Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta 8815237860, 9788815237866

Perché la sinistra radicale degli anni Settanta fece della violenza uno strumento d'azione determinante e sovente p

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Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta
 8815237860, 9788815237866

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Verso la lotta armata

La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni St 1 1 a cura di

Simone Neri Serneri

Perché la sin istra radicale degli anni Settanta considerò In vlolmi/n uno strum ento d'azione determ inante e sovente priori tu i io ' I'mh Ih* una m obilitazione n u trita di istanze ideali, sociali « Riuniiii/lonnli i ¡< che e diversificate coltivò progetti e organizzazioni dediti «Un lolla arm ata e al terrorism o? Superando i recinti delle memorie n li’ (¡tmi'n logie m anichee, queste ricerche si interrogano sul ruolo gioenti) 11h11•> culture e dalle pratiche violente nella storia della sinistru rad im i......I esplorano i contesti politici, sociali e territo riali ove m u tu i........... l< scelte individuali e collettive di m ilitarizzazione del conflitto politico La violenza fu un cam po di relazione tra soggetti, progetti r r u l l i l i >• diversi. R icostruirne la genesi è presupposto ineludibile pei- c o m p i r l i dere appieno la storia della sin istra italian a e del nostro pauso Iwn oltre i dram m atici anni Settanta. Simone Neri Serneri è ordinario di Storia contem poranea all'Unlvoi si tà di Siena. Autore di num erosi studi sulla storia dell'antifascism o e della R esistenza e sulla storia dell'am biente, è condirettore di «Con tem poranea. R ivista di storia dell'800 e del '900» e direttore dell'Isl.i tuto Storico della R esistenza in Toscana.

€ 30,00

ISBN tne,-&&-lS-3376l-L

Grafica: A. Bernini

9 788815 237866

Verso la lotta armata

La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta

a cura di

Simone Neri Serneri

Il volume è pubblicato per iniziativa e con il contributo dell’istituto Storico della Resistenza in Toscana

ISBN 978-88-15-23786-6 Copyright © 2012 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i di­ ritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsia­ si forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

INDICE

Premessa, di Simone Neri Serneri

p. 7

P arte

prim a : discu tere il c a so ita lian o

I.

Contesti e strategie della violenza e della militarizzazione nella sinistra radicale, di Simone Neri Serneri

11

La lotta armata. Forme, tempi, geografie, di Monica Galfré

63

III. La strage è di stato. Gli anni Settanta, la violenza politica e il caso italiano, di Mar­ co Grispigni

93

II.

IV.

La piazza e la forza. I percorsi verso la lotta armata dal Sessantotto alla metà de­ gli anni Settanta, di Marco Scavino

P arte se c o n d a : reto rich e DELLA VIOLENZA

V.

117

e leg ittim a z io n e

«Pagherete caro, pagherete tutto!». La violenza politica nelle riviste della sinistra extraparlamentare, di Silvia Casilio

207

VI. La retorica della violenza nella stampa della sinistra radicale (1967-77), di Barba­ ra Armani

231

VII. La legittimazione della violenza. Ideologie 5

e tattiche della sinistra extraparlamentare, di Isabelle Sommier p. P arte

ter za : l u o g h i , pratich e , c o n testi

Vili. La lotta armata e la «questione delle car­ ceri», di Christian G. De Vito IX. Schedare il nemico. La militarizzazione della lotta politica nell’estrema sinistra (1969-75), di Guido Panvini X. Percorsi di micromobilitazione verso la lotta armata, di Lorenzo Bosi e Donatella della Porta XI. Per una geografia della lotta armata, di Vincenzo Piletti XII. Genova. La lotta armata in una città ope­ raia e di sinistra, di Davide Serafino Indice dei nomi Gli autori

6

PREMESSA

All’origine di questo volume sta l’esigenza di affron­ tare la storia degli anni Settanta, e in particolare la dif­ fusione in quel decennio di una violenza politica senza precedenti - per intensità, organizzazione e continuità - dalla fine della seconda guerra mondiale, superando la stagione del primato delle pur indispensabili ricostruzioni a carattere giornalistico e della memorialistica. Affiancandosi a quanto altri studiosi vanno facendo da alcuni anni, si è inteso ripartire dalla ricerca storica, non solo per fondare la conoscenza sull’indagine docu­ mentaria, ma per ridefinire - anche nel confronto con le scienze sociali - categorie interpretative e periodizzazioni altrimenti ancora troppo interne alle memorie dei prota­ gonisti e alle prospettive coeve. Parte dei saggi qui presentati costituiscono la rielabo­ razione, spesso sostanziale, di alcune delle relazioni pre­ sentate al convegno Violenza politica e lotta armata nella sinistra italiana degli anni Settanta, organizzato dall’isti­ tuto Storico della Resistenza in Toscana e svoltosi a Fi­ renze il 27 e 28 maggio 2010. Il programma del conve­ gno, realizzato selezionando le risposta a un apposito cali for papers, rifletteva lo stato e in parte anche le difficoltà della ricerca, ragion per cui solo alcuni dei partecipanti hanno accolto l’invito a trasformare le loro relazioni in saggi più maturi. A essi sono stati affiancati alcuni altri saggi, redatti appositamente, per allargare l’impostazione del discorso avviato, certo non a integrare o completare un piano di lavoro che attende ben altri sviluppi. Il volume, come il convegno, si concentra sulla sini­ stra, in particolare quella radicale, non tanto per la sua pur rilevante responsabilità, ma per una questione di me­ todo. Pur consapevoli del ruolo cruciale di altri soggetti, 7

riteniamo necessario considerare preliminarmente e in quanto tali le modalità e il ruolo che la questione della violenza politica e della «lotta armata» ebbe in quello spazio politico e culturale. Perché non si trattò di moda­ lità né di un ruolo secondari, eterodiretti, o meramente reattivi. Occorre considerare, insomma, quanto e perché la violenza politica, poi la militarizzazione del conflitto e infine l’organizzazione terroristica - per quanto tra loro distinte - appartennero alla storia della sinistra italiana di quegli anni. La partizione del volume risponde, pur sommaria­ mente, a una possibile articolazione dell’agenda di ricerca e ha al proprio centro il nesso tra violenza politica e ge­ nesi della lotta armata. Un nesso variamente declinabile, come i saggi dimostrano, ma che forse ha il suo fuoco principale proprio nelle ragioni e modalità di transizione da un esercizio generico di pratiche violente all’adesione a progetti e organizzazioni finalizzati alla militarizzazione del conflitto politico. I saggi della prima parte affrontano da varie angola­ ture alcuni dei caratteri distintivi e degli interrogativi di fondo posti dall’esperienza italiana: dalla questione della periodizzazione alle peculiarità rispetto ad altri conte­ sti europei, all’interazione tra i diversi soggetti politici e istituzionali fino ai nessi ravvisabili tra pratiche violente, progetti politici e dinamiche di militarizzazione. Nella seconda parte l’attenzione si concentra sulle modalità discorsive di narrazione e legittimazione della violenza e sulle progettualità politiche che intesero connettere quelle retoriche a determinati obiettivi e strategie conflittuali. La terza parte, infine, esplora - forzatamente in un numero limitato di casi di studio - la possibilità, in realtà la ne­ cessità, per la ricerca storica e politologica di verificare interrogativi, categorie analitiche e ipotesi interpretative dentro la pluralità dei contesti geografici, sociali e rela­ zionali che concorrevano a costituire il variegato universo sociale, politico e culturale dell’Italia degli anni Settanta. S im o n e N eri S erneri 8

P arte

prim a

DISCUTERE IL CASO ITALIANO

S im o n e N eri S erneri

CONTESTI E STRATEGIE DELLA VIOLENZA E DELLA MILITARIZZAZIONE NELLA SINISTRA RADICALE Molte ragioni stanno all’origine dell’interesse mediático come di quello scientifico per la diffusa violenza politica e la persistente attività delle organizzazioni politiche dedite alla lotta armata o altrimenti al terrorismo1 negli anni Set­ tanta. Un interesse di portata tale da dare parvenza di fon­ damento alla definizione di quel decennio come gli «anni di piombo», in realtà etichetta nebulosa che tutto allinea alla dimensione omicida e pressoché nulla distingue tra i percorsi, gli intenti e le pratiche che alimentarono la vio­ lenza politica, la lotta armata e il terrorismo. Recuperare le ragioni più profonde di quell’attenzione mediatica è premessa necessaria di una ricerca storica solo di recente avviata e per molti aspetti ancora da in­ traprendere. Sommariamente, esse rimandano anzitutto al rilievo e all’impatto, senza precedenti in tempo di pace, della violenza politica e della militarizzazione del con­ flitto politico sulle vittime e più largamente sulla vita ci­ vile2. Non minore è l’interesse per il fenomeno in sé, le 1 Consapevole dell’irrisolta valenza ideologica di queste definizioni, in questa sede mi attengo a una distinzione sommaria, considerando or­ ganizzazioni di lotta armata quelle formazioni che attribuirono un valore strategico e dunque prioritario alla militarizzazione del conflitto politico contro avversari definiti e invece terrorismo quelle azioni omicide volte a suscitare insicurezza nell’opinione pubblica in modo indifferenziato, per quanto tale distinzione si sfumi in quei numerosi casi in cui azioni militari dirette contro singoli avversari avevano anche un evidente scopo intimidatorio contro una ben più vasta cerchia di soggetti. 2 Le vittime della violenza politica tra il 1969 e il 1982 ammontereb­ bero a 1.119, di cui 351 morti, a loro volta distinguibili in 138 vittime di attentati stragisti, 154 vittime di attacchi mirati, 39 terroristi morti in conflitti a fuoco, e 20 vittime accidentali, secondo le stime riportate in D. della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, 1984, pp. 58-63, ove pure si distingue 11

sue cause, la cultura sociale e politica e le motivazioni e i percorsi di vita di chi scelse la strada della lotta armata. Ancora, ma non ultimo, quelle ragioni rimandano al rap­ porto tra quelle scelte estreme e la storia della sinistra politica, sociale, sindacale, per quanto ebbero in comune e vicendevolmente si condizionarono. 1. Sistema politico e dinamiche sociali Ma già questi ultimi quesiti evocano questioni di ben più larga portata, direttamente attinenti alla storia dell’Italia repubblicana. E ben noto che nel nostro paese la violenza politica si dispiegò con intensità e durata del tutto peculiari nello scenario europeo, eccezion fatta per le assai particolari realtà irlandese e basca, e che ne trasse origine un novero senza dubbio cospicuo di formazioni armate, complessivamente attive per un elevato numero di anni con il coinvolgimento, variamente graduato nel tempo e nelle responsabilità, di una vasta schiera di mi­ litanti5. Tali peculiarità a loro volta chiamano in causa i tra le 360 e le 758 vittime (morti e feriti) imputabili rispettivamente a formazioni di sinistra e formazioni di destra, riducibili rispettivamente a 300 (122 morti) e 39 (31 morti) qualora si escludano le vittime di stragi, quelle incidentali o durante tentativi di arresto e i terroristi stessi. Ana­ logamente si indica in 128 i morti causati dalle organizzazioni armate di sinistra tra il 1969 e il 1988, il 60% circa dei quali appartenenti alle diverse forze di polizia, in Aa.Vv., Progetto Memoria. La mappa perduta, Roma, Sensibili alle foglie, 2009, pp. 493 ss., ove pure sono riportate brevi schede biografiche di quei morti e dei terroristi deceduti. Cfr. an­ che le schede biografiche raccolte in Presidenza della repubblica, Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2008. 3 Pur tenendo conto dei diversi criteri adottati, e in specie del fat­ to che parte non marginale degli inquisiti furono assolti e dunque in misura da appurare anche da considerarsi estranei a ogni esercizio di violenza, si consideri che in Aa.Vv., Progetto Memoria. La mappa per­ duta, cit., pp. 483 ss., si riporta la cifra di 4.087 «inquisiti», ma senza dubbio si tratta di incarcerati per «banda armata, associazione sovver­ siva o insurrezione» tra il 1969 e il 1989, dei quali il 38% minori di

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tratti specifici assunti nel nostro paese dalla mobilitazione giovanile e sociale sviluppatasi in Europa e negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta e dunque i contesti e le culture sociali che alimentarono quei movimenti e il loro radicalismo. Pure chiamano in causa, per altri versi, l’adeguatezza delle classi dirigenti nel fronteggiare e governare le aspettative e, sovente, i di­ sagi e le tensioni sociali scaturiti da quelle che - non solo con il senno di poi - furono trasformazioni epocali degli assetti del paese. Perché quelle tensioni riflettevano certo l’inadeguata redistribuzione dell’accresciuto benessere, ma pure sca­ turivano da cambiamenti profondi delle sue strutture so­ ciali, il cui baricentro era andato rapidamente ridefinen­ dosi nel rapporto tra mondo urbano e lavoro industriale, scolarità di massa e condizione giovanile, diffusione delle culture del consumo e della comunicazione e affranca­ mento di soggettività finallora subalterne. Ne furono investiti i presupposti, non tanto di gerarchie e consue­ tudini sociali già travolte dalla cultura di massa, quanto del sistema politico, della sua rappresentatività e dunque della sua democraticità, intesa come capacità di governare coniugando equamente libertà e coesione sociale4. Difatti, il protagonismo di nuovi e molteplici soggetti e aggrega­ zioni collettive e l’emergere prorompente di inedite e in25 anni e il 40% minori di 35 al momento dell’arresto o inquisizione e, dal punto di vista occupazionale (sul 69% del totale), il 16% stu­ denti e il 16% operai. Già D. della Porta, Il terrorismo di sinistra, Bo­ logna, Il Mulino, 1990, pp. 139 ss., aveva censito tramite gli atti giu­ diziari 1.137 membri di «organizzazioni clandestine», dei quali il 25% donne, il 36,4% e il 34,5% rispettivamente nati tra il 1950 e il 1955 e tra il 1955 e il 1960, nonché (limitatamente al 39,5% del totale) il 40% operai dell’industria e il 15% studenti. 4 Questioni su cui aveva già richiamato l’attenzione A. Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogni individuali, Bo­ logna, Il Mulino, 1982. Una disamina delle analisi del fenomeno terro­ ristico svolte pressoché a ridosso degli eventi è in G.M. Ceci, Interpre­ tazioni del terrorismo: il primo dibattito scientifico italiano (1977-1984), in «Mondo contemporaneo», 3, 2009.

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numerevoli istanze di libertà e di tutela, solo in parte for­ malizzabili come altri diritti individuali e collettivi, mise in questione le procedure consolidate di formazione e integrazione della rappresentanza sociale che avevano fi­ nallora sostenuto la centralità dei partiti di massa e delle organizzazioni di interesse che li fiancheggiavano. Promotori e strumenti dell’avvento della democrazia nel nostro paese, sul finire degli anni Sessanta i partiti di massa soffrivano da un lato il loro insediamento tardivo al centro del sistema politico, condizionato dalla vittoria del fascismo nel primo dopoguerra e dal preminente ca­ rattere rurale del paese, e dall’altro il rapido compiersi della transizione a una modernità urbana-industriale che, coniugando alcuni tratti tipici del fordismo con l’afferma­ zione crescente di una socialità acquisitiva e consumistica, erodeva i presupposti stessi del loro radicamento sociale e le logiche organizzative della loro rappresentatività po­ litica. Il divampare della violenza politica negli anni Settanta non fu l’effetto, ma certamente il sintomo estremo di una crisi del sistema politico imperniato sui partiti di massa e, al tempo stesso, il banco di prova della loro capacità di rinnovamento. A conti fatti, si rivelò però piuttosto l’alibi per un’occasione drammaticamente mancata, come avrebbe dimostrato l’evoluzione, o involuzione, politica e istituzionale dei decenni successivi. In sostanza, affrontare la questione della violenza politica e della sua militarizzazione significa gettare uno sguardo, certo da un punto di vista estremo, sugli isti­ tuti, le politiche e le pratiche della giovane democrazia italiana, tanto sul versante della gestione dell’ordine pub­ blico, quanto su quello del rapporto tra istituzioni e so­ cietà civile e, come sopra detto, sulla vitalità e l’efficacia del sistema politico a base partitica in un decennio cru­ ciale della storia repubblicana. E, in modo solo apparen­ temente meno diretto, investe la questione dei diritti di cittadinanza, tanto sul versante del rapporto tra società e stato, ove certo pesò l’ombra lunga del fascismo, quanto su quello delle relazioni tra imprenditori e lavoratori, 14

anch’esse all’epoca per molti aspetti tutt’altro che equi­ librate, come si poteva facilmente constatare anche solo gettando lo sguardo oltreconfine. In altri termini, se negli anni Settanta fu all’ordine del giorno anche in Italia una profonda riconversione del sistema economico e politico-istituzionale che aveva pla­ smato lo stato nazionale nei decenni postbellici, quanto la militarizzazione del conflitto sociale e politico e la sua gestione da parte delle forze di governo valsero ad argi­ nare la crisi di prospettiva e di proposta in cui versava il partito di maggioranza e quanto costrinsero l’opposizione comunista a legittimarsi sul terreno della difesa delle isti­ tuzioni anziché su quello delle riforme economiche e so­ ciali? Quanto l’enfasi sulla minaccia terroristica rinsaldò il rapporto tra istituzioni e società civile, a scapito tuttavia di una più decisa valorizzazione di quest’ultima e a van­ taggio di un sistema partitico sempre più pervasivo, oltre­ ché di forze e organizzazioni criminali, come indicato dal ruolo assunto dalla loggia massonica P2 e dall’espansione della mafia e delle camorra? Quanto le pur comprensi­ bili preoccupazioni per la tenuta del sistema democratico contribuirono ad arginare l’erosione del consenso alle forze moderate, come divenne evidente nelle prove elet­ torali della seconda metà del decennio, e a procrastinare e orientare il dibattito sulle possibili riforme istituzionali? Quanto, infine, la ristrutturazione del sistema produttivo potè procedere attraverso la compressione delle forze del lavoro, spesso secondo logiche punitive, piuttosto che at­ traverso una politica industriale capace di contenerne i costi sociali e di preparare un nuovo ciclo espansivo?5 5 Tra le molte riflessioni sulla crisi italiana degli anni Settanta, e in particolare sui nessi tra dinamiche sociali e sistema politico-istituziona­ le, si veda anzitutto per l’ampiezza delle questioni sollevate e le condi­ visibili suggestioni interpretative F. De Felice, Nazione e crisi: le linee di frattura, in Storia dell’Italia repubblicana. 3. L’Italia nella crisi mon­ diale. Lultimo ventennio, voi. I: Economia e società, Torino, Einaudi, 1994; cfr. anche tra gli altri S. Lupo, Il crepuscolo della Repubblica, in Aa.Vv., Lezioni sull’Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 1994; P. Scop-

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2. Il Sessantotto: soggettività e rivoluzione Passaggio centrale in questa relazione tra dinamiche sociali e sistema politico fu il Sessantotto6, non perché sia il punto di partenza di questa storia, tanto più della spe­ cifica questione della violenza e della lotta armata, bensì perché fu crocevia, crogiolo e punto di non ritorno di molte diverse esperienze che da allora mutarono segno e portata. Il ’68 giovanile, ben oltre che studentesco, e pure il ’69 operaio non si limitarono a riecheggiare mobilitazioni dispiegatesi altrove, bensì con esse interagirono e si fe­ condarono, accomunati da alcuni rilevanti dati strutturali e culturali: la sinossi dei tempi di maturazione e mobili­ tazione, radicata nei rispettivi anni Sessanta, l’orizzonta­ lità generazionale ora assurta a frattura politica dentro la storia del Novecento postbellico, lo spaesamento indotto dalla modernizzazione neocapitalistica e consumistica e il rovesciamento in chiave antiautoritaria della emergente cultura dell’individualismo. D’altronde il carattere fondante del Sessantotto risie­ dette nel proporre la dimensione del sé - la soggettività individuale e collettiva - come criterio di valutazione sia dell’organizzazione della quotidianità sia della legittimità delle istituzioni politiche e sociali. Ma quella soggetti­ vità - il punto è cruciale - era storicamente radicata e ancorata negli orizzonti problematici, nei valori, nei pro­ getti del proprio tempo. Lungi dall’essere un accidente, il Sessantotto fu un’epifania, il manifestarsi di domande, istanze e tensioni, scaturite dagli stessi processi che avepola, Una crisi politica e istituzionale; P. Craveri, Partiti e «democrazia speciale»', N. Tranfaglia, Parlamento, partiti e società civile nella crisi repubblicana degli anni Settanta, tutti in G. De Rosa e G. Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, voi. I: Si­ stema politico e istituzioni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. 6 Più ampiamente in S. Neri Serneri, Gli «anni del ’68». Radicali­ smo e modernità, in M. De Nicolò (a cura di), Dalla trincea alla piazza. L’irruzione dei giovani nel Novecento, Roma, Viella, 2011.

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vano trasformato radicalmente le società postbelliche e costretto le sue culture, quale che fosse il loro universo valoriale e segno politico, a rifondarsi, con molto affanno e malcelate incertezze, per dare un senso e un ordine al «mondo nuovo» che andava avvolgendo e travolgendo le vite di milioni di italiani. Tanto laddove resistevano le strutture, gerarchie e men­ talità più retrive e conservatrici, quanto laddove invece la modernità «neocapitalistica» si era più linearmente af­ fermata e il paternalismo e il tradizionalismo declinavano più rapidamente, tensioni e contraddizioni scaturivano in primo luogo dalle frustrazioni e dalle persistenti inegua­ glianze cui sovente soccombevano le aspirazioni alla pro­ mozione sociale. Soprattutto erano attizzate dal delinearsi di gerarchie e poteri sociali nuovi, ma non meno coercitivi dell’autonomia individuale e degli affermati ideali di tra­ sparenza, eguaglianza e democrazia. Quelle che apparivano come le promesse mancate della modernità si sommavano così - e l’Italia della massiccia deruralizzazione, delle mi­ grazioni interne e dell’urbanesimo malgovernato ne fu forse l’esempio di maggior rilievo7 - al permanere o rinno­ varsi di antichi disagi e contrasti sociali. Alle gerarchie vecchie e nuove, ai tradizionali o rinno­ vati strumenti di disciplinamento sociale il movimento dei giovani - studenti, ma anche lavoratori8 - rispose, difatti, 7 Un quadro sintetico, ma assai efficace è in E. Santarelli, Storia critica della repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 90-96; cfr. anche la ricostruzione di G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Roma, Donzelli, 1996, e Id., Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003. 8 G.-R. Horn, The Spirit of '68. Rebellion in Western Europe and North America, 1956-1976, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 93 ss.; cfr. anche B. Gehrke e G.-R. Horn (a cura di), 1968 und die Arbeiter. Studien zum «proletarischen Mai» in Europa, Hamburg, Vsa, 2007. Sul caso italiano cfr. tra l’altro D. Giachetti e M. Scavino, La Fiat in mano agli operai: autunno caldo del 1969, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1999, e A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola opera­ ia nell’Italia repubblicana, Roma, Donzelli, pp. 123 ss.

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con la parola d’ordine dell’andautoritarismo, in nome della libertà e dell’autonomia individuale, di ciascun indi­ viduo e dunque anche delle comunità e collettività. Non si trattò, peraltro, di un mero conflitto generazionale, bensì del manifestarsi della valenza a un tempo radicale e universale che la soggettività giovanile era in grado di esprimere, profondamente innovandoli, nei diversi ambiti conflittuali aperti o latenti nelle società dell’epoca, a par­ tire da quelli di classe e di genere9. Per questo, l’antiautoritarismo rivolto contro le gerarchie considerate all’ori­ gine dell’oppressione sociale assunse rapidamente una declinazione egualitaria: alle differenze enfatizzate dalle gerarchie per legittimare la propria autorità si contrap­ pose l’eguaglianza tra gli individui. E la ricordata valenza radicale e universale della mobilitazione giovanile diffuse il conflitto in tutti quei contesti ove si percepiva l’esi­ stenza di strutture coercitive dell’autonomia individuale e collettiva: dalla famiglia alla scuola, dai luoghi di lavoro alle istituzioni pubbliche, per allargarsi progressivamente a tutti gli spazi di organizzazione della vita sociale, dalla produzione culturale alla sanità, dall’amministrazione della giustizia alle carceri, dalle relazioni di coppia alle associazioni politiche. Né va trascurato come, a fronte delle retoriche pro­ gressiste, pacifiste e universaliste, che nel corso degli anni Sessanta erano subentrate ai toni bellicisti, il ripro­ dursi di virulenti conflitti locali nei contesti postcoloniali parve confermare tanto il persistente primato del ricorso alla guerra come strumento per imporre l’egemonia delle potenze occidentali, quanto la «validità limitata» dei prin­ cipi di democrazia e sovranità popolare da queste pero­ rati. Questa contraddizione sostanziale e quella condizione di oppressione e di guerra erano imputate - in Italia come altrove in Europa e negli Stati Uniti - al fatto che 9 Come sottolinea D. Giachetti, Un Sessantotto e tre conflitti. Gene­ razione, genere, classe, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 2008.

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le istituzioni e le forze politiche egemoni, pur vittoriose sul fascismo storico, parevano rispondere ancora una volta ad élite più o meno ristrette, anziché alle istanze espresse dalle maggioranze popolari. Enfatizzando le dif­ ficoltà, se non la crisi, delle tradizionali capacità di rap­ presentanza e integrazione dei partiti di massa a fronte della complessità e della pluralità sociale veicolate dalla modernizzazione «neocapitalistica», queste valutazioni fortemente critiche alimentavano un approccio all’azione politica imperniato sul primato della prassi, ritenuto indi­ spensabile per rilanciare l’autonomia sociale e per supe­ rare la discrasia tra presente e futuro considerata all’ori­ gine della riproduzione di strutture di potere - anche partitiche - prive di legittimazione funzionale e sociale. Nel tentativo di superare quelle discrasie ci si affidò a modalità di iniziativa politica - solo sommariamente riconducibili all’azione dal basso e allo spontaneismo - che traducevano in pratiche «di massa», e dunque ge­ neralizzavano, istanze critiche formulate nei tardi anni Cinquanta e più decisamente nel decennio successivo da esperienze minoritarie di avanguardie attive in ambiti di­ versi, che spaziavano dalle sinistre cosiddette «critiche» o «neomarxiste» al sindacalismo di base, dai gruppi pacifi­ sti a quelli per i diritti civili o per il sostegno ai movi­ menti anticolonialisti e terzomondisti, dalle comunità ec­ clesiali più innovatrici o critiche alle avanguardie culturali e artistiche10. Soprattutto, il movimento operò sovente anche una radicalizzazione e una semplificazione di molte di quelle istanze, perché, con la forza della dimensione di massa, 10 Cfr. C. Adagio, R. Cerrato e S. Ureo (a cura di), Il lungo decen­ nio. L’Italia prima del ’68, Verona, Cierre, 1999, ma anche N. Fasano e M. Renosio (a cura di), I giovani e la politica. Il lungo ’68, Torino, Gruppo Abele, 2002, e i materiali raccolti in N. Balestrini e P. Moroni (a cura di), L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano, Feltrinelli, 1988. Per una pa­ noramica europea cfr. Horn, The Spirit of '68, cit.

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avallò il primato della prassi e dunque rafforzò la con­ vinzione - già insita nelle precedenti esperienze di avan­ guardia - che gli obiettivi potessero realizzarsi perché «anticipati» nel corso stesso dei conflitti sociali. Questi criteri di condotta - nient’affatto invalidati dagli insi­ stiti richiami a un olimpo ideologico variegato e sovente contraddittorio - esprimevano, anche nella rottura delle usuali prospettive temporali della politica, la diffusa per­ cezione delle potenzialità di cambiamento offerte dalla società dell’epoca11. Conseguente fu quindi l’ulteriore passaggio a considerare la conflittualità sociale lo stru­ mento utile, non tanto a rafforzare la propria forza con­ trattuale, quanto a ampliare costantemente il novero degli obiettivi raggiungibili. In Italia, tutto ciò trovò espres­ sione nella più ampia mobilitazione sociale, che fin dal 1967 e con più forza dalla primavera-estate 1969 investì le fabbriche e progressivamente anche altri ambiti sociali, e nella quale il movimento giovanile e studentesco con­ fluì, ritenendo non a torto che quelle potenzialità di cam­ biamento stessero rapidamente concretizzandosi. L’interazione tra aspettative di cambiamento radicale e capacità di mobilitazione e di «anticipazione» degli obiettivi alimentò con forza crescente una prospettiva po­ litica di intonazione rivoluzionaria, intesa come possibilità di giungere in tempi relativamente brevi a un rovescia­ mento sostanziale dell’ordine politico, sociale e culturale dominante. Quella prospettiva cercò sovente sanzione e conferma nelle varie declinazioni del marxismo radicale e parve legittimata dal successo di alcune esperienze in­ surrezionali «terzomondiste». In realtà, essa espresse e trasse primariamente vigore - ben più che dall’ideologia - appunto da un diffuso e prepotente desiderio di cam­ 11 A. Cavalli e C. Leccardi, Le culture giovanili, in Storia dell’Ita­ lia repubblicana. 3. L’Italia nella crisi mondiale. I!ultimo ventennio, voi. II: Istituzioni, politiche, culture, Torino, Einaudi, 1997, pp. 787 ss.; cfr. anche R. Lumley, States of Emergency: Cultures of Revolt in Italy from 1968 to 1978, London, Verso, 1990; trad. it. Dal '68 agli anni di piom­ bo. Studenti e operai nella crisi italiana, Firenze, Giunti, 1998.

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biamento, nutrito, in quell’Italia appena uscita dal mondo rurale, dalle valenze palingenetiche largamente sedimen­ tate e diffuse dalla cultura cattolica come da quella co­ munista e rilanciate proprio dall’esperienza e dagli esiti del boom economico, che aveva dimostrato la possibilità di un cambiamento repentino e radicale, ma che le aveva anche rimotivate, invocandole a rimedio delle iniquità morali e sociali che ne erano scaturite. L’interazione tra quelle convinzioni e attitudini e la crescente mobilitazione sociale generò molte delle con­ traddizioni che costellarono gli sviluppi e gli esiti del mo­ vimento nella sua più lunga durata. La più drammatica fu certo quella concretizzatasi nel crescente, poi diffuso e, infine, per taluni, privilegiato ricorso alla violenza. Infatti, la diffusa, quanto talora generica, adesione a una prospet­ tiva politica rivoluzionaria trasse con sé anche l’accetta­ zione implicita o esplicita della violenza come strumento ordinario e magari necessario di lotta politica. Non signi­ ficava però - così come, d’altra parte, non era accaduto per la base comunista degli anni Cinquanta, anch’essa ancora largamente imbevuta di aspettative rivoluzionarie - accettare di conseguenza una strategia insurrezionale, tanto meno predisporsi a entrare in una organizzazione di lotta armata o terroristica12. Molte e diverse, anche nel tempo, furono le moda­ lità di esercizio della violenza e la strumentalità a esse attribuita rispetto alle finalità del movimento e poi, più precisamente, delle organizzazioni politiche che intende­ vano farsene parte dirigente. Del pari, molte e diverse 12 Tende invece a sfumare queste distinzioni, indicando nella vo­ cazione rivoluzionaria la matrice della lotta armata, A. Ventrone, Dal Palazzo d’inverno ai quartieri liberati. La trasformazione dell'idea di rivo­ luzione, in Id. (a cura di), I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d’Italia negli anni Sessanta e Settanta, Macerata, Eum, 2010. In­ teressanti suggestioni sugli orizzonti di aspettativa, i linguaggi e le con­ cettualizzazioni rivoluzionarie del Sessantotto e dei movimenti da esso scaturiti, in G. Parrinello, La sinistra rivoluzionaria dopo il Sessantotto. Esperienze, orizzonti, linguaggi, in «Storicamente.org», 4, 2008.

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furono le condizioni e le pulsioni che incentivarono il ri­ corso alla violenza. Senza dubbio molto pesò, in seno al movimento, la radicalizzazione del primato della prassi e del soggettivismo, spinta fino alla legittimazione della ri­ soluzione violenta dei conflitti. Una radicalizzazione nu­ trita dal tragico intersecarsi di motivazioni politiche e culturali, tra le quali primeggiarono quelle alimentate dal diffondersi di un’accezione drammaticamente solipsi­ stica della cultura della militanza, che spinse a esaltare in chiave apertamente offensiva, anche quando sorretta da motivazioni «difensive», il paradigma del conflitto amico­ nemico, largamente egemone nella tradizione politica no­ vecentesca. Certamente agirono impulsi vitalistici, irrazionali e anche estetizzanti, mossi da una ricerca di senso affine a quella di altri, magari opposti raggruppamenti politici coevi o comunque novecenteschi accomunati dall’avver­ sione alla liberaldemocrazia13, così come molto - e talora anche in modo determinante - pesarono nelle scelte e nei percorsi individuali i vincoli di solidarismo amicale e di gruppo14. Tuttavia, porre quella ricerca di senso e quella «ipertrofia del sentire» a fondamento del ricorso alla vio­ lenza non solo non rende ragione del perché tali manife­ stazioni si rinnovarono nel contesto italiano degli anni Set­ tanta, ma presuppone una connessione tra l’«ipertrofia del sentire» e la «ricerca di senso» da un lato e la violenza dall’altro che, per quanto reale, non può considerarsi ob­ bligata e dunque deve essere spiegata, così come non è obbligata l’antitesi di quelle pulsioni alla liberaldemocra­ zia, potendosi certamente considerare la «ricerca di senso» e l’«ipertrofia del sentire» attraverso la ricerca del piacere 13 Cfr. A. Ventrone, L’assalto al cielo. Le radici della violenza poli­ tica, in De Rosa e Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, cit. Una interpretazione estrema di un approccio fondato sul primato dell’ideologia e della dimensione esistenziale è in A. Orsini, Anatomia delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del terro­ rismo rivoluzionario, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009. 14 Cfr. della Porta, Il terrorismo di sinistra, cit., pp. 133 ss., 165 ss.

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e l’esaltazione del corpo come modalità di presenza nel mondo manifestazioni tipiche della modernità definita dai consumi, anche nei sistemi politici liberaldemocratici. Piuttosto, come cercheremo di mostrare più avanti, il fondamento primo del ricorso alla violenza risiedeva nella convinzione che essa fosse lo strumento necessario, e per taluni indispensabile, per affermare la propria soggettività sociale e dunque il proprio diritto contro un potere con­ siderato ingiusto e perciò autoritario. Non senza analogie con la secolare tematica cattolica della «guerra giusta», la violenza era legittimata con la necessità di tutelare un diritto ritenuto moralmente superiore e finalizzata a in­ frangere le presunte gabbie del disciplinamento sociale. Una prospettiva che almeno in prima istanza era ben lungi dall’essere nichilista e distruttiva, persino quando affermava il «rifiuto del lavoro», avversato in quanto tale perché ritenuto inevitabilmente subalterno ai processi di valorizzazione produttiva capitalistici, ma senza che ciò implicasse una avversione alla produzione sociale della ricchezza. E, si noti, un punto di vista ben diverso da quello del radicalismo di destra, che nell’esercizio della violenza vedeva essenzialmente la manifestazione naturale di un potere gerarchicamente sovraordinato. Che la cultura di sinistra muovesse da quel punto di vista lo suggeriscono non solo le ricorrenti considerazioni circa la specularità tra potere e violenza e la concezione del diritto formale come sanzione di quella specularità, da cui si faceva discendere il necessario rovesciamento di quel rapporto. Ma lo suggerisce soprattutto la persistente discussione, aperta all’interno dei gruppi che pure consi­ deravano la violenza una risorsa strategica, attorno alla le­ gittimazione dei livelli di violenza praticabili, fino all’omi­ cidio, e di chi personalmente esercitava quelle violenze. D’altra parte, quella discussione rimase aperta anche dopo, e nonostante, le tragiche brutalità omicide spesso sempre più pauperamente motivate degli ultimi anni Set­ tanta e dei primi anni Ottanta e valse ad avviare un per­ corso critico sull’esperienza della lotta armata e più in ge­ nerale sulla legittimità della violenza, del quale la vicenda 23

politico-giudiziaria della cosiddetta dissociazione fu solo uno dei momenti più significativi. 3. Un passo indietro. Il caso italiano, la violenza e il Ses­ santotto Una riflessione storiografica sull’esercizio della vio­ lenza15 dovrà spingersi oltre le opposte, ma riduttive, tendenze ad addebitarla all’esaltazione ideologica o alla degenerazione meramente criminale o, invece, a consi­ derarla esito pur deprecabile delle contingenze politiche. Del pari, non è certo sufficiente evidenziare le continuità, 15 Per alcuni riferimenti, nient’affatto esaustivi, cfr. I. Sommier, La violence politique et son deuil. L’apres '68 en France et en Italie, Rennes, Presse Universitaire de Rennes, 1998; Crainz, Il paese mancato, cit., pp. 217 ss., 273 ss.; A. Bravo, Noi e la violenza. Trentanni per pensarci, e E. Betta e E. Capussotti, «Il buono, il brutto e il cattivo»: l’epica dei movimenti tra storia e memoria, entrambi in A. Bravo e G. Fiume (a cura di), Anni Settanta, in «Genesis. Rivista della Società Italiana delle Storiche», III/1, 2004; B. Armani, Italia anni settanta. Movimenti, violenza politica e lotta armata tra memoria e rappresenta­ zione storiografica, in «Storica», 32, XI, 2005; M. Galfré, L’insosteni­ bile leggerezza del '11. Il trentennale tra nostalgia e demonizzazióni, in «Passato e presente», 75, 2008; L. Bosi e M.S. Piretti (a cura di), Vio­ lenza politica e terrorismo, numero monografico di «Ricerche di storia politica», 3, 2008; G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violen­ za politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1915), Tori­ no, Einaudi, 2009; Ventrone, I dannati della terra, cit.; A. Martellini e A. Tonelli (a cura di), Violenza politica, comunicazione, linguaggi, in «Storia e problemi contemporanei», settembre 2010; P. Calogero, C. Fumian e M. Sartori, Terrore rosso. Dall'autonomia al partito armato, Roma-Bari, Laterza, 2010; M. Lazar e M.-A. Matard-Bonucci (a cura di), Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italia­ no, Milano, Rizzoli, 2010; G. Panvini, Dal '68 agli anni di piombo, in De Nicolò, Dalla trincea alla piazza, cit.; ma cfr. anche le suggestioni proposte da M. Calabresi, Spingendo la notte più in là, Milano, Riz­ zoli, 2007, e, tra le riflessioni più interessanti e recenti di studiosi che pure furono protagonisti dei movimenti degli anni Settanta, G. Moro, Anni Settanta, Torino, Einaudi, 2007; A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Roma-Bari, Laterza, 2008; G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1918. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Mila­ no, Feltrinelli, 2009.

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pur indubbie e significative, tra le violenze esercitate nelle manifestazioni di piazza a tutela di comportamenti illegali, il ricorso alla forza e anche le aggressioni inten­ zionali finalizzate a ostacolare gli avversari politici e, in­ fine, gli atti violentemente intimidatori e le aggressioni anche mortali. È indispensabile invece indagare tanto i contesti sociali e culturali che hanno via via alimentato le diverse modalità di esercizio della forza e della violenza, tanto le scelte politiche - perché di questo si tratta - che le hanno sostenute e legittimate. E, di converso, ciò per­ metterà anche di cogliere le alternative di volta in volta prospettate e praticate e di ricondurre la questione della violenza alle sue reali e rilevanti, ma nient’affatto onni­ comprensive, dimensioni. Nel lungo periodo, infatti, la questione della violenza fu una contraddizione in senso proprio, sia perché essa catalizzava un’alterità tra alcuni valori portanti del movimento stesso, sia perché attorno a essa di volta in volta si consumò la divaricazione tra di­ verse opzioni politiche e organizzative. Rispetto alla larga prevalenza della memorialistica e delle narrazioni più o meno convincenti dell’operato di questa o l’altra formazione terroristica16, si tratta per certi aspetti di fare un passo indietro per guardare prima ai movimenti, alle culture, alle organizzazioni, alla storia degli anni Settanta per poi tornare a quelle delle forma­ zioni terroristiche. Fare un passo indietro appare indi­ spensabile per sottrarsi alle prospettive continuistiche intrinseche alla storia delle organizzazioni o alle testimo­ 16 Cfr. E. Betta, Memorie in conflitto. Autobiografie della lotta ar­ mata, in «Contemporanea. Rivista di storia deU’800 e del ’900», 4, 2009; B. Armani, La produzione storiografica, giornalistica e memoriale sugli anni di piombo, in Lazar e Matard-Bonucci, Il libro degli anni di piombo, cit.; E Rossi, Memorie della violenza, scritture della storia. Ele­ menti per un’analisi delle controverse ri-letture degli anni Settanta, in Ventrone, I dannati della rivoluzione, cit.; G. Tabacco, Libri di piombo. Memorialistica e narrativa della lotta armata in Italia, Milano, Bietti, 2010, e gli spunti utili in P. Zavaroni, Caduti e memoria nella lotta po­ litica. Le morti violente della stagione dei movimenti, Milano, Angeli,

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nianze dei protagonisti e cogliere invece le contiguità e le sovrapposizioni, ma anche le differenze, le alternative, le discontinuità. La violenza è un tema storiografico che chiama in causa culture, contesti sociali, norme e diritti, strategie politiche e pratiche militari di una vasta cerchia di attori. Solo la consapevolezza di ciò, e delle relazioni tra que­ sti fattori e contesti, rende possibile comprenderne e illu­ strarne la genesi, le dinamiche e le diverse manifestazioni. Solo su questi presupposti, inoltre, è possibile procedere a una comparazione internazionale, in grado di andare ol­ tre i pur importanti risultati finora raggiunti soprattutto dalla sociologia politica, che peraltro ha sottolineato l’ori­ ginalità del percorso italiano, pur innescato da analoghe dinamiche di mobilitazione, e ne ha individuato le princi­ pali peculiarità specialmente nel contesto generale e dun­ que nell’ampiezza della mobilitazione, nell’atteggiamento repressivo delle classi dirigenti, nell’esistenza di interlocu­ tori politici rilevanti, ma collocati all’opposizione17. Per questo ci pare indispensabile ripartire dalla vi­ cenda italiana, senza alcuna pretesa di sistematicità e pro­ fondità, per suggerire alcune linee di indagine e spunti di riflessione, forse utili a ridefinire il campo della ricerca. Premessa di tale ridefinizione è anzitutto una con­ siderazione più attenta della cultura politica, anzi, della cultura della politica prevalente nel nostro paese alla fine degli anni Sessanta. Nel ventennio, o poco più, repub­ blicano la dialettica politica era sostanzialmente proce­ duta entro i binari costituzionali delle verifiche elettorali 17 Cfr. in particolare D. della Porta, Sodai Movements, Politicai Violence, and thè State. A Comparative Analysis of Italy and Germany, Cambridge, Cambridge University Press, 1995; Sommier, La violence politique, cit.; Ead., La violenza rivoluzionaria. Le esperienze di lotta armata in Francia, Germania, Giappone, Italia e Stati Uniti, Roma, DeriveApprodi, 2009; J. Hiirter e G.E. Rusconi (a cura di), Die bleiernen Jahre. Staat und Terrorismus in der Bundesrepublik Deutschland und Italien 1969-1982, München, Oldenburg, 2010, oltre a Bosi e Piretti, Violenza politica e terrorismo, cit.

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e dei governi parlamentari, senza però che ne seguissero interventi riformatori significativi e tali da rispondere alle attese di cambiamento soddisfatte, ma al tempo stesso rilanciate, dalla mobilitazione partigiana e resistenziale del 1943-45 e dall’approvazione della Carta costituzio­ nale. Anzi, le vicende del giugno del 1960 e quelle op­ poste dell’estate del 1964, con la crisi del centrosinistra riformatore e il vagheggiato Piano Solo, parevano sugge­ rire che il terreno decisivo di confronto restasse quello dell’esercizio della forza. Si consideri poi quanto, sul fi­ nire del decennio, fosse tutto sommato esiguo il bilancio della stagione del centrosinistra, ricordando che gli enti regionali, lo Statuto dei lavoratori, la legge sul divorzio - provvedimenti tutt’altro che radicali - erano ancora in divenire, mentre i progressi nelle condizioni dei lavoratori e dei ceti popolari erano stati per lo più esito diretto o indiretto di mobilitazioni sindacali. Non sorprende che a sinistra si guardasse con delusione e disincanto alle po­ tenzialità di cambiamento offerte dalle istituzioni parla­ mentari repubblicane. In aggiunta, l’eredità legislativa del fascismo, più consistente e incisiva proprio negli ambiti di più immediata iniziativa delle sinistre - dalla legisla­ zione del lavoro all’ordine pubblico, ai diritti civili e po­ litici -, induceva ad attribuire una connotazione classista, autoritaria e criptofascista alle normative repubblicane più invise, nonché a quelle istituzioni e amministrazioni, a cominciare dalla magistratura, deputate alla loro appli­ cazione. Non del tutto immotivatamente18, ne era derivata una cultura politica che continuava a vedere nella Resistenza il paradigma ideale e normativo di un processo di cam­ biamento politico radicale fondato sull’iniziativa popolare, 18 Sulla cultura e le vicende della magistratura cfr. G. Neppi Mo­ derna, La magistratura dalla Liberazione agli anni cinquanta. Il diffici­ le cammino verso l’indipendenza, e E. Bruti Liberati, La magistratura dall’attuazione della Costituzione agli anni Novanta, entrambi in Storia dell’Italia repubblicana. 3. L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo venten­ nio, voi. II: Istituzioni, politiche, culture, cit.

