La gaia critica. Politica e liberazione sessuale negli anni Settanta. Scritti (1972-1983) 9788829702237

Attivista, intellettuale e saggista, Mario Mieli fu impegnato in un lavoro di scrittura pervasa da intenzioni politiche

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Abstract - Autore
Frontespizio
Dello stesso autore - Copyright
Mario Mieli: un archivio del presente - di Paola Mieli e Massimo Prearo
ARTICOLI E INTERVENTI
Per la critica della questione omosessuale
Marocco: miraggio omosessuale
London Gay Liberation Front Angry brigade, piume & paillettes
I radical-chic e lo chic radicale
Il fallo nel cervello
Paris-FHAR
Berlino: l’omosessualità scavalca il Muro
Dirompenza politica della questione omosessuale
Omosessuali è brutto…
My first lady
«Amor che a nullo amato amar perdona». Io sono una grande finocchiona
Ginandro in tram
Sull’altalena di Poe. Ovvero: cosa nascondi dietro la coscia?
Omosessualità e rifiuto del lavoro
Violenza e omosessualità
Intervento di Mario Mieli al V Congresso del FUORI! del 1976
La gaia critica
Pazzia dell’elogio
Care checcacce del «Lambda»
Chi non si è mai prostituito scagli la prima pietra
Il «divino» androgino
La normalità è patologica?
Siamo i più creativi
La sagra dell’impotenza. Una serata al One Way
Morte in diretta: «La morale è qualcosa di proibito!» (Nietzsche)
Non c’è più tempo da perdere
Non c’è due senza tre
Appello per la pace
Nota introduttiva all’edizione olandese di Elementi di critica omosessuale
No all’ore: la rivoluzione la si fa ovunque (su Macondo)
Discreta gayness
RECENSIONI E CRITICHE
Socialismo e sessualità
Jean-Louis Bory e Guy Hocquenghem Comment nous appelez-vous déjà?
Dario Trento Storiella omosessuale
Luciano Parinetto Corpo e rivoluzione in Marx. Morte, diavolo, analità
Elogio dell’armonia
Amor omnia vincit
Chercher querelle
Il punk è morto
Fratelli d’Italia l’Italia s’è desta!
SULLA STAMPA
A proposito di miracoli
Io, vado al club sadomaso
Sulla rivista di Macondo
Da dove veniamo
Le ultime notti di Milano
Gli arresti dei palestinesi
DIALOGHI E INTERVISTE
Intervista a Come mai
Intervista a Mario Mieli di Felix Cossolo
Dialogo sull’amore tra Lia Migale e Mario Mieli
Intervista a Mario Mieli, Studio 82
C’è ancora speranza? Intervista a Mario Mieli di Gianpaolo Silvestri
Biografia critica
Ringraziamenti
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La gaia critica. Politica e liberazione sessuale negli anni Settanta. Scritti (1972-1983)
 9788829702237

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Attivista, intellettuale e saggista, Mario Mieli fu anche attore e poeta, autore impegnato in un lavoro di scrittura pervasa da intenzioni politiche innovative che lo hanno reso uno dei protagonisti più radicali della storia culturale italiana del secolo scorso. Strumento indispensabile per comprendere l’evoluzione del suo pensiero, questo volume ne compendia la ricerca teorico-politica, che si espresse nella partecipazione ai primi collettivi italiani di liberazione omosessuale per poi confluire in un percorso personale e in una visione della società in chiave anticapitalistica. Gli interventi raccolti spaziano dalle osservazioni sull’attivismo e sull’esperienza omosessuale degli anni settanta, al posizionamento all’interno o a margine del movimento, alla politica e all’estetica del travestitismo e della transessualità. Un pensiero che presenta intuizioni e sintesi brillanti accompagnate da letture scientifiche e si arricchisce delle discussioni tra compagne e compagni, di attraversamenti estetici, poetici e geografici. Capace di anticipare molti temi dell’attuale dibattito, fino a includere preoccupazioni e convinzioni ecologiste e antimilitariste, osservazioni etnografiche della scena gay urbana, Mieli individua come punto da cui ripartire l’oppressione della femminilità di ogni essere umano: solo nella sua liberazione è possibile infrangere il predominio fallico e mettersi al lavoro per costituire una nuova comunità. Il volume è accompagnato da un’introduzione e da una biografia critica che restituiscono i momenti chiave della formazione esistenziale e politica di Mieli. (1952-1983), intellettuale, attivista, poeta, attore, scrittore e saggista, è stato una figura centrale nel panorama culturale italiano degli anni settanta e del movimento LGBTQI. Il suo testo più importante, Elementi di critica omosessuale, pubblicato per la prima volta nel 1977, è stato riproposto in una nuova edizione critica nel 2003 e, in formato tascabile, nel 2018. MARIO MIELI

è psicoanalista a New York e presidente di Après-Coup Psychoanalytic Association. Autrice di saggi di psicoanalisi e cultura, tra le sue pubblicazioni più recenti A Silver Martian: Normality and Segregation in Primo Levi’s Sleeping Beauty in the Fridge (2014) e Figures of Space: Subject, Body, Place (2017). PAOLA MIELI

MASSIMO PREARO,

ricercatore in Scienza politica dell’Università di Verona, ha studiato i movimenti LGBT in Francia e in Italia. Ha pubblicato La fabbrica dell’orgoglio. Una genealogia dei movimenti LGBT (2015) e La crociata “anti-gender”. Dal Vaticano alle manif pour tous (con S. Garbagnoli, 2018). Per EPEL ha tradotto in francese Elementi di critica omosessuale (2008).

Mario Mieli La gaia critica Politica e liberazione sessuale negli anni settanta Scritti (1972-1983) a cura di Paola Mieli e Massimo Prearo

Marsilio

© 2019 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2019 ISBN 978-88-297-0223-7 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Seguici su Facebook Seguici su Twitter Iscriviti alla Newsletter

Indice Copertina Abstract - Autore Frontespizio Dello stesso autore - Copyright Mario Mieli: un archivio del presente di Paola Mieli e Massimo Prearo ARTICOLI E INTERVENTI

Per la critica della questione omosessuale Marocco: miraggio omosessuale London Gay Liberation Front Angry brigade, piume & paillettes I radical-chic e lo chic radicale Il fallo nel cervello Paris-FHAR Berlino: l’omosessualità scavalca il Muro Dirompenza politica della questione omosessuale Omosessuali è brutto… My first lady «Amor che a nullo amato amar perdona». Io sono una grande finocchiona Ginandro in tram Sull’altalena di Poe. Ovvero: cosa nascondi dietro la coscia? Omosessualità e rifiuto del lavoro Violenza e omosessualità Intervento di Mario Mieli al V Congresso del FUORI! del 1976 La gaia critica Pazzia dell’elogio Care checcacce del «Lambda» Chi non si è mai prostituito scagli la prima pietra Il «divino» androgino La normalità è patologica?

Siamo i più creativi La sagra dell’impotenza. Una serata al One Way Morte in diretta: «La morale è qualcosa di proibito!» (Nietzsche) Non c’è più tempo da perdere Non c’è due senza tre Appello per la pace Nota introduttiva all’edizione olandese di Elementi di critica omosessuale No all’ore: la rivoluzione la si fa ovunque (su Macondo) Discreta gayness RECENSIONI E CRITICHE

Socialismo e sessualità Jean-Louis Bory e Guy Hocquenghem Comment nous appelezvous déjà? Dario Trento Storiella omosessuale Luciano Parinetto Corpo e rivoluzione in Marx. Morte, diavolo, analità Elogio dell’armonia Amor omnia vincit Chercher querelle Il punk è morto Fratelli d’Italia l’Italia s’è desta! SULLA STAMPA

A proposito di miracoli Io, vado al club sadomaso Sulla rivista di Macondo Da dove veniamo Le ultime notti di Milano Gli arresti dei palestinesi DIALOGHI E INTERVISTE

Intervista a Come mai Intervista a Mario Mieli di Felix Cossolo Dialogo sull’amore tra Lia Migale e Mario Mieli Intervista a Mario Mieli, Studio 82

C’è ancora speranza? Intervista a Mario Mieli di Gianpaolo Silvestri Biografia critica Ringraziamenti

Mario Mieli: un archivio del presente di Paola Mieli e Massimo Prearo

DALLA CRITICA OMOSESSUALE ALLA GAIA CRITICA

Questo volume raccoglie gli scritti più significativi della traiettoria teorico-politica di Mario Mieli dal 1972 al 1983. Organizzato in quattro sezioni, «Articoli e interventi», «Recensioni e critiche», «Sulla stampa» e «Dialoghi e interviste», ciascuna ordinata cronologicamente, il volume ripropone testi già pubblicati dallo stesso Mieli, per lo più su riviste e giornali dell’epoca oggi difficilmente reperibili, e presenta anche diversi inediti rimasti allo stato dattiloscritto o manoscritto nei suoi archivi personali. Per la prima volta, dopo le ripubblicazioni di Elementi di critica omosessuale (nel 2003 e nel 2018), uscito originalmente nella collana dei «Saggi» dell’editore Einaudi nel 1977, gli scritti teorici e politici di Mieli vengono presentati in maniera organizzata e criticamente ragionata. Lo spirito che ha presieduto il lavoro di raccolta e di curatela mira anzitutto a lasciare la parola all’autore, nella sua complessità e nell’estensione poliedrica del suo pensiero e della sua scrittura. L’ampia e costante produzione saggistica di Mieli è attraversata da diverse linee metodologiche e teorico-politiche: dall’osservazione degli spazi dell’attivismo e dell’esperienza omosessuale, gay e frocia degli anni 1970, al posizionamento all’interno o a margine del movimento, o ancora alla politica e all’estetica del travestitismo e della transessualità. Tuttavia, si è scelto di non incasellare i testi in sezioni tematiche per non perdere il

movimento di andata e ritorno, di salto e ripresa, di costruzione e decostruzione di un pensiero che si dispiega su intuizioni sperimentate e sperimentali accompagnate da letture scientifiche, discussioni tra compagne e compagni, e attraversamenti estetici, poetici e geografici. L’organizzazione cronologica e la suddivisione tipologica dei testi permettono di apprezzare l’intensità e l’ampiezza della ricerca teorico-politica del Mieli attivista, intellettuale e saggista, che fu anche attore e poeta, e dunque autore impegnato quotidianamente in un lavoro di scrittura sempre innervata da attenzioni e intenzioni politiche innovative. Il volume è accompagnato da una biografia critica che restituisce i momenti chiave della formazione esistenziale e politica di Mario, con particolare attenzione alla ricognizione delle relazioni intime e pubbliche che erano tanto nutrimento e ispirazione quanto strumento di vita. La nota biografica, frutto di un lungo lavoro di incrocio di documenti, lettere, foto e ricordi provenienti da diversi archivi, permette di seguire il percorso di un protagonista dei tanto decantati, talvolta reinventati e spesso incompresi anni ’701, sovrapponendo la ricerca teorico-politica a eventi biografici e momenti storici, date personali e date di pubblicazione, sequenze di viaggio fino a ora rimaste irrisolte, se non addirittura dimenticate. Alla luce di queste sovrapposizioni tematiche e biografiche, il carattere politico-esperienziale, schizzo-teorico, attivista-centrico, e altre infinite combinazioni, della produzione di Mieli appare in maniera ancora più dirompente di quanto lo stesso Mieli avesse già esposto in Elementi di critica omosessuale. I circa cinquanta testi qui riuniti mostrano come la scrittura e il pensiero di Mieli non seguano una programmazione scalettata da cui estrarre sintesi filosofiche prêt-à-porter. Piuttosto, la scrittura taglia l’esperienza in maniera obliqua, l’attraversa in filigrana, in forma di appunti, note, annunci di pubblicazioni, titoli sparsi, quaderni, raccolte di foto e rassegne stampa, per poi diventare, in ultima battuta, dattiloscritto e, infine, carta stampata.

Il momento della pubblicazione, sollecitata da giornali e riviste (soprattutto dopo la pubblicazione di Elementi nel ’77), o frutto della partecipazione di Mieli ai comitati del «Fuori!», di «Lambda» e poi di «Babilonia», o a progetti autoprodotti come nel caso del ciclostilato «Comune Futura» con il compagno e cugino Francesco Santini (Kukki), è un punto di arrivo di una sequenza di lavoro e di ricerca, a volte lunga, a volte brevissima, che mette a tema un evento, un viaggio, un’idea o un desiderio. L’attenzione per lo stile è sempre presente, filo conduttore di tutta la sua opera esperienziale e sperimentale, tanto nella scrittura quanto nella vita. L’interesse di Mieli per lo «scriver bene» affonda le radici in un’intensa lettura dei classici e nella pratica, iniziata già nella prima adolescenza, di diari, nomenclature, versi poetici. Essa troverà il suo sbocco, e anche il suo tormento, nel progetto di un romanzo autobiografico, pensato e desiderato come un’opera esteticamente e stilisticamente il più prossima possibile alla perfezione, la cui stesura lo accompagnerà dal 1977 fino alla morte, non senza profonde soddisfazioni e insoddisfazioni, e a cui darà il titolo di Il risveglio dei faraoni. Più ancora di Elementi, che risente in parte dello sforzo di sistematizzazione e delle lungaggini di una tesi di laurea rimaneggiata, gli scritti qui raccolti esprimono tutta la vivacità di uno stile che si muove tra sapienti costruzioni letterarie ed espressioni gergali, che inaspettatamente mischia linguaggio filosofico e parlata di strada, catapultando il lettore su registri diversi, intimi, sorprendenti e spesso comici. Non si tratta, per Mieli, di costruire un’opera teorica che faccia sistema con il contesto intellettuale o militante dell’epoca. La pubblicazione è un momento che chiude una sequenza riflessiva raccogliendo forze e proposte, ed è al tempo stesso un invito all’azione, un regolamento di conti con teorie, autori e persone, un’esplosione creativa di gaia critica, appunto – ovvero l’esercizio permanente di una radicalità che spinge il limite oltre il sostenibile, sostenibile per l’ideologia eterosessuale ovviamente, ma anche per i compagni sedicenti rivoluzionari.

Il titolo del volume – preso a prestito dal titolo che lo stesso Mieli diede a una breve presentazione di Elementi di critica omosessuale, pubblicata in occasione dell’uscita del libro (p. 172)2 – riassume tanto la proposta di questa iniziativa editoriale quanto l’ambizione autoriale e politica di Mieli. Se la gaia critica nasce dalla «critica omosessuale», critica della norma eterosessuale, critica da un punto di vista omosessuale e critica del punto di vista omosessuale stesso, essa ne manifesta e approfondisce i dettagli argomentativi, gli spunti esistenziali, le regioni teoriche e le implicazioni politiche. Laddove la «critica omosessuale» prendeva la forma del trattato di teoria e di pratica omosessuale rivoluzionaria, la gaia critica estende il campo teorico-politico di Mieli, oltrepassando i confini del gaio comunismo fino a includere preoccupazioni e convinzioni ecologiste e antimilitariste, osservazioni etnografiche della scena gay urbana, o recensioni e critiche di saggi, film o musica punk. Nuova tappa di un progetto di pubblicazione integrale dell’opera di Mieli, questo volume non mancherà di sollecitare nuovi interrogativi e riflessioni sul suo pensiero. Questa introduzione si limita a mettere in evidenza alcuni punti salienti del suo percorso, lasciando ad altri contesti e altri spazi la riflessione sulla rinnovata qualità inedita e pioneristica della sua opera3.

UN ATTIVISMO ETNOGRAFICO

Se la complessa costruzione di Elementi di critica omosessuale articola tre diversi livelli di scrittura e di pensiero – quello della filosofia, della storia e della teoria in generale, quello del collettivo con il costante richiamo al «noi», e infine quello del soggetto Mario Mieli –, i testi qui raccolti offrono in maniera puntuale delle porte di ingresso a quello che sembra prendere la forma, anche nelle intenzioni di Mieli, di un archivio esperienziale del presente. Posta la questione omosessuale nell’articolo inaugurale del settembre 1972, Per la critica della questione omosessuale, in cui viene indicato l’orizzonte di un futuro in cui «non più divisa in particolarità di ruoli (attivo e passivo, eterosessuale e omosessuale, maschio e “checca”), la sessualità si presenterà come unità molteplice di attitudini» (p. 39) – che oggi chiameremmo queer, gender fluid, pansessuale, – Mieli non cesserà di esplorare e documentare le manifestazioni concrete in cui il pensiero e la pratica della liberazione sessuale s’esprimono, producendo uno straordinario archivio il cui interesse va ben oltre la semplice ricostruzione storica. In ordine sparso s’organizza una geografia di esperienze: a Londra, con il Gay Liberation Front e le regine infuriate del movimento britannico; a Parigi, nelle assemblee del Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire (FHAR) e in occasione delle uscite pubbliche delle vedette intellettuali dell’epoca, Foucault, Deleuze, Sartre, Hocquenghem; a Berlino, per assistere, con i compagni del FUORI! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), all’incontro internazionale dei fronti omosessuali rivoluzionari e condividere le grida che «in sintonia con le nostre si levano a distanza di migliaia di chilometri, scavalcando muri e frontiere – da Napoli a Toronto, da Berlino a Buenos Aires» (p. 97); in Marocco, in occasione di un viaggio estivo, per annotare le

prime considerazioni sulla transessualità; a Milano, al One Way, nuovo disco club e scopodromo della città, dove, tra «l’odore del capitale nelle narici, la musica del capitale nelle orecchie, un cazzo in bocca, l’altro in culo, un’anima caritatevole che ti fa un pompino» (p. 200), Mieli riflette sulla «mercificazione dell’omosessualità» e sul «virilismo competitivo e complessato» della scena commerciale gay; sempre a Milano, «ginandra» in tram lanciando occhiate erotiche ai controllori; e ancora a Londra, travestito da first lady, per etnografare gli effetti sociali del travestitismo, studiare le logiche repressive della norma eterosessuale e le implicazioni soggettive del meticciaggio di genere. Il viaggio non si sviluppa solo nello spazio. Il viaggio è anche quello che, grazie al poliglottismo di tradizione familiare, permette a Mieli di cogliere sul nascere le pubblicazioni del momento, in inglese e in francese soprattutto, e di farne strumento di analisi, griglia di lettura. Così, il «radical-chic» descritto dallo scrittore e saggista Tom Wolfe, sotto la penna di Mieli diventa l’occasione per fare i conti con l’oste: «Incomincia ad annoiare il radical-chicchismo […] di coloro che, per dar lustro, facciata al “Fuori!”, si fanno in quattro per riempirne le pagine di articoli firmati dai “grandi nomi” del gauchisme della “controcultura” internazionale, fino a far del giornale […] un ennesimo inserto dell’“Espresso”» (p. 65). Non per altro, tale «oste» si preoccupa, come fece per altri articoli di Mieli, di apporre una «Nota della Redazione» in cui il collettivo redazionale si dissocia dalle «opinioni personali dell’autore». L’attivismo etnografico come metodo si ritrova anche nell’investigazione teorico-politica su cui Mieli lavora senza sosta. In Chi non si è mai prostituito scagli la prima pietra (1978), per esempio, sollecitato per un articolo sulla prostituzione maschile, dopo aver considerato la possibilità «di rievocare la serie di procaci ragazzoni che mi offersi nascostamente in casa dei miei, oppure nelle toilettes della Rinascente», decide invece di «sciogliere alcuni nodi teorici». In particolare, a Mieli preme insistere sul «processo mortifero della totalizzazione capitalistica»

che fonda sul lavoro la sua logica di dominio dei corpi e dei soggetti, in fabbrica e sui marciapiedi, e dunque anche sulla subordinazione che sfrutta tali corpi e tali soggetti e sulla distribuzione sociale dei privilegi: «Il sistema li costringe [i marchettari che vanno con gli uomini], in quanto proletari, a sopravvivere in condizioni di grave ristrettezza e di precarietà economiche» e, in quanto uomini, «offre loro gratificazioni palliative legate al privilegio fallico, gratificazioni che li inducono a considerarsi “qualcuno” nell’ottica capitalistica della valorizzazione del sesso». Il sistema compra alienazione sotto forma di lavoro prostituzionale a uomini che il capitale sfrutta come forza lavoro, pagandoli con porzioni di privilegio maschileeterosessuale: «Proponendo loro falsi ideali consumistici e illudendoli di partecipare al potere almeno in quanto maschi – il sistema li asservisce completamente, li incita al potere, stornando da sé quella rabbia che “i ragazzi di vita”, da proletari emarginati, rivolgerebbero altrimenti contro di esso con impeto rivoluzionario. […] Così, invece che contro il capitale, i peripatetici sfogano in genere la propria rabbia attaccando e schernendo chi appare più in basso di loro sulla scala fallica del valore: le donne e le checche» (p. 187). Riprendendo una formula di Jean Genet, Mieli precisa: «L’omosessualità maschile può essere anche doppiamente fallica ove, repressissima, scimmiotti senza riserve i modelli eterosessuali: “un maschio che ne chiava un altro è maschio doppio”» (p. 127). Il tema della violenza maschile è un punto centrale del lavoro critico di Mieli, non solo per enunciare un principio di giustizia o di indignazione, ma perché tale violenza Mieli l’ha etnografata sul proprio corpo, tanto fisicamente quanto psicologicamente. Scritto a Londra nel 1974, il testo My first lady, fu pubblicato sul n. 15 (primavera 1976) del «Fuori!», per poi cadere nel dimenticatoio. È rimasta, invece, del tutto sconosciuta la seconda parte del testo, pubblicata da Mieli nel ciclostilato dal titolo «Comune Futura» a cui lavorò con Kukki e che fu stampato nel 1975, dove analizza acutamente la repressione del femminile e le diverse sfaccettature dell’esperienza del travestitismo. Il sistema

organizza, regola, norma e legittima il dominio maschile spacciando l’eterosessualità per una falsa naturalità e per un falso diritto naturale: «L’amore patriarcale sancisce la negazione dell’amore, istituzionalizzandola nella norma eterosessuale, e cioè in quella normalità che è la legge dell’unicità sessuale del fallo nell’ambito del rapporto eterosessuale. […] L’omosessualità che, ponendosi come alternativa, la relativizza con ciò negandola […], viene condannata come crimine contro natura dal diritto patriarcale, secondo il quale la naturalità si identifica con la legge del fallo, che esso codifica e sulla cui violenza è fondato» (p. 125). Osando beffarsi della legge del fallo – che, non coincide col pene ma che «è l’assolutizzazione patriarcale dell’idea che il pene incarna» – e confondendo la staticità delle categorie che cristallizzano la dualità dei sessi, il travestito risveglia angoscia: clown sulla scena, rivela «che ciò che stiamo recitando è una tragedia». «Vestendosi da donna, un uomo non risolve l’antitesi tra i sessi in una sintesi che è superamento dialettico: egli non fa che mettere in luce quest’antitesi, abbigliandosene». Ma in ciò sta anche «il potenziale della sua dirompenza rivoluzionaria» (p. 129). L’attivismo di Mieli, questa modalità gaia di attraversare il presente per farne teoria e pratica della liberazione sessuale, è metodo per pensare e praticare la liberazione individualmente e collettivamente dappertutto, sempre e comunque. Perché, come scrive in un testo inedito sul centro sociale Macondo di Milano (1977-1978): «La rivoluzione la si fa ovunque. A Macondo come in tram, a Buckingham Palace come alla Breda, a pranzo dai genitori e a letto con l’amante. La parola d’ordine è AMARE: buttiamo A MARE la macchina capitalistica, e riprendiamoci il mondo» (p. 230).

IDEOLOGIA ETEROSESSUALE E GAIO COMUNISMO

A colpi di esperienza, osservazione e scrittura, Mieli avanza nella gaia critica procedendo per riprese, ritorni, visioni e intuizioni, assemblaggi e intrecci composti da letture, citazioni, ricordi e narrazioni, dando forma a una teoria a schizzi o a getti, sempre sostenuta da un intenso lavoro di ricerca autoriale. Fare teoria significa ribaltare le letture tradizionali del sapere nell’intento di svelare le strutture elementari dell’ideologia eterosessuale ed esplorare il campo della liberazione sessuale. Così, per esempio, il riferimento all’universo psicanalitico diventa l’occasione per riscrivere l’Edipo freudiano: «Lungi dall’uccidere il padre per poi sposare la madre, il figlio maschio uccide piuttosto in sé la femminilità per identificarsi col padre. Indi sarà costretto ad accecarsi rimuovendo nelle tenebre dell’inconscio la visione della tragedia che egli è stato costretto a compiere, affinché nel buio stabilito dal destino patriarcale la femminilità condannata a morte non resusciti» (p. 126). Oppure, il riferimento all’universo letterario gli consente di rileggere la scena della schiera dei sodomiti nell’inferno dantesco, dove Dante si meraviglia di incontrare tra gli altri il proprio maestro Brunetto Latini, delle cui tendenze omoerotiche «non si era mai accorto» in vita: «Un’interpretazione gay potrebbe leggere dietro l’allegoria di quei versi: “se io fossi stato al riparo (coperto) dalla persecuzione dell’omosessualità (foco: al tempo di Dante gli omosessuali venivano condannati al rogo), mi sarei fatto inculare fra loro (o da loro, con loro: gittato mi sarei tra lor di sotto) e penso che Virgilio l’avrebbe tollerato, concesso (l’avria sofferto: è noto che Virgilio era frocio; sofferto, da sofferére o sofferire, derivati dal latino sufferre, composto da sub, sotto, e ferre, portare Dante sotto, cioè l’avrebbe indotto all’omosessualità); ma poiché avrei subito le pene della persecuzione (mi sarei bruciato e

cotto: il rogo), la paura vinse il desiderio (buona voglia) che mi infuocava (cotto) di abbracciarli» (p. 145). La schizzo-teoria che Mieli scrive e de-scrive, e poi pensa e depensa, è uno strumento di lotta, di liberazione e di rivoluzione performativa che agisce nel dirsi, anche in maniera sfuggente ed effimera. L’orizzonte di Mieli rimane fissato sulla prospettiva del raggiungimento qui e ora del «gaio regno della libertà», condizione necessaria per una messa in opera nel quotidiano di pratiche trasformative votate al conseguimento della «comunità umana», secondo l’espressione tratta dal filosofo, amato e studiato, Jacques Camatte. A questo proposito, va osservato che l’entusiasmo dei primi anni ’70 si iscrive nel contesto effervescente di un’Italia che, nel raccogliere i frutti della riflessione politica e dell’avanguardia degli anni ’60, si trova attraversata da movimenti di apertura sociale e culturale, dall’emergere sulla scena pubblica di problematiche trasformative che si traducono anche in conquiste civili, di cui sono protagonisti i movimenti degli operai, delle donne e degli omosessuali, e di cui le pubblicazioni del tempo restano testimonianza. Pubblicazioni come il Manifesto di rivolta femminile di Carla Lonzi, Carla Accardi e Elvira Banotti, o Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi, Né dio né capitale o Corpo e rivoluzione in Marx di Luciano Parinetto, Elementi di critica omosessuale di Mario Mieli, o anche la produzione di Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, sono tra gli esempi di una fioritura di pensiero e d’espressione che, per volutamente dirompenti o scandalosi che fossero, trovavano ampio sostegno e pubblica circolazione. Nel contesto attuale di moralizzazione scandalizzata e provincializzata del dibattito pubblico, ciò può sembrare straordinario. L’apertura e la trasformazione degli anni ’70 vennero contrastate a colpi di strategia della tensione dalla destra, da alcuni settori della democrazia cristiana, dalla CIA, dalla loggia P2, con in filigrana il famoso progetto di Licio Gelli di una «rinascita» oligarchica della democrazia – attacchi che fecero dell’assassinio di Aldo Moro e della dissoluzione del temuto «compromesso storico» un momento

chiave di un processo di disgregazione e l’inizio di una china discendente da cui il paese non si sarebbe ripreso. Se è vero che sul finire degli anni ’70 Mieli conosce un’inevitabile disillusione, meno per perdita di convinzione del suo progetto comunitario che per constatazione del dilagare ovunque, incluso nel mondo gay, di un riflusso reazionario, è vero anche che non smette di pensare e sperimentare maniere per estendere la lotta in corso e sovvertire i tentacoli della Norma, attraverso la scrittura, il sapere alchemico o le preoccupazioni ecologiste e nucleari. In particolare, è negli affetti e nelle relazioni che Mieli osserva il canale privilegiato attraverso cui la norma eterosessuale viene codificata nella vita quotidiana, nel rapporto tra sé e sé, nell’amore coniugale e famigliare, nell’amore per i figli, luoghi dove l’ideologia eterosessuale, tradotta in norme giuridiche, manifesta ed esercita il proprio potere: «Dobbiamo rifiutarci di continuare a far da eccezione che confermi la regola, visto che questa regola ci opprime, che questa regola significa eterosessualità funzionale al dominio del maschio e alla schiavitù della donna, che questa regola sancisce il diritto di famiglia e stabilisce l’essenzialità della figura paterna e la sottomissione dei figli, che questa regola mostra in ogni sua sfaccettatura la piena aderenza alla legge inumana del capitale» (p. 99). Proprio perché il dominio eterosessuale è manifestazione molecolare dell’ideologia fallica, della maschilità egemonica (come dirà Raewyn Connell, che cita a più riprese il Mieli inglese)4, nonché del virilismo omosessuale, allora «di fronte alle ampissime prospettive storiche aperte dal femminismo e alle problematiche da esso sollevate, il rivoluzionario maschio non può restarsene ancorato al privilegio fallico che è, nel contempo, sua schiavitù alla limitazione» (p. 79). La prospettiva del gaio comunismo è, allora, processo di attraversamento della polarità dei sessi e dei ruoli di genere, e anche, diremmo oggi, transfemminismo: «Io credo che il superamento delle attuali categorie separate e antitetiche della sessualità sarà transessuale e che nella sessualità si coglierà la

sintesi una e molteplice dell’espressione dell’Eros liberato» (p. 21 dell’edizione Feltrinelli), afferma Mieli in Elementi, appropriandosi del termine «transessuale» utilizzato da Luciano Parinetto per frantumare la fissità identitaria di ruoli sessuali codificati. Filosofo centrale e pure dimenticato della rilettura del pensiero marxiano negli anni ’70, di Parinetto Mario elogia l’analisi lucida e radicale: «Parinetto insiste sulla dirompenza del proletariato inconscio e – alla luce di una lettura attenta all’opera di Marx e di altre autrici – scopre nella totalità-in-divenire del corpo la grande riserva d’energia rivoluzionaria che la specie trattiene in sé sotto il giogo della repressione» (p. 250). Un termine, quello di «transessuale», che nulla ha a che vedere con l’attuale connotazione medica e giuridica d’intervento sul corpo, ormonale o chirurgico, votato all’acquisizione di connotati sessuali del sesso opposto. Transessuale è per Mieli l’orizzonte erotico che si tratta di conquistare, sperimentare ed espandere a conferma della scoperta freudiana della natura strutturalmente perversa e polimorfa della sessualità infantile e umana in generale, polimorfia mutilata dal predominio dell’educastrazione e ridotta a una logica binaria al servizio della produzione capitalista. In questo senso, se è vero che si tratta di riaffermare e di appropriarsi del carattere universale del desiderio omoerotico, segregato e represso, e del potenziale rivoluzionario che lo contraddistingue, è vero anche che non sarà sufficiente rifugiarsi in una nuova forma identitaria, omosessuale o bisessuale che sia. Ciò che è in causa, per ogni singolo individuo, è la possibilità stessa di confrontare il represso (che si tratti del desiderio anale, di quello verso la donna o della polimorfia erotica) e di sperimentare la fluidità delle figure della pulsione e del desiderio, di transitare tra le une e le altre. Al loro centro, emerge saliente il rapporto alla donna quale principale soggetto della repressione capitalista, in tutte le sue forme individuali, sociali e politiche, incluso alla donna «in sé stessi», cui si tratta di dar ascolto, voce ed esperienza. Nulla a che fare col mimare gli stereotipi femminili prodotti dal sistema dominante e dalla società dello spettacolo in

cui si esprime. Si tratta piuttosto di riprendere le fila del lavoro di autocoscienza inaugurato dalle donne e di sovvertire dall’interno la logica patriarcale capitalista che si autoriproduce rendendole schiave; il che significa anche avanzare una critica radicale della misoginia omosessuale e denunciare la sua complicità col sistema dominante: «Per potermi aprire alla femminilità, per far scaturire la “donna” in me, io devo aprirmi alle donne, incominciare a vederle, a capirle, a comunicare con loro… a desiderarle»; una gaia voglia, «un desiderio che più che omosessuale è lesbico» (p. 335). L’oppressione delle donne è anche oppressione della femminilità in ogni essere umano ed è soltanto nella sua liberazione che è possibile infrangere il predominio fallico e mettersi al lavoro per costituire una nuova comunità umana: «La donna che è l’essenza, l’odore e la materia della rivoluzione stessa». La liberazione della o verso la transessualità non comporta soltanto la liberazione della «molteplicità del desiderio rispetto alle altre persone», ma anche il riconoscere «la molteplicità del nostro essere». Di tale molteplicità, Mieli fa esperienza nei «gineprai della pazzia» («Sono stato definito uno schizofrenico paranoide, sono stato in ospedale, in manicomio per questo motivo», p. 167), in un attraversamento della follia di cui si appropria quale strumento epistemologico. «Esiste un nesso fondamentale tra omosessualità e schizofrenia», dice Mieli. «Freud e Ferenczi hanno sostenuto l’opinione che la schizofrenia altro non è che “una forma di omosessualità” deformata ovvero è un impulso omosessuale latente che affiora alla coscienza della persona e che è talmente intollerabile da farla impazzire. Ora, questo discorso porta alla necessità di comprendere come in realtà la liberazione del desiderio omosessuale, che non è solo privilegio e sofferenza nelle condizioni attuali di una minoranza, ma desiderio di tutti gli esseri umani, sia la chiave di volta, la porta di accesso a una condizione di esperienza di noi stessi, di visione del mondo e di possibilità di agire sul mondo in una maniera completamente alternativa» (p. 168).

Se esiste un nesso profondo tra repressione dell’omosessualità e violenza sociale, esiste una relazione intrinseca tra liberazione del desiderio polimorfo e apertura a una relazione altra e molteplice al mondo, che ha effetti trasformativi. La pratica transessuale, il rapporto alle donne e alla donna in sé – così come le esperienze polimorfe di tipo coprofilo o urofilo – alimentano la cosiddetta follia, che Mieli, «traendo spunto da vari pensatori (fra i quali Reich, gli autori de L’Anti-Edipo, Deleuze e Guattari, Camatte) legge, non come un fenomeno di “dissociazione mentale”, bensì all’opposto come una visione del mondo superiore e “molto meno dissociata” rispetto a quella comune che la norma eterosessuale-capitalistica ha reso ab origine fratturata e dualistica»5. Veicolando l’esperienza transessuale, l’esperienza schizofrenica si presenta allora come una «porta d’accesso all’ignoto» che dissipa la violenza propria alla repressione e frantuma «le regole inumane ed ipocrite della co-inesistenza capitalistica» (p. 253). Infine, nel 1982, nell’intervista inedita rilasciata alla trasmissione radio Studio 82, Mieli fa una precisazione essenziale sul concetto di gaio comunismo: «L’idea del gaio comunismo, che è l’idea più importante che c’è in questo libro [Elementi], non è stata compresa da molti perché era basata su una concezione del comunismo ben diversa da quella dei gruppi politici e dei partiti tradizionali. Sappiamo che, per esempio, nell’opera di Marx, in alcuni passi il comunismo è descritto come regno della libertà, definizione che c’era in Hegel e che lui ha ripreso; questa è un’idea che ho fatto mia e che ho pensato potesse trasformarsi in qualcosa di reale, che il mondo potesse diventare veramente un regno della libertà, se ci fosse stata un’effettiva liberazione dell’Eros, cioè del piacere. Ora, penso che se scrivessi oggi questo libro, sarebbe forse più chiaro se, invece di chiamare, per esempio, gaio comunismo, quello che descrivevo lì, l’avessi chiamato il gaio regno della libertà, di modo che anche persone che avessero delle idee lontane da quelle della sinistra potessero immedesimarsi maggiormente in quest’idea» (p. 253).

La gaia critica è libera, ma è anche liberazione della e dalla cosiddetta libertà dei diritti. Perché «nei fatti la libertà che ci garantisce la legge è la libertà di essere degli esclusi, degli oppressi, dei repressi, dei derisi, degli oggetti di violenza morale e spesso fisica, degli isolati in un ghetto che, in Italia, è per giunta pericoloso e d’uno squallore evidente» (p. 36). Antimoralistica, anticapitalistica, antinormativa, la gaia critica è uno stile di vita, una teoria politica e un’estetica: «Io sono androgino e culo. Voglio il comunismo. Non ho nulla da spartire col potere, l’ideologia e la morale corrente» (p. 227).

MOMENTI E MOVIMENTI

Se la gaia critica è uno «stile di volontà radicale», per riprendere l’espressione di Susan Sontag6, si comprende come la partecipazione entusiastica di Mieli alla fondazione e alle vicende del movimento di liberazione omosessuale si raffreddi di fronte alla conversione al «legalismo democratico» del FUORI!7. Mieli prende qui le sue distanze, non per sottrarsi, bensì per spostarsi. Come sottolinea nella nota introduttiva all’edizione olandese di Elementi (1982): «Questo libro fu scritto prima che in Italia iniziasse il cosiddetto riflusso, ovvero lo squallido periodo in cui molti hanno rinnegato la “vocazione” rivoluzionaria che dicevano d’essersi scoperti nel ’68 o negli anni immediatamente successivi». Prosegue Mieli: «Purtroppo anche gli omosessuali che aderiscono al movimento di liberazione si son lasciati trasportare quasi tutti dall’onda del riflusso. […] A dodici anni dalla nascita del Gay Liberation Front le riviste gay americane rigurgitano di pubblicità di saune, discoteche, cinema e pubblicazioni porno; riportano foto e recapito di prostituti che visitano a domicilio. In Italia delegazioni di froci si fanno ricevere dai sindaci, i transessuali addirittura dal Presidente della Repubblica» (p. 225). Nell’ultimo passaggio, Mieli si riferisce alla delegazione omosessuale dei bolognesi del Collettivo Frocialista – nato nel 1977 e divenuto per l’occasione Circolo 28 giugno, nome più presentabile – che nel 1980 fu ricevuto dal sindaco comunista Zangheri per discutere dell’apertura di un centro di cultura omosessuale a Bologna; ma si riferisce anche alle delegazioni di transessuali ricevute dal presidente della Repubblica nell’ambito della mobilitazione per l’adozione della futura legge 164 del 1982 sul cambiamento di sesso. Poco interessato alle vicende che in quegli anni vedono il movimento in grande fermento – conversione alla politica dei diritti civili, nascita del primo circolo Arci-gay, apertura del PCI alla cosiddetta «questione omosessuale» –, Mieli

non smette di frequentare assemblee, redazioni di giornali e convegni, ma con sguardo obliquo e diffidente. E più che a queste iniziative, di cui peraltro nelle ultime interviste riconosce l’importanza nel miglioramento delle condizioni di vita quotidiane, Mieli denuncia l’asservimento delle istanze rivoluzionarie omossessuali e la loro trasformazione in capitale sociale: «Il loro [dei compagni] qualunquismo, la loro dabbenaggine, l’interiorizzazione della competitività capitalistica e il culto di fantasmi stereotipati li hanno rinchiusi in un ghetto oggi più di ieri alienante, luogo di privilegi e frustrazioni, dove tutto si fa fuorché all’amore». O, per dirla in altri termini, «scemo, antipatico, scostante, avvilente, à la page, il frocio più ambito è la personificazione “gay” del capitalismo» (p. 225). Mieli contesta la progressiva tendenza alla struttura verticistica, la federazione al Partito radicale da parte del FUORI! nel 1974, la selezione di candidati omosessuali nelle liste dello stesso Partito nel 1976, la commercializzazione degli spazi dell’attivismo. Nell’intervista a Felix Cossolo del 1979, pubblicata su «Lambda», Mieli afferma: «Io non penso, in questo momento, di potermi considerare un militante del movimento gay, perché lo considero ad un livello ancora troppo basso rispetto a quello che a me interesserebbe per poterci partecipare, ad una lotta ed un’attività in comune. Il mio giudizio su «Fuori!» e su «Lambda» è prevalentemente negativo; considero entrambi i giornali ripetitivi, scritti piuttosto male e soprattutto poco approfondita la ricerca che è portata avanti sull’emancipazione umana e sulla liberazione sessuale. Oltreché li trovo troppo compromessi con la politica e troppo compromessi con la liberazione mercificatoria della sessualità, che il capitale opera per conto proprio» (p. 293). La traiettoria della gaia critica si sposta verso preoccupazioni più ampie, ecologiste in particolar modo, che lo porteranno a farsi promotore con Umberto Pasti prima, poi anche con Maria Bosio, di un Appello per la pace, pubblicato su «l’Unità» nel 1982 e firmato da centinaia di persone e personalità, in cui denuncia il rischio di distruzione totale che la guerra e la minaccia nucleare fanno pesare sull’umanità. Se l’interesse per la questione

ecologica si era sviluppato a partire dagli scambi di Mieli con l’amico Denis Robert, promotore nella seconda metà degli anni ’70 di un movimento in Canada per la protezione ecologica del pianeta, la preoccupazione per il rischio nucleare trovava riscontro nell’escalation della «seconda guerra fredda» dei primi anni ottanta. L’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 e l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Ronald Reagan (che aveva subito aumentato spese militari e potenziale nucleare, con la produzione, fra il resto, di nuovi missili balistici), aveva infatti inaugurato un periodo di rinnovate tensioni tra USA e URSS, che si sarebbe esteso fino alla supposizione di un possibile confronto globale. Le esercitazioni militari promosse dagli americani a partire dal 1981 avrebbero favorito voluti e pericolosi malintesi, nonché il fantasma di un first strike sempre più imminente, cui rispondeva un sofisticato programma sovietico di spionaggio difensivo denominato RYAN. La tensione giunse alla sua acme nel 1983, dopo il famoso discorso dell’8 marzo pronunciato da Reagan alla National Association of Evangelicals che assegnava all’Unione sovietica il titolo di «impero del male», inaugurando una tradizione denominativa oramai familiare, nonché un dispiegamento di missili nucleari sul suolo Europeo, conclusosi nel novembre del 1983 con l’esercitazione Able Archer, a un pelo dalla guerra. Se le preoccupazioni di Mieli di questi anni emergono sullo sfondo di ripensamenti, disillusione e momenti di sofferenza personale, la sua analisi della situazione politica rimane persistente e attuale. Il percorso involutivo del movimento, dall’esplosione rivoluzionaria all’implosione contro-rivoluzionaria, ma soprattutto la sua perdita di capacità di analisi critica del presente politico, sono per Mieli un sintomo, non causa ma effetto: «Ormai entrato in un periodo di “vacche magre”, per ingrassarsi, il “Movimento” spettacolare ha ingerito quanto poteva la critica della politica che, mescolata col parlamentarismo e con schifezze analoghe nello stomaco di struzzo dell’Organizzazione, ha stallato gli stronzi dell’“area creativa”» (p. 239). Puntando il dito sull’addomesticamento programmato delle minoranze sessuali,

Mieli segnala quanto la logica lenitiva e sedativa del sistema di legalizzazione democratica, con la corrispettiva distribuzione di beni e privilegi che assicura il mercato democratico del capitale neoliberale, riassorba il movimento nelle nuove sfaccettature dell’ordine capitalistico. Per questo, Mieli ribadisce: «Contro il capitalismo – e contro il potere politico che assicura il dominio della cosa sulla vita – bisogna combattere una lotta razionale, piacevole, aperta alla soprarazionalità: quindi non miope, nevrotica, razionale, settoriale, settaria. I problemi che ci affliggono li si risolve soltanto su scala planetaria. Il comunismo deve affermarsi globalmente» (p. 222). Procedendo per momenti e movimenti, la traiettoria teoricopolitica della gaia critica confronta i nodi su cui i movimenti inciampano. Nel farlo, essa traccia il nesso tra ideologia eterosessuale, cristallizzazione omonormativa e paradigma neoliberale – ciò che, dopo quarant’anni dalla stesura di queste pagine, resta un tema cruciale.

I DON’T FUCK WITH FOUCAULT

Ai suoi tempi, Mieli era già attuale e già inattuale. E forse è proprio questo suo essere dentro e fuori dal tempo che rende il suo pensiero un universo a sé. Attuale, perché l’esplorazione teorico-politica di Mieli è un’anticipazione delle politiche e delle teorie queer che prenderanno nome e forma a partire dagli anni ’908; o forse, più che un’anticipazione, la sua è la proposta di una possibile strada del queer9. Inattuale, perché il progetto che trova negli Elementi del 1977 il suo momento teorico, era già scalzato dal filosofo francese Michel Foucault e dalla sua Storia della sessualità (1976)10, dove qualsiasi ancoraggio alla liberazione sessuale veniva spazzato via – una rivoluzione che avrebbe aperto la strada a nuovi campi del sapere diramatisi negli studi di genere, queer, LGBT, trans, gay, lesbici e via dicendo. Al leit motiv della repressione sessuale, infatti, Foucault sostituisce l’analisi dettagliata di un potere che provoca opportunisticamente l’espressione sessuale, per darle forma e per disciplinarla, secondo tecniche storicamente collaudate nell’ambito dell’appropriazione medica e psichiatrica del corpo e del soggetto. In occasione della riedizione di Elementi, si ipotizzò una sorta di appuntamento mancato tra Mieli e Foucault11: il primo troppo precoce per aver letto il secondo (Elementi è scritto tra il 1974 e il 1976), il secondo troppo elevato accademicamente per essere interessato al primo, e forse troppo in ritardo per leggerlo (Elementi è pubblicato nel 1977, il libro di Foucault nel 1976). A partire dallo spostamento dal paradigma della repressione a quello del potere che produce e regola il sessuale, negli anni ’90 si svilupparono una moltitudine di studi, saggi, analisi e riflessioni, e Mieli e Foucault12 finirono certo col far parte di una stessa biblioteca del pensiero queer, ma su scaffali diversi, l’uno più teorico e l’altro più esperienziale.

La gaia critica permette di aggiungere un nuovo capitolo a questa relazione. Già in Elementi Mieli citava la Storia della follia di Foucault, che aveva letto e di cui aveva senz’altro colto le implicazioni epistemologiche. Successivamente, nel recensire il libro di due autori di primo piano nel dibattito francese sulla «questione omosessuale», Jean-Louis Bory e Guy Hocquenghem13, Mieli cita il Foucault de La volontà di sapere. È cristallino: a Mieli, come a molti compagni rivoluzionari dell’epoca, Foucault non piace, e soprattutto dopo la pubblicazione del primo volume della storia della sessualità14. Certo il filosofo non risparmiava dure critiche agli aspiranti liberatori e, soprattutto, alla loro azione, che considerava inefficace: «Ma forse c’è un’altra ragione che ci rende così gratificante formulare in termini di repressione i rapporti fra sesso e potere, ed è quello che potremmo chiamare il “beneficio del locutore”». E continua: «Se la sessualità è repressa, cioè destinata alla proibizione, all’inesistenza ed al mutismo, il solo fatto di parlarne, e di parlare della sua repressione, ha un tono di trasgressione deliberata»15. Dire che il sesso è represso e gridarlo ai quattro venti, tra piume e paillettes, è azione piacevole ma illusoria. Il beneficio del locutore è per Foucault il lusso che il rivoluzionario può pagarsi nel raccontare la sua repressione e la sua pretesa liberazione, senza preoccuparsi della logica biopolitica del potere. Le parole severe di Foucault erano probabilmente rivolte all’amico Hocquenghem, che nel 1972 aveva scritto Le désir homosexuel e che in quegli anni aveva portato il FHAR in copertina del seguitissimo settimanale «Nouvel Observateur». O forse erano rivolte alle Gazolines, gruppo di checche, regine e priscille delle Belle Arti, agitatrici incallite e insopportabili delle assemblee del FHAR – che Mieli descrive, scettico, nel suo articolo Paris-FHAR (1973). Ed ecco che Mieli risponde così, da lontano, in data incerta verso la fine degli anni ’70, piccato e sfacciato: «Le stronzate del Foucault di La volonté de savoir non vengono certo smascherate da simili barcollanti apologie della cosiddetta “perversione”. Pur essendo – si deve ammetterlo – a volte piacevolmente spiritoso,

Vivre à midi16 fa davvero vieille tante [vecchia checca] e, secondo me, era out of date ancor prima d’essere stampato» (p. 245). In questo raro e unico riferimento al libro seminale di Foucault, traspare tutto il programma della critica omosessuale, già teorizzata in Elementi, e qui estesa al campo teorico-politico della gaia critica, con o senza rivoluzione. A Mieli non incantano i «tre dubbi» che Foucault avanza accademicamente quanto all’ipotesi repressiva, e cioè se la repressione del sesso sia davvero un’evidenza storica, se la meccanica del potere sia essenzialmente dell’ordine della repressione, e infine se ci sia una rottura tra l’epoca della repressione e la critica dell’autorità e della tradizione emersa negli anni ’7017. Da tutt’altro punto di vista, per Mieli invece «non c’è più tempo da perdere», come insiste a più riprese nei suoi scritti: a domani il dubbio filosofico. Perché, se è vero che il potere orchestra la produzione del sessuale tramite il controllo biopolitico degli individui e dei corpi, come svincolarsi da tale ingranaggio nella materialità dell’esperienza? Come riappropriarsi delle pratiche del quotidiano per sovvertirne dall’interno la natura teleguidata e alienata, spiazzare le attese stesse regolate dal sistema che le produce e manifestare una politica che sia un’estetica dell’esperienza? Si tratta di rileggere Foucault con Mieli a fronte, e scrivere un’altra storia degli anni ’70, un’altra genealogia del sapere minoritario. La gaia critica è un campo vasto e polimorfo, un’uscita di soccorso dal divenire sgarrupato del movimento gay e dell’esistenza stessa.

Indispensabile, sul contesto degli anni settanta e sulla sua eredità, il lavoro di memoria e di analisi che propone P. Marcasciano, Antologaia. Vivere sognando e non sognare di vivere: i miei anni Settanta, Roma, Alegre, 2015; e il più recente L’aurora delle trans cattive. Storie, sguardi e vissuti della mia generazione transgender, Roma, Alegre, 2018. 2 I riferimenti tra parentesi rimandano alle pagine interne del libro. 3 Tra i numerosi scritti e lavori su Mieli, si rimanda, tra altri, a L. Bernini, Le teorie queer. Un’introduzione, Milano, Mimesis, 2017; E. Gullo, Santa Maria Mieli, in «Not», 1

13 novembre 2017, https://not.neroeditions.com/mario-mieli/ e il contrappunto di G. Dall’Orto, Mario Mieli: né santa, né vergine, in «Pride», gennaio 2018; M. Zundel, “Sono tutti checche latenti”: Introducing a Radical Italian Queen, MA Thesis, New York University, 2016; C. Lo Iacono, La gaia scienza. La critica omosessuale di Mario Mieli, in «Zapruder», n. 13, 2007, pp. 96-103. Per una panoramica del contesto culturale, si veda anche la voce Mario Mieli, curata da L. Schettini per il Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani: http://www.treccani.it/... 4 R.W. Connell, Maschilità. Identità e trasformazione del maschio occidentale, Milano, Feltrinelli, 1996. Anche in Transsexual Women and Feminist Thought: Toward New Understanding and New Politics, in «Signs», vol. 37, n. 4, 2012, pp. 857-881. 5 A. Sordini, La comunità umana. Rilettura di Mario Mieli, inedito, 2008. Online: www.mariomieliarchives.com. 6 S. Sontag, Stili di volontà radicale, Milano, Mondadori, 1997. 7 Per uno studio della traiettoria politica del progetto militante del FUORI!, della sua «conversione» al riformismo e più in generale del primo movimento omosessuale italiano, si rimanda a M. Prearo, La fabbrica dell’orgoglio. Una geneaologia dei movimenti LGBT, Pisa, Edizioni ETS, 2015. Fondamentale anche la ricostruzione del movimento lesbico proposta da E. Biagini, L’emersione imprevista. Il movimento delle lesbiche in Italia negli anni ’70 e ’80, Pisa, Edizioni ETS, 2018. Sempre utile G. Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia, Milano, Feltrinelli, 1999. 8 Su questo e anche sulla collocazione di Mieli in questo campo, si rimanda a L. Bernini, Apocalissi queer. Elementi di teoria antisociale, Pisa, Edizioni ETS, 2013. Per una selezioni di testi di autrici e autori queer, E. A.G. Arfini e C. Lo Iacono, Canone inverso. Antologia di teoria queer, Pisa, Edizioni ETS, 2012. 9 Come ipotizza M. Prearo, Le radici rimosse della queer theory. Una genealogia da ricostruire, in «Genesis», XI/1-2, 2012, pp. 95-114. 10 M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 (1976), Milano, Feltrinelli, 2014 11 Si vedano i testi critici che accompagnano l’edizione Feltrinelli del 2002 di Elementi di critica omosessuale, e anche la postfazione di T. Dean alla nuova traduzione integrale di Elementi in inglese, Toward a gay comunism. Elements of a hoomsexual critique, tradotto da D. Fernbach e E. Calder Williams, London, Pluto Press, 2018. 12 Interessante a tal proposito, la lettura incrociata, tra Foucault e Mieli, che propone L. Bernini, Contro la liberazione sessuale per un libero uso dei piaceri, in P. Pedote e N. Poidimani (a cura di), We will survive! Lesbiche, gay e trans in Italia, Milano, Mimesis, 2007, pp. 43-58. 13 Autori, nel 1977, di un dittico Comment nous appelez-vous déjà? Ces hommes que l’on dit homosexuels (Com’è che ci chiamate? Questi uomini che vengono chiamati omosessuali), di cui Mieli fa una recensione mai pubblicata (p. 245). 14 Interessanti, a questo proposito, le pagine che la rivista «Masques. Revue des homosexualitées» dedica al libro di Foucault nel numero 3 del 1982 intitolato Dossier Foucault. 15 Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 12. 16 Il titolo del pezzo di Jean-Louis Bory. 17 Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 15-16.

LA GAIA CRITICA

Articoli e interventi

Per la critica della questione omosessuale*

Il «Gay International News», mensile edito dal gruppo di collegamento internazionale del Gay Liberation Front di Londra, ha pubblicato sul numero del marzo scorso una tabella con dati riguardanti l’atteggiamento assunto dalle leggi dei vari paesi del mondo nei confronti dell’omosessualità. Da essa risulta che, nella maggioranza dei paesi capitalisti, viene riconosciuta al cittadino la libertà di essere omosessuale. Per esempio, in Italia, paese a capitalismo avanzato, la legge considera il comportamento sessuale minoritario come «non costituente reato», e stabilisce un’età – sedici anni – raggiunta la quale si è legalmente autorizzati a disporre della propria sessualità in relazioni omosessuali. Malgrado questa «libertà» sancita dalla legge, i padroni, i benpensanti, i «sinceri democratici» paladini difensori di tal legge, i mass media su cui essi esercitano il potere, l’opinione pubblica che mediante i mass media è schiavizzata dall’ideologia dei padroni, ci considerano come malati, nel migliore dei casi, più comunemente come pervertiti, delinquenti, immorali. Perfino la maggior parte dei sedicenti rivoluzionari, i quali non mancano di condannare a parole ideologia e morale borghesi, posti di fronte a noi indietreggiano inorriditi o si ritraggono con disgusto, proprio di tale morale e ideologia facendosi paravento, un paravento da cui peraltro non si separano mai: anzi, se lo portano dietro, proprio come fa la lumaca col suo guscio, per ritirarcisi all’occasione. Nei fatti la libertà che ci garantisce la legge è la libertà di essere degli esclusi, degli oppressi, dei repressi, dei derisi, degli oggetti di violenza morale e spesso fisica, degli isolati in un ghetto

che, in Italia, è per giunta pericoloso e d’uno squallore evidente. Analoga è la situazione degli omosessuali – e il «Gay International News» lo mette chiaramente in luce – in tutti gli altri paesi capitalisti ove la legge si dica garante della loro libertà di essere tali. L’omosessuale dunque, legalmente libero, nella maggioranza dei paesi a capitalismo avanzato e a costituzione più o meno dichiaratamente democratica, resta in pratica il membro sofferente di un ghetto dalla non sempre chiara espressione topografica (fortunatamente «comuni» per soli omosessuali sono una trovata esclusiva del capitalismo cinese), ma tuttavia inconfutabilmente esistente, diffuso, apparentemente autogeneratosi. Nel 1843, Bruno Bauer, pensatore della sinistra hegeliana, notava, nel saggio La questione ebraica, che in Francia, paese in cui la borghesia rivoluzionaria vincente aveva conquistato il potere economico e politico, e in cui il capitalismo si stava velocemente sviluppando, gli ebrei erano riconosciuti liberi di essere tali, in quanto la Costituente borghese aveva sancito e codificato la libertà di culto. Tuttavia la Francia offriva «lo spettacolo di una vita che è libera, ma che revoca la propria libertà nella legge, quindi anche la dichiara un’apparenza, e d’altra parte confuta la sua libera legge mediante l’azione» (Bauer, La questione ebraica). Pertanto, egli notava come l’ebreo restasse in sostanza un oppresso, un escluso e pretendesse di lottare per emanciparsi ulteriormente, per il conseguimento dei propri «diritti». Nell’autunno dello stesso anno, Karl Marx, sviluppando una critica all’analisi superficiale e astratta condotta dal Bauer sul problema degli ebrei, scrisse quell’articolo Sulla questione ebraica che sarebbe stato pubblicato sugli Annali franco-tedeschi nel febbraio del 1884. In questo saggio critico Marx definisce «emancipazione politica» quella raggiunta dagli ebrei nei paesi capitalisti. Egli contrappone quest’espressione, come l’altra, «emancipazione umana», di cui chiariremo il significato più avanti, al termine «emancipazione» tout court, usato dalla minoranza degli ebrei per

definire il telos della lotta da loro condotta contro il «privilegio» cristiano. Egli dimostra come tale grado di emancipazione politica si sia potuto raggiungere riconoscendo che, nella società capitalista, a differenza di ciò che accade in quella feudale, la classe dominante non si serve della religione per fondare dogmaticamente – e quindi giustificare – la ragion d’essere dei suoi privilegi economici-politico-sociali. Per questo le costituzioni borghesi sanciscono la libertà di culto. Ma proprio questa necessità di garantire la libertà di culto testimonia come i paesi capitalisti siano ben lungi dall’essere liberi dal culto: quanto lontani siano dall’aver eliminato la religione, ossia «l’alienazione dell’essenza dell’uomo da sé», come l’aveva definita Feuerbach ne L’essenza del Cristianesimo del 1841. Tutt’altro: la religione, appunto perché è alienante, è in perfetta coerenza con la società capitalista che, tutto reificando, tutto aliena dall’uomo, mercificato esso stesso cioè reso oggetto di scambio. Di più: la religione è pienamente funzionale a tale tipo di società. Si pensi all’Italia, paese che è da ventisei anni retto da quella che i gruppi della sinistra extraparlamentare chiamano «la dittatura DC». Dunque, come per l’omosessuale la libertà sancita dalla legge non risolve la sua condizione di escluso e oppresso, così avviene pure per l’ebreo. Nel paese in cui gli omosessuali sembrano aver raggiunto il grado più elevato di emancipazione politica, l’Olanda, essi restano tuttavia degli esclusi, membri di un ghetto funzionale, prigionieri in quella gabbia d’oro di cui Amsterdam offre il noto esempio. E restano infelici. Se dunque l’emancipazione politica non risolve il problema dell’ebreo, il quale si ostina a lottare per acquisire nuovi diritti che vadano a far ancor più pesare la politicità della sua emancipazione, è possibile giungere a una soluzione definitiva del suo problema? È possibile che egli si emancipi totalmente in quanto ebreo? La risposta è no. L’emancipazione politica è l’unico tipo di emancipazione che l’ebreo, in quanto ebreo, possa raggiungere. È sulla religione che «nobilita» il popolo ebraico che egli fonda la propria differenza

dagli altri uomini. Riconoscendosi come religioso, egli agisce dal piano dell’alienazione dell’essenza dell’uomo, della negazione dell’uomo. Come potrà dunque emancipare se stesso totalmente, cioè umanamente, se egli nega il proprio essere uomo? Quando l’ebreo emanciperà se stesso come uomo, egli non sarà più ebreo. Ma quando? Marx dice: «La formula più rigida del contrasto tra l’ebreo e il cristiano è il contrasto religioso. Come risolvere un contrasto? Rendendolo impossibile. Come rendere impossibile un contrasto religioso? Eliminando la religione» (Marx, Sulla questione ebraica). Come verrà abolita la religione? Mediante quel mezzo storico che insieme ad essa eliminerà tutte le altre forme di alienazione, quel mezzo che ha come fine l’emancipazione umana, che permetterà di riscoprire la vera essenza dell’uomo nel suo essere sociale, a sintesi della sua animalità originaria e dell’eredità di secoli di civiltà che da essa lo hanno separato, quel mezzo che, distruggendo il feticismo del Capitale, renderà all’uomo, che è stato mercificato, il pieno della sua soggettività, per lo sviluppo armonico della società inter-soggettiva, la società comunista. E quale è questo mezzo storico? La rivoluzione del proletariato. Dunque: l’ebreo è nell’impossibilità di emanciparsi totalmente nella società capitalista, così come totalmente emancipato non lo è neppure il cristiano. L’emancipazione dell’uomo provocherà il crollo di tutti i feticci religiosi: il crollo, l’abolizione, di Cristianesimo e di Ebraismo. Noi non siamo antisemiti, come non siamo sionisti, come non siamo cristiani. L’ebreo in quanto semita vale per noi quanto l’italiano, il francese, l’inglese, il giapponese o il russo: potrà essere un rivoluzionario o un contro-rivoluzionario. L’ebreo quale membro della comunità religiosa ebraica pesa per noi quanto un cristiano: possiede cioè il peso d’un contro-rivoluzionario. Così noi diremo: non esiste la possibilità per l’omosessuale di emanciparsi completamente in seno alla società capitalista. La liberazione totale dell’essere umano che è in lui non avverrà che con la rivoluzione condotta dal proletariato per l’emancipazione

dell’umanità, la quale, rendendo all’uomo la sua propria essenza, gli renderà come essa la sessualità, che gli è strutturale, in quanto componente fondamentale del suo essere animale. La sessualità si riscoprirà allora libera da quelle forme di comportamento escludentesi l’un l’altra, cioè da quei fenomeni con cui si presenta oggi la sessualità alienata dell’uomo. Non più divisa in particolarità di ruoli (attivo e passivo, eterosessuale e omosessuale, maschio e «checca»), la sessualità si presenterà come unità molteplice di attitudini. Mentre la liberazione dell’uomo alienato nella figura dell’ebreo dipenderà dall’abolizione della religione, la liberazione di chi è omosessuale si avvererà con la liberazione della sessualità dalle catene dell’alienazione, in concomitanza con la liberazione di coloro che, invece, sono eterosessuali. Perché se la religione è sovrastruttura astratta dall’uomo e che astrae l’uomo, la sessualità, invece, è, come dicevamo, componente essenziale della struttura animale dell’uomo, e come sovrastrutturale si presenta solamente la modalità della sua esplicazione. Non è proprio sul piano della modalità secondo la quale esplicano la propria sessualità che eterosessuali e omosessuali sono ora divisi e sono stati divisi? Dunque, cadendo l’impalcatura capitalista su cui le sovrastrutture alienanti si reggono, cadranno tutte le divisioni e la sessualità ritornerà all’uomo nell’unità del suo molteplice, non soltanto come carattere animale, bensì arricchita dalla componente positiva e originalmente umana di quell’eredità che all’uomo comunista lasceranno i secoli di vita sociale e ricerca sentimentale percorsi dall’umanità nel suo divenire, dal momento in cui, cominciando a produrre i propri mezzi di sussistenza, i primi uomini diedero al bisogno quella speciale risposta attiva che appunto fece di essi i primi uomini, distinguendoli da tutti gli altri animali. L’omosessuale che, conducendo quel processo critico che procede dall’apparenza della sua esistenza verso la scoperta della sua realtà sociale, riconosca con chiarezza nella famiglia, nella morale, nel fallocratismo, nell’oppressione della donna ecc., i principali negatori del suo diritto di esistere, gli assassini del suo

essere omosessuale, è vicino all’individuare nelle strutture economiche del capitalismo la ragion d’essere delle sovrastrutture famiglia e morale, e del fallocratismo e dell’oppressione della donna di cui esse sono produttrici e impregnate. L’omosessuale diventa allora un rivoluzionario, riconoscendo nel proletariato (che, via via, da massa sofferente e sfruttata ma ancor priva di coscienza di classe, passa – attraverso le lotte – alla coscienza di sé come classe sullo sfruttamento della quale si fonda l’esistenza stessa del Capitale, in quanto è da essa che viene estorto il plusvalore, e si erge a proletariato storico a partito organico per la rivoluzione) il veicolo dell’emancipazione dell’umanità intera. Noi siamo di questi omosessuali rivoluzionari. Non per questo però ci immergiamo in quel tipo di attivismo politico-misticotrionfalista, operaista e burocratico, lanciato da quei gruppi che, più o meno esplicitamente identificando se stessi con il partito rivoluzionario (in un momento in cui il proletariato non ha ancora assunto un’organica coscienza di classe e non si presenta pertanto ancora come proletariato storico), finiscono col dare il loro contributo all’opera di mistificazione e allo smercio di fandonie che sono caratteristici dell’ideologia borghese. Riconosciamo a buona parte degli elementi di base dei gruppi della sinistra extraparlamentare di sentire l’esigenza della rivoluzione: ma questa esigenza è ben lungi da trasformarsi in prassi e teoria rivoluzionarie. Quanto ai partiti della sinistra parlamentare, non dimentichiamo che essi sono specializzati nel recupero borghese di ogni iniziativa originariamente rivoluzionaria, per cui, nella presunzione di poterli strumentalizzare, finiremmo coll’esserne strumentalizzati. Il loro scopo sarebbe certo quello di incanalare le nostre energie in una sterile lotta volta al miraggio dell’emancipazione politica, che è una strana cosa, di cui, più ne acchiappi, più vuoto ti ritrovi fra le mani. Essa si dilegua nei fatti, mentre resta codificata in leggi astratte, che mettono il cuore in pace al borghese oppressore e legalizzano la vita triste e la morte squallida della checca isterica cui è ridotto colui che è

omosessuale. Facciamo nostre le parole di Rosa Luxemburg: «È completamente falso e antistorico concepire il lavoro legale di riforma come la rivoluzione diluita nel tempo, e la rivoluzione come riforma condensata. Un sovvertimento sociale e una riforma giuridica si distinguono non per durata, ma per essenza. L’intero arcano dei rivolgimenti storici mediante l’uso del potere politico risiede appunto nel capovolgersi delle trasformazioni puramente quantitative in una nuova qualità; in altre parole, nel passaggio da un periodo storico e da un ordine sociale a un altro. Chi perciò si pronunzia per la via legale delle riforme invece e in antitesi alla conquista del potere politico e al rivoluzionamento della società, in realtà sceglie non una via più tranquilla, più sicura, più lenta allo stesso fine, ma un altro fine, cioè sceglie, invece della creazione di un ordine nuovo, pure e insignificanti modifiche all’ordine antico» («Il programma comunista», a. XXI, n. 1). Il nostro giornale ci pare importante in quanto, sviluppando nelle sue pagine un lavoro teorico volto a cogliere sempre più criticamente il nesso causale e di interazione esistente tra l’oppressione della donna e della sessualità, da una parte, e la società fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo dall’altra, esso potrebbe aiutare noi e quanti (omosessuali o no) prendano coscienza o semplicemente avvertano di soffrire di un’oppressione comune alla nostra, a inserire la tematica di liberazione sessuale in una coerente linea rivoluzionaria, proprio per contribuire a rendere questa pratica più rivoluzionaria. La nostra stessa esistenza come movimento che, nato dall’esigenza di liberazione d’una particolare categoria di oppressi, ha saputo cogliere la relazione esistente tra lo sfruttamento della classe operaia a opera del Capitale e la condizione d’oppressione degli omosessuali, e pertanto si pone come rivoluzionario, contribuisce a negare quanto possa apparire di astrattamente deterministico nel prevedere che, fatte cadere dalla rivoluzione proletaria le strutture del capitalismo, le sovrastrutture alienanti della società borghese non lasceranno all’uomo comunista alcun retaggio della loro negatività. È infatti nei paesi a capitalismo avanzato, i quali hanno maturato le premesse storiche alla rivoluzione comunista,

che i movimenti analoghi al nostro pongono in discussione quanto l’ideologia borghese assolutizza della morale, del costume, del legalismo democratico, della cultura ecc., provocando la crisi del preteso valore assoluto dell’ideologia stessa. Si tratta, oltre ai fronti di liberazione omosessuale, dei movimenti per l’emancipazione femminile, di quelli sorti contro la discriminazione razziale (si tratta, per certi versi, dello stesso fenomeno degli hippies, i quali, spinti dall’idealismo di movimenti umanitario-libertari, pretendono di «rivoluzionare» la vita in seno alla società capitalistica stessa). Sebbene generalmente settari, lontani dall’aver elaborato corrette analisi teoriche volte al fine della rivoluzione, e sovente prestantesi a un facile recupero da parte della borghesia, questi movimenti gettano in crisi il piano delle sovrastrutture dipendenti dal – e funzionali al – Capitale, mentre il Capitale stesso, che conserva ancora nella sua fase di sviluppo più avanzata quel carattere contraddittorio presente già nella sua natura embrionale, sviluppa via via la tendenza a una crisi economica totale come sbocco finale del suo divenire. Inserendo la tematica sessuale in una coerente linea rivoluzionaria, noi del «Fuori!» ci porremo necessariamente in dialettica con quanti dicono di essere dei compagni. Noi non andiamo a elemosinare l’attenzione dei sedicenti rivoluzionari. Il nostro fine è la rivoluzione, per cui, se essi sono realmente dei comunisti, ci riconosceranno come compagni. Attraverso l’analisi del particolare rappresentato dalla condizione degli omosessuali nei cosiddetti paesi socialisti (Unione sovietica, Cina ecc.), noi offriremo il nostro contributo all’opera che già viene compiuta da parecchi compagni al fine di mostrare come questi paesi non siano affatto socialisti, bensì Stati capitalisti, dall’apparenza fenomenica in parte diversa da quella del capitalismo occidentale. Per quel che concerne l’Unione sovietica, si è storicamente verificato il fallimento delle intenzioni dei rivoluzionari del ’17 di condurre lo sviluppo capitalista del paese sotto la dittatura del proletariato, intenzioni legate alla speranza di vedere insorgere vittorioso il proletariato dei paesi capitalisti dell’Europa centrale, specialmente quello tedesco. A pochi anni dalla rivoluzione il

proletariato era già sconfitto dalla presa del potere da parte di quel complesso macchinario burocratico rappresentante gli interessi economici e politici della nuova classe dominante, che ancor oggi dirige e trae vantaggio dal capitalismo centralizzato sovietico, fondato come ogni altro capitalismo esistente sullo sfruttamento della classe operaia. Lenin scriveva, nel 1921, in un articolo consacrato al quarto anniversario della Rivoluzione d’Ottobre: «Il più imperioso compito della Rivoluzione d’Ottobre, in Russia, fu di natura borghese e democratica. Noi abbiamo spinto la rivoluzione democratica e borghese fino in fondo. Inflessibili e coscienti, noi andiamo verso la rivoluzione sociale, sapendo bene che nessuna inviolabile muraglia la separa dalla rivoluzione democratica-borghese». («Correspondance internationale», 5 novembre 1921). Lenin fu certamente un grande rivoluzionario, ma, come si vede, anche un illuso. All’«inflessibilità» dei rivoluzionari russi diede un bel colpo Stalin come esecutore degli interessi borghesi e contadini che rappresentava, ergendo quell’inviolabile muraglia che fu lo stalinismo. Oggi i «socialisti» sovietici, adoratori dell’«inflessibilità» di Lenin, vicario di Marx deificato, sono così flessibili dall’andarsene ai balletti al Bolscioi in compagnia di Nixon e Mrs. Pat. Quanto alla Cina, poi, lì addirittura rivoluzione condotta dal proletariato non ci fu neppure. Si è passati dal feudalesimo al capitalismo attraverso una rivoluzione borghese contadina. Perché stupirci dunque se l’omosessualità viene in Unione sovietica addirittura punita come un reato? Ciò che avviene in genere in quegli Stati capitalisti che sono più fascisti: vedi gli Stati Uniti d’America (eccetto l’Illinois, l’Idaho, il Colorado e il Connecticut), la Scozia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna, l’Australia. Quanto poi al fenomeno del capitalismo cinese, che ha creato «comuni» esclusive per omosessuali non c’è che da dire, fra tanti Stati fascisti, uno nazista male non ci sta. Non è forse Mao in confidenza con Nixon, quanto Hitler lo fu con Mussolini. Dunque, la questione omosessuale è posta. È un invito a svilupparne l’analisi. In partenza, abbiamo individuato l’analogia

tra il problema dell’emancipazione ebraica e quello della liberazione omosessuale e poi ci siamo soprattutto preoccupati di metterne in evidenza i limiti, per chiarire teoricamente ciò di cui avevamo già la sensazione sicura: di potere, di volere, di dover essere dei rivoluzionari. Noi, che costretti a portare un triangolo rosa come segno di riconoscimento, fummo sterminati a fianco degli ebrei nei campi di concentramento nazisti, siamo risorti per la rivoluzione comunista.

