a. 201920, cap. 5, pp. 338-346. 15. Antonio Santoni Rugiu, Saverio Santamaita, Il professore nella scuola italiana dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 126; Monica Galfré, Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia del Novecento, Roma, Carocci, 2017, p. 233. Si veda anche: Monica Galfré, La scuola è il nostro Vietnam. Il ’68 e l’istruzione secondaria italiana, Roma, Viella, 2019. 16. Louis Althusser, Sull’ideologia, Bari, Dedalo libri, 1976. 17. Ivan Illich, Descolarizzare la società. Per un’alternativa all’istituzione scolastica, Milano, Mondadori, 1972. 18. Per una panoramica sull’argomento: Giorgio Chiosso, La pedagogia contemporanea, Brescia, La scuola, 2015, cap. 3. Si veda anche: Franco Cambi, La sfida della differenza. Itinerari italiani di pedagogia critico-radicale, Bologna, Clueb, 1987. 19. L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola, a cura di Elvio Fachinelli, Luisa Muraro Vaiani e Giuseppe Sartori, Torino, Einaudi, 1971.

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sulla graduale scomparsa di rapporti di potere tra insegnanti e studenti, adulti e bambini, sostituendoli con «relazioni di uguaglianza» basate sulla «reciprocità», per restituire la scuola alle «masse» escluse.20 Lea Melandri, fondatrice della rivista e all’epoca insegnante alle medie e femminista, ripercorrendo nei primi anni Duemila quell’esperienza, notava che nelle analisi «restava fuori, veniva lasciato nel non detto, che peso avesse nella formazione di un individuo il fatto di essere maschio o femmina. Il rapporto tra i sessi era taciuto, come se fosse molto più importante capire il rapporto individuo-collettivo, la famiglia, la classe sociale». Così, la sua partecipazione ai primi gruppi separati di donne agli inizi degli anni Settanta si affiancava al suo impegno nella scuola. Essere femminista e insegnare, continuava Melandri, erano vissute come «due storie parallele», con la difficoltà di travasare in classe le acquisizioni sul corpo e la sessualità maturate altrove.21 Quello che però non riuscì con le colleghe e con gli studenti, nella scuola tradizionale, le fu possibile come docente a Milano del primo “corso 150 ore” promosso da donne che si erano auto-organizzate22 in cui c’era «minore rigidità nella scansione disciplinare, meno burocrazia, un diverso rapporto con i saperi».23 I corsi tenuti “da donne per le donne” furono, infatti, «un’esperienza unica, sorta all’intersezione tra l’impegno sindacale, la critica femminista e le riforme tentate in ambito educativo ed accademico».24 20. Ivi, pp. 20-23. 21. Intervista a Lea Melandri, in Una storia imprevista. Femminismi del Novecento ed educazione, a cura di Barbara Mapelli, Gabriella Seveso, Milano, Guerini studio, 2003, pp. 219-222. 22. Si trattava di permessi retribuiti di 150 ore, distribuite nell’arco di tre anni, da utilizzare a fini formativi – dal recupero dell’obbligo scolastico alla frequenza di corsi monografici – presso le scuole superiori e le facoltà universitarie. I corsi furono una conquista sindacale ottenuta con il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici nel 1973, poi estesi ad altre categorie di lavoratori, disoccupati e casalinghe. Si veda in particolare: Pietro Causarano, Unire la classe, valorizzare la persona. L’inquadramento unico operai-impiegati e le 150 ore per il diritto allo studio, in «Italia contemporanea», 278 (2015), pp. 224-246. Sull’esperienza di Lea Melandri come insegnante in un “corso 150 ore” si segnala anche il film diretto da Adriana Monti, Scuola senza fine (1983). 23. Racconto di Lea Melandri, in Balzarro, Scuola e scuole, p. 156. 24. Anna Frisone, Femminismo al lavoro. Come le donne hanno cambiato il sindacato in Italia e in Francia (1969-1983), Roma, Viella, 2020, p. 21. Sull’argomento si veda anche Pietro Causarano, Salute, prevenzione e formazione nell’esperienza dei sindacati industriali: il contributo femminile negli anni Settanta, in Genere, salute e lavoro dal

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Infine, non bisogna dimenticare l’impegno delle insegnanti nel movimento di democratizzazione della scuola che diede vita, all’interno degli istituti, a vasti progetti di “sperimentazione” didattica e curricolare25 e, all’esterno, alle battaglie nel sindacalismo confederale.26 Non è un caso, dunque, che il primo numero della rivista femminista «NuovaDWF» del 1977 fosse dedicato alla Donna e trasmissione della cultura e si aprisse con un dibattito intitolato: La scuola in mano alle donne o le donne in mano alla scuola?.27 I tempi erano ormai maturi, si scriveva, per una ridefinizione dei contenuti del sapere da parte delle donne e per la decostruzione di un modello professionale part-time pensato come prolungamento del ruolo materno. Dopotutto, le insegnanti erano la maggioranza, una forza, e l’istituzione scolastica era nelle loro mani. 2. Arrivano le “maestre”…

La fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta sono generalmente considerati uno spartiacque nella storia italiana: il mondo della scuola non fa eccezione. Si assistette, infatti, in questi anni, al progressivo esaurimento del riformismo di stampo progressista28 e all’emergere di un dibattito pubblico e specialistico nuovo e diverso, il cui ingrediente discorsivo dominante era la denuncia dell’inefficacia e inefficienza del sistema dell’istruzione pubblica.29 Nella «scuola del malessere»,30 all’interno di un contesto dominato dalla crisi economica cogente e dalle trasformazioni del fascismo alla Repubblica, a cura di Eloisa Betti e Carlo De Maria, Roma, Bradypus, 2020, pp. 55-73. 25. Tra gli ultimi studi: Giordano Lovascio, Governare il cambiamento. Sperimentazione e società nella scuola superiore italiana tra anni Settanta e Ottanta, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, a.a. 2019-2020. 26. Simonetta Ulivieri, Donne e insegnamento dal dopoguerra a oggi. La femminilizzazione del corpo insegnante, in Essere donne insegnanti. Storia, professionalità e cultura di genere, a cura di Simonetta Ulivieri, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996, pp. 47-86. 27. La scuola in mano alle donne o le donne in mano alla scuola?, in «NuovaDWF», 2 (1977), pp. 5-11. 28. Tra le sintesi più recenti: Lorenzo Alba, Verso gli ottanta. La disfatta di una riforma, in «Zapruder», 57 (2022), pp. 13-32. 29. Galfré, Tutti a scuola!, p. 290. 30. Censis, La scuola del malessere. Contributi per un’analisi del microsistema sociale, Milano, FrancoAngeli, 1983.

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mondo del lavoro, gli insegnanti furono individuati come i principali responsabili, accusati, tanto dalla destra quanto dalla sinistra, di scarsa preparazione, mancanza di attitudine all’aggiornamento e di essere arroccati nella difesa corporativa dei propri interessi.31 Nonostante scarseggino le indagini rivolte specificatamente alle docenti, nella prima metà del decennio furono numerosi gli studi che registrarono nella categoria frustrazione, insoddisfazione, disaffezione alla politica e un generale smarrimento di senso assegnato alla propria funzione.32 L’alto livello di disagio, inoltre, era avvertito tanto più acutamente da chi si era formato nell’atmosfera del “lungo Sessantotto” e aveva nutrito grandi speranze di cambiamento.33 Eppure, per molte insegnanti, l’autopercezione di una profonda “crisi”, umana e professionale, non si tradusse automaticamente in un “ritorno al privato” e in una “smobilitazione”. Al contrario, non poche furono le docenti che, nella cornice del «femminismo diffuso»,34 furono protagoniste di quell’intensa stagione di riflessione su un “sapere con gli occhi di donna” che si manifestò con l’apertura di nuove riviste, centri di documentazione e librerie nella cosiddetta «svolta culturale».35 Non di rado tali riflessioni condussero queste insegnanti a ripensare la propria identità professionale e a individuare la scuola come uno dei principali luoghi di intervento culturale e, insieme, politico. Una tappa fondamentale in questo processo fu la pubblicazione, nel 1983, del famoso «Sottosopra verde» a cura delle militanti della Libreria delle donne di Milano. «Della nostra condizione oggi ci interessa dire e interrogare il nostro scacco nelle prestazioni della vita sociale. Lo scacco risalta su un’espe31. Sull’argomento e sul successivo movimento dei comitati di base degli insegnanti si veda: Chiara Colangelo, «Cigl, Cisl Uil sét(e) pegg’e Chernobyl». La rivolta dei docenti ’87-’88, in «Zapruder», 57 (2022), pp. 56-80. 32. Cfr. Silvio Capra, Dalla parte degli insegnanti. Condizioni professionali e aspirazioni dei docenti della scuola secondaria, Roma, edizioni lavoro, 1983; Pistoi, Insegnanti. 33. Cfr. Dal sessantotto alla scuola. Giovani insegnanti tra conservazione e rinnovamento, a cura di Mario Gattullo e altri, Bologna, il Mulino, 1981. 34. Anna Rita Calabrò, Laura Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Storie e percorsi a Milano dagli anni ’60 agli anni ’80, Milano, Fondazione Badaracco-FrancoAngeli, 2004. 35. Paola Stelliferi, Fare storia del neofemminismo italiano: origini, ipotesi, risultati e prospettive, in L’Italia degli anni Settanta. Narrazioni e interpretazioni a confronto, a cura di Fiammetta Balestracci e Catia Papa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019, pp. 145-163, p. 151.

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rienza diffusa di disagio, inadeguatezza, mediocrità». Con questa frase si apriva il documento politico, capace di parlare a tutte, e alle insegnanti in particolare. Attraverso un linguaggio aggressivo e provocatorio, le femministe facevano riferimento alla giusta «voglia di stare al mondo da signore», «voglia di vincere». Una «voglia di affermazione sociale» che, però, non poteva avvenire se non con la rinuncia «all’essere donna» producendo, quindi, un inevitabile senso di «estraneità» o una sofferta omologazione. Ma, aggiungevano, era arrivato il momento di smetterla di percepirsi come «vittime di discriminazione antifemminile» o di escludersi volontariamente nella società, nel lavoro e nei contesti misti attraverso un «separatismo statico». La possibilità di tradurre nella realtà l’esperienza, il sapere e il valore dell’essere donne era possibile, a loro dire, solo abbandonando il finto egualitarismo «ereditato dai movimenti giovanili», riconoscendo la «disparità» e praticando l’«affidamento» ad una propria simile.36 Su questi ultimi temi, le donne della Libreria ritorneranno più approfonditamente nel celebre Non credere di avere dei diritti, pubblicato nel 1987. Nel volume si chiariva la critica all’emancipazionismo, specificando che «avere delle interlocutrici magistrali è più importante che avere dei diritti riconosciuti», in quanto «non sono le leggi e neanche i diritti che danno a una donna la sicurezza che le manca».37 E, al tempo stesso, si metteva sotto accusa l’egualitarismo dei gruppi di autocoscienza, domandosi «perché la donna nella sua simile vuole trovare la rassicurazione di non essere da meno e non cerca invece la possibilità di essere di più».38 Attraverso l’insegnante di scuola e poi ricercatrice di filosofia Luisa Muraro, a Verona, le parole del «Sottosopra verde» trovarono una più compiuta formulazione teorica nella neonata Comunità filosofica Diotima che, riferendosi esplicitamente alla produzione della pensatrice Luce Irigaray,39 darà vita al «pensiero della differenza sessuale».40 36. Libreria delle donne di Milano, Più donne che uomini, in «Sottosopra verde», gennaio 1983, consultabile online: https://www.libreriadelledonne.it/pubblicazioni/sottosopraverde-piu-donne-che-uomini-gennaio-1983/. 37. Introduzione, in Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Torino, Rosenberg & Sellier, 1987, p. 18. 38. Ivi, p. 154. 39. In particolare, cfr. Luce Irigaray, Speculum: l’altra donna, Milano, Feltrinelli, 1975 e Ead., Etica della differenza sessuale, Milano, Feltrinelli, 1985. 40. La storia della Comunità filosofica Diotima è raccontata dalle stesse aderenti nel volume Diotima: il pensiero della differenza sessuale, a cura di Adriana Cavarero, Cristiana Fischer, Elvia Franco, Milano, La Tartaruga, 1987, pp. 175-184.

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«La differenza sessuale altro non è, fondamentalmente, che il sapersi sessuato da parte del soggetto umano», scriveva Diotima nel 1987.41 Alla base della loro riflessione c’era la convinzione, infatti, che la diversità sessuale originaria fosse stata negata in nome di un falso soggetto universale neutro, su cui era proliferato un universo concettuale e valoriale maschile. Da qui, dunque, la necessità di costruire un nuovo «ordine simbolico» basato sulla «genealogia femminile» in cui la donna potesse ritrovare una esistenza libera;42 e quella di strutturare una pluralità di rapporti di affidamento duali e verticali, che avrebbero rievocato quello originario madrefiglia su cui fondare il potere femminile.43 In questo contesto, Anna Maria Piussi, tra le fondatrici di Diotima, aveva da subito congiunto le riflessioni del gruppo sulla non neutralità del sapere al problema di una nuova pedagogia e di una diversa funzione delle insegnanti nel contesto scolastico. Nel 1987 decise così di contribuire alla nascita del Gruppo pedagogia della differenza di Verona.44 Ma già nel 1985, legato invece alla Libreria delle donne di Milano, era nato il Gruppo Insegnanti di Milano.45 Presto questo dibattito coinvolse direttamente anche il Movimento di cooperazione educativa. Nel novembre 1986 apparve sulla rivista del Mce – «Cooperazione educativa» – un inserto eloquentemente chiamato Tracce per una pedagogia della differenza sessuale. Era la prima volta che, su una pubblicazione legata al mondo scolastico e all’associazionismo professionale al di fuori dei contesti femministi, si faceva riferimento ad un approccio con quel nome. Scriveva Laura Guadagnin, rivolgendosi ai colleghi del movimento che, nelle loro riflessioni, ci si era «sempre dimenticati una differenza essenziale, che paradossalmente riguarda la maggior parte di noi nella scuola in generale, e dentro il Mce in particolare: quella della differenza sessuale». Una mancanza di attenzione, proseguiva, che l’aveva portata ad allontanarsi dal progetto. «La mancata sessuazione dei luoghi di produzione del sapere e la conseguente estraneità vissuta», spiegherà lei stessa anche tre anni dopo, l’aveva dapprima traghettata dal Mce alla 41. Ivi, p. 37. 42. Adriana Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, ivi, pp. 43-79. 43. Giannina Longobardi, Donne e potere, ivi, pp. 105-111. 44. Sulla formazione del Gruppo pedagogia della differenza di Verona si veda, in particolare: Anna Maria Piussi, Introduzione, in Educare nella differenza, a cura di Anna Maria Piussi-Gruppo pedagogia della differenza sessuale, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989, pp. 9-22. 45. Gruppo insegnanti di Milano, Viva, la scuola!, ivi, p. 127.

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Comunità Diotima di Verona, dove aveva trovato «la fedeltà al genere»,46 per poi diventare, poco dopo, colei che «ha portato la pedagogia della differenza dentro il Movimento».47 Gli altri interventi riprendevano e sostanziavano i presupposti del pensiero della differenza sessuale e della pratica dell’affidamento, calandoli nel contesto scolastico. Piussi chiariva infatti che, nel discorso pedagogico, la differenza sessuale non è e non può essere una delle tante variabili descrittive come l’età, la provenienza sociale, la cultura d’origine. Non si poteva procedere, come postulato da alcune studiose come Gianini Belotti, attraverso un’educazione che puntava sulla parità/uguaglianza formativa e su un insegnamento neutro che considerava gli alunni come individui e non come appartenenti all’uno o all’altro sesso. Le insegnanti avevano dunque il dovere di costruire «rapporti fondati sul criterio pedagogico della discriminazione positiva, e, [sic] da parte delle allieve l’assumere come fonte di autorità la parola delle docenti, come parola di madre simbolica che autorizza a vivere e ad apprendere secondo il sesso cui si appartiene».48 Sempre sullo stesso inserto apparso su «Cooperazione educativa», altre due insegnanti, entrambe vicine alla Libreria di Milano, spiegavano invece come la pratica politica dell’affidamento le avesse salvate da «un senso di incapacità e insoddisfazione verso il lavoro» e avesse ricomposto una sorta di «scissione» tra la politica nei gruppi separati delle donne e la propria crescita professionale. Addirittura Floria De Musso, docente in un istituto tecnico, dedita da sempre ad una «didattica antiautoritaria, permissiva e egualitaria», riconosceva nell’adesione al pensiero della differenza il momento in cui aveva preso forma tutto ciò che prima non aveva nome. Tale consapevolezza l’aveva portata a ripensare il suo ruolo: non più insegnante ma «maestra» con l’ambizione di «insegnare come si deve stare nel mondo».49 46. Laura Guadagnin, Dare corpo al sapere, in Femminile plurale: relazioni e saperi per una scuola differente, Atti del convegno (Cagliari, 4-5 marzo 1989), Cagliari, I.FO.L.D., 1989, pp. 83-84. 47. Di questo parere è la storica, e in quegli anni insegnante appartenente all’Mce, Maria Teresa Sega, intervistata dall’autrice il 18 febbraio 2022. Laura Guadagnin, inoltre, ricoprì il ruolo di referente per l’Mce per la partecipazione al primo convegno sulla pedagogia della differenza, svoltosi a Verona nel maggio 1988, in «Informazioni Mce», 1-2 (1988), p. 37. 48. Anna Maria Piussi, Significatività/visibilità del femminile e logos della pedagogia, in Diotima: il pensiero, p. 120. 49. Laura Guadagnin, Anna Maria Piussi, Gabriella Lazzerini, Flora De Musso, Inserto: Tracce per una pedagogia della differenza sessuale, in «Cooperazione educativa», 11 (1986), pp. 19-30.

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Nel marzo 1987, la rivista dell’Mce dedicò un altro speciale a L’affidamento nella pratica educativa; in esso due insegnanti della Libreria di Milano, nuovamente, difendevano la loro scelta specificando che la pratica dell’affidamento trovava nella scuola un luogo ideale, in cui tale rapporto avveniva spontaneamente. Con tratti quasi messianici, si riconosceva nella «maestra» il compito di ripristinare un «simbolico femminile», di «guarire» le «bambine malate», trasformando «la matrigna in madre» e ritrovando «le vie di una resurrezione necessaria».50 Tuttavia, la sicumera e la fierezza con cui le donne della Libreria di Milano indicarono la strada per una nuova pratica politica trovarono più di uno ostacolo. Ne è testimonianza la sorte del bollettino «Via Dogana». Nato nel maggio 1983 sulla scia del «Sottosopra verde», come frutto del lavoro delle milanesi insieme alle attiviste della Biblioteca delle donne di Parma, fu sospeso dopo poco più di un anno, nel giugno 1984, specificando che «più di una volta abbiamo scritto della pratica della disparità nei rapporti tra donne […] in realtà nel gruppo la disparità esiste e agisce, ma non si può dire che la pratichiamo. Finora le difficoltà scontrate in proposito hanno superato i guadagni».51 3. … e poi le comuniste Nel novembre del 1986, mentre il dibattito sulla pedagogia della differenza sessuale non riusciva a uscire da un circuito di discussione ancora molto limitato, la sezione femminile del Pci, guidata dalla giovanissima responsabile Livia Turco, avanzava un programma rivoluzionario: una «Carta itinerante» per «costruire nella società e nelle istituzioni della politica una “forza delle donne” che non poteva che derivare dalle donne stesse attraverso una strategia di relazione e di comunicazione tra noi».52 Disparità e autorità femminile venivano invocate ai fini di un progetto ambizioso di trasformazione: rendere la vita delle donne un 50. Elvia Franco, Micaela Francisetti, L’affidamento nella pratica educativa, in «Cooperazione educativa», 3 (1987), pp. 12-16. 51. La redazione, Alle lettrici, in «Via Dogana», 4 (1984), p. 19. La rivista riprenderà ad essere pubblicata dalla Libreria delle donne di Milano solamente nel 1991, per poi essere sospesa nuovamente nel 2014. 52. Sezione femminile della Direzione del Pci, Dalle donne la forza delle donne. Carta itinerante, Cles, nuova stampa di Mondadori, 1986, p. 4.

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«materiale ingombrante» per obbligare governo e istituzione «ad “inciampare” in essa».53 L’idea di Livia Turco era stata d’altronde esposta da lei stessa in modo trasparente: misurarsi con la ricerca del «pensiero della differenza», essere partecipe, come donna comunista, «fino in fondo di quella elaborazione», evitando di restarne schiacciata.54 Il «patto di coscienza», che avrebbe dovuto precedere l’appartenenza al partito, tra le donne del Pci e le “femministe della differenza” era avvenuto soltanto qualche mese prima, dopo il disastro di Chernobyl, ed era stato mediato da un «manipolo di donne influenti» iscritte al Pci ma note come intellettuali femministe,55 gravitanti attorno al Centro “Virginia Woolf” di Roma.56 Tuttavia, è forse da ridimensionare il giudizio di chi riconosce, nell’impegno femminista del Pci attuato con la Carta, il limite di aver scelto di «interloquire principalmente con un femminismo teorico ed elitario» e di essersi speso, quasi esclusivamente, per la rappresentanza politica e le «quote rosa».57 In verità, nel dibattito pubblico degli anni Ottanta sul riorientamento delle politiche economiche sul welfare, sul “neoliberismo” e sul declino della centralità della classe operaia, le donne del Pci scelsero di puntare su un programma riformistico, da far valere dentro il partito, che metteva al centro il valore trasformativo della contraddizione di sesso soprattutto nel mondo del lavoro. Il dispositivo della «forza delle donne» fu speso per la costruzione di un progetto politico che ribaltasse la centralità del lavoro produttivo rispetto a quello riproduttivo, ripensasse i tempi in un’ottica di flessibilità, e infine rivalutasse i saperi e i mestieri orientati alla cura delle persone. Erano idee che si accompagnavano alla rivendicazione di una «politica delle pari opportunità» atta a rimuovere «quelle discriminazioni sostanziali non 53. Ivi, p. 13. 54. Intervista di Franca Fossati a Livia Turco, Come atterrai alla segreteria del Pci, in «Noi donne», 6, giugno 1986, pp. 34-36. 55. Maud Anne Bracke, Una rivoluzione incompiuta: la sfida del femminismo, in Il comunismo italiano nella storia del Novecento, a cura di Silvio Pons, Roma, Viella, 2021, p. 532. 56. Sul rapporto tra comuniste e femministe tra la fine degli anni Settanta e il 1986, si veda: Valentina Casini, Femminismo e cultura comunista: una contraddizione irrisolta?, in «Giornale di Storia Contemporanea», 1 (2018), pp. 167-180. Sul “Virginia Woolf”, si veda Annabella Gioia, L’Università delle donne. Esperienze di femminismo a Roma (19791996), Roma, Donzelli, 2021. 57. Bracke, Una rivoluzione, p. 536.

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risolvibili con la legislazione paritaria e antidiscriminatoria» in accordo con il sindacato. In questo quadro, quindi, individuavano negli interventi sul sistema formativo sempre più femminilizzato e svalutato, sui programmi scolastici e sull’innalzamento della professionalità delle insegnanti dei punti nevralgici per superare la coeva «visione industrialista e sessista» del lavoro da parte della politica.58 Per le comuniste si trattava di un nuovo corso che, soprattutto, si nutriva della consapevolezza di stare attraversando un «momento di crisi e modificazione delle forze sociali tradizionali, delle forme organizzative dei sindacati e dei partiti» e che, quindi, bisognasse guardare al «nuovo» e «allargarsi a tutte le donne, anche fuori dalla cultura tradizionale della sinistra».59 Fatto sta che questa inedita e inusuale convergenza tra femministe e donne del Pci, che si estese anche a molte sindacaliste della Cgil e a gran parte delle militanti dell’UDI, non fu né indolore né priva di ambiguità e contraddizioni. Se sulla rivista delle donne del Pci, «Donne e politica», già all’indomani della pubblicazione del «Sottosopra verde» si riportava una certa insofferenza per l’importanza che aveva assunto nel dibattito interno la discussione del documento rispetto ad altri argomenti,60 c’era chi non mascherava una certa perplessità domandandosi: «affidarsi? A chi, a che cosa? Per chi, per che cosa?».61 E, dopo la scelta per la “differenza” successiva alla Carta, i problemi aumentarono nel 1987 con la pubblicazione di Non credere di avere dei diritti e il lungo articolo della comunista Franca Chiaromonte su «Rinascita», a difesa della disparità e sulla necessità dell’affidamento anche all’interno del Pci: proposta politica di cui non c’era traccia nel documento politico delle donne.62 58. Dalle donne la forza, pp. 29-62. 59. Di questo parere era la responsabile della Sezione femminile del Pci Lalla Trupia già nell’85, in Lalla Trupia, Più elette ma non basta, in «Donne e politica», 3 (1985), pp. 2-3. 60. Lalla Trupia, Non è stato un anno facile: tutt’altro, in «Donne e politica», 6 (1983), pp. 2-3. 61. Grazia Labate, Mi affido dunque sono?, in «Donne e politica», 1-2 (1985), pp. 13-14. 62. Franca Chiaromonte scrive a tal proposito che stringere un patto, per chi sta nelle istituzioni, «significa riferirsi alle donne prima che agli uomini […] aggredire la struttura stessa di un partito». E in merito all’affidamento afferma: «fra me e il Pci una donna», in Franca Chiaromonte, Scelgo la differenza, in «Rinascita», 17 gennaio 1987, pp. 36-38.

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Fu in particolare la storica rivista dell’UDI «Noi donne» a documentare il dibattito interno, aspro e conflittuale, sulla proposta politica dell’affidamento. Anna Rossi-Doria, nel settembre 1987, riconosceva come «l’egemonia» del gruppo della Libreria delle donne di Milano fosse motivata dall’aver colto il bisogno di politica e di teoria che circolava tra molte, e dall’aver saputo «darsi valore». Ma, al tempo stesso, rilevava un’opposizione crescente che ancora non si era misurata con una critica formalizzata, in quanto erano condivisi gli obiettivi ma non i mezzi proposti: si trattava «di obiezioni di metodo sull’autoritarismo e il monolitismo della proposta».63 Nel giugno 1987, però, le comuniste conseguirono una vittoria inaspettata alle elezioni politiche: perse il partito ma vinsero loro, con 61 elette. Complessivamente, in quella tornata furono 97 le donne che andarono ad occupare gli scranni di Camera e Senato sfondando per la prima volta il muro del 7% fermo dal 1946.64 «Le disgrazie non vengono mai sole» sarebbe stato il commento di Giancarlo Pajetta, come ha ricordato Livia Turco molti anni dopo, a dimostrazione di un appoggio non sempre scontato da parte degli uomini del partito.65 Ciononostante la sezione femminile tirò dritto e si decise di sostituire il vecchio «Donne e politica» con «Reti. Pratiche e Saperi di donne», volto «a creare un rapporto proficuo tra le esperienze femministe, il partito, il sindacato».66 L’ambizione, sosteneva la nuova direttrice Maria Luisa Boccia, era quella di essere maggiormente autonome dal partito e di non costruire una rivista-emanazione della sezione femminile del Pci. Al contempo, le comuniste si proponevano di diventare un polo alternativo rispetto alla Libreria delle donne di Milano, in quanto entrambi i gruppi volevano «fondare la pratica politica delle donne sulla differenza (e non sull’analisi dell’oppressione)»; ma, per le comuniste, il mezzo non poteva che essere quello dello «spendersi nell’agire sociale» e non il rapporto duale.67 63. I diritti che abbiamo attraversato, in «Noi donne», 9 (1987), pp. 68-73. 64. Tutte le donne del Parlamento, in «Noi donne», 7-8 (1987), pp. 20-22. 65. Claudia Daconto intervista Livia Turco, Parlamento ciao!, consultabile online: https://www.panorama.it/news/parlamento-livia-turco. 66. Francesca Izzo, I dilemmi del femminismo nella Seconda Repubblica, in Enrica Asquer, Emanuele Bernardi, Carlo Fumian, L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, vol. II, Roma, Carocci, 2014, p. 104. 67. Intervista di Franca Fossati a Maria Luisa Boccia, Le ambizioni di Reti, in «Noi donne», 11 (1987), pp. 92-93.

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Se è vero, dunque, che la smussata carica antistituzionale del nuovo femminismo degli anni Ottanta aveva favorito l’incontro e influenzato profondamente le comuniste del Pci,68 lo scontro sui “mezzi” in verità portava alla luce anche la persistenza di profonde divergenze sui “fini”. Una situazione magmatica in cui, all’interno dello stesso partito, ma anche nell’UDI, sotto il grande cappello della “differenza” si consumarono conflitti, accomodamenti, mediazioni. Un confronto che fu ben evidente nelle diatribe che, tra il 1987 e il 1990, ebbero come protagonista inedita la scuola e si concentrarono sull’identità professionale delle insegnanti, prima, e sulla produzione e la trasmissione dei saperi a scuola, poi. 4. A scuola siam tutte per la differenza! L’alto tasso di femminilizzazione scolastica, sia tra le studentesse sia tra le insegnanti, che si continuava a registrare nella scuola,69 soprattutto secondaria, attirò nel 1987 l’attenzione della rivista progressista «Scuola Democratica» che, proprio alle donne, dedicò un numero monografico.70 Tra gli interventi, la responsabile nazionale dell’UDI Lidia Menapace, notava come l’istituzione scolastica fosse un luogo molto lontano dal trasmettere una cultura segnata dall’identità femminile. A suo giudizio, questo accadeva perché le docenti erano state protagoniste di una «emancipazione passiva», ovvero non erano arrivate a scuola attraverso una conquista sociale o un desiderio, ma per abbandono da parte dell’uomo. Inoltre, mano a mano che la scuola perdeva prestigio sociale si femminilizzava e «il suo “femminilizzarsi» aggiungeva disvalore sociale». Cosa fare dunque? Per Menapace, nella formazione scolastica era necessario operare una trasformazione profonda che passava per l’introduzione della «differenza sessuale nella cultura tradizionale», della «casalinghità che 68. Izzo, I dilemmi, p. 104. 69. Nel 1990 la percentuale delle insegnanti sul totale del corpo docente era del 90% nelle elementari, del 70% nelle scuole medie inferiori e del 58% nella scuola media superiore, in Isfol, Nuovi orientamenti ed aspettative della professione docente: le donne insegnanti, Milano, FrancoAngeli, 1992, pp. 12-13. 70. Dossier Donne: dalla formazione al lavoro, in «Scuola Democratica», 1-2 (1987).

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sta nella vita di ogni donna», senza marginalizzare un modo di apprendere tipicamente femminile quale l’intuito.71 Sullo stesso numero, la sindacalista della Cgil-Scuola ed ex co-fondatrice di Lotta Continua Fiorella Farinelli parlava dell’insegnamento come di una «professione dimezzata», scelta in passato dalle stesse donne come «naturale» propensione al «maternage» e basata sullo «scambio tradizionale» con lo Stato: si accettava, cioè, una scarsa retribuzione economica in cambio di una serie di vantaggi (sicurezza, stabilità, meno competitività, lavoro part-time, nessuna verifica dell’attività di insegnamento) considerati coerenti con la specificità femminile. Tuttavia, aggiungeva, erano le donne stesse che, come effetto dell’«emancipazione femminile», iniziavano a chiedere un cambiamento. Era necessario passare ad una «vera professionalità» che, però, salvaguardasse la dimensione relazionale docente-studente, da sempre tra le “capacità” femminili.72 L’esplodere in quello stesso anno di un grande movimento di docenti, in aperto dissenso con i sindacati confederali, portò alla ribalta su quasi tutte le riviste la “questione insegnante”, rimasta fino ad allora marginale. Fu soprattutto «Reti» ad ospitare una serie di interventi che esaminavano da vicino le cause del malessere delle docenti. Scriveva a tal proposito Roberta Calvi che difficilmente, nelle analisi sulla mobilitazione, era stata notata la prevalenza delle donne. Le protagoniste di quel movimento, a suo dire, erano le stesse insegnanti che in passato avevano introiettato un «modello materno-educativo». Ma, continuava: quando l’anno scorso ho visto le mie colleghe dell’Istituto magistrale, quelle che mi erano spesso parse – mi perdonino – un po’ passive, talvolta disinteressate ad un rinnovamento dell’organizzazione scolastica, improvvisamente animarsi […] e ho visto il movimento rapidamente espandersi soprattutto tra le insegnanti di una stessa generazione (oltre i 30-la soglia dei 40), la generazione comunque profondamente influenzata dal femminismo, mi è apparso evidente che la molla più intima […] nasceva soprattutto da una mutata identità di donne.73 71. Lidia Menapace, Ma le donne fanno cultura?, ivi, pp. 16-20. Menapace approfondì lo stesso argomento nel volume Economia politica della differenza sessuale, Roma, Felina libri, 1987. 72. Fiorella Farinelli, La professione dimezzata, in «Scuola Democratica», 1-2 (1987), pp. 19-24. 73. Roberta Calvi, “Disordine femminile nella scuola”. Leggendo dentro le lotte di quest’anno, in «Reti», 2 (1987), pp. 67-70.

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Che fosse dovuto ad un «baratto ritenuto non più vantaggioso» per via di uno stipendio che aveva perso molto del suo potere d’acquisto,74 o ad una mutata identità femminile, la gran parte degli articoli leggeva nel movimento delle insegnanti la risposta ad una svalutazione-subordinazione professionale che aveva reso operante e valida, fino ad allora, l’equazione: femminilizzazione = dequalificazione della scuola. Urgevano, quindi, degli interventi tanto sui contenuti trasmessi quanto sulla professionalità delle insegnanti: un’analisi che ricalcava gli intendimenti riformisti espressi, un anno prima, nella Carta itinerante. Mentre la mobilitazione del corpo docente entrava nel suo secondo anno, però, la conflittualità tra i vari femminismi sembrò sul punto di dissolvere qualsiasi forma di collaborazione e progetto comune. «Noi Donne», nel febbraio del 1988, pubblicizzò la notizia di un documento scritto qualche mese prima da cinque appartenenti alla Libreria delle donne di Milano che prendevano le distanze da Non credere di avere dei diritti. Nella dura requisitoria si sosteneva che il libro, in molte, non lo avevano scritto né voluto e che qualsiasi posizione contraria era stata censurata. Si riportava, poi, che le medesime tensioni interne stavano attraversando anche il Centro culturale “Virginia Woolf” e che si era arrivati ad una separazione (ma non scissione) tra due gruppi.75 Anche la posizione ufficiale della sezione femminile del Pci era messa sotto attacco da un gruppo dissidente capeggiato dalle “comuniste per l’affidamento” Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi e la stessa UDI si preparava al suo XII Congresso con un testo in cui si dichiarava che: [L’Udi] è entrata nell’orizzonte della “differenza sessuale” e di questo femminismo vive anche le profonde differenze di posizioni e collocazioni […] ci sono forme del pensiero della differenza teoricamente incomponibili, crediamo però che nell’Udi siano politicamente gestibili.76

Nell’UDI, notava acutamente Silvia Neonato su «Reti», si riversavano gli stessi problemi di tutto il femminismo: usare “differenza”/“diversità” o “emancipazione”/“uguaglianza” pensando spesso di dire le stesse cose. Ma, soprattutto, era ben evidente il dilemma di concepire o meno la “dif74. Serena Palieri, Oltre il patto con lo stato, ivi, pp. 70-71. 75. Annalisa Usai, A colpi di documenti, in «Noi donne», 2 (1988), pp. 28-33; Gioia, L’Università delle donne. 76. Roberta Tatafiore, Congresso deciso, in «Noi donne», inserto giallo, 5 (1988), p. 7.

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ferenza sessuale” come fondativa dello stare tra donne più delle differenze tra donne.77 Si ripresentava quindi, ancora una volta, l’annoso problema del modo di intendere il rapporto tra rappresentanza e affidamento. O, detta in altro modo, tra un cambiamento da attuarsi attraverso le leggi o confidando unicamente nell’irrompere di una autorità simbolica femminile espressione di un’acquisita libertà. Durante quel 1988, però, in molte erano ancora fiduciose nella «forza delle donne» e nel fatto che, nonostante tutto, esistesse «qualcosa di comune, di unito che è differente da unitario». Come Maria Luisa Boccia, che nel secondo numero della rivista da lei diretta parlò della «possibilità di un mondo comune di donne»78 e, forse non casualmente, affidò un lungo approfondimento di apertura ad Anna Maria Piussi e al Gruppo pedagogia della differenza di Verona. Era la prima volta che questo accadeva su «Reti», a conferma del seguito crescente che il gruppo si stava guadagnando tra le insegnanti e un riconoscimento della centralità della scuola nella riflessione teorica e politica femminista. Gli interventi, inoltre, si intrecciavano con il dibattito, nato in ambito europeo, sulle “politiche delle pari opportunità” nel settore formativo.79 Tutti gli articoli proposti su «Reti» miravano a ribaltare il punto di vista, ospitato in precedenza sulla rivista, sulle cause del malessere e sulla “crisi di identità” delle insegnanti che avevano provocato lo “scoppio” del movimento di contestazione. Scriveva Piussi a tal proposito che, molte di 77. Silvia Neonato, Due anime in un corpo solo? L’Udi, in «Reti», 3-4 (1988), pp. 73-74. 78. Maria Luisa Boccia, La possibilità di un mondo comune di donne, in «Reti», 2 (1988), pp. 3-4. 79. Il documento di riferimento per la politica delle pari opportunità nell’istruzione in ambito europeo è la «Risoluzione del Consiglio e dei ministri dell’istruzione del 1985 che prevede un programma di azione per la promozione dell’uguaglianza di opportunità per le ragazze e i ragazzi in materia di istruzione»: https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/ publication/f90aabcb-d59e-463a-b357-26fcde44c0ed/language-it/format-PDFA1B. Nella «Risoluzione» si proponevano una serie di interventi atti a superare la cosiddetta “segregazione formativa” ovvero la scelta, in assenza di limitazioni giuridiche, da parte delle studentesse di determinati canali formativi femminilizzati e tradizionali. Si invitavano, tra le molte proposte, gli Stati a favorire l’avvicinamento delle donne alle materie scientificotecnologiche, a eliminare stereotipi sessisti dai manuali scolastici, a favorire la costante coeducazione. Per quanto riguardava gli insegnanti, invece, si sollecitava una più equilibrata ripartizione dei posti occupati dalle donne, ovunque maggioritarie, e dagli uomini.

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quelle analisi non assumevano un vero punto di vista «radicato nel genere», in quanto il disagio delle docenti, e la sua soluzione, venivano ricondotti in modo automatico alla dequalificazione della scuola. Si assegnava, poi, alle insegnanti una prospettiva «redentistica»: potevano salvare se stesse e la scuola attraverso una professionalizzazione ricalcata su una tradizionale rappresentazione maschile del loro lavoro.80 Le docenti dovevano scegliere: «prestarsi ad un gioco di ripulitura della facciata scolastica, supportandone le varie crepe» oppure «sottrarsi», suggerivano due rappresentanti della Cooperativa Transizione di Napoli.81 La massiccia presenza femminile tra le insegnanti, aggiungeva Giannina Longobardi, non poteva continuare ad essere letta negativamente come il risultato di una «emancipazione mancata» e come il «perpetuarsi della tradizionale divisione di ruoli». Ma, al contrario, bisognava ribaltare «il primato del produttivo sul riproduttivo» tipico delle società maschiliste e capitaliste e abolire una visione della differenza sessuale come «residuo di arretratezza» da superare nell’ottica di una finta uguaglianza. In questo senso la femminilizzazione, anziché una «ghettizzazione», poteva rivelarsi una «occasione politica» per creare rapporti sociali tra donne in un’ottica di «visibilità della differenza». Il malessere delle insegnanti veniva dunque ricondotto all’«estraneità» femminile, al loro «non avere strumenti per dirsi» e «voler diventare protagoniste». E a nulla poteva servire l’acquisizione continua di strumenti metodologici e culturali o programmi e riforme «calate dall’alto».82 Bisognava sanare quel disagio attraverso un nuovo investimento emotivo e progettuale: «ridiventare “magistrae” di sapere ed esperienza per altre più giovani», «maestre di vita», e comunicare forza e non «miseria».83 Valorizzare la differenza sessuale, infatti, non consisteva nel «trasmettere questo o quel contenuto» aggiuntivo al programma, ma si basava sulla costruzione di «rapporti di disparità tra donne non previsti dall’ordine sociale esistente».84 Il 21 e il 22 maggio 1988 nella facoltà di Magistero di Verona si tenne il primo Convegno sulla pedagogia della differenza nazionale in Italia, dal 80. Anna Maria Piussi, Libertà e valore femminile nella scuola, in «Reti», 1-2 (1985), pp. 5-6. 81. Laura Capobianco, Simona Marino, Un progetto per le donne non per l’istruzione, ivi, pp. 11-13. 82. Giannina Longobardi, L’occasione di una rivoluzione simbolica, ivi, pp. 6-7. 83. Elisabetta Zamarchi, Sessualizzare il sapere e la sua trasmissione, ivi, pp. 8-9. 84. Gruppo Insegnanti di Milano, Pensare la pedagogia, ivi, pp. 9-11.

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nome evocativo Perché una tradizione si affermi, organizzato dalla Comunità filosofica Diotima, dal Gruppo pedagogia della differenza di Verona e dall’associazione Il Filo d’Arianna. Gli atti furono pubblicati un anno dopo, aggiornando una parte degli interventi.85 L’alto numero di resoconti di esperienze narrate da insegnanti provenienti da ogni parte d’Italia e la notevole levatura intellettuale del dibattito, che aveva richiamato la presenza di molte “pensatrici femministe”, furono indicativi della grande autorevolezza che, nel frattempo, la pedagogia della differenza sessuale si era guadagnata. E, d’altro canto, la stessa iniziativa contribuì ad aumentarne ulteriormente la diffusione: non è un caso che molte delle partecipanti di allora ricordino ancora oggi quell’evento come una «svolta» o uno «spartiacque».86 Il Convegno, inoltre, ci consegna un dato importante: la riflessione femminista sulle forme di una pedagogia “alternativa” non era più appannaggio, quasi esclusivo, delle maestre o delle insegnanti della scuola dell’obbligo e pensata per l’infanzia. Negli anni Ottanta italiani, in una fase in cui la produzione intellettuale delle donne iniziò ad acquisire una circolazione più ampia, con un rapporto fortemente osmotico tra scuola e accademia, furono grandi protagoniste anche le professoresse delle scuole superiori. Non è possibile restituire la complessità dei temi affrontati nel corso della due giorni. Ma, dettaglio di non poco conto, le organizzatrici da subito non fecero mistero di volersi riferire proprio a quelle insegnanti coinvolte nel clima «tesissimo» della mobilitazione. Il loro scopo era infatti quello di «offrire una proposta politica nella quale il mestiere possa mutare di senso».87 Si auguravano quindi che fossero create delle organizzazioni nuove, alternative e diverse da quelle politiche e sindacali, e basate unicamente «sul piacere e l’interesse a lavorare insieme su un progetto».88 Esempio plastico di questa ritrovata “identità professionale” era il Gruppo Insegnanti di Firenze, non casualmente costituitosi dopo la delusione seguita alla separazione in due tronconi del movimento dei docenti,89 85. Educare nella differenza, a cura di Anna Maria Piussi-Gruppo Pedagogia della differenza sessuale, Torino, Rosenberg&Sellier, 1989. 86. Nello specifico, si fa riferimento a Carmela Apollaro, Daniela Dioguardi e alla stessa organizzatrice Anna Maria Piussi, intervistate dall’autrice nel corso del 2021/2022. 87. Giannina Longobardi, Elisabetta Zamarchi, Perché una tradizione si affermi, in Educare nella differenza, p. 26. 88. Gruppo Insegnanti di Milano, Viva, la scuola!, ivi, p. 138. 89. Sulla nascita del gruppo, avvenuta nel febbraio 1988, nel solco delle scissioni interne e della critica ad un movimento «confezionato al maschile come i vecchi partiti e i vecchi sindacati», si veda: Ilaria Ciuti, A scuola con maestria, in «Noi donne», 10 (1988), pp. 9-11.