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che le istituzioni repubblicane avrebbero potuto, al più, riflettere e contenere, difficilmente promuovere e, al peg­ gio, ostacolare. Ciò, d’altra parte, convergeva largamente con il fatto che, per il ruolo preponderante giocato nel nostro paese dai partiti di massa nel radicamento della democrazia politica, a sinistra quest’ultima era intesa as­ sai più in senso dualistico e oppositivo, come ambito del conflitto di classe costituzionalmente regolamentato piut­ tosto che procedura di mediazione pur conflittuale tra i diversi interessi sociali. E questa cultura politica, che considerava la forza come connaturata al conflitto politico anche nel contesto democratico - convinzione peraltro altrettanto largamente diffusa in ambiti politici e ideologici del tutto diversi -, il contesto cui occorre guardare. Non per cercare matrici o genealogie, quanto per delineare il sistema di relazioni e il campo di tensioni politiche, culturali e organizzative in cui va inscritta la questione del ricorso alla violenza e della scelta della militarizzazione. Anche per questo ab­ biamo concentrato l’attenzione sulla sinistra politica, e più rawicinatamente su quei gruppi della sinistra radi­ cale da cui scaturirono le organizzazioni armate. Perché la questione della violenza politica e della «lotta armata» non fu marginale, né indotta dall’esterno, né reazione a iniziative altrui, bensì chiamò in causa la cultura e l’azione politica dell’intera sinistra italiana di quegli anni, pur in misura e con responsabilità assai diverse. Nel corso degli anni Sessanta quella cultura politica conobbe una indubbia radicalizzazione critica. Fu solle­ citata dalla ripresa delle mobilitazioni operaie e sindacali nel contesto del cosiddetto neocapitalismo, perché quelle pratiche conflittuali parvero aprire spazi di iniziativa nuovi e ben più dinamici di quelli offerti dalle organiz­ zazioni storiche della sinistra italiana, ancora attardate a fare i conti con la crisi dello stalinismo e gli scenari della guerra fredda. Ne derivarono un fermento e una curiosità intellettuale in specie per i temi della conflittualità sociale e della soggettività e autonomia individuale e collettiva, che produssero comunque elaborazioni culturali e politi­ 28

che assai variegate, tra le quali il cosiddetto operaismo fu solo la più nota e consapevole. Rimaste largamente mino­ ritarie, erano destinate a lievitare incontrando le mobili­ tazioni di fine decennio e a esserne sensibilmente trasfor­ mate, in termini ideologici quanto operativi19. Analoghe suggestioni, seppur altrimenti configurate in termini concreti, provennero da molteplici realtà extraeu­ ropee - dalle ultime lotte anticoloniali al socialismo guer­ rigliero cubano e guevarista, dal conflitto postcoloniale indocinese alla Cina della «rivoluzione culturale» maoista - convergenti comunque nel dimostrare come il ricorso alla forza fosse strumento obbligato, ma spesso vincente, di quanti intendevano tutelare le ragioni delle maggio­ ranze oppresse dalle élite occidentali, che, per quanto si dichiarassero democratiche, non esitavano a ricorrere alla violenza quando i loro interessi erano minacciati, all’estero e nei propri paesi, come nel caso degli afroa­ mericani in lotta per i diritti civili negli stessi Stati Uniti d’America. Per quanto fondate, quelle constatazioni di fatto si traducevano - secondo una conseguenzialità non inelutta­ bile - nella delegittimazione di istituti e procedure della democrazia politica e nell’accettazione, quando non nella giustificazione, del ricorso alla forza, almeno sul piano del discorso politico. In questo contesto, il Sessantotto mutò sostanzial­ mente i termini della questione. Chiamata a confrontarsi con la forza esercitata dalle autorità accademiche e poli­ tiche, la mobilitazione studentesca marginalizzò quel pur non trascurabile pacifismo giovanile, che negli anni pre­ 19 Cfr., tra gli altri, Adagio, Cerrato e Urso, Il lungo decennio. L’Ita­ lia prima del '68, cit.; P.P. Poggio (a cura di), L'altronovecento. Comu­ niSmo eretico e pensiero critico, voi. II: Il sistema e i movimenti. Euro­ pa 1945-1989, Milano-Brescia, Jacabook/Fondazione Micheletti, 2011, e in particolare C. Corradi, Panzieri, Tronti, Negri: le diverse eredità dell’operaismo italiano-, cfr. anche i materiali e le interviste raccolte in F. Pozzi, G. Roggiero e G. Borio (a cura di), Gli operaisti, Roma, DeriveApprodi, 2005.

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cedenti a sua volta aveva inteso denunciare la violenza del sistema sottraendosi radicalmente alla logica dell’an­ tagonismo di forze20, e si dispose a sostenere la violenza della controparte sviluppandone una propria e conside­ randola condizione della propria esistenza. La scelta del ricorso alla forza, poco importa quanto difensiva o offen­ siva, scaturì dall’interazione tra il contesto politico-cultu­ rale sopra descritto e le condizioni di agibilità del movi­ mento stesso. In quel passaggio - come efficacemente sintetizzò una notissima canzone coeva -, alla continuità nell’impiego della forza da parte loro corrispose la discontinuità del fatto che anche noi la esercitiamo: «Hanno impugnato i manganelli / ed han picchiato come fanno sempre loro / e all’improvviso è poi successo / un fatto nuovo un fatto nuovo un fatto nuovo / non siam scappati più / non siam scappati più»21. L’accettazione consapevole del ricorso alla violenza come strumento di azione politica fu una svolta, che si consumò in termini analoghi anche nel contesto di fab­ brica. Qui la microconflittualità manifestatasi, già prima dell’«autunno caldo», in reazione all’intensificazione dei ritmi di lavoro comportò il diffondersi di pratiche vio­ lente da parte operaia dapprima contro la brutalità dei capi e poi, in un crescendo, a sostegno della propria ca­ pacità rivendicativa e conflittuale22. 20 Cfr. D. Giachetti, Anni Sessanta comincia la danza. Giovani, ca­ pelloni, studenti ed estremisti negli anni della contestazione, Pisa, Bi­ blioteca Franco Serantini, 2002; A. Martellini, Fiori nei cannoni. Non­ violenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, Roma, Donzelli, 2005. 21 Paolo Pietrangeli, Valle Giulia (1968). 22 Cfr. S. Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e democrazia in Italia. 1965-1975, Roma-Bari, Laterza, 1990, in parti­ colare p. 170, ove si dà anche una comparazione quantitativa tra le azioni di sciopero e altre forme di protesta; della Porta, Il terrorismo di sinistra, cit., pp. 63 ss.; e quindi con riferimento a diverse realtà industriali, A. Pizzorno (a cura di), Lotte operaie e sindacato in Italia:

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Fu anzitutto una svolta culturale, un’affermazione di soggettività, la cui manifestazione simbolica fu il fin forse troppo celebrato rovesciamento della statua del conte Marzotto a Valdagno il 19 aprile 1968, che - seppure certo non priva di precedenti - segnalava ora la raggiunta insopportabilità di e la conseguente volontà di reagire a quelle che erano vissute come le consuete e ricorrenti pratiche violente della controparte. Sentimenti e volontà così cantati da Gualtiero Bertelli all’indomani degli scon­ tri avvenuti alla stazione ferroviaria di Mestre il 1° agosto 1968 tra operai della Montedison e forze dell’ordine: «A casa senza voce, con le mani / sporche dei sassi raccolti sui binari, / per una volta ancora dopo tanto / mi son sentito armato e non inerme / contro i nemici nostri di sempre. / Hai cercato nei loro volti lo scherno e la fred­ dezza / di chi ti ha caricato tante volte / “Pula fascista, vienimi addosso!”, una rabbia e una forza sconosciute»23. La cultura e la pratica della violenza tornarono a gio­ care - come in altre stagioni di intensa conflittualità, ba­ sti pensare alle lotte bracciantili del cosiddetto «biennio rosso» - un ruolo di rilievo nei comportamenti dei lavo­ ratori salariati, per contenere il crumiraggio come, più in generale, per contrastare, e dunque anche intimidire, la controparte imprenditoriale e la sua capacità di governo dell’azienda. Non diversamente, anche in altri ambiti di conflittualità sociale la violenza - solitamente rivolta con­ tro le forze dell’ordine - entrò a far parte dei comporta1968-1972, 6 voli., Bologna, Il Mulino, 1974; M. Revelli, Lavorare in Fiat. Da Vailetta ad Agnelli a Romiti. Operai sindacati robot, Milano, Garzanti, 1989; G. Polo, I tamburi di Mirafiori. Testimonianze operaie attorno all’autunno caldo in Fiat, Torino, Cric, 1989; G. Berta, Con­ flitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat, 1919-1979, Bologna, Il Mulino, 1998, in particolare pp. 139 ss.; Giachetti e Scavino, La Fiat in mano agli operai, cit.; E. Mentasti, La Guardia rossa racconta. Sto­ ria del Comitato operaio della Magneti Marelli, Milano, Colibrì, s.d.; D. Sacchetto e G. Sbrogiò (a cura di), Quando il potere è operaio. Auto­ nomia e soggettività politica a Porto Marghera (1960-1980), Roma, Ma­ nifestolibri, 2009, pp. 31, 54-56, 65, 255 ss. 21 Gualtiero Bertelli, 1 agosto Mestre 68, 1968.

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menti strumentali al perseguimento degli obiettivi di volta in volta perseguiti, dalle occupazioni di edifici scolastici, stabilimenti industriali o alloggi non utilizzati, allo svolgi­ mento di manifestazioni e cortei non autorizzati, all’autoriduzione dei prezzi dei servizi di trasporto, energetici o telefonici ai blocchi stradali e ai picchetti a sostegno degli scioperi24. In questi contesti il ricorso alla violenza non era però generalizzato e, per quanto preordinato, dipen­ deva dalle circostanze, restava di bassa intensità e quando rivolto contro le persone, nonostante la pericolosità di taluni comportamenti e strumenti offensivi, non era pri­ mariamente finalizzato a provocare lesioni gravi o mor­ tali. Per quanto non implicassero di per sé l’adesione a una strategia insurrezionalista e tanto meno una qualche opzione per la lotta armata, tali comportamenti, tuttavia, testimoniavano come la violenza fosse divenuta - e lo sa­ rebbe stata con intensità e diffusione crescente - un ele­ mento determinante del confronto politico. Infatti, proprio la mobilitazione sociale avviata nel 1968-69 diede continuità e dunque rese in qualche modo stabile quella che fino allora era stata una componente ri­ corrente, ma occasionale del conflitto politico. Non solo il movimento fece proprio il ricorso alla violenza finallora prerogativa delle pubbliche autorità, ma ritenne che in una certa misura fosse condizione decisiva per il prose­ guimento stesso della mobilitazione, a fronte dei tentativi di ripristino dell’ordine e di abbattimento della conflit­ tualità sociale e nei luoghi di lavoro. Da allora, il ricorso alla violenza divenne una varia­ bile dipendente dal contesto e dalle strategie dei diversi 24 Secondo le stime di Tarrow, Democrazia e disordine, cit., pp. 53 ss., gli episodi di violenza furono pari al 23,1% del totale delle forme di azione di protesta nel ciclo 1966-73 e furono dapprima equivalenti e dal 1970 più numerosi delle forme di azione di protesta «perturbative», ovvero contrarie alla legalità (occupazioni, sit-in, irruzioni, blocchi stradali, ecc.), un dato che pare suggerire come il ricorso alla violenza divenne sempre più un requisito necessario della protesta.

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attori e dunque per molti aspetti una «risorsa» di questi ultimi. Tuttavia, più che risorsa meramente strumentale, perché destinata a diventare tanto più redditizia con il decrescere della mobilitazione25, la violenza fu una ri­ sorsa dotata di valenza politica propria, commisurata al contesto in cui si operava, ma anche alle finalità perse­ guite. Per questo fu scelta come strumento privilegiato da determinati gruppi, e non da altri, appunto in ragione di quella valenza e non - solo - in funzione delle risorse disponibili. D’altronde, se così non fosse, quella scelta sa­ rebbe stata appannaggio dei soggetti più marginali e po­ veri di risorse. L’impiego della forza e il ricorso alla violenza trassero alimento da, e rispecchiarono, le dinamiche conflittuali in atto e il diverso collocarsi di individui e gruppi organiz­ zati rispetto a esse. Non furono semplice riflesso della di­ rezione e intensità, ascendente o declinante, della mobili­ tazione, ma - assai meno linearmente - parte delle scelte compiute dai diversi attori che animavano il movimento. Quelle dinamiche e quelle scelte determinarono le moda­ lità con cui l’impiego della forza e il ricorso alla violenza furono declinati e praticati nel tempo. 4. I contesti della violenza Nell’intersezione tra quelle dinamiche e quelle scelte si collocarono esperienze, percorsi ed esiti assai diversifi­ cati, che solo in parte e in modo nient’affatto lineare o cumulativo condussero da pratiche violente di bassa in­ tensità verso forme di militarizzazione via via più accen­ tuata e organizzata, fino alle formazioni armate e clande­ stine. Quelle intersezioni, finora pressoché ignorate dalla 25 Secondo quanto da tempo suggerito da alcuni studi di socio­ logia politica, peraltro di grande interesse, quali Tarrow, ibidem, pp. 255-283, e della Porta, Il terrorismo di sinistra, cit., in particolare nei capitoli 2 e 3.

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ricerca storica - peraltro ancora troppo poco impegnata a ricostruire la stessa conflittualità sociale di quegli anni26 -, appaiono invece l’ambito di indagine privilegiato per co­ gliere l’origine, la ragion d’essere e i caratteri fondanti del fenomeno della lotta armata e del terrorismo. Fin dai primi e per tutti gli anni Settanta l’impiego della forza e il ricorso alla violenza, e il confronto ideo­ logico e politico intorno a questo tema, si svilupparono all’interno di una pluralità di ambiti d’azione, campi di tensione e terreni di verifica, certo contigui e talora par­ zialmente sovrapponibili, ma nondimeno distinguibili ana­ liticamente27 e, soprattutto, in termini di propedeuticità alle scelte più radicali di militarizzazione e di lotta ar­ mata. Il primo e più vasto contesto fu ovviamente quello del movimento stesso. Coerente con la sua matrice ses­ santottina, ben più che con la affermata filiazione postle­ ninista o maoista, esso si concepì e operò - nonostante la forte ideologizzazione - come soggetto politico chiamato a esprimere anzitutto una pratica di radicale cambia­ mento sociale, alla quale erano subordinati, perché a essa strumentali, sia gli indirizzi ideologico-programmatici sia, ancor prima, le strutture organizzative, tanto numerose e diversificate (dai gruppi pseudopartitici della sinistra «extraparlamentare», agli organismi di iniziativa locale, ai «collettivi» operai, studenteschi, tematici, territoriali, ecc., alle aree di coordinamento in prospettiva nazionale) quanto mutevoli nel loro ciclo vitale e nelle dinamiche aggregative28. Interna e funzionale a quella concezione si 26 Cfr. in proposito la recente messa a punto in P. Causarano, L. Falossi e P. Giovannini (a cura di), Il 1969 e dintorni. Analisi, riflessio­ ni e giudizi a quarantanni dall’«autunno caldo», Roma, Ediesse, 2010. 27 Cfr. in proposito anche la classificazione delle retoriche di legitti­ mazione e delle forme di esercizio della violenza proposta in Sommier, La violence politique et son deuil, cit., pp. 55 ss., 77 ss. 28 Sulla storia della sinistra radicale, cfr., tra gli altri e talora a metà tra storia e riflessione di protagonisti, F. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto. Sinistra e sinistrismo dal 1956 agli anni Ottanta, 3 voli., So-

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sviluppò, notoriamente, anche una prospettiva rivoluzio­ naria e dunque pure un’elaborazione sulla legittimità, le forme e le finalità dell’esercizio della violenza, che ebbe ri­ lievo, definizioni e traduzioni pratiche variabili nel tempo e in relazione alle diverse componenti del movimento. Il dispiegarsi di quella elaborazione e i suoi termini ideologici, politici e organizzativi furono interni, ma non esaurirono affatto l’orizzonte, l’esperienza e la proposta politica e culturale della sinistra radicale. Furono però cru­ ciali - e certo siamo ancora lontani dal comprendere pie­ namente perché lo divennero - in un conflitto per l’ege­ monia che finì per estendersi ben oltre la stessa sinistra radicale e per investire in certa misura anche il Partito co­ munista, perché rivolto agli stessi interlocutori sociali. An­ che per questi motivi il Pei ebbe non poche difficoltà nel riconoscere come tali le organizzazioni armate, pur sem­ pre risolutamente avversate, e solo a partire dalla fine del 1976 si pose in aperta e risoluta contrapposizione29 (senza poi considerare - questione ancora molto da indagare - in qual modo quella competizione ne abbia condizionato la stessa evoluzione politica negli anni successivi). veria Mannelli, Rubbettino, 1993; L. Bobbio, Lotta Continua. Storia di una organizzazione rivoluzionaria. Dalla fondazione del partito al con­ gresso di «autoscioglimento» di Rimini, Roma, Savelli, 1979; D. Protti, Cronache di «nuova sinistra», Milano, Gammalibri, 1979; G. Viale, Il '68: tra rivoluzione e restaurazione, Rimini, Nda Press, 1998; A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978. Storia di Lotta Continua, Milano, Mondadori, 1998; E. Petricola, I diritti degli esclusi nelle lotte degli anni settanta. Lotta Continua, Roma, Edizioni Associate, 2002; S. Voli, Quando il privato diventa politico: Lotta Con­ tinua 1968-1976, Roma, Edizioni Associate, 2006; W. Gambetta, De­ mocrazia Proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi, Milano, Il punto rosso, 2010; A. Grandi, La generazione degli anni perduti. Storia di Potere Operaio, Torino, Einaudi, 2003; Id., Insurrezione armata, Mi­ lano, Rizzoli, 2005; S. Bianchi e L. Caminiti (a cura di), Gli autonomi. Le storie, le lotte, le culture, 3 voli., Roma, DeriveApprodi, 2007-2008. 29 E. Taviani, Pei, estremismo di sinistra e terrorismo, in De Rosa e Monina, L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. 1. Sistema politico e istituzioni, cit., e Id., Il terrorismo rosso, la violenza e la crisi nella cultura politica del Pei, in Ventrone, I dannati della terra, cit.

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In estrema semplificazione, i termini concettuali di quella elaborazione furono la relazione tra rivoluzione e insurrezione e le modalità di costruzione e costituzione di una direzione politica del movimento. Organizzazioni come II Manifesto e il Pdup e, per altri versi, Avanguar­ dia operaia - nella seconda metà del decennio in parte riaggregatesi in Democrazia proletaria - in tempi relati­ vamente brevi optarono per la costruzione di un organi­ smo partitico, la cui strategia rivoluzionaria era sostanzial­ mente affidata allo sviluppo della conflittualità operaia e sociale e al conseguente auspicato spostamento, per via elettorale come per il delinearsi di un dualismo di potere, degli equilibri politici, in termini di egemonia e di con­ senso all’interno della sinistra come nel paese. In questa prospettiva, non senza incertezze e marcate contraddi­ zioni, si considerarono legittime solo quelle pratiche ille­ gali strettamente connesse a singoli obiettivi rivendicativi (occupazioni, autoriduzioni, cortei non autorizzati, ecc.) e quell’esercizio della violenza funzionale alla loro difesa e comunque praticato in contesti di massa. La prospettiva dell’insurrezione, invece, dominava il progetto rivoluzionario tanto di alcune formazioni dichia­ ratamente marxiste-leniniste, a cominciare dal Partito co­ munista (marxista-leninista) d’Italia, che la intendevano come culmine della crisi politica indotta dalla forza cre­ scente e dal radicamento di massa dello stesso partito rivoluzionario, quanto delle formazioni di matrice ope­ raista. All’insurrezione, però, Potere operaio attribuiva un significato tattico, rispetto alla strategia rivoluzionaria considerata intrinseca alla dinamica del conflitto di classe. Era da intendersi come militarizzazione dell’insubordina­ zione politica e sociale manifestatasi nel 1968-69 e andava perseguita adoperandosi per un’immediata politicizza­ zione della conflittualità, tramite la quale si sarebbe ma­ nifestato e affermato il «potere» operaio. Necessariamente promossa da una istanza politica centralizzatrice, quale lo stesso Potere operaio si candidava a essere, la politicizza­ zione della conflittualità sarebbe dovuta scaturire dal pre­ determinato massimalismo delle richieste rivendicative e 36

dal perseguimento violento degli obiettivi nelle fabbriche e nelle strade. L’esercizio della violenza, in forme sempre più dirompenti, giocava dunque un ruolo cruciale, tanto in termini progettuali, quanto in termini organizzativi. Fu però gradualmente evidente che la pratica della vio­ lenza intenzionalmente perseguita sia nelle manifestazioni di massa - tra le altre, quella degli scontri alla stazione ferroviaria di Pisa del 27 ottobre 1969, quella progettata per il 12 dicembre 1971 a Milano e quella messa in atto l’i l marzo 1972 ancora a Milano - sia in forma clande­ stina, prima avvicinando i Gap di Feltrinelli e poi dando vita alle strutture denominate Lavoro illegale e Faro, non valeva né a promuovere quella politicizzazione radicale insurrezionalista del movimento, né a consolidare una struttura assieme politica e militare capace di dirigere il movimento stesso, anziché di porsi come organizzazione a sé stante. Di qui la presa d’atto dell’inadeguatezza della propria ipotesi politica e il sostanziale scioglimento del gruppo tra il 1972 e il 1973. Declinando in termini diversi un analogo campo concettuale, Lotta continua preconizzava un processo rivoluzionario ove l’insurrezione sarebbe maturata per l’accumularsi di pratiche sovversive di massa, che l’or­ ganizzazione avrebbe dovuto sollecitare contrastando i processi di normalizzazione e alimentando ogni possibile focolaio di conflittualità. Alla violenza si attribuiva così un ruolo tattico - inasprire la conflittualità e disvelare la sostanza dei rapporti sociali e di potere - e assieme strategico, perché l’intensificarsi del processo insurrezio­ nale avrebbe accentuato la violenza della crisi rivoluzio­ naria e la sua dimensione di massa. Prefigurata nella sua forma più radicale e offensiva forse tra la fine del 1970 e l’autunno del 1971 nel programma politico denominato «Prendiamoci la città», e pur riproposta in varia misura anche successivamente, anche questa concezione trovò smentita nella mancata unificazione della conflittualità in un moto insurrezionale unitario. Lotta continua - in que­ sto reagendo nella sua maggioranza all’opposto di Potere operaio - lasciò sullo sfondo la questione della direzione

politica, in termini di partito o altrimenti di politicizza­ zione della conflittualità, e dal 1973 si volse gradualmente e non senza drammatiche lacerazioni alla costruzione di un programma politico articolato, di fatto relegando, pur con molte ambiguità, la violenza essenzialmente a op­ zione tattica. Due proposte strategiche ben distinte - e dipanatesi con ben diverse scansioni temporali - portarono invece alla costituzione di organizzazioni di lotta armata. Già nella seconda metà del 1970 il Collettivo politico metro­ politano milanese giudicò che occorresse contrastare la stabilizzazione della conflittualità operaia esasperandone i comportamenti violenti: rifiutando l’insurrezione come prospettiva, lo scontro militare non solo fu assunto come unico orizzonte strategico, ma soprattutto fu ritenuto di immediata attualità e affidato, di conseguenza e consape­ volmente, a un’organizzazione, il partito-guerriglia presto denominato Brigate rosse, che avrebbe dovuto affiancare, pur mantenendosene distinto, il movimento conflittuale. Questa impostazione fu alla radice del successivo passag­ gio - avvenuto nel 1974 con il sequestro Sossi - dalla co­ siddetta «propaganda armata» all’«attacco al cuore dello stato», motivato con la necessità di andare oltre i limiti offensivi della conflittualità operaia, ormai palesemente ri­ piegatasi. Più in generale, essa si tradusse nel fatto che da allora il dibattito e le divergenze organizzative interni alle Brigate rosse sarebbero sostanzialmente dipesi dal diverso articolarsi del giudizio sullo stato del movimento rispetto alla strategia politica del partito e dunque dei diversi li­ velli e obiettivi militari praticabili30. ,0 Della bibliografia sulle Brigate rosse, vasta e eterogenea per ge­ nere e qualità, si consideri almeno la recente sintesi di M. Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Roma, Odradek, 2007; L. Manconi, Terrori­ sti italiani: le Brigate Rosse e la guerra totale: 1970-2008, Milano, Riz­ zoli, 2008; A. Saccoman, Sentieri rossi nella metropoli: per una storia delle Brigate Rosse a Milano, Milano, Cluem, 2007; G. Galli, Piombo rosso: la storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, 2* ed., Milano, Baldini & Castoldi, 2007 e la prima raccolta documenta-

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Per quanto variegata, l’area dell’Autonomia operaia - che cominciò a riconoscersi e coordinarsi come tale a partire dal 1973 - ebbe un duplice denominatore co­ mune: la ricerca di una centralizzazione politica che pro­ cedesse dal basso per restare interna al movimento e una concezione strategica che legittimava l’esercizio della vio­ lenza in quanto strumento di affermazione di un potere antagonista a quelli ritenuti politicamente e socialmente dominanti. Vi si riconoscevano quanti - comitati e or­ ganismi di base, gruppi e singoli militanti - non erano confluiti o si erano allontanati dalle organizzazioni mag­ gioritarie della sinistra extraparlamentare in polemica con la scelta di costituirsi in formazioni politiche separate, ritenute esterne al movimento - e ciò valeva anche nei confronti delle Brigate rosse -, e con la presunta rinun­ cia a una necessaria concezione strategica della violenza. Soprattutto tra il 1973 e il 1978, quella concezione animò una intensa e talora egemonica adesione ai più aspri mo­ menti di conflittualità sociale - in particolare le lotte sul salario e per la casa, contro la nocività del lavoro, per l’autoriduzione dei prezzi di beni e servizi - sorretta an­ che da pratiche di guerriglia, intese a militarizzare la conflittualità di massa nelle fabbriche e nel territorio e a consolidarvi forme di potere antagonista. Percorsa da una profonda contraddizione, nella pretesa di identificarsi con il movimento e al tempo stesso di indicare a esso la stra­ tegia politica della costruzione di spazi di potere sociale antagonistici e inevitabilmente militarizzati, l’area dell’Autonomia si trovò stretta tra l’aperta contrapposizione con le organizzazioni più moderate della sinistra radicale e la concorrenza delle organizzazioni di lotta armata clande­ stine, a prima vista più efficienti e coerenti proprio sul terreno della crescente militarizzazione dello scontro. Nei fatti, il diverso giudizio sulle componenti sociali da pri­ vilegiare, sulla congruità delle azioni militari rispetto agli ria prodotta da Soccorso rosso, Brigate Rosse: che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto, Milano, Feltrinelli, 1976.

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obiettivi del movimento, soprattutto sul grado di milita­ rizzazione dello scontro in atto e dunque sulla centralità degli obiettivi militari rispetto alla dinamica conflittuale, aprì un laborioso, ma anche lacerante confronto interno attorno alle pratiche violente ammissibili e alle modalità di organizzazione paramilitari o armate - dalle squadre operaie o territoriali agli organismi clandestini, fino alle organizzazioni politico-militari separate come Senza tre­ gua, Prima linea, Unità comuniste combattenti e altre da adottare31. Il secondo rilevante contesto in cui fu declinato l’im­ piego della forza e il ricorso alla violenza fu quello del cosiddetto ordine pubblico, ovvero del confronto con la gestione della protesta da parte delle autorità di governo. Ancora largamente interne a quella concezione del rapporto tra stato e società civile improntata alla prima­ ria finalità del disciplinamento sociale, caratteristica della democrazia paternalista di De Gasperi e Sceiba, ma pro­ iettatasi lungo tutti gli anni Sessanta32, le modalità con cui le autorità pubbliche affrontarono il montare della mobilitazione studentesca e di quella operaia furono pri­ mariamente dirette a ripristinare l’ordinato e ordinario andamento delle attività scolastiche, come di quelle la­ vorative. Dal vertice governativo fino ai livelli più bassi della catena gerarchica, che integrava le forze di pub­ blica sicurezza come gran parte della magistratura e delle stesse autorità accademiche, si trascurò di considerare le motivazioni e le richieste delle proteste e ignorando ogni tecnica volta a depotenziarne l’intensità33 ci si preoccupò 31 Cfr. Bianchi e Caminiti, Gli autonomi, cit.; Ottaviano, La rivolu­ zione nel labirinto, cit., voi. II, pp. 641 ss.; E. Mentasti, Senza Tregua. Storia dei comitati comunisti per il potere operaio (1975-76), Milano, Colibrì, 2011. 32 Cfr. D. della Porta e H. Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pub­ blico dalla Liberazione ai «no global», Bologna, Il Mulino, 2003. Per un confronto con le politiche francesi assai meno violente cfr. anche Sommier, La violence politique et son deuil, cit., p. 165. 33 Sulla sostanziale mancanza di tecniche di depotenziamento del-

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invece di sedare quanto più rapidamente ogni forma di protesta, ritenuta foriera di una pericolosa instabilità so­ ciale. Fin dalle prime agitazioni operaie e studentesche del 1965-66 e poi di nuovo dal 1968-69 e per gli anni suc­ cessivi, si ricorse intenzionalmente e sistematicamente alle irruzioni e agli sgomberi - godendo del, o altrimenti pre­ scindendo dal, consenso delle autorità accademiche - di edifici scolastici e universitari e di fabbriche occupate e si procedette operando centinaia di fermi, decine di ar­ resti, migliaia di denunce all’autorità giudiziaria, sovente per reati d’opinione (vilipendio della magistratura, istiga­ zione dei militari a delinquere, diffusione di notizie false e tendenziose, ecc.) o per fattispecie di reato talora pre­ testuose, come interruzione di pubblico servizio, o larga­ mente incongrue con i fatti in oggetto, come associazione sovversiva e associazione a delinquere34. Soprattutto, nella gestione delle manifestazioni e nelle proteste di piazza si tornò a impiegare tattiche largamente analoghe a quelle correnti negli anni Cinquanta e attenuatesi solo in parte nel decennio successivo. Basate su interventi di tipo mili­ tare, non selettivi e affidati a strumenti di coercizione ag­ gressivi, come la dispersione dei manifestanti con cariche, idranti, lancio di lacrimogeni e caroselli di automezzi, nonché all’uso limitato, ma scarsamente regolamentato, di armi da fuoco, queste modalità operative non graduavano l’impiego della forza e facevano della violenza lo stru­ mento primo di confronto con i cittadini. Erano destinate a suscitare risentimenti - in chi subiva lesioni e ferite o si vedeva negato il diritto di manifestare - e solidarietà tra i diversi gruppi di manifestanti di volta in volta coinvolti35. Più ampiamente, tali politiche di gestione dell’orla conflittualità, cfr. anche della Porta, Terrorismo di sinistra, cit., pp. 69 ss. 34 Cfr. in proposito Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., pp. 234-236, 239 ss.; Id., Il paese mancato, cit., pp. 59, 218-219, 226 ss., 260 ss., 283-285, 362 ss., 388 ss. 35 Cfr. della Porta e Reiter, Polizia e protesta, cit., pp. 203 ss.

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dine pubblico finirono per porre al centro del confronto proprio la questione dell’agibilità degli spazi pubblici e dunque della legittimità della protesta, innescando una spirale di reiterati divieti di manifestare, sempre meno ri­ spettati, e dunque di scontri di piazza, quale esito della scelta di settori diversi, ma complessivamente egemoni del movimento prima studentesco e poi «extraparlamen­ tare», di garantirsi adeguati spazi di agibilità politica considerata anche la non velata richiesta di messa fuori­ legge formulata tra gli altri dall’autorevole prefetto di Mi­ lano36 - anche dotandosi di strumenti ed eventualmente forme di organizzazione in grado di contenere e, nei fatti, di reagire all’intervento delle forze dell’ordine. Il ricorso alla violenza, almeno nella misura neces­ saria ad affermare i propri diritti, pareva infatti legit­ timato da un’immagine autoritaria delle istituzioni re­ pubblicane che quelle politiche di gestione dell’ordine pubblico contribuivano non poco ad accreditare. Il nu­ mero dei feriti, difficilmente calcolabile, ma certamente ingente37 e nell’ordine delle centinaia, e quello dei morti provocati dalle forze dell’ordine tra i manifestanti (do­ dici dal dicembre 1968 al febbraio 1973, a fronte di un solo morto - l’agente Antonio Annarumma -, provocato nello stesso periodo da manifestanti di sinistra, peraltro con modalità e dunque intenzionalità mai univocamente definite38) rafforzò la convinzione che il governo - nel 56 Cfr. Crainz, II paese mancato, cit., pp. 373 ss. 57 Una stima approfondita richiederebbe una indagine dettagliata nelle fonti a stampa e di polizia; si vedano a puro titolo esemplificati­ vo le notizie riportate nel sito, dichiaratamente partigiano e militante, www.sciroccorosso.org/collll.htm, e G. Viola, Polizia. Cronache e do­ cumenti della repressione in Italia 1860-1977, Verona, Bertani/Stampa Alternativa, 1978. 58 Secondo una mia rilevazione, i dodici morti addebitabili alle forze dell’ordine, con una sola eccezione, furono tutti conseguenza dell’impiego omicida, in modo intenzionale o preterintenzionale, di armi da fuoco o di candelotti lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo o, nel caso di Franco Serantini, di mancata assistenza a una persona ferita e arrestata.

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discorso pubblico sovente significativamente identificato con «lo stato» - non avesse particolare riguardo per le conseguenze del proprio operato violento e che dunque, anche da parte del movimento, le eventuali conseguenze preterintenzionali delle azioni violente fossero un rischio da accettare. Nel medio periodo, il ruolo e le caratteristiche assunti dal conflitto per il controllo degli spazi pubblici ebbero conseguenze di indubbio rilievo. In termini politici per­ ché quel conflitto esaltò l’impiego della forza e dunque il ricorso alla violenza come strumento prioritario dell’azione politica e propose il confronto militare con le forze dell’or­ dine come ambito primario del conflitto tra movimento e istituzioni. In termini simbolici, perché portò a considerare le vittime degli interventi repressivi, specialmente se ap­ partenenti al movimento, quali eroi e martiri dell’autorita­ rismo statale, assimilabili così ai caduti della Resistenza, e dunque a rafforzare una identificazione con il partigianato antifascista59 tanto schematica quanto funzionale alla coe­ sione del movimento stesso. Infine, ma non da ultimo, il conflitto con le forze dell’ordine fece sperimentare pratiche d’azione violenta e di organizzazione paramilitare che, pur di grado limitato, si rivelarono propedeutiche a ulteriori, più gravi e stabili forme di militarizzazione. Il terzo rilevante contesto di impiego della forza e ri­ corso alla violenza fu quello - in parte convergente con il precedente - dell’antagonismo con le destre neofasciste. Il radicalismo di destra, interno ed esterno al Movimento sociale italiano, operò dalla fine degli anni Sessanta se­ condo due modalità: l’azione militante volta a contrastare aggressivamente la presenza pubblica dei partiti di sinistra e della mobilitazione giovanile e studentesca e le opera­ zioni di carattere terroristico, consistenti in attentati, di solito non rivendicati, a edifici o persone frequentanti luo­ 39 Sulla riattivazione del mito della Resistenza cfr. anche Sommier, La violence politique et son deuil, cit., pp. 157-159; A. Rapini, Antifa­ scismo e cittadinanza. Giovani, identità e memorie nell'Italia repubblica­ na, Bologna, Bononia University Press, 2005.

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ghi pubblici40. Se la prima modalità godeva di una qual­ che tolleranza da parte della polizia e magistratura, frutto di una generica convergenza ideologica anticomunista, la seconda fu condotta - in misura e per ragioni tuttora solo parzialmente note - in contatto e sotto la protezione, se non le indicazioni, di settori dei servizi segreti che ne con­ dividevano le finalità strategiche41. Comune era infatti la concezione, diffusasi anche in Italia dalla metà degli anni Sessanta, secondo cui il movimento comunista avrebbe ac­ cantonato il ricorso alla guerra convenzionale per adottare una tattica basata sull’articolazione delle sue organizza­ zioni, non più solo di stretta osservanza sovietica, e sulla combinazione di mezzi legali e illegali ugualmente volti a conquistare il potere attraverso una «guerra rivoluziona­ ria». A essa andava dunque contrapposta un’azione pre­ ventiva volta a creare un’opinione pubblica favorevole a una svolta autoritaria, necessaria per impedire la mobilita­ zione legale del «movimento comunista»42. 40 La destra sarebbe stata responsabile del 95% degli episodi di violenza tra il 1969 e il 1973, percentuale scesa all’85% nel 1974 e al 78% nel 1975, e rispettivamente del 95%, dell’81% e del 61% degli attentati non rivendicati, del 59%, 57%, 23% degli attentati rivendi­ cati, e del 50%, 46% e 7% degli atti contro le persone, secondo le stime formulate in della Porta e Rossi, Cifre crudeli, cit., pp. 25 ss. 41 Sui tratti, il rilievo e le finalità dell’offensiva delle destre neo­ fasciste e stragiste si soffermano ampiamente, pur con diversa enfasi, tra gli altri, P. Craveri, La Repubblica del 1958 al 1992, Torino, Utet, 1995, pp. 453 ss., e N. Tranfaglia, Un capitolo del «doppio Stato». La stagione della «strategia della tensione» e dei terrorismi 1969-1984, in Storia dell’Italia repubblicana. 3. L’Italia nella crisi mondiale. I!ulti­ mo ventennio, voi. II: Istituzioni, politiche, culture, cit.; cfr. anche M. Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Fontana a piazza della Loggia, Milano, Rizzoli, 2008. 42 Cfr. A. Giannuli, La categoria del terrorismo: la sua pertinenza sto­ rica e l’uso adottato dai mezzi di informazione, in M. Dondi (a cura di), 1 neri e i rossi. Terrorismo, violenza e informazione negli anni Settanta, Nardo, Controluce, 2008, pp. 45 ss.; G. Scipione Rossi, Linfluenza della guerra d’Algeria sull’estrema destra italiana, in Ventrone, 1 dannati della rivoluzione, cit.; Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit., pp. 273 ss. Tali letture delle strategie del movimento comunista hanno a lungo con­ dizionato anche le interpretazioni sulle origini delle formazioni armate e del terrorismo, ma cfr. ancora di recente R. Bartali, Red Brigades (1969-

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La proposizione del Msi come partito d’ordine e ba­ luardo contro il sovversivismo, disposto a contrastare l’av­ versario nelle piazze, e la «strategia della tensione», attuata a partire dal 1969 con una serie di attentati, il più grave dei quali fu quello di piazza Fontana a Milano, da attribuire alle sinistre, erano convergenti nei fatti, e in parte anche negli uomini, attorno all’obiettivo, in parte realizzato, di spostare a destra gli equilibri di governo, anzitutto ponendo fine alle coalizioni di centrosinistra, giudicate succubi del Partito comunista e delle mobilitazioni sociali di cui que­ sto era ritenuto il beneficiario in ultima istanza. Nel biennio 1968-69 e negli anni successivi, e di nuovo in particolare tra il 1972 e il 1974, questa convergenza fu evidente nell’in­ treccio tra gli attentati di Reggio Calabria, di Peteano, della questura di Milano, di piazza della Loggia a Brescia, del treno Italicus e del Savonese - per citare solo i più dram­ matici - e le aggressioni, talora con conseguenze mortali, fattesi specialmente intense durante la campagna elettorale del 1972 e culminate nella manifestazione milanese del 12 aprile 1973, ove rimase ucciso dal lancio di una bomba a mano l’agente di polizia Antonio Marino43. Il dispiegarsi di questo disegno politico, la recrude­ scenza violentemente offensiva del neofascismo, mai così intensa dopo il 1945, le manifeste tolleranze e protezioni godute presso settori delle autorità di pubblica sicurezza e della magistratura e la più generale incapacità di queste di contenerne l’iniziativa, e i nessi evidenti, per quanto talora indubbiamente enfatizzati oltremisura, tra stragi­ smo e radicalismo di destra alimentarono la diffusa e non del tutto infondata convinzione dell’incombente pericolo di una stretta autoritaria - sull’esempio delle recenti espe1974): An ltalian Phenometion and a Produci of thè Cold War, in «Mo­ dem Italy», November 2007. 43 Per gli anni 1968-69 cfr. Crainz, Il paese mancato, cit., pp. 261, 265 ss., 372-376. L’Anpi avrebbe denunciato che nella sola Milano, dal gennaio 1969 al febbraio 1971, si erano verificati 147 attentati e 247 ag­ gressioni, secondo G. Calvi, Giustina e potere, Roma, 1973. Per l’autun­ no 1972 cfr. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, cit., pp. 685 ss.

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rienze greche, cilene e argentine - e comunque di un di­ segno governativo volto a esasperare lo scontro politico al fine di soffocare il movimento. Anche in questo caso, né poteva essere altrimenti alla luce della lettura che se ne dava e dei due contesti sopra descritti, peraltro largamente convergenti con questo, la risposta fu imperniata su una mobilitazione volta a con­ trastare frontalmente il neofascismo attraverso un reper­ torio di azioni, diversificate anche a seconda dell’orientamento delle diverse organizzazioni, che andava dalla richiesta di messa fuori legge del Msi all’attuazione di ini­ ziative violente ove il discrimine tra difesa e offesa dive­ niva scarsamente rilevante. Infatti, se le manifestazioni di massa miravano a imporre, in modo più o meno violento - ma sostanzialmente senza risultato -, la chiusura delle sedi del partito di estrema destra e in generale a negare ogni spazio di azione politica alla destra radicale, nella realtà quotidiana il confronto nei quartieri e nelle scuole si trasformò inevitabilmente in scontro fisico individuale e di gruppo via via più intenso44. In questo ambito, l’in­ tenzionalità omicida restò per una lunga fase prerogativa dei neofascisti, oltretutto più adusi a impiegare armi da taglio e da fuoco, anche se tra le azioni offensive attuate da settori della sinistra radicale altamente verosimile fu l’intenzionalità omicida sia nel caso dei due fratelli Mattei, morti nell’incendio appiccato alla loro abitazione a Primavalle neH’aprile 1973 da alcuni esponenti di Potere operaio forse con l’intento - dichiarato in sede giudiziaria - di accreditarsi come interlocutori delle Brigate rosse, sia nel caso delle percosse mortali inflitte nel marzo 1975 - nel contesto di un forte inasprimento del conflitto tra i due schieramenti - da un gruppo di militanti di Avan­ guardia operaia al giovane militante di destra Sergio Ramelli. 44 Cfr. l’ampia ricostruzione di Panvini, Ordine nero, guerriglia ros­ sa, cit., che pure segnala l’estendersi di attentati alle sedi di destra specie nei primi mesi del 1973, pp. 265-266.

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Anche in questo contesto, l’impiego della forza e il ricorso alla violenza erano legittimati in nome della pos­ sibilità di iniziativa del movimento a fronte di una pre­ sunta offensiva autoritaria dello stato, della quale il neo­ fascismo sarebbe stato espressione militante. Ne discen­ deva un’esaltazione della solidarietà e dell’autodifesa collettiva altrettanto militante, nel richiamo ricorrente all’esempio del partigianato resistenziale, che si riteneva avesse dimostrato, dopo l’offensiva squadristica degli anni Venti e contro il fascismo della Repubblica sociale, l’in­ dispensabilità del ricorso alla forza. Una simile interpre­ tazione parve trovare ulteriore conferma nelle cosiddette «giornate d’aprile» del 1975, quando l’uccisione a colpi di pistola di Claudio Varalli a Milano da parte di un noto neofascista, presumibilmente per vendicare la morte di Ramelli, deceduto tre giorni prima dopo una lunga ago­ nia, fu seguita in molte città da' una massiccia ondata di proteste, cui le forze dell’ordine, per contenere i tenta­ tivi di assalto alle sedi del Msi, reagirono assai duramente provocando la morte di Giannino Zibecchi a Milano e probabilmente di Rodolfo Boschi a Firenze. Le pratiche violente dell’antifascismo militante contri­ buirono soprattutto a rafforzare la solidarietà di gruppo e incentivarono la confidenza con l’esercizio individuale della violenza e il suo impiego su persone determinate, individuate come avversari meritevoli di essere individual­ mente aggrediti, certamente così prefigurando le azioni offensive delle organizzazioni armate. Non furono però propedeutiche alla scelta della lotta armata in termini po­ litici, restando quello dell’antifascismo militante sostan­ zialmente un ambito di iniziativa considerato secondario, anche da quei gruppi - come i Nap - che proprio con le incursioni in alcune sedi del Msi napoletano avviarono il proprio operato. Ne è conferma, d’altra parte, proprio il fatto che azioni intenzionalmente omicide nei confronti di esponenti neofascisti furono attuate da organizzazioni armate già operanti clandestinamente, come nel caso della, mai del tutto chiarita, uccisione di due militanti del Msi padovano ad opera delle Brigate rosse nel giugno 47

1974 o dell’uccisione del consigliere provinciale del Msi milanese Enrico Pedenovi ad opera di Prima linea il 29 aprile 1975, attuata in risposta all’accoltellamento di Gae­ tano Amoroso (deceduto due giorni dopo), avvenuto il giorno precedente ad opera di un gruppo di noti neofa­ scisti, ma realizzata al fine già in precedenza deliberato di «elevare il livello dello scontro»45 su un piano generale. Una diversa intenzionalità omicida, sviluppatasi a Roma e determinata verosimilmente dall’intento di impedire in ultima istanza procedimenti giudiziari a carico della propria parte, è probabilmente ravvisabile nella morte del militante neofascista Mikis Mantakas, ucciso il 28 febbraio 1975 da un colpo di pistola nei disordini scop­ piati in occasione del processo per il rogo di Primavalle (seguita a sua volta da violenti disordini nei quali fu tra l’altro gravemente ferito un militante di sinistra) e nella successiva morte di Mario Zicchieri, ucciso il 29 ottobre di quell’anno da un colpo di fucile esploso da un’auto in transito davanti a una sede del Msi, ma forse diretto a colpire o intimidire altra persona, testimone nel processo per l’omicidio di Mantekas. Il quarto rilevante contesto di impiego della forza e ricorso alla violenza fu forse meno immediatamente visi­ bile ai grandi mezzi di comunicazione di massa, ma al­ trettanto e forse più significativo dei precedenti nel pro­ muovere dinamiche di militarizzazione, anche clandestina, del conflitto politico. Esso è genericamente identifica­ bile con gli ambiti di più intensa conflittualità o di più drammatico disagio sociale, dalle fabbriche alle carceri, ai quartieri periferici più degradati, ove le condizioni di vita e di lavoro erano, o apparivano, particolarmente in­ sostenibili a chi le sperimentava in proprio o altrimenti a 45 Cfr. Meritasti, Senza tregua, cit., pp. 210-211, che riporta ampi brani di dichiarazioni rese in sede processuale da Enrico Gaimozzi; cfr. anche la testimonianza di C. Funaro, «Il comuniSmo è giovane e nuovo». Rosso e l’autonomia operaia milanese, in Bianchi e Caminiti, Gli autonomi, cit., p. 193.

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chi veniva in contatto con esse per motivi di solidarietà o di intervento politico. Specialmente in questi ambiti, si sviluppò una riflessione - talora anche solo implicita attorno al concetto di giustizia basata sulla convinzione che i rapporti sociali fossero determinati sostanzialmente dai rapporti di forza e che dunque le norme legislative e l’operato della magistratura e dell’amministrazione giu­ diziaria e carceraria, così come di ogni altra amministra­ zione pubblica, fossero funzionali al mantenimento di quei rapporti. Tale punto di vista radicale alimentò, sulla scorta di alcuni testi di sociologia critica, in specie di quelli risa­ lenti alla cosiddetta Scuola di Francoforte, e di alcuni te­ sti militanti di risonanza internazionale, una disamina an­ che penetrante del ruolo e del funzionamento di diverse istituzioni di disciplinamento sociale. Ma, soprattutto, nella pratica alimentò iniziative politiche e anche solo comportamenti che, nelle fabbriche, come nei quartieri periferici, nelle carceri e talora anche nelle scuole, affi­ davano all’insubordinazione - e dunque anche all’illegalità e quando necessario alla violenza - la possibilità di modificare quei rapporti di forza. Di fatto, e non senza paradossi, l’affermazione di un principio di giustizia era perseguita non solo - in coerenza con le idee di fondo della cultura del Sessantotto - con la mobilitazione an­ tiautoritaria, ma con l’esercizio di pratiche violente, rite­ nute necessarie per infrangere la forza dei presunti be­ neficiari (i proprietari di abitazioni, i datori di lavoro, le grandi aziende di distribuzione o di trasporto, le autorità scolastiche, ecc.) di quella condizione di ingiustizia, che tali erano proprio perché tutelati dal proprio potere so­ ciale e dalle norme, legislative e in genere regolamentative, nonché dal personale giudiziario e di polizia, che lo rendevano effettivo. Con dottrinarismo estremo si riteneva, insomma, che la legalità altro non fosse che lo strumento dell’ingiusti­ zia. Il ricorso a pratiche violente diveniva così legittima forma di resistenza alla violenza considerata insita in molti fenomeni della vita sociale e produttiva (turni di 49

lavoro estremamente faticosi, malattie professionali, licen­ ziamenti incontrollati, discriminazione sociale nelle car­ riere scolastiche, elevato disagio abitativo, gravità delle condizioni carcerarie, attitudine violentemente repressiva delle autorità giudiziarie e di polizia, ecc.)46. La percezione di un disagio sociale avvertito come in­ tollerabilmente oppressivo si coniugava con una inedita consapevolezza della obsolescenza delle tradizionali forme di controllo sociale. Questa congiunzione scaturiva da una larga e trasversale circolarità di conoscenze ed esperienze, frutto della mobilità geografica e sociale degli ultimi due decenni, della scolarizzazione di massa e della conseguente erosione tanto di consolidate compartimentazioni e gerar­ chie in seno ai ceti popolari quanto, in quei settori sociali rimasti ai margini della integrazione consumistica, dei mo­ delli culturali portatori di una concezione inclusiva, e dun­ que legalitaria e gradualista, dell’emancipazione sociale. I comportamenti violenti messi in atto nei contesti di mobilitazione sociale furono estremamente diversificati, quanto a modalità, obiettivi, intensità e, non da ultimo, legittimazione morale. Con diversa frequenza, si ricorse, tra l’altro, a blocchi stradali, occupazioni di edifici, mi­ nacce, violenze e percosse verso dirigenti, capireparto, guardiani e crumiri, danneggiamenti delle linee produt­ tive, appropriazione di beni per lo più nei centri com­ merciali di grande distribuzione, lancio di oggetti con­ tundenti e pericolosi di solito contro le forze dell’ordine, danneggiamenti, incendi e attentati con esplosivi, fino ai «sequestri lampo» e ai ferimenti e omicidi di responsabili di strutture produttive o della pubblica amministrazione. E facilmente riscontrabile tanto la diversa gravità di tali violenze, anzitutto se rivolte a cose o persone, quanto la loro diversa legittimazione, ad esempio considerando i blocchi stradali o i picchetti a sostegno di uno sciopero, l’occupazione di case disabitate o le proteste anche vio­ 46 In proposito cfr., tra l’altro, i saggi di Barbara Armani e Isabelle Sommier in questo volume.