* «Fuori!», n. 3, settembre 1972. Nota della Redazione: l’articolo di Mario Mieli vuole aprire un dibattito sulle ipotesi di teorizzazione per una politica di liberazione omosessuale volta a verificare le prospettive già formulate e quelle da costruire. [Come avverrà per altri articoli in cui Mieli sviluppa argomenti radicalmente critici, la redazione del giornale decide di prendere le distanze attraverso una «Nota della Redazione». (N.d.C.)] Dove non indicato diversamente, le note sono di Mario Mieli.

Marocco: miraggio omosessuale*

Marrakech, agosto È un effetto strano quello che provo a scrivere data e luogo in questo posto fuori dal nostro tempo, dove l’unico orologio è quello della stazione, anch’esso incerto nell’ora che fornisce sbagliata a gente che non lo consulta. Ho l’impressione molle di camminare sul dorso di un grosso insetto ambulante. Le mie tempie rispondono al battito del sole cocente e sottolineano il ritmo di un tam-tam che mi viene dalla Piazza della Medina. Un labirinto dove le vie d’uscita sono sbarrate. Dove e quando decidi di tagliare la corda, trovi chiusi gli sportelli e biglietterie delle stazioni e ti dicono di ripassare l’indomani. E l’autobus per Agadir è già partito e il prossimo treno è completo. Disdici l’albergo, torni in albergo. Ti chiudi nel blu della tua camera per sfuggire al pieno di gente nella stessa situazione: senza soldi, coi soldi rubati, che aspettano di giorno in giorno vaglia-telegrammi che non arriveranno mai. La verità è un miraggio e finisci col rinunciare a trovarla. Menzogne-malafede-disinformazione-domani-dopodomani – un’ora significa tre minuti, tre minuti valgono un’ora. Sempre all’erta per non essere fregato. STRANIERO TI FREGO. Prezzi da Montenapoleone; se non baratti, un caffè-croissant lo paghi come sui Campi Elisi. La legge della giungla salta agli occhi. L’aspetto di un feudalesimo decrepito che si dissolve nei caratteri alienanti di un capitalismo d’importazione. Una società anch’essa fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che si presenta con un volto completamente diverso dalla nostra: un’apparenza

fenomenica che risponde all’arcaico dei modi di produzione feudali. Un colpo di stato tira l’altro: Hassan prima o poi finirà ammazzato. L’aspetto vistoso di una congiura di palazzo nasconde la realtà della lotta condotta da una borghesia nazionale in rapida espansione (e che via via si compera l’esercito) contro la grande proprietà fondiaria, legata alla dinastia regnante e agli interessi residui dell’ex-colonialismo francese. E c’è l’arido clima che sembra da sé solo la causa dell’arresto del corso della Storia. Questo clima padrone e amante che mi culla e cuoce il cervello e ora quasi mi impedisce di scrivere e pensare. E non posso fare a meno di tornare a guardare quella matrona negra, nera come la notte, immobile, accovacciata sotto un ombrello con l’aria scocciata, che mastica una radice ventiquattr’ore su ventiquattro e siede ricoperta di Batik, con garze e turbante a pastiglioni; i Batik le scivolano dalla spalla che mostra impudicamente in un paese dove le donne portano il velo sulla faccia. Una spalla bella e rotonda. E ogni giorno si presenta con un abbigliamento diverso: ieri era in poncho di velo nero, pareva un modello di Dior. Una Nina Simone in Christian Dior. Non parla francese, non parla arabo. Verrà dal di là del deserto, rappresenta l’Afrika del turista (chissà cosa c’è dietro!). Espone su una tovaglietta amuleti di pigne e conchiglie – il mango, la noce di cocco, che afferra e assaggia con certe movenze scimmiesche – e vende unguenti lassativi e tessuti fioriti a prezzi da Kensington Market. Le ho comperato un velo blu notte: pretesa di FAREAFRIKANA, ma mi è rimasto soltanto il modello di Dior. Lo indosso e vado a trovarla; la osservo mentre la faccia le si accende, ma non posso capire se è gioia. Ciò che mi torna più famigliare è la risata che, avvolto nel velo blu notte, raccolgo per strada: la stessa risata d’Europa. L’omosessuale trascina con sé le catene della propria oppressione in ogni paese, in qualunque sistema sociale. MAROCCO MIRAGGIO OMOSEX: pulisciti il culo coi fogli dell’abile settimanale nostrano che ti spaccia il Marocco per un paradiso omosessuale. Un involucro mercificante di menzogne per una

realtà di merda. Qui farsi scopare è vergogna, ma il cento per cento degli uomini sono pronti a cacciartelo in culo. È la gran divisione dei ruoli (attivo-passivo) fondata sulla discriminazione sessuale: la donna è un oggetto, una schiava, la donna è un buco, tre buchi. Tu, omosessuale straniero, sei un buco, soltanto due buchi. HONTE! C’est HONTE de se FAIRE BAISER!1 L’ho sentito ripetere molte volte, a candida descrizione dei costumi del luogo, dal partner marokkino sciovinista-attivissimo-fallocrate che mi ritrovavo tra le gambe. Vengono come conigli: due colpi e «han fatto l’amore». E ora che sono venuti, ora che è passata l’attrazione sessuale, tu resti soltanto l’oggetto honteux e loro ti guardano con disprezzo. Mi domando, tra tutti questi volti velati, quanti travestiti circolino per la città. Mi vien voglia di mettere alla prova il materialismo dialettico e tentare di rispondere al quesito: è il travestitismo un fenomeno proprio di una società feudale in dissolvimento? Ma non posseggo elementi empirici né dati sufficienti neppure ad affrontare il problema. Dicono che a Tangeri ci sia un club dove ballano i travestiti (il Dancing Boy), ma né io né gli amici siamo riusciti a trovarlo. Mi pare tuttavia impossibile che travestiti sia indigeni che stranieri si incontrino per ballare in un ritrovo pubblico in questo paese in cui nascere femmina significa disgrazia, calamità, il mito fallico è il più diffuso e tutti – maschi, s’intende, perché di donne omosessuali manco si immagina l’esistenza – alternano con indifferenza alle relazioni eterosessuali rapporti omosessuali, ma nessuno ammetterebbe mai di essere stato, almeno una volta, inculato. (Ma poi, chi soddisferà mai la potentissima virilità di tanti milioni di marokkini vogliosi di possedere partners del loro stesso sesso? Forse soltanto le checchine straniere tempestate di occhiate invitantissime per le strade della città? O soltanto i ragazzetti del luogo che passano tutti, pare, attraverso l’esperienza brutale dell’essere violentati all’età di dieci-dodici anni?). Cos’è la mentalità di questa gente! ONORE & Vergogna, il grande valore dell’ideologia feudale e l’obbrobrioso risvolto della medaglia. Fra pullman sgangherati USA anni ’40, motorini quanti a

St. Tropez, una luce elettrica concessa a ore, il dramma vissuto da un Cid cornelliano ci starebbe a meraviglia. Fra uomini che si tengono per mano in segno di amicizia, le nuove generazioni vengono su col mito dell’Europa e dell’Amerika di plastika. Ti danno l’anima (ma non il culo!) per una foto di Alain Delon a kolori. È viva nella loro immaginazione una Brigitte Bardot 1957. Una forza di amore-odio li lega alla kalamita della Francia, l’ex paese colonizzatore. Una scozzese paffuta dall’occhio color lavanda mi offre mandorle e datteri secchi e in un soffio monocorde detta la ricetta del tè all’oppio, seduti in un caffè: «Comperare cento grammi di bulbi essiccati di papavero nel Souk. Prenderne la terza parte e farla bollire lentamente per quaranta minuti assieme a foglie di menta. Zuccherare e sorseggiare a qualsiasi ora del giorno». Consumare LSD come caramelline e provare il brivido del tuffo più alto dalla piscina comunale. Serate lunghissime di silenzi alienanti frammezzati dai «far out» del gergo etero – e il «NUOVO STILE DI VITA»… (?). La risata perfino è una regola, l’ormai classico gioco banale. Ormai tentata la via delle Indie, consumato l’inverno fumoso di una Notting Hill Gate, hippies di tutto il mondo approdano all’ultimo lido, oasi di riposo tormentato. MAROCCO MIRAGGIO FRAK. Stanno seduti per ore al Milk Shake Bar ad ascoltare Led Zeppelin – Jimi Hendrix, con lo sguardo assente, in silenzio, con la «loro» donna muta accanto. Si credono padroni del mondo in questa visione da schiavo, incoscienti di essere merce di scarto prodotta dal Capitale; si credono liberi perché cercano una libertà introvabile in fuga all’indietro dall’era industriale. La donna resta loro possesso, al più è un oggetto di scambio, viva più che mai l’esclusività di un atteggiamento eterosessuale neppure posto in discussione. E di qui il salto: le grotte dei monti dell’Atlas, chi si perde nel deserto o nei tre metri quadrati della stanza pidocchiosa d’albergo trasformato in clinica-obitorio per tossicomani. Albergo-farmaciasiringa. Entro due anni si muore, ma può durare di meno. Marocco mèta dei primi amerikani del dissenso. L’Easy Rider degli anni ’50 che vedevano come protagonisti i Kerouac, i Ginsberg, Borroughs e Ferlinghetti – più tardi Barbara Hutton e

gli impiegati dell’ONU in pensione. Appartamenti gioiello affogati nella casbah, riconoscibili dalla porta lucidata di fresco e dalla targa di ottone incisa di un nome anglosassone. Traspare un senso di tragico dall’estetismo nimphomaniac-omosessuale represso dell’arredamento confortevole Casa Vogue. Tappeti-cuscini tra cui sprofondarsi, può darsi vedute sul mare. È il dramma di chi ha scoperto nell’oasi il vuoto angosciante della propria sofferenza e alienazione – né può né lo vuole confidare. È il segreto di un fallimento che finirà nell’oblio – dimenticato a Tangeri! –, solitudine, ricordi, tra questa gente con cui non si può comunicare. Oppure, l’ultimo sforzo: un volo per Miami Beach, morire in una stanza ariosa artificiale di clinica, infermiere premurose, stereotipate, le labbra (oh, ancora la plastika! eterna, detestata, fuggita!), un ritmo-staffetta, si muore all’ora del cambio, il cambio di tre ore. E quale deve essere la buia angoscia del travestito in attesa di essere operato a Casablanca dal costoso kirurgo francese che trasformerà i coglioni in vagina, il verme in farfalla, l’anatroccolo in cigno; la metamorfosi di chi «volontariamente» cede la propria sessualità maschile, oppressa dallo stereotipo della virilità da circo propagandata dal Capitale, in cambio dello stereotipo di donna frigida, castrata, sterile, oppressa, che il Capitale richiede e opprime. E finisce sul palcoscenico di Madame Arthur o del Carrousel, in una farsa di gay humour tra piume e paillettes, a esibire l’objet honteux in cui è stato trasformato il SUO SESSO attraverso il lungo processo di reificazione, iniziato con la repressione sessuale dell’infanzia e culminato a Casablanca, in una ridda di ferri, ormoni e protesi vaginali. MAROCCO: miraggio di quanti, alienati straschiavi della propria alienazione e stanchi della vita di merda che conducono in paesi a capitalismo avanzato, si possono concedere una fuga all’indietro, alla ricerca vana dell’armonia e della pace fra i residui vacillanti di un feudalesimo in via di dissoluzione, nel caos multicolore di una società senza forma che ne sta affannosamente cercando una, sotto la spinta di una borghesia galoppante che, falsa e momentanea alleata degli strati popolari, cerca di

strappare all’aristocrazia fondiaria il privilegio antichissimo cui la lega da secoli lo sfruttamento delle genti e della terra; MAROCCO, miraggio di quanti, borghesi, piccolo borghesi o esponenti dei ceti medi da noi, non sanno né possono vedere nel futuro di una società comunista il vero riscatto dalla loro cosalizzazione e sofferenza, il salto dell’umanità intera alla vita libera e felice, e cercano tra il dolore e la violenza di una società diversa, ma ancora più schiava del bisogno e della discriminazione sociale e sessuale, una pace effimera. Casablanca Casablanca Ecco quanto scrive Germaine Greer2 a proposito di April Ashley, un giovane inglese che si fece operare a Casablanca, nel libro L’eunuco femmina (edito da Bompiani, lire 2.500, volume di cui consigliamo la lettura a quanti, fra i lettori di «Fuori!», non lo conoscano già). April Ashley nasce maschio. Tutte le informazioni fornite dai geni, cromosomi, organi sessuali interni ed esterni, portavano alla stessa conclusione: Ashley era un uomo. Ma desiderava essere una donna. Desiderava lo stereotipo non per possederlo ma per esserlo. Voleva stoffe morbide, gioielli, pellicce, cosmetici, l’amore e la protezione degli uomini. In tal modo era impotente. Non gli piacevano affatto le donne, benché non accogliesse volentieri gli approcci omosessuali. Non si riteneva un pervertito e neanche un travestito, ma una donna crudelmente trasformata in uomo. Tentò di morire, interpretò come attore delle parti femminili, ma alla fine trovò un dottore a Casablanca che si fece avanti con un’alternativa più accettabile. Doveva essere castrato e il suo pene usato come fodera per un’apertura costruita chirurgicamente, che sarebbe stata la vagina. Sarebbe stato sterile, ma ciò non ha mai avuto alcuna influenza sull’attribuzione della femminilità. April tornò in Inghilterra splendente. Una cura massiccia di ormoni aveva eliminato la barba e provocato la formazione di piccoli seni: durante il periodo in cui aveva fatto l’attore si era fatto crescere i capelli e aveva comprato vestiti femminili. Diventò fotomodella e cominciò a rappresentare lo

stereotipo femminile come era perfettamente qualificato a fare, poiché era elegante, voluttuoso, ben agghindato e innamorato della propria immagine. In un giorno malaugurato sposò l’erede di un pari, l’onorevole Arthur Corbett, realizzando la meta più ambita dei sogni femminili, e andò a vivere con lui in una villa a Marbella. Il matrimonio non fu mai consumato. Era logico che April, essendo un castrato, non potesse funzionare come donna, ma la sua condizione non è tanto diversa, dopo tutto, dall’impotenza delle donne che subiscono la sessualità senza desiderio, con il solo piacere infantile delle carezze e dell’affetto, che è la loro ricompensa preferita. Fino a quando lo stereotipo femminile rimarrà l’unica definizione del sesso femminile, April Ashley sarà una donna, malgrado la decisione legale che consegue dal suo divorzio. Ella è quanto noi una vittima della polarità dei sessi. Disonorata, senza sesso, April Ashley è nostra sorella e nostro simbolo.

«Fuori!», n. 4, ottobre 1972. L'articolo è firmato da Piero Fassoni e Mario Mieli. [N.d.C.] 1 Vergogna! È una vergogna farsi scopare! [N.d.C.] 2 Germaine Greer, femminista australiana, nata nel 1939, influenzò il dibattito teoricopolitico degli anni ’70, suscitando anche forti critiche. Lo stesso Mieli la considera «antifemminista» e «anti-omosessuale» nel testo I radical chic e lo chic radicale. Si veda la nota a p. 65. [N.d.C.] *

London Gay Liberation Front Angry brigade, piume & paillettes*

Gran Bretagna, inverno 1972: lo sciopero dei minatori getta il paese intero nel buio e nel caos più assoluto. Il governo conservatore proclama lo stato d’emergenza: si spengono le luci della City, i cervelli elettronici smettono di funzionare, i macchinari industriali si arrestano. Estate 1972: la gigantesca fiammata dello sciopero dei portuali inceppa l’intero meccanismo dei rifornimenti – non solo alimentari – del paese. Sebbene condotte ancora in una prospettiva economicistica1 e lungi dal trasformarsi in cosciente e unitaria battaglia politica contro la classe avversa e i suoi fortilizi difensivi, queste lotte manifestano una radicalità capace di scavalcare a sinistra i sindacati di categoria, che vengono smascherati come venduti al nemico di cui giuocano gli interessi, e di muovere qualcosa nel paese intero, accendendo un nuovo fervore rivoluzionario nell’animo di quanti, legati dalla comune esigenza della rivoluzione, stagnano ancora nell’incerto pratico-ideologico determinato da anni di incontrastato potere capitalistico. È in concomitanza con lo sciopero dei minatori che il Gay Liberation Front inglese rinnova le sue strutture, si libera dall’apparato burocratico-centralizzatore che lo sostiene e, attraverso nuove formazioni di quartiere, rende alla base del movimento ogni potere decisionale, la responsabilità diretta delle lotte condotte. Durante l’estate, invece, mentre cinquantamila dockers (portuali) minacciati di sottoccupazione incrociano le braccia

sfidando leggi antisciopero, governo, laburisti e sindacati, gli omosessuali rivoluzionari di Londra combattono le prime vere e proprie lotte di quartiere, contro il fallocratismo2 assassino della società borghese, per assicurarsi con la forza – e la violenza, se occorre – il diritto alla vita condotta in comune conformemente allo stile dettato dallo slogan come out (vieni FUORI!). Sono le lotte di Brixton, che vedono presto passare dalla parte degli omossessuali, perseguitati da bande di ragazzini fascisti, tutta la popolazione femminile del quartiere; è l’insediamento di comuni omosessuali a Colville Terrace, l’occupazione di case destinate alla demolizione del nuovo piano urbanistico londinese che, nella logica feroce della speculazione economico-politica, tende ad allontanare dal centro di Londra proletari e sfruttati, per imprigionarli nei ghetti mostruosi e irraggiungibili delle estreme periferie della città. Nato due anni orsono alla London School of Economics dall’iniziativa di due studenti reduci dal contatto con il Gay Liberation Front americano, il Gay Lib. londinese ha presto raccolto ampi consensi nell’ambito degli omosessuali dell’estrema sinistra. Il movimento ha raggiunto dimensioni ragguardevoli: nel giro di due anni più di diecimila distintivi sono stati venduti nella sola Londra e ogni settimana, alle riunioni generali di Notting Hill Gate, centinaia di omosessuali partecipano ad aperti dibattiti sul movimento e la sua politica. Oggi le riunioni generali non si tengono più perché, attraverso l’attività e gli incontri dei gruppi di quartiere, ogni iniziativa è presa per volontà e secondo il consenso della base, togliendo ai pochi più attivi, o tendenzialmente portati al ruolo di burocrati, ogni parvenza di potere decisionale. Questa nuova struttura è stata suggerita agli omosessuali rivoluzionari dal modello organizzativo del Women’s Liberation Front (il movimento di liberazione delle donne), al fianco del quale il Gay Lib. si è sempre mosso, nel suo carattere apertamente dichiarato di movimento radical-femminista. Da non dimenticare la manifestazione – concertata, di comune accordo, dal Women’s e dal Gay Lib. – contro l’elezione di Miss Mondo 1971, gli scontri con la polizia, la ridda scatenata attorno

all’Albert Hall, le improvvisazioni dello Street Theatre (teatro di strada). Lo slogan di quella sera fu: WE’RE NOT BEAUTIFUL, WE’RE NOT UGLY, WE’RE ANGRY! (= NON SIAMO BELLE/I, NON SIAMO BRUTTE/I, SIAMO ARRABBIATE/I!). ANGRY: arrabbiate! Le queens (regine, checche) del Gay Liberation Front londinese si sentono, al fianco delle loro compagne femministe, profondamente arrabbiate. Nella gioia della lotta scatenata che combattono contro la società capitalistico-fallocratica che nega loro la libertà di esistere, gli omosessuali inglesi sfogano la loro rabbia, la rabbia accumulata per anni silenziosamente, fra angherie e violenze sopportate senza poter reagire, incatenati nell’angoscia dell’oppressione più crudele. E ben coscienti di dividere quest’oppressione non solamente con le donne, bensì con quanti soffrono più o meno direttamente del sopruso su cui è fondata la società borghese, gli omosessuali di Londra inseriscono la loro lotta nel più ampio contesto di ogni iniziativa rivoluzionaria volta al sovvertimento del sistema, pur ponendosi in netta antitesi3 nei confronti della sinistra tradizionale, la quale peraltro, in Inghilterra così come in Italia, è prettamente controrivoluzionaria. GIOIA DI VIVERE E RABBIA CONTRO IL SISTEMA CHE NEGA LA VITA! Manifestazioni, riunioni, azioni politiche, volantinaggio, spedizioni punitive: il tutto intercalato da giornate di festa nei parchi (dove le compagne e i compagni del Gay Lib. si incontrano per manifestare pubblicamente e fraternamente la loro omosessualità), da social meetings4, dai favolosi balli. Nei vetusti edifici delle sedi municipali di Londra prese in affitto, centinaia e centinaia di omosessuali d’ogni sesso si riuniscono per ballare e divertirsi insieme, in un carosello di costumi improvvisati che rivelano quanto di strepitoso sia nella fantasia e nell’immaginazione omosessuali liberate. Tra transexuals5 in abito di lustrini e parrucche viola-vaporose, si ritrovano pure esponenti della sinistra extraparlamentare più avanzata, hippies fumati dall’aria bisex, David Hockney e il fior fiore della King’s Road, femministe splendenti di antifemminilità e gli enigmatici redattori di «OZ». Ai primi balli, lontano e al sicuro

dagli occhi della polizia, si davano convegno i membri dell’Angry Brigade (= Brigata arrabbiata, più o meno l’equivalente inglese delle nostre Brigate Rosse). Al fianco di un giapponese in abito stile edoardiano come Silvana Mangano in Morte a Venezia, tra tipi anglosassoni e sudamericani barbuti in minigonna, italiani in gara con Fellini e Gherardi per l’originalità dei costumi fatti su in quattro e quattr’otto con garze d’ospedale, piume di struzzo e colori di Biba, i cospiratori dell’Angry Brigade tramavano indisturbati gli attentati più sensazionali che hanno sconvolto la Londra degli ultimi anni, suscitando alle orecchie degli inglesi l’eco del terrore Nord-irlandese, fino ad allora attutito dalla lontananza e dalla discrezione ipocrita di un nazionalismo fanatico che nasconde a se stesso i guai di casa propria. Oggi, fallito il tentativo pseudo-rivoluzionario dell’Angry Brigade ormai in disfacimento, al Gay Lib. si preferiscono azioni politiche meno avventate e più costruttive. Così, si occupano case con le piume in testa e mascara abbondante; si impone al quartiere la presenza di omosessuali venuti fuori, che vivono in comuni incasinate senza orario, senza autorità, senza morale, senza lavoro e senza soldi, in un’orgia di materassi e vestiti da jumble-sale6 sparsi per stanze caotiche imbrattate di marmellata e profumate d’erba, con armadi stracolmi e specchiere cariche di cosmetici, innumerevoli tazze da tè, cassetti pieni di LSD e scarpe di tutte le forme, preferibilmente argentate col tacco a spillo. Insomma, una ambiance da «acido e vecchi merletti»7. All’astrattismo teorico dei partiti e gruppuscoli della sinistra più o meno tradizionale e all’avventurismo politico dei sognatori libertari, il Gay Liberation Front propone come alternativa una vita che si fa in se stessa rivoluzionaria, negando il sistema dei suoi capisaldi fondamentali (lavoro, famiglia, fallocentrismo, morale, proprietà), facendosi beffe della maschera di permissività dietro la quale la società inglese nasconde la repressione sessuale e lottando attentamente contro la minaccia del recupero borghese, quel mostro camaleontico dai mille volti, mille tentacoli e tentazioni, il cui rischio costantemente si rinnova.

Ovunque si incontrino, compagne e compagni del Gay Liberation Front apertamente si baciano. Un clima di autentica solidarietà omosessuale regna tra essi, nella comune ricerca di attività concrete e sempre nuove in cui incanalare il fervore rivoluzionario che li unisce. Moltissimi sono i gruppi, sorti in seno al movement, che si occupano di problemi particolari. Fra essi importantissimo è il Transvestites & Transexuals Group, gruppo che riunisce travestiti e transessuali rivoluzionari, i quali, attraverso riunioni e aperti confronti in cui discutono le loro esperienze personali e le forme di condizionamento e oppressione cui vanno soggetti, sono riusciti a formulare, nella più ampia libertà dal vincolo di pregiudizi moralistici di stampo borghese un’interpretazione rivoluzionaria dei fenomeni del travestitismo e del transessualismo e delle problematiche ad essi inerenti. Fondato da due lesbiche americane, di cui una però, Rachel, è geneticamente maschio8, il Transvestites & Transexuals Group ha profondamente influito sulla comunità intera del Gay Liberation Front, diffondendo la politica e il gusto del travestitismo fra persone che erano solite bollarlo come attitudine controrivoluzionaria, probabilmente perché influenzate dalla miopia del puritanesimo gauchiste9. Oggi, i compagni del Gay Liberation Front inglese si travestono non per cercare di imitare lo stereotipo10 femminile proposto dal Capitale, ma per manifestare contro la polarità dei sessi11 (generalmente si trovano accomunati nella stessa persona stinchi pelosi, baffi spioventi, ciglia finte e maxigonna di lanetta bouclée) e per sbizzarrirsi nel gioco fantastico della distruzione dei ruoli.

«Fuori!», n. 5, novembre 1972. Economicistica è una lotta che non mira al rovesciamento totale del sistema mediante la conquista del potere politico. 2 Fallocratismo (analoghi i termini fallocrazia e fallocentrismo): tendenza a fare del membro maschile il centro di ogni valore, ciò che si traduce poi nella sopravvalutazione dell’atteggiamento attivo del maschio nel rapporto sessuale. 3 In questo caso «essere in antitesi» significa essere in disaccordo, in aperto contrasto, in contrapposizione. In generale, comunque, si dice che sono in antitesi due *

1

elementi i quali, pur essendo l’uno opposto all’altro, si determinano a vicenda. Ad esempio: borghesia e proletariato sono due classi antitetiche, nemiche, contrapposte, la seconda asservita alla prima. Tuttavia la classe borghese deve la propria esistenza allo sfruttamento del proletariato, ed è quindi dipendente da esso, mentre il proletariato si configura come tale proprio perché la borghesia lo sfrutta (e quindi da essa dipende). 4 Social meetings: sono riunioni che quelli del Gay Lib. organizzano per incontrarsi in luoghi alternativi al ghetto e discutere del più e del meno, anche temi non politici. 5 Transexuals: transessuali. Sono le persone che cambiano sesso, oppure desidererebbero cambiarlo o anche, senza desiderare di cambiarlo, si identificano col sesso opposto. 6 Jumble-sale: svendita della roba usata, che in Inghilterra si fa molto spesso per beneficenza e che il Gay Lib. ogni tanto organizza per autofinanziarsi. 7 L’LSD. infatti è acido lisergico e i compagni del Gay Lib. ne fanno abbondantemente uso. 8 Rachel è un transessuale: infatti, malgrado sia dotato di caratteri sessuali sia primari che secondari prettamente maschili, si sente femmina e come tale desidera comportarsi e vestirsi. Tuttavia gli (le) piacciono le donne (è perfino sposato/a) e ha solo raramente rapporti sessuali con uomini, che giudica poco attraenti perché generalmente fallocrati e virili. Per questo si definisce una lesbica. Tale lo/la considerano anche le compagne del Women’s Lib.: Rachel è una delle pochissime persone di sesso maschile cui è concesso di prendere parte alle riunioni delle femministe. 9 Gauchiste è una parola francese che significa militante dell’estrema sinistra. Per cui «puritanesimo gauchiste» significa il puritanesimo diffuso tra i militanti dell’estrema sinistra. 10 Stereotipo è l’immagine convenzionale che ci si fa di qualcosa o qualcuno, fissa in una forma immutabile. 11 Polarità dei sessi: vuol dire che i sessi vengono considerati come due cose opposte e assolutamente differenti l’una dall’altra (agli opposti poli), l’una negazione dell’altra.

I radical-chic e lo chic radicale*

«L’essere rivoluzionari» mi disse una volta un’etero-checca1 milanese «si fonda sulla coscienza delle proprie aspirazioni borghesi»: un detto che, subito, mi piacque molto. Infatti, quando – soltanto qualche giorno prima – un compagno del FUORI! mi aveva iniziato alla lettura di Picabia, avevo immediatamente realizzato che, per poterne apprezzare i detti, era necessario saper cogliere in essi quanto vi fosse di spontaneità espressiva carica di significato, di trovata sintetizzante, di exploit del pensiero, evitando invece di soffermarsi sulla loro imprecisione e mancanza di correttezza teorica. Così, pure nel caso dell’eterochecca milanese, il detto andava e va reinterpretato: ciò non toglie che sia senz’altro vero che «l’essere rivoluzionari» si fondi anche sulla consapevolezza critica «delle proprie aspirazioni borghesi». Di più: diremo che, a questo proposito, il rivoluzionario è in costante dialettica con se stesso, lungi dallo sclerotizzarsi su una qualsivoglia consapevolezza acquisita; dialettica che gli permette di difendersi dal condizionamento martellante operato su di lui dalla ideologia borghese e di riconoscere in sé, pur sempre, la personificazione della cosa2 (nel caso egli sia di estrazione sociale borghese e/o membro dei ceti medi) o la cosalizzazione di un soggetto3 (qualora egli sia proletario) quale sua caratterizzazione storica e tara negativa che, nei fatti, si oppone alla libera determinazione del suo slancio vitale, volto al conseguimento di una sempre maggiore soggettività praticoconoscitiva capace di incontrare, su un terreno rivoluzionario, quella soggettività che gli altri compagni riescono, quando possono, a suscitare in sé da sé.

IL ’68 CHE CHICCHERIA!

Ma non sempre il «rivoluzionario» ha chiara coscienza dell’opportunità di tale dialettica con se stesso. Al contrario: molti, credendo di aver ingannato il verbo marxista, se ne astengono nel modo più assoluto. A questo proposito si osservi quanti, pretesi rivoluzionari nel ’68 e indottrinatisi alla rinfusa di qualche preteso marxismo e di molto maoismo-stalinismo meglio rispondente alle loro vitali esigenze di ex(da poco) aderenti all’Azione Cattolica, si ritrovarono in pochi anni, che dico, pochi mesi, a far da portavoce del più bieco spirito reazionario del qualunquismo arruffone e opportunista cosiddetto di «sinistra». Altri invece, forse narcisisticamente innamorati del dramma esistenziale che racchiudono in sé (il conflitto tra la cosa, da una parte, e l’aspirazione alla libertà soggettiva, dall’altra) ed eredi, in certo modo, di una qualche scapigliatura, magari la più composta, volgono ogni loro segreta tensione al raggiungimento dello chic radicale, fine ultimo – a loro insaputa – e obiettivo immediato da conseguire (ciò magari più consapevolmente…), da manifestare nel comportamento, spesso nelle scelte, sempre nell’imperativo a un dover-essere ideale che, nella pretesa di fondare una morale antitetica rispetto al moralismo borghese, via via questi «rivoluzionari» affidano a se stessi. È così che a noi vien voglia di svelare il tabù, di parlarne, finalmente, di questo radical-chicchismo che dilaga; e siccome ce ne frega di far riferimento ai radical-chicchisti borghesi e dichiaratamente contro-rivoluzionari, fra i quali, quanto meno, l’aspirazione all’elegante è generalmente riconosciuta, ci preme rivolgerci a quanti, rivoluzionari nelle intenzioni e/o parole, nascondono con un velo di segretezza (e forse in rapporto di tacita complicità gli uni con gli altri) la tendenza allo chic radicale che li accomuna. Che ci accomuna: perché certo non saremo noi a celare di essere dei radical-chic ché, semmai, del nostro radicalchicchismo questo articolo stesso fornisce la prova; ma siamo dei radical-chicchisti autocritici, non per integrità morale

rivoluzionaria, posto che non ne consideriamo alcuna, quanto perché, visto che tra compagni di tale tendenza allo chic radicale non si parla mai, noi riteniamo che varrebbe la pena fare un po’ di luce su di essa, per individuare quanto di borghese, e quindi inumano, in essa si annidi. Certo, qualche puritano mi verrà a obiettare che, grazie a Dio (che dico! grazie a Marx), questa attitudine allo chic radicale non coinvolge, anzi, non concerne assolutamente la gran parte dei militanti della sinistra eterosessuale: che tutt’al più si tratta di una manifestazione della «decadenza borghese di quella congrega di emarginati, lesbiche e culattoni, che, guarda caso, è proprio una checca che ce ne viene a parlare». Ma la checca, abituata a far da bersaglio a tante critiche di tanti severi censori, di frecce e frecciate ha fatto tesoro, educandosi a uno spirito critico elastico nel suo rigore, uso alla sospensione di giudizi e pregiudizi ché tanto si trattava di sospender quelli altrui, non avendo essa alle spalle né una cultura né «valori» che ne gratificassero l’oppressione, bensì soltanto il proprio dolore di escluso e di intollerato, carattere primario, e negazione a un tempo, della sua vita. Così, la sensibilità del suo spirito critico impedisce oggi alla checca di accettare l’obiezione che il radical-chicchismo sia soltanto prodotto della «decadenza» omosessuale, perché, forse, della decadenza omosessuale da sublimanti piedistalli borghesi è espressione piuttosto l’allegra coscienza di incarnare lo chic radicale comune a tali compagni gay. Certo: che la consapevolezza critica del radical-chicchismo non sia diffusa, è attualmente un dato di fatto; ma basta un minimo di sensibilità per percepire come in questa società in cui gli esseri umani sono relegati nell’angolo della loro individualità murato dalla reificazione e in balia del senso di colpa tra un complesso di inferiorità e un atteggiamento di superiorità, la tendenza allo chic radicale sia, al contrario, assai diffusa anche tra i «rivoluzionari».

PERSONAGGI E INTERPRETI

A mio parere, il radical-chicchismo rappresenta il côté un po’ frivolo, ma a volte assai pesante, della dialettica del rivoluzionario con se stesso: per un verso esso soppesa l’onere del condizionamento borghese, per l’altro esprime in certo qual modo una dose di intenzionalità creativa, una voglia di recitare se stessi secondo una determinazione soggettiva, per smettere infine la carcassa dell’interprete e vitalizzare la maschera del personaggio, cui, più o meno consciamente, si aspira. E, se è espressione di una dialettica esistenziale, il radical-chicchismo rappresenta a suo modo – e quasi sempre, senza essere accompagnato dalla consapevolezza di ciò – il dualismo insito nel rivoluzionario tra la carcassa dell’interprete (prodotto della reificazione di un essere umano alienato da sé) e l’intenzionalità del personaggio – libero di morire e resuscitare come su una scena, di trasformarsi come l’oggetto di un’allucinazione per suscitare finalmente la potenzialità repressa dell’attore – grottesca malformazione dell’aspirazione al domani soggettivo e fantastico in cui sarà negata l’antitesi tra interprete e personaggio, tra palcoscenico e platea, tra vita e conoscenza, tra soggetto e oggetto, il domani che vedrà risolta l’antitesi tra classe e classe, tra sesso e sesso, tra donna e donna4. Così il radical-chicchismo si articola in una sintesi comportamentistica che ha in sé e il condizionamento borghese alla cosa (per esempio: la droga) e la sublimazione della cosa (per esempio: dedizione convinta e rituale alla droga) nel tentativo di rendere creativo, libero, il proprio rapporto con la cosa, rapporto che, invece, è di schiavitù. Il radical-chicchismo è comunque manifestazione comportamentistica di un periodo controrivoluzionario. Rappresenta un po’ in sé il contrasto tra l’esigenza della rivoluzione di chi è diventato compagno in seguito a lotte e all’influenza di lotte trascorse e il periodo contro-rivoluzionario di recupero e avanzata capitalistica, che alle esigenze umane

risponde con merci, le quali, lungi dal soddisfare tali esigenze, ne creano delle nuove, nuovi bisogni sociali.

BOB L’AMERICANO

Ma se dunque è possibile accennare a un’interpretazione critica del fenomeno rappresentato dal radical-chicchismo, ciò non impedisce che, generalmente, esso si ponga come fine a se stesso, quale punta di massima tensione del comportamento, sublimante – e quindi gratificante – lo stato cosale di carcassa umana in cui si dibatte. Non a caso, il primo libro sul radical-chicchismo, scritto dall’americano Tom Wolfe5, non fu certo accolto a braccia aperte dai radical-chicchisti anglosassoni, che si videro improvvisamente smascherati, interpretati, definiti: ci fu chi fece orecchie da mercante e chi, invece, ne chiacchierò facendo, più o meno consapevolmente, del meta-radical-chicchismo (cioè del discorso radical-chic sul radical-chicchismo), nuova forma, quest’ultima, assai più raffinata di radical-chicchismo, ininterpretabile – si credette – in quanto già di per se stessa interpretazione. E così parecchie banalità, pensate e dette con eleganza dai nuovi metaradical-chicchisti, si imposero con una autorevolezza frenante, pericolosa. Oggi ci sembra opportuno che compagne/i non si limitino ad accorgersi della tendenza insita in loro allo chic-radicale, ma che contro di essa lottino, non certo animati da rigoroso moralismo, quanto dalla consapevolezza dello spirito individualconcorrenziale che si cristallizza in essa e che si ritorce, in ultima analisi, contro di loro. Ma quello che oggi pare davvero intollerabile è che di esser radical-chicchisti molti pretesi rivoluzionari non se ne accorgano o non vogliano accorgersene. Così, dunque, se da un lato diverte il radical-chicchismo di Bob, l’americano, che vive nel bed-sitter di un basement londinese e gira indossando il montgomery miserino che si è tagliato su un modello Balenciaga 1957; se fa sorridere (visto che siamo abituati

nella sofferenza a capovolgere le nostre reazioni, per cui si finisce col ridere quando ci sarebbe da piangere e viceversa), l’aspirazione alla chiccheria dell’operaio militante di Lotta Continua che fa la sua comparsa alle riunioni domenicali in giacca prugna dagli ampi revers e pantaloni leopardati; d’altro lato incomincia ad annoiare il radical-chicchismo (e si badi ben, qui di radical-chicchismo si parla in senso quantitativo, non qualitativo) di coloro che, per dar lustro, facciata al «Fuori!», si fanno in quattro per riempirne le pagine di articoli firmati dai «grandi nomi» del gauchisme e della «controcultura» internazionale, fino a far del giornale – Dio ce ne scampi e liberi! – un ennesimo inserto de «l’Espresso»; preoccupa il radical-chicchismo della Finzi Ghisi6 che, citando l’esemplare attualità del costume amoroso del valletto lustra-scarpe dell’ottavo cavaliere alla tavola di Re Artù, spaccia per teorizzazione marxiana la cerebralità chiacchierona di una intuizione peraltro sterile sul preteso recupero della soggettività nel narcisismo omosessuale; e fa senz’altro incazzare, qualora valga la pena di prendersela per tali meschinerie, chi pretende di far passare per rivoluzionario lo chicchismo di una fedele dedizione alla droga, ostia divina che spalanca le porte al regno dell’hippiterosessualità; oppure l’esaltazione acritica della delinquenza come rivolta immediata alla società; o, ancora più diffusamente, chi per rivoluzionario spaccia l’alone di chiccheria che contorna il prestigio di una posizione di rilievo, «esecutiva», all’interno di uno dei tanti rackets della sinistra extraparlamentare, posizione fondata sulla devozione pecorile e militante degli elementi di base; infine chi, da buon maschilista di ieri, di oggi e di domani, si compiace di rilucere di una patina di femminismo radical-chic, messa su in quattro e quattr’otto, magari dopo essersi letto Germaine Greer7. A me pare che oggi si debba incominciare a conoscere e a misurare la propria tendenza allo chic radicale, e che non si debba cadere nell’errore di fare del meta-radical-chicchismo una nuova forma di radical-chicchismo sulla quale non possiamo esercitare alcun tipo di controllo, ché, al contrario, è esso a esercitare il potere su di noi. Mi si potrebbe far notare che anche un ipotetico

meta-meta-radical-chicchismo, discorso sul controllo di un discorso sul radical-chicchismo, potrebbe assumere l’aspetto acritico che del meta-radical-chicchismo a me preme evitare. E così il discorso si estenderebbe all’«infinito». Ma è proprio questa «infinitezza» che ci vuole, perché essa indica come la direttiva di un programma in divenire, programma di chi, animato da intenzionalità rivoluzionaria, ma pur sempre personificazione della cosa o reificazione di un soggetto in questo contesto capitalistico, desideri costantemente cogliere dati e informazioni sulle forme oppressive del condizionamento che opera su di lui, per poterne smorzare la violenza, ridurre la capacità di penetrazione e lottare, forte di una sempre più profonda consapevolezza di sé, per il conseguimento di una soggettività che si traduca in prassi e teoria rivoluzionaria, contro il processo di oggettivazione che, secondo la tendenza del Capitale, caratterizza la totalizzazione in corso, condannando il genere umano alla distruzione, alla fine del mondo.

«Fuori!», n. 7, gennaio-febbraio 1973. Nota della Redazione: il contenuto di questo articolo rispecchia le opinioni personali dell’autore che, anche se non condivise dalla maggior parte degli aderenti al collettivo redazionale, noi riteniamo opportuno pubblicare aprendo così il giornale al confronto dei diversi pareri di compagne e compagni. [La nota è della redazione del giornale (N.d.C.)]. 1 Etero-checca: è un eterosessuale che ha tutto il modo di fare, o meglio, tutto il savoir-faire, di una checca. 2 Personificazione della cosa: cioè quegli individui, borghesi o membri dei ceti medi, la cui possibilità storica di esistere in quanto tali dipende dal Capitale, la cosa che tutto trasforma in cose, e che in essi si manifesta socialmente, si fa persona. 3 Cosalizzazione dei soggetti: sono i proletari, cioè i soggetti il cui lavoro concreto subisce processo di astrazione e di alienazione, ciò determinando la loro trasformazione in merce, forza-lavoro, cosa di per se stessa, scambiabile con altre cose. Per maggiori chiarimenti sul contenuto di questa e della precedente nota, vedi K. Marx, Il Capitale. 4 Oppure: tra uomo e uomo. «Coloro che si sono fermati di fronte» a queste parole «si ricordino della famosa risposta all’affermazione: – Bisogna sterminare tutti gli Ebrei e tutti i parrucchieri. – Perché i parrucchieri?». La nota, così come il giochino di parole, vagamente femminista, almeno nelle pretese, offre un ottimo esempio di radical-chicchismo ed è tratta dall’articolo Le travail, le *

travail productif, et les mythes de la classe ouvrière et de la classe moyenne, pubblicato da «Invariance», a. V, s. II, n. 2. 5 L’edizione italiana del libro di Tom Wolfe, rivelatosi, col tempo, quale reazionario della peggior specie, viene ora pubblicata – guarda caso – dalla casa editrice Rusconi. [Si tratta del libro di Tom Wolfe, Lo chic radicale, Rusconi, Milano 1973, pubblicato nel 1970 con il titolo Radical chic & Mau-mauing the Flak Catchers (N.d.C.)]. 6 Virginia Finzi Ghisi. Vedi il suo saggio Le strutture dell’eros pubblicato in appendice all’edizione italiana del libro del FHAR: Rapporto contro la normalità. 7 Germaine Greer. Autrice di un libro intitolato L’eunuco femmina, opera interessante, per certi versi, ma, a mio parere, anti-femminista e anti-omosessuale.

Il fallo nel cervello*

«Se di questa (tradizione patriarcale) il simbolo dei simboli è il fallo, dobbiamo porre l’istanza della distinzione tra pene e fallo. Se questo è da rifiutare, il pene può venire recuperato all’interno di una nuova sessualità in cui non sia più delegato a rappresentare la sessualità maschile, nella divisione del lavoro del corpo, mentre tutto il resto, mente compresa, serve per vendere la propria forza lavoro» (C. Levi, Storia palpitante e violenta, «Fuori!», n. 8, marzo 1973). Nella società patriarcale – e, nel nostro caso, in quella capitalistico-patriarcale – il pene è prigioniero di quel solido costrutto storico-ideologico che è il feticcio del fallo. L’idea del fallo ha sede nella mente, cui fornisce il metro maschile per la rappresentazione e la conoscenza del mondo, nonché per la riflessione razionale su di esso e «per la fuga dal contenuto del reale (povertà, amore deluso, fallimenti delle proprie imprese ecc.)» nell’immaginazione (J.-P. Sartre, L’imaginaire, 1939). La mente del maschio è il trono del fallo e – nel contempo – il campo della sua battaglia con l’individuo corporeo che alla mente fa capo, battaglia tra assolutezza ideale e subito contraddittoria (che si perde nella dialettica antieconomica della ragione) e limitatezza e contingenza storica dell’io reale. Nella società che fonda se stessa sul dominio e sull’antitesi1, il corpo è totalmente soggetto alla mente, così come il pene al fallo.

LA MASTURBAZIONE

«Ah quando talvolta arrivo a far tacere il cervello!», esclamò una sera David, compagno del collettivo di presa di coscienza del FUORI! di Milano, intendendo indicare i rari momenti in cui gli riesce di raggiungere uno stato di equilibrio e rilassamento «totali». Perfino quando ci si masturba, difficilmente riusciamo a far tacere il cervello (e le sue pretese) per lasciarsi andare ad ascoltare la voce del pene: esso, che certamente richiederebbe tenerezza ed erotica attenzione al fine di poter vibrare «in tutti i suoi registri» (Levi, Storia palpitante) nella soggettività della sua partecipazione all’atto sessuale dell’io con se stesso, viene angariato dalla foga vibratoria impressa alla mano dall’idea del fallo, cui preme la turgida erezione come manifestazione di potenza e lo zampillare sublimante – ma in breve sordo – del getto di sperma (possibilmente parecchio). E la mano, spossata dallo sfibrante esercizio cui la costringe il fallo, si sposa al pene nella violenza di un rapporto di forza, dimenticando il proprio potenziale di piacere, l’eroticità che certamente possiede, ma soffocata e repressa: anche la mano si aliena da sé sotto il dominio della mente, fallocentricamente organizzata. Paragonabile a un operaio fascista al servizio del capitale, alla redattrice di una rivista femminile tipo «Grazia-Arianna» o a Giò Stajano appollaiato sul pulpito dei suoi predicozzi canzonatori, la mano è assunta a strumento di oppressione del suo compagno di soggezione (il pene) alla dittatura fallica della mente2. Nella prospettiva del proprio riscatto dalla schiavitù al capitale e alla polarità dei sessi, il rivoluzionario maschio riconosce l’importanza della lotta contro il fallocratismo culturale che lo aliena e al tempo stesso gli garantisce una motivazione alla sopravvivenza, gratificandolo, e pertanto riesce, a poco a poco, a porsi in relazione di amore con il proprio corpo, ad accorgersi dell’aspetto imprevisto che esso è costretto a celare sotto la mascherata del virile (o dell’effemminato, altra faccia della stessa medaglia) che la mentalità fallica gli impone, a scoprirne la soggettività repressissima al di là della barriera della reificazione e della soggezione strumentale alla mente, che lo agisce secondo direttive false e fallimentari, perché essa stessa è serva del

capitale quanto lo è il corpo e profondamente turlupinata dall’ideologia patriarcal-borghese che l’ha invasa e formata.

L’OGGETTO IMMACOLATO

Se il bimbo assume coscienza del proprio corpo in seguito alla tragica scoperta della separazione dall’altro (il seno materno che gli si allontana), dal non-io, per cui il corpo viene in principio percepito come struttura personale della negazione (Schopenhauer chiama il corpo l’«oggetto immediato»), mi sembra asseribile che la lotta – combattuta dal rivoluzionario per la conquista di una propria soggettività contro il processo di oggettivazione imposto dal capitale e per la comunione con gli altri – debba passare attraverso l’acquisizione del piacere di sé come corpo, l’incontro con se stesso come essere corporeo, perché solamente in questa nuova sintesi potrà risolversi l’antitesi mente-corpo e, al volo teorico o all’evasione nel fantastico effettuati a spese del riconoscimento di quel reale che si fa nella tensione intenzionale al reale che l’apparente storico occulta, nella necessità del suo preteso valore assoluto, potrà sostituirsi l’armonia pratico-conoscitiva di una mente in funzione del corpo e di un corpo in funzione della mente, in un tutto organico. Certo non esiste una priorità della prassi volta alla conquista di sé come essere corporeo rispetto alle altre direttive di azione rivoluzionaria (adesione alla lotta e alla teoria del proletariato, sforzo per il superamento del maschilismo, lotta contro gli affetti famigliari e per l’eliminazione dei retaggi della loro negatività in noi, smantellamento della copertura ideologica borghese e accecante, riconoscimento e abolizione graduali delle gratificazioni): il tutto agisce e interagisce in un sol tempo, il tempo della vita rivoluzionaria. Probabilmente la faciloneria del naturalismo borghese verrà qui a obiettare «che il corpo fu sempre in funzione della mente e tale per sempre resterà»: ma il mondo che ci circonda e di cui

siamo parte «non è una cosa data immediatamente dall’eternità, sempre uguale a se stessa – come ci ricorda Marx ne L’ideologia tedesca (1845-46) –, bensì il prodotto dell’industria e delle condizioni sociali; e precisamente nel senso che è un prodotto storico, il risultato dell’attività di tutta una serie di generazioni, ciascuna delle quali si è appoggiata sulle spalle delle precedenti, ne ha ulteriormente perfezionato l’industria e ne ha modificato l’ordinamento sociale in base ai mutati bisogni». Per cui, al borghese che attraverso le lenti deformanti dell’ideologia che gli è propria «vede» il mondo e la storia in funzione del preteso valore assoluto di tale ideologia, ribatteremo che fu la divisione del lavoro ad assoggettare i corpi e le menti al potere delle classi dominanti, fu il potere patriarcale ad assoggettare agli uomini corpo e mente delle donne, è oggi il capitale ad alienarci dal nostro corpo di cui esso compra e sfrutta la forza-lavoro, a imporci la sua desessualizzazione nello spazio e nel tempo, mediante la riduzione dell’eroticità ai genitali, che rappresentano l’idea del fallo (quanto alle donne, ben si sa che il capitale le castra totalmente in ossequio alla legge del fallo, che gli è funzionale tanto quanto l’estorsione del plusvalore fonda la sua specificità storica) e mediante la limitazione della chiavata al sabato sera, perché il riconoscimento a tempo pieno del potenziale erotico umano contraddice le costanti fondamentali del capitale: mercificazione e alienazione del sé, dal proprio lavoro e dagli altri, per la produzione del valore. Ribatteremo inoltre che la mente umana ha raggiunto nel sociale, attraverso il corso dialettico della storia, quell’alto grado di organizzazione che la caratterizza per servire il corpo (di cui essa stessa è parte), per servire al suo bisogno, regolarne il lavoro, al fine di risolvere la contraddizione del suo ricambio organico con la natura. Oggi, nell’intenzionalità creativa che ci colloca uguali rivoluzionari di fronte al contesto sociale in cui viviamo e a noi stessi, è inevitabile porci come decisi a risolvere, nell’ambito delle nostre storiche possibilità, l’antitesi che ci divide e che ci fa soffrire. Il lasciarsi andare alla contraddizione significa continuare a percorrere i sentieri di quella negatoria scissione che fu operata

in noi fin dall’infanzia, all’interno del nucleo famigliare e via via lungo la sclerosi reificante dei canali della diseducazione impressaci, educazione funzionale al capitale, impegnato nella distruzione dell’uomo «perché è il suo nemico mortale. L’umanità non può salvarsi che rivoltandosi contro questo mostro automatizzato» («Invariance», a. II, aprile-giugno 1969).

LA VALSE TRISTE

Ma il casino è che, all’urgenza intenzionalmente risolutrice della coscienza rivoluzionaria, si contrappone l’antitesi che la divide quale ostacolo che non si sa da che parte valicare. Per cui se: «Duro e lungo è il cammino, grande e lontano il fine» («Il programma comunista», n. 14, 1953), è anche vero che del cammino non è stabilito a priori il percorso. Il futuro è tutto da farsi e l’umanità non ha né un dio né un destino che la sovrasti e ne indirizzi l’azione: a dominare attualmente l’umanità è il capitale soltanto (sic!), suo prodotto – o, più precisamente, prodotto storico della dialettica delle classi – che le si è scagliato contro e la sta negando3. La vita di chi ha assunto coscienza marxista, in seguito alle lotte proletarie, e, in seguito alla lotta delle donne, ha aderito al femminismo, si pone come esistenza rivoluzionaria contro il capitale. Si pone come meta-vita: vita vissuta in paranoia, cioè prendendo distanza da sé, riflettendo costantemente se stessi nello specchio della critica rivoluzionaria; e ciò in contrapposizione alla vita alienata dell’inserito diviso, ma tutto-d’un-pezzo, che vegeta in ecnoia; (sicché tutti abbiamo tifato per Ludwig4, quando, nella seconda parte del film, i medici assoldati dal Consiglio di stato lo giudicano malato di paranoia)5. E quando il rivoluzionario maschio, rinnovato da tutto ciò, crede – magari lungo le peripezie cerebrali di una trama di esperienze LSD – di aver toccato il fondo del vortice dialettico interiore, lungo la cui scanalatura erano via via saltate le

gratificazioni che, nell’ecnoia di tutti-i-giorni, lo avevano puntellato, egli scopre per un verso la propria solitudine, intesa come condanna storica (forse mediante una conversione del senso di colpa?) a essere io, e io solo, alienato e separato dall’altro da barriere di reificazione e dalla reciprocità di proiezione dei fantasmi famigliari, io diviso, mercificato, sofferente; d’altro canto egli avverte come l’essere maschio, fino ad allora gratifica di privilegio e pilastro della sua sopravvivenza, sia la più antica delle limitazioni fondanti questa sua solitudine esistenziale. La coscienza infelice, «coscienza di sé come dell’essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione», così come l’aveva definita Hegel nella Fenomenologia dello Spirito (1807), è soprattutto maschia; è l’erba del Sud-India, che fumo mentre ascolto la Valse Triste di Sibelius, mi suggerisce come tutta questa musica, tutta la musica, sia maschile e che il piacere che provo – io maschio – ad ascoltarla, non è altro che la compartecipazione simpatetica al pianto e al trionfo gratificante dell’oppressore infelice, il mio simile, artista sì, ma pur sempre personificazione del fallo. Nell’ambito della cultura patriarcale, ove il termine «umano», al di là di ogni pretesa, significa precisamente umano, cioè maschile, Schopenhauer osserva come in tutti i «suoi slanci, la melodia esprima le forme diverse del desiderio umano» e come «il suo ritorno finale a un suono armonico, o meglio ancora al tono fondamentale, ne simboleggi la realizzazione» (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1859). D’altronde m’hanno raccontato che, durante i corsi di meditazione in Birmania (nel grande albergo liberty abbandonato, fra monaci e studenti vegetariani, appartamenti inquietanti, grandi stanze imbiancate e sale da bagno come una piazza d’armi) il sesso è bandito così come la musica.

L’OCEANO

Fu la riflessione sulla clitoride celata, ignorata, repressa o addirittura strappata via dal potere maschile nel corso della storia e oggi riscattata dal femminismo, e sono state le mammelle atrofizzate del mio corpo di maschio a farmi ipotizzare l’esistenza – in principio – di una sessualità ermafrodita e che, solamente in seguito a una battaglia tra gli animali, i perdenti furono condannati a diventare femmine, cioè a portare in sé e su di sé l’onere gravoso della riproduzione delle specie. Questa ipotesi fantastica trova risposta in Thalassa (1924), l’opera in cui Sándor Ferenczi, discepolo (e maestro) di Freud, studia «un’applicazione del punto di vista psico-analitico alla biologia dei processi sessuali, e anche oltre: alla intera vita organica». Al tentativo grandioso di dimostrare il parallelismo esistente tra filogenesi (dall’apparizione della vita organica fino all’era glaciale e all’evoluzione fino all’ominizzazione) e onto e perigenesi (dalla maturazione nell’individuo delle cellule sessuali fino allo sviluppo del primato dell’organo genitale) collaborano nella mente di Ferenczi, oltre alla psicoanalisi e alla biologia, la conoscenza della zoologia e delle teorie lamarkiana e darwiniana dell’evoluzione. Il percorso della filogenesi è segnato da alcune grandi catastrofi: la quarta fu il prosciugamento dell’oceano, con conseguente necessario adattamento alla vita terrestre delle specie fino allora vissute in acqua. «La più grande minaccia che si è abbattuta sugli animali, tutti acquatici all’origine – scrive Ferenczi – non fu il diluvio, ma il prosciugamento», che è stato rimosso e ricordato nel suo opposto come diluvio, effetto della sofferenza conseguente e desiderio dello stato precedente. «Cosa ha costretto gli anfibi e i rettili a crearsi un pene?» probabilmente lo «sforzo tendente a ristabilire il modo di vita perduto» (cioè quello dell’oceano, prima del prosciugamento) «e questo in un ambiente umido che» contenesse «nello stesso tempo delle sostanze nutritive, il che vuol dire: ristabilire l’esistenza acquatica nell’interno della madre, umida e ricca di nutrimento». Infatti nell’oceano, prima del prosciugamento, la fecondazione avveniva, dopo la deposizione delle uova, nell’acqua. «È dopo la catastrofe del prosciugamento, quando cioè per la prima volta l’animale ha dovuto preoccuparsi

della sostituzione della perduta vita acquatica, che si è manifestata la tendenza a voler penetrare il corpo di un altro animale, vale a dire ad accoppiarsi ad esso. Primitivamente vi era con ogni probabilità la “lotta di tutti contro tutti”; ma finalmente il maschio, più forte […] è riuscito a penetrare nella cloaca dell’avversario; la femmina ha dovuto adattare in seguito il suo organismo a questa situazione. Questo curioso rafforzamento del dimorfismo sessuale nelle specie terrestri, in quelle cioè posteriori alla catastrofe del prosciugamento, indica forse che, al momento dei primi tentativi di accoppiamento, la lotta aveva per scopo la conquista di un’umidità che rimpiazzasse l’oceano; […] è probabilmente questo periodo di lotta che è all’origine del terrificante e pericoloso carattere del fallo paterno», mentre l’oceano è «l’antenato di tutte le madri». Fu dunque una catastrofe naturale a determinare la guerra tra gli animali, così che i più deboli, dopo la sconfitta, furono costretti a caricarsi dell’onere naturale della gravidanza e delle difficoltà, della sofferenza ad esso connesse: i più deboli furono costretti a diventare femmine. «O natura, o natura / perché non rendi poi / quel che prometti allor? / Perché di tanto inganni / i figli tuoi?» scriveva il Leopardi nel 1828 (A Silvia): ma la natura non ha mai promesso nulla al genere umano (e a ingannare «i suoi figli» è l’ideologia delle classi al potere); al contrario: la storia umana fu principalmente caratterizzata dalla lotta contro la schiavitù alla natura, via via intenzionalmente combattuta per giungere alla libertà del bisogno.