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e presente al Convegno con una riflessione sulla «maestria», intesa come «espressione di capacità sessuate che nell’insegnamento trovano uno dei tanti luoghi di valorizzazione».90 Grande attenzione fu riservata al rapporto «maestra-allieva»: uno scambio che necessitava di autorevolezza e che era basato sull’affidamento. Si sottolineò infatti come «l’attenzione, l’investimento» sulle alunne non andasse confuso con «il maternage» in quanto, nei riguardi delle studentesse, non poteva esserci «accettazione incondizionata» ma era necessario porsi «come misura giudicante».91 Bisognava porre fine alla scuola «antiautoritaria teorizzata negli anni ’60-’70», poiché l’esaurimento «delle relazioni di dominio» non poteva che avvenire in una «pedagogia sessuata autorevole».92 Era arrivato per le femministe, sosteneva Piussi, il momento di educare le più giovani, al contrario di ciò che si era fatto negli anni Settanta, quando si pensava che bastasse l’esempio delle adulte:93 un’assunzione di responsabilità pedagogica che, per la filosofa Chiara Zamboni, non poteva che presupporre «necessariamente l’uso della forza e del potere diretto e indiretto sulle allieve», perché «se si aiuta una donna ad andare oltre i luoghi comuni […] occorre a volte farle forza».94 Ma c’era anche chi, a Verona, proprio su quel «richiamo insistito all’autorità» non nascondeva di essersi «fermato come gruppo».95 Epilogo finale di questa fase in cui il “patto tra donne” sembrava, nonostante tutto, rimanere ancora in piedi fu la pubblicazione, nell’ottobre 1988, di Lettera di una professoressa a cura della Sezione Femminile del Pci: un testo che può essere a tutti gli effetti considerato la trasposizione degli assunti della Carta itinerante nella situazione specifica della scuola. Il documento, che per stessa ammissione delle comuniste mirava a rafforzare il rapporto «di tipo speciale» con le insegnanti costruito durante le prime fasi del movimento, cercava di operare una controstoria che rompesse definitivamente l’immagine stereotipata e superata della professoressa 90. Gruppo insegnanti di Firenze, Della professionalità sessuata, ovvero della maestria, in Educare nella differenza, p. 221. 91. Giannina Longobardi, Elisabetta Zamarchi, Perché una tradizione, pp. 27-40. 92. Elvia Franco, Struttura d’origine, in Educare nella differenza, p. 56. 93. Anna Maria Piussi, Introduzione, ivi, p. 15. 94. Chiara Zamboni, Autorità femminile, autorità maschile nel lavoro filosofico, ivi, p. 74 95. Gruppo insegnanti Centro delle donne «Mara Meoni» Siena, Intrecci di esperienze, ivi, p. 218.

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di Barbiana. E lo faceva attraverso un linguaggio ancora più marcatamente ispirato al “pensiero della differenza sessuale”: un’idea grande è per noi quella che assume la differenza sessuale […] la disaffezione di tante […] deriva in gran parte da una peculiare forma di alienazione: paradossalmente proprio a noi donne la scuola chiede di trasmettere saperi, comportamenti e codici maschili.

Il messaggio delle comuniste era ottimisticamente chiaro: con il protagonismo delle donne nel movimento era finalmente arrivata la possibilità di riformare la scuola. Le insegnanti, dalla loro, potevano fare tesoro delle «nuove strategie didattiche e pratiche pedagogiche riferite alla identificazione sessuale, capaci di offrire […] il valore della differente appartenenza sessuale».96 Anche questa volta però, come nel caso della Carta, nessun esplicito riferimento operativo sul come realizzare concretamente un progetto che criticasse, sul terreno della differenza, il vecchio principio emancipazionistico dell’uguaglianza. In che modo costruire la “forza delle donne” a scuola? Chi era legittimato a rappresentarla? Come renderla concretamente un agente di trasformazione? Ambiguità e silenzi, sicuramente non causali. E le prime critiche, infatti, non tardarono ad arrivare.97 5. Pedagogia della differenza sessuale sì… forse no… meglio quasi Dopo il Convegno di Verona e la Lettera scritta dalle donne del Pci, la pedagogia della differenza sessuale conobbe, insieme alla notorietà, un gran numero di critiche e di distinguo. Lidia Menapace, sulle pagine di «Cooperazione educativa» continuò a perorare la sua idea di una scuola fondata sulla “differenza sessuale” come antidoto all’ «uniformità» e all’«omologazione» ma, contemporaneamente, si scagliava contro una «proposta pedagogica separata e nostalgica». L’assunzione della differenza sessuale, continuava, doveva essere 96. Sezione femminile nazionale del Pci, Lettera di una professoressa, in «Il Foglio de Il Paese delle donne», 31 ottobre 1988. Il documento ebbe una grande circolazione e fu dato anche alle stampe: Sezione femminile della Direzione del Pci, Lettera di una professoressa. Una proposta a tutte le donne che fanno scuola, un invito ad autorganizzarsi, Roma, Fratelli Spada, 1988. 97. Gruppo Donne Insegnanti di Firenze, Libertà femminile e maestria, in «Il Foglio de Il Paese delle donne», 13 novembre 1987.

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il fondamento per il riconoscimento di ogni altra differenza e necessitava, soprattutto, di essere collocata «entro l’uguaglianza e la parità, non contro o invece».98 Ma fu soprattutto «Reti» a dare voce alle più dure requisitorie, scontando l’accusa di aver offerto spazio, in precedenza, unicamente ad una impostazione fondata sull’ applicazione della teoria dell’affidamento. In particolare, Ileana Montini notava che mentre l’antiautoritarismo aveva messo sotto accusa i ruoli istituzionali, le gerarchie sociali, la meritocrazia e la competizione, nell’economia teorica e pratica del pensiero della differenza […] vi è una sorta di recupero di “valori” che erano stati destrutturati nell’ambito della sinistra, dei movimenti femminista, cattolico.99

L’insediamento della «madre simbolica sulla cattedra (che tale resta)», proseguiva, avrebbe dato vita ad un rapporto in cui era negato qualsiasi scambio, reciprocità e le alunne avrebbero assunto l’unica funzione di «contenitori da riempire». Montini si scagliò contro tutte quelle proposizioni che avevano fatto piazza pulita della sperimentazione di molti e molte insegnanti dai tempi de L’Erba voglio. Sottolineò, infine, come la stessa terminologia rinviasse alla storia monastica della chiesa cattolica e che quindi urgesse sostituire una pedagogia fondata sulla «mistica della differenza» con la pratica cooperativa. A suo parere, come per Menapace, la differenza sessuale andava assunta come il fondamento di ogni differenza.100 Non è un caso dunque che Montini, poco dopo, fosse tra le promotrici del “Laboratorio psicopedagogico e didattico della differenza sessuale” di Brescia, in stretta collaborazione con Menapace. Nel documento fondativo veniva specificato che le donne insegnanti agivano «con stile cooperativo» e in piena libertà, in quanto non si proponeva «il raggiungimento di una sola teoria».101 98. Lidia Menapace, Una scuola non uniforme, in «Cooperazione educativa», 6-7 (1988), p. 4. 99. Ileana Montini, Cooperazione e non autorità, in «Reti», 5 (1988), pp. 15-19. 100. Ibidem. 101. Archivia, fondo Menapace, «Tracce. Bollettino del laboratorio psicopedagogico e didattico della differenza sessuale», 1 (1989), p. 1. Già nel 1991, però, Montini lamentava il perdurare dell’egemonia di una parte del femminismo con queste parole: «[esiste anche] un femminismo povero, marginale, ininfluente, perché privo di patrone incarnate in personaggi con un ruolo pubblico ritenuto importante», in «Tracce», 5 (1991), p. 1.

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Tra le fine del 1988 e quella del 1989, anche le militanti del Pci si espressero con virulenza contro la pedagogia della differenza sessuale. Aureliana Alberici, responsabile scuola per il partito, ad esempio, se da un lato ne riconobbe l’utilità per la fondazione di una nuova pedagogia, si disse apertamente in disaccordo con la pratica dell’affidamento. Si dichiarava, invece, estremamente convinta della necessità di portare avanti delle «azioni positive e per le pari opportunità» per la valorizzazione dell’identità femminile e, nel contempo, di battersi per riformare l’istituzione scolastica e i contenuti disciplinari.102 Molte cose, infatti, in pochi mesi erano cambiate, esacerbando e trasformando in scontro aperto tensioni covate da anni. Il movimento dei docenti, dopo gli accordi contrattuali raggiunti nell’estate del 1988, conosceva una fase discendente, facendo calare gradualmente anche l’attenzione mediatica sulla scuola e, soprattutto, sulla situazione degli insegnanti. Contemporaneamente, erano sfumate anche le speranze di chi, in primis le donne della Cgil Scuola e del Pci, in quella vertenza aveva visto la possibilità di riformare la professionalità dei lavoratori della scuola. I sindacati confederali, in compenso, riuscirono ad ottenere la costituzione di un Comitato per le pari opportunità presso il ministero della Pubblica istruzione, che vide l’attiva partecipazione di sindacaliste, militanti del Pci e alcune femministe. L’attenzione da parte dei partiti e delle istituzioni ai temi della valorizzazione della differenza sessuale a scuola divenne, in quella particolare accezione, sempre più marcata e iniziarono a moltiplicarsi le proposte miranti a raggiungere l’“uguaglianza nella differenza”: dalle riforme dei contenuti e dei programmi didattici, all’orientamento studentesco, alla formazione dei docenti sui temi delle pari opportunità.103 In questo mutato scenario, la critica alla prospettiva delle pari opportunità da parte delle femministe “per l’affidamento” fu costante e ben espressa dalla stessa Piussi104 e da numerosi interventi apparsi, come di consueto, su «Cooperazione educativa».105 102. Aureliana Alberici, Differenza e modelli pedagogici, in «Reti», 6 (1988), pp. 11-14. 103. Anna Carli, Il comitato per le pari opportunità nella scuola, in «Scuola Democratica», 3-4 (1989), pp. 104-107. Si veda in realtà tutto il dossier intitolato Iniziativa al femminile. 104. Anna Maria Piussi, Introduzione, in Educare nella differenza, pp. 17-19. 105. Contro il concetto di “segregazione formativa” si veda in particolare Flora De Musso, …Una situazione fortunata, in «Cooperazione educativa», 4 (1989), p. 33.

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Fu così che la “guerra delle differenze” non si limitò ai diverbi interni, ma nell’89 si trasformò, anche fuori dall’ambito scolastico, in vera e propria scissione: si iniziò infatti con l’allontanamento di alcune militanti dell’UDI milanese, ree di non fondare la loro pratica politica sulla differenza sessuale, che di tutta risposta occuparono la sede per una settimana,106 per poi passare al divorzio vero e proprio all’interno del “Virginia Woolf” di Roma.107 Le sorti del gruppo di ricerca sulla pedagogia della differenza sessuale, nato all’interno dell’Università delle donne della capitale nel 1988 e frantumatosi già nel 1989, era l’emblema di come stesse ormai franando qualunque prospettiva di un efficace “patto tra donne”.108 Tutto ciò sembrava in apparenza contraddire il massimo riconoscimento politico che veniva offerto in quel momento al pensiero della differenza. Nel marzo 1989 il XVIII Congresso del Pci fu aperto da Luce Irigaray e il Partito assunse ufficialmente la differenza sessuale come costitutiva del suo progetto politico. Il «nuovo Pci» pensato da Achille Occhetto, infatti, si apprestava a farsi rappresentante di tutti gli stimoli più vitali della società civile e ad abbracciare un «riformismo forte».109 Le donne, in questo senso, potevano contribuire a traghettare il Partito fuori dalla crisi e apportare un necessario e vitale rinnovamento. In realtà, mentre la differenza si “istituzionalizzava”, la spinta autonoma delle comuniste finì per restringersi, schiacciata dalle problematiche e dai dilemmi degli ultimi mesi di vita del Pci. Alle soglie della “svolta della Bolognina”, Ida Dominijanni parlò, non a torto, di un contrasto che ormai era diventato paralisi, domandandosi: «abbiamo scherzato in tutti questi anni – sottolineo tutti, prima e dopo Sottosopra, prima e dopo Diotima – a rideclinare categorie come l’uguaglianza, la giustizia, la libertà, a partire dalla differenza sessuale?».110 Il Pci, infatti, provò a trasporre sempre più, 106. Patrizia Giovannetti, Una separazione non consensuale, in «Noi donne», 3 (1989), p. 34. 107. Roberta Tatafiore, Che cosa succede al Virginia Woolf?, in «Noi donne», 9 (1989), pp. 9-15. 108. Archivia, Vittoria Gallina, Dipanando la matassa, in La scuola: un luogo di donne?, a cura di Gruppo donne di ProForma e Scuola Notizie, Roma, stampato in proprio, 1992, pp. 26-33. 109. Gregorio Sorgonà, La fine del comunismo, in Il comunismo italiano, pp. 625642, p. 634. 110. Ida Dominijanni, Detti e non detti dei nostri contrasti, in «Reti», 6 (1989), pp. 61-64.

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sul fronte scolastico, le riflessioni fatte dalla pedagogia della differenza sessuale in una cornice di mediazione politica-istituzionale e nel quadro delle pari opportunità. Ne è dimostrazione il Dossier Pedagogia della differenza in «Riforma della scuola», storica rivista fondata dal Pci. Era la prima volta che si dava spazio al tema. E non casualmente il primo articolo fu affidato a Carmela Covato che, se da una parte presentò la pedagogia della differenza sessuale come «una delle voci più significative» delle riflessioni femministe sul tema della trasmissione dei saperi, criticò duramente molti dei suoi assunti. In particolare, si scagliava contro la pretesa di agire al di fuori di riforme legislative, chiarendo che «ignorare questo piano significa accettare di agire nella realtà così come ci viene data».111 Il resto del Dossier, invece, ospitava la voce di chi, «senza aver appoggio di leggi, senza aver acquisito diritti, senza finanziamenti, senza che la struttura scolastica fosse stata modificata dall’alto» aveva portato avanti dei progetti di aggiornamento sulla pedagogia della differenza sessuale rivolti alle insegnanti.112 Se è vero infatti che il “patto tra donne”, in senso stretto, stava morendo insieme al Pci, la collaborazione tra le femministe e le comuniste continuò. Ne è una prova la ricca e complessa discussione interna al Comitato pari opportunità presso il ministero della Pubblica istruzione sulla riformulazione del concetto di uguaglianza, in continua tensione con quello di differenza.113 Ma anche il seguito che le teorie della pedagogia della differenza sessuale avrebbero avuto ancora tra molte donne che, nella fine del mondo bipolare, continuarono a mobilitarsi all’interno della nuova “cosa” frutto della trasformazione del Pci. Gli anni Novanta sarebbero stati costellati, infatti, da un gran numero di iniziative, convegni, corsi di aggiornamento per docenti, che avrebbero visto la compresenza delle teoriche della pedagogia della differenza sessuale e delle sue critiche: tutti esempi di una dialettica interna ai femminismi destinata a durare.114

111. Carmela Covato, Sul “genere” e l’educazione, in «Riforma della scuola», 11-12 (1989), pp. 19-24. 112. Martirì Martinengo, Le tappe e gli esiti di un progetto, ivi, pp. 38-39. 113. Cfr. il capitolo “le pari opportunità” in Una storia imprevista. 114. Cfr ad es.: Archivia, Differenza di genere e scuola: quali opportunità?, a cura di Maria Rosa Del Buono, Milano, I.R.R.S.A.E. Lombardia, 1994.

Giulia Sbaffi Abbracci spezzati: la politicizzazione della prostituzione in Italia (1982-1986)

La prostituzione rimane spesso dietro la trama del racconto storico.1 Ogni traccia documentaria lasciata alla storia da chi si prostituisce corre il rischio di essere utilizzata per penalizzare, disciplinare o nascondere la costruzione di una sua memoria. Anche nel discorso storico, infatti, si può registrare la tendenza ad associare la prostituzione unicamente a narrazioni di esclusione sociale come il crimine, il degrado, la devianza. Questa costruzione narrativa, tuttavia, può ostacolare la produzione di uno spazio che permetta a chi si prostituisce di autodeterminarsi e di formare sia la propria identità sociale, sia una memoria delle relazioni storiche e politiche che ha determinato e che lo hanno determinato.2 Pertanto, consapevole che le forme di lavoro sessuale sono tante, come tante sono le soggettività che lo esercitano e l’hanno esercitato,3 in questo saggio analizzerò storicamen1. Paola Tabet, La Grande Beffa. Sessualità delle donne e scambio sessuo-economico, Soveria Manelli, Rubbettino, 2005. 2. Nonostante il prezioso contributo degli ultimi dieci anni - primo tra tutti il saggio di Laura Schettini, Turpi Traffici: prostituzione e migrazioni globali, 1890-1940, Roma, Viella, 2023; quello di Beatrice Busi, Il lavoro sessuale nell’economia della (ri)produzione globale, 2005 e il più recente volume di Giulia Garofalo Geymonat, Giulia Selmi, Prostituzione e lavoro sessuale in Italia. Oltre le semplificazioni, verso i diritti, Torino, Rosenberg&Sellier, 2022, che hanno reso in Italia, più complesso e variegato l’approccio agli studi sulla prostituzione e alla riflessione politica sul lavoro sessuale, per tanto tempo la letteratura sul campo è rimasta divisa tra racconto autobiografico, raccolta di interviste e studi sociologici sul degrado e la devianza anche a mezzo di critica di queste. 3. Sintetizza Garofalo Geymonat: «Tutte le età, tutte le classi sociali, tutte le situazioni sentimentalmatrimoniali sono rappresentate dalla parte di chi compra. Molte fasce economiche, molte nazionalità, molti vissuti diversi sono rappresentati dalla parte di chi

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te un fenomeno specifico: la prostituzione di strada di donne (cis e trans)4 che, nell’Italia degli anni Ottanta, è stata al centro di una organizzazione politica formale e diffusa che non ha altro precedente nell’età contemporanea, il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute.5 Il saggio, dunque, non si occupa di quelle forme di lavoro sessuale soggette a sfruttamento – la tratta per esempio –, ma guarda invece alla prostituzione intesa come insieme di transazioni di carattere sesso-economico tra due adulti consenzienti che avvengono su strada e da cui è scaturito, oltre quarant’anni fa, un processo storico di politicizzazione e de-stigmatizzazione. 1. Un archivio tutto per sé Partire da una riflessione sulle fonti mi sembra una premessa fondamentale per un contributo che si propone di presentare la storia del Comitato dei Diritti Civili delle Prostitute-CDCP, realtà che ha intessuto complesse relazioni politiche tanto con i femminismi, quanto con altri movimenti nati attorno a temi sensibili, anche ma non esclusivamente alla prostituzione, come i diritti del lavoro, all’abitare, all’accesso alla salute. vende. Le forme di questo scambio sono numerose e diverse per regole e organizzazione, così come diversi sono i servizi offerti, che possono andare dai più «normali» ai più «creativi». Prostituzione di strada, escorting, lavoro in appartamento sono solo alcuni esempi», in Giulia Garofalo Geymonat, Vendere, comprare sesso, Bologna, il Mulino, 2014, p. 10. 4. Con il termine cis intendo riferirmi a coloro che si indetificano con il genere e il sesso assegnati alla nascita; con il termine trans intendo invece coloro che si indentificano in modo transitorio o persistente con un genere diverso da quello assegnato alla nascita. Come raccontano Pia Covre e Porpora Marcasciano, protagoniste di quella stagione di politicizzazione e destigmatizzazione dei vissuti delle prostitute, le donne trans rappresentano una buona parte della popolazione che si prostituiva in Italia. Assieme alle migranti dell’America Latina (Brasile, Colombia) e ad uno sparuto numero di donne cittadine o naturalizzate, le donne trans si trovavano a ricorrere alla prostituzione come principale strumento di sussistenza delle proprie vite essendo loro negato il riconoscimento sociale necessario ad ottenere altre forme di impiego. Porpora Marcasciano, L’aurora delle Trans Cattive, Roma, Alegre, p. 125; intervista dell’autrice con Pia Covre, Venezia, 19 ottobre 2019. 5. La politicizzazione di queste esperienze ha radici profonde anche nelle lotte per il lavoro (penso alla scelta della sindacalizzazione in Colombia o in Francia) e nell’emersione delle soggettività queer sul piano della storia (penso ai moti di Stonewall e di San Francisco negli Stati Uniti). Infine, il confronto a volte sinergico e a volte oppositivo con i femminismi rappresenta un terreno di studio interessante e ancora poco esplorato. Queste ragioni motivano quindi la mia scelta, ma ne riconoscono anche la parzialità.

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Il Comitato si forma a Pordenone nell’ottobre del 1982. La data corrisponde alla sua istituzione formale e quindi ad un primo riconoscimento ufficiale e mediatico avvenuto per mezzo della circolazione di un volantino che ne proclamava l’obiettivo: «Ottenere per coloro che hanno scelto di prostituirsi sessualmente le garanzie previste dalla costituzione per tutti i cittadini».6 Al Comitato partecipano realtà di orientamento politico misto (militanti radicali, socialisti, della sinistra extraparlamentare e persino un membro del Movimento Sociale Italiano-MSI). Le adesioni arrivano da clienti, attivisti e attiviste, gente comune, naturalmente prostitute. Tra i sostenitori, anche Roberta Tatafiore, giornalista, saggista, traduttrice, che ha contribuito con il suo lavoro di ricerca e di scrittura a costruire e poi preservare la memoria del Comitato.7 Il racconto dell’esperienza del gruppo è sussidiario alla più ampia memoria della scrittrice e saggista femminista, figura ponte che ha contribuito a sottolineare le continuità e i legami rivendicati tra la lotta delle prostitute e le lotte dei movimenti femministi, come attesta il suo fondo archivistico personale.8 Il Comitato, infatti, non possiede un suo archivio; è possibile ricostruirne la storia a partire dalle figure pubbliche che lo hanno attraversato, animato o che su di esso hanno riflettuto. Tra queste Pia Covre e Carla Corso, le due storiche promotrici del CDCP. In Ritratto a Tinte Forti, il libro che per primo in Italia dà voce al racconto autobiografico del vissuto di una prostituta di strada, Carla Corso racconta l’incontro avvenuto a Pordenone con Pia Covre. Questo è nutrito fin da subito – racconta Carla Corso – da una sincera solidarietà verso il tentativo di sfuggire alle imposizioni autoritarie familiari e politiche di quegli anni e che poi col tempo si fa impegno politico.9 Insieme hanno dedicato tempo di vita ed energie ideali a documentare e divulgare, in contesti istituzionali (proposte di legge, interventi) quanto in spazi pubblici ibridi (festival, 6. Maria Adele Teodori, Lucciole in Lotta. La Prostituzione come Lavoro, Roma, Sapere 2000, 1986, p.1. 7. Tra i suoi contributi più importanti a tema prostituzione: Roberta Tatafiore, Sesso al Lavoro, Milano, eST, 1987 e Uomini di Piacere, Milano, Frontiera, 1998. Per un quadro generale su questa importante figura del panorama italiano: Paola Stelliferi, Roberta Tatafiore, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 95, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2019, https://www.treccani.it/enciclopedia/roberta-tatafiore_%28DizionarioBiografico%29/. 8. Il fondo è conservato presso Archivia. Archivi, biblioteche, centri di documentazione delle donne, Casa internazionale delle donne di Roma. 9. Carla Corso e Sandra Landi, Ritratto a tinte forti, Milano, Giunti, 2002, p. 89.

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momenti di incontro, congressi), tutta la complessità del vissuto di chi fa prostituzione di strada.10 Con il loro contributo, che per Carla Corso passa soprattutto attraverso il lavoro di scrittura, mentre per Pia Covre si costruisce nella costanza con cui dà voce al comitato, le due attiviste hanno cercato di rendere più complesso il discorso storico e politico sulla prostituzione mettendo al centro la questione del lavoro non riconosciuto, dei diritti civili, dell’isolamento sociale di chi lo esercita e della repressione agita su chi si prostituisce. La memoria è costruzione necessaria alla formazione di una identità sociale, al suo posizionamento, al riconoscimento che questa incoraggia nelle singole soggettività, ma anche alla sua messa in discussione. Pertanto, trovo importante qui sottolineare le altre realtà in cui il lavoro storico del Comitato è evocato: il Movimento Italiano Transessuale (oggi Movimento Identità Trans-MIT, con base a Bologna), la rete europea TAMPEP11 a contrasto dello sfruttamento della prostituzione migrante, Radio Radicale, il Partito Socialista e quello di democrazia proletaria, i movimenti per i diritti civili delle prostitute di Ginevra, Londra e New York. Queste esperienze storiche rappresentano delle tracce lasciate al presente dalla partecipazione politica diretta al percorso di lotta delle prostitute di strada o di un’attenzione politica solidale a quelle lotte: il MIT, soprattutto nella prima fase della sua organizzazione, compare spesso tra le iniziative organizzate dal comitato di cui la rete TAMPEP è diretta emanazione, mentre il Partito Radicale da subito si presenta assieme al Partito Socialista e Democrazia Proletaria come suo alleato parlamentare. Questa schematica mappatura ci aiuta a pensare quanto storicamente complesso sia stato il ruolo che il CDCP ha avuto, trovandosi al crocevia di tensioni diverse: quelle dei femminismi nazionali e transnazionali, quelle della politica istituzionale, della migrazione, dei diritti delle identità queer e non ultimo, del lavoro. Ma soprattutto ci permette di studiare come su queste tensioni il Comitato abbia agito al fine di creare uno proprio spazio di esistenza politica. 10. Tra i loro contributi, Carla Corso, Sandra Landi, Quanto vuoi? Clienti e prostitute si raccontano Milano, Giunti, 1998 e Ritratto a tinte forti, Milano, Giunti, 2002; Carla Corso, Ada Tririfò, E siamo partite! Migrazione, tratta e prostituzione straniera in Italia, Milano, Giunti, 2015. 11. European Network for HIV/STI Prevention and Health Promotion among Migrant Sex Workers è il network europeo per la salvaguardia dei dritti delle persone migranti che fanno sex work.

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Nelle pagine che seguono mi soffermerò sulle proposte politiche e le tensioni storiche e politiche che il lavoro del Comitato ha contribuito ad innestare nel dibattito pubblico sulla prostituzione, provando così anche a riflettere su quel nodo di alleanze e contrapposizioni tra prostitute e femministe che individuano un passaggio importante di quella «stagione selvaggia del femminismo» evocata proprio da Pia Covre sul primo numero della rivista del Comitato, «Lucciola».12 Nel farlo, cercherò le radici profonde sia delle lotte e delle forme di disobbedienza, sia dell’emersione delle soggettività queer13 sul piano della storia e dei movimenti sociali. Dal punto di vista cronologico, mi concentrerò sugli anni Ottanta, decennio di tensioni e transizioni politiche complesse il cui contributo, soprattutto negli studi storici sui femminismi, è ancora oggi poco studiato. 2. La nascita del Comitato dei Diritti Civili delle Prostitute (Pordenone, 1982) Il Comitato dei Diritti Civili delle Prostitute si forma a Pordenone nel 1982. La scelta di formare un Comitato individua infatti un posizionamento preciso: creare una frattura all’interno dello spazio istituzionale che disconosce e nega la prostituzione, affinché possano emergere i bisogni materiali di un soggetto politico trascurato. L’adesione – aperta a tutti e vincolata dal tesseramento – serve poi a creare un comitato misto impegnato nella solidarietà con le prostitute di strada, anziché alla loro emarginazione. Tuttavia, la scelta di farsi comitato (e non movimento, collettivo o sindacato) non credo sia da interpretare solo come manifestazione di un bisogno politico e sociale totale, ma anche come audace tentativo di sottolineare le contraddizioni di un sistema in cui la prostituzione è per legge tollerata, ma di fatto criminalizzata attraverso una serie di ostacoli giuridici. Il CDCP ha, di conseguenza, come suo primo obiettivo, la revisione della legislazione in materia di prostituzione originariamente promossa nel 1948 per iniziativa quasi esclusiva della senatrice socialista Lina Merlin approvata dieci anni dopo con una serie di emendamenti proposti dal Parlamento. La legge n. 75 del 20 febbraio 1958 regolamenta ancora oggi in Italia l’esercizio 12. Pia Covre, Le prostitute e le altre, in «Lucciola», 1 (1983), p. 4. 13. Con l’uso dell’aggettivo queer intendo indicare le persone non conformi alle norme su genere e sessualità.

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della prostituzione e la lotta contro lo sfruttamento. Istituendo il divieto delle cosiddette case chiuse, la legge Merlin abolisce lo sfruttamento e il controllo da parte dello stato della prostituzione, attraverso l’abrogazione dei controlli sanitari obbligatori, la registrazione sine die negli elenchi, l’obbligo di dimora.14 Tuttavia, la legge non garantisce, tanto meno menziona, la possibilità della scelta o il diritto a prostituirsi; di conseguenza, al pari di altre norme abolizioniste, stabilisce il divieto per ogni soggetto (privato o pubblico) di controllare e registrare chi si prostituisce o organizzare la prostituzione.15 Infine, la norma istituisce anche il divieto a collaborare e cooperare per chi esercita la prostituzione e quello di prostituirsi in un luogo chiuso. Attorno alla fine degli Settanta, complice il generale clima di mobilitazione sociale, in particolare l’utilizzo del foglio di via16 per coloro che si prostituiscono in strada e le leggi a contrasto dell’immigrazione irregolare iniziano ad essere letti e denunciati da chi si prostituisce come strumenti utili al fine di perseguitare e di fatto tentare di abolire ogni forma di organizzazione della prostituzione, disgregando le comunità che la esercitano. Alla luce di ciò, la scelta di formare proprio un comitato può quindi essere letta come 14. La riforma interviene su una norma che ha origine nel regolamento della città di Torino del 1848 poi esteso al Regno di Sardegna e più tardi ai territori progressivamente annessi al Regno d’Italia. È questo stesso regolamento che istituisce in Italia le “case chiuse” e su cui poi interverrà il procedimento di legge Merlin ad oggi ancora in vigore. Cfr: Liliosa Azara, I sensi e il pudore. L’Italia e la rivoluzione dei costumi (1958-1968), Roma, Donzelli, 2018; Sandro Bellassai, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli Anni Cinquanta, Roma, Carocci, 2006; Molly Tambor, Lost Wave: Women and Democracy in Postwar Italy, Oxford, Uk, Oxford University Press, 2014. Tra i contributi più recenti sul rapporto tra legislazione e prostituzione il rimando è a Giorgia Serughetti, Riflessioni critiche sulle alternative politico-normative sulla prostituzione in Italia, in Prostituzione e lavoro sessuale in Italia, pp. 25-48. Per una panoramica internazionale sui sistemi legislativi in materia di prostituzione e sul lavoro di dissidenza politica agita da collettivi e gruppi a sostegno delle comunità che si prostituiscono: Gail Pheterson, A Vindication of the Rights of Whores, New York, Seal Press, 1989 e Juno Mac, Molly Smith, Revolting Prostitutes. The Fight for Sex Workers’ Rights, London, Verso, 2018. 15. Garofalo Geymonat, Vendere, comprare sesso, p. 36. 16. Il “foglio di via” è un provvedimento di allontanamento da un centro abitato di chi viene considerato «dedito a traffico delittuoso». Viene regolato dall’articolo 2 legge n. 1423 del 27 dicembre 1956, Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità (oggi abrogata da decreto legislativo n. 59/2011) – emendata dalla legge del 22 novembre 1967 per accogliere, alla promulgazione della legge Merlin, chiunque favoreggi o sfrutti la prostituzione tra coloro che commettono i suddetti traffici – è un provvedimento che stigmatizza moralmente e criminalizza chi fa prostituzione di strada.

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un atto polemico e provocatorio di rifiuto, ma anche di formalizzazione politica di una richiesta di garanzie sociali da parte dello stato per le prostitute. Secondo il codice civile italiano, un comitato è un ente che persegue uno scopo di pubblica utilità, è regolato da uno statuto ed è finanziato pubblicamente. In tal senso, questa scelta indica la priorità assoluta data al riconoscimento dei diritti e delle libertà civili. Per quanto sia difficile pensare che possa esserci una causalità logica che determini e poi spieghi linearmente la creazione di un movimento, è possibile individuare una serie di convergenze storiche (di breve, medio e lungo periodo) che hanno contribuito alla formazione del Comitato e a determinare il luogo in cui avvenne. Tutto comincia il 5 ottobre 1982, quando al comando della base NATO di Aviano (Pordenone) viene recapitata una lettera a firma di alcune prostitute pordenonesi ancora non formalmente riunite in comitato: Negli ultimi tempi gruppi di giovani dipendenti da codesto comando (militari della base NATO per intenderci), hanno preso l’abitudine di frequentare zone della città di Pordenone dove di solito sostano le prostitute (cittadine italiane a tutti gli effetti). Le intenzioni però non sono molto pacifiche. Con arroganza da invasori e metodi piuttosto spicciativi creano disturbo e disagio alle persone, attaccano briga, menano le mani, lanciano sassi e barattoli di birra e bottiglie (di cui fanno largo uso). Poiché le incursioni avvengono con notevole frequenza e poiché non abbiamo intenzione di subire passivamente la prepotenza di questi ragazzetti ubriachi e violenti riteniamo di dover informare il suddetto comando della situazione, certe che verranno presi provvedimenti per salvaguardare la nostra incolumità e la dignità delle forze armate americane, ospiti di un paese alleato e non occupanti di conquista.17

La rabbia per le violenze sempre più frequentemente subite e il timore per la propria incolumità spinge le prostitute di Pordenone ad organizzarsi, a fare comunità attorno ad una esigenza condivisa a partire dalla strada, dal parcheggio dove si prostituiscono, luogo che determina la loro condizione di oppressione ma anche di organizzazione. La scelta del mezzo, del linguaggio e degli interlocutori indica una precisa volontà di ribaltamento di quello stigma che priva le prostitute del diritto a prendere parola. Prima di tutto si rivolgono ad un organo di polizia, attore strategico nella repressione della prostituzione: proprio nell’estate del 1982 a Pordenone si registra 17. Teodori, Lucciole in lotta, p. 12.

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infatti la prima retata e l’uso del “foglio di via”, strumento abitualmente utilizzato dalle questure per allontanare le donne dai centri abitati dove si prostituiscono e disgregare così le comunità, rompendo quei vincoli di solidarietà e cooperazione che legano le donne su strada. Poi, il contenuto: ad essere di disagio e disturbo, sono i militari della base che molestano, violentano e che aggrediscono, non le prostitute che lavorano. Le autrici del messaggio si riconoscono come cittadine, ossia soggetti portatori di diritti e di tutela da parte di uno stato che ne impone invece, attraverso la legge e la morale, l’esclusione. La lettera viene ripresa dalla stampa nazionale dando a quel gruppo che forma il CDCP l’opportunità di costruire un lavoro di continuità politica: viene infatti subito steso un manifesto poi affisso sui muri della città.18 Il testo, dal titolo Le Prostitute Rivendicano il Diritto all’Esistenza, propone una critica totale al sistema sociale che si articola su due punti principali: il rifiuto dell’apparato legislativo repressivo che per decenni in Italia aveva ostacolato l’autodeterminazione sessuale dei corpi e una rivendicazione di esistenza politica della prostituzione attraverso la presa di parola delle soggettività coinvolte. Il primo punto sembra articolare una doppia alleanza: con le battaglie portate avanti dal femminismo della seconda ondata e con il movimento di liberazione trans ed omosessuale. Depenalizzazione dell’aborto, accesso alla contraccezione e richiesta della rettifica dei documenti anagrafici per le persone trans sono state infatti tra le battaglie più significative della fase che subito precede e apre gli anni Ottanta.19 Il manifesto inoltre si chiude con una rivendicazione di esistenza articolata su alcune delle parole chiave delle battaglie del decennio precedente, esortando ad «usare e gestire il nostro corpo come più ci aggrada, in fabbrica come in strada, come donne, madri, sorelle, mogli, artiste, cittadine comunque della Repubblica Italiana».20 La 18. Ivi, p. 20. 19. È del 1971 la depenalizzazione della contraccezione, del 1975 la riforma del diritto di famiglia e l’istituzione dei consultori famigliari, del 1978 l’approvazione della legge 194 sull’aborto, mentre nel 1982 viene promulgata la legge 164 sull’attribuzione del genere anagrafico, oggetto di una strenua campagna politica del neonato MIT (Movimento Italiano Transessuali) e di una costellazione di forze politiche e figure pubbliche quali il Partito Radicale e Don Ciotti. Sul tema: Stefania Voli, (Trans)gender Citizenship in Italy: A Contradiction in Terms? From Parliamentary Debate About Law 162/1982 to the Present, in «Modern Italy», 23/2 (2018), pp. 201-214 e Porpora Marcasciano, L’aurora delle trans cattive. Storie, sguardi e vissuti della mia generazione transgender, Milano, Alegre 2002, pp. 304-315. 20. Teodori, Lucciole in lotta, p. 13.

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seconda alleanza è invece “di movimento”, agita in sostegno a coloro che si prostituiscono. Il testo contiene infatti un obiettivo tangibile e coerente con l’articolazione politica proposta: la riforma della legge Merlin e del Codice penale, il cui impianto è ritenuto fortemente penalizzante nei confronti delle donne tutte e in particolar modo delle prostitute.21 Come si vedrà, le rivendicazioni si faranno col tempo sempre più articolate, comprendendo anche il riconoscimento di pari diritti nell’accesso alla casa, ai sistemi di welfare e di cura per le persone trans, ma anche della libera espressione dei corpi. La scelta di concentrare l’azione politica attorno ad una legge di riforma sullo sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione richiama quelle convergenze storiche di medio e lungo periodo evocate sopra. Una prima è già stata nominata: la critica e l’azione di riforma di un sistema legislativo considerato repressivo che arriva da una tensione ideale e da un linguaggio politico diffusi nel discorso pubblico di allora e che permette al movimento femminista, a quello omosessuale e di identità trans, di negoziare spazi giuridici per la rivendicazione delle lotte civili portate avanti nel decennio che dal 1968 arriva fino al 1982. Una negoziazione non sempre pacifica, tanto nel rapporto con le forze istituzionali quanto interna ai movimenti. 3. Le proposte di riforma legislativa e la partecipazione italiana all’iniziativa internazionale L’eccentrica emersione dell’imprevisto soggetto (la prostituta in lotta)22 accoglie subito l’attenzione del Partito Radicale, che per primo nel 1982 intraprende un percorso di discussione parlamentare e di revisione legislativa della Legge Merlin.23 È del dicembre di quell’anno la presen21. Pia Covre, Per noi la legge Merlin è…, in «Lucciola», 1 (1983), p. 6. 22. «Soggetto imprevisto» è il termine con il quale Carla Lonzi si riferisce al soggetto politico femminile; Porpora Marcasciano fa suo questo termine definendosi come “soggetto eccentrico”. Recupero e metto in relazione questi due termini per definire un posizionamento tra due realtà di movimento in dialogo su riconoscimento dei diritti civili e autodeterminazione dei corpi. Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Milano, Scritti di Rivolta femminile, 1974, p. 80 e Porpora Marcasciano, L’Aurora delle Trans Cattive. Storie, sguardi e vissuti della mia generazione transgender, Milano, Edizioni Alegre, 2018, p. 321. 23. Sulla storia del Partito Radicale cfr. Lucia Bonfreschi, Un’idea di libertà. Il Partito Radicale nella storia d’Italia (1962-1988), Padova, Marsilio, 2022 e Gianfranco Spadaccia, Il Partito radicale: sessanta anni di lotte tra memoria e storia, Palermo, Sellerio editore, 2021.

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tazione al Parlamento di un progetto di legge firmato tra le altre da Adele Faccio ed Emma Bonino: due figure di spicco del Partito Radicale, negli anni Settanta protagoniste della battaglia per la liberalizzazione dell’aborto e animatrici del gruppo femminista federato al Pr: MLD-Movimento di Liberazione della Donna. In Parlamento dal 1976, Faccio e Bonino, seppure in maniera diversa, aderiscono alla vita del comitato: l’una partecipando al dibattito su «Lucciola» e l’altra partecipando nel 1983 alle attività del primo congresso, La prostituzione negli anni ’80: un problema di marginalità o una questione sociale?24 L’elemento politico più interessante della proposta di legge n. 3835/1982, Modificazioni ed integrazioni della legge 20 febbraio 1958, n.7, è sicuramente rappresentato dall’articolo 5, che vuole impedire l’utilizzo del “foglio di via” nei confronti di chi si prostituisce e la garanzia delle libertà civili. Il primo elemento risponde direttamente alle azioni di protesta di Pordenone, mentre il secondo rivendica alla prostituzione la dignità della libera scelta. In un contributo di quegli anni, Adele Faccio parla esplicitamente di diritto alla libera scelta per le prostitute, di autonomia e di libera autogestione del proprio corpo e in maniera più generale in campo sessuale.25 Il rapporto tra diritto di scelta e libertà sessuale è al centro, poi, di un più ampio discorso politico di de-stigmatizzazione della prostituzione che si radica nella richiesta di una decriminalizzazione di tutti quei comportamenti considerati di favoreggiamento (coabitazione, collaborazione, sostentamento economico attraverso i proventi del commercio sessuale) e dell’abolizione di qualsiasi forma di esclusione sociale per coloro che sono al di fuori delle norme sessuali della famiglia nucleare eterosessuale. Proporre la decriminalizzazione di questi comportamenti significa riconoscere che lo stigma sociale si estende anche alla sfera affettiva di chi si prostituisce: le donne che si trovano a, o scelgono di prostituirsi vengono spesso considerate giuridicamente inadatte e socialmente inadempienti al ruolo di madre; chi con loro coabita incorre spesso nella minaccia, sospetto e persecuzione giuridica per reati connessi all’adescamento e allo sfruttamento. Da un punto di vista storico più generale è invece interessante notare quanto una tale proposta di legge riconosca e sostenga idealmente il rifiuto 24. Due giorni di discussione, in «Lucciola», 1 (1983), p. 3 e Teodori, Lucciole in lotta, p. 53. 25. Ibidem.

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di un atteggiamento persecutorio da parte dello stato (per mezzo della legge) nei confronti di tutti quei comportamenti sessuali non aderenti al codice riproduttivo della famiglia nucleare. Un tale orientamento ideale è infatti diretta emanazione del lavoro politico dei movimenti femministi e di liberazione omosessuale di allora, ma è anche tipico del Partito Radicale che, fin dalla sua prima formazione nel 1962, ha avuto un’ispirazione liberale e libertaria, contraria a qualsiasi limite posto all’autodeterminazione individuale. Il tema dello sfruttamento delle donne prostitute viene assunto, invece, soprattutto dal Partito Socialista Italiano, con una proposta avanzata un anno dopo quella del Partito Radicale che prevede un’articolazione simile ma integra, in coda agli articoli, una serie di misure per il reinserimento sociale e lavorativo di coloro che avessero deciso di smettere il mestiere.26 Così facendo, la proposta socialista riprende, cercando di dargli attuazione questa volta, il capo II della legge Merlin sul reintegro sociale proposto nel 1958, ma mai attuato. Questi provvedimenti avrebbero previsto percorsi di formazione e avviamento al lavoro per tutte quelle donne che avessero deciso o avessero necessità di abbandonare la prostituzione, riconoscendo allo Stato, che per anni con le case chiuse aveva fatto profitto sulla prostituzione, la responsabilità di farsi carico dell’affrancamento morale e sociale delle prostitute dalla loro condizione di escluse.27 Nessuna delle proposte arriva tuttavia al voto, tutte vengono affossate dal dibattito parlamentare. La critica allo sfruttamento e la richiesta di condizioni di lavoro autonomo continuano tuttavia nel percorso politico fatto dal CDCP in connessione solidale e militante con altre realtà di movimento non solo italiane. Tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, infatti, le prostitute di tutto il mondo si organizzano in lotta per la difesa dei propri 26. Proposta di legge n. 357, Modifiche ed integrazioni alla legge 20 febbraio 1958, n.75, concernente l’abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui. 27. Il cinema fornisce un’impressione piuttosto sensibile di ciò: in Adua e le Compagne, il regista Antonio Pietrangeli aveva illustrato con composta sensibilità, nel 1961, le difficoltà di un gruppo di donne nel cercare, alla chiusura del bordello dove avevano esercitato il mestiere di prostitute, di inventarsi una nuova attività. In una delle scene più evocative del film, Adua si trova con le sue compagne in banca per depositare il denaro a loro necessario per aprire una locanda ristorante; intimidite dalle domande dello sportellista che chiede loro se quel denaro provenga da un illecito (la prostituzione), decidono di rinunciare. La scena, efficace nella sua semplicità, ben illustra le immense difficoltà a cui erano costrette le donne nel pensarsi fuori dal mondo della prostituzione e nel realizzare un qualsivoglia percorso di “reinserimento”.