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lente dei detenuti, particolarmente frequenti prima della riforma carceraria del 1975, e invece gli incendi, gli atten­ tati esplosivi, i «sequestri lampo» di dirigenti aziendali o i ferimenti e gli omicidi. A tale diversità corrispose però una sostanziale unita­ rietà dei contesti spaziali e sociali in cui quelle violenze erano operate: di volta in volta le agitazioni operaie in fabbrica, le mobilitazioni per la casa e i servizi nei quar­ tieri popolari, il circuito carcerario, ecc. Esse furono per­ ciò strettamente inserite e correlate a un più vasto con­ testo di iniziative e divennero per questo oggetto di con­ fronto tra chi le proponeva e attuava e l’insieme del mo­ vimento al cui interno si collocavano. Furono perciò di­ scusse, almeno nei loro termini generali, e di volta in volta condivise, tollerate o respinte, a seconda delle opzioni politiche e culturali e della fase conflittuale. Non furono insomma un corollario della conflittualità, ma scelte deter­ minate. Riflettevano opzioni politiche, ancora solo in parte indagate, che soprattutto dopo il 1973 - quando all’inasprirsi della crisi sociale corrisposero a un tempo il ridi­ mensionarsi quantitativo delle mobilitazioni e l’acutizzarsi della conflittualità, seppure in chiave difensiva, contro la ristrutturazione produttiva e le sue ripercussioni sui livelli salariali, le condizioni di lavoro e l’occupazione - si vol­ sero in misura crescente verso la militarizzazione. Questa fu intesa sia come intensificazione della cosiddetta «propa­ ganda armata» (azioni dimostrative, intimidazioni armate, danneggiamenti, attentati, ferimenti mirati) in appoggio alle dinamiche conflittuali nelle fabbriche e nel circuito carcerario, foriera a sua volta di una progressiva stabiliz­ zazione della modalità di organizzazione clandestina, come suggeriscono la nascita dei Nuclei armati proletari (Nap) e la genesi di Prima linea47, sia come innalzamento delle 47 Riguardo ai Nap, cfr. R. Ferrigno, Nuclei Armati Proletari - Car­ ceri, protesta, lotta armata, Napoli, La Città del Sole, 2008; cfr. anche V. Lucarelli, Vorrei che il futuro fosse oggi. Ribellione, rivolta e lotta armata, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2010; Soccorso rosso na-

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modalità di contrapposizione violenta alle forze dell’or­ dine, quale ad esempio si manifestò nel settembre 1974 nei violentissimi scontri avvenuti nel quartiere romano di San Basilio durante i quali furono utilizzate anche armi da fuoco, a fronte del durissimo intervento della polizia volto a sgomberare oltre centocinquanta famiglie occupanti abusivamente alloggi dello Iacp e, forse, solo in reazione alla morte di Fabrizio Ceruso, giovane militante della sini­ stra radicale, ucciso da un colpo di pistola esploso da un agente di polizia. 5. La politica della lotta armata Dentro questi quattro grandi contesti o ambiti di azione si collocarono e dispiegarono le parole e le pra­ tiche della violenza e anche le scelte politiche e organiz­ zative, oltreché le traiettorie individuali48, all’origine della lotta armata. La genesi di quest’ultima dunque va ascritta a una varietà di contesti e di concezioni tra loro corre­ lati, ma non sovrapponibili. Anche per questo, lungi dal procedere in modo lineare e per accumulo, i fenomeni di militarizzazione e di clandestinizzazione si svilupparono e si riprodussero con tempi e percorsi diversificati, fin dai primi anni Settanta a oltre il sequestro Moro. Così, una suddivisione estremamente sommaria con­ sente di distinguere almeno quattro percorsi di militariz­ zazione. Quello, peculiare dei Gap di Feltrinelli e delle poletano (a cura di), I Nap. Storia politica dei Nuclei Armati Proletari e requisitoria del Tribunale di Napoli, Milano, Libri Rossi, 1976. Sul­ le origini di Prima linea, cfr. Mentasti, Senza Tregua, cit.; G. Boraso, Mucchio Selvaggio. Ascesa apoteosi caduta dell’organizzazione Prima Li­ nea, Roma, Castelvecchi, 2006. 48 Secondo il suggerimento di metodo proveniente dagli studi di sociologia politica imperniati sull’articolazione tra il macrolivello del contesto sociopolitico, il livello intermedio delle organizzazioni poli­ tico-militari e il microlivello delle vicende individuali, come in della Porta, Social Movements, Political Violence and the State, cit.

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Brigate rosse, della militarizzazione e clandestinizzazione precoce, motivata da un’autonomia accentuata dell’azione politico-militare, che si dispiegò a partire dal 1972-73 e si rinnovò negli anni successivi, nonostante le difficoltà incontrate da quelle organizzazioni. Quello intrapreso dai Nap, pure distinto da una clandestinizzazione precoce, ma funzionale primariamente a indurre una radicalizzazione estrema del movimento di protesta nelle carceri e destinato perciò a esaurirsi con esso tra il 1974 e il 1976. Quello intrapreso da Senza tregua, almeno in parte dai Collettivi politici veneti per il potere operaio e, poi, da Prima linea, dalle Unità comuniste combattenti, dalle Bri­ gate comuniste, poi Formazioni comuniste combattenti e da altre formazioni minori, avviato anch’esso nella se­ conda metà del 1974, ma dipanatosi più gradualmente, nel tentativo di restare più interno e aderente alle di­ namiche della conflittualità operaia (pur proponendosi come «area di partito» ovvero gruppo politico definito e delimitato) e dunque anche più riluttante a una piena clandestinizzazione che - come invece effettivamente av­ venne - avrebbe squilibrato il nesso tra iniziativa politica e militare decisamente a favore di quest’ultima49. Infine, l’ultimo percorso fu quello orientato alla militarizzazione e all’armamento delle mobilitazioni di massa - affian­ cati da altre azioni violente, come attentati incendiari e con esplosivi a beni o sedi di partiti avversari, aziende, forze dell’ordine, e illegali, dalla protezione dei latitanti, al procacciamento e custodia di armi, fino alle rapine di finanziamento - prospettato a più riprese e fin dal 1973 da alcune componenti dell’area dell’Autonomia operaia organizzata50 e poi perseguito con più decisione dal finire 49 Meritasti, Senza Tregua, cit.; Boraso, Mucchio Selvaggio, cit.; Aa.Vv., Progetto Memoria. La Mappa perduta, cit. e molte informazioni e testimonianze contenute in Bianchi e Caminiti, Gli autonomi, cit. 50 Cfr. in particolare Sartori, La cronaca, in Terrore rosso, cit., e le ricostruzioni storico-memorialistiche raccolte in Sacchetto e Sbrogiò, Quando il potere è operaio, cit., e in Bianchi e Caminiti, Gli autonomi, cit., voi. I, e la documentazione raccolta ivi, voi. II, nonché in Comi-

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del 1976, quando la violenta contestazione organizzata dai Circoli giovanili milanesi al Teatro della Scala nel di­ cembre di quell’anno aprì una progressione le cui tappe principali furono: gli scontri romani del 2 febbraio 1977 a Roma, quando, nel corso di una manifestazione di ri­ sposta al gravissimo ferimento di due studenti da parte di fascisti avvenuto il giorno precedente, furono feriti, probabilmente da agenti in borghese, Paolo Tomassini e Leonardo «Daddo» Fortuna, essi stessi armati; le violenze estese e sistematiche attuate a Bologna in risposta all’uc­ cisione di Francesco Lorusso da parte di un ufficiale dei carabinieri; l’assalto alla sede dell’Assolombarda a Milano il 12 marzo successivo e, lo stesso giorno a Roma, i colpi di arma da fuoco, che ferirono dieci tra poliziotti e cara­ binieri, esplosi durante la manifestazione nazionale - cui partecipavano decine di migliaia di persone - indetta per protestare contro l’uccisione di Lorusso, affrontata da un ingente schieramento di forze di polizia anche con largo uso di armi da fuoco; la manifestazione romana del 21 aprile successivo, quando fu ucciso l’agente di polizia Settimio Passamonti e altri tre agenti e una giornalista furono feriti; quella milanese del 14 maggio quando, due giorni dopo l’uccisione a Roma della giovane Giorgiana Masi, probabilmente colpita da agenti in borghese, fu uc­ ciso l’agente di polizia Antonio Custra. Furono proprio i clamorosi omicidi intenzionali dei due agenti di polizia a dimostrare l’inanità di una ipotesi di militarizzazione che né produceva consenso e mobilitazione di massa né tati autonomi operai di Roma (a cura di), Autonomia Operaia. Nasci­ ta, sviluppo, prospettive dell’«area dell’autonomia» nella prima organi­ ca antologia documentaria, Roma, Savelli, 1976; N. Recupero (a cura di), 1977: Autonomia / Organizzazione. Documenti da: Milano, Roma, Torino, Napoli, Padova, Palermo, Bologna, Cosenza, Catania, Pellicani, 1978; 1923. Il processo ai comunisti italiani. 1979. Il processo all’auto­ nomia operaia, Milano, Collettivo editoriale 10/16, 1979; G. Palombarini, 7 aprile: il processo e la storia, Venezia, Arsenale, 1982; T. De Lorenzis, V. Guizzardi e M. Mita (a cura di), «Avete pagato caro, non avete pagato tutto». La rivista «Rosso» (1973-1979), con Dvd, Milano, DeriveApprodi, 2008.

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spostava i reali rapporti di potere. Al contrario, essa sof­ focava quel movimento che pretendeva di guidare e por­ tava lo scontro militare su un terreno su cui era destinata a soccombere, anche considerando le non celate inten­ zioni del ministero deH’Interno Cossiga di acuire lo scon­ tro per poter impiegare l’esercito in servizio di ordine pubblico e varare normative speciali. Nell’arco di alcuni mesi il declino di questo percorso avrebbe invece alimen­ tato massicciamente - germinando nuove organizzazioni o irrobustendo quelle esistenti - i percorsi di militarizza­ zione precedentemente descritti. Proprio perché si trattava di contesti, scelte e per­ corsi, affidarsi alle genealogie - per cui dal milanese Col­ lettivo politico metropolitano del 1969 deriverebbe a ca­ scata buona parte della storia delle Brigate rosse e dall’insurrezionalismo di Potere operaio o di Lotta continua; o dal loro declino, fallimento o sfaldamento il restante uni­ verso dei gruppi armati - rischia palesemente di produrre letture tautologiche o deterministiche. Verosimilmente più feconde ed eloquenti promettono di essere quelle inda­ gini capaci di intrecciare le vicende delle diverse organiz­ zazioni radicali, armate e non, con i percorsi individuali e collettivi che le hanno intersecate. Non solo per cogliere il rilievo delle esperienze e scelte personali o di gruppo nelle dinamiche aggregative delle formazioni armate51, ma per evidenziare le contaminazioni tra i diversi contesti politici e organizzativi, le crisi e dunque le soluzioni di continuità che furono alla base delle opzioni di volta in volta compiute da taluni verso una militarizzazione ulte­ riore, da talaltri invece verso un ridimensionamento delle pratiche violente. Difatti, i progetti di lotta armata matu­ rarono per evoluzione del dibattito interno alle singole organizzazioni non meno che attraverso una continua ri­ 51 Come sottolineato da della Porta, Terrorismo d i sinistra, cit., pp. 133 ss., e Ead., Social Movements, Politicai Violence, and thè State, cit., pp. 165 ss., ma anche implicitamente dalle numerose raccolte memo­ rialistiche realizzate, anche su base scientifica, nel corso degli anni.

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definizione e riproposizione, da parte di soggetti diversi, delle tematiche della forza e della violenza in modo larga­ mente trasversale alle organizzazioni stesse. Anche perché le organizzazioni, anziché mantenere una posizione sta­ bile, si mossero all'interno del movimento sia per occu­ pare collocazioni politico-organizzative più remunerative sia perché le loro priorità ideali e strategiche andarono mutando in ragione delle esperienze e dell’evolvere del contesto più generale. Per questo, idee e pratiche circola­ vano trasversalmente al movimento e alle organizzazioni, a prescindere dal declino di uno o dell’altro settore di in­ tervento. Da queste dinamiche derivò, tra l’altro, la persistente vitalità dell’opzione militare, riproposta nel tempo e in condizioni diverse da una pluralità di soggetti. Non è dif­ ficile scorgere, anche da questo punto di vista, una evi­ dente partizione tra una prima fase, compresa tra il 1969 e il 1972 e caratterizzata dal montare della mobilitazione studentesca e operaia e dalla reazione a essa, una seconda compresa tra il 1973 e il 1975, quando invece prevalsero tensioni e conflittualità sociali indotte dalla crisi econo­ mica e dalla ristrutturazione industriale, e una terza fase tra il 1976 e il 1980, dominata dall’ascesa e crisi della po­ litica di «solidarietà nazionale» e dal contemporaneo radicalizzarsi della protesta giovanile e espandersi delle orga­ nizzazioni di lotta armata. La vitalità dell’opzione militare fu qualità che pare contraddire una presunta correlazione tra sviluppo delle organizzazioni di lotta armata e declino del movimento52, specie se tale declino fosse suggerito dal decrescere degli episodi di protesta segnalati dai mass media, fenomeno che di per sé attesta solo una loro mi­ nore visibilità o rilevanza nel sistema comunicativo. In realtà, una eventuale riduzione delle azioni di protesta, e delle persone coinvolte in esse, potrebbe essere sintomo di una trasformazione del movimento, verso una stabiliz­ 52 Cfr. supra nota 26.

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zazione, radicamento e strutturazione su issues specifiche, e non necessariamente del suo indebolimento. Quella vitalità contrasta anche con le letture che ad­ debitano la genesi delle organizzazioni armate e del terro­ rismo di sinistra a una svolta moderata del Partito comu­ nista e alla crisi strategica dei gruppi extraparlamentari, per questo non più capaci di controllare e tenere al pro­ prio interno le pulsioni violente e militariste53. Per quanto certamente correlata a tali dinamiche, nella prima come nella seconda metà degli anni Settanta la genesi delle or­ ganizzazioni armate non fu una mera reazione strumen­ tale al fallimento delle strategie insurrezionaliste di Potere operaio o Lotta continua o esito del definitivo dissolversi della caduca distinzione tra violenza di massa e violenza d ’avanguardia, ma la riproposizione di volta in volta con­ vincente seppur in tempi e contesti diversi di opzioni po­ litiche specifiche, per quanto drammaticamente riduttive. D ’altronde, tali pretese conseguenzialità paiono sostan­ zialmente contraddette sia dal rapporto temporale tra cre­ scita delle tendenze militariste e delle organizzazioni ar­ mate e movimento del ’77 - giacché quelle organizzazioni sorsero prima dello sviluppo del movimento, ma da esso trassero nuova e decisiva linfa vitale54 - sia dal fatto che il movimento fu tutt’altro che univocamente identificabile con quelle opzioni55. 53 Cfr., tra gli altri, Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, cit., pp. 510 ss. 54 Come suggerisce anche, nonostante le difficoltà di definizione e distinzione, il consistente aumento degli attentati, rivendicati e non, e degli episodi di violenza stimato in della Porta e Rossi, Cifre crudeli, cit., pp. 20 ss., in particolare la figura 1 e la tabella 4. 55 Cfr. Armani, Italia anni settanta, cit.; Galfré, Linsostenibile leg­ gerezza del '77, cit.; M. Grispigni, 1977, Roma, Manifestolibri, 2006; e la documentazione raccolta in S. Bianchi e L. Caminiti (a cura di), Settantasette. La rivoluzione che viene, 2’ ed., Roma, DeriveApprodi, 2004; Collettivo redazionale «La Nostra Assemblea», Le radici di una rivolta. Il movimento studentesco a Roma: interpretazioni, fatti, e documenti, feb ­ braio-aprile 1977, Milano, Feltrinelli, 1977; Balestrini e Moroni, Lorda d ’oro 1968-1977, cit., oltre a quanto già segnalato nella nota 49.

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La costruzione di una periodizzazione dovrà dunque guardare oltre la storia delle organizzazioni maggiori, per scorgere dentro il mutare dei contesti - anche geografici - quelle congiunture ove le pratiche violente si dispie­ garono con maggiore intensità e, non necessariamente in modo conseguenziale, maturarono le scelte politiche e organizzative verso la lotta armata. In questa luce, tra il 1974 e il 1975 si consumò forse un passaggio cruciale, non tanto perché le autorità predisposte avessero allora lasciato cadere, più o meno colpevolmente, l’iniziativa di contrasto alle Brigate rosse56, quanto perché in quel torno di mesi si dispiegarono tanto gli effetti della crisi economica e dei processi di ristrutturazione industriale a essa conseguenti, quanto - tra l’esito del referendum sul divorzio, le inchieste sulle tangenti petrolifere e sul caso Sindona e i risultati elettorali punitivi per la coalizione di maggioranza - la crisi manifesta degli assetti di governo e del sistema dei partiti57. Dentro quella duplice crisi, e a fronte del già richiamato accentuarsi della violenza sot­ tesa alla conflittualità sociale e politica, le opzioni militariste tornarono a riscuotere credibilità, nella prospettiva di un possibile acuirsi financo in senso insurrezionale de­ gli antagonismi in atto58. Come si è visto, fu in realtà solo nel 1977, con il ri­ esplodere della mobilitazione giovanile, che le organizza­ zioni di lotta armata, a prescindere dalle loro connota­ zioni politiche, trovarono nuova agibilità e campo di ini­ ziativa. Significativamente, quella mobilitazione fu tanto 56 Una considerazione formulata a suo tempo da Giorgio Bocca e ripresa da più autori. 57 In proposito restano di grande suggestione - e meritevoli di es­ sere sviluppate - le considerazioni di D e Felice, Nazione e crisi, cit., pp. 20 ss.; cfr. anche G. Crainz, Autobiografia d i una repubblica. Le radici dell Italia attuale, Roma, Donzelli, 2009, pp. 109 ss. ,s Sintomatico il rapidissimo aumento a partire dal 1976 del nu­ mero delle denominazioni utilizzate per la prima volta per compiere attentati e attribuite alla sinistra in della Porta e Rossi, Cifre crudeli, cit., tabella 9, p. 44. Cfr. anche le schede riportate in Aa.Vv., Progetto Memoria. La mappa perduta, cit.

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intensa quanto peculiare del contesto nazionale, indice evidente non solo delle condizioni generali del paese, ma delle dinamiche che avevano investito l’universo giovanile - e non solo quello studentesco - e le sue culture, orien­ tandole in senso anomico e semmai antagonistico. Le pur evidenti novità rispetto al movimento del Sessantotto non denotavano peraltro alcuna contrapposizione o alterità a quello, né segnalavano l’emergere di qualche dinamica sociale rimasta finallora occulta. Nel ’77 si palesarono in­ vece le trasformazioni sociali e culturali sedimentate ne­ gli anni intercorsi, cosicché discontinuità vi era rispetto al decennio precedente, ma non agli anni più ravvicinati, quelli in cui era maturata una consistente anomia sociale e anche politica nei confronti delle organizzazioni parti­ tiche prevalenti, anche di sinistra. Si innestò in quella anomia la disponibilità diffusa - ma nient’affatto genera­ lizzata - a pratiche violente e anche armate, interagendo con e rilanciando quanto alcuni erano andati promuo­ vendo fin dal 1974-75. Fu questo il terreno di incontro e di continuità con le generazioni precedenti59 e il terreno di cultura e di crescita delle tendenze alla militarizzazione in precedenza descritte. Se qui si realizzò almeno in parte la congiunzione tra quello che è stato definito un «terrorismo “maggiore”, spietato ma di dimensioni ridotte» e un «terrorismo “dif­ fuso”, certo di dimensioni notevolmente più ampie, ma dai contorni più incerti e ambigui»60, va anche però ri­ cordato come in altre rilevanti componenti del movi­ mento proprio queU’anomia critica della politica costi­ tuì invece un antidoto al militarismo e in generale a una concezione irriducibilmente antagonistica del conflitto politico. Ne furono dimostrazione in particolare l’esito

59 A suo tempo segnalato da della Porta, Il terrorismo d i sinistra, cit., pp. 139 ss. 60 Della Porta e Rossi, Cifre crudeli, cit., pp. 74-75, che pure o p ­ portunamente si interrogavano su quanto ci si fosse adoperati per im­ pedire quella congiunzione.

del convegno bolognese del settembre 1977, ove l’area dell’autonomia dimostrò di non essere forza egemone e dovette rinunciare a ogni ipotesi di prova di forza vio­ lenta, e l’ampio dibattito critico sulla legittimità e il va­ lore politico della violenza sviluppatosi in particolare dopo la morte del giovane Roberto Crescenzio, perito a Torino nell’incendio intenzionalmente appiccato al bar Angelo Azzurro per ritorsione dopo l’omicidio di Walter Rossi da parte di neofascisti nel settembre di quell’anno, e l’omicidio del giornalista Carlo Casalegno ad opera delle Brigate rosse nel novembre successivo. Pur lungi dal concludere la stagione della lotta armata e del terrorismo, quel dibattito segnò forse un punto di svolta, tra chi aveva optato e a lungo sarebbe rimasto in­ terno ai progetti di militarizzazione estrema e chi invece metteva ora apertamente in discussione il ruolo politico, tattico e strategico, della violenza. Nei mesi successivi e per circa due anni, infatti, come già accennato, al decli­ nare della mobilitazione giovanile nelle sue dimensioni di massa corrispose un deciso incremento delle pratiche militari, ad opera di un numero crescente di organizza­ zioni di ben diversa solidità e con un marcato incremento dei ferimenti e degli omicidi. Quella drammatica stagione esplicito il duplice fallimento tanto dei progetti di mili­ tarizzazione interna al movimento, ormai declinato e co­ munque in larga maggioranza ormai avverso all’opzione violenta, quanto di quelli basati su organizzazioni mili­ tari a sé stanti e clandestine. Un fallimento dovuto non solo al distacco dal movimento, che in realtà le opzioni militari quasi mai avevano fatto crescere e quasi sempre usato per consolidare se stesse, ma alla loro sconfitta so­ stanziale proprio sul terreno militare. Proprio quando riuscirono a esprimere la loro massima potenzialità offen­ siva, le organizzazioni armate non seppero accompagnarla con una corrispondente qualificazione degli obiettivi politico-militari - colpendo sempre più spesso persone drammaticamente incongrue con il rilievo politico loro attribuito, quando non esplicitamente scelte per inte­ ressi settari - e subirono la crescente capacità repressiva 60

delle autorità di pubblica sicurezza e della magistratura. In sostanza, si dimostrarono definitivamente incapaci di spostare a proprio favore i rapporti di forza sul terreno politico, ammesso che mai ne avessero avuto possibilità, e la loro coesione e capacità militare si ridimensionò con la stessa rapidità con cui si era sviluppata. Restò il tragico bilancio delle vittime, e le onerose personali vicende di quanti furono chiamati a rispondere del proprio operato di fronte alla magistratura, alla so­ cietà e a se stessi. Restò il fallimento di una scelta poli­ tica, a lungo coltivata, il cui peso sulle vicende italiane di quel cruciale decennio merita di essere scandagliato più a fondo.

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LA RETORICA DELLA VIOLENZA NELLA STAMPA DELLA SINISTRA RADICALE (1967-77) Nell’anno in cui in Italia esplodevano la protesta so­ ciale e la violenza politica, lo storico Eric J. Hobsbawm pubblicava un libro, per molti versi pionieristico, dedi­ cato al fenomeno del banditismo sociale in epoca mo­ derna. Il volume, uscito nel 1969, si basa su materiale edito impiegando, a detta dell’autore, «una fonte storica piuttosto rischiosa»: poesie, cronache e ballate popolari che avevano come oggetto le gesta di banditi celebri vis­ suti in tempi e culture diverse1. Al centro della ricostru­ zione di Hobsbawm non risiedono i nudi «fatti» bensì la diffusione del paradigma, la produzione sociale e discor­ siva del mito, e la sua circolazione. Non è casuale, del re­ sto, che il testo abbia visto la luce in un periodo in cui - per ammissione dello stesso autore - sociologi, storici e una vasta platea di lettori mostravano un «vivo interesse per i banditi, i rapinatori e i fuorilegge», stimolato, viene da pensare, dalle vampate di ribellione sociale scaturite dal Sessantotto. Lo storico britannico si chiede se sia possibile, nel presente, attingere al passato attraverso i testi, le pa­ role e le rappresentazioni (o proiezioni) della realtà pro­ dotte dai contemporanei. «Fino a che punto - si chiede - il mito del banditismo getta luce sul modello reale del comportamento del bandito?». «Per quanto riguarda i fatti reali del banditismo - annota Hobsbawm - queste testimonianze sono naturalmente del tutto inattendibili [...] tuttavia forniscono una grande quantità di notizie

1 E.J. Hobsbawm, Bandits, London, W eidenfeld/Nicolson, 1969; trad. it. I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Torino, Einau­ di, 1971.

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sull’ambiente sociale del bandito», nonché, si potrebbe aggiungere, sull’universo culturale, e non soltanto sociale, che ruotava intorno alla sua figura. Il punto focale sem­ bra essere il contenuto simbolico del «canone» - storico, letterario e antropologico - che definisce il carattere e la funzione sociale del fuorilegge, il valore performativo del mito. Si presenta, nel libro di Hobsbawm, una questione teorica e di metodo - che riguarda l’uso del testo come fonte storica, ovvero la possibilità, muovendo dalle nar­ razioni, di formulare ipotesi e interpretazioni del passato che abbiano attinenza con la realtà del vissuto. Questione dibattuta, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, dai sostenitori della «svolta linguistica» e divenuta, ora­ mai, il pane quotidiano di coloro che, da storici, hanno deciso di cimentarsi con i dati immateriali del passato: i discorsi, i simboli, i saperi e le credenze. Ovvero con le rappresentazioni del reale, le costruzioni ideali e cul­ turali che nutrono la specificità di un determinato conte­ sto storico e temporale armando l’immaginario e i com­ portamenti degli «attori». La soggettività del ricercatore - esclusa, fino agli anni Settanta del Novecento, dal do­ minio, metodologico e concettuale, della received view applicata alla storiografia - rientra in gioco nel momento stesso in cui lo storico, lavorando sui testi, mobilita, ne­ cessariamente, le categorie linguistiche e concettuali del suo presente per decifrare il linguaggio e i messaggi del passato2. E in questo senso che il datato volumetto di H obs­ bawm non rappresenta, in questa sede, un richiamo pere­ grino e inattuale ma offre, sul piano del metodo e, come vedremo, sul piano del contenuto, più di una sponda al discorso che intendiamo sviluppare. 2 Cfr. G.M. Spiegel (a cura di), Practicing History: N ew Directions in Historical Writing after Linguistic Turn, N ew York, Routledge, 2005; E.A. Clark, History, Theory, Text: Historians and thè Linguistic Turn, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2004.

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Il tema in discussione è infatti la circolazione, nella cultura della sinistra radicale, di una «retorica della vio­ lenza» che nutrì, con esiti da investigare, il dibattito pub­ blico e il confronto politico e sociale nell’Italia degli anni Settanta3: le parole dunque, i testi - in questo caso la stampa «militante» e i quotidiani nazionali - che rappre­ sentano, coerentemente alla cultura e all’esperienza degli autori, la realtà (positiva o desiderata) dei processi storici allora in atto4. Sotto analisi è il lessico utilizzato dai movimenti di estrema sinistra per dare vita, nel decennio in esame, all’azione politica. Oggetto della ricerca sono, in sostanza, le formazioni discorsive che insistono, nella cultura della sinistra radicale italiana, sull’uso legittimo della violenza come strumento di confronto e di rinnovamento, politico e sociale. L’analisi - muovendo da uno scavo ancora par­ ziale sulle pubblicazioni della sinistra radicale, sui quoti­ diani nazionali e i materiali della controinformazione - si fonda sull’assunto che i discorsi, le parole per comuni­ care la politica possiedano un intrinseco potere di mobi’ Con l’espressione «sinistra radicale» ho inteso svincolare la defi­ nizione dell’area politica «antagonista» - esterna alla rappresentanza parlamentare - dal perimetro dell’autorappresentazione. Locuzioni quali «estrema sinistra», «sinistra rivoluzionaria» o «sinistra extraparla­ mentare», impiegate nel testo, sono da intendersi come semplici sino­ nimi della definizione più generica di «sinistra radicale». 4 II contributo pubblicato in questa sede è il primo risultato di uno studio ancora in corso sulla stampa della sinistra radicale e i materiali della controinformazione negli anni 1967-77. N el caso specifico l’at­ tenzione si è concentrata, prevalentemente - ma non esclusivamente sui periodici di Lotta continua (1969-77) e Potere operaio (1969-73), operando una prima scrematura dei materiali a stampa redatti dalla sinistra extraparlamentare. Per il periodo successivo al 1974 l’indagi­ ne si è concentrata, prevalentemente, sui periodici di «movimento»: «Il pane e le rose» (1973-76), «A/traverso» (1976-81), «Rosso» (197579). U n’anticipazione dei temi trattati in queste pagine è reperibile in B. Armani, Le parole del conflitto. Informazione, controinformazione e propaganda dal «caso» Vinelli all’omicidio Calabresi, in A. Martellini e A. Tonelli (a cura di), Violenza, comunicazione, linguaggi, in «Storia e problemi contemporanei», 55, 2010, pp. 29-45.

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litazione, una valenza operativa che stabilisce un nesso, potenziale, tra enunciati e comportamenti, tra rappresen­ tazioni e pratiche5. La connessione - è stato autorevolmente osservato nel convegno che ha dato origine a questo testo - va di­ mostrata. E necessario, in sostanza, che le parole siano messe in relazione con i «fatti». Il rilievo è pertinente ed è un dato di senso comune che i programmi, le parole d ’ordine, la pedagogia - e la mitografia - della politica non si traducano, necessariamente, in azione. Essi nu­ trono, tuttavia, una cultura, una postura mentale, un’idea di mondo che orienta comportamenti e scelte di valore. Al centro della mia riflessione più che la ricerca di una presunta relazione di causa/effetto tra i discorsi e le pratiche risiede la possibilità di esplorare, attraverso la parola scritta, l’immaginario politico, i moventi ideali e i nessi valoriali che giustificarono, agli occhi dei militanti, l’azione violenta e, per alcuni di loro, il passaggio alla lotta armata. Il nodo da sciogliere riguarda la possibilità, intuitivamente fondata, di una stretta relazione tra le pa­ role della violenza e la violenza in atto, laddove la mate­ rialità del gesto diventa, essa stessa, una forma di comu­ nicazione e un’espressione identitaria. Il punto è quello di capire quanto sia persistente e profonda - nella sini­ stra operaista e marxista, ma più in generale nella cultura politica italiana - la legittimazione simbolico-discorsiva, e mitico-discorsiva, del ricorso alla violenza. In questa pro­ spettiva uno dei punti chiave, nell’analisi dei movimenti e delle culture che animarono il confronto armato degli anni Settanta, è quello del rapporto - in termini di con­ tinuità o discontinuità con la violenza politica - tra il

5 Una prima, importante riflessione sui nessi tra retorica e pratica politica è stata formulata, nella storiografia italiana più recente, da A. Baravelli, Parole in azione. Percorsi d i ricerca a proposito delle forme dei linguaggi della violenza politica, in Id. (a cura di), La violenza poli­ tica tra le due guerre mondiali. Culture, pratiche e linguaggi nell’Europa mediterranea, in «Memoria e Ricerca», 13, 2003, pp. 5-16.

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Sessantotto e i movimenti successivi6. Qualunque ricerca si voglia intraprendere sulle forme e le matrici culturali, oltre che politiche, della lotta armata non prescinde, così mi sembra, dalla ricostruzione, tuttora imprecisa, di un’attendibile cronologia della violenza.

1. L’innocenza perduta: parole e rappresentazioni del con­ flitto prima e dopo il Sessantotto Nei paesi in cui la tradizione democratica ha subito un’in­ terruzione - ha scritto ormai vent’anni fa il politologo Mark Kaase - si adotta un principio di giustificazione della violenza che trova un posto di rilievo nel pensiero politico: la violenza ha il fine di prevenire un attacco, un colpo di stato contro lo stato democratico [...] il cittadino ha il diritto e il dovere di uccidere il tiranno e dunque la giustificazione normativa da parte della società costituisce uno dei principali fattori che faci­ litano l’applicazione della violenza a questioni politiche7.

La riflessione mi è sembrata pertinente, sotto certi aspetti, all’analisi del «caso» italiano. Nell’Italia degli anni Settanta la strage di piazza Fon­ tana, il 12 dicembre 1969, rappresentò, nella percezione dei contemporanei, un lesione profonda al corpo della democrazia provocando una crisi di legittimità delle isti­ tuzioni. L’attentato acquisì da subito - in un clima di grande instabilità politica e di acute tensioni sociali - una forte valenza simbolica e un contenuto «oggettivamente»

6 Per una recente riflessione sul Sessantotto e dintorni cfr. S. Neri Serneri, Gli anni del ’68. Radicalismo e modernità , in M. D e N icolò (a cura di), Dalla trincea alla piazza. L'irruzione dei giovani nel Novecento, Roma, Viella, 2011, pp. 391-408, e inoltre M. Tolomelli, Il sessantotto. Una breve storia, Roma, Carocci, 2008. 7 M. Kaase, Partecipazione, valori e violenza politica, in R. Catanza­ ro (a cura di), La politica della violenza, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 13. Cfr. inoltre, in prospettiva storica, il lavoro ormai datato, ma sem­ pre ricco di suggestioni, di C. Tilly, From Mobilization to Revolution, Reading, Addison-Wesley, 1978.

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politico. La difesa della libertà minacciata dal terrorismo venne rivendicata, con opposte ragioni, da tutti gli attori politici, avviando una campagna mediatica che coinvolse i quotidiani nazionali, i giornali di partito, la stampa «militante» e le riviste d’opinione. Laddove le forze di governo facevano appello al valore supremo dell’ordine sociale invocando misure repressive nei confronti dei gruppi estremisti, i partiti e le organizzazioni di sinistra paventavano una svolta autoritaria giustificabile, agli oc­ chi dell’opinione pubblica, dalla gravità del momento8. Il 20 dicembre 1969 Lotta continua pubblicò, in sin­ tonia con il clima densamente conflittuale del dibattito politico, un articolo intitolato Bombe, finestre e lotta di classe. L’editoriale mirava a un triplice bersaglio pole­ mico: lo stato, i sindacati e partiti della sinistra parlamen­ tare: Non abbiamo intenzione - si legge in apertura di pagina - di fronte alla mostruosa campagna montata contro i militanti rivoluzionari, di difenderci, di sentirci imputati [...]. C’è una violenza schifosa, quella di Milano; c’è una lotta giusta che non ha da consultare codici o magistrati ma trova il suo fon­ damento nella volontà di emancipazione del proletariato. Siamo contro la prima fino in fondo; e siamo con la seconda fino in fondo [...] c’è un rapporto inequivocabile fra lo sviluppo della lotta operaia e la scalata terroristica [...] La firma del contratto non bastava c’è voluta la strage di Milano.

L’articolo chiariva poi, in un passaggio esplicito, la posizione dell’organizzazione: La lotta di classe ha due strade aperte: la prima è quella che questa società consente: scioperi legali, una scheda nell’urna ogni cinque anni [...] la seconda è quella che questa società rifiuta e reprime: l’iniziativa diretta e permanente degli sfruttati [...] L’esperienza quotidiana della violenza borghese, 8 Cfr., in particolare, gli editoriali Difendere la libertà, in «Corriere della Sera», 13 dicembre 1969, p. 4, e Difesa e sviluppo della democra­ zia, in «l’Unità», 15 dicembre 1969, p. 1.

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da quella ufficiale a quella terroristica è sotto i nostri occhi [...] Si tratta solo [...] di battere una tradizione degenerata che ha disarmato le masse di contro agli oppressori armati9.

Il contenuto dell’articolo, al di là dell’esplicito ri­ chiamo alla teoria e alla pratica del marxismo-leninismo, si collega, idealmente, a un’antica tradizione di pensiero centrata sulla distinzione tra violenza giusta e violenza amorale. L’autorappresentazione del «militante» insiste sull’intrinseca moralità dei propri ideali e comportamenti. La violenza del proletariato non è più - soltanto una tattica difensiva ma si configura, nell’articolazione del testo, come un atto pienamente legittimo al fine di affer­ mare, ribellandosi a un sistema ricattatorio e tirannico, la volontà e i diritti del popolo oppresso. Un atto reso an­ cor più necessario, e praticabile, dall’esplosione inattesa ed eclatante del terrorismo di stato. Il teorema, depurato della sua connotazione ideologica, allestisce un disposi­ tivo retorico che troverà negli anni successivi una larga applicazione nel discorso pubblico. L’attentato, manifesta­ zione di un disegno eversivo che punta a stravolgere l’or­ dine democratico, diventerà, nella narrazione postuma, il segno e l’origine di un male occulto, il simulacro di una sorta di verginità perduta10. La strage di piazza Fontana - ha scritto a distanza di vent’anni Adriano Sofri - aveva comunicato a noi, e soprattutto alla maggioranza dei militanti fervidi e puri poche terribili noti­ zie: che si era disposti a distruggere la vita di persone inermi e senza bandiera; che se davvero la strage era la subdola reazione alle lotte di operai e studenti [...] era vero per conseguenza che

9 Bombe, finestre e lotta di classe, in «Lotta Continua», 20 dicem ­ bre 1969, p. 2. 10 La tesi di una cesura, ideale e politica, tra i movimenti del Ses­ santotto e la violenza dei successivi è stata rilanciata, in tempi recen­ tissimi, da G. D e Luna nel volume Le ragioni di un decennio. 19691979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Milano, Feltrinelli, 2009. D e Luna ripropone la consueta cronologia che vede nella strage di piazza Fontana il primo e più importante detonatore della violenza.

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la cura di quei morti innocenti, la giustizia per loro [...] ricade­ vano direttamente su di noi [...] finito il gioco, la gioia, la lealtà: era iniziata l’età adulta, nell’orrore e nella determinazione11.

Se è vero che la strage e il conseguente svelamento delle trame neofasciste hanno segnato un trauma, e un passaggio cruciale, nella storia dell’Italia repubblicana, la rappresentazione del massacro - richiamando la purezza, la nobiltà ideale e la dimensione ludica della protesta - è stata funzionale alla costruzione di una «retorica dell’in­ nocenza» che sottolinea, nell’articolazione del discorso pubblico - politico e storiografico - della sinistra italiana, la netta discontinuità tra l’utopia pacifica del Sessantotto e la violenza degli anni Settanta. In tal senso la narrativa della strage ha incorporato le ragioni della sinistra radi­ cale riproponendo il meccanismo retorico che ha fornito - prima e dopo l’attentato - la giustificazione sociale, e politica, della protesta violenta12. L’allusione di Sofri ai «morti senza bandiera» implica, sottotesto, l’attribuzione di un contenuto ideale - e dun­ que di un minor tasso di crudeltà e pericolosità sociale nella scala dei crimini di sangue - ad atti di violenza po­ liticamente connotati riaffermando, contestualmente, la natura pacifica dei movimenti di prima generazione. Così concepita, la violenza politica è dotata di una sua mora­ lità, motivata, se non giustificata, da ragioni - ideali e so­ ciali - nobili e giuste. U n’idea che indebolisce, potenzial­ mente, la sanzione sociale dell’atto illegale e cruento. Il gesto rivoluzionario ed eversivo racchiude - nella rappresentazione, e nella prassi, della protesta antisiste­ mica - un tratto «premoderno», che rimanda a una storia 11 A. Sofri, La notte che Vinelli, Palermo, Sellerio, 2009, p. 69. 12 Sul versante storiografico si vedano ad esempio le ricostruzioni di G. Crainz, Il paese mancato. D al miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003; N. Tranfaglia, Un capitolo del «doppio Stato». La stagione delle stragi e dei terrorismi, in Storia dell’Italia repubblicana, voi. Ili, t. 2, Torino, Einaudi, 1997; Id., L’Italia democratica. Profilo del pri­ mo cinquantennio (1943-1994), Milano, Unicopli, 1994.

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plurisecolare di rivolte e di violenze popolari13. Le ragioni della violenza attingono - nelle formulazioni discorsive dell’estrema sinistra - a una lunga tradizione celebrativa della forza al servizio di una giusta causa14. Pur tenendo conto che l’uso delle parole, nel tempo, subisce muta­ zioni e stratificazioni di significato, la legittimazione della pratica violenta mobilita, attualizzandone il senso, catego­ rie e moventi arcaici. E in questa prospettiva che torna utile la riflessione di Hobsbawm sul banditismo. Il fenomeno, come forma di protesta sociale, esibi­ sce, secondo lo storico britannico, «una certa affinità con la rivoluzione» e la rivoluzione si richiama, in modo implicito e irriflesso, al suo codice d ’onore. Il banditi­ smo differisce, neU’immaginario sociale e nella sostanza dei suoi obiettivi, «dal mondo ordinario della delin­ quenza» avendo come fine il risarcimento dei più deboli e il trionfo di un ordine «morale» più giusto e più equo. La malavita, annotava Hobsbawm, si presenta - nella concretezza del suo operare, nelle forme della sua auto­ rappresentazione e nella percezione dei contemporanei - «come un’antisocietà che rovescia i valori della società retta» laddove «il mondo rivoluzionario» è anch’esso» contrariamente al mondo criminale - «un mondo retto»15. Un buon esempio è in effetti l’archetipo del bandito d’onore che ripara i torti e le ingiustizie subite dai poveri e dai più deboli16. Oppure, all’altro capo della gerarchia sociale, il codice cavalleresco che impone alla presunta vittima di lavare col sangue l’offesa subita. In entrambi i

15 In sintonia con questa ipotesi A. Ventrone, L’assalto al cielo. Le radici della violenza politica, in Aa.Vv. L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 181-202. 14 Cfr. P. Braud, La violence politique: repères et problèmes, in P. Braud (a cura di), La violence politique dans les democraties européennes occidentales, Paris, Harmattan, 1993. 15 Hobsbawm, I banditi, cit., p. 91. 16 Cfr. E.J. Hobsbawm, Prim itive Rebels: Studies in Arcaic Forms o f Social M ovements in thè 19>h and 2(yh Centuries, Manchester, Manche­ ster University Press, 1971.

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casi siamo di fronte a una concezione alternativa e «ro­ mantica» del diritto, che rompe con la legalità vigente. L’attribuzione di un senso profondamente etico al pro­ getto rivoluzionario nutrirà, sul piano culturale e retorico, la mitopoiesi del Sessantotto e l’omissione del carattere potenzialmente violento del movimento. La rettitudine del rivoluzionario e del suo mondo ideale - per quanto siano cogenti le ragioni, sociali e materiali, che lo spingono all’azione - si nutre, necessa­ riamente, di retorica, è il prodotto di un’astrazione. Se è vero che la missione delle ideologie è quella di tradurre sogni e aspettative in pratica politica, i potenziali attori del progetto rivoluzionario hanno bisogno di parole d’or­ dine, di rappresentazioni e di simboli nei quali ricono­ scersi e riconoscere i moventi, ideali e concreti, dell’atto sovvertitore e violento. Al cuore dell’analisi politica - e delle pratiche di mo­ bilitazione - risiede la rappresentazione, schematica ma di facile presa, di un mondo binario e quasi atavico nel quale agiscono due forze contrapposte: la forza dello stato che dispiega il suo potere di coercizione (occulto e palese) e la forza del movimento operaio (espressione matura della volontà popolare) che in difesa delle proprie istanze di emancipazione e di giustizia sociale risponde, con le proteste di piazza e la pratica della «violenza pro­ letaria», alla repressione o all’inazione delle istituzioni. Nel caso specifico del Sessantotto è innegabile che il discorso sull’attualità della rivoluzione, sulla violenza di massa e di avanguardia, percorra, fin dagli esordi della protesta studentesca e operaia, il dibattito interno ai mo­ vimenti. E un dato facilmente riscontrabile che un’ampia parte della produzione testuale riconducibile ai movi­ menti di estrema sinistra insista, dal ’67 in poi, sulla legit­ timità della «violenza rivoluzionaria» come strumento di confronto politico e difesa di classe. Non bisogna [...] - si legge nel ’67 sul «Potere Operaio» pisano - illudere le masse sulla possibilità di ottenere, pacifica­ mente, e democraticamente (secondo le forme della democrazia

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borghese, della Costituzione) il rispetto dei loro più elementari diritti. In ogni momento, sempre finché esista un padrone, de­ vono essere preparate ad affrontare ogni forma in cui l’aggres­ sione dei loro nemici, dei capitalisti, degli imperialisti, si pre­ senti, opponendo violenza alla violenzaa.

Non è superfluo ricordare che il ’67 è l’anno in cui a Pisa e nel resto d ’Italia migliaia di giovani danno il via, pacificamente, alle grandi lotte studentesche ed è tutta­ via palese - documenti alla mano - che al di là del so­ gno utopistico e libertario di una società di eguali l’ala più radicale del movimento avesse un programma politico e caratteri fortemente ideologici d ’ispirazione marxistaleninista. Fin dagli esordi, la costruzione di una società più libera e più giusta implicava, per una larga frazione del movimento studentesco e operaio, l’abbattimento ra­ dicale, implicitamente ma inevitabilmente violento, dello stato borghese. Canzoni e slogan inneggiavano in modo esplicito alla guerra proletaria e i nemici da battere diventarono ben presto i «padroni» e non solo i «baroni». Compagni dai campi e dalle officine - recitava la nota bal­ lata composta, nel 1966, da Paolo Pietrangeli - prendete la falce e portate il martello, scendete giù in piazza, picchiate con quello [...] Voi gente per bene che pace cercate, la pace per far quello che voi volete, ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra, vogliamo vedervi finir sotto terra.