IL REGNO DELLA LIBERTÀ

Ne Il Capitale (Libro III, cap. XLVIII, La formula trinitaria) Karl Marx scrive: «In pratica il regno della libertà inizia solo laddove termina il lavoro comandato dalla necessità e dalla finalità estrinseca. Come il selvaggio è costretto a lottare contro la natura

per soddisfare le proprie necessità, per conservare e riprodurre la propria esistenza, così anche deve fare l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme di società e in tutti i modi di produzione che possono esservi». «Al di fuori» di ciò «inizia lo sviluppo delle facoltà umane, che può sorgere tuttavia solo fondandosi su quella sfera della necessità. Condizione preliminare di tutto questo è la riduzione della giornata lavorativa». È oggi possibile che il proletariato, riconoscendosi quale classe antitetica al capitale – ma, al tempo stesso, quale classe sul cui sfruttamento il capitale fonda la propria esistenza contraddittoria – e costituendosi a partito organico per la rivoluzione, apra al genere umano il cammino conducente al regno della libertà, attraverso l’abbattimento del capitale e la formazione della società in cui «l’uomo socializzato, vale a dire i produttori associati», regoleranno «in maniera razionale il loro ricambio organico con la natura» e lo controlleranno «in comune invece di essere dominati da esso come da una forza cieca»; essi svolgeranno «la loro funzione con lo spreco quanto più basso di energia e nelle condizioni più adatte alla loro natura umana e ad essa più conformi» (Marx, Il Capitale). Il socialismo «resta pur sempre una sfera della necessità», ma è passando attraverso la sua realizzazione, in seguito al crollo del capitale, che l’umanità potrà conquistare il «regno della libertà». La specie umana va dunque in certo senso considerata quale negatrice della natura, in quanto contro di essa è stata sempre costretta a lottare per conservarsi e conquistare la progressiva libertà dal bisogno: tuttavia oggi il capitale, prodotto dell’uomo, s’è rivoltato contro l’uomo e, appunto per ciò, nega in maniera anti-umana la natura. Per concludere vittoriosamente la sua lotta contro la soggezione al dominio della natura, l’uomo deve innanzitutto vincere il suo prodotto, il capitale, «questo mostro automatizzato» che lo sta pietrificando. Ed è nei paesi a capitalismo avanzato, quelli in cui sono maturate le premesse storiche alla rivoluzione del proletariato, che le donne – unite in gruppi femministi rivoluzionari – si pongono in posizione antitetica rispetto al maschio e al compromesso da esso raggiunto

con la natura debole, la femmina. La femmina della specie umana (alla vigilia della possibile realizzazione del socialismo, ultima sfera della necessità che spiana la via al regno della libertà) si pone col femminismo quale negatrice della polarità dei sessi, per la conquista di una società libera sì dal bisogno, ma non più fondata sull’oppressione della metà del genere e sulla su costrizione all’onere della riproduzione. La femmina umana lotta fin d’ora – opponendosi alla schiavitù della donna in questo contesto sociale – per la soluzione e il superamento dell’antitesi antichissima tra i sessi. Se è dunque vero, come afferma Engels ne L’origine della famiglia (1884) che «la prima oppressione di classe che si manifesta nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo fra l’uomo e la donna nel matrimonio coniugale e la prima oppressione di classe con l’oppressione del sesso femminile da parte di quello maschile» e se è vero che questa prima oppressione di classe fece da elemento precursore della cerniera dialettica delle classi via via nella storia, è anche e soprattutto vero che tale oppressione si fondò, si è fondata e si fonda sulla polarità dei sessi, retaggio e sviluppo di quella ipotetica e originaria battaglia tra gli animali, che vide i vinti costretti al ruolo di femmine e a caricarsi del fardello della gravidanza e del parto.

L’OBIEZIONE

Sicché mi risulta reazionaria l’obiezione sollevata nei confronti del femminismo da tanti pretesi «rivoluzionari» maschi – e dalle «compagne» addette al volantinaggio loro sottomesse come serve al padrone –, quasi sempre quei medesimi che rimuovono la tendenza erotica presente in loro verso individui dello stesso sesso, mimando una fuga sulla strada facile che porta a stigmatizzare l’omosessualità come «contro-natura»6 (ciò che mi ha sempre fornito l’immagine di un surplace dell’omosessualità

repressa): obiezione consistente nell’affermare che la differenziazione in sessi è inalterabile in quanto elemento di struttura della natura animale dell’uomo, per cui il femminismo si ridurrebbe al piccolo-grande nonsense di un movimento piccoloborghese dal carattere rivendicativo. Questa obiezione è reazionaria in quanto fondata sul fallo, della cui legge tenta di risolvere la contraddittorietà teorizzandone in eterno il potere: il fallo nel cervello impedisce a questi «rivoluzionari» maschi di riconoscere l’analogia lampante tra il naturalismo ideologico borghese (che spaccia la società capitalistica per la società umana, e la contraddizione che le è strutturale – e che ripetutamente si svela nell’ambito della sua apparenza – per la contraddizione della specie umana) e il fallocentrismo del loro richiamo alla natura. Dio Padre in sostituzione di Dio (nel migliore dei casi) ma non del padre, come richiamo a un quid immutabile, sostanza, essenza, noumeno, insomma il cazzo che gli pare – e il cazzo è senz’altro il comun denominatore di tutte le fesserie metafisiche, pronunciate che siano da sant’Agostino o da un militante qualsiasi del «Manifesto». Se il marxismo fa luce sulla possibilità storica del genere umano di conquistare la libertà dal bisogno e di liberarsi dalle catene della soggezione dei corpi e delle menti al capitale, la lotta femminista spiana la via alla più ampia delle prospettive storiche che coinvolgono oggi la specie umana, e cioè quella che vede come suo fine la soluzione della contraddizione tra i sessi e la libertà, sul piano strutturale della riproduzione, dall’onere naturale della gravidanza e del parto. Se la specie umana si distingue dalle altre animali perché produce i propri mezzi di sussistenza, se il fine interno alla produzione (e alla dialettica delle classi ad essa connessa) è la graduale conquista della libertà dal bisogno che conduce a quel fine «ultimo» che è il regno della libertà, il regno della libertà non sarà mai tale finché non sarà risolta la problematica relativa al compromesso con la natura animale, finora sempre accettato dall’umanità maschile, previa oppressione dell’umanità femminile, circa la riproduzione.

NOI CHECCHE MASCHILISTE

Di fronte alle ampissime prospettive storiche aperte dal femminismo e alle problematiche da esso sollevate, il rivoluzionario maschio non può restarsene ancorato al privilegio fallico che è, nel contempo, sua schiavitù alla limitazione: l’esercizio alla vita paranoica, che porta gradualmente a conoscere ciò che si è sempre «saputo» nell’ecnoia di tutti i giorni, senza mai accorgersene, lo pone di fronte a se stesso nell’atto di imparare a capire il proprio maschilismo e a svelare le forme recondite del suo manifestarsi, per trasformarsi a poco a poco in terreno fertile e recettivo nei confronti del femminismo, sua antitesi e al tempo stesso suo riscatto dal ruolo di oppressore, reazionario e infelice di maschio. Egli non può fare direttamente del femminismo perché non è una donna; di più: millenni di oppressione del sesso femminile e di cultura patriarcale gli impediscono di capire chi è una donna. Il maschilismo culturale riflette nel maschio ciò che migliaia di anni di potere maschile hanno fatto della donna: un essere privo di una propria dimensione soggettiva. Certo: la società capitalistica ha alienato anche le soggettività degli uomini, mercificandoli; ma fra essi quanto meno corre l’identificazione col potere del fallo – per cui, fra uomini ci si capisce, e l’operaio tornato a casa dopo le otto ore alla Siemens ammazza di botte la moglie – mentre le donne sono state costrette a identificarsi, e vengono identificate, con un buco (cioè nulla). A causa di tutto ciò solamente l’azione e la voce delle donne femministe potranno trasformare i maschi e le checche maschiliste come me, cancellando la fallocrazia dalla faccia della terra. Tuttavia, noi checche, per quanto maschiliste, riteniamo di partire da una posizione avvantaggiata rispetto agli eterosessuali maschi nella lotta contro il fallocentrismo. Infatti, nella società rigidamente fondata sull’oppressione e il disprezzo delle donne, noi veniamo disprezzati e oppressi perché «cediamo al femminile»

e veniamo identificati dal potere maschilista con le donne: per cui noi omosessuali godiamo meno degli eterosessuali maschi dei privilegi legati al pene e all’organizzazione fallocentrica della mente e soffriamo più degli eterosessuali della contraddizione implicita alla polarità dei sessi e al dominio del fallo, negativamente vissuta – comunque – anche da chi è portatore spavaldo del veicolo corporeo del fallo (il pene), perfino da Mr. Muscolo. Inoltre il rapporto eterosessuale si è sempre manifestato funzionale all’oppressione delle donne, al capitale (e perciò anche al capitalismo di Stato dei paesi cosiddetti socialisti) e alle società patriarcali in genere: quello omosessuale – per quanto sovente ne rispecchi la contraddittorietà, considerato che la cultura patriarcale forma ed educa gli individui al rapporto eterosessuale – si pone in posizione antitetica rispetto ad esso. Purtroppo l’oppressione dell’omosessualità rende assai rara l’esperienza di un autentico rapporto omo-sessuale. In una sauna gay di Amsterdam si può pomiciare fra uomini ventiquattr’ore su ventiquattro, si possono avere otto orgasmi in una notte, senza un’ombra di omosessualità veramente tale nei rapporti. L’omosessualità è tutta da conquistare, liberandola dalle catene della sua oppressione, perché, quale rapporto tra persone dello stesso sesso, essa mette chiaramente in luce la limitazione connessa alla polarità dei sessi e si pone quale piattaforma di lancio verso una sessualità nuova che la superi, la sessualità in cui l’essere umano del futuro (o essere donnano, anzi sessuale – ma sarà il femminismo a inventare i termini della rivoluzione delle donne –) trionferà sulla discriminazione sessuale, concedendosi con piacere alla piena esplicazione del proprio potenziale erotico.

«Fuori!», n. 9, maggio-giugno 1973. L’articolo è firmato Mario Rossi. [N.d.C.] La società capitalistico-patriarcale si fonda sull’antitesi delle classi, dei sessi, dei comportamenti sessuali ecc.; si fonda sull’antitesi fra l’io e gli altri e, più estesamente, tra l’io e il non-io; si fonda sull’antitesi interiore all’io stesso, per cui, chi non risulta evidentemente schizofrenico, è schizoide. «Si designa col termine “schizoide” un *

1

individuo la cui totalità di esperienza personale è scissa a due livelli principali: nei rapporti con l’ambiente, e nei rapporti con se stesso. Da una parte questo individuo non è capace di sentirsi insieme con gli altri, né di partecipare al mondo che lo circonda, ma, al contrario, si sente disperatamente solo e isolato; dall’altra non si sente una persona completa e unitaria, bensì si sente “diviso” in vari modi: per esempio vive se stesso come una mente e un corpo uniti fra loro da legami incerti, oppure come due o più persone distinte» (R. Laing, L’io diviso, 1959). Nella prefazione all’edizione Pelican (1964), Laing, commentando il suo libro a distanza di cinque anni dalla prima pubblicazione, scrisse a proposito degli psicotici e dell’esistenza schizoide: «In questo libro si parla ancora troppo di loro, e ancora troppo poco di noi». 2 Juan Hidalgo ci ricorda, ne El falismo de los saludos (notas), Madrid 1969, che ogni saluto ha la forma, a volte un po’ sbilenca, di fallo: si osservi il saluto fascista, il comunista, quello militare, la benedizione ecclesiastica, il saluto convenzionale: «Nel saluto convenzionale, stringendo le mani, stringiamo i nostri glandi, ciò che a volte può produrci un gran piacere. – Mi permetta di presentarle il tal dei tali. – Molto piacere. – Il piacere è tutto mio». Perfino, nota l’Hidalgo, la languida stretta di mano di due signore eleganti – e alienate, nella loro femminilità, dalla loro femminilità – pare investito di fallocentrismo. 3 A questo proposito si veda, fra le tante cose, il pamphlet del MIT (Massachusetts Institute of Technology), I limiti dello sviluppo, 1972. 4 Si riferisce al film di Luchino Visconti Ludwig del 1973. [N.d.C.] 5 I termini paranoia ed ecnoia vengono qui usati nell’accezione loro attribuita da David Cooper, in Morte della famiglia (1971). 6 Dicono «contro-natura» e non si accorgono che proprio in questo suo essere contronatura sta il grosso del suo potenziale rivoluzionario. L’accanimento verbale con cui essi stigmatizzano l’omosessualità svela la verità di questo assunto.

Paris-FHAR*

Ho trascorso un mese a Parigi, dove ho frequentato gente e ambienti del FHAR (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire). Fin dai numeri precedenti di «Fuori!» è già stato scritto parecchio sulle origini e gli sviluppi del fronte omosessuale francese, per cui desidero limitarmi, in questo articolo, a un resoconto di quanto ho visto e creduto di capire della attuale situazione del FHAR a Parigi.

LE BELLE ARTI

Compagni e compagne del FHAR (le lesbiche sono in notevole minoranza) si riuniscono ogni giovedì in una assemblea generale che si tiene alle Beaux-Arts (l’Accademia delle Belle Arti). È in un’aula ad anfiteatro che alcune centinaia di persone si incontrano in un’atmosfera intermedia tra il social-meeting anglosassone (e cioè l’incontro sociale) e l’inquietudine di un aspettando Godot, che, ovviamente, non arriva mai. Sebbene la forma del locale, con tanto di mastodontica cattedra in basso, suggerisca l’idea di conferenza o, quanto meno, di dibattito, nessuno prende mai la parola: sulla cattedra scalpita un gruppetto di Gazolines, la compagnia di travestiti super-radicali del FHAR. È da questa posizione strategica che essi lanciano frizzi sull’assemblea, misti a getti di aranciata e Pepsi-Cola e a urla indescrivibili. Vestono di stracci trapunti, volpi e peluche, portano cappelli piumati e calze a rete romboidale, si cospargono di lustrini e ciprie vellutate, hanno le unghie smaltate con

fosforescenze dovute a paillettes – e i tacchi alti. In sé uniscono al potere provocante dello stereotipo femminile un’aggressività tutta maschia, in un insieme di ambiguità omosessuale e sfrenatezza impressionante. Tronfie di ciò, gestiscono la propria presenza autoritaria sul resto degli assembleari, i quali oscillano da un atteggiamento, nei loro confronti, da spettatori, a uno, timorosamente moderato, di indifferenza. In sostanza, si ha ancora una volta l’impressione della consueta separazione tra palcoscenico (dominato dalla compagnia delle Gazolines) e platea (il resto dei presenti): una impressione teatrale che, per quanto di notevole rilievo, non fa che tradurre in sé e nella propria messinscena le problematiche di fondo che, pur nell’atmosfera pretesa liberante del movimento rivoluzionario omosessuale, permangono vivissime tra gli aderenti al fronte, sia nell’ambito della loro esistenza privata, che in quello del pubblico confronto. Una quindicenne comparsa per la prima volta al FHAR, dichiara di avere incontrato in queste assemblee «gente che ha riscoperto la bellezza». In effetti, fra leader in incognito che fanno la loro apparizione in veste di star, e star profumatissime che nel caos assembleare non fanno che investire in forma nuova ma non meno evidente il vecchio ruolo di leader, di bei visi, bei corpi ce n’è tanti. Chiome di ogni colore, figure sensuali e sciolte, senz’altro diverse dal rigidume oscillante proprio delle classiche checche da ghetto o checche velate che dir si voglia. La distanza tra il bello e il meno bello è accorciata dall’ampia fantasia nel vestire, che coinvolge più o meno tutti. Se, come dice Benjamin, la «moda ha il senso dell’attuale, dovunque esso viva nella selva del passato», gli assembleari del FHAR paiono incarnare, o, quanto meno, vestire, tutte le sfumature dell’attuale, attraverso una cultura profondamente cinematografica delle epoche passate, dagli sciolti motivi dell’antica Roma al collare rigido di Catherine de Medicis, dai piumaggi di Mistinguett ai décolletés della Monroe. Nella penombra delle aule superiori delle Beaux-Arts, nel frattempo, si batte e la gente fa all’amore, a volte di gruppo. L’atmosfera è ancora tutt’altro che rilassata: un compagno italiano, che disinvoltamente si spoglia nudo, suscita scalpore; ogni tanto

scoppiano litigi fra coloro che vorrebbero accendere le luci affinché tutto si manifesti nella sua evidenza e l’ombra gravante del ghetto si dilegui, e altri che preferiscono l’ambiguità del buio, scrigno e conforto di ogni timidezza. Questi ultimi finiscono con l’avere la meglio. Nel complesso, un’assemblea del FHAR è molto bella se vissuta in trip: ma è piuttosto frustrante per chi vi capita così per avere un’idea di che cosa combinino gli omosessuali rivoluzionari francesi. Il tale che si ritroverà facilmente solo, escluso dall’atmosfera bollente che coinvolge soltanto un certo numero di iniziati gelosi della propria anzianità a miti, tradizioni e pettegolezzi del FHAR.

LE VOCI

Quelli del Groupe 5, che figurano tra i fondatori del fronte e che pubblicano il «Fléau social», giornale gay rivoluzionario, ormai da tempo disdegnano l’assemblea generale del giovedì. Addirittura è di giovedì sera che essi tengono le loro riunioni redazionali, per cui, visto e considerato che l’assemblea alle Beaux-Arts resta l’ultima espressione unitaria dell’«attività» del FHAR a Parigi, essi restano completamente staccati dal movimento e dai suoi sviluppi. Il discorso che portano avanti sul giornale è autonomo, ha una sua coerenza nell’ambito di una dichiarata intenzionalità rivoluzionaria, ma non viene condiviso né dagli elementi di «base», né dalle frange più avanzate del FHAR. Più vicina agli uni e alle altre è la redazione di «Antinorm», l’altra pubblicazione sortita dal FHAR, che, smesso un certo carattere trionfalistico comune alle prime pubblicazioni omosessuali rivoluzionarie, si mantiene più vicina alle problematiche effettive che coinvolgono il movimento e tenta di dibatterne alcune fondamentali contraddizioni. Ma – in ultima analisi – anche il discorso dell’«Antinorm» non ha un gran seguito, visto che la vendita di questo giornale, affidata, più che alla diffusione

militante, alle librerie gauchistes, finisce con l’incontrare un pubblico gauchiste, appunto, e quindi sovente intellettuale ed elitario. Più che dalla discussione politica, dalla diffusione mezzo stampa delle tematiche omosessuali e rivoluzionarie, la «base» parigina del FHAR risulta maggiormente coinvolta dalle brevi manifestazioni improvvisate per la strada, fra grandi schiamazzi, all’uscita delle Beaux-Arts; oppure dagli ormai tradizionali incontri in certi bar etero trasformati in luoghi di ritrovo gay (vedi La Palette), in cui, in una atmosfera un po’ blasée, agli estremi rigurgiti di una nausea (o snobismo?) esistenziale stile 1973, si mescolano i baffi spioventi del gauchiste un po’ sbiadito memoria del ’68 studentesco, la tenuta da strega col cappellaccio a larghe falde della femminista radicale, hippies scalcagnati con sotto braccio l’ultimo studio di Lacan, e Marlene, star vivacissima e capo supremo dei travestiti del FHAR, attorniata da un crocchio di omosessuali meno travestiti di lei, che commentano – tutt’occhi e tutti orecchie sullo scenario che li circonda – l’ultima manifestazione contro Debrè salaud o l’ultima avventura di Dalì e del suo leopardo sull’ascensore dell’hotel Maurice. La «base» del FHAR, in effetti, non fa niente di politico in senso tradizionale; il discorso teorico viene dai più rifiutato e nulla ricorda, nel comportamento politico del gay rivoluzionario francese, lo spirito pragmatico comune, sebbene in forme diverse, al Gay Lib. inglese e agli Homosexuelle Aktion tedeschi. Sembra tuttavia che, con un provincialismo tutto francese, nobilitato da una ricca dose di chauvinismo culturale, la droga sia stata di recente scoperta al FHAR come eccitante risorsa esistenziale. Neppure il lavoro di presa di coscienza viene considerato. Guy Hocquenghem1, noto teorico e stella lucentissima del FHAR, ha trattato coi piedi me e un altro compagno del FUORI! che ci eravamo recati da lui per discutere il metodo e le prospettive di ricerca del collettivo di presa di coscienza di Milano, snobbandoci in forza del consueto paraocchi chauvinista e di una strafottenza teorica assai vicina al confusionarismo cialtrone dei suoi amici Guattari e Deleuze, «analisti anti-psicoanalitici», come essi

azzardano definirsi dettando legge (dal pulpito maschilista, e oggi assai in voga, che detengono all’università di Vincennes) sul solito codazzo pecorile degli snob culturali.

CHANEL N°5

A casa loro, i compagni del FHAR conducono esistenze di vario tipo. Le esperienze più interessanti mi pare siano rappresentate dalle comuni. Meno diffuse che a Londra o a Colonia, meno coinvolgenti che nella «regola» comunitaria i singoli membri, le comuni parigine sorgono qua e là senza troppe pretese né intenzionalità: in esse si raccolgono dei gay o degli eterosessuali in crisi, interessati alla vita in comune con gente che come loro rifiuta di ricreare una famiglia, e che è partecipe di simili problematiche e aspirazioni politiche, sessuali e più generalmente umane. Vivere in comune è certo meno oneroso per i singoli, soprattutto per quello che concerne le spese. Il furto come mezzo di sussistenza (il piccolo furto, si intende) è assai diffuso: difficile fregare sui trasporti, ma nei magazzini alimentari è relativamente facile dare provviste senza passare dalla cassa a ritirare lo scontrino. Se il furto è di moda, si usa anche rubare, nei limiti del possibile, ciò che la moda allettante impone. Miguel e JeanPhilippe, una coppia di amabili checche del FHAR, posseggono una collezione di Chanel n°5, le cui eleganti boccette sono allineate sulla mensola liberty sovrastante il lavandino della loro casetta modestissima ma follemente agghindata. Boccette che provengono tutte (di straforo) dai banchi degli eleganti magazzini Printemps e la cui collezione, come ogni collezione che si rispetti, continua gradualmente ad arricchirsi. Oltre al furto, la manifestazione di piazza coinvolge un notevole numero di compagni del FHAR. È soprattutto in occasione del 1° Maggio che le Gazolines scendono come furie nelle strade, a creare lo scompiglio fra i militanti perbenisti della sinistra extraparlamentare. Gli slogan del FHAR sono divertentissimi e

finiscono con l’alterare in gran follia l’atmosfera maschilista che caratterizza le manifestazioni di piazza quando, a far sentire la voce, i muffiti gauchistes son solo loro. Se le Gazolines sfilano caoticamente per le strade, c’è un gruppo di intellettuali gay che suscita a suo modo casino. È opera loro assai recente una Encyclopédie des homosexualités, pubblicata in collaborazione col gruppuscolo editoriale gauchiste Recherches. Il contenuto del libro non presenta nulla di particolarmente nuovo: molto radical-chic unito a estremismo verbale, qualche bel cazzo in erezione, fumetti porno-politici e discussioni di gruppo concepite sulla falsariga delle Andy Warhol’s interviews. Il tutto abilmente, anche non dichiaratamente, combinato in modo tale da garantire il sequestro del libro, da parte della polizia, il giorno stesso in cui esso avrebbe dovuto essere presentato al pubblico. Così, mentre gli autori della Encyclopédie e gli organizzatori del «vernissage» sfuggiti alla polizia si rifugiano in un’università a tenere una conferenza sull’atto di repressione subito, tra coriandoli, stelle filanti e il plauso unanime di intellettuali ed extraparlamentari che vi si trovano, c’è chi, come me, aspetta alla galleria Vivienne, dove, in base ai programmi, il libro dovrebbe essere presentato, allo scopo di ottenere informazioni precise su quel che è successo. Nel frattempo, alla spicciolata, giungono gli invitati alla presentazione. Gente che, sfoggiando sofisticatissime tenute, suscita più l’impressione di una para del tout Paris che quella di compagni rivoluzionari.

«Fuori!», n. 10, luglio-agosto 1973. L’articolo è firmato Mario Rossi. [N.d.C.] Attivista e scrittore francese, vicino al filosofo Michel Foucault e agli intellettuali dell’università di Vincennes a Parigi. Autore di numeri saggi e romanzi, tra cui, nel 1972, Le désir homosexuel, un vero e proprio manifesto freudo-marxista e rivoluzionario da cui Mieli trasse una certa ispirazione per il suo Elementi di critica omosessuale. Hocquenghem morì a causa dell’AIDS nel 1988. [N.d.C.] *

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Berlino: l’omosessualità scavalca il Muro*

In cinque checche del collettivo FUORI! di Milano siamo finite a Berlino in occasione del Congresso internazionale indetto dall’Homosexuelle Aktion Westberlin (HAW) tra il 6 e il 12 Giugno 1973. Abbiamo deciso di partire all’ultimo momento e, dopo ventidue ore di treno, siamo scese alla Zoologischer Garten Bahnhof, la brulicante stazione centrale che avrebbe fatto da nostro centro di orientamento durante tutta la durata del congresso.

CHECCHE E VECCHIETTE

Berlino è una città molto strana e non solo a causa dello snodarsi del MURO che la divide in due fette e che è sorvegliato da aitanti poliziotti col mitra spianato. Il muro l’abbiamo «scavalcato» domenica pomeriggio, per farci immediatamente perquisire dai finanzieri della Repubblica democratica, che, forse attratti dallo sberluccichio delle spille di strass e dalla foggia ardita dei mantelli marocchini che indossavamo, hanno preteso di frugare nelle nostre borsette, reperendo tubetti di KY e cosmetici multicolori oltre a saccarina (subito sospettata quale possibile psichedelico), distintivi omosessuali e volantini del congresso che ci sono stati ovviamente sequestrati. È così che ci hanno ordinato un accurato spogliarello, sondandoci infine il buco del culo per controllare se non vi nascondessimo per caso qualche micro-film o etto di hashish. Indi,

soddisfatti, ci hanno rilasciato il permesso di visitare Berlino Est, ma noi, stanche e meno soddisfatte, abbiamo optato per un dietrofront che ci ha portato a un ballo-travestito organizzato dall’HAW del locale dell’office. Più fortunati e meno sospettabili di noi sono risultati alcuni compagni tedeschi e d’altri paesi, che sono riusciti a penetrare nella Berlino cosiddetta socialista, contattando perfino alcuni gay indigeni e propagando tra loro il messaggio della liberazione omosessuale. È da tener presente la risposta del governo della Repubblica democratica tedesca a una lettera inviatagli dall’International Liaison Group del Gay Liberation Front londinese, nella quale veniva domandato come la Germania «socialista» si ponesse nei confronti del problema omosessuale: il governo democratico rispondeva che tale problema nella Germania dell’Est non esiste, perché non vi sono omosessuali (febbraio 1972). Berlino è dunque – dicevamo – una città molto strana. Ai pochi bovindo1 superstiti – bovindo che, nel Benjamin di Infanzia berlinese, sembrano fare da distintivo alla Berlino pre-bellica – si contrappongono oscene americanate tipo grattacieli di similplexiglass con vertiginosi ascensori panoramici appiccicati sui fianchi esterni. Ai ruderi del Kaiserpanorama fanno da contorno fila di edifici rivestiti di insegne pubblicitarie luminose, che sembrano trapiantati in Europa dopo essere stati divelti dal suolo periferico di Dallas. Dall’ascensore panoramico di un building di trenta piani (che nel sottosuolo ha un’ampia sauna gay, l’Apollo, dotata di piscina olimpionica) si sbircia su raccolti quartieri funzionalisti contornati da giardinetti, ritraendone la stessa impressione offerta da una fantasia scenografica di Stanley Kubrick o da un plastico di città pazientemente composto dal piccolo meccanico fantascientista appassionato di trenini Rivarossi. Per le strade si coglie qualcosa di decisamente kafkiano nella processione di checche stereotipo intasate dal fallo e dal complesso di castrazione, condotte al guinzaglio come povere cieche da mastodontici cani pastore bianchi o grigio imperiale. Ogni quartiere sfoggia incolte radure cespugliose, ove di notte si

batte, vengono issati slippini a mo’ di stendardi e qualcuno ci rimette portafoglio e budella, guadagnandoci in compenso un coltello piantato nell’ombelico. Nelle strade la sfilata delle checche si intarsia con quella dei vecchi. Come un’allucinazione si moltiplicano i visi e i cappellini fioriti di quelle stesse vecchiette incipriate che sogliono visitare le città d’Italia a Pasqua o in agosto – protette dai luccicanti finestrini dei bus dell’American Express. Ma certo non mancano gli hippies che affollano fumose discoteche sulla cui soglia mercanti arabi spacciano merda e mescalina e che puoi incontrare mentre si trascinano in giro, alle cinque del mattino, quando anche tu, stanchissimo in seguito alle «emozioni» della nottata, ti auguri solamente che il Mandrax faccia presto effetto e che il sonno ti incolga, non appena ti sarai steso sul letto. Intanto il giorno già splende, perché a Berlino il sole si leva molto presto.

LE STAR A CONGRESSO

Al nostro arrivo, l’ufficio dell’HAW ci ha accolto in un’atmosfera fin de siècle, tra lettighe e abat-jours, montagne di cuscini e multiplo strato di tappeti, il tutto avvolto in una luce soffusa. Al banco seggono sorridenti checche teutoniche, che si alternano nella vendita di birra e Lemonade, nell’imburrare tartine e grissini, nel rispondere con soffice voce alle chiamate telefoniche, nel vendere pubblicazioni e distintivi e soprattutto nell’assicurare a tutti gli invitati una calda accoglienza e informazioni di ogni tipo come se ci si rivolgesse all’Inquiries-desk dell’Hilton Hotel nel risolvere immediatamente il problema dell’alloggio per quanti, da altri paesi o altre città, sono approdati al congresso. Noi abbiamo trovato sistemazione in una specie di casa semidiroccata, dove, malgrado la mancanza di luce elettrica e di acqua corrente, ci siamo trovate più che bene grazie alla cordialità e simpatia del giovine ospite americano. Abbiamo

dormito su vecchi divani di Mercedes Benz reperiti al cimitero delle macchine e, siccome è difficile prendervi sonno, fin dalla prima notte abbiamo ingannato l’attesa dedicandoci a un’ampia scopata. All’office ci siamo subito sforzati di contattare gente, ottenendo i prevedibili risultati: gli scandinavi sono in genere freddi e scarsamente politicizzati, oltre che timorosamente membri del ruolo critico-contestatario assunto dal FUORI! nel corso del precedente Congresso internazionale ad Arhus (Danimarca, settembre 1972, vedi «Fuori!», n. 4), per cui abbastanza ostili alla comunicazione con noi italiani; i tedeschi – ovviamente i più numerosi tra i presenti – più amichevoli e interessati a uno scambio di informazioni sulle rispettive esperienze politicoomosessuali, molto pragmatici, di un attivismo che spesso e pericolosamente rasenta il burocratico; i francesi, in un trip superstar, in assenza del gruppo radicale delle Gazolines, si davano da fare a scimmiottare smorfie e atteggiamenti provocanti, dando l’impressione di prendere il tutto più come una vacanza di piacere che come un convegno politico organizzato al fine di imbastire una più ampia connessione tra i gruppi e di gettare le basi di una attività di carattere internazionale; presenti pure qualche belga, statunitense, sudamericano, australiano, un vietnamita; assenti gli inglesi, troppo poveri (o forse troppo chauvinisti?…) per muoversi fino a Berlino. Il gruppo berlinese (HAW), sulle cui spalle pesavano l’iniziativa e l’onere organizzativo del congresso – e al quale si deve riconoscere di essersela saputa cavare egregiamente malgrado le numerose difficoltà previste e impreviste – è ovviamente il gruppo che ha maggiormente risentito dell’influenza e dell’andamento del congresso. Tutti i suoi membri erano presenti ed esso è l’unico gruppo che ha potuto nella sua interezza fruire dei benefici dell’incontro e dello scambio di vedute con gli esponenti dei collettivi stranieri. Ciò in particolare ha contribuito a fare esplodere, una volta conchiusosi il congresso, alcune contraddizioni politiche fino ad allora latenti all’interno del gruppo. Notizie pervenuteci da

Berlino nelle settimane seguenti, ci hanno reso noto l’ampio dibattito apertosi in seno ad HAW circa il ruolo leaderistico fino ad allora gestito da un certo numero di omosessuali politicantisti e burocrati a discapito delle checche più radicali e libertarie, le quali, ormai rese forti dalla solidarietà raccolta presso noi italiane e presso le pagine del FHAR, avevano deciso di esplicitare il loro malcontento al fine di trasformare HAW. Ciò significa che il congresso ha costretto il collettivo berlinese a una revisione delle sue posizioni e ha portato al consolidamento di una sinistra radicale all’interno di esso e a uno spostamento – pertanto – del gruppo intero verso posizioni più schiettamente rivoluzionarie, femministe e omosessuali.

BALLO E INTEGRAZIONE

ha saputo sbrogliare la matassa organizzativa del congresso malgrado l’emergere progressivo delle divergenze di veduta tra i suoi membri: circa ottanta compagni berlinesi si sono dati assiduamente il cambio nella gestione dell’office (assicurando pertanto a tutti i congressisti un punto di riferimento costante), nella conduzione dei dibattiti seguiti a parecchie proiezioni di film di aperto, latente o incidentale carattere omosessuale, nella rappresentazione di brevi scene teatrali al Kurfürstendamm (la strada principale del centro di Berlino Ovest) a fianco di uno stand ricoperto di manifesti omosessuali, dal cui banco venivano venduti ai passanti, che si fermavano incuriositi dall’insolita manifestazione teatrale, pubblicazioni, distintivi e poster gay. Perfino al grande ballo di integrazione fra omo ed etero, organizzato all’università, il servizio bar-rifocillamento era assicurato dai compagni berlinesi. Suonavano ottimi complessi in grado di improvvisare indiavolate versioni di valzer viennesi frammiste a notevoli esecuzioni di pezzi pop & rock. Fra studenti, femministe, intellettuali, passanti ubriachi entrati per caso, centinaia e centinaia di omosessuali, non mancavano HAW

alcune grandi vedettes – Hocquenghem, von Praunheim, Levi – che, con il garbo di Cenerentola, si sono ritirate a mezzanotte in compagnia dei loro discreti partners, mentre le starlette del FHAR impazzavano in danze vorticose, le danesi (apparentemente più disinibite) sfoggiavano corpi sudaticci, falli penzoloni e chiappe chiare, e noi italiane posavamo estatiche per i fotografi di «Him», caricando di dirompente ambiguità omosessuale espressioni carpite a Lauren Hutton e a Marisa Berenson2. In definitiva il gran ballo, che voleva essere di «integrazione» si è risolto nella solita incomunicabilità alienante non solo fra omo ed etero, ma anche fra gli stessi gay. Il giorno seguente l’ambiguo concetto di «integrazione» si è esplicitato nel corso della grande manifestazione, andatasi dalla Savignyplatz lungo le vie del centro. Il gruppo direttivo dell’HAW ha fatto del suo meglio affinché la manifestazione – cui fra l’altro hanno partecipato soltanto ottocento persone rispetto alle duemila intervenute al ballo – si trattenesse entro gli angusti confini della rispettabilità etero-gauchiste, al fine di non scandalizzare il passante borghese e spingerlo invece a considerare con spirito di accettazione questa sfilata di omosessuali, che dovevano apparirgli più «perbene» di quanto egli non avesse mai immaginato. Le francesi e noi italiane abbiamo energicamente reagito a questo tipo di impostazione, producendoci in slogan e atteggiamenti il più possibile fuori (out), il più possibile antitetici e alternativi rispetto alla musoneria maschilista delle solite manifestazioni extraparlamentari. Guy Hocquenghem, imitato da un gruppetto dei suoi scherani, ha addirittura parodiato il ritmo della marcia nazista procedendo a fianco del lungo corteo e intendendo con ciò far risaltare quanto di etero-fascista fosse nella seriosità imposta alla manifestazione dai compagni tedeschi. Ad essi va comunque riconosciuta un’iniziativa di rilievo: quanti, per motivi di repressione, non se la fossero sentita di sfilare a viso scoperto, venivano provvisti di cappucci chiari in cui infilare la testa – ma è anche vero che, nella lugubre compostezza del contesto, questi incappucciati rischiavano di ricordare elementi della Santa Inquisizione o del Ku

Klux Klan. Si può affermare che questa manifestazione, sebbene fosse la più grande manifestazione pubblica omosessuale mai tenuta in Europa, ha nel complesso fornito l’inequivocabile misura del basso livello di politicizzazione in senso rivoluzionario e di autonomia rispetto al moralismo borghese-eterosessuale raggiunto dai gruppi omosessuali di liberazione in Germania.

NOI ESIBIZIONISTE

Al termine della manifestazione, è stato tenuto un comizio in una piazza con aiuole. Per prima ha preso la parola una lesbica, e ciò ha gratificato il nostro punto di vista di checche pretese femministe (ma in ultima analisi ancora fallocratiche): ci pareva bene che per prima si esprimesse una donna… Intanto, fra le aiuole, si formavano cerchi di ascoltatori e commentatori, il FUORI! trattava un prestito di pellicole gay con HAW e le monelle del FHAR si rincorrevano a ritmo di can can. In realtà, il fatto che per prima si fosse pronunciata una donna non significava altro se non che la direzione maschile del congresso aveva concesso alle donne una particina, un contentino. In serata, all’office, nel corso di una discussione sull’andamento della manifestazione, noi di FUORI! abbiamo criticato la conduzione etero-gauchiste e soprattutto maschilista del corteo, ma abbiamo avuto l’impressione che il nostro discorso venisse recepito soltanto dai compagni francesi. Il nostro gruppo cominciava a farsi notare per la radicalità dei suoi atteggiamenti: insieme ai francesi, ci siamo sentite dare delle esibizioniste… Ecco dunque che certi omosessuali, sedicenti rivoluzionari, oppressi dal sistema etero-patriarcal-borghese, dai suoi «valori» e dall’onere delle sue valutazioni, continuano a usare il termine esibizionismo in base a una concezione spregiativa, senza preoccuparsi di rifondare la critica in chiave liberatoria di ciò che si definisce «esibizionismo». Ad essi dunque, che ci davano delle esibizioniste, abbiamo risposto quanto ribatté Rachel, un compagno transessuale

americano, a un giovane socialista inglese che lo tacciava di esibizionismo: «What’s wrong with exhibitionism?» (Che c’è di male nell’esibizionismo?). Abbiamo notato che i tedeschi sostengono la conversazione con toni molto accesi, ma forse è solo la forza della loro lingua a far suonare maschilista ogni parola che pronunciano… Certo, il problema della disparità delle lingue influisce notevolmente sullo svolgimento di un congresso come questo: i traduttori non si sprecano in fedeltà quando devono tradurre, concedendosi di fare del gay humour sul discorso che volgono in inglese, sicché «italiano» pronunciato da un tedesco finisce col trasformarsi in «exotic people» in bocca al traduttore simultaneo – più o meno come, a Milano, Armando Verdiglione ha tradotto con «perversi» «homosexuels» chiaramente scandito in francese da Félix Guattari, a un convegno di psicanalisi organizzato sotto sotto dai picisti di «Utopia». Nel corso del congresso, questa sulla manifestazione è stata la prima discussione collettiva e in essa sono stati anticipati alcuni dei temi e delle difficoltà principali che avremmo incontrato il giorno dopo durante la discussione teorica sul soggetto Integrazione-emancipazione. Già il titolo conferito al dibattito testimonia della notevole apertura concessa da HAW alle tesi integrazionistiche: in effetti, molti sono stati coloro che più o meno esplicitamente si sono pronunciati a favore della lotta per il conseguimento dell’emancipazione politica all’interno del sistema attualmente vigente, sicché noi del FUORI! – in assenza dei compagni del FHAR, che avevano rinunciato al dibattito per andarsene a scopare con degli hippies sulla spiaggia nudista – abbiamo avuto un gran daffare a produrci in aperto sostegno alla tesi rivoluzionaria, facendo luce sui temi relativi a: 1. contemporanei isolazionismo e non settarismo della lotta omosessuale nel contesto rivoluzionario; 2. presa di coscienza; 3. adesione al femminismo.

I nostri interventi hanno affascinato molti dei compagni stranieri presenti, i quali hanno in sé riconosciuto un’ampia partecipazione nei confronti di nostre idee e ideali, distaccandosi in ciò dalla miopia riformistica e dal moralismo etero-gauchiste dei loro gruppi di provenienza. Possiamo – modestia a parte – affermare che le nostre posizioni teoriche sono quelle che hanno raccolto maggiori consensi nel corso di questo dibattito e quelle che hanno dimostrato di possedere, a fianco di un’ampia fondazione analitica, il più alto potenziale sintetico vivificato dalla più dirompente intenzionalità rivoluzionaria. Ci risulta che si sia parlato parecchio di FUORI! a Berlino, durante e dopo il congresso. È soprattutto a proposito del lavoro di presa di coscienza – che abbiamo sostenuto in forza della ricca esperienza del collettivo milanese – che ci siamo incontrati con le femministe berlinesi presenti e con i gruppi di Francoforte e di Monaco, che hanno cominciato a dedicarsi a questo tipo di attività collettiva. Purtroppo, noi esponenti di FUORI! a Berlino ci siamo resi conto di rappresentare, rispetto alla maggioranza degli omosessuali anche politicizzati in Italia, una (volente o) nolente avanguardia, l’unica in grado di allacciare fin d’ora con i movimenti omosessuali di liberazione stranieri quei ponti che dovranno istericamente abbattersi sulla città etero-capitalistico patriarcale. Malgrado le limitazioni connesse al gap esistente all’interno di ogni singolo movimento nazionale tra «avanguardia» e «base», il congresso ci si è in definitiva confermato un ottimo strumento di collegamento tra i gruppi. Esso implica una notevole capacità organizzativa da parte del gruppo ospite ed è abbastanza dispendioso per pochi e molto dispendioso per i più: il biglietto ferroviario Milano-Berlino-Milano costa la bellezza di 54 mila lire. Il congresso, tramite il confronto con i fronti stranieri, permette di rendersi concretamente conto di non essere isolati nella lotta che portiamo avanti, ma bensì collegati a esperienze, a problematiche e a prospettive analoghe alle nostre in quasi tutti i paesi a capitalismo avanzato – e cioè quei paesi che hanno maturato le premesse alla rivoluzione proletaria e in cui è sorto e

si è diffuso il femminismo. Voci omosessuali in sincronia con le nostre si levano a distanza di migliaia di chilometri, scavalcando muri e frontiere – da Napoli a Toronto, da Berlino a Buenos Aires – e ciò avviene non certo per puro miracolo: esse non fanno che esprimere in luoghi di più notevole sensibilizzazione sociale la crisi che corrode, insieme al capitale, l’establishment eteropatriarcale, che all’omosessualità di ogni nazione fa da comune background; non fanno che tramutare il potenziale energetico negativo di questa crisi in grida attive e omosessualmente propositive.

«Fuori!», n. 11, inverno 1973. L’articolo è firmato Mario Rossi. [N.d.C.] È un tipo particolare di finestratura sporgente ad arco e non allineata al muro dei palazzi. Il termine italianizzato bovindo rimanda all’inglese bow window. [N.d.C.] 2 Modelle e attrici statunitensi. [N.d.C.] *

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Dirompenza politica della questione omosessuale*

Finché vi sarà donna che rifiuti o tema l’approccio sessuale da parte di un’altra donna, finché vi sarà uomo impegnato a garantire e difendere la verginità del proprio culo, il regno della libertà non sarà stato conquistato: questa è la certezza di cui il punto di vista omosessuale illumina il futuro. Questa è la certezza che ci stimola a venir fuori, ad agire la nostra omosessualità in maniera rivoluzionaria, a incanalare gran parte delle nostre energie in una lotta nutrita da intenzionalità originali e originalmente sovversive, affinché lo spargersi e l’adempiersi del nostro desiderio influiscano, tramite la nostra manifesta realizzazione, in modo positivo sul corso della Storia. Disvelando il segreto esistenziale finora raccolto e conservato nella marginalità del nostro stato, costretto per secoli e per tutti gli oppressissimi anni della nostra vita individuale a restare segreto, noi veniamo – con la nostra voce e la manifestazione del nostro esserci – a svelare uno dei misteri del mondo. Coscienti di ciò, noi dobbiamo forgiare gli strumenti di una nostra propria lotta, elaborare i contenuti di una nostra propria teoria: abbiamo la necessità di sospendere il giudizio su tutto ciò (ideali, analisi, teorie, modelli comportamentistici ecc.) che finora ci ha coinvolto ed escluso a un tempo; abbiamo il compito di reinterpretare tutto dal nostro punto di vista, per arricchire – trasformandola mediante il nostro contributo – la concezione materialistica della Storia, della società e dell’esistenza. Siamo stanchi di percorrere cammini che non tengono conto di noi, stanchi di aderire a impostazioni teoretiche che fondano la propria attendibilità e la propria forza anche e in gran parte sulla nostra esclusione (e noi

soli possiamo chiarire in che modo ciò avvenga e perché), stanchi di unire le nostre forze a chi lotta per un ideale di futuro che, per quanto utopico, a noi appare ancora troppo pericolosamente simile a questo disgraziato presente. In quanto è taciuto dalla nostra storia, nei segreti della nostra presenza maledetta dal mondo, sotto il peso delle catene con cui la società capitalistico-patriarcal-eterosessuale ci ha a sé vincolati e sottomessi, si cela l’unicità del nostro potenziale contributo alla Rivoluzione. In noi è la versione del diverso: occorre darle gran voce. Dobbiamo rifiutarci di continuare a far da eccezione che confermi la regola, visto che questa regola ci opprime, che questa regola significa eterosessualità funzionale al dominio del maschio e alla schiavitù della donna, che questa regola sancisce il diritto di famiglia e stabilisce l’essenzialità della figura paterna e la sottomissione dei figli, che questa regola mostra in ogni sua sfaccettatura la piena aderenza alla legge inumana del capitale, all’estendersi dell’alienazione e della limitazione alla sfera del privato affinché il peso reificante del sociale abbia a gravare su spalle che non conoscono il benché minimo ambito di libertà, ma soltanto l’illusorio palliativo di un qualche affetto vincolante e ricattatorio e la chiusura intimistica di quella memoria dell’età senza precedenti, trascorsa nel ventre materno, che stimola alla negazione della vita e alla rinuncia ad agire per cambiarla. I nostri occhi volgono al mondo dall’angolo visuale dell’emarginazione: di qui il privato e il sociale ci appaiono nella complessità delle loro manifestazioni e nell’intersecarsi carico di significati dei piani di interazione e scontro dialettici. L’analisi maschile ed eterosessuale del piano della lotta di classe, pur coinvolgendoci fondamentalmente, non può bastarci: ciò implica la nostra adesione in una nuova forma anti-maschile e omosessuale alla lotta di classe, e una revisione in chiave omosessuale della teoria proletaria: e ciò mentre la coscienza del terrore di cui le società maschili ed eterosessuali hanno riempito la nostra esistenza non può farmi troppo temere il termine «revisione». Allo stesso modo non ci basta l’analisi compiuta dal

femminismo (in maniera ancora prevalentemente eterosessuale) del piano della dialettica tra i sessi, pur riconoscendo a questa analisi il merito di avere dischiuso all’umanità intera le più ampie prospettive storiche finora tracciate, fondate sulla critica alla polarità dei sessi e alla soggezione del sesso femminile al sesso maschile. Dall’angolo visuale dell’emarginazione, dall’angolo della nostra fondazione rivoluzionaria in prima persona in quanto omosessuali, noi abbiamo la possibilità nostra esclusiva di far luce sull’importanza fondamentale del rapporto dialettico determinantesi tra eterosessualità e omosessualità nelle società e in ogni singolo individuo, rapporto la cui antiteticità (che oggi ancora ci divide dagli altri e ci divide in noi stessi, contribuendo al perpetuarsi della somma dei poteri fondati appunto sulle antitesi) viene da noi oggi posta radicalmente in discussione, nella precisa intenzionalità di superarla nostro obbiettivo, nutrito di ambizione e speranze utopiche, è la società futura in cui eterosessualità e omosessualità non esistano più come reciprocamente determinantesi nella contrapposizione, e ciò in seguito alla soluzione del loro contrasto nella libera disponibilità ed esplicazione di una sessualità nuova, che per intanto non ci è dato che di figurarci quale una e molteplice.

NON POSSIAMO PIÙ TOLLERARE

Non possiamo più accettare di considerare le problematiche inerenti all’omosessualità come tout court consequenziali rispetto ai piani dialettici riconosciuti quali strutturali del materialismo eterosessuale (e cioè quello della produzione e quello della riproduzione); non possiamo più accettare che ci si liquidi e pretenda di assicurare a un tempo rimandando, grazie alla meccanicità di un determinismo facilone che ingabbia e svilisce il concepimento del futuro. La soluzione dei nostri problemi al salto qualitativo che verrà compiuto dalla rivoluzione socialista. La

rivoluzione proletaria è oggi purtroppo solamente possibile: è chiaro senz’altro che il nostro destino in quanto esseri umani è legato alla lotta e alla presa di coscienza della classe operaia; ma la nostra lotta in quanto omosessuali deve essere combattuta fin d’ora a fianco del proletariato contro il capitale e contro l’ideologia eterosessuale del proletariato stesso, se vogliamo appunto contribuire all’attuarsi della rivoluzione socialista e alla realizzazione del salto qualitativo ad essa connesso. Non possiamo più tollerare che la somma dei problemi che ci concernono vengano relegati ai teorici della Rivoluzione al piano della sovrastrutturalità: che sanno i rivoluzionari eterosessuali dell’omosessualità se essi l’hanno repressa e addormentata in se stessi, se essi sono veicolo del tipo di sessualità dominante e in quanto tale vincolata al potere? Essi giudicano secondarie le tematiche inerenti all’omosessualità: 1. perché sono eterosessuali; 2. perché non è ancora stata compiuta dai gruppi rivoluzionari omosessuali un’analisi materialistica approfondita sull’omosessualità; 3. perché anche quando quest’analisi verrà formulata, essi saranno criticati, smontati, smascherati, combattuti, negati, in quanto eterosessuali, da essa. Dall’ampio angolo visuale dell’emarginazione ci appare alla complessità della situazione del mondo (esterno e interno): ciò ci deve impedire di aderire agli schemi di qualsivoglia semplicismo interpretativo, il quale non può – in ultima analisi – se non rivelarsi funzionale a una qualche espressione conscia o inconscia del potere. Così come in noi stessi dobbiamo progressivamente lottare contro gli effetti dell’educazione (ed educazione in senso lato) eterosessuale, così come dobbiamo spietatamente combattere il fallo che abbiamo identificato quale funesto direttore del nostro cervello, noi non possiamo fingere di non riconoscere nel proletariato, nostra guida e alleato nella lotta contro il capitale, una massa di avversari maschilisti ed eterosessuali; non possiamo evitare di individuare perfino in gran

numero delle femministe, a fianco delle quali combattiamo la fallocrazia, donne ancora ben lungi dall’aver posto totalmente in discussione l’esclusività del comportamento eterosessuale e conseguentemente avversarie della nostra omosessualità – e di quella latente in loro. Il femminismo francese (vedi Psychanalyse et Politique)1 ha teorizzato la pederastia di tutti i rapporti sessuali esistenti: ciò è sintomatico del fatto che perfino le femministe forse più radicali in Europa usino il termine «pederastia» (e in una lingua in cui può essere considerato senz’altro come sinonimo di omosessualità in senso lato) ancora e di nuovo in base a una accezione esclusivamente spregiativa.

LA VALUTAZIONE DELLE FORZE

Se infine ci dichiariamo marxisti, noi non possiamo evitare di riconoscere quali nemici la virilità di linguaggio di Marx, il fallocentrismo del suo sarcasmo, la gratificante miopia del suo sesso: nemici perché ottenebrano di sé la limpida chiarezza di cui la versione materialistica della Storia ha, per la prima volta in Marx, portavoce teorico del proletariato, potenzialità e adito. Il femminismo ci ricorda che le donne sono la metà del genere umano, anzi la maggioranza, e ciò nel contesto in cui scopre e teorizza la dialettica tra i sessi: in tal modo il femminismo riconosce nelle donne e fondamentalmente in esse l’entità del diverso, antitesi massiccia al potere maschile, oggi ancora per lo più stabile, ma potenzialmente dinamica e sovversiva. Molte delle femministe si rifiutano, in base a questa concezione limitatamente dialettica e alla valutazione quantitativa delle forze ad essa connessa, di considerare il valore qualitativo del contributo fornito alla rivoluzione sessuale dell’essere diversi in quanto omosessuali. Nostro è il punto di vista in cui la considerazione quantitativa e considerazione qualitativa delle forze si fondono, perché esso si consente di valutare l’omosessualità quale

presenza negata in tutti e di riconoscere il nostro esserci in quanto omosessuali quale personificazione manifesta del desiderio latente e represso in tutti. Per un verso, noi siamo sì una minoranza, ma una minoranza in cui si specchia il desiderio omosessuale represso della maggioranza; d’altro canto, noi siamo la totalità e la sua parte, da cui sorge la coscienza omosessuale del tutto. La società ci emargina, ci violenta, ci umilia, ci reprime, ci disprezza perché teme il capovolgimento cui conduce la nostra revisione del tutto e perché tende ad assicurare il perpetuarsi della legge che le impedisce di riconoscere l’immanenza del desiderio omosessuale alla vita di ogni singolo e alla società stessa: così l’eterosessualità rappresenta una delle norme principali, se non la principale, che impediscono all’umanità di comprendersi. L’umanità, asservita da secoli a questa legge che le si contrappone, ha finito con l’identificarsi con essa, evitando pertanto di indagare sull’originaria violenza che pose questa legalità e il diritto conseguente all’imposizione della norma. L’umanità eterosessuale sancisce tendenzialmente in eterno, in forza del magico potere di questa legalità che sembra precedere l’uomo stesso, la propria condanna alla non-comprensione di sé. L’umanità eterosessuale teme la luce che dalla nostra inessenzialità – in un contesto in cui essenziale non è che il dominante – dalla nostra marginalità, viene a chiarire l’antiteticità, la contrapposizione contradditoria che di sé sempre lacera il mondo e a causa di ciò inalbera, tramite l’uso che il vincitore fa delle forze dell’oppresso, il vessillo della propria pretesa essenzialità. L’eterosessualità ha bisogno di fare i conti con l’ambiguità del concetto di essenza per idealizzare, assolutizzandola in una norma, la falsità del proprio elevarsi al di sopra delle altre forme di comunicazione ed esplicazione sessuali. È per questo che noi omosessuali rivoluzionari, negando il preteso valore assoluto dell’eterosessualità, partecipiamo alla negazione dell’abitudine alla norma divina e dell’alienazione del concetto di Dio, della soggezione alla norma economica e del

capitale-denaro, della conformità alla legge patriarcale e del fallo, della priorità del linguaggio sugli altri mezzi di comunicazione, degli equivalenti generali tutti e di tutti i feticci. Noi siamo stanchi di essere costretti ad arrabattarci per una sopravvivenza ingrata, trascinati da una umanità che anela al paradiso e alle forme estreme – trascendenti ed economiche – della alienazione dalla comprensione, dal godimento del presente, per correre ininterrottamente verso la morte, per assolutizzare il principio di morte a spese del piacere forzatamente represso, per perpetuare nel complesso delle sue regole e istituzioni la lacerazione in ciò che esiste e rimettere il desiderio dell’assoluto al niente, per rinunciare all’assoluta presenza e autocoscienza di sé. Noi aspiriamo all’essere umano che, con la libertà dal bisogno e dalla polarità dei sessi, abbia conquistato se stesso; noi aspiriamo all’unità molteplice dell’essere ermafrodito che nulla rifiuta a se stesso e che in sé riconosce e incamera la condizione del tutto e la complementarietà pacifica delle differenze; e ciò nel contesto intersoggettivo che abbia totalmente abolito la differenziazione cosale degli individui insieme alla concezione capitalistica stessa dell’individualità.

OMOSESSUALITÀ E SOCIALISMO

Le nostre aspirazioni non sono idealistiche. Nell’ambito della nostra presa di posizione rivoluzionaria, noi ribadiamo di riconoscere l’indispensabilità della lotta di classe al sovvertimento del capitale e alla fondazione del socialismo autentico quale premessa necessaria al conseguimento del regno della libertà. Perciò il movimento degli omosessuali rivoluzionari appoggia la lotta del proletariato e auspica la vittoria della Rivoluzione da esso diretta contro la società capitalistica. Tuttavia, quali aderenti a questo movimento, noi dobbiamo sforzarci di fare ciò mettendo in chiaro, senza remore e pudori, il nostro punto di vista: i froci non devono apparire codini in una classe che ancor oggi li

disprezza; essi devono appoggiare questa classe aiutandola a prendere coscienza dell’onere patriarcal-eterosessual-borghese da cui essa è ancora disgraziatamente gravata, devono diffondere tra i proletari la coscienza delle connessioni scoperte tra capitale ed esclusività di comportamento eterosessuale, tra capitale e fallocratismo. Ciò perché, se noi compagni omosessuali riconosciamo nella prospettiva di una rivoluzione proletaria vincente l’unica possibilità di essere liberati dal giogo del capitale, al tempo stesso cogliamo la necessità di condurre in prima persona la lotta impostata sugli obiettivi che soltanto dal carattere speciale della nostra fondazione rivoluzionaria possono scaturire. I proletari omosessuali sono gli elementi fondamentali dell’interazione fra lotta proletaria e lotta omosessuale; essi non devono scoprirsi eroicamente in fabbrica da isolati, ma agire in correlazione col Movimento omosessuale di liberazione di cui, in quanto omosessuali rivoluzionari (qualora siano tali) fanno parte. È di una certa importanza per noi tener conto del fatto che la rivoluzione sovietica, unica Rivoluzione che portò alla determinazione stabile della dittatura del proletariato (sebbene soltanto per pochissimi anni), sancì nel 1918 la legittimità del rapporto omosessuale – e cioè in un paese che passava bruscamente da una legislazione feudale a una socialista. Questo avvenimento testimonia di una certa apertura nei confronti dell’omosessualità dimostrata dal potere proletario negli anni del suo avvento storico. Purtroppo la sconfitta della Rivoluzione negli Stati dell’Europa centrale e il conseguente contraccolpo in Russia portarono quel paese alla riscossa borghese-contadina e alla progressiva instaurazione della nuova forma del capitalismo di Stato: ciò fra l’altro ci impedisce di conoscere quali mutamenti relativi al costume e all’ideologia sessuali si manifestino in un paese diretto dal proletariato vittorioso. Viceversa sappiamo come la libertà sancita dalla legge – ma l’esempio ci viene da quei paesi a capitalismo avanzato, tra cui l’Italia, in cui l’omosessualità «non costituisce reato» – non garantisce necessariamente la liberazione dell’omosessualità dal peso reale della condanna: al contrario la libertà sancita dalla legge si riduce a un’espressione formale, che

legalizza a suo modo in forma nuova lo stato effettivo di emarginazione, oppressione e repressione in cui gli omosessuali seguitano a versare. Ma, è il caso di ripeterlo, ciò è quanto sperimentiamo sulla nostra pelle in paesi capitalistici: quasi nulla sappiamo della situazione degli omosessuali in Russia nei brevi anni seguiti alla Rivoluzione d’Ottobre e durante i quali il potere fu detenuto dal proletariato. È giusto mantenerci scettici rispetto alle versioni trionfalistiche del passato e alle previsioni semplicistiche sul futuro. Tuttavia il nostro scetticismo non deve condurci a fare di ogni erba un fascio, fatalisticamente impedendoci di valutare quali effetti benefici possano essere ottenuti dagli omosessuali come immediata conseguenza della rivoluzione proletaria, anche in un contesto storico e socioeconomico più arretrato del nostro, quale, ad esempio, era la Russia feudale pre-rivoluzionaria, ove certo non esistevano movimenti omosessuali di liberazione, sebbene allora come adesso e più di adesso fosse feroce l’oppressione dell’omosessualità.

LA «SINISTRA» ETERO BORGHESE

Questo breve riferimento alla rivoluzione sovietica dimostra che, se la classe proletaria, investita dal compito storico di liberare l’umanità dal mostro automatizzato che la sta distruggendo, ha tutto da guadagnare dall’assorbimento del messaggio omosessuale, d’altro canto è vero che l’intenzionalità rivoluzionaria di noi omosessuali non può che venire concretizzata e rafforzata dallo studio della lotta di classe, delle rivoluzioni e delle contro-rivoluzioni. Tale studio può aiutarci (insieme alla influenza che le espressioni autonome della lotta operaia esercitano su di noi) a fare in modo che la nostra adesione ad essa si articoli nella totale differenziazione del falso appoggio fornito al proletariato da quelle forze borghesi, come i partiti della sinistra parlamentare e i sindacati, che hanno interesse piuttosto ad assicurarne la soggezione allo sfruttamento capitalistico. È per noi

necessario cogliere che non vi è differenza sostanziale, per esempio, tra MSI e PCI così come non vi è differenza sostanziale tra le condizioni dei proletari in Spagna e in Unione sovietica, così come non vi è sostanziale differenza tra lo stato degli omosessuali spagnoli e quello degli omosessuali sovietici, perché non vi è sostanziale differenza tra i rapporti capitale-lavoro e capitaleomosessualità in Spagna e i rapporti capitale-lavoro e capitaleomosessualità in Unione sovietica. Dobbiamo inoltre radicalmente differenziarci dai gruppuscoli dell’ultra-sinistra eterosessuale, che, oltre a fornire prova costante del proprio maschilismo fascistoide e anti-omosessuale, gravitano nelle nuvole di un confusionarismo sbruffone e piccoloborghese, grazie al quale possono permettersi di confondere il pensiero di Marx con i pensierini di Mao e di cuocere nel calderone comune da essi denominato «masse popolari» proletariato e ceti medi. Dobbiamo guardarci dal prestarci agli interessi e all’interessata «comprensione» di quelle congreghe di intellettuali borghesi che si riuniscono sotto il tetto redazionale i periodici sedicenti marxisti. Dobbiamo fregarcene del loro snobismo e onorarci delle loro critiche, dobbiamo saper ridere dell’apparente esoteria di certe loro analisi senza costrutto con cui pretendono di venire a insegnarci che non basta essere omosessuali per considerarsi rivoluzionari: gli risponderemo che non basta fare asserzioni più che lapalissiane, abilmente fraintendendo i contenuti del nostro discorso, per provare al lettore, al proletariato e a noi di essere – essi sì – già autentici rivoluzionari. La nostra presa di posizione politica deve essere tanto più drastica e radicale quanto più contro-rivoluzionario si rivela il periodo in cui viviamo, così come inversamente proporzionale è il rapporto tra il piccolo numero di noi omosessuali rivoluzionari e la straordinaria importanza del nostro punto di vista. Altrimenti, lasciandoci trastullare dalle apparenti attrattive del compromesso e illudendoci di veder spuntare manifestazioni rivoluzionarie qua e là come funghi, noi cadremmo in un inganno amaro e nell’opacità

confusa di un sogno dal triste risveglio. Meglio piuttosto augurarsi di incontrare il Principe Azzurro e darsi da fare per cercarlo.

IL MOVIMENTO OMOSESSUALE DI LIBERAZIONE

Abbiamo oggi a che fare con un movimento omosessuale autonomo appena in embrione. Gruppi sorgono nei principali centri di paesi a capitalismo avanzato, paesi che hanno in sé maturato le premesse socio-economiche alla rivoluzione proletaria e con cui si è sviluppato il movimento femminista e ne è stato diffuso il messaggio. Questi gruppi sono ancora in mediocre rapporto di comunicazione gli uni con gli altri. Il Congresso internazionale omosessuale indetto dall’Homosexuelle Aktion Westberlin e tenuto a Berlino tra il 6 e il 12 Giugno 1973 ha comunque accertato che le problematiche interne ai gruppi hanno denominatori comuni che valicano le frontiere. In ogni singolo gruppo coesistono, a fianco di compagni dichiaratamente rivoluzionari, elementi ancora fondamentalmente irretiti dai miraggi dell’emancipazione politica all’interno delle strutture borghesi, patriarcali ed eterosessuali dell’establishment: cioè, lungi dallo stupirci, deve essere considerato come una conseguenza della nostra abitudine alla soggezione alla norma (la cosiddetta «normalità»), la quale ci induce alla speranza di veder rimettere dal sistema-padre, cui siamo da sempre sottomessi, il peccato della cui nefandezza ci ha costretto a credere che la nostra omosessualità sia imbevuta. L’ideale dell’emancipazione politica non comporta un salto qualitativo rispetto alla nostra condizione di subalterni da sempre, né un ribaltamento del nostro senso di colpa che ci permetta di fare luce (tramite il bagliore che scaturisce dalla conversione delle energie della «scolta» in colpa e teoria rabbiose) sugli autentici responsabili della nostra sofferenza. Purtroppo e comprensibilmente ciò non è chiaro a tutti. Il sistema ne approfitta. Il sistema è il gattopardo che ci spinge ad auspicare che tutto venga mutato, affinché tutto resti

come prima. Conseguenza di ciò è il sorgere di movimenti riformistici per l’integrazione degli omosessuali in contrapposizione ai fronti rivoluzionari omosessuali, in tutti i paesi a capitalismo avanzato. In Italia esistono organizzazioni deleterie quali l’AIRDO2 e il ICIDAMS. In Francia Arcadie si contrappone al FHAR, in Gran Bretagna il CHE si contrappone al Gay Liberation Front ecc. La considerazione di questo dato di fatto, lungi dallo spingerci a moderare la radicalità delle nostre posizioni, deve convincerci della necessità di rafforzarle, tramite l’intensificazione della nostra lotta e l’impegno con cui conduciamo l’analisi della questione omosessuale. Dobbiamo imparare a comprendere noi stessi mediante la capillarità di un lavoro di presa di coscienza condotto in comune in seno ai gruppi ma anche nei rapporti con i partner e individualmente, meditando il nostro passato e analizzando criticamente gli avvenimenti che ci incorrono. Dobbiamo saper riconoscere le strutture in cui da secoli e secoli si tramanda la paranoia anti-omosessuale a mo’ di costante fondamentale, la paranoia che ci martoriò sui roghi, nelle galere e nei manicomi e che oggi continua a martoriarci nelle galere e nei manicomi, in famiglia e sul posto di lavoro, a scuola e durante il servizio militare, nei gabinetti pubblici, nei gabinetti psicoanalitici e nei confessionali, per strada e negli ambienti del ghetto, al cinema e alla radiotelevisione, nei libri e sui giornali; la paranoia che ci inchioda mediante la repressione poliziesca e mediante il parere degli «esperti» retrivi e di quelli «illuminati», mediante Freud e Marlon Brando, mediante Visconti e Pasolini, mediante la nostra stessa opera e la nostra stessa inventiva stravolte dall’asservimento al sistema etero-sbirro di sempre.