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diritti e contro le violenze sistemiche di stato e polizia.28 Centrale è nelle loro richieste l’autodeterminazione dei corpi e l’abolizione della legislazione sulla prostituzione che, nei paesi dell’Europa Occidentale (cito ad esempio, Francia, Italia, Svizzera ed Inghilterra), è tollerata e non illegale. Le norme legislative abolizioniste adottate in quegli anni sono tutte diretta emanazione di un mandato politico internazionale dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Nel 1949 viene infatti approvata, la “Convenzione sulla soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione altrui” che dichiara la prostituzione “incompatibile con la dignità e il valore di una persona”.29 In continuità con il lavoro di contrasto alla tratta delle bianche e allo sfruttamento della prostituzione iniziato già agli inizi del Novecento a cui il preambolo del testo fa riferimento, la convenzione crea una connessione ideale tra sfruttamento, schiavitù e prostituzione che nega ogni possibilità di autodeterminazione per chi la esercita. Inoltre, la convenzione prescrive agli stati che se ne fanno promotori di smantellare l’apparato di regolamenti amministrativi o legislativi (controlli sanitari, registrazione presso elenchi) che controllano l’esercizio della prostituzione e nella maggior parte dei casi facenti capo all’organizzazione delle case chiuse o dei bordelli di stato. Il testo è infatti anche emanazione di un riassetto politico e morale del mondo post-fascista e di un nuovo ordine economico capitalista centrato sul consumo, sulla famiglia nucleare e su un ordine morale, per buona parte di natura democratica e cristiana. In una prospettiva di riflessione storica su scala europea, è interessante notare come la richiesta condivisa dell’abolizione delle leggi sulla prostituzione arrivi da un più ampio rifiuto della matrice ideale e sociale che aveva determinato quelle leggi.30 28. Gail Pheterson, Margo St. James, Sex Workers Make History:1985 & 1986 - The World Whores’ Congress, trascrizione originale degli interventi: https://walnet.org/csis/ groups/icrse/brussels-2005/SWRights-History.pdf 29. Sono le primissime righe del Preambolo alla Convenzione, la traduzione è mia. Resolution 317 (1V), Convention for the Suppression of the Traffic in Persons and of the Exploitation of the Prostitution of Others, 2 dicembre 1949, https://www.ohchr.org/sites/ default/files/trafficpersons.pdf. 30. Nel suo lavoro sulla convenzione del 1949, Sonja Dolinsek parla di “tensioni abolizioniste” sottolineando come il dibattito che ha poi dato forma al testo fosse animato da tre correnti differenti: una repressiva, per il rinforzo del controllo polizesco sui comportamenti associati alla prostituzione, una abolizionista per la cancellazione della legislazione in materia di prostituzione, ed una garantista legata alla salvaguardia dei diritti umani. Sonja Dolinsek, Tensions of abolitionism during the negotiation of the 1949 ‘Convention for the

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4. Puttane di tutto il mondo in lotta: il movimento transnazionale Il 2 Giugno del 1975, a Lione, un gruppo di prostitute occupa la chiesa di Saint-Nizier. Qualche giorno dopo, nel quartiere di Montmartre a Parigi, viene occupata una cappella. Nel 1982 a Londra, quello che poi sarebbe diventato l’English Collettive of Women Prostitutes, occupa la chiesa di King’s Cross imitando l’azione delle compagne francesi. La scelta di occupare una chiesa è sicuramente strumento di provocazione verso le forze di polizia della città e più in generale dello stato: nella prima epoca moderna, infatti, il diritto d’asilo ecclesiastico veniva spesso utilizzato dagli schiavi per fuggire alle rappresaglie dei propri padroni, e garantiva loro una protezione. Così le prostitute, accusando lo stato e la polizia di far profitto e violenza sull’oppressione e la stigmatizzazione dei loro corpi, si rifugiano nelle chiese.31 A Lione, nella chiesa di Saint-Nizier, le prostitute rimangono per circa dieci giorni, autorganizzandosi: cucinano insieme, fanno autocoscienza, si confrontano con le femministe, la stampa e il pubblico che gremisce la piazza antistante la chiesa per sentirle parlare. «Non siamo genitali ai quali saltare addosso» affermano alcune di loro, mentre Carole Roussopolus, regista femminista del collettivo delle Insoumuses, le riprende fornendo così l’unica testimonianza diretta di quelle giornate.32 «La rispettabilità è solo un costrutto sociale», dichiarano, e denunciano le varie narrative che manipolano la rappresentazione di ciò che la prostituzione realmente rappresenta: nella chiesa di Lione si trovano giovani donne e alcune più anziane, studentesse, madri separate, militanti femministe e semplici lavoratrici. Una rappresentanza variegata che restituisce tutta la complessità di una realtà troppo spesso appiattita su stereotipi culturali e sociali. Stereotipi che vengono rivendicati come dichiarazione di resistenza e di denuncia alle violenze subite da stato Suppression of the Traffic in Persons and of the Exploitation of the Prostitution of Others’, in «European Review of History: Revue européenne d’histoire», 29/2 (2022), pp. 223-248. Ulteriori riferimenti in merito sono presenti presso l’Archivio di Griselidis Real sebbene riguardino più specificamente il lavoro di riforma proposto dai collettivi: Fonds Grisélidis Réal, Series Documents du Centre international de documentation sur la prostitution, ONU reception le 1er Oct 1980, CH CGR 001_GR-A-1-6-2-1-1. 31. Lilian Mathieu, An Unlikely Mobilization: The Occupation of Saint-Nizier Church by Prostitutes of Lyon, in «Revue française de sociologie», 42 (2001), pp. 107-131. 32. Carole Roussopolus, Les Prostituees de Lyon Parlent, 1975. Oggi il documentario è disponibile in versione digitale presso il centro audiovisivo Simone De Beauvoir di Parigi.

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e polizia. Le prostitute si dichiarano madri e lavoratrici come tutte le altre donne e come tali spossessate dei loro mezzi di sussistenza dall’oppressione patriarcale. L’occupazione della chiesa di Saint-Nizier arriva a conclusione di mesi di mobilitazione contro l’utilizzo del foglio di via e le retate della polizia contro le donne e gli alberghi dove si prostituiscono. Il violento sgombero da parte della polizia disintegra l’azione diretta delle donne, che però prosegue nel progetto di revisione dell’impianto legislativo regolante la loro attività. Anche la Francia, infatti, aveva ratificato la convenzione Onu nel 1960 e aveva approvato una legge che da un lato aveva bandito le case chiuse, dall’altro avviato un forte controllo poliziesco. In Francia come in Italia vengono puniti tutti quei comportamenti pubblici e privati (cooperazione, coabitazione) che sono negati alla prostituzione rendendo la vita delle donne prostitute impossibile. Sono questi stessi punti che innescano la protesta delle donne di Lione che accusano la polizia e lo stato di far profitto sulla confisca dei loro beni, lo sfratto, le multe e gli arresti a carico delle prostitute, attuando una vera e propria criminalizzazione di quello che loro rivendicano come lavoro. Alle occupanti arriva infatti la solidarietà di alcuni gruppi del cattolicesimo sociale francese (il NID) e dei collettivi più radicalmente attivi sul tema della giustizia riproduttiva (Le Planning Familiale, ad esempio) e vicini al movimento femminista (MLF) ma anche del movimento omosessuale, creando così una convergenza di lotte inedita.33 La copertura mediatica è ampia e consente in breve tempo al movimento di esercitare una pressione politica tale da spingere il governo a intraprendere una requisitoria sulle condizioni di vita e lavoro della prostituzione. Il rapporto Pinot, che prende il nome dal magistrato incaricato di redigerlo, contiene una serie di misure a regolamento della prostituzione vicine alla richiesta di riconoscimento di libero esercizio voluta dalle occupanti. Atteso a lungo, viene poi abbandonato nella discussione in Consiglio dei ministri.34 La protesta si conclude con un violento sgombero e una recrudescenza del controllo poliziesco e mediatico su strada che spinge 33. Eurydice Aroney, The 1975 French sex workers’ revolt: A narrative of influence, in «Sexualities», 23/1-2 (2020), pp. 64-80. Sul ruolo del NID, Lilian Mathieu, Mobilisations de prostitueés, Parigi, Belin, 2001. 34. La notizia viene ripresa da diversi quotidiani che seguono le giornate di lotta. Tra i contributi più significativi ho selezionato un articolo di approfondimento di «Liberation» dove viene dato spazio alla voce delle donne in lotta e «Macadam», giornale femminista che a distanza di sei anni dall’occupazione riprende quel racconto e le sue voci: La révolte

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le prostitute in lotta ad abbandonare l’azione di protesta. Il movimento si disgrega, molte donne si ritirano a vita privata, altre proseguono il proprio lavoro nella neonata libreria delle donne di Lione, altre ancora proseguono il proprio percorso di militanza attraverso il movimento internazionale, altre attraverso la scrittura e altre forme di attività politica.35 Sebbene fallimentare sul piano istituzionale, l’esperienza francese dà inizio a un movimento di solidarietà e organizzazione tra le prostitute che è capillarmente diffuso, soprattutto nel mondo occidentale e che porta all’organizzazione di almeno due congressi internazionali: uno nel 1985 ad Amsterdam ed il secondo a Bruxelles presso il Parlamento Europeo, nell’autunno del 1986. Ai due congressi partecipano il CDCP di Pordenone, delegazioni dalla Germania, il Canada, la Thailandia e l’Australia, ma anche lo statunitense C.O.Y.O.T.E, acronimo di Call Off Your Old Tired Ethics che da subito aveva espresso la propria solidarietà al movimento francese e che aveva iniziato ad organizzarsi per primo, nel 1973. Ultimo, il collettivo inglese che aveva occupato la chiesa di King’s Cross in protesta contro i soprusi della polizia e per una revisione, anche questo, del quadro legislativo inglese sulla prostituzione. Il congresso del 1985 viene organizzato proprio dalle americane Margo St. James e Gail Pheterson: l’una fondatrice del movimento di lotta delle prostitute e l’altra saggista e scrittrice. Margo St. James e Gail Pheterson si erano incontrate in Francia, entrambe arrivate lì in solidarietà con il movimento francese. Proprio da Parigi decidono di organizzare The First World Whores’ Congress, primo momento di confronto internazionale organizzato da e per le prostitute di tutto il mondo (in cui però di fatto è sovrarappresentato il mondo occidentale). A dare loro sostegno arriva da Ginevra Griselidis Real, poetessa, scrittrice, giornalista, agitatrice del movimento francese e svizzero sulla prostituzione e fondatrice del primo centro di documentazione internazionale sulla prostituzione in Europa.36 A des prostituées, in «Liberation», 14 luglio 1975; e Femmes Prostituées oui, Putains non, in «Macadam», 1 marzo 1981. 35. Due contributi possono essere citati in riferimento al caso francese: Lilian Mathieu, Mobilisations de prostituées, Bruxelles, Belin, 2001, primo e unico resoconto storiografico di quanto avvenuto in Francia e Barbara, Christine de Coninck, La Partagée, Paris, Editions de Minuit, 1977, resoconto autobiografico di quelle giornate. 36. Griselidis ha dedicato la sua intera vita alla difesa dei diritti delle lavoratrici del sesso («travailleuses du sexe»), intrecciando al tema della prostituzione quello dell’abolizione del carcere, dell’accesso alla salute e della decriminalizzazione della prostituzione.

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scegliere Amsterdam come luogo d’incontro è Gail Pheterson che aveva già in precedenza contatti con The Red Thread, il piccolo gruppo di autoaiuto iniziato nel 1984 dalle prostitute olandesi. Per due giorni, le prostitute si riuniscono per discutere di temi politici, ma anche per condividere momenti di svago e di confronto, per prendere uno spazio che potesse dare libera espressione alla propria identità, tanto nel corpo quanto nella presa di parola politica, alla creazione di una comunità solidale e ad un lavoro di cura collettiva nell’emersione di istanze politiche condivise. Istanze che confluiscono nella redazione di una carta dei diritti e nella formazione di una coalizione internazionale (International Committee on the Rights of Sex Workers in Europe). Il 1985 diventa quindi momento spartiacque nella socializzazione del movimento di ribellione delle prostitute di tutto il mondo: si vanno a formare alcuni dei punti del discorso politico che per un decennio – e ancora fino agli inizi degli anni Novanta – le prostitute in lotta avrebbero portato avanti.37 Ad Amsterdam arriva dagli Stati Uniti anche Gloria Lockett, donna prostituta afroamericana promotrice del CAL-PEP (California Prostitute’s Education Project). In qualità di membro del capitolo del C.O.Y.O.T.E di San Francisco, Gloria Lockett si fa protagonista di una lettura molto critica del razzismo all’interno delle comunità di prostitute, provato da un uso sproporzionato del mezzo della denuncia e del controllo di polizia sulle donne prostitute razzializzate che non viene dalle compagne denunciato.38 Da Pordenone partono per Amsterdam Carla Corso e Pia Covre. Il CDCP aveva avuto nel 1983 il suo primo congresso nazionale prendendo così uno spazio di parola e di confronto a cui aveva partecipato anche l’English Collective of Prostitutes, la stampa e membri della società civile.39 Nata a Losanna ha trascorso parte degli anni del suo attivismo politico tra Francia e Svizzera dove, a Ginevra, ha fondato l’associazione Aspasie a sostegno legale, sanitario e politico di chi si prostituisce. Griselidis Real ha anche scritto della sua esperienza di prostituta per mezzo di diversi registri linguistici: dalla poesia al romanzo: Il nero è un colore è il suo unico romanzo tradotto in italiano (Rovereto, Keller editore, 2010). 37. World Charter and World Whores, Congress Statement in ed. Fredrique Delacoste, Sex Work: Writings by Women in the Sex Industry, Cleis Pr, Jersey City (NJ), USA, 1987, pp. 305-320. 38. Pheterson, St. James, Sex Workers Make History. 39. Il primo incontro si tiene al teatro Verdi di Pordenone nel 1983. La stampa segue con attenzione il dibattito e ne riporta la voce. Vi partecipano diverse forze politiche (Pci, Psi, PR) e della società civile (medici, giornalisti), e si apre il dibattito sulla revisione alla legge Merlin che si estende anche a un ampio discorso sulla sessualità femminile. «Il Mes-

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Così ad Amsterdam le due promotrici del CDCP si trovano a rivendicare alcune delle proposte politiche discusse al loro congresso: la legittimazione della prostituzione come attività lavorativa e il riconoscimento di pari dignità sociali e diritti civili per tutte le identità che la esercitano.40 Espressione di una esigenza precedentemente condivisa attraverso gli scambi tra singoli gruppi (si pensi alla partecipazione del collettivo inglese all’attività del CDCP a cui ho accennato prima) il congresso arriva alla stesura di un documento condiviso che chiede la riforma delle leggi nazionali e il riconoscimento alla prostituzione delle stesse garanzie del lavoro salariato (pagamento delle imposte, diritti di cooperazione e sindacalizzazione, tutele di welfare in quegli stati in cui sono previste). Riferendosi alla prostituzione come oggetto di una libera scelta e considerandolo un lavoro, le prostitute (che ora si dicono unanimemente sex workers per valorizzare l’agency di chi pensa alla prostituzione come lavoro)41 rivendicano anche migliori condizioni di esercizio del lavoro sessuale: chi si prostituisce deve avere diritto a scegliere liberamente il luogo in cui prostituirsi e quello in cui risiedere. Vengono inoltre richiesti strumenti di protezione per denunciare abusi e violenze subite da chi lavora, una maggiore collaborazione da parte delle forze di polizia e la soppressione di qualsiasi controllo sanitario obbligatorio. A questa richiesta segue la proposta di istituire controlli sanitari facoltativi per tutta la popolazione sessualmente attiva al fine di prevenire saggero» per primo riporta un commento su quella giornata, Proteggerle o salvarle?, in «Il Messaggero», 21 febbraio 1983. 40. Tra gli e le aderenti alle iniziative del CDCP, c’era stato sin dalla sua fondazione anche il MIT che compare tra i promotori di alcune iniziative di dibattito pubblico sulla prostituzione: nel 1983 a Parma viene organizzato un primo congresso su “Come la società vede la prostituzione” organizzato dal CDCP e che viene introdotto dall’intervento di un’attivista del MIT. Cfr. 1983 si è parlato di prostituzione, in «Lucciola», 3 gennaio 1984, p. 1. 41. Il termine sex work viene proposto per la prima volta dalla statunitense Carol Leigh, prostituta e animatrice del C.O.Y.O.T.E, nell’ambito di una conferenza sulla violenza sulle donne nell’industria pornografica e i media, tenutasi a San Francisco nel 1978. L’obiettivo è cercare di raccordare insieme le svariate forme di commercio economico-sessuale proponendo una dicitura che valorizzasse l’agentività di chi esercita la prostituzione e l’affermasse come lavoro. Parlare di “industria del sesso”, secondo Carol Leigh, significava reiterare una posizione di oggettificazione della donna che la delegittimava come lavoratrice e l’opprimeva in quanto identità subordinata all’egemonia maschile. Carol Leigh, aka Scarlot Harlot, Inventing Sex Work, in Whores and Other Feminists, a cura di Jill Nagle, New York, Routledge, 1997, pp. 223-231.

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la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili, ma anche di educare al consenso e alla prevenzione.42 Quest’ultima è una proposta carica di significato. Il 1985 è infatti l’anno in cui l’epidemia di AIDS/HIV, impostasi violentemente nel dibattito pubblico, richiede una presa di coscienza collettiva. La sinergia tra l’azione di de-stigmatizzazione della prostituzione e un corretto uso dello strumento contraccettivo del preservativo sono da subito considerati i due mezzi più efficaci nel contrasto alla diffusione dell’epidemia. Le lavoratrici del sesso di Francia, Italia e Stati Uniti sono le prime a mobilitarsi, organizzando percorsi di cura collettiva e prevenzione su strada (distribuzione di contraccettivi, sensibilizzazione delle comunità) agiti anche in sinergia con altre realtà politiche e sociali (chiese, istituzioni sanitarie) per contrastare il drammatico imporsi della morte e della malattia nelle comunità di omosessuali, persone trans e donne prostitute.43 Al congresso di Amsterdam è infatti proprio Carla Corso a richiedere un contributo di solidarietà unanime da parte delle “compagne” contro la proposta di istituire strutture sanitarie preposte all’accoglienza e al trattamento esclusivo di chi fa lavoro sessuale assieme a una serie di controlli sanitari obbligatori che con durezza istituzionale ribadiscono la netta separazione, morale e giuridica, tra una donna malata che si prostituisce e una che non lo fa. Negli anni successivi, l’epidemia di HIV/AIDS continua ad essere uno dei terreni più ampi di mobilitazione da parte del CDCP che diventa da 42. Pheterson, St. James, Sex Workers Make History. 43. Nel 1985 vengono pubblicati i primi studi sulla diffusione di epidemia di AIDS e ne viene identificata l’origine virale. A seguito di ciò, ad aprile nella città di Atlanta in Georgia, viene organizzata la prima conferenza internazionale sull’AIDS dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO). Qualche mese dopo, a settembre, il presidente degli Stati Uniti Ronald Regan per la prima volta parla pubblicamente di AIDS/HIV. Il mondo della cultura, dell’arte e dei movimenti sociali intanto comincia a individuare percorsi di coscientizzazione sulla diffusione della malattia e sulla stigmatizzazione delle comunità da questa più colpite (omosessuali, sex workers, transgender, comunità razzializzate). Due anni dopo, nel 1987 a New York, infatti, viene fondata ACT UP, una coalizione di forze che riunisce studenti, comunità omosessuale, donne e uomini vicini alle battaglie delle Black Panthers e altre forze più o meno politicizzate per organizzare azioni di disobbedienza civile e di rifiuto alla gestione istituzionale della pandemia, accusata di essere responsabile della crisi sociale e delle morti causate dall’AIDS. A Londra lo stesso anno si forma il gruppo inglese di ACT UP e nel 1989 a Parigi. Si rimanda al lunghissimo lavoro di raccolta di interviste orali di Sarah Schulman confluito nel suo volume Let the Record Show. A Political History of ACT UP New York, 1987-1993, New York, Macmillan, 2021.

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subito, nel 1989, socio fondatore della LILA (Lega italiana per la lotta contro l’AIDS); promuove una campagna di prevenzione diffondendo brevi manifesti informativi sull’uso del preservativo rivolti a chi si prostituisce in strada e, soprattutto, a chi – facendo uso di droghe o in stato di stringente necessità economica – si trova ad accettare sesso non protetto per guadagnare qualcosa di più; organizza una serie di laboratori informativi con medici della sanità locale di Pordenone ed è parte integrante della riflessione sulla “riduzione del danno” che inizia proprio in quel contesto. Infine, agli inizi del 1990, quando la linea del colore cambia sensibilmente il mercato del sesso in Italia e nel resto d’Europa, il CDCP entra a far parte del già citato TAMPEP, network internazionale per la tutela della salute e dei diritti della prostituzione migrante. 5. Marginalia femministi e prostituzione Come abbiamo visto, autodeterminazione dei corpi e diritto alla salute sessuale sono i temi che attraversano la storia dei movimenti delle prostitute, così come quella dei femminismi, dei movimenti di liberazione sessuale e trans, permettendo la creazione di alleanze e favorendo in alcune figure del femminismo italiano, come Roberta Tatafiore, la scelta di adottare nel proprio lavoro intellettuale e di militanza la prospettiva delle sex workers.44 Alcuni di questi legami, tuttavia, si spezzano e molti altri restano incompiuti. A margine del primo congresso del CDCP nel 1983, Roberta Tatafiore interviene proprio sulla questione della mancata saldatura tra movimento femminista e prostituzione, interrogandosi sulle ragioni del mancato confronto tra questi soggetti politici. In un commento apparso sulle pagine di «Lucciola», scrive: Perché? Perché, è una prima risposta, data anche al Convegno da una donna intervenuta a nome di un collettivo femminista, gli obbiettivi delle prostitute sono oggi obiettivi di diritti civili per le donne prostitute, mentre quelli delle femministe sono obiettivi di liberazione per tutte le donne. Laddove 44. Il dibattito femminista sul «lavoro sessuale». Il contributo di Michi Staderini e Roberta Tatafiore, relazione di Paola Stelliferi al convegno “Tra ‘Vizi privati e pubbliche virtù’: discorsi, pratiche e rappresentazioni”, Università degli studi di Padova, DiSSGeA (3 - 4 aprile 2019).

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la parola liberazione (delle donne) si coniuga e fa rima con quella di eliminazione (della prostituzione). Ma la parola eliminazione della prostituzione non sta mai, non è mai stata nella testa e nelle proposizioni politiche delle prostitute. Anzi quando si presenta negli incontri tra prostitute e non prostitute genera rifiuto.45

Avvicinandomi alla conclusione di questo saggio provo a portare la riflessione di Tatafiore all’interno del racconto storico internazionale presentato, suggerendo così alcune chiavi di lettura degli snodi politici discussi. Inizio dagli Stati Uniti, considerando questo caso di particolare importanza per due ragioni fondamentali. La prima è di carattere storico: il C.O.Y.O.T.E è il primo gruppo a organizzarsi e a intessere relazioni internazionali con i collettivi femministi e quelli formati dalle prostitute.46 La seconda invece è di carattere politico: quando Margo St. James fonda il C.O.Y.O.T.E lo fa in solidarietà politica con la riflessione femminista sul salario al lavoro domestico.47 Dopo un breve periodo di confronto complesso ed esteso, all’inizio degli anni Ottanta il dibattito statunitense tra femministe e sex workers si polarizza moltissimo e si appiattisce su un confronto accademico.48 Nel 1982, al Barnard College di New York viene organizzata una conferenza – “The Scholar and the Feminist” – che raccoglie femministe arrivate da quasi tutta Europa proponendo, come maggioritaria, una visione della prostituzione e della pornografia come schiavitù patriarcale e sostenendone l’abolizione. Ne derivano tensioni profonde tra i diversi orientamenti femministi presenti. Tra gli effetti di questa spaccatura, anche la decisione presa da una parte delle militanti prostitute di adottare il separatismo.49 In polemica con questa svolta del movimento femminista americano, che lei definisce conservatrice, Margo St. James lascia gli Stati Uniti per 45. Roberta Tatafiore, Due giorni di discussione, in «Lucciola», 1 (1983), p. 3. 46. Archivio COYOTE (1962-1989), Serie X, Cartella 9, 540-545, Member of International Wages for Housework Campaign. 47. Ibidem. 48. Esther Newton, My Butch Career: A Memoir. Durham, Duke University Press, 2018, pp. 243-245 e per una genealogia di questi conflitti: Alice Echols, Daring to Be Bad. Radical Feminism in America 1967-1975, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1989, p. 103. 49. Elizabeth Wilson, The Context of ‘Between Pleasure and Danger’: The Barnard Conference on Sexuality, in «Feminist Review», 13 (1983), pp. 35-41.

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andare in Francia dove esistono già gruppi organizzati di prostitute.50 A Parigi, Lione e Marsiglia, in particolare, la repressione dello Stato è tale da costringere alcune militanti a ritirarsi, mentre altre scelgono di continuare la propria militanza all’interno di realtà di collettivi minori e di orientamento femminista.51 Sembrerebbe quindi proprio a causa di quel rapporto conflittuale tra liberazione e abolizione evocato da Tatafiore che un po’ ovunque si riduce lo spazio di parola e di esistenza che le prostitute avevano cercato di costruire per sé stesse e con le altre. Se si guarda al caso italiano, la riflessione dei femminismi sui temi legati alla sessualità (si veda il saggio di Anastasia Barone in questo volume), ma anche specificamente sulla prostituzione, è stata ingente nel corso degli anni Settanta.52 Importante è stata, in particolare, la riflessione sviluppata dal collettivo Lotta femminista di Padova che nel biennio 19751976 si raccoglie attorno alla campagna per il salario al lavoro domestico. Il collettivo entra in dinamica relazione con i gruppi che in Canada, Stati Uniti (soprattutto su iniziativa del femminismo delle donne razzializzate) e Inghilterra iniziano a riflettere sul lavoro domestico come condizione materiale dello sfruttamento delle donne da parte del capitale, proponendo quindi un’analisi dello sviluppo capitalistico e dello sfruttamento di classe che metta al centro il potere sociale femminile. Da questo scambio politico e di relazione, nel 1972 deriva Potere femminile e sovversione sociale, testo che avvia formalmente il dibattito sul lavoro domestico e segna l’incontro politico tra Mariarosa Dalla Costa, femminista del collettivo di Padova, e Selma James, femminista statunitense e portavoce del collettivo inglese delle prostitute.53 Le stesse, insieme, si fanno poi anche promotrici del movimento internazionale per il salario al lavoro domestico. La prospettiva che emerge dalla richiesta del salario è quella che nega il lavoro domestico come destino biologico delle donne e che non ritiene che l’oppressione della classe dominante maschile su quella su50. Brooke Meredith Beloso, Sex, Work, and Feminist Erasure of Class, in «Signs», 38/1 (2012), pp. 47-70. 51. Barbara, de Coninck, La Partagée. Resoconto delle giornate di occupazione, racconta anche gli sviluppi successivi all’evento del 1975. Ulteriori tracce di questa storia sono presenti presso l’archivio dell’MLF: faldone MLF-GE,S1/SS1/D10/SD4. 52. Nella prefazione al testo Maria Adele Teodori brevemente accenna al mancato incontro politico tra femminismo e CDCP; Teodori, Lucciole in lotta, p. 10. 53. Mariarosa Dalla Costa, Selma James, Potere femminile e sovversione sociale, Marsilio, Venezia, 1972.

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balterna femminile possa essere sovvertita attraverso l’ottenimento della parità tra i due generi. Viene invece proposta una sovversione del capitale totale.54 Chiedere il salario per il lavoro domestico significa riconoscere che il lavoro di cura a cui sono costrette le donne è imposto dal, e a vantaggio del, capitale e che è completamente indipendente dalla scelta, dai bisogni e dall’amore.55 Non riconoscerlo significa opprimere le donne con responsabilità di natura affettiva e sessuale: il sesso (e il sesso coniugale) viene infatti considerato come lavoro.56 In questo quadro interpretativo s’inserisce anche la prostituzione – necessariamente qui come forza produttiva. Per le donne, si legge in un documento del collettivo, la prostituzione diventa una risorsa per affrancarsi da una condizione di oppressione economica; per l’uomo è garanzia del soddisfacimento di quei bisogni sessuali che gli permettono ogni giorno di continuare il suo esercizio di lavoro.57 È qui che la riflessione femminista sull’analisi della prostituzione come una parte dello sfruttamento sessuo-economico di tutte le donne entra in contrapposizione diretta con le correnti abolizioniste: si ritiene infatti che la prostituzione non serva gli interessi dell’uomo – il quale, attraverso questa, riproduce il suo dominio sulla donna –, bensì del capitale.58 Da questa lettura della prostituzione, consegue che il capitale fissa entrambi i ruoli di genere lungo un asse binario di scambio che ne permette l’espansione. Tuttavia, la nascita e l’evoluzione del CDCP non porta alla saldatura ideologica tra la riflessione radicale proposta dai collettivi per il salario al lavoro domestico e il movimento politico delle prostitute. Queste due realtà restano separate. Il CDCP, pertanto, sceglie di intessere una serie di relazioni politiche nell’alveo dei partiti e delle culture politiche della sinistra muovendosi, da questo punto di vista, in contraddizione con la tradizione fortemente antistituzionale del movimento femminista (quan54. Ibidem. 55. Biblioteche civiche di Padova, Archivio di Lotta Femminista per il salario al lavoro domestico, Donazione Mariarosa Dalla Costa (d’ora in poi, Archivio Dalla Costa), Faldone B, Cartella 3, 11, senza titolo. 56. Ibidem. Si veda anche Why Sexuality Is Work, documento scritto da Silvia Federici in occasione della seconda conferenza internazionale sul “Salario al lavoro domestico” che si tenne a Toronto nel gennaio 1975. 57. Archivio Dalla Costa, Faldone 3, cartella 15. 58. Ibidem.

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tomeno, sul piano rivendicativo e formale),59 al fine di ottenere il proprio obiettivo legislativo (la riforma della legge Merlin), il riconoscimento dei diritti civili per le prostitute e della loro agency e, più in generale, la fine dello sfruttamento quanto della stigmatizzazione.60 6. Conclusioni Gli elementi storici suggeriti sono proposti come ipotesi e suggestioni per pensare l’infinita possibilità di legami tra la prostituzione e la storia dei femminismi. Così facendo, più che delle risposte il saggio incoraggia l’emersione di nuove domande: qual è l’eredità politica di quel generativo meccanismo di scambi internazionali organizzato dai gruppi politici delle prostitute? Dove e perché i rapporti tra le rivendicazioni al salario domestico e la prostituzione s’interrompono? Con quanta consapevolezza politica il CDCP ha scelto di ignorare strategicamente rivendicazioni femministe che pure erano vicine alle proprie? E infine, quali sono le alleanze ancora non esplorate che possono aiutare a rileggere con maggiore completezza questa storia? In attesa di ricerche che possano rispondere a queste e altre domane, il mio saggio ha voluto illustrare la complessità e la genealogia sia delle frammentazioni, sia delle alleanze che negli anni Ottanta hanno caratterizzato il rapporto dei femminismi con il processo di politicizzazione del lavoro sessuale. La speranza è che queste pagine possano offrire spunti di riflessione anche nel quadro del dibattito a noi contemporaneo tra femminismi e transfemminismo, le cui matrici sono da ricercare proprio nella storia di allora.

59. Anna Rossi-Doria, Ipotesi per una storia che verrà, in Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Roma, Viella, 2005, p. 15. 60. Come abbiamo visto in apertura, il Comitato stringe una forte alleanza con il Partito Radicale, con il Partito Socialista, ma addirittura accoglie un esponente del MSI.

Guardarsi, ascoltarsi, rappresentarsi

Dalila Missero Guardare film insieme. I festival cinematografici femministi (1973-1980)*

Il cinema è stato un tema relativamente poco indagato nella storiografia del movimento femminista italiano, probabilmente per via del carattere underground di gran parte dei film realizzati.1 Tuttavia, se si sposta l’attenzione dal “fare” al “guardare” film, le esperienze cinematografiche femministe si sono articolate molto al di là della produzione, includendo eventi, petizioni e la pubblicazione di scritti teorici. In questo senso, i festival e le rassegne cinematografiche rappresentano una cartina al tornasole per orientarsi tra le numerose iniziative femministe legate al cinema che si sono sviluppate lungo gli anni Settanta e oltre. Gli incontri e festival cinematografici, infatti, erano organizzati con l’obiettivo di creare una comunità di spettatrici dotata di consapevolezza politica e di trasformare le pratiche egemoniche di fruizione culturale. Come scriveva la critica Lina Ossi, «I film sulle donne, o creati da donne, * Questo saggio è una traduzione/adattamento a cura dell’autrice dal capitolo Feminist Spectatorship and Transformative Publics: Aspirations and Legacies of Feminist Film Festivals, in Dalila Missero, Women, Feminism, and Italian Cinema. Archives from a Film Culture, Edimburgo, Edinburgh University Press, 2022. 1. Fatta eccezione per alcune produzioni RAI, gran parte dei film prodotti in seno al movimento italiano ebbero scarsa circolazione all’infuori dei circuiti militanti. Tra i documentari e programmi televisivi RAI ricordiamo Processo per stupro (Maria Grazia Belmonti, Anna Carini, Rony Daopoulo, Paola De Martis, Annabella Miscuglio, Loredana Rotondo, 1978) e la rubrica Si dice donna, frutto del lavoro di film makers attive nel movimento e di alcune professioniste come Tilde Capomazza e Loredana Rotondo che aprirono spazi femministi nel secondo canale RAI. Per un approfondimento si veda Sara Filippelli, Le ragazze con il videotape. La tv secondo Loredana Rotondo, in «Bianco & Nero», 3 (2011), pp. 97-107; Annamaria Licciardello, Io sono mia. Esperienze di cinema militante femminista negli anni Settanta, in «Zapruder. Storie in movimento», 39 (2016), pp. 86-93.

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hanno il loro significato più radicale nell’“invenzione” di un pubblico femminile più ampio»:2 in altre parole, l’esperienza collettiva di visione era considerata politicamente dirompente, se non di più, almeno tanto quanto l’opportunità stessa di fare film. Questa necessità nasceva da una critica alle pratiche dominanti di consumo cinematografico e si legava a doppio filo alle teorie e prassi sperimentate dai collettivi che realizzavano film, e che promuovevano l’autocoscienza e la rinuncia al professionalismo come strumenti per sovvertire gli aspetti capitalisti e patriarcali del cinema commerciale.3 Così, i festival e le rassegne femministe intendevano aprire una breccia a nuovi modi di apprezzare il cinema che fossero radicati nell’esperienza delle donne, dentro e fuori dal movimento, e che potessero innescare un cambiamento profondo. Attraverso la ricostruzione di queste esperienze, questo capitolo si propone di riflettere attorno al significato politico “del guardare film insieme” e all’importanza dell’organizzazione culturale, in questo caso cinematografica, nell’esperienza politica del movimento italiano. 1. Cinema e femminismo: una storia “imperfetta” Come accennato, gli studi storici si sono solo sporadicamente soffermati sul rapporto tra movimento femminista italiano e cinema. Nell’ambito dei film studies, invece, si è già creata una bibliografia piuttosto nutrita attorno a questo tema, che rivela la necessità di un approccio interdisciplinare che leghi l’analisi specifica dei film con le numerose esperienze creative e artistiche praticate da singole e collettivi.4 Come suggerisce Lucia Cardone, molte di queste ricostruzioni danno vita a una sorta di storiografia 2. Lina Ossi, Spettatrice, in Lessico Politico delle donne. Cinema, letteratura, arti visive, a cura di Adelaide Frabotta, vol. 6, Milano, Gulliver, 1979, p. 27. 3. Sul legame tra autocoscienza e produzione cinematografica femminista italiana si vedano Daniela Cavallaro, The making of a feminist film: Sofia Scandurra’s Io sono mia, in «Studies in European Cinema», 3 (2007), pp. 199-209; il capitolo A Materialist Trajectory in Feminist Filmmaking: Rethinking Labour and Consciousness-raising, in Dalila Missero, Women, Feminism, pp. 139-154; e Sara Filippelli, Pioniere della differenza, cinema e femminismo tra gli anni Settanta e Ottanta, in Filmare il femminismo. Studi sulle donne nel cinema e nei media, a cura di Lucia Cardone e Sara Filippelli, Pisa, Edizioni ETS, 2015, pp. 65-76. 4. Si vedano in questo senso Filmare il femminismo; CINEma oltre. Donne e pratiche audiovisive in Italia, a cura di Lucia Cardone, Elena Marcheschi, Giulia Simi, Milano, Postmedia, 2021.

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«imperfetta»,5 che riflette il carattere multiforme e al tempo stesso frammentario delle fonti a disposizione. Si tratta di fonti frastagliate ed “effimere”, per usare un’espressione del teorico queer José Esteban Muñoz, che richiedono alla studiosa di confrontarsi con incongruenze e omissioni.6 Non fa eccezione questa mia ricerca, che si basa su materiali di diversa natura, principalmente pubblicazioni militanti, documenti ciclostilati e cataloghi. Per poter colmare i vuoti lasciati dalle esigue fonti primarie presenti negli archivi ho arricchito la ricerca con lo spoglio di riviste femministe come «Effe», «Quotidiano Donna» e «Noi Donne», che riportavano notizie sulle attività culturali e ricreative organizzate dal movimento.7 A queste risorse ho poi integrato, per quanto possibile, le fonti orali, che mi hanno permesso di avvicinarmi alle intenzioni delle donne che hanno partecipato a questi festival. Di particolare interesse le testimonianze, tra le altre, di Silvana Campese/Medea del collettivo Le Nemesiache di Napoli, e Moira Miele, collaboratrice di «Effe». Queste prospettive individuali sono particolarmente importanti perché aggiungono alla ricostruzione storica il portato emotivo e soggettivo che, parafrasando Jackie Stacey, è cruciale «se ci occupiamo seriamente delle storie del pubblico cinematografico».8 Inoltre, il dialogo tra i racconti delle singole e le fonti d’archivio riflette la poliedricità e la polisemia delle narrazioni che scaturiscono dalle storie del movimento e che nutrono la nostra comprensione delle esperienze femministe del passato. Per rispecchiare la varietà di fonti e punti di vista ho suddiviso questo testo in brevi sezioni tematiche che ripercorrono, dopo un breve quadro 5. Lucia Cardone utilizza il concetto di “imperfezione” per definire la tendenza del cinema delle donne di sottrarsi ai modelli e canoni dominanti. Dal punto di vista storiografico, questo carattere “imperfetto”, produce “smarginature” ed esiti imprevisti. Cfr. Ead., Imperfezioni. In forma di introduzione, in Imperfezioni: studi sulle donne nel cinema e nei media, Pisa, ETS, 2016. 6. José Esteban Muñoz, Ephemera as Evidence: Introductory Notes to Queer Acts, in «Women & Performance: A Journal of Feminist Theory», 8, 2 (1996), pp. 5-16. 7. In particolare, ho condotto un’analisi dettagliata delle seguenti annate di «Effe» (1972-82), «Quotidiano Donna» (1978-1981) e «Noi Donne» (1977). «Quotidiano Donna» uscì come supplemento del «Quotidiano dei Lavoratori» dal maggio 1978 al febbraio 1981, dopodiché continuò a uscire, con periodicità irregolare, fino al 1982 con il sottotitolo «settimanale femminista di politica e attualità». Le collezioni complete di questi periodici femministi sono disponibili presso Archivia, alla Casa Internazionale delle Donne a Roma. 8. Jackie Stacey, Star gazing: Hollywood cinema and female spectatorship, Londra, Routledge, 1994, p. 63.

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sul contesto cinematografico e militante in cui nacquero, la parabola dei festival cinematografici femministi, dalle esperienze più disgregate, come seminari e rassegne itineranti, a quelle più strutturate come i festival Kinomata di Roma (1976), le Rassegne del Cinema Femminista di Sorrento (1976-1995) e L’Occhio Negato di Firenze (1979- ). 2. L’organizzazione cinematografica negli anni Settanta: tra autogestione, supporto istituzionale e confronti transnazionali Per meglio comprendere la storia dei festival femministi è necessario fare un passo indietro e guardare al contesto generale del consumo cinematografico e dell’organizzazione culturale in cui nacquero. Come si è già accennato, le attiviste femministe concepirono questi eventi come luoghi di approfondimento teorico, politico e di (auto)coscienza a partire dalla visione collettiva di film sulle donne o fatti da donne. In parte, questa idea si ispirava a pratiche controculturali esistenti, in particolare a quelle dei circuiti cinefili politicizzati, supportati da una rete capillare di cooperative e cineclub sia autogestiti che sostenuti da organizzazioni più strutturate, quali la Federazione Italiana Cineclub (FIC) e l’ARCI.9 Sebbene, come vedremo, il movimento delle donne guardasse a queste esperienze in modo critico, specie per il carattere prevalentemente maschile dei cineclub “impegnati”, molte animatrici dei festival gravitavano in quegli stessi spazi, che a loro volta fornivano strutture e supporto alle iniziative delle donne. Questa vicinanza agli ambienti cinefili militanti si rispecchia nel carattere di nicchia e indipendente della maggior parte dei festival femministi, un aspetto sentito a volte come limitante, e a cui le attiviste provarono a far fronte cercando di coinvolgere un pubblico non militante e specializzato. Questo tentativo di apertura spiega parzialmente la progressiva istituzionalizzazione e depoliticizzazione dei festival femministi, in linea con alcune scelte strategiche che si intrecciavano a sviluppi storici più complessi, come il cosiddetto “riflusso nel privato” e la perdita di centrali9. Queste due organizzazioni sono radicate rispettivamente nell’esperienza cattolica e in quella comunista di associazionismo culturale nate in Italia nel dopoguerra. Negli anni Settanta sia la FIC che l’ARCI ospitano iniziative di gruppi non necessariamente legate alle politiche istituzionali e di partito cattoliche e comuniste.

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tà del cinema nel sistema mediale italiano.10 Come si vedrà da vicino nelle prossime sezioni, l’organizzazione di proiezioni autogestite e separatiste lasciò gradualmente il passo a festival più strutturati, che necessitavano di sostegni economici e organizzativi esterni al movimento. La maggiore complessità di questi eventi poneva, inoltre, dubbi attorno alla professionalizzazione e il riconoscimento del lavoro delle attiviste coinvolte. Queste tendenze all’istituzionalizzazione e alla professionalizzazione invitano a riflettere sulle parole di Giuliana Bruno e Maria Nadotti, che nel 1988 definivano come “distintiva” l’oscillazione del femminismo italiano «tra l’opposizione alla cultura dominante e il desiderio di inserirvisi».11 Tuttavia, sebbene alcuni festival riuscirono a reinventarsi negli anni, queste esperienze non sono riuscite a incidere in modo strutturale nei settori dell’organizzazione culturale e cinematografica, rimanendo pertanto casi circoscritti. Questo si deve in parte alla mancanza di un rapporto stretto con l’industria cinematografica, nonostante il coinvolgimento di numerose artiste e professioniste negli eventi che gravitavano attorno ai festival. Per comprendere le ragioni di questi risultati apparentemente scarsi possiamo comparare le esperienze italiane a quelle dei festival femministi britannici e statunitensi degli stessi anni. Come ricorda B. Ruby Rich, rassegne angloamericane come l’Edinburgh International Film Festival e la Alternative Cinema Conference di New York non erano pensate come ghetti cinematografici, ma come veri e propri laboratori politici e teorici capaci di sfidare il carattere commerciale della produzione mainstream.12 Sebbene questi intenti radicali risuonino con le esperienze italiane, le attiviste britanniche e statunitensi furono capaci di creare quasi immediatamente un legame strutturale tra lavoro intellettuale (specie accademi10. A partire dagli anni Settanta, il consumo cinematografico era diventato sempre più frammentato e specializzato, e al tempo stesso sempre meno assiduo. Negli anni Ottanta questa tendenza era ormai irreversibile e si accompagnava a una crisi del settore, in parte connessa all’ascesa dei canali televisivi privati. Cfr. Claudio Bisoni, Gli anni affollati. La cultura cinematografica (1970-1979), Roma, Carocci, 2009; Gian Piero Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano 1905-2003. Torino, Einaudi, 2003. 11. Giuliana Bruno, Maria Nadotti, Off Screen: Women & Film in Italy, Londra e New York, Routledge, 1988, p. 10 (traduzione mia). 12. B. Ruby Rich, Prologue: Angst and Joy on the Women’s Film Festival Circuit, in Ead., Chick Flicks: Theories and Memories of the Feminist Film Movement, Durham, Duke University Press, 1998, pp. 29-39.