La metafora guerresca echeggiava, nel ’67, nelle pa­ role del futuro leader di Lotta continua. Se vogliamo veramente la pace - asseriva Adriano Sofri sul foglio del Potere operaio pisano - non c’è che una via: discu­ tere, organizzarsi, agire per fare la guerra ai padroni [...] nei paesi europei come la Francia e la Germania passano leggi che 17 L. Della Mea, Senza titolo, in «Potere Operaio pisano», 26 otto­ bre 1967, rist. in R. Massari (a cura di), Adriano Sofri, il ’68 e il Pote­ re Operaio pisano, Bolsena, Massari, 1998, p. 75 (corsivi miei).

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tolgono la maschera alla democrazia e fanno vedere il volto au­ tentico del capitale, il fascismo™.

Sembra di poter dire - restando ancorati ai testi che l’utopia pacifista affiancò, intersecandola, la prospet­ tiva rivoluzionaria e la pratica politica si adattò, nelle forme organizzative della protesta, agli enunciati teorici della sinistra radicale. Già sul finire del Sessantotto la lotta antisistemica in­ vestiva le istituzioni, autoritarie, gerarchiche, repressive, si allargava nelle scuole, nei quartieri, nelle fabbriche, nelle carceri, in aperto contrasto con i sindacati e i partiti della sinistra «storica». La classe operaia - coerentemente all’elaborazione teorica dei gruppi marxisti-leninisti - è individuata ovunque si manifesti un rapporto di sfrutta­ mento19. Il movimento studentesco - proclama Adriano Sofri nel 1968 - possiede «carattere qualitativo» di un movimento di massa. La condizione studentesca - spiega l’autore in un linguaggio alquanto involuto - «è quella particolare di uno strato sociale proletarizzato escluso dal potere, e manipolato dal potere capitalistico, che mira a scontrarsi con la struttura di potere sociale complessiva e quindi a porsi sul terreno della lotta rivoluzionaria». Più avanti, nello stesso documento, Sofri avverte che il mo­ vimento deve «curare in ogni momento la capacità di af­ frontare il nemico in ogni condizione che ci può imporre compresa quella della lotta illegale e della lotta armata»20. Il passo è senza dubbio eloquente e merita l’attenzione. 18 A. Sofri, Il Vietnam e noi, in «Potere Operaio pisano», 3 luglio 1967, rist. in Massari, Adriano Sofri, il ’68 e il Potere Operaio pisano, cit., p. 88. 19 Per uno sguardo «interno» sulla cultura rivoluzionaria degli anni Sessanta e Settanta cfr. N. Balestrini e P. Moroni, L'orda d’oro. 1969-

1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano, Feltrinelli, 1998. Importante, per un’analisi sociopolitica dei movimenti di protesta, il volume di D. della Porta, Movimenti collet­ tivi e sistema politico in Italia. 1960-1995, Roma-Bari, Laterza, 1996. 20 A. Sofri, Relazione introduttiva, in Massari, Adriano Sofri, il '68 e il Potere Operaio pisano, cit., p. 321. Il testo è anche reperibile, con il

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Ben prima del ’69, e dell’inizio conclamato della «strategia della tensione», l’estrema sinistra identifica lo stato con il suo apparato di forza, e l’unica strada per­ corribile sembra essere lo scontro aperto, frontale, con il «nemico» di classe. Il tema dello smascheramento, l’ap­ piattimento delle istituzioni democratiche a puro simu­ lacro sono una costante - visionando i testi - della pro­ paganda e della pubblicistica prodotta dalla sinistra ex­ traparlamentare sedimentando, con esiti differiti e dram­ matici, in luoghi distanti e forse indesiderati dello spazio «antagonista». Lo stato, nella cultura antisistemica di fine anni Sessanta, presenta le fattezze di un moderno Levia­ tano, polimorfo e proteiforme. L’immediato antecedente, dal punto di vista iconico e semantico, dello «stato im­ perialista delle multinazionali» (Sim), costantemente evo­ cato, nei comunicati delle Brigate rosse, come il «nemico assoluto»21. 2. Dalle parole ai fatti. La drammatizzazione del conflitto (1970-75) La violenza è da tutte le parti - scrive il giornale di Potere operaio nel dicembre del 1970 - Non si tratta né di negarla, né di accettarla [...]. Chi comanda la spirale della violenza? Chi dà i tempi? Bene, noi diciamo che i rivoluzionari non deb­ bono permettere che siano i poliziotti, i magistrati, i fascisti a scandire i tempi della violenza. È la nostra violenza che deve comandare sulla loro. Per vincere. Sappiamo che tanti, troppi Soloni sentenzieranno sull’awenturismo di una simile tesi. Ma

titolo Sull'organizzazione, in «Monthly Review», ed. it., n. 3-4, marzo/ aprile 1969, pp. 29-33 (corsivi miei). 21 Cfr. Soccorso rosso, Brigate Rosse: che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto, Milano, Feltrinelli, 1976. Per una storia dell’organizzazione armata cfr. D. della Porta e G.C. Caselli (a cura di), Terrorismi in Italia, Bologna, Il Mulino, 1984 e, segnatamen­ te: D. della Porta, La storia delle brigate rosse: strutture organizzative e strategie d ’azione, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 153-221; Ead., Terro­ rismo di sinistra, Bologna, Il Mulino, 1990.

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la nostra argomentazione più valida [...] è nella materialità della violenza, che sempre più caparbia, cresce dentro la lotta di classe22. La concreta attualità, se non l’imminenza, di una svolta insurrezionale risulta, ancora una volta, un argo­ mento centrale della propaganda e dell’analisi politica. La preparazione, attiva e concreta, di una svolta rivoluzio­ naria si fonda sulla percezione di una violenza intrinseca alle relazioni sociali e sulla totale sfiducia nell’attualità di un progetto riformista. Il momento insurrezionale non è ancora imminente ma richiede, secondo Potere operaio, l’organizzazione e il collegamento delle forze rivoluziona­ rie necessarie «a gestire una fase della lotta che bruci il rivendicazionismo, i contratti e ponga in termini organiz­ zati il problema del potere»2'. Un anno dopo, quando il golpe tentato da Junio Va­ lerio Borghese nel dicembre del ’70 diventa di dominio pubblico, la violenza troverà, a sinistra, nuovi spazi di agi­ bilità politica giovandosi di nuove e più credibili giustifi­ cazioni e reclutando nuovi attori24. La posizione di Potere operaio sulla lotta armata registra, ad esempio, uno slitta­ mento significativo. Sul numero di «Potere Operaio» del marzo 1971 compare una intera pagina dedicata alla re­ crudescenza del fenomeno squadrista e all’urgenza di con­ trastare - sul piano politico-militare - l’esplosione della violenza neofascista. La tesi è che i fascisti formino, clan­ destinamente, un esercito antioperaio al soldo dei padroni. Di fronte a ciò l’unica difesa che si prospetti vincente na­ sce - secondo Potere operaio - dalla consapevolezza che «crisi economica e attacco repressivo richiedono che la classe operaia appronti a sua volta strumenti di coercizione 22 Comunismo e organizzazione, in «Potere Operaio», 19-26 dicem­ bre 1970, p. 2. 23 Ibidem, p. 3 (corsivo mio). 24 Cfr. G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni sessanta e settanta (1966-1975), Torino, Einaudi, 2009.

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di grado adeguato». «La capacità - si legge ancora nell’ar­ ticolo - di mantenere, estendere e difendere le conquiste raggiunte, su deve fondare su una base di forza materiale, organizzata, tecnicamente attrezzata per le necessità dell’at­ tacco»25. Il 6 dicembre 1971 il periodico dell’organizza­ zione esce con un titolo ancora più eloquente e un messag­ gio aperto e radicale: Rilanciare la violenza proletaria. «La difesa della democrazia - si legge in apertura di pagina non ha mai garantito niente ai proletari: l’unica garanzia è promuovere delle lotte d’attacco, organizzarle e armarle». Nell’occhiello, la nota citazione: Democrazia è il fucile sulla spalla degli operai2b. La legittimità della violenza rivoluzio­ naria è data dunque dalla necessità, percepita come impro­ rogabile, che la «giustizia proletaria» - come pratica palingenetica opposta e speculare alla violenza dello stato (con­ cepito come apparato di forza) - trionfi sull’iniquità della «giustizia borghese»27. La violenza verbale dell’estrema sinistra, la percezione di un potente cambiamento in atto non sono scollegati dai nudi «fatti». La tesi della centralità operaia incorpora, non possiamo negarlo, dati di realtà: numeri, dati freddi e inequivocabili che registrano un netto declino dell’Ita­ lia rurale e processi sempre più rapidi di urbanizzazione e industrializzazione di una parte consistente del paese. Un cambiamento che produce, anche, nuove tensioni so­ ciali e nuovi modelli culturali, una diversa curvatura delle aspettative, dei bisogni - e dei consumi - dei ceti medi e popolari28. A fronte di ciò la sinistra radicale elabora una 25 1 fascisti: distruggerli, in «Potere Operaio», 19 marzo 1971. 26 Rilanciare la violenza proletaria, in «Potere Operaio», 6 dicembre 1971, p. 1. 27 Da segnalare la gambizzazione, nel 1972, di un caporeparto del­ la Fatme ad opera di Germano Maccari, allora giovanissimo militante di Potere operaio e successivamente coinvolto nel rapimento di Aldo Moro. 28 Cfr. Crainz, Il paese mancato, cit. Sul mutamento dei modelli di consumo e degli stili di vita cfr. la sintesi di E. Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla belle époque al nuovo millennio, Roma-Bari, Laterza, 2008.

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rappresentazione ambivalente, a tratti retroversa, dei pro­ cessi in atto e dell’azione politica. L’operaismo dell’estrema sinistra - rafforzato da una crescita esponenziale del proletariato industriale che in­ torno al ’71 raggiunse, nelle regioni del Nord-Ovest, il 40% della forza lavoro - sembra condurre a un blocco dell'immaginazione politica, riflesso, fino al ’76, da una pratica discorsiva ripetitiva e monocorde, centrata sulla contrapposizione, sempre più radicale, dei linguaggi im­ piegati per comunicare la politica29. Simmetrica alla ra­ dicalità del linguaggio utilizzato dalla stampa nazionale per descrivere la protesta, e contrapposta alla «pedagogia borghese» dell’ordine, alla retorica del paternalismo inter­ classista30. I dati di contesto aiutano a ricondurre Xescala­ tion della violenza, detta e praticata, a un quadro politico e sociale che ci consente di valutarne la carica potenzial­ mente eversiva. Tra il ’70 e il ’73 il paese attraversa una fase com­ plessa di ristrutturazione politica, economica e sociale31. Gli esiti di questo passaggio presentano lati d ’ombra che il senno del poi, accompagnato dal rigore dell’analisi sto­ rica, consente oggi di valutare in tutta la loro ampiezza e tuttavia, nel bene e nel male, il panorama politico e sociale non sembra immobile. E opportuno ricordare il varo dello Statuto dei lavoratori, l’introduzione del di­ vorzio e, contestualmente, dell’istituto referendario, l’at­ tuazione delle regioni, la legalizzazione dell’obiezione di coscienza. Le politiche di razionalizzazione della spesa pubblica e le politiche sociali stentano a decollare ma 29 Per i dati sull’occupazione industriale cfr., oltre ai Sommari di statistiche storiche pubblicati in volume dall’Istat, le cifre condensate in P. Sylos Labini, Saggio sulle Classi sociali, Roma-Bari, Laterza, 1974. ,0 Si veda, ad esempio, la copertura dedicata dalla stampa nazio­ nale alle proteste operaie dell’«autunno caldo»: cfr. «Corriere della Sera», 12 e 13 novembre 1969, «La Stampa», 30 ottobre 1969, «Il Giorno», 30 ottobre 1969. 51 Cfr. Aa.Vv., La trasformazione dell’Italia. Sviluppi e squilibri, in Storia dell’Italia repubblicana, Torino, Einaudi, 1996, voi. 2.

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vengono introdotte, sul piano giuridico, tutele significa­ tive nel campo del lavoro e dei diritti. In tale contesto la stampa extraparlamentare, pur pro­ muovendo importanti battaglie per l’estensione dei diritti civili e la difesa delle fasce più deboli - la lotta per il diritto alla casa, per la riforma delle carceri, per l’aboli­ zione degli istituti manicomiali e così via - descrive un paesaggio politico e sociale dai toni plumbei, serrato in un presente di povertà e di oppressione, chiuso a qua­ lunque progresso che non sia frutto di un rifiuto radicale dell’esistente, di un atto di rottura totale col «sistema»32. La rappresentazione del reale sminuisce qualunque cam­ biamento o riforma bollandolo come «truffa», come in­ ganno, generando, in certe anse del movimento e in al­ cuni segmenti dell’opinione pubblica, la percezione di una crisi sociale senza sbocchi33. La protesta violenta, il gesto eclatante che rompe con la politica dei «piccoli passi» e P«ordine costituito» sembra dunque rispondere - se riportato al contesto - a un’esigenza di visibilità identitaria. La copertura giornali­ stica dell’azione, sui media nazionali e sulla stampa mili­ tante, ne amplifica la portata e dunque, potenzialmente, la capacità di aggregazione e la forza di mobilitazione34. 32 Cfr. E. Petricola, I diritti degli esclusi nelle lotte degli anni Set­ tanta. Lotta Continua, Milano, Edizioni associate, 2003. 33 Cfr. «Lotta Continua», 13 settembre 1971 e 20 dicembre 1971. Il tema dell’inganno ordito dal governo e dai partiti riformisti ai dan­ ni delle masse lavoratrici attraversa tutte le annate del periodico tra il 1969 e il 1975. Interessanti al riguardo anche i numeri di «Potere Operaio» del 6-13 dicembre 1970 e del marzo/aprile 1972. 34 Sulla spettacolarizzazione della protesta, e l’impatto sull’opinione pubblica meno politicizzata, si veda la riflessione «a caldo» di Alfre­ do Todisco sul «Corriere della Sera»: «Gli episodi di guerriglia urbana [...] hanno un limitato impatto fisico e bellico ma per la loro spet­ tacolarità sono atti a suscitare una ripercussione psicologica negativa sull’opinione pubblica, da noi particolarmente emotiva. Molti cittadini possono perder fiducia nella democrazia e perciò disporsi, con un sen­ so di scoramento, a cercare protezione fuori dallo stato, ad augurar­ si il regime “forte”», La tutela dell’ordine pubblico, in «Corriere della Sera», 1° maggio 1972.

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In questo senso un dato che mi sembra significativo, rispetto alla percezione di uno scontro politico e sociale aperto, è il fatto che l’attualità della rivoluzione fosse per­ cepita e discussa, sulla stampa d ’opinione, come una pos­ sibilità concreta. Tanto che «L’Espresso», nel giugno del 1971, dedicherà un ampio servizio, con interviste a Lucio Colletti e Luigi Pintor, al progetto politico della sinistra extraparlamentare. L’inchiesta prende le mosse dalla con­ statazione che, cito da «L’Espresso», «da qualche tempo tra vari gruppi della sinistra italiana è in corso una po­ lemica sulla possibilità di dare sbocco rivoluzionario a breve scadenza, alle lotte sociali in atto in Italia»35. Già nel ’69 la saldatura fra il movimento studen­ tesco e il movimento operaio si presentava infatti come un fenomeno controverso e un catalizzatore della vio­ lenza. Contestualmente la propaganda e l’analisi politica della sinistra radicale si centravano, lo abbiamo visto, sulla triplice equazione stato/fascismo/capitale incorag­ giando i militanti a uno scontro frontale con le istitu­ zioni. Se cerchiamo, con fatica, una qualche evidenza della sfuggente relazione tra gli enunciati e i «fatti» di­ rei che la tradizione delle gogne proletarie rappresenta, unitamente all’attività di schedatura dei fascisti, il punto di slittamento, nella sinistra radicale, dalle parole della propaganda alla pratica violenta36. Verso la fine del ’69 e ancora di più nell’anno successivo, la protesta operaia co­ minciava a esprimersi in forme tumultuose in aperto con­ trasto, in molti casi, con le direttive sindacali e la vecchia routine degli scioperi: trattative pubbliche, cortei interni, scioperi a singhiozzo, blocchi stradali, devastazioni37. 35 In Italia è possibile fare la rivoluzione?, in «L’Espresso», 21 giu­ gno 1971. 36 Cfr. G. Panvini, A lle origini del terrorismo diffuso. La schedatura degli avversari politici negli anni della conflittualità politica. Tracce di una fon te (1969-1980), in «M ondo Contemporaneo», 3, 2006, pp. 141164. 37 Una fonte ricca d ’informazione, tuttora utilizzabile, è il volume curato da A. Pizzorno, E. Reyneri, M. Regini e I. Regalia, Lotte ope-

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Le gogne proletarie ai danni dei «crumiri» e dei ca­ pireparto richiamavano - esponendo la vittima all’umilia­ zione pubblica e isolandola dal contesto relazionale della fabbrica - forme arcaiche di giudizio popolare38. Non a caso la stampa nazionale avrà buon gioco nel bollare le forme più eclatanti della violenza operaia come forme di jacquerie urbana. La violenza collerica, motivata da ra­ gioni sociali e rivendicazioni salariali, si nutriva tuttavia - all’interno e all’esterno della fabbrica - di obiettivi e finalità politici. Nel novembre del ’69, a seguito di nu­ merose aggressioni che avevano avuto luogo nelle aziende del Nord, il giornale di Lotta continua pubblica un in­ tervento dal titolo significativo: Dalla violenza persuasiva all’unità politica. Nel testo si afferma con assoluta convin­ zione che la violenza operaia è il fattore decisivo che ha determinato un maggiore collegamento, nell’articolazione delle lotte contrattuali, tra operai e impiegati. Le botte agli impiegati, gli sputi, le pietre contro gli uf­ fici [...] - si legge nell’articolo - non sono stati semplici atti di vendetta o di odio contro i lavoratori o «rabbia generica» contro chi non scioperava. La violenza operaia aveva lo scopo di portare gli impiegati alla consapevolezza della propria con­ dizione di sfruttati, alla considerazione della propria viltà e mi­ seria, alla maturazione di una coscienza politica [...] tutto ciò non poteva avvenire pacificamente e tranquillamente39.

raie e sindacato in Italia: il ciclo 1968-1972 in Italia, Bologna, Il Muli­ no, 1978. Per un inquadramento storico si rinvia all’efficace sintesi di Crainz, Il paese mancato, cit., e, segnatamente, al capitolo X, G li anni degli operai: premesse e apogeo, pp. 312-356. 58 Cfr. E.P. Thompson, Società patrizia e cultura plebea. O tto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Torino, Einaudi, 1981. 39 Impiegati, tecnici, operai: quale collegamento? Dalla violenza per­ suasiva all’unità politica, in «Lotta Continua», 20 novembre 1969, p. 8. Cfr. anche Sequestriamo i padroni, in «Lotta Continua», 1° ottobre 1970, p. 3; Impiegati, tecnici: squallido privilegio, in «Lotta Continua», 12 novembre 1970, p. 3.

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L’articolo - v o lto alla m obilitazione d egli operai e dei m ilitanti - insiste sulla denigrazione d elle qualità um ane e m orali d elle vittim e indicate com e obiettivi legittim i di u n ’azione in siem e ritorsiva e pedagogica. Stabilire se tali azioni furono la conseguenza, più o m en o diretta, della propaganda di gruppi radicali è insiem e arduo e forse p o c o interessante. C erto è che la violenza preordinata delle aggressioni costituiva, per la sinistra, un m om ento irrinunciabile della lotta politica, coeren tem en te a una visione, ingen uam ente m anualistica, della violenza com e «levatrice della storia».

3. La controinformazione e le parole «armate»: verso la militarizzazione dello scontro All’inizio degli anni Settanta diventa ricorrente, nel dibattito pubblico, la rappresentazione di un’Italia minac­ ciata da trame occulte e conflitti palesi. Un discorso, reso concreto da eclatanti fatti di sangue, che diffonde, nell’opi­ nione pubblica, la percezione di uno scontro politico sem­ pre meno controllabile. Il 4 giugno 1972 «L’Espresso» pubblica una lunga intervista a Lelio Basso dal titolo espli­ cito: È possibile la guerriglia in EuropaP40. L’argomento del giorno è l’escalation della violenza terrorista dall’Irlanda del Nord alla Spagna franchista. Basso, dopo aver respinto con decisione e fermezza l’ipotesi di un legame intrinseco tra il movimento operaio di ispirazione marxista e la pra­ tica del terrorismo, propone, en passant, una piccola nota­ zione a margine che mi sembra, invece, suscettibile di sti­ molanti implicazioni sul piano dell’analisi storica. Una componente importante di questa atmosfera dinami­ tarda - sostiene Basso - è lo spirito di violenza che la seconda guerra mondiale ha scatenato ma che, più recentemente, ha

40 È possibile fare la guerriglia in Europa?, in «L’Espresso», 4 giu­ gno 1972, p. 3.

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trovato rilancio nella mostruosità dei crimini americani in Vie­ tnam e nella ferocia delle dittature sudamericane.

Il richiamo di Basso ai postumi della guerra è degno di nota perché invita a una riflessione che collochi la vio­ lenza, politicamente motivata, in una prospettiva di lungo periodo. Fino a che punto, è lecito chiedersi, l’accettazione nella sfera della legalità politica di un partito (il Msi) che faceva esplicito richiamo - nei simboli e nei con­ tenuti - all’eredità del fascismo può aver contribuito ad alimentare, nell’Italia del dopoguerra, un con­ flitto latente? È possibile che questo elemento abbia contribuito a perpetuare, in tempi di pace, l’attualità di un’esperienza di lutto, e di violenza sui civili, mai del tutto elaborata e risarcita? Sta di fatto che l 'escalation della violenza neofascista - fatta di pestaggi, aggressioni e manifestazioni - accompagnò, tra il 1970 e il 1974, un progressivo inasprimento del confronto politico e sociale spingendo la sinistra, e in particolare la sinistra rivoluzionaria, sul terreno dell’«antifascismo militante» facendo ricorso alla mitologia resistenziale come dispo­ sitivo, potenzialmente condiviso, di legittimazione della violenza. Un meccanismo che nutrì, con nuovi argo­ menti e nuove giustificazioni, una battaglia politica che aveva già chiuso molti spazi di mediazione. In questo conflitto l’informazione giocò un importante ruolo di sponda. Se è vero che l’attentato del ’69 è stato uno dei perni della strategia della tensione è stato anche l’evento, traumatico e sanguinoso, che ha prodotto un salto di qualità nel giornalismo d ’inchiesta e nella pra­ tica della controinformazione stringendo i nessi tra politica e comunicazione. Nel giro di pochi mesi un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare la­ vorò, com’è noto, a una controindagine il cui fine era quello di smascherare le manipolazioni informative del «potere» - stato, polizia, partiti e stampa quotidiana indicando i veri responsabili della strage e della morte

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di Pinelli. Il pamphlet, pubblicato il 13 maggio 1970 dalla casa editrice Savelli, ottenne, con migliaia di co­ pie vendute e numerose ristampe, un largo successo di pubblico, alimentando la personalizzazione del con­ fronto politico con l’estrema destra e innescando, di fatto, la campagna di stampa, durissima e denigratoria, nei confronti del commissario Luigi Calabresi41. La con­ troinchiesta ebbe il merito di individuare, lucidamente, e in anticipo sui tempi delle inchieste ufficiali, la ma­ trice neofascista della strage e le responsabilità degli apparati di sicurezza dello stato. Ma, come ha scritto Aldo Giannuli, i suoi autori derivarono dal quadro ap­ pena delineato una «serie di automatismi in virtù dei quali non ci sarebbe stata altra alternativa che sbocco rivoluzionario o fascismo»42. La situazione, in questa e in altre inchieste sulla «repressione» - sulle condizioni di fabbrica, sulle carceri e le caserme - , è analizzata in chiave politica, i dati raccolti sono collegati e interpre­ tati coerentemente a una tesi precostituita su basi ideo­ logiche. Questa controinchiesta - si legge nell’incipit della Strage di stato - non nasce dalle esigenze di legittima difesa per de­ nunciare le disfunzioni dello stato o la violazione dei diritti co­ stituzionali dei cittadini. Sappiamo che questi diritti [...] sono riservati esclusivamente a chi accetta le regole del gioco impo­ sto dai padroni [...]. Per noi «giustizia di classe» e «violenza di stato» non sono definizioni astratte [...] ma giudizi acquisiti con l’esperienza. La repressione preferiamo chiamarla rappresa­ glia. Essa rappresenta il parametro dell’incidenza rivoluzionaria: sappiamo che il sistema colpisce con tanta più virulenza quanto più i modi e gli obiettivi sono giusti [...] l’unica vera amni­ stia che conti sarà promulgata il giorno in cui lo stato borghese verrà abbattuto43.

41 Aa.Vv., La strage d i stato, Roma, Savelli, 1970. 42 A. Giannuli, Bombe a inchiostro, Milano, Rizzoli, 2008. 45 Aa.Vv., La strage d i stato, cit., p. 3.

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Il lessico è eloquente: i termini mutuati dal linguag­ gio militaresco (rappresaglia, amnistia) e l’esortazione ad abbattere, con modalità implicitamente cruente, l’ordine vigente, chiamano i militanti a un confronto politico e militare senza possibilità di mediazioni. La violenza è pre­ sentata come uno strumento moralmente e politicamente lecito per abbattere la tirannia di uno stato criptofascista. L’analisi politica diventa la chiave esplicativa del con­ testo investigativo, le informazioni raccolte acquistano valore di prova e i risultati dell’indagine sono, in larga parte, predeterminati. Prima che i giornali progressisti definissero «oscuro sui­ cidio» la morte di Pinelli - scrivono gli autori della Strage di stato -, sui volantini alle fabbriche, e all’università sui giornali rivoluzionari e sui muri delle città italiane i colpevoli venivano indicati con nome e cognome**.

Il metodo si mostra efficace, elabora un «canone», uno stile di costruzione e diffusione della notizia al di fuori dei canali controllati dalle istituzioni, incide nel di­ battito pubblico esercitando, oltre i confini della militanza politica, una forte presa sull’opinione pubblica. Tanto che il «canone» è riprodotto, in alcuni aspetti, da una parte della stampa democratica. In questo senso la campagna di stampa seguita alla morte di Pinelli e culminata nella pub­ blicazione del libro di Camilla Cederna è estremamente significativa45. L’inchiesta della Cederna offre una rico­ struzione attenta e documentata delle indagini seguite alla morte di Pinelli e al tempo stesso, nella ricerca dei punti deboli e oscuri dell’indagine, costruisce il «caso» Cala­ bresi. Un caso imbastito sulla presunzione di colpevolezza, sul contrasto di valori e sulla contrapposizione dei carat­ teri. «Il Pinelli - scrive l’autrice - spicca come “eroe po­ sitivo”, esuberante, giovane, eccessivo, un personaggio del 44 Ibidem. 45 C. Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage, Milano, Feltrinelli, 1971.

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passato, un po’ sul tipo degli operai che leggevano Gorki,

paziente, candido, povero come gli uccelli dell’aria»46. Di contro il Calabresi è «uomo abile, furbo, abituato a muo­ versi con autorità superiore al suo rango, ginnasticato, ambiguo»*1. Le modalità espressive del confronto politico

e sociale assumono, dunque, all’interno e all’esterno dei gruppi estremisti, una curvatura radicale e violenta. L’in­ formazione scova e rilancia i suoi «bersagli» nell’arena co­ municativa e nel teatro del conflitto. Il giornale di Lotta continua sarà, come si è visto, il più duro accusatore di Calabresi usando, sistematicamente, un linguaggio, anche figurativo, violento e deni­ gratorio. Il suo omicidio, nel maggio del ’72, innescherà un dibattito interno all’organizzazione, e a tutta la sini­ stra extraparlamentare, sull’attualità della lotta armata. L’editoriale del giorno successivo alla morte di Calabresi ribadisce la convinzione che il commissario sia il diretto responsabile della morte di Pinelli e sottolinea «l’abisso morale» che separa i militanti rivoluzionari dai loro «ne­ mici». Al tempo stesso chiarisce che «l’omicidio politico non è certo l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse dal dominio capitalista così come l’azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe» nella fase che il movimento sta attraversando. «Ma queste considerazioni - conclude l’autore dell’arti­ colo - non possono assolutamente indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati rico­ noscono la propria volontà di giustizia»48. Posizione che sarà ribadita nel numero successivo del settimanale, a suggello di un’ampia discussione interna. La lotta, pur rifiutando la strategia cospirativa dei gruppi armati clandestini, è tuttavia definita in termini militari:

46 Ibidem, p. 18 (corsivi miei). 47 Ibidem, p. 24 (corsivi miei). 48 Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell’assassinio di Pinelli. La posizione di Lotta Continua, in «Lotta Continua», 18 maggio 1972, p. 1.

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bisogna misurare il danno inflitto al nemico di classe con le sue conseguenze tanto sullo schieramento proletario quanto sullo schieramento del nemico. Bisogna cioè contrastare il progetto reazionario, individuarne e attaccarne i meccanismi decisivi [...] costringere il nemico ad attestarsi sulla trincea più arretrata è giusto solo a condizione di avere già occupato col proprio esercito e non con un avamposto isolato la trincea che il nemico ha dovuto abbandonare49. L’evocazione di uno scenario di guerra, in questo caso, non è più metafora, espediente retorico, ma prefi­ gurazione di un’azione concreta e plausibile. L’autore del testo, sebbene annunci tempi lunghi, prospetta infatti la necessità di una lotta violenta e generalizzata. Due mesi prima il giornale di Potere operaio aveva lanciato una campagna di controinformazione sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli, fondatore del gruppo clan­ destino dei Gap, e anche in questo caso l’organizzazione aveva preso le distanze dalla lotta armata dei piccoli gruppi, criticando la «pratica cospirativa» delle «bande armate» sul modello «latinoamericano». Nei vari inter­ venti e in particolare nell’articolo pubblicato nel marzo del ’72 è ribadita, tuttavia, la necessità d’intraprendere «una guerra civile di lunga durata»: solo una pratica comunista di direzione collettiva dei quartieri proletari può trasformare questi quartieri stessi in basi rosse da cui partire per attaccare il nemico [...] Già oggi questa pro­ spettiva di massa cresce ma essa è inconciliabile con una pra­ tica cospirativa che tende a trasportare meccanicamente in Italia l’esperienza, assai più rozza, dei movimenti rivoluzionari dell’America Latina50. La violenza - nelle strategie discorsive (e persuasive) dell’estrema sinistra - è infatti sempre al cuore del pro49 Dalla discussione sul Calabresi a quella sulla lotta rivoluzionaria oggi, in «Lotta Continua», 27 maggio 1972, p. 4. 30 Giangiacomo Feltrinelli, militante dei Gap, in «Potere Operaio», 26 marzo 1972.

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cesso rivoluzionario, motore irrinunciabile del cambia­ mento politico e sociale. Il problema più dibattuto dalla stampa militante è quello dell’«organizzazione» e della forma partito ri­ spetto all’ipotesi che la violenza rivoluzionaria scaturisca spontaneamente dal cuore delle masse, dentro l’onda di protesta e senza l’intervento di una direzione strategica. Problema che rimase molto discusso e sostanzialmente in­ soluto fino a che, intorno alla metà degli anni Settanta, prevalse nella sinistra rivoluzionaria la scelta parlamenta­ rista. In questo quadro, la propaganda e l’amplificazione dei risultati della lotta acquistarono un’importanza cru­ ciale nella elaborazione di una strategia persuasiva che puntava ad allargare la base della militanza, sottraendo spazi di agibilità politica alla sinistra storica. La pratica della «controinformazione» giocò - com’è intuibile - un ruolo chiave nel processo di personalizzazione e di cre­ scente militarizzazione dello scontro politico. L’«inchiesta in luogo», già praticata sul finire degli anni Sessanta, e la «gestione dal basso» delle informazioni si tradurranno sempre più spesso in quelle che Pio Baldelli definiva, ap­ prezzandone i metodi e il fine, la «gogne informative»51. Fino al 1975-76 la pratica dell’antifascismo militante si estrinseca, in buona misura, nella schedatura del «nemico», attività che si configura, in concreto, come un «controca­ sellario» politico. Contestualmente le organizzazioni lavo­ rano alla messa a punto di tattiche paramilitari (difensive e offensive) da impiegare sul territorio in relazione a precisi obiettivi. Tanto che le case editrici «militanti» pubblicano, in quel torno di anni, manuali e manualetti di «guerriglia urbana» con espliciti rimandi all’esperienza resistenziale e guevarista. L’invito, esplicito, è quello di riprendere il cam­ mino armato della guerra partigiana52. 51 P. Baldelli, Informazione e controinformazione, Milano, Mazzotta, 1972, p. 4. 52 Esempi eloquenti di questo tipo di letteratura sono: G. Lazagna, II ponte rotto: la lotta a l fascismo dalla cospirazione all’insurrezione ar-

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Nell’autunno del 1970 Lotta continua apre, sulle pa­ gine del suo settimanale, una campagna di mobilitazione contro i fascisti sottolineando la necessità «dell’autodifesa rivoluzionaria»53 pubblicando, sui numeri successivi, gli elenchi dei fascisti da tenere «sotto tiro»54. Più o meno simultaneamente, tutte le organizzazioni della sinistra ex­ traparlamentare inviteranno i militanti alla mobilitazione per tenere sotto controllo le fabbriche, le scuole, i quar­ tieri. La mappatura dei «nemici di classe» presenti sul posto di lavoro o in un dato territorio prefigura, sulla carta, una guerra di posizione che può tradursi, in qua­ lunque momento, in atto. Siamo ancora lontani da una prospettiva armata in chiave organizzata e tuttavia la schedatura degli avver­ sari e le aggressioni mirate fanno parte di una strategia di contrasto che prepara - negli enunciati dell’estrema sinistra - la guerra rivoluzionaria. Dare un volto al «ne­ mico» lo predispone a diventare un bersaglio di gesti po­ tenzialmente violenti, lo trasforma in obiettivo. La siste­ matica detrazione delle sue qualità umane, oltre che po­ litiche, nutre il conflitto di motivazioni etiche ed emotive, aprendo la via a meccanismi di giustificazione morale e personale, oltre che sociale e politica, della violenza. Spe­ cialmente nelle aggressioni con armi improprie o a mani nude, laddove il corpo a corpo implica un elevato dosag­ gio di rabbia e di animosità. Nella prima metà degli anni Settanta, la propaganda e la riflessione politica della sinistra radicale (eccetto Po­ nzata, pubblicato

a cura del Comitato nazionale di lotta contro la stra­ ge di stato (Soccorso rosso) presso la Casa editrice Sapere, Milano, 1972; Fronte rivoluzionario marxista leninista (a cura di), In caso di

golpe. Manuale teorico-pratico per il cittadino di resistenza totale e guer­ ra di popolo, Roma, Savelli, 1975. 53 Cfr. Rapporto sullo squadrismo. La strategia della tensione e la ne­ cessità dell’autodifesa rivoluzionaria, in «Lotta Continua», 12 novembre 1970.

54 Oplà sono fascisti, in «Lotta Continua», 11 marzo 1970, p. 12; Chi sono, chi li paga, in «Lotta Continua», 14 febbraio 1971.

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tere operaio che si scioglierà nel ’73 rifluendo nell’Auto­ nomia operaia e altre formazioni minori) corrono, in ef­ fetti, lungo un doppio binario: da un lato le formazioni maggiori escludono il ricorso alla lotta armata e puntano, tra il ’74 e il ’75, a ottenere una rappresentanza parla­ mentare, dall’altro i servizi d ’ordine si organizzano in strutture paramilitari e i militanti sono incoraggiati ad at­ taccare il «nemico» sul terreno dell’antifascismo combat­ tente. Laddove, come si diceva, il fascismo è identificato con lo stato, in tutte le sue articolazioni, e con il «capi­ tale». Parallelamente la propaganda delle prime Brigate rosse si organizzerà, anch’essa, entro il campo, ideologico e semantico, dell’esperienza resistenziale antifascista arric­ chita di motivi antimperialisti, facendo leva, nella ricerca e nella organizzazione del consenso, sull’utilizzo di un mito fondativo della pedagogia politica elaborata e dispie­ gata, nel dopoguerra, dai partiti della sinistra storica. 4. Il movimento del '77 tra nuovi linguaggi e derive ar­ mate. Spunti per una riflessione Intorno alla metà degli anni Settanta - in un quadro politico e sociale attraversato da molti turbamenti - la cultura antagonista di matrice neoleninista impattò con la comparsa di nuovi linguaggi, distanti dalla tradizione marxista e operaista, animati da una visione multifocale del potere e da un’esaltazione della soggettività come forza rivoluzionaria. Con quali esiti, è opportuno chie­ dersi, sull’agire politico e sulla maturazione del progetto insurrezionale? Il cambiamento, nei contenuti e nelle forme della protesta, è apprezzabile e si lega - almeno in parte - a una serie di avvenimenti che segnarono un ulte­ riore incrudimento del confronto politico e sociale. Lo scarto, tra i movimenti di prima e di seconda ge­ nerazione, appare più deciso dopo le elezioni amministra­ tive del 1975 e la sconfitta della sinistra extraparlamen­ tare alle politiche del 1976. Sullo sfondo di un passaggio politico e sociale assai controverso, il cambio di passo tra

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il lungo Sessantotto e gli anni Settanta è anticipato, nel 1974, da un ’escalation del terrorismo neofascista (la strage di piazza della Loggia e il successivo attentato al treno Italicus) e dall’esordio delle Brigate rosse come gruppo armato: il rapimento del giudice Sossi e le uccisioni di Giuseppe Mazzola, attivista del Msi, e Felice Maritano, maresciallo dei carabinieri55. La cesura si alternava tutta­ via a linee di continuità. I nessi fra il Sessantotto e il ’77 erano garantiti, secondo Donatella della Porta, dalla presenza in quest’ultimo di un nucleo consistente di mili­ tanti che si erano formati nel ciclo di protesta precedente, dalle interazioni fra i «reduci del Sessantotto» (servizi d’ordine) e i giovanissimi che si socializzavano alla politica alla metà del de­ cennio successivo.

In un clima, aggiungerei, d ’intensa conflittualità po­ litica e sociale che prevedeva forme violente, ormai col­ laudate e routinarie, di confronto tra gruppi di opposto colore politico56. Il dogma della centralità operaia - presente, in modo quasi ossessivo, nel discorso e nella pratica politica della sinistra radicale - è indebolito dalla comparsa di nuovi soggetti rivoluzionari che affollano lo scenario urbano della protesta: le donne e il proletariato giovanile compo­ sto da lavoratori precari, studenti, operai, disoccupati57. 55 N el biennio 1974-75 sono approvate riforme significative, che in­ cideranno sulla qualità della vita sociale. Tra queste il varo del nuovo diritto di famiglia, l’istituzione del servizio sanitario nazionale, l’intro­ duzione dei decreti delegati nella scuola pubblica. Sul piano dell’ordi­ ne pubblico assistiamo invece a un irrigidimento dell’apparato repres­ sivo con il varo, nel 1975, della legge Reale. Legge che prevedeva la reintroduzione del fermo di polizia, il prolungamento della carcera­ zione preventiva e altre misure restrittive nei confronti dei movimenti di piazza condizionando, di fatto, l’espressione non convenzionale del dissenso politico. 56 Della Porta, Il terrorismo di sinistra , cit., p. 64. 57 Sulla teoria della centralità operaia cfr. G. Trotta e F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta dai «Quaderni rossi» a «Classe operaia», Roma, DeriveApprodi, 2008.

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La composizione di classe che ha tirato le lotte - si legge sul numero di «Rosso» del maggio ’75 - e che è il soggetto po­ litico della nuova fase storica sganciando il salario dalla produt­ tività e dal lavoro tende ad agganciarlo solo al livello di forza che questa composizione possiede: i senzalavoro chiedono sa­ lario, le donne vogliono reddito e servizi e meno lavoro [...] gli studenti sganciano il loro reddito dal merito che li lega alla produzione scolastica58.

Lo scarto, ideale e lessicale, dei movimenti di seconda generazione è riflesso dalla frase di apertura dello stesso numero della rivista: «Il comuniSmo è giovane e nuovo, è la totalità della liberazione!». L’operaio massa cede progressivamente spazio, nel di­ scorso e nell’azione politica dell’estrema sinistra, all’«operaio sociale»59. È il «soggetto», autonomo e desiderante, ad acquisire un’inedita centralità come agente del sovver­ timento - sociale e culturale, oltre che politico - dell’or­ dine borghese. Nella rappresentazione dei suoi protagonisti il tratto distintivo/identitario della nuova ondata di ribellione gio­ vanile, che scelga o meno la via cruenta e senza ritorno della lotta armata, è la tendenza a includere nell’orizzonte dell’impegno politico e sociale la vita e la corporeità dei bisogni individuali. La protesta antisistemica rifiutava l’organizzazione, il leaderismo e il dirigismo dei passati «movimenti» respingendo appartenenze univoche. Il mo­ vimento si organizzava in forme «diffuse» e policentriche seguendo un modello proliferante (e in parte già speri­ mentato) di gruppi e di circoli radicati sul territorio, nelle scuole e nei quartieri, pronti a mobilitarsi non solo su questioni di interesse generale, e contro la «violenza del potere e dello stato», ma su obiettivi specifici. 58 «Rosso», maggio 1975, cit. in T. De Lorenzis, V. Guizzardi e M. Mita, A vete pagato caro, non avete pagato tutto. La rivista «Rosso» (1973-1979), Roma, DeriveApprodi, 2008. 59 Cfr. T. Negri, Dall’operaio massa a ll’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tomassini, Verona, Ombre cor­ te, 2007.

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I discorsi sulla violenza e la legittimità del ricorso alla lotta armata non sono tuttavia univoci ma rispondono ai diversi segmenti di un movimento che si presenta plu­ rale e multiforme. Si registrano slittamenti di linguaggio che marcano un cambiamento culturale e politico che mi sembra significativo. La produzione testuale del mo­ vimento è segnata - e forse è il segnale di maggiore di­ scontinuità con i linguaggi, e i contenuti, della «vecchia politica» - da un richiamo fortissimo alle componenti esi­ stenziali dell’impegno collettivo. Anche i motivi dell’antifascismo militante e la mitologia resistenziale sono vissuti, e rielaborati, all’interno di una dimensione emotiva della politica60. Il discorso sull’imminenza della rivoluzione e le sue strategie è meno diretto, meno «politico». È interessante in questo senso la lettura del numero della rivista «A/traverso» dedicato, nel marzo del ’76, alla «fine della politica». II consolidamento di un’avanguardia politica (Lotta con ­ tinua) e la costruzione di strutture illegali - si legge nel do­ cumento - sono garanzia [...] di una difesa strenua di forme di organizzazione costruite nelle lotte passate [ma ora si] tratta di cogliere la necessità di una rottura [...]. L’angoscia della disgregazione è poi l’altra faccia della riproposizione di quella concezione, e di quella pratica, che pensa la violenza, l’organizzazione, com e riproduzione speculare dello stato. D i questa concezione il movimento non si è ancora liberato. Una persistente rimozione del soggetto e del suo bisogno alli­ gna in questa concezione. È lo stato e la società capitalistica a fornire i suoi modelli di violenza [...] ai rivoluzionari che com petono con essa [...]. La politica è il luogo in cui siamo costretti a misurare sui tempi dello stato i comportamenti della nostra vita [...] ma la politica diviene incapace di com ­ prendere e integrare i comportamenti e i bisogni, i desideri

60 Cfr. la raccolta di lettere e documenti pubblicati sotto il titolo La felicità è una ricetta del presente, in «Il pane e le rose», febbraio, 1976, pp. 2-10.

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del soggetto che va formandosi nelle condizioni metropolitane61.

Leggendo questo passo l’impressione è che lo stacco dai codici retorici e culturali della «vecchia politica» sia netto. Il proletariato marginale delle grandi aree urbane, giovanile e non, è il nuovo soggetto di cui parla Franco Berardi (Bifo) sui «quaderni» deU’Autonomia. Il soggetto che i gruppi clandestini della lotta armata cercheranno, con un certo successo, di intercettare, inclinando a una contaminazione del linguaggio leninista con le nuove teo­ rie sul «potere diffuso» e sulla valorizzazione dell’«io desiderante»62. L’oppressione sociale, identificata classi­ camente con lo sfruttamento messo in atto dal capitale nella sfera economico-politica, si qualifica nella nuova cornice ideologica come alienazione individuale. Ed è in questo slittamento di senso, unitamente alla vecchia tesi della rivoluzione che nasce dal movimento profondo delle masse, che troveranno spazio la teoria, e la pratica, del cosiddetto «spontaneismo armato» pronto a «radicarsi nelle espressioni legali [e sociali] del conflitto». La confluenza, frammentaria e magmatica, dei vec­ chi miti rivoluzionari, di pratiche e di linguaggi eredi­ tati dalla tradizione del movimento operaio, nel solco di nuove esperienze e nuove sensibilità collettive - toccate dalla crisi economico-sociale, da una feroce contrazione degli orizzonti progettuali, influenzate da nuovi modelli culturali e di consumo - ha determinato, così mi sembra, una sorta di smottamento esistenziale e politico, gene­ rando, in un contesto di transizione sociale e di violenza diffusa, un corto circuito dell’immaginazione politica e

61 Fine della politica, in «A/traverso, rivista per l’autonomia», qua­ derno 2, marzo 1976, p. 21 (i corsivi sono miei). 62 Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Oedipe. Capitalisme et schizophrenie, Paris, Les Éditions de Minuit, 1972; trad. it. L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Torino, Einaudi, 1975.

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della percezione emotiva che aprirà, per alcuni soggetti e in certe aree del movimento, la via dell’opzione armata. È importante però sottolineare che questa non era una via obbligata, nemmeno per i segmenti più radicali del «mo­ vimento». E sarebbe altrettanto interessante, da un punto di vista storiografico, studiare i percorsi - e le ragioni di coloro che, dentro i movimenti, rifiutarono con luci­ dità e coerenza la pratica violenta e la scelta armata, alla ricerca di nuove forme di partecipazione sociale e poli­ tica. L’unica organizzazione in grado di attaccare l’esistente - si legge in un testo che precede di poco la rivolta giovanile del ’77 - è da ricercarsi, per ora, nella trasformazione dei rap­ porti e dei ruoli interpersonali, nella lettura della rivoluzione permanente che investe il quotidiano, penetra il vissuto, nella trasformazione culturale dell’esistenza innescata dall’esplosione cosciente che il rifiuto del lavoro ha sancito nella fabbrica, nel territorio, [...]. Il tempo è maturo affinché coscienza e cono­ scenza ricerchino sul campo la loro nuova strategia [...]. C’è il rischio, date alcune tendenze, che si vanno affermando, che il bisogno di ricomposizione del movimento precipiti in una abbuffata violenta da cui la critica radicale rischia di ritrovarsi disarmata e in cui la protesi-arma rischia di prendere il posto, con le stesse debolezze, di quello che era un tempo l’abito stretto della politica63.

6i G. Martignoni e S. Morandini (a cura di), Il diritto all’odio. Den­ tro fuori ai bordi dell’Autonomia, Verona, Bertani, 1977, p. 81.