IL VALORE DELL’ASSURDO

Dobbiamo lottare contro la paranoia anti-omosessuale che investe noi stessi, dividendoci gli uni dagli altri, contrapponendoci

gli uni agli altri nell’ottica della ruolizzazione che scimmiotta gli stereotipi eterosessuali e in quella (così manifesta nei movimenti omosessuali di liberazione) del divismo, frammentando e sciupando in maniera lesiva del nostro interesse il potenziale energetico della nostra rabbia. Dobbiamo reagire risolutamente alla gestione ancora decisamente maschile dei gruppi omosessuali. Essa ci rivela che, se i gruppi femministi sono ancora troppo eterosessuali, i gruppi omosessuali sono troppo maschili. Dobbiamo riconoscere che presso un numero notevole di aderenti al Movimento omosessuale di liberazione le tematiche critiche e positive del femminismo non hanno ancora ottenuto il dovuto riconoscimento. Non si è ancora sentita a fondo l’urgenza di cogliere la commissione tra il potere dell’uomo sulla donna, da una parte, e il rapporto eterosessuale, dall’altra, rapporto che vede in sé riassunta la soggezione della donna soprattutto e dell’uomo stesso allo strapotere del fallo, simbolo nella cui forma assoluta è alienata tutta la vasta gamma delle misconosciute presenze dei sessi. Abbiamo ancora da combattere quanto di eterosessuale si manifesti ancora nella ruolizzazione legata ai nostri rapporti omosessuali; abbiamo da capire fino in fondo a che punto l’eterosessualità inquini le manifestazioni del nostro desiderio omosessuale, fino a che punto essa intervenga nella determinazione dei suoi «fantasmi»; in che modo il fallo eserciti la sua autorità sui nostri cervelli, i nostri corpi, le nostre clitoridi, le nostre fighe, i nostri cazzi e il nostro buco del culo. Abbiamo da sostituire al linguaggio ancora fondamentalmente borghese, patriarcale ed eterosessuale di cui ci serviamo un nuovo linguaggio, una somma di strumenti d’espressione, che svincolino dal secolare silenzio le facoltà di autoesplicazione e comunicazione del nostro essere desiderante e represso. Abbiamo soprattutto da scoprire perché fummo sempre oppressi, perché contro di noi fu eretta una norma, perché, malgrado questa norma, siamo omosessuali. L’omosessualità è tabù e ben poco si sa su di essa; nessuno sa con certezza cosa si celi dietro il terrore profondo che incoglie il nostro compagno

eterosessuale, quando gli proponiamo di fare all’amore con noi, di incularlo, di incularci, quando gli chiediamo un bacio. Abbiamo da formulare una nostra teoria e con ogni probabilità essa suonerà assurda, perché capovolgerà le vedute di tutti coloro che con orrore e disprezzo ci hanno relegato nell’angolo dell’assurdo. Come Marx capovolse l’interezza del punto di vista borghese, riconducendo la comprensione del tutto al riconoscimento del valore della prassi umana e della contrapposizione dialettica delle classi, così noi dovremo saper esprimere la genuinità di un punto di vista che travolga la pretesa razionalità eterosessuale, il cui strapotere ideologico non può che fondarsi sulla relegazione all’assurdo di ciò che non è allineato con la sua legge, affinché appaia razionale ciò che è solamente legale. Soltanto noi possiamo comprendere tutto ciò: ognuno di noi, infatti, è il campo di battaglia – individuo in cui la legge eterosessuale interiorizzata oppone resistenza, ricevendo costanti rinforzi dal mondo esterno soggetto alla medesima legge, alla libera esplicazione del desiderio omosessuale che ha valicato le censure. Dobbiamo venir fuori affrontando questo mondo antagonista, allo scopo di liberare più facilmente il nostro desiderio omosessuale in noi e da noi e di contribuire, con ciò, alla pacificazione del nostro universo interiore. Noi, che abbiamo osato capire di essere omosessuali, dobbiamo educare le nuove generazioni alla nostra presenza, affinché la legalità dei padri sia scossa di fronte ai figli della nostra libertà intenzionale, affinché i bambini imparino a fare all’amore tra loro e con noi, affinché non si rassegnino anch’essi troppo presto alla rinuncia alla libera disponibilità di se stessi e del mondo, affinché gli adulti imparino a capirsi.

«Fuori!», n. 12, primavera 1974. Nota della Redazione: è nostra abitudine pubblicare integralmente gli articoli dei collaboratori. Così facciamo per questo contributo di Mario Rossi che però nella sua analisi ha suscitato in alcuni compagni del collettivo redazionale valutazioni diverse per quanto si riferisce al parallelo PCI-MSI. [L’articolo è *

firmato Mario Rossi, ed è preceduto da una nota della redazione del giornale che prende le distanze dalle posizioni più radicali espresse da Mieli nel suo contributo. (N.d.C.)]. 1 Psychanalyse et Politique, conosciuto anche come Psych et Po, è una delle «correnti» del movimento di liberazione delle donne francese. È il gruppo ispirato e fondato da Antoinette Fouque, poi fondatrice della casa editrice Des Femmes, oggi anche luogo di arte e cultura femminile. [N.d.C.] 2 Associazione Italiana per il Riconoscimento del Diritto degli Omofili, fondata nel 1972 dall’ingegnere Gino Olivari. In aperto contrasto con il FUORI!, Olivari tenta senza successo di importare in Italia il modello «omofilo» dell’associazionismo francese creato intorno alla rivista «scientifica e letteraria» «Arcadie», fondata nel 1954 dall’ex seminarista André Baudry. Ne parla Andrea Pini in Quando eravamo froci. Gli omosessuali nell’Italia della dolce vita, Roma, Il Saggiatore, 2011, p. 62. [N.d.C.]

Omosessuali è brutto…*

Lidia Ravera scrive su «Muzak» (marzo 1976, Carissimo Finocchio…) una caterva di scempiaggini sul movimento omosessuale così come avrebbe potuto farlo tre anni fa un giornalista progressista perdutamente etero (Enzo Biagi sul «Corriere» si comporta meglio). Oggi, cara Ravera, quando si tratta di omosessualità è reazionario disinformare, è reazionario nascondere la realtà delle cose sotto il «velo» pesantemente ideologico dei propri pregiudizi. Oggi è tempo di affrontare in prima persona la questione omosessuale, per la liberazione. Qualche nota sul tuo articolo: nessun omosessuale fa della propria omosessualità – al contrario di quanto dici tu – una «bandiera ideologica». L’ideologia la lasciamo al sistema e all’eterosessualità che necessita di pregiudizi ideologici – come quelli della Ravera, appunto – per fondare la propria supremazia sulle altre forme di desiderio. Inoltre: nessuno di noi del FUORI! o ex aderenti al FUORI! provammo, come affermi tu, «grande vergogna» a vendere il nostro periodico vicino ai vespasiani o negli altri luoghi di «battimento»: lo facemmo sempre e lo facciamo con allegria e orgoglio, né abbiamo mai particolarmente temuto di proporre l’acquisto del nostro giornale agli etero (perché ti inventi delle cazzate simili?). Ancora: Dennis Altman non è un esponente del Gay Movement (che, come organizzazione, non è mai esistito), ma lo fu del Gay Liberation Front americano e australiano. Il primo movimento omosessuale rivoluzionario in Europa non fu il FHAR francese (tra l’altro tu scrivi Fahr, e dunque non sai che FHAR significa Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire, ma tirerai in ballo i correttori di bozze e refusi), bensì il Gay Liberation Front

inglese. La scelta della canzone di Alfredo Cohen1 – sul ragazzotto che per starci vuole tremila lire – non è casuale: se essa ha un senso nel contesto più ampio dello spettacolo di Alfredo, in un articolo ideologico e distorto come quello della Ravera finisce col riproporre l’immagine stereotipata dell’omosessuale che va a marchette, proprio quando gli omosessuali rivoluzionari rifiutano questo tipo di rapporti alienanti. E poi, cara Ravera, l’omosessualità non può più essere definita «vizio» nemmeno tra virgolette: ti rendi conto di come il tuo modo di scrivere vada incontro ai pregiudizi radicati dei lettori etero e finisca col sottolineare il senso di colpa di quei lettori gay che non sono ancora venuti fuori? Non è casuale inoltre che, malgrado l’aspetto multiforme ormai assunto dal movimento omosessuale in Italia, tu ti riferisca principalmente alle attività e ai pareri di esponenti del FUORI! federato con il Partito radicale. Non a caso dimentichi tutte le esperienze importanti dei collettivi autonomi, le contestazioni più clamorose che essi hanno portato avanti (vedi, quella contro Fornari ad esempio, e l’altra, contro Servadio, e contro il Congresso di sessualità e politica; vedi le manifestazioni in Statale e il corso da essi gestito ad Architettura a Milano; le presenze a Licola e al Parco Lambro; i collettivi di autocoscienza; il gruppo sadomasochista; il grande successo ottenuto dal gruppo teatrale Nostra Signora dei Fiori; la partecipazione costante ad alcune radio «libere»…). Infine, perfino riferendo alcune espressioni di militanti del FUORI! federato, la Ravera inventa di testa sua. Angelo Pezzana2 in persona mi ha garantito nel corso del convegno di Roma di non aver mai proferito la frase che Ravera – a conclusione dell’articolo – gli mette in bocca (frase in cui Pezzana criticherebbe le «paillettes e gli atteggiamenti da checca, i gesti provocatoriamente femminili» dei compagni dei Collettivi omosessuali milanesi). Attenta Ravera, che ti occupi soltanto degli omosessuali in doppiopetto che aspirano al Parlamento e di cui pure deformi le opinioni! Le Brigate Rosa non ti permetteranno più.

«Gong. Mensile di musica e cultura progressiva», a. III, n. 6, giugno 1976. Poeta, cantante e attore, Alfredo Cohen (1942-2014) fu attivista del FUORI! e protagonista della scena culturale degli anni ’70. Si veda la voce che gli dedica Giovanni Dall’Orto su wikipink.org. [N.d.C.] 2 Tra i fondatori del FUORI!, militante del Partito radicale, Angelo Pezzana è stato una figura centrale dell’attivismo omosessuale degli anni ’70, spesso criticato da Mieli per il suo orientamento liberale, ma a cui però nella sua ultima intervista del 1983 riconosce il merito di aver contribuito a dare visibilità ai gay e alle lesbiche in Italia e a lottare contro la repressione omofobica. Si veda l’intervista, qui pubblicata a p. 323. [N.d.C.] *

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My first lady*

Chissà quanti e quali turchi si saranno soffermati, nel palazzo di Fuad Pasha a Istanbul, di fronte alla bizzarra ideazione di questo strepitoso caminetto di maiolica. Di esso, l’abbaglio dei colori ti incoglie a prima vista: miracolo di ancor più armoniosa combinazione rispetto alla coda dei pavoni, il pieno turchese a tratti simmetrici predomina sul raffinatissimo intarsio dei toni del blu violaceo con quelli del rosso di Volterra, quasi quanto il pieno di certo fondale gotico interviene a far straordinariamente risaltare per contrapposizione la pienezza spirituale del vuoto; e in questo caso, se neppure di gotico veneziano si tratta, si tratta comunque di vuoto della maggior parte della colorazione di base, bianco-azzurrina, su cui si stagliano, intrecciandosi, foglie, minuzie, volute e ghirigori bluastri, appunto, o vermigli. Dietro e tramite questo abbaglio da fare andare insieme agli occhi, l’artista settecentesco seppe con astuzia magistrale combinare assieme il gran buco basilare nero e merlato (in cui consiste l’incavo del caminetto), la cappa che lo sovrasta e che è un grande fallo stilizzato, centrale, totemico, addirittura appuntito, e due belle tette, concepite a mo’ di protuberanze variopinte sporgenti in alto, una per parte, laterali rispetto alla punta del fallo. È dopo essere riuscito a scampare alla devastazione del palazzo in cui era situato, avvenuta nel secolo scorso, che questo caminetto ha finito col venire esposto in una sala del Victoria & Albert Museum londinese. Molti sono coloro che gli passano davanti distrattamente assorti nell’adempimento soporifero della loro funzione stereotipa di visitatori di museo. Al di là della patina fantasmagorica dei colori, essi non sono in grado di intendere

quale misterioso scherzo animi questo capolavoro. La superficialità delle loro facoltà osservative e riflessive non gli concede di cogliere la precisa ambiguità vestita da tanto splendore formale: di sfuggita vedono senza vederle le due semisfere che son seni e che coronano il fallo attraverso il quale doveva venire il fumo di quel fuoco il cui luogo era sotto, nell’antro oscuro del calore, che è cavità quanto lo sono la vagina e il buco del culo. La fantasia ermafrodita sfugge alla miopia di loro occhi e delle loro menti; così come ad essi non passa neppure per l’anticamera del cervello il dubbio che la garbata signora che a codesta opera siede dinnanzi, avvolta nel soprabito a scacchi degli anni ’60, e intenta a prendere appunti, sia, come si suol dire, un uomo, cioè un travestito: cioè sono io. Sono una delle versioni del mio io, e indosso le calze a rete sovrapposte a un collant scuro che mi confonde i peli (pochini) delle gambe, porto le scarpe discrete coi tacchi alti, una borsetta simil-leopardo sotto il braccio, guanti a cinghiale, labbra accuratamente tinte di rosso e, per concludere, ampi occhiali da sole a forma di mascherina, che sottolineano l’ombra del mistero sulla mia faccia. Tutt’al più, può darsi che chi mi passa davanti si soffermi un istante a considerare quanto la signora che interpreto ricordi la first lady, e cioè la moglie del presidente, così simile, conciato per le feste come sono, a Jacqueline Kennedy al tempo in cui rischiò la vita a fianco del marito – e a bordo della limousine – a Dallas. Ma questa somiglianza con Jacqueline si riduce al mio aspetto esteriore: i visitatori del museo, ignari, non immaginano che, sotto le spoglie della first lady, la figlia di Urano, Afrodite, ispiratrice dell’amore fra uomini, discenderà tra poco fra loro a solleticare il risveglio del desiderio omosessuale addormentato ormai da troppo tempo.

LA TRAGEDIA SI TRAVESTE

Il travestimento traduce nel comico la tragicità che è nella polarità tra i sessi. Capita spesso che, come riflettendosi in uno specchio deformante, chi osserva un travestito rida della deformazione di se stesso: in quella immagine assurda egli riconosce, senza avvedersene, l’assurdità della propria immagine e risponde col riso all’assurdo. In base alle mie esperienze di travestito part time, mi pare di individuare un profondo nesso analogico tra la comune reazione di riso e ogni altro genere di reazione negativa da parte di coloro che, dopo avermi notato, si avvedono più o meno velocemente, a seconda della loro perspicacia, del fatto che io non sono per niente una donna, bensì un uomo vestito da donna: essi reagiscono manifestando rabbia, disgusto, scandalo, oppure fingendo di non essersene accorti. A questi tipi di reazione si alterna con frequenza proporzionale al grado di accuratezza del mio travestimento, un’altra che, estrema nella sua negatività, appare addirittura quale assenza di reazione e cioè non appare: lungi dal fingere di non essersi accorti della presenza di un uomo vestito da donna, ne sono i soggetti inerti coloro che non osano neppure accorgersene. Se siedo travestito in un vagone della metropolitana, per esempio, e considero la varietà degli atteggiamenti che la gente assume in mia presenza, facilmente intuisco quale denominatore comune li vincoli l’uno all’altro in legame di stretta parentela: tutte le reazioni degli altri passeggeri, siano esse di riso e/o altre, non fanno che esprimere, in quantità e manifestazioni qualitative diverse, paura; o, più esattamente, angoscia. Infatti l’oggetto del loro timore non consiste in me in realtà: io mi limito a rappresentare l’immagine che fa da medium tra l’ambito della loro osservazione cosciente e un oscuro oggetto di timore misteriosamente radicato nel loro inconscio. Senza dubbio la mia presenza centralizza, la loro attenzione: ma, in tal modo, essa non fa che provocare in parecchie persone, e contemporaneamente, reazioni analoghe, che mettono a fuoco l’analogia dei loro sentimenti e la trama comune di angoscia che li sottende.

Qualora anch’essi potessero (come probabilmente molti di loro volentieri farebbero) spaccarmi la faccia, essi si comporterebbero come colui che mandasse in frantumi uno specchio per l’orrore di avervi scoperta riflessa la mostruosità della propria immagine. Tradotta in violenza l’angoscia, ed eliminato mediante la violenza lo specchio rivelatore, egli non potrebbe comunque liberarsi dalla coscienza ormai acquisita della propria bruttezza. Egli non farebbe in tempo a distrarsene, che subito gli capiterebbe di imbattersi in altri, inevitabili, specchi. Lo specchio simboleggia la costante testimonianza negli altri della tragedia dell’io. Ma se l’altro si investe vistosamente della tragedia, così come fa il travestito, allora scuote fin dalle fondamenta il precario equilibrio dell’io, che, avendolo incontrato in metropolitana, per esempio, riflette se stesso nei suoi occhi: equilibrio cui l’io si avvinghia con tutte le sue forze nello spasimo costante per la sopravvivenza, malgrado e secondo la maledizione che su di lui e in lui grava, e che riempie di morte la sua esistenza riducendola a lotta per la sopravvivenza, appunto, e all’attaccamento ossessivo a purchessia, ma pur-che-sia, forma di equilibrio. Non mi hanno ancora spaccato la faccia (ma quanti travestiti sonno stati pestati? Quanti uccisi?); per intanto, dunque, la gente si limita a convertire l’angoscia suscitata dal mio ingresso nell’area della loro esperienza in reazioni di disprezzo e/o riso. Codesto processo di conversione avviene, ai miei occhi, in maniera buffa: se il travestito appare ridicolo a chi lo incontra, tristemente ridicolissima è per il travestito la nudità di chi, vestito tout court, gli rida in faccia. In tal modo è il travestito stesso a esperire, dal suo punto di vista e in prima persona, come il suo travestimento traduca nel comico la tragicità che è nella polarità tra i sessi. Rivelandoglisi la comicità tragica, egli assiste al dramma che interpreta. In effetti, si direbbe che il raggio interrogativo dello sguardo di chi mi osserva venga a rinfrangersi sulla mia figura di travestito, per finire col ribaltarsi e colpire, attizzandolo, qualche recondito focolaio di timore situato nella mente di costui. Il focolaio attizzato avvampa in risate (o in maniera equivalente); e ciò,

perfino nell’atmosfera seriosa del museo, non appena un qualche visitatore o una qualche visitatrice si renda conto che lei, distinta ed elegante, la moglie del presidente, altri non è se non un maschio truccato e in gonnella. Il visitatore (così come la stragrande maggioranza dei visitatori di questo mondo) è schiavo il più delle volte disgraziatamente inconsapevole delle limitazioni connesse all’antitesi tra i sessi. La disposizione originariamente «polimorfa e perversa» (per adattarci a usare l’espressione freudiana) della sua sessualità è stata condannata e repressa nel corso della sua infanzia, affinché il peso della condanna a poco a poco lo calasse nell’inferno che è il mondo degli adulti e di cui quello dei bambini non è che l’anticamera. Repressa, e cioè compressa e anchilosata, la presenza di tale disposizione sessuale tendenzialmente polimorfa è stata relegata alla severa prigionia dell’inconscio, simile a un piede femminile cinese costretto all’angustia e alla tortura delle calzature dei secoli imperiali. A guardia delle muraglie censorie di questa prigione, da ogni singolo individuo sono stati interiorizzati i valori e i costumi sessuali maschili-eterosessuali imposti quali unici, «naturali» ed eterni dalle società patriarcali, e nel nostro caso, dalla società capitalistico-patriarcale. A causa di ciò, il visitatore del museo si scopre in manifestazioni di angoscia in presenza della moglie del presidente, e cioè di colui che, vestendo se stesso e il proprio sesso degli attributi storici esteriori del sesso opposto, focalizzi, interpretandolo, l’assurdo legato alla differenziazione tra i sessi e alla sua assolutizzazione ideologica: differenziazione che si fonda sulla soggezione del sesso femminile da parte di quello maschile e la cui assurdità, assunta dal potere patriarcale a raziocinio della propria cultura, riposa sulla repressione della sessualità e sulla relegazione forzata dell’inconscio dei potenziali in essa sovversivi rispetto alla norma (normalità, legge) che a tale potere è funzionale. Il visitatore, ridendo, reagisce all’intuizione di codesto assurdo, che è così come in ogni essere umano – in lui stesso e che il travestito, che all’improvviso gli si para dinnanzi, nell’assurdità

della sua apparenza esteriore esteriorizza. Ma, di nuovo, anche in questo caso il riso è a sua volta sintomo della convulsione interiore e recondita. A lungo andare, esso provoca la formazione di rughe sul volto, e il volto è il ritratto di Dorian Gray come di ogni anima che incartapecorisce di denaro. L’incontro col travestito risveglia angoscia perché scuote dalle fondamenta, in chi lo vede, la forzata staticità delle categorie rigidamente dicotomiche che cristallizzano la dualità tra i sessi, categorie sancite e conculcate nella mente di ognuno dalla società patriarcale, fondamentalmente tramite la mediazione famigliare che propone fin dal principio al bimbo la contrapposizione della figura materna e di quella paterna, incarnazioni sacre dei sessi nel loro rapporto di serva-padrone. Sui modelli dei genitori egli forma e stabilisce la sua concezione dell’«Uomo» e della «Donna», dell’uno come virilità e potere, dell’altra come femminilità e soggezione. A questi modelli, che lo vincolano a sé grazie alla sacralità dell’ordito dei legami famigliari determinando la sua personalità, egli adatta la concezione di ogni singolo essere umano che, nel corso della sua vita, incontra oppure soltanto pensa: egli non si imbatterà che in «uomini» oppure «donne», perché non sa immaginare che «uomini» oppure «donne». Anche nel suo sesso egli non sa riconoscere che l’«uomo» oppure la «donna», malgrado e a causa della sua formazione nel contesto della famiglia, in cui la sua misura esistenziale è determinata dal rapporto sia col padre che con la madre e fondamentalmente dalla priorità della relazione fra di loro rispetto ai rapporti di loro entrambi con lui. Il figlio della relazione di serva-padrone tra i due sessi riconosce in sé un unico sesso. Questa unicità non suola alla sua ragione contraddittoria rispetto all’evidenza del fatto che egli sia nato dalla fusione dei due sessi: infatti la sua nascita stessa procede dalla negazione totale del sesso femminile a opera dell’unicità del fallo come sesso e del suo potere; ove questa negazione medesima si basa sulla contraddizione dei sessi, che, in ossequio al potere del fallo, non deve apparire contraddittoria, e pertanto viene assunta a razionale (il che né giustifica l’ipostasi).

Ma il fallo non coincide con il pene, malgrado sia strettamente legato ad esso; il pene distingue il maschio e il fallo è l’assolutizzazione patriarcale dell’idea che il pene incarna; fallica è la forma che assume la sublimazione ideale del potere: ma concretamente questa sublimazione è retta dalla repressione della sessualità, che è repressione dei corpi e dello stesso pene, e che dipende dalla repressione della femminilità (cioè, storicamente, della donna). Paradossalmente, si può affermare (in questa società in cui la verità è paradossale, perché capovolge la razionalità ideologica): il potere del fallo si regge (anche) sulla repressione del pene. Dalla negazione del sesso femminile nel rapporto eterosessuale nascono individui di sesso maschile o di sesso femminile, gli uni sessuati (perché portatori del pene, veicolo corporeo dell’unico sesso secondo l’assenza della concezione patriarcale, il fallo), le altre eunuchi femmina: aut-aut. Questa è la tragedia naturale: il visitatore del museo non sopporta che la moglie del presidente, e cioè il travestito, ne denunci l’aspetto grottesco, commettendo sacrilegio nel confondere la sacra opposizione dei sessi, dal momento che combina in sé entrambi i sessi perché osa applicare la femminilità ridotta ad apparenza alla realtà di sé maschio. Distinta ed elegante, la moglie del presidente compie un peccato gravissimo che grida vendetta al cospetto del Fallo. Tutto ciò è drammatico, e questa volta dal punto di vista del visitatore del museo: egli non tollera che la presenza di un clown sulla scena riveli che ciò che stiamo recitando è una tragedia.

LA FEMMINILITÀ CONDANNATA A MORTE1

Qualora sia maschio, il figlio del rapporto tra i due sessi sarà costretto a reprimere la femminilità in se stesso secondo il modello virile del padre, nella sua relazione con la madre, esegue l’annullamento della soggettività sessuale di costei, annullamento cui ella era stata condannata fin dalla nascita, in quanto, dal

punto di vista patriarcale, femmina perché sprovvista del pene; fin prima della nascita, poiché da millenni vige la repressione della femminilità, della donna. Nel suo rapporto sessuale con la madre, il padre assolutizza il ruolo passivo della femmina, la sua funzione di buco-ricettacolo del fallo di cui egli è invece provvisto e che è il sesso unico, evidente, agente, nella cui forma simbolica è alienata la sessualità femminile e intera: ciò appare agli occhi del figlio in questa come in tutte le altre manifestazioni della relazione tra i genitori, rapporto di coppia eterosessuale. Qualora sia femmina, la figlia del rapporto tra i due sessi sarà condannata a riconoscersi nello stereotipo della femminilità come negazione della sessualità femminile e ciò mediante l’educazione che la obbliga a identificarsi col modello servile della madre, educazione che è occultamento della clitoride: la clitoride non deve esistere perché la dimensione della sessualità femminile è sottomessa, nel contesto patriarcale, alla sessualità maschile che è l’unica vera e che le è altra, per cui la sessualità femminile non esiste se non in quanto sottomessa; cioè non esiste in sé e per sé, ma altra da sé per l’altro. Non esiste. Maschio e femmina verranno educati a concepire il fallo come pieno potere e la vagina come vuota soggezione senza clitoride. In nome del fallo, il maschio sarà costretto a obliare il vuoto del suo buco del culo, mediante negazione della sua pienezza erotica. Vergognandosi del suo buco del culo perché buco, e pertanto presenza di un’assenza quanto la vagina nella donna, egli arriverà a concepirlo come assenza di una presenza: cioè, gli sarà totalmente alieno il riconoscimento della disposizione erotica del suo ano, e riterrà estrema vergogna e disonore massimo la sessualità riconosciuta in esso ed esercitata su di esso. Il sentimento patriarcale dell’onore scaturisce dalla vergogna. «Va’ a da’ via il cul», dicono. Costretto a uccidere la femminilità in se stesso per sottostare al modello imperativo del padre, il maschio non potrà amare l’altro sesso in quanto sesso perché, qualora lo facesse, riconoscerebbe la presenza sessuale femminile, in essa rispecchiando la femminilità presente in se stesso. Egli amerà

l’altro sesso soltanto in quanto nullità e buco, e in tal modo non lo amerà: tenderà piuttosto a sottometterlo, così come ha in sé sottomesso alla virilità le presenze della femminilità negandole. L’amore patriarcale non è amore: nemmeno l’amour di Marx pour la bien aimée, Jenny von Westphalen, mentre l’amour di de Sade per le sue vittime è amore patriarcale. E d’altronde: che cos’è l’amore se non proprio l’amore patriarcale nella sua contraddittorietà? La parola «amore» è stata cantata invano per secoli, nel tentativo di riscattare col sentimento la donna schiava nella realtà. Beatrice è una chimera intellettuale maschile, ma chi era la donna di Dante? L’amore patriarcale sancisce la negazione dell’amore, istituzionalizzandola nella norma eterosessuale, e cioè in quella normalità che è la legge dell’unicità sessuale del fallo, e condannando l’omosessualità perché confronto e relazione di sessi a discapito dell’unicità sessuale del fallo nell’ambito del rapporto eterosessuale: unicità che deve apparire l’unica possibile espressione della sessualità, in quanto espressione sessuale assolutamente funzionale al potere. L’omosessualità che, ponendosi quale alternativa, la relativizza con ciò negandola (non si relativizza l’Unico senza negarlo), viene condannata quale crimine contro natura dal diritto patriarcale, secondo il quale la naturalità si identifica con la legge del fallo, che esso codifica e sulla cui violenza è fondato. «Ogni violenza è, come mezzo, potere che pone e che conserva il diritto»2. Per quel che concerne l’omosessualità maschile, mentre la condanna, la legge fallica tende a caratterizzarne le manifestazioni storiche: l’omosessualità maschile è fallocrate in quanto è repressa; oppure, nei rari casi in cui certe sue espressioni, come la pederastia nell’antica Grecia, vengono considerate normali, ciò accade perché in esse l’omosessualità si manifesta in maniera sufficientemente fallocrate. Oggi, l’aspirazione comunista alla liberazione completa del desiderio omosessuale non è nostalgia dell’amore greco pederasta: è volontà di conseguire una nuova comunicazione sentimentale e corporea ricchissima tra tutti gli esseri umani; di contribuire, con

la liberazione della componente omosessuale del desiderio, alla liberazione della sessualità. Comunque, incidentalmente è il caso di notare che ben poco sappiamo a proposito dell’omosessualità nella società greca antica: chi, per esempio, ha finora interpretato Platone da questo punto di vista? È vero che, anche per quel che concerne la repressione dell’omosessualità, «la storia procede spesso a salti e a zig-zag, e si sarebbe dovuto tenerle dietro dappertutto, il che avrebbe obbligato non solo a inserire molto materiale di poca importanza, ma anche interrompere spesso il corso delle idee»3. Ora, la legalità patriarcale dello sguardo del visitatore del museo coglie nella moglie del presidente il crimine omosessuale (travestitismo = omosessualità); e ciò anche se la mia esperienza di membro del Transvestites & Transsexuals Group del Gay Liberation Front londinese testimonia che una larga percentuale di travestiti è prevalentemente o esclusivamente eterosessuale; e anche se la legalità patriarcale che condanna il travestito appartiene agli occhi di tutti quegli omosessuali che farneticano anatemi contro il travestitismo e la checcaggine in preda ai furori del senso di colpa della loro omosessualità: senso di colpa che li ingombra al punto di indurli a idealizzare la figura del «vero maschio omosessuale», così come la milizia delle SS omosessuali sterminava nei campi di concentramento nazisti i triangoli rosa omosessuali. Lungi dall’uccidere il padre per poi sposare la madre, il figlio maschio uccide piuttosto in sé la femminilità per identificarsi col padre. Indi sarà costretto ad accecarsi rimuovendo nelle tenebre dell’inconscio la visione della tragedia che egli è stato costretto a compiere, affinché nel buio stabilito dal destino patriarcale la femminilità condannata a morte non resusciti. All’amore struggente e impossibile per la madre egli legherà tutto il rimpianto e il rimorso per l’accaduto: di Mamma ce n’è una sola perché la femminilità è stata assassinata e, con essa, la possibilità stessa dell’amore è morta. Nella tragedia di Edipo egli non farà che rievocare capovolta la tragedia occorsa: tragedia che era già nel destino di Laio, destino

che coinvolge Giocasta e viene compiuto dal figlio. Per Freud, l’eterosessualità è «soluzione normale» del complesso di Edipo. L’omosessualità, che è risposta invertita alla tragedia, viene condannata e emarginata perché a essa è connesso il rischio, per il potere patriarcale, che i fantasmi autentici della tragedia appaiano insieme alla sua versione autentica, l’unica che può venire automaticamente cancellata e soltanto così risolta. L’omosessualità è rapporto tra individui dello stesso sesso: fra donne, essa dichiara l’esistenza autonoma e indipendente dal fallo della sessualità femminile; fra uomini, per quanto storicamente impregnata di fallocratismo, l’omosessualità duplica l’unicità sessuale del fallo, in tal modo negandola, e svela la disponibilità dell’ano al coito e al piacere erotico. L’unione di corpi maschili, e, paradossalmente, l’unione dei peni, ridimensiona l’astrazione ideale del fallo; in certi casi in effetti la supera; ma l’omosessualità maschile può essere anche doppiamente fallica ove, repressissima, scimmiotti senza riserve i modelli eterosessuali: «Un maschio che ne chiava un altro è un maschio doppio»4. In tal caso il rapporto omosessuale tra uomini è incomunicabilità alienante nel contatto erotico: fintanto che l’omosessualità viene considerata aberrazione e trattata socialmente in quanto tale, essa può anche tendere ad autogiustificarsi adeguandosi appieno alle leggi del potere maschile, facendosene addirittura paladina. Le donne omosessuali stesse vi sono spesso costrette: ne è immagine emblematica lo stereotipo della lesbica in doppietto col monocolo.

GLI INTERPRETI TRAVESTITI

Come nella tragedia greca i ruoli femminili venivano interpretati da uomini vestiti da donna, così il travestito odierno interpreta il ruolo femminile impersonando la tragedia attuale e di sempre.

La tragicità dell’universo patriarcale è camuffata in norma naturale e morale: il travestito interviene a far luce su di essa mediante il suo camuffamento. Sia che egli finisca sciaguratamente accoltellato dall’amato sfruttatore sul ballatoio del suo quartierino squallido, sia che più comodamente egli infervori i pubblici della Grande Eugène, di Danny La Rue o della Mabilia5 in forza della sua arte di commediante, egli non fa che raccontare la sua storia di martire in cui si misura il martirio cui l’umanità intera è andata soggetta da sempre: un sempre fondato sulla rimozione storica nel passato remoto e su quella individuale e collettiva nelle tenebre dell’inconscio. L’antitesi tra i sessi risale alla dissoluzione della comunità primitiva, che era matriarcale secondo la teoria englesiana. Ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884) Engels afferma che, con la caduta del matriarcato, «la prima oppressione di classe che si manifesta nella storia coincide con l’oppressione del sesso femminile da parte di quello maschile»; si può aggiungere che questa prima oppressione di classe fece da elemento cursore della cerniera dialettica delle classi via via nella storia: infatti, se lo sfruttamento del proletariato mediante l’estorsione del plusvalore e il dominio della legge del valore fondano la specificità storica della società capitalistica, la soggezione del sesso femminile a quello maschile determina la specificità patriarcale della storia della dissoluzione della comunità primitiva a oggi. La società capitalistica è patriarcale: questo mondo pertanto non ci appartiene doppiamente, in quanto appartiene al capitale e al fallo. Così l’ideologia capitalistica è patriarcale: il travestito, che osa beffarsi della legge del fallo confondendo la rigida differenziazione tra i sessi che la codifica e su cui essa si basa, in ciò ridicolizza l’ideologia borghese stessa. Il capitale si adopera al suo recupero, mercificando – nel migliore dei casi – la sua arte di commediante e relegando insieme a lui sui palcoscenici il ridicolo del ridicolo, affinché le platee si abituino a riderne e a riderne solamente6. Oppure, ben più ferocemente si vendica, riducendo il travestito alla prostituzione e cioè riducendo a merce il rischio connesso alla sua iniziativa di travestirsi: a merce, e cioè a

oggetto, a carcassa umana in balia di tutti i rischi e della persecuzione poliziesca. Non potendo fare dell’individuo che si traveste il paladino della sua norma sessuale, il capitale lo investe di ruoli sociali che lo additano al riso e/o al disprezzo di chiunque. Vestendosi da donna, un uomo non risolve l’antitesi tra i sessi in una sintesi che è superamento dialettico: egli non fa che mettere in luce quest’antitesi, abbigliandosene. In ciò fondamentalmente consiste la verità segreta del travestitismo e il potenziale della sua dirompenza rivoluzionaria7. La stragrande maggioranza dei travestiti ne è ancora inconsapevole. Schiavi dell’ideologia patriarcal-borghese alla quale si contrappongono, molti di essi, qualora siano omosessuali, si travestono fantasticando alla moralità eterosessuale; essi si sforzano di apparire e cioè diventare donne nel contesto storico sociale in cui la femminilità è ridotta ad apparenza, al fine di addormentare la colpa, che è stata associata all’omosessualità del loro desiderio, nel sogno di una vita in regola con i canoni della cultura dominante, che è eterosessuale. Spesso, le sale operatorie di Casablanca8 rappresentano il miraggio ideale (e purtroppo nel contempo realmente esistente) nel deserto della loro alienazione. Travestendosi, essi intraprendono la scalata del Monte Analogo, auspicando di conseguire, attraverso l’analogia della loro apparenza con quella femminile, l’assoluta identità col sesso opposto: ma il Monte Analogo esiste soltanto nella fantasia di Daumal9 fintanto che egli non muore senza averne conquistata la vetta, così come esiste solamente nella loro. Il loro sogno prima o poi si rivela un incubo. Infatti, come il più delle volte accade, la società li costringe alla prostituzione per la sopravvivenza10: l’omosessuale che si illuda, travestendosi da donna, di riscattare la propria omosessualità rimettendone la colpa, subisce immediatamente il castigo della femminilità vuota e stereotipata, ridotta a un buco, feticcio, oggetto di scambio. Ciò malgrado, non è da dimenticare che il travestito rimane contemporaneamente sostenuto, anche se al tempo stesso combattuto dentro di sé, dalla tenace persistenza di quei privilegi maschili, di cui se non altro psicologicamente egli è pur sempre

armato: anche se si tratta di privilegi squallidi, meschinamente gratificanti, che rivelano il fondo della loro contraddittorietà nella condizione sommamente contradditoria del travestito, condizione contraddittoria anche se fondamentalmente maschile. In questa situazione di duro conflitto esistenziale, di «coscienza infelice» travestita, il salto che conduce all’autocoscienza e alla presa di posizione rivoluzionaria si rivela assai arduo e implica un dispendio di forze e un coraggio direttamente proporzionali rispetto alla quantità di oppressione e umiliazione che il travestito, in quanto omosessuale, travestito e prostituto, subisce. Al contrario, l’avvilimento che in genere consegue alla persecuzione sociale e sessuale affievolisce nell’animo del travestito le facoltà di reazione e il coraggio indispensabile a reagire, dal momento che volge gran parte del potenziale energetico in angoscia, sicché quel tanto che ne rimane viene costantemente impegnato nella lotta per la sopravvivenza, rivelandosi in casi non rari avventuratamente insufficiente. Il travestito si ritrova in balìa della contraddizione tra la scelta da lui compiuta nell’intenzione di vivere meglio e il fallimento progressivo della sua vita: contraddizione che spesso inasprisce il suo carattere e lo chiude nel vicolo cieco di un tipo di esistenza da cui non si può retrocedere. Tuttavia, in concomitanza con la formazione dei movimenti omosessuali di liberazione, vi sono travestiti che sono scesi in lotta incominciando a prendere coscienza politica, e a volte rivoluzionaria, della loro condizione. In California ciò si verificava già all’inizio degli anni ’6011; e fu nel giugno 1969 che i travestiti di New York parteciparono in gran numero agli scontri degli omosessuali con la polizia che diedero vita, nel corso dell’estate di quell’anno, al Gay Liberation Front. Il Gay Liberation Front inglese, sulla scia di quello americano, introdusse anche in Europa forme di travestitismo politico, pur occupandosi al contempo dell’organizzazione di gruppi di travestiti «tradizionali». In Francia, la compagnia di travestiti radicali delle Gazolines ha costituito a lungo l’ala più avanzata del FHAR (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire), prima dell’effettivo disfacimento del fronte (1974). In Italia spicca

l’eccezionale figura di Monica Galdino Giansanti, il travestito e prostituto marchigiano che, entrato in contatto con FUORI!, dalle pagine del periodico del Movimento omosessuale di liberazione italiano esortò i travestiti alla presa di coscienza e alla rivolta. Per Monica, che conosco personalmente, provo una simpatia e una stima profonde; tuttavia spesso mi trovo in disaccordo con lui; vi sono degli evidenti pregiudizi che inceppano la sua vita e la sua sessualità e che egli si direbbe rifiutare, per il momento, di sospendere. Vale la pensa di dire due parole a proposito, visto soprattutto che le sue problematiche e i suoi «pregiudizi» concernono moltissimi altri travestiti. Monica afferma di non avvertire attrazione sessuale per altri omosessuali, ma esclusivamente per uomini eterosessuali: così egli definisce coloro che, pur facendo all’amore con lui, si considerano appunto esclusivamente eterosessuali12 e lo desiderano in quanto vestito da donna e dotato di seni (Monica possiede un paio di seni in silicone). Facendo dello spirito sulla pretesa «eterosessualità» senza macchia, egli sembra avvedersi dell’assurdo che è nei suoi rapporti con questi uomini, ma al tempo stesso non si direbbe che lo interpreti quale limitazione e alienazione. «Non farei mai all’amore con un omosessuale», Monica mi ha confidato e ripetuto più volte. È vero che è difficilissimo dominare i «fantasmi» dell’attrazione erotica13; d’altro canto è purtroppo anche vero che pochissimi tra gli omosessuali manifesti farebbero all’amore con un travestito; tuttavia una dichiarazione di questo tipo suona inattesa in bocca a chi, come lui, contesti l’oppressione che, in quanto omosessuale e travestito, subisce, e lotti, per questo, contro la società che condanna omosessualità e travestitismo in maniera esplicita e implicita: è come se egli non si rendesse conto che proprio quest’oppressione, da lui interiorizzata, lo induce a trascendere, e cioè negare, la sua omosessualità, indossando a tempo pieno lo stereotipo femminile, che appunto gli permette di andare a letto con degli eterosessuali e pertanto di avere rapporti sessuali che, essendo lui «donna» e loro «etero», eterosessuali sono o quanto meno appaiono. Se la femminilità è ridotta in apparenza,

l’eterosessualità può venire ridotta ad apparenza: sotto le sue sembianze si cela la realtà omosessuale del rapporto e l’oppressione dell’omosessualità, che anche in questo caso rimanda all’oppressione della donna. L’eterosessuale che va con Monica, infatti, si lascia eccitare dall’uomo che sta dietro il feticcio della donna: da una parte, nella sua concezione maschilista la femminilità è ridotta a feticcio, e pertanto lo eccita soltanto feticisticamente, e cioè in quanto oggetto, buco; d’altro lato, ciò che in fondo lo interessa è di rapportarsi narcisisticamente soltanto con se stesso, seppure in maniera alienata, attraverso fantasie e gratificazioni falliche: ciò che in realtà lo eccita è solamente il suo sesso, ed è il suo stesso sesso che egli desidera sotto la sottana e i belletti del travestito, ai suoi occhi feticisticamente e cioè «femminilmente» attraenti. Prostitute e travestiti in tenuta da battimento sono in tutto e per tutto simili limitatamente all’aspetto esteriore. L’eterosessuale che va con Monica non ammetterà mai di desiderare in lui l’uomo, poiché la componente omosessuale del suo desiderio è repressa, sebbene venga a galla tramite i sotterfugi della conoscenza (o, sarebbe più giusto dire, dell’incoscienza…). È questa medesima oppressione dell’omosessualità, subita e interiorizzata da Monica, che gli vieta di desiderare gli altri omosessuali, i quali, come lui, portano in volto il marchio dell’oppressione: se la maschera dell’eterosessuale nasconde la repressione dell’omosessualità, il volto dell’omosessuale, il suo modo di fare, manifestano apertamente tale repressione. E ciò è quanto Monica non può desiderare: non può desiderare gli omosessuali come lui perché troppo evidentemente martoriati da quella tortura che distrugge lui stesso, lancinante come una spina conficcata nel suo cuore e nel suo cervello, mascherata dai belletti della sua faccia. Se il maquillage denuncia la schiavitù della donna, esso serve almeno intenzionalmente a celare quella dell’omosessuale sul volto del travestito. Isabel, un travestito milanese intervenuto per qualche tempo alle riunioni di FUORI!, trascorre ogni pomeriggio quattro ore

davanti allo specchio per truccarsi accuratamente e sapientemente da donna e raccogliere le forze per uscire, splendente, in serata: quattro ore quotidiane di metamorfosi trasformano Cesare in Isabel, la checca repressa in bellissima «donna», il brutto anatroccolo in cigno. Si tratta della cerimonia rituale che Cesare celebra di giorno in giorno per poter vivere: indi, ogni sera, compiuto il miracolo, egli si vede costretto a prostituirsi per poter sopravvivere. L’oppressione di Monica in quanto omosessuale e della componente omosessuale del desiderio nei suoi partner è troppo severa perché essi possano desiderare apertamente un rapporto omosessuale: a loro è concesso di dare adito alla loro omosessualità solamente attraverso la parodia del rapporto eterosessuale. E in questa parodia, essi recitano la tragedia della repressione sessuale.

IL DIVERTIMENTO E IL RISCHIO

La moglie del presidente si diverte: mi diverto a imboccare e percorrere itinerari avventurosi che farebbero inorridire mio padre. Mi diverto a fare all’amore, all’ombra di un gruppo scultoreo ellenistico, con lo studentello fresco di età e di stupore che marina la scuola: e che io ho pedinato, attraverso il succedersi delle sale del museo, fino ad avvicinarlo in una galleria deserta, abbracciarlo e baciarlo per poi svelargli, sotto la mia veste, la sorpresa di un paio di coglioni e di un uccello, in luogo della coppia di seni e della vagina previste e attese. Mi diverto e nel contempo analizzo i modi della mia emozione e della sua, l’affermarsi della gioia nei suoi occhi in cui si contempla la mia, il risveglio del sogno in questa situazione di veglia che è sogno. Entrambi godiamo la possibilità di un avvenimento impossibile. Essa ci allaccia in legame così intimo, che io avverto la presenza di questo ragazzo rivelarsi sincera come se egli si trovasse a tu per tu con se stesso, mentre mi bacia e, senza parlare, non

nasconde con gli occhi la gioia grande di liberare il suo desiderio omosessuale nel segreto di questa situazione imprevista. Si direbbe che egli abbia smesso la forzata maschera schizoide, una volta disvelata la vera faccia del mio corpo dietro la copertura del mascheramento che mi sono scelto. Il travestitismo, dunque, può essere gioia e divertimento; e spesso il godimento di far scaturire l’omosessualità soffocata, nel cuore degli eterosessuali, dall’imperativo della norma. Ma gli eterosessuali che si incontrano possono essere anche estremamente fallocrati. Qui, per il travestito, può subentrare il gusto del rischio. In altra occasione, e in compagnia dei miei migliori amici travestiti, Denis e Ulysse agghindati in severi tailleur neri ed eleganti – il filo di perle e un foulard al collo – mi capita di sottostare al volere di una banda di rocker Hell’s Angels, angeli dell’inferno robusti e procaci, rivestiti di cuoi e di borchie, che, dalle selle dei loro centuari, ci rivolgono l’invito perentorio a seguirli nel loro covo sordido, fingendo, coerentemente con la loro messinscena, di prestar fede alla nostra e cioè di credere che noi si sia donne. Qualcosa ci induce a correre il rischio: il compimento dell’atto rischioso seda temporaneamente la tensione della nostra angoscia. Un’angoscia che quasi sempre ci accompagna, espressione del senso di colpa radicato nei nostri cervelli a opera di quel doloroso adeguamento alla marginalità di condannati, nella cui angustia siamo stati relegati e costretti dall’onore dominante e ingombrante della norma sessuale: senso di colpa che aborriamo e intendiamo estirpare e che la nostra presa di coscienza e il nostro rifiuto riducono progressivamente, ma non bastano, almeno fino a oggi, a sgominare. Il senso di colpa ci induce spesso al masochismo: il piacere, o una forma palliativa di piacere, può venire conseguito attraverso la punizione di «quella colpa». In questa categoria di piacere rientra probabilmente il gusto misterioso eppure indubbio per il rischio. Una componente masochistica del travestito, nelle sue «belle gesta» così come nel coraggio con cui osa affrontare il pericolo; ciò che equivale ad affermare che i travestiti, a causa delle particolari condizioni

repressive in cui vivono, sono fra le persone che evidenziano in maggiore misura le componenti masochistiche del loro carattere. Denis, Ulysse e io sappiamo che, attraverso l’esperienza rischiosa, è possibile comprendersi più profondamente: una volta prigionieri dello squallido antro degli Hell’s Angels, in piedi sul letto con le spalle rivolte al muro, eseguiamo il loro comando, spogliandoci. Ci spogliamo colpiti dal ritmo aggressivo scandito dalla musica rock come dalla gragnuola senza tregua di una mitraglia, di fronte al plotone di esecuzione dei loro sguardi taglienti, delle loro presenze massicce e rischiosamente imprevedibili. Questo spogliarello è un’agonia: slacciarci le camicette sui nostri toraci piatti è morire. Non esiste scampo a questa morte: sbottonandoci, non possiamo evitare di disvelare la nudità fragile ma maschile dei nostri petti. Ormai l’atto necessario è stato compiuto: ora si può rivelare tutta intera la dimensione del rischio in cui, cedendo a tentazione, abbiamo scelto di incorrere. Ed essa si rivela nulla. Nel complesso, abbiamo dato prova di quel coraggio che piace ai rocker; soddisfatti, essi si complimentano con noi, concedendoci pure di divertirci. Addirittura si producono in gentili apprezzamenti circa la perfezione del nostro travestimento, proponendoci infine di farci da cavalieri, in serata, a un concerto. La sessualità repressa del rocker è sublimata nel mito della virilità feticistica e dell’impavido coraggio: per questo egli ammira nel travestito l’uomo che, adeguando la propria apparenza al mito virile della femminilità feticistica, riscatti la propria debolezza dando prova di impavido coraggio. Forse il travestito rappresenta il partner ideale per il rocker: il primo, camuffato da donna, perfettamente s’accoppia al camuffamento da super-uomo del secondo. Nel caso del rocker, l’omosessualità repressa negli abissi dell’inconscio può venire a galla soltanto mediante la messinscena di un rapporto che finga con esattezza di essere eterosessuale, combinando assieme gli estremi ideali dell’eterosessualità nell’estremo della loro finzione: e cioè la coppia eterna dell’uomo totale e fallico e della femminilità inesistente in quanto ridotta ad apparenza.

Ma, se siamo andati con i rocker, non è stato soltanto per il gusto del pericolo. I rocker ci facevano fantasmare moltissimo. In forza dell’interiorizzazione forzata della regola eterosessuale e della costrizione del nostro desiderio erotico ad essa, pochi altri riescono a farci fantasmare altrettanto. Il godimento più intenso della sessualità repressa è un intenso mulinello di fantasmi. Senz’altro ho anch’io almeno in parte i gusti di Monica ed è certamente per ciò che riesco a interpretarli abbastanza a fondo. Ma non ho solo questi gusti: e inoltre aspiro alla liberazione dal vincolo ad essi, all’emancipazione totale dal gusto fallico, così come aspiro alla liberazione della sessualità e all’emancipazione umana. Il punto è che non ci si sazia del frutto proibito senza coglierlo; se esso si rivela cattivo una volta, sarà più facile non incorrere nella tentazione di coglierlo di nuovo ove ti si ripresentasse a portata di mano. Ma il problema è in verità intricatissimo e la difficoltà di risolverlo è proporzionale all’alienazione, evadendone: tuttalpiù, un mirabile camuffamento mi potrà condurre a flirtare con le sentinelle che, personificazione e strumento della legge che le sottomette, montano a guardia dell’invalicabilità di queste barriere di confine. L’estremo dell’evasione esperibile è amaro godimento. Voluttuosa e bellissima apparivo alla festa organizzata dal Grand Magic Circus nel teatro della Round House di Londra la notte del 28 febbraio scorso. Indossavo un travestimento indovinato e leggiadro e mi rendevo conto di piacere parecchio a molti dei ragazzi e delle ragazze presenti. Fra tanti «pretendenti», avevo scelto di rincasare con quello che mi appariva il più bello e sensuale. Ci piacevamo intensamente l’un l’altro. Ballando stretto a lui, mi sentivo felice; il nostro bacio era un boccone prelibato che gustavamo partecipandocene il sapore a vicenda. Il suo nome era Peter; io, gli avevo detto di chiamarmi Maria. Più tardi a letto, la nostra intesa amorosa si scopre ricchissima. Un pompino reciproco precede l’acceso godimento di entrambi nel coito. Tuttavia, inculandomi, egli sussurra fallocraticamente: «Il tuo culo è più stretto di una vagina».

E poi, appena venuto, si ritrae da me con repentina rigidezza: un senso immediato di grave pentimento l’ha incolto. Tutto si capovolge: il caldo pathos, in cui mi ero illuso consistesse la nostra comunicazione, si dilegua di colpo; ad esso succede il gelo di un’incomunicabilità tanto più agghiacciante quanto inaspettata e patetica. «Fintanto che non ti sei spogliato non mi ero accorto che eri un ragazzo», egli mi spiega con una violenza trattenuta dall’improvvisa distanza apertasi fra di noi. Un tremito nella sua voce denuncia lo sbalzo di temperatura: «Io sono normale. Ero convinto che tu fossi una donna. Il tuo sesso non mi interessa, non può piacermi: ora bisogna che me ne vada». Esterrefatto prima che frustrato, mi vedo costretto a credere all’incredibile. Egli mi abbandona di scatto, mentre avverto come un peso la mia erezione e l’orgasmo di cui non ho ancora goduto. Egli distoglie da me perfino lo sguardo: mi masturbo osservandolo mentre si riveste frettolosamente. Vengo in preda ad affannoso avvilimento. Nel suo comportamento intravedo il baleno della vendetta: egli si vendica della gioia che ho osato procurargli; vendicandosi, egli tenta di espiare la colpa che questa gioia ha osato negare, commettendola, nella tensione dell’attrazione erotica culminata nella felicità dell’orgasmo. «L’orgasmo è un istante paradossale del più intenso piacere e della fine del piacere»14. In questo istante la negazione del senso di colpa, determinato dalla repressione della componente omosessuale del desiderio in lui, si trasforma, paradossalmente, in peccato commesso. L’orgasmo risveglia Peter dal sogno del piacere omosessuale che immediatamente la sua voglia categorizza quale incubo: l’incubo di aver goduto realmente in un rapporto erotico con un altro uomo, il terrore di essere evaso realmente dai confini di quella norma che è legge del suo equilibrio normale, basato sull’occultamento e sulla conseguente negazione cieca e totalitaria dell’omosessualità in lui. Attraverso la trasparente pienezza del godimento, Peter intravvede il pieno capovolgimento del suo equilibrio opaco e normale; gustando il sapore della vertigine, egli s’avvede con orrore di essere scivolato fino agli orli

del precipizio. Come bendato dal mio travestimento, egli teme di essersi lasciato condurre troppo in là, al limite dello strapiombo e del vuoto: il vuoto è alito inebriante di Afrodite; l’abbandonarsi ad esso è da lui concepito come caduta. Volare è precipitare. Così, con l’orgasmo, egli esperisce la massima voluttà del suo uccello e gli pare di avere toccato il fondo: non gli è più possibile precipitare oltre, altrimenti il suo ego normale si schianterebbe. Ora, bisogna che questo volo sia consistito in un sogno affinché egli possa ridestarsi da questa caduta come da un incubo. Tuttavia il risveglio censorio della coscienza non basta a risollevarlo dal fondo toccato inconsciamente: egli sa perfettamente e senza rimedio che la buona fede con cui è incappato nella trappola del mio travestimento non è che l’altra faccia, quella apparentemente consapevole, della malafede con cui si è lasciato ingannare circa la natura del mio sesso, inconsapevolmente, ma realmente, desiderandolo. In questa impossibilità effettiva di risollevarsi dalla libertà esperita e memorizzata comunque, anche attraverso rifiuto, sta il minimo e il massimo grado positivo di questa avventura per Peter: il seme della liberazione, suscettibile di sviluppo. Poco dopo la sua partenza io mi sono addormentato. Quel che mi accingo a raccontare è quanto ricordo di un sogno, seguito di lì a poco.

IL SOGNO DELLA FIRST LADY

Partecipavo alla festa notturna della Round House. Avevo molto successo, ma insieme avvertivo un fondo agrodolce di amarezza per non essere in grado di frenare la felicità che scivolava via col tempo. Godendone, la sua essenza mi si rivelava inafferrabile: o inafferrabilità la sua essenza. Ero vestito da donna: un abito nero scollato col lungo spacco lungo la coscia sinistra, le calze di nylon grigio, le scarpe nere eleganti di mia madre, un ciuffo abbondante di piume bianche e nere su una spalla. Il mio aspetto era

decadente perché trasferito nel tempo: la finezza botticelliana del mio viso e della mia nudità appariva trasfigurata nella fine sembianza dell’abito da sera degli anni ’40. A tutti piacevo, ma non sapevo sposare per sempre il loro piacere al mio desiderio. La gioia era un guizzo negli occhi. Nella penombra si muove il mio amico Gianni; anche lui si è travestito e qualcosa che in fondo conosco borbotta nella sua vigile solitudine. Sento che è più infelice di me. Dall’ombra che mi sta alle spalle mi accorgo che egli esce con un altro. Da tempo non va a letto con nessuno, malgrado il suo bellissimo languore acquatico di cancro: qualcosa si direbbe begargli l’approccio. «Questa volta c’è riuscito», penso. Invece presto rientra; mi si fa incontro in lacrime e chiede: «Perché vogliono te? Credevo di piacere a quell’uomo e invece lui mi ha abbordato perché, sapendo che ti conoscevo, intendeva servirsi di me per arrivare a te. Dimmi che cosa amano in te». Mi levo per andare a interrogare quell’uomo in cerca di una risposta. Egli è un taxista molto basso che definirei nano se non lo fosse. Il bagliore delle sue pupille segue le mie mosse da lontano. Penso che sarebbe meglio spegnere le luci. Ma le luci più intense sono quelle della strada e indugio di lato a un semaforo rosso: una luce che non posso spegnere. Decido di recarmi da quell’uomo accontentandomi della semioscurità. Ma un cliente corre su dalla destra e mi precede, raggiungendo l’automobile in cui siede il taxista, prima che io sia giunto a metà percorso tra il semaforo ed essa. Dopo avermi rivolto un’ultima occhiata, il taxista sembra rinunciare a me e infatti carica su il cliente, facendolo addirittura accomodare alla sua destra. La macchina è mini-cab: eppure avverto che c’è un errore. Nel sogno non realizzo che si tratta del posto di guida: in Inghilterra è esso a essere situato sulla destra. Dal blocco della delusione si sprigiona il fiotto del dolore. E qui vi è un passaggio che non mi è concesso ricordare. Mi ritrovo su luogo ov’era l’automobile, di fronte a uno specchio che forse o meglio è il video di un cervello. Adagiato come me sulle ginocchia, a fianco mi siede un vecchio fra i sessanta e i settant’anni, non molto alto, abbastanza magro,

abbigliato seriamente di scuro: i suoi occhi mi rivolgono con l’ardente fissità di un cieco la domanda del desiderio. Nella penombra alle spalle gli altri seguono i loro fatti: col pensiero e lo sguardo considero simpaticamente anche e un poco ciascuno di loro. Gianni, Denis e Ulysse in tailleur, i travestiti radicali della comune di Bethnal Rouge15, altri. Più prossima a me, e quasi impercettibile dietro la mia schiena sebbene presentissima, sta accoccolata Fernande, un’amica con la quale ho fatto all’amore di recente. Ella segue ciò che sta per accadere. Sul video davanti ai miei occhi appaiono, rallentate in diapositive, come sequenze di trip LSD, di quelle che incolgono sul finire, particolarmente, quando si chiudono gli occhi. Questa volta si tratta di scritture nella loro struttura ideale. Scritture arabiche e varie grafie che osservo attentamente, nel tentativo di imprimerne nel registro della memoria le immagini. Ma a un certo punto una di esse afferma: UN BAMBINO SCHIZOFRENICO È UN PICCOLISSIMO PUNTO

Allora decido di parlare all’uomo che mi desidera e cerco di rivolgere a lui la domanda di Gianni e che io dapprincipio intendevo indirizzare al taxista. Mi illudo di poter costruire il mio discorso muovendomi da quell’ultima scritta apparsami, ma mi rendo conto via via di fallire e nell’approssimativa vaghezza con cui associo un brandello di idea al tentativo di un’altra. Non sono un medium della parola. Un po’ disgustato e scostante, l’uomo mi risponde: «Mi dispiace, non capisco l’italiano». Soltanto allora mi accorgo di essermi rivolto in italiano a lui che è inglese. Un certo rimorso mi impedisce di accertare immediatamente se egli mi abbia risposto in inglese o, possibilmente, in italiano. Ormai, egli non mi guarda più in faccia: come per silenzioso accadimento un altro è spuntato fra le sue braccia. Si tratta di un altro vecchio, che gli è come simile e al tempo stesso opposto. Nudi, essi giacciono così simmetrici l’uno accanto all’altro nel contatto del pompino contemporaneo e reciproco, che la loro

reciprocità totale è nel contempo nulla. La simmetria dei loro corpi vecchi non è ideale quando quella geometrica. Si succhiano e si masturbano a vicenda i loro bei cazzi turgidi, ma nel frattempo si insultano disperatamente. Soprattutto accanito si rivela colui che desiderava me in precedenza; consuma per primo il suo orgasmo urlando all’altro con astio: «Fuck off!». Ora certamente non si dedicherà a procurargli a sua volta un orgasmo. L’altro rimarrà là con il suo cazzo eretto. È tempo per me di levarmi; Fernande pure, credo, si alza. Scendo le scale di legno dalle quinte dietro il palcoscenico e un giovane eterosessuale ex filo-comunista torinese conosciuto a Londra mi grida dietro: «Ti telefonerò domattina alle otto e mezza!». Indi mi sveglio, riproponendomi immediatamente di ricordare questo sogno. Il primo impulso consiste nel volgere il tutto in una frase: «Un bambino schizofrenico È un piccolissimo punto»: disse Un uomo quasi nano interrogandomi Cogli occhi del desiderio. Probabilmente questa è l’ermetica risposta alla domanda che mi aveva rivolto Gianni nel sogno: «Dimmi che cosa amano in te». Non ho voluto comunque abbandonarmi esclusivamente all’impulso. Quanto ho scritto rappresenta il tentativo comunque di tradurre in parole le scritture del sogno. Londra, marzo 1974

Il testo fu scritto a Londra nel marzo 1974, secondo la data indicata dallo stesso Mieli, in calce all’articolo e pubblicato integralmente in «Comune Futura», 1975. La prima parte fu poi ripresa in «Fuori!», n. 15, primavera 1976. [N.d.C.] 1 Questa seconda parte di My first lady è quella pubblicata unicamente su «Comune Futura» nel 1975, rimasta inedita. [N.d.C.] 2 W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Torino 1962, p. 15. *

3 F. Engels, recensione a Per la critica dell’economia politica di K. Marx, Roma 1973, p. 201. 4 J. Genet, Notre-Dame-des-Fleurs, citato da Sartre in Santo Genet, commediante e martire, Milano 1972, p. 77. Ho corretto la traduzione che rende «baise» con «bacia» invece che con «chiava». 5 La Grande Eugène è un cabaret di Parigi conosciuto negli anni ’70 per i suoi spettacoli trasformisti; Danny La Rue è un attore irlandese specializzato nell’impersonificazione di ruoli femmili; infine, la Mabilia è un personaggio «travestito» del repertorio teatrale della nota compagnia I Legnanesi. [N.d.C.] 6 Un anno prima dello scoppio della Rivoluzione francese, nel quadro della configurazione utopistica di una legislazione ideale, de Sade scriveva che il mezzo migliore per annientare la deviazione omosessuale consiste, in luogo del tradizionale patibolo, nel coprirla di ridicolo agli occhi dell’opinione pubblica che «come voi sapete, è la regina del mondo». Si veda a proposito: de Sade, Aline e Valcour ovvero il romanzo filosofico, Milano 1968, p. 328-329. In effetti, con la presa del potere politico da parte della borghesia, la condanna a morte per sodomia viene via via abolita in tutti i paesi capitalistici. 7 Questa affermazione non è dettata da cieco trionfalismo, e risulta fondata se presa in considerazione cum grano salis. 8 «E quale deve essere la buia angoscia del travestito in attesa di essere operato a Casablanca dal costoso kirurgo francese che trasformerà i coglioni in vagina, il verme in farfalla, l’anatroccolo in cigno; la metamorfosi di chi “volontariamente” cede la propria sessualità maschile, oppressa dallo stereotipo della virilità da circo propagandata dal Capitale, in cambio dello stereotipo di donna frigida, castrata, sterile, oppressa, che il Capitale richiede e opprime. E finisce sul palcoscenico di Madame Arthur o del Carrousel, in una farsa di gay humour tra piume e paillettes, a esibire l’objet honteux in cui è stato trasformato il SUO SESSO attraverso il lungo processo di reificazione, iniziato con la repressione sessuale dell’infanzia e culminato a Casablanca, in una ridda di ferri, ormoni e protesi vaginali», da Marocco: miraggio omosessuale, in «Fuori!», n. 4, ottobre 1972 (p. 45). 9 Si riferisce al romanzo di René Daumal, Il Monte Analogo. Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche (1952), Milano, Adelphi, 1991. [N.d.C.] 10 Per il travestito non esiste possibilità di lavoro alternativo: infatti, chi mai assumerebbe un travestito? E pochissimi sono i travestiti che riescono a fare del teatro oppure a lavorare nel cinema. 11 Per queste e altre notizie concernenti la formazione del movimento omosessuale e transessuale negli USA, si veda: Dennis Altman, Omosessuale: oppressione e liberazione, Arcana Edizioni, 1974, in particolare il capitolo IV. 12 Che esistano persone del genere potrà apparire inverosimile agli eterosessuali «autenticamente senza-macchia e col paraocchi»: invece, niente di più autentico, niente di più comune. E che dire degli «stalloni» più o meno aitanti che, «prestandosi» a scopare le checche per soldi o sotto altro pretesto, si spacciano per eterosessuali al cento per cento e non ammetterebbero mai di provare piacere in tali rapporti, malgrado tutto testimoni del contrario? 13 Un recente «viaggio nella follia» durato circa due mesi ed effettuato in seguito a un’esplosione di cosiddetta «euforia maniacale», mi ha provato che la concezione psicoanalitica di «fantasma» è tutt’altro che astratta. L’euforia maniacale esagera la nostra abituale percezione schizoide del mondo nella vita: vi sono giornate deliranti in

cui veramente tutti gli altri che si incontrano appaiono come fantasmi; la loro visione offuscata paradossalmente mette in luce come noi si percepisca sempre gli altri in base a costanti analogie con la memoria dei famigliari o comunque di persone incontrate nel corso dell’infanzia, molte delle quali spesso da tempo dimenticate a un livello conscio. Nota aggiunta nel febbraio 1975. 14 Sartre, Santo Genet, cit., p. 114. 15 La Bethnal Rouge è un’esperienza di comune-libreria gay creata nel 1973 da queens radicali del Gay Liberation Front, nel quartiere Bethnal Green a Londra. [N.d.C.]