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co) e attivismo femminista. Questo sforzo portò alla creazione di strutture produttive e creative alternative destinate a durare nei decenni successivi, sebbene alternando periodi di maggiore e minore fortuna.13 Ne risultò dunque un rapporto continuativo tra teoria, professionalizzazione e attivismo che in alcune occasioni portò alla formazione di vere e proprie forme di lobbying nei confronti sia delle istituzioni che dell’industria del cinema.14 Le italiane non riuscirono ad ottenere simili risultati, e sia il mondo accademico che l’industria cinematografica non recepirono le istanze femministe formulate ed espresse nei festival. Come vedremo, questo aspetto non va inteso necessariamente come un fallimento del movimento italiano, ma come il risultato di una strategia politica che accettava (sebbene in modo discontinuo) la mediazione istituzionale ma non quella commerciale; allo stesso tempo, il cosiddetto backlash degli anni Ottanta avrebbe poi determinato un cambio di priorità all’interno del movimento, che portò un ridimensionamento degli obiettivi radicali iniziali a favore di iniziative più circoscritte e isolate tipiche del cosiddetto “femminismo diffuso”.15 Infatti, l’obiettivo di rovesciare le strutture cinematografiche patriarcali dei primi festival si eclissò nel corso degli anni Ottanta, quando le pratiche militanti diventarono sempre più disgregate e legate a contesti professionali, come i servizi alla persona, l’assistenza sociale e l’istruzione.16 A questo processo, il settore cinematografico rimase quasi impermeabile, tanto 13. Antoine Damiens, Film Festivals of the 1970s and the Subject of Feminist Film Studies: Collaborations and Regimes of Knowledge Production, in «Journal of Film and Video», 72/1-2 (2020), pp. 21-32. 14. Si vedano ad esempio le associazioni britanniche d’ispirazione femminista nate a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, come la Women in Film and TV (WFTV), la Women in Entertainment (WIE), e la Women’s Media Action Group (WMA). Queste organizzazioni nascevano dalla collaborazione spontanea tra attiviste, professioniste e accademiche che si proponevano d’incrementare la presenza femminile nelle industrie creative e combattere l’oggettificazione del corpo delle donne nei media, attraverso la promozione di studi, report e altre forme di supporto alle associate. Negli Stati Uniti, invece, un esempio interessante è quello della casa di distribuzione Women Make Movies (WMM), nata nel 1972 e da sempre legata al movimento femminista. L’organizzazione è ancora operativa e ha esteso il suo campo d’azione ad ambiti che vanno dalla distribuzione, alla formazione e il sostegno alla produzione. 15. Anna Rita Calabrò, Laura Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso: storie e percorsi a Milano dagli anni ’60 agli anni ’80, Milano, FrancoAngeli, 2004. 16. Anne Maud Bracke, Women and the Reinvention of the Political: Feminism in Italy, 1968-1983, New York, Londra, Routledge, 2014, pp. 189-190. Per il contesto professionale radiofonico tra anni Settanta e Ottanta si veda il saggio di Eleonora Cirant in questo volume.

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che gran parte delle attiviste che si erano cimentate nel cinema e nei festival lungo gli anni Settanta, continuarono a fare film da sole e a mostrarli in circuiti alternativi via via sempre più slegati da istanze femministe. Sebbene questo processo faccia intuire la scarsa coesione degli sforzi femministi in campo culturale e cinematografico, le esperienze degli anni Settanta rivelano sia la vitalità delle iniziative del movimento in questo ambito, sia la refrattarietà dei settori culturali e accademici italiani che non le recepirono. 3. Rassegne itineranti e dibattiti sperimentali Proiezioni e rassegne cinematografiche auto-organizzate e autogestite fiorirono lungo tutti gli anni Settanta, animate dal concetto politico del “guardare film insieme” che ritroveremo anche nei festival dotati di strutture organizzative e risorse più solide. Riviste come «Effe» e «Noi Donne» e pubblicazioni antologiche come L’Almanacco17 riportavano informazioni pratiche per noleggiare pellicole e video, con i dettagli di contatto dei distributori, i costi e le informazioni tecniche necessarie per proiettarli. Queste liste di film componevano una sorta di catalogo dando vita a circuiti di visione indipendenti e fai da te. Le attiviste dovevano occuparsi di contattare direttamente le cooperative e i collettivi in possesso di copie dei film, raccogliere i soldi necessari per affittarle, reperire le attrezzature per la proiezione e trovare i locali dove effettuarla. Oltre ai formati su pellicola come il 35mm, il 16mm e il Super 8, i film femministi circolavano su più comodi videotapes o erano addirittura “disgregati” in diapositive, dando vita a spettacoli audiovisivi semplici da montare e smontare. In tutti i casi, erano le attiviste in prima persona a portare i film ovunque fossero richiesti, come ricorda la cineasta femminista Adriana Monti,18 che a metà degli

17. AA.VV., L’Almanacco. Luoghi, nomi, incontri, fatti, lavori in corso del Movimento femminista italiano dal 1972, Roma, Edizioni delle donne, 1978. 18. Adriana Monti ha lavorato nel cinema sin dagli anni Settanta, quando già militava nel collettivo milanese di Lotta Femminista e poi nel Gruppo dell’inconscio, di cui faceva parte anche la scrittrice femminista Lea Melandri. Tra le sue opere più significative Scuola senza fine (1979-83), film che documenta l’esperienza delle allieve e insegnanti dei corsi delle 150 ore tenutisi presso la scuola media del quartiere milanese di Affori, e frequentati prevalentemente da casalinghe. Per un approfondimento si vedano: Giuliana Bruno, Maria Nadotti, Off Screen: Women & Film in Italy, Londra, New York, Routledge, 1988 e il

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anni Settanta faceva parte del collettivo milanese per la campagna per il Salario al lavoro domestico: [Con le compagne] abbiamo fatto questo spettacolo audiovisivo19 intitolato Siamo tante, siamo donne, siamo stufe! per la campagna per il referendum sul divorzio […]. Nel 1976 fu smantellato dopo essere stato proiettato in tutta Italia. […] Ricordo che una volta andai con Grazia [Zerman] a farlo vedere agli operai dell’Alfa Romeo […] e l’atmosfera divenne molto festosa… c’erano tutti quegli uomini che parlavano di emozioni e di storie d’amore […]!20

L’auto-organizzazione e il sostegno reciproco erano la chiave di questi esperimenti di visione, che in alcuni casi prevedevano momenti sperimentali di uso collettivo della videocamera. Questo è il caso del seminario femminista di cinema organizzato nel 1977 da un collettivo femminista di studentesse della facoltà di comunicazione e spettacolo dell’Università di Bologna. Gli incontri prevedevano discussioni, momenti di studio e un ciclo di proiezioni, con l’intento specifico di mettere in discussione le pratiche maschili e gerarchiche del cineclub politico e della docenza universitaria. Ottenuta una videocamera dall’Università, le partecipanti filmavano i dibattiti che seguivano la visione del film: In pratica, dopo le proiezioni cui possono assistere anche donne esterne all’università […], hanno luogo dibattiti che sono metà dibattito e metà lezione pratica di uso dello strumento [video], alla faccia della verbosità dei dibattiti, dell’astrattezza delle lezioni, della ruolizzazione nel lavoro, che caratterizzano le attività culturali maschili all’interno della struttura universitaria, così come, ovviamente, fuori.21

In questo modo, le proiezioni che componevano il seminario si arricchivano di una parte pratica, fondata su un’attività creativa e giocosa che prevedeva la partecipazione attiva delle spettatrici. Il reperimento di pellicocapitolo Feminist Spaces and Knowledge Exchange: Adriana Monti’s Archive, in Dalila Missero, Women, Feminism. 19. Si trattava di un montaggio di diapositive, sincronizzate su un nastro magnetico dove sono incise le parole di un testo e le musiche, in questo caso canzoni prodotte dal movimento e da collettivi come il Gruppo musicale di Lotta Femminista di Padova Cfr. Siamo tante, siamo donne, siamo stufe!, a cura di Chiara Gamba, Franca Geri, Adriana Monti, Grazia Zerman, Collettivo Editoriale Femminista, Padova 1975. 20. Adriana Monti, Intervista con l’autrice, 4 giugno 2019. 21. Antonella Barina, Elena Castagni, Moira Miele, Maria Pia Toscano, Autodocenza: università in disfunzione della donna, in «Effe», 5, 9 (1977), p. 25.

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le e dispense per lo studio era invece affidato al collettivo, che si rivolgeva ai mezzi di diffusione e comunicazione femministi. I problemi creati dalla frammentarietà di questi circuiti e dall’eccessivo lavoro richiesto alle attiviste che li animavano emergono chiaramente dall’esperienza di un altro ciclo di proiezioni itineranti, questa volta organizzato da due attiviste e collaboratrici della rivista «Effe», Moira Miele – che era anche tra le organizzatrici del seminario bolognese – e Maricla Tagliaferri. Secondo Tagliaferri, questa iniziativa rispondeva a un “bisogno diffuso di cinema” non ancora soddisfatto: Non tutte e senz’altro non la maggioranza delle donne che vorrebbero, può permettersi di lasciare baracca e burattini nella propria città e viaggiare per andarsi a vedere dei film. Perciò, anche se numerose, di fatto le rassegne finora organizzate non sono riuscite a soddisfare questo «bisogno di cinema» che a quanto pare esiste. […] inoltre è difficile e costoso reperire i film, noleggiarli, procurarsi le attrezzature, la sala, ecc. quando lo si fa «in proprio» e non ci si appoggia a strutture – guarda caso – maschili […].22

Proprio su «Effe», si leggeva che per il costo di 150.000 lire l’organizzazione (evidentemente composta solo da Miele e Tagliaferri) avrebbe coperto sia le spese di noleggio delle pellicole sia quelle di viaggio per le due attiviste che avrebbero portato le pellicole dove richiesto. Secondo Tagliaferri, portare in giro i film in questo modo avrebbe contribuito alla costruzione di un pubblico solido per il cinema femminista, che avrebbe a lungo termine sostenuto la produzione e circolazione di nuovi film diretti da donne. Dopo due eventi a Roma nel 1978, tenutisi al teatro femminista La Maddalena e al Cineclub Roma, Miele e Tagliaferri viaggiarono con una selezione di film femministi a Caserta, Messina, Genova, Torino e Ancona.23 Quando ho chiesto a Moira Miele quali fossero i suoi ricordi di questa esperienza, lei ha commentato: L’unica cosa che ricordo è la stanchezza. Eravamo solo io e Maricla, e io ero esausta. Portavamo le bobine in giro nei treni locali, su e giù per le scale, ecc. e quelle bobine erano molto, molto pesanti.24

Queste parole rivelano il carico emotivo e fisico dell’attivismo, nonché la centralità degli sforzi delle singole nel promuovere e creare spazi 22. Maricla Tagliaferri, Una rassegna itinerante, «Effe», 6, 10-11 (1978), p. 35. 23. Purtroppo su «Effe» non vi sono ulteriori informazioni né sui collettivi e organizzazioni che richiesero le pellicole, né sul tipo di pubblico che assistette alle proiezioni. 24. Moria Miele, intervista con l’autrice, 16 settembre 2018.

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di visione e condivisione cinematografica. In altre parole, gli eventi di visione cinematografica femministi erano per lo più il prodotto di reti informali, autogestite e non remunerative, che non contavano su infrastrutture proprie. Questi stessi “problemi” caratterizzavano anche i festival femministi dotati di un’organizzazione più organica e di obiettivi più strutturati, come vedremo nei prossimi paragrafi, e che in parte ne spiegano la breve sopravvivenza. 4. Kinomata Il festival Kinomata – che letteralmente significa “madre cinematografica” – è il più noto evento cinematografico femminista del periodo, e si svolse a Roma, presso il Filmstudio 70, tra il 15 e il 30 novembre 1976. L’idea di Kinomata nacque dal Collettivo Femminista di Cinema (CFC), che riuniva attiviste del collettivo Lotta Femminista, poi Movimento Femminista Romano.25 Una delle fondatrici del CFC, Rony Daopoulo, spiegò in un’intervista a «Effe», che il Collettivo era nato nel 1971 da un gruppo di autocoscienza, e che l’organizzazione di Kinomata era solo uno dei numerosi interventi in campo cinematografico promossi dal gruppo.26 Il carattere programmatico delle azioni del CFC si evince dal loro manifesto intitolato Per un cinema clitorideo vaginale (1971), in cui si definisce il cinema come un mezzo «autoritario», e l’attività di guardare film viene descritta come intrinsecamente passiva. Per questo il gruppo intendeva trasformare il cinema attraverso la sperimentazione di nuovi modi di fare e 25. Il Collettivo di Lotta Femminista nacque nel maggio 1971 e vi confluirono numerose attiviste del gruppo di Rivolta femminile, dal movimento studentesco, dal Movimento di Liberazione della Donna (legato al Partito Radicale) e dal Fronte di Liberazione Femminile. La denominazione Movimento Femminista Romano venne adottata per “unificare” tutte le precedenti e indicare un’affiliazione più inclusiva al movimento internazionale delle donne. Cfr. Donnità: cronache del Movimento femminista romano, Roma, Centro di documentazione del Movimento Femminista Romano, 1976, pp. 5-6. 26. Maricla Tagliaferri, Amore di cinema, in «Effe», 5, 4 (1977), pp. 26-28. Il CFC, infatti, aveva anche girato due film L’aggettivo donna (1971) e La lotta non è finita (197273). Il primo, nonostante fosse il saggio con cui Rony Daopoulo si diplomò al Centro Sperimentale di Cinematografia, si può considerare a pieno titolo come un’opera che rispecchia le riflessioni del collettivo. Per maggiori informazioni sul CFC si veda il capitolo A Materialist Trajectory in Feminist Filmmaking: Rethinking Labour and Consciousness-raising, in Missero, Women, Feminism.

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guardare film, che potessero tradursi in forme concrete di azione politica. Sempre nel manifesto, infatti, il collettivo criticava apertamente gli spazi cinematografici contemporanei dominati dagli uomini, in particolare quelli dei cine forum. Dal punto di vista del CFC, i dibattiti e le discussioni che avvenivano in questi luoghi non contribuivano in alcun modo all’azione politica delle donne, e pertanto la spettatrice femminista doveva assumere una prospettiva diversa e rifiutare le dinamiche patriarcali che si riproducevano negli spazi culturali maschili. Per questo motivo, il CFC si appellava a forme di critica che si traducevano in azione e si dichiarava non interessato «a coloro che vanno al cinema per intrattenimento o distrazione, o ad occuparsi di coloro che cercano semplicemente degli orgasmi culturali».27 Una prima messa in pratica di queste parole si ritrova in un ciclo di proiezioni organizzato dal Collettivo per un pubblico di sole donne al Filmstudio, presumibilmente nel 1973.28 Il documento che ne presenta il programma menzionava la questione degli stereotipi nel cinema e chiedeva un nuovo tipo di cultura cinematografica, in cui le donne scrivessero e dirigessero film esprimendo un’immagine del femminile in linea con le loro esperienze. Questi obiettivi programmatici si traducevano nella creazione di un pubblico separatista che escludeva gli uomini dalle proiezioni, pratica poi abbandonata dal festival Kinomata, che aveva obiettivi più ambiziosi. Kinomata era aperta a un pubblico misto e comprendeva due programmi di proiezioni distinte, tavole rotonde e dibattiti. Versioni ridotte della rassegna vennero portate in forma itinerante a Milano (1-18 dicembre 1976) e a Verona (5-10 marzo 1977), appoggiandosi a cineclub e spazi cinematografici alternativi locali. La sezione principale della rassegna, intitolata «La donna con la macchina da presa», comprendeva una selezione di film diretti da donne dall’epoca del muto agli anni Settanta, con l’obiettivo di recuperare e discutere il contributo femminile nella storia del cinema. Questo ciclo, la cui completezza e ricchezza riflettono il lavoro teorico e storiografico delle organizzatrici, comprendeva pellicole di pioniere come Elvira Notari e Esfir Schub,29 e registe contemporanee come Elda Tattoli e Liliana Cavani. 27. Collettivo Femminista di Cinema in AA. VV., Almanacco, pp. 134-135. 28. Il documento che presenta questa mostra non è datato, ma l’organizzazione cronologica dei materiali presenti nella busta suggerisce il 1973 come possibile anno di pubblicazione. Archivio Fondazione Elvira Badaracco Milano, Fondo Movimento Femminista, b. 105, Collettivo Femminista Cinema, 12, 1, MF 1863. 29. Elvira Notari e Esfir Schub sono due tra le pioniere più significative nella storia del cinema muto europeo. Il recupero storiografico e la ricerca attorno alle loro opere si deve

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Il secondo programma, intitolato «L’eterno femminino», si concentrava sulla rappresentazione della femminilità nella storia del cinema italiano e internazionale con l’obiettivo di analizzare il «rapporto soggettivo e affettivo della spettatrice con il cinema nazionale».30 Nello specifico, consisteva in una serie di proiezioni tematiche con film interpretati da dive come Silvana Mangano, Gina Lollobrigida e Sophia Loren, per stimolare una riflessione collettiva sull’impatto dei loro personaggi sulle spettatrici. Questo programma evidentemente si ispirava alla gaze theory di Laura Mulvey,31 e animava discussioni che invitavano a ripensare l’esperienza femminile del cinema, sia collettivamente che individualmente, in linea con la pratica dell’autocoscienza. In un breve saggio dedicato al festival, l’artista Giulia (Bundi) Alberti descrisse Kinomata come «uno shock collettivo», poiché la rassegna poneva ogni spettatrice di fronte a innumerevoli altri modi di essere donna.32 Questo aspetto in qualche modo evidenzia l’importanza attribuita ai momenti di incontro e scambio collettivo, e rivela come la discussione tra donne sulle proprie esperienze cinematografiche si traducesse in opportunità di elaborazione teorica e politica. L’edizione romana prevedeva anche una serie di dibattiti con critiche cinematografiche femministe, registe, attrici e attiviste per affrontare questioni pragmatiche relative alla produzione e distribuzione di film delle donne. Questi incontri miravano ad aprire una discussione sulle possibili strategie per promuovere il cinema fatto dalle donne in Italia, attraverso infrastrutture alternative a quelle capitaliste e patriarcali. Questo approccio curatoriale, che combinava alle proiezioni per il pubblico degli incontri per addette ai prevalentemente a ricercatrici e registe femministe. Notari, napoletana, era a capo di una casa di produzione a conduzione familiare, la Dora Film, che a partire dal 1912 produsse numerosi film, prevalentemente rivolti a un pubblico popolare e regionale. Schub, invece, è soprattutto nota per il suo film di montaggio La caduta della dinastia Romanov (1927), uno dei titoli più importanti del cinema dell’avanguardia russa. Per approfondire si vedano: Dunja Dogo, Esfir Shub, in Jane Gaines, Radha Vatsal e Monica Dall’Asta, a cura di Women Film Pioneers Project, New York, Columbia University Libraries, 2013: https://doi.org/10.7916/ d8-7jyf-d183 (tutti i siti internet citati sono stati consultati l’ultima volta il 21 giugno 2023); Kim Tomadjoglou, Elvira Notari, ivi: https://doi.org/10.7916/d8-zdmp-rs37. 30. Rassegna Kinomata, La donna con la macchina da presa, Catalogo, Milano S.n., 1976. 31. Il riferimento qui è al celebre testo di Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, in «Screen», 16, 3 (1975), pp. 6-18. 32. Giulia Bundi Alberti, La donna nel sistema di significazione, in Kinomata. La donna nel cinema, a cura di Rony Daopoulo e Annabella Miscuglio, Bari, Dedalo, 1980, p. 37.

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lavori, è in sintonia con il lavoro di Claire Johnstone, Lynda Myles e Laura Mulvey all’Edinburgh International Film Festival, che era ormai divenuto l’epicentro internazionale per l’elaborazione teorica e strategica del cinema fatto da donne.33 Tuttavia, è difficile trovare altre similitudini tra queste due esperienze. Kinomata era un’iniziativa indipendente che faceva affidamento sulle infrastrutture dei circuiti alternativi e controculturali che operavano in Italia, come le cooperative cinematografiche e i cineclub indipendenti (in primis il Filmstudio 70, di cui Annabella Miscuglio, membro del CFC, era fondatrice). Sebbene, come rivelano i catologhi delle edizioni itineranti, la rassegna abbia beneficiato dell’appoggio di istituzioni come la Cineteca Nazionale, il British Film Institute, le associazioni Musidora - Femme/Media e l’ambasciata danese, che agevolarono il noleggio delle pellicole, è evidente che Kinomata abbia faticato a produrre discussioni all’infuori dei suoi pubblici d’elezione. Infatti, i suoi innovativi cicli di proiezioni e dibattiti sul cinema delle donne hanno solo recentemente trovato uno spazio adeguato nelle storie e nelle teorie del cinema italiani, nonostante la loro replicabilità e accuratezza nella ricostruzione di filmografie e biografie.34 Inoltre, al di là delle sue versioni itineranti, non risultano esservi state altre repliche di Kinomata negli anni successivi. 5. Le Rassegne del Cinema Femminista di Napoli e Sorrento35 e l’Occhio Negato di Firenze Un paio di mesi prima di Kinomata, il 28-30 settembre 1976, il collettivo femminista napoletano Le Nemesiache inaugurò la prima edizione delle 33. Cfr. Peter Stanfield, Notes Toward a History of the Edinburgh International Film Festival, 1969-77, in «Film International», 6, 4 (2008), pp. 62-71. 34. Infatti, nonostante le numerose pubblicazioni e cataloghi elaborati in questo periodo da collettivi e dalle organizzatrici di festival, lo studio del cinema delle donne ha trovato solo negli ultimi vent’anni uno sviluppo sistematico nell’accademia italiana. Emblematici di queste tendenze sono i volumi di Monica Dall’Asta, Non Solo Dive. Pioniere del cinema italiano, Bologna, Cineteca di Bologna, 2008 e Veronica Pravadelli, Le donne del cinema. Dive, registe, spettatrici, Roma-Bari, Laterza, 2014 e il forum FAScinA, che riunisce ogni anno, presso l’Università di Sassari, la comunità di studiose di cinema che si dedicano alle ricerche sul cinema delle donne. 35. La ricostruzione della storia di questo festival si basa su opuscoli, documenti e cataloghi del festival contenuti in Archivio del Femminismo Fondazione Badaracco, Classificazione 1, busta 4, fascicolo 6, cartella Le Nemesiache n. 23.

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“Rassegne del Cinema Femminista. L’altro sguardo”, che sono proseguite sino al 1995. Le sorti di questo evento si sono strettamente legate a quelle del festival cinematografico che le ospitava, gli Incontri Internazionali di Cinema di Sorrento. Nella sua prima edizione, le Rassegne si svolsero in tre matinées con proiezioni dalle 10 alle 14 al cinema Filangeri di Napoli, in parallelo agli Incontri di Sorrento. L’ideazione di questo festival si deve alla carismatica artista, performer, regista e attivista Lina Mangiacapre/ Nemesi, che coinvolse nell’organizzazione il resto de Le Nemesiache.36 Secondo Campese, l’obiettivo principale del gruppo era «la pratica dell’utopia attraverso l’arte, la cultura e la creatività», e ammette che parte del loro lavoro creativo era sostenuto finanziariamente da fondi pubblici.37 Questo è vero anche per le Rassegne, sponsorizzate dall’assessorato al turismo della Regione Campania e dai comuni di Napoli e Sorrento.38 Con il tempo, il festival napoletano divenne un importante polo europeo per la circolazione del cinema delle donne, in quanto promuoveva la formazione di circuiti indipendenti per la distribuzione e la produzione di questi film, che tuttavia continuarono ad attrarre soprattutto un pubblico specializzato. Silvana Campese/Medea racconta che nelle prime edizioni gran parte del pubblico era di attiviste e attivisti, ma vi erano anche molte persone che si presentavano solo per curiosità.39 36. Il collettivo nacque a Napoli nel 1970 e le sue componenti adottarono tutte un soprannome, solitamente ispirato alla mitologia greca, per firmare i propri interventi politici ed eseguire le loro creazioni artistiche, che spaziavano dal teatro al cinema sperimentali. Il contributo de Le Nemesiache e in particolare di Lina Mangiacapre nel campo cinematografico non si esaurisce al festival di cui si discute in questo capitolo, ma si estende alla produzione di film, sia corti che lungometraggi, e la pubblicazione di scritti programmatici e teorici, tra cui spiccano i volumi Cinema al femminile, Padova, Images 70, 1980, e Cinema al femminile 2: 1980-90, Napoli, Tre Ghinee, 1994. La produzione artistica, politica e culturale di questo collettivo è tra le più ricche e ben documentate in Italia, e il suo cospicuo lascito archivistico è accessibile, in parte anche on-line sul sito lenemesiache.it. La discussione sulle numerose opere e attività del collettivo esula dagli obiettivi di questo scritto. Per ulteriori approfondimenti si vedano: Giada Cipollone, Nemesi performativa, in «Mimesis Journal», 10, 2 (2021): http://journals.openedition.org/mimesis/2289; Hilary Althea Emerson, Reframing Madness with Avant-Garde Film: Lina Mangiacapre’s Feminist Collaboration at the Asylum, in «The Italianist», 41/2 (2021), pp. 323-337. 37. Silvana Campese, corrispondenza con l’autrice, 28 ottobre 2019. 38. Informazioni su patrocini e finanziamenti sono disponibili nei cataloghi e brochure che accompagnavano l’evento come Non solo figura di donna. Documenti della III e IV rassegna del cinema femminista –1978/1979, s.n., s.l. 39. Silvana Campese, corrispondenza con l’autrice, 28 ottobre 2019.

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Come a Kinomata, non vi era una programmazione o proiezioni per un pubblico di sole donne, sebbene Le Nemesiache avessero in passato organizzato eventi separatisti. Silvana ricorda che gli uomini non furono ammessi alla prima rappresentazione dello spettacolo teatrale Cenerella di Lina Mangiacapre (maggio 1973), e alcuni poterono in seguito accedere solo in presenza di una donna che garantisse per loro. Questa iniziale necessità di separatismo si spiega con la natura particolare di questo spettacolo, che Lina Mangiacapre chiamava “psicofavola”, un tipo di performance che incoraggiava le spettatrici a praticare l’autocoscienza, a partire dall’identificazione con il personaggio di Cenerella. Il formato, obiettivi e scopi delle Rassegne invece erano molto diversi e per quanto riguarda la partecipazione del pubblico, Campese ricorda che le discussioni erano spontanee e non richiedevano una particolare moderazione, lasciando intendere che si trattava di dibattiti che non prevedevano la messa in pratica dell’autocoscienza come avveniva in altri tipi di proiezioni femministe. Infatti, le Rassegne ebbero un carattere marcatamente volto alla promozione di politiche culturali e cinematografiche per le donne, in dialogo e talvolta in polemica con le istituzioni locali. Alla conclusione della prima edizione, infatti, le organizzatrici pubblicarono una risoluzione collettiva che chiedeva l’introduzione di una quota obbligatoria di professioniste donne su ogni set cinematografico, e l’apertura di un centro creativo e culturale per le donne da parte dell’amministrazione comunale di Napoli.40 Questo documento è emblematico dell’approccio a tutto tondo de Le Nemesiache al tema dell’esclusione delle donne dalle arti, che loro stesse intendevano come una questione sistemica che necessitava di essere affrontata in maniera radicale, ma al tempo stesso consapevole dell’importanza della mediazione istituzionale. In questo senso, si può leggere anche la costituzione della cooperativa “Tre ghinee/Le Nemesiache” del 6 marzo 1977, che tra le altre cose permetteva maggiore agilità nella gestione di contratti e rapporti istituzionali. Al volgere del decennio, infatti, le forme cooperative e associative erano particolarmente diffuse sia tra i collettivi femministi di artiste e film-makers che tra le organizzatrici di festival, come nel caso dell’associazione culturale Sherazade, fondata da un gruppo di studentesse che si erano incontrate a un seminario sul cinema delle donne dell’Università di Firenze. Nel 1979, questa associazione inaugurava una rassegna cinematografica, L’Occhio Negato, che consisteva in una serie di conferenze, dibattiti e sessioni di analisi 40. Le Nemesiache, Risoluzione…, in Almanacco, p. 139

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collettiva su film fatti dalle donne. L’obiettivo di questo ciclo di proiezioni era garantire che i significati specifici dei film non scomparissero e non fossero «assorbiti [dalla cultura cinematografica egemone]».41 Come scrivevano le organizzatrici su «Effe», la risposta molto positiva del pubblico (misto) a queste proiezioni e dibattiti fu per molti versi sorprendente: [All’inizio] credevamo che un programma molto specialistico e di nicchia, con proiezioni di film d’avanguardia e cose del genere, avrebbe creato poco spazio per la discussione… Invece, hanno stimolato una partecipazione molto vivace, e tutti erano felici di rimanere per i dibattiti dopo le proiezioni. Per esempio, ad un dibattito sulla distribuzione dei film, ci aspettavamo di vedere solo professioniste del cinema, ma è divenuta una grande assemblea. Era un’atmosfera molto sociale, con persone che si incontravano, si fermavano e rimanevano, interessate non solo a vedere i film, ma anche a partecipare a una sorta di seminario permanente.42

In maniera simile alle Rassegne di Napoli/Sorrento, questa mostra godeva del supporto del Comune e della Regione Toscana,43 e le organizzatrici riuscirono in seguito a far inserire un ciclo di film di donne nel programma del Festival dei Popoli, una delle più rinomate rassegne cinematografiche italiane dedicate al cinema documentario ed etnografico. Le mostre fiorentine, che erano nate con una vocazione per certi versi educativa, non riuscirono tuttavia a stabilire un dialogo duraturo con gli ambienti cinematografici e accademici che le avevano per molti versi ispirate. Come si evince dalle edizioni successive del festival, che si celebra ancora oggi annualmente con il nome di “Cinema e donne”, la manifestazione ha praticamente mantenuto lo stesso formato con il passare dei decenni, cambiando gestione, ma divenendo in qualche modo sempre più di nicchia. La parabola di questi due festival, capaci di durare ben oltre gli anni Ottanta, dimostra la capacità inventiva e la lungimiranza delle fondatrici. In questo senso, il supporto di diverse realtà istituzionali indica la capacità delle organizzatrici di avviare un dialogo e una mediazione oltre gli ambiti dell’attivismo politico e della controcultura. Tuttavia, questi sforzi non furono sufficienti a garantire al cinema delle donne un pubblico al di fuori di una nicchia già consolidata, e destinata a ridimensionarsi negli anni. 41. Clelia Pallotta, Il gioco dello specchio, in «Effe», 9, 1 (1981), p. 14. 42. Ivi, p. 15 43. Ibidem.

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6. La fine di un progetto utopico Nelle sue considerazioni attorno all’eredità del movimento femminista degli anni Settanta, Laura Mulvey ricorda che in quel periodo il cinema era […] un sintomo e un simbolo di una teleologia politica utopica. Non solo il cinema poteva articolare il desiderio di un mondo migliore, il suo modo complesso di interpretare e rappresentare stimolava sia un nuovo tipo di critica che nuovi modi di vedere.44

Col senno di poi, le considerazioni di Mulvey ci permettono di comprendere anche l’esperienza italiana, ma con una differenza significativa. Mentre la teoria cinematografica femminista angloamericana ha trovato un posto nel mondo accademico, in Italia l’eredità dei festival e dei tentativi di collaborazione istituzionale delle loro organizzatrici sono rimasti relegati ai circuiti alternativi e cinefili, che divennero via via sempre meno rilevanti nei contesti di consumo e produzione cinematografici degli anni Ottanta e Novanta. L’episodico sostegno da parte delle istituzioni pubbliche non si è tradotto in politiche sistemiche di valorizzazione della produzione, consumo e circolazione del cinema delle donne. L’utopia di un pubblico cinematografico femminista, le cui esperienze di visione potessero essere trasformative per le singole e la comunità, si scontrarono dunque con una realtà di intenso lavoro (volontario) per le attiviste, e la difficoltà di trasformare gli spazi aperti negli anni Settanta in qualcosa che potesse coniugare politica, teoria e solidità organizzativa. Così, nonostante la rinuncia alle pratiche più radicali e sperimentali come il separatismo e il ricorso all’autocoscienza, i festival come Kinomata, le Rassegne e L’Occhio Negato hanno comunque pagato il prezzo della mancanza di reti e infrastrutture solide capaci di sostenerle al di là dello sporadico intervento economico, mentre l’industria cinematografica e l’accademia non ne recepirono il potenziale.45 Nonostante ciò, i festival hanno offerto a tante donne delle occasioni di incontro e di scambio che ancora oggi suggeriscono la possibilità di trasformare luoghi come università, cinema e centri culturali in luoghi 44. Laura Mulvey, Looking at the Past from the Present: Rethinking Feminist Film Theory of the 1970s, «Signs: Journal of Women in Culture and Society», 30/1 (2004), p. 1287. 45. Per il rapporto dell’arte femminista con le istituzioni si rimanda al saggio di Clarissa Ricci in questo volume.

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di dibattito e sperimentazione. Non ultimo, pur nella loro genesi frammentaria, le rassegne cinematografiche femministe rappresentano un episodio significativo nella storia del movimento delle donne, perché ci ricordano di quella urgenza, tutta femminista, di sovvertire le strutture patriarcali in ogni aspetto del vivere quotidiano, incluso il banale atto di guardare un film insieme.

Clarissa Ricci Politiche dello Spazio aperto. Arte e femminismo alla Biennale di Venezia (1974-1978)

1. Introduzione1 La narrazione della presenza del femminismo alla Biennale di Venezia è stata per lo più associata alla mostra Materializzazione del linguaggio curata da Mirella Bentivoglio nel 1978. In tempi recenti l’esposizione è stata oggetto di attenzione e studi: celebrata come punto nevralgico del rapporto tra arte e femminismo in Italia nella mostra Il soggetto imprevisto (2019), assurta a ispirazione trans-storica nel caso della Biennale di Venezia del 2022, e ri-materializzata nella ricostruzione che ne é stata fatta a Bolzano presso Fondazione dalle Nogare.2 Se da un lato la storicizzazione di Materializzazione ha valorizzato il ruolo di Bentivoglio quale promotrice delle artiste verbo-visuali, dall’altro ha aperto numerosi interrogativi intorno alla presenza del femminismo alla Biennale di Venezia negli anni Settanta. Materializzazione fu infatti prece1. Sono estremamente riconoscente a Cecilia Alemani per avermi invitato a partecipare al panel Curating From Feminist Perspectives, del convegno “Meetings on Art” (Venezia, 11 giugno 2022) insieme a Manuela Hansen, Jennifer Higgie, Andrea Giunta e Andrien Sina. Il presente saggio prende forma a partire da quell’intervento. Ringrazio inoltre tutte le persone che mi hanno supportato nella ricerca in particolare Mariuccia Secol, Franco Raggi, Tomaso Binga, Andrea Viliani, Manuela Momentè, Lia Durante e Anthony Gardner. Sono molto grata inoltre per i suggerimenti e correzioni di Paola Stelliferi e Stefania Voli oltre che per i commenti puntuali delle peer reviewers. 2. Si veda Il Soggetto imprevisto. 1978: Arte e Femminismo in Italia, a cura di Marco Scotini e Raffaella Perna, Milano, Flash Art Edizioni, 2019; Milk of Dreams / Latte dei Sogni, Biennale Arte 2022, Venezia, La Biennale di Venezia, 2022; Ri-materializzazione del Linguaggio 1978-2022, a cura di Andrea Viliani e Cristiana Perrella, presso Fondazione Antonio dalle Nogare, Bolzano (2 ottobre 2022 - 3 giugno 2023).

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duta, di pochi mesi e nella stessa sede, da un’altra mostra, Spazio aperto, che per lungo tempo è stata nota solo a pochi specialisti.3 Inoltre, per quanto Bentivoglio sia stata indicata come «figura di riferimento imprescindibile»4 per la storia delle mostre di sole donne e per il tema dell’identità di genere, non si è mai voluta definire femminista. Se per certi versi questa potrebbe essere considerata un’anomalia, va sottolineato come il rapporto fra arte e femminismo – in particolare in Italia – sia stato complesso. È infatti molto variegato il modo con lui le arti, dal teatro di strada alla fotografia documentaria, sono stati strumento, voce, e luogo di “femminismi”.5 Nel solco degli studi recenti intorno ad arte e femminismo6 mi propongo in queste pagine di far emergere episodi chiave, dimenticati o sommersi, della presenza di voci femministe alla Biennale di Venezia che negli anni Settanta, in uno sforzo di aggiornamento del proprio format espositivo, si dimostrò aperta alle sollecitazioni dei movimenti sociali e politici di quegli anni. Il 1974 rappresenta qui il termine post quem per la ricostruzione di una genealogia del femminismo in Biennale, sebbene il femminismo in Italia emerga intorno al 1970, anno di pubblicazione del Manifesto di Rivolta femminile da cui si fanno canonicamente partire le vicende del movimento. Le motivazioni di questa scelta richiedono un piccolo excursus e risiedono nella storia specifica dell’istituzione. Dal 1895, anno in cui L’Esposizione Internazionale – questo il suo nome originale – venne fondata come una mostra d’arte, la Biennale ha dovuto, tra ritardi e accelerazioni, continuamente rinnovarsi rispondendo 3. Si veda ad esempio Jacopo Galiberti, Art against Housework, in «hotpotatoes», 17 maggio 2019. 4. Marta Seravalli, Arte e Femminismo a Roma negli anni Settanta, Roma, Biblink, 2013, p. 78. 5. Si vedano Paola Stelliferi, I femminismi dall’Unità d’Italia a oggi, in Storia delle donne nell’età contemporanea, a cura di Silvia Salvatici, Roma, Carocci, 2022, pp. 79107; Altri Femminismi. Corpi, violenza, riproduzione, culture, lavoro, a cura di Teresa Bertilotti, Cristina Galasso, Alessandro Gissi, Roma, manifestolibri, 2018; Elda Guerra, Una nuova soggettività: femminismo e femminismi nel passaggio degli anni settanta, in Il femminismo negli anni Settanta, a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Roma, Viella, 2005, pp. 25-68. 6. Fra gli studi recenti su arte e femminismo di ricordano ad esempio quelli di Cristina Casero, Jacopo Galimberti, Francesca Gallo, Laura Iamurri, Raffaella Perna, Marta Seravalli, Sabrina Spinazzè.

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alle necessità culturali del proprio tempo. Un «processo allomorfico»7 che l’ha vista nel corso del tempo modificare il suo assetto inserendo ad esempio dopo una decina d’anni dalla sua fondazione i padiglioni nazionali, o diventando dopo gli anni Trenta un’istituzione a controllo governativo e multidisciplinare. Nonostante i continui adattamenti e ripensamenti, alle soglie della rivoluzione culturale propagatasi con i venti del maggio 1968 la Biennale era un organismo culturale incancrenito, incapace – quand’anche c’erano mostre innovative – di registrare tempestivamente il nuovo.8 All’indomani del 1968 la Biennale di Venezia intraprese un processo di ripensamento radicale non solo del format espositivo ma anche della sua organizzazione statutaria che si concretizzò in un nuovo ordinamento (1973). Un aspetto per niente secondario che ha innervato le scelte del primo quadriennio (1974-1977) – sotto la presidenza di Carlo Ripa di Meana – che, non a torto, viene ricordato quale il periodo di più ampia sperimentazione mai vissuto dall’istituzione. L’intento era quello di trasformare la Biennale in un centro di produzione culturale permanente dedicato all’informazione e alla documentazione delle ricerche artistiche in atto, privilegiando una interconnessione fra i settori di arti visive e architettura, musica, teatro e cinema. Fu dunque nel contesto della rinnovata Biennale del 1974 che il femminismo irruppe in laguna attraverso la rassegna cinematografica Donne e Cinema e il teatro di Dacia Maraini. La presenza del femminismo in Biennale fu senz’altro d’impatto, eppure, negli anni successivi fino al 1978, dell’arte femminista non c’è quasi più traccia. Indagini in archivio hanno però fatto emergere un progetto non realizzato, Femminismo: una mostra internazionale che nasceva dalla collaborazione di curatrici europee e americane del calibro di Marcia Tucker e Linda Nochlin, che avrebbe dovuto esporre non solo l’opera di grandi artiste contemporanee ma anche i contributi storici e culturali del movimento femminista a partire dalle esperienze del suffragismo. Metterò ora in luce le motivazioni per cui questa mostra non venne realizzata e, nelle pagine che seguono, mi concentrerò su due mostre di 7. Clarissa Ricci, Aperto 1980-1993. La mostra dei giovani artisti della Biennale di Venezia, Milano, Postmedia Books, p. 12. 8. Per una trattazione della storia generale della Biennale di Venezia esistono a questa data unicamente raccolte divulgative spesso imprecise. Validi invece i numerosi saggi o trattazioni specifiche, ad esempio di Massimo De Sabbata, Nancy Jaquec, Maria Mimita Lamberti, Marla Stone e Giuliana Tomasella.