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SCHEDARE IL NEMICO. LA MILITARIZZAZIONE DELLA LOTTA POLITICA NELL’ESTREMA SINISTRA (1969-75) 1. La schedatura degli avversari politici come strumento di lotta politica Nel luglio del 1954, sul mensile «Pace e Libertà» fu­ rono pubblicati alcuni resoconti di presunte riunioni de­ gli organi dirigenti delle federazioni del Partito comunista delle città di Milano, Genova, Firenze e Roma. «Pace e Libertà» era un periodico anticomunista fondato nel 1953 da Edgardo Sogno, uno dei capi militari della Resistenza durante la guerra di Liberazione, che nel secondo dopo­ guerra divenne il principale punto di riferimento per gli ambienti dell’intransigentismo atlantico1. Negli anni Ses­ santa e Settanta, Sogno divenne poi il terminale di cospi­ razioni e complotti volti a rovesciare le istituzioni repub­ blicane2. Le notizie pubblicate, in realtà, provenivano dai Comitati di vigilanza democratica, un raggruppamento politico che si era proposto di fronteggiare l’influenza delle sinistre nella società, denunciandone la supposta at­ tività sovversiva*. L’inchiesta riguardava l’attività di proQuesto contributo riprende i risultati di alcune mie ricerche pubblica­ te in Alle origini del terrorismo diffuso. La schedatura degli avversari

politici negli anni della conflittualità. Tracce di una fonte (1969-1980), in «Mondo contemporaneo», n. 3, 2006, e Ordine nero, guerriglia ros­ sa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (19661975), Torino, Einaudi, 2009. 1 Cfr. il libro/intervista di A. Cazzullo, Testamento d i un anti-comunista. Dalla Resistenza al golpe bianco, Milano, Mondadori, 2000. 2 Sulla storia di Pace e Libertà - e dell’omonima rivista - e i proget­ ti golpisti di Sogno cfr. l’inchiesta di G. Flamini, I pretoriani d i Pace e Libertà: storie di guerra fredda in Italia, Roma, Editori Riuniti, 2001. 3 Cfr., ad esempio, «Pace e libertà» vigila all’interno del Pei, in «Pace e Libertà», II, n. 9, 1954.

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paganda dei comunisti nelle fabbriche e nelle caserme delle forze armate italiane e si concludeva con la pubbli­ cazione dei nominativi degli ufficiali accusati di essere dei «collaborazionisti sospetti»4. L’antagonismo politico e ideologico che segnò la na­ scita dell’Italia repubblicana, in particolar modo dopo la forzata uscita delle sinistre dal governo nel 1947 e in occasione delle elezioni politiche del 1948, fornì a settori circoscritti del mondo politico e della società italiana la giustificazione per l’attuazione di pratiche eversive e ille­ gali che ebbero come corollario la schedatura e la dela­ zione degli avversari politici5. Queste prassi sono riconducibili al particolare clima di tensione che seguì la fine della guerra di Liberazione e allo strascico di guerra civile che si protrasse dopo la conclusione delle ostilità6. La predisposizione di molte­ plici forme di controllo nei confronti dei cittadini, tu t­ tavia, ha radici loiitane e può essere fatta risalire, addi­ rittura, all’istituzione del Casellario politico centrale, vo­ luto da Crispi, tra il 1894 e il 1896, per il controllo degli oppositori politici. Con la costituzione dello schedario dei sovversivi si formò un meccanismo organico di sche­ datura, perno dell’apparato di controllo crispino e della successiva struttura repressiva fascista7. Negli anni della repubblica, le attività del Casellario politico centrale con­ tinuarono, come hanno dimostrato numerose fonti rac­ colte recentemente dagli storici, nonostante l’assenza di 4 Segnalazioni dei nostri comitati d i vigilanza democratica , in «Pace e Libertà», II, n. 7, 1954. 3 Sull’instaurazione di tale clima e sul pericolo dello scoppio di una nuova guerra civile cfr. E. Bernardi, La Democrazia cristiana e la guer­ ra fredda (1947-1950): una selezione d i documenti inediti , in «Ventune­ simo Secolo», VI, n. 12, febbraio 2007. 6 Su questo tema cfr. lo studio di M. Dondi, La lunga liberazio­ ne. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano , Roma, Editori Riuniti, 2004. 7 G. Tosatti, Il Ministero degli Interni: le origini del casellario politi­ co centrale, Milano, Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica/Giuffrè, 1993, pp. 461-467.

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un quadro documentario unitario renda incompleta la comprensione del funzionamento di tale organismo per quegli anni8. Certo è che il clima di reciproco sospetto instauratosi con la guerra fredda coinvolse anche i partiti della sini­ stra che a loro volta predisposero forme di controllo e di schedatura degli avversari politici. In particolari momenti di tensione, il Partito comunista italiano mostrò, ad esem­ pio, la propria capacità di mobilitazione, potendo contare sulle proprie strutture di sorveglianza, organizzate e inse­ rite negli organismi del partito all’indomani dell’attentato a Togliatti del 14 luglio 19489. Alcune ricerche hanno so­ stenuto l’ipotesi che la natura di tali strutture fosse offen­ siva, al punto di parlare di un vero e proprio apparato militare clandestino pronto a entrare in azione in caso che la tensione politica del paese fosse degenerata in scontro aperto10. In realtà, si trattava di organismi difensivi, costi­ tuiti, nella previsione di minacce autoritarie, per la salvaguardia dei dirigenti e dei quadri del partito11. Le strutture di vigilanza del Partito comunista, anzi, furono impiegate, 8 Cfr. G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, tra­ sformazioni tra anni Cinquanta e anni Sessanta, Roma, Donzelli, 1996, pp. 10-14 e Id., Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni '80, Roma, Donzelli, 2003, pp. 97-110. Cfr. anche P. Soddu, L'Italia del dopoguerra, 1947-1955. Una democrazia precaria, Roma, Editori Riuniti, 1998, pp. 111-115. 9 M. Caprara, Lavoro riservato. I cassetti segreti del Pei, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 53-54. 10 Cfr. V. Zaslavsky, L’apparato paramilitare comunista n ell’Italia del dopoguerra (1944-1955). Relazione per la Commissione Stragi del Parlamento italiano, in «Nuova Storia Contemporanea», V, n. 1, gennaio-febbraio 2001; G. Donno, La Gladio rossa del Pei (1945-1967), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001 e S. Sechi, Compagno cittadino. Il Pei tra via parlamentare e lotta armata, Soveria Mannelli, Rubbet­

tino, 2006. 11 E. Taviani, Pei, estremismo di sinistra e terrorismo, in G. De Rosa e G. Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Set­ tanta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003; Id., Il terrorismo rosso, la violenza e la crisi della cultura politica del Pei, in A. Ventrone (a cura di), I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d ’Italia negli anni Sessanta e Settanta, Macerata, Eum, 2010.

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negli anni Settanta, per monitorare gli estremismi politici e contrastare l’azione dei gruppi terroristici, parallelamente all’operato delle forze dell’ordine12. Negli anni Sessanta, la pratica della schedatura pro­ seguì ad opera di diversi soggetti politici, sebbene in un contesto diverso da quello del secondo dopoguerra e dei primi anni Cinquanta. Nel maggio del 1967, ad esempio, emersero le prime inchieste giornalistiche sui piani predi­ sposti dal comandante dell’arma dei carabinieri De Lo­ renzo per l’adozione di misure straordinarie destinate al controllo dell’ordine pubblico. A tale scopo erano state predisposte dal Sifar, il servizio segreto dell’esercito, mi­ gliaia di schedature di cittadini15. Preparato nel 1964, durante la crisi del primo centrosinistra, il «piano Solo» non ebbe, tuttavia, alcun seguito14. L’abitudine a schedare gli avversari politici riguardò, tuttavia, anche i teatri di conflitto sociale. Nel novembre del 1971, per citare an­ cora una volta un esempio tratto dalla cronaca di quegli anni, i quotidiani nazionali riportarono la notizia dell’esi­ stenza, all’interno della Fiat, di un casellario contenente 354.077 schede di operai impegnati in attività sindacali o politiche, che erano state compilate e aggiornate negli anni precedenti15. La schedatura degli avversari politici, infine, fu un repertorio d ’azione impiegato dall’estrema destra. Nel neofascismo tale prassi affondava le sue radici lontane nel tempo, addirittura all’uso fattone dagli squadristi nel 1919-22, che impiegarono liste con i nominativi degli 12 Cfr. l’inchiesta di G. Cipriani, Lo Stato invisibile. Storia dello spionaggio in Italia dal dopoguerra ad oggi, Milano, Sperling & Kupfer,

2002, pp. 78-79. 13 Cfr. P. Ignazi, I partiti e la politica dal 1963 a l 1992, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d ’Italia. L’Italia contemporanea. D al 1963 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 114-115. 14 Su questo tema lo studio più aggiornato è quello di M. Franzinelli, Il piano Solo. I servizi segreti, il centrosinistra e il «golpe» del 1964, Milano, Mondadori, 2010. 15 Cfr. B. Guidetti Serra, Le schedature Fiat. Cronaca di un processo e altre cronache, Torino, Rosenberg & Sellier, 1984, pp. 8-58.

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avversari da colpire nella loro offensiva contro i sociali­ sti, nelle campagne e nelle città d ’Italia. Nel corso della guerra civile, i corpi armati fascisti impegnati nelle ope­ razioni di rastrellamento accanto ai tedeschi si avvalsero di elenchi speciali per individuare gli ebrei, gli apparte­ nenti al Partito comunista e i combattenti delle forze partigiane. L’abitudine di raccogliere notizie sui presunti nemici era il retaggio, soprattutto, del sistema spionistico di massa, basato sulla delazione anonima compiuta da cit­ tadini comuni, costruito dal regime. Nel secondo dopo­ guerra, queste pratiche filtrarono nel neofascismo, grazie anche alla continuità di uomini col passato regime. Negli anni della guerra fredda, lo stretto legame di al­ cuni ambienti dell’estrema destra con i servizi segreti e la loro cooperazione, in chiave anticomunista, con Xintelli­ gence statunitense e della Nato fecero in modo che spez­ zoni del neofascismo giocassero un ruolo di primo piano nel lavoro informativo, come è emerso nelle inchieste giu­ diziarie che si sono occupate dell’eversione di destra negli anni Sessanta e Settanta16. La raccolta d ’informazioni fu finalizzata, nei settori più oltranzisti, a un ipotetico golpe. Dopo il colpo di stato in Grecia del 1967, ad esempio, gli studenti di estrema destra italiani collaborarono con la rete spionistica predisposta dai militari greci, per monito­ rare la presenza degli studenti ellenici attivi nell’opposi­ zione alla dittatura militare. Vi furono, poi, mezzi «spic­ cioli» per raccogliere notizie sui propri avversari, utili per realizzare agguati e attentati. Negli assalti condotti contro le sezioni dei partiti di sinistra, i neofascisti, infatti, erano soliti prelevare gli schedari con le liste degli iscritti. A volte capitava che si sottraessero i documenti d’identità per ricavare informazioni utili. Un altro metodo consi­ steva nell’accostarsi ai cortei e alle manifestazioni organiz­ zate dai partiti e dai movimenti di sinistra scattando delle 16 Cfr. P. Barbieri e P. Cucchiarelli, La strage con i capelli bianchi. La sentenza per Piazza Fontana, Roma, Editori Riuniti, 2003, pp. 85117.

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foto. Sembrerebbe, dunque, che la raccolta di notizie da parte dei neofascisti non fosse finalizzata solamente a un lavoro informativo, ma fosse funzionale a mettere assieme più dati possibile sugli avversari. Tutto ciò in previsione di un ipotetico intervento dei militari volto a reprimere, su vasta scala, le opposizioni di sinistra17. 2. Controinformazione e violenza politica nella sinistra ex­ traparlamentare Sul finire degli anni Sessanta, la crisi dei governi di centrosinistra, la protesta degli studenti, la mobilitazione operaia e l’esplodere della conflittualità sociale resero più aspre le tensioni degli anni precedenti. La modernizza­ zione del paese, le grandi trasformazioni sociali, le con­ quiste nel mondo del lavoro e quelle della società civile furono segnate, infatti, dalla violenza stragista e da quella terroristica. In questo contesto, riemerse la schedatura degli av­ versari politici come elemento di lotta politica legato alla contrapposizione violenta tra l’estrema destra, il movi­ mento studentesco e i gruppi della nuova sinistra18. In prossimità dell’autunno caldo del 1969, la strategia politica dei neofascisti, costruita sull’intrecciarsi di vio­ lenze di piazza, di violenze di strada e di attentati diffusi, pose alla nascente sinistra extraparlamentare il problema di trovare strumenti idonei alla difesa, nel momento in cui le forze dell’ordine sembravano latenti quando si trat­ tava di reprimere le violenze degli estremisti di destra. Negli scontri di strada e nella conflittualità spicciola, in­ fatti, i neofascisti primeggiavano, mentre i gruppi della 17 Cfr. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit., pp. 169-174. 18 Sull’importanza dello scontro tra neofascisti e sinistra extrapar­ lamentare nel processo di diffusione della violenza politica agli inizi degli anni Settanta cfr. le considerazioni di S. Tarrow, Democrazia e disordine. M ovim enti d i protesta e democrazia in Italia. 1965-1975, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 211 ss.

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sinistra extraparlamentare e il movimento studentesco po­ tevano contare su una più spiccata organizzazione della violenza di piazza - risultato anche di una dura gestione dell’ordine pubblico da parte delle forze dell’ordine19 - e su un bacino di militanti maggiore, se non altro per la circostanza che i partiti di sinistra convergevano sul me­ desimo terreno della lotta antifascista. I movimenti stu­ denteschi e i gruppetti extraparlamentari presero così a raccogliere informazioni sui propri avversari, con il du­ plice scopo di tutelare l’incolumità dei propri militanti dalle numerose aggressioni che si erano verificate a ca­ vallo tra il 1968 e il 1969 e di denunciare le violenze su­ bite all’opinione pubblica20. La schedatura degli avversari politici entrò, tuttavia, stabilmente nei repertori d ’azione dell’estrema sinistra solamente a partire dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Nonostante la vulgata di piazza Fontana come «giorno dell’innocenza perduta» vada riletta cri­ ticamente, è indubbio che gli attentati del 12 dicembre abbiano segnato un passo decisivo nel processo di milita­ rizzazione della lotta politica all’interno della compagine della sinistra extraparlamentare21.

19 Cfr., ad esempio, M. Grispigni, Figli della stessa rabbia. Lo scon­ tro di piazza nell’Italia repubblicana , in «Zapruder», n. 1, maggio-ago­ sto 2003, pp. 51-71. 20 I dati statistici, infatti, contenuti nel libro di M. Gaileni (a cura di), Rapporto sul terrorismo , Milano, Rizzoli, 1981, p. I l i , e nel saggio di D. della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi ita­ liani, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 25, attribuiscono il 95% delle vio­ lenze registrate tra il 1969 e il 1973 all’estrema destra. 21 Sul dibattito attorno al significato della strage di piazza Fon­ tana, anche al di là dell’ambito storiografico, cfr. la testimonianza di Luigi Manconi, raccolta in A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, 1968-1978: storia d i Lotta Continua, Milano, Mondadori, 1998, p. 90, lo scritto autobiografico di A. Sofri, Memoria, Palermo, Sellerio, 1990, p. 114, e le considerazioni metodologiche di R. Ca­ tanzaro, Il sentito e il vissuto. La violenza nel racconto dei protagoni­ sti, in Id. (a cura di), La politica della violenza, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 240 ss.

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La schedatura, anche in questo caso, fu funzionale a un lavoro investigativo volto ad accertare il coinvolgi­ mento dei neofascisti nella realizzazione degli attentati. Nei primi anni Settanta, la sinistra extraparlamentare, infatti, giocò un ruolo importante nella «battaglia di ve­ rità» per portare alla luce i mandanti e gli esecutori della strage di piazza Fontana, con una fitta rete di iniziative, che trovarono vari interlocutori nei partiti di sinistra, fra gli intellettuali e l’opinione pubblica democratica, volte a denunciare anche le torbide circostanze della morte di Giuseppe Pinelli e il clima repressivo che si era abbattuto sui movimenti studenteschi22. Si consolidò, così, il fenomeno della «controinforma­ zione». Con questo termine, coniato in ambito militare, s’intende il lavoro svolto dall’estrema sinistra in /Contra­ sto all’informazione ufficiale delle istituzioni, dei partiti e dei principali organi di stampa23. La controinformazione dell’estrema sinistra poteva contare, infatti, /u mezzi che erano vietati al giornalismo professionale, /tra cui il pe­ dinamento, l’appostamento fotografico, il /furto di docu­ menti e la violazione di atti di ufficio. Le inchieste erano meticolosamente preparate grazie anche alla diffusione di «manuali» scritti per insegnare e diffondere il più possi­ bile i principi della «controinformazione»24. Principalmente orientata all’individuazione dei gruppi di estrema destra coinvolti negli attentati, ai finanziamenti e alle coperture da questi ottenuti, la controinformazione dei gruppi della sinistra extraparlamentare non si esaurì, tuttavia, con la stagione delle stragi25. Molte indagini, ad 22 Su questo tema cfr. M. Veneziani, Controinformazione: stampa al­ ternativa e giornalismo d ’inchiesta dagli anni Sessanta ad oggi, Roma, Castelvecchi, 2006. 23 Cfr. A. Giannuli, Bombe a inchiostro, Milano, Rizzoli, 2004. 24 Cfr., ad esempio, il libretto Fare la controinformazione, in «Noti­ ziario del centro di documentazione», IV, dicembre 1973, n. 24. 25 I lavori di controinformazione ebbero notevole successo e con­ tribuirono notevolmente all’individuazione della pista nera per quanto riguarda gli attentati del 12 dicembre 1969. Cfr., ad esempio, il vero e

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esempio, riguardarono le violenze dei neofascisti. Tali in­ chieste si avvalsero di un’estesa rete informativa e pote­ rono giovarsi della grande quantità di notizie raccolte dai partiti di sinistra, dai sindacati e dalle associazioni partigiane. In tutti i quotidiani, poiché le norme di legge al­ lora vigenti non prevedevano alcun tipo di riservatezza per le notizie riguardanti la privacy, era possibile, inoltre, reperire, senza alcuna difficoltà, informazioni sulla vita privata e le abitudini dei cittadini. Sulle principali testate della sinistra extraparlamentare, cominciarono così, in maniera graduale, a comparire le immagini, i nominativi, la descrizione dei tratti somatici, gli indirizzi di abitazioni e i luoghi di ritrovo dei militanti di destra. In un primo momento, come già detto, la diffusione dei dati riservati fu finalizzata alla denuncia dei respon­ sabili delle violenze, per renderli identificabili alle forze dell’ordine. Ben presto, tuttavia, l’originario carattere in­ vestigativo della controinformazione venne meno e le no­ tizie raccolte furono finalizzate alla realizzazione di ag­ gressioni e di agguati. Fondamentale per il nuovo scenario di radicalizzazione fu la percezione che parte della società civile e della sinistra istituzionale ed extraparlamentare si andava formando degli eventi seguiti all’attentato del 12 dicem­ bre. Davanti agli occhi di molti, le mobilitazioni di piazza dell’estrema destra, le manifestazioni della «maggioranza silenziosa», le violenze registratesi nelle tornate eletto­ rali del 1970 e del 1971, le rivolte di Reggio Calabria e dell’Aquila, lo squadrismo dei gruppi oltranzisti, as­ sieme all’espansione elettorale e organizzativa del Movi­ mento sociale, divennero la prova tangibile della presenza dell’imminente svolta autoritaria che si stava profilando per il paese. Nelle testate dei gruppi extraparlamentari comincia­ rono a comparire lunghe cronologie che elencavano le proprio best seller La strage d i Stato. Controinchiesta, Roma, La nuova sinistra: Samonà e Savelli, 1970.

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violenze compiute dai neofascisti: queste apparivano in successione, dando l’impressione non solo di un'escala­ tion, ma anche della simultaneità degli attacchi. Le noti­ zie erano raccolte in dossier, pubblicati a mezzo stampa, spesso nella forma di libretti o di volantini, che denuncia­ vano il ripetersi delle azioni squadriste. Le informazioni venivano poi riproposte su manifesti e su tazebao appo­ sti sui muri delle fabbriche, delle scuole o delle università con la stessa funzione26. I ripetuti incidenti con il Movimento sociale e gli altri gruppi di estrema destra rafforzarono tale visione e spin­ sero la sinistra extraparlamentare ad abbracciare la pro­ posta lanciata da Lotta continua, nell’autunno del 1970, di dar vita a un nuovo «antifascismo militante»27. Esso doveva porsi come alternativa all’antifascismo sostenuto dal Partito comunista e dalla sinistra storica. La violenza diveniva il metodo principale contro l’estrema destra28. Furono esaltate così le azioni esemplari, con un' riferi­ mento esplicito non soltanto alla mitologia partigiaha, ma anche alle organizzazioni guerrigliere sudamericane e alle formazioni clandestine del secondo dopoguerra, come la Volante Rossa, impegnate a contrastare, sul piano mili­ tare, i fascisti29. II 15 ottobre 1970 comparve su «Lotta Continua» una rubrica intitolata «Rapporto sullo squadrismo. Chi 26 Cfr., ad esempio, i lavori di denuncia pubblicati dal Pei o da Magistratura Democratica, tra cui Libro nero sulle violenze fasciste a Roma. 1 gennaio 1970-18 marzo 1971, Roma, 1971 o Neofascismo e giustizia (Torino 1969-1974), in «Magistratura Democratica», II, n. 6, numero speciale, dicembre 1974. 27 Lettera ai partigiani, in «Lotta Continua», n. 20, 12 novembre 1970. 28 Cfr. L. Manconi, Il nemico assoluto. Antifascismo e contropotere nella fase aurorale del terrorismo d i sinistra, in Catanzaro, La politica della violenza, cit. 29 Cfr. ancora La violenza e il terrorismo. La strategia della tensione e la necessità dell’autodifesa rivoluzionaria, l ’azione d i massa e l ’azione dei Gap (gruppi d i azione partigiana), in «Lotta Continua», II, n. 20,

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sono, chi li comanda, chi li paga». Con questo e altri si­ mili articoli Lotta continua iniziò a pubblicare i nomina­ tivi e le foto dei militanti di destra30. Non era la prima volta che sulla testata comparivano i volti degli avversari politici. Da qualche tempo era cominciata una duris­ sima campagna di denuncia contro il commissario Luigi Calabresi, accusato della morte di Giuseppe Pinelli. L’asprezza della campagna inscenata da «Lotta Continua» - accolta con favore di una parte ragguardevole dell’opi­ nione pubblica democratica e del mondo intellettuale vi­ cino alla sinistra - è stata giustificata, a posteriori, quale elemento di pressione per spingere il commissario Cala­ bresi a denunciare «Lotta Continua» affinché l’inchiesta sulla morte di Pinelli fosse riaperta, come poi avvenne31. La campagna di «Lotta Continua», in realtà, mise in luce il cambiamento attorno all’utilizzo della violenza che stava avvenendo nella sinistra extraparlamentare, con una più accentuata esaltazione - in questa fase solo teorica della «violenza d’avanguardia»32: «sappiamo che l’elimina­ zione di un poliziotto non libererà gli sfruttati», era scritto su «Lotta Continua», che però precisava: «ma è questo, si­ curamente, un momento e una tappa fondamentale dell’as­ salto del proletariato contro lo stato assassino»33. Cambiò, così, l’immagine del nemico, da astratta classe sociale a personificazione, realistica, tangibile e raggiungibile:

30 Rapporto sullo squadrismo. Chi sono, chi li comanda, chi li paga, in «Lotta Continua», n. 19, 30 ottobre 1970. 31 Sulla campagna stampa contro il commissario Calabresi cfr. le testimonianze di M. Calabresi, Spingendo la notte più in là. Storia del­ la mia famiglia e di altre vittim e del terrorismo , Milano, Mondadori, 2007, pp. 41-47, e A. Sofri, La notte che Pinelli, Palermo, Sellerio, 2009, pp. 267-277. 32 G. Panvini, Lotta Continua e i terrorismi d i sinistra (novembre 1969-marzo 1978), in M. Dondi (a cura di), I neri e i rossi. Terrorismo, violenza e informazione negli anni Settanta, Nardo, Edizione Controlu­ ce, 2008, pp. 126-168. 33 Pinelli un rivoluzionario, Calabresi un assassino, in «Lotta Conti­ nua», n. 17, 1° ottobre 1970.

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Luigi Calabresi, com m issario aggiunto di Ps, 30 anni, abi­ tante a M ilano, in via Largo Pagano. Il num ero di telefono non è riportato sull’elenco, ma fino a p oco tem po fa, su richiesta, veniva com unicato dal centralino. Stipendio dichiarato: 160 mila lire al mese. Sposato e padre di una bam bina34.

Fu nei confronti deH’estrema destra che si ricorse massicciamente a questo tipo di intimidazioni. Dei ne­ ofascisti veniva denunciata la supposta attività di pro­ vocazione, di infiltrazione nei gruppi extraparlamentari e di delazione dei militanti rivoluzionari35. Si arrivò a sospettare che polizia e carabinieri avessero organizzato un sistema di spionaggio capillare nelle grandi città, grazie alla collaborazione dei portinai dei palazzi e dei commercianti simpatizzanti di destra36. In questa visione qualsiasi neofascista diveniva potenzialmente il referente della «trama nera», u n ’espressione con la quale i collet­ tivi di controinformazione erano soliti indicare la rete di poteri e di complicità sottesi ai progetti di destabiliz­ zazione del paese. In alcuni casi le inchieste dei gruppi extraparlamentari portarono alla luce le relazioni che le­ gavano spezzoni dei servizi segreti, le organizzazioni ter­ roristiche neofasciste ed esponenti del mondo politico, istituzionale ed economico. Il lavoro investigativo, tutta­ via, finì per incidere sulla percezione che l’estrema sini­ stra aveva della realtà. Nelle indagini svolte dai collettivi di controinformazione la trama eversiva dei neofascisti, infatti, assunse una dimensione pulviscolare e qualsiasi manifestazione politica e sociale in cui fosse presente l’estrema destra fu ricondotta alla medesima strategia di provocazione. Questo passaggio segnò un ulteriore salto di qualità nell’utilizzo della violenza da parte della sinistra extrapar­ 34 Ibidem. 35 Rapporto sullo squadrismo. Chi sono, chi li comanda, chi li paga (terza puntata), in «Lotta Continua», n. 20, 12 novembre 1970. 36 Servizi segreti. A ssunti senza concorso portinai, esercenti, baristi!, in «Lotta Continua», 6 maggio 1972.

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lamentare37. In questo contesto, l’antifascismo militante, pur non rappresentando il terreno privilegiato ed esclu­ sivo delle violenze, si tradusse presto in una conflittualità diffusa e capillare. La schedatura degli avversari politici divenne, in tal modo, parte dell’attività di piccole for­ mazioni all’interno della sinistra extraparlamentare che si specializzarono verso un uso della violenza mirata. Schede contenenti i nominativi, gli indirizzi di abitazione, le targhe di automobili, le descrizioni fisiche e le fotogra­ fie di centinaia di persone, ritenute militanti di destra o tali, vennero finalizzate, dunque, alla realizzazione di ag­ gressioni e agguati. Ben presto il lavoro investigativo degenerò nella com­ pilazione di liste di avversari, pubblicamente minacciati. Chi leggeva non veniva semplicemente informato circa presunte attività provocatorie, ma giungeva a conoscere nomi, indirizzi e abitudini dei neofascisti che, in questo modo, divenivano potenziali bersagli per azioni mirate. Controinformazione e violenza politica furono, dunque, intimamente legate.

3. Schedare il nemico Nel maggio del 1971, «Lotta Continua» scriveva che l’azione d ’inchiesta, denuncia e propaganda sistematica prepara il terreno per un’organizzazione perm anente di autodifesa. [...] Se im postata correttamente [.. .] la m obilitazione contro i n eo­ fascisti diventa un’occasione fondam entale per organizzarci e armarci contro tutti i padroni38.

37 Sulle fasi di radicalizzazione cfr. D. della Porta, M ovim enti col­ lettivi e sistema politico in Italia, 1960-1995, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 58-62. 38 Lotta Continua, Convegno regionale lombardo. Documento prepa­ ratorio. Prendiamoci la città. Linea e programma della lotta di massa,

Milano, 3-4 luglio 1971, pp. 7-17.

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Nel novembre del 1970, Lotta continua lanciò la cam­ pagna «Prendiamoci la città»39. Lo slogan sintetizzava la decisione del gruppo di portare la lotta rivoluzionaria nelle periferie. Il programma «Prendiamoci la città» pre­ vedeva la formazione di una «base rossa», termine mu­ tuato dalla guerriglia maoista, che indicava una zona li­ bera dal controllo dello stato e affrancata dalla presenza dell’estrema destra. Una simile visione fu condivisa da altri gruppi della sinistra extraparlamentare e in particolar modo da Potere operaio, secondo cui solamente nei quartieri era «possibile costruire il partito, come l’unico strumento per la presa del potere politico da parte degli operai e dei proletari, come l’unica arma per tramutare l’odio in distruzione»40. Era necessaria, allora, la bonifica del territorio dalla presenza dei nemici politici. Tale con­ flittualità era venuta crescendo e si era alimentata in con­ testi urbani, al Nord come al Sud del paese, che per tutta la durata degli anni Settanta furono percorsi da profondi cambiamenti e da grandi tensioni sociali41. Fu nei quartieri delle metropoli che si verificò il più capillare lavoro di controinformazione dell’estrema sini­ stra e fu più evidente e immediato il legame con la vio­ lenza. La campagna di denuncia, infatti, fu estesa a tutti i possibili nemici di classe. Nei quartieri chiunque avrebbe dovuto «sentirsi sotto gli occhi dei proletari»: tutto l’esercito dei servi e parassiti, capisquadra, capireparto, ruffiani, crumiri, padroni di case, negozianti, ditte, im prese che sfruttano il p opolo, presidi, professori, maestri, sindaci e consi­ glieri com unali (professionisti della politica), funzionari di par­ tito, sindacalisti, dirigenti, fino ad arrivare ai singoli individui i9 Prendiamoci la città, in «Lotta Continua», n. 20, 12 novembre 1970. 't0 Mozione approvata dall’esecutivo nazionale d i Potere Operaio nella riunione del 2-3 ottobre 1971, in «Potere Operaio», III, n. 44, novem­ bre 1971. 41 Cfr. G. Martinotti, La nuova morfologia sociale della città, Bolo­ gna, Il Mulino, 1993.

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che popolano i quartieri e le case di proletari ma non fanno parte del proletariato42.

La presenza nei quartieri del Movimento sociale e delle altre organizzazioni di estrema destra era temuta, in­ fine, perché si credeva che in caso di colpo di stato i ne­ ofascisti avrebbero collaborato con i golpisti nell’occupare i centri chiave delle città e aiutato i militari a individuare e neutralizzare le forze rivoluzionarie quartiere per quar­ tiere. Questa paura nasceva in realtà dal fraintendimento del fatto che il Movimento sociale, nel giro di pochissimo tempo, aveva allargato la sua presenza territoriale nelle aree urbane, aprendo diverse sezioni: ciò fu invece scam­ biato per capillare strategia di provocazione e le inaugu­ razioni delle sedi del Msi divennero occasioni di scontro. Nelle grandi città, dunque, si cominciò a delineare una tipologia di scontro basata sulla divisione del territo­ rio in precisi confini delimitati dalla presenza delle sedi dei vari partiti e movimenti, negli anni successivi desti­ nata a regolare le modalità della violenza tra neofascisti e sinistra extraparlamentare. Con logica di tipo militare, nella realtà del territorio urbano si creò un fragile equi­ librio, sempre incline a infrangersi, basato sulla reciproca deterrenza tra militanti di destra e di sinistra. Il ferimento dell’uno poteva portare a un’azione di rivalsa da parte degli altri, e viceversa, in un ciclo di azioni e ritorsioni di cui, oggi, è difficile ricostruire il filo. Il ricorso alla schedatura mostrò ben presto il suo potenziale degenerativo divenendo appannaggio dei soli servizi d ’ordine. La raccolta di informazioni divenne pro­ pedeutica alla costituzione di veri e propri archivi in cui confluirono centinaia di schede sugli avversari. Nel giro di pochissimo tempo, infatti, i gruppi della sinistra extra­ parlamentare furono in grado di raccogliere informazioni a livello di massa. 42 Lotta continua, Convegno regionale lombardo. Documento prepa­ ratorio. Prendiamoci la città, cit., pp. 18-20.

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Il Movimento sociale, ad esempio, aveva convocato a Roma, per il 18 gennaio 1973, un suo congresso na­ zionale. Pochi giorni prima, il 12 gennaio, «Lotta Con­ tinua», distribuì come supplemento al quotidiano un libretto, firmato anche da Avanguardia operaia e dal G ruppo Gramsci, intitolato Basta con i fascisti. Inchie­ sta sullo squadrismo a Roma, 18 gennaio bandiere rosse a Roma4). Il documento conteneva al proprio interno una mappa delle zone considerate luoghi d ’azione dei gruppi neofascisti. Di essi veniva fornito, allo stesso tempo, un lunghissimo elenco di nominativi comprendente gli indi­ rizzi di abitazioni, l’età, le attività politiche e le sezioni d ’appartenenza. Nella pubblicazione compariva, inoltre, secondo una logica di tipo militare, la mappa di tutti i punti di ritrovo da dove si supponeva partissero le azioni contro gli avversari politici o, viceversa, nei quali ci si riuniva per le esigenze di difesa dagli attacchi esterni: In caso di emergenza o di mobilitazione per azioni, i vari nuclei si raggruppano nel modo seguente (l’elenco non è com­ pleto): - Alla sezione della Balduina (viale delle Medaglie d’oro 128/c) confluiscono i seguenti nuclei: Prati, Flaminio, Monte Mario, Primavalle, Aurelio. - Alla sezione Nomentano-Italia (via Livorno 1) i nuclei: Trieste, Parioli, Talenti, Montesacro, Tufello, Ponte Mammolo, Portonaccio. - Alla sezione Monteverde Nuovo (via Vidaschi 10) i nu­ clei: Trullo, Ardeatino, Garbatella, Gianicolense. - Al circolo studentesco (via Noto 7) i nuclei: Tuscolano, Appio, Quadraro, Centocelle, Prenestino, Torpignattara, Istria e Dalmazia44.

43 Cfr. Basta con i fascisti. Inchiesta sullo squadrismo a Roma, 18 gennaio bandiere rosse a Roma, supplemento a «Lotta Continua», 12 gennaio 1973. 44 Basta con i fascisti. Inchiesta sullo squadrismo a Roma, cit., p. 37. Le sezioni del Msi vennero raggruppate, allo stesso modo, in quattro grandi zone, nelle quali erano state accorpate le sedi di diversi quar­ tieri.

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L’impiego della schedatura introdusse un cambia­ mento nella fenomenologia della violenza che contrap­ poneva il neofascismo e l’estrema sinistra. Agli scontri di strada e di piazza, infatti, si aggiunse lo stillicidio di aggressioni mirate. Tra il 1971 e il 1972 si registrarono decine di attacchi ai singoli, in special modo da parte dell’estrema destra, con, nei soli primi mesi del 1971, cinque feriti gravi tra i dirigenti delle federazioni co­ muniste di Parma, Roma, Bari e Agrigento45. Partico­ larmente cruente e temute furono le aggressioni sotto le abitazioni private dei giovani del movimento studente­ sco46. Nell’estrema sinistra, tali iniziative produssero una reazione uguale e contraria. Nel gennaio del 1971, ad esempio, Pino Rauti, accusato di essere coinvolto nella strage di piazza Fontana, fu aggredito sotto la propria casa di Roma. L’agguato era stato preceduto da scritte di minaccia, comparse nelle vie del quartiere dove risiedeva il dirigente missino47. Stessa sorte toccò ad Adamo Degli Occhi, uno degli esponenti di spicco della Maggioranza silenziosa (implicato nell’attività del gruppo terroristico di estrema destra Movimento di azione rivoluzionaria), assa­ lito per strada, il 17 gennaio 1973 a Milano, da un com­ mando di estrema sinistra48.

45 Cfr., ad esempio, le cronache Aggredito dai fascisti dirigente co­ munista, in «l’Unità», 11 gennaio 1971; Forte protesta a Bari per l'at­ tentato fascista contro i dirigenti del Pei, in «l’Unità», 13 febbraio 1971 e Agguato fascista al compagno Attardi, in «l’Unità», 5 giugno 1971. 46 Cfr., ad esempio, la cronaca Aggredito in casa dai fascisti, in «l’Unità», 8 marzo 1970. 47 Cfr. Aggressione comunista contro Pino Rauti, in «Il Secolo d’Ita­ lia», 14 gennaio 1971, e Colpa nostra non è ma della metropoli tentaco­ lare, in «Lotta Continua», n. 2, 29 gennaio 1971. 48 Cfr. I figli dell’odio. Milano: la delinquenza rossa sfida la città, in «Il Candido», VI, n. 5, 1° febbraio 1973. Sulla compromissione di Adamo Degli Occhi con il Mar, cfr. l’inchiesta di M. Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Fontana a piaz­ za della Loggia, Milano, Rizzoli, 2008, pp. 184-185.

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Nella sinistra extraparlamentare, il ricorso alle ag­ gressioni mirate segnò un importante passaggio. I luoghi dello scontro sociale - come le fabbriche, le università, le scuole, i quartieri - non furono più il terreno privi­ legiato della violenza, così come cambiò la dimensione spaziale del conflitto, non più focalizzato esclusivamente nella piazza, solo pochi anni prima, invece, fonte di le­ gittimazione per l’estrema sinistra. Chi era in grado di «controllare» la piazza poteva farlo perché forte della partecipazione popolare alle proprie battaglie. Non a caso il ricorso alle aggressioni mirate e la scelta della «strada» come luogo privilegiato dello scontro con l’estrema destra coincisero con una maggiore esaltazione della violenza d’avanguardia rispetto a quella di massa. Transizione, questa, segnata dalla morte del commissario Luigi Cala­ bresi, vittima di un agguato sotto la sua abitazione il 17 maggio 1972. L’omicidio Calabresi fu la prima occasione in cui, nelle principali testate di estrema sinistra, si parlò aper­ tamente di terrorismo e di lotta armata. Vero è che alla fine di questo lungo e travagliato dibattito, i più impor­ tanti gruppi extraparlamentari ribadirono la propria di­ stanza dalle formazioni armate. Il chiarimento teorico, tuttavia, ebbe pochi effetti nella pratica della violenza, anche perché, se veniva rifiutato il modello delle Brigate rosse, ritenuto elitario e autoreferenziale, era accolto in­ vece quello dell’esercito repubblicano irlandese. La pro­ spettiva rimaneva quella della guerriglia di lunga durata, del progressivo coinvolgimento delle masse nello scontro con lo stato. 4. Conclusioni Sul terreno della lotta ai neofascisti iniziò, dunque, il processo di specializzazione e di organizzazione della vio­ lenza che avrebbe portato, di lì a poco, i servizi d ’ordine della sinistra extraparlamentare a rendersi autonomi e in­ dipendenti dai vertici delle rispettive organizzazioni. L’an322

tifascismo militante fornì l’occasione per creare le prime strutture clandestine, in parte confluite, negli anni suc­ cessivi, nelle file dei gruppi terroristici di sinistra. D ’altro canto, le Brigate rosse, fin dalla loro comparsa, accele­ rarono il loro progetto rivoluzionario non tanto nel con­ flitto sociale, quanto piuttosto in una concezione pretta­ mente militare dell’antifascismo militante, dando origine a numerosi attentati e agguati contro esponenti dell’estre­ mismo di destra, fino all’uccisione, il 16 giugno 1974, di due esponenti del Movimento sociale di Padova, pochi giorni dopo la strage di Brescia (28 maggio)49. La schedatura degli avversari politici durò a lungo nel tempo ed emerse in contesti particolarmente dramma­ tici. Plichi di fogli con i nomi dei militanti neofascisti del quartiere di Primavalle furono ritrovati in casa di Achille Lollo, uno dei tre attivisti di Potere operaio imputato per l’omicidio dei fratelli Mattei del 16 aprile 1973. In due casi di omicidio politico, quello dei due militanti della sinistra extraparlamentare milanese Fausto Tinelli e L o ­ renzo Iannucci, uccisi il 18 marzo 1978 da terroristi di destra dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), e quello del giovane simpatizzante dei circoli autonomi romani Valerio Verbano, vittima, ancora una volta, di un agguato com­ piuto dai Nar il 22 febbraio 1980, dalle autorità giudizia­ rie venne indicata, come possibile movente di questi cri­ mini, la preparazione di lavori di controinformazione con la compilazione di schede che avrebbero riguardato estre­ misti e terroristi di destra50. Furono le indagini legate all’omicidio di Sergio Ramelli, giovane di destra, morto a Milano il 29 aprile 1975, un mese e mezzo dopo essere stato aggredito da un gruppo di aderenti ad Avanguardia operaia, a rivelare la 49 Cfr. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit., pp. 251-258. 50 Cfr. D. Biacchesi, Fausto e laio. La speranza muore a diciott’anni, Milano, Baldini & Castoldi, 1996, pp. 71-87, e P. Adriano e G . Cingolani, Corpi di reato. Quattro storie degli anni di piombo, Ancona-Milano, C osta & Nolan, 2000, pp. 149-177.

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portata e l’importanza che la schedatura degli avversari politici rivestì in quegli anni51. Dieci anni dopo, infatti, il 30 dicembre 1985, i magistrati rinvennero, a Milano, in un abbaino frequentato precedentemente da esponenti del servizio d ’ordine e della controinformazione di Avan­ guardia operaia, una cospicua documentazione composta da migliaia di schede, fotografie, annotazioni, dovute ad appostamenti, con studio di abitudini e indicazioni di tar­ ghe, descrizioni di locali pubblici e di sedi politiche52. La drammatica sequenza di questi omicidi, dunque, fu l’epilogo di una decennale conflittualità che vide con­ trapposti neofascisti e militanti di sinistra. In origine, la schedatura degli avversari politici rispecchiò il timore dei gruppi extraparlamentari di una svolta autoritaria all’in­ terno del paese, di cui i neofascisti avrebbero costituito un fondamentale tassello. Proprio queste considerazioni furono alla base dell 'escalation di violenza che si regi­ strò nella prima metà degli anni Settanta. Il perdurare negli anni di questo scontro e la degenerazione di tale conflitto verso forme di violenza armata, nei contesti nei quali il confronto tra neofascisti e militanti della sinistra extraparlamentare rivestì le forme più virulente, porta­ rono tale fenomeno ad assumere vaste proporzioni e no­ tevole pervasività tanto da divenire, nell’ultimo scorcio del decennio, uno degli elementi costitutivi del terrori­ smo. Le schedature degli avversari politici, come abbiamo visto, rappresentano, in questa prospettiva, una fonte privilegiata con la quale interpretare questo fenomeno. Emerge, infatti, dalla lettura di questa documentazione, 51 Cfr. G . G iraudo, A. Arbizzoni, G . Buttini, F. Grillo e P. Severgnini, Sergio Ramelli. Una storia che fa ancora paura, Milano, Effedieffe, 1997. 52 Cfr. Tribunale di Milano, sentenza/ordinanza del giudice G uido Salvini contro Azzi N ico e altri, marzo 1995 e specificamente Docu­

mentazione rinvenuta nell’Abbaino di viale Bligny 42, in particolare il c.d. Documento Azzi, l’appunto relativo all'arsenale di Camerino e il ruolo di Renzo Rossellini.

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una predisposizione all’organizzazione della violenza, un comportamento diffuso e condiviso che si esplicò nella raccolta di informazioni sui propri avversari, nel con­ trollo del proprio territorio o nella attuazione di aggres­ sioni o agguati. U n’assuefazione alla violenza, un’abitu­ dine all’identificazione del nemico da conoscere, studiare ed eventualmente colpire, che spiega in parte non solo il clima nel quale maturò la scelta della lotta armata, ma, anche, il diffondersi, sul finire degli anni Settanta, di de­ cine di formazioni armate minori che, nel riflusso dei mo­ vimenti collettivi, si strutturarono sul modello delle orga­ nizzazioni terroristiche.

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L o r e n z o B o si e D o n a t e l l a d e l l a P orta

PERCORSI DI M ICRO M O BILITA ZIO N E VERSO LA LO TTA ARMATA

Questo saggio si propone di contribuire alla rifles­ sione sugli anni Settanta in Italia, analizzando i percorsi di micromobilitazione che spinsero un numero non tra­ scurabile d ’individui a scegliere di far parte delle for­ mazioni armate della sinistra extraparlamentare1. Nel ri­ costruire alcuni percorsi di micromobilitazione alla lotta armata durante gli anni Settanta, il nostro interesse non è quello d ’individuare le cause sistemiche o tracciare «il profilo sociopsicologico “del perfetto brigatista”» 2. L’ana­ lisi sociologica dei percorsi di micromobilitazione degli ex militanti armati è, invece, per noi uno strumento fon­ damentale per iniziare a ricostruire attraverso le testimo­ nianze di coloro che scelsero di aderire alla lotta armata la storia politica e sociale dell’Italia di quegli anni. Le te­ stimonianze sono, quindi, utili per analizzare la soggetti­ vità dei protagonisti della lotta armata. La letteratura sulla violenza politica e sul terrorismo ha per lo più spiegato come mai gli individui scelgano forme di violenza politica attraverso modelli monocau­ sali3, con attenzione a:

1 Più di 4.000 persone sono state indagate per reati connessi alle attività delle organizzazioni clandestine di sinistra. Se 68 furono gli at­ tivisti armati che morirono fra il 1969 e il 1989, 128 furono le vittime uccise da questi stessi gruppi. Tra le fonti utilizzate: D. della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna, Istitu­ to Carlo Cattaneo, 1984; Aa.Vv., Progetto Memoria. La mappa perduta, Roma, Sensibili alle foglie, 2006; C. Schaerf, G . D e Lutiis, A. Silj, S. Argentini, E. Bellucci e F. Cariucci, Venti anni di violenza politica in Italia, Roma, Isodarco, 1992. 2 A. Orsini, Anatomia delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, p. 7. 5 Per una rassegna della letteratura sull’argomento, cfr. J . Victoroff

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- Patologie caratteriali o comuni esperienze nella so­ cializzazione primaria (mai confermate in ricerche empi­ riche). - Trasformazioni strutturali (economiche/sociali/politiche) che hanno prodotto sradicamento dei gruppi inter­ medi e, di conseguenza, aggressività (mai confermate in ricerche empiriche). - Scelta razionale di individui che cercano, attraverso la lotta armata, opportunità favorevoli per risolvere situa­ zioni d’esclusione sociale o più in generale di povertà. - Mobilitazione individuale in ambienti densi di rela­ zioni sociali. - Mancanza di opportunità per manifestare il proprio dissenso in altri modi di fronte alla chiusura delle oppor­ tunità politiche (ad esempio, a causa di forme particolar­ mente intense di repressione del dissenso). Queste spiegazioni, anche nelle loro forti differenze, partono dall’assunto che i militanti armati siano gruppi omogenei d ’individui che generalmente seguono simili percorsi di mobilitazione verso la lotta armata. Nella realtà, la situazione è molto più complessa. Non esiste un chiaro profilo che permetta d ’identificare potenziali indi­ vidui che scelgono la lotta armata. Non esiste nemmeno un unico fattore causale o un comune background so­ ciale che possano spiegare la partecipazione individuale ai gruppi armati4. In questo contributo, cercheremo quindi di individuare alcuni principali percorsi di micromobili­ tazione verso la lotta armata, ricostruendo l’intreccio di motivazioni individuali, contesto politico-sociale (tempo/ spazio), eventi critici e tipologia stessa delle relazioni fra gli individui mobilitati. Sulla base delle motivazioni ad­ dotte dagli ex militanti armati, che abbiamo rintracciato e A. Kruglanski, Psychology of Terrorism, New York, Taylor and Fran­ cis, 2009. 4 J . Viterna, Pulled, Pushed, and Persuaded: Explaining Women's Mobilization into Salvadoran Guerrilla Army, in «American Journal of Sociology», 112(1), 2006.