«Amor che a nullo amato amar perdona». Io sono una grande finocchiona*

Dante cita, tra i sodomiti condannati all’Inferno, molti tra i prestigiosi e autorevoli uomini pubblici delle città toscane del suo tempo. A differenza della grande maggioranza degli altri dannati, di loro egli parla quasi sempre in tono elogiativo, malgrado li giudichi rèi di peccato tanto grave e funesto da risultare addirittura innominabile (peccatum illud horribile inter Christianos non nominandum). Nei due canti dedicati agli omosessuali (il XV e il XVI), una parola esplicita che definisce la natura del crimine «contro-natura» che è costato loro la dannazione non viene mai espressa. Essi furono sì uomini esemplari, ma commisero una colpa terribile capace di per sé di calarli per sempre nelle viscere dell’Inferno. Eppure, Dante stesso traduce in altissima poesia il desiderio omosessuale in lui latente (sebbene, in base agli scarsi riferimenti storici che possediamo, non ci si possa ritenere autorizzati a considerare il suo un raro caso di omosessualità completamente rimossa). Infatti, parlando dei sodomiti, scrive: «S’i fossi stato dal foco coperto gittato mi sarei tra lor di sotto e credo che ’l dottor l’avria sofferto; ma perch’io mi sarei bruciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia, che di lor abbracciar mi facea cotto» (Inferno, XVI, 46-51). Un’interpretazione gay potrebbe leggere dietro l’allegoria di questi versi: «Se io fossi stato al riparo (coperto) dalla persecuzione dell’omosessualità (foco: al tempo di Dante gli omosessuali venivano condannati al rogo), mi sarei fatto inculare fra loro (o da loro, con loro: gittato mi sarei tra lor di sotto) e penso che Virgilio l’avrebbe tollerato, concesso (l’avria sofferto: è

noto che Virgilio era frocio; sofferto, da sofferére o sofferire, derivati dal latino sufferre, composto da sub, sotto, e ferre, portare Dante sotto, cioè l’avrebbe indotto all’omosessualità); ma poiché avrei subito le pene della persecuzione (mi sarei bruciato e cotto: il rogo), la paura vinse il desiderio (buona voglia) che mi infuocava (cotto) di abbracciarli». Si noti come la ripetizione, nella rima, della parola cotto (usata da Dante in base a due differenti significati) sottolinei lo stretto legame esistente tra persecuzione (il primo cotto si riferisce al foco) e omosessualità (il secondo cotto si riferisce alla buona voglia, il desiderio, cui Dante connette l’attributo della bontà). Ma allora, la cotta per Beatrice? È tuttavia possibile accennare un’interpretazione parallela più profonda di questi versi di Dante, «S’i fossi stato dal foco coperto»: il foco non è soltanto la persecuzione dell’omosessualità, ma anche il terrore dell’ignoto, del misterioso, di ciò che sta al di là dei confini della percezione «normale» (del quotidiano inferno). L’ingresso nella magia è simboleggiato dal passaggio attraverso il fuoco, che è anche la fase iniziatica essenziale dell’ermafroditismo. Così «il viaggio nella follia» viene in parte vissuto come passaggio in mezzo al fuoco, come confronto diretto col Dharmapala terrificante, per dire addio alla coazione a ripetere e uscire dalla routine disgraziata di tutti i giorni, scegliendo il rischio e volgendo verso la dimensione superiore dell’esistenza (in fondo ai sentimenti brucia un sogno d’amore per il Buddha). D’altra parte, è noto che Freud e in particolare Ferenczi vedevano nell’omosessualità la causa che «sgancia il delirio paranoico» (la «schizofrenia»). La scelta del fuoco è inoltre il patto col Diavolo, che ti si fa incontro quando sei pronto: con lui non puoi che godere di una vera amicizia omosessuale, anche, poiché il Diavolo è androgino o meglio assume tutte le sembianze e può apparirti in questa checca affascinante o in questa donna australiana. Dietro la repressione dell’omosessualità si cela un’omosessualità come ponte, ponte verso l’ignoto (o, forse, verso ciò che sappiamo da sempre senza saperlo). Dante non se la

sentiva di attraversare questo ponte perché aveva paura. Troppa gente ancor oggi ha paura di passare realmente sull’altra sponda. Il movimento gay rivoluzionario propone la grande avventura a tutti. I gruppi omosessuali riformisti pensano che sia possibile bivaccare in massa su questo ponte, ostruendo il passaggio a chi voglia andare oltre. In ogni caso, andare oltre è possibile soltanto quando il desiderio omosessuale si è liberato completamente e viene vissuto con gioia. Al di là della gaia totalità, vi è tutto il resto.

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«Re Nudo», n. 43, giugno 1976.

Ginandro in tram*

La scienza interviene a sostegno della filosofia vedica, la quale, già migliaia di anni or sono, pretendeva che all’origine l’uomo portasse in sé entrambi i sessi. Era una creatura bisessuale. Come un angelo, l’essere umano era dunque androgino. Sia in Europa che in Asia, presso gli indiani d’America e i Neri dell’Africa, le tradizioni religiose hanno sempre rappresentato l’angelo come un essere bisessuale, androgino. L’essere androgino è uomo e donna riuniti in una sola creatura. ELISABETH HAICH

Dopo essersi nutrito (pochissimo: quasi quanto Gothama, il Buddha), il ginandro aspetta il tram, sotto la pioggia, fresco d’un fuoco interiore che ha ben poco a vedere con le buddhanate degli hippies. Abbandonatosi alla magia del mondo, una donna sui sessant’anni, gli si fa incontro e dice: «Quel signore ha sbagliato tram. Lei dove va?» «Io vado in Farini. Devo prendere l’8. E lei?» «Nella stessa direzione». La «grande route» si direbbe. Ecco l’8: il ginandro sa che è quello sbagliato, con la scritta rossa, che ferma prima. Sale comunque, la vecchia decisa essendo da seguire vestita come una femminista sedicenne e bella d’una inquietudine speciale (d’una calma). Questa volta non scassa la macchinetta, poiché la donna timbra e lui pure. Siedono. La conversazione verte con agio sui temi delicati, nell’attenzione contorta della gente (la strana coppia). Il ginandro pensa per un istante di rivolgersi a un personaggio «inesistente», che gli altri non vedono: di apparire come uno di quei pazzi che in tram parlano da soli. Glielo comunica e lei risponde: «Può darsi. Non si sa mai. La vita è il

mistero che non ci è dato discernere». Poi cerca nella borsetta un pacchetto, lo disfa e ne estrae una pergamena che riporta – tra gli svolazzi – frasi di Tommaso Moro, in forma di preghiera. Una, in particolare, colpisce il ginandro: «Oh Signore, dammi il senso del ridicolo». Il tram, a metà strada, interrompe la corsa. Scendono. Lui, preoccupato, apre l’ombrello. Lei lo fissa negli occhi dicendo: «Signore, perché ha paura?» e gli disegna un sorriso nella testa. Quando è in forma, il ginandro sta bene coi bambini, con gli uomini e con le donne. A un inglese tanto giulivo da chiedergli: «Ma allora, sei omosessuale?», risponde: «Non mi piacciono le etichette. Mi piacciono gli uomini». E le donne. Sa che, nella grande maggioranza, sono molto più in gamba e luminose degli uomini. Non ama le etichette, ma, nel suo «eclettismo», opera pur sempre la scelta che lo induce a sentirsi ginandro, in tendenza, invece che androgino. Però non ha biglietto e deve prendere il tram. È tardi: l’ultima corsa. Teme che i controllori salgano e lo becchino. Se si è senza biglietto, non serve scassare la macchinetta (fra l’altro, stavolta, ha già provveduto qualcuno). Alla prima fermata, i controllori salgono. C’è poca gente sul tram e tutti, giovani e vecchi, hanno il biglietto. C’è chi arrossisce – ah, la coscienza sporca! – non essendo riuscito a timbrarlo. Lui, il solo che non l’abbia, è anche l’unico al quali i controllori non lo chiedano. Invisibile? No: al contrario, prima di scendere scambia col più severo un’occhiata erotica. «La vita è sogno» pensa, «e forse la morte sarà una surprise-party». Stasera il ginandro cena con l’amante. Dopo il lavoro (ginnastica, relax), s’è immerso nel bagno, s’è fatto la barba e ha cancellato le occhiaie col bianco. Cammina fischiando verso il tram – e un po’ fumato – dimentica di comprare il biglietto. Un vecchio lo inquadra ironico. Torna sui suoi passi, cercando la rivendita: poi accelera – inutilmente – fino alla fermata. Il tram ormai sta passando. Sul fianco porta una réclame (del Fernet Branca) che s’accorge d’osservare: «L’autentico mai ha tradito». Il messaggio subliminale lo rincuora e si apposta, lieto, dietro un albero, tubando al «destino» – da cui conviene lasciarsi

corteggiare.

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«Re Nudo», n. 48, dicembre 1976.

Sull’altalena di Poe. Ovvero: cosa nascondi dietro la coscia?*

La «follia» è materialista: «L’orologio non cessa di battere il tempo per te» (lo dice la fata nella pantomima di TwiggyCenerentola). Se sei invisibile, è perché puoi e sai di esserlo. Non sei più costretto a pagare il biglietto della metropolitana. Discesi all’inferno nel momento stesso in cui assunsi la certezza che questo mondo in cui viviamo è il regno dei morti. Vidi i morti percorrere sordi le strade del centro di Londra, fare la spesa nei supermercati, pagare il biglietto della metropolitana. Il fuoco della prima tappa hai i connotati dell’ermafrodito: l’esistenza transessuale scopre che la gente, come minimo, è sepolta a metà. Molte donne che incontri sugli autobus, però, stanno viaggiando; e alcuni uomini scuri calzano scarpe che significano il piede di capro del Diavolo. Il Faust prende un appuntamento underground e opta per i godimenti del fist-fucking (Faustfick): si fa penetrare l’ano dal pugno nerboruto del partner drogandosi con la trinitrina. Poi, in giro purissima, dona tutto quello che ha in tasca ai bambini che cantano carols natalizi in una piazza di Chelsea. Poco dopo, sul marciapiede, incontra un mazzo di carte da gioco sparpagliate. Raccoglie le prime (danari) che lo indirizzano. Gli si propone il gusto del furto. Nulla è fortuito: le cose e gli avvenimenti ti paiono connessi in maniera casuale perché non sai cogliere il messaggio nel loro rapporto. La «follia» non è un trip individualistico: se sei tu che più o meno vuoi entrarci, Altri ti danno la spinta iniziatica e il percorso si snoda in mezzo agli altri. Per dirla in «certi» termini,

l’Ego non si arroga più il monopolio della soggettività: la vita è reciproca, come lo è sempre stata. Le parole di Dylan e del droghiere sono consigli determinanti quanto lo furono quelli dei Beatles per Manson (e per Sharon Tate). «Non v’ho già detto che la pazzia di cui mi accusate altro non è se non iperacutezza dei miei sensi?» (Poe). La vita è estetica. Si sveglia la «stagione dell’estro»: la giumenta monta lo stallone, la scrofa il verro e la tua aria è come profumo di zibettone che incanta i maschi. Reich flippa perché i tuoi occhi sono gai e onesti e medita una «terapia» normalizzante. Ma le mie manfrine, le mie lacrime esprimono la sensualità di cui trabocco. Dal parrucchiere, per la permanente, il caffè russo si pone come medium tra me e il garçon: il culo è un soliloquio senza l’uccello che ne accarezzi la palpebra. Esiste un cuore segreto della merda, bianco, sodo e godurioso come paté de foie gras. La coprofagia svela il significato simbolico di tutte le cose: ti insegna a leggere tra le righe e a cogliere la profondissima influenza esercitata su di noi dalla pubblicità. La dimensione scatologica ti accosta in maniera straordinaria ai bambini e ai cani (più simpatici e più in gamba che mai). Giunto a destinazione col taxi, subentra il problema dei soldi: davvero non ho un singolo penny per pagare la corsa mentre l’autista pretende assolutamente che paghi. Inizia a fare boccacce e ad alzare la voce. Io non mi lascio prendere dallo sgomento e decido di pagarlo in natura. Mi tiro su le sottane, tiro giù le mutande e faccio per cagare sul sedile posteriore dell’automobile. Il taxista è giunto quasi al parossismo e minaccia di spaccarmi i denti: ma non mi arrendo; soltanto che, invece di stronzi, non riesco a emettere che alcuni poderosi petoni. Un deus ex machina, richiamato, verrà a tirarmi fuori dagli impicci. Monto sulle altalene con i bimbi, umile e raggiante e come gravida di una zia scomparsa da anni che sto reincarnando. Mi spolvero i capelli di borotalco e mi immedesimo in Maria fecondata dallo Spirito Santo. Merry Christmas suona quasi Mary Christmas…

Ogni notte, in carcere, mi masturbo lungamente, e vengo quattro o cinque volte consecutive e spesso, invece di sperma, eiaculo copiosi getti di urina (?) bianca. Mi felicito dinnanzi a questo nuovo – sommamente piacevole – «sintomo» della trasformazione. Poi medito perdendomi per i labirinti di alberi genealogici possibili, indagando a quale famiglia reale appartenga. Una sera mi portano a un concerto, ma sono costretto a fuggire perché avverto che in quella sala si sta tramando un complotto di morte contro di me. Un signore dall’aria malsana ha appena detto: «Questo pianista assassina Debussy». Quando «torni indietro» (ma non si torna mai indietro), oltre la noia, che è propriamente Langeweile, leggi un sorriso dietro le fiamme del Dharmapala e una promessa. Non sai se sono idealistiche le paroline sommesse di Achille Togliani in un’atmosfera carnevaria chandelles-confetti (manca solo lo Champagne). «Il cuore mio indiscreto… non si rassegna alla sua età».

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«Erba voglio», n. 26, giugno-luglio 1976.

Omosessualità e rifiuto del lavoro*

Freud ha formulato per primo la teoria che vede nel processo di civilizzazione la conversione di potenti forze libidiche, la loro deviazione dalla meta sessuale nella prospettiva del lavoro e della socializzazione. Da questo punto di vista l’Eros represso è l’energia della storia e il lavoro va visto come sublimazione dell’Eros. Secondo Freud, «da parte della civiltà la tendenza a limitare la vita sessuale appare non meno evidente della spunta a estendere la propria cerchia […]; la civiltà segue in queste cose la costrizione della necessità economica dato che deve sottrarre alla sessualità un grande ammontare di energia psichica che deve adoprare lei stessa[…]; il timore dell’irruzione di ciò che è represso spinga a severe misure precauzionali. La nostra civiltà europea occidentale è giunta all’apice di tale sviluppo». La civiltà, dunque, avrebbe represso tutte le tendenze dell’Eros definite «perverse» per poterne sublimare l’energia libidica nella sfera economica. Questa è una delle più interessanti ipotesi inerenti alla determinazione storica del tabù anti-omosessuale; e, se non la si isola, ma la si considera a fianco di altre ipotesi (in particolare in rapporto a quella che vede nella Norma eterosessuale la garanzia del perpetuarsi della soggezione della donna al maschio), essa si rivela molto attuale oggi, e concerne una tematica carica di dirompenza rivoluzionaria. Marcuse scriveva: «Contro una società che impiega la sessualità a scopo utilitario, le perversioni sostengono la sessualità come fine a se stessa; esse si pongono quindi al di là del dominio del principio di prestazione, e minacciano i suoi fondamenti stessi. Esse stabiliscono rapporti libidici che la società

deve mettere al bando poiché minacciano di rovesciare il processo di civilizzazione che trasformò l’organismo in uno strumento di lavoro». Questa affermazione risulta in parte invecchiata e va messa in discussione. Oggi è evidente che la società si serve benissimo delle «perversioni» a scopo utilitario (basta andare in edicola o al cinema). La «perversione» è venduta al dettaglio e all’ingrosso, è studiata, sezionata, valutata, mercificata, accettata, discussa; diventa di moda, in e out; diventa cultura, scienza, carta stampata, denaro; i burattini del FUORI! si presentano alle elezioni nelle liste del Partito radicale; l’inconscio è venduto a fette sul banco del macellaio. Se per millenni le società hanno represso le componenti cosiddette «perverse» dell’Eros per sublimarle nel lavoro, il sistema oggi liberalizza le «perversioni», allo scopo di sfruttarle ulteriormente nella sfera economica. La liberalizzazione si rivela funzionale soltanto alla mercificazione, che ha luogo nell’ottica mortifera del capitale. La «perversione» repressa, dunque, non costituisce più soltanto l’energia del lavoro, ma si ritrova anche, feticizzata, nel prodotto alienante del lavoro alienato e viene imposta dal capitale, in forma reificata sul mercato. Proprio per poter essere liberalizzata, e cioè mercificata, la «perversione» deve rimanere sostanzialmente repressa e l’energia libidica che le è propria deve continuare in gran parte a essere sublimata e sfruttata nel lavoro: la «desublimazione repressiva» si affianca al perpetuarsi della sublimazione coatta dell’Eros nel lavoro. D’altra parte, le tendenze erotiche definite «perverse» non possono che restare represse, se la gente continua ad accettare i prodotti veramente osceni e perversi che il capitale impone sul mercato spacciandoli per sessualità «perversa», se c’è ancora chi prova eccitamento di fronte agli squallidi feticci del sesso smerciati dal sistema. D’altra parte, dacché il capitale è pervenuto alla fase del dominio reale; dacché in altri termini, la concentrazione e la centralizzazione tardo-capitalistiche, inseparabilmente connesse al progresso tecnico delle forze produttive e alla traduzione

tecnologia delle scienze nel macchinario industriale (incremento del capitale fisso), hanno ridotto al minimo la quantità del lavoro necessario, la massima parte delle ore lavorative costituisce sopralavoro: lavoro inutile, funzionale soltanto al perpetuarsi del dominio cancerogeno del capitale. Si tratta di un «mutamento nel carattere delle forze produttive di base» (Marx). Questa trasformazione crea le premesse essenziali al compimento del salto qualitativo totale realizzato dalla rivoluzione comunista. «Non appena il lavoro immediato ha cessato di essere la fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa di essere la sua misura, il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria, l’antagonismo. Subentra il libero sviluppo delle individualità, e dunque la riduzione del lavoro necessario per creare plusvalore, ma in generale la riduzione del lavoro della società a un minimo, a cui corrisponde la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico (creativo) degli individui grazie al tempo diventato libero e ai mezzi produttivi» (Marx). Di fronte alla prospettiva di tale salto qualitativo, di fronte alla prospettiva della rivoluzione e della creazione del comunismo, la repressione sessuale svolge una funzione ostacolatrice e obsoleta: infatti essa garantisce quella sublimazione che permette lo sfruttamento economico, «il furto del tempo di lavoro dell’uomo» (Marx), il furto del (tempo di) piacere della donna e dell’uomo, la costrizione dell’essere umano al lavoro che non è più necessario in sé, ma indispensabile al perpetuarsi del dominio del capitale; in altre parole, alla conservazione di rapporti di produzione superati e alla saldezza dell’edificio sociale che su di essi è fondato. «Il capitale», dice Virginia Finzi Ghisi, «si è finora servito della natura erotica del lavoro per costringere l’uomo, cui ha sottratto preventivamente ogni altra avventura sessuale (quella con la donna-sposa-madre nell’ambito familiare non è avventura ma solo estendersi della sostituzione), al lavoro».

«L’eterosessualità […] diviene la condizione della produzione capitalistica, in quanto modalità della perdita del corpo, assuefazione a vederlo altrove, generalizzato». La lotta per il comunismo, oggi, deve manifestarsi anche quale negazione della Norma eterosessuale fondata sulla repressione che è funzionale e consona alla sussistenza del dominio del capitale sulla specie umana. Le «perversioni», e in particolare l’omosessualità, esprimono la ribellione contro il soggiogamento della sessualità da parte dell’ordine capitalistico-eterosessualemaschile, contro il pressoché totale asservimento dell’erotismo al «principio di prestazione», alla produzione e alla riproduzione. E se oggi non è più economicamente necessaria la sublimazione delle componenti dell’Eros definite «perverse» nel lavoro, tanto meno è necessario, ora che il pianeta soffre a causa della sovrapopolazione, incanalare tutte le energie libidiche nella riproduzione. In effetti, costringere l’Eros alla procreazione non è mai stato realmente necessario, dal momento che la sessualità libera, in condizioni ambientali più o meno favorevoli riproduce naturalmente la specie, senza bisogno di essere soggetta ad alcun tipo di costrizione. D’altro lato, se la lotta per la liberazione dell’omosessualità si oppone decisamente alla Norma eterosessuale, uno dei suoi fini è la realizzazione di nuovi rapporti gay tra donne e uomini, rapporti completamente alternativi rispetto alla coppia eterosessuale, rapporti atti, tra l’altro, a un nuovo modo di generare e di vivere pederasticamente con i bambini. Né è detto che la conseguita libertà transessuale non contribuisca a determinare, in un futuro relativamente lontano, alterazioni della struttura biologico-anatomica dell’essere umano tali da trasformlarlo in androgino atto alla partenogenesi o nuovi tipi di procreazione a due (o a tre? O a dieci?…). D’altro lato, in natura già esistono animali come il cavalluccio marino, per esempio, che si riproduce da sempre in maniera invertita: la femmina depone nel corpo del maschio le uova e il maschio le feconda portandole in sé fino a quando partorisce. Né sappiamo quanto avviene su miliardi di altri pianeti, in altre

costellazioni, in altri sistemi solari, a livelli di «evoluzione» mirabilmente superiori rispetto al nostro…

* Il Vespasiano degli omosessuali, a cura dei Collettivi omosessuali milanesi, supplemento speciale a «Re Nudo», n. 43, luglio 1976.

Violenza e omosessualità*

1. Oltre a tutti coloro che si considerano e vengono considerati omosessuali, e a cui la coscienza repressiva impone un determinato stereotipo, esiste un altro numeroso gruppo di omosessuali, più dei primi repressi rispetto alla propria sessualità e soprattutto alla propria omosessualità. Ci riferiamo al gruppo di quegli «eterosessuali maschi» che, malgrado affermino costantemente la loro eterosessualità, hanno comunemente e continuativamente rapporti omosessuali, e che, in genere, vivono ai margini del mondo omosessuale in senso stretto, di cui divengono i parassiti e i boia: le marchette, i ragazzi di vita, quei giovani che i giornalisti chiamano oggi «sottoproletari», prendendo a prestito la terminologia dei somari marxisti delle sinistre. 2. Questi omosessuali, che tali non si considerano, in quanto generalmente sentono anche una forma di attrazione verso il sesso femminile, o meglio verso la sua oggettivazione, sono talmente repressi di fronte alla propria omosessualità da tendere generalmente a viverla limitandola al ruolo «attivo» (in realtà passivo per eccellenza) e mistificandola ponendo al centro del loro interesse non il piacere ma il denaro che possono estorcere al loro partner effeminato. 3. Il rifiuto che questi giovani esprimono rispetto alla omosessualità è profondo, e deriva non solo dalla cultura violenta, apertamente maschile e maschilista della strada, ma anche dalla

necessità di negare con la violenza l’evidenza delle loro costanti relazioni omosessuali, che la società condanna e reprime. 4. La miseria e la violenza quotidiana subite ed esercitate nella strada, l’insieme di frustrazioni che forma la loro giornata, la necessità angosciosa di negare la propria omosessualità non possono trovare una vittima e uno sfogo più facili e adatti (in quanto essi possono identificare ciò che di se stessi rifiutano, cioè l’omosessualità, l’effeminatezza) degli omosessuali stessi, gli altri omosessuali, le checche. 5. Per questo i cosiddetti ragazzi di «vita» non sono solo i parassiti ma anche i boia del mondo omosessuale nei confronti del quale eseguono le sentenze che il sistema ha già pronunciato attraverso l’emarginazione e la condanna dell’omosessualità, confinata in ghetti clandestini o comunque appartati, separati dal resto della società. 6. In questo modo il sistema punisce l’omosessualità con la morte, non meno inflessibilmente di quanto non fecero i nazisti, ma assai più subdolamente ed efficacemente. È evidente che oggi il sistema non ha più la necessità di sterminare tutti gli omosessuali, gli basta colpirne qualcuno, e per di più in modo estremamente indiretto, tenendo le mani pulite ma riuscendo così a imporre a tutti gli altri il regno del terrore. 7. Anzi. Gli Stati più evoluti rinunciano decisamente alla repressione sanguinosa dell’omosessualità, per la quale approntano un ghetto «confortevole», ma caro. Se gli omosessuali non vogliono rischiare di essere uccisi basta che paghino. In questo senso la democrazia è progressiva rispetto al nazismo; consente maggiori profitti, tramite la mercificazione dell’omosessualità. 8. Il capitale prende due uccelli con una fava. Da un lato sfoga la violenza anti-omosessuale della società attraverso gli omicidi e

le violenza dei «criminali»1, che sono in realtà gli omosessuali più repressi, e fornisce così a numerosi giovani emarginati la possibilità di opprimere degli individui ancor più infimi di loro stessi, e cioè gli omosessuali manifesti2, trovando così un altro modo di stornare da se stesso la rabbia e la violenza della strada e della miseria che esso stesso ha prodotto. 9. Dall’altro riesce in tal modo a terrorizzare il mondo omosessuale in senso stretto: poiché l’omosessuale è educato dal sistema stesso a non sapersi difendere, e trova nei giovani proletari criminalizzati degli avversari obiettivamente formidabili, abituati a subire e esercitare quotidianamente la violenza, esso tende a cercare protezione altrove che in se stesso; e dove mai può cercarla se non nel sistema? Questo è ciò che fece per esempio una sezione del Gay Liberation Front americano quando chiese la sorveglianza di un maggior numero di poliziotti nei luoghi di battimento, in cui gli omosessuali venivano più frequentemente assassinati. 10. Lo stereotipo dell’omosessuale pavidamente reazionario, che aspira a trovare una propria sicurezza nel sistema, nel successo personale ecc., e in cui s’identifica effettivamente un gran numero di omosessuali, ha la sua radice nella somma di umiliazioni e violenze subite o anche solo nella costante tensione provocata dal rischio di subirle; l’omosessuale non può non rendersi conto come per la strada o nei luoghi di battimento, nei parchi, nei cessi, ai cinema ecc. egli rischia di essere ammazzato o derubato o picchiato o deriso o umiliato, mentre nell’ambiente intellettuale o artistico o anche soltanto borghesemente educato questo rischio scompare. Una cosa è essere oppressi dal proprio psicanalista, tutt’altra cosa essere oppressi da una coltellata. 11. Gli omosessuali hanno paura della rivoluzione perché in essa vedono la riscossa dei loro boia e cioè la propria fine. Né si può dar torto a chi preferisce che le cose restino così piuttosto che veder al potere quegli stessi proletari che ogni giorno

dileggiano, aggrediscono e ipocritamente respingono gli omosessuali. Tanto più che questi proletari possono dirsi fascisti o comunisti o extraparlamentari e, sostanzialmente, il loro atteggiamento non cambia. 12. Il sistema invece può persino venire incontro agli oppressi; se rigate diritti, accettate di vivere la vostra sessualità nel chiuso di quei piccoli ghetti che noi possiamo controllare e regolamentare, vi proteggeremo noi stessi. Chi va nei parchi o nelle pinete si cerca guai: statevene a casa! 13. Le sinistre, prima di tutto il PCI, ma non meno tutte le organizzazioni che si proclamano rivoluzionarie, non hanno mai fatto nemmeno questo: hanno sempre represso senza mediazioni l’omosessualità, l’hanno negata esaltando la mostruosa figura maschia e virile dell’operaio produttivo, evidentemente riproduttivo. Hanno deriso gli omosessuali in quanto prodotto della corruzione del mondo borghese, mentre essi stessi per primi contribuivano sostanzialmente a farne dei reazionari, sostenendo un’immagine della rivoluzione bigottamente repressiva (fondata sul sacrificio e sulla infernale famiglia proletaria), e caricaturalmente virile (fondata sul lavoro produttivo-riproduttivo e sulla brutta violenza militarizzata), o richiamandosi a paesi che si proclamano socialisti e liquidano gli omosessuali nei campi di concentramento o di rieducazione, come Cuba e la Cina. All’omosessuale non restava che invocare l’ordine costituito per salvarsi. 14. Ma i tempi cambiano. Il movimento delle donne ha dato uno scossone a tutta la società e messo in crisi perfino quei gruppi che si autoproclamano rivoluzionari e che fino a oggi sono stati roccaforti del bigottismo. Lo stesso movimento degli omosessuali coscienti, rivoluzionari o per lo meno aperti a una visione di se stessi e del mondo diversa da quella stereotipa, non è più trascurabile.

Per i gruppi politici è ormai necessario recuperare anche gli omosessuali. 15. Come sempre con un certo ritardo rispetto ai «borghesi illuminati», i gruppi della sinistra giocano il gioco del sistema. Da boia dichiarati, mille volte più ripugnanti, in questo caso, delle marchette e dei fascisti, in quanto seppur in forma ideologica, autoproclamantisi rivoluzionari, essi stessi si trasformano in aperti interlocutori degli omosessuali. Nelle loro menti si manifesta la fantasia di divenire dei bonari e tolleranti protettori degli omosessuali, gratificando così la propria figura virile, troppo in declino ormai, in un momento in cui anche le parrocchie extraparlamentari devono approntare oratori femministi per le «loro» donne, ed esorcizzando al tempo stesso il problema della repressione dell’omosessualità in loro stessi. Come sempre essi aspirano a divenire dei poliziotti. Ma non sanno che i poliziotti vanno già più in là di loro e, quando capita, fanno l’amore, addirittura, con «gli omosessuali». A quando libere uscite omosex per i militanti extraparlamentari? 16. Da bravi poliziotti del sistema i nostri militanti si affannano a mettere insieme un ghetto per i gay, e poiché non li vogliono a inquinare le loro seriose e militaresche organizzazioni con alcunché di gaio, preferiscono lasciar loro libero accesso all’immondezzaio della controcultura. 17. Per il momento la sinistra è ancora troppo più stupida e rozza degli esponeneti tradizionali e mafiosi del sistema e non è in grado di creare dei ghetti altrettanto attraenti per gli omosessuali. Per la controcultura nostrana è ancora un po’ troppo accettare la presenza degli omosessuali e, alle «feste del proletariato giovanile» si succedono provocazioni e violenze contro le donne e gli omosessuali. Il militante è troppo bigotto per accorgersi perfino che l’hippie non è poi tanto diverso da lui. Ma i tempi stanno cambiando e presto anche agli omosessuali verrà fornito il loro spazio separato, ben guardato dai poliziotti

extraparlamentari, la cui funzione sarà quella di riconfermare negli omosessuali la sfiducia in se stessi e la convinzione della necessità di mettersi in riga sotto questo o quel protettore, tanto più che se non ci fossero le sinistre ci sarebbe il fascismo, nuovo spauracchio che viene ora sostituito a quello della rivoluzione, affinché tutti si resti nei ranghi democratici e antifascisti del sistema. 18. Per questo quegli omosessuali che si appellano alle sinistre extraparlamentari non fanno che approntare una nuova prigione per sé e fornire nuova energia vitale a quelle organizzazioni e all’ideologia maschile e anti-umana che propugnano. 19. Sia ai potenziali assassini di strada, sia agli entusiasti della sinistra extraparlamentare non si può chiedere di abbandonare le loro illusioni. Abbandonare la manifestazione stereotipa, oppressiva e chiusa all’omosessualità dei loro desideri sessuali, e abbandonare nello stesso tempo tutte le organizzazioni politiche esistenti che solo incanalando le necessità rivoluzionarie dei loro membri in un nuovo alveo familiare possono continuare a sopravvivere. Liberare in sé, e non astrattamente nella società, la propria omosessualità, implica liberare la propria passione rivoluzionaria dalle catene repressive della politica. 20. A loro volta gli omosessuali coscienti non possono trovare che in sé la forza per difendersi e sopravvivere in questa società omicida. Nessuna delega è più possibile. Ogni patteggiamento, ogni appello alla democraticità dei gruppi non fa che costruire un nuovo ghetto. Solo l’intransigenza di vivere fino in fondo senza rinunciare a nessun aspetto del mondo comunista che portiamo in noi potrà presto mettere in crisi gli uomini delle organizzazioni politiche portandoli ad abbandonare il loro ruolo e cioè ad abbandonarle. Solo la forza e la determinazione dell’oppresso che costringe il suo oppressore a riconoscersi in lui ribalterà la violenza degli

omosessuali manifesti (finora rivolta contro se stessi) e la violenza dei giovani anti-omosessuali ma omosessuali nei fatti (finora rivolta contro gli omosessuali manifesti), contro il sistema che opprime vittime e assassini e che è il vero assassino, sempre impunito, atteggiandosi a difensore delle proprie vittime. Solo gli omosessuali possono trovare in sé ed esprimere questa forza.

Normalità della barbarie, numero unico, Milano, 1976. Il testo è firmato da Mario Mieli e Francesco Santini. [N.d.C.] 1 Termine poliziescamente e bigottamente usato da Angelo Pezzana per definire il presunto e confesso assassino di Pasolini. 2 Per non parlare, in questo breve intervento, dell’oppressione delle donne, schiave degli schiavi. *

Intervento di Mario Mieli al V Congresso del FUORI! del 1976*

Negli interventi dei compagni del Partito radicale e del FUORI! mancava l’argomento della transessualità. Ora, io sono un transessuale, e sono qui con una compagna transessuale: entrambi abbiamo l’esigenza di portare avanti il nostro discorso. Vorrei iniziare riferendomi a quanto ha detto un mio amico, Franco Fornari, presidente della SIP, ovvero Società Italiana Psicoanalisti. Fornari ha detto a Milano, in una conferenza recente, che il tradizionale atteggiamento di esorcismo nei confronti dell’omosessualità si sta trasformando in atteggiamento di adorcismo. Evidentemente vi è qualcosa di lampante e di reazionario in questa affermazione di Fornari. Però ha anche ragione. Adornismo infatti è un termine sintetico di adorazione ed esorcismo. L’impressione che io ho è che il sistema nel complesso, e le sinistre del sistema in primo luogo, stanno assumendo un atteggiamento nei confronti dell’omosessualità apparentemente molto aperto, ma in realtà fondamentalmente esorcistico. Affermare: «Noi siamo d’accordo sulla vostra liberazione, riteniamo che sia giusto prendere coscienza delle tematiche sessuali», è di nuovo esorcizzare intellettualmente e teoricamente il desiderio omosessuale che è dentro tutte queste persone. Nel complesso questo atteggiamento delle sinistre riflette un atteggiamento più generale che è quello del capitale che sta lentamente e apparentemente trasformando la tradizionale forma di aggressione, che ancora esiste per esempio in Argentina e in moltissimi altri paesi, in una forma di protezione nei confronti degli omosessuali. Io sono stato in America e l’impressione che ne

ho tratto è che la situazione è migliorata dal punto di vista della liberalizzazione, ma non è avanzata dal punto di vista della liberazione. Perché la liberalizzazione che il capitale vuole dare alle cosiddette perversioni in realtà è l’ennesima arma che il sistema usa contro di noi per impedirci di liberarci veramente. Io ho l’impressione che per proteggere gli omosessuali, quale è la tendenza dei paesi a dominio reale del capitale, è necessario che gli omosessuali continuino in realtà a essere aggrediti. La protezione si pone quindi come intermediario tra un’aggressione reale e uno sfruttamento altrettanto reale degli omosessuali che avviene sempre più e che oggi caratterizza anche il dominio reale del capitale in Italia. Oggi il capitale tende a sfruttare l’omosessualità fino in fondo: i giornalisti, che sono venuti prima e che hanno preso di mira i miei trucchi, sono un esempio di questo tipo di sfruttamento dell’omosessualità. Come diceva Pezzana prima, il loro interesse all’omosessualità è fondamentalmente basato sul fatto che oggi fa vendere di più i giornali. Questo è un sintomo totalmente negativo, però se è vero che i giornali oggi vendono perché parlano anche di omosessualità, significa anche che c’è un sintomo positivo latente, ovvero che la liberazione dell’omosessualità in un certo modo sta avanzando. Bisogna però che non venga castrata dalla liberalizzazione. Ora, io so che sto per dire qualcosa di estremamente impopolare: coloro che si muovono nell’ottica della politicizzazione dell’omosessualità, si muovono in un’ottica che in fin dei conti danza un minuetto con le avances meschine, mortifere e liberalizzatrici del capitale. Sbaglierò, può darsi che sbagli, però la mia impressione è che il presentarsi alle elezioni politiche da parte degli omosessuali è ancora una situazione inserita all’interno dell’ottica capitalistica. Il Parlamento è la rappresentanza di quel grande carnevale o spettacolo mortifero che è la società borghese, quindi per me sarà più un dispiacere che un divertimento – come invece diceva Cohen ieri sera – il fatto di vedere degli esponenti omosessuali in Parlamento, perché gli omosessuali io li voglio vedere diffusi in quegli ambienti dove si sta creando la rivoluzione, e cioè le fabbriche, i fabbriconi occupati, gli ambienti femministi, cioè

l’omosessualità femminile, e i supermercati, i tram, i cinema, i cessi pubblici, che da ambienti del nostro ghetto possono diventare degli ambienti in cui si fa l’amore. È possibile che la mia impressione negativa sull’atteggiamento politico che viene assunto ancora da molti omosessuali, e che non a caso permette agli omosessuali di incontrarsi con delle forze politiche che da anni – e qui sarò ancora più impopolare – frenano la rivoluzione, ovvero quelle forze della sinistra, e della sinistra extraparlamentare, che in un modo o nell’altro, pur dichiarandosi rivoluzionarie, si pongono ancora in un ambito che è sempre quello capitalistico, può darsi dicevo, che questa mia opinione sembri paranoica. A questo punto io voglio dire: sì, io sono paranoico. Sono stato definito uno schizofrenico paranoide, sono stato in ospedale, in manicomio per questo motivo, sono quindi interessato al discorso che viene portato avanti dai compagni del Partito radicale che si occupano della schizofrenia; ma sono interessato in chiave critica, perché ho l’impressione che la lotta di liberalizzazione che viene portata avanti dal PR sia una lotta per la liberalizzazione di fenomeni apparentemente separati, e che il PR mantiene – non fosse che nella espressione formale – come separati, ma che in realtà sono totalmente connessi gli uni con gli altri, e riguardano il nostro inconscio collettivo e la possibilità di tutti noi collettivamente di sovvertire questa società: ovvero il tema dell’omosessualità non è un tema separato dal tema della schizofrenia, per limitarsi a questi due argomenti. Secondo me il tentativo del capitale attraverso le sue forme politiche è quello di mantenere separate delle forme di dirompenza rivoluzionaria che possono raggiungere la rivoluzione soltanto nel momento in cui si specchiano le une nell’altra, si riconoscono l’una nell’altra e affermano in questo senso la rivoluzione. Quello che volevo dire, riferendomi alla mia esperienza di schizofrenico, e riferendomi anche all’opinione psichiatrica e antipsichiatrica nei confronti della schizofrenia, è che esiste un nesso fondamentale tra omosessualità e schizofrenia. Freud e Ferenczi hanno sostenuto l’opinione che la schizofrenia altro non è che «una forma di omosessualità» deformata ovvero è un impulso

omosessuale latente che affiora alla coscienza della persona e che è talmente intollerabile da farla impazzire. Ora, questo discorso porta alla necessità di comprendere come in realtà la liberazione del desiderio omosessuale, che non è solo privilegio e sofferenza nelle condizioni attuali di una minoranza, ma desiderio di tutti gli esseri umani, sia la chiave di volta, la porta di accesso a una condizione di esperienza di noi stessi, di visione del mondo e di possibilità di agire sul mondo in una maniera completamente alternativa e che non ha nulla a che fare con l’alternativo che potrebbe caratterizzare la presenza di Adele Faccio o Angelo Pezzana in Parlamento1. L’esperienza schizofrenica rivela soprattutto una cosa: che nessuno di noi è un essere umano omosessuale, come ci hanno educato a essere in forma repressiva, e come soprattutto ci hanno educato a credere che siamo. Ognuno di noi è un essere transessuale – e uso il termine transessuale perché mi piace, e perché significa vivere attraverso la sessualità, e la sessualità è profonda in noi. Oggi ancora esistono delle differenze fondamentali tra coloro che sono maschi – come me per esempio – e coloro che sono donne. Esistono delle differenze fondamentali tra coloro che sono omosessuali come me e coloro che sono eterosessuali. Io sono contrario al discorso di coloro che dicono che la liberazione deve comprendere gli uni e gli altri. Questa è di nuovo la notte in cui tutte le vacche sono nere; ma – questo punto fondamentale lo voglio sottolineare – in questa notte non tutte le vacche sono gay. La liberazione passa necessariamente attraverso la liberazione concreta dell’omosessualità, e non v’è nessun eterosessuale che possa conoscere se stesso se non passando attraverso la liberazione dell’omosessuale che è in lui, e che, come la psichiatria stessa dimostra, è universale. Ma allora, sebbene questo sia il discorso fondamentale, perché da millenni ciò che è represso è fondamentalmente l’omosessualità, è anche vero che la liberazione dell’eros, e la liberazione della donna che è in noi maschi e dell’uomo che è nelle donne, passa attraverso la liberazione, per chi è omosessuale, nel desiderio per le persone dell’altro sesso. Noi non

dobbiamo bivaccare sul ponte dell’omosessualità, questo è fondamentalmente funzionale al capitale. Il capitale ci vuole divisi, separati in una pretesa coesistenza pacifica che altro non è se non co-inesistenza pacifica, e i paesi «più avanzati» dell’Italia ce lo dimostrano. Il discorso di liberazione è un discorso di liberazione della nostra transessualità che non comporta soltanto la molteplicità del desiderio rispetto alle altre persone, ma comporta anche riconoscere la molteplicità del nostro essere che è uomo e donna, e più che bisessuale è quello che noi non possiamo sapere ancora, perché è represso. L’esperienza schizofrenica dimostra che il mondo, così come ci appare normalmente attraverso la griglia della repressione è un mondo completamente falso e apparente. In realtà, la magia si avvicina molto di più alla schizofrenia che non all’atteggiamento di quegli omosessuali che desiderano portare avanti un tipo di liberazione sedendo in parlamento; e la magia se ben repressa, ha dei poteri molto più forti, io credo, di quanti non ne abbia la CIA, o di quanto non ne abbiano ancora oggi coloro che reprimono la magia. L’ingresso alla magia ha come porta d’accesso l’ermafroditismo. Io considero, sebbene ancora a livello metaforico, perché non so cosa saremo quando saremo liberati, il termine di ermafrodito e di transessuale come un fine che noi dobbiamo porci e un fine interno, perché non è solo proiettato nel futuro, ma nel futuropresente-passato che è dentro di noi e che è nel nostro inconscio. Quindi la liberazione omosessuale deve tentare di essere una liberazione di tutto ciò che in noi è represso. Riferendomi, per finire, al discorso che ha fatto la compagna femminista prima, quando ha detto che esistono ancora in questa situazione delle meccaniche sadomasochistiche alienate che riflettono in realtà – nella tensione generale che tutti ci ha fatto stare abbastanza male oggi, anche se siamo stati bene in un certo senso – questo inconscio che è dentro di noi e che vorrebbe esplodere in una maniera diversa. E questo è quello che il capitale reprime ulteriormente: perché prigione aperta, manicomio aperto o manicomio chiuso, i manicomi continuano a esistere, e questa è una questione importantissima. Il sadomasochismo è una

componente del nostro desiderio, ed è fondamentale. A Milano faccio parte di un gruppo di presa di coscienza di omosessuali e anche eterosessuali sadomasochisti. Noi crediamo che la rivoluzione sia anche la possibilità di vivere in una maniera non più vittimistica e umiliante il proprio masochismo, e in una maniera non più aggressiva reazionaria e alienata quello che si chiama il nostro sadismo, perché abbiamo tra di noi dei rapporti sadomasochistici sempre più liberati e che ci permettono di capire che sono modi di comunicare meglio tra di noi. La situazione americana, che è ancora per certi versi più avanzata, vede la nascita per un movimento per la liberazione del sadomasochismo che però non si pone come movimento separato, ma in quello che loro definiscono il grande concerto della liberazione. Questo concerto non suona alla perfezione finché anche gli strumenti totali del sadomasochismo non vengono espressi. Per finire voglio dire questo: Jung definisce «anima» la presenza in noi maschi del sesso femminile, e definisce «animus» la presenza nelle donne del sesso maschile. Non so se Adele Faccio, che ha parlato questa mattina, si riferisce anche a questo concetto. Chi ha un’anima per intendere, o un animus, intenda.

* «Fuori!», n. 16, autunno 1976. L’intervento di Mieli al V Congresso del FUORI! (svoltosi a Roma nell’aprile dello stesso anno) è tratto dalla trascrizione dei dibattiti pubblicata nel numero 16 del giornale. [N.d.C.] 1 Mieli si riferisce alla proposta degli esponenti del FUORI! di presentare dei candidati provenienti dal FUORI! nelle liste del Partito radicale poi adottata dal congresso. Adele Faccio, attivista per i diritti delle donne, fu tra i primi quattro deputati radicali a entrare in Parlamento nel 1976. Angelo Pezzana, anche lui candidato, invece, subentrò come supplente del deputato Maurizio Mellini nel 1979, ma si dimesse una settimana dopo. [N.d.C.]

La gaia critica*

Il desiderio omosessuale è universale, cioè presente in ogni essere umano: ove non sia manifesto, esso giace latente. Un progetto rivoluzionario totalizzante, e perciò volto alla realizzazione della comunità umana e alla creazione di un’esistenza intersoggettiva, non può prescindere dall’importanza fondamentale della lotta gay: liberando il desiderio omoerotico, noi contribuiamo all’emancipazione della vita intera, di quella vita che il sistema capitalistico invece nega e tende ad annientare. La situazione odierna, in Europa e nel mondo, prelude all’aut-aut: o rivoluzione o morte. Perché i rivoluzionari acquistino chiara coscienza e diventino autentici compagni, bisogna che siano amanti; perché fra donne e uomini si inventino rapporti nuovi e propositivi, è necessario che l’eterosessualità non si fondi più sulla rimozione forzata delle altre componenti dell’Eros, né più coincida – pertanto – con la Norma. Affinché le compagne realizzino una comunicazione globale fra donne, affinché i compagni si amino tra loro, e disfatisi della corazza maschilista, scoprano una nuova intesa con le donne, bisogna diffondere ovunque l’omosessualità, facendo affiorare il desiderio gay che la repressione (che è funzionale al perpetuarsi del dominio del capitale sulla specie) costringe alla latenza, oppure – qualora si manifestino all’emarginazione. Per rifiutare una volta per tutte il lavoro alienato, è indispensabile scatenare l’Eros che in esso normalmente si sublima, e che quindi regge il modo di produzione cancerogeno attuale. Ho scritto Elementi di critica omosessuale a scopo divulgativo, tentando di chiarire quanto sopra, e di dimostrare come la

questione omosessuale non riguardi soltanto un numero limitato di esseri umani, i froci e le lesbiche, bensì concerna tutti, e quanto sia auspicabile una sempre maggiore estensione del movimento gay, al fine di coinvolgere tutti, e, tutti insieme, trasformarci in senso gaio e rivoluzionario. È tempo di godere a fondo la nostra passione omosessuale, perché la vita risorga. Il libro Elementi di critica omosessuale è pubblicato da Einaudi nella collana «Saggi».

Presentazione di Elementi di critica omosessuale firmata da Mieli e pubblicata su «Lambda», n. 6, maggio-giugno 1977. *

Pazzia dell’elogio*

Certe pubblicazioni del cosiddetto movimento stanno montando una sinistra farsa sinistra della follia che non ha niente a che vedere con la follia vera e propria.

1. Rispetto alla razionalità insensibile e mutilata che sta per condurre la specie ad autodistruggersi, il franamento temporaneo dell’Io rappresentativo, la Persona, può essere il ponte che conduce a una percezione e a una comprensione superiore del mondo. La follia e la peripezia labirintica delle droghe allucinogene possono rompere l’incantesimo del capitale e spalancare la visione grandiosa del mondo vivente. Ma, nel mondo del maleficio, liberarsi dall’Ego-persona significa correre il rischio di un viaggio in regioni inesplorate, rese insidiose dalla temperie capitalistica, in cui, benché trasfigurata da luminose allucinazioni, fatalmente ci si muore. Nel labirinto si può smarrire la via: e allora, o si rappezza una realtà arbitraria costruendo i monumentali edifici d’una giustificazione gerarchico-paranoica, o si rovina in abissi interiori da cui non si conosce ritorno. Per questo una conoscenza profonda e una pronta percezione dei pericoli e delle false piste sono il bagaglio di chi voglia tornare integro e illuminato da simili viaggi. Alla prova di droghe spersonalizzanti (per esempio LSD e psilocibina), tanto quanto a quella di passioni erotiche, cioè nel momento in cui il possibile diventa evidente, tutte le nostre qualità ci sono più che mai necessarie. 2. Gli apologeti della follia e del delirio, gli anti-psichiatri, tra cui David Cooper è il più «radicale», registrano nelle proprie figure di terapeuti le voci neo-cristiane del senso di colpa: essi curano ciò che lodano: il loro messaggio prende le forme del militantismo terzo-mondista (verso i folli come verso il proprio

corpo), mentre la loro critica della famiglia e dell’istituzione li conduce a un’apologia cinica della separazione e dell’individuo smarrito nel deserto capitalistico. Ma proprio nella temperie desertica attuale (in cui la crisi della famiglia e il venir meno delle tradizioni si sono aggiunte allo strangolamento repressivo della passione e in cui è stata ribadita l’impossibilità di accedere al piacere, all’amore che è al di là dell’ordine delle cose) ha generato l’esplosione, e la susseguente «perdita di contatto» dei «pazzi», che la società terapeutica teorizzata dall’antipsichiatria arruola nelle sue comunità e nei suoi ghetti. Decretata da tempo la morte della famiglia, a tutti apre le braccia la famiglia della morte: la società terapeutica. 3. Tardivamente affascinati dai progettisti della società terapeutica, neo-hippies in ritardo di dieci anni e indiani1 dell’ultima ora rilanciano l’apologia della follia e del delirio, dello sballo e della confusione. A differenza dei loro maestri, i vari «Wow», «Oask» ecc. non sono ciò di cui parlano: a buon mercato si sono liberati del loro cervello, che il primo joint è bastato a incenerire: wow che sballo! Il tetro flirt con la morte dei terapeuti è tradotto nella svenevolezza festaiola di quelli che montano in proprio lo spettacolo del delirio e della droga, di cui tutto ignorano, mistificazione grossolana dei grossolani cervelli di chi fino a ieri è stato un militante mazziere, e rifiuta la ragione soltanto perché ha torto. 4. Nella situazione di disgregazione e insicurezza in cui ci addentriamo, di fronte alle prove che lo scontro in atto propone al movimento reale, la lode della pazzia e del delirio, la mistificazione imbastita dal potere della superficialità, può risultare veramente micidiale. Nell’aria d’inferno della dissoluzione capitalistica chi «parta» irresponsabilmente disarmato e ingenuo, in un numero sempre più elevato di «casi», tenderà a restare intrappolato là dov’è andato a «finire».

5. Secondo le direttive di Lotta Continua (che, proseguendo nel suo gioco poliziesco-modernista, intende spingere come greggi politicizzate i giovani e le femministe nella guerra diversiva contro il residuo arcaico e conseguente della politica incarnato nell’Autonomia Operaia Organizzata) riconoscibili infiltrati agitano attivisticamente la politica dello sballo. Essi continuano senza alcun reale cambiamento il loro vecchio mestiere di sbirri e mazzieri: l’accecamento dei diversi e degli emarginati in rivolta, e la loro irregimentazione in branchi senza testa da ubriacare con l’eccitamento sportivo di feste e manifestazioni. Essi continuano a spingere altri davanti a sé, sapendoli fin dall’inizio votati alla sconfitta: predestinati a fatali esiti neo-frontisti – inchiodati alla loro condizione di espropriati del senso eversivo dell’iniziativa, dell’amore e della comunicazione dal miserabile elogio della superficialità, di parole insulse, gesti incoerenti, ribellioni disarmate, diversità spettacolari. Cfr. l’articolo di Luigi Manconi di critica ai gruppi dell’area dell’autonomia La brutalità della smorfia e chi se ne compiace («Lotta Continua», 5 maggio 1977): «Si può affermare, paradossalmente ma non troppo, che la democrazia è un fine, non semplicemente un mezzo […]. Per un movimento costruito, per una larga quota, da giovani che sono stati – essi sì – espropriati di tutto, che rappresentano realmente “tutta l’infinita miseria dell’umanità”, che sono stati ridotti al silenzio e alla mutilazione dei gesti, dei desideri, dell’espressione: per questo movimento, dicevo, la democrazia intesa come pieno e illimitato diritto alla parola e al gesto alla ribellione e alla diversità è già sovversione». Wow! 6. Con perfetta sincronia, i neo-terapeuti, tipi questi che certo conoscono il loro mestiere, come avvoltoi sono pronti a papparsi quanti, persa la bussola fra le asperità del delirio, si smarriscano nel deserto della «realtà» capitalistica: per le future schiere di clienti liberatisi del cervello i neo-terapeuti approntano gli ambulatori: «Qui in Italia, significherebbe non accontentarsi di quel che fa Basaglia a Trieste […] gli ambulatori dovremmo farli

noi, e per noi non intendo psicologi e psichiatri, ma tutti quelli che sentono di poter dare un contributo, di qualsiasi genere, a chi vive nella psicosi» («L’Erba Voglio», aprile 1977, p. 6). Rinunci ciascuno alla propria ragione e alle proprie ragioni, alla lucidità di uno scontro coerente e fedele a se stesso col potere, alla sensibilità superiore di se stesso. Chi spinge a questa rinuncia per valorizzare lo spettacolo del proprio finto sballo potrà sempre sperare di piazzarsi come terapeuta o «guru», o almeno come assistente. Ma non di ingannare i rivoluzionari su ciò che è: lo sbirro del servizio d’ordine controculturale d’un «mouvement» neo-frontista. Milano, maggio 1977

«Insurrezione», n. 1, ottobre 1977. Il testo è firmato da Mario Mieli e Francesco Santini. [N.d.C] 1 Cfr. nota 2. *

Care checcacce del «Lambda»*

Milano, 4 ottobre 1977 Care checcacce del «Lambda», mi chiedete di scrivere qualcosa su Bologna e io v’apro le porte del mio cuore, mandandovi il testo di una lettera da me spedita a un carissimo amico quando tornai a Milano da Bologna. Baci Maria L’Africa s’è mossa1 e le oscillazioni m’hanno sollevato le sottane per aria: nell’aria vibravano onde schizofreniche. Soltanto una lettera come quella ricevuta da te prima di partire poteva mettermi nello stato d’animo con cui ho vissuto le tre giornate di Bologna. Mi sono ritrovato ad avere un coraggio che non credevo, la forza della trasparenza e dell’autentico sorriso. Secondo Rosa, «non c’era bisogno che di leggerezza per proteggersi». Alcune delle proposte avanzate a Bologna sono venute dai gay, i quali però si sono trovati a sfilare il giorno della manifestazione in coda al corteo, quando sarebbe stato un giochino da niente chiedere e ottenere la testa del corteo: così tutti i giornali il giorno dopo avrebbero scritto GLI OMOSESSUALI APRONO LA MANIFESTAZIONE A BOLOGNA invece di riportare quanto hanno riportato, e cioè proprio quello che ognuno si aspettava: i culi relegati in fondo, al posto che normalmente spetta loro… Io non ho sfilato con i gay, visto che come sai detesto le retroguardie e sono troppo speedy per adattarmi al passo delle lumache. A Bologna, ti dirò, sono rimasto poco con le checche, perché rifiuto la loro posizione carismatica che mi vuole «divina» a tutti costi,

amata e odiata al tempo stesso. Sono stato con chi incontravo, e ho incontrato tanta gente in gamba. Anche tra i froci c’era della gente in gamba. Cosa non era Bologna fra culi provocanti come non mai, donne che in capo a dieci minuti riuscivano a fare evacuare tutti i maschi dalla piazza, indiani coloratissimi, plotoni di pitrentottisti e bolognesi «normali» che circolavano stupiti nella loro città trasformata in sorpresa! Dovrei aver voglia di scrivere una bella lettera per dipingere un bel quadro. Ma come fare? So che capisci comunque. Fra l’altro, ho constatato la verità di quanto dicevi paragonando gli indiani italiani2 ai punk inglesi. L’intuito m’ha fatto scavalcare un servizio d’ordine, e tutto solo salire sul palco e portar via il microfono a Dario Fo per dire a solo cinquantamila persone riunite in una piazza che erano solo pecore a stare ad ascoltare l’ennesimo pastore incaricato di tenerli a bada, mentre nell’altra piazza – piazza Maggiore che fino a quel pomeriggio era stata il nostro centro – la polizia non lasciava passare nessun compagno affinché vi venisse celebrato in «santa pace» il Congresso eucaristico. Le sinistre mansuete in una piazza, il santissimo difeso dai mitra nell’altra: come dire, lasciar passare il compromesso storico a Bologna e quindi in Italia… e lasciarlo passare come tanti spettatori consenzienti, intontiti da una vedette dello spettacolo, senza che nessuno mettesse in discussione il fatto che ci fosse impedito in accedere, anche singolarmente, nell’altra piazza! Ciò che provava una volta di più, e senza bisogno di far riferimento alla Germania, come non esista soluzione di continuità fra fascismo e democrazia… Eravamo tutti lì, buoni buoni, a dimostrare che i giovani rivoluzionari italiani sanno rispettare le regole democratiche d’un convegno gestito e pubblicizzato dal PCI, con il consenso e l’appoggio di tutti quei venduti del «movimento» e dei gruppi che hanno stipulato e tutelato gli accordi con prefetto e comune! A un certo punto ho gridato il tuo slogan: «Combattere per la pace è come scopare per la castità!», e m’è stato riferito che in quel momento, pronunciando la tua frase, ho avuto in mano la piazza. Poi una valanga di fischi. Me ne sono andato felice mostrando il culo: ero vestito da contadinella inerme. I fischi di quelle pecore erano tanti

belati che confermavano la giustezza del mio intervento: sì, quella gonna gialla, larga come una corolla, quel maglione verde, quel fiore rosso sul petto, rosso come le calzette sopra il collant nero, quelle espadrillas turchesi come il colletto della camicia, quel nastro in vita, quel trucco senza età, erano il mio bel vestito… potrei raccontarti tante altre cose, di come insieme a Justine in abito lungo e liseuse, insieme ad Adriana e ad altri si sia mangiato allegramente e gratis in un ristorante, cantando le nostre canzoni, declamando le nostre poesie: o dell’alpigiano che è stato il mio compagno in questi giorni e di come, grande e grosso qual è, e travestito da Ira Fürstenberg sia riuscito a passare attraverso i cordoni di polizia e a infilarsi in pieno cordone eucaristico! Sono tornato a Milano con le idee più chiare, e molto meno agitato di quando ti scrissi prima di partire. Credo di non avere commesso nessun errore grave a Bologna. Per questo sono stato bene: c’è poco da fare, vestirmi da donna mi scioglie. Ieri sera ci ho pensato accorgendomi che posso benissimo sentirmi vestito da donna anche indossando i jeans di tutti i giorni. E, a conferma di ciò, mi sono divertito al «party» dov’ero. In questa lettera tanto per parlare ti ho parlato enormemente di me… A Bologna ero sempre con te, e con tutti i miei amici, i nostri amici.

«Lambda», n. 8, novembre 1977. I terremoti molto probabilmente dipendono da spostamenti del continente nero. 2 Gli Indiani metropolitani, nel contesto dei movimenti studenteschi degli anni ’70 e, in particolar modo, del movimento del ’77, furono una movenza politica e culturale animata da un’ispirazione contestataria non violenta e dissacrante, ben riassunta nella famosa espressione da loro diffusa: «La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà». [N.d.C.] *

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Chi non si è mai prostituito scagli la prima pietra*

1. Mi si chiede di scrivere qualcosa, un breve pezzo da inserire in un libro sulla prostituzione maschile. Di primo acchito penso di rievocare la serie di procaci ragazzoni che mi offersi nascostamente in casa dei miei, oppure nelle toilettes della Rinascente, quando, vivendo in famiglia, disponevo di denaro sufficiente per concedermi di tanto in tanto questo tipo di piaceri (ciò avveniva prima che perdessi, sul cammino magico della moralisation, l’abitudine borghese di «andare a marchette»). Mi viene poi voglia di raccontare le avventure di quando battevo io stesso e, camuffato da first lady, percorrevo i marciapiedi di Kensington e di Willsden Green a caccia di clienti; e di narrare certe storie di travestiti e prostituti che conobbi, di alcuni simpaticissimi coi quali abitai e chi mi è parso d’incontrare di nuovo, recentemente, nelle pagine di speedy di Le bal des folles di Copi. Ma ecco, mi giungono le fotocopie delle interviste che andranno a formare il nuovo libro: leggendole mi rendo conto che, questa volta, il compito che mi spetta è ben altro. No, non descriverò le cosce di Brunissimo né tantomeno i gusti e la malafede dei miei clienti di allora. Bisognerà piuttosto che mi dia da fare e che cerchi di «sciogliere» alcuni «nodi teorici». 2. L’approccio dei cosiddetti «normali» alla questione omosessuale risulta sempre tarato da pesanti pregiudizi: ciò si spiega se si tiene presente che gli eterosessuali personificano la Norma che si regge sulla repressione dell’Eros in generale e dell’omoerotismo1 in particolare, e se si comprende come la morale sessuale coercitiva intrinseca a tal Norma li induca a

giudicare negativamente a priori tutte le manifestazioni dell’Eros che travalichino gli angusti confini di quanto viene «normalmente» considerato lecito in campo sessuale. Eppure, in ogni eterosessuale di «stretta osservanza» si cela una componente omoerotica latente; e, al di là della censura psichica e di ogni ostentazione di «normalità assoluta», pochissimi sono coloro che non abbiano goduto almeno qualche volta in vita della soddisfazione delle proprie tendenze omoerotiche. L’atteggiamento violento e denigratorio generalmente assunto dai «normali» nei confronti dei cosiddetti «diversi» deriva proprio dalla necessità – per gli etero – di esorcizzare il desiderio omosessuale in loro latente (desiderio che è molto forte); essi convertono in aggressività quell’impulso omoerotico che non osano ammettere alla coscienza ed estrovertono sotto forma negativa la positività inconscia dell’attrazione per le persone dello stesso sesso, odiando, assalendo e disprezzando coloro che invece godono direttamente della propria omosessualità. 3. Quando si parla in pubblico di omoerotismo, così come quando si scrive su questo argomento, non si devono mai dimenticare i pregiudizi degli ascoltatori e dei lettori eterosessuali: basta un niente, basta una svista per contribuire a consolidarli. Le interviste che questo libro raccoglie, per esempio, scevre quali sono di commenti critici rischiano di confermare i pareri retrivi di quanti ritengono che l’omosessualità si presenti necessariamente abbinata a forme di «depravazione» e di degradazione dell’esistenza, così come alla perdita di ogni sentimento di dignità umana; peraltro, interviste di questo tipo non rivelano nulla di particolarmente nuovo a chi già conosca il «mondo» della prostituzione maschile e il suo dramma. E l’omosessuale manifesto che sia ancor oggi schiavo del senso di colpa indotto (il senso di colpa che affligge tuttora molti omosessuali dipende dall’interiorizzazione della condanna sociale) non trarrà certo uno stimolo liberatorio né un incoraggiamento alla decolpevolizzazione dalla lettura di questo libro. Bisogna perciò tentare di colmare alcune lacune, soffermandoci

concisamente su due o più aspetti della problematica che le interviste da sole non chiariscono, dando adito a pericolosi fraintendimenti. 4. Per prima cosa, il prostituirsi non deve essere considerato un tipo di lavoro del tutto «anomalo», dal momento che il lavoro in generale, nella società capitalistica, corrisponde a una forma di prostituzione. Vogliamo citare Marx? Egli fa proprio il parere di Pecqueur, secondo il quale l’alienazione salariale non è che «prostituzione della classe non proprietaria sotto tutte le forme»2. Più specificamente, Marx aggiunge: «La prostituzione in generale si presenta come una fase necessaria del carattere sociale delle disposizioni, capacità, abilità e attività generali. In termini più compiti si dice: l’universale rapporto di utilità e utilizzabilità»3. «Il salario – commenta allora Luciano Parinetto – è il prezzo della prostituzione dell’operaio»4. L’analisi marxiana della prostituzione come paradigma dell’intera alienazione lavorativa non può essere seguita a fondo in queste brevi pagine; possiamo tuttavia notare come la teoria metapsicologica che coglie nel processo di civilizzazione la conversione di potenti forze libidiche comprovi la fondatezza del punto di vista marxiano che individua nella prostituzione un carattere peculiare generale del lavoro estraniato: infatti, la deviazione delle energie libidiche dalla meta sessuale rende possibile la loro sublimazione nella sfera produttiva; perciò quando si definisce meretricio l’alienazione salariale non ci si limita a far uso di una metafora, dal momento che la forza lavoro prostituita al capitale è effettivamente libido repressa e sublimata. La prostituzione in senso proprio (quella di cui si parla in questo libro) si differenzia dal lavoro salariato in quanto – fra l’altro – è prostituzione di Eros non sublimato (e non per questo libero, come le interviste qui raccolte dimostrano). Nel Regno della Libertà (comunismo) – sempre che si riesca a conquistarlo arrestando il processo mortifero della totalizzazione capitalistica che tende all’annientamento della specie – non ci sarà lavoro (Arbeit) e l’Eros non verrà più repressivamente sublimato nella produzione; sbollito il «principio di prestazione»,

gli esseri umani esplicheranno un’attività (Tätigkeit) che si manifesterà ben diversamente come sublime azione, affiancata dalle libere espressioni giocose dell’Eros polimorfo (pansessualità/transessualità)5. Ciò detto, che nella società odierna è tanto dabbene da credere di non far mercimonio di sé, in certo qual modo, lavorando? D’altra parte, come spiega Marx, «la prostituzione è un rapporto di tale natura che vi rientra non solo chi è prostituito ma anche chi prostituisce – la cui abiezione è più grande – anche il capitalista ecc., rientra in questa categoria»6. Chi non si è mai prostituito, o chi non prostituisce, scagli la prima pietra contro battone e battoni. 5. Capita spesso che i «marchettari» affermino di non essere omosessuali («Io mica sono omosessuale, io»; oppure, «Ma io non so’ mica frocio, io i froci li odio»): trattasi di «begli» esempi di negazione (nel senso psicoanalitico), che ricusano quanto l’evidenza lampante dimostra. Secondo Freud, la negazione rappresenta «un modo di prendere coscienza del rimosso, in verità già una revoca della rimozione, ma certo non un’accettazione del rimosso»7: in questi casi, poi, «la revoca della rimozione» è provata e riprovata dai fatti e dagli atti: non è dunque di rimozione dell’omoerotismo che si deve parlare qualora un prostituto che vada con uomini8 dichiari di non essere omosessuale, quanto piuttosto d’ipocrisia, oppure di autoinganno (ma l’«autoinganno» è pur sempre una forma d’ipocrisia). Come ho scritto altrove, noi «ragazzi di vita» bisogna riconoscere «degli omosessuali che, a causa della repressione dell’omoerotismo e della miseria in cui sono costretti a vivere, possono dare adito ai loro impulsi omoerotici soltanto adducendo agli occhi propri e degli altri la necessità (comunque pretestuosa se riferita all’omosessualità) di far soldi»9. E se i «marchettari» non si considerano omosessuali, è perché di solito avvertono anche una certa attrazione per le donne o «meglio» per l’oggettivazione del sesso femminile: «Io vado con le donne, con le fighe, e con loro godo». Essi «sono talmente repressi di fronte alla propria omosessualità, da tendere in genere a viverla limitandosi al solo

ruolo “attivo” (in realtà passivo per eccellenza), e a mistificarla, asserendo di porre al centro del loro interesse non il piacere, ma il denaro che riescono a estorcere al partner “effemminato”. Il rifiuto che questi giovani esprimono nei confronti dell’omoerotismo è profondo: il capitale e l’ideologia del primato eterosessuale hanno radicato in loro il disprezzo per l’omosessualità e per la checca in particolare»10. Il sistema li costringe, in quanto proletari11, a sopravvivere in condizioni di grave ristrettezza e di precarietà economiche: nel contempo, pubblicizza dinanzi a loro i costosi feticci del sesso, spingendoli a mercificare sempre più il corpo e a sognare di conseguire il benessere mediante l’acquisto di merci «prestigiose»: «Io vojo ave’ i sordi e basta. Adesso me so’ fatto la moto. Fra un po’ me vojo fa’ la macchina». Inoltre offre loro gratificazioni palliative legate al privilegio fallico, gratificazioni che li inducono a considerarsi «qualcuno» nell’ottica capitalistica della valorizzazione del sesso: «Mi pagano perché inculo, perché sono uno stallone». In tal modo – e cioè proponendo loro falsi ideali consumistici e illudendoli di partecipare al potere almeno in quanto maschi – il sistema li asservisce completamente, li incita al potere, stornando da sé quella rabbia che «i ragazzi di vita», da proletari emarginati, rivolgerebbero altrimenti contro di esso con impeto rivoluzionario. Così, invece che contro il capitale, i peripatetici sfognano in genere la propria rabbia attaccando e schernendo chi appare più in basso di loro sulla scala fallica del valore: le donne e le checche. Eppure, anch’essi sono checche12: di solito, però, a causa dell’interiorizzazione dell’ideologia maschile-eterosessuale che istupidisce, si trovano nella necessità di negare l’evidenza dei propri costanti rapporti omoerotici e non perdono mai l’occasione di dischiararsi drasticamente antiomosessuali: «I culani io li odio, mi fanno schifo»; «Io so’ uomo, mica so’ frocio. I froci me fanno schifo, e quanno me li inculo certe volte me vié pure voglia de menaje, a ’sti schifosi». Quando aggrediscono le checche, «i “ragazzi di vita” dimostrano di non essere soltanto i parassiti, ma anche i boia del “mondo gay”, nei confronti del quale eseguono le sentenze che il sistema ha già

pronunciato tramite l’emarginazione e la condanna dell’omosessualità, confinata in ghetti più o meno clandestini e malsicuri, o comunque appartati, separati dal resto della società»13. 6. Certo, il maschilismo e la violenza che tanto vistosamente predominano nell’ambiente dei prostituti sono detestabili: eppure è sciocco oltre che reazionario prendersela con i «ragazzi di vita». Infatti, se Pasolini è vittima della società che perseguita e ghettizza l’omoerotismo, anche Pelosi ne è vittima. L’autentico assassino è il sistema che criminalizza un numero crescente di giovani proletari, costringendoli, fra l’altro, a «fare la vita» e fomentano in loro la cieca aggressività e il fallocratismo; è il sistema che obbliga ognuno di noi a compiere un lavoro alienante (prostituendoci o prostituendo) e che impone alla gente di adattarsi a una Norma che sancisce la repressione dell’Eros, garantendone la sublimazione nel lavoro ormai totalmente inutile e distruttivo; è il sistema che colpisce ed emargina chi non si adegui alla Norma: esso è il nostro unico, vero nemico mortale. Soltanto una rivoluzione globale può sconfiggerlo e salvare la specie (frattanto, per quel che mi concerne, mi do da fare proseguendo il cammino della moralisation: altro che «marchettoni»! Non ho mai amato, tanto quanto adesso, ragazzi così belli, né ho mai parimenti goduto).