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sole donne della Biennale del 1978: Spazio aperto e Materializzazione del linguaggio. Furono due esposizioni molto diverse per contenuti e strategie, ma che aiutano a comprendere i diversi modi in cui venne perseguito lo stesso obbiettivo: il riconoscimento istituzionale delle donne artiste.9 2. 1974. Cinema e teatro femminista in Biennale Il 1974 fu dunque l’inizio di quella che venne soprannominata «la Nuova Biennale»10 e fu anche l’incipit per le partecipazioni a carattere femminista presso la Biennale di Venezia. Un fatto che Carlo Ripa di Meana ricorda con un certo orgoglio nelle sue memorie11 ma che, nonostante la grande copertura mediatica ricevuta al momento,12 è passato per lo più inosservato da parte degli storici dell’arte concentrati a rintracciare nei programmi del settore delle arti visive contributi di natura prettamente espositiva.13 Ma guardare alla Biennale degli anni Settanta implica che la si consideri nella sua multidisciplinarità. Sebbene la gestione delle proposte di ciascun settore rimanesse appannaggio dei vari direttori (Vittorio Gregotti per il settore arti visive e architettura, Luca Ronconi per il teatro e la musica, Dario Gambetti per il cinema), per il 1974 venne articolato un programma di eventi, mostre, proiezioni, spettacoli che si realizzò nell’arco di poco più di un mese. Pertanto, episodi a testimonianza delle lotte femministe in ambito culturale in laguna ci furono, ma non si trattò di esposizioni artistiche. Il primo infatti fu un programma di film intitolato Donne e Cinema.14 A causa del poco tempo a disposizione per l’organizzazione il program9. Per una ricognizione intorno alle vicende storiografiche del femminismo in Italia si veda il contributo della Società Italiana delle Storiche (SIS); in particolare Rosanna De Longis, Femminismo e ricerca storica dentro e fuori le istituzioni, in Uguaglianza/differenze. Riflessioni per Anna Rossi-Doria. Annale Irsifar, Milano, FrancoAngeli, 2013, pp. 61-72. 10. Questo appellativo si può rintracciare in tutti i documenti istituzionali dell’epoca. A titolo di esempio si veda il Convegno Internazionale sulla Nuova Biennale, in La Biennale di Venezia, Archivio Storico delle Arti Contemporanee (Asac), settore arti visive, fondo storico, b. 217. 11. Carlo Ripa di Meana, Le mie Biennali, 1974-1978, Milano, Skira, 2018. 12. Annuario 1975, Eventi 1974, Venezia, La Biennale di Venezia, 1975, pp. 496-502. 13. Fa eccezione una breve notazione nella lista degli eventi realizzati in Stefania Portinari, Anni settanta. La Biennale di Venezia, Venezia, Marsilio Editore, 2018, p. 239 e p. 242. 14. Non è chiaro chi operò la selezione dei film in programma. Dalla stampa si evince il nome di Esta Marshall - organizzatrice di altri festival negli Stati Uniti - e il contributo

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ma si concentrò genericamente sul rapporto donna e società nel cinema italiano e internazionale aprendo quindi anche alle tematiche femministe, ma non facendone il nodo centrale. Eppure le organizzatrici intesero avvalersi «esclusivamente di films fatti da donne, secondo un’indicazione dei movimenti femministi che hanno organizzato dei festivals a New York, Lione e Parigi».15 Donne e cinema aveva lo scopo dunque di cominciare una riflessione proponendo un filone di ricerca che si intendeva continuare in futuro.16 La programmazione comprendeva tanto lungometraggi quanto i primi film prodotti dal movimento femminista italiano. Il cinema infatti –  nsieme alla parola scritta in forma di documenti, volantini e bollettini – diventò in quegli anni un potente strumento di denuncia e autocoscienza che i collettivi favorivano anche attraverso una rete per l’affitto delle pellicole.17 Fra i film proiettati si ricordano ad esempio L’aggettivo donna (1971) considerato il manifesto del Collettivo Femminista Cinema - Roma,18 Siamo tante, siamo donne, siamo stufe (1974), prodotto dal gruppo di Lotta femminista di Milano,19 o Pianeta Venere (1972) di Elda Tattoli, che fu riproposto per la seconda volta a Venezia ma nella cornice di una Biennale rinnovata riscosse particolare interesse.20 Molte anche le presenze internazionali tra cui Agnès Varda con Le Bonheur (1965) che anticipa nel suo quadro di alienazione domestica e sottomissione della protagonista molti temi poi sviluppati dal femminismo pochi anni dopo,21 «delle iscritte all’ Udi», si veda Natalia Aspesi, Sullo schermo finalmente compare una donna vera, in «Il Giorno», Milano 23 ottobre, 1974. 15. Donne e cinema, Venezia, La Biennale di Venezia, 1974, p. 2. 16. Ibidem. 17. Si veda in questo volume il capitolo di Dalila Missero. 18. Il film fu il saggio con cui Rony Daopoulo si diplomò presso il Centro Sperimentale di Cinematografia realizzato con Annabella Miscuglio. Si veda Christian Uva, L’immagine politica: Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia, Udine, Mimesis, 2015. 19. L’audiovisivo intitolato Siamo tante, siamo donne, siamo stufe!, venne realizzato da Chiara Gamba, Franca Geri, Adriana Monti, Grazia Zerman del Gruppo Femminista Milanese per il Salario al Lavoro Domestico. Si veda anche la pubblicazione a cura delle autrici pubblicato nel 1975 e disponibile online http://www.femminismo-ruggente.it/femminismo/pdf/libri/siamo_stufe.pdf. 20. Callisto Cosulich, Il film “femminista’ della Tattoli. Un “pianeta” senza orbita, in «Paese Sera», 23 ottobre 1974. 21. Agnès Varda. Interviews, a cura di Thomas Jefferson Kline, Jackson, University Press of Mississippi, 2014, oltre che Mariarosa Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, Venezia, Marsilio, 1972.

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Wanda (1970) l’unico film di Barbara Loden o il documentario francese sull’aborto Histoire d’A (1974) diretto da Charles Belmont e Marielle Issartel. La rassegna infatti pose le basi per festival cinematografici quali Kinomata (1976-1977) organizzato dal Collettivo Femminista Cinematografico o la Rassegna del cinema femminista (1977) organizzato dal collettivo Le Nemesiache.22 Donne e Cinema fu un evento importante per la presenza del femminismo in Biennale non soltanto in termini cronologici ma anche per i lunghi dibattiti23 che si svolsero alla fine delle proiezioni con la partecipazione di diversi gruppi che parevano mettere da parte «il cinema per fare femminismo».24 Fu Natalia Aspesi sulle pagine del «Giorno» a farne un lucido bilancio: Per quanto generica e improvvisata, per quanto mai abbastanza militante e provocatoria […] questa sezione della Biennale con i suoi documentari di intervento e i suoi film di impianto tradizionale è riuscita a mostrare quello che nel cinema non si vede mai: la verità della faccia, del corpo della donna.25

A fare la parte del leone nei reportage dei media fu Dacia Maraini apostrofata come la «signora del femminismo».26 Pressappoco in contemporanea alle proiezioni cinematografiche si tenne, nell’ambito della rassegna del teatro di agitazione, la commedia satirica scritta e diretta da Maraini, La Donna Perfetta.27 Lo spettacolo, parte di quel teatro militante delle donne che muoveva dalla necessità di riscrivere i personaggi femminili,28 racconta la storia di Nina che muore a seguito di un aborto clandestino. 22. Si veda il saggio di Dalila Missero in questo volume. 23. I film vennero mostrati il 19-24 ottobre presso il Tendone in campo S. Polo, 10-16 novembre presso tendone in piazza Candiani e 12-18 novembre presso il Palazzo del Cinema al Lido, si veda Donne e cinema, pp. 2-3. 24. Aspesi, Sullo schermo finalmente compare una donna vera. 25. Ibidem. 26. Mariella Gramaglia, Le signore cadono, in «il manifesto», 27 ottobre 1974. 27. La regia era di Dacia Maraini e Annabella Cerliani. Le repliche si tennero dal 15 al 20 ottobre 1974 in varie sedi. Per il riferimento al teatro di agitazione in Maraini si veda Maria Grazia Sumeli Weinberg, Dacia Maraini e il teatro femminista come modello di trasgressione, in «Italian Studies in Southern Africa», 3 (1990), pp. 20-31. 28. Francesca Fava, Donne di teatro a Roma ai tempi della mobilitazione femminista (1965-1985), in Fonti orali e teatro. Memoria, storia, performance, a cura di Donatella Orecchia e Livia Cavaglieri, Bologna, Dipartimento delle Arti e ALMADL, 2018, pp. 146-152.

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Maraini, che con l’opera teatrale Manifesto dal carcere (1969)29 aveva dato avvio al suo impegno politico e sociale nel clima del decentramento a Centocelle, fu anche attiva animatrice del centro culturale La Maddalena fondato verso la fine del 1973.30 E proprio grazie alla collaborazione con il centro culturale romano Maraini accompagnò lo spettacolo con iniziative di animazione popolare e dibattiti (figg. 1-2).31 La stampa nazionale reagì in vario modo alle iniziative di un «femminismo rosa-schocking»32 facendo eco alle polemiche suscitate dall’omelia del Patriarca di Venezia cardinale Luciani in risposta allo spettacolo della Maraini.33 Nonostante la grande attenzione mediatica, questi eventi hanno lasciato poche tracce. Per quanto sia possibile additare la settorializzazione accademica per non averne fatto memoria, si trattò in fondo di pochi episodi avvenuti in anni in cui la commistione tra teatro e politica era al contrario molto intensa.34 Si pensi alle performance di piazza che, fin dai primi anni Settanta, venivano messe in scena come forme di azione politica e che poi sarebbero diventate una caratteristica delle proteste del movimento del ’77.35 29. Sul teatro di Dacia Maraini si veda Claudia Messina, Scrittrici del Rinascimento: il teatro di Dacia Maraini, in La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena, a cura Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Paola Pecci, Ester Pietrobon e Franco Tomasi, Roma, Adi editore, 2014, pp. 1-15; Dacia Maraini, Fare Teatro. 1966-2000, Milano, Rizzoli, 2000. 30. Le firmatarie del collettivo La Maddalena erano Maria Clara Boggio, Edith Bruck Risi, Saviana Scalfi, Maria Cristina Mascitelli, Annabella Cerliani, Anna Maria Leone, Giuliana Sacchetti e Dacia Maraini. Si veda Paola Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei collettivi di quartiere, Bologna, Bononia University Press, 2015, pp. 49-52. Si veda anche il recente Dacia Maraini. Per un nuovo lessico della letteratura e del teatro, a cura di Laura Fortini, Roma, Viella, 2023. 31. Nell’Annuario sono presenti le foto (Annuario 1975, Eventi 1974, pp. 369-371), le trascrizioni dei dibattiti (ivi, pp. 496-502) e le reazioni della stampa (ivi, pp. 574-588). 32. Grazia Gaspari, A Venezia un femminismo rosa-schocking, in «il manifesto», 27 ottobre 1974. 33. L’omelia pronunciata dal Card. Patriarca di Venezia Albino Luciani il 2 novembre 1974 nella Basilica di S. Marco venne poi pubblicata da «L’Osservatore Romano », 6 novembre 1974. 34. Si veda oltre a Orecchia e Cavaglieri, Fonti orali e teatro, anche Mirka Pulga, Donne in scena. Il teatro femminista della Maddalena negli anni settanta, Roma, Aracne, 2020. 35. Alfredo Ronchetta, Ferdinanda Vigliani, Alberto Salz, Giubilate il teatro di strada: manuale per fare e disfare un teatro politico d’occasione, Torino, Cooperativa editoriale Studio forma, 1976.

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Si può però considerare anche un’altra causa: una scarsa politicizzazione femminista delle artiste visuali nei primi anni Settanta che possiamo ipotizzare sia stata anche influenzata dalla posizione radicale di Carla Lonzi.36 Infine, va notato che il settore delle arti visive e dell’architettura della Biennale del 197437 – seppure associato al memorabile intervento di Sebastian Matta con i suoi murales in Libertà del Cile – fu in realtà dominato dal dibattito sul problema degli spazi a Venezia. Inoltre vi furono numerose difficoltà organizzative: i direttori dei vari settori, nominati soltanto nell’estate del 1974, ebbero «34 giorni per organizzare un programma di eventi della durata di 44 giorni».38 Ma il desiderio di portare avanti i progetti iniziati c’era e nella programmazione del biennio 1975-1976 venne messa a budget una mostra sul femminismo. 3. Femminismo: una mostra mai realizzata All’inizio del 1975, sulla linea tracciata dagli interventi dell’anno precedente volti a una revisione del rapporto fra arte e società, Ripa di Meana si mosse in direzione di una programmazione di più ampio respiro da svolgersi nell’arco del biennio 1975-1976. Ed è nei preventivi di spesa per gli eventi di questo arco temporale che si trova anche una mostra sul femminismo.39 La progettazione cominciò a febbraio del 1975 con una lettera inviata a Charlotte Christensen (curatrice presso Museo di Arte Moderna ad Aarhus in Danimarca) in cui le veniva chiesto di riprendere 36. Si veda Marta Seravalli, Separare l’arte. La militanza come strumento di lettura dei rapporti tra le artiste e il femminismo degli anni Settanta in Arte fuori dall’arte. Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta, a cura di Cristina Casero, Elena Di Raddo e Francesca Gallo, Milano, Postmedia Books, 2017. Su Lonzi si veda Laura Iamurri, Un margine che sfugge. Carla Lonzi e l’arte in Italia 1955-1970, Macerata, Quodlibet, 2015. 37. Dal 1974 al 1979 il settore delle arti visive e architettura sono uniti, fino alla creazione di un settore autonomo di architettura che viene inaugurato nel 1980 sotto la direzione di Paolo Portoghesi, si veda Lea Catherine Szazka, Exhibiting the Postmodern. The 1980 Venice Architecture Biennale, Venezia, Marsilio, 2016. 38. Relazione di Carlo Ripa di Mena, in Annuario 1975 Eventi 1974, p. 10. 39. Si veda la documentazione sul femminismo in Asac, arti visive, fondo storico, b. 282.

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i contatti e verificare la disponibilità delle artiste in vista della realizzazione di una mostra sul femminismo che la stessa aveva proposto l’anno precedente.40 L’incarico era di organizzare una mostra sul femminismo per il 1976 da farsi al padiglione centrale ai Giardini. Christensen, pur mantenendo inizialmente un ruolo di coordinamento, indicò a Franco Raggi, segretario della Biennale di Venezia, la sua collega negli Stati Uniti Elena Borstein (artista e membro del Women’s Collective) quale referente del progetto.41 A poco a poco la mostra raggruppò le protagoniste del femminismo americano. Durante il viaggio negli Stati Uniti Raggi, che per conto di Gregotti e Ripa di Meana gestiva i contatti con artisti e curatori, coinvolse Marcia Tucker (allora curatrice al Whitney Museum) la quale con slancio coinvolse a sua volta nel progetto Lucy Lippard, Linda Nochlin e Judy Chicago.42 In quell’occasione, a causa di ritardi nella corrispondenza, Raggi non riuscì a incontrare Borstein. Tuttavia, sappiamo che Tucker, Lippard e Borstein nel settembre 1975 si riunirono per mettere a punto l’esposizione e, aggiornando via posta Raggi, scrissero: «ci siamo incontrate» e «siamo entusiaste».43 È a questa fase che risale il documento più completo della mostra genericamente intitolata Femminismo (fig. 3). Nel documento Charlotte Christensen44 risulta referente e coordinatrice generale mentre Marcia Tucker, Linda Nochlin (che in altre versioni del progetto viene sostituita da Lucy Lippard) quali responsabili della sezione americana. Per quanto riguarda le curatrici della selezione in Europa i nomi appaiono ancora in via di definizione ma venne segnalato il coinvolgimento del collettivo di 40. Nella lettera si fa riferimento anche a una mostra sull’Anarchia. Lettera di Vittorio Gregotti e Franco Raggi a Charlotte Christensen, 5 febbraio 1974, in Asac, arti visive, fondo storico, b. 282. 41. Negli archivi non è conservata la lettera di risposta di Christensn ma si deduce questo dalla lettera di Franco Raggi a Elena Borstein del 6 giugno 1975, in Asac, arti visive, fondo storico, b. 282. 42. Inizialmente Marcia Tucker coinvolge nasce Judy Chicago che però nei progetti successivi appare fra le artiste selezionate e non fra le organizzatrici del progetto. 43. Lettera di Elena Borstein a Franco Raggi 20 ottobre 1975, in Asac, arti visive, fondo storico, b. 282. 44. La presenza di Christensen come coordinatrice fa immaginare che siano continuati scambi di idee sulla mostra anche se a questa data non è stata rinvenuta altra documentazione a supporto di questa ipotesi.

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Amsterdam The Crazy Women e una rappresentante del gruppo cinematografico francese Aurore.45 Il progetto, probabilmente modellato sulla falsariga di quello presentato nel 1974 da Christensen, prevedeva come incipit una mostra storica che avrebbe preso le mosse dalle suffragette fino ad arrivare al Women’s Liberation movement.46 Obiettivo di questa parte della mostra era mettere a tema il ruolo e le rappresentazioni della donna in vari contesti, come ad esempio la virilizzazione come strumento di riscatto sociale, la donna nell’immagine convenzionale della cultura maschile (sessualità-domesticità), gli archetipi Madonna-madre, o il consumo dell’immagine femminile nell’arte da Goya a Cecil Beaton. Una seconda sezione invece intendeva mostrare «la donna oggi» attraverso un’esposizione fotografica (Come una donna vede le donne: Diane Arbus). Inoltre si immaginava la presenza delle cooperative di artiste, sia da New York che dalla California, selezionate da Elena Borstein che si sarebbe anche occupata delle performance. Ad accompagnare la mostra era anche prevista una sezione teatrale a cura di Ingrid Nycboc; una sezione cinematografica a cura, ipoteticamente, di Jenni Pozzi; e un seminario a cui s’intendeva far partecipare «le vecchie rivoluzionarie» del «Women’s Lib». Infine, oltre alle opere di artiste di maggior rilievo come Georgia O’Keefe, Nevelson, Frankenthole, Bontecore, Yvonne Paine, Germaine Rickier, Marisol, si ipotizzò anche la ricostruzione della grande installazione Hon/Elle (1966) realizzata da Niky de Saint-Phalle per il Moderna Museet di Stoccolma. Il catalogo sarebbe dovuto essere a cura di Linda Nochlin e Marcia Tucker e includere anche una presa di posizione delle singole artiste partecipanti rispetto a un mondo artistico dominato dagli uomini. Non si trattava dunque di una mostra di donne; bensì di una mostra sulle forme di espressione e sull’agency femminile. Un aspetto questo estremamente rilevante che avrebbe potuto fare di Femminismo uno strumento di valorizzazione 45. Si è scelto qui di raccontare la versione del progetto più dettagliata fra quelle rinvenute in archivio. Per le varie versioni del progetto si veda Asac arti visive, fondo storico, b. 282. 46. Abbreviato in questo modo nel progetto, si intende qui il Women’s Liberation Movement fondato in America alla fine degli anni Sessanta e impegnato in campagne sociali e politiche per il riconoscimento dei diritti delle donne. Numerosi documenti del movimento sono raccolti presso la Duke Library: https://repository.duke.edu/dc/wlmpc; si veda anche Rosalyn Baxandall e Linda Gordon, Dear Sisters: Dispatches From The Women’s Liberation Movement, New York, Basic Books, 2001.

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non solo dell’opera delle artiste ma anche del movimento femminista tratteggiando una genealogia ricca di sfaccettature, accezioni e sviluppi che avrebbe collocato la mostra nel solco aperto da Linda Nochlin nel 1971 con il suo celebre saggio: Why Have There been No Great Women Artists?47 Era una convinzione condivisa che per il riconoscimento delle donne fosse un momento fervido. Proprio in quel momento Linda Nochlin, insieme ad Ann Sutherland Harris, stava concependo Women artists 1550195048 una mostra miliare che avrebbe portato alla ribalta la produzione artistica di quattro secoli di storia dell’arte, mentre Lucy Lippard raccoglieva i suoi scritti in From the Center. Feminist Essays on Women’s Art.49 Come mostrano le lettere inviate a Raggi, Lippard, Tucker e Borstein erano consce dell’interesse maturato negli ultimi cinque anni e di quale opportunità fosse poter realizzare una tale mostra in Biennale. Spiegarono a Raggi che le artiste donne non venivano più considerate come aggiuntive agli uomini ma una forza in sé, e a sostegno di queste affermazioni citarono anche la prima conferenza delle Nazioni Unite sulle donne in Messico in concomitanza con l’Anno internazionale della donna del 1975 (The Year of Women)50 e segnalarono inoltre come – in scala minore – si stessero organizzando esposizioni importanti anche a Washington alla Corcoran Gallery51 e in Europa la mostra itinerante The Liberation -14 Women Artist in cui era coinvolta Borstein come artista partecipante.52 47. Si veda oltre che Linda Nochlin, Why have there been no great women artists?, in «ARTnews», gennaio 1971, anche Griselda Pollock, Rozsika Parker, Framing Feminism: Art & the Women’s Movement 1970-85, London, Pandora, 1987; Griselda Pollock, Vision and Difference: Femininity, Feminism, and Histories of Art, London, Routledge, 1987. 48. La mostra si tenne al Los Angeles County Museum della California (1976). Dopo questa prima tappa la mostra si propose in altre tre città fino al mese di novembre 1977 (University Art Museum, Austin, Texas; Carnegie Museum of Art, Pittsburgh, Pennsylvania; Brooklyn Museum, Brooklyn, New York). 49. Lucy R. Lippard, From the Center. Feminist Essays on Women’s Art, New York, E. P. Dutton & co, 1976. 50. Per i principali punti di lavoro e documenti relativi al World Conference of the International Women’s Year (19 giugno-2 luglio 1975, Mexico City). 51. La vitalità del momento a Washington è sottolineata anche dall’apertura del The Washington Women’s Arts Center (WWAC) nel 1975. Sullo scenario di New York invece si veda Alternative Art, New York, 1965-1985: A Cultural Politics Book for the Social Text Collective, a cura di Julie Ault, New York, Minnesota Press, 2002. 52. La mostra venne organizzata su iniziativa del Kunstmuseum ad Aahrus in Danimarca, dove appunto era di stanza Christensen. Fra le artiste partecipanti si ricordano inol-

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Che ci fosse realmente la volontà di procedere con Femminismo è ratificato dal modo in cui fu organizzato il progetto in forma di scheda sintetica da presentare al consiglio direttivo per l’approvazione dei fondi, in cui sono chiaramente indicate le date (15 agosto - 20 settembre 1976), la location (metà della superficie del padiglione centrale) e il budget (33.000 lire). Nonostante questo sforzo di compiutezza, a ben guardare la mostra appare come una collazione, operata probabilmente da Ripa di Meana o Raggi stesso, sulla base delle conversazioni o bozze di progetto ricevute da Christensen, Borstein e Tucker. Cosa causò, dunque, l’impasse organizzativa? L’ipotesi più accreditabile guarda all’impostazione e il tema centrale della Biennale per il 1976 che inizialmente sarebbe dovuto essere improntato a quello della “visione dell’emarginazione”. La mostra Femminismo aveva infatti come sottotitolo: La donna come produttrice di una cultura emarginata (isolata). Il tema generale però fu cambiato in corso d’opera e rimodellato intorno a quello dell’ambiente che, pur avendo dato poi spazio a mostre memorabili come quella di Ambiente/Arte a cura di Germano Celant, lasciò le tematiche del femminismo ai margini. Il taglio specifico di Femminismo, insieme alle innegabili difficoltà di comunicazione fra la Biennale e le femministe a New York, fu dunque tra le cause di un progressivo disinteresse o impossibilità di procedere da parte della Biennale. Alla ripresa dei contatti con Borstein nel 1976, la mostra sulle donne viene posticipata al 1977 e l’unico aggiornamento presente nella lettera di Raggi alle americane fu l’aggiunta di una terza sezione volta a presentare materiale proveniente da altre aree geografiche curata da un gruppo di critici/critiche italiane.53 In risposta a questo ulteriore slittamento Borstein scrisse una lettera accorata sulla necessità di una «Woman’s Exhibit» riferendo inoltre sconcerto e rabbia da parte di Lippard e Tucker. Dopo questo documento, del progetto non vi è più traccia.54 Complice della mancata realizzazione del progetto fu però, senz’altro, anche il sistema organizzativo della Biennale di quegli anni in cui tre Lynda Benglis, Lee Bontecou, Rebecca Davenport, Janet Fish, Nancy Graves, Harriet Karman Susan Weil, Jaqueline Winsor. 53. Nella lettera di Raggi a Borstein, Lippard e Tucker non vengono date ulteriori dettagli circa la terza sezione. 54. Lettera di Elena Borstein a Franco Raggi, 22 maggio 1976, in Asac arti visive, fondo storico, b. 282.

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«si lavorava a progetto e tutto poteva succedere».55 Se questo da una parte diede ai direttori e al presidente grande margine di libertà e sperimentazione, dall’altra la grande quantità di eventi, il budget ridotto a disposizione, la necessità di attendere la ratifica del consiglio direttivo per procedere (oltre alle lentezza della comunicazione transatlantica), fecero di quel periodo anche un momento convulso in cui alcuni progetti si arenarono. 4. Le donne dello Spazio aperto Nel 1977 la Biennale incentrò le proprie attività intorno al tema del “dissenso”, una scelta controversa che comportò polemiche e incidenti diplomatici. Nel fitto programma degli eventi la presenza dell’arte delle donne e del femminismo fu marginale.56 Infatti nonostante le buone intenzioni del 1974, si dovette attendere il 1978 per una nuova Biennale aperta al femminismo e alla produzione artistica delle donne. Eppure, l’assenza della voce del femminismo in una manifestazione che faceva perno, nel 1977, proprio su espressioni di dissenso rispetto alla cultura dominante, fu stridente. Un fatto che emerse chiaramente nel convegno di dicembre “Verifiche di un quadriennio - Riflessioni per il futuro”57 che intendeva trarre un bilancio delle attività dell’istituzione del primo quadriennio (1974-1977) attraverso un confronto pubblico. Fra gli aspetti da migliorare Ripa di Meana nel suo intervento dichiarò che: le linee programmatiche della Biennale accusano, alla luce dei recenti grandi cambiamenti sociali, carenze di rilievo come, ad esempio, l’assenza delle problematiche del femminismo all’interno del dibattito culturale promosso 55. Intervista di Franco Raggi con l’autrice, 15 settembre 2022. 56. Si ricordano la presentazione di Lia Secci sul dissenso delle donne nella letteratura tedesca e la partecipazione di Federica di Castro e Mirella Bentivoglio al convegno in occasione della mostra La nuova arte sovietica: una prospettiva non ufficiale, curata da Gabriella Moncada ed Enrico Crispolti che si tenne il 4 dicembre 1977, in Asac arti visive, fondo storico, b. 282. 57. Verifiche di un quadriennio – Riflessioni per il futuro, in Biennale di Venezia. Annuario 1978, a cura dell’Archivio storico delle arti contemporanee, Venezia, La Biennale di Venezia, 1979. Il convegno si tenne a Venezia dal 16 al 18 dicembre 1977 e fu organizzato da Massimo Andrioli, Pier Domenico Bonomo, Enzo Scotto Lavina.

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dall’ente, assenza che va di pari passo con l’assenza di donne in seno al Consiglio e alle varie commissioni.58

Gli fecero eco unicamente Lia Secci che nel suo intervento si soffermò sul tema dell’emancipazione femminile come uno dei possibili temi dell’impegno civile della Biennale, e Graziella Pagliano Urbani che sottolineò come non bastasse immettere rappresentanti femminili nel Consiglio per sentirsi a posto con la coscienza.59 In vista del convegno “Verifiche” Federica Di Castro, Lia Secci, Annamaria Sorteni e Riccarda Pagnozzato, in quanto costituendo gruppo operativo femminista di Venezia, avevano infatti scritto un appello60 in cui mettevano in luce la necessità di considerare le nuove proposte e domande culturali del movimento femminista internazionale, aprendo la struttura della Biennale ad una partecipazione più equa e democratica sia a livello decisionale che documentario della nuova cultura femminile.61 La dichiarazione di Ripa di Meana fu dunque un impegno pubblico che si concretizzò da un lato nella commissione di una mostra a Mirella Bentivoglio62 e dall’altro si dichiarò disposto ad ascoltare proposte e progetti che gli arrivarono. E fu proprio in risposta a questo impegno che il 6 aprile 1978 Ripa di Meana ricevette da parte del Gruppo femminista Immagine di Varese la richiesta di partecipare alla Biennale. In allegato c’era il documento sintetico Vogliamo Vo(g)liamo frutto delle riflessioni svoltesi durante il primo convegno di operatrici visuali Donna-Arte-Società realizzato insieme al sindacato Arti Visive di Milano qualche mese prima.63 Questa azione, dichiararono le artiste del gruppo Silvia Cibaldi, Milli Gandini, Clemen 58. Ivi, p. 638 59. Ivi, p. 644. 60. Federica Di Castro, L’idea espansa. Un percorso critico nell’arte del Novecento, Macerata, Quodlibet, 2013. 61. Si veda anche l’appello Proposte per la partecipazione femminile alla Biennale al Presidente e al Consiglio direttivo della Biennale firmato da Federica di Castro, Lia Secci, Annamaria Sorteni, Riccarda Pagnozzato per il costituendo gruppo operativo di Venezia, in Asac, arti visive, fondo storico, b. 298. 62. Mirella Bentivoglio, I segni del femminile in Poesia visiva. La donazione di Mirella Bentivoglio al Mart, a cura di Daniela Ferrari, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2011, p. 16. 63. Il convegno Donna-Arte-Società, venne realizzato a Milano presso lo Spazio Formentini il 14-15 gennaio 1978. Si veda Milli Gandini, Mariuccia Secol, La mamma è uscita. Una storia di arte e femminismo, Roma, DeriveApprodi, 2021, pp. 49-53.

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Parrocchetti, Mariuccia Secol e Mariagrazia Sironi, arrivava dopo anni di militanza caratterizzati dalla cessazione di attività propriamente artistiche sostenendo una «creatività del rifiuto, rifiuto da una parte del ruolo di madre e moglie e dall’altra di ogni discorso di corrente artistica, delle gallerie, del mercato privato, di opera che non fosse contenutistica della lotta».64 Aveva prevalso in questa auto-candidatura la necessità di inserirsi ed essere riconosciute a livello istituzionale, un passaggio che le artiste, nel documento, riconoscono come obbligato: «senza l’emancipazione non è possibile essere veramente libere».65 Di lì a poco il via libera, e in linea con il tema generale della Biennale di quell’anno, “arte e natura”,66 il gruppo Immagine propose un lavoro collettivo: Dalla creatività femminile come maternità-natura al controllo-ricerca della natura.67 Il progetto era strutturato come un’installazione divisa in due tempi che articolava la dialettica tra i due termini “arte” e “natura”. Se la prima parte dello spazio era dedicata alla natura riprodotta e ridotta a immagine, nelle fotografie sulle fasi lunari, la seconda si raccoglieva intorno ad uno specchio d’acqua sopra il quale, appesi erano gli arazzi realizzati dalle artiste. Gli arazzi, che tradizionalmente hanno rappresentato per le donne un lungo lavoro manuale per via dei piccoli punti, sono qui lavorati in modo da fare a meno del ricamo.68 Una modalità che le artiste avevano già adottato precedentemente – in linea con la lotta nell’ambito dei Gruppi per il salario al lavoro domestico,69 contro lo stereotipo del lavoro domestico femminile considerato “naturale” – amplificandola qui nello specchio “naturale” al di sotto delle opere (figg. 4-5-6). Il quinto salone dei Magazzini del Sale messo a disposizione dalla Biennale per la mostra appariva però troppo grande per la tipologia di lavoro che le artiste di Varese intendevano presentare, di qui la proposta di coinvolgere anche il Gruppo Donne/Immagine/Creatività di Napoli com64. Gandini, Secol, La mamma è uscita, p. 51. 65. Ibidem. 66. La Biennale di Venezia 1978, Dalla Natura all’Arte, Dall’Arte alla Natura, Venezia, La Biennale di Venezia, 1978. 67. Il progetto presentato a Carlo Ripa di Meana è datato 15 maggio 1978 e include piante dell’allestimento presso il quinto salone dei Magazzini del Sale alle Zattere. 68. La mamma è uscita, in «Le operaie della casa», novembre 1975 - febbraio 1976. 69. Si veda a questo scopo un testo di riferimento per le femministe impegnate soprattutto nella rivendicazione del lavoro domestico Mariarosa Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, Padova, Marsilio, 1972; la rivista bimestrale dell’autonomia femminista «Le operaie della casa».

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posto da Rosa Panaro, Mathelda Balatresi, Antonietta Casiello e Mimma Sardella.70 Interessante sottolineare che il gruppo si costituì proprio al rientro da un viaggio a Venezia per visitare le esposizioni della Biennale del 1976 sull’onda dell’insoddisfazione per la marginalizzazione percepita nel sistema dell’arte. L’opera delle artiste napoletane, dal titolo Dalla donna alla donna passando per il cielo, consisteva nella riproposizione dell’azione-proposta Vaso di Pandora (fig. 7) che il gruppo aveva già iniziato nel 1977 con l’intento di rovesciare la subalternità della donna attraverso un nuovo modo di operare nel sociale.71 Raggruppate sotto il titolo univoco di Spazio aperto le due mostre inaugurarono a giugno in contemporanea con la mostra centrale ai Giardini, segnando il primo episodio di mostra femminista in Biennale oltre che un tentativo concreto dell’istituzione di rispondere alla richiesta di equità. L’idea di creare una sezione aperta nacque, infatti, in seno alla commissione italiana per le arti visive della Biennale (fig. 8). Pertanto le mostre furono strumentali all’individuazione di uno “spazio aperto” a tematiche politiche con particolare attenzione alle questioni femminili. Il progetto venne raccolto immediatamente dalle femministe che redassero un secondo appello in cui chiedevano che uno spazio del genere potesse essere mantenuto.72 A tal proposito nel catalogo scrissero: Spazio aperto? perchè no […] Spazio aperto e non subito rinchiuso, ritagliato a noi per difendere un falso privilegio, ma spazio aperto, concavo, profondamente sole come la vagina. Questa scena è delle donne e vi si muoveranno da protagoniste. Tutte.73

Il catalogo introdotto da Francesca di Castro che già nel 1975 si era espressa sulle pagine di «Effe» a favore dell’entrata del soggetto femminile 70. Stefano Taccone, La donna ha la testa troppo piccola per l’intelletto ma sufficiente per l’amore. Gruppi Femministi a Napoli, in «hotpotatoes», 19 dicembre 2021; Id., La cooperazione dell’arte, Napoli, Edizioni lod, 2020. 71. Circa il Vaso di Pandora si veda oltre al già citato Taccone, anche Maria Teresa Ferrara, Abbiamo avuto voglia di volare. Il Gruppo Femminista Immagine e il Gruppo Donne/Immagine/Creatività alla Biennale di Venezia del 1978, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, 2019-2020. 72. Secondo appello al Presidente e al Consiglio direttivo della Biennale firmato da Federica di Castro, Lia Secci, Annamaria Sortani, Riccarda Pagnozzo per il costituendo gruppo operativo di Venezia, in Asac, arti visive, fondo storico, b. 298. 73. Spazio aperto, Venezia, La Biennale di Venezia, 1978, p. 22.

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nei centri di potere culturali,74 si chiude con l’annuncio di un seminario aperto dal titolo La professionalità della donna nell’arte.75 In programma per settembre 1978, l’incontro prevedeva la partecipazione di figure internazionali come Kate Millet e Simone De Beauvoir, oltre a quella di altre personalità quali Dacia Maraini, Daniela Colombo Direttrice di «Effe» e Lea Vergine. Nei primi appunti intorno a Spazio aperto, il presidente incluse Materializzazione del linguaggio che si sarebbe svolta in autunno e una rassegna di film e perfomances curata da Vittorio Fagone.76 Inoltre Ripa di Meana cercò di arricchire il programma con una mostra di femministe “romane” proposta da Wanda Raheli dal titolo La follia del quotidiano. Dal progetto si evince che l’esposizione avrebbe messo a tema la sfera della quotidianità femminile che, intesa come memoria conscia o inconscia di qualunque donna, viene utilizzata da molte artiste in modo ribaltato, “impazzito” riattribuendole nuovi valori semantici.77 5. Il posizionamento di Materializzazione del linguaggio L’intenzione di collocare sotto lo stesso tetto mostre di artiste donne raggruppandole sotto l’etichetta di Spazio aperto trovò però la ferma opposizione di Mirella Bentivoglio, che scrisse a Gregotti che realizzare una terza mostra femminile ai Magazzini del Sale sarebbe stato controproducente rispetto alla causa di dare testimonianza della presenza operativa femminile, perché 74. Federica Di Castro, Le arti visive, in «Effe», 3/3 (1975). Sull’intervento intorno alla creatività di Federica di Castro si veda anche Seravalli, Arte e femminismo a Roma, pp. 33-34. 75. Nella catalogo si fa riferimento in particolare alla proiezione dell’audiovisivo Le vesti violente dalla veste bianca alla veste nera: condizionamenti sacri e profani nella vita delle donne dal matrimonio alla morte (1978) coordinato da Annamaria Sorteni da un’idea di Riccarda Pagnozzato insieme a Lilia Dattilo, Paola Cavallin, Mary Franco-Lao, Margherita Hofer e Anna Sapuppo. Diverse versioni del programma del seminario sono stata rinvenute in Asac, arti visive, fondo storico, b. 292. 76. La rassegna, successivamente intitolata Arte e Cinema, opere storiche, documenti e materiali attuali (1916-1978) si tenne a Ca’ Corner della Regina (2-13 luglio 1978). 77. La mostra, ipotizzata tra il 20 agosto e 15 settembre 1978, avrebbe dovuto includere opere oltre che della stessa Raheli anche di Lilly Romanelli, Marisa Busanel, Silvia Maglione, Maria Grazia Bertacci, Verita Monselles e Dacia Maraini, in Asac, arti visive, fondo storico, b. 292.

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finirebbe per connotare quello spazio nell’ambito della Biennale 78 come ghetto. Se quello spazio deve venire utilizzato nel periodo tra le due mostre femminili, non pensa sia opportuno realizzare manifestazioni di altro tipo affinché lo spazio risulti veramente “aperto” come vuole il suo nome?78

Le rimostranze di Bentivoglio vennero tenute in conto e alla fine di luglio la terza mostra al femminile di Wanda Raheli venne cancellata.79 L’opposizione di Mirella Bentivoglio ad uno spazio connotato in senso femminista venne perseguita a molti livelli. Da un lato facendo inserire Materializzazione nel programma nella categoria “mostre speciali” e dall’altro cancellando dal catalogo la dicitura “spazio aperto”. Come rivela il fronte di una delle prime edizioni del catalogo, Materializzazione sembra fare parte di Spazio aperto. Alla terza ristampa però, insieme ad alcune correzioni e traduzioni, venne emendata anche la copertina facendo sparire la dicitura. Gli emendamenti sono anche sintomo della precisione e cura che Bentivoglio era solita mettere nel progettare ogni minimo dettaglio, anche relativo all’allestimento (fig. 9).80 In particolare per il catalogo ella pensò ad una modalità che desse spazio anzitutto alla vita professionale delle ottanta artiste in mostra.81 Ad esclusione di alcuni brevi contributi, il catalogo si struttura 78. Lettera di Mirella Bentivoglio a Vittorio Gregotti, 9 luglio 1978, in Asac, arti visive, fondo storico, b. 292. 79. Lettera di Ripa di Meana a Wanda Raheli e Franco Rocella, 28 luglio 1978, in Asac, arti visive, fondo storico, b. 292. 80. La mostra includeva anche opere performative che si svolsero tra il 20 e il 23 settembre con interventi di Chima Sunada, Betty Danon, Patrizia Vicinelli, Giulia Niccolai, Paula Claire, Anna Paci, Gisela Frankenberg, Marguerite Pinney e Mirella Bentivoglio. 81. Le artiste partecipanti furono: Annalisa Alloatti, Cathy Berberian, Tomaso Binga, Irma Blank, Blanca Calparsoro, Françoise Canal, Paula Claire, Rochella Cooper, Betty Danon, Sonia Delaunay, Agnes Denes, Neide Dias de Sa, Chiara Diamantini, Lia Drei, Amelia Etlinger, Sylvie Fauconnier, Maria Ferrero Gussago, Mona Fillières, Gisela Frankenberg, Anna Esposito, Luisa Gardini e Anna Paparatti, Ilse Garnier, Rimma Gerlovina, Natalia Goncarova, Pat Grimshaw, Bohumila Grögerova, Sasha Guiga, Elisabetta Gut, Micheline Hachette, Ana Hatherly, Anne Sue Hirshorn, Annalies Klophaus, Janina Kraupe, Christina Kubisch, Katalin Ladik, Maria Lai, Liliana Landi, Sveva Lanza, Ketty La Rocca, Paola Levi Montalcini, Laura Marcheschi, Lucia Marcucci, Benedetta Marinetti, Silvia Mejìa, Gisella Meo, Aurelia Muñoz, Giulia Niccolai, Anna Oberto, Anezia Pacheco e Chaves, Anna Paci, Jacqueline Phanelleux, Jennifer Pike, Marguerite Pinney, Betty Radin, Regina, Olga Rozanova, Giovanna Sandri, Anne Sauser – Hall, Evelina Schatz, Mira Schendel, Greta Schödl, Eleanor Schott, Berty Skuber, Mary Ellen Solt, Marlise Staehelin, Varvara Stepanova, Wendy Stone, Chima Sunada, Jacqueline Tarkieltaub, Salette Tavares, Biljana Tomic, Jean Trevor, Janie van der Driessche, Carla Vasio,

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come una lista in ordine alfabetico della biografie delle operatrici facendone un vero e proprio strumento di promozione.82 D’altronde per Bentivoglio era importante lasciare una traccia e inscrivere la mostra veneziana in un solco tracciato dalle iniziative espositive precedenti da lei curate. Come ripete nel catalogo e nei comunicati stampa, l’indagine di Materializzazione fu il culmine di un impegno curatoriale da lei stessa condotto da sette anni. L’inizio del suo impegno nella curatela era cominciato nel 1972 organizzando l’Esposizione Internazionale di Operatrici Visuali al Centro Tool di Milano, fondato l’anno prima dal gallerista e promotore culturale della ricerca verbovisuale Ugo Carrega.83 Fu proprio lui a chiederle di organizzare la mostra nella convinzione che ci fosse una «associazione tra la scrittura al femminile» e «la rivoluzione femminista» di quegli anni.84 In quell’occasione Bentivoglio costituì un gruppo di artiste con le quali nacque un sodalizio espositivo. Dopo Milano organizzò mostre incentrate sulla poesia visiva anche a Savona e a Roma nel 1974, per poi approdare alla Galleria Tuttagrafica di Torino nel 1975, nella Galleria il Canale a Venezia nel 1976 e poi l’anno successivo a Bari alla fiera di Expo Arte 77.85 Una strategia di ripetizione e promozione che ha delle assonanze con l’attività di Romana Loda, gallerista e curatrice impegnata in rassegne sulTat’jana Vladimirova Vecorka, Patrizia Vicinelli, Florence Villers, Simona Weller, Francine Widmer. 82. Oltre a un breve contributo di Bentivoglio vennero pubblicati i seguenti testi: La donna e il metaromanzo di Angela Bianchini, Gesto ed eufemismo femminile di Silvia Mejia e Origine lunare dell’alfabeto di Giovanna Sandri. 83. Sulle attività del Centro Tool si veda Jacopo Galimberti, Individuals Against Individualism. Art Collectives in Western Europe (1956-1969), Liverpool, Liverpool University Press, 2017; Dario Dogheria, Ricerche sulla parola, al di là della parola: il Centro Tool di Milano (1971-1973), in «Ricerche di S/Confine», 4 (2018), pp. 29-40; Gabriele Detterer, Maurizio Nannucci, Artist-Run Spaces. Nonprofit Collective Organizations in the 1960s and 1970s, Zurigo, JRP Ringier, 2012. 84. Intervista a Anna Oberto, si veda nota 25. Dario Dogheria, Un’euforia costante: gli artist-run spaces di Ugo Carrega attraverso le fondi d’archivio, in «Pianob», 5 (2020), pp. 37-57, qui 45. 85. Per un elenco delle mostre organizzate da Mirella Bentivoglio si veda di Simona Isacchini, L’attività curatoriale di Mirella Bentivoglio, tesi di laurea, Università La Sapienza di Roma, 2019-2020. Si veda anche Post Scriptum. Artiste in Italia tra linguaggio e immagine negli anni ’60 e ’70, a cura di Anna Maria Fioravanti Baraldi, Ferrara, Civiche Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, 1998, p. 158.

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la produzione artistica esclusivamente al femminile con un’attenzione anche alla produzione internazionale.86 Non si trattava, né nel caso di Bentivoglio né in quello di Loda, delle prime mostre di sole donne. Fin dall’inizio del Novecento, iniziative di questo genere possono essere annoverate: l’Esposizione internazionale femminile delle Belle Arti (1910-1913) di Torino87 o la mostra di Milano del 1914 organizzata delle Federazione Artistica Femminile Italiana.88 Tuttavia la rilevanza del lavoro di Bentivoglio, come per quello di Loda, risiede non solo nella spinta che diede al riconoscimento del lavoro delle artiste ma anche nell’impegno critico e curatoriale di queste esposizioni che ebbero anche il pregio di fortificare le relazioni fra le protagoniste e ispirare nuove avventure.89 Al di là del fatto che Ripa di Meana seguì il consiglio di Bentivoglio di non aggiungere un’altra mostra femminista nello Spazio aperto, la vicenda evidenzia una profonda stima nei confronti della stessa che godeva di una conoscenza diretta con la Biennale. La sua prima frequentazione risale al 1969, quando partecipò, fra le pochissime donne presenti, alla mostra di Poesia Concreta.90 Per Bentivoglio il rapporto privilegiato con 86. Si ricorda ad esempio Coazione a mostrare (1974), Magma (1975-1977), Altra misura (1976) e Il volto sinistro dell’arte (Loda 1978). Si veda Romana Loda e l’arte delle donne, a cura di Raffaella Perna, Brescia, Galleria dell’Incisione - A Palazzo Gallery, 2020. 87. Si vedano Francesca Lombardi, L’Esposizione Internazionale Femminile di Belle Arti (Torino, 1910-1911; 1913). Note su genere, arte e professione in Italia all’inizio del XX secolo, in «Artl@s Bulletin», 8 (2019), pp. 38-53; Vittorio Pajusco, Bice Levi Minzi (Bice Rossi Minzi) e l’Esposizione Internazionale Femminile di Torino del 1913, Storia dell’Arte Contemporanea, a cura di Nico Stringa e Stefani Portinari, Venezia, Edizioni Ca’Foscari, 2017, pp. 159-183. 88. Sergio Rebora, Una esperienza innovativa a Milano: la Federazione Artistica Femminile Italiana, in L’arte delle donne nell’Italia del Novecento, a cura di Laura Iamurri e Sabrina Spinazzè, Roma, Meltemi, 2001, pp. 100-106. 89. Ricorda Lea Vergine, ad esempio, che fu a una mostra di Romana Loda che le venne in mente di organizzarne una dedicata alle artiste delle avanguardie storiche. Lea Vergine, Schegge. Lea Vergine sull’arte e la critica contemporanea. Intervista di Ester Coen, Milano, Skira, 2001, p. 38. Si veda anche Raffaella Perna, Mostre al femminile: Romana Loda e l’arte delle donne nell’Italia degli anni Settanta, in «Ricerche di S/confine», 1 (2015), pp. 143-154. 90. La mostra Poesia Concreta, a cura di Dietrich Mahlow e Arrigo Lora Totino, si tenne a Ca’ Giustinian nel 1969. Bentivoglio espose Monumento (1966), esposta nuovamente in occasione della Biennale del 2022, si veda Milk of Dreams / Latte dei Sogni, p. 168.