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attraverso fonti orali precedentemente raccolte5 e autobiografie dei medesimi6, emergono tre percorsi dominanti attraverso i quali matura la decisione di aderire alla lotta armata: un percorso ideologico, un percorso strumentale e un percorso solidaristico7. Mentre alcuni meccanismi sono comuni ai tre percorsi, le motivazioni individuali dominanti sono differenti, così come lo sono l’interpre­ tazione del contesto politico-sociale, i tipi di relazioni che sono mobilitate, le dinamiche del processo di ade­ sione alla lotta armata nonché la sua velocità8. Nella parte 5 L e interviste utilizzate sono state ottenute consultando l’archivio dell’istituto Carlo Cattaneo di Bologna, contenente 28 storie di vita con ex militanti armati dissociati, e il lavoro di D. Novelli e N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Milano, Baldini C a­ stoldi Dalai, 2007, che contiene le testimonianze di 18 ex militanti rac­ colte durante un ciclo seminariale svoltosi, fra il 1985 e il 1987, nelle Carceri Nuove di Torino. Nei dati che utilizziamo non si menziona la maggioranza di coloro che, militanti nelle formazioni della sinistra ex­ traparlamentare, non hanno scelto la lotta armata in quegli anni. Q ue­ sto tema è stato in parte affrontato da Isabelle Sommier nel suo saggio in questo volume. Tale mancanza è giustificata dal fatto che il nostro interesse è conoscere il perché e il come gli individui si mobilitano nelle organizzazioni armate e non quali particolari individui compiono questa scelta o meno. 6 A. Franceschini, Mara Renato e io, Milano, M ondadori, 1988; P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, Milano, Bompiani, 2008; B. Balzerani, Compagna luna, Milano, Feltrinelli, 1998; V. Morucci, La peggio gioventù, Milano, Rizzoli, 2004; M. Moretti, Brigate rosse. Una storia italiana, intervista di C. M osca e R. Rossanda, Milano, Anaba­ si, 1994; R. Curcio, A viso aperto. Intervista di Mario Scialoja, Milano, M ondadori, 1993; S. Segio, Una vita in Prima Linea, Milano, Rizzoli, 2006; E. Fenzi, Armi e bagagli. Un diario delle Brigate Rosse, Genova, Costa & Nolan, 1988. 7 Se è vero che possiamo individuare gli stessi percorsi (ideologico, strumentale e solidaristico) anche nella fase di de-mobilitazione dalla lotta armata, questo però non implica che coloro che si mobilitano attraverso un percorso seguiranno lo stesso percorso nella loro uscita dalla lotta armata, ogni militante armato che abbiam o studiato attra­ verso le fonti in nostro possesso mostra un proprio percorso partico­ lare rispetto agli altri. I tre percorsi che individuiamo devono quindi essere intesi come idealtipici. 8 L . Bosi, Explaining Pathways to Armed Activism in thè Provisio­ nal Ira, 1969-1972, in «Social Science H istory», in stampa.

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conclusiva cercheremo di evidenziare i campi d ’indagine verso i quali con più urgenza dovrebbe indirizzarsi l’ana­ lisi storica e sociologica sugli anni Settanta in Italia. Un nota metodologica è d ’obbligo. Considerando che gli intervistati, ma anche gli autori di numerose autobiografie, ricordavano avvenimenti successi dieci ma an­ che venti o trenta anni prima è ragionevole chiedersi se queste fonti non presentino visioni distorte da interessi presenti, memoria selettiva e autogiustificazionismo9. In primo luogo, si può menzionare che la critica d ’inaffidabilità rivolta alle testimonianze orali (interviste, storie di vita, focus group) può essere facilmente rivolta anche alle fonti scritte10. Inoltre, l’effetto memoria - seppure con­ sistente per quanto riguarda la ricostruzione di eventi specifici - non sembra essere così rilevante quando l’obbiettivo è ricostruire percorsi più ampi. Recentemente, Robert White ha confrontato interviste condotte a diversa distanza di tempo dalle fasi del conflitto nordirlandese da lui studiato, rilevando un ampio grado di coerenza11. Infine, le triangolazioni tra varie fonti (a cui siamo ri­ corsi nella nostra ricerca, utilizzando insieme a interviste e biografie anche fonti giudiziarie, giornalistiche, d ’archi­ vio) riducono quei potenziali effetti distorsivi. È doveroso aggiungere, infine, che il nostro obbiettivo, di spiegare i percorsi individuali dei militanti armati negli anni Set­ tanta utilizzando alcune loro testimonianze come prima fonte d ’analisi, non deve essere considerato come una

9 A. Bottger e R. Strobl, Potentials and Limits of Qualitative Me­ thods for Research on Violence, in W. Heitmeyer e J . H agan (a cura di), International Handbook of Violence Research, Dordrecht, Kluwer Academic Press, 2003, pp. 203-1218. 10 D. della Porta, Storie di vita e movimenti collettivi. Una tecnica per lo studio delle motivazioni alla militanza politica, in «R assegna ita­ liana di sociologia», 4, 1987; R. Catanzaro, ideologie, movimenti, terro­ rismi, Bologna, Il Mulino, 1990. 11 R. White, «I’m not too sure what I told you last time»: Metho­

dological note on accounts from high-risk activists in Irish Republican Movement, in «M obilization», 12(3), 2007.

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sorte di connivenza con le attività delle organizzazioni clandestine di cui questi attori fecero parte12. 1. Percorso ideologico Il percorso che definiamo come ideologico è comune alla maggioranza di quei militanti che scelsero la lotta ar­ mata nel quinquennio 1969-73. Forti legami familiari o co­ munque territoriali con il mito della guerra partigiana sono fattori ricorrenti per coloro che scelsero la lotta armata nei primissimi anni Settanta. Un ex militante, che nel 1971 en­ trò nelle Brigate rosse, ricorda a questo proposito: L’elemento dell’antifascismo è una cosa molto forte, qui, per noi brigatisti di quel tempo lì, soprattutto in questa zona, poi non so, gli altri non tanto, forse gli emiliani sì, i reggiani, quel gruppo di Reggio Emilia, Franceschini e gli altri. Per i milanesi no1’ . Gli stretti legami con la tradizione della resistenza fun­ zionarono come lente di lettura della realtà e s’intreccia­ vano quindi con il sentirsi portatori di una verità ignota ai più. Nel nuovo contesto di forte conflittualità politica e so­ ciale post-Sessantotto urgeva, secondo questi militanti, co­ stituirsi in gruppi armati per affrontare una fase potenzial­ mente ritenuta rivoluzionaria. L’adesione ad «una violenza d’avanguardia» doveva rappresentare una tappa di un inar­ restabile «processo rivoluzionario» iniziato con la guerra di liberazione nazionale e tradito da quello stato che usava la strategia della tensione per reprimere la protesta democra­ tica. Questa situazione stimolò una retorica del momento storico maturo per completare il lavoro iniziato dai parti­ 12 J . Esseveled e R. Eyerman, Which Side Are You On? Reflection of Methodological Issues in thè Study of «Distasteful» Social Movernents, in M. Diani e R. Eyerman (a cura di), Studying Collective Ac­ tion, Newbury Park, Sage Publications, 1992. 13 Storia di vita n. 5, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, 1987, cicl., p. 102.

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giani e tradito dal Partito comunista. Prospero Gallinari nella sua autobiografia lamenta che, negli anni Cinquanta e Sessanta, erano stati «traditi gli ideali, tradite le speranze, traditi gli sforzi che, negli anni della resistenza e negli anni immediatamente successivi, tanto erano costati»14. La scelta della lotta armata per coloro che aderiscono a questo percorso è percepita come un dovere morale. Contribuire alla radicalizzazione del conflitto è presentato da questi militanti come un obbligo di fronte a loro stessi e di riflesso al mondo in cui erano cresciuti15. La scelta della lotta armata, pur seguendo un processo graduale e lento, rappresentava il logico proseguimento di una scelta insita alla loro socializzazione con la politica. Per questa ragione la decisione di aderire a gruppi clandestini non era percepita come una rottura, ma come una continua­ zione di un loro permanente attivismo dentro subculture radicali che ritenevano la lotta armata un possibile reper­ torio d’agire politico. La repressione dello stato non fun­ zionò da elemento disvelatore, capace di produrre una «perdita dell’innocenza», come fu invece per altri mili­ tanti di quegli anni. Per questi attivisti la violenza dello stato era una conferma della sua natura ingiusta e figlia del tradimento dei valori della resistenza. La violenza di stato non viene quindi letta come un fattore che delegit­ tima la loro mobilitazione iniziale, è per questi attivisti in­ vece un’opportunità per spingere parti più larghe del mo­ vimento verso le loro posizioni16. 14 Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit., p. 36. Sul Pei e le organizzazioni armate di sinistra cfr. E. Taviani, Pei, estremismo di si­ nistra e terrorismo, in G . D e Rosa e G . Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, voi. I: Sistema politico e isti­ tuzioni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. 15 Cfr. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit.; F rancescani, Mara Renato e io, cit. 16 A. Ventrone, Introduzione, in Id. (a cura di), I dannati della rivo­

luzione. Violenza politica e storia d’Italia negli anni Sessanta e Settanta, Macerata, Eum , 2010; V. Vidotto, Violenza politica e rituali della vio­ lenza, in Ventrone, I dannati della rivoluzione, cit.

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Un numero considerevole di coloro che fondarono i primi gruppi armati della sinistra extraparlamentare hanno seguito questo percorso di avvicinamento. Questo non significa comunque che altri individui che seguirono il percorso ideologico non si mobilitarono anche succes­ sivamente durante lo stesso decennio, ma che la presso­ ché assenza degli altri due percorsi nella prima fase della radicalizzazione, agli inizi degli anni Settanta, rese coloro che seguirono il percorso ideologico egemoni all’interno dei gruppi armati e capaci di conquistare posizioni di lea­ dership influendo in modo rilevante sulla stessa natura delle organizzazioni armate.

2. Percorso strumentale Le esperienze di repressione sono invece importanti ele­ menti catalizzatori per coloro che seguirono un percorso strumentale. Questi militanti tendono infatti a convincersi, attraverso lunghe esperienze di partecipazione politica, dell’impossibilità di cambiare il sistema in modo pacifico17. L’adesione alla lotta armata maturò qui all’interno di un’ot­ tica strategica, imponendosi come forte momento di rottura con i repertori di protesta ai quali i militanti avevano prece­ dentemente creduto. Le testimonianze evidenziano la con­ vinzione di una necessità di un salto nel livello di partecipa­ zione individuale, percepito come indispensabile a ottenere i cambiamenti desiderati. Nelle parole di Marco Fagiano: i giorni della morte di Zibecchi a Milano, Boschi a Firenze e Miccichè a Torino furono il momento in cui la rabbia e il desi­ derio di ribellione giunsero a possederci tutti [...] Quelle morti ci diedero una strana impressione, quasi come se non fosse più possibile tornare indietro18. 17 A. Melucci, L’invenzione del presente, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 120. 18 Novelli e Tranfaglia, Vite sospese, cit., p. 287.

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Se una certa continuità nella mobilitazione verso i gruppi armati sembra caratterizzare coloro che hanno seguito un percorso ideologico, per coloro che segui­ rono un percorso strumentale notiamo invece svolte, me­ diazioni, scelte successive. Il processo di conversione da forme convenzionali di partecipazione politica alla lotta armata avviene in seguito a eventi scatenanti che hanno un ruolo cruciale nella storia degli attivisti. Questi mili­ tanti infatti sembrano mostrare un’evoluzione del proprio coinvolgimento politico dettata da specifiche letture del cambiamento del contesto politico tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, sia a livello nazio­ nale che internazionale. L’incubo di un colpo di stato au­ toritario imminente19 (vedi Cile nel 1973) e la percezione dell’impossibilità di cambiare il sistema politico in ma­ niera pacifica giustificavano per questi militanti l’idea che la lotta armata fosse l’unico repertorio d ’azione capace di portare un cambiamento nella nuova situazione poli­ tica di quegli anni. Per coloro che seguirono un percorso strumentale il ricorso alla lotta armata divenne quindi un’arma legittima del conflitto politico di fronte a uno stato che praticava la strategia della tensione. Divenne quindi, come sostiene un ex militante armato, «giusto, lì in Italia, contro chi faceva la strage di stato, mettere in piazza la violenza»20. La strage di piazza Fontana costituì, infatti, per co­ loro che aderirono alla lotta armata attraverso un per­ corso che chiamiamo strumentale, una sorta di «perdita dell’innocenza». «N e derivò un teorema molto strin­ gente, quello dell’indissolubile integrazione tra apparati dello stato, potere economico, ceto politico democri­ stiano, e attivisti fascisti»21. Un ex militante di Potere 19 M. Lazar e M.-A. Matard-Bonucci, Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano, Milano, Rizzoli, 2010. 20 Storia di vita n. 27, ex militante delle Br a Roma, raccolta da G. D e Lutiis, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, 1987, del., p. 18. 21 L. Manconi, Il nemico assoluto. Antifascismo e contropotere nella

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operaio, entrato nelle Brigate rosse nel 1974, ricorda ad esempio: La strage di piazza Fontana nel dicembre del 1969 segna per me una svolta decisiva perché chiude il circuito tra le isti­ tuzioni, lo stato e la destra che avevo già imparato a conoscere per la rilevanza delle storie locali padovane. [...] Il golpe in Cile non farà che avallare e accelerare drasticamente le discus­ sioni su un tema che nel Veneto investiva già da tempo tutta la sinistra intorno al golpismo e allo stragismo, al rapporto tra destra, centrali estere e apparati dello stato. La vita quotidiana stessa è intessuta di questo clima: ricordo periodi con lo zaino pronto sul letto, falsi allarmi per un giornale radio non tra­ smesso, catene di telefonate più o meno rassicuranti22. Il reclutamento nelle organizzazioni clandestine di co­ loro che inseriamo nel percorso strumentale passa attra­ verso contatti personali con attivisti che fanno già parte del gruppo armato. Sono relazioni già presenti nei prece­ denti percorsi di attivismo politico23. I militanti di questo percorso entrarono a vari stadi dello sviluppo delle orga­ nizzazioni armate. 3. Percorso solidaristico Molti di coloro che scelsero la lotta armata alla fine degli anni Settanta, e più specificamente dopo il ’77, entrarono nei gruppi armati in età molto più giovane e con minore esperienza politica di coloro che seguirono i primi due percorsi mobilitanti. Si socializzarono alla politica in età adolescenziale o postadolescenziale, in un clima di pessimismo culturale e crisi economica, fre­ quentemente all’interno dei servizi d’ordine dei gruppi fase aurorale del terrorismo di sinistra, in R. Catanzaro (a cura di), La politica della violenza, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 59. 22 S. Ronconi, in Novelli e Tranfaglia, Vite sospese, cit., p. 160. 23 Storia di vita n. 11, ex militante delle Br in Liguria, raccolta da G. D e Lutiis, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, 1987, cicl., p. 57.

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extraparlamentari di sinistra, al cui interno ebbero le loro prime esperienze con la violenza, in particolare ne­ gli scontri con la polizia e con la destra radicale24. Quello che caratterizza questo percorso è l’assoluta rapidità dei passaggi dei suoi militanti, l’impazienza, la voglia di bru­ ciare le tappe che portarono diversi giovani alla lotta ar­ mata. Gli scontri quotidiani con la destra radicale, nella seconda metà del decennio, svilupparono una concezione esistenziale della violenza che viene accettata come nor­ male strumento della politica in una fase discendente della protesta25. Paolo Corniglia, militante di Prima linea, in pochi mesi, dall’autunno del 1977 all’inizio del 1978, partecipa alle prime manifestazioni ed entra nell’organiz­ zazione clandestina: Il mio primo corteo è datato 1° ottobre 1977; [...] Non fu un inizio facile, e il corteo del 1° ottobre fu un esordio pe­ sante. La causa, ovvero la morte di Walter Rossi a Roma, mi pareva più che giusta; mentalmente ero già dentro a quella logica del «colpo su colpo». La lotta armata non era ancora nei miei orizzonti, ma l’uso della violenza pareva a me assolu­ tamente legittimato; non cozzava contro un’etica, anzi faceva parte di un’etica, quella della parte «giusta» e delle necessarie risposte a chi «attaccava» [...] i compagni morti nelle manife­ stazioni e l’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, spin­ gevano noi tutti in una sola direzione. Dopo il corteo del 1° ot­ tobre altri ne seguirono: l’attività del collettivo della mia scuola si produceva nel sostenerli, e qualche volta si fece una specie di «picchetto»26. Antonio Savasta, entrato nelle Brigate rosse nel 1975, ricorda: 24 G . Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica de­ gli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Torino, Einaudi, 2009. 25 D. della Porta e S. Tarrow, Unwanted Children. Politicai Violence and thè Cycle of Protest in Italy. 1966-1973, in «European Journal of Politicai Research», 5, 1986, pp. 607-632. 26 Novelli e Tranfaglia, Vite sospese, cit., pp. 417-419.

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Mentre facciamo un attacco a una postazione della polizia c’è questa sparatoria da parte della polizia e muore questo ra­ gazzo e io l’ho vissuta proprio male, molto male. Ritorno da questi scontri la sera e poi la notte c’è stata una sparatoria in­ credibile perché quelli della sezione sono ritornati, non solo quelli della sezione ma in genere tutti sono ritornati armati e hanno fatto l’ira di Dio, cioè scontro a fuoco con la polizia, tanto è vero che sono stati feriti dei poliziotti con colpi d’arma da fuoco. La vivo in maniera drammatica perché è come se avessi raggiunto il tetto; lì ormai si era consolidata [l’opinione] che i bisogni fossero inalienabili, che non ci fosse una solu­ zione politica di questi bisogni. Ma quelli erano discorsi poli­ tici generali, io vivevo lì, in quel momento, quella situazione; c’erano delle persone che non avevano casa, dovevano avere una casa, potevo esserci io in qualsiasi momento in quella si­ tuazione e quindi mi sembrava assurdo, improponibile il di­ scorso di sparare su di noi, cioè di risolvere con la forza delle armi un problema scottante e grossissimo com’era quello della casa. E lì secondo me c’è stato il salto di risposta a questo pro­ blema; comincio a dire seriamente [che] il problema è che a questa cosa va risposto con un’organizzazione non solo sui bisogni ma politica, generale, armata, clandestina, e così via, e iniziano seriamente i primi discorsi di organizzazione clan­ destina non solo in funzione delle lotte ma in funzione della presa del potere27. Per questo percorso sono decisive le componenti di tipo emotivo-solidaristico. Coloro che seguirono un per­ corso solidaristico scelsero la militanza armata come una forma di difesa e per vendicare la loro comunità di fronte alle violenze fasciste. Affiora quindi una motivazione le­ gata al senso di appartenenza a un gruppo o, come le te­ stimonianze dei protagonisti di quegli anni hanno messo in luce, a una nuova famiglia. Molte cose non so spiegarle solo con l’analisi del mo­ mento, solo con la situazione di quella città o di quel territo­ 27 R. Catanzaro e L. Manconi, Storie di lotta armata, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 434.

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rio, di quale potere politico e quale condizione sociale [...] per quanto mi riguarda [si tratta] di emotività, di passione verso la gente che mi stava attorno28. La scelta di aderire alla lotta armata per coloro che abbiamo inserito nel percorso solidaristico è motivata da uri escalation del conflitto, interpretata come al di là della propria capacità di controllo. L’adesione alla lotta armata non viene legittimata in riferimento all’ideologia o come scelta strategica, ma come parte dell’esperienza quoti­ diana. L’adesione alla lotta armata è sentita come modo per difendere e vendicare la propria comunità. I giova­ nissimi militanti che tendono a seguire questo percorso vedono se stessi come coinvolti in una guerra; i compa­ gni di militanza vengono definiti come parte di una fami­ glia, sempre più chiusa rispetto all’esterno. La scelta della lotta armata è dunque più esistenziale che strumentale29. Quello che Vittorio Vidotto chiama il «nichilismo provvi­ sorio del fare»30. 4. Conclusioni I tre percorsi di micromobilitazione fin qui illustrati31 consentono due brevi osservazioni conclusive, una sulle or­ ganizzazioni della sinistra extraparlamentare negli anni Set­ tanta (livello meso) e l’altra sul contesto politico e sociale 28 Storia di vita n. 21, ex militante di PI a Firenze, raccolta da D. della Porta, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, 1987, cicl., p. 28. 29 Si veda il saggio di M. Grispigni in questo volume. 10 Vidotto, Violenza politica e rituale della violenza, cit., p. 54. 31 Simili percorsi di micromobilitazione verso la lotta armata sono stati individuati anche in relazione ad altri gruppi armati, cfr. la Provi­ sional Ira in Nord Irlanda (Bosi, Explaining Pathways, cit.); il Farabundo Marti National Liberation Front (Fmln) in E1 Salvador (Viterna, Pul­ led, Pushed, and Persuaded, cit.); l’Eta nei Paesi Baschi (R. Clark, The Basque Insurgents: Eta 1952-1980, Madison, University of Wisconsin Press, 1984); e Al Q aeda (O. Roy, Globalized Islam: The Search for a New Ummah, Columbia, Columbia University Press, 2004).

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dell’Italia di quegli anni (livello macro). La micromobili­ tazione all’interno delle formazioni armate seguì percorsi diversi anche in relazione al cambiamento delle strutture organizzative dei gruppi armati medesimi e ai tipi di re­ lazioni mobilitate. Nei primi anni Settanta, organizzazioni armate più centralizzate, formali e gerarchiche tendevano a reclutare militanti provenienti da un percorso di micro­ mobilitazione che corrispondeva a questo tipo di organiz­ zazione ed era in prevalenza quello ideologico. Con l’ulte­ riore radicalizzazione del conflitto dalla seconda metà degli anni Settanta le organizzazioni armate svilupparono invece strutture più decentrate e meno gerarchiche, che permi­ sero l’entrata di nuovi militanti che seguivano per lo più un percorso mobilitante di tipo solidaristico. Se il contesto politico tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta veniva percepito positivamente a fronte di una larga mobilitazione di differenti soggetti politici, la situa­ zione cambiò in modo radicale successivamente, facilitando l’entrata all’interno delle nascenti organizzazioni armate prima di coloro che aderirono a un percorso strumentale e poi di coloro che aderirono al percorso solidaristico. Numerosi e di notevole interesse sono gli interrogativi che ancora attendono una risposta in relazione allo studio dei percorsi di micromobilitazione per coloro che scelsero la lotta armata negli anni Settanta. Analisi più sistematiche sarebbero necessarie per controllare il collegamento tra percorsi di micromobilitazione e differenze sia di genere sia organizzative in relazione alle diverse formazioni ar­ mate. Ancora, interessante sarebbe guardare all’interazione tra percorsi e ruoli all’interno dei gruppi armati, ma anche alla provenienza territoriale (data soprattutto la rilevanza della storia locale nella spiegazione di fenomeni geografi­ camente concentrati). Soprattutto, in che misura delle di­ namiche generazionali sono presenti e rilevanti nella evo­ luzione delle organizzazioni clandestine in altri paesi?32 In­

32 L. Bosi e D. della Porta, Violenza politica: una introduzione, in «Partecipazione e Conflitto», 3, 2011, pp. 5-17.

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fine, vi sono ulteriori percorsi di micromobilitazione, oltre a quelli qui individuati? A questi e a ulteriori interrogativi una ricerca sistematica capace di utilizzare un numero maggiore di biografie di ex militanti armati dovrebbe in futuro prestare attenzione.

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V in c e n z o F il e t t i

PER UNA G E O G R A FIA D E L L A LO TTA ARMATA

La lotta armata promossa dalle organizzazioni della sinistra estrema, talora più sbrigativamente definita «ter­ rorismo rosso», fu l’espressione di un ampio progetto di eversione che ebbe la sua fase di incubazione tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. La com­ plessità della storia della lotta armata e le analisi sinora condotte forniscono alcune interpretazioni che delineano in modo relativamente esauriente la dimensione del feno­ meno. Allo stesso tempo, però, resta da definire un per­ corso metodologico in grado di mettere in relazione in modo univoco alcuni parametri quali-quantitativi. L a presente analisi - concentrandosi sulla dimensione territoriale del fenomeno negli anni tra il 1969 e il 19791 - si focalizza sugli aspetti quantitativi della lotta armata e in modo particolare sulla numerosità e sulla variabile temporale dei gruppi, degli eventi e delle motivazioni che hanno caratterizzato la storia di queste organizzazioni.

1 L a scelta di questo specifico arco temporale è dettata dal fatto che con il 1969, anno di inizio della stagione degli attentati e delle stragi, si accelerò, specie in risposta all’attentato di piazza Fontana, il processo di incubazione del terrorismo rosso, manifestatosi soprattut­ to con attentati dimostrativi all’interno delle fabbriche. Il 1979, invece, sancì l’avvio del declino delle organizzazioni di lotta armata, che, pur perpetrando ulteriori azioni terroristiche nel decennio successivo (l’ul­ timo omicidio delle Brigate rosse fu compiuto nel 1988), entrarono in una fase di forte autoaffermazione militarista per sostenere la controf­ fensiva dello stato seguita al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro nel 1978. Il 1979 (durante il quale furono uccisi l’operaio G u ido R os­ sa dalla colonna genovese delle Br e il giudice Alessandrini da parte di Prima linea) per le organizzazioni di lotta armata costituì un punto di non ritorno, accompagnato da forti contrasti interni e da un crescente isolamento, che ne innescarono il processo di dissoluzione.

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1. fonti e metodo Per la ricostruzione della dimensione territoriale e quantitativa del fenomeno della lotta armata sono stati messi a confronto - relativamente al periodo compreso tra il 1969 e il 1979 - i dati del Rapporto sul terrorismo2 curato da Mauro Galleni (1981), i risultati della ricerca dell’istituto Carlo Cattaneo dal titolo Cifre crudelP, il lavoro sui Venti anni di violenza politica in Italia 19691988, noto come Ricerca Isodarco4, il lavoro di approfon­ dimento sulla lotta armata di Donatella della Porta5 e, in­ fine, la ricerca Progetto Memoria. La mappa perduta\b. Attraverso la ricostruzione di una base dati, la com­ parazione e integrazione con altri studi specialistici7, il confronto e la verifica con le informazioni quali-quanti­ tative8 acquisite negli anni, è stato possibile tracciare una 2 M. Galleni (a cura di), Rapporto sul terrorismo, Milano, Rizzoli, 1981. 5 D. della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi ita­ liani, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, 1984. 4 C. Schaerf, G . D e Lutiis, A. Silj, S. Argentini, E. Bellucci e F. Cariucci, Venti anni di violenza politica in Italia, Roma, Isodarco, 1992. 5 D. della Porta, Il terrorismo di sinistra, Bologna, Il Mulino, 1990. 6 Aa.Vv., Progetto Memoria. La mappa perduta, Roma, Sensibili alle foglie, 2006. 7 D. della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico in Italia 1960-1995, Roma-Bari, Laterza, 1996; R. Catanzaro, La politica della violenza, Bologna, Il Mulino, 1990; R. Catanzaro, Ideologie movimen­ ti terrorismi, Bologna, Il Mulino, 1990; S. Tarrow, Democrazia e disor­ dine: movimenti di protesta e politica in Italia, 1965-1975, Roma-Bari, Laterza, 1990; M.F. Biscione, Il sommerso della repubblica, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Y. Michaud, La violenza, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992. 8 Aa.Vv., Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del ’77, Roma, O dradek, 2005; G . Bianconi, Eseguendo la sentenza, Torino, Einaudi, 2008; P. Casamassim a, Donne di piombo, Milano, Bevivino Editore, 2005; G . Galli, Piombo rosso, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2004; A. Grandi, Insurrezione armata, Milano, Bur, 2005; D . Novelli e N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Milano, Bal­ dini Castoldi Dalai, 2007.

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«m appatura» del fenomeno della lotta armata in corre­ lazione al periodo storico (1969-79) e alla localizzazione geografica. Analizzando i dati che fanno riferimento alle azioni compiute dai gruppi di lotta armata sono state definite le seguenti categorie (rielaborando gli approcci metodologici sinora proposti)9:

9 Galleni suddivide gli episodi di violenza in attentati alle cose, vio­ lenze, morti (numero di morti con riferimento ad attentati e stragi) e feriti in agguati (numero di feriti relativi agli agguati rivendicati dalle sigle dell’estremismo di sinistra e di destra). Oltre a questo quadro di sintesi, inoltre, è proposta un’ulteriore segmentazione, con la suddivi­ sione degli eventi in: a) attentati per matrice politica terroristica, sen­ za differenziazione tra attentati a cose e a persone: attentati rivendicati dai terroristi di destra e attentati rivendicati dai terroristi di sinistra; b) attentati per matrice politica (anche in questo caso senza differen­ ziazione tra attentati a cose e a persone): attentati compiuti da estre­ misti di sinistra, attentati compiuti da neofascisti, attentati compiuti da ignoti; c) violenze per matrice politica: violenze compiute da neofasci­ sti, violenze compiute da sinistra, violenze compiute da altri. Nello stu­ dio di della Porta e Rossi, invece, gli eventi (relativi al periodo storico 1969-1982) sono stati classificati in 4 categorie: i ) episodi di violenza: «informazioni relative agli episodi di violenza politica, episodi che le fonti utilizzate dichiarano riguardare soprattutto pestaggi, aggressioni, azioni di guerriglia, distruzione di beni pubblici e privati» (della Porta e Rossi, Cifre crudeli, cit., p. 11); ti) attentati non rivendicati: attenta­ ti non rivendicati a cose e persone; Hi) attentati rivendicati: attentati rivendicati a cose e persone; iv) attentati con danni alle persone: «epi­ sodi di violenza (attentati) con danni a persone in cui siano stati coin­ volti gruppi terroristici» (ibidem, p. 14). Anche in questo caso la ripar­ tizione dei dati prevede ulteriori sottoclassificazioni finalizzate ad attri­ buire la responsabilità delle azioni alle macroaree politiche di destra e sinistra, ad altri (che «si riferisce in gran parte a violenze attribuite alle forze dell’ordine»), a ignoti e, nei casi degli attentati rivendicati e de­ gli attentati con danni alle persone, ai due maggiori gruppi della lotta armata (Brigate rosse e Prima linea) o alle altre organizzazioni (altri di sinistra). Nel caso della Ricerca Isodarco, invece, il periodo di inda­ gine va dal 1969 al 1988 e sono presentati in modo dettagliato tutti gli episodi che hanno come denominatore comune la violenza politica. La classificazione effettuata dagli autori prevede un’ampia suddivisione per sigle. Ai fini del presente studio sono stati utilizzati i dati relati­ vi alla categoria Tes-Terrorismo di sinistra, la sigla adottata per indi­ care le azioni rivendicate dai gruppi di lotta armata, con riferimento

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i) azioni dimostrative minori: atti intimidatori, mi­ nacce (atti compiuti soprattutto nei confronti di specifi­ che categorie professionali come i dirigenti e i rappresen­ tanti delle fabbriche) e altre azioni come i c.d. espropri proletari; il) attentati a cose: sabotaggi e attentati ai danni di fabbriche, sedi di partito, beni privati di esponenti e militanti politici (in particolare De e Msi, ma anche dei sindacati e del Partito comunista), organi di stampa, sedi delle forze dell’ordine, ecc.; Hi) atti violenti contro le persone, tra cui esecuzioni (ovvero attentati mortali), ferimenti (con particolare rife­ rimento alla c.d. pratica della gambizzazione, indicati an­ che come ferimenti intenzionali) e scontri a fuoco; iv) sequestri, finalizzati al finanziamento della lotta arad attentati a cose (obiettivi politici, militari, industriali, istituzionali, sindacali e anche della sinistra istituzionale), a persone (ferimenti, gam­ bizzazioni, esecuzioni), nonché altre azioni come - ad esempio - i c.d. «espropri proletari»; i dati che - in funzione di quanto emerso dalle indagini giudiziarie degli ultimi anni - possono essere attribuiti alle organizzazioni di lotta armata e non rientrare più nella categoria DivDiversi, che «indica tutti quegli eventi per i quali, pur essendo appa­ rente la matrice politica, non è tuttavia certa l’attribuzione» (Schaerf, D e Lutiis, Silj, Argentini, Beliucci e Cariucci, Venti anni di violenza politica, cit., p. 89); tale categoria, pur se con alcune differenze, può essere assimilabile agli episodi di violenza e agli attentati non rivendi­ cati presentati da della Porta e Rossi nel rapporto Cifre crudeli. L e al­ tre categorie della Ricerca Isodarco, invece, non sono state utilizzate nell’ambito del presente lavoro (Des-Destra; Sdt-Strategia della tensio­ ne; Rc-Reggio Calabria; O rp-Ordine Pubblico), se non esclusivamen­ te nel caso in cui sia stato possibile correggere l’errore di allocazione dell’evento indicato nella ricerca. Infine, il Progetto Memoria ha fornito un contributo estremamente significativo per la ricostruzione della sto­ ria della lotta armata in Italia, attraverso un vero e proprio censimen­ to delle organizzazioni, la presentazione sociostatistica dei gruppi e dei militanti e una puntuale illustrazione delle vittime del «terrorismo ros­ so», con riferimento agli obiettivi colpiti dai gruppi e ai militanti mor­ ti durante le azioni. L’integrazione dei dati disponibili con quelli del Progetto Memoria ha consentito di ricostruire e ridefinire - in funzione della dettagliata descrizione di ogni singola azione - una legenda degli «attentati mortali» realizzati da questi gruppi.

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mata o al raggiungimento di obiettivi politici (ad esempio sequestro Sossi e sequestro Moro); v) sequestri a scopo dimostrativo («sequestri lampo»). Nell’analisi della dimensione territoriale del fenomeno sono stati inclusi nel campo di indagine solo gli eventi più significativi, tra cui: atti violenti contro le persone (esecuzioni, ferimenti, scontri a fuoco), sequestri e «se ­ questri lampo». A queste categorie si aggiungono altre azioni classificate con la voce «altro», che corrispondono a un sottoinsieme di atti violenti contro le persone (er­ rore, agguato, uccisione in seguito ad attentato). Complessivamente, nel periodo oggetto dell’indagine (1969-79) sono state censite e attribuite alle organizza­ zioni di lotta armata 202 azioni incluse nelle categorie su indicate, nel corso delle quali, escludendo i militanti della lotta armata, 72 persone sono rimaste uccise e 154 ferite. Dei 72 morti, 18 sono deceduti durante scontri a fuoco; 2 in seguito a rapimento (Carlo Saronio e il pre­ sidente De Aldo Moro); 47 durante esecuzioni (inclusi gli uomini della scorta di Aldo Moro e del procuratore Francesco Coco); 3 per errore; 1 in un agguato di dubbia identificazione e 1 per un attentato attuato da un gruppo dell’autonomia denominato «G atti selvaggi». Le indica­ zioni numeriche, che a oggi possono essere assunte come definitive, sono state elaborate confrontando i dati di Galleni, della Porta, Ricerca Isodarco e Progetto Memoria. La mappa perduta. Dal riscontro del numero e dell’identità delle persone uccise dalle organizzazioni armate, infatti, si rileva uno scarto piuttosto esiguo tra il numero minimo (66), fornito da della Porta, e il numero massimo (73) for­ nito da Gaileni. Quest’ultimo attribuisce ai gruppi di lotta armata anche talune vittime provocate da altre forme di violenza politica; le analisi di della Porta e della Ricerca Isodarco, invece, non registrarono alcune vittime, a causa dell’incompletezza delle fonti al momento della stesura delle ricerche. Comparando ad esempio l’indagine coor­ dinata da De Lutiis con il Progetto Memoria, si può no­ tare uno scostamento di 3 vittime, poiché non sono presi in considerazione: l’uccisione di Alessandro Floris causata 345

dal Gruppo X X II ottobre in seguito a un’incursione (26 marzo 1971); la morte di Antonio Niedda in seguito a uno scontro a fuoco con un commando delle Brigate rosse (4 settembre 1975); l’uccisione di Rosario Scalia durante uno scontro a fuoco con il gruppo dei Comitati comunisti rivo­ luzionari (23 febbraio 1979). Più incerta invece la definizione del numero delle persone rimaste ferite in seguito agli attentati compiuti dai gruppi di lotta armata. Risulta piuttosto attendibile la stima fornita dagli studi di Gaileni e della Porta, mentre non possono essere utilizzati i dati del Progetto Memoria che fanno riferimento soprattutto agli attentati più signi­ ficativi compiuti dalle principali organizzazioni. Comples­ sivamente, nell’ambito della presente indagine si indicano 154 persone ferite, di cui 133 durante i c.d. «ferimenti intenzionali». In funzione dell’approccio metodologico adottato sono state invece escluse le seguenti azioni: t) gli «scontri di piazza» che hanno causato la morte di rappresentanti delle forze dell’ordine o dei manife­ stanti (inclusi i militanti di organizzazioni politiche); ii) le esecuzioni attribuibili all’area di sinistra, ma non in modo diretto alle formazioni dell’area della lotta ar­ mata, tra cui: l’omicidio del commissario Calabresi (Mi­ lano, 17 maggio 1972), attribuito con sentenza definitiva a Lotta continua; l’incendio doloso causato da alcuni mi­ litanti di Potere operaio, che provocò la morte dei fra­ telli Mattei (Roma, 16 aprile 1973); l’uccisione del mili­ tante di destra Sergio Ramelli10 (Milano, 13 marzo 1975); l’uccisione di Bruno Giudici (Roma, 31 marzo 1977); l’uccisione di un amico di un agente di custodia (errore durante la «vendetta»; Roma, 8 luglio 1977); l’uccisione dei militanti missini Bigognetti e Ciavatta durante la c.d. «strage di Acca Larentia» (Roma, 7 gennaio 1978); l’ucci­ sione di Stefano Cecchetti (Roma, 10 gennaio 1979); l’uc-

10 Indicata la data dell’aggressione.

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cisione di Francesco Cecchin, militante del Fronte della Gioventù (Roma, 29 maggio 1979); Ut) le azioni che hanno causato la morte dei militanti delle organizzazioni di lotta armata11. Invece per il censimento delle organizzazioni sono stati inclusi i gruppi in funzione del parametro anno di nascita (gruppi nati tra il 1969 e il 1979) e della rilevanza delle azioni (organizzazioni che hanno compiuto almeno una delle azioni incluse nelle categorie precedentemente indicate, poi suddivise in «m aggiori»12 e «minori»). Adottando i parametri e le categorie sinora descritte è stata strutturata l’indagine sulla dimensione territoriale della lotta armata in Italia negli anni Settanta. 2. Gruppi e organizzazioni Il terrorismo nella forma della lotta armata è stato caratterizzato dalla presenza di organizzazioni che aspira­ vano a costituire, soprattutto nella fase iniziale, un vasto movimento rivoluzionario attraverso una strategia di lotta prolungata. Complessivamente sono stati censiti 36 gruppi di cui 16 che hanno compiuto attentati contro persone e 20 che hanno portato a termine atti di violenza come azioni in­ timidatorie e «attentati a cose». Altri 23 «microgruppi»,

11 Complessivamente 22 eventi che hanno causato la morte di 28 militanti e 3 casi di suicidio. Nello specifico: in 7 casi si sono verificati incidenti che hanno causato la morte dei militanti durante la prepara­ zione di esplosivo (tra cui anche la morte del leader dei G ap Giangiacomo Feltrinelli); 14 scontri a fuoco, tra cui 5 con una dinamica poco chiara, come nel caso dell’uccisione di Mara Cagol (in questo caso gli eventi corrispondono con gli scontri a fuoco); 1 caso di omicidio (mi­ litante di Azione rivoluzionaria ucciso in carcere). 12 G ruppi che hanno portato a termine almeno 1 attentato contro le persone oppure organizzazioni rilevanti nella storia della lotta arm a­ ta, come nel caso dei G ruppi d ’azione partigiana-Gap di Giangiacom o Feltrinelli.

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alcuni dei quali con una forte identità locale, sono stati invece inclusi in altre organizzazioni che si sono formate nella seconda metà degli anni Settanta. I gruppi si radicarono prevalentemente nell’area del Nord-Ovest (Liguria, Lombardia e Piemonte) e dal 1974 a Roma, in Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Campania e - solo marginalmente - nelle altre zone del paese. Fino al 1974, infatti, nacquero e avviarono le azioni di «pro­ paganda armata» i Gruppi di azione partigiana (Gap) di Giangiacomo Feltrinelli in cinque regioni del Nord Italia e in Toscana (1970-72); il G ruppo X X II ottobre (1969-72) in Liguria; le Brigate rosse-Br (1970-fine anni Ottanta) in Piemonte, Lombardia, Liguria e Veneto” ; la Brigata pro­ letaria Erminio Ferretto (Bpef) in Veneto (1972-74); i Pro­ letari armati in lotta (Pai) nelle Marche (1973-75); i Nuclei operai di resistenza armata (Nora) in Lombardia (1973-74); le Pantere Rosse-Pr (1972-74), che agirono esclusivamente nelle carceri, e il gruppo Fronte armato rivoluzionario ope­ raio (Faro), che nasceva dalla struttura clandestina di P o­ tere operaio (Po) denominata Lavoro Illegale (Piemonte, Lombardia, Veneto, Toscana, Lazio; 1972). Complessivamente fino al 1974 si riscontra la pre­ senza di 9 gruppi, tra cui 4 organizzazioni maggiori (Gap, Gruppo X X II ottobre, Br e Nap), 4 minori e 1 che ope­ rava nelle carceri; fino al 1979 si contano 36 organizza­ zioni, con una forte concentrazione nel Nord Italia e nel Centro e in particolar modo in Lombardia e nel Lazio. Tra le 17 organizzazioni maggiori14 si rileva un forte 13 Non è inclusa l’Emilia-Romagna, area nella quale tuttavia si for­ mò un gruppo significativo di futuri militanti delle Brigate rosse. 14 G ruppi d ’azione partigiana (G ap); G ruppo X X II ottobre; Bri­ gate rosse (Br); Nuclei armati proletari (N ap); Formazioni comuniste armate (Fca); Unità comuniste combattenti (Ucc); Comitati comunisti rivoluzionari (CoCoRi); Prima linea (PI); Collettivi politici veneti per il potere operaio (Cpv); Azione rivoluzionaria (Ar); Formazioni comu­ niste combattenti (Fcc); Lotta armata per il comuniSmo (Lac); Squ a­ dre proletarie di combattimento (Spc); Nuclei comunisti combattenti (Ncc); Guerriglia comunista (G c); Reparti comunisti d ’attacco (Rea); Movimento comunista rivoluzionario (Mcr).

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radicamento territoriale solo in 5 casi (Gruppo X X II ottobre in Liguria; Collettivi politici veneti in Veneto; Guerriglia comunista e Movimento comunista rivoluzio­ nario nel Lazio; Reparti comunisti d ’attacco in Lombar­ dia), mentre è molto più frequente la distribuzione in più aree (almeno due regioni) e, in alcuni casi (Brigate rosse e Prima linea), dal Nord al Sud. In particolare, Lazio, Lombardia e Piemonte sono le regioni con la più elevata concentrazione di gruppi di lotta armata e di vit­ time (complessivamente, fino al 1979, 54 delle 72 persone uccise e 118 delle 154 persone ferite), mentre l’unica re­ gione del Sud Italia nella quale hanno agito le principali sigle (Br, Pi, Nap, Fcc e Ucc) è stata la Campania. Per i 19 gruppi minori (a eccezione di Faro, Brigate comuniste e Primi fuochi di guerriglia), invece, si riscontra un generale radicamento in una sola regione, determinato prevalentemente dal carattere estemporaneo che ha influito sulla nascita di alcune microformazioni. In particolare: fino al 1976 si contano 4 gruppi, ciascuno con una durata massima di 2 anni15, in 6 regioni del Centro-Nord; fino al 1979 la diffusione fu più eterogenea (12 regioni), con una maggiore concentrazione in Lombardia (7 gruppi) e una presenza marginale in alcune regioni del Sud Italia16.

3. Le azioni Le azioni17 compiute dalle Brigate rosse e dalla mag­ gior parte delle altre organizzazioni rientravano nell’ambito 15 Fronte armato rivoluzionario operaio (Faro), Brigata proletaria Erminio Ferretto (Bpef), Proletari armati in lotta (Pai), Nuclei operai resistenza armata (Nora). 16 Primi fuochi di guerriglia (Pfg) in Campania, Calabria e Basilica­ ta; Colonna Fabrizio Pelli e Brigate comuniste (Bc) in Campania. 17 L e azioni censite sono 202, di cui 31 senza attribuzione a una specifica sigla. In particolare: 17 a sigla ignota (ad esempio i casi ri­ conducibili all’area dell’Autonomia); 14 ad altre sigle (ad esempio Gatti Selvaggi in Emilia-Romagna).

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F ig . 1. Distribuzione dei gruppi di lotta armata (1969-79).

di un processo rivoluzionario che rappresentava una sintesi tra i riferimenti ideologici, politici e culturali propriamente nazionali (le lotte dell’esperienza partigiana) e quelli teoriz­ zati in paesi dove erano in atto processi di «liberazione dal basso» (ad esempio le teorie e tecniche di guerriglia urbana del leader rivoluzionario brasiliano Carlos Marighella)18. Analizzando gli atti violenti contro le persone (esecu­ zioni, ferimenti, scontri a fuoco), i sequestri, i «sequestri lam po» e altre azioni classificate con la voce «altro» (er­ rore, agguato, uccisione in seguito ad attentato), si rileva una forte concentrazione nel Nord-Ovest (120 azioni su 202, pari al 59,3% del totale) e nel Lazio (49 azioni pari al 24,2% ). Fino al 1974 le azioni portate a termine dai gruppi di lotta armata furono prevalentemente dimostrative («se­ questri lampo»), di autofinanziamento (sequestri) e, più in generale, finalizzate a sostenere le lotte operaie nelle fabbriche e a contrastare l’ondata stragista e reazionaria di inizio decennio. A eccezione delle azioni di sabotaggio o degli attentati contro obiettivi simbolici (fabbriche, par­ 18 II Piccolo manuale del guerrigliero urbano di Carlos Marighella (1969, più volte ristampato anche in Italia) fu un testo di riferimento del nucleo storico delle Brigate rosse. Basti ricordare quanto Marighel­ la scrive nell’introduzione: «L ’accusa di “violenza” o “terrorismo” non ha più il significato negativo che le veniva attribuita. H a acquisito un altro aspetto, un nuovo colore. Non divide, non discredita; al contra­ rio, rappresenta un elemento di attrazione. O ggi essere “violento” o un “terrorista” è una qualità che onora e nobilita una persona, perché è un’azione degna di un rivoluzionario impegnato nella lotta armata contro la vergognosa dittatura militare e le sue atrocità». Altrettanto interessante il punto 17 del manuale, che indica i tipi e la natura del­ le missioni della guerriglia urbana, individuati nelle seguenti missioni: assalti, incursioni e penetrazioni, occupazioni, agguati, tattiche di stra­ da, scioperi e interruzioni del lavoro, diserzioni, diversioni, sequestri, espropri di armi, munizioni ed esplosivi, liberazione di prigionieri, ese­ cuzioni, rapimenti, sabotaggi, terrorismo, propaganda armata, guerra psicologica. Com e si può notare, attraverso un confronto con i dati e le attività compiute dai gruppi di lotta armata, vi è quasi una totale coincidenza tra le «prescrizioni» di Marighella e le azioni compiute dalle Br e dalle altre organizzazioni in Italia.