Saggio pubblicato in Una questione diversa. Testimonianze sulla prostituzione maschile, a cura di Riccardo Reim e Antonio Veneziani, Cosenza-Roma, Lerici, 1978. Il volume, «attraverso conversazioni, interviste e materiali a volte reperiti faticosamente», come indicato nella quarta di copertina, intende far «scoprire luoghi, fatti e persone in cui si rispecchia un universo antropologico “altro”», con anche i contributi di Aldo Braibanti, Francesco Bruno, Laura di Nola, Enrico Groppali, Dacia Maraini, Angelo Pezzana, Fernanda Pivano ed Enzo Siciliano. [N.d.C.] 1 Omoerotismo è sinonimo di omosessualità. 2 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1970, p. 25. 3 K. Marx, Lineamenti fondamentali della crititica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1970, vol. II, pp. 105-106. *

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L. Parinetto, Corpo e rivoluzione in Marx, Milano, Moizzi/contemporanea, 1977, p.

27. Su questi argomenti ho scritto approfonditamente in Elementi di critica omosessuale, Torino, Einaudi, 1977. 6 K. Marx, Manoscritti, cit., pp. 112-113, nota 1. 7 S. Freud, La negazione, trad. it. di Elvio Fachinelli da Gesammelte Werke, vol. IV, pp. 11-15. 8 Per chi non lo sapesse, esistono anche uomini che si prostituiscono a donne. 9 Mieli, Elementi, cit., p. 34. 10 Ibid., p. 155. 11 Oggi, è erroneo e anacronistico definire sottoproletari i «ragazzi di vita». 12 Alcuni degli intervistati ammettono di essere omosessuali: trattasi comunque di eccezioni, che vengono purtroppo a confermare la regola. I prostituti travestiti (o più esattamente i travestiti che vengono costretti a prostituirsi) invece ammettono (quasi) sempre di essere gay. 13 Mieli, Elementi, cit., p. 155. 5

Il «divino» androgino*

Salvo si stropiccia gli occhi fino a riempirseli di un mazzo di violette un po’ fanées; quindi s’infila tra le lenzuola, proponendosi di distogliere il pensiero da Giovanni, il quale siede rigido e gentile sulla sponda dell’altro letto, nell’angolo opposto della stanza: non vuole che il «ragazzo più bello di Milano» si senta in alcun modo gravato dalla sua attenzione amorosa. «Chissà che fine avrà fatto quel Cristo biondo come frumento che s’incontrava a Speakers’ Corner!». Per associazione istantanea, a Salvo torna in mente un altro Gesù, dimenticato da anni: lo rivede intento a distribuire uvetta e sorrisi agli astanti vestito di coperte, così come se lo ricorda inneggiare con le groupies ai concerti di musica rock, o fare il suo ingresso quasi etereo tra i gay multicolori e mondani che affollavano la sacrestia della Chiesa di Tutti i Santi, là dove si tenevano i meeting di Liberazione. In mezzo al via vai delle folles, quell’esile Messia ascoltava le concioni e i battibecchi senza scomporsi, terso e assente – pareva –, ma sempre pronto a elargire a chiunque un po’ dei suoi pinoli e una manciata d’uva passa: Salvo, al pari di tutti, se ne lavava le mani dandolo per pazzo, non osava riflettere sulle sue affermazioni – malgrado fossero molto più queer di quelle degli altri… – tanto meno immedesimarsi in lui. Sorvolava, ritoccandosi le labbra con l’amaranto. Nel corso delle riunioni, di Salvo qualcuno aveva detto ch’era unapproachable nei suoi costumi inediti da Madonna del Bagno Turco: outfit vagamente ispirati alla Carmen Miranda, col collo e la nuca bendati, e quel profilo antico e la testa carica di «sovrastrutture» (canestri, ciliegie, farfalle…).

Le membra gracili s’intravvedevano sotto il mantello a ruota, o nude sotto asciugamani tagliati a trapezio, trafugati dai bagni comunali dell’East End: panni ampi di cotone a strisce diagonali celesti, sulle quali si leggeva, ricamata col filo bianco, la scritta Popular Baths 1968. Quando incrociava la Vergine mediterranea, il pallido Messia londinese le sorrideva, ed ella gli rispondeva, partecipe sì, però salottiera, e mai dimentica del «circondario» come una timida star. Le poche parole che si scambiavano erano lievi e rituali: Salvo sapeva d’essere tenuto alto nella considerazione di quel giovane che si prendeva per Dio. «Egli m’aveva previsto: io sono Cristo Re e questo lo debbo tacere. Anche Gesù morì: posseggo solo incertezze. L’unica verità l’ho dimenticata». Su questi argomenti, Salvo sa che, almeno per ora, il silenzio s’impone con Giovanni; adesso, tuttavia, il pensiero può scivolare muto fino a lui senza recargli disturbo, giacché ormai ha spento la luce e quieto civetta col sonno. Quando fa all’amore con Giovanni, Salvo si sente sia donna che uomo intercalando: entrambe le dimensioni gli piacciono e, ognuna a suo modo, ambedue affascinano il ragazzo. Se però si distrae, Giovanni immediatamente lo avverte e la foga svanisce e tutto si fa più smorto; soltanto quando si riprende e torna presente, cominciano di nuovo a palpitare all’unisono… Egocentrico com’è, Salvo ha l’impressione che il buon andamento del rapporto dipenda soprattutto da lui: a ciò sono intrinseche le sue resistenze, le sue paure… ed egli ne è cosciente mentre rivolge lo sguardo all’amico per comunicargli che gli vuole un bene dell’anima. Se Salvo non si dilegua col pensiero, l’intesa è al culmine, e allora non solo sente l’amante godere, ma quasi si confonde con lui, e non fa in tempo ad accorgersene che Giovanni gli sussurra tra i baci: «Non so più quale sia il tuo cazzo e quale il mio». Ecco per Salvo realizzato il desiderio quinquennale di giacere col «ragazzo più bello di Milano»: «Ma a che pro, se ancora mi preoccupo di non essere attraente quando lui? Ancora non m’amo al punto che la mia verve si sprigioni tra le sue braccia. Questo sfuggirmi è insieme un fuggire da lui, che è

Giovanni e non il ragazzo più bello di…». Salvo chiede al demone (che lo sostine mentalmente) di conseguire una bellezza propria, oltre al godimento di quella altrui: subito si profila nel buio il volto ieratico di sua sorella Maddalena, mentre l’interlocutore intimo suggerisce: «Tu puoi avere questo tipo di fascino». È vero; e se Giovanni ha qualche anno di meno, con lui Salvo prova la fondatezza del frammento di Nietzsche: «Vuoi restare giovane? Affrettati a diventare vecchio». Infatti, non appena si lascia morire ed è vieille tante qual è e sarà, il suo viso si fa orientale e Giovanni, eccitato, risplende come uno specchio… In tutto ciò, seduzione e possessività rientrano ancor troppo. Salvo vorrebbe disfarsene, ben sapendo che fintantoché si sforzerà di esercitare un potere su di lui, sarà Giovanni a vincolarlo a sé. D’altra parte, il demone parla esplicito: «Non devi desiderare di legare a te nessuno». Salvo si rende conto della doppia negazione presente in questo comandamento. Forse la voce interiore si esprime a lettere rovesciate». Che il demone fosse in me l’ebbi chiaro quel mattino svegliandomi, per cui potei percorrere euforico le calli, malgrado l’ostile provincialismo dei veneziani. Come il bagatto, sono tuttora incapace di servirmi della bacchetta magica… La bacchetta è il cazzo. Salvo lo indovinerà affondando le mani nelle tasche laterali dei calzoni, una notte d’inverno successivo, ad Amsterdam. Rinvigorito dalla scoperta, si metterà a correre lungo il Keizersgracht. «D’ora in avanti non porterò più mutande; e dato che mi piacciono gli uccelli, trasformerò la mia vita in voliera».

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«Lambda», n. 22, estate 1979.

La normalità è patologica?*

Mario Mieli, giovane studioso milanese dichiaratamente gay, si è laureato in filosofia con una tesi di laurea sull’omosessualità che è poi stata pubblicata dall’editore Einaudi nell’aprile 1977, dal titolo Elementi di critica omosessuale. Nel suo testo, accolto con interesse e non poche polemiche, il Mieli sostiene, con un’ampia e lucida analisi, come l’omosessualità non deve essere considerata un problema di minoranze, ma un’esperienza che si inserisce all’universale desiderio omosessuale, congenito in ogni essere umano se non fosse nella maggioranza dei casi rimosso o quasi. In questo senso, secondo il Mieli, la liberazione dell’omosessualità rientrerebbe in un più ampio quadro di emancipazione umana e politica e avrebbe la benefica conseguenza di liberare gli esseri umani da vecchi sensi di colpa, nonché di opporsi al dominio della Norma eterosessuale, che garantisce tra l’altro «l’assoggettamento dell’Eros al lavoro alienato e la separazione tra uomini, tra donne e tra uomini e donne». Ora, poiché il Mieli sostiene, con Spiers (psichiatra americano), che gli unici esperti di omosessualità sono gli omosessuali, abbiamo ritenuto necessario passargli la testimonianza di Claudia N., per averne una competente opinione. Casi come quello narrato da Claudia N. sono più comuni di quanto non si creda: è la repressione socialmente perpetrata contro ogni essere umano che li determina (così come provoca innumerevoli altre disgrazie…). La repressione maschera le nostre tendenze profonde: e permette che una donna sposi non il primo venuto, bensì un ex compagno di scuola, senza essersi mai accorta

che lui è omosessuale. La Norma, che si fonda sulla repressione delle componenti dell’Eros cosiddette «perverse», impone il misconoscimento di tutti: due giovani possono dunque sposarsi e mettere al mondo dei figli senza che per lungo tempo trapeli nell’intimità coniugale la prevalenza del desiderio omosessuale in uno o in entrambi i coniugi. Leggendo una testimonianza come quella di Claudia N., vien fatto di osservare come un «destino» del genere se lo sia in fondo «meritato»: lo fanno intuire le parole con cui conclude il suo scritto («almeno mi consolo sentendomi tanto normale»). Se è davvero così contenta d’esser «normale», ebbene, ecco che cerca di consolarsi proprio con la causa principale dei suoi guai: poiché è stata la Norma, assai più del marito, a ingannarla. La Norma infatti è mistificante e acceca, in quanto si basa sulla rimozione o più esattamente sulla repressione degli impulsi libidici definiti «anormali», e porta perciò a fraintendere noi stessi così come gli altri, giacché siamo tutti, polimorfi «perversi». La Norma induce ad accettare come «normale» l’ipocrisia del comportamento di chi, come il marito di Claudia, si adegui malgrado sia gay all’esteriorità della Norma socialmente riconosciuta. Viene invece giudicata «anormale» la sincera manifestazione della propria «diversità» da parte di chi provi desideri sessuali considerati dai più «patologici» oppure riprovevoli. Pertanto la vera responsabilità, in casi come quello di Claudia N., non è né di lei che, fedele alla Norma, si è lasciata ingannare, né di lui che per rispetto della Norma ha scelto di fingere strumentalizzando l’ingenuità e la disponibilità erotica e affettiva di una donna per crearsi un «alibi sociale» che gli desse una parvenza di «normalità». L’autentica responsabilità è del Potere capitalistico che impone con tutti i suoi mezzi la falsità e l’ipocrisia, a sostegno di una Norma che gli è funzionale: infatti è la «normalità» a garantire la repressione della «natura» umana profonda che, se fosse libera, anzitutto si scrollerebbe di dosso il peso colpevolizzante delle regole censorie indispensabili al sussistere di questa società. E tuttavia non si può scaricare sul sistema l’intera responsabilità di

casi come quello narrato da Claudia N., senza tener presente che questo tipo di società e di modo di produzione si reggono soprattutto sul «tacito» consenso di tutti coloro che accettano di divenirne schiavi e di adattarsi alla Norma imposta (sia essa sessuale, «etica», comportamentistica o ideologica). Tutto si specchia come in uno specchio deformante nella falsa coscienza degli schiavi consenzienti: tutto è falso per loro come per Claudia N., la quale ha creduto per anni nella fedeltà coniugale di un uomo che conosceva malissimo, dal momento che non riusciva neppure ad accorgersi della sua predilezione per i cazzi baffuti alla Sharif. Tutto è falso e ipocrita anche per coloro che, come il marito di Claudia, scelgono il matrimonio di copertura pur di celare i propri impulsi erotici presunti «anormali»: e corrono dallo psicologo per accontentare la moglie che ha messo irresponsabilmente incinta, allo scopo di dimostrarsi, almeno in ciò, «normali». Chi si adegua alla Norma per convinzione o per ipocrisia regge la coda al sistema che impone la falsità generalizzata: e il Mostro (il sistema) «si morde la coda»: è esso che ci nutre soltanto di finzione e di norme, ed è esso che ci induce, da codini, a gettarcisi in pasto… Dunque, cara Claudia, tu che sei infermiera, prova a interrogarti su quanto sia realmente patologico: se la Norma che è falsa e prescrive il falso, o se l’emersione di desideri e il comportamento di atti che alla Norma si oppongono.

* «Cosmopolitan», aprile 1979. Il testo è preceduto da una nota della redazione di «Cosmopolitan». [N.d.C.].

Siamo i più creativi*

Perfino le femministe, spesso criticano noi checche, il nostro abbigliamento e il comportamento che secondo loro tendono a riproporre il feticcio «femminile» stereotipato combattuto dalle donne. Ma se una donna agghindata come Caterina Caselli o come Camilla Cederna per il sistema oggi è «normale», un uomo vestito come Caterina Boratto o come Germaine Greer per la gente «normale» resta pur sempre «anormale», e nel suo travestimento risulta evidente una carica rivoluzionaria. Meno male che ci stanno i froci che hanno un po’ di fantasia: noi rivendichiamo la libertà di conciarci come ci pare e piace, di optare un giorno per un certo abbigliamento e il giorno dopo per un altro ambiguo, di portare le piume e le cravatte così come le guaine di leopardo e il biberon; le borchie, il cuoio e le fruste da «leather queen», gli stracci sudati e bisunti da scaricatore di porto o l’abito di tulle Stefanacci formato premaman. Noi ci divertiamo a sbizzarrirci, pescando nella (pre)istoria e nelle pattumiere, le tenute di ieri, di oggi e di domani, la paccottiglia, gli indumenti e i simbolismi che meglio esprimono l’umore momentaneo: come dice Antonio Donato, noi intendiamo comunicare anche mediante l’abbigliamento la «schizofrenia» che sta in «fondo» alla vita, dietro il paravento censorio del «normale» travestitismo. Infatti, a parer nostro, i veri travestiti sono le persone «normali»: come l’eterosessualità assoluta che tanto sbandierano maschera la disponibilità polimorfa e purtroppo inibita del loro desiderio, così gli abiti standard, Santa o Montenapo, nascondono e avviliscono l’essere umano mirabile che giace in loro represso.

Il nostro travestitismo è condannato poiché getta in faccia a tutti la realtà funesta del generale travestitismo, che deve restare taciuto, tacitamente scontato. Lungi dall’essere particolarmente buffo, il travestito denuncia quanto tragicamente ridicola sia la stragrande maggioranza delle persone, nelle loro divise mostruose da maschio o da «donna». Avete mai fatto un «viaggio» in metrò? Come scrissi una volta, «se il travestito appare ridicolo a chi lo incontra, tristemente ridicolissima è per il travestito la nudità di chi, vestito tout court, gli rida in faccia»1. Per un uomo, vestirsi da «donna» non significa necessariamente riproporre la «donna-oggetto»: anzitutto, perché non è una donna, e il feticismo maschile imposto dal capitale lo vorrebbe abbigliato ben diversamente, reificato in tutt’altra tenuta, vestito da maschio oppure «unisex». Inoltre, una gonna può essere comodissima, fresca e leggera quando fa caldo, calda e pesante se si gela: le donne che vanno «normalmente» in giro travestite da uomo non è detto che si sentano più a loro agio nei jeans fasciatissimi di quanto non lo sia un finocchio in tenuta da strega, con le sottane ampie e il cappello a larghe falde. Ma un uomo può provare piacere anche indossando una toilette «femminile» scomodissima: per un gay può essere eccitante e assai «trippante» portare i tacchi a spillo, il make-up più elaborato, il reggicalze e la pancera di raso celeste. Di nuovo, le femministe che contestano a noi gay e in particolare ai travestiti gli abbigliamenti da «donna-oggetto», intervengono a colpevolizzare il «gay humour», il gusto transessuale, la follia delle «folles»: esse introducono un nuovo moralismo che è poi lo stravecchio moralismo anti-gay, rimpastato per l’occasione con categorie moderne e farcito di un femminismo ideologico, e ideologico poiché fa da «schermo» al tabù anti-omosessuale, alla paura dell’omosessualità, all’intenzione di riformare la Norma senza eliminarla.

* «Donna», n. 9, dicembre 1980-gennaio 1981. Brano tratto da Elementi di critica omosessuale, Milano, Feltrinelli, 2017, pp. 201-202. [N.d.C.] 1 È una citazione dell’articolo My first lady (p. 116).

La sagra dell’impotenza. Una serata al One Way*

Sabato grasso. La gente sfoga mediocremente, in poche sere di carnevale, quella fantasia che di solito reprime, vestendo secondo i frusti canoni dell’ineleganza. Ma io vado al One Way di Sesto S. Giovanni, l’unico locale dove, stanotte, non mi lascerebbero entrare en femme: né stanotte né mai. È una discoteca dove si scopa tra uomini; vietato l’ingresso alle donne e a chiunque porti abiti femminili. Ma neanche le cravatte sono ammesse: soltanto jeans, shorts, stivali, cuoio nero. Odio questi posti dove di rigore è un certo tipo di tenuta «eccitante». Mercificazione dell’omosessualità, virilismo competitivo e complessato, qui come a New York. Gay rincoglioniti che accettano regole assurde e pagano quindicimila lire per entrare. Sarà il prezzo del sabato grasso, più alto dell’usuale. All’entrata mi fanno storie. La mia maglietta non piace, ma in realtà è l’esilità del torace che il «buttafuori» non accetta. Lo incenerisco con lo sguardo. Quello cambia idea: mi lascia entrare perché sa chi sono. Detesto godere del privilegio della mia piccola notorietà. Brutto coglione maleducato che osa impedirmi l’ingresso perché la mia presenza androgina farebbe defantasmare quelle quattro checche! A dire il vero sono quattrocento. Entro e mi sento offeso. Mi sdraio. Da sempre soffro l’insulso razzismo che oppone agli uomini d’aspetto femmineo gli odiosi «normali» e, insieme a loro, i gay schiavi della norma. Musica disco poco varia, cattiva. Uno stambergone arredato alla meglio. Chiedo dove si scopi: col solito birignao da checche brianzole due mi rispondono: «Laggiù, quando c’è più calca».

Allora ci vado, mi tiro giù i pantaloni, inizio a farmi una sega. Scoprirò che sono stata io a dare il via. Centinaia di froci che pomiciano. Ma non è una bell’orgia! Quasi tutti inibiti, cazzi poco duri, qualcuno nudo, gli altri con le brache a mezz’asta. Girano «poppers», si sniffa imbesuiti, l’odore del capitale nelle narici, la musica del capitale nelle orecchie, un cazzo in bocca, l’altro in culo, un’anima caritatevole che ti fa un pompino. Alcuni ballano con calzoni aperti sul culo, alcuni seminudi, mascherati da indiani, altri da cow-boys. Non una figa da saloon. I cazzi che succhio hanno tutti lo stesso sapore. Non so chi mi stia chiavando, se sia giovane o vecchio, bello o brutto: guardo innanzi, ho cosce e uccelli sotto il naso. Io animo la stanca scena. Disprezzo quasi tutti costoro. Ognuno offre la propria mercanzia secondo le leggi competitive del mercato. Nessuno che ti guardi negli occhi, o quasi. Occhiate sfuggenti, molto senso di colpa. È impressionante come, in tutta questa messinscena virile, i cazzi facciano cilecca. Son anche pochi quelli che, come me, danno via senza problemi il culo. Molto «piccolo punto» ah, nobili chiavate degne di me, Lady Godiva de Sade Kundalini! Cos’è questa staticità? Non si parla! Non si comunica! Non si ride! Ne ho piene le balle di questa gente: la sento così inferiore! È orrendo che abbiano i miei stessi «diritti», in questo mondo di merda! Ah, schifo di democrazia! Poveri cretini imbecilli sui quali scoppierà la Terza guerra mondiale! Maledetti che accettano il ghetto al punto di non sapercisi nemmeno divertire. Della metafisica del sesso non hanno manco sentito parlare. E dire che se possono farsi così sfruttare in ghetti come questi, lo devono al coraggio di noi che, per primi, agimmo per portare l’omosessualità allo scoperto! Questi imbecilli hanno permesso che il capitale ne facesse una moda. Cretini loro come tutti i gay acculturati vari Arbasino, de Pisis o checche colpevolizzate come Pasolini, tutti miserevoli stronzi. Il nostro coraggio è mille volte superiore al loro: è anzitutto il coraggio di pensare liberamente. Essi non hanno capito cosa volesse dire autentica liberazione dell’Eros e accettano la desublimazione repressiva imposta dal

sistema pur di non guardare profondamente in se stessi e seriamente alla vita. La guerra nucleare, la catastrofe incombente se la meritano, come quasi tutti, vigliacchi.

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«Grattacielo», Milano, 1981.

Morte in diretta: «La morale è qualcosa di proibito!» (Nietzsche)*

Nel n. 1 di «Grattacielo» è stata pubblicata un’intervista ad Andy Warhol, in coda alla quale si legge la seguente postilla: «I filmini porno con la morte in diretta sono l’ultimo costosissimo brivido dei raffinati newyorkesi: corpi di donna a basso costo (drogate, sudamericane, matte) o di animali, ammazzati, squartati, fatti a pezzi dal vivo, mentre la cinepresa gira». Questa nota è motivata dalla prima domanda, che suona semplicemente così: «Morte in diretta?». Egli risponde evasivamente, per non scontentare quanti dei suoi clienti apprezzano quel genere di film e quanti invece non sopporterebbero di sentirlo inneggiare all’assassinio; dice: «Ho trovato una persona, voglio dire il protagonista di un mio film, che ha tredici cicatrici su un polso e quindici cicatrici sull’altro, in seguito a vari tentativi di suicidio. Ha dei polsi meravigliosi. Queste cicatrici sono tutte a colori. Noi puntavamo l’obiettivo sui suoi polsi e lui indicava ogni cicatrice e raccontava la sua storia, come se l’era procurata, e perché, e quello che era successo dopo». Lasciamo a Warhol e alla gente come lui il gusto della cinica ipocrisia. Tracciando un breve suo profilo autobiografico, «Grattacielo» dimentica che Valerie Solanas tentò d’assassinarlo. Non scelse a caso il bersaglio. L’autrice d’uno dei più interessanti pamphlets contemporanei (lo SCUM Manifesto)1, le cui tesi antimaschili sono discutibili ma alquanto fondate, decise di colpire, in Warhol, il Nemico: uno per tutti, un po’ come il Milite Ignoto. Puntò la pistola contro una famosa carogna.

Più delle spregevoli risposte di Warhol alle domande postegli, m’ha indignato il tono «disinvolto» della nota – compilata dalla redazione di «Grattacielo» sulla morte in diretta. Chi riporta una notizia del genere senza commentarla criticamente si rende complice degli assassini autori e produttori di quei film che, come scrivono le signore à la page di «Grattacielo», «sono l’ultimo costosissimo brivido dei raffinati newyorkesi». Un giudizio negativo implicito – ovvero inespresso – su tale «cinematografia», dal momento ch’è di moda il cinismo, sarebbe quanto meno vile. Voglio far presente che una psicoanalista milanese, alla quale ho comunicato il mio sdegno dopo aver letto la postilla in questione, si rifiuta di credere che la notizia sia vera! Così com’è riportata, è bravata: se da un lato infatti un’anima «pulita» può dubitarne, dall’altro chi è avvezzo al cinismo dilagante troverà in questi «raffinati» newyorkesi – nei loro «brividi» – il modello. Si sappia come vengono girati tali film. I produttori-registi s’accordano con magnaccia, che convincono donne da loro sfruttate – orfane, prive di parenti – a fare un film porno. Una volta sul set, vengono massacrate. I magnaccia incassano. Che ammazzare e veder morire ammazzati piaccia, è risaputo. Si pensi al successo dei vari Mondo cane e delle guerre. Si pensi alle corride (visto che molti di questi «capolavori» son girati a spese di bestie). Pensiamo al divertimento d’un film in cui Ida Faré, Annamaria Rodari, Mici Toniolo ecc., redattrici di questo giornale, venissero violentate e squartate dinanzi alla macchina da presa. Sul set, tali «dive» mi capirebbero!… Di tutte le cosiddette «perversioni», il sadismo è l’unica sulla quale Sade non abbia detto l’ultima parola. Omosessualità, incesto, voyeurismo, esibizionismo, urofilia, coprofilia, feticismo, zooerastia, necrofilia, pederastia, masochismo sono innocui: non si vorrà essere così moralisti da impedire a chi lo desideri di farsi ammazzare. Ma quando si tratta d’uccidere chi non vuole, allora neppure le ragioni del Divino Marchese sono inoppugnabili: suonan

«dogmatiche», come qualsiasi ipostasi naturalistica della violenza e dell’odio. Il limite di Sade è nel non aver voluto o saputo auspicare una liberazione dell’Eros che migliorasse la vita di tutti; la sua dialettica morale e filosofica si blocca dov’egli afferma, al di là e al di sopra d’ogni plausibile argomentazione contraria, la soddisfazione della propria brama omicida da parte del libertino. Scritta in anni di trapasso dall’età feudale a quella capitalistica, l’opera di Sade prefigura l’inferno cui il capitalismo avrebbe condannato la specie. Basti notare che il capitale – parola che soltanto chi è compromesso col Potere trova oggi priva di senso – propaganda in tutte le sue forme la violenza. Io, come potenziale spettatore dei film Morte in diretta, mi sento pure incitato alla violenza: se la mia vendetta non lasciasse il tempo che trova – giacché oggi, più che mai, è difficile usare la violenza contro il capitale – ne ammazzerei volentieri produttori e autori, così come truciderei qualche «raffinato» newyorkese… Sul sadismo bisogna avere le idee elastiche: intanto, esso va usato contro il Potere, in senso rivoluzionario. Inoltre se ne può godere a complemento del masochismo, là dove effettivamente dia piacere al partner (è questa, ad esempio, la tesi fondamentale dell’Eulenspiegel Society, movimento sadomasochista americano). Circa ogni altro suo sbocco, epoché, ovvero sospensione del giudizio: il che non significa cessare d’interrogarsi, pensare, sperimentare. Per concludere, una breve analisi della seconda parte della nota di «Grattacielo»: «Corpi di donna a basso costo (drogate, sudamericane, matte) o animali, ammazzati, squartati, fatti a pezzi dal vivo, mentre la cinepresa gira». Scrivere corpi di donna invece di donne è di per sé sviante e apologetico nei riguardi di questi «filmini» (così, s’è visto, la nota li definisce nella prima parte): vengono uccise donne, esseri umani, o bestie, non corpi di donna o d’animali. Corpo di donna è già cadavere: così formulata, la nota turba meno la coscienza di

molti lettori, pronti a sorvolare su questi «assassini di cadaveri dal vivo». Inoltre – dati i pregiudizi dei più contro la povertà, il Sud America, la droga, la cosiddetta «follia» – definire le vittime «corpi di donna a basso costo (drogate, sudamericane, matte)» equivale a dire: non essere umani come tutti gli altri vengono ammazzati per lucro e per il gusto d’americani raffinati quanto noi redattrici di «Grattacielo» (titolo così newyorkese!), bensì donnacce di second’ordine! Matte! Coi miei complimenti.

«Grattacielo», Milano, 1981. Lo SCUM Manifesto, dove SCUM sta per Society for Cutting Up Men, è oggi ripubblicato nella Trilogia SCUM. Scritti di Valerie Solanas, a cura di Stefania Arcara e Deborah Ardilli, Milano, Morellini, 2017. [N.d.C.] *

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Non c’è più tempo da perdere*

Decenni or sono Einstein scrisse: «Il nostro mondo si trova di fronte a una crisi di cui ancora non si rendono ben conto coloro che hanno il potere di prendere decisioni. La potenza incontrollata dell’atomo ha cambiato ogni cosa tranne il nostro modo di pensare, e così noi siamo trascinati verso una catastrofe senza paragone» (A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, Boringhieri). Se questo era vero allora, oggi è più vero che mai. Negli anni della cosiddetta distensione sono state prodotte armi assai più potenti di quante ne siano state usate dall’età della pietra a Hiroshima. Tutti sanno che l’uomo ha sempre usato le armi più micidiali in suo possesso: solo l’eccezione che venisse a confermare la regola ci salverebbe dalla catastrofe; ma non sembra che gli uomini che detengono il potere oggi abbiano la testa più a posto di quelli che scatenarono la prima e la seconda guerra mondiale. Il governo italiano non ha nemmeno protestato ufficialmente per le contraddittorie affermazioni di Haig Winberger sulla possibilità d’una guerra nucleare in Europa. Gli uomini di potere e i partiti che oggi improvvisamente cercano di porsi alla guida del movimento pacifista sono gravemente responsabili della crisi in cui ci troviamo. Per decenni hanno tenuto il paese nell’ignoranza degli enormi pericoli incombenti, e se non ci fossero stati il discorso del papa a Hiroshima, il convegno di Erice e le prese di posizione dei pacifisti in vari paesi europei, i politici italiani seguiterebbero a far finta che la situazione planetaria non sia disperata. Essi si buttano nella lotta per la pace solo per non perdere consensi elettorali e senza proporre i mezzi concreti con cui

raggiungere i fini che si pongono: l’opzione zero ad esempio sarebbe un notevole primo passo verso la realizzazione d’una pace che non sia tale solo a parole, ma come convincere usa e urss a un disarmo nucleare effettivo? Solo un arbitrato internazionale tra le massime potenze, presieduto dal papa e composto da donne e uomini integerrimi, può forse salvare l’umanità. Chi ha la testa sulle spalle e i piedi in terra non può aver fiducia nei politici, campioni di demagogia e ipocrisia. Che fanno costoro per prevenire i rischi terribili legati all’installazione di centrali nucleari? Il governo si limita a sollecitare la decisione di alcune regioni sul luogo ove erigerle. Ma il presidente del Consiglio o il ministro della Sanità sanno che se un millesimo della radioattività ivi prodotta fuoriuscisse andremmo incontro a una catastrofe cancerogena di grande ampiezza e a una catastrofe genetica? (Cfr. J.W. Gofman e E.J. Sternglass, Processo al nucleare, Jaca Book). Speriamo che la gente si svegli e chiami al comando persone nobili e capaci il cui modo di pensare non sia rimasto indietro rispetto ai progressi della scienza elettronica e nucleare. Milano, 16 novembre 1981

Archivio Mario Mieli. Non è stato possibile reperire la pubblicazione di questo testo. Nel numero di «Babilonia» pubblicato in seguito al suicidio di Mieli nel 1983, a questo testo venne erroneamente attribuita la pubblicazione sul numero 6 di «Lambda» del 1977. Molto probabilmente si tratta di una prima bozza, inizialmente circolata come volantino, di quello che poi prenderà la forma dell’Appello per la pace pubblicato a gennaio 1982 su «l’Unità». L’articolo è firmato da Mario Mieli e Umberto Pasti. [N.d.C.] *

Non c’è due senza tre*

Una mia amica m’ha detto: «Non sono d’accordo che tu distribuisca questi volantini. Mi sembra controproducente. La gente è scema e ti prenderà per pazzo». Io non credo che i volantini servano a molto, e sono estremamente pessimista sul nostro futuro. Ma mi dico: dobbiamo aspettare che accada la più assurda e orrenda catastrofe della storia facendo finta di niente? Seguitando a vivere come se non fosse più che probabile lo scoppio di una guerra in paragone alla quale i precedenti conflitti mondiali sono bazzecole? Benché pessimista, razionalmente so che la fine del mondo o la guerra limitata all’Europa o ad altro continente potrebbero essere evitate. Non possiamo aspettarci dal Potere un cambio di rotta. Il Potere corre al genocidio. Ma possiamo costringere il Potere allo smantellamento delle armi nucleari. Come? Un grande movimento pacifista al di sopra delle parti contro i guerrafondai dell’Est come dell’Ovest potrebbe costringere usa e urss a serie trattative per il disarmo totale e all’accordo. Bisogna istituire un arbitrato pacifista, tanto per cominciare europeo, tra i due massimi contendenti. Finora ci sono state raccontate solo bugie sul disarmo: negli anni della cosiddetta distensione sono state prodotte molte più armi che durante la guerra fredda. Ora ciascuna delle due superpotenze ha il potere di distruggere cinque e più volte la faccia della Terra. Solo un movimento pacifista popolare, interclassista e internazionale può costringere le due superpotenze all’accordo.

Consiglio di leggere quanto Einstein scrisse al proposito: già negli anni cinquanta egli prevedeva la necessità di un governo mondiale che scongiurasse il pericolo della distruzione globale. (Einstein, Pensieri degli anni difficili). Mi limito a questi brevi cenni. Ma invito tutti alla presa di coscienza, alla serietà e al dibattito. Chi se ne astiene sottoscrive la condanna della specie umana al suicidio; io non ho nulla contro i suicidi, ma personalmente temo e disprezzo coloro che nel proprio incosciente suicidio vogliono trascinare me e tanti altri innocenti animali. Salviamo Venezia, Firenze, Roma! Salviamo l’Italia! Salviamoci! E se vi sembro pazzo, devo convenire con la mia amica che la gente è scema. Preferirei che smettessimo d’insultarci e ci amassimo. VITA TUA VITA MIA!

Archivio Mario Mieli. Non è stato possibile identificare una prima pubblicazione di questo testo. Il volantino a cui fa riferimento Mieli è, con molta probabilità, quello scritto con Umberto Pasti, Non c’è più tempo da perdere, di novembre 1981; ciò fa dedurre che questo testo sia stato scritto tra novembre 1981 e gennaio 1982, data di pubblicazione dell’Appello. [N.d.C.] *

Appello per la pace*

Negli ultimi mesi è diventato di dominio pubblico il rischio d’una guerra nucleare. La stampa ha reso noto che ciascuna delle due superpotenze è in grado di distruggere più volte la faccia della Terra. La corsa agli armamenti ha prevalso sulla ragione che, unitamente all’amore per la vita, può ancora scongiurare la catastrofe. Mentre in pochi anni venivano prodotte armi assai più potenti di quante ne siano state usate dall’età della pietra a Hiroshima, si è retoricamente inneggiato alla pace, a Est come a Ovest, sostenendo che l’equilibrio del terrore l’avrebbe garantita. Ultimamente si parla con insistenza di guerra atomica limitata. La logica dei militari prospetta uno scontro nucleare vincibile, quindi possibile. Ma le conseguenze d’un conflitto limitato all’Europa o ad altra parte del mondo sono inimmaginabili. I sistemi elettronici, dal cui funzionamento la nuova guerra dipende, risulterebbero sconvolti dalle esplosioni nucleari. Dopo i primi scoppi, riuscirebbero i comandi a comunicare, i radar a segnalare, i satelliti a collegare? E quali sarebbero le ripercussioni ecologiche sul resto del pianeta? In pochi minuti l’Europa potrebbe essere interamente distrutta. La distruzione del mondo potrebbe avvenire nel giro di poche ore. L’ONU ha reso noto che la somma occorrente per dare a tutti gli abitanti del globo nutrimento, acqua, istruzione, cure mediche e alloggio è stimata in diciassette miliardi di dollari all’anno: è quanto più o meno il mondo spende in armamenti ogni quindici giorni.

Noi riteniamo doveroso che ognuno dia il proprio contributo per scongiurare la guerra. Si tratta di salvare insieme a noi la natura e il patrimonio artistico, storico e culturale. Siamo sicuri che con buona volontà si potrebbe cooperare alla realizzazione d’una pace che non sia tale solo a parole. Riteniamo che un grande movimento per la salvezza dell’umanità possa proporre un arbitrato tra le massime potenze affinché si accordino per un effettivo e totale disarmo e insieme affrontino i problemi fondamentali del mondo: il problema ecologico, quello energetico, quello demografico; la crisi agricola e la crisi industriale; gli squilibri tra Nord e Sud, Est e Ovest.

Pubblicato il 17 gennaio 1982 su «L’Unità», p. 3, con il titolo Contro l’equilibrio del terrore, promosso da Maria Bosio, Mario Mieli e Umberto Pasti, fu firmato da numerose personalità, tra cui Michelangelo Antonioni, Natalia Aspesi, Laura Betti, Umberto Eco, Carlo Cassola, Dacia Maraini, Alberto Moravia, Fernanda Pivano, Pier Vittorio Tondelli, Franca Valeri, Carlo Verdone e Andrea Zanzotto, e da oltre 200 firme. [N.d.C.] *

Nota introduttiva all’edizione olandese di Elementi di critica omosessuale*

A quattro anni dalla prima edizione italiana di Elementi di critica omosessuale, ritengo opportuno farne precedere l’edizione olandese da una nota d’aggiornamento. Questo libro fu scritto prima che in Italia iniziasse il cosiddetto riflusso, ovvero lo squallido periodo in cui molti hanno rinnegato la «vocazione» rivoluzionaria che dicevano d’essersi scoperti nel ’68 o negli anni immediatamente successivi. Il riflusso ha sommerso grandi istanze vitali emerse in quegli anni e subito risucchiate dalla politica: in Elementi di critica omosessuale è espressa una dura critica della politica e in particolare del policantismo di sinistra, che tante tendenze rivoluzionarie strumentalizzò, represse e soffocò sul nascere. Il riflusso non è fenomeno soltanto italiano: si manifesta dovunque le spinte sovversive ed emancipatorie degli anni ’60 e settanta siano state bloccate – dovunque il dominio del capitale non sia più contrastato da voci e movimenti vitali. Oggi, in pieno riflusso, l’ideale del gaio comunismo – che di questo libro è la luce – appare utopistico ai più, pur non essendolo. Certo, ove non si viva nella certezza che la conquista del Regno della libertà sia possibile, la prospettiva del gaio comunismo sembrerà idealistica, quando non favolistica. Al contrario, questo libro la sostiene partendo sempre da contestazioni obiettive e operando analisi in chiave essenzialmente materialistica. E oggi più che mai il comunismo si prospetta quale unica alternativa alla catastrofe incombente. La «tesi» principale di Elementi di critica omosessuale può essere così riassunta: la liberazione dell’Eros comporta la

trasformazione dell’inconscio in coscienza ed è indispensabile alla conquista del Regno della libertà. Nelle pagine conclusive è detto: «Dalla critica dell’ideologia del primato eterosessuale e dalla disanima della questione omosessuale e delle ricche tematiche inerenti alla liberazione dell’Eros, è possibile e anzi necessario trarre delle conclusioni ipotetiche – più che ipotetiche – concernenti il futuro del genere umano. Queste conclusioni si presentano quale somma di conseguenze derivabili dal movimento attuale della dialettica sessuale nel quadro dell’emancipazione umana: a meno che – e a questo punto bisogna invece avanzare l’ipotesi contraria – alla rivoluzione e al comunismo non si sostituiscano la distruzione, la guerra e l’annientamento biologico della specie, cui tende il dominio mortifero del capitale»1. Oggi il rischio d’una guerra nucleare è quanto mai forte. Negli arsenali delle massime potenze sono conservate bombe in grado di distruggere l’umanità. L’obiezione mossa dagli stupidi, secondo i quali proprio l’esistenza di tali ordigni scongiurerebbe lo scoppio d’una guerra mondiale, non tien conto che sempre, prima o poi, le armi più potenti in possesso dell’uomo sono state usate; né certo è nelle «intenzioni» del capitale guarir la specie del male bellico ch’essa si trascina da diecimila anni. Ma quand’anche la guerra nucleare non scoppiasse, ovvero ancora per decenni si sopravvivesse nell’incubo d’un conflitto mondiale, la catastrofe ecologica è ineluttabile, stante l’attuale modo di produzione. Non spetta qui a me descrivere la grave degenerazione dell’habitat; chi vuol rendersi contro dei durissimi colpi inferti dal capitale alla natura troverà spesso nei giornali, o consultando pubblicazioni sull’argomento, i dati allarmanti della crisi ecologica. Alcuni di essi vengono tenuti segreti – benché scopertamente il capitale stia convincendo la specie dell’ineluttabilità della catastrofe, la quale, invece, è evitabilissima: ma le grandi masse di succubi imbecilli, intellettuali in testa, non vogliono muovere un dito per evitarla e il capitale, spaventandole, le rende sempre più succubi. Si pensi con quali gravi ripercussioni sull’ambiente nel solo 1980 è stato fatto un esperimento atomico alla settimana.

Il modo di produzione capitalistico, responsabile di tanto disastro, è completamente irrazionale: si basa sulla concorrenza e il conflitto tra gli Stati e tra gli individui, e impone il lavoro per il lavoro. Nel lavoro, infatti, il Potere non riconosce certo il mezzo con cui si ottiene il benessere collettivo: lo impone, al contrario, per succhiare grandi energie alla specie e alienarla, sottomettendola così alla legge inumana del capitale: inumana poiché il capitale – che pur storicamente è prodotto dell’uomo – si è ormai del tutto autonomizzato. Chiunque svolga una mansione politica, dirigenziale o culturale è, oggi più di ieri, mera personificazione della Cosa (il capitale). L’intera «cultura» è ideologia capitalistica: ad essa si oppone la teoria critica rivoluzionaria. Si rifletta sullo slogan con cui l’attuale ministro italiano del Tesoro, Beniamino Andreatta, sostiene le pesanti «misure» adottate dal governo per «superare» la crisi economica: «Lavorare di più per lavorare tutti». Che tragica beffa! Quando invece è lampante che – soprattutto nell’odierno clima di sovrapproduzione – un aumento della produttività dei singoli lavoratori non favorirebbe affatto la soluzione del problema peraltro falso, benché duramente reale, della disoccupazione: l’apparente paradosso è conseguenza dell’irrazionalità del modo di produzione, che crea falsi problemi, causa di gravi, reali sofferenze. Il lavoro necessario, oggi, si ridurrebbe a un minimo. Questo modo di produzione non soddisfa nemmeno lontanamente i bisogni dell’umanità che tuttora, in gran parte, sopravvive – quando sopravvive – nella miseria. Il capitale produce merci in larghissima misura inutili e nocive, e domina ormai l’intero pianeta: soltanto i cretini non si sono ancora accorti che nei paesi cosiddetti socialisti o comunisti impera il modo di produzione capitalistico. Gli interessi del capitale, ovunque, vengono sostenuti con tutte le forze a discapito di ciò che servirebbe al bene dell’umanità. L’industria bellica, attualmente, è la più produttiva. Come dice Anthony Sampson, l’«industria da guerra è l’unica a non risentire della recessione mondiale». Pur di vendere quattro aerei da guerra a Formosa, l’Olanda

compromette le proprie relazioni diplomatiche – ma non commerciali… – con la Cina popolare. Finché il mercato mondiale non sarà saturo d’armi, è comprensibile che il capitalismo non abbia interesse nel far scoppiare una guerra generalizzata. Ma poi? Il modo di produzione è pazzo. Se non lo si arresta, l’annientamento della specie è ineluttabile. Aveva dunque ragione Freud, pessimista, prevedendo la vittoria del principio di morte e del senso di colpa sulla pulsione vitale? Sta a noi dargli torto – nei fatti… Assurdo è che proprio ora che le problematiche mondiali si fanno così serie – e impellente diviene la necessità di risolverle – con tanta colpevolizzata inerzia ci si abbandoni alla moda del riflusso, facendo sfoggio di vile cinismo, ovunque nel mondo occidentale; mentre in Oriente e nel Terzo Mondo in genere – là dove il delirio islamico non sbandieri insulsi nazionalismi, o la «protezione» sovietica impedisca di «sognare» – dell’Occidente si seguita a farsi il modello, quasi che la vera Mecca fosse a New York. Con l’eroina e col punk – o peggio con l’immediata mercificazione del punk –, nonché pubblicizzando, mitizzando la violenza, il capitale ha dato in pasto a giovani e giovanissimi l’amaro mito della morte. (A Londra, vestiti punk si comprano a The End of The World, in The World’s End Palace; e negli Stati Uniti van molto i Suicide, gruppo «new»-rock…). Il presunto anticonformismo di molti giovani si riduce a moda e malattia; ma non meno morbosa è ovviamente l’esistenza di coloro che invece per l’eroina optano per il lavoro, la chiesa e la famiglia, e vanno a puttane e alla partita. Il capitale esige la malattia, la tremenda immortalità e la stupidità delle masse. La lotta di classe, condotta da tifosi che non vedono più in là del proprio naso, diviene farsa grottesca. In Polonia si prega inutilmente la Madonna: Walesa resta un coglione di prima categoria. Grottesca è la preoccupazione di chi si domanda come potremo, con l’aggravarsi della crisi energetica, far andare le automobili, quando è in gioco la sopravvivenza della specie e ben si sa che se la salute degli abitanti delle metropoli è ormai

gravemente compromessa, ciò dipende, tra l’altro, dalla circolazione di troppi veicoli; ridicola è la lotta acriticamente condotta per garantirsi il posto di lavoro, quando risulta evidente che questo tipo di lavoro è «utile» soltanto alla distruzione della vita. Non è in nome del vero comunismo che si lotta per non essere licenziati dalla Fiat, perché – anche a prescindere da ogni constatazione sul tipo di lavoro alienato e alienante – ogni vettura prodotta inquina e assorda maggiormente. (Si potrebbe realizzare facilmente una rete di trasporti ben funzionante che non fosse nociva: ma in queste brevi pagine non starò a discutere, dettagliatamente, l’Alternativa, quale un rivoluzionario, dotato del ben dell’intelletto, se la può senz’altro immaginare). Soltanto sospendendo l’attuale modo di produzione e passando a una produzione rivolta non ai fini della concorrenza, ma a soddisfare gli autentici bisogni dell’umanità, si potrà sanare, con la specie, l’habitat. Il problema della fame e della miseria verrebbe risolto ovunque; un’effettiva, razionale ridistribuzione dei beni esistenti garantirebbe la prosperità d’ogni popolo. Si pensi che, ora, i soli USA stanziano mille e trecento miliardi di dollari per il riarmo. Quante bocche si potrebbero sfamare con questa ricchezza che viene invece dilapidata per uccidere? È tragicamente aberrante che si lavori per produrre il nocivo, mentre, lavorando assai meno, si potrebbe procurare il bene di tutti. È inoltre assurdo lottare per assicurarsi il posto di lavoro quando è in atto una sostituzione graduale, ma celere, del lavoro da parte dell’elettronica: abbiamo davvero raggiunto il punto in cui il lavorio necessario a garantire il benessere della specie intera si ridurrebbe a un minimo. Volenti o nolenti, è nell’evoluzione o involuzione del capitalismo stesso l’espulsione dei proletari dalla fabbrica. Il capitale ha maturato le premesse necessarie alla realizzazione del comunismo, che è Regno della Libertà anzitutto in quanto superamento del lavoro coatto. Le macchine, ormai, prodotto dell’intelligenza, possono sostituire quasi del tutto il lavoro dell’uomo. Si tratta di razionalizzare la produzione: ma ciò

può esser fatto solo su scala mondiale, abolendo ogni competitività; bisogna vincere il capitalismo ovunque, in Unione sovietica come in Europa, in Cina come in Giappone, negli Stati Uniti come in Australia. Questa vittoria è possibile se la specie si libera profondamente e, quindi, eroticamente: giacché la repressione interiorizzata – o rimozione – è soprattutto repressione dell’Eros. Chi non oppone resistenza alla passione, e s’è addentrato nell’universo meraviglioso che per i più resta inconscio, sa che l’unica, immensa forza in grado d’opporsi al capitale è l’amore. Che cosa avrebbe risposto una persona assennata cui, duemila anni fa, fosse stato chiesto se era più facile che gli uomini giungessero sulla Luna o cessassero di farsi guerra? Molto plausibilmente avrebbe risposto che era più facile che la smettessero di combattersi. Invece l’uomo è sbarcato sulla Luna da un pezzo, ormai raggiunge Saturno e sarebbe tempo che realizzasse la pace. Se l’intelligenza e la scienza al servizio del capitale hanno ideato macchine in grado di volare fin su pianeti lontani – e ordigni che possono cancellare la civiltà dalla faccia della Terra –, pensiamo quali grandi, benefiche conquiste farebbe l’intelligenza umana libera! In questo libro è detto come le energie impiegate nel lavoro siano libido sublimata. La Norma è servita per millenni a circoscrivere l’Eros, riducendolo fondamentalmente a genitalità eterosessuale e reprimendone tutte le altre componenti che così venivano e vengono sublimate nel lavoro. Oggi che il lavoro non è più necessario – ma ciò nonostante viene imposto dal capitale per costringere l’umanità al proprio giogo – assolutamente indispensabile è la liberazione dell’Eros per sottrarre al lavoro alienato tutte quelle energie che in esso ancora sono incanalate. Il tipo di società disgustosa nella quale viviamo è fondata sulla repressione sessuale: «ovvietà» su cui i più, ancor oggi, non vogliono aprir bene gli occhi. Malgrado il permissivismo e la pornografia (che, lungi dall’essere autentica liberazione dell’Eros, in quanto polimorfo, offrirebbe). Le magiche dimensioni della

«metafisica» del sesso sono esplorate da pochissimi; tabù molto antichi vengono sciaguratamente dati per scontati, quali, per citarne due, quello coprofagico e quello dell’incesto; pochissimi, vogliosi di vivere a fondo la passione amorosa, si ritrovano abbracciati nell’Uno che – di là dalle barriere nevrotiche tra individuo e individuo – si rivela essere la Vita che ci accomuna. La realtà più profonda è transindividuale, mentre l’Ego non è che parte dell’individuo. L’amore dimostra come l’ideale comunista corrisponda alla verità più profonda che repressa: sia quindi, rimosso o latente quando non manifesto, in ogni essere umano. Il comunismo è conquista dell’inconscio e dell’inconscio collettivo alla coscienza. In questo saggio è detto poco della passione amorosa, perché quando lo scrissi ancora non avevo vissuto un grande amore. Posso qui aggiungere, in breve, che se si vive con abbandono, profondamente la passione, e con l’amato o l’amata ci si avventura di là dai tabù sessuali, si perviene a un’autentica ierogamia, o matrimonio sacro: alle «nozze alchemiche». Allora ci si muove in una realtà per molti versi soprarazionale e si comprende come, nella comunione amorosa, potrebbe vivere la specie intera. L’angoscia che ci affligge è soprattutto angoscia di non viver mai – o quasi mai – nella pienezza dell’Eros: dell’Eros che siamo. Esseri eroticamente liberi sarebbero infinitamente più belli e più sani. Il gaio comunismo è connubio di tutti gli esseri umani e armonioso connubio tra la natura e la specie. Il marchese de Sade portò fino a conseguenze apparentemente estreme la sua disamina dell’Eros: sostenne che la libera sessualità era affermazione dell’egoismo, della legge del più forte e comportava anche l’assassinio, la strage. Il suo limite è nel non aver voluto o saputo ipotizzare, invece, una liberazione dell’Eros che migliorasse veramente la vita individuale e sociale. Il conseguimento del proprio egoistico piacere giustificava, per il libertino sadiano, qualunque efferratezza: la dialettica morale e filosofica del Divino Marchese si blocca là dove egli afferma, al di

là e al di sopra d’ogni plausibile argomentazione contraria, la soddisfazione della propria cupidigia da parte del potente. Nella pratica, tuttavia, come si sa, Sade non visse secondo questi principi: si spinse molto in là con la fantasia. La sua opera, straordinaria, svela con discreto coraggio una realtà che però non è necessariamente né per sempre l’unica. Sade ipostatizza naturalisticamente l’aggressività. L’uomo ha saputo elevarsi a tal punto dall’animalità delle origini – una scimmia non avrebbe neppure rilevato l’esistenza di Saturno – che non si vede perché, se su Saturno è giunto, debba soffrire per sempre della propria aggressività e (auto)distruttività. Oggi il perdurare della violenza – coattantemente praticata e pubblicizzata dal capitale – è in relazione con la repressione sessuale. In questo libro è ampiamente dimostrato come la violenza virile, ad esempio, sia spesso reazione morbosa al proporsi di impulsi omoerotici «inaccettabili», data la repressione sociale dell’omosessualità. Si pensi inoltre al tabù dell’incesto come generatore di paura e violenza: se siedo a fianco d’uno sconosciuto la cui presenza m’incute un vago, fastidioso timore e mi mette sulle difensive, posso accorgermi d’identificare costui con un fantasma familiare desiderato da sempre ma vietato dal tabù dell’incesto. Identificazioni del genere sono all’ordine del giorno, benché solitamente non se ne sia coscienti. Se fin da piccoli potessimo amare senza problemi i nostri consanguinei, più facilmente ameremmo anche gli altri (e, in verità, nella comunità umana libera saremmo tutti sorelle e fratelli). È assurdo che coloro che ci danno la vita non siano tra i primi a godere, con noi, del nostro corpo. Il Potere come gigantesca, concreta proiezione della figura paterna crollerà soltanto se chi vi soggiace cesserà di temere sessualmente il padre. Il superamento del tabù non porterebbe, come Sade racconta, all’affermazione dell’egoismo e dell’odio; infatti, odio, competitività ed egoismo sono il nostro pane quotidiano, e questa società resta fondata sulla repressione sessuale. (A meno di spacciare per libertà le inculate delle sa o quelle delle povere

leather-queens che nevroticamente recitano al Mine Shaft di New York). Scritta in anni in cui andavano affermandosi potere e pensiero capitalistico, l’opera di Sade prefigura l’inferno cui il capitalismo avrebbe condannato la specie: nel bicentenario della Rivoluzione francese c’è da augurarsi che l’immane catastrofe non sia già avvenuta. Frutto essa stessa di repressione sessuale – ché Sade era perseguitato per libertinaggio e, sappiamo, trascorse gran parte della sua esistenza tra la prigione e il manicomio – l’opera del Divino Marchese svela, da un lato, l’ampiezza polimorfa e «perversa» dell’Eros socialmente represso e, dall’altro, prefigura il trionfo dell’odio e dell’efferatezza che è effetto di questa repressione. Pur tenendo conto della cruda realtà disvelata da Sade, si deve e si può riconoscere in un ulteriore disvelamento, ovvero nell’effettiva liberazione dell’Eros, l’unica salvezza per la specie. E succulenta salvezza! O vorremmo ipostatizzare borghesemente l’homo homini lupus quando è ormai evidente che è il capitale, la Cosa, che sta per divorare la specie? Nell’introduzione all’edizione inglese di Elementi di critica omosessuale, il cattivo traduttore, David Fernbach, scrive: «If the satisfaction of erotic desire is all that we live for, then the liberation of Eros, in Mario’s interpretation, actually is communism. “Transsexuality” and communism are one and the same. If we attain unfettered libidinal communication, then we have communism; it is simply that the class division and the sexual division (masculine/feminine and heterosexual/homosexual) conspire to thwart this wonderful potentiality»2. Fernbach ha compreso l’essenza del mio messaggio, ciò nondimeno se ne fa un’idea riduttiva. È sì vero che la totale liberazione dell’Eros coincide col comunismo: è infatti impossibile immaginare l’uno senza l’altra. Ma il comunismo comporta altresì lo sviluppo di tutte le facoltà umane, intellettuali, scientifiche, artistiche: è Regno dell’amore,

viepiù arricchito e abbellito dalla sublimazione positiva. La sublimazione negativa della libido, attualmente, regge il modo di produzione genocida; il superamento di tal modo di produzione e la liberazione dell’Eros favoriranno alfine la disinibizione delle più alte facoltà conoscitive e creative dell’uomo. (Anzi, diremo meglio dell’androgino, giacché nel profondo ogni essere umano lo è). Amoreggiando magicamente e abbandonandosi al puro sentimento, non si studierà né creerà più in maniera nevrotica, bensì con lucidità e piacere. Il lavoro coatto e le organizzazioni classiste delle società hanno avuto bisogno per millenni della repressione sessuale, mentre oggi la libera operosità darebbe frutti tanto migliori quanto più ampia fosse, per ciascuno, la possibilità d’amare godendo del proprio e dell’altrui corpo. Il comunismo può esser creato soltanto dalla rivoluzione, uno dei cui effetti sarà la completa disinibizione sessuale. Ma la rivoluzione è mossa, fondamentalmente, dalla liberazione dell’Eros e del pensiero. La liberazione, dunque, è causa ed effetto della rivoluzione: ne è la madre lottatrice e la figlia felice. Razionalmente non si può concepire altro modo d’uscire dall’attuale impasse – dalla crisi planetaria gravissima – se non mercé la rivoluzione. Non è democraticamente che si salva il mondo. Non è all’interno della politica capitalistica che si contribuisce a un drastico cambiamento dello status quo. È più lampante che soltanto la rivoluzione può scongiurare la catastrofe. La rivoluzione avrà luogo e sarà vincente se fin d’ora, senza più perder tempo, la si vuole, la si incoraggia, la si prepara, svolgendo in questa società mortale, morente, una funzione paragonabile (forse) a quella degli illuministi prima dello scoppio della Rivoluzione francese. Soltanto la nostra azione, il nostro esempio, le nostre argomentazioni e il nostro amore possono risvegliare la gente. La gente deve capire che quello in cui viviamo è tutt’altro che il migliore dei mondi possibili; deve capire che se il capitale è parto, seppure mostruoso, dell’umanità, la specie, invece di farsene distruggere, può riprendere in mano le redini del proprio destino. In ciò consiste principalmente la rivoluzione: nella conquista, da parte nostra, del dominio sul modo

di produzione. Contro il capitalismo – e contro il potere politico che assicura il dominio della cosa sulla vita – bisogna combattere una lotta razionale, piacevole, aperta alla soprarazionalità: quindi non miope, nevrotica, razionale, settoriale, settaria. I problemi che ci affliggono li si risolve soltanto su scala planetaria. Il comunismo deve affermarsi globalmente. Konrad Lorenz, l’etologo, avverte che l’uomo sta facendo di tutto per annientarsi. Egli è di quanti non vollero capire a fondo perché ciò avviene, come avviene e cosa si potrebbe fare per evitarlo. Soltanto coloro che si sono opposti del tutto allo status quo, senza compromessi, senz’accettarne questo o quell’aspetto particolare, hanno in mente, luminosa, l’Alternativa al disastro. Chiunque si rifiuti di capire che la salvezza è possibile, che la soddisfazione del bisogno di comunismo è improcrastinabile, sottoscrive l’autocondanna della specie all’annichilimento. Uno dei primi compiti di chi lotta per la conquista del Regno della Libertà è di aprir gli occhi alla gente. La demenza dei tempi è tale che qualsiasi semplice, logica osservazione criticoemancipatoria suona ostica alle orecchie di quanti reputano più o meno ragionevoli il criminale linguaggio dei politici e le stupidaggini diffuse dai mass media tra un annuncio pubblicitario e l’altro. Oggi le grandi masse non sono nemmeno in grado di concepire il superamento del modo di produzione letale, non sanno neppure cosa significhi comunismo, giacché lo confondono col capitalismo sovietico, cinese! Responsabili della loro stupidità sono il sistema nell’insieme e, in particolare, i grandi partiti sedicenti socialisti e comunisti, che altro non sono se non la maschera assunta dal capitale per rabbonire-imbonire i proletari fingendo di tutelare i loro interessi. L’idiotismo della gente dipende in larghissima misura dalla repressione e dalla mercificazione dell’Eros. Lo spirito d’essere umani finalmente liberi da tabù sarà sommamente più agile, potente e propositivo. Reprimendosi nonché soffrendo della repressione subita, si spreca un’enorme quantità di energie che potrebbero essere usate per migliorare la vita e il mondo.