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la Biennale passava da Umbro Apollonio, direttore dell’archivio della Biennale di Venezia dal 1950 fino al 1972 e animatore del ripensamento dell’istituzione,91 che la conobbe nell’ambito di un concorso ad Acireale e ne seguì poi gli sviluppi come artista.92 Da quel momento in poi Bentivoglio rimase un interlocutore per la Biennale.93 L’autorevolezza le veniva non solo da una conoscenza e stima personale di lunga durata con Apollonio e poi Ripa di Meana, ma anche dal rispetto che si era guadagnata sull’argomento tanto che le venne commissionato da Carlo Giulio Argan di compilare la voce «poesia visiva» per l’Enciclopedia Universale dell’Arte.94 Non da ultimo, forse, ebbe peso il suo modo di operare caratterizzato da una pacatezza95 che mancava dei toni aggressivi e percepiti intimidatori della lotta femminista. È Bentivoglio stessa già nel 1975 a esplicitare la sua posizione in un intervento sulla rivista «Le Arti» sostenendo di aver curato mostre di poesia visiva al femminile per sopperire alla scarsa visibilità delle donne, senza aderire, tuttavia, a scelte di militanza radicale.96 Come ricorda Simona Weller, Bentivoglio aveva sempre mostrato supporto alle artiste con cui lavorava anche a spese sue affinché potessero essere riconosciute come tali, entrando dalla «porta principale».97 Non è infatti qui in discussione il sostegno che ella seppe dare alle artiste, che da un lato promosse adottando le strategie del gruppo, vantando poi qualche anno dopo che « nelle grandi rassegne internazionali della nuova poesia, la percentuale delle presenze femminili si era via via decuplicata, giungendo al 20%, per poi crescere ulteriormente»,98 dall’altro rifuggen91. Sull’importanza di Apollonio per la Biennale di Venezia si veda Angela Vettese, La critica d’arte. I luoghi di un’autoriflessione, in Arte in Italia 1960-1985, a cura di Francesca Alfano Miglietti, Milano, Giancarlo Poli Editore, 1988, p. 29. 92. Apollonio scrive ad esempio la presentazione per il catalogo della personale di Bentivoglio alla Galleria Schwarz nel 1971, si veda Isacchini, L’attività curatoriale di Mirella Bentivoglio. 93. Corrispondenza sparsa è stata rinvenuta in tutto il periodo degli anni Settanta. 94. Mirella Bentivoglio, Poesia visiva, in Supplemento dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, Roma, Unedi, 1978. 95. Renato Barilli, Mostre/per sole donne, citato in Post Scriptum. Artiste in Italia tra linguaggio e immagine, p. 17. 96. Mirella Bentivoglio, Una mostra in progress riflessioni e risposte, in «Le Arti», 10-12 (1975), p. 47. 97. Intervista a Cloti Ricciardi, in Seravalli, Arte e femminismo a Roma, pp. 233-239. 98. Mirella Bentivoglio, I segni del femminile in Poesia visiva, p. 18.

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do il ghetto, che rischiava di diventare un «illuminato lager».99 L’episodio di antagonismo con Spazio aperto non era d’altronde una novità – il dibattito sulle “mostre ghetto” era diffuso anche negli Stati Uniti100 – e mette a fuoco il dilemma circa l’opportunità tattica di fare o meno mostre per sole donne.101 In fondo la presenza in Biennale tanto delle femministe in Spazio aperto quanto di Materializzazione mise a fuoco la dialettica fra due anime contrastanti del femminismo102 italiano: da un lato una più incline alla militanza, che nella sua versione più estrema non considerava la produzione artistica ma unicamente la lotta politica, e dall’altro quella di una visione alla ricerca dell’affermazione di un rapporto con le istituzioni più diretto.103 In filigrana si possono leggere in questo episodio le caratteristiche del movimento femminista della fine degli anni Settanta in Italia: un fenomeno diffuso, estremamente variegato, «atipico»104 – come può essere considerato il contributo di Mirella Bentivoglio – che si trovava però in un momento molto delicato. Il 1978 fu infatti per il femminismo un anno spartiacque. Da un lato si può dire che sia stato un momento «catalizzatore»105 – in quell’anno ad esempio venne pubblicato Taci anzi parla. Diario di una femminista di Carla Lonzi,106 fu organizzato a Belgrado il convegno fem99. L’espressione è di Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia. 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Milano, il Saggiatore, 2005, p. 17. 100. From Conceptualism to Feminism. Lucy Lippard’s Numbers Shows 1969-74, a cura di Cornelia Butler, Londra-New York, Afterall Books, 2012, pp. 248-249. 101. Il rapporto di Bentivoglio con il femminismo, osserva Seravalli, non era di dipendenza, si considerava una mediatrice, si veda Seravalli, Arte e Femminismo a Roma, pp. 56-78. 102. Per semplicità si è trattato qui di due generiche posizioni. Per la complessità delle diverse strategie espositive si veda la disamina di Seravavalli, Arte e Femminismo, pp. 43-46; si veda anche Simona Weller, La donna italiana e la creatività, in Il privato come politico; temi attuali del femminismo, a cura di Gianni Statera, Cosenza, Edizioni Lerici, 1997, pp. 193-210. 103. Si veda Weller, La donna italiana e la creatività, p. 201. 104. Rispetto alle esperienze negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia i movimenti femministi degli anni Settanta appaiono meno istituzionalizzati e orientati per lo più ai temi più teorici e della differenza sessuale. Si veda Susan Bassnet, Feminist Experiences. The Women’s Movement in Four Cultures, London, Allen and Unwin, 1986, p. 11. 105. Il Soggetto imprevisto (2019). 106. Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Milano, Scritti di Rivolta femminile, 1978.

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minista Comrade Women107 e in Italia venne approvata la legge 194 sull’aborto; dall’altro una fase di crisi durante la quale si sciolsero numerosi collettivi.108 D’altronde, la realizzazione tanto di Materializzazione quanto di Spazio aperto non può neanche essere considerata unicamente effetto della vitalità del movimento femminista: non va infatti sottovalutata la volontà istituzionale di costituire uno spazio aperto. 6. Eredità femminista alla Biennale dopo gli anni Settanta Quale fu l’eredità di Spazio aperto e Materializzazione del linguaggio all’interno dell’istituzione veneziana? Se il numero delle artiste alla Biennale crebbe leggermente negli anni successivi al 1978, non si può parlare in alcun modo di ampia rappresentatività. Bisogna infatti aspettare l’edizione della del 1993 per vedere un aumento significativo delle donne artiste e un’attenzione al ruolo delle critiche. Si ricorda a tal proposito l’omaggio a Carla Lonzi,109 Imagina – la sezione dedicata a Giosetta Fioroni, Carol Rama e Cloti Ricciardi – e il riferimento al pensiero Julia Kristeva, psicanalista, semiotica ed esponente del femminismo francese da parte di Helena Kontova, organizzatrice di Aperto ’93.110 Un altro momento da annoverare fu il premio per il miglior padiglione nazionale assegnato nel 1999 a cinque artiste italiane: Luisa Lambri, Grazia Toderi, Monica Bonvicini, Bruna Esposito e Paola Pivi. Per quanto la rappresentanza italiana affidata alle artiste fu frutto di una decisione last minute del direttore del settore arti visive Harald Szeemann in risposta alle critiche intorno alla sua scelta di minare il concetto stesso di padiglione facendone uno virtuale, fu un momento singolare. 107. Programma e dettagli dell’incontro sono consultabili su http://tranzit.org/exhibitionarchive/the-conference-comrade-woman-art-program/. 108. Per una sintesi sull’evoluzione del femminismo si veda Aida Ribero, Una questione di libertà: il femminismo degli anni settanta, Torino, Rosenberg&Sellier, 1999, pp. 178-179. 109. Punti Cardinali dell’Arte, XLV Esposizione Internazionale d’arte, catalogo generale, Marsilio Editori, Venezia, 1993, pp. 36-37; pp. 64-69. Aperto ’93 fu curato da Achille Bonito Oliva e coordinato da Helena Kontova, per quanto in realtà il lavoro della seconda fu centrale nella realizzazione dell’intero impianto. Per una ricostruzione di Aperto’93 si veda Ricci, Aperto 1980-1993, pp. 193-227. 110. Helena Kontova, Spartizioni, in Aperto’93. Emergency / Emergenza, Milano, Giancarlo Politi Editore, 1993, pp. 121-122; Intervista con Julia Kristeva, pp. 142-145.

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All’inizio del nuovo millennio, come emerso dall’indagine di Maura Reilly del 2015,111 la situazione non appare di molto cambiata. Per avvicinarci ad una parità bisognerà aspettare la mostra del 2019 curata da Ralph Rugoff, e per una Biennale di quasi sole donne la 59a edizione intitolata Il latte dei sogni (2022) curata da Cecilia Alemani. Ed è proprio in questa mostra, all’interno di una delle cinque piccole sezioni tematiche trans-storiche – «capsule» – che è stata ricordata Materializzazione, un rimando che agisce come precedente di una «mostra femminile e non femminista».112 Come per Bentivoglio anche Alemani pone al centro del discorso espositivo un nodo critico che nel caso della Biennale del 2022, è imperniato sull’evolversi di una nuova definizione di umano sulla scorta di Donna Haraway e Rosi Braidotti.113 Ma perchè Materializzazione del linguaggio, rispetto a Spazio aperto o alle esperienze teatrali di Dacia Maraini del 1974 è rimasta più facilmente nella memoria storico-artistica? Il carisma e le capacità di mediazione di Bentivoglio furono certamente fondamentali per la sopravvivenza della mostra. Il suo operare transnazionale ha permesso una diffusione delle sue mostre in diversi paesi. Già l’anno immediatamente dopo la Biennale, la curatrice portava la mostra a New York (From Page to Space, 1979) per poi replicare ancora a San Paolo. Infatti, per quanto quella veneziana sia rimasta la più celebrata, Bentivoglio può vantare più di trenta mostre di sole donne, dimostrando la tenacia di una strategia caparbiamente volta a invertire la percentuale di esposizioni di soli uomini. Rimane aperta però una domanda: considerati i lunghi tempi di ricezione si può considerare la sua strategia curatoriale efficace? Non fu piuttosto un’inconsapevole sabotatrice? Non si pretende qui di rispondere circa i modi per quantificare il successo di una mostra, ma guardando a Spazio aperto sarà interessante notare che per quanto non sia mai divenuto quello spazio che Federica di Castro e le altre firmatarie della seconda lettera a Ripa di Meana auspicavano – ovvero «uno “spazio aperto”, aperto ogni anno a disposizione del111. Maura Reilly, Taking the measure of sexism: Facts, Figures and Fixes, in «ArtNews», luglio 2015: https://www.artnews.com/art-news/news/taking-the-measure-of-sexism-facts-figures-and-fixes-4111/. 112. Il Latte dei Sogni, Cecilia Alemani intervistata da Marta Papini, in Milk of Dreams / Latte dei Sogni, p. 33. 113. Ivi, pp. 422-428 e pp. 215-253.

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le donne»114 – in modo opaco, fu proprio l’idea di una mostra quale luogo non conformato e aperto alle emergenze del sentire contemporaneo, a fare da perno alla trasformazione della Biennale negli anni successivi. Le mostre dei gruppi femministi di Varese e di Napoli, aderendo alla proposta di aprire a un dialogo con le istituzioni, dando senso e vitalità a quella che rischiava di essere un’etichetta costringente e limitante, ghettizzandone la produzione artistica, avevano in realtà lasciato nell’immediato una forte impressione di positività nella stampa e nella critica. Tanto è vero che nel 1980, fra le proposte della commissione internazionale della Biennale, era stato proposto di realizzare uno “spazio aperto” dedicato al femminismo e alla politica.115 La sezione non prese corpo anche se, trattenendo solamente il concetto di apertura a nuovi linguaggi, sopravvisse nel titolo di Aperto 80. Questa mostra, diventata famosa per aver portato con tempestività in Biennale la nuova pittura tedesca e italiana e per aver dato il nome al format della mostra di giovani artisti della Biennale, offrì all’istituzione un modello di mostra contemporanea che avrebbe poi adottato nel nuovo millennio. Certamene a ridosso degli anni Ottanta l’idea di uno spazio aperto – più che far riferimento al femminismo – riprendeva quella largamente assorbita dal contesto culturale italiano di Opera Aperta di Umberto Eco. Un concetto che, pur se utilizzato a maglie larghe, sinonimo ora di processo ora di ricerca, venne trattenuto a livello limbico dalla Biennale. Rimane pertanto il dubbio: cosa sarebbe successo se Bentivoglio non si fosse sottratta alla proposta di uno spazio aperto in maniera da connotarlo in modo deciso? La curatrice Andrea Giunta in una conferenza in cui riesamina in modo autocritico il processo di definizione dei principi curatoriali della mostra Radical Women 1960-1986 (2017) da lei organizzata a seguito di molti anni di ricerca nei musei del sud e centro America alla ricerca delle opere di artiste, spesso femministe, collezionate dai musei e poi spesso dimenticate, propone una lettura che forse ne ribalta la lettura. Guardando 114. Nel documento vengono inoltre indicate le modalità con cui lo Spazio aperto sarebbe dovuto essere gestito, con l’istituzione di un comitato femminile permanente in dialogo con l’archivio storico e la possibilità di fare un seminario annuale, Proposte per la partecipazione femminile alla Biennale, pp. 2-3. 115. In questa sezione Achille Bonito Oliva volle poi includere anche i cinque della transavanguardia Sandro Chia, Mimmo Paladino, Francesco Clemente, Nicola De Maria ed Enzo Cucchi, si veda Ricci, Aperto 1980-1993, pp. 65-66.

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ancora alla mostra, mette a fuoco come le opere delle artiste femministe suggeriscano un approccio che va oltre problemi di riconoscimento, istituzionalizzazione ed emarginazione. Giunta propone infatti di considerare tali mostre da un punto di vista dell’«interconnessione-senza-separazione» («an intersectional-without-separability»).116 Ovvero di prendere coscienza che tutte le forme di gerarchia, che siano di genere, classe, razza, sono forme interconnesse di esclusione. Una visione questa che permette alle esperienze del 1978, Spazio aperto e Materializzazione del linguaggio, di coesistere e partecipare alla stessa causa senza conflitti.

116. L’intersezionalità è un termine coniato da Kimberlé Crenshaw nel 1989. Per il riferimento ad Andrea Giunta si veda la sua conferenza Radical Women, an Instersectional Without Separability Perspective, presso Latin American Studies di Princeton il 19 aprile 2019.

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Fig. 1. Dacia Maraini con il gruppo La Maddalena di Roma durante i momenti di animazione popolare a Venezia, Giudecca e Mestre in occasione della messa in scena di La donna perfetta (15-20 ottobre 1974). Immagini tratte da Annuario 1975, Eventi 1974, p. 369. Courtesy © Archivio Storico della Biennale di Venezia, Asac. Fig. 2. Scene dello spettacolo La donna perfetta tenutosi alla Biennale di Venezia. Immagini tratte da Annuario 1975, Eventi 1974, p. 370. Courtesy © Archivio Storico della Biennale di Venezia, Asac.

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Fig. 3. Scheda di progetto della mostra Femminismo in programma per settembre-ottobre 1976. La Biennale di Venezia, in Asac, Fondo storico, Arti Visive, b. 282. Courtesy © Archivio Storico della Biennale di Venezia, Asac.

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Fig. 4. Entrata alla mostra Spazio aperto (15 luglio -15 agosto 1978) del Gruppo Femminista Immagine di Varese e Gruppo Donne Immagine/Creatività di Napoli, 38. Esposizione Internazionale d’Arte: dalla natura all’arte dall’arte alla natura. Courtesy © Archivio Mariuccia Secol. Fig. 5. Vista dell’allestimento della prima sala di Spazio aperto con parte dell’opera collettiva del Gruppo Femminista Immagine di Varese alla 38. Esposizione Internazionale d’Arte: dalla natura all’arte dall’arte alla natura. Courtesy © Archivio Mariuccia Secol.

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Fig. 6. Vista dell’allestimento della seconda sala di Spazio aperto con gli arazzi del Gruppo Femminista Immagine di Varese alla 38. Esposizione Internazionale d’Arte: dalla natura all’arte dall’arte alla natura. In posa le artiste con lo scultore Staccioli. Courtesy © Archivio Mariuccia Secol. Fig. 7. Vista dell’allestimento di Spazio aperto con l’opera collettiva Il Vaso di Pandora (1977-1978) del Gruppo Donne Immagine/Creatività di Napoli alla 38. Esposizione Internazionale d’Arte: dalla natura all’arte dall’arte alla natura. Courtesy © Archivio Mariuccia Secol.

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Fig. 8. Documento interno alla gestione di Spazio aperto attestante una fase iniziale della programmazione. La Biennale di Venezia, in Asac, Fondo storico, Arti Visive, b. 298. Courtesy © Archivio Storico della Biennale di Venezia, Asac.

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Fig. 9. Allestimento e performances di Materializzazione del linguaggio, tenutasi il 20 settembre-15 ottobre 1978, 78. Biennale di Venezia. Immagini tratte da Annuario 1979, Eventi 1978, p. 292. © Archivio Storico della Biennale di Venezia, Asac.

Eleonora Cirant I microfoni femministi di Radiotre Rai (1978-1988)

1. Le fonti radiofoniche e il fondo Noi, voi, loro, donna - Ora D Su Radiotre Rai vennero mandate in onda due trasmissioni radiofoniche, diverse ma in continuità l’una con l’altra, entrambe radicate nei percorsi del femminismo italiano che si sono sviluppati tra gli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta. Il programma Noi, voi, loro, donna: dialoghi in diretta dedicati alle donne fu trasmesso dal 2 ottobre 1978 al 31 dicembre 1982. Dal 3 gennaio 1983 venne sostituito da Ora D: dialoghi in diretta dedicati alle donne, che proseguì fino al 6 giugno 1988.1 Considerandone la cadenza quotidiana e la durata nel tempo, furono uno spazio importante che il servizio radiotelevisivo pubblico dedicò ai temi del femminismo: dalle 10 alle 10.45 circa del mattino, dal lunedì al venerdì, con la possibilità per il pubblico di telefonare in diretta. Possiamo consi1. Il mio primo lavoro di ricerca su questo fondo risale al 2000, quando per la tesi di laurea in filosofia ho realizzato l’inventario delle registrazioni di Ora D conservate su nastri magnetici dalla Fondazione Elvira Badaracco, già Centro studi sul movimento di liberazione della donna in Italia. Avevo allora schedato tutte le puntate registrate (circa 1000, che non coprono l’intera serie di puntate trasmesse), con relative sinossi, indicizzando i nomi delle persone intervenute e una lista di argomenti, per la quale avevo utilizzato il Thesaurus di genere costruito dai centri di documentazione delle donne negli anni Novanta: Linguaggiodonna. Primo thesaurus di genere in lingua italiana, a cura di Adriana Perrotta Rabissi e Maria Beatrice Perucci, Milano, Feltrinelli, 1990. La tesi di laurea contiene la trascrizione integrale delle interviste a Marina Piazza e Franca Fossati. Eleonora Cirant, L’archivio sonoro di “Ora D. Dialoghi in diretta dedicati alle donne”, tesi di laurea, Relatore Marco Bologna, Università degli studi di Milano, Corso di Laurea in Filosofia, a.a. 1999-2000.

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derare queste trasmissioni un organismo vivente che, nel suo sviluppo e nelle sue trasformazioni, ha raccontato e allo stesso tempo ha partecipato alle vicende del movimento femminista nelle sue diverse espressioni ed articolazioni.2 L’ipotesi centrale di questo lavoro, infatti, è che le potenzialità espressive del mezzo radiofonico abbiano consentito alle sue artefici di dare voce non solo alle istanze del movimento, ma anche ad alcune sue specifiche qualità discorsive, inattingibili da altre fonti coeve, scritte o orali. E che proprio tale potenzialità le renda particolarmente rilevanti per lo studio del femminismo degli anni Settanta e Ottanta. Anna Rossi-Doria ha sottolineato il problema delle fonti da utilizzare per cercare di rendere conto «della vita reale del movimento, soprattutto nel suo aspetto centrale»,3 cioè le pratiche discorsive dell’autocoscienza, sottolineando come le numerose fonti orali non riuscissero a narrare quell’esperienza. A suo avviso, né i documenti scritti né le trascrizioni delle registrazioni dei gruppi potevano esprimere «il modo nuovo, esaltante e commovente, di pensare e di cambiare allo stesso tempo» che si realizzava nei primi tempi e che attuava in concreto le parole “il personale è politico”, in un intreccio che appariva miracoloso tra scoperta di sé e dei rapporti tra donne, tra costruzione di un soggetto individuale e di un’autodefinizione di gruppo.4 Credo che l’ascolto di queste trasmissioni, in particolare la prima, consenta una sia pur parziale immedesimazione in quella esperienza e che, quindi, esse siano fonti in grado di rappresentarla con più forza di altre. Entro la cornice teorica della storia orale, intesa come raccolta e utilizzo di fonti orali nella ricerca storiografica ed antropologica,5 ed en2. Pur considerandone le differenziazioni e articolazioni, uso i termini “femminismo” e “movimento femminista” al singolare con riferimento a questo periodo storico e per una maggiore aderenza filologica alle fonti. 3. Anna Rossi-Doria, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, Viella, pp. 251-253 4. Ibidem. 5. Elena Bachiddu, Fonti orali. Approcci e dialoghi tra antropologia e storia orale. Introduzione, in «Lares», 78, 1-2 (2012), Bruno Bonomo, Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella storia, Roma, Carocci, 2013, p. 47. Cesare Bermani, Fonti orali e ricerca storica in Italia, in Introduzione alla storia orale, a cura di Cesare Bermani, 2 voll., Roma, Odradek, 2015 (ed. digitale). Pietro Clemente, Le parole degli altri. Note riflessive sulla ricerca antropologica e gli archivi orali, in Documenti sonori. Voce, suono, musica in archivi e raccolte, a cura di Dimitri Brunetti, Diego Robotti, Elisa Salvalaggio, Torino, Centro Studi piemontesi, 2021.

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tro la trattazione archivistica di tali fonti,6 gli archivi radiofonici sono definiti “archivi di produzione”.7 Noi, voi, loro, donna - Ora D è dunque in primo luogo un archivio di produzione, ma può essere considerato anche un archivio di fonti orali, cioè una raccolta di testimonianze tramite interviste che si sviluppano dentro un processo in cui sia l’intervistatrice sia le persone intervistate si pongono come soggetti coinvolti nel dialogo in modo non gerarchico ma reciprocamente trasformativo. L’importanza attribuita dal femminismo alle biografie, l’attenzione ai nessi tra vicende personali e collettive posta dal femminismo come necessità politica, «la prevalenza di pratiche di oralità, o, come è stato detto, da una oralità diffusa, che si esprime in un parlare finalizzato al cambiamento», come ha sottolineato Roberta Fossati,8 tutto ciò è diventato, in questo programma, un modo di fare radio.9 2. Lo “spazio donna” nella Rai Quando nell’ottobre 1978 va in onda la prima puntata di Noi, voi, loro, donna, i fermenti politici e culturali del lungo Sessantotto italiano avevano 6. Gli archivi e la memoria del presente: atti dei seminari di Rimini, 19-21 maggio 1988 e di Torino, 17 e 29 marzo, 4 e 25 maggio 1989, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 1992. Archivi sonori. Atti dei seminari di Vercelli (22 gennaio 93), Bologna (22, 23 settembre 94), Milano (7 marzo 95), Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 1998. Paola Carucci, Le fonti archivistiche, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993. Le carte della memoria. Archivi e nuove tecnologie, a cura di Marcello Morelli e Mario Ricciardi, Bari, Laterza, 1997. 7. Alfredo Marini, Descrivere schedare inventariare, in Archivi sonori, pp. 169-176. 8. Roberta Fossati, Storia delle donne, Storia del genere e fonti orali, in Introduzione alla storia orale, p. 462. 9. La ricerca storica non usa ancora le fonti radiofoniche nel loro pieno potenziale, in parte perché esse non sono facilmente accessibili o lo stanno diventando solo di recente (cfr. Pietro Cavallari, I beni audiovisivi come memoria storica del territorio. Importanza ed accessibilità delle fonti, in Il suono e l’immagine. Tutela, valorizzazione e promozione dei beni audiovisivi, a cura di Massimo Pistacchi, Bari, Edipuglia, 2008, pp. 37-44). Attualmente le registrazioni di Noi, voi, loro, donna e di Ora D sono disponibili presso le Teche Rai. Si tratta di circa 1 milione di ore di materiale, di cui 750.000 già digitalizzate e schedate (cfr. https://www.teche.rai.it/chi-siamo-2/, i siti internet sono stati consultati l’ultima volta il 28 giugno 2023). Per la descrizione degli archivi audiovisivi Rai cfr. Margherita Scanavino, L’esperienza delle Teche RAI: dalle registrazioni audio al Catalogo multimediale, in Documenti sonori. Voce, suono, musica in archivi e raccolte, pp. 331-335.

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spinto le istituzioni al rinnovamento, Rai inclusa. Nell’ecosistema radiofonico avvenivano trasformazioni profonde, sia sulla spinta delle pressioni sociali, sia tecnologiche. La presenza sempre più ingombrante della televisione e il proliferare delle “radio libere” (emittenti autonome, locali e, allo stato della legislazione dell’epoca, illegali) concorrevano nel sottrarre ascoltatori e ascoltatrici al servizio radiofonico pubblico. Le radioline, dispositivi di ricezione portatili, avevano inoltre modificato l’esperienza stessa dell’ascolto radiofonico, rendendolo sempre più individuale.10 È in questa dinamica che si apre lo spazio per l’ingresso del femminismo nel servizio pubblico radiotelevisivo, con programmi dedicati agli argomenti imposti da un movimento politico che si esprimeva non solo in continue e massicce manifestazioni di piazza ma anche nelle pieghe più intime della collettività, non senza attrito. Licia Conte,11 curatrice e conduttrice, così ha descritto il clima nella Rai dell’epoca: In queste sedi [radio e TV] si erano concentrati gli operatori più attivi e impegnati nel movimento riformatore. Coloro che non volevano limitarsi a informare in modo sporadico sui cambiamenti di costume e cultura degli anni ’70; avendo sostenuto lo slogan “Rai specchio del paese” desideravano attuarlo. E nel paese c’era, fra gli altri, anche il movimento femminista. […] Accadde dunque che (accanto alla realtà operaia e al movimento giovanile) anche alle donne fossero concessi spazi fissi: si sollecitò in tal modo il loro impegno ad una ricerca di contenuti e di linguaggio.12

Licia Conte, che si era formata nei gruppi noti come i “cattolici del dissenso”, era stata assunta in Rai nel ’68 a seguito di un concorso naziona10. Si rimanda a Peppino Ortoleva, Radio FM 1976-2006. Trent’anni di libertà d’antenna, Minerva, Argelato, 2006. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Costume, società e politica, Venezia, Marsilio, 1995. Francesca Anania, Breve storia della radio e della televisione in Italia, Roma, Carocci, 2004. La radio in Italia. Storia, mercati, formati, pubblici, tecnologie, a cura di Tiziano Bonini, Roma, Carocci, 2013. Raffaello A. Doro, In onda. L’Italia dalle radio libere ai network nazionali (1970-1990), Roma, Viella, 2017. Andrea Sangiovanni, Specchi infiniti. Storia dei media in Italia dal dopoguerra ad oggi, Roma, Donzelli, 2021. 11. Prima della riforma del ’75 lavorò alla prosa con Lidia Motta. Tra i programmi che curò vi fu Teatro quiz, Il Girasole, Cittadina donna (v. Motta, La mia radio, p. 130, 150). 12. Licia Conte, Riserva per donne e altri indiani, in «L’Orsaminore», 0 (1981), pp. 47-50 (p. 48). Licia Conte è tra le fondatrici di questo mensile nel 1981 insieme a Maria Luisa Boccia, Franca Chiaromonte, Giuseppina Ciuffrida, Anna Forcella, Biancamaria Frabotta, Manuela Fraire e Rossana Rossanda.

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le per funzionari ai programmi e destinati al rinnovamento della programmazione. Lo racconta nel corso di uno dei colloqui che abbiamo avuto: In quegli anni la Rai era stupenda, una grande azienda moderna, un mondo affascinante e diverso. [Ettore] Bernabei13 voleva forze intellettuali capaci di dare una programmazione colta. Al concorso precedente era entrato tra gli altri Umberto Eco e neanche lui aveva un contratto di giornalista. I giornalisti Bernabei li teneva più sotto controllo, perché davano le notizie, mentre gli intellettuali avevano più libertà di movimento.14

Il primo passo verso le tematiche femministe viene fatto nel 1976, con la metamorfosi della storica trasmissione Chiamate Roma 3131.15 In onda sulla seconda rete dal 1969, questo programma aveva introdotto, per la prima volta in Italia, le telefonate in diretta di ascoltatori e ascoltatrici. Fu allora una rivoluzione che invertiva la direzione del messaggio radiofonico, «spostandone il centro di irradiazione e collocandolo, qua e là, in tutto il paese» e alimentando una «topografia del vissuto»,16 come osserva Raffaele Vincenti nel libro che ripercorre le vicende del 3131. A prendere le redini del programma è Lidia Motta, fresca di nomina come capostruttura della seconda rete,17 incaricata di cambiarne i connotati e di intercettare i temi su cui il femminismo premeva con forza. Nella sua autobiografia scrive: 13. Sulla figura e il ruolo di Bernabei, direttore della Rai dal 1961 al 1974, v. Sangiovanni, Specchi infiniti (versione ebook). 14. Intervista dell’autrice con Licia Conte del 1° novembre 2020 (non registrata); citazione rivista e autorizzata dall’intervistata. 15. La storia del programma è raccontata dettagliatamente da Raffaele Vincenti, La prima volta del telefono. La storia del 3131 dal 1969 al 1995, Roma, Rai Radiotelevisione italiana, 2009, p. 16. Andrea Sangiovanni lo descrive così: «inizialmente il programma avrebbe dovuto essere una trasmissione di servizio nella quale gli ascoltatori ponevano le proprie domande a un gruppo di “esperti” grazie alla mediazione dei conduttori: nel giro di pochi mesi, però, si sarebbe trasformato, come scrivevano i principali quotidiani, in un “confessore a transistor” – ovvero in un “oracolo delle casalinghe” – che faceva una “psicoanalisi di massa” a una “Italia piagnucolona” [qui l’autore cita F. Rispoli, La confidenza corre sul filo, in «Radiocorriere TV», 5-11 gennaio 1969]. Al di là dei giudizi sprezzanti che ne dava la stampa, la trasmissione sarebbe diventata rapidamente un vero e proprio fenomeno di massa e avrebbe cambiato profondamente il modo di percepire e di usare la radio», ivi (versione ebook). 16. Vicenti, La prima volta del telefono, p. 16. 17. Assunta alla Rai nel 1955 (con il concorso che selezionò anche Umberto Eco, Furio Colombo, Emmanuele Milano, Fabiano Fabiani, Giovanni Salvi), si era occupata, fino a quel momento, di prosa. Ivi, p. 95.

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Lasciare parlare le donne del loro privato significava spaccare croste di ipocrisia, far uscire allo scoperto antiche lacerazioni, ferite mai del tutto sanate. […] I miei dubbi non riguardavano tanto la necessità di tenere una posizione equilibrata tra conformismo e ribellismo femminista, quanto la difficoltà di adottare il linguaggio più idoneo per esprimere l’autenticità [corsivo mio] di una protesta e rendere cosciente il pubblico femminile dell’esigenza di diventare soggetti in una società che ancora legittimava discriminazioni di ruoli tra persone.18

Il 28 ottobre 1976 riaprirono dunque le linee telefoniche del 3131, a poco più di un anno dalla chiusura della precedente edizione. Il nuovo programma andò in onda dal 1976 al 1979 con il titolo di Sala F (dal nome dello studio che venne assegnato e «giocando sull’ambiguità della F come femminile o femminista»).19 «Fu subito bagarre – ricorda Lidia Motta –. Il centralino della Rai, oltre il nostro 3131, fu intasato da proteste: eravamo spaccafamiglie, spingevamo le donne fuori casa a cercare lavoro o chissà cosa, abbandonando i figli. Accuse di ogni genere e una generalizzata irritazione».20 Nelle intenzioni delle autrici di Sala F non si trattava solo di mettere al microfono conduttrici donne, o di scegliere argomenti considerati femminili, ma soprattutto di rinnovare le forme di autorizzazione nella presa di parola pubblica. Le donne invitate in trasmissione dovevano, infatti, essere considerate «esperte» non solo per le loro specifiche professionalità ma nel senso di aver «vissuto o sofferto intensamente, in quanto donne, una data esperienza di vita, di lavoro».21 La stessa intenzione si trova in Si dice donna, trasmessa sempre sulla seconda rete ma, in questo caso, televisiva.22 La prima puntata andò in onda 18. Lidia Motta, La mia radio, Roma, Bulzoni, 2000, p. 170. 19. Ivi, p. 171. 20. Ibidem. 21. La frase appartiene a un dattiloscritto firmato da Filomena Luciani D’Amico (selezionata da Lucia Motta come conduttrice del programma), cit. in Vincenti, La prima volta del telefono, p. 102. Nello stesso volume si riporta la testimonianza di Chiara Galli – che ritroveremo a Noi, voi, loro, donna e poi conduttrice di Ora D. Tra le redattrici del programma, è più critica rispetto alla sua realizzazione concreta: «In Sala F, rispetto ai fermenti femministi all’esterno, secondo me non è stato realizzato nulla. Sono categorica in questo. Sono andata lì, sentendo il progetto di questa trasmissione che veniva dopo Chiamate Roma 3131, ed ero molto felice di andarci, immaginando di poter portare delle idee (allora facevo attività politica). Invece, per me, era come scendere in un pozzo per 8 ore al giorno, per poi ritornare in un mondo rispetto al quale la trasmissione, per il modo in cui le cose venivano affrontate, era totalmente estranea». Ivi, p. 120. 22. Per la storia del programma vedere Loredana Cornero, La tigre e il violino. «Si dice donna». Un programma di Tilde Capomazza, Roma, RaiEri, 2012. Tilde Capomazza,

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il 1° settembre 1977 – suscitando in modo continuativo l’attenzione della stampa23 – dopo un anno di gestazione impiegato nella ricerca di una metodologia di lavoro e di un linguaggio adatto a tradurre in un prodotto televisivo ciò che le femministe esprimevano. Anche in questo caso il processo fu sollecitato dalla linea editoriale della seconda rete, diretta allora da Massimo Fichera, un innovatore di orientamento socialista.24 Come nel caso di Lidia Motta, anche qui troviamo una donna nel ruolo di capostruttura, nello specifico Marina Tartara,25 che coinvolge Tilde Capomazza26 nella realizzazione del primo programma televisivo dedicato al femminismo, e che troveremo successivamente come capostruttura di riferimento di Ora D. Sul finire del 1978 erano dunque tre i programmi che la Rai dedicava al femminismo. Rosetta Loi li descrive nella rubrica Transistor su «Noi donne»: Tra radio e televisione “le pagine” riservate alle donne sono tre. Dico pagine perché in un modo o nell’altro tutte e tre le trasmissioni si propongono come un giornale e qualche cosa hanno cambiato, anche all’interno della Rai-tv dove in passato lo “spazio donna” era presente più come un fenomeno, e, diciamo pure, un po’ come “vedete come siamo aperti, adesso parliamo pure di femminismo”. Testimonianza, a mio parere, di una grande trasformazione interna, di una presa di possesso dei mezzi espressivi da parte delle donne.27

3. Noi, voi, loro, donna. Dialoghi in diretta dedicati alle donne (1978-1982) Veniamo dunque all’inizio del mese di ottobre del 1978, quando è trasmessa la prima puntata di Noi, voi, loro, donna. Dialoghi in diretta Tivvù passione mia, Roma, Harpo, 2016. Ead., Si dice donna: dossier, Milano, Unione femminile nazionale, 2001. 23. Cornero, La tigre e il violino, p. 71. 24. Ivi, p. 41. Sul ruolo del Partito Socialista nella riforma della Rai nella prima metà degli anni Settanta v. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, pp. 377-422. 25. Marina Tartara, socialista, è stata la prima donna responsabile di una struttura di programmazione televisiva. Cornero, La tigre e il violino, p. 47. 26. Tilde Capomazza veniva dall’Unione donne di Azione cattolica, di cui dirigeva l’organo di stampa, «Nuovo impegno», quando viene assunta in Rai, nel 1966. Lascerà la direzione di «Nuovo impegno» nel 1968. Nel decennio successivo fu co-fondatrice, insieme ad Annarita Buttafuoco, della rivista «DWF donnawomanfemme». 27. Rosetta Loi, Spazio donna, in «Noi donne», 51 (1978), p. 60.

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dedicati alle donne. Siamo nel pieno della crisi che attraversava tutti i movimenti sociali avviati dal Sessantotto. Lo spostamento del conflitto sul piano militare aveva già iniziato a dividere i gruppi della Nuova sinistra e questo processo si intensificò dopo l’assassinio di Aldo Moro.28 Il cosiddetto “movimento del ’77” si era imposto come espressione di critica radicale ai canoni della militanza degli stessi gruppi.29 Feroce alleata del disincanto, ma anche della repressione, l’eroina si faceva strada nelle fasce giovanili, falciando vite.30 Quanto al movimento femminista, dopo il convegno di Pinarella del ’76 era diventato sempre più difficile dare una ricomposizione di senso alle dinamiche conflittuali che lo attraversavano dalle sue origini.31 28. Davide Serafino, Andrea Tanturli, Ritorno alla storia: rassegna di studi recenti sulla violenza politica di sinistra nell’Italia degli anni ’70, in «Giornale di Storia Contemporanea», XVII (1 n.s.), 1-2 (2014). L’Italia degli anni Settanta. Narrazioni e interpretazioni a confronto, a cura di Fiammetta Balestracci e Catia Papa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019. Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 1989. Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta’80, Roma, Donzelli, 2003. 29. Sul movimento del ’77 e in generale sulle culture politiche alla fine del decennio: Anna Tonelli, Comizi d’amore: politica e sentimenti dal ’68 ai Papa boys, Roma, Carocci, 2007. Penelope Morris, «Cari compagni, sto male…». Emozioni e politica nelle lettere a «Lotta continua», in Penelope Morris, Francesco Ricatti, Mark Seymour, Politica ed emozioni nella storia d’Italia dal 1848 ad oggi, Roma, Viella, 2012. Andrea Lanza, Quando è finita la rivoluzione. Il divenire storico nei movimenti italiani degli anni Settanta, in «Meridiana», 76 (2013). Luca Falciola, Il movimento del 1977 in Italia, Roma, Carocci, 2015. Il movimento del ‘77. Radici, snodi, luoghi, a cura di Monica Galfré e Simone Neri Serneri, Roma, Viella, 2018. 30. Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano, Feltrinelli, 1997. Vanessa Roghi, Piccola città. Una storia comune di eroina, Roma-Bari, Laterza, 2018. Valter Boscarello, Le panchine di Rozzano. 7 dicembre 1976, la contestazione giovanile dalle periferie all’assalto alla Prima della Scala, Novate Milanese (Mi), Prospero, 2021. Vanessa Roghi, Eroina. Dieci storie di ieri e di oggi, Milano, Mondadori, 2022. 31. Il movimento femminista negli anni ’70, num. monogr. di «Memoria. Rivista di storia delle donne», 19-20 (1987). Anna Rita Calabrò, Laura Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Storie e percorsi a Milano dagli anni ’60 agli anni ’80, Milano, FrancoAngeli - Fondazione Badaracco, 2004. Elda Guerra, Femminismo/ femminismi: appunti per una storia da scrivere, in Anni Settanta, «Genesis. Rivista della Società italiana delle storiche», 3/1 (2004), pp. 87-111. Elda Guerra, Una nuova soggettività: femminismo e femminismi nel passaggio degli anni Settanta, in Il femminismo degli anni Settanta, a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, Roma, Viella, 2005. Anna RossiDoria, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, Viella, 2007.

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È in questo scenario politico che la terza rete della Rai avvia la programmazione di Noi, voi, loro, donna.32 Nata con la riforma del ’75, la terza rete radiofonica era la sede dell’approfondimento culturale, destinata a un pubblico con un livello di scolarità elevato, urbano, politicamente orientato a sinistra.33 Direttore, fino a metà degli anni Ottanta, fu Enzo Forcella, un altro innovatore.34 E fu proprio Enzo Forcella ad insistere con Licia Conte perché curasse uno spazio dedicato alle donne e al femminismo: Io non lo volevo fare perché ero già stata piegata dalla sofferenza dell’incontro-scontro con il mondo giovanile. Per la trasmissione intitolata Un certo discorso il microfono era stato affidato direttamente ai giovani. Fu sospesa nel giro di poco tempo. Erano matti quelli degli anni Settanta, tu non hai un’idea! Le ragazze avevano preso a botte un mio amico, Daniele Archibugi. Per dire che nella contestazione non c’erano mezzi termini e io non ero quella cosa lì. Però Forcella – che era un sovversivo – insistette al punto da convincermi. Quindi mi sono detta: la cultura del femminismo va esaminata con le femministe, ma bisogna farlo insieme, scomponendola. Pensai di proporre ogni settimana un’analisi da un punto di vista diverso e per farlo chiamai alcune intellettuali, o del movimento o in relazione con esso.35

L’idea intorno a cui Licia Conte costruisce la trasmissione è ricalcata sull’obiettivo della pratica e della teoria femminista in questa fase: decoFiamma Lussana, Il movimento femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie: (19651980), Roma, Carocci, 2012. Aida Ribero, Una questione di libertà. Il femminismo degli anni Settanta, Torino, Rosenberg&Sellier, 1999. Paola Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei collettivi di quartiere, Milano, Bononia University Press, 2015. Ead., I femminismi dall’Unità a oggi, in Storia delle donne nell’Italia contemporanea, a cura di Silvia Salvatici, Roma, Carocci, 2022. 32. Il programma ha come antecedente Dentro lo specchio, riflessioni di donne su fatti reali, immaginari e dimenticati, condotto nel ’77-’78 da quello che Rosetta Loi definiva «un collettivo femminile». Rosetta Loi, Transistor, in «Noi donne», 45 (1978), pp. 66. 33. Il pubblico di Radiotre è descritto come formato da «gruppi altamente scolarizzati, con elevato status sociale derivante dalla professione esercitata, residenti in centri urbani di grandi dimensioni, ricchi di stimoli culturali e sociali, con esperienze di militanza politica nell’area della sinistra o comunque chiaramente orientati politicamente a sinistra» da Amato Lamberti, La radio in diretta. Un’analisi di contenuto, in La Rai sotto analisi, 1977-1980. Le ricerche promosse dalla “Verifica programmi trasmessi”, a cura di Giorgio Grossi, Torino, Eri, 1984, pp. 409-410. 34. Tiziano Bonini, La radio di servizio pubblico, in La radio in Italia, p. 121. 35. Licia Conte, intervista del novembre 2020 a cura dell’autrice, non registrata, trascritta fedelmente nel corso della stessa. Citazione rivista dalla testimone.