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titi politici, forze dell’ordine), il fenomeno della lotta ar­ mata fino al 1974 fu concentrato quasi esclusivamente nel Nord del paese. I «sequestri lam po» (7)19 furono compiuti dalle Bri­ gate rosse nell’area a più forte vocazione industriale, con lo scopo di intimidire i dirigenti delle grandi aziende (SitSiemens, Singer, Ansaldo, Alfa Romeo) o i sindacalisti (ad esempio Bruno Labate della Cisnal). I sequestri (12), in­ vece, furono organizzati anche in altre aree del paese: a Napoli (1974, Nap: sequestro dello studente Gargiulo e dell’imprenditore Moccia, per i quali furono pagati i ri­ scatti di 70 milioni e di 1 miliardo di lire) e a Roma (Br: rapimento Moro; Ucc: rapimento Ambrosio; Nap: si­ multaneamente il sequestro Di Gennaro a Roma e degli agenti di custodia nel carcere di Viterbo)20. Le esecuzioni (37) furono compiute in 7 regioni da 6 gruppi21, tra il 1976 e il 1979; di queste azioni: il 54% nel Nord-Ovest e il 36% nel Lazio. Similmente, i luoghi dove i gruppi di lotta armata colpirono i propri obiettivi per ferirli intenzionalmente (121) furono: /) dal 1975 le aree metropolitane di Torino e Milano; ii) dal 1976 la città di Roma, in concomitanza con la strategia offensiva di «attacco allo stato»; HÌ) nel triennio 1977-79 anche la città di Genova con azioni svolte quasi esclusivamente dalle Br (10 su 12) - e l’area veneta, nella quale agivano sigle fortemente ra­ dicate a livello territoriale (Cpv). Per entrambe le tipolo­ gie di azioni le grandi città furono i principali luoghi nei quali le organizzazioni di lotta armata colpirono o ucci­ sero le proprie vittime (86,5% delle esecuzioni; 85% dei ferimenti intenzionali).

19 Sono sette se si include quello di Riffotti e Zanforlin (Padova, 1979). 20 Non includo tra i sequestri il rapimento di G u ido D e Martino, figlio dell’ex segretario del Psi (Napoli, 5 aprile 1977), in quanto è in­ certa l’attribuzione a un’organizzazione di lotta armata. 21 L’area piellina è indicata come un unico gruppo (ad esempio [PI] Brigate comuniste combattenti).

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I

FlG. 2. Mappatura dei «sequestri lampo» e dei sequestri

(1969-79).

FlG. 3. Mappatura delle esecuzioni e dei ferimenti intenzionali (1969-79).

4. Gli obiettivi e le finalità Analizzando il fenomeno della lotta armata nel lungo periodo si può intravedere un percorso caratterizzato da un’identità forte e determinata (l’identità rivoluzionaria e insurrezionalista), ma segnata da numerose frammenta­ zioni e discontinuità, come si evince dalla segmentazione delle azioni compiute dai gruppi per tipologia di motiva­ zione, correlate con la dimensione territoriale. Nel Nord del paese e in particolare nel Nord-Ovest, quasi il 25% delle azioni (54 su 202) furono portate a termine per contrastare le politiche adottate dai dirigenti delle fabbri­ che. Infatti, sin dal 1972 i dirigenti aziendali e altri obiet­ tivi legati ai sistemi produttivi delle fabbriche del Nord furono le principali vittime dei gruppi della lotta armata. Come ricorda il leader storico delle Br Alberto Franceschini: individuare i nostri primi obiettivi non fu difficile. Gli operai con cui parlavamo ripetevano in continuazione che bisognava colpire i «capi», i quadri dirigenti delle fabbriche che applica­ vano direttamente sui lavoratori gli ordini del padrone22. Le azioni furono complessivamente 54: i principali esecutori i militanti delle Br (59,2% ) e l’area più colpita quella del Nord-Ovest (85% ). Tra queste azioni: 5 «se­ questri lam po» e 1 sequestro realizzati nella prima metà degli anni Settanta e ascrivibili a una strategia che inten­ deva sostenere le lotte operaie per ampliare il movimento di lotta armata attraverso il reclutamento di militanti e «simpatizzanti»; 45 ferimenti e 3 esecuzioni (tra cui 38 ferimenti e 2 esecuzioni nel Nord-Ovest), compiuti in un contesto che era mutato in seguito alla riorganizzazione delle Br, alla nascita di nuovi gruppi di lotta armata e alla formazione di una nuova geografia del dissenso.

22 A. Franceschini, Mara Renato e io, Milano, M ondadori, 1988, p.

32.

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FlG. 4. Distribuzione delle azioni per motivazione «fabbriche e ristrutturazione aziendale» e attacchi contro la Dc-«stato» (1969-79).

D opo il 1974 le Br (e in modo marginale altri gruppi) posero al centro delle proprie azioni il «partito stato» della Democrazia cristiana e tutti i principali apparati dello stato: «il problema principale era la De con il suo apparato burocratico, organizzativo e di ramificazione in tutti i gangli vitali della società»23. L’epicentro di questi episodi, oltre che della «cam ­ pagna antiterrorismo» (8 esecuzioni e 1 ferimento), fu la capitale, tragico teatro dal 1977 al 1979 del rapimento Moro e della sua uccisione (9 maggio 1978), dell’esecu­ zione della scorta del presidente De (16 marzo 1978), del consigliere Schettini (29 marzo 1979), di due agenti di polizia durante l’assalto alla sede del comitato De (3 maggio 1979) e dei ferimenti di Cacciafesta (21 giugno 1977), Periini (11 luglio 1977), Fiori (2 novembre 1977), Mechelli (26 aprile 1978) e di due agenti della Digos du­ rante un’azione che aveva come obiettivo il capogruppo De Galloni (21 dicembre 1978)24. La parabola ascendente della lotta armata fu contrad­ distinta soprattutto da uno sviluppo della «spirale della violenza» che man mano colpì, con intensità diverse, tutte (o quasi) le componenti sociali del paese, ampliando a macchia d ’olio gli obiettivi delle organizzazioni eversive. In questo contesto si delinearono le campagne contro le carceri e la stampa, come indicato nella Risoluzione della direzione strategica delle Br del 1975: è necessario conseguire risultati sul terreno della liberazione dei compagni detenuti politici; della rappresaglia contro la struttura militare delle carceri, contro l’antiguerriglia in tutte le sue artico­ lazioni; contro la magistratura di regime, contro quei settori del giornalismo che si distinguono nella «guerra psicologica»25.

25 Raffaele Fiore in A. Grandi, Lultimo brigatista, Milano, Bur, 2007, p. 77. 24 G . Galli, Storia della De, Milano, K aos edizioni, 2007; V. Tessandori, «Qui Brigate Rosse», Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2009. 25 Brigate rosse, Risoluzione della direzione strategica, Aprile 1975,

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La campagna carceri fu condotta tra il 1975 e il 1979 da più organizzazioni (Brigate rosse, Prima linea, Nuclei armati proletari, Unità comuniste combattenti, Reparti comunisti d ’attacco, Formazioni comuniste combattenti/ Sap, Comitati comunisti rivoluzionari/Pac) ed ebbe una diffusione piuttosto eterogenea nelle principali città col­ pite dalla lotta armata, a eccezione di Genova. Tra le azioni della campagna carceri: 9 esecuzioni, 2 sequestri a firma N ap (gli obiettivi furono il magistrato Giuseppe Di Gennaro per il rilascio di prigionieri «politici» e, in concomitanza, gli agenti di sorveglianza del carcere di Vi­ terbo), 11 ferimenti e 1 scontro a fuoco. Tra gli obiettivi principali: forze dell’ordine, agenti di custodia e medici carcerari. Le vittime della «campagna stam pa» - portata a ter­ mine quasi esclusivamente nel Nord Italia - furono 7 giornalisti, di cui 6 feriti e 1 ucciso, tra il 1977 (5 feri­ menti e 1 omicidio) e il 1979 (1 ferimento) nelle città di Torino (ove avvennero l’omicidio e 2 ferimenti), Milano, Genova, Roma e in provincia di Padova. Tutti gli atten­ tati furono rivendicati dalle Br (di cui 3 eseguiti consecu­ tivamente dall’ 1 al 3 giugno 1977), a eccezione dei feri­ menti di N. Ferrerò («l’Unità»; Torino, 1977; Ar) e di A. Granzotto («Il Gazzettino»; A. Terme, 1977; Cpv). In questo contesto, dominato da una strategia di at­ tacco che non lasciava spazio ad alcuna forma di me­ diazione (come invece era avvenuto ad esempio nella gestione del sequestro del giudice Sossi nella primavera del 1974), le formazioni armate agirono pressoché esclu­ sivamente per colpire mortalmente quanti anche solo simbolicamente contrastavano i loro progetti oppure per attuare scopi «vendicativi»26, come nel caso di Prima li-

in Aa.Vv., Progetto Memoria. Le parole scritte, Roma, Sensibili alle fo­ glie, 1996, p. 58. 26 Tra gli attentati contro le persone compiuti per «vendetta» si re­ gistrano tra il 1976 e il 1979 complessivamente 7 esecuzioni a Genova, Milano, Torino e in provincia di Venezia e 5 ferimenti. N el dettaglio:

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nea27 e delle organizzazioni contigue a essa, dove la carica emotiva dominò l’azione militare a scapito dell’elabora­ zione politica28.

5.

Uno sguardo di sintesi

I dati sin qui illustrati consentono di trarre alcune conclusioni sulla caratterizzazione territoriale della lotta armata in Italia e, più in generale, sugli elementi distintivi di questa forma di violenza politica. Nel periodo 1969-74 la finalità prevalente dei gruppi di lotta armata, in particolare di quelli localizzati nel Nord-Ovest, fu innalzare il livello dello scontro nel con­ testo delle lotte di fabbrica e attuare azioni di propa­ ganda per reclutare il maggior numero di militanti e «simpatizzanti» coinvolgibili in una strategia di lungo pe­ riodo (la c.d. fase della propaganda armata).

l’uccisione del procuratore C oco e della sua scorta (8 giugno 1976) e l’omicidio dell’operaio G uido Rossa (24 gennaio 1979), compiuti en­ trambi a Genova dalle Br; le esecuzioni di 3 commercianti, del consi­ gliere provinciale missino Pedenovi e di un agente della squadra poli­ tica di Torino siglate da Prima linea e da gruppi vicini all’area piellina (Bcc e C oCoRi/Pac). A Roma, i 2 ferimenti per vendicare l’uccisione della militante Mantini (N ap), a Padova del professore Angelo Ven­ tura, a Milano la «gam bizzazione» di un titolare di tipografia e a Pisa (Azione rivoluzionaria) il ferimento del medico che cinque anni pri­ ma aveva visitato il militante di Lotta continua Franco Serantini. Da segnalare infine, nelle province di Milano e Torino tra il 1976 e il 1979, le azioni contro i medici e i rappresentanti delle strutture sa­ nitarie (per questa motivazione solo uno dei 13 episodi è attribuibile alle Brigate rosse). In tutti i casi si è trattato di ferimenti intenzionali, a eccezione di un «errore» che ha causato a Bergamo la morte di un appuntato dei carabinieri (l’obiettivo era il medico Gualteroni). Tra gli obiettivi: 8 medici (tra cui 4 ginecologi), 1 vicecapo infermieri, 1 uffi­ ciale sanitario di Seveso, 1 ostetrica e il presidente dell’Associazione Medici Mutualistici di Milano. 27 S. Segio, Miccia corta. Una storia di prima linea, Roma, Derive A pprodi, 2005. 28 G . Boraso, Mucchio selvaggio, Roma, Castelvecchi, 2006.

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Nel periodo successivo (1975-79), anche se molti mi­ litanti già attivi proseguirono la loro attività in altre for­ mazioni armate, il conflitto si radicalizzò ed entrarono in scena nuovi gruppi (oltre alle Brigate rosse e ai Nap). In particolare si chiuse la fase stragista e «golpista» del «terrorismo di destabilizzazione» di matrice neofascista (come affermato dall’ex capo del Sid, Vito Miceli, il 31 ottobre 1974: «ora non sentirete parlare più di terrorismo nero, ora sentirete parlare solo degli altri»), si conclusero le esperienze di Potere operaio (1973) e di Lotta conti­ nua (1976) e si costituirono nuove organizzazioni, anche in seguito alla migrazione dei militanti (tra cui molte donne29) della sinistra extraparlamentare. La perdita dei militanti sul «campo di battaglia» e l’ampliamento dei terreni di iniziativa, oltre ai fattori precedentemente in­ dicati, crearono le condizioni per l’avvio, nello stesso periodo, della fase dell’offensiva armata: un progetto di «lunga durata» teso ad annientare lo stato e i poteri con­ tigui a esso, incluse le strutture di produzione (fabbriche) che stavano avviando un processo di ristrutturazione ai danni del mondo operaio. Durante questa fase le organizzazioni armate feri­ scono e uccidono, si amplia il raggio di azione delle Br e diventa più eterogenea la distribuzione territoriale delle organizzazioni: il «baricentro della violenza» si sposta nella città di Roma, luogo delle principali azioni contro la Democrazia cristiana e della campagna «antiterrorismo», mentre le Brigate rosse consolidano il proprio ruolo nelle regioni dove erano già presenti, ma penetrano in parte anche in Veneto. I gruppi minori, diffusi anche in altre zone del paese (ad esempio Barbagia Rossa in Sarde­ gna) attuano tentativi di emulazione per inserirsi in quel processo di «disarticolazione dei centri di potere dello stato», enunciato dalle Br nella risoluzione della direzione strategica del 1975: 29 Cfr. P. Casamassima, Donne di piombo, Milano, Bevivino Edito­ re, 2005.

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spezzare i legami corporativi tra la classe dirigente industriale e le organizzazioni dei lavoratori, battere la De centro politico e organizzativo della reazione e del terrorismo, colpire lo stato nei suoi anelli più deboli30.

Nel triennio 1977-79 - contemporaneamente alla fase dell’offensiva armata - si sviluppa una spirale di violenza esacerbata dallo scontro tra le forze dell’ordine e il movi­ mento del ’77, dal consolidamento dei principali gruppi armati e dall’ingresso di una nuova generazione di mili­ tanti, di coloro «che erano stati socializzati alla politica in quei gruppi che avevano avuto origine nella crisi della Nuova Sinistra»51: in quegli anni per molti di noi la scelta della violenza, vissuta in modo contraddittorio e superficiale, non poteva che essere l’unica strada possibile per tentare di dare uno sbocco alle no­ stre tensioni e un senso alle istanze di giustizia sociale, frammi­ ste a motivazioni etiche che ognuno di noi portava dentro di sé32.

È il periodo della c.d. autoaffermazione militarista e dell’espansione dello spontaneismo armato della «se­ conda generazione» di militanti, che vede lo svilupparsi di una violenza diffusa e canalizzata da altre frange estremiste. Le dinamiche motivazionali sono ricondu­ cibili all’atto stesso della violenza, all’azione che non era «giustificata» solo dalle suggestioni di tipo leninista e dalla presa del potere. Si tratta di una violenza che, amplificando in modo esponenziale le istanze del movi­ mento del ’77, giustifica se stessa nel momento in cui si genera lo scontro: 30 Brigate rosse, Risoluzione della direzione strategica, Aprile 1975, cit., p. 56. 31 D. della Porta, Il terrorismo di sinistra, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 140. 32 Adriano Roccazzella in Novelli e Tranfaglia, Vite sospese, cit., p. 339.

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tutti si sono schierati, pronunciati, lamentati; pochi hanno detto con chiarezza che indietro non si torna, che nei prossimi anni vivere con la guerriglia (o, se si vuole, con il terrorismo) sarà inevitabile, un fatto normale33. La dimostrazione dell’impossibilità della via riformista per un reale cambiamento costituisce per molti di noi elementi di riflessione sulle possibili involuzioni dello stato, sulla necessità di dotarci di strumenti di resistenza; accelerano e acuiscono in me la problematica dell’armamento proletario34. aumentava l’uso della violenza di massa; molotov e spranghe facevano spesso la loro apparizione. [...] dai primi momenti organizzativi all’interno del movimento arrivai a scegliere la lotta armata che si stava ormai sviluppando. Niente era chia­ rissimo, era una spinta intuitiva, era una necessità per andare oltre e anche lì era ricerca; niente era dato, tutto da capire e inventare35. In questo triennio la lotta armata assume una fisiono­ mia più complessa: da un lato si concretizzano le azioni che fanno capo agli obiettivi strategici delle Br e, dall’al­ tro, si diffonde in più zone del paese un uso della vio­ lenza caratterizzato da percorsi estremamente eterogenei. L’Italia settentrionale, ad esempio, è il territorio privile­ giato da Prima linea, che considera l’organizzazione mi­ litare clandestina una scelta temporanea (e allo stesso tempo reversibile), destinata a concludersi con l’insur­ rezione di massa e la «liberazione del proletariato»36. In Piemonte e in Lombardia (a Milano e nelle province di Bergamo, Como, Cremona e Varese) si ferisce e si uccide 33 Comitati comunisti rivoluzionari, Che fare, Milano, 25 aprile 1978, ora in Aa.Vv., Progetto Memoria. Le parole scritte, cit., p. 254. 34 Intervento di B. Graglia in Novelli e Tranfaglia, Vite sospese, cit., p. 373. 35 Maria Rosaria Belloli, militante delle Formazioni comuniste com­ battenti e poi delle Br - Colonna Walter Alasia, in S. Bianchi e L. Caminiti (a cura di), Gli autonomi, Roma, DeriveApprodi, 2007, voi. I, p. 222. 36 Cfr. G. Boraso, Mucchio selvaggio, Roma, Castelvecchi, 2006.

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FlG. 5. Distribuzione delle azioni contro le persone compiute da Prima linea (1969-79)

anche in funzione di obiettivi estemporanei (ad esem­ pio la campagna contro i medici e le strutture sanitarie), mentre il Nord-Est è caratterizzato dagli interventi di si­ gle più fortemente radicate sul territorio (ad esempio i Cpv e CoCoRi). Roma diviene il luogo deputato alla «guerra» con­ tro la De, ma anche la zona dove si radicano nuove si­ gle che portano a termine azioni riconducibili alle istanze dei nuovi militanti (ad esempio la campagna di Guerriglia comunista contro gli spacciatori di droga), e l’Italia meri­ dionale, pur se in modo marginale e sostanzialmente cir­ coscritto a Napoli, ambisce a costituire un ulteriore «spa­ zio di lotta»: «le forze rivoluzionarie vi circondano, Roma e Napoli sono l’inizio di una lunga serie di iniziative per farvi capire che cosa sia oggi in Italia il movimento ar­ mato»37. Considerando l’intero periodo preso in esame, sotto il profilo della distribuzione territoriale si individua una concentrazione delle azioni dei militanti nelle aree metro­ politane e fino al 1974, nella fase della c.d. «propaganda armata», una strategia tendenzialmente comune tra le principali organizzazioni, soprattutto nell’area del NordOvest. Con l’affermazione del nuovo gruppo dirigente delle Brigate rosse38, l’organizzazione si ramifica in nu­ merose zone del paese (privilegiando la città di Roma per l’attacco alla De), ma non nel Sud Italia che, a eccezione Dichiarazione di R. Curcio, durante un’udienza processuale a Milano nel febbraio 1978 e in riferimento alle uccisioni del magistra­ to Girolamo Tartaglione e del criminologo Alfonso Paolella, compiute pochi giorni prima nelle due città rispettivamente dalle Brigate rosse e da Prima linea; la dichiarazione è ora riportata in V. Tessandori, Qui Brigate Rosse. Il racconto, le voci, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2009, P. delle Brigate rosse, in seguito all’arresto dei leader ,8 La direzione storici Renato Curcio (dopo il primo arresto evase dal carcere e poi fu definitivamente arrestato a Milano, con Nadia Mantovani, il 18 feb­ braio 1976) e Alberto Franceschini (8 settembre 1974) e della morte di Mara Cagol (5 giugno 1975), è assunta da Mario Moretti (fino al 4 aprile 1981, giorno del suo arresto).

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della Campania (e soprattutto di Napoli) e di sporadici episodi attribuibili ai militanti di seconda generazione, re­ sta quasi estraneo all’offensiva terroristica. In definitiva, la lotta armata fu un fenomeno com­ plesso, eterogeneo, non lineare, rispetto al quale il terri­ torio costituì una «variabile condizionante», soprattutto nella fase iniziale, durante la quale sussistette una correla­ zione evidente tra le caratteristiche sociali e produttive di alcune aree del paese (quelle a maggiore concentrazione industriale) e il manifestarsi della «contestazione armata», anzitutto nella conflittualità di fabbrica. Successivamente il territorio acquisì anche un’evidente valenza simbolica come nel caso della città di Roma, sede del potere po­ litico - diventando un criterio rilevante, seppur nient’affatto esclusivo, per le scelte operative delle organizzazioni armate.

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D avide S er a fin o

GENOVA. LA LOTTA ARMATA IN UNA CITTÀ OPERAIA E DI SINISTRA Questo saggio propone una prima riflessione sul caso genovese1, sulla base di una ricerca appena avviata che intende ricostruire la parabola della lotta armata nel ca­ poluogo ligure, sia analizzando le peculiarità che vi as­ sume, sia verificando analogie, differenze e convergenze con altre realtà simili per struttura socioeconomica come Milano e Torino2, o diverse, ma ugualmente importanti nella geografia della violenza politica, come Padova, no­ toriamente assai condizionata dal forte radicamento dell’Autonomia operaia5. Il periodo considerato va dal 1 Riguardo al quale si conta solo il pregevole e puntuale articolo di C. Dogliotti, La colonna genovese delle Brigate Rosse, in «Studi Stori­ ci», 45, 4, ottobre-dicembre 2004, mentre mancano studi analoghi a quelli disponibili per altre città rilevanti nella geografia del terrorismo. 2 Per le quali cfr. almeno A. Saccoman, Sentieri rossi nella metro­ poli, per una storia delle Brigate Rosse a Milano, Milano, Cuem, 2007; C. Marletti, F. Bullo, L. Borghesan, P.P. Benedetto, R. Tutino e A. De Sanctis, Anni di piombo: il Piemonte e Torino alla prova del terrorismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007 e S. Caselli e D. Valentini, Anni spietati, Torino racconta violenza e terrorismo, Roma-Bari, Laterza, 2011. Si ricordano anche gli studi dedicati a Reggio Emilia, luogo di provenienza di una delle componenti delle Br: L. Fanti, S'avanza uno strano soldato. Genesi del brigatismo reggiano, Milano, SugarCo, 1985, e P. Pergolizzi, L’appartamento. Br: dal Pei alla lotta armata, Reggio Emilia, Àliberti, 2006. Sul ritardo della storiografia cfr. le considera­ zioni di Angelo Ventrone in Introduzione, in Id. (a cura di), I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d’Italia negli anni Sessanta e Settanta, Macerata, Eum, 2010. 3 Cfr. in proposito alcuni recenti lavori, i primi due di taglio pret­ tamente storico e l’altro pubblicistico: C. Fumian, P. Calogero e M. Sartori, Terrore rosso, dall’autonomia al partito armato, Roma-Bari, Laterza, 2010; A. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, Roma, Donzelli, 2010; Aa.Vv., Processo sette aprile, Padova trent’anni dopo, voci della «città degna», Roma, Manifestolibri, 2009. Ricordo che pres­ so l’Università degli studi di Padova è in corso una ricerca su «Con-

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1969, quando si cosdtuì il Gruppo XXII ottobre, prima formazione praticante la lotta armata in Italia4, fino ai primi anni Ottanta quando la colonna genovese delle Br fu definitivamente smantellata. 1. Il rapporto tra lotta armata e territorio e il caso geno­ vese Uno degli aspetti centrali sarà l’indagine sui rapporti tra il territorio e i gruppi armati, che nel caso in questione sono particolarmente intensi. Indubbio in proposito è il ri­ tardo della storiografia, che stenta a formulare analisi con­ vincenti e solo negli ultimi anni sta muovendo i primi passi verso uno studio rigoroso del fenomeno e dei suoi rapporti con le realtà territoriali e socioeconomiche di riferimento. Nel caso di Genova, ma non solo, il territorio è una varia­ bile condizionante sia la nascita, sia lo sviluppo della lotta armata, mentre in altri casi esso pare avere una valenza piuttosto simbolica e meno determinante. Come ha suggerito Chiara Dogliotti si può legittimamente supporre che le colonne brigatiste fossero dotate di sufficiente autonomia, tale da sviluppare caratteri originali e specifici, no­ nostante la struttura apparentemente monolitica dell’organizza­ zione, la gerarchia ferrea e la soggezione di tutte le sue artico­ lazioni a un progetto e a una disciplina unitaria5. flitto urbano, strategie eversive e lotta al terrorismo a Padova negli anni Settanta», coordinata da Carlo Fumian e realizzata da Andrea Baravelli e Ferdinando Fava. 4 Cfr. P. Piano, 22 Ottobre, un progetto di lotta armata a Genova (1969-1971), Genova, Annexia, 2005 e Id., La «banda» 22 ottobre. Agli albori della lotta armata in Italia, Roma, DeriveApprodi, 2008, edizione aggiornata e corredata dalle videointerviste di S. Barabino e A. Teglio a tre esponenti del gruppo, Gino Piccardo, Mario Rossi e Beppe Battaglia, raccolte nel dvd allegato Tre della ventidue. 5 Dogliotti, La colonna genovese, cit., p. 1177.

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In quest’ottica il fenomeno della lotta armata negli anni Settanta non appare come una variabile esogena, ma presenta caratteristiche strettamente legate al conte­ sto in cui sorge: se da un lato le città «subiscono» tale fenomeno, dall’altro lo alimentano, lo plasmano con le proprie specificità, ne orientano indirizzi e obiettivi. Per comprendere le particolarità, le strategie, gli obiettivi, ma anche la struttura gerarchica, le regole di compartimen­ tazione e clandestinità, l’organizzazione in colonne, bri­ gate, fronti e settori, l’autonomia di questi nei confronti del Comitato esecutivo, i cambiamenti dettati dalle sem­ pre maggiori esigenze di sicurezza, risulta indispensabile lo studio della documentazione prodotta dalle stesse Br come rivendicazioni, risoluzioni della Direzione strategica, del Comitato esecutivo, della Direzione di colonna, docu­ menti prodotti dai militanti durante la detenzione6. Cer­ tamente, come ha sottolineato Andrea Saccoman, questo materiale non permette un’agevole ricostruzione «dall’in­ terno» del gruppo poiché poco o nulla rivela sui processi 6 Oltre al materiale diffuso dalle Br durante la loro attività, esi­ stono raccolte e pubblicazioni sia coeve, come quelle ad opera del Soccorso rosso, sia posteriori come il Progetto Memoria. Per quanto riguarda il primo caso cfr. Comitato di difesa della XXII ottobre, Con­ troprocesso a Sossi, Savona, 1974; G. Guiso, A. Bonomi e F. Tommei (a cura di), Criminalizzazione della lotta di classe: Guido Viola, requisi­ toria Feltrinelli, Bruno Caccia, requisitoria Brigate Rosse, Verona, Bertani editore, 1975; Soccorso rosso, Brigate Rosse: che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto , Milano, Feltrinelli, 1976; Comitato genovese di informazione politica, Blitz, Genova, Edizioni La Lanterna, 1979. Per quanto concerne il secondo cfr. Aa.Vv., Pro­ getto Memoria. La mappa perduta, Roma, Sensibili alle foglie, 1994; Aa.Vv., Progetto Memoria. Sguardi ritrovati, Roma, Sensibili alle fo­ glie, 1995; Aa.Vv., Progetto Memoria. Le parole scritte, Roma, Sensibili alle foglie, 1996; Aa.Vv., Progetto Memoria. Le torture affiorate, Roma, Sensibili alle foglie, 1998; Aa.Vv., Progetto Memoria. Il carcere speciale, Roma, Sensibili alle foglie, 2006; L. Ruggiero (a cura di), Dossier Bri­ gate Rosse 1969-1975. La lotta armata nei documenti e nei comunicati delle prime Br, Milano, Kaos, 2007. Per finire un interessante archivio documentario (Dote) è conservato presso l’istituto Cattaneo di Bolo­ gna, cfr. www.cattaneo.org.

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decisionali e operativi: non esistono, infatti, i verbali della Direzione strategica, del Comitato esecutivo o della Dire­ zione di colonna7, poiché, come appare evidente, un’or­ ganizzazione illegale non produce documentazione sulla propria attività operativa. La ricerca, più che fare emergere la dimensione lo­ cale della storia generale, muove nella direzione opposta: l’analisi della singola realtà permette, infatti, di aprire squarci sugli aspetti generali del fenomeno altrimenti dif­ ficili da intuire, nonché di cogliere i legami tra il feno­ meno e la realtà sociale che lo ha generato o comunque alimentato, preservando così dal rischio di banali genera­ lizzazioni. Muovendosi in questo senso sarà quindi neces­ sario ricostruire sia il contesto sociale, politico ed econo­ mico in cui la pratica armata sorge e si sviluppa, sia la galassia della sinistra extraparlamentare, nelle cui pieghe essa si muove, si mimetizza e si nasconde, verificandone contiguità, continuità e fratture. In questa prospettiva, il caso genovese appare rile­ vante sul piano conoscitivo e storiografico per due ordini di motivi. In primo luogo perché Genova, nonostante sia stata poco considerata negli studi sulla lotta armata, fu teatro di quelle che si possono definire importanti «prime volte», che la rendono sia anticipatrice di ten­ denze future, sia una sorta di «laboratorio» in cui le Br sperimentarono ciò che successivamente realizzarono su larga scala: nel capoluogo nacque la prima organizzazione armata italiana, fu portato a termine il primo sequestro politico di consistente durata e primo episodio del co­ siddetto «attacco al cuore dello stato», furono compiuti il primo assassinio scientemente programmato, la prima gambizzazione a danno di un giornalista e infine il primo ferimento e il primo assassinio di esponenti del Pei. In secondo luogo perché Genova presenta peculiarità che non si riscontrano, o comunque non in modo così netto, in altre realtà simili: il legame intenso dei gruppi 7 Saccoman, Sentieri rossi nella metropoli, cit., pp. 5-6.

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armati con il territorio e con la tradizione repubblicana e antifascista, lo scontro con la sinistra parlamentare e sin­ dacale, a fronte della modesta consistenza di quella extra­ parlamentare, la partecipazione alla lotta armata di espo­ nenti del mondo accademico, alcuni clamorosi errori giu­ diziari, come le vicende di Giambattista Lazagna e Giu­ liano Naria, e infine il conflitto particolarmente cruento tra le organizzazioni armate e gli apparati d’ordine dello stato: entrambi esempi, questi ultimi due, degli alti costi che l’emergenza antiterrorismo ha comportato. Queste «prime volte» e queste peculiarità rendono Genova un osservatorio privilegiato. 2. Le «prime volte» genovesi Le «prime volte» genovesi sono importanti non solo per ragioni strettamente temporali, cioè banalmente non solo perché qui qualcosa avviene prima che altrove, ma perché ciò che qui avviene imprime repentine accelera­ zioni, se non vere e proprie svolte, alla storia della lotta armata. A Genova nacque la prima organizzazione armata italiana, il Gruppo XXII ottobre. Questo gruppo, costi­ tuitosi nell’ottobre del 1969, era formato essenzialmente da operai, portuali e sottoproletari, «animali di perife­ ria» senza alcuna velleità intellettuale e già con qualche esperienza di illegalità, ai quali si unirono alcuni ex par­ tigiani delusi e nostalgici di quella che consideravano la «Resistenza tradita». Buona parte dei fondatori, insoddi­ sfatti della militanza svolta prima nella Fgci e poi nel Pei, sul finire degli anni Sessanta avvertì la «necessità di fare delle cose [...], di rispondere a livello pratico e imme­ diato agli attacchi del potere»8, pur senza comunque ela­ borare una precisa strategia di azione. Da questo punto 8 Piano, 22 ottobre, un progetto di lotta armata, cit., p. 79.

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di vista la strage di piazza Fontana fu la conferma della bontà di una scelta già intrapresa. Le loro azioni furono di vario tipo, andando dalle interferenze di Radio Gap nelle trasmissioni del telegiornale della Rai agli attentati dinamitardi, alcuni dei quali falliti, contro il Consolato degli Stati Uniti, contro i mezzi dei carabinieri, contro alcuni depositi dell’Ignis e delle raffinerie Garrone, fino alle rapine per autofinanziamento e al noto sequestro di Sergio Gadolla, appartenente a una delle più importanti famiglie imprenditoriali cittadine. Oltre al «primato» della nascita della prima organiz­ zazione armata, il capoluogo ligure fu teatro di alcuni episodi che costituirono dei veri e propri spartiacque nella storia dell’altro gruppo operante in città, le Br, e più in generale nella storia della lotta armata tout court. A Genova fu realizzato il primo sequestro di persona a scopo politico di lunga durata e non strettamente legato a dinamiche di fabbrica, quello del magistrato Mario Sossi nella primavera del 1974. Il rapimento rappresentò il primo passo verso il cosiddetto «attacco al cuore dello stato», culminato poi nel sequestro del presidente della De Aldo Moro. Proprio la figura di Sossi funse da col­ lante tra il Gruppo XXII ottobre e le Br: egli infatti era stato il pubblico ministero che aveva ottenuto una con­ danna per il gruppo guidato da Mario Rossi, ma anche il magistrato che si era guadagnato la fama di «persecutore degli operai» per questioni di modesta entità, legate a manifestazioni di piazza e di ordine pubblico, nelle quali spesso usava la mano pesante. Sossi fu rapito dalle Br il 18 aprile 1974 e il 20 maggio, dopo un’estenuante tratta­ tiva, la Corte d’Assise d’Àppello di Genova cedette alle richieste brigatiste e concesse la libertà a otto detenuti esponenti del Gruppo XXII ottobre, pur subordinandola all’accertamento delle buone condizioni di salute del ma­ gistrato. Lo stesso giorno il procuratore generale Fran­ cesco Coco impugnò l’ordinanza chiedendone l’annul­ lamento alla Corte di Cassazione. Tre giorni dopo le Br rilasciarono l’ostaggio e con un comunicato motivarono tale gesto da un lato con la volontà di mettere «Coco 372

e chi lo copre di fronte a precise responsabilità: o libe­ rare immediatamente i compagni, o non rispettare le loro stesse leggi» e, dall’altro, con l'avvenuto raggiungimento dell’intento di «sviluppare al massimo le contraddizioni [...] all’interno e fra i vari organi dello stato»9. Un’altra «prima volta» genovese fu l’assassinio di Francesco Coco, l’8 giugno 1976, proprio per la sua presa di posizione durante la vicenda Sossi. Tale azione rappresentò uno spartiacque nella storia brigatista, poi­ ché per la prima volta il gruppo ricorse deliberatamente all’omicidio politico10. A Genova avvenne anche il primo ferimento a danno di un esponente comunista: l’ingegner Carlo Castellano, docente universitario, dirigente dell’Ansaldo e membro della commissione regionale per l’econo­ mia e il lavoro del Pei. Solo in un’altra occasione le Br colpirono un esponente comunista e accadde di nuovo a Genova, quando il sindacalista della Cgil Guido Rossa fu colpito mortalmente, il 24 gennaio 1979. Fu sempre la colonna genovese, a lungo circon­ data da fama di imprendibilità e spietatezza, a inaugu­ rare il 1° giugno 1977 la cosiddetta «campagna contro la stampa». Il primo giornalista a essere «gambizzato», fe­ rito intenzionalmente alle gambe, fu il direttore del «Se­ colo XIX» Vittorio Bruno; mentre il giorno successivo a Milano venne colpito Indro Montanelli, direttore del «Giornale Nuovo» e a Firenze furono incendiate le auto di Giuseppe Peruzzi e Umberto Chirici, giornalisti de «La Nazione». Il 3 giugno a Roma fu la volta di Emilio Rossi, direttore del Tgl e infine il 15 novembre 1977 a Torino fu colpito Carlo Casalegno, vicedirettore de «La 9 Comunicato n. 8. Perché rilasciamo Mario Sossi (23 maggio 1974), ora in Soccorso rosso, Brigate Rosse: che cosa hanno fatto, cit. 10 In termini temporali il primo omicidio delle Br è quello di due militanti del Msi di Padova, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, nel giugno 1974, uccisi durante un’irruzione nella locale sede del partito per motivi mai del tutto chiariti, ma senza premeditazione. La figlia di una delle vittime ha di recente rievocato la vicenda, cfr. S. Giralucci, Linferno sono gli altri, Milano, Mondadori, 2011.

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Stampa», che sarebbe deceduto il successivo 29 novem­ bre dopo una lunga agonia. 3. Una città, le sue fabbriche, la sua storia Sia il Gruppo XXII ottobre che le Brigate rosse fu­ rono fortemente influenzati dal quadro economico e più in generale dal territorio e dalla conformazione sociopo­ litica della città. In particolare il gruppo creato da Mario Rossi affondava le sue radici, più che nelle mobilitazioni del biennio 1968-69, nell’esperienza partigiana e nelle «giornate epiche» di giugno e luglio I960“ , che avevano visto Genova protagonista nella ripresa della conflittua­ lità e nell’emergere di nuovi attori sociali. Il legame con la tradizione antifascista della città medaglia d’oro per la Resistenza non era solamente ideale, come confermava la presenza nel gruppo di diversi ex partigiani non ras­ segnati all’esito della mobilitazione resistenziale12. Il ri­ chiamo al giugno del ’60 assunse concretezza quando, ap­ punto dieci anni più tardi, il Gruppo XXII ottobre si in­ tromise più volte nelle trasmissioni serali del telegiornale utilizzando la sigla Radio Gap, nata dall’incontro con i Gap di Giangiacomo Feltrinelli, per invitare gli antifasci­ sti genovesi a mobilitarsi contro il comizio del segretario del Msi, Giorgio Almirante, indetto per il 18 aprile 1970. 11 Cfr. Movimento 30 giugno, Il 30 giugno a Genova, Genova, Tmc, I960; A.G. Parodi, Le giornate di Genova, Roma, Editori Riu­ niti, 1960; P. Arvati e P. Rugafiori, Storia della Camera del lavoro di Genova: dalla Resistenza al Luglio, Roma, Editrice sindacale italiana, 1983; P. Cooke, Luglio 1960: Tambroni e la repressione fallita, Milano, Teti, 2000; A. Benna e L. Compagnino, 30 giugno 1960 la rivolta di Genova nelle parole di chi c'era, Genova, Folli, 2002. 12 Tra l’altro, come ha ricordato Paolo Piano in Id., La «banda» 22 ottobre, cit., nell’immediato dopoguerra alcuni di loro assieme ad altri ex partigiani avevano ricattato degli ex fascisti, per così dire perdo­ nandoli «a rate», alla stregua di quanto facevano Ettore e Bianco, per­ sonaggi scaturiti dalla invenzione di Beppe Fenoglio, rispettivamente nei suoi I ventitré giorni della città di Alba, Torino, Einaudi, 1952, e La paga del sabato, Torino, Einaudi, 1969.

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Proprio nel corso della dura contestazione di quel comi­ zio avrebbe perso la vita Ugo Venturini, primo missino morto in uno scontro di piazza13. La storia del Gruppo XXII ottobre pare dunque venire da lontano e la sua importanza appare perciò maggiore del ruolo secondario avuto nella storia della lotta armata. Il forte legame con il territorio è ben evidente anche a proposito della colonna genovese delle Br: la sua com­ posizione sociale, la scelta degli obiettivi e la tipologia delle pratiche attuate sono indubbiamente connesse con le dinamiche sociopolitiche della città14. Il capoluogo li­ gure alla fine degli anni Sessanta fu investito da impor­ tanti cambiamenti economico-sociali che, pur comuni a larghe aree del paese, qui si svilupparono prima e più intensamente. Il fenomeno che forse maggiormente segnò la città fu il precoce decremento demografico dovuto alla diminuzione sia delle nascite che della capacità attrattiva del capoluogo urbano rispetto ai centri limitrofi. Ciò si tradusse nel prematuro invecchiamento della popolazione, al cui interno le classi di età più anziane ebbero da allora un peso crescente15. Come ha evidenziato Dogliotti16, la società genovese appariva, non solo anagraficamente, in­ vecchiata e stanca, dotata di scarsa mobilità sociale e con una classe imprenditoriale nutrita dal sussidio statale e da vecchi privilegi, poco incline all’innovazione, statica e in­ capace di affrontare una crisi economica che nel decen­ nio successivo sarebbe divenuta drammaticamente palese. 15 D. Alfonso e L. Borzani, Genova, il ’68. Una città negli anni del­ la contestazione, Genova, Frilli, 2008, p. 51. 14 Cfr. F. Monteverde, La città mutante. Demografia e risorse a Ge­ nova, Genova, Sagep, 1984; Aa.Vv., Genova: ieri, oggi, domani, Mila­ no, Rizzoli, 1985; P. Arvati, Oltre la città divisa: gli anni della ristrut­ turazione a Genova, Genova, Sagep, 1988; A. Gibelli e P. Rugafiori (a cura di), La Liguria, Torino, Einaudi, 1994; P. Arvati, E. Molettieri e A. Pesce (a cura di), Il voto a Genova: 1946-2001, Comune di Geno­ va, Unità organizzativa statistica. 15 Arvati, Oltre la città divisa, cit., pp. 17-22. 16 Dogliotti, La colonna genovese delle Brigate Rosse, cit., p. 11541156.

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Allo stesso modo, anche la classe operaia genovese pareva sempre uguale a se stessa: pur mantenendo una notevole capacità di mobilitazione, si mostrava poco permeabile e sostanzialmente refrattaria ai nuovi soggetti sociali emer­ genti, quasi avesse lo sguardo rivolto al decennio prece­ dente. Dominava la cosiddetta «aristocrazia operaia» ca­ ratterizzata da «grande capacità ed esperienza nel lavoro, dall’orgoglio professionale, dalla combattività sempre in­ canalata in forme di lotta istituzionalizzate (Pei e sinda­ cato) e dal mito della produttività»17. Oltre al decremento demografico, il capoluogo ligure viveva anche una pre­ coce crisi economica, figlia di un modello di sviluppo, basato sulle partecipazioni statali, che iniziava a scricchio­ lare. La crisi si manifestò essenzialmente come declino in­ dustriale: il settore secondario, infatti, molto presto perse peso nella struttura occupazionale, superato già nel 1961 dal terziario, quando nel resto del «triangolo industriale» il sorpasso sarebbe avvenuto vent’anni dopo18. Per di più, questo precoce processo di terziarizzazione non era quello tipico delle società postindustriali, poiché, più del cosiddetto «terziario avanzato», avvantaggiava quello commerciale e turistico-alberghiero19. In questo contesto alcuni gruppi si formarono alla si­ nistra di un Pei che stentava a comprendere e gestire i mutamenti in atto e a integrare le nuove generazioni all’interno dei luoghi di lavoro. Ciò nonostante, nelle fab­ briche partito e sindacato risultavano ancora forti e orga­ nizzati e riuscirono in buona parte a tamponare le infil­ trazioni delle Br, le quali ovviamente avevano gioco più facile in quelle realtà, come l’Italsider, in cui la sinistra era minoritaria. Resta il fatto che il legame tra lotta armata e realtà di fabbrica, forte anche in altre realtà analoghe, come Mi­ 17 Ibidem, p. 1155. 18 Sulla struttura occupazionale cfr. Arvati, Oltre la città divisa, cit., pp. 22-36. 19 Ibidem, pp. 79-82.

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lano e Torino, a Genova fu particolarmente intenso e a un tempo lacerante, culminando non a caso nella tragica «vi­ cenda Rossa-Berardi»20. La questione operaia fu centrale nella prospettiva della colonna genovese delle Br che, non a caso, concentrò la sua propaganda quasi esclusivamente nelle fabbriche, studiando dall’interno le problematiche operaie e indirizzando quasi tutte le sue azioni contro per­ sonalità legate a vario titolo al mondo del lavoro. L’analisi di tutte le azioni compiute dalle Br a Genova ne fornisce piena conferma21. L’attenzione della colonna, così come le sue iniziative pratiche, che si tratti di azioni eclatanti, di azioni minori come quelle «contro le cose» o di azioni in cui l’obiettivo è prettamente politico, fu co­ stantemente rivolta alla fabbrica. Anche per la colonna mi­ lanese e torinese, inevitabilmente, le fabbriche avevano un peso notevole, ma a Genova esso divenne pressoché esclu­ sivo. Uniche eccezioni sembrano essere gli attacchi contro la De22 e contro le forze dell’ordine23, anche se questi ul20 Guido Rossa, operaio comunista e delegato sindacale della Fiom all’Italsider di Cornigliano, denunciò Francesco Berardi, anch’egli ope­ raio dell’Italsider, come postino delle Br e quest’ultimo venne arresta­ to; pochi mesi dopo Rossa, che aveva testimoniato al processo contro Berardi, fu ferito mortalmente; a sua volta Berardi, dopo alcune par­ ziali ammissioni, si tolse la vita in carcere. 21 Un censimento puntuale degli episodi catalogabili sotto la defi­ nizione di «violenza politica», anche attraverso l’ausilio di altre disci­ pline scientifiche, è stato realizzato dalla ricerca, promossa dall’Isodarco, di C. Schaerf, G. De Lutiis, A. Silj, F. Cariucci, E. Beliucci e S. Argentini, Venti anni di violenza politica in Italia, 1969-1988, Roma, Università degli studi «La Sapienza», 1992. 22 Le Br ferirono alle gambe quattro esponenti democristiani: nel 1977 Angelo Sibilla, segretario regionale De, nel 1979 Giancarlo Dagnino, segretario amministrativo della De genovese, ed Enrico Ghio, consigliere regionale De candidato alle Europee; nel 1980 Giancarlo Moretti, consigliere comunale De e docente di diritto tributario. 25 Per loro natura, gli attacchi contro le forze dell’ordine tendono a essere assai più cruenti. Caddero per primi, l’8 giugno 1976, il brigadie­ re Giovanni Saponara e l’appuntato Antioco Dejana, di scorta al procu­ ratore generale Francesco Coco, anch’egli ucciso in quell’occasione. In seguito, il 21 giugno 1978, fu ucciso intenzionalmente e per il suo ruolo Antonio Esposito, commissario capo di pubblica sicurezza, prima fun-

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timi sono collocati per lo più nella seconda metà del de­ cennio e sono evidentemente impliciti in una strategia di lotta armata. Tuttavia anche solo l’elenco delle automobili e delle sedi oggetto di atti vandalici o irruzioni conferma l’attenzione dominante per il mondo del lavoro e le «moti­ vazioni di classe» sempre addotte a motivare quegli atti: gli incendi di auto riguardano responsabili del personale, tec­ nici, direttori, funzionari, dirigenti, impiegati, operai, inge­ gneri, guardie giurate di varie fabbriche cittadine, con una netta predominanza dell’Italsider e dell’Ansaldo, ma anche in riferimento all’Italcantieri o all’Oam (Officina allesti­ mento riparazione navi); le sedi attaccate sono per la mag­ gior parte di associazioni sindacali, come la Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil, l’Intersind, la Cisnal Federazione Ita­ liana Lavoratori del Mare, il Consorzio Autonomo Porto, e solo in misura minore quelle della De. Il fortissimo interesse delle Br genovesi per il mondo del lavoro è evidente anche nelle iniziative più propriamente politiche, come il sequestro di Mario Sossi24: l’azione inten­ deva essere il primo colpo infetto al «cuore dello stato» e il giudice fu scelto per il ruolo svolto nel processo al Gruppo XXII ottobre, ma, come è già ricordato, determinante fu anche la sua fama, non solo negli ambienti della sinistra estrema, di «persecutore degli operai» duro e inflessibile. zionario della Questura di Torino, poi dirigente del servizio di sicurezza della Liguria e all’epoca dirigente dell’ufficio sicurezza di Nervi. Dal no­ vembre 1979 al gennaio 1980 furono quindi uccisi quattro carabinieri: il 21 novembre 1979 il maresciallo Vittorio Battaglini e il carabiniere Ma­ rio Tosa e il 25 gennaio 1980 il tenente colonnello Emanuele Tuttobene e l’appuntato Antonio Casu (venne inoltre ferito il colonnello Luigi Ramundo). Questi ultimi quattro omicidi sono stati messi in stretta rela­ zione con l’irruzione, due mesi dopo, nell’appartamento di via Fracchia nel corso della quale quattro componenti di primo piano della colonna genovese rimasero uccisi in circostanze mai del tutto chiarite. 24 Per una rievocazione, comprensibilmente da un punto di vista personale, della vicenda cfr. M. Sossi, Nella prigione delle Br, Milano, Editoriale Nuova, 1979, come anche l’opera di un giornalista molto vi­ cino alla famiglia Sossi durante il sequestro, L. Garibaldi, Com’erano rosse le mie Brigate. Gli anni di piombo visti da un giornalista dalla parte sbagliata, Roma, Nuove Idee, 2005.