In questo libro, in specie, si parla della repressione dell’omosessualità che istupidisce e nega rapporti totalizzanti, piacevoli e sinceri tra individui dello stesso sesso (nonché tra individui di sesso diverso: infatti l’eterosessualità è ammorbata dalla «rimozione» forzata dell’omosessualità). Tale repressione è ancora immensa. In alcuni Stati, tutt’al più, il capitale ha fatto dell’omoerotismo una squallida moda, desublimando repressivamente: tal moda, intrisa di senso di colpa, manifesta appieno la repressione che in sostanza perdura. Se in Iran gli omosessuali vengono condannati a morte, anche nei paesi soi-disant più «avanzati» non si scherza: è recente – ad esempio – la notizia dei trecento gay arrestati a Toronto3, come quella del licenziamento dei marinai del Britannia, lo yacht reale inglese, «colpevoli» di «delitti» omosessuali. L’omosessualità viene perseguitata duramente non soltanto là dove è illegale (come in Iran, in Unione sovietica, in Cina ecc.), ma anche nei paesi in cui è fortemente mercificata. Negli USA, in Olanda, negli Stati del Nord Europa, in Italia e in tutti i paesi a tolleranza repressiva (dal Giappone alla Tailandia, dalla Francia alla Germania), l’industria del «perverso» prospera. I gay non hanno saputo opporvisi. Il loro qualunquismo, la loro dabbenaggine, l’interiorizzazione della competitività capitalistica e il culto di fantasmi stereotipati li hanno rinchiusi in un ghetto oggi più di ieri alienante, luogo di privilegi e frustrazioni, dove tutto si fa fuorché all’amore. L’antiNorma, cui la maggior parte dei gay si adegua, è perfettamente complementare alla Norma e si riduce a un’insaziabile, nevrotica fame di cazzo. Il comunismo sessuale rode tutti coloro che, abituatisi nel ghetto della mercificazione dell’Eros e a rapporti ignobili, sono profondamente insoddisfatti della loro vita erotica. Il movimento gay – se se ne eccettuano alcuni sporadici, grandiosi ma criticabilissimi exploits, come quello di San Francisco del ’79 – è stato assorbito dalla mercificazione, o è passato a un silenzio quasi tombale. La prospettiva più rischiosa che Elementi di critica omosessuale paventava si è finora affermata sull’altra, gaia e positiva, che vi era indicata. Non so se questo libro nell’insieme sia datato: non lo credo; ma certo lo è il

tono trionfalistico in cui allora – scrivendo in buona fede, forte di certune esperienze collettive e cercando di difendere i gay – parlavo di noi gay rivoluzionari. Purtroppo anche gli omosessuali che aderiscono al movimento di liberazione si son lasciati trasportare quasi tutti dall’onda del riflusso. A dodici anni dalla nascita del Gay Liberation Front le riviste gay americane rigurgitano di pubblicità di saune, discoteche, cinema e pubblicazioni porno; riportano foto e recapito di prostituti che visitano a domicilio. In Italia delegazioni di froci si fanno ricevere dai sindaci, i transessuali addirittura dal presidente della Repubblica. Di recente a Milano è stato aperto il primo grande fucking club: vi si ritrovano centinaia di uomini che si spompinano e inculano fiaccamente, ma l’ingresso è vietato alle donne ed è di rigore la tenuta «virile» in jeans e cuoio nero4. Così a New York come altrove in molti locali «gay» non sono ammessi gli omosessuali più femminei, non parliamo se in drag: la femminilità è considerata defantasmante. Il mito virile imperversa. Scemo, antipatico, scostante, avvilente, à la page, il frocio più ambito è la personificazione «gay» del capitalismo. Uno dei più gravi problemi dei gay (della maggior parte d’essi) è la quasi-rimozione dei desideri eterosessuali. La paura della donna li induce a concentrare ossessivamente il proprio desiderio sull’uomo, il quale dovrà dunque incarnare il più possibile il rude stereotipo maschile (altrimenti ricorderebbe la donna temuta). Fissandosi su tale oggetto di desiderio e cercando al contempo d’incarnarlo per avere più successo sul mercato delle relazioni omosessuali alienate, il gay perpetua, rinverdendone il mito, la figura maschile repressiva e distruttiva di sempre, ed esclude la vera liberazione del proprio Eros – bloccando, di conseguenza, anche quella dell’Eros altrui –: infatti l’autentica liberazione comporta anzitutto l’emersione dell’Anima, la parte femminile dell’uomo. L’essere umano libero è androgino, ovvero sia donna che uomo, e soltanto l’androgino può spaziare ampiamente entro i confini della ragione e avventurarsi proficuamente di là da essi, nei vasti

domini della soprarazionalità. Tutto ciò che si oppone all’androginia, la nega e l’umilia, è nefando. Moltissimi omosessuali rifuggono dall’androginia con forza a dir poco morbosa. Temono di riconoscere la Donna in sé: la loro meschinità ne sarebbe soppiantata. E cosa li porta a desiderare l’abbraccio di rudi figure militaresche che ricordano, oltre a chiavate e sterminio delle SA, soprattutto la strage dei Triangoli Rosa nei campi di concentramento nazisti? Forse soltanto il sex appeal della bellezza muscolosa? No, perché allora non le si imporrebbe un modo di vestire e di comportarsi. È il senso di colpa di cui i gay ancora soffrono che li porta a replicare costantemente, nel ghetto, la messinscena della virilità quale è stata per millenni esaltata dal patriarcato classista, fondato sulla sperequazione tra i sessi e sull’oppressione delle donne, nonché, quasi sempre, sulla persecuzione dell’omosessualità. I gay ben sanno d’essere nel profondo «donne», come d’altronde lo sono tutti gli uomini, e per esorcizzare questa naturale consapevolezza, per tema della libertà e dei magici poteri dell’androginia, celebrano il culto della virilità più stereotipata e falsa. «Amano» l’uomo «terribile» che li punisce perché «peccatori», «donne». Così si dimostrano schiavi della Norma. Al capitale è indispensabile che gli uomini non conoscano se stessi, quindi neppure la loro androginia: perciò in ogni modo fomenta nei gay la brama frustrante e competitiva di scopare coi più maschi, i meno androgini, e l’induce a occultare la loro femminilità. I gay, più prossimi degli altri uomini alla scoperta dell’Anima – il cui potere sarebbe quello di sovvertire il sistema –, vengono così depistati da una propaganda maschilista che può far presa soltanto su chi rifiuti – per senso di colpa e vergogna – la propria femminilità: quindi su chi non si ami. E chi non si ama può forse amare? Per il capitale, bisogna che androginia e omosessualità restino represse. Finché l’omoerotismo verrà condannato, disprezzato, deriso, rimosso, la società potrà sempre ricattare i suoi membri, minacciando d’ignominia e insulti chiunque, liberandosi, si scoprisse gay. Per paura di sentirsi dare del culo, il vile cittadino

preferisce fingersi eterosessuale di stretta osservanza. Così il capitale impera sui vigliacchi. Ma non su chi afferma apertamente: «Io sono androgino e culo. Voglio il comunismo. Non ho nulla da spartire col Potere, l’ideologia e la morale corrente». Concludo questa introduzione ricordando come in Olanda abbia fatto alcune delle mie esperienze magico-erotiche più interessanti e belle. E ricordando i tanti olandesi tra le cui braccia sborrai.

L’edizione olandese di Elementi fu pubblicata nel 1982 dall’editore Wetenschappelijke Uitgeverij. [N.d.C.] 1 Mieli, Elementi, cit., p. 241. [N.d.C.] 2 «Se il compimento del desiderio erotico è tutto ciò per cui viviamo, allora la liberazione dell’Eros, nell’interpretazione di Mario Mieli, di fatto è il comunismo. La “transessualità” e il comunismo sono una sola e stessa cosa. Se riusciamo a raggiungere un livello affrancato di comunicazione libidinale, allora in quel caso possiamo parlare di comunismo. La divisione di classe e la divisione sessuale (maschile/femminile ed eterosessuale/omosessuale), in questo senso, contribuiscono a ostacolare questa magnifica potenzialità». [N.d.C.] 3 Il 5 febbraio 1981, la polizia di Toronto irrompe in una sauna gay e arresta circa trecento persone. Il giorno successivo tremila persone scendono in piazza e marciano in direzione della divisione locale del Dipartimento di polizia per protestare contro le forze dell’ordine e le vessazioni subite dagli uomini gay. [N.d.C.] 4 Si tratta del One Way, su cui Mieli scrive La sagra dell’impotenza. Una serata al One Way, (p. 211). [N.d.C.] *

No all’ore: la rivoluzione la si fa ovunque (su Macondo)*

All’inizio ero scettico su Macondo. «Avremo anche in Italia il nostro Paradiso», mi dicevo: «Un grande bazar della tolleranza repressiva, un caravanserraglio di vedettes del gauchisme e di fricchettoni rammolliti». Pensavo a quanto un ritrovo come Macondo, un simile refugium peccatorum, potesse far comodo al Potere. E sbagliavo solo in parte. Che Macondo faccia comodo al sistema, infatti, mi pare ovvio. Basta leggere gli interventi innocentisti dei vari Bocca e Todisco sui giornali borghesi. Al Potere interessa tener a bada i rivoluzionari potenziali, ammansirli col «dolcetto all’hascisc». Quando non li elimina fisicamente, né ha spazio carcerario o pretesti sufficienti per imprigionarli, la società a dominio reale del capitale cerca di chiudere i sovversivi (potenziali) in ghetti più o meno dorati e perniciosi. Macondo poteva essere considerato il primo grosso centro della liberalizzazione all’italiana; ciò malgrado le intenzioni di chi l’aveva concepito e aperto al pubblico fossero altre, coraggiose e gaie: giacché l’«astuzia del capitale» può a volte sottendere gli atti di chi creda di darsi anima e corpo alla rivoluzione (e, convinto d’essere nel giusto, abbia militato fino all’altro ieri in un’organizzazione controrivoluzionaria come Lotta Continua). Tutta la politica liberalizzatrice, però, è contradditoria: infatti, se da un lato mercifica istanze vitali che affiorano (tramite la cosiddetta «desublimazione repressiva»), d’altro lato, pubblicizzando il «perverso», il «sinistro», ciò che fino a qualche anno fa era considerato tabù, (dis)educa la gente al «conosci te stessa». Tollerando e propagando le droghe, per esempio, il

Potere succhia le energie e sconquassa; ma al tempo stesso produce nelle giovani generazioni una «dilatazione di coscienza» che, accompagnata al processo disgregativo intrinseco al sistema, permette di smascherare la falsità dei valori cui la gente, fino a dieci anni fa, era usa credere: quali la famiglia, la Chiesa, il lavoro, il maschilismo e la «normalità». A Macondo si ritrovavano soprattutto giovani e meno giovani che a questi valori di merda non credono più. E io, che lottando contro i valori fasulli ho scoperto il tesoro autentico dell’amore, della comunicazione e della cooperazione – in una parola – il gusto della vita – recandomi a Macondo m’accorgevo che quello era un posto frequentato da gente prossima a star bene. Perciò mi venne spontaneo di chiamar «sala della pallacorda» la sala delle cinque colonne, pensando a come quella gente avrebbe fatto la rivoluzione – la quale, intuisco, è meno lontana di quanto non si creda. Certo, molti dei frequentatori di Macondo sembravano ancor schiavi dell’abulia, dello «sballo» alienante; e però dimostravano d’aver «quanto meno» il coraggio di procedere lungo il vertiginoso sentiero del «solve» (disgregazione), per giungere a un «coagula» (ricomposizione) che fosse nuova, universale armonia. Per questo Macondo mi piaceva. Il comunismo vi emergeva a tratti; lo leggevo nei sorrisi, nei gesti, nelle parole intese qua e là, nelle scritte sui muri. Come direbbero gli alchimisti, bisogna imparare a leggere «a lettere rovesciate»: allora, nella violenza censoria di chi, individuando nell’eroina (e non nel capitale…) il massimo nemico, scrive severo sulla parete del cesso NO ALL’ERO, puoi leggere NO ALL’ORE: BASTA COL TEMPO ALIENATO: spariamo agli orologi come i comunardi parigini ricordati da Walter Benjamin; oppure: SÌ ALL’ERO, se nella negazione (dénégation) si intravede l’affermazione al negativo d’un desiderio represso di «farsi»: ma farsi significa anche far l’amore insieme: e in fondo si ricorre all’ERO poiché il sistema ci impedisce di dedicare all’EROS tutte le nostre ORE. Bisogna imparare a leggere a «lettere rovesciate» il muso dei passanti, le smorfie dei «benpensanti», la violenza dei fascisti:

allora anche nei più stronzi si scopre l’oro, racchiuso in quel forziere arruginito e cigolante che i reichiani chiamano «corazza caratteriale». La rivoluzione la si fa ovunque. A Macondo come in tram, a Buckingham Palace come alla Breda, a pranzo dai genitori e a letto con l’amante. La parola d’ordine è AMARE: buttiamo A MARE la macchina capitalistica, e riprendiamoci il mondo. Quanti di voi sono in grado di sedurre un poliziotto?

* Archivio Mario Mieli. Il centro sociale Macondo fu un’esperienza milanese di controcultura durato dall’ottobre 1977 al febbraio 1978. Considerati i temi alchemici cui Mieli fa riferimento, il testo risale probabilmente all’inizio degli anni ’80. [N.d.C.]

Discreta gayness*

[…] Discreta gayness. Essi temono di venir divorati dalla corolla vorace di costei… e rinunciando a essere estroversi, veraci, preferiscono restarsene composti a sprofondare nelle sabbie mobili dell’introspezione inconcludente, mentre l’«oggetto» sessuale più vicino contempla con aria proterva un’applique. Umbratile, in fondo a ciascuno di loro s’agita l’«identica follia». Quando non combinano un cazzo, i ben pettinati avventori tornano a casa carichi di frustrazione e più confusi del solito; se invece sollevano le rispettive saracinesche quanto basta a scambiarsi un pompino, sentono – e simulano di non avvertire – d’aver frapposto tra sé e la Vita, fra sé e gli altri, l’usuale frettolosa infinocchiatura: poiché ognuno brama gli «olhos nos olhos» cantati con dolce sicurezza da Chico Buarque de Hollanda, e sogna d’elevare un «hymne à l’amour, entre les bras d’un être humain d’une beauté magique». Non è forse vero che tutti aspiriamo alla «vision face à face» del coito tantrico? (Il trotto di due carabinieri a cavallo mi chiama alla finestra: sono piuttosto attraenti… e, nel loro ridicolo virilismo, alternano certe espressioni da ebeti che m’ispirano severe inculate su pavimenti di marmo. Sade sembra farsi baffo del coito tantrico). […] conto d’esser nati per ricevere le carezze vibratili dell’amato e per specchiarci nelle sue pupille di veggente… Non v’è imbroglio riformistico che abbindoli chi si sia incontrato «face à face» con l’Amore.

Amore, oggi, è braccato: «W la muerte» perseguita dappertutto la nostra passione. «Dobbiamo» debellare il Mostro velenoso deciso ad annichilarla, poiché in essa scorre il sangue dell’esistenza e s’esprime l’istanza comunitaria che ci salva dal delirio egoarchico. La liberalizzazione tende ad alienare la sessualità dall’Amore, per volatilizzarlo, togliendogli il sostrato corporeo: ma l’orgasmo più luminoso e dissetante zampilla nell’intimo della «follia» amorosa, e non esiste vero piacere fuori di questa stanza. (Son stufo di sborsare quaranta franchi per armeggiare in mezzo a venti derelitti nei vapori «complici» del ContinentalOpéra; e di «tirarmi su» con la cocaina per apparire disinibita e contesa al centro d’un affollato tableau vivant. Preferisco disfarmi d’ogni paludamento difensivo nel vorticoso crogiolo dell’Amore: e salire ignuda – e ben vestita – su per le balze vertiginose della dialettica sadomasochistica che mena in vetta alla «vision face à face»). Secondo il giudeo-cristianismo, che condanna l’(omo)erotismo e la babele dei sessi – «Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna; è cosa abominevole» –, la «vision face à face» è riservata al beato post mortem; soltanto l’estasi, avendo «qualcosa a che vedere» col trapasso, può concederla in vita (Le vie dei santi). Ora, nell’intesa estatica, la «folie à deux» (con)fonde Eros con Thanatos e un sesso con l’altro: «Mais tout ce que tu me fais voir dans la mort que t’as dans tes yeux». (È il momento in cui mi sento più santa…). Il Dio d’Israele rifiutò di mostrare a Mosè il proprio volto e, ridandogli le spezzate tavole della Legge, gli apparve a posteriori: «Mi vedrai per il di dietro; ma la mia faccia non si può vedere» (Esodo, XXXIII, 23). Il culo alienato (del Dio che distrusse Sodoma con una pioggia di zolfo) è la bocca che detta la Legge: per giungere alla «vision face à face» nell’amore tra uomini, bisogna violare la Legge, (com)penetrarsi. «Schiavi» e «despoti», ostentamente fallici e un’ora dopo avvinti nel più tenero amplesso,

quando s’è innamorati ci si tuffa nel «deliquio» anale, svelando a poco a poco «le secret éternel» del nostro comune ermafroditismo. (Poiché Kibrît m’induce a guardarlo con gli occhi dell’anima, e ricambia il languido sguardo…). Amore è la «sensazione psicofisica» per eccellenza: prende allo stomaco, alle radici; e, per goderne a fondo, non v’è che da esser se stessi, (abban)donandosi. Altrimenti ci si riduce a barare al triste gioco della seduzione mercantile, ignari che nella passione ci s’incontra con demoni, i quali vincono immancabilmente la partita: «Scacco alla regina!». «Dobbiamo» perciò offrire quanto scaturisce, senza remore, dal momento che tutto quel che sgorga è Amore per lui e gli appartiene; e accogliere i doni dell’amato, il suo insegnamento, fino ad accorgerci che i più grandi maestri sono coloro che amiamo. Inoltre, come l’astemio può educarsi a conoscere il vino e ad apprezzarlo, così vincendo l’inane ribrezzo e assaporando il gusto delle feci e quello dell’urina, possiamo cucirci la veste dorata con la quale s’accede alle voglie dell’amante divino: e s’impara l’arte di non celare il pudore, sorridendo fra le sue braccia. Quando la «vision face à face» rivela la divinità nell’altro, niente è più incantevole del constatare che siamo due esseri umani… Due soli? Amore non si lascia rinchiudere nella gabbia della coppia, in quanto la sua forza è immensa e non conosce limiti: vuole abbracciare il cosmo, e andare oltre. La Gelosia gli urla dietro, lo richiama, lo pungola, gli compiace, gli cede: e Amore, ch’è più grande di lei, la comprende… Certo, v’è qualcosa d’eroico in chi s’innamora sul campo di battaglia della città orrorosa. Istintivamente, tendiamo a difendere la nostra passione come la gatta protegge i gattini: ciò che la minaccia, è «tutto». Ma quando, in un attimo di vivida intesa, fremendo si dice: «T’amo», finalmente ci s’incontra nel dedalo dell’esistenza, che subito riluce meravigliosa: questo lampo di limpida comprensione è quanto di vera vita si dà nella falsa. Al nano gobbo e recondito (la teologia), il quale avrebbe

messo il materialismo storico contro tutti i sistemi filosofici garantendogli la vittoria, è tempo che si sostituiscano a fianco d’ognuno e in ciascuno il principe azzurro e la fata procace che incarnano la divinità dell’Amore: col «loro» sostegno potremo abbattere il Mostro, sciogliendo l’incantesimo che c’incatena ad esse, e arrestarne la foga devastatrice prima che scocchi l’era del «Giudizio»… Il senso di colpa che la repressione millenaria ha «connaturato» alla specie (forzandola a sgobbare ciecamente fintantoché non ha eretto un «giustiziere» impietoso) ci si prepara all’anno Duemila, e l’olocausto c’attende proprio adesso che il lavoro non è più necessario. Forse soltanto la rivelazione «schizofrenica» permette di riconoscere fragilmente «Iddio» nel capitale: ma dato che chiunque nella latenza è «folle», basta accendere la radio e «imbattersi» in un cartellone pubblicitario per essere carpiti dal messaggio «divino»: BEVI UNA GUINNESS, E DORMIRAI… E siccome ognuno, nella temperie desertica, vorrebbe dissetarsi e prender sonno, per risvegliarsi in un’oasi di delizie, tutti vanno in cerca della Guinness, brancolando di miraggio in miraggio fino a farsi inghiottire dalla voragine. Per senso di colpa, la specie ha commesso il vero peccato capitale, prostituendosi al «Dio» che sta per punirla annientandola: e se il Mostro appare «onnipotente» è perché s’è impossessato del nostro immaginario, ovvero della divinità ch’è in noi, succhiandoci, oltre al sangue, le idee che gli hanno consentito di produrre il veleno del proprio dominio reale. Intossicati ed esangui, sopravviviamo nel culto dell’Illusione, mentr’Esso tiene in serbo il «miracolo» col quale può in ultimo disintegrarci: gli astronauti che affermano di non incontrare Iddio nello spazio, non sanno che nel vuoto è stato «dio» a lanciarci… Dunque non resta che liberare il «nume» che c’è stato rapito insieme alla magica virtualità dell’Amore: infatti, più che con la durezza delle armi, è con lo charme della nostra libido alienata che il Maestro ci soggioga.

Bisogna guarire dalla nevrosi che c’ha resi deboli e inerti di fronte all’imminenza della catastrofe, affinché ritorni a noi la libido che il Potere incanala nelle fogne della reale Negazione. Le nostre energie non vanno più sprecate, bensì adoperate per «fare quel che vogliamo» e per spingere gli altri a riscattare le proprie: anche se la guarigione completa non potrà che essere universale, ognuno, risanando se stesso, può agire in modo da indurre gli amici a riprendersi (e può incontrare favore imprevisto in chi si cela dietro la Persona «qualunque» che gli siede dirimpetto in tram…). L’Amicizia, che sempre si sviluppa sotto la «protezione» dell’Eros, diviene riconoscimento della meta comune quando si proceda con la franchezza di chi abbia compreso che il vivere è l’avventura più seria, e tenga perciò presente la Verità luminosa adombrata dagli appelli dell’individualismo e della rimozione. Votata alla muerte, la maggioranza teme la Vita, poiché, terrorizzandoci la società menzognera nella quale siamo nati e cresciuti c’ha dato a intendere che il babau fossimo noi stessi: e che il massimo pericolo s’annidasse nella nostra possibilità d’uscire dalla preistoria e di superare la paura, ritrovandoci «olhos nos olhos» nella grande comunità dei viventi. La passione risveglia il coraggio… e sebbene anche il pianto risuoni nella sinfonia dell’Amore, essa decanta un mondo in cui non si sia più accecati dall’angoscia. Il sapere dei baci dell’amato è quello d’un frutto esotico molto raro, che ha il dono di ridurre la vista di chi se ne nutre, cangiando in ardore la nausea fino ad allora stagnante nella buia sensazione d’esistere. Gettato il seme nel culo dell’Altro, ci vorrà del tempo prima che il frutto squisito maturi… (Kibrît Ahmar m’ha sbucciato, e la mia sensibilità s’è acuita al punto che un suo sguardo arriva a ferirmi come una spada di ghiaccio. Una sua parola mi cala in un lago di prostrazione: egli si tuffa a pescarmi, e mi cinge nell’acqua). Per ricever l’Amore è consigliabile mettere un po’ d’ordine in casa propria, e spostare i mobili più ingombranti, facendo spazio

alla fantasia. Poiché il gusto dell’amato combacia col nostro, come le nostre labbra con le sue quando ci baciano, per soddisfarle bisogna scoprire cosa ci piaccia veramente e, a questo scopo, è «opportuno» imparare a distinguere il vero dal falso: la saggezza epicurea ci ricorda come per il possesso del piacere sia necessario il discernimento. Se si tratta di scegliere, conviene dar retta all’intuito, il quale precede fulmineo la razionalizzazione (ch’è quasi sempre impacciata dall’ideologia e da beghe interne), rivelandosi soprarazionale. Qualora ci si fidasse dell’immediatezza delle proprie intuizioni, l’incantesimo che ci pietrifica sarebbe già sciolto, e i musi lunghi riderebbero per primi di se stessi, «finendo» con l’allacciare una «catena margherita»… In «fondo», c’è in giro molta più «telepatia» di quanta non si creda: seguendo l’intuito potremmo rendercene conto, e accarezzare i pensieri del conoscente (e dello sconosciuto) intanto che si domanda come reagiremmo se s’azzardasse a posarci una mano sulla coscia. Certo non è facile darsi ascolto quando la mente è rintronata dall’insistenza accusatoria del senso di colpa, che c’impedisce d’avanzare verso gli obiettivi del piacere. Incuranti della furia colpevolizzatrice con cui il Super-io ci urla dentro, dovremmo riuscire a individuare i «giudizi conoscitivi» che sottendono i suoi «giudizi di valore»: infatti i richiami dell’Ideale dell’Io sono quelli dell’inconscio, e comunicano istanze «pazzesche» in tono autoritario giacché la sua voce è nel contempo avvilente interiorizzazione dell’Autorità; per questo non suona soltanto come quella d’un consigliere intimo o di un alleato, ma anche, spesso, come la requisitoria d’un accusatore implacabile che imputi all’Io gli errori commessi. Eppure, l’angoscia destata dalle sentenze del tribunale interiore dipende soprattutto dal fatto che, sotto il grave manto inquisitorio, il Super-io esprime ragioni vitali in profondo contrasto con la Morale immorale imposta dal «Dio». (Così, ad esempio, quando il Censore mi redarguisce perché scrivo poco o male, manifesta il mio desiderio di sbattermene d’ogni censura; e facendo leva sul complesso di Prometeo,

solletica il mio istinto, che sarebbe quello di scagliare contro «Zeus» il macigno). Da sbirro accanito del capitale in noi, l’Ideale dell’Io può dunque trasformarsi in sostenitore e compagno: esso continuerà ad ammonirci ogniqualvolta perpetreremo azioni che in apparenza ci gratificano, ma che subito dopo suscitano il rimorso; poiché queste bravate non acquietano minimamente il bisogno di star bene che «cercavamo di sedare» compiendolo. Non appena si evitano i comportamenti lesivi di sé e degli altri, tuttavia, il Superio cessa di rimbrattarci, e si spoglia dei cupi connotati del Giudice: allora ci si scopre, udendo più chiaro nei suoi messaggi le «avances» dell’Es. È la malafede assordante che c’impedisce di seguire tale dialettica: nella processione degli accecati, essa c’accoda al Senso di Colpa, portato a spalla da quanti credono che l’unica alternativa all’«inferno» sia la croce. Per deporlo, bisogna smettere di mentire, malgrado sia difficile smascherarsi del tutto, anche perché sotto ogni maschera se ne rinviene un’altra, sempre più aderente però al bel volto che Amore irresistibile, nella fragrante intimità, disvela. Alla «vision face à face» non si perviene se, una volta intraviste le difficoltà che il «far quel che si vuole» comporta, si rinunci ad affrontarlo, e accettando l’invito del Mostro, s’indossi un Loden qualunque e una toilette vistosa al «ballo» mascherato della mediocrità. Squallore e cattivo sangue bazzicano i mediocri, e Amore disdegna simili compagnie, giacché «bellezza chiama bellezza»; infatti, s’è vero che la bacchetta magica della «cristallisation» riesce a nobilitare anche i peggiori ambienti, è altrettanto vero che Swann attribuiva eccezionale magnanimità ai Verdurin solamente perché Odette pranzava da loro, insieme a lui, tutti i giorni. Il Mostro c’induce a comportarci in modo da negare noi stessi così come gli altri, optando implicitamente per il suicidio. Chi, credendosi tanto smaliziato da considerare donchisciottesco ogni

proposito rivoluzionario, dia di gomito per farsi posto nell’angustia del «migliore dei mondi possbili», si rinchiude in una cella dalla quale non potrà certo evadere quando, invecchiando, gli verranno meno le forze, e più dolorosamente graverà sulle sue spalle il disperato onere della «realtà» fino ad allora sostenuta per conformismo e vigliaccheria. Se s’intende sfuggire alla trappola dell’inserimento normale, non basta però illudersi di sorvolare le strade che i travet percorrono bigi bigi, a passettini regolari, per recarsi al lavoro; e se si sceglie di «volare», c’è da respingere l’autoinganno e da schiarirsi le idee, facendo confluire le nostre energie in una lotta sempre più drastica contro il Potere che ci vorrebbe rassegnati a timbrare il cartellino, e chiusi in manicomio a sbatter le ali tra una parete e l’altra. Gli imprenditori dell’«estrema sinistra», con la politica dello «sballo», propagandano invece il volo d’Icaro, poiché al momento questo permette loro di conciliare il proprio precario potere di mercato, recuperando clienti e proseliti fra quanti, tardivamente persuasi dal fallimento della militanza, cerchino un «nuovo» modo di «giocare alla rivoluzione». Spronati, i «bei campioni» passano da uno stadio all’altro cambiando talvolta di squadra: dal servizio d’ordine a «Wow!» Ma c’è poco da fare l’apologia della disgregazione: soltanto dei ritardati neofiti del «salve» posso ringalluzzire «di fronte» ai processi dissolutivi in corso, e illudersi che da burattini si riesca ad a/traversare la «selva oscura». Lo sfacelo è inarrestabile, e ben venga, visto che non c’è nulla dell’establishment che meriti d’essere conservato: ciò non toglie che il pericolo sia grave, giacché, crollando, l’Empire State Building potrebbe travolgerci irrimediabilmente, mentre, adesso, i temerari che vengono spinti a «prendere il volo» dalle sue finestre «rischiano» di sfracellarsi. Nell’ondata disgregatrice che tende a sommergerci, «dobbiamo» raccogliere le nostre forze («coagula»), e risolvere come utilizzarlo per arrestare la Macchina autonomizzatasi: è evitando di gettare il cervello alle ortiche che si salva, fra le macerie, la pianta della vita.

(Kibrît Ahmar è partito per il Sud. La metropoli ha perso il suo sole. Nel termitaio morente, bisogna stringere i denti o rimboccarsi le maniche). Ormai entrato in un periodo di «vacche magre», per ingrassarsi il «Movimento» spettacolare ha ingerito quanto poteva la critica della politica che, mescolata col parlamentarismo e con schifezze analoghe nello stomaco di struzzo dell’Organizzazione, ha stallato gli stronzi dell’«area creativa». Esaltandosi, i gruppi si son dati da fare per cooptare, insieme ai cosiddetti «nuovi strati emergenti», tutti i «giulivi» che, truccandosi il naso, abbiano fiutato in sé un’essenza «gay» pronta ad adeguarsi alle mode sorte per sistemare il «diverso», reprobo fino a ieri, sotto la lugubre tutela del Mostro. Oggi, come ieri, la «cavezza» della sinistra cerca di trattenere l’impeto di chi più o meno coscientemente avverta l’urgenza della Rivoluzione: e serva a rinserrare in «scuole» d’aggiornamento ideologico mandrie di «minorenni», che si lasciano ammansire da imbonitori e maestrucoli, esperti soltanto di opportunismo e d’ipocrisia. Traducendo in «sinistrese» la tesi del «Corriere», i gauchos «astuti» si sforzano d’occultare la proeria adesione alla politica del Mostro, mentr’Esso non nasconde affatto l’uso che fa del «Movimento» spettacolare: «Il Paese è cambiato, si è spostato a sinistra. Anche i grossi hanno capito che solo a sinistra si possono far soldi». Infatti, il bazar dei «compañeros» rende bene, poiché vi si smercia e soffoca lo slancio sovversivo che cresce; e al Mostro interessa conservare le organizzazioni, le quali, anche «lavorando in proprio», alimentano questo mercato. I gauchos non dimenticano che, di fronte all’incalzare della Rivoluzione, ciò che spalleggia la loro logora prestanza controrivoluzionaria è il Potere. Per tenerselo buono (ovvero per «tenersi a cavallo»), ricorrono alle peggiori infamie pur di frenare il movimento reale e, dandosi alla delazione, si mettono a far da «pacieri» fra gli «estremisti» e il Mostro. Così puntellano l’ordine democratico che

ci crolla addosso, seguitando a opporre la propria spregevole carriera di poliziotti alla Vita che la Rivoluzione afferma.

* Archivio Mario Mieli. Il testo non è datato ed è incompleto. Le pagine mancanti sono indicate con […] e corrispondono alle pagine 1, 2 e 4. Il testo comincia alla pagina 3. Nel testo originale appaiono numerosi rinvii a note purtroppo assenti dal manoscritto. [N.d.C.]

Recensioni e critiche

Socialismo e sessualità*

Ecco un libro che da un lato riporta il parere di diversi pensatori socialisti, comunisti e anarchici sulla questione sessuale (da Engels a Emma Goldman, da Rosa Luxemburg a Reich); d’altro lato, attraverso la dialettica aperta dalle opinioni citate, propone il punto di vista dell’autore. Il quale, se rivoluzionario è, e attacca le posizioni retrive delle sinistre e il «filisteismo della mediocrità» che caratterizza il loro approccio alle problematiche erotiche e più in generale ai vasti temi dell’emancipazione umana, dimostra però d’essere egli stesso un «mediocre»: basta considerare la fragilità delle sue argomentazioni rispetto alla dirompenza del discorso sull’Eros portato avanti dalle donne rivoluzionarie e dal movimento gay dopo il ’68. Domenico Tarizzo resta prigioniero di un’ottica prettamente eterosessuale; non a caso cita, come unico «giudizio» favorevole all’omosessualità, quello obsoleto e riformista dei Bernstein e dei Bebel che, al tempo della Seconda Internazionale, appoggiarono le rivendicazioni del Comitato scientifico umanitario1. Tarizzo auspica il completo superamento dell’attuale antico «sadomasochismo» dei rapporti interpersonali che contrappone e contemporaneamente lega gli oppressori agli oppressi, nella società come nell’amore. Resta da vedere se quello che egli chiama «sadomasochismo» non sia piuttosto l’alienazione del sadismo e del masochismo quale si presenta sotto il gioco della Norma eterosessuale, ovvero della repressione della donna e dell’Eros. Un libro come questo non piacerebbe certo agli americani dell’Eulenspiegel Society, che considerano invece la

liberazione… sadomasochismo indispensabile al mantenimento del sistema e alla realizzazione del «regno della libertà».

* «Tempo», 5 dicembre 1976. Recensione di Socialismo e sessualità di Domenico Tarizzo, Ottaviano editore, 1976. 1 Si riferisce al Comitato scientifico umanitario, considerato il primo movimento omosessuale della storia, fondato nel 1897 da Magnus Hirschfeld, medico e attivista omosessuale. La prima iniziativa del Comitato fu il lancio di una petizione per chiedere l’abrogazione del famoso paragrafo 175 del codice penale tedesco che condannava i rapporti omosessuali. La petizione raccolse migliaia di firme tra cui Freud, Einstein e, appunto, Bernstein e Bebel. [N.d.C.]

Jean-Louis Bory e Guy Hocquenghem Comment nous appelez-vous déjà?*

Bory, Vivre à midi. Scritto «bene»: lo stile brillante e discorsivo è giornalistico (Tornabuoni tradurrebbe alla perfezione). L’autore sembra non aver letto il saggio di Freud sulla negazione. Risultato: un lavoro farcito di preterizioni pericolose, dal quale troppo spesso traspaiono un senso di colpa mal sedato e un’accettazione riformistica dello status quo pronta a reclamare, per i «diversi», accettazione da parte della società. Ma, «fighting for peace is like fucking for chastity» (Piero Fassoni). Non v’è prospettiva rivoluzionaria, né vengono presi in considerazione i nessi importantissimi che legano la lotta dei gay al movimento delle donne. Metterebbe il culo in pace a molti eteroprogressisti, cariatidi della falsa coscienza. Andrebbe, se tradotto, chiosato da note critiche. Le stronzate del Foucault di La volonté de savoir non vengono certo smascherate da simili barcollanti apologie della cosiddetta «perversione». Pur essendo – si deve ammatterlo – a volte piacevolmente spiritoso, Vivre à midi fa davvero vieille tante e, secondo me, era out of date ancor prima d’essere stampato. Le informazioni storico-sociologiche aggiungono poco a quanto già si conosce in Italia (soprattuto in seguito alla pubblicazione di Gay gay: storia o coscienza omosessuale e di Elementi di critica omosessuale). Inoltre, questo scritto è spesso «troppo» francese (troppo, se si tien conto delle difficoltà a tradurre e della quasi equivalente chiusura in un milieu italiano da parte dei lettori nostrani).

Hocquenghem, Oiseau de la nuit. Una novella piuttosto lunga che descrive l’incontro di un maschio eterosessuale con un gay. (L’«autrice» non fa molti sforzi per rendere verosimile la psicologia di questo paladino della Norma, che funge da narratore: l’egotrip della Hocquenghem indossa poco credibilmente i calzoni del maschio). L’etero piomba per caso in un bar «particolare»; qui si lascia abbordare da una checca e insieme, chiacchierando del più e del meno (Christopher Street e il Teatro San Carlo sono oggetto di conversazione), finiscono alle Tuileries, dove assistono al consueto battimento. L’etero non manca di sbalordirsi e la checca si dà da fare per confonderlo ancor di più, se è possibile. «Tirano mattina»: dopo aver ascoltato un ennesimo monologo del suo accompagnatore (questa volta vagamente genetiano), l’etero scopre l’America accorgendosi d’essere stato battuto tutta la notte; e se ne va. Una volta solo, non riesce però a scacciare dalla testa la memoria del gay che – vedi la coincidenza! – incontra di nuovo nel cesso di un bar dove s’è fermato per un caffè. La checca, ubriaca, non lo riconosce (!) e tenta di fargli una sega: l’altro, spaventato, fugge via. Il finale da roman-photo avrebbe potuto contenere (lo si spera fino all’ultimo rigo) almeno qualcosa di (pro)positivo: invece no, che vita di merda devi fare Hocquenghem! Un certo «mestiere» non basta: i luoghi comuni d’una «cultura» omosessuale imbevuta d’intellettualismo à la page non cercano neppure di celare il sentimento di colpevolezza che – come quelle di Vivre à midi – pervade queste pagine. Jean-Luc Henning, il giornalista parigino che ha recentemente dedicato un articolo ai com (vedi «Libération», 21 aprile [1977]), scrive: «Impressions bizarres. Comme si l’on était déporté dix ans devant soi. Une cordialité amoureuse sans agression ni paranoïa, sans peurs ni humiliations»1. Forse esagera: in ogni caso, è quello che si pensa in Francia delle esperienze del movimento gay italiano. The Faggots and their Friends, di Larry Mitchell, che v’avevo lasciato in lettura, mi sembra molto più interessante e nuovo di quanto non lo sia questa infelice accoppiata Bory-Hocquenghem.

Archivio Mario Mieli, maggio 1977. Il libro Comment nous appelez-vous déjà?, Calman-Lévy, «Com’è che ci chiamate?», è un libro in due parti autonome scritte da due voci piuttosto contrastanti: Jean-Louis Bory, scrittore e intellettuale francese, apertamente omosessuale, che negli anni ’70 proclamava il «diritto all’indifferenza»; Guy Hocquenghem, protagonista centrale del FHAR, che difendeva una posizione radicale di quella che lui stesso chiamava l’omosessualità «nera», notturna e anticonformista. Mieli parla del FHAR nell’articolo Paris-FHAR (p. 81). [N.d.C] 1 «Impressioni strane. Come se fossimo deportati dieci anni indietro. Una cordialità amorosa senza aggressione o paranoia, senza paure o umiliazioni». [N.d.C.] *

Dario Trento Storiella omosessuale*

Questa Storiella ha un pregio esile e forte a un tempo: quella d’esser sincera. La narrazione segue senza strapparlo il filo della spontaneità lungo un tratto di labirinto esistenziale che al lettore, situato all’«esterno», appare trasparente come un gioco di vitree scatole cinesi, delle quali la più piccola risulti a volte contenere quelle che la contengono. L’«ingenuità» con cui dall’«interno» Dario Trento fa udire la sua voce è il palpito di un’anima bella che il Mostro non riesce a soffocare. La repressione interiorizzata, però, impaccia questo libro con le pastoie del lessico politicouniversitario, che come stridenti onomatopee rendono incessantemente lo sferragliare della Macchina capitalistica che ci «assorda». A Dario, che ama Proust, consiglio di guardare più da vicino alla composizione delle frasi della Recherche, dimenticando la sinistra cacofonia di A/traverso. È bene cercare d’esprimere bene quel che ci passa per la testa, anche se, come ammette un grande artista, «perfection is not necessary».

Archivio Mario Mieli, 1977. Recensione del libro di Dario Trento, Storiella omosessuale, Milano, Edizioni Squi/libri, 1977. [N.d.C.] *

Luciano Parinetto Corpo e rivoluzione in Marx. Morte, diavolo, analità*

Può chi non sia lesbica o checca (in senso storico), o comunque chi non abbia finora partecipato in prima persona alle attività del movimento gay, scrivere di omosessualità in modo interessante e propositivo? Evidentemente sì: Luciano Parinetto – rara eccezione – in Corpo e rivoluzione in Marx ne fornisce la prova (sebbene quello omoerotico sia soltanto uno dei diversi temi affrontati in questo libro); e il movimento gay, credo, gli sarà grato, poiché la sua analisi situa con lucidità la questione omosessuale in un contesto ampio e ben articolato, mettendo in evidenza i nessi che collegano la liberazione dell’Eros con altre fondamentali prospettive d’emancipazione rivoluzionaria. Libri come questo si rivelano preziosi a quanti intendano portare avanti la ricerca teorica togliendosi di dosso i marci paludamenti del marxismo «scolastico» reazionario, senza però piombare nella confusione spettacolare di coloro che – politici fino a ieri – montano oggi la farsa facilona di un «delirio» maodadaista che con la follia vera e propria non ha nulla a che vedere (e neppure con Dada) mentre puzza lontano un miglio di rigurgiti stalinisti e di stalinismo maoista, per l’appunto. La critica rivoluzionaria «deve» farsi certo sempre più gaia: ma proprio per questo più chiara e profonda, così come scevra di ogni superficialità. Ed è con chiarezza che Parinetto procede nella sua analisi: il libro dunque, pur essendo lungo, si legge con piacere e facilità. Critico nei confronti del PCI e, più in generale, delle sinistre del sistema, drasticamente polemico nei confronti di quanti pretendano d’imporre al proletariato, con la falsa

coscienza, «una cravatta e un’aureola», Parinetto insiste sulla dirompenza del proletariato inconscio e – alla luce di una lettura attenta all’opera di Marx e di altre autrici – scopre nella totalitàin-divenire del corpo la grande riserva d’energia rivoluzionaria che la specie trattiene in sé sotto il giogo della repressione. Se è difficile prefigurare il «soggetto» utopico, ovvero la libera individualità comunista, poiché la nozione stessa di soggetto è determinata dall’alienazione e cioè dalla negazione della comunità umana, è comunque certo che la nuova «soggettività» che inaugurerà la storia potrà essere realizzata soltanto liberando completamente il corpo (e quindi la mente) dalle catene con cui il dominio cancerogeno del capitale ci vincola a sé. Dominio che si regge, oltre che sulla soggezione delle donne, sull’omoerotismo sublimato, sull’estraneazione del lavoro e dell’Eros in generale, anche – in particolare – sulla «scotomizzazione» dell’analità: il sistema è pregno di analità alienata. Non poteva che essere il diavolo a porsi come figura centrale di questo libro: il diavolo androgino, il demone che, infrangendo la rigida rimozione che fonda la credenza nel Dio fallico, trascende, s’accompagna a chi intraprenda il viaggio nell’Es e scopra pertanto quanto meravigliosa sia la vita che siamo costretti a rimuovere, per adeguarsi a una sopravvivenza peggio che mediocre e sempre minacciata nell’inferno capitalistico. E se la morte viene spesso borghesemente esorcizzata anche dai marxisti, questo libro invece discute alcune tematiche che la concernono, indicando fra gli obiettivi della rivoluzione anche quello di restituire agli esseri umani una morte almeno naturale, ben altra rispetto alla morte artificiale imposta dal sistema che tende a distruggere globalmente, con il pianeta, la vita: Parinetto accenna perfino al possibile superamento utopico della morte stessa. Lungi dall’essere sistematico e dal pretendere di esserlo, Corpo e rivouzione in Marx, è un libro aperto, ricco di spunti interessanti e di argomentazioni efficaci, vera miniera d’oro di citazioni e di riferimenti teorici utili a chi intenda portare avanti una ricerca critica gaia e nel contempo seria, lontana dai pregiudizi sclerotici.

«Lambda», n. 7, luglio 1977. Recensione del libro di Luciano Parinetto, Corpo e rivoluzione in Marx. Morte, diavolo, analità, Milano, Moizzi, 1977. [N.d.C.] *

Elogio dell’armonia*

«Un giorno, vedrai, verrà l’armonia», mi disse l’egittologo canadese Denis Robert quando gli raccontai d’essere «impazzito». Sebbene non lo rivedessi da anni, ebbi l’impressione ch’egli fosse in certo modo al corrente di quanto m’era capitato. Fu nel dicembre 1974 che intrapresi quel «primo viaggio nella follia»: avendo chiesto a un poliziotto inglese di fare all’amore con me, venni rinchiuso in carcere a Brixton, e poi in una casa di «cura» per «malattie mentali» a St. John’s Wood. Adesso, eccomi di nuovo «pazzo». Questa volta, ciò che sento comporsi in me, e attorno a me, è l’armonia: si direbbe che, sbocciata la rosa della vita, mi sia dato finalmente di comprendere come ognuno dei suoi petali – ovvero ogni vivente altro da me, poiché, as far as I am concerned, io sono al centro della rosa – sia a sua volta il cuore di essa, mentr’io, per ciascun altro, non sia che uno dei variegati petali… Questo è il Mondo: «Cueillez dès aujourd’hui la rose de la vie» (Pierre Ronsard). Giorni fa ho visto un libro intitolato Della Pazzia, ch’era opera di Roberto Sambonet, autore dei ritratti di «folli» e degli schizzi che ne costituiscono la parte iconografica, e di alcuni suoi amici, fra i quali il grafico svizzero Bruno Manguzzi. I testi che accompagnano i disegni sono d’autori famosi (come Euripide, Cervantes, Shakespeare, Voltaire, Machado de Assis, Nietzsche, Strindberg), eccetto ch’è invece la poesia di un anonimo: potrebbe intitolarsi Trionfo della pazzia e fu scritta nel cesso d’un ospedale psichiatrico, nel 1968 (non a caso: giacché non è fortuito che casuale sia l’anagramma di causale… Coloro che hanno compreso qual pietra miliare sia stato il ’68 sul cammino della liberazione

universale dell’Es, e non ignorano la segreta «follia» del verbo, mi capiranno). Ora, di questo libro pubblicato dieci anni dopo, ciò che m’ha subito colpito è l’armonia. Fin dalla «soluzione» grafica della custodia bianca e nera (il volume è composto da grandi fogli rettangolari raccolti in un involucro, sobrio ed elegante, di cartone), ciò che s’offre al «lettore voyeur» è un elogio dell’armonia, come se Monguzzi e Sambonet avessero intuito, e quindi inteso rappresentare, la possibilità a volte effettivamente esistente d’uscire dal labirinto della «follia» – al quale accede chi non accetta di adattarsi alla coatta routine della «normalità» nevrotica – per ritrovarsi in uno spazio ampio, puro, atemporale, armonico: nero e bianco, ché allora si è giunti «al di là del bene e del male». Uscendo dai gineprai della «pazzia» ci si rende a poco a poco liberi dal senso di colpa che tortura la sopravvivenza dell’homo normalis, e s’intraprende una nouvelle vie, fiorita di petites morts fantasmagoriche e rilassanti: fuori della «follia» (ove il fuori è anche dentro…), non c’è più tempo da sprecare nella recita dolorosa che rispecchia e rispetta le regole inumane e ipocrite della co-inesistenza capitalistica. Solo, i costanti contatti coi sedicenti «normali» e il persistere della realtà repressiva insegnano a tacere, nella grande maggioranza dei casi, a chi pur con lo sguardo sia in grado di dir «tutto», a chi abbia occhi per vedere: a tacere, e quindi ad ascoltare; oppure, talvolta, ad assumere deliberatamente, per uno scopo, una posa teatrale, dal momento che, spesso una buona attrice, la quale abbia appreso il «mestiere» nel «teatro magico per soli pazzi», risulta più convincente del più erudito e pur sempre ermetico trattato d’alchimia. L’intuizione grafica di Monguzzi mi pare lungimirante, frutto d’un’opera animata da speranza e da una concezione elevata e tutta attuale dell’esistenza – negli anni in cui, sulla scacchiera mondiale, si gioca la grandiosa partita che spalancherà forse la porta magica della Rivoluzione sulla chiara luce della Storia. Il libro ha poi il pregio – e ciò lo si deve in particolare a Roberto Sambonet – di non eludere la fitta complessità delle

problematiche che affliggono la «follia» segregata; infatti i disegni (come d’altronde i testi, chiusi dietro le griglie delle loro gabbie grafiche), pur essendo in bianco e nero, evocano «tutti» i «colori», le fosche tinte e i toni vividi che riempiono gli occhi di chi patisce la propria «diversità» in manicomio: ecco dunque la contorsione, la tristezza, il ghigno, il toupet, la curiosità, la benevolenza, il sorriso, l’attesa, la brama senza complessi, l’«ebetudine», l’euforia estatica, la giocondità, la fatica, il grigno, la consapevolezza della propria «superiorità», la disperazione, l’urlo, smodato abbandono del corpo e il voltarsi indietro di chi sta attraversando la «selva oscura» al chiuso di un frenocomio liberty. Paradossalmente, è proprio il liberty dell’ospedale brasiliano Juqueri – dove Sambonet ritrasse quei «pazzi» – ad accogliere nell’angustia delle sue strutture di ghetto «terapeutico» queste meraviglie dell’esistenza, che la società, essa sì autenticamente demente, condanna al confino, all’incomprensione e al dileggio. Lì dentro, v’è di tutto: dal nero che dice sempre «bugie», giacché segue senza inibizioni il filo aureo della propria feconda fantasia, all’ebefrenico, il quale non cessa di masturbarsi fintanto che non raggiunge stati di spossatezza estrema, al catatonico che, come un manichino, senza reagire si regge in posizioni da equilibrista se soltanto gli si solleva una gamba, gli si tende un braccio a perpendicolo del busto, gli si piega il collo. Sambonet compì quasi interamente il lavoro nella sezione maschile, e gli fu vietato l’accesso al manicomio criminale.

Archivio Mario Mieli. Non datato. Considerato il riferimento al libro di Sambonet, uscito nel 1977, il testo è senza dubbio successivo. [N.d.C.] *

Amor omnia vincit*

Mi capita raramente di leggere libri d’un fiato, in specie se scritti da preti. Il terzo millennio. Saggio sulla situazione apocalittica, di Ernesto Balducci (Bompiani), è appunto una rarità, che consiglio caldamente. In esso è descritta, in tutta la sua tragicità, l’epoca attuale ed è proposta una via pacifica verso il superamento della gravissima crisi planetaria. Anche se ormai i dati inerenti al rischio di catastrofi belliche appaiono sulle prime pagine dei giornali – meglio tardi che mai – ancora troppi sono coloro che preferiscono sottacere la probabile imminenza della fine del mondo. Perciò ben venga qualunque libro o scritto che apra gli occhi su ciò che forse sta per accadere: la catastrofe termonucleare. Balducci ha inoltre il merito di non sottovalutare i rischi ecologici tremendi che stiamo correndo, sicché non è degli ingenui che vedono solo nella guerra la minaccia genocida: la parola, genocida, ormai, ha assunto un senso globale. Non solo infatti il deterrente atomico in possesso delle massime potenze è in grado di distruggere più di dieci volte la faccia del pianeta – ci sono tre tonnellate di tritolo per ogni essere umano –, ma anche qualora l’equilibrio del terrore garantisse la «pace» per qualche decennio, la crisi energetica è tale che, se non si provvede alla ricerca e produzione d’energia pulita, solare, entro breve l’umanità sarà vittima dei contro connessi alla produzione d’energia nucleare. La conclusione del libro, ponendo l’accento sull’immensa importanza della ricerca scientifica volta alla produzione

d’energia solare, mette in luce il fondo razionale, materialistico del pensiero di Balducci, che perciò è serio, vitale. Non intendo sunteggiare qui la sua opera, cui rimando i lettori intenzionati a capire meglio il tempo apocalittico nel quale viviamo e soprattutto a far qualcosa per scongiurare la catastrofe. Dirò solo che Balducci non nega come, razionalmente, oggi ci sia da disperare: le probabilità della fine del mondo sono innumeri. Basti tener presente che l’uomo, nel corso della storia, ha sempre usato le armi più potenti in suo possesso. Solo l’eccezione che venisse a confermare la regola bellica ci salverebbe nell’immediato domani. Sono quasi quarant’anni che un conflitto globale non mette in discussione l’equilibrio planetario, e negli ultimi decenni gli arsenali sono andati riempiendosi d’armi assai più micidiali di quante ne siano state usate dall’età della pietra alla bomba d’Hiroshima. Nonostante il pessimismo che così s’impone, Balducci giustamente propone la speranza come forza interiore con cui combattere contro la guerra. Speranza non cieca, idealistica, ingenuamente ottimistica, ma speranza razionale: poiché l’immane tragedia sarebbe evitabilissima: lo è: chi nulla fa per evitarla sottoscrive il suicidio della specie; chi agisce per evitarla ha già in mente come superare lo status quo, come superare ciò che gli assassini-suicidi oggi spacciano per il migliore dei mondi possibili. È evidente che la macchina economica costruita dall’uomo agli albori del Rinascimento si sia ormai del tutto autonomizzata. Paragonabile alla mostruosa creatura di Frankenstein che uccide il suo artefice, la Macchina Capitale sta per annientare la specie che l’ha costruita. E oggi la sua folle corsa deve e può essere arrestata. Anche se c’è poco da sperare bisogna sperare a pieni polmoni. Anche se l’aria delle metropoli è irrespirabile, chi corre al parco e lavora contro la guerra è molto più sano, ovviamente, di chi si buca e piange. Oh come si può non amare la vita, non desiderarne la conservazione? Si è forse dimenticato che la pulsione di morte

può coesistere in armonia col principio del piacere? Non abbiamo occhi per gli animali, le piante? Per concludere vorrei sottolineare alcuni limiti, a parer mio, del libro di Balducci. Anzitutto trovo più belle ed efficaci le parti scritte con semplicità. Non è tempo questo di fare gli intellettuali, siamo tutti vergognosamente ignoranti; e sarebbe meglio che Balducci s’ispirasse al Cantico delle creature piuttosto che a prose pesanti. Gli sconsiglio l’uso di metaforone e metaforucce. Usare le figure retoriche bellamente è un’arte. Il suo libro sarebbe molto più chiaro e convincente se fosse scritto semplicemente. Ma dato che forma e contenuto sono una sola cosa, o comunque l’una rispecchia l’altro, l’oscurità dello stile spesso corrisponde a debolezza del pensiero. Quando mai, ad esempio, Balducci fa menzione esplicita dell’amore come forza vincente? O s’interroga forse sulla possibilità di distruggere gli armamenti nucleari senza gravi ripercussioni ecologiche? La questione è di primaria importanza per la pace e m’auguro che presto venga discussa pubblicamente. La più grave colpa di Balducci è l’innocenza, o più esattamente, l’indulgenza: egli si lava un po’ troppo le mani, evitando di fare il nome dei molti criminali che ci sono in giro e che talora con lui siedono a tavole rotonde, presumo, o come lui parlano alla radio. Indulgenza come questa puzza un po’ di viltà. Che Balducci si denudi come Francesco, magari in piazza San Pietro, e denunci al mondo il Pontefice che con tutte le sue preghiere contro la guerra non è certo di coloro che fanno concretamente il possibile per scongiurarla. Che denunci Pertini il quale a Mantova, parlando a studenti, ha detto che come cittadino e non come presidente della Repubblica è favorevole al disarmo totale controllato. Ma fino a prova contraria sono i capi di Stato popolari, più dei semplici cittadini, coloro che hanno il potere di promuovere grandi campagne per la pace. Se non se la sentono, si ritirino. Alla guida delle nazioni ci vogliono donne e uomini intelligenti, prudenti e coraggiosi. Che Balducci la smetta di stringere la mano agli ipocriti e si ricordi che Gesù, oggi, è vivo.

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«Mandala. Quaderni d’oriente e d’occidente», n. 2-3, gennaio 1982.

Chercher querelle*

Premetto di non aver visto Querelle1. Otto o nove anni fa, quando militavo nel Gay Liberation Front, vidi per la prima volta un film di Fassbinder: era Il diritto del più forte, descriveva la vita squallida di due o tre checche sceme, senza proporre nulla di liberatorio: insomma mi parve una merda. Lo rividi anni dopo, quando già quasi coglievo il lato positivo d’ogni cosa: ancora non mi piacque, nonostante fosse girato bene e irridesse i gay tedeschi integrati e alienati, immemori dello sterminio nei campi di concentramento nazisti di centinaia di migliaia di uomini che prima di loro avevano amato il cazzo. Mi dissi: Fassbinder non fa un buon lavoro, potrebbe diffondere un messaggio più edificante; è certo una checca che, per quanto si mostri spregiudicata, si sente in colpa, se nell’omosessualità rappresenta solo gli aspetti più tristi. Adesso m’immagino quanto décadent sia Querelle, testamento d’un omo bruciato, e nondimeno so che me lo gusterei, perché dev’essere molto sexy. Io sono contrario a ogni tipo di censura: secondo me bisognerebbe punire i rompicoglioni che per la loro iniqua pruderie impediscono a noi di vedere quel che ci pare e piace. Essi non hanno censurato i vari Mondo cane (i cui registi si sono arricchiti facendo torturare e scannare esseri umani e bestie davanti alla macchina da presa)2, né si sono particolarmente accaniti – per fortuna! – contro la pornografia a basso livello, di solito piuttosto frustrante: i censori ce l’hanno con la pornografia artistica, poiché il disvelamento artistico dell’Eros aiuta la gente a liberarsi, e questo i repressori repressi non lo possono tollerare: un’inculata ben filmata da un artista è per loro mille volte più

scandalosa della morte in diretta alla tele d’un pugile coreano; essi giudicano più conturbante per un italiano adulto assistere a un’ammucchiata gay sullo schermo che per un bambino vedere le foto dei mucchi di vittime d’un massacro razzista a Beirut. Mi sono stupita – ma non troppo – che Goffredo Parise nel suo articolo contro la censura di Querelle («Il Corriere della Sera», sabato 20 novembre [1982]) dica di non essere omosessuale. E io che lo credevo dei nostri! Già Il prete bello, che lessi quindici anni fa, mi parve un libro molto gay, e molto m’identificai con la contessa Manina la quale, se non ricordo male, andava a far seghe nei cinema di terza visione, proprio come me: e come Parise, pensai. Varie novelle del suo secondo Sillabario, poi, m’hanno confermato ch’egli è una gran checca velata: molto bene descrive ad esempio il ragazzo che, interrotto un coito, s’alza e «preso da delirio» lungamente s’esibisce davanti alla signora che ha appena chiavato e lo guarda «come si guarda un cobra eretto a pochi centimetri dal volto»… Non so come faccia Parise a non vergognarsi d’affermare sul «Corriere» di non essere gay: o forse non sa che il giornale è letto anche da persone intelligenti? Il suo articolo, pur progressistico, è sintomo della nevrosi di quest’epoca d’estremo declino che a malapena tollera gli omosessuali: estremo declino cui farà subito seguito la nuova età dell’oro, preannunciata per la prima volta con grande risonanza dai froci in questo secolo. Parise avrebbe bisogno di scrivere con un cazzo in culo, così forse riempirebbe di qualche contenuto il suo stile piuttosto vuoto, che a me comunque piace. Egli dice che Querelle «è un film sull’essenza vera dell’omosessualità, la liturgia, la fede religiosa, di fronte a cui ogni omosessuale s’inchina». E parlando dell’opera del ladro, carcerato, reietto di Genet, afferma: «Sì, per tutti gli omosessuali è non soltanto possibile ma imperativa la liturgia, l’omaggio e la fede nell’omofilia, il culto del fascinum, come direbbero i latini». Sarò una delle eccezioni che confermano la regola, ma io che mi sono chinato centinaia di volte per prenderlo in culo e in bocca, talora contemporaneamente, io che sono una sacerdotessa del fallo non m’inchino dinanzi ad alcuna fede religiosa – mentre Iddio

stesso, muscoloso, nudo, unto d’olio, s’inginocchierà davanti a me e mi bacerà i piedi, tanto per cominciare. Il canto d’amore di Genet, le fantasie erotiche d’un omo bruciato tedesco, l’idea dell’omosessualità che una checca velata come Parise si fa sono ben poca cosa a confronto dei rituali erotici, pieni di magia, che fra un po’ verranno celebrati ovunque… Il Tantra realizza le fantasie, e presto scopriremo che il cosmo è popolato da Principi Azzurri col cazzo duro. «Non credi che gli anni ottanta saranno gli anni del sesso?» m’ha detto un amico che la sa lunga.

* Archivio Mario Mieli. Dato il riferimento all’articolo di Parise del 20 novembre 1982, è possibile datare questo testo alla fine del 1982. [N.d.C.] 1 Film di Rainer Werner Fassbinder, 1982, adattamento del romanzo di Jean Genet Querelle de Brest, 1947. [N.d.C.] 2 Si veda il testo dello stesso Mieli, Morte in diretta: «La morale è qualcosa di proibito!» (Nietzsche) (p. 202). [N.d.C.]

Il punk è morto*

Il punk è morto. O perlomeno lo sono gli aspetti più innovatori e dissacranti d’un «movimento» ormai del tutto assorbito dal sistema. Adesso vanno l’odor cadaverico, le dernier cris dell’ultimo nichilista che s’atteggi a cinico; nel punk decomposto c’è più miseria che in qualunque Classe morta di Kantor, il quale, almeno, annoia abilmente. Punk chic vestivamo ancor prima che il termine assumesse l’uso oggi noto, a Londra nel ’72: i nostri abiti di piume e di garze, le Madonne del Bagno turco dalle croci sanguinolente. Oggi la new-wave – nelle sue manifestazioni musicali e come moda, come fenomeno di costume – non è che edulcorato rimasuglio del vecchio punk. Del resto, la new-wave stessa agonizza: un precoce revival degli anni ’70 è proposto da un duo americano – i Suicide – che sotto la lapide del new-rock seppellisce, in una musica mistico-tenebrosa e in un’eleganza funerea, le ultime gonnelline di tweed e gli ultimi blouson anni ’60. Ma per le vie di Londra (come d’altro canto per quelle di Milano) ci si continua a imbattere in giovani punk. Loro punto d’incontro è lo Hell Club dietro Piccadilly dove si riversano abitualmente, i capelli crazy colours, ad ascoltare musica hard. Siouxsie and the Banshees – adesso che i Sex Pistols prendono il tè a Buckingham Palace – ne imitano il sound violento. Ma la violenza si ferma lì: i punk pascolano a Chelsea; quattro bonari poliziotti riescono a far stare in riga un esercito di giovani solo apparentemente minacciosi, intruppati nelle loro divise à la page. Il piratesco va ancora, tornano le gonnelline scozzesi. Vestiti punk si comprano a The End of the World, in The World’s End Palace, baracca col pavimento in

discesa, una colonna pendente al centro, un grosso orologio che – ahinoi! – corre all’indietro. Si avvertono i primi sentori d’un ritorno al Settecento. A Londra, limitati alle brache a sbuffo o polpo, mentre a Parigi la corsa a ritroso s’è arrestata un po’ in qua e nei sotterranei del Palace apre un Palace Exclusive con décor Impero. E se a Londra vengon prodotti kolossal punk o neo-punk tipo Jubilee, Rude Boy o Rockers, e le cineteche scacciano gli appassionati di Hitchcock per far posto a mostre di foto dagli orridi soggetti (caloriferi scrostati, cofani rotti, bruffoli), i parigini più scicchini e possibilmente stronzini si dedicano al fotoromanzo new-wave, che copia paro paro qualunque Grand Hotel. Lungo avvenire, dunque, per i Morillon! Ad Amsterdam, intanto, è interessante notare che sia al Mazzo, locale new-wave, sia nella nuova sauna Thermos, gay dichiarati e leather queens si mischiano ai leather punk. Tra cuoio e vapori si suda alquanto, sia ballando che chiavando: anche qui la divisa comporta sacrifici e spirito di adattamento. E in Olanda il miglior gruppo new-rock, composto da giovanissimi, è il Necronimicon, molto promettente. Ottimo batterista Carl Beuken. Ultimo grido new-yorkese, infine, è girare con un piccolo cobra in tasca. Chi più ne ha più ne metta. I temi chiave attorno ai quali si danza il macabro balletto newpunk son quelli straordinari dell’epoca in cui, per la prima volta dalle origini, l’umanità è in grado di autoannientarsi, o con una guerra nucleare, o con la catastrofe ecologica ineluttabile stante l’attuale modo di produzione. La fine del mondo. Inoltre è calcolato che nella seconda metà di questo secolo vengono alla luce almeno tanti essere umani quanti ne son nati in tutta la storia fino a oggi. Dando credito alla metempsicosi, sarebbe questa la resurrezione dei morti. Ian Curtis, star dei Joy Division, morto suicida, si è già reincarnato a Viggiù. Fine del Mondo, Risurrezione dei Morti. Manca il Giudizio Universale. Se ne parlerà presto.

* Archivio Mario Mieli. Dato il riferimento al suicidio di Ian Curtis, avvenuto nel maggio 1980, questo testo risale agli inizi degli anni ’80. [N.d.C.]

Fratelli d’Italia l’Italia s’è desta!*

Italia gay 1983, la guida tascabile a cura di «Babilonia» (p. 256, lire 7.000), è un libretto blu con un bel nudo di de Pisis in copertina e riporta l’indirizzo della maggior parte dei luoghi di ritrovo omosessuale in Italia (al chiuso e all’aperto), oltre ad alcuni utili indirizzi esteri; raccoglie scritti su letteratura, musica, cinema e teatro gay, tutti aggiornati e pieni di verve. Vi sono capitoletti sulle malattie veneree, la penetrazione anale, il fistfucking e i poppers, redatti con lodevole senso di responsabilità – e sense of humour (a proposito, ho saputo che gli auguri di felice ’83 negli usa, eran fatti dai gay nella formula Herpes New Year) –; il capitolo sulle leggi in materia sessuale m’ha rivelato una cosa che non sapevo, ovvero che al chiuso dei cessi, nei cinema, non è più reato scopare: bene! Le illustrazioni sono piacevoli. A vignette e fallici disegni si alternano foto di ragazzi nudi e seminudi, tutti belli ed eccitanti: anche una mezza impotente può farsi una sega e sborrare su questo libretto (qualche schizzo di sperma, su una guida tascabile, direi che ci vuole). Mancano foto di brutti (a parte una mia), e in questa discriminazione Italia gay 1983 tien dietro a moda e inibizioni dell’epoca. La guida è poi affatto specialistica: niente menate ideologiche, solo cazzi, culi e miti froci (entrambe le parole si leggano sia come sostantivo che come aggettivo); dei missili sovietici puntati perfino sul Bel Paese si ha il «buon gusto», di non parlare. Tanto, se anche corressimo verso la fine del mondo, ci sarebbe da sborrare a più non posso!

Non mancano, «naturalmente», varie pubblicità di luoghi ove l’omosessualità viene mercificata, ma nel testo non si accenna in chiave critica alla mercificazione dell’Eros. Insomma, quand’ero più moralista e meno ottimista, avrei stroncato il volumetto: oggi vedo il lato buono d’ogni cosa, ma il mio mestiere è – e soprattutto sarà – giudicare… Dunque insisto, la pubblicità è indispensabile, economicamente, per poter stampare «Babilonia» e la sua guida, ma un po’ di presa di coscienza sull’alienazione sessuale tuttora non guasterebbe. Nel complesso, Italia gay 1983 è un vademecum che ispira simpatia. Io poi sono convinto che almeno uno dei coordinatori dell’opera sia extragalattico, né mi stupirei se lo fossero entrambi. E questo mi sembra il punto più interessante: quanti ufo si sono da sempre infiltrati nel movimento gay? E nella cia? Nel kgb? In Vaticano?… Come i «replicanti» di Blade Runner, gli extraterrestri sono difficilmente riconoscibili fra noi: ma, a differenza dei «replicanti», credo che abbiano ottimi sentimenti. Felix Cossolo firma una breve storia del movimento gay italiano che serve a rinfrescarci la memoria. Mancano previsioni per l’83, che, mi sa, sarà un anno importante per i gay e non solo per noi… Avendo scoperto che al di là del bene e del male splende sempre il sempiterno bene (!), io da quest’anno cercherò d’essere in sintonia con la forza più grande del cosmo, quella dell’amore: e auguro buona fortuna a quanti gireranno con questo vademecum «nella tasca posteriore dei jeans a sobbalzo», come dice con colorita espressione Corrado Levi (che è tra i collaboratori della guida). Vorrei solo rettificare un’informazione su Milano: non mi risulta che il Parco Sempione sia nottetempo pericoloso, io ci vado sempre a battere e finora non ho avuto disgrazie (grazie ai miei agenti in borghese extraterrestri, che trovo fra i cespugli anche quando non c’è un cane e me lo mettono in culo e magari mi pisciano in bocca; talora, poi, son io che li chiavo).