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struire la cultura in tutti i suoi aspetti, a partire dal riconoscimento dell’oppressione femminile. Nel corso della stagione 1978-1979 il programma è stato organizzato in due cicli, ciascuno dei quali articolato in temi trattati regolarmente nell’arco della settimana.36 Nell’ascoltare il programma si percepisce un effetto complessivo di confidenzialità, rilevato anche da alcuni osservatori dell’epoca.37 Credo che a questo concorrano diversi fattori. Primo, nessun argomento viene considerato astrattamente come se lo si stesse osservando da una presunta neutralità. La soggettività del punto di vista è esplicitata e anzi rivendicata. Licia Conte si espone e si posiziona, ad esempio dichiarando di non essere una militante femminista, ma affermando che il femminismo ha radicalmente cambiato il suo modo di vedere il mondo. Inoltre, vi è una intensa ricerca espressiva. L’ora di trasmissione radiofonica era preceduta da lunghi dialoghi dal vivo tra Licia Conte e le ospiti, dialoghi che funzionavano come una sorta di palestra prima della messa in onda.38 Nell’articolo su «L’Orsaminore» a cui si è già fatto riferimento, Licia Conte scrive: tentai […] di non considerare il microfono come un accessorio o un terminale, o peggio ancora uno strumento di propaganda, tentai di considerarlo un mezzo le cui possibilità espressive sono ancora largamente da indagare, ma che certamente partecipa, in modi non del tutto chiari, come attore nel processo di comunicazione.39

Ma, soprattutto, il programma si rivolgeva a una comunità politica entro cui si incanalavano reciproci riconoscimenti e che si esprimeva in un linguaggio condiviso. Nell’introduzione al libro che restituisce traccia scritta del ciclo donne e psicoanalisi, in onda nel ’79, Mariella Loriga scrive: Certamente la trasmissione […] è stato un lavoro fatto soprattutto tra donne; e una sua caratteristica è consistita anche nella rete di rapporti che ne è derivata. Come molte donne che trattavano di questi argomenti – sia nel primo che nel secondo ciclo – ci conoscevamo appena, o per nulla, ma questa esperienza comune ha fatto sorgere tra tutte noi una specie di amicizia, ha provocato 36. I cicli sono successivamente riproposti, ma dalla schedatura fornita dalle Teche Rai non è chiaramente comprensibile quando. 37. Lamberti, La radio in diretta, pp. 409-410. 38. Conte, Riserva per donne e altri indiani. 39. Ivi, pp. 47-50.

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una serie di comunicazioni e contatti. […] Tutte comunque ci sentivamo in qualche modo partecipi alle parole delle altre.40

Lo stile del discorso – questa è la mia ipotesi – viene anche da un certo tipo di esercizio della parola che era entrato nella consuetudine della pratica politica di quegli anni e che implicava, appunto, il coinvolgimento personale. Si trattava, cioè, di un tipo di conversazione diffusa, in particolare nel contesto del movimento delle donne ma per osmosi anche al di fuori dei circuiti militanti, che trovava nel mezzo radiofonico l’habitat ideale. Ciò è stato eclatante nella mia esperienza di ascolto. Se studiare un’altra epoca è come fare un viaggio in un paese straniero, come suggerisce David Lowenthal41 indossare le cuffie ed immergersi nell’ascolto di questa trasmissione è stato come entrare in una macchina del tempo, entrando in contatto con una pratica discorsiva diversa da quella che incontro nell’ascolto di trasmissioni radiofoniche contemporanee. Il filo del ragionamento segue una traiettoria che di continuo attraversa i piani nel tentativo di congiungere quello individuale e quello collettivo, solitamente partendo dalla narrazione di sé. Le connessioni tra dimensione del personale e dimensione politico-sociale si ritrovano, pur nelle differenze dei formati, anche in Sala F e Si dice donna e sono mediate da una griglia concettuale che vorrei dipanare proprio attraverso la descrizione del programma. Nelle pagine che seguono entrerò dunque nel merito dei contenuti e della struttura della trasmissione, focalizzandomi in particolare su alcuni temi e puntate particolarmente rappresentativi. Nel primo ciclo erano coinvolte Paola Piva (donne e lavoro), Dacia Maraini (donne e corpo), Letizia Paolozzi (donne e sentimenti), Rossana Rossanda (donne e politica). Nel secondo, Bianca Maria Frabotta (donne e letteratura), Chiara Saraceno (donne e famiglia), Franca Chiaromonte (le donne delle generazioni più giovani), Mariella Loriga (donne e psicanalisi). Queste trasmissioni sono poi diventate dei libri che ne riportano la trascrizione integrale.42 40. Mariella Loriga, L’identità e la differenza. Conversazioni a Radiotre su donne e psicanalisi, Milano, Bompiani, 1980, pp. 13-14. 41. David Lowental, The past is a foreign country, Cambridge, Cambridge University Press, 2015. 42. Biancamaria Frabotta, Letteratura al femminile. Itinerari di lettura: a proposito di donne, storia, poesia, romanzo, Bari, De Donato, 1980. Mariella Loriga, L’identità e la

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Nel ciclo donne e politica Rossana Rossanda sviluppa una serie di dialoghi e ragionamenti intorno al perché la politica «non ha voluto le donne, perché oggi le donne non vogliono la politica, e se in questo doppio rifiuto non ci sia l’embrione sia d’una crisi sia d’una critica della politica, che diventi politica diversa».43 Lo fa attraverso alcune parole chiave: politica, libertà, fraternità, uguaglianza, resistenza, stato, partito, rivoluzione, femminismo. Dopo un brano da un’intervista registrata da Lidia Campagnano, collaboratrice di Rossanda nella costruzione delle puntate, a una militante, Paola Redaelli, Rossanda commenta in diretta: Lidia: Che cosa crea il blocco fra donna e politica? Perché l’inserimento è difficile? Secondo te l’ostacolo dove sta? Paola Redaelli: Sta, credo, nel tipo di rapporti che sottendono la politica, come è sempre stata praticata. E che sono diversi dai rapporti che le donne sentono necessari non solo per poter esprimere i propri contenuti, ma anche per fare le cose assieme. Voglio dire che lo stato, le istituzioni, i partiti (perfino in parte la famiglia) trascurano il rapporto personale, non lo considerano come un rapporto vitale fondamentale, da prendere necessariamente di petto se si vuol avviare una trasformazione vera della società. Le tecniche politiche sottintendono anzi una specie di formalizzazione dei rapporti in ruoli, gerarchie eccetera. Io credo che le donne, per esprimersi, per cambiare, abbiano bisogno di avere di fronte la persona… come è, disvelata. Rossana: Disvelata, sentite questa parola. Le femministe ci dicono che vogliono la persona non solo partecipe, ma esposta in tutta sé stessa; non più in qualche modo coperta, velata, resa astratta dalla sua appartenenza a un genere o a una categoria (cittadino, votante, elettore, tesserato a un partito), che è una forma di unificazione ma anche, esse ci dicono, di cancellazione. Perché sono le donne a sentire acutamente questo doppio aspetto, la politica assieme come identità e come occultamento?44

L’operazione di “disvelamento” che le femministe intendevano realizzare si è concretizzata in primo luogo in pratiche di socializzazione che hanno dato forma ai discorsi fino a diventare un codice comunicativo condiviso dalle donne che ne vivevano l’esperienza. La ricerca di autodifferenza. Rossana Rossanda, Le altre. Conversazioni a Radiotre sui rapporti tra donne e politica, libertà, fraternità, uguaglianza, democrazia, fascismo, resistenza, stato, partito, rivoluzione, femminismo, Milano, Bompiani, 1979. Chiara Saraceno, Uguali e diverse. Le trasformazioni dell’identità femminile: percorsi di storia sociale nelle conversazioni a Radiotre, Bari, De Donato, 1980. 43. Rossanda, Le altre, p. 7. 44. Ivi, p. 73.

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nomia e di autenticità, tra le parole chiave di quegli anni, era a sua volta un processo di soggettivazione e di costruzione di identità.45 In questo senso credo si possa parlare di autocoscienza come di tecnologia del sé.46 Le donne che parlavano al microfono di Noi, voi, loro, donna lo facevano in un certo modo perché abituate a praticare forme discorsive e collettive di auto-osservazione di auto-critica. Lo facevano perché avevano appreso a farlo, ne avevano cioè interiorizzato la pratica attraverso una disciplina costante e prolungata. Una pratica che da un lato poggiava su alcune caratteristiche tipiche della confessione – nel senso in cui ne scrive Michel Foucault – come ha fatto notare Lidia Cirillo, femminista marxista e testimone di quel periodo storico.47 Ma che, a differenza di questa, non si risolveva nel racconto dell’intimità in cerca di redenzione ma si concretizzava in un progetto di cambiamento della propria vita in quanto intrecciata al contesto, come spiega Lea Melandri.48 La stessa Lidia Cirillo, nel commentare quella che definisce «una pratica obiettivamente incredibile», osserva che Le donne che si raccontano [nell’autocoscienza] non sono donne qualsiasi: negli ambienti maschili da cui provengono hanno imparato la critica ai rapporti tra le classi, tra le generazioni, tra le aree del mondo che per analogia estendono ai rapporti di genere; dispongono di categorie come rivolta, autoritarismo, demistificazione, autonomia, liberazione, patriarcato, cambiamento… Con la pratica dell’autocoscienza la critica investe anche i rapporti personali, che il velo dell’ipocrisia dell’Italia democristiana e la coda di paglia degli uomini di sinistra ha preservato dai cambiamenti.49

In Noi, voi, loro, donna sentiamo in azione le caratteristiche di tali pratiche discorsive. Sebbene la componente ideologica del discorso si per45. Sul concetto di autonomia e di autocoscienza, con riferimento ai testi dell’epoca vedere: Lessico politico delle donne: teorie del femminismo, a cura di Manuela Fraire, Milano, Fondazione Badaracco – FrancoAngeli, 2002. Prima edizione: Gulliver, 1978. Lea Melandri, L’infamia originaria. Facciamola finita con il cuore e la politica, Milano, L’Erbavoglio, 1977. Sul concetto di “autenticità” si veda Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Milano, Scritti di Rivolta femminile, 1974. 46. Tecnologie del sé: un seminario con Michel Foucault, a cura di Luther H. Martin, Huck Gutman, Patrick H. Hutton, Torino, Bollati Boringhieri, 1992. 47. Lidia Cirillo, Lettera alle romane. Sussidiario per una scuola dell’obbligo di femminismo, Milano, Il dito e la luna, 2001, pp. 63-69. 48. Lea Melandri, Una visceralità indicibile. La pratica dell’inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta, Milano, FrancoAngeli, 2000. 49. Cirillo, Lettera alle romane, p. 60.

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cepisca in modo evidente, quell’avvicendarsi di voci al microfono non fu semplicemente un esercizio di stile o la riproduzione di una ritualità. Come ha osservato Licia Conte, Con rara disponibilità, le donne che vi si trovarono implicate [nella trasmissione] tentarono, mentre il movimento era in declino, di rifare il cammino del femminismo per chiarirne le ragioni e rifletterci sopra. Un lavoro di pazienza, di confronto di esperienze, di confronto di lingue. Credo che questo sforzo abbia prodotto quel tono riflessivo, dubbioso, di valutazione prudente, che ha segnato i momenti migliori di quel programma. Questa fatica fu rappresentata al microfono mai considerato estraneo, né da esso furono mai espunti dubbi e perplessità.50

Il tema del bilancio è, in effetti, un filo costante che attraversa il susseguirsi dei cicli di Noi, voi, loro, donna. A dominare i discorsi non sembra essere la riflessione su ciò che sta finendo, o sul perché, ma l’interrogativo su ciò che si è guadagnato e ciò che si è perso. Vi è come uno stupore nel prendere atto di una distanza tra ciò che si era prima dell’esperienza del femminismo e ciò che si è diventate. Vi è un ragionamento su quello che si è riuscite a modificare nelle proprie relazioni e su quello che è cambiato, o non è cambiato, nello stare tra donne, nei gruppi misti, nei partiti, nel sindacato, nella famiglia e nella società. La trasformazione è il titolo di un nuovo ciclo che inizia il 29 ottobre 1979: lunedì, la trasformazione provocata dal femminismo, con Manuela Fraire; martedì, le trasformazioni dovute a cambiamenti strutturali economici e sociali, con Clara Gallini; mercoledì, un tema definito «tradizionale ma importante per il femminismo», cioè «l’appropriazione della salute», con Tiziana Del Pier; giovedì, rapporti tra donne e politica, con Lucia Annunziata; venerdì Annamaria Mori intervista «donne che hanno raggiunto una professionalità concreta, che magari l’avevano raggiunta anche prima, che cosa è successo e cosa in loro è cambiato con il movimento delle donne».51 Il prezzo dell’emancipazione è il titolo della puntata del 5 novembre. Adelaide ha 26 anni e ha iniziato a fare politica nel Sessantotto. In studio vengono proposti degli stralci di una conversazione tra lei e Manuela Fraire, poi commentati in diretta. È una conversazione di forte intensità, in cui a partire dall’esperienza di Adelaide si ragiona tra l’altro sul confronto tra le rivendicazioni e le istanze di liberazione verbalizzate nei gruppi e la spe50. Conte, Riserva per donne e altri indiani, pp. 47-50. 51. Noi, voi, loro donna, 29 ottobre 1979, Teche Rai.

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rimentazione, alla prova dei fatti, delle dinamiche che continuano a svilupparsi nei rapporti amorosi e sessuali tra uomini e donne; un ripensamento della distanza tra sé in quanto militanti e le donne non militanti, le altre; è anche una riflessione su cosa si intenda per emancipazione, a partire dal ruolo sociale di lavoratrice, ruolo conquistato a fatica. Fraire: ti senti più libera dalla dipendenza dell’amore di un uomo? Hai bisogno di un uomo per sentirti intelligente, bella, accettata? Adelaide: no, anzi al momento attuale, …ho visto che… non è che cerco l’affetto di una persona per… F. al momento un uomo non ti serve più a che cosa? A. prima di tutto non mi serve più alla mia affermazione culturale e neanche nella affermazione mia in campo lavorativo, non mi serve più economicamente F. e a che ti serve? A. non dovrebbe servire a niente, dovrebbe essere un aiuto reciproco, è un incontro reciproco tra due personalità F. allora adesso parliamo della tua emancipazione, perché mi stai dicendo che essendo libera dalla dipendenza economica e intellettuale […] speri che date queste condizioni tu possa incontrare l’uomo non più come una donna che dipende da lui, ma come una persona alla pari. È così? A. sì questa è la mia speranza ma anche la mia convinzione. Infatti, ho scontato il fallimento nel momento in cui ho sperimentato la richiesta dell’uomo per problemi di solitudine F. come mai questa difficoltà che tu chiami solitudine resta, malgrado tu faccia un lavoro che ti piace, malgrado tu sia contenta di guadagnarti la vita e di avere una casa per conto tuo? A. perché secondo me restano i ruoli F. che vuol dire A. restano i ruoli contro cui lotti sempre te come personaggio, tenendo sempre presente questo compromesso che il ruolo ti dà; il ruolo della donna emancipata che vive sola ed è stata tanto brava a fare questa esperienza, che va trattata [come] liberata secondo i concetti tradizionali, è colei alla quale si può fare di tutto, quella con cui puoi non farti sentire più, risentirla dopo tanto tempo, perché tanto non ha bisogno di te, tanto pensi che si è liberata e che quindi tutto il mondo che si è costruita è un mondo libero e felice da cui tu puoi attingere e inzupparci il pane quanto vuoi F. sei pagata per un lavoro che ti piace A. sì F. la chiameresti emancipazione? A. sì anche perché ho dovuto lottare molto più degli uomini per ottenerlo, avrei potuto fare cose più semplici, potevo anche scegliere di sposarmi come ripiego, in questo senso classico potrei chiamarla emancipazione

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F. cosa intendi in senso classico? A. cosa vuol dire emancipazione io non potrei mai definirlo. C’è una differenza notevole, per esempio, tra una donna che lavora e la donna che non lavora, hanno problemi diversi, c’è una apertura mentale diversa; una cosa è trasferirsi in un ambiente di lavoro dove ci sono contatti con più persone, stare tra le quattro mura di una casa non ti dà contatto sociale. Questo ti dà circolazione di idee, anche se in modo superficiale, ho notato che, per esempio con le mie colleghe si è molto parlato dei nostri problemi […].52

Il binomio emancipazione/liberazione è stato un dispositivo teoricopratico ricorrente nel femminismo degli anni Settanta. I significati attribuiti dalle militanti a questi due concetti, pensati talora come fasi successive in un percorso progressivo, talora in opposizione reciproca, erano anche un modo di prendere parola come soggetto politico nuovo e differenziato rispetto alla generazione precedente.53 Nonostante le possibilità di autonomia che si aprivano per le donne grazie alle trasformazioni del sistema produttivo e ad una condizione giuridica impensabili fino a solo due decenni prima, i ruoli di genere e la divisione sessuale del lavoro sembravano restare intatti, soprattutto negli ambienti domestici. A partire da questa analisi le femministe che si organizzavano in piccoli gruppi fondavano il proprio progetto di liberazione sulla necessità di distruggere la famiglia patriarcale a partire dalla condivisione delle proprie esperienze e attraverso la pratica dell’autocoscienza, che avrebbe fornito gli strumenti per estirparla lì dove affondava le sue radici più tenaci: la sessualità e l’amore.54 La formula «Il personale è politico» debordò dall’alveo del piccolo gruppo per fluire lungo i mille canali in cui si articolava la Nuova sinistra. Se sul piano teorico emancipazione e liberazione erano concepite come fasi distinte e successive, quello che si verificava sul piano concreto era una tensione continua tra cambiamento di sé e cambiamento del contesto, dove istanze di emancipazione e istanze di liberazione si mescolavano, giorno per giorno, tra spinte in avanti e compromessi. Tra i campi di battaglia su cui giocare la partita della liberazione non c’era solo la sessualità ma anche il luogo di lavoro e anche in quest’ambito le voci che si avvicendano nel flusso radiofonico di 52. Noi, voi, loro, donna, 5 novembre 1979, Teche Rai. 53. Sull’uso dei concetti di emancipazione e liberazione nel femminismo degli anni Settanta, si veda Rossi-Doria, Dare forma al silenzio, p. 250. Emma Baeri, Dividua, Padova, Il Poligrafo, 2013, pp. 91-116. 54. Teorie del femminismo, in Lessico politico delle donne, Milano, Gulliver, 1978. Nuova edizione, Lessico politico delle donne, pp. 51-56.

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Noi, voi, loro, donna tentano di fare un bilancio, mettendo a fuoco la ferrea rigidità delle strutture di genere e la difficoltà del cambiamento. A donne e lavoro è dedicato il ciclo curato da Paola Piva, della Federazione lavoratori metalmeccanici. Riporto a titolo di esempio un brano della puntata del 6 novembre 1978, la prima di 13. Paola Piva. La fatica di conciliare famiglia e lavoro, credo che questo è un pezzo che possiamo dare per acquisito, una lotta conosciuta e vissuta da molte donne. Invece a me piacerebbe sapere perché in questi ultimi anni, proprio quelli più recenti, assistiamo a una crisi di questo sforzo; molte donne che hanno cominciato a lavorare, che si sono fatte anche una strada, oggi stanno cominciando a ripensare a questo cammino svolto, non credo solo per tornare alla famiglia come prima, riassumere il ruolo domestico come si viveva 40 anni fa, ma perché quello che hanno cercato nel lavoro non lo hanno trovato. Ovvero non hanno trovato tutto quello che vorrebbero oppure hanno pensato che lo sforzo fatto non valeva la candela, come si dice, o comunque non c’è stata questa identità che invece l’uomo trova nel lavoro, l’immagine che hanno di sé non corrisponde alle aspettative. Vorrei in qualche modo condurre una ricerca su questo: che gusto c’è a lavorare per una donna? Voi mi direte dipende dal lavoro che fa, se è un lavoro interessante o meno, un lavoro ben pagato o dequalificato. Ci sono insomma tutti questi elementi che non vogliamo nasconderci, e tuttavia, malgrado le differenze che esistono nella qualità del lavoro, esistono anche immagini diverse di soddisfazione e riconoscimento di sé che variano da donna a donna.55

L’approfondimento inizia con la testimonianza di un’operaia che, intervistata da Roberta Tatafiore, racconta la vita in fabbrica prima del ’69, quando non erano consentite pause per andare in bagno né lavarsi le mani e di come avessero lottato per organizzare il lavoro e renderlo meno alienante. Paola Piva prosegue leggendo un pezzo del documento delle delegate del Coordinamento donne FLM (Federazione lavoratori metalmeccanici),56 in cui si dichiara la «coscienza che le disuguaglianze che viviamo sul lavoro 55. Noi, voi, loro, donna, 6 novembre 1978, Teche Rai. 56. Il Coordinamento donne FLM era stato fondato nel 1976 da alcune sindacaliste contaminate dalle pratiche femministe, inclusa l’autocoscienza, che volevano stare nell’organizzazione cercando di trasformarla sia nei contenuti che nel linguaggio che negli obiettivi politici. Le vicende del Coordinamento donne FLM si concludono nel 1979. Anna Frisone, Femminismo al lavoro. Come le donne hanno cambiato il sindacato in Italia e in Francia (1968-1983), Roma, Viella, 2020. Lussana, Il movimento femminista in Italia, pp. 113-150.

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dipendono dal ruolo di moglie, madre e casalinga che noi svolgiamo a livello sociale».57 E, sul sindacato, Roberta Tatafiore intervista una sindacalista: lavorare per il sindacato mi piace, […] si parla di cose che capisco, ci sono obiettivi che condivido in quanto lavoratrice. Certo il mio lavoro non è qualificato, non so se per colpa del sindacato che mi ha proposto questo lavoro, oppure perché i problemi sono miei personali e non essendo riuscita a risolverli adesso mi trovo a fare un lavoro dequalificato, con la coscienza che sarei anche in grado di fare un lavoro più qualificato, […] il fatto di avere tre figli e doverci badare io è un problema che è comune a tante donne e a tante lavoratrici come me. Certo posso dire a questo punto che il sindacato non si fa carico di questi problemi che non sono soltanto miei personali, ma potrebbero essere risolvibili se soltanto venissero assunti come problemi generali della classe operaia e delle lavoratrici che sono una parte della classe operaia. Certo è che così com’è strutturato oggi il sindacato, è difficile per una donna fare attività sindacale.58

La trasformazione, come dicevamo, è il titolo del ciclo di Noi, voi, loro, donna in questa fase di disgregazione dei gruppi e nel venir meno delle modalità di socializzazione che negli anni precedenti avevano cambiato la vita di molte. Un processo che genera non solo disorientamento e sofferenza, come documentato da inchieste dell’epoca e dalla storiografia più recente,59 ma anche domande intorno alle proprie pratiche politiche. Ragionamenti che trovano un luogo di espressione anche in Noi, voi, loro, donna: anche qui, come abbiamo osservato, a prevalere non è il senso della sconfitta ma quello del bilancio, dell’analisi e, in certa misura, del rilancio. Da Paola Stelliferi viene la sollecitazione – che condivido – a problematizzare la «valenza terminale» del biennio 1977-1979, sia come strumento di periodizzazione storiografica sia riguardo alla percezione che ne ebbero le e i contemporanei, inquadrando la parabola del neofemminismo in un arco di tempo che si estende fino alla fine degli anni Ottanta.60 57. Noi, voi, loro, donna, 6 novembre 1978, Teche Rai. 58. Ibidem. 59. Mirella Alloisio, Marisa Fumagalli, Travolte dal riflusso, in «Noi donne»,10-11 (1979). Giuseppina Ciuffreda e Stefania Raspini, Dal piccolo gruppo verso… il piccolo gruppo, in «Effe», 3-4 (1979). Paola Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta. 60. Paola Stelliferi, Fare storia del neofemminismo italiano: origini, ipotesi, risultati e prospettive, in L’Italia degli anni Settanta. Narrazioni e interpretazioni a confronto, a cura Fiammetta Balestracci e Catia Papa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019.

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La stagione del 1980 si apre con un ciclo sul lavoro e continua con lo schema tradizionale: ogni giorno un tema sviluppato da una curatrice attraverso interviste e materiali. Lunedì c’è Adriana Zarri con donne e fede. Martedì Elena Gagliasso con donne e scienza. Mercoledì Fiamma Nirenstein e Norma Rangeri su il potere conquistato. Giovedì Angela Bianchini con il piacere di narrare. Venerdì le notizie a cura di Chiara Galli e Silvia Costantini. La prospettiva di interrogare la propria vita a partire dall’esperienza del femminismo è ancora dominante, così come il bisogno di ripercorrere criticamente l’esperienza, anche per individuarne i limiti e gli infingimenti. Il potere conquistato viene indagato anche al di fuori di ambiti politici, come ad esempio nella puntata in cui si parla di vacanze. Norma Rangeri. Le vacanze tra donne hanno fatto esplodere contraddizioni violentissime, vogliamo indagare non solo il piacere ma anche i problemi che esplodono quando le donne stanno insieme e progettano delle cose insieme, perché le vacanze sono un progetto insieme, […] quando si fa questo, quando le donne stanno insieme in un modo che non è mai stato loro concesso, quando si conquistano questo piccolo e parziale potere, succedono le contraddizioni che nella vita con l’uomo non si possono sperimentare.61

Il racconto si alterna tra la narrazione delle esperienze vissute e il tentativo di analizzarle, come se in sottofondo fosse sempre acceso il motore dell’autoanalisi secondo griglie interpretative e parole chiave ereditate dalla pratica dell’autocoscienza: come ci siamo comportate tra noi? Come abbiamo reagito al contesto? Abbiamo assunto dei ruoli? Quali? Che sentimenti abbiamo provato? In che modo ruoli e atteggiamenti sono modellati dalla cultura che vorremmo cambiare? Lo abbiamo fatto per stare insieme. L’affettività nel quotidiano che le donne vogliono provare secondo me non è fatto ideologico, risponde a un cambiamento nella vita. I rapporti con le donne che abbiamo costruito con le donne in questi anni sono anche di tipo emotivo, di desiderio di accettazione da parte dell’altra e non solo dell’uomo, di gusto o comunque desiderio di fare delle cose insieme, cose di questo tipo; non è un progetto ideologico.62

La stagione che inizia nell’ottobre 1981 e termina prima dell’estate 1982 prevede cicli più brevi in cui un tema viene analizzato nell’arco della settimana. Noi, voi, loro, donna sta cercando una strada per rinnovarsi 61. Noi, voi, loro, donna, 6 giugno 1980, Teche Rai. 62. Ibidem.

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e si avvia verso una svolta. Curatrice è sempre Licia Conte, ma alla conduzione c’è ora Mariella Gramaglia.63 Oltre a lei, al microfono compaiono alcune delle voci che saranno conduttrici di Ora D, come Franca Fossati e Chiara Galli. Uno di questi cicli brevi è dedicato alla domanda se il femminismo abbia cambiato la sinistra. La domanda è a sua volta costellata di interrogativi, riepilogati ad ogni inizio di puntata: il movimento femminista è un movimento rivoluzionario o di modernizzazione della società? Si può pensare a una modificazione della famiglia o alcune strutture della società rimangono impermeabili all’impatto della politica? La politica di oggi così di nuovo relegata alla mediazione tradizionale ha ancora qualcosa da (o vuole ancora) imparare dal femminismo? Radiotre, come abbiamo visto, è il canale che ha più possibilità di raggiungere il target direttamente interessato a questo dibattito. Come già rilevato, siamo in tempi di bilanci: i brani che seguono evidenziano le resistenze al cambiamento da parte delle strutture organizzate della sinistra, parlamentare e no, con le quali il rapporto del neo-femminismo fu molto stretto. Qui Mariella Gramaglia, alla conduzione insieme a Licia Conte, dialoga con Rossana Rossanda: Rossanda: la sinistra come istituzione non ha capito il femminismo, al massimo lo ha accettato, ha ammesso formalmente che esisteva una oppressione che non è riconducibile a oppressione di classe o del diritto politico formale, ma che abbia capito quali fossero i contenuti, i problemi di identità, la nuova soggettività che il femminismo esprimeva, questo io proprio lo negherei, non l’ho visto da nessuna parte […] mi è parso che non ci sia stata curiosità vera nei confronti del femminismo, c’è stata presa d’atto che qualcosa cambiava e una reazione di autodifesa […].64

Il giorno dopo è Alberto Asor Rosa a rispondere. La sinistra è una cosa, io sono un’altra. […] Non ho elementi di giudizio oggettivi. Se si dovesse giudicare dell’influenza del femminismo sulla sinistra tenendo conto delle grandi tematiche di cui il femminismo è stato portatore si dovrebbe dire che senza dubbio molte di queste tematiche sono state assorbite dalla sinistra organizzata e non […] intorno a queste tematiche sono state fatte e vinte alcune delle più importanti battaglie di questi anni. Se si 63. Già collaboratrice di Tilde Capomazza per Si dice donna, sarà direttrice di «Noi donne» dal 1983 al 1987, parlamentare dal 1987 al 1992, assessora al Comune di Roma dal 2001 al 2007. 64. Noi, voi, loro, donna, 24 febbraio 1982, Teche Rai.

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dovesse giudicare dal mutamento degli universi concettuali, dalle gerarchie di valori, dal modo di far politica, dell’atteggiamento mentale dei militanti della sinistra, credo che la risposta debba essere molto più critica […] l’assorbimento delle tematiche è avvenuto a livello di programma e di linea politica consapevole e dichiarata mentre tutto ciò che precede la formazione di queste linee e questo programma resta legato a vecchie gerarchie, priorità, valori.65

Mentre si fa il bilancio del periodo che si è concluso, si tenta di osservare la fase che si sta aprendo. Dal punto di vista della formula organizzativa, e forse anche dell’immaginario politico, potremmo dire che il piccolo gruppo sta agli anni Settanta come la cooperativa di donne sta agli anni Ottanta. Credo che si possa interpretare in questo senso la scelta del tema conduttore dell’ultimo ciclo di Noi, voi, loro, donna, che si apre il 5 luglio e si chiude il 31 dicembre (curato da Licia Conte e Chiara Galli, con quest’ultima in voce, cioè conduttrice al microfono), ovvero come il femminismo ha cambiato i connotati del rapporto tra donne e lavoro salariato.66 Alcune testimonianze, in particolare, esplicitano la continuità tra l’esperienza dei collettivi, con il suo portato cognitivo e affettivo, e le sperimentazioni successive che mirano a portare quella ricchezza sul terreno lavorativo in un contesto segnato da politiche di globalizzazione neoliberista.67 Gli anni Ottanta sono infine arrivati anche per Noi, voi, loro donna e il programma si avvia ad una radicale trasformazione. 4. Ora D. Dialoghi in diretta dedicati alle donne (1983-1988) A partire da gennaio 1983 Ora D prende il posto, nella stessa fascia oraria, di Noi, voi, loro donna, assumendo la struttura che le sarà caratteristica fino alla fine, nel 1988. Come segnale di continuità viene mantenuto il sottotitolo: Dialoghi in diretta dedicati alle donne. Le esigenze di rinnovamento erano state prefigurate già nel 1981, nell’articolo su «L’Orsaminore» a cui si è già fatto riferimento,68 dove Licia Conte 65. Ibidem. 66. Tema importante su cui cresce la storiografia, cfr. ad es. Separate in casa. Lavoratrici domestiche, femministe, sindacaliste: una mancata alleanza, a cura di Beatrice Busi, Roma, Ediesse, 2020. 67. Significativa in questo senso la puntata di Noi, voi, loro donna, 5 novembre 1982, Teche Rai. 68. Conte, Riserva per donne e altri indiani.

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ragionava sulla vita di questo programma non solo nel contesto della Rai ma in generale della cultura di sinistra, quella che aveva «introdotto e sostenuto questi laboratori nel cuore della cittadella del potere informativo» e che vivendo «una vera crisi d’identità» puntava tutto sulla «fiction». «In questo clima – scriveva Licia Conte – gli spazi delle donne, imprigionati in gabbie rigide e non comunicanti, si avviano anch’essi o alla degradazione o alla riconversione verso un “genere”: il rotocalco femminile». Come evitare di rinchiudersi nel “ghetto” degli spazi per donne? Si può fare – era il commento di Licia Conte – se le donne che realizzano queste trasmissioni non si limitano a difendere gli spazi conquistati ma ne fanno uso per una «ricognizione dello stato della cultura femminista» e per continuare a sollecitare il cambiamento sia dell’ente radiotelevisivo sia della cultura di sinistra. Cambiava la voce al microfono, il formato, il ritmo. Di fronte ai radioascoltatori e alle radioascoltatrici, che reagirono con telefonate e lettere in redazione, il passaggio avvenne comunque senza recriminazioni da parte di Licia Conte, che battezzò la nuova trasmissione in una puntata, l’ultima della vecchia, dialogando con Franca Fossati, nuova conduttrice e curatrice, e dichiarando la propria soddisfazione per il fatto che quello spazio avrebbe continuato a vivere anche senza di lei.69 Franca Fossati,70 ex militante di Lotta continua e redattrice dell’omonimo giornale (direttrice di «Noi donne» dal 1987 al 1994), fu tra le curatrici e conduttrici della trasmissione fino al 1985.71 Non era comunque solo una questione di potere nella Rai lottizzata. Il femminismo non era più massicciamente nelle piazze e veniva meno la centralità di alcune pratiche che avevano caratterizzato le formazioni degli anni Settanta a partire dall’autocoscienza. Le donne che in quelle piazze e in quei gruppi c’erano state avevano intrapreso nuovi esperimen69. Noi, voi, loro, donna, 5 dicembre 1982, Teche Rai. 70. Per un approfondimento sulla biografia di Franca Fossati e del suo rapporto con il femminismo, si veda Stefania Voli, Quando il privato diventa politico: Lotta Continua 1968-1976, Roma, Edizioni associate, 2006, pp. 288-313. Cirant, L’archivio sonoro di «Ora D. Dialoghi in diretta dedicati alle donne», pp. 68-80. Ragazze nel ’68, a cura di Carmen Leccardi, Barbara Mapelli, Marina Piazza, Franca Pizzini, Assunta Sarlo, Milano, Enciclopedia delle donne – Fondazione Badaracco, 2018. 71. “In voce” come conduttrici di Ora D: Franca Fossati (1983-1985), Silvia Garroni (1983-1986), Silvia Neonato (1983-1985), Chiara Galli (1984-1985), Mariella Gramaglia (1984), Rita Musa (1986-1987), Bia Sarasini (1985-1987), Valentina Savioli (1987-1988).

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ti individuali e collettivi: i corsi delle 150 ore, le cooperative, i centri di documentazione, le riviste, l’ingresso in settori disciplinari per tradizione esclusivamente maschili. Furono in particolare le riviste e gli atti dei convegni a dare testimonianza di questo passaggio, che Marina D’Amelia descrive in un numero di «Memoria» dedicato ai gruppi degli anni Ottanta.72 Da un lato, scrive D’Amelia, la generazione femminista non è più «l’unica rappresentante delle istanze femminili sul piano della visibilità politica» e le sue aggregazioni si confrontano con altre che sono legate ad interessi specifici. Dall’altro questi nuovi percorsi sono il segno di «preoccupazioni nuove, di ricerca di nuove esperienze, di sperimentazione di dimensioni non conosciute nello stare insieme, dove ci fosse spazio per le rispettive competenze, passioni culturali e confronto con donne non attive nel femminismo».73 Percorsi in cui si ridefinirono in forma diversa alcuni temi già noti al femminismo, come il rapporto con le istituzioni, la leadership, il bisogno di appartenenza e di fusionalità nel gruppo di donne, e altri nuovi si imposero, come la commistione tra lavoro retribuito e militanza, le battaglie ecologiste, per il disarmo, per una legge sulla violenza sessuale, l’organizzazione della memoria e delle fonti, l’avvento delle nuove tecnologie riproduttive. Il nuovo programma era dunque pensato dalle autrici e proposto alle ascoltatrici e agli ascoltatori come un prodotto giornalistico, nello specifico come un rotocalco radiofonico. Ogni puntata iniziava con la rassegna stampa realizzata dalla curatrice, a seguire due o tre servizi strutturati per rubriche che si prolungavano per un certo numero di puntate e che scandivano i giorni della settimana. Alcune rubriche si protrassero nel corso degli anni, altre per poche puntate. Il ritmo della trasmissione era più veloce, molto più spazio era dato alla cronaca e alle rubriche di servizio. Veniva meno il riferimento esplicito e dichiarato al femminismo come cultura di riferimento e anche lo sforzo teorico che la trasmissione precedente aveva intrecciato con le testimonianze di vita vissuta, che pure restano un elemento portante anche in Ora D. Si realizzava dunque ciò che Licia Conte aveva paventato nell’articolo su «L’Orsaminore» del 1981, ma l’esito di questo processo – io credo – non fu una mediazione al ribasso rispetto alla formula precedente: da un 72. Marina D’Amelia, Dalla differenza alla differenziazione. Le difficili innovazioni dei gruppi, in Donne insieme. I gruppi degli anni Ottanta, in «Memoria», 13 (1986), pp. 122-131. 73. Ivi, p. 124.

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lato era lo specchio dei tempi; dall’altro il tentativo di tenere aperto uno spazio di e per le donne, menre infiniti colpi di spugna venivano dati sull’esperienza politica del femminismo. Cambiò anche la struttura redazionale. Il nuovo programma fu affidato ad una redazione con due poli, Roma e Milano.74 Le nuove curatrici erano, il più delle volte, anche conduttrici.75 Sebbene molte fossero giornaliste, venivano assunte come programmiste-registe, con contratti a termine. A condurre, “in voce”, furono fino al 1985 Franca Fossati, Chiara Galli, Silvia Garroni, Mariella Gramaglia, Silvia Neonato. Le trasmissioni milanesi erano gestite dal Griff (Gruppo di ricerca sulla famiglia e la condizione femminile, avviato a Milano nel ’73 da Laura Balbo);76 al microfono vi era Marina Piazza77 a cui successivamente si aggiunse Donatella Borghesi. A gennaio 1985 la trasmissione venne sospesa per due mesi e ripresa nel mese di marzo in veste rinnovata: due servizi a puntata, anziché tre, e (a partire da ottobre ’86) telefonate in diretta anche tra un servizio e l’altro con la possibilità per il pubblico di interagire più assiduamente con le/gli ospiti (presenti in studio o al telefono). Alla conduzione si alternarono Rita Musa, Bia Sarasini, Marina Forti, Valentina Savioli, Cecilia Castellani: il loro rapporto con il femminismo non era scontato, come dimostra la testimonianza 74. Nella memoria di Marina Piazza (si veda Cirant, L’archivio sonoro di «Ora D. Dialoghi in diretta dedicati alle donne», p. 27) questa collaborazione fu avviata nel corso di un seminario internazionale sui centri di ricerca e documentazione delle donne a cui parteciparono Tilde Capomazza e Marina Tartara. Sono disponibili gli Atti del Seminario internazionale “Centri di ricerca e documentazione delle donne: esperienze di organizzazione e metodi di archiviazione” (Milano, 26-27 novembre 1981), Milano, Centro studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia, 1982. 75. Rita Musa: «le conduttrici erano anche curatrici, ma questo dipendeva anche dalle attitudini della persona: condurre era più impegnativo del curare, anche perché c’erano le telefonate in diretta che andavano gestite» (intervista realizzata il 15 maggio 2022, non registrata, trascritta fedelmente nel corso della stessa. Citazione rivista dalla testimone). Alcune delle conduttrici e collaboratrici di Ora D (ad esempio Mariella Gramaglia, Silvia Neonato, Fiamma Nirenstein) avevano lavorato anche in Si dice donna, la trasmissione di Tilde Capomazza in onda sulla Rete Tre televisiva dal 1977 al 1981. Tilde Capomazza, Si dice donna. Un dossier, Milano, Unione femminile nazionale, 2001. Tilde Capomazza, prefazione di Loredana Cornero, Tivvù passione mia, Roma, Harpo, 2016. 76. Cirant, L’archivio sonoro di «Ora D. Dialoghi in diretta dedicati alle donne», p. 81. 77. Sociologa e scrittrice, è stata Presidente della Commissione Nazionale Pari Opportunità tra uomo e donna tra il 2000 e il 2003.

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di Rita Musa78 che non si definiva una «femminista dura e pura» come invece le sembravano quelle del gruppo redazionale che l’aveva preceduta: la mia attività radiofonica inizia nel ’77, con le radio libere e in particolare Radio Milano libera. Lì ho conosciuto il femminismo. Ho partecipato ai collettivi femministi in modo blando, avevo fatto parte del Movimento studentesco, poi mi ero staccata e avevo partecipato ad altro, come avveniva allora, era un magma in movimento. Prima di me in redazione c’erano le femministe dure e pure che venivano in gran parte dai collettivi romani, da «Noi donne», dal Centro Virginia Woolf.79

In realtà, anche le donne che avevano preso in mano il programma nel 1983 si erano percepite altrettanto lontane dalle «femministe doc». Lo raccontano Marina Piazza e Franca Fossati: Eravamo tutte lontane, da un certo punto di vista, dal femminismo radicale, nessuna di noi aveva fatto parte di un gruppo vero di femminismo, come dire, non so, quelli “definiti”, avevamo fatto tutte esperienze di femminismo più diffuso, insomma più trasversale alle nostre esperienze lavorative, alla nostra vita (Marina Piazza).80 […] noi stesse, che avevamo un sacro rispetto e anche un sacro terrore delle femministe doc, non credo ci spacciassimo tanto come femministe […]. Io mi dicevo molto più facilmente una del movimento delle donne che non una femminista, perché il movimento delle donne era più largo, più eterogeneo. Intanto mi permetteva – io che avevo una formazione operaista – mi permetteva di comprendere, diciamo, le donne che io allora avrei definito proletarie […] (Franca Fossati).81

L’allusione al femminismo «puro», «radicale», «doc» rimanda ad un rapporto meno esclusivo con il separatismo: una pratica politica che negli anni Settanta era stata predominante nel femminismo e che ora non è più data per scontata. I confini di appartenenza percepiti così nettamente dalle testimoni appaiono però più sfumati se si considerano le multiple appartenenze che avevano caratterizzato il movimento già nel decennio precedente. Il permanere di una pratica discorsiva che enfatizza i nessi 78. Rita Musa inizia al lavorare in Rai nell’83, su Radio due, per la trasmissione Domenica con noi. 79. Intervista dell’autrice con Rita Musa, del 28 maggio 2022 (non registrata); citazione rivista e autorizzata dall’intervistata. 80. Cirant, L’archivio sonoro di «Ora D. Dialoghi in diretta dedicati alle donne», p. 83. 81. Ivi, p. 69.

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tra esperienza individuale ed esperienza collettiva è un’ulteriore chiave di lettura che consente di asserire la comune appartenenza ad un unico “spirito del tempo”. Quello che Rita Musa definisce, appunto, «un magma in movimento». Ne è prova il fatto che, pur realizzando un prodotto esplicitamente giornalistico, nessuna delle conduttrici o collaboratrici si piegò mai al «rituale dell’obiettività»82 dominante nel giornalismo, ovvero quel dispositivo retorico e di selezione delle fonti tale per cui il/la giornalista si pone in modo “neutro” di fronte ad una realtà “oggettiva” o equidistante rispetto a posizioni opposte. Al contrario, le voci di Ora D erano sempre posizionate, ponendosi esplicitamente come soggetti consapevoli della natura sociale e politica della propria corporeità. Lo esplicita Franca Fossati: A noi piaceva molto questo slogan di una rivista che uscì per qualche mese a Milano, in quegli anni, che per me fu abbastanza ispiratrice, […] «Grattacielo»: «occhi di donna sul mondo», in cui tu rivendicavi l’essere donna, però di per sé questo essere non ti dava la garanzia di avere una lettura così diversa dagli altri; non lo sapevi, ecco, non lo sapevi e semmai il problema era la scelta, cioè di dire «io rivendico l’essere donna, dò valore all’essere donna, non mi annego nel neutro, non sono neutra», però poi cosa succede quando guardo le cose a partire dal mio essere donna, non lo so […] non ho nessuna garanzia che la mia lettura sia per forza differente o comunque rimandi a una qualche oggettività del femminile.83

L’esperienza del decennio trascorso sembra essere incorporata nel modo in cui si guarda il mondo, nel dirsi soggetto che vede le cose in modo diverso – e vede cose diverse – proprio perché situato. Lo spiegò alle ascoltatrici e agli ascoltatori Marina Piazza nella puntata del 7 gennaio 1983: Noi siamo proprio partite da una nostra ipotesi che se è vero che gli anni ’77 e ’78 hanno costituito un punto di rottura, una crisi del movimento femminista, è però anche vero che in forme diverse, più disperse, più diffuse, il movimento delle donne è continuato; si è parlato appunto di femminismo sommerso, atomizzato, eccetera. Ecco: se cerchiamo di vedere che cosa in questo processo si sia conservato e cosa si è frantumato, io credo che quello che si è frantumato, se vuoi, può essere l’idea di un progetto totale e totalizzante, ma quello che si è mantenuto, come patrimonio forte del movimento, 82. Gaye Tuchman, Objectivity as Strategic Ritual: An Examination of Newsmen’s Notions of Objectivity, in «American Journal of Sociology», 4 (1972), pp. 660-679. 83. Cirant, L’archivio sonoro di «Ora D. Dialoghi in diretta dedicati alle donne», p. 73.