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Un quadro analogo emerge analizzando le azioni con­ tro le persone (ferimenti alle gambe, rapimenti e omicidi) compiute dalla colonna genovese25. Se degli omicidi sono vittime, come già detto, oltre a sette esponenti delle forze dell’ordine, il Procuratore generale Francesco Coco e l’operaio dell’Italsider, militante comunista e delegato sin­ dacale della Cgil Guido Rossa, ferito mortalmente il 24 gennaio 197926, i sequestri sono a danno del giudice Sossi e, con un «sequestro lampo», del responsabile del perso­ nale dell’Ansaldo Vincenzo Casabona. Anche i ferimenti alle gambe colpiscono, accanto ai quattro esponenti de­ mocristiani già ricordati, in larga misura esponenti del mondo del lavoro: Sergio Prandi, dirigente Ansaldo, Carlo Castellano, direttore della pianificazione Ansaldo, Filippo Peschiera, docente di diritto del lavoro, Felice Schiavetti, presidente dell’Associazione industriali di Ge­ nova, Alfredo Lamberti, funzionario Italsider e dirigente della Finsinder, Fausto Gasparino, vicedirettore Intersind, Giuseppe Bonzani, direttore dell’Ansaldo Meccanica, Ro­ berto Della Rocca, responsabile del personale della Moto­ meccanica Generale Navale. Un ulteriore e peculiare profilo della vicenda geno­ vese è la particolare conflittualità tra le Br e la sinistra parlamentare e sindacale cittadina, che qui più che al­ trove assume un carattere dirompente - non sempre facil­ mente comprensibile - di cui la vicenda di Guido Rossa è solo l’episodio più tragico. Certo è che nel capoluogo 25 Per questa e tutte le successive azioni compiute cfr. Schaerf, De Lutiis, Silj, Cariucci, Beliucci e Argentini, Venti anni di violenza poli­ tica, cit., e Acs, Mi, Gabinetto del ministro, fascicoli classificati 19761980 (buste 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 372, 373, 374, 375, 376, 377, 378, 379-379 bis, 381-381 bis, 382). 26 Su Guido Rossa cfr. Consiglio di fabbrica Italsider, Guido Rossa un uomo una vita, Genova, 1983; G. Feliziani, Colpirne uno educarne cento: la storia di Guido Rossa, Arezzo, Liminia, 2004; S. Rossa e G. Fasanella, Guido Rossa, mio padre, Milano, Rizzoli, 2006; P. Andruccioli e G. Ferrara, Il testimone: Guido Rossa, omicidio di un sindacali­ sta, Roma, Ediesse, 2009; G. Bianconi, Il brigatista e l’operaio, Torino, Einaudi, 2011.

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ligure, a fronte di una tradizione di sinistra forte e conso­ lidata, estremamente debole appare la sinistra cosiddetta extraparlamentare, specialmente se confrontata con analo­ ghe realtà urbano-industriali. Questa indubbia peculiarità, peraltro, smentisce per il caso genovese le ipotesi volte a tracciare un nesso deterministico tra la storia della sini­ stra extraparlamentare e lo sviluppo delle organizzazioni armate. Nient’affatto trascurabile, e anch’essa da indagare nel contesto della storia politica e culturale della città nei decenni postbellici, è l’adesione alla lotta armata di al­ cuni esponenti del mondo accademico: il riferimento è alla esperienza, tutt’altro che lineare, di Enrico Fenzi, e a quella altrettanto complessa di Gianfranco Faina27, per­ sonaggio emblematico che anticipa e attraversa l’intera «parabola dei movimenti» genovesi, a partire dai primi gruppi operaisti, passando per le occupazioni universita­ rie e i gruppi della sinistra rivoluzionaria, avvicinandosi e sfiorando le Br pur senza mai divenirne membro effet­ tivo, per poi approdare al gruppo Azione rivoluzionaria. La sua storia permette tra l’altro di cogliere almeno al­ cuni aspetti dei rapporti, conflittuali o meno, tra sinistra rivoluzionaria e gruppi armati e dunque di discernere e al tempo stesso collegare una pluralità di contesti, culture e pratiche politiche. Né, complessivamente, va dimenticato che a Genova l’iniziativa brigatista fu particolarmente violenta, mani­ festandosi con un numero di omicidi proporzionalmente elevato rispetto alle iniziative messe in atto, e che ancora a Genova si verificò l’intervento forse più cruento delle forze antiterrorismo, che il 28 marzo 1980 fecero irru­ 27 Cfr. il ricordo di Pier Paolo Poggio e Rinaldo Manstretta in «Primo Maggio», n. 19/20, inverno 1983/1984; G. Quiligotti, Operai e intellettuali dopo i «fatti del ’60», in «Contemporanea. Rivista di sto­ ria dell’800 e del ’900», 2, aprile 2011; E. Ravot Licheri, Biografia di Gianfranco Faina, tesi di laurea, Università degli studi di Genova, Fa­ coltà di lettere e filosofia, a.a. 2000-2001, relatore P. Conti, correlatore R. Sinigaglia.

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zione nella base in via Fracchia, con modalità mai del tutto chiarite che portarono alla morte dei quattro briga­ tisti (Anna Maria Ludman, Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli e Riccardo Dura) là sorpresi28. 4. Fonti per una ricerca Un’indagine volta ad analizzare le molteplici questioni sopra tratteggiate non potrebbe che avvalersi, necessaria­ mente e senza preclusioni, di una pluralità di fonti molto diverse tra loro, che, pur non esaustive singolarmente, lo diventano se utilizzate nel loro complesso facendole inte­ ragire l’una con l’altra. I documenti giudiziari29, essenzialmente atti proces­ suali e sentenze, sono determinanti per una ricostruzione puntuale delle vicende inerenti alla lotta armata. La con­ sultazione dei primi, potenzialmente molto utili, è su­ bordinata alla dimostrazione - tutt’altro che facile per lo studioso - di possedere un interesse legittimo da tute­ lare: di fatto essa, salvo rare eccezioni, è consentita solo a coloro che, a vario titolo, sono stati parti in causa nei procedimenti giudiziari, anche se può in parte supplire l’eventuale reperimento di copia di quegli atti presso qualche avvocato partecipe al processo. Tali difficoltà co­ stringono a ricorrere al secondo tipo di documenti giu­ diziari, le sentenze, pubbliche per legge, che sono anzi­ tutto preziose per la mole di informazioni, nomi, circo­ stanze e dati utili alla ricostruzione almeno parziale degli 28 Cfr. L. Podestà, 11 blitz anti-brigatista di via Fracchia: ipotesi e fonti storiche, tesi di laurea, Università degli studi di Genova, Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 2007-2008, relatore G. Casarino, correlatore R. Sinigaglia. 29 Tenendo ben presente che verità storica e verità giudiziaria non sono la stessa cosa, a tal proposito cfr. C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazione in margine al processo Sofri, Milano, Feltrinelli, 2006.

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«organigrammi» delle organizzazioni armate e delle loro azioni. Inoltre, lette in controluce aiutano a compren­ dere l’andamento e l’orientamento dei processi e più in generale l’approccio della magistratura e dell’avvocatura ai fatti della lotta armata e della violenza politica. Nel contesto genovese, la vicenda dell’arresto di Giambatti­ sta Lazagna30 con l’accusa di essere il «capo e ideologo» delle Br, e quella di Giuliano Naria31, accusato erronea­ mente dell’omicidio Coco, non sono che due tra i casi di indubbio interesse. La centralità delle fabbriche nella vicenda genovese si riflette nella potenzialità degli archivi di impresa, a cominciare da quello della Fondazione Ansaldo32 che dispone di diverso materiale utile: documenti sulla pro­ grammazione industriale, sulla disciplina e sui motivi della cessazione del rapporto di lavoro, sull’attività della Commissione interna, sugli scioperi, le agitazioni e le ver­ tenze sindacali, infine circolari, ordini, comunicazioni per l’Ufficio vigilanza e i rapporti da esso redatti. Dispone anche di una fototeca e di una cineteca con materiali ri­ guardanti attività sociali, eventi aziendali, manifestazioni politiche e sindacali. Questo materiale, opportunamente confrontato con quello prodotto dal gruppo armato sulle specifiche questioni di fabbrica o con le azioni portate a termine, può contribuire fruttuosamente a ricostruire le modalità con cui le Br si inserirono nelle dinamiche poli­ tico-sindacali delle fabbriche genovesi. Per ricostruire le vicende della sinistra extraparlamen­ tare sono disponibili due archivi dedicati, interamente o 50 Cfr. G. Lazagna, Carcere, repressione, lotta di classe, Milano, Fel­ trinelli, 1974, e G. Lazagna, A. Natoli e L. Saraceni, Antifascismo e partito armato, Genova, Angelo Ghiron, 1979. 31 Sull’arresto di Giuliano Naria cfr. Aa.Vv., Il caso Coco: proces­ so a Giuliano Naria, Milano, Collettivo Editoriale Librirossi, 1978; I. Farè (a cura di), Lultimo processo. Patologia di un’istruttoria. Omicidio Coco, imputato Giuliano Naria, Milano, Milano libri, 1980; G. Naria, In attesa di reato, Milano, Spirali/Vel, 1991. 52 Cfr. il sito www.fondazioneansaldo.it.

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in parte, alla cosiddetta «stagione dei movimenti» geno­ vese: l’ArchiMovi, promosso dall’Associazione per un Ar­ chivio dei Movimenti33, e il Clsc Centro Ligure di Storia Sociale34, che conserva documenti della «nuova sinistra» e di origine sindacale, questi ultimi particolarmente cospi­ cui essendo stati qui versati gli interi archivi della CgiI e della Cisl. Si tratta di documenti nazionali, regionali, pro­ vinciali e camerali, utili per comprendere le vicende sin­ dacali del capoluogo ligure e l’atteggiamento di fronte al terrorismo35. I documenti relativi ai gruppi della sinistra extraparlamentare sono principalmente raccolte di opu­ scoli, volantini e documenti, materiali sulla riforma car­ ceraria e i cosiddetti «prigionieri politici», fogli di infor­ mazione sulla situazione carceraria, il bollettino «Carcere oggi» redatto dal Soccorso rosso militante, documenti di organizzazioni quali il Movimento studentesco geno­ vese, Avanguardia operaia, Lotta comunista, Lotta con­ tinua, Potere operaio, Ludd/Consigli proletari, Comontisti, Commissione repressione, Comitato per la difesa dei detenuti politici, Comitati di quartiere. L’ArchiMovi invece è interamente dedicato ai «movimenti» genovesi e conserva materiali prodotti da attivisti e appartenenti ai diversi gruppi politici, quali documenti, opuscoli, lo­ candine e appunti relativi alle organizzazioni universita­ rie pre-Sessantotto, al Movimento studentesco e a Lotta comunista, documenti delle riunioni di Potere operaio a Sampierdarena e di Lotta continua, appunti manoscritti e dattiloscritti, periodici, numeri unici, manifesti, volantini 33 Cfr. il sito www.archiviomovimenti.org. 34 Cfr. il sito www.centroliguredistoriasociale.it. 35 Appaiono interessanti anche le pubblicazioni a cura di sindacati e partiti dedicate a queste tematiche, a tal proposito cfr. Cgil-Cisl-Uil (a cura di), Sindacato, lotte sociali, terrorismo. Incontro dibattito con gli operatori dell’informazione, Roma, Ed. Sindacali, 1977. Ricerca a cura della Sezione problemi dello stato del Comitato regionale ligure del Pei, Terrorismo e nuovo estremismo, 1969/1978 natura, radici culturali, obiettivi dell’eversione in Liguria, Genova, 1979; Aa.Vv., Le braci del terrorismo, il sindacato in difesa della democrazia, a cura di Cgil Ligu­ ria, Genova, Erga, 2000.

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e documentazione relativa alle ristrutturazioni industriali, al porto e alle questioni salariali. A questa documentazione, nonostante i vincoli legisla­ tivi alla consultazione36, si affianca assai utilmente quella conservata presso l’Archivio centrale dello stato, rilevante in termini quantitativi, per la ricchezza di informazioni, e qualitativi, anche per quanto suggerisce sul funziona­ mento dei diversi organismi pubblici e la loro compren­ sione dei fenomeni in atto. In specie, il riferimento è alla documentazione prodotta dal ministero dell’interno, ad esempio le relazioni mensili sull’ordine pubblico, che restituiscono il clima di quanto accadeva in città, oltre a dettagliare gli accadimenti dal più piccolo atto intimida­ torio fino ai più gravi attentati contro cose e persone. Da non trascurarsi, anche per le difficoltà sopra se­ gnalate, le potenzialità delle testimonianze orali, come quelle raccolte della Fondazione Ansaldo37 con l’iniziativa «La Liguria del saper fare si racconta», utili a cogliere il modo di porsi e di autorappresentarsi di fronte alla lotta armata da parte dei lavoratori che hanno vissuto il feno­ meno dall’interno delle fabbriche. Ma anche come quelle realizzabili intervistando alcuni testimoni dell’epoca, 36 La documentazione prodotta dallo stato e conservata presso gli Archivi di stato e l’Archivio centrale di stato è consultabile solo dopo 40 anni dalla chiusura della pratica. Negli ultimi anni questo limite, per quanto riguarda la consultazione per motivi di studio, si è atte­ nuato, anche se per quella parte della documentazione considerata riservata il limite sale ai 50 anni. Tra i più interessanti sono i mate­ riali trattenuti presso l’Archivio generale del Gabinetto del ministro dell’interno, ad esempio Acs, Mi, Gabinetto del ministro, fascicoli classificati 1976-1980, B. 16, fascicolo 348/P, Movimenti vari\ B. 17, fascicolo 353/P-368/P, Ordine Nuovo e Partiti italiani e stranieri scam­ bi di visite', B. 18, fascicolo 371/P-382/P, Avanguardia Operaia, Brigate Rosse, Prima Linea, Azione Rivoluzionaria. 37 Per quanto riguarda la storia della fabbrica genovese nel periodo che interessa questa ricerca cfr. Aa.Vv., Storia dell’Ansaldo, voi. 8: Una grande industria elettromeccanica 1963-1980, a cura di V. Castronovo, Roma-Bari, Laterza, 2002; Aa.Vv., Storia dell’Ansaldo, voi. 9: Un secolo e mezzo 1853-2003, a cura di P. Arvati e V. Castronovo, Roma-Bari, Laterza, 2003.

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come avvocati difensori di brigatisti, compagni di Guido Rossa nel Consiglio di fabbrica, esponenti sindacali, ope­ rai delle fabbriche genovesi, militanti delle organizzazioni armate ed esponenti di primo piano dei gruppi extrapar­ lamentari operanti nel capoluogo, come pure giudici, ma­ gistrati e poliziotti38, che, oltre a restituire il loro punto di vista su fatti specifici o sulle modalità operative degli enti e istituzioni di cui fecero parte, possono favorire la com­ prensione dell’atteggiamento culturale ed esistenziale con cui hanno vissuto i conflitti che li videro protagonisti. Diverso forse il rilievo della memorialistica, la cui ipertrofia ne ha fatto quasi un (sotto)genere letterario39, comunque utile a ricostruire i diversi percorsi individuali per quanto con risultati illuminanti più sul presente che sul passato. Nel corposo ambito della memorialistica e delle biografie per quanto riguarda la colonna genovese si registrano i contributi di Vincenzo Guagliardo40, di Bar­ bara Balzerani41 e di Enrico Fenzi42, autore di un lavoro di discreto valore letterario senza però pretese di esausti­ vità dal punto di vista della ricostruzione storico-politica. J8 Negli ultimi tempi diversi magistrati hanno pubblicato libri di memorie, tra questi si ricordano G.C. Caselli, Le due guerre, perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia, Milano, Melampo, 2009; A. Spataro, Ne valeva la pena, storie di terrorismi e mafie, di se­ greti di Stato e di giustizia offesa, Roma-Bari, Laterza, 2010; P.L. Vigna e G. Sturlese Tosi, In difesa della giustizia, Milano, Rizzoli, 2011. Si ricorda inoltre M. Ruggiero, Nei secoli fedele allo Stato. L’Arma, i piduisti, i golpisti, i brigatisti, le coperture eccellenti, gli anni di piombo nel racconto del generale Nicolò Bozzo, Genova, Frilli, 2006. 59 Per un’analisi delle tendenze generali della memorialistica si ri­ manda a F. Rossi, Memorie della violenza, scritture della storia. Ele­ menti per un’analisi delle controverse ri-letture degli anni Settanta, in I dannati della rivoluzione, cit. 40 V. Guagliardo, Di sconfitta in sconfitta: considerazioni sull’espe­ rienza brigatista alla luce di una critica del rito del capro espiatorio, Paderno Dugnano, Colibrì, 2002; Id., Resistenza e suicidio: appunti politi­ ci sulla coscienza, Paderno Dugnano, Colibrì, 2005. 41 B. Balzerani, Compagna luna, Milano, Feltrinelli, 1998; Ead., La sirena dellè cinque, Milano, Jaca Book, 2003; Ead., Cronaca di una at­ tesa, Roma, DeriveApprodi, 2011. 42 Fenzi, Armi e bagagli. Un diario dalle Brigate Rosse, cit.

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Infine due apprezzabili testimonianze, seppur da punti di vista differenti, sono quella dell’ex Br Antonio De Muro, riportata nella tesi di laurea di Francesca Forleo43, e quella di Roberto Speciale, militante prima del movi­ mento studentesco, poi del Psiup e infine del Pei, partiti per i quali ha ricoperto importanti incarichi44. Peraltro, a lungo appannaggio quasi esclusivo degli ex militanti delle organizzazioni armate, negli ultimi anni sono cresciute notevolmente anche le memorie prodotte dalle vittime del terrorismo, talora con risultati di notevole equilibrio e ricchezza, nonostante le comprensibili difficoltà di tali ricostruzioni. Emblematica di questa capacità di saper coniugare il «ricordare» con il ben più complesso «com­ prendere» è in questo senso l’opera di Sabina Rossa45, figlia di Guido, portatrice di una matura e serena rifles­ sione, espressa anche in occasioni pubbliche e private come la recente «vicenda Guagliardo» ha dimostrato46. 43 F. Forleo, Gli anni di piombo a Genova; due storie parallele, tesi di laurea, Università degli studi di Genova, Facoltà di lettere e filo­ sofìa, a.a. 1997-1998, relatore Claudio Costantini, correlatore Antonio Gibelli. 44 R. Speciale, Generazione ribelli, quaderni ritrovati, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 2009. 45 Cfr. Rossa e Fasanella, Guido Rossa, mio padre, cit. Cfr. anche le narrazioni di M. Calabresi, Spingendo la notte più in là. Storia del­ la mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Milano, Mondadori, 2007, e di Anna Negri, vittima anch’essa seppur in modo chiaramente diverso di quella stagione, autrice di Con un piede impigliato nella sto­ ria, Milano, Feltrinelli, 2009. Sulle vittime del terrorismo cfr. anche G. Fasanella e A. Grippo, I silenzi degli innocenti, Milano, Rizzoli, 2006; R. Arditti, Obiettivi quasi sbagliati, Milano, Sperling & Kupfer, 2007; Presidenza della Repubblica (a cura di), Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2008; A. Conci, P. Grigolli e N. Mosna (a cura di), Sedie vuote, gli anni di piombo dalla parte delle vittime, Trento, Il margine, 2008, non­ ché il lungo elenco pubblicato sul sito delTAssociazione Italiana Vitti­ me del Terrorismo, www.vittimeterrorismo.it. 46 Cfr. C. Vecchio, Sabina Rossa e il killer del padre. Ormai ha pa­ gato, liberatelo, in «la Repubblica», 16 ottobre 2008; G. Galletta, Libero dopo 32 anni l’ultimo dei killer di Guido Rossa, in «Il Secolo XIX», 27 aprile 2011, ove si riporta la seguente dichiarazione di Sa-

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In conclusione, il caso genovese con le sue specificità e le sue «prime volte» ebbe un peso notevole, non sem­ pre riconosciutogli, nella storia della lotta armata. Lo stu­ dio di uno dei primi contesti sociali, economici e politici in cui la lotta armata, con il Gruppo XXII ottobre, con­ cretamente nacque e, con l’omicidio di Guido Rossa, per molti versi tramontò, nonostante il tragico protrarsi per alcuni anni delle azioni militari, e la ricostruzione delle specifiche vicende genovesi in relazione alle più vaste di­ namiche nazionali, delle quali Genova divenne talora ma­ croscopicamente rappresentativa, certamente possono of­ frire un contributo di rilievo a quella «storia della lotta armata» in Italia che resta ancora in discreta misura da scrivere.

bina Rossa: «Guagliardo ha dimostrato di aver compiuto un percorso, in questi trenta e più anni di carcere: oggi, lui e Nadia Ponti sono persone diverse rispetto a quello che erano trent’anni fa e questo va loro riconosciuto [...]. Il colloquio e lo scambio di mail che ho avuto con lui - conclude Rossa - me lo hanno fatto capire: non ha chiesto perdono ma mi ha dimostrato di sentire la responsabilità di quello che ha commesso. L’istituto dell’ergastolo esiste in Italia solo perché può essergli applicata la libertà condizionale, altrimenti non sarebbe costi­ tuzionale».

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IMOH LIO 3DK3V1I

INDICE DEI NOMI

Abbiati, G., 15In Accornero, A., 137n Adagio, C., 19n, 29n, 122n Adriano, P., 323n Aglietta, A., 7In Agnelli, G., 161 Alessandrini, E., 87, 341 Alfonso, D., 375n Allende, S., 166 Almirante, C., 289n Almirante, G., 374 Altavista, G., 301 Alunni, C., 200n Amato, N., 296 e n Amendola, G., 118, 123 Amerio, E., 159n, 170n Amodei, F., 212n Amoroso, G., 48, 201n Anderson, T.H., lOOn Andreotti, G., 116, 161 Andruccioli, P, 379n Annarumma, A., 42, 128n Annunziata, L., 85n Arbizzoni, A., 324n Arfé, C„ 299n Argentini, S., 327n, 342n, 344n, 377n,379n Armani, B., 24n, 25n, 57n, 63n, 66n, 210n, 211 e n, 212n, 233n Armeni, G., 293 n Artières, P., 98n Aruzza, C., 141n Arvati, R, 374n-376n, 384n Azzi, N., 324 Baldelli, P., 209 e n, 256 e n Balestrini, N., 19n, 57n, 215n, 222n, 242n Balzerani, B., 329n, 385 e n

Bandelli, A., 270 Barabino, S., 368n Baravelli, A., 234n, 368n Barberis, L., vedi De Luna, G. Barbieri, P., 309n Barbone, M., 88 Bartali, R., 44n Basaglia, F., 288n Basso, L., 250, 251 Battaglia, B., 368n Battaglini, V., 378n Baumann, B., 134n Becker, H., 265 e n Belardelli, G., 113n Beliavita, A., 171n, 219n Bellocchio, M., 105 Bellocchio, P., 126 Belloli, M.R., 362n Bellucci, E., 327n, 342n, 344n, 377n, 379n Benedetto, P.P., 367n Benna, A., 374n Bensai'd, D., 98n Berardi, Franco (detto Bifo), 168n, 228n, 262 Berardi, Francesco, 377 e n Berlinguer, E., 68, 166, 213, 214n, 278 Bernardi, E., 306n Berta, G., 3 In Bertelli, G., 31 e n Bertolazzi, C., 287 Bertucelli, L., 161n Betassa, L., 381 Betta, E., 24n, 25n, 76n Beylot, P., 98 Biacchesi, D., 323n Bianchi, S., 35n, 40n, 48n, 53n, 57n, 79n, 169n, 363n

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Bianconi, G., 342n, 379n Bignami, M., 75 e n BiUi, F., 211n Biscione, M.F., 77n, 342n Blanchet, H., 98 Bobbio, L., 35n, 135n, 138n, 145n, 147 e n, 149n, 151n, 165n, 196n Bocca, G., 58n, 88n, 89n, 128n Bocchini Camaiani, B., 90n, 303n Boccia, M.L., 207n Bologna, S., 140n, 152n, 267 Bonomi, A., 369n Bonzani, G., 379 Boraso, G., 52n, 53, 86n, 187n, 201n, 359n, 362n Borghesan, L., 367n Borghese, J.V., 142n, 244, 276n Borio, G., 29n, 135n Borzani, L., 375n Boschi, R„ 47, 197, 333 Bosi, L., 24n, 26n, 63n, 329n, 338n, 339n Bottger, A., 330n Braggion, A., 197 Braud, P., 239 Bravo, A., 24n, 69n, 70 e n, 112n Bruti Liberati, E., 27n Buffa, P.V., 170n, 214n, 292n Bullo, F., 367n Bussu, S., 292n Buttini, G., 324n Cacciafesta, R., 357 Cacciari, M., 137n Cagol, M., 174n, 347n, 364n Calabresi, L., 69, 70, 151 e n, 154, 252-254, 315 e n, 316, 322, 346 Calabresi, M., 24n, 76n, 386n Calogero, P., 24n, 66, 67n, 76n, 367n Calvi, G., 45n Caminiti, L., 35n, 40n, 48n, 53n, 57n, 79n, 169n, 362n Cappelli, I., 289n Caprara, M., 307n Capussotti, E., 24n

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Carbone, F., 116 Cariucci, F., 327n, 342n, 344n, 377n, 379n Carpignano, P., 140n Casabona, V., 379 Casalegno, C„ 60, 85, 198, 373 Casamassima, P., 342n, 360n Casarino, G., 381n Caselli, G.C., 76n, 219n, 243n, 385n Caselli, S., 367n Casilio, S., 67n, 223n, 229n Cassitta, G., 289n Castellano, C., 373, 379 Castellano, L., 168n Castronovo, V., 384n Casu, A., 378n Catanzaro, R., 83n, 87n, 223 e n, 235n, 269n, 3 lln , 314n, 330n, ^ 335n, 337n, 342n Causarano, P., 34n Cavalli, A., 20n Cazzullo, A., 35n, 69n, 135n, 148n, 151n, 305n, 311n Cecchetti, S., 346 Cecchin, F., 347 Ceci, G.M., 13n Cederna, C., 253 e n Cerrato, R., 19n, 29n, 122n Ceruso, F., 52, 196 e n Che Guevara (Guevara de la Serna, E.), 122n, 132n Chirici, U., 373 Cingolani, G., 323n Ciotta, G., 85 Cipriani, G., 308n Clark, E.A., 232n Clark, R., 338n Clementi, M., 38n, 135n, 186n, 200n Coco, F„ 84, 278, 345, 359n, 372, 373, 377n, 379, 382 e n Colarizi, S., 104n Colletti, L., 248 Compagnino, L., 374n Conci, A., 386n Conti, P., 380n Conway, M., 208n

Cooke, P., 374n Corniglia, P, 336 Corradi, C., 29n Cossiga, F., 55, 72 Cotturri, G., 207n Cotugno, L., 301 Courtois, S., 269n Crainz, G., 113n, 122n, 238n, 245n, 249n, 307n Craveri, P., 16n, 44n, 57n, 125n Craxi, B., 91 Crescenzio, R., 60 Cretella, C., 209 Croce, F., 85 Crouch, C., 125n Cucchiarelli, P., 309n Curcio, R„ 71, 79, 128n, 13 In, 134n, 150n, 170n, 174n, 220 e n, 329n, 364n Custra, A., 54 Cutolo, R., 297 Daghini, G., 152n Dagnino, G., 377n Dalla Chiesa, C.A., 82, 87, 199n, 292, 293 e n, 294, 295, 296 e n, 297 Dalmaviva, M., 183n De Bernardi, A., 209n Debray, R., 134n De Carolis, M., 172n De Felice, F., 15n, 58n, 65n De Gasperi, A., 40 Degli Occhi, A., 321 e n De Graaf, B., 285n, 289n, 293n, 295n, 297n De Gregori, F., 93 Dejana, A., 377n Delale, A., 97, 98n Del Carria, R., 142n Delera, R., 112n Deleuze, G., 262n Del Giudice, P., 183n, 186n Della Mea, L., 138n, 241n Della Porta, D., lln , 13n, 22n, 26n, 30n, 33n, 40n, 41n, 44n, 52n, 55n, 57n-59n, 68n, 69n, 78n, 79, 80n, 85n, 120n, 21 In,

215n, 216n, 219 e n, 223 e n, 242n, 243n, 259, 280n, 285n, 293n, 3lln , 317n, 327n, 330n, 336n, 338n, 339n, 342n-344n, 345, 346, 361n Della Rocca, R, 379 Delle Chiaie, S., 163n De Lorenzis, T., 54n, 80n, 178n, 260n De Lorenzo, G., 119n, 308 De Luca, E., 106n De Luna, G., 24n, 66n, 74 e n, 105n, 237n, 274 e n De Lutiis, G., 327n, 334n, 335n, 342n, 344n, 345, 377n, 379n De Marco, V., 190 De Martino, G., 352n De Muro, A., 386 De Nicolò, M., 16n, 24n, 235n De Rosa, G., 16n, 22n, 35n, 68n, 119n, 307n, 322n De Sanctis, A., 367n De Vito, C.G., 82n, 90n Di Gennaro, G„ 352, 358 Di Mino, B., 276n Di Nolfo, E., 163n Dogliotti, C., 367n, 368 Donat Cattin, M., 70 Dondi, M., 44n, 306n, 315n Donno, G., 307n Dozier, J.L., 89 e n Dura, R., 381 Dutschke, R., 97 Echols, A., 103n Eco, U„ 207, 225 e n Elias, N., 117 Engels, F., 269n Esposito, A., 377n Esseveled, J., 33 In Eyerman, R., 33 In Fagiano, M., 333 Fanon, F., 272 Fanti, L., 367n Farber, D., 103n Farè, I., 382n

393

Fasanelia, G., 65n, 71n, 73n, 75n, 76n, 78n, 95n, 213n, 379n, 386n Fasano, N., 19n Fava, F., 368n Feliziani, G., 379n Feltrinelli, C., 12 ln Feltrinelli, G., 37, 52, 68, 70, 121n, 131 e n, 132n, 134n, 149 e n, 154 e n, 159n, 171n, 255, 274, 347n, 348, 374 Fenoglio, B., 374n Fenzi, E., 329, 380n, 385n Ferlini, F., 289n Ferrara, G., 379n Ferrerò, N., 358 Ferrigno, R., 5 ln, 78n, 174n Fidel Castro (Castro Ruz, F.A.), 121n Filippi, E., 222n Fiore, R., 357n Fiori, P., 357 Fioroni, C., 182n Fiume, G., 24n Flamini, G., 305n Flores, M., 63n Floris, A., 345 Fo, D., 152n, 171n Forastieri, D., 195n Forleo, F., 386n Fortuna, L., 54 Fossat, P., 190, 191n Foucault, M., 288n Franceschini, A., 73n, 75 e n, 78 e n, 170n, 174n, 214n, 292n, 329n, 331, 332n, 335 e n, 364n Franzinelli, M., 44n, 308n, 32ln Fumian, C., 24n, 67n, 76n, 156n, 367n, 368n Funaro, C., 48n, 169n, 170n, 171n, 177n, 178n, 182n Gaber, G., 109n Gadolla, S., 372 Galasso, G., 64n Galfré, M., 24n, 57n, 82n, 84n, 90n, 299n, 302n, 303n

394

Galleni, M., 93n, 114n, 3 lln , 342 e n, 345, 346 Galletta, G., 386n Galli, G., 38n, 77n, 78n, 84n, 285n, 342n, 357n Galli Della Loggia, E., 64 e n Gallinari, P., 73n, 75 e n, 329n, 332 e n Galloni, G., 357 Gaimozzi, E., 48n, 183n Gambetta, W., 35n Gargiulo, A., 352 Garibaldi, L., 378n Gasparino, F., 379 Gauthier, A., 160n Gehrke, B., 17n Geismar, A., 102n Gelli, L., 218n Ghio, E., 377n Giachetti, D., 17n, 18n, 30n, 3 In, 102n, 103n, 124n, 128n, 138n, 157n Giannulli, A., 210n Gibelli, A., 375n, 386n Ginsborg, P., 156n, 161n, 209n, 222 Ginzburg, C., 38In Giordana, M.T., 64n Giovannini, F., 228n Giralucci, G., 373n Giralucci, S., 76n, 373n Girard, R., 27In Giraudo, G., 324n Giudici, B., 346 Giustolisi, F., 170n, 214n, 292n Goffman, E., 288n Golino, E., 220n Gozzini, M., 295n, 298n Graglia, B., 362n Grandi, A., 35n, 121n, 126n, 132n, 135n, 144n, 146n-149n, 152n, 153n, 159n, 167n, 169n, 190n, 342n, 357n Granzotto, A., 358n Grigolli, P, 386n Grillo, F., 324n Grippo, A., 386n Grispigni, M., 57n, 84n, 137n, 3lln

Guagliardo, V., 385n, 387n Lumley, R, 20n Guattari, F., 262n Luperini, R., 121n Guicciardi, L., 201n Lupo, S., 15n Lussana, F., 122n Guidetti Serra, B., 308n Guiso, G., 369n Luzzatto, S., 64n Guizzardi, V., 54n, 80n, 178n, 260n Macaiuso, E., 119n Maccari, G., 190n, 245n Hagan, J., 330n Macchiarmi, I., 70, 149 Heitmeyer, W., 33On Magnaghi, A., 152n Herker, H.D., 190 Manconi, L., 38n, 66n, 72 e n, 83n, 87n, 93n, 109n, 226n, Hess, H., 285n Hobsbawm, E.J., 160 e n, 203 e 227 e n, 269n, 3lln , 314n, n, 231 e n, 232, 239 e n 334n, 337n Horn, G.-R., 17n, 19n Mangano, A., 12In Hiirter, J., 26 Manstretta, R, 380n Mantakas, M., 48, 196 Mantini, L., 82, 359n Iannucci, L., 323 Mantovani, N., 364n Ignazi, P., 221n, 308n Invernizzi, I., 143n, 287 e n, 302 Mao Tse-tung, 268n, 273 Marcellin, R, 101 Jannuzzi, L., 291n Margara, A., 295 July, S., 102n Marighella, C., 351 e n Marini, G., llOn Marino, L., 148n, 151 e n Kaase, M., 235 e n Maritano, F., 259 Krivine, A., 98n Kruglanski, A., 328n Marletti, C., 367n Marramao, G., 122n Labate, B„ 159n, 352 Martellini, A., 24n, 30n, 67n, Labrousse, A., 134n 210n, 229n, 233n Lama, L., 85 Martignoni, G., 263n Martinotti, G., 318n Lamberti, A., 379 Lanza, S., 301 Marwick, A., lOOn Lavabre, M.C., 266n Marx, K., 183, 268 e n Lazagna, G., 382n Marzotto (conte), 31 Lazar, M„ 24n, 25n, 63n, 73n, 95 Masi, G., 54 e n, 104n, 269n, 334n Masi, R, 270 Massari, R., 138n, 241n, 242n Leccardi, C., 20n Lenzi, A., 146n Matard-Bonucci, M.-A., 24n, Leoni, A., 183n 25n, 63n, 73n, 95 e n, 104n, 334n Liguori, G., 157n Mattei (fratelli), 46, 323, 346 Lolli, C., 116 Lollo, A., 323 Mattei, M., 154n Lombardi, R, 74 e n Mazzola, G., 259, 373n Lorusso, F., 54, 225 Mechelli, G., 357 Melucci, A., 13n, 333n Lorusso, G., 301 Lucarelli, V., 51n, 174n Mentasti, E., 3 In, 40n, 48n, 52n, 134n, 140n, 153n, 166n, 167n, Ludman, A.M., 381

395

178n, 184n-187n, 190n, 191n, Nixon, R„ 77, lOOn, 163n, 277 195n, 198n Notarnicola, S., 287n, 302 Micciché, T., 197, 333 Novelli, D., 83n, 329n, 335n, Miceli, V., 217 e n, 360 342n, 361n, 362n Michaud, Y., 342n Milana, F., 137n, 259n Ohnesorg, B., 97 Miliucci, V., 177n, 181n Orsina, G., 142n Mincuzzi, M., 159n Orsini, A., 22n, 327n Mita, M., 54n, 80n, 178n, 260n Ottaviano, F., 40n, 45n, 12 In, Moccia, G., 352 139n Molettieri, E., 375n Overney, P., 115 Monicelli, M., 213n Monina, G., 16n, 22n, 35n, 68n, Paccino, S., 177n, 181n, 197 119n, 307n, 332n Palma, M., 303 Montanelli, I., 162, 197, 373 Palmieri, M., 190 Monteverde, F., 375n Palombarini, G., 54n Morandini, S., 263n Panciarelli, P., 381 Morane, E., 102n Panvini, G., 24n, 44n, 46n, 114n, Moravia, A., 220n 131n, 136n, 210n, 244n, 248n, Morelli, V., 293n 310n, 315n, 323n, 336n Moretti, G., 377n Paolella, A., 86, 364n Moretti, M., 77, 186n, 290, 291, Parodi, A.G., 374n 329n, 364n Parrinello, G., 21n Morlacchi, M., 75 e n Pasolini, P.P., 11 In Moro, A., 71, 86 e n, 87, 89, Passamonti, S., 54 173, 186n, 218n, 224, 245n, Passerini, L., 266n 341n, 345, 352, 357, 372 Pecchioli, U., 72, 76n Moro, G., 24n Peci, R, 88, 89 Moroni, P., 19n, 57n, 215n, 242n, Peci, R„ 89 266 Pedenovi, E., 48, 201n, 359n Morucci, V., 64n, 146n, 148n, Pellegrino, G., 65n, 72, 95n, 169n, 183n, 185n, 186n, 190n, 213n 276, 329n Pelli, F., 200n, 349n Mosca, C., 186n, 329n Pepe, A., 161n Mosna, N., 386n Pergolizzi, P., 367n Periini, M., 357 Napolitano, G., 137n Pero, L., vedi Abbiati, G. Naria, G., 371, 382n Peruzzi, G., 373 Natoli, A., 382n Pesce, A., 375n Negri, Anna, 76n, 386n Peschiera, F., 379 Negri, Antonio vedi Negri, Toni Petricola, E., 35n, 247n, 287n Negri, Toni, 76n, 79, 83, 140n, Piacentini, R., 136n 147n, 158n, 168, 169n, 170n, Piano, R, 73n, 133n, 368n, 374n 171, 179n, 260n, 271 e n, 272 Piccardo, G., 368n e n, 280 Piccioni, P., 116 Neppi Modona, G., 27n Pietrangeli, P., 30n, 241 Neri Semeri, S., 16n, 235n Pifano, D., 177n, 181n Niedda, A., 346 Pinelli, G„ 111, 252-254, 312, 315

396

Pintor, L., 248 Piperno, F., 145n, 149n, 154n, 167, 168, 183n, 276 Piretti, M.S., 24n, 26n, 63n Piro, F., 152n Pivato, S., 212n Pizzomo, A., 30n, 125n, 248n Platt, MA., 291n Podestà, L., 381n Poggio, P.P., 29n, 380n PoUack, M., 266n Polo, G., 3 In Pombeni, P., 122n Pomian, K., 133 e n Ponti, N., 387n Porceddu, S., 301 Pozzi, F., 29n, 135n Pozzi, R, 179n, 260n Prandi, S., 379 Prette, M.R., 285n Priore, R., 7In, 73n Protti, D., 35n Quagliariello, G., 142n Quiligotti, G., 380n Quintanilla, R., 13In Ragache, G., 97 , 98n Ramelli, S„ 46, 47, 192n, 196, 323 Ramundo, L., 378n Rapini, A., 43n Rastello, L., 75 e n Rauti, R, 321 e n Ravot Licheri, E., 380n Recupero, N., 54n Regalia, I., 248n Regini, M., 248n Reiter, H., 40n, 41n, 120n Renosio, M., 19n Restivo, F., 146n Revelli, M., 3 In, 65n Reyneri, E., 248n Ricci, A., 288n Ricciardi, S., 128n, 175n Righi, M.L., 161n Roccazzella, A., 361n Roggiero, G., 29n

Romitelli, V., 209n Ronconi, S., 200n, 335n Rosati, L., 183n Rossa, G., 87, 341n, 359n, 373, 377n, 379 e n, 385, 387 Rossa, S., 76n, 379n, 386n, 387n Rossanda, R., 72n, 186n, 329n Rossi, E., 373 Rossi, F., 25n, 117n, 385 Rossi, M., lln , 44n, 57n-59n, 68n, 69n, 3lln , 327n, 342n344n, 368n, 372, 374 Rossi, R, 114n Rossi, W., 60, 336 Rosso, R., 183n Roy, O., 338n Rugafiori, P., 374n, 375n Rumor, M., 116 Rusconi, G.E., 26n Saba, U., 107n Sabbatucci, G., 221n, 308n Sacchetto, D., 3In, 53n, 152n Saccoman, A., 38n, 367n, 369 Salierno, G., 288n Sallustro, O., 149n, 266n Saltarelli, S., 136n Salvini, G., 324n Sangiovanni, A., 17n, 79n Santarelli, E., 17n Santillo, E., 199n, 293 Sapegno, R, 293n Saponara, G., 377n Saraceni, L., 382n Saronio, C., 182n, 345 Sartori, M., 24n, 53n, 67n, 76n, 367n Sartre, J.-R, 272 Satta, V., 113n, 125n, 137n, 176n, 199n Savasta, A., 89 e n, 336 Sbrogiò, G., 3 In, 53n, 152n Scalia, R , 346 Scalzone, O., 159n, 168, 183n, 186n Scarpellini, E., 245n Scavino, M., 17n, 3 In, 124n, 138n, 141n, 157n, 211 e n

397

Scelba, M., 40, 154n Schaerf, G., 327n, 342n, 344n, 377n, 379n Schettini, I., 357 Schiavetti, F., 379 Schmitt, C., 274n Schnapp, A., 102n Scipione Rossi, G., 44n Scoppola, P., 213n Sechi, S., 307n Segio, S., 329n, 359n Senzani, G., 290, 291 e n, 292 Serantini, F., 136n, 359n Sestieri, C., 65n, 213n Severgnini, P., 324n Sibilla, A., 377n Silj, A., 214n, 327n, 342n Silvestri, N., 303n Sinibaldi, M., 226n, 227 e n Sinigaglia, R., 380n, 38ln Soddu, P., 307n Sofri, A., 112n, 135n, 138n, 141n, 147n, 237, 238 e n, 241, 242 e n, 267, 311n, 315n Sogno, E., 305 e n Sommier, I., 24n, 26n, 40n, 43n, 63n, 64n, 105 e n, 114, 115, 265n, 281n, 285n Sossi, M., 38, 77, 78, 82, 170n, 172, 173, 218, 219, 259, 293, 345, 358, 372, 373, 378n, 379 Spanu, L., 389n Spataro, A., 76n, 385n Speciale, R., 386 e n Spiegel, G.M., 232n Springer, A., 97 Strobl, R., 330n Sturlese Tosi, G., 385n Sylos Labini, P., 246n Tabacco, G., 25n Tamburino, G., 217n Tarrow, S., 30n, 32n, 33n, 266n, 310n, 336n, 342n Tartaglione, G., 364n Tartakowsld, D., 98n Tautin, G., 97

398

Taviani, E., 35n, 68n, 119n, 307n, 332n Taviani, P.E., 116n, 163n Teglio, A., 368n Tessandori, V., 357n, 364n Theodoli, G., 185n Thompson, E.P., 249n Tilly, C„ 235n Tinelli, F., 323 Tito (Josip Broz), 75 Tobagi, B., 76n Tobagi, W., 88n Todisco, A., 247n Togliatti, P., 307 Tolin, F., 126n Tolomelli, M., 64n, 69n, 83n, 208, 209n, 235n Tomassini, P., 54 Tomassini, R., 179n, 260n Tommei, F., 171n, 369n Tonelli, A., 24n, 67n, 210n, 229n, 233n Torres, C., 122n Tosa, M., 378n Tosatti, G., 306n Tranfaglia, N., 16n, 44n, 83n, 91n, 238n, 329n, 333n, 335n, 336n, 342n, 361n, 362n Travaglio, M., 76n Traverso, E., 63n, 71 e n, 76n Trentin, B., 157n Tronti, M., 137n, 156n Trotta, G., 137n, 259n Tutino, R., 367n Tuttobene, E., 378n Urso, S., 19n, 29n, 122n Vaiani, S., 82n, 285n Valentini, D., 367n Valpreda, R, 111 VaraUi, C„ 47, 197, 223 Vecchio, C., 85n, 386n Veneziani, M., 208 e n, 210, 312 Ventrone, A., 21n, 22n, 24n, 25n, 35n, 44n, 63n, 66n, 117n, 13 In, 212n, 239n, 307n, 332n, 367n Ventura, A., 66n, 156n, 359n, 367n

Ventura, M., 293n Venturini, U., 375, 397n Verbano, V., 323 Viale, G„ 35n, 274 Victor, P., 105 Victoroff, J., 327n Vidal-Naquet, P., 102n Vidotto, V., 66n, 221n, 308n, 332n, 338 Vigna, P.L., 385n Viola, G., 42n Vimo, R, 169n, 277 Viterna, J., 328n, 338n

Voli, S., 35n White, R., 330 e n Young, N., lOOn Zancarini-Fournel, M., 98n Zaslavsky, V., 307n Zavaroni, R, 25n Zavattini, C., 210n Zibecchi, G., 47, 197, 223, 333 Zicchieri, M., 48 Zincone, G., 88n

399