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è proprio quell’identità collettiva che anni di militanza hanno prodotto. Poi questa identità collettiva, che proprio perché io credo sia sedimentata, in un certo senso, permette anche dei percorsi più individuali. Ecco, vorremmo tentare di andarla a vedere nelle sue manifestazioni, facendo una ricognizione attraverso i luoghi in cui emerge questo femminismo sotterraneo, quelli che abbiamo chiamato i “luoghi visibili del movimento delle donne”, di quei luoghi di quegli incroci quei punti di incontro in cui si materializza la capacità di azione, ma anche di riflessione di autoriflessione e di creatività di elaborazione teorica delle donne.84

5. Conclusioni Non tutte le contemporanee lessero questa identità collettiva sedimentata come una forma di coralità politica. Marina D’Amelia, nell’articolo a cui si è già fatto riferimento, la definì un «autoinganno», una «aspirazione all’unità e all’identificazione».85 Simile l’interpretazione di Lea Melandri. Intervistata in trasmissione da Anna Rossi-Doria in occasione della pubblicazione del libro di Calabrò e Grasso86 che mise a fuoco una prima storia dei collettivi e il passaggio «dal movimento femminista al femminismo diffuso», Melandri commentò: Su questa ipotesi del femminismo diffuso non sono d’accordo e penso che sia una definizione ambigua e contraddittoria. Da un lato sembra il massimo della valorizzazione o idealizzazione, ossia il femminismo è ovunque; d’altro lato è così diffuso che non si vede più e soprattutto non inquieta più nessuno.87

Gli spazi fisici, politici e relazionali che le femministe si ricavarono nel nuovo contesto furono dunque riserve indiane, oppure forme in cui si espressero, in modi diversi, le istanze di cambiamento sociale esplose nel decennio precedente? Dall’ascolto di queste fonti, emerge come il femminismo sia entrato nelle trasmissioni della Rai attraverso molte finestre e abbia portato con sé i temi tipici di questa nuova stagione politica, tra cui l’ecologismo, il cambiamento climatico, il transessualismo, le nuove tecnologie informatiche. Con il femminismo diffuso si differenziavano, oltre 84. Ora D, 7 gennaio 1983, Teche Rai. 85. D’Amelia, Dalla differenza alla differenziazione, p. 127. 86. Calabrò, Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso. 87. Ora D, 18 marzo 1985, Teche Rai.

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ai temi, anche le pratiche discorsive. La nuova trasmissione continuò a dare spazio alla narrazione delle esperienze individuali. Tuttavia, l’aspetto autoriflessivo non fu più dominante. Durante gli anni Ottanta i femminismi cominciarono a parlare lingue diverse e tra loro conflittuali. Nel corso del decennio erano cambiate, con il clima politico, anche le persone ai posti di comando della Rai. La sostituzione di Massimo Fichera con Pio De Berti Gambini, nell’ottobre dell’80, segnò la fine delle trasmissioni che facevano esplicitamente riferimento al femminismo. L’ultima puntata di Sala F era andata in onda il 29 giugno 1979, mentre sul programma di Tilde Capomazza, Si dice donna, si era abbattuta una vera e propria scure: la fine era stata imposta dall’alto in termini perentori e sbrigativi dopo la puntata del 22 aprile 1981 dedicata a dieci anni di lotte per l’aborto che aveva suscitato la contrarietà di tutti i partiti dell’arco parlamentare.88 Loredana Cornero, nel suo libro dedicato alla trasmissione, lo definisce il casus belli per voltare pagina, in consonanza con l’era che si stava aprendo, quella craxiana.89 L’ecosistema televisivo dei primi anni Ottanta è caratterizzato, infatti, dall’espansione progressiva dell’azienda di Silvio Berlusconi sul mercato, con relativa guerra di ascolti e di accaparramento della pubblicità, mentre quello radiofonico resta più diversificato (alle radio private locali si aggiungono quelle nazionali). In Rai il destino dei programmi è pesantemente influenzato dalle leggi spartitorie della lottizzazione. Franco Monteleone tesse gli elogi di Ora D nella sua storia della radiotelevisione italiana e in un’intervista su «Noi donne» del 1988, quando il programma viene chiuso, ma di fatto ne sancì la fine dopo aver sostituito Marina Tartara nel ruolo di capostruttura.90 Per Marina Tartara, che sarebbe passata a dirigere la struttura musicale di Radiotre, fu una «sconfitta» in 88. Cornero, La Tigre e il violino, p. 153. 89. Ivi, pp. 159-160. 90. «Radiotre appare la più innovativa, soprattutto nella fascia mattutina dove, accanto all’appuntamento ormai istituzionale di Prima pagina, vengono collocate alcune edizioni di uno spazio “dedicato alle donne”, che si conclude con l’ultima di quelle trasmissioni, Ora D, sostituita nel 1988 (dopo la nomina del nuovo direttore Paolo Gonnelli), con un programma di concezione tutta diversa […]», Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, p. 501. «È stata un’esperienza molto importante, ma è finita. Una delle qualità professionali per chi fa radio, come in molte altre professioni, è cambiare col mondo che cambia. […] Con Ora D, è vero finisce un ciclo. Ma i cicli finiscono». Franco Monteleone in È giunta «L’ora x», di Silvia Garambois, in «Noi donne», 10 (1988), pp. 78-80.

I microfoni femministi di Radiotre Rai

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quanto veniva meno l’unico programma radiofonico con un taglio, diremmo oggi, di genere.91 La stessa Marina Tartara, d’altra parte, era stata decisiva nella chiusura di Noi, voi, loro, donna. Infatti, con la sostituzione di Massimo Fichera alla direzione, Tartara era passata dalla seconda rete alla terza, ancora diretta da Enzo Forcella, e vi era entrata come capostruttura responsabile, tra l’altro, della trasmissione condotta da Licia Conte, cambiandone radicalmente i connotati e cancellando quelli che reputava i «tratti ideologici» a favore di una impostazione giornalistica a rotocalco.92 Il cambio di programma aveva comportato non solo l’esautorazione di Licia Conte ma anche la fine del suo ruolo a Radiotre.93 Tali avvicendamenti, che segnano le trasformazioni del programma e la sua fine, avvengono in un clima generale di rimozione e normalizzazione del femminismo. Secondo Rita Musa, la frequenza con cui la stampa ri91. Garambois, È giunta «L’ora x», p. 79. 92. Ibidem. «Per rotocalco si intende in genere una rivista a larga diffusione che tratta principalmente di attualità, costume e cronaca. […]». Anche la seconda edizione di Si dice donna, quella del ’78-’79, aveva avuto la stessa impostazione. Come scrive Loredana Cornero: «si concentrerà in una mezz’ora e i temi saranno molteplici, come prevede il nuovo format, ma anche come richiede la rinnovata creatività del gruppo redazionale che vuole proporre al pubblico qualcosa di nuovo», Cornero, La tigre e il violino, p. 84. Conte, Riserva per donne e altri indiani. 93. Licia Conte mi racconta di essere stata messa sull’avviso da Elena Marinucci, allora senatrice del Partito Socialista, sul fatto che il suo ruolo come conduttrice del programma era stato messo in discussione. Spiega: «Mariella Gramaglia, che collaborava alla trasmissione, aveva un buon fiuto politico ed aveva capito che c’era stato un cambio di potere. Guidò la trasformazione del programma e lo fece in modo intelligente. Gentilmente cercarono di trovare una soluzione per me. Queste dinamiche furono anche l’effetto della riforma del ’75. Era l’orrore della lottizzazione di cui io come altre fui vittima. Cosa succedeva: che dal consiglio di amministrazione veniva la richiesta che tutte le mie intervistate dovessero essere collocate secondo la provenienza politica. Ma il femminismo, politicamente, stava tutto nell’area extraparlamentare. Io mi rifiutavo e mettevo la loro professione. Come effetto, venivano tutte attribuite al partito comunista! Questa era una delle storture della legge», intervista dell’autrice con Licia Conte, del 15 maggio 2022 (non registrata); citazione rivista e autorizzata dall’intervistata. La testimonianza di Franca Fossati collima con quella di Licia Conte: «anche noi esterni risultavamo in quota a qualcuno, tanto è vero che io all’inizio risultavo in quota PC, perché veniva fatta un’associazione indebita tra Lotta continua e il Partito comunista […]», Cirant, L’archivio sonoro di «Ora D. Dialoghi in diretta dedicati alle donne», p. 77. In un’intervista recente realizzata in occasione di questo testo, Franca Fossati mi ha raccontato che fu Mariella Gramaglia a coinvolgerla come collaboratrice della trasmissione (intervista non registrata del 14 maggio 2022).

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lanciava i contenuti e la frequenza delle telefonate in trasmissione indicava che la scelta di chiuderla non era legata a una questione di ascolti: Ora D non aveva bisogno di essere svecchiata, perché i suoi contenuti erano ancora di là da venire. Ciò di cui parlavamo è ancora oggi una questione irrisolta. Quello spazio avrebbe dovuto avere nuovi stimoli e ulteriori possibilità, non essere chiuso. Lo ricordo come la cosa più bella in assoluto che ho fatto da giornalista, sia per il riscontro che avevamo sia per come lavoravamo insieme: un tipo di lavoro collettivo che poi non ho più ritrovato.94

Oggi l’indice tematico di Ora D fornisce una mappa concettuale utile per ricostruire il panorama degli interessi, delle azioni e delle teorie di chi, durante gli anni Ottanta, si percepiva ancora parte di un’identità collettiva, e anche dei modi in cui tale identità si andava articolando nel contesto dei cambiamenti economici, politici e sociali. Proprio per le sue caratteristiche di raccoglitore di fonti orali differenziate, questo archivio è prezioso per la conoscenza di un decennio che resta ancora largamente inesplorato. Preso nel suo insieme il fondo Noi, voi, loro, donna - Ora D è dunque una raccolta voluminosa di fonti primarie che si presta a molte possibili direzioni di ricerca. Spero di essere riuscita a mostrare come la ricchezza di informazioni e la qualità corporea che si sprigiona da questi documenti nel momento in cui vengono riattivati nel processo dell’ascolto li renda particolarmente adatti allo studio e alla comprensione di ciò che hanno vissuto le donne coinvolte in modo più o meno diretto nelle articolazioni del movimento femminista – e degli uomini che ne furono toccati – nel periodo che coincide con la vita di questa trasmissione.

94. Intervista dell’autrice con Rita Musa, 28 maggio 2022; non registrata, rivista e autorizzata dall’intervistata.

Indice dei nomi*

Abbà, Luisa, 92 e n Abouf-Saif, Laila, 49 Accardi, Carla, 55 Accorsi, Lorenza, 158 Acquistapace, Alessia, 53n, 59n Adorni, Daniela, 78n Ahmed, Leila, 32n Alba, Lorenzo, 176n Alberici, Aureliana, 194 e n Alberoni, Francesco, 109 Alberti, Giulia (Bundi), 234 Allameen, Ramsammy, 55 Alloisio, Mirella, 290n Althusser, Louis, 174n Anabasi, 66, 94, 95, 100n, 102, 11, 112, 115, 153n, 156 Anania, Francesca, 276n Anzaldua, Gloria, 32n, 47n Apollaro, Carmela, 190n Archibugi, Daniele, 281 Arfini, Elisa A.G., 53n, 59n Aroney, Eurydice, 210n Arrighi, Giovanni, 94 e n Asor Rosa, Alberto, 292 Asquer, Enrica, 184n

Avenati, Orietta, 105 e n Azara, Liliosa, 202n Bacarini, Gabriella 137n Bacchetta, Paola, 34n Bachiddu, Elena, 274n Badino, Anna, 54n Baeri, Emma, 25n, 63n, 75n, 86n, 288n Balbo, Laura, 296 Balestracci, Fiammetta, 7n, 177n, 280n, 290n Balestrini, Nanni, 280n Balzarro, Anna, 173n Banotti, Elvira, 55 e n, 106 Barbagallo, Francesco, 121n Barbagli, Marzio, 171 e n Barca, Liliana 135n, 137 Baritono, Raffaella, 34n, 35n, 36n, 39n, 40, 41n, 43 e n, 64n, 70n Baroncini, Paola, 113 Barone, Anastasia, 12, 13, 14, 16n, 19n, 54n, 56n, 217 Basaglia, Franco, 123n Bassi, Shaul, 33n Bell Scott, Patricia, 32n

* Oltre ai nomi di persona si è scelto di indicizzare (in corsivo) anche i nomi di gruppi, collettivi e associazioni citati nel volume.

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Anni di rivolta

Bellassai, Sandro, 202n Bellè, Elisa, 8n, 11, 13, 14, 45n, 81n Belmonti Maria Grazia, 109n Beloso, Brooke Meredith, 217n Benston, Margaret, 77, 78 e n Berlusconi, Silvio, 300 Bermani, Cesare, 274n Bernabei, Ettore, 277n Bernacchi, Erika, 60n Bernardi, Emanuele, 184n Bertilotti, Teresa, 7 e n, 8n, 16n, 24n, 25n, 27n, 36n, 62n, 144n, 170, 219n, 280n Betancor Abbud, Maria Teresa, 16n Betta, Emmanuel, 26 e n, 170 Betti, Eloisa, 176n Bhabha, Homi K., 52n Biagini, Elena, 11n, 12, 83n Bianchini, Angela, 291 Billi, Edda, 157, 166, 168 Bimbi, Franca, 19 Boccia, Maria Luisa, 22n, 67n, 184 e n, 188 e n, 276n Boesi, Clelia, 107n Boggio Éwanjé-Épée, Felix, 32n Bonacchi, Gabriella, 22n Bonfiglioli, Chiara, 54n, 80n Bonfreschi, Lucia, 61n, 85n, 205n Bonini, Tiziano, 276n, 281n Bonino, Emma, 206 Bonnet, Marie-Joe, 151, 166 Bonomo, Bruno, 274n Bonu, Giada, 53n Borghesi, Donatella, 296 Borghi, Liana, 16n, 80 e n, 83n Borghi, Rachele, 60n Borgia, Lucia, 49n Boscarello, Valter, 280n Boscato, Stefania, 125n Boschiero, Alfiero, 120n Bossini, Laura Elisabetta, 19n

Botti, Caterina, 80n Bottini, Ivy, 167 e n Bourcier, Sam, 38n Bracke, Maud Anne, 17n, 61n, 63, 64n, 65n, 67n, 71n, 84n, 86n, 87n, 144, 144n, 182n Bravo, Anna, 18, 25 e n, 26n Brazzoduro, Andrea, 60n, 61n Brown, Rita Mae, 167 e n Brunetti, Dimitri, 274n Bruno, Giuliana, 227 Buhle, Paul, 77n Burton, Antoinette M., 32n Busi, Beatrice, 8n, 31n, 197n, 293n Buttafuoco, Annarita, 279 Byrne, Deirdre C., 34n C.O.Y.O.T.E, 211, 212, 213n, 216 Calabrò, Anna Rita, 19n, 38n, 177n, 280n, 299n Calbi, Roberta, 186 e n Cambi, Franco, 174n Cambria, Adele, 45n Campagnano, Lidia, 284 Campese, Silvana (Medea), 225, 236, 237 Canale, Marina, 137n Cantarow, Ellen, 82 e n, 83n, 84 e n Capobianco, Laura, 189n Capomazza, Tilde, 223n, 278n, 279 e n, 292, 296n, 300 Capra, Silvio, 177n Capussotti, Enrica, 26 e n, 170 Carby, Hazel, 47n Cardone, Lucia, 224, 225n Carini, Anna, 109n Carli, Anna, 194n Cartosio, Bruno, 62n, 63n, 65n, 94n Carucci, Paola, 275n Casalena, Maria Pia, 42n Casero, Cristina, 40n

Indice dei nomi

Casini, Valentina, 182n Castaldi, Serena, 66, 95 e n Castellani, Cecilia, 296 Castiglioni, Maria, 132n Causarano, Pietro, 175n Cavallari, Pietro, 275n Cavallin, Paola, 158 Cavani, Liliana, 233 Cavarero, Adriana, 178n, 179n Cerchio spezzato, 11, 81 e n. 90, 92, 93 e n, 100, 102, 106, 107 e n, 108 e n, 111, 112, 113, 115 Chaudhuri, Nupur, 32n Chiaromonte, Franca, 183 e n, 187, 276n, 283 Chiosso, Giorgio, 174n Christiansen, Samantha, 62n Ciarduillo, Rosolina, 47, 48n Cima, Laura, 120n Ciotti, Luigi (don), 204n Cirant, Eleonora, 12, 13, 14, 273n, 294n, 296n, 297n, 298n, 301n Cirillo, Lidia, 54n, 80n, 285 e n Ciuffreda, Giuseppina, 276n, 290n Ciuti, Ilaria, 190n Cives, Giacomo, 172n Clancy-Smith, Julia, 32n Clavin, Patricia, 85n Cleaver, Harry, 62n Clemente, Pietro, 274n Cobalti, Antonio, 172n Colangelo, Chiara, 11n, 12, 14, 177n Collettivo autonomo del Policlinico, 141 Collettivo Comunicazioni rivoluzionarie (CR), 11, 64-69 e n, 71n, 72 e n, 73 e n, 74, 75, 83, 86 Collettivo del consultorio autogestito di San Lorenzo, 119n, 122, 126135, 141-143, 145 Collettivo delle compagne, 65, 66, 68, 69, 71-74, 76, 81, 86, 96

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Collettivo di via Cherubini, vedi Libreria delle donne di Milano Collettivo di Via Pompeo Magno, vedi Pompeo Magno Collettivo esteri di potere operaio, 94n Collettivo femminista comunista romano, 131 Collettivo Femminista di Cinema (CFC), 232 e n, 233n, 233, 235 Collettivo femminista Magliana, 131 Collettivo internazionale femminista di Padova, 66, 78 Collettivo Vivere lesbica, 152 Colombo, Daniela, 40n, 42 e n, 43n, 44n, 45n, 46 e n, 49 e n, 50, 51n, 52n Colombo, Furio, 277n Colucci, Mario, 123n Colvin, Sarah, 63n Combahee River Collective, 32n Comitato per i diritti civili delle prostitute (CDCP), 198-201, 207, 211215, 2018, 219 Conelli, Carmine, 54n, 57n, 58n Connell, Raewyn, 34n Conte, Licia, 276 e n, 281 e n, 282 e n, 286 e n, 292, 293 e n, 294, 295, 301 e n Coppola, Maria Micaela, 19n Cornero, Loredana, 278n, 279n, 296n, 300 e n, 301n Corradi, Laura, 54n, 80n Corso, Carla, 199, 199n, 200n, 212, 214 Cortonesi, Rita, 137n Costantini, Silvia, 52n, 56n, 57, 291 Covato, Carmela, 196 e n Covre, Pia, 199, 199n, 201, 201n, 205n, 212 Crainz, Guido, 280n Craveri, Pietro, 62n

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Crispino, Anna Maria, 120n Cristallo, Myriam, 83n Cucchi, Marinella, 137n Cuccu, Rina, 132n Cupelloni, Patrizia, 137n Cutrufelli, Mariarosa, 32n, 54n D’Amelia, Marina, 22n, 295 e n, 299 en Da donna a donna, 155, 163 Daconto, Claudia, 184n Dalla Costa, Mariarosa, 55, 66, 79 e n, 217, 217n, 218n Daopoulo, Rony, 109 e n, 232 Das, Devaleena, 34n Davenport, Doris, 48 Davis, Angela, 45n, 48, 102 Davis, Kathy, 63n, 67n, 76n Dawner, Carole 124 Dayan-Herzbrun, Sonia, 52n De Berti Gambini, Pio, 300 De Conick, Christine, 211n, 217n De Donato, Agnese, 47 De Fazi, Simonetta, 21n De Ferrari, Paola, 21n De Fort, Ester, 172n De Giorgi, Fulvio, 172n De Giorgio, Michela, 22n De Longis, Rosanna, 10n, 22n De Lorenzo, Rosa, 19n De Lott, Elaine, 100 De Marchi, Lugi, 105 De Maria, Carlo, 176n De Martis, Paola, 109n De Musso, Floria, 180 e n, 194n De Perini, Alessandra, 158 De Rosa, Francesca, 33 e n De Sario, Beppe, 17n De Vivo, Barbara, 53n, 54n, 59n, 80n Dei, Marcello, 171 e n, 172n Del Boca, Angelo, 42n Del Buono, Maria Rosa, 196n

Del Pier, Tiziana, 286 Delacoste, Fredrique, 212n Delap, Lucy, 8n Della Nave, Antonietta, 138n Delphy, Christine, 102, 166 Demicheli, Alberto, 68 Dentale, Bibi, 113 Deonna, Laurence, 48n, 49n, 51n Deplano, Valeria, 57n Di Blasio, Ylenia, 119n Di Cori, Paola, 20n, 22n, 23 e n, 24n, 25 e n, 26n, 53 e n Di Raddo, Elena, 40n Di Vittorio, Pierangelo, 123n Dioguardi, Daniela, 190n Dolinsek, Sonja, 208n Dominijanni, Ida, 195 e n Donà, Alessia, 19n Donato, Maria Clara, 40n Doro, Raffaello A., 276n Downer, Carol, 114n Du Bois, William Edward Burghardt, 70n Duccio, Demetrio, 172n Echols, Alice, 63n, 216n Eco, Umberto, 277 e n Eichhorn, Kate, 20n Eliot, Ilana, 167 Ellena, Liliana, 32n, 33n, 35n, 39n, 46 e n, 47n, 48n, 54 e n, 55 e n, 60n, 71n, 80n, 83n, 86n Emmetì, vedi Fenoglio, Maria Teresa Engels, Friedrich, 83 Ergas, Yasmine, 22n Evans, Mary, 63n, 67n Evans, Sara M., 63n, 67n, 68n Fabiani, Fabiano, 277n Fabrizi, Nora, 135n, 137 Faccio, Adele, 206 Fachinelli, Elvio, 174n

Indice dei nomi

Falciola, Luca, 280n Fani, Anna Giulia, 113 Fanon, Frantz, 52 e n Fantone, Laura, 34n Faré, Ida, 132n Farinelli, Fiorella, 186 e n Farmer, Ashley D., 80n Farris, Sara R., 49n, 54n, 80n Fauret, Anne Marie, 167 Feci, Simona, 10n, 19n, 20 Federici, Silvia, 66, 78n, 80n, 81n, 218n Fenoglio, Maria Teresa (Emmetì), 68, 73 e n, 75 e n, 76, 82, 83 e n, 96n, 162 e n Ferguson, Niall, 8n Fernández, Johanna, 72n Ferrante, Antonia Anna, 35n, 53n, 54n, 59n Ferrante, Lucia, 21n Ferri, Gabriella, 92 e n, 93n Fichera, Massimo, 279, 300, 301 Filippini, Nadia Maria, 8n, 19n Firestone, Shulamith, 48, 95n, 102 e n Fischer, Cristiana, 178n Focer, Ada J., 68n Foletti, Lara, 45n, 107 e n Foot, John, 123n Forcella, Anna, 276n Forcella, Enzo, 281, 301 Forti, Marina, 296 Fossati, Franca, 182n, 184n, 273n, 275 e n, 292, 294 e n, 296, 297, 298, 301n Foucault, Michel, 285 Fouque, Antoinette, 159 Frabotta, Biancamaria, 64n, 173n, 276n, 283 e n Fracci, Carla, 47 Fraire, Manuela, 276n, 286 Francescato, Donata, 135, 135n Francescato, Grazia, 40n, 41 e n, 43n, 55 e n, 56n

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Francisetti, Micaela, 181n Franco, Elvia, 178n, 181n, 191n Franzinetti, Vicky, 73n,120n Freinet, Célestin, 174 Friedan, Betty, 167 Frisina, Annalisa, 45n Frisone, Anna, 8n, 64n, 69n, 175n, 289n Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire (FHAR), 153, 166 Fubini, Bice, 69 Fumagalli, Marisa, 290n Fumian, Carlo, 184n Fuori! (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario), 12, 83 e n, 150, 151n, 164 Gagliasso, Elena, 291 Gago, Veronica, 35n Galasso, Cristina, 27n Galfré, Monica, 174n, 176n, 280n Galli, Chiara, 278n, 291, 292, 293, 294n, 296 Gallina, Vittoria, 195n Gallini, Clara, 286 Gallo, Francesca, 40n Gallo, Stefano, 54n Gambino, Ferruccio, 65n Gandolfi, Roberta, 39n Garambois, Silvia, 300, 301n Garbagnoli, Sara, 39n Gargano, Oria, 58 e n Garroni, Silvia, 294n, 296 Gattullo, Mario, 177n Gaudio, Angelo, 172n Genovese, Marina, 161, 162 Georgakas, Dan, 77 e n Georgi, Frank, 61n, 85n Geymonat Garofalo, Giulia, 197n, 198n Ghebremariam Tesfau’, Mackda, 39n Gheddafi, Muammar, 48, 49, 51n

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Anni di rivolta

Ghione, Paola, 65n Ghisu, Sebastiano, 53n Giammanco, Roberto, 65n, 94n Gianini Belotti, Elena, 173 e n, 180 Giansiracusa, Lucia, 163 Ginsborg, Paul, 280n Gioia, Annabella, 20n, 182n Giorgi, Chiara, 123n Giovannetti, Patrizia, 195n Gissi, Alessandra, 27n, 31n, 32n, 54n Giuliani, Gaia, 34n, 44n, 55n Giusti, Mariangela, 172n Giuva, Linda, 20n Gonnelli, Paolo, 300n Gouines rouges, 151, 153, 166, 167 Gramaglia, Mariella, 291, 292, 294n, 296 e n, 301n Grasso, Laura, 19n, 38n, 177n, 280n, 299n Green, James, 77n Greer, Germaine, 40n Grewal, Inderpal, 34n Grignola, Anna, 135n, 137 Grispigni Marco, 19n, 65n Groppi, Angela, 22n Grossberg, Lawrence, 52n Grossi, Giorgio, 281n Gruppo dell’inconscio, 229n Gruppo femminista di Gela, 57 Gruppo femminista Immagine di Varese, 254, 256n Gruppo femminista per una medicina della donna, vedi Gruppo femminista romano per la salute della donna (GFSD) Gruppo femminista romano per la salute della donna (GFSD), 114, 124n, 126 e n, 129n Gruppo per il Salario al lavoro domestico di Milano, 245n Gruppo per il Salario al lavoro domestico di Padova, 9n

Guadagnin, Laura, 179, 180n Guerra, Elda, 13n, 14n, 15n, 17n, 75n, 169, 280n Guillaumin, Colette, 39n Gutman, Huck, 285n Haden, Patricia, 46n Hajek, Andrea, 63n Haraway, Donna, 16 e n, 33n Harding, Sandra, 33n Hayden, Casey, 63n, 100 Hobsbawm, Eric, 26n Hobsen, Mabel, 71n hooks, bell, 32n, 33 e n Horn, Gerd-Rainer, 64n Hosken, Fran P., 43n, 44n Hoyt, Catherine, 46n Hoyt, Joyce, 46n Hull, Gloria, 32n Hutton, Patrick H., 285n Iamurri, Laura, 40n, 46n, 47n Illich, Ivan, 174 e n Imma, Z’étoile, 34n Insoumuses, 209 Iori, Vanna, 172n Irigaray, Luce, 178 e n, 195 Iriye, Akira, 85n Izzo, Francesca, 184n, 185n James, Cyril Lionel Robert James, 79n James, Margo St. (Margaret Jean), 208n, 211, 212n, 215 James, Selma, 79 e n, 80, 217, 217n Jayawardena, Kumari, 32n Jewell, Keala, 46n Johnstone, Claire, 235 Joreen (Jo Freeman), 156 Jourdan, Clara, 119n, 125n Kamal, Keshwar, 52 Kaplan, Caren, 34n

Indice dei nomi

Karcher, Katharina, 63n Kessler, Bruno, 89 Khalid, Maryam, 49n King, Mary, 63n, 100 Klimke, Martin, 61n Koedt, Anne, 96, 156, 162 La Maddalena, 247n Labate, Grazia, 183n Lagorio, Francesca, 27n Lamberti, Amato, 281n, 282n Landi, Sandra, 199n, 200n Lanza, Andrea, 280n Lavender menace, 150 Law, Debra, 114n, 124 Lazzaretto, Piergiorgio, 93 e n Lazzerini, Gabriella, 180n Le Nemesiache, 57, 58n, 164, 225, 235 e n, 236 e n, 237, 246 Leccardi, Carmen, 25 e n, 294n Leigh, Carol, 213n, 214 Leist Jorino, Margherita, 164 Lenin, Vladimir, 83 Leonardi, Grazia, 21n Leonelli, Leslie 105 e n, 124n, 126n Libreria delle donne di Bologna, 38n Libreria delle donne di Milano, 22n, 112, 116, 130n, 151, 158, 159, 177, 178n, 179, 181n, 184, 187 Lison, Andrew, 85n Lockett, Gloria, 212 Loi, Rosetta, 279 e n, 281n Lollobrigida, Gina, 234 Lombardi-Diop, Cristina, 35n, 55n, 71n Longobardi, Giannina, 179n, 189 e n, 190n, 191n Lonzi, Carla, 9 e n, 55 e n, 96,121n,156, 205n, 285n Lorde, Audre, 60 Loriga, Mariella, 282, 283 e n Lotta Femminista (Ferrara), 173 Lotta Femminista (Milano), 229, 245

309

Lotta Femminista (Padova), 9, 78, 217, 218n Lotta Femminista (Roma), vedi Pompeo Magno Lovascio, Giordano, 176n Lowenthal, David, 283 e n Luciani D’Amico, Filomena, 278n Luongo, Monica, 50n Lussana, Fiamma, 17n, 67n, 120, 121n, 281n, 289n Mac, Juno, 202n Maccacaro, Giulio, 123n Macrelli, Rina, 149 e n, 152, 153, 154, 156, 160, 161, 165 Magliani-Belkacem, Stella, 32n Maheo, Olivier, 69n Malalai di Maiwand, 51 Manela, Charles S., 8n Mangano, Silvana, 234 Mangiacapre, Lina, 236n, 237 Mapelli, Barbara, 175n, 294n Maraini, Dacia, 283 Marcasciano, Porpora, 199n, 204n, 205n Marchetti, Sabrina, 36n, 49n, 80n Marcuzzo, Maria Cristina, 21n Marini, Alfredo, 275n Marino, Simona, 189n Marinucci, Elena, 43n, 301n Mark, James, 61n, 87n Marramao, Giacomo, 67n Marshall, Daniel, 38n Martin, Luther H., 285n Martinengo, Martirì, 196n Marx Ferree, Myra, 36n Marx, Karl, 81, 83 Marzilli, Luciana, 138n Mascat, Jamila M.H., 49n, 80n Mathieu, Lilian, 209n, 210n, 211n Medi, Elena, 93 e n, 115 Melandri, Lea, 15n, 19n, 24n, 35n, 112, 175 e n, 229n, 285 e n, 299

310

Anni di rivolta

Menapace, Lidia, 185, 186n, 192, 193 en Merlin, Lina, 12, 202, 205, 207 Mernissi, Fatima, 36 Merteuil, Morgane, 78n Miele, Moira, 225, 231 Miglietti, Angela, 74, 75, 76 e n, 156, 159 Milani, Lorenzo, 172 Milano, Emmanuele, 277n Mileschi, Christophe, 79n Milletti, Nerina, 156 Minazzio, Maria, 138n Miscuglio, Annabella, 109 e n, 235 Missero, Dalila, 12, 13 Mitchell, Juliet, 102 Mohanty, Chandra T., 32n, 33n, 34 e n, 42n, 51 e n Moïse, Marie, 39n, 45n Mongili, Alessandro, 53n Monteleone, Franco, 276n, 279n, 300 en Monti, Adriana, 175n, 229, 229n Montini, Ileana, 173 e n, 193 e n Moraga, Cherry, 32n, 47n Morelli, Marcello, 275n Moretti, Maria Luisa, 20n Morgan, Robin, 35n, 83n Mori, Annamaria, 286 Moro, Aldo, 280 Moroni, Primo, 280n Morris, Penelope, 280n Mostra, Maria Grazia, 50 e n, 52n Motta, Lidia, 276n, 278 e n, 279 Motta, Sivia, 93 e n, 115 Mouvement de Libération des Femmes (MLF), 151, 153, 160, 166, 210 Movimento di Liberazione della Donna (MLD), 84, 106n, 108, 114, 125n, 131, 155, 162, 206 Movimento Femminista Romano (MFR) vedi Pompeo Magno

Movimento Identità Trans (MIT), 9n, 12, 200, 204n, 213n. Movimento Transessuale Italiano, vedi Movimento Identità Trans (MIT) Mulvey, Laura, 235, 239 Muñoz, José Esteban, 225 Muraro, Luisa, 174n, 178 Murphy, Kevin P., 38n Musa, Rita, 294n, 296 e n, 297 e n, 298, 301, 302 Musci, Leonardo, 19n Musiani, Elena, 9n Musser, Amber Jamilla, 82n Myles, Lynda, 235 Nacci, Michela, 66n Nadotti, Maria, 33n, 227 Nagle, Jill, 213n Nelson, Cary, 52n Neonato, Silvia, 187, 188n, 294n, 296 en Neri Serneri, Simone, 280n Newton, Esther, 216n Newton, Huey P., 68 Ni Una Menos, 10, 35 Nirenstein, Fiamma, 291, 296n Niri, Virginia, 8n, 74n Non Una Di Meno, 10, 35n, 57n Notari, Elvira, 233, 233n Noto, Lina, 57n Novaria, Paola, 20n Occhetto, Achille, 195 Olivieri, Giovanna, 153n Olivieri, Nadia, 119n, 120n Ortoleva, Peppino, 62n, 65n, 68 e n, 94n, 276n Ossi, Lina, 223 Ottolini Tullio, 61n Paggio, Liliana, 119n Pajetta, Giancarlo, 184

Indice dei nomi

Pala, Giovanna, 153, 154, 160, 161, 165 Palazzi, Maura, 21n, 22n Palieri, Serena, 187n Pallotta, Clelia, 50n, 51n, 58n Palomba, Giusi, 53n Panico, Carla, 53n Panighel, Marta, 11, 12, 14, 15, 35n, 50n, 70n, 71n Paoli, Federica, 37n, 38n, 40n, 126n Paolozzi, Letizia, 187, 283 Papa, Catia, 32n, 42n, 177n, 280n, 290n Papa, Cristina, 130n Parisi Baeri, Emma, vedi Baeri, Emma Passerini, Luisa, 11 e n, 15 e n, 20 e n, 26 e n, 36n, 46 e n, 47, 62 e n, 67n, 87n, 96 e n, 123n Pastorino, Fosca, 68, 74, 83n Paternò, Antonia, 163 Patriarca, Silvana, 54n Pavan, Ilaria, 123n Pelaja, Margherita, 22n Peltonnen, Pirko, 124n Percovich Luciana 119n, 120, 120n, 126n, 127n, 128, n 130, 131, 132n Perilli, Vincenza, 33n, 39n, 45, 46n, 49n, 54n, 71 e n, 80n, 81n Perini, Lorenza, 84n, 124n Perrotta Rabissi, Adriana, 273n Perucci, Maria Beatrice, 273n Pes, Alessandro, 57n Pesarini, Angelica, 45n, 55 e n Petricola, Elena, 21n, 33n Petrovich Njegosh, Tatiana, 34n Pheterson, Gail, 202n, 208n, 211, 212, 212n Piazza, Marina, 273n, 294n, 296 e n, 297, 298 Piccone Stella, Simonetta, 22n Pierantoni, Lucia, 135n, 137 Pierobon, Gigliola, 124, 166

311

Pietrangeli, Antonio, 208n Pintadu, Ivana, 156 Pintus, Benedetta, 53n Pirelli, Giovanni, 96n Pironi, Tiziana, 172n Pisa, Beatrice, 19n, 125n Pischel, Enrica, 42n Pistacchi, Massimo, 275n Pistoi, Paolo, 172n Piussi, Anna Maria, 179 e n, 180 e n, 188, 189n, 190n, 191n, 194 e n Piva, Paola, 283, 289 Pivano, Fernanda, 65n, 94n Pizzini, Franca, 294n Pizzolato, Nicola, 62n, 66n Poggio, Barbara, 19n Poggio, Pier Paolo, 62n Polizzi, Goffredo, 53n, 59n Pomata, Gianna, 21n Pomeranzi, Bianca, 41n, 59n Pompeo Magno, 18, 23, 107 e n, 109, 112, 113, 116, 127, 131, 149n, 152, 153, 154, 156, 157, 160, 165, 168, 169, 232 e n Pons, Silvio, 182n Porcheddu, Alba, 172 e n Porciani, Ilaria, 22n Portelli, Alessandro, 65n, 70n Pruneri, Fabio, 172n Pulga, Mirka, 8n Qorrat al-’Ayn (Fatimah Baraghani), 51 Quagliariello, Gaetano, 62n Ragozinsky, Maria Clara, 74 Rangeri, Norma, 291 Raspini, Stefania, 290n Real, Griselidis, 209n, 211, 211n, 212n Rebora, Tommaso, 11, 13, 45n, 61, 96n Redaelli, Paola, 284

312

Anni di rivolta

Regan, Ronald, 214 Rete internazionale per il Salario al lavoro domestico, 66, 80, 88, 218 Revelli, Nuto, 54n Ribeiro Corossacz, Valeria, 34n, 39n Ribero, Aida, 17n, 24n, 63n, 75n, 86n Ricci, Clarissa, 12, 13, 14 Ricciardi, Mario, 275n Rich, Adrienne, 33n, 164 Rich, Ruby B., 227 Richards, Beah, 47 e n Rispoli, F., 277n Rivolta Femminile, 10, 16, 55, 96, 107, 108, 113, 150, 164, 232n, 242 Roberts, Celia, 34n Robinson, Patricia, 46n Robotti, Diego, 274n Robutti, Andreina, 132n Rochefort, Florence, 8n Rodano, Marisa, 123n Roghi, Vanessa, 280n Romeo, Caterina, 71n Ronco, Caterina, 20n Rossanda, Rossana, 276n, 283, 284 e n, 292 Rossetti, Gabriella, 35n Rossi-Doria, Anna, 13n, 14n, 17n, 18 e n, 21n, 24 e n, 25n, 31n, 37n, 54n, 144 e n, 184, 219n, 274 e n, 280n, 288n, 299 Rossilli, Maria Grazia, 19n Rosso, Lanfranco, 174n Roth, Benita, 63n, 70n Rotondo, Loredana, 109n, 223n Roussopolus, Carole, 209, 209n Rudolph, Sue, 46n Rufo, Fabrizio, 123n Sabatini, Alma, 45n Said, Edward, 48n, 49 e n Sala, Stefania, 150

Salih, Ruba, 52n Salvalaggio, Elisa, 274n Salvatici, Silvia, 8n, 41n, 52n, 59n, 281n Salvi, Giovanni, 277n Sangiovanni, Andrea, 70n, 276n, 277n Sannia, Deborah, 60n Santagata, Alessandro, 172n Santalena, Elisa, 79n Santamaita, Saverio, 174n Santoni Rugiu, Antonio, 174n Saraceno, Chiara, 283, 284n Sarasini, Bia, 294n, 296 Sardella, Norma, 57n Sargent, Daniel J., 8n Sarlo, Assunta, 294n Sarti, Sandro, 65n, 67, 73 e n, 75, 94n Sartori, Giuseppe, 174n Sassaroli, Sandra, 56n, 57 Savioli, Valentina, 294n, 296 Sbaffi, Giulia, 12, 14 Scacchi, Anna, 34n Scanavino, Margherita, 275n Scarcia Amoretti, Biancamaria, 50 e n, 51, 52n Scarlett, Zachary A., 62n Scattegni, Wilma, 74 Scattigno, Anna, 7 e n, 18n, 25n, 36n, 62n, 144n, 170, 219n, 280n Schettini, Laura, 10n, 19n, 197n Schrader, Emmie, 100 Schub, Esfir, 233, 233n Schulman, Sarah, 214n Schulz, Kristina, 8n, 64n Scott Brown, Timothy, 85n Sedgwick, Eve Kosofsky, 168 Sega, Maria Teresa, 180n Selek, Pinar, 31n Selmi, Giulia, 197n Serafino, Davide, 280n Serrano, Ester, 71n

Indice dei nomi

Serughetti, Giorgia, 202n Severalli, Marta, 40n Seveso, Gabriella, 175n Sherazade, 237 Simons, Margaret, 31 Sirotti, Andrea, 33n Slonecker, Blake, 68n Sluga, Glenda, 85n Smith, Barbara, 32n, 48 Smith, Molly, 202n Socrate, Francesca, 26n, 74 e n Soldani, Simonetta, 23n Solmi, Renato, 65n, 94n Sonnino, Fufi, 152, 157 e n Sorgonà, Gregorio, 195n Spadaccia, Gianfranco, 205n Spagnoletti, Rosalba, 81n Spazio Donne di Palermo, 57 Spivak, Gayatri Chakravorty, 35n, 52n Spolato, Mariasilvia, 157 e n, 159, 167 Stacey, Jackie, 225 Stagno, Chiara, 78n Stelliferi, Paola, 7n, 8n, 16n, 17n, 37n, 38n, 64n, 87n, 126n, 130n, 177n, 198n, 215n, 281n, 290 e n Strazzeri, Victor, 8n Strobel, Margaret, 32n Tabet, Paola, 197n Tafuro Azzurra, 8n Tagliaferri, Maricla, 46n, 231 Tanturli, Andrea, 280n Tartara, Marina, 279 e n, 296n, 300, 301 Tatafiore, Roberta 187n, 195n, 199, 215, 216n, 217, 289, 290 Tattoli, Elda, 233 Tavella, Rosa, 57n Taviani, Ermanno, 62n Tennenbaum, Ulla, 128, 135 Teodori, Maria Adele, 198n, 203n, 204n, 206n, 217n

313

Teodori, Massimo, 65n, 94n Thiam, Awa, 43, 44 Thirion, Marie, 79n Tola, Vittoria, 122n Tolomelli, Marica, 17n, 61n, 62n, 64n, 69n Tonelli, Anna, 280n Topini, Carolina, 8n Tortorici, Zeb, 38n Tosi, Simonetta, 127, 133, 134, 135 Toupin, Louise, 66n, 80 e n Tozzi, Silvia, 120n, 127n Travers, Julianne, 41, 42n, 44n Tripp, Aili Mari, 36 e n Tririfò, Ada, 200n Tronca, Franca, 73 Trupia, Lalla, 183n Truth, Sojourner, 46n Tuchman, Gaye, 298n Turco, Livia, 181, 182 e n, 184 e n Tuselli, Alessia, 19n Ulivieri, Simonetta, 172n, 176n Usai, Annalisa, 187n Vajarathon, Mallica, 36 Van Lew, Rita, 46n Vanzan, Anna, 32n, 33n, 42n Vergès, Françoise, 33n Vicenti, Raffaele, 277 e n Vitas, Elena, 56n Viviani, Luciana, 133, 134, 134n Voli, Stefania, 7n, 73n, 76n, 124n, 204n, 294n Walker, Alice, 48 Wallace, Michele, 48 Weeks, Kathi, 87n Willis, Ellen, 100 Wilson, Elizabeth, 216n Wittig, Monique, 156, 166

314

Anni di rivolta

Yeğenoğlu, Meyda, 49 e n, 52n Zamarchi, Elisabetta, 189n, 190n, 191n Zamboni, Chiara, 191 e n

Zanotti, Piera, 151, 152 Zappino, Federico, 53n Zarri, Adriana, 291 Zumaglino, Piera, 68n, 83n

Finito di stampare nel mese di ottobre 2023 da The Factory s.r.l. Roma