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«Babilonia», n. 2, 1983. Recensione alla guida Italia gay 1983.

Sulla stampa

A proposito di miracoli*

Non è possibile farsi una qualche idea del miracolo in questione se ci si riferisce soltanto alla versione che ne dà il «Tempo». Sappiamo come, nella società dello spettacolo, la stampa intera (o quasi) contribuisca alla messinscena grottesca di una falsificazione en masse del reale, banalizzando lo stupefacente («Il fatto ha davvero dell’incredibile. Si grida al miracolo, ma l’ultima parola ora spetta ai medici»), così come banalizza il presunto «banale»: lungi dal procedere dall’apparenza dei fenomeni per andare a scoprire la realtà che dietro di essa si cela, la stampa borghese trasforma l’apparenza in illusione, spacciandola ideologicamente per «realtà»; si tratta di un meccanismo ripetitivo, coatto, tipico della falsa coscienza. In questo caso particolare, bisogna contattare Lorella Colangelo, la miracolata: soltanto parlando con lei ci si può fare un’idea dell’effettiva portata dell’accaduto. Tuttavia un breve cenno «generale» a quella vastissima adlucinazione che è la tematica religiosa può, se vogliamo, partire da quel poco o niente che di questo miracolo particolare sappiamo: per esempio, il cognome di Lorella è Colangelo, mentre San Gabriele è omonimo di Gabriele Arcangelo. Una coincidenza? Uno spunto interpretativo? Un segno misterioso della predestinazione? Una cazzata? Chissà. Il fatto è che questo tipo di associazione in qualche modo riflette il procedimento di certa rivelazione cosiddetta «schizofrenica» sensibile a cogliere relazioni significanti tra le cose, fatti o avvenimenti che «normalmente» definiremmo

connessi gli uni agli altri in maniera casuale (quando poi l’interpretazione «schizofrenica» non procede oltre, cogliendo il significato evidente che si nasconde in rapporti apparentemente casuali). Se un lettore scrive a una pubblicazione che si occupa anche di psicoanalisi ponendo quesiti sulla religione, non ci si deve limitare a rispondere indirizzando alla lettura, che so, del miope «Avvenire di un’illusione», o consigliandogli di prendere in considerazione la polemica Jung-Freud: bisogna piuttosto fargli notare il ruolo di primo piano rivestito dal trip «religioso» nel contesto dei cosiddetti «deliri schizofrenici». Infatti i «folli» sono gli irriducibili interlocutori della psicoanalisi e (quasi) sempre l’interpretazione psicoanalitica si rivela prude e meschina, riduttiva com’è, di fronte alla pluridimensionalità grandiosa della loro Weltsicht. Il presidente Schreber, per esempio, tentò nelle sue Memorie1 una rifondazione completa della religione, basata non sulla mera speculazione, bensì su una somma di esperienze straordinarie, transessuali, «magiche» ecc. altamente alternative rispetto all’ambito angusto delle esperienze nevrotico-schizoidi considerate «normali». Che poi sotto il suo «delirio» si celasse il rapporto incasinato con il padre e che il «delirio» stesso dipendesse dallo scatenarsi delle facoltà «proiettive paranoiche», ciò rientra nell’assunzione di ipotesi interpretative che sono ben lungi dal coprire interamente e tanto meno dal risolvere la problematicità del caso del presidente. Il concetto di proiezione è fragile etichetta se applicato alla vastità esplosiva della visione del mondo «schizofrenica»: non spiega nulla infatti, dal momento che il trovarsi all’improvviso in un mondo diverso, in terra e nell’aldilà a un tempo, non diventa affatto cosa chiara e ovvia qualora la si definisca semplicemente il risultato di proiezioni dell’inconscio. In realtà, è l’apparato prischiatrico-repressivo-poliziesco a imprigionare il «folle»: ma non esiste interpretazione psichiatrica o psicoanalitica, per quanto presuntuosa e/o progressista, in grado di piegare l’universo dello «schizofrenico» alle proprie categorie reazionarie di pre-giudizio.

Il confronto critico con gli avvenimenti «paranormali» è stato finora accuratamente e «sapientemente» evitato dall’intellighentsija laica e logica, marxismo più o meno ufficiale compreso. Un atteggiamento di scettico-dogmatico distacco e di pedestre ironia ha distinto la scienza seria da ogni altra forma di conoscenza. Il risultato effettivo di tale atteggiamento è stato il misconoscimento completo dei fenomeni «paranormali» e la loro sacrificazione in quel ghetto della coscienza ove prosperano le religioni ufficiali, i Bambini di Dio e il Guru. In una parola, il capitale opera una spartizione di sfere di influenza: il «razionale» alla scienza istituzionalizzata, l’«irrazionale» alle parrocchie, all’immondezzaio della «controcultura» e ai manicomi; trattasi del compromesso storico ante litteram. In effetti, soltanto la psicoanalisi si affaccia sull’ampio spazio della religione, ma, convinta a priori qual è dell’impossibilità di volare senza illudersi di volare, senza precipitare cioè, essa si incatena all’(am)masso pregiudiziale di un punto di vista pesantemente ideologico, che le impedisce di abbandonarsi alla vertigine, al rischio che l’esperienza religiosa effettiva comporta. In altri termini, il complesso di Prometeo di cui soffre vincola la psicoanalisi a un angolo visuale e interpretativo esterno alla religione (così come è esterno alla «schizofrenia»). Ma v’è religione e «religione». La religione di Paolo vi e/o suor Marisa Galli, per esempio, è la fede patriarcale del Trascendente fondata sulla sublimazione e sulla censura repressiva del rimosso. Essa porta e ostenta il velo di Maia (che le va a pennello). Ma esiste una (e più d’una) sorta di «anti-religione» che va a sollevare il rimosso, molto, molto più in linea con Schreber (the Schreber look). Ivi, «il miracolo è che non vi sia miracolo» (Sartre): poiché, superato il velo di Maia, tutta la realtà svelata è un universo miracoloso, magico, ove Londra è Londra ma anche Bagdad e il tempo futuro si specchia nel passato remoto nell’esperienza millenaria di un attimo; allora, una notte non ha nulla da invidiare al viaggio sublime e travagliato, al percorso filogenetico fantastico di De Quincey.

Allora leggi nelle parole degli altri e nelle tue connessioni dell’inconscio ed EVER è l’anagramma di REVE, un sogno che non finisce mai. Ivi lo spirito religioso tradizionale, così come l’ateismo dalla coda di paglia e l’agnosticismo lasciano il posto a un dubbio ben più che metodico: è il dubbio inevitabile che suscita in te l’evidenza del Marchese de Sade che viene a proporti di diventare il suo schiavo e che ride enigmaticamente quando gli fai notare quanto (oh quanto!) assomiglia al Diavolo. Il lettore chiede consigli su libri da leggere. Di letteratura ve n’è tanta. Mi viene in mente che in certe conversazioni telefoniche si parla di «libri» intendendo LSD, per tema delle intercettazioni telefoniche e per amore di un «certo» codice.

«Erba voglio», n. 23, dicembre 1975-gennaio 1976. A proposito di una lettera pubblicata su «Il Tempo» che racconta di un «miracolo». [N.d.C.] 1 D.P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, Adelphi, Milano 1974. *

Io, vado al club sadomaso*

Per un quieto Natale, propongo l’esproprio. Tanti bei regalini, insomma, come tutti gli anni, ma conquistati questa volta attraverso il furto. Difficile? Per niente. Si può rubare senza imbarazzo, a meno di non essere politici e comunque ignobili personificazioni del capitale. Rubare per Natale non è neanche troppo deviante: il furto rispecchia pur sempre una brama consumistica. In un’ottica meno capitalistica propongo anche che si approfitti delle feste per riflettere. Come? Basta affidarsi all’intuizione (ed è un suggerimento per il «movimento») e ricorrere alla magica efficacia sovversiva di una «violenza» androgina. Insomma affinché gli uomini capiscano, propongo loro per l’anno nuovo la terapia «Woman Look»: provino a vestirsi da donna e a tacere (quasi) sempre, dando invece ascolto alle donne. Quanto a me farò in modo di trascorrere il Natale fra le braccia dell’amato. Quel giorno, indosserò solo due gocce di Zibeline. E passerò la notte di San Silvestro in un club «sadomaso» di Copenaghen. Facendomi curare le ferite, l’indomani, da Fassoni, il più grande pittore italiano di Amsterdam.

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«L’Espresso», 25 dicembre 1977.

Sulla rivista di Macondo*

L’articolo Rinasce Macondo apparso su «la Repubblica» del 7 dicembre, m’informa che sul nuovo settimanale «Macondo» io terrei una rubrica «su come diventare belli con le cremine di cacao». Non è assolutamente vero, ed eccomi perciò costretto a scrivervi per smentire: non ho nulla a che vedere con «Macondo», tanto meno sapevo che Rostagno avesse in cantiere una nuova rivista, in cui «debuttare» come soubrette: ma che per piacere non coinvolga me nei suoi balletti col PSI… Fino a tre anni fa noi gay venivamo presi in giro dai «sinistri», come Rostagno & Co. che ci deridevano o ci aggredivano nelle università, per la strada: oggi i «sinistri» continuano a prenderci in giro, contribuendo a smerciare di noi un’immagine spettacolare e dunque fasulla.

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«La Repubblica», 19 dicembre 1978.

Da dove veniamo*

Ho letto sul «Corriere» l’interessante articolo di A. Buzzati Traverso inerente ai programmi scientifici per la ricerca della vita extraterrestre. Buzzati Traverso volge lo sguardo al «remotissimo futuro, nel corso del quale potremmo estendere verso inimmaginabili orizzonti il nostro sapere, studiando l’evoluzione di civiltà extraterrestri molto più avanzate della nostra»: ma non menziona la possibilità che tale studio ci permetta di fare interessantissime scoperte concernenti il nostro passato più recondito. Da altri è stata invece avanzata l’ipotesi secondo la quale il genere umano si distinguerebbe da tutte le specie animali perché nato dal connubio tra una razza terrestre e gli emissari di una popolazione «celeste» che, alcune decine di migliaia di anni fa, aveva già raggiunto un altissimo grado di civilizzazione su un altro pianeta. A questo proposito vanno anzitutto ricordate le ricerche dell’egittologo Denis Robert: esse attestano come l’origine parzialmente extraterrestre della specie umana non fosse affatto ignota agli antichi Egizi (o almeno, tra di loro, ai detentori del sapere esoterico).

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Lettere al Corriere, «Il Corriere della Sera», 7 marzo 1979.

Le ultime notti di Milano*

A prescindere da altri bonbons, solo gli ss-20 sovietici schierati verso l’Europa possono uccidere un miliardo e cinquanta milioni d’esseri umani: noi europei non siamo così tanti. Amnesie si chiama la discoteca più in voga a Milano di ’sti tempi. Ora che neo-punk è stancamente démodé un po’ ovunque, Amnesie manda biglietti d’invito new-romantic: ora che la volontà suicida della specie umana s’è fatta più che palese, l’autodistruttività punk n’épate plus personne e lascia il posto a nebuloso sentimentalismo e false svenevolezze. Amnesie: dimentichiamo la realtà! Avanti con la bolsa danza dell’oblio! Torniamo a Love is in the air delle Supremes o chi per loro: ma nell’aria c’è puzzo di catastrofe ecologica; nemmeno chi tira coca respira meglio. Lo sciscì delle sculettanti notti milanesi – in quattro minuti saremmo tutti disintegrati in atomi, qualora un bonbon cadesse sul Duomo – è mascherata tragedia. Oggi anticonformismo è solo vita salutare. Se anche si dispera nel futuro del pianeta, resta la possibilità di dare e darsi il meglio individualmente: abban/donandosi. Chissà che così non si trovi in noi la forza d’un nuovo impegno che scongiuri ciò che sarebbe evitabilissimo, benché appaia ineluttabile. Un po’ di spirito! Invece no: nei luoghi d’«evasione», nella fattispecie, non si assiste che a conformismo, finzione, competitività. Non c’è fantasia nel vestire e non ci si abbandona liberamente al piacere, godendo di questi ultimi anni! Tutti complessati ballano al ritmo di frustrazioni e illusioni. Celia Cruz si sgola inutilmente. Se si crede d’«evadere» almeno lo si faccia meglio. Avrebbe senso un baccanale serio fino alla fine del mondo. Sappiamo come ci si

diverte (il plurale è maiestatico): sapremo gestire non un locale, ma il mondo.

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«Seconda Mano», 4 novembre 1981.

Gli arresti dei palestinesi*

Più di mille civili palestinesi sono stati arrestati negli ultimi giorni a Beirut, per la maggior parte nel campo profughi di Burj el Barajne protetto dai militari italiani. I profughi finiscono in prigione perché abusivamente residenti in Libano, stando alle dichiarazioni ufficiali, ma «secondo i parenti dei detenuti gli arresti vengono effettuati senza mandato e anche se i documenti sono in regola» («la Repubblica», 2 ottobre 1982). Il piano di Gemayel sarebbe di ridurre a non più di cinquantamila il numero dei palestinesi che vivono in Libano (attualmente sono oltre mezzo milione). Gran fracasso s’è fatto – con molto antisemitismo di ritorno – sulle responsabilità d’Israele in Libano, e infatti il governo d’Israele, in Libano, è responsabile dei massacri di Sabra e Chatila come della guerra recente, ma sono quasi passate sotto silenzio le responsabilità della Falange «cristiana», che forse è stata l’esecutrice materiale dei massacri. Abbiamo così mandato la nostra «forza di pace» a servire le ragioni d’un presidente che è stato sì eletto anche coi voti musulmani, ma è tra i capi della Falange acerrima nemica dei palestinesi. E le responsabilità di Habib? Che ha reso possibile l’evacuazione dei combattenti palestinesi da Beirut garantendo così lo sterminio delle loro famiglie o quanto meno la persecuzione che ora è in atto contro di esse sotto il «pacifico» controllo degli italiani? Se gli israeliani sono tra i responsabili dei massacri perpetrati sotto i loro occhi a Sabra e Chatila, gli italiani lo sono delle incruente retate di questi giorni, che si concludono con chissà quale violenza e in chissà quali «prigioni».

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«La Repubblica», 13 ottobre 1982.

Dialoghi e interviste

Intervista a Come mai*

Elementi di critica omosessuale è un saggio uscito recentemente per l’Einaudi di Mario Mieli. Mario Mieli è un personaggio abbastanza noto ed è un esponente di rilievo del movimento omosessuale in Italia ed è qui in redazione, in redazione direi… vestito di tutto punto. Allora la prima cosa che vorrei chiedere a Mario Mieli, questo venticinquenne esponente e quasi leader del movimento omosessuale: che cos’è il travestitismo, e perché il travestitismo. Perché mi travesto? Mi traverso perché mi piace. Questo è il motivo, cioè mi sento molto spesso bene vestito da donna, quindi la risposta è molto semplice, e poi anche, se vuoi, con un tantino di spirito polemico in quanto intendo oppormi a quella normalità, secondo me demenziale, che vuole gli uomini necessariamente vestiti coi pantaloni e le donne… ecco le donne possono travestirsi da uomo ma l’uomo non può travestirsi da donna. Bisognerebbe interrogarsi sul perché di questa contraddizione. Quali sono i tuoi rapporti personali e in genere del movimento degli omosessuali con il movimento femminista? Secondo me stanno migliorando i rapporti del movimento degli omosessuali col movimento femminista, in quanto prima c’era un tentativo di trovare dei punti di incontro e questo tentativo mi sembrava un po’ ideologico, un po’ forzato. Adesso invece si scopre che ci sono in effetti dei punti d’incontro. Per quello che riguarda la mia vita personale, i rapporti con le donne migliorano sempre di più, in quanto io sono convinto del fatto che se c’è una possibilità per la specie umana di salvarsi da quel suicidio al quale

sembra condannata, è attraverso le donne, attraverso i neri, attraverso gli omosessuali. Secondo me le donne sono portavoce del futuro oggi. Io ho migliorato in parte anche i rapporti con mia madre e con le mie sorelle, quindi questo è un dato positivo. Posso dire che in generale le mie amiche si riconoscono nel movimento femminista, anche se poi non fanno parte necessariamente di un gruppo o dell’altro. Comunque sia, i miei rapporti migliori sono con le femministe che non partecipano alle attività di gruppi politici anche maschili, cioè sono praticamente delle femministe che fanno parte di gruppi di pratica dell’inconscio o che hanno fatto parte di gruppi di pratiche dell’inconscio. Non so se i telespettatori conoscono questo, penso che tu potresti parlarne meglio ma non so se divaghiamo… Comunque le femministe… Sì, ma non necessariamente, cioè voglio dire… Come per esempio, non so, io sono omosessuale però non penso che sia necessario più etichettarsi come omosessuali, nel senso che ognuno di noi ha una quantità di tendenze sessuali nella propria vita e poi è un essere umano. Tu parli anche di transessualità. Sì, io parlo anche di transessualità perché mi sembra un termine che metta in luce sia il fatto che ogni uomo è anche donna e ogni donna è anche uomo, sia il fatto che esiste una pluralità di tendenze nell’Eros. A proposito di rapporti tra femminismo, gay ecc., su «Panorama», tra i sette personaggi dell’autunno ci sei te, come profeta del sesso futuro. Sì, va beh, queste sono delle scempiaggini, cioè dei titoli per vendere. Articoli come questi hanno il tempo, la durata della carta stampata, cioè durano poco. Questo articolo mi ha fatto molto arrabbiare, perché tenta di propormi come una starlette del porno

quando invece non lo sono. Ora è evidente che nel mio pensiero, nelle proposte che io faccio per la liberazione, ci sono molti elementi che possono essere strumentalizzati e fraintesi – nel senso che io propongo non solo una liberazione del desiderio omosessuale in tutti gli esseri umani, in quanto secondo me la liberazione dell’omosessualità non significa soltanto stare bene, ma significa scoprire la tendenza omosessuale che è presente in ogni essere umano. Questo discorso naturalmente può scandalizzare molti, i quali non hanno mai pensato alla possibilità di scoprire in se stessi l’omosessualità. Questo discorso mi ha molto convinto, e tu sei anche, in fondo, un teatrante, diciamo così. Ecco tu pensi che il teatro sia un mezzo valido per questa cosa qui, perché può anche nascere il dubbio che invece il teatro sia una forma ulteriore di esibizionismo, di provocazione fine a se stessa. Invece tu pensi che possa funzionare come… Penso che nella tradizione italiana sia importantissimo il teatro dell’arte e a me piacerebbe moltissimo che il movimento – mi pare che se ne stia anche renendo conto con alcuni aspetti più positivi di quest’ultimo anno (degli indiani eccetera)1 – è importante un ritorno alla possibilità di esprimersi alla gente attraverso la rappresentazione teatrale. I politici fanno sempre dello spettacolo, sono emblemi della società dello spettacolo, quindi riprendiamoci in mano la possibilità di fare spettacolo e usiamo questo mezzo per diffondere delle idee che secondo noi sono propositive.

* 1

Intervista alla trasmissione RAI Come mai, 1977. Cfr. nota 2

Intervista a Mario Mieli di Felix Cossolo*

Ci puoi fare una breve biografia? Sono nato a Milano il 21 maggio 1952 e quindi sono infrasegno tra il toro e i gemelli, ascendente sagittario. Ho vissuto in campagna vicino a Como, fino all’età di 16 anni; nel 1968 sono venuto a Milano e ho partecipato alle attività del movimento fino al 1971, quando sono partito per l’Inghilterra, dove ho cominciato a partecipare al Gay Liberation Front. Negli anni successivi mi sono occupato del FUORI! a Milano, finché nel 1974, quando questo gruppo si è legato al Partito radicale, mi sono allontanato, perché non sono d’accordo su nessuna politica in genere; io credo nella possibilità di cambiare totalmente il mondo, ma so che per cambiarlo non si passa attraverso la politica, ma attraverso «qualcos’altro». In seguito ho preso parte all’attività dei com (Collettivi Omosessuali Milanesi): fra l’altro, con un gruppo dei com, Nostra Signora dei Fiori, ho partecipato alla realizzazione di uno spettacolo teatrale, intitolato La Traviata Norma, del quale è stato stampato anche un libro edito da «L’Erba Voglio», col medesimo titolo. Nel 1976 ho scritto Elementi di critica omosessuale, che è una riscrittura della mia tesi di laurea in filosofia morale. Questo libro è stato pubblicato nel 1977 da Einaudi. In seguito mi sono dedicato all’amore, fondamentalmente, cioè a realizzare nella vita concreta il mio sogno amoroso, e mi sono occupato di alchimia, e sto scrivendo attualmente un romanzo autobiografico che spiega alcune scoperte che ho fatto lungo la strada alchemica. Attualmente sono in Estremo Oriente.

In una pagina del tuo libro tu scrivi: «Per la creazione del comunismo è conditio sine qua non, fra le altre, la completa disinibizione delle tendenze omoerotiche». Tu credi ancora nella creazione del comunismo? Sì e anche nì. Io credo che questo mondo sia destinato a finire; esiste però una possibilità, e cioè che la fine sia una catastrofe di tipo nucleare qualora i capi di Stato siano pazzi quanto, ad esempio, lo sono stati Hitler e Mussolini, e quindi si scateni una guerra nucleare in grado di distruggere il pianeta, oppure una catastrofe ecologica. Non vedo altra alternativa a questa possibile catastrofe, se non nella creazione di una società in cui tutti gli esseri umani, uniti nell’armonia, si rimpossessino dei mezzi di produzione, creino un nuovo modo di produzione e le condizioni necessarie per sviluppare in armonia e tutti insieme una vita libera. Credo che sempre si sia frainteso ciò che Marx intendeva come comunismo. Marx usava l’espressione hegeliana «regno della libertà» per definire il comunismo, e soprattutto conditio sine qua non (secondo Marx) per la creazione del comunismo era la realizzazione di un nuovo modo di produzione, che nulla avesse a che vedere col modo di produzione capitalistico. Io mi definisco un marxiano, se si tratta di darsi una definizione, non un marxista, perché considero tutti i marxisti che sono venuti dopo Marx, nemmeno a eccezione di Lenin, dei deformatori della teoria marxiana. Considero quindi il comunismo, che auspico si possa realizzare sul pianeta, in una forma molto più simile in Marx che nei marxisti. Il tuo libro, Elementi di critica omosessuale, è stato considerato dal «movimento gay» il manifesto per gli omosessuali che vogliono liberarsi dall’oppressione: molto spesso nei nostri articoli facciamo riferimento al tuo libro. Desidero sapere se a distanza di tre anni dalla diffusione delle tue analisi ci sia qualcosa di superato. Penso che le analisi portate da me nel libro Elementi di critica omosessuale vadano ampliate e che molti argomenti da me trattati

nascondevano qualcosa di inesplorato ancora in me, che oggi va esplicitato e comunicato agli altri. Nella liberazione del desiderio omosessuale si cela un segreto ancora più grande di quello che io ero riuscito a intuire scrivendo Elementi… Considero possibile ampliare la disanima della questione sessuale quale è stata portata avanti in Elementi, ma non rinnego nessuna delle parole di Elementi. Nel tuo libro c’è un punto che tu non analizzi ma che mi preme discutere: «A causa della educastrazione si diventa eterosessuali e omosessuali… In definitiva non si riesce ancora a spiegare perché alcune persone diventano gay e le altre etero… Ma se l’omosessualità è congenita, evidentemente non ha senso cercarne la genesi». La domanda è questa: in una società improntata a modelli eterosessuali, come è possibile che vi siano degli omosessuali, dal momento che non si può parlare di libera scelta? E poiché tu affermi che la norma è eterosessuale, anche se non analizzi la «diversità» omosessuale rispetto alla normalità etero, mi interessa sapere almeno se hai riflettuto e dato delle spiegazioni a te stesso. Sì, ho pensato molto spesso a questo, e credo che per me non è ancora possibile dare una risposta teorica da divulgare. Posso dire che ci possono essere svariati motivi che portano all’affermazione preminente del desiderio omosessuale piuttosto che di quello eterosessuale in una persona, ma mi sembra che ancora oggi sarebbe avventato avanzare delle ipotesi generalizzanti di spiegazione del fenomeno. Io, in Elementi, ho scritto una cosa che credo di poter ribadire ancora oggi: «Soltanto liberando la sessualità si può capire per quale motivo tanto a lungo sia rimasta repressa. È molto difficile stabilire ciò che è, se questo qualcosa è represso». La cosa più importante è la prassi di liberazione, alla quale far seguire un ragionamento conseguente, che possa favorire una ulteriore prassi. Secondo te la liberazione omosessuale porta al comunismo?

La liberazione omosessuale, come ho già detto, è una delle condizioni necessarie per la realizzazione di una società armonica, perché sappiamo quanta violenza scaturisca dalla rimozione forzata del desiderio omosessuale. Sappiamo quanta competitività e quanto agonismo derivino dalla repressione delle componenti sessuali in noi. Quindi penso che per creare una società armonica sia impossibile continuare a reprimere la sessualità, quale si fa oggi, mentre però non penso che la liberazione della sola omosessualità sia di per se stessa garanzia per la creazione di un mondo armonico, anzi, ritengo che sia possibile liberare in forma mercificata l’omosessualità o altre forme di repressione nell’ambito della società capitalistica. Ciò non fa che accentuare la crisi interna al capitalismo, la contraddittorietà del capitalismo, ma, al tempo stesso, non è una condizione sufficiente liberare le cosiddette perversioni, per creare una società armonica, se oltre alla sessualità non si libera anche lo spirito. Grazie alla lotta dei gay il mondo diventa più gay? Qual è la tua collocazione rispetto al movimento omosessuale, è ancora necessaria la nostra lotta e cosa pensi dei giornali «Lambda» e «Fuori!»? Io non penso, in questo momento, di potermi considerare un militante del movimento gay, perché lo considero a un livello ancora troppo basso rispetto a quello che a me interesserebbe per poterci partecipare, a una lotta e un’attività in comune. Il mio giudizio su «Fuori!» e su «Lambda» è prevalentemente negativo; considero entrambi i giornali ripetitivi, scritti piuttosto male e soprattutto poco approfondita la ricerca che è portata avanti sull’emancipazione umana e sulla liberazione sessuale. Oltreché li trovo troppo compromessi con la politica e troppo compromessi con la liberazione mercificatoria della sessualità, che il capitale opera per conto proprio. Su «Lambda» vogliamo portare una critica all’omosessualità qualora possa diventare una «norma», quindi rifiuto dell’antinorma. Vorremmo portare un discorso critico rispetto il

corporativismo, il potere omosessuale di alcuni ambienti (analisi che, a mio avviso, sul «Fuori!» è carente): cosa pensi di questo? A questo punto potrei ripetere quanto ho già scritto in Elementi, posso pertanto rimandare i lettori che sono interessati a quello che penso rispetto alla lotta contro la liberazione dell’omosessualità all’ultimo paragrafo del secondo capitolo di Elementi di critica omosessuale. Posso dirti che sono favorevole a qualunque lotta venga compiuta più a fondo possibile, contro le forme di mercificazione o di falsa liberazione dell’omosessualità e delle altre cosiddette «perversioni». Tu vivi ancora momenti di repressione, o attualmente è tutto più facile? Io ti posso dire che la mia vita è cambiata, cioè sto meglio di come stavo un anno fa. Cioè, la liberazione per me è pratica quotidiana. Non vi è nessun atto della giornata che io compia senza pensare a migliorare la vita mia o quella degli altri. Considero che chi si muove nella propria vita animato dal desiderio di aiutare gli altri e aiutare se stesso a migliorare le proprie condizioni esistenziali, a poco a poco sta meglio, ed effettivamente meglio. Certo, subisco ancora tutte le repressioni che la società impone agli omosessuali appariscenti come sono io; ciò non toglie che mi creano molti meno problemi e mi inibiscano molto di meno di quanto mi inibissero una volta, perché dentro di me io sono in un certo qual senso legato a me stesso. Mi amo e di conseguenza la gente può dire quello che vuole. Attualmente stai scrivendo un libro: ne puoi parlare brevemente? Ho detto precedentemente che si tratta di un romanzo autobiografico, il quale anche può concernere alcune ricerche che io ho fatto nei campi dell’esoterismo: ho anche detto che mi occupo di alchimia da alcuni anni. Questo libro è il frutto di una ricerca letteraria, alchemica, esistenziale. Racconta i più

importanti incontri con uomini, omosessuali di alta spiritualità che hanno reso più felice, più rosea e più seria la mia vita. Si tratta dunque della storia di una checchina borghese che a poco a poco diventa alchimista; il titolo, per il momento provvisorio, è Gineprai. All’inizio accennavi a «qualcos’altro». A moltissime cose; questo qualcos’altro sta per moltissime cose. C’è qualcosa in particolare che desideri sapere? La prima che ti viene in mente. Ecco, il discorso sull’alchimia a me non coinvolge per niente, sono molto ignorante. Non esiste possibilità di liberare a fondo l’essere umano, e quindi la sessualità, senza passare attraverso la strada alchemica. A questo proposito consiglio ai lettori di leggere La psicologia del transfert di Jung, per esempio, libro che è il suo testamento morale e che, pur senza svelare quali siano le materie prime sulle quali viene operato il procedimento alchemico, dà però un’idea del rapporto che esiste tra alchimia e liberazione, entro di noi, dell’altro sesso represso; per esempio, all’interno dell’uomo della donna, e all’interno della donna dell’uomo. Uno dei motivi per cui considero a un livello piuttosto basso giornali come «Fuori!» e «Lambda» è perché chi parla di liberazione sessuale oggi dovrebbe sapere cos’è l’alchimia. Io so molte cose sull’alchimia, e in questo libro voglio divulgarle. Nella storia dell’alchimia c’è sempre stato un grosso problema, che gli alchimisti consideravano delatore colui che avesse svelato qual era la materia prima che stava alla base del procedimento alchemico. Ebbene, io sono il DELATORE, sono il primo alchimista europeo che rivelerà pubblicamente qual è la materia prima dalla quale si sviluppa il procedimento alchemico. Posso già dire questo e l’ho già detto pubblicamente nei teatri e tramite i giornali e anche in Elementi di critica omosessuale; soltanto coloro che erano già alchimisti hanno capito che io sapevo, gli altri non se ne sono accorti: la materia prima è l’oro. E se voi leggete in Elementi

l’ultimo paragrafo del terzo capitolo dovreste capire qual è l’oro che noi tutti possediamo e che, se ingerito, permette di sviluppare in noi la strada alchemica. Per migliorare giornali quali «Fuori!» e «Lambda», cosa ci consigli? Cerchiamo di essere il più possibile sinceri. Tu mi dirai «perché non hai detto cos’è l’oro?», in questa conversazione in particolare non voglio dirlo (anche se l’ho già ripetuto diverse volte), cioè faccio una scelta, ma non è tanto censoria, quanto è non trattare gli altri come bambini e dar loro tutto con il cucchiaino in bocca, dare un’idea affinché loro possano in un certo qual modo sviluppare la ricerca partendo da loro intuizioni. Il suggerimento che io posso dare per un miglioramento di «Lambda» è che chi scrive lo faccia effettivamente, sinceramente, senza operare delle censure rispetto al proprio pensiero, e poi abolirei tutto quello che è pubblicità, nei limiti del possibile. Perché non fare ad esempio una critica che parta dai vostri vissuti personali di tutti i locali pubblicizzati su «Lambda»? Voglio dire, leggendo «Lambda» non si vede chiaramente l’autenticità della vita di chi lo fa, l’autenticità dei problemi che ancora si incontrano nei luoghi che attualmente sono ancora il ghetto omosessuale. Trovo che è ancora un giornale da ghetto. Esiste una «cultura» omosessuale in Italia? Io sono contrario al termine «cultura» in genere, trovo che sia un termine capitalistico, da setta intellettuale che a me non interessa personalmente; penso invece, evidentemente, ci siano stati degli uomini di «cultura» come ad esempio Pasolini, che hanno sviluppato un discorso attinente all’omosessualità. Penso che tra i grandi artisti di sempre, tra i grandi uomini politici di sempre, tra gli uomini comuni di sempre, le donne di sempre, tanti omosessuali ci sono stati anche in Italia. Quindi la cultura italiana è in gran parte omosessuale. Hai avuto delle esperienze di LSD?

Sì, ho fatto un centinaio di trip, ma è dal gennaio 1978 che non prendo più LSD. Hai avuto degli amori folli? Hai uno stereotipo? Rifiuti il rapporto di coppia? Sì, la mia vita è una vita di grandi amori, ne ho parecchi contemporaneamente; attualmente i miei amori sono otto (quelli proprio che vivo). Posso dire che mi piacciono i belli, in genere, ma come bello non intendo solo fisicamente ma anche spiritualmente. Rifiuto il rapporto di coppia, altrimenti non potrei avere otto amori contemporaneamente. Le tue esperienze con la psichiatria: tu sei stato classificato come malato mentale? Sì, sono stato in un ospedale psichiatrico sia in Inghilterra che in Italia. Quello inglese era un ospedale lainghiano, quindi antipsichiatria, e posso dirti che è la stessa merda dell’ospedale psichiatrico tradizionale; non capiscono un cazzo della cosiddetta «malattia mentale».

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«Lambda», n. 24, novembre-dicembre 1979.

Dialogo sull’amore tra Lia Migale e Mario Mieli*

Chi è Mario Nato a Milano il 21 maggio 1952 (è un infrasegno tra il Toro e i Gemelli, ascendente Saggitario), dal 1968 Mario Mieli vive per il comunismo. Nel 1971-72 «militò» nel Gay Liberation Front londinese. Dal ’72 al ’74 ha partecipato alle attività del FUORI!, dal quale s’è separato quando, nel giugno ’74, il FUORI! si federò con il Partito radicale. «Membro» dei Collettivi omosessuali milanesi, fu uno degli autori-interpreti della Traviata Norma (cfr. La Traviata Norma, ovvero: vaffanculo… ebbene sì!, in «L’Erba Voglio», Milano, 1977). Nella primavera del ’77 ha pubblicato presso Einaudi Elementi di critica omosessuale. Attualmente «recita», e sta scrivendo un romanzo ottimistico. Lia1: Parlare di qualcosa, sono giorni che ci penso. Cosa ti domando? E mi viene in mente: un dialogo sull’amore. Poi mi dico: è possibile «parlare» dell’amore? Questo qualcosa che da un lato mi straborda e dall’altro mi resta ancora un incognito che mi fa dire «Io amo», ma mai «Io sono innamorata». Cosa chiederti? Mario: È possibile, anzi bellissimo, parlare d’amore. Sei fortunata ad AMARE naturalmente, come tutti, d’altronde, potremmo esserlo… Ma anche l’innamoramento è un kick mica male… Ma male fa rima con Migale. Lia: Tu dici: sei fortunata, ma io ribadisco che questo amare senza oggetto, questa mancanza di storie (che mi piace tanto nel pensiero), è poi difficile da sostenere. Tu mi sembri uno che

sostiene invece anche una materialità dell’affermazione «io amo»… Mario: Sì, giacché scopo. Sei omosessuale? Lia: Ahi, come non so rispondere! Non ho rapporti con donne, ma amo molto le donne. Mario: Anch’io amo le donne, e ogni tanto ce scopo pure. Lia: Insomma, cosa mi vuoi dire: che scopo poco? O che l’amore per esprimersi deve necessariamente passare nell’omosessualità? Mario: Non so quanto scopi con gli uomini. Il vero amore secondo me è pansessuale. Lia: Ti faccio un esempio di quello che io conosco come il mio divenire nell’amore. Quando ci siamo incontrati a Milano (due anni fa) ho poi avuto voglia di scriverti ancora qualche riga. Ti dicevo: sono felice che tu esista. Questa affermazione è per me un mio balbettio d’amore che però non è ancora capace di individuare il desiderio. Capisci? Mario: Non capisco. Posso dirti che adoro i balbettii, perché adoro gli infanti. Ma di fronte al rischio della catastrofe ecologica, nonché della guerra nucleare, mi pare che gli adulti farebbero meglio a imparare a giocare sul serio… Lia: Non capisco, ma mi sembra che nell’uso del termine «imparare» ci sia in fondo un tuo modello che ovviamente parte da una tua personalissima storia. Per me donna, imparare a giocare significa anche partire dal prendermi in mano questa mia mancanza di desiderio e non farla gestire dagli altri, dall’altro, e cioè: guardarmi, esprimere quel nulla che io sono.

Mario: Ognuno è l’autentico modello di se stesso. Non ho mai creduto nell’esistenza del nulla, fuorché di quello che doveva «preesistere» all’esplosione che generò il cosmo. Lia: Mi sento sempre più io l’intervistata. Il nulla che io sono laddove non so di sentire, di appartenermi: appunto la Storia d’amore. È come l’idea che io ho degli angeli. Una razza originaria che si è perduta come coscienza di sé, che non si ricorda ciò che era. Si può diventare un nulla laddove io richiedo di non essere un’immagine e mi si riconosce sempre e solo in un’immagine. Io dico: non sono così e così, e divento subito un’altra. Ma sempre con dei contorni. Mario: La credenza negli angeli deriva dall’antica cognizione della specie donnana (o umana) di discendere dal connubio d’una specie extraterrestre con la terrestre che, per ciò appunto, divenne umana, differenziandosi da tutte le altre specie animali. Quanto al resto di ciò che mi dici, vorrei ricordarti il passo in cui Proust definisce Albertine «unica, nonché innumerevole». Sei tu d’altronde, che lo citavi domenica scorsa. Lia: Nell’essere io unica e innumerevole è il mio gioco, quello che prima dicevo come il prendere in mano la mia mancanza di desiderio: agire la mia assenza. Ma continuo a chiederti: come tu parli dell’amore? Mario: Il tuo è un gioco because life is a joke. Parlo dell’amore a seconda dei momenti. Il mio linguaggio è ormai quasi sempre amoroso. Nulla mi dà più piacere dell’amore. Lia: Ma tu dici «amo perché mi piace amare». Una tautologia, non mi dici ancora cosa è per te «amare». Mario: Amare è buttare a mare il modo di produzione capitalistico. Amare è sostituire l’economia del dono all’economia dello scambio. Dono è l’anagramma di nodo. Amando si scioglie il

vincolo schiavistico che fa degli uomini e delle donne i succubi del capitale. Amare è godersela scopando senza gelosie. Amare è narcisismo e altruismo insieme. AMOR è l’anagramma, come si sa, di ROMA. Città eterna. A meno che non ce scoppi ’na bomba H.

«Differenze», novembre 1979. L’articolo è preceduto da una breve nota biobibliografica a cura della redazione del giornale. [N.d.C.] 1 Femminista, protagonista delle azioni del movimento femminista romano degli anni ’70. [N.d.C.] *

Intervista a Mario Mieli, Studio 82*

Non farmi delle domande molto culturali perché io non sono un intellettuale, sono un artista, quindi se mi fai delle domande molto culturali io ti rispondo che non so. No, voglio soltanto che tu mi spieghi un po’ qual era la situazione in Italia quando il libro è uscito e l’effetto sulla società italiana. Anzitutto la situazione d’allora è molto diversa da quella di adesso perché il libro è uscito nel 1977, che è stato l’anno in cui ci sono stati il convegno degli autonomi a Bologna, e prima, nel mese di marzo, c’erano state delle giornate un po’ gaie, un po’ insurrezionali sempre a Bologna, quindi è uscito proprio nel momento in cui stava per finire l’ondata di emancipazione, l’ondata liberatoria degli anni ’70 che era iniziata nel ’68 e stava per iniziare il riflusso. Quindi si può dire che in qualche modo sia un libro che è ancora pieno di tutte le speranze di cambiamento e di emancipazione che c’erano in quegli anni. Infatti, se io rileggo oggi Elementi, c’è una cosa in particolare che non riscriverei: ed è quando parlo di «noi, omosessuali rivoluzionari». Perché? Perché è vero che ci sono degli omosessuali rivoluzionari – e ne ho incontrati e ancora mi capita di incontrarne – però sono molto meno di quelli che pensavo esistessero allora. Non so, avevo la tendenza un po’ populista, a considerare su delle posizioni molto avanzate parecchie delle persone che incontravo nei collettivi, e non solo in Italia. Mentre poi col riflusso pochissimi sono quelli

che hanno continuato a portare avanti una lotta di liberazione su tutti i fronti e molti invece sono tornati indietro. Quel che in questo libro c’era di troppo ottimista era il credere che effettivamente ci fosse una frangia avanzata del movimento omosessuale che si potesse definire rivoluzionaria al di là di tutte le etichette passate. L’idea del gaio comunismo, che è l’idea più importante che c’è in questo libro, non è stata compresa da molti perché era basata su una concezione del comunismo ben diversa da quella dei gruppi politici tradizionali e dei partiti tradizionali. Cioè noi sappiamo che, per esempio, nell’opera di Marx, in alcuni passi il comunismo è descritto come regno della libertà, che era una definizione che c’era in Hegel e che lui ha ripreso; allora, questa idea è un’idea che io ho fatto mia e che ho pensato potesse trasformarsi in qualcosa di reale, il mondo potesse diventare veramente un regno della libertà, se ci fosse stata un’effettiva liberazione dell’eros, cioè del piacere. In tutti i sensi. Ora, io penso che se scrivessi oggi questo libro, sarebbe forse più chiaro se, invece di chiamare, per esempio, gaio comunismo, quello che descrivevo lì come gaio comunismo, l’avessi chiamato il gaio regno della libertà di modo che anche persone che avessero delle idee lontane da quelle della sinistra potessero immedesimarsi maggiormente in quest’idea. Io parlo così un po’ a ruota libera… quello che mi viene in mente… Per esempio, c’è una cosa che tu potresti citare: quando io sono andato da Einaudi dopo che è uscito il libro, ho parlato con uno dei lettori, cioè uno di quelli che avevano deciso per Einaudi di pubblicarlo, non mi ricordo come si chiama. La cosa che mi ha estremamente colpito è che questo ha detto che il libro a loro era piaciuto molto, che l’unica cosa con cui non era d’accordo era che io facessi un discorso per gli omosessuali comunisti perché pensava, per esempio, se un omosessuale è democristiano, o se un omosessuale è socialista, se un omosessuale è radicale non può identificarsi in quest’idea; quindi il lettore stesso della casa editrice non aveva capito che l’uso della parola comunista non era qualche cosa di

legato ai partiti comunisti esistenti, né parlamentari, né extraparlamentari, ma era legato all’idea di comunismo quale secondo me era nella effettiva ispirazione di Marx – che a tutt’oggi, anche se molte cose dell’analisi di Marx sono superate, resta un’idea molto bella, cioè quella di poter superare un mondo fondato sulla competizione e sulla separazione e di creare un mondo in cui ci sia una vera comunità umana. Se vuoi, una cosa che in Elementi non è detta e che però lo sottende – io avevo scelto allora di non dirlo perché non volevo essere frainteso in un altro senso, mentre oggi preferisco esplicitare questo – c’è per esempio una cosa nel cristianesimo che… si sa fin da quando si va a scuola, quando si è piccoli: Gesù aveva detto che il Regno sarebbe venuto quando tutti gli uomini si fossero amati. Ora, l’idea di amore tra uomini, secondo me, è veramente nel senso più profondo quel qualcosa che permetterebbe a questo tipo di società di superarsi, perché la competizione e la guerra dipendono in larghissima misura dal fatto che gli uomini, invece di amarsi, si odiano, oppure gli uomini, invece di amarsi, concentrano tutta la propria attenzione su questo falso oggetto femminile che è quello della norma, che è l’oggetto femminile che si trova anche nel femminiello di Napoli, nel travestito. Per esempio, in Italia adesso la prostituzione maschile dei travestiti ha un enorme successo, no? Questo cosa significa? Che sotto questo stereotipo femminile quello che si desidera in realtà è la figura maschile, o ancor più la figura, come io scrivevo allora, transessuale; ma non nel senso dell’operazione; nel senso di quel qualcosa che è vicino all’androgino dell’alchimia, che non è né uomo né donna, è donna e uomo al tempo stesso; può esserlo spiritualmente, può esserlo fisicamente a seconda poi di come ognuno è. Ho un po’ divagato ma quello che penso è che il discorso fondamentale di Elementi per me è valido ancor oggi: cioè per riuscire a superare il tipo di società nella quale viviamo, per riuscire a impadronirci della vita che oggi ci è totalmente espropriata – tant’è vero che c’è addirittura il rischio della distruzione totale del mondo, o di parti intere del mondo, e questo

viene dato per scontato oggi, oggi non si è più pazzi se si rileva questo dato di fatto – per riprenderci la vita è necessario anzitutto superare qualunque tipo di tabù sessuale. Il mio discorso è molto radicale, cioè non si ferma, per esempio, alla libertà genitale che era stata prevista da Reich: è la libertà totale. Mi sembra che sia assurdo il fatto che si continui a vivere con la vergogna di noi stessi e del nostro corpo, quando invece sappiamo benissimo che nella tradizione esoterica e nella tradizione magica i passi avanti più profondi si fanno soprattutto tramite la scoperta della sacralità dell’Eros sublimato o proprio di fatto. Io penso che quest’idea sia un’idea molto importante che si sarebbe dovuta diffondere molto di più. Tu mi hai chiesto qual è stata la reazione che c’è stata in Italia alla pubblicazione di Elementi: non è stato capito molto questo fatto, probabilmente perché è qualcosa di cui la gente ha ancora paura, perché è veramente anticonformista pensare che sia possibile liberare tutte le cosiddette componenti perverse dell’Eros. Non è stato molto capito; ho avuto una sola recensione di Elementi che mi è parsa scritta da una persona che l’avesse capito, che è uscita sul giornale «Advocate» in America, di Hubert Kennedy. A parte questa, tutte quelle che ho letto mi sembrava che non avessero proprio capito il senso di questo libro. Non so, forse io adesso ho parlato un po’ troppo così… se tu vuoi che io dica in particolare qualcosa… Volevo chiederti anche qual è stato il risultato a livello quotidiano… di questo libro o non ha aiutato i movimenti di liberazione… Ma questo credo di sì. Questo libro è uscito in una collana che è considerata un po’ selettiva in Italia, che è considerata forse fra le collane di saggi che esistono una delle più serie. Il fatto che Einaudi l’abbia pubblicato in quella collana ha senz’altro contribuito al cambiamento di atteggiamento nei confronti dell’omosessualità da parte di molti perché si è visto che il discorso poteva essere sostenuto seriamente. Era sostenuto in una tesi di laurea – poi ce ne sono state anche altre sull’argomento,

però era la prima – e veniva pubblicato in una collana che è quella dove è pubblicato Adorno, non lo so… Scusa, volevo chiederti, secondo te perché Einaudi ha pubblicato… … in quella collana… … una tesi di laurea… Dunque, guarda, io ho parlato con loro e recentemente ho anche conosciuto il direttore di allora di Einaudi, che adesso è passato a Mondadori, che è quello che ha deciso di pubblicare quel libro. Non essendo più in Einaudi, mi ha potuto spiegare più o meno qual è stata la discussione… L’idea originale era questa: quando il mio libro è stato scritto, nella prima versione che loro hanno avuto, volevano pubblicarlo in una collana più piccola che si chiama il Nuovo Politecnico. Loro mi hanno detto, va bene, lo pubblichiamo, ma io non volevo pubblicarlo così com’era. Perché? Perché mi sembrava che fosse troppo serioso, troppo scolastico. Allora cos’ho fatto? L’ho riscritto; e loro hanno trovato la riscrittura a un livello – io non dovrei dire questo di me, però lo dico – molto elevato, e hanno pensato che per loro fosse meglio pubblicarlo nella collana più importante che avevano; ma, al tempo stesso, c’era anche, da parte di alcuni in Einaudi, preoccupazione che uscisse questo libro per alcuni degli aspetti più scandalosi della cosa. Allora loro hanno fatto il calcolo che pubblicandolo in una collana che normalmente vende poco perché è più cara, perché… è così, no? il libro sarebbe passato un pochino più inosservato e al tempo stesso avrebbe avuto questa parvenza di totale serietà che avrebbe tolto alla casa editrice il rischio di critiche per aver pubblicato una cosa troppo estremista. Se poi tenete presente che il lettore non aveva addirittura capito che il concetto di comunismo era ben altro rispetto a quello, per esempio, propagandato dal PCI, loro hanno forse pensato, essendo una casa legata al PCI, che comunque potesse essere positivo pubblicare…

… un dibattito… … tanto è vero che di tutti i partiti italiani, l’unico che nei miei confronti ha un atteggiamento abbastanza deferente è il PCI. Per esempio, non so, quest’appello per la pace che ho fatto adesso, l’unico giornale che l’ha pubblicato in terza pagina, subito, senza bisogno di pressioni, è «l’Unità». Forse perché loro non l’hanno neanche letto e hanno pensato che effettivamente io sia uno del PCI, benché più volte abbia scritto e detto che non lo sono. Ecco, questi possono essere i motivi. Siccome in Italia adesso mi sembra che sia molto difficile farsi… ammettersi pubblicamente omosessuale… Difficile? Sì… Non mi sembra che sia più tanto difficile. Era difficile, adesso non è più tanto difficile… ma forse sai dipende, per certe persone può essere un po’ difficile, ma appena si esce, insomma, dagli strati più bassi della popolazione dove esistono ancora certe difficoltà, non è più difficile… te lo garantisco… No, perché io ho parlato la settimana scorsa a Milano, a Roma, con un po’ di gente e tutti mi hanno detto, ad esempio, non lo so, Patroni Griffi scrive libri omosessuali, ovviamente, però non ha mai detto in un’intervista io sono omosessuale, e non lo dirà mai. Vabbè, ma questo, sai… ci sono molte forme di paura, di vigliaccheria, no? Io credo che – non conosco personalmente Patroni Griffi – però, per esempio, so che quando Elementi è uscito lui l’ha letto, ha invitato altri amici a casa sua, vicino a Roma, non so dove, per leggerlo, e a loro sembrava addirittura una cosa incredibile che uno avesse scritto una cosa così. Però, vedi, nell’ambiente nel quale io vivo proprio non c’è nessunissimo problema in questo senso, riguardo anche ai miei genitori che anni fa non volevano che io dicessi apertamente che ero gay ecc., dopo che è uscito Elementi non hanno assolutamente mai più detto neanche una parola, non si sono mai intromessi nei

miei fatti, pur essendo una famiglia tradizionalista in tutti i sensi. Non so, io, per esempio, ho un amico da parecchi anni, e mia madre quando mi telefona mi dice di salutare anche lui; ecco quindi… io credo che sia molto cambiato, vedi, credo personalmente che il movimento gay ha fatto una grande conquista e cioè quella di una maggiore tolleranza, accettazione e rispetto nei confronti degli omosessuali, questo credo che sia un dato inconfutabile. In Italia, senz’altro; io non è che abbia viaggiato molto, quindi posso pensare che sia senz’altro anche nei paesi più avanzati dell’Italia; però in Italia la situazione è cambiata. Purtroppo, questo fatto – questo è un punto sul quale io insisto il più possibile e invece molti altri esponenti del movimento gay non vogliono considerarlo altrettanto negativo – quest’accettazione è venuta di pari passo con una mercificazione dell’omosessualità molto forte. Allora, non so, io sono andato in novembre a Torino e rivedevo Pezzana dopo anni. Lui non è contrario a questa commercializzazione perché, siccome in un certo senso Pezzana è una persona che non riesce a concepire una società veramente, radicalmente diversa rispetto a quella nella quale viviamo… Le scelte politiche che fa di militanza omosessuale sono sempre molto limitate… cioè in fondo il FUORI! propugna il matrimonio omosessuale… Oppure la lobby… lui è in buona fede perché è convinto che questo sia l’unico tipo di cose che si possono fare. Invece quello che io penso è che omosessualità o non omosessualità, l’umanità è giunta a un punto che è un vero bivio storico, un bivio storico che è forse più importante di quello che è stato quando Eva e Adamo hanno mangiato la mela: cioè, o si sceglie la strada della sopravvivenza o ci sarà una distruzione totale o globale. Non sono solo io che lo dico, però siccome ho un certo intuito, so che sarà così, so che sarà il problema degli anni ottanta, degli anni novanta e lo sarà sempre più. Allora tutte le scelte che sono un tentativo di cercare dei compromessi all’interno della società nella quale viviamo, secondo me sono alla lunga perdenti perché questa

società verrà distrutta, o in senso positivo o in senso negativo. Allora il fatto che molta della forza rivoluzionaria che poteva esserci nell’omosessualità sia stata trasformata in accettazione e in mercificazione, per cui molti si accontentano di quello che questa società può dare, come il One Way a Milano, o i locali gay o i giornaletti, delle cose così, non è un fatto positivo. Certo, è un fatto positivo entro certi limiti perché la gente è meno repressa di quello che era una volta, quindi ben vengano questi posti, ma il fatto è che questi posti, questi giornali, queste forme di mercificazione fanno sì che molti si accontentino di questo, e questo è molto negativo… Il dibattito nel PCI… il ghetto…? Ma non solo fra di noi, perché io penso, per esempio, che si può dire anche fuori, io posso scrivere… Mi dicessero scrivi una cosa sui locali gay, io direi molto meglio oggi di una volta, però guai accontentarsi di questo perché significa vivere nella totale schizofrenia, non rendersi conto che questa è una maniera di tenerci a bada, quando si sta giocando la nostra stessa sopravvivenza, non come omosessuali ma come esseri umani, allora, mentre la liberazione dell’omosessualità al di fuori del ghetto potrebbe essere effettivamente qualche cosa che dà maggiore forza alla gente; perché se la gente, per esempio, per strada non avesse più vergogna di fare all’amore in luogo pubblico, come gli omosessuali hanno sempre avuto il coraggio di fare, sarebbe un passo avanti immenso. Se noi pensiamo per esempio un fatto così ovvio ed evidente: se io vado in piazza del Duomo a Milano e ci sono dei piccoli comizi, come a Hyde Park Corner, vado e dico che sono favorevole alla guerra nucleare, non mi possono arrestare, perché non c’è nessuna legge che impedisce questo; ma se io vado e mi faccio una sega, mi arrestano. Allora, qual è la prova più lampante del fatto che il principio di morte dissociato dall’istinto sessuale, dall’Eros che è ancora represso, porta alla catastrofe? Non c’è prova più lampante di questa: si è liberi di essere favorevoli alla

distruzione e ai genocidi, ma non si è liberi di amarsi, di godere facendosi una sega. Io mi ricordo: l’altra sera sono andato qui al parco e c’era un ragazzo, è venuto sotto il ponte e ci siamo fatti una sega e mentre ci facevamo questa sega lui mi ha detto com’è bello, gli è venuto proprio spontaneo, e io gli ho detto sì, è molto bello. Però ho pensato: tutti pensano la stessa cosa, che è bello, perché è chiaro, è evidente, il piacere fisico più forte che c’è, è legato all’orgasmo, all’eccitazione genitale, eppure è una cosa che ancora non si può fare. E allora, da questo punto di vista, ecco, perché il movimento gay non cerca di estendere sempre più fortemente nella società il desiderio di amarsi liberamente… Insomma, è assurdo noi siamo arrivati al punto che possiamo arrivare su Saturno eppure ancora non possiamo andare in giro nudi. C’è – per tornare a quella cosa sull’esoterismo e sul cristianesimo cui facevo cenno prima, anche qui non voglio che mi si fraintenda, non parlo di cristianesimo come la chiesa ufficiale, ma parlo di cristianesimo nel senso più ermetico – nei vangeli gnostici… Nei? Vangeli gnostici, che sono dei vangeli che sono stati scoperti in Egitto, nel basso Egitto… nell’alto Egitto, scusa, mi pare subito dopo la seconda guerra mondiale, comunque, sono dei vangeli molto belli, di cui in particolare uno, il vangelo di Tommaso, assomiglia molto ai vangeli tradizionali. In questo vangelo c’è un punto in cui gli apostoli chiedono a Gesù: Quando sarà venuto il Regno? E lui risponde: Quando voi vi spoglierete nudi, calpesterete i vostri vestiti e mi verrete incontro, il Regno sarà venuto. Mi pare che non è nemmeno tanto ermetica questa cosa, no? Visto che poi nel mito della Bibbia il concetto di peccato originale è legato all’immediata vergogna del corpo; allora io penso che sia importantissimo questo concetto perché bisognerebbe finalmente, coraggiosamente riconoscere che tutte le nostre vergogne hanno motivo di esistere ma non per questo devono esistere in eterno; e che superare queste cose ci darebbe forza; non so vedo, per esempio, che la mia forza creativa, la mia

lucidità come scrittore è tanto più forte quanti meno tabù sessuali ho. Cioè, se io mi vergogno – perché tutti abbiamo delle vergogne – delle cose così, allora scrivo peggio, scrivo in una forma più nevrotica; se invece io mi libero mi vengono delle idee più belle, mi… ecco, son sicuro che questa cosa su larga scala permetterebbe anche un’attivazione dell’intelligenza. In questo caso sarebbe un po’ un ribaltamento del concetto psicanalitico di sublimazione del desiderio […] È sempre un fatto di nevrosi… di segregazione della propria personalità perché… non è curioso che la cultura in fondo l’hanno fatta gli ebrei e gli omosessuali, persone sempre estremamente represse… Represse, ma anche proprio per la loro repressione più vicine alla possibilità di liberarsi… quella promesse de bonheur… Ma, vedi, io sono d’accordo con quello che tu dici, soprattutto per questo, che ritengo che anche chi fa la vita più liberatoria possibile è comunque sempre un nevrotico. Per esempio, posso dire d’avere sperimentato nella mia vita molte parti della sessualità che normalmente sono tabù. Eppure sono una persona molto nevrotica. Certo, lo ero di più in passato… quantomeno la nevrosi che vivo oggi è una nevrosi più attiva, più propositiva; per esempio, sono convinto del fatto che la liberazione degli aspetti cosiddetti perversi dell’Eros porta a un coincidere del super-io con l’io; questo è un concetto un pochino difficile che bisognerebbe sviluppare maggiormente. Però sono convinto che questa separazione fra super-io e io, che poi è quello che fa sì che si viva col senso di colpa, possa essere molto colmata dalla libertà, perché la libertà porta a un rapporto di amore con se stessi maggiore e quindi a un coincidere con la parte di sé che è come una forma di spina dorsale, di colonna vertebrale morale; poi ci sono anche dei grandi autori che invece erano convinti che quanto più si va avanti nella strada della liberazione dell’Eros, tanto più si scrive bene o si crea bene. Per esempio, ho citato Goethe prima; ci sono alcuni che invece come Beethoven erano convinti del contrario… Poi c’è anche un altro fatto: la liberazione dell’Eros può essere effettiva o può essere parziale o falsa. Perché? Certo

che è molto meglio poter scopare liberamente, avere tutte le saune e i posti dove scopare possibili, ma è anche vero che non è che basta questo per essere liberi sessualmente. Anzi… Amsterdam […] Ad Amsterdam quest’estate sono stato un mese e mi ricordo che andavo nella sauna Thermos… A parte che sono invecchiato quindi chiaramente attraevo meno d’una volta e mi subivo delle frustrazioni, perché poi restano sempre i tabù rispetto alle persone meno belle o più vecchie, insomma sappiamo tutti noi cosa significano, no? Però era anche vero che quando anni fa non c’erano costantemente questi film porno, non sentivi da tutte le parti queste voci porno, era più eccitante. Perché era più eccitante? Perché restava un qualcosa di misterioso, invece adesso sei bombardato da queste merci, di cazzi e di cose e devo dire che sotto sotto si scopa non meno ma forse meno bene di quello che era una volta. Questo discorso è un discorso pasoliniano, è un discorso arbasiniano anche… C’è anche questo… Roma, la vera Roma era quella di trenta-quarant’anni fa [le voci si confondono, N.d.R.], non quella dell’Easy going… Ecco, io non sono d’accordo del tutto con questo discorso… Per esempio, io non sono d’accordo con la tesi di Foucault secondo il quale proprio il proibito rende più eccitante l’Eros. Io sono convinto che si potrebbe essere del tutto privi di veli, e scoprire qualche cosa di molto più eccitante anche proprio nel senso morboso tra virgolette, cioè piacevole. Però c’è un fatto, è questa qui invece la cosa, secondo me, a cui non si guarda abbastanza, per esempio tutta la tradizione esoterica definita della Via della Mano Sinistra, è la tradizione che è legata alla liberazione dell’Eros. Per esempio c’è un libro che è molto fascista come libro, però molto interessante, che è tradotto in francese da Payot e che si intitola La métaphysique du sexe di Julius Evola, che è un libro

che ti consiglio perché è molto molto bello anche se è molto antiomosessuale, però se tu fai mutatis mutandis, applichi la stessa cosa all’omosessualità, scopri che esistono delle dimensioni che noi non viviamo normalmente nelle saune o in altri posti perché sono delle dimensioni in cui la liberazione totale dell’Eros porta a degli stati di comunicazione spirituale più elevati di quelli che avvengono normalmente, cioè al conseguimento dell’uno in qualche modo, allo scoprire che in fin dei conti è vero che noi siamo individui separati, soprattutto perché la struttura dell’ego ci fa vivere ciascuno di noi come separato dal resto; però al di là di questa separazione, dicotomia tra l’io e l’altro, in effetti la vita è una, perché in questo momento per esempio tu sei la mia vita… così è altrettanto vero che noi siamo la tua e tu sei la nostra, no? Così…, ed è sempre così, la vita è uno, ciò che poi era anche implicito nel concetto di comunità ritrovata che per esempio c’era alla base del marxismo, quindi l’Eros, la liberazione dell’Eros, la comunicazione nel piacere dei corpi è qualcosa che può far cadere questa barriera tra l’io e l’altro, e che è al tempo stesso il corrispettivo della barriera tra l’io e l’inconscio, perché l’inconscio è anche inconscio collettivo quindi è immediatamente comunità. Il cristianesimo… tutti noi abbiamo una coscienza cattolica… io ho una concezione estremamente negativa dell’uomo […] io sono molto pessimista […] Ma, vedi, il fatto è questo, io penso che sono argomenti sui quali possiamo dilungarci a lungo, poi bisogna calibrare le parole che sono molte volte difficili… Io credo di capire quello che tu vuoi dire… Quello che personalmente ritengo, indipendentemente dal fatto che si abbia un’idea ottimista o pessimista è questo, che oggi tutto ciò che è fermarsi alla constatazione del negativo è molto molto pericoloso perché è diventato il conformismo più generale, cioè tutti oggi hanno più o meno quest’idea. Se prendi «Famiglia cristiana» per esempio, il giornale che si chiama «Famiglia cristiana», il dibattito sulla guerra che loro hanno fatto recentemente giunge a delle conclusioni estremamente pessimiste: loro dicono la guerra ci sarà sempre, loro dicono le

armi bisogna produrle perché altrimenti c’è disoccupazione eccetera eccetera. Invece io credo che oggi sia molto importante senza sottovalutare idealisticamente nessuna delle… degli aspetti negativi del momento nel quale ci troviamo, d’altronde chi vuole sottovalutarli, sarebbe da scemi, anzi, bisogna essere prudenti e attenti… bisognerebbe cercare di sviluppare il più possibile delle tendenze positive, questo è il mio punto di vista, ed è anche uno dei motivi per cui sono abbastanza felicemente isolato, cioè soltanto alcune persone che conosco condividono questo punto di vista perché questa è anche una cosa che implica di cambiare il proprio modo di agire, cercare di essere meglio effettivamente giorno dopo giorno in quello che si fa; tutti sappiamo che invece c’è la tendenza a fare peggio. Comunque, guarda, è una cosa sulla quale probabilmente dovremo discutere… Il discorso era relativo al fatto che anch’io in fondo faccio parte del collettivo, e mi sforzo di fare certe cose […], poi mi rendo conto che a volte proprio mi sforzo, lo faccio non perché ci credo fino in fondo… Ma lo sforzo è controproducente, non bisognerebbe sforzarsi… È anche vero che il cristianesimo è la probabile… probabilmente è la degenerazione millenaria di qualcosa che in origine non era così negativo, quindi io non mi sto richiamando ai Vangeli tradizionali, parlo di questi vangeli gnostici […] dovremo conoscerci meglio… bisogna dare la prova di questo… capisco quello che tu vuoi dire… non sono così idealista, ottimista, anzi sono molto pessimista… però scrivendo a un amico francese, si chiama Pierre de Segovia – non so se lo conosci –, sul presente, ci scriviamo sulla guerra, volevo dirgli razionalmente sono molto pessimista; quando ho riletto la lettera mi sono accorto che ho scritto razionalmente sono molto ottimista, era buffo un lapsus proprio lì… In realtà io razionalmente sono molto pessimista però vien fuori ’sto lapsus… e… dev’esserci qualche cosa in questo lapsus, no? Una cosa che volevo dirti invece rispetto al fatto – tu mi hai chiesto «che reazioni ci sono state a Elementi» – una delle più

importanti, interessanti reazioni che ho avuto è una lettera, che purtroppo in questo momento non ho in casa, perché altrimenti ve l’avrei fatta vedere, da Francesco Siniscalchi. Francesco Siniscalchi è stato colui che ha creato il caso Gelli, la P2 – non so se tu hai sentito… tu senz’altro: nel 1977 c’è un massone di palazzo Giustiniani, del Grande Oriente, che è andato dalla polizia e ha denunciato questo e si chiama Francesco Siniscalchi. È stato espulso… aspetta che ti faccio vedere un libro in cui c’è un po’ la storia… Forse avrai notato che è uno dei firmatari di quest’appello… Allora questo signor Francesco Siniscalchi mi ha mandato una lettera riservata personale nella quale diceva che avendo letto Elementi pensava che io potessi arrivare all’interpretazione di una lettera di Paracelso che mi mandava, e questa lettera di Paracelso era scritta a lettere rovesciate, tu sai chi è Paracelso? Ecco, ha scritto a lettere rovesciate e lui l’aveva sottolineata in maniera tale che io potessi arrivare alla totale interpretazione di questa lettera. In fondo lui mi diceva che avrei potuto farne l’uso che volevo purché citassi il suo nome. Per esempio, potevo parlarne a voi purché vi dicessi che era lui che me l’aveva mandata. Ed è stato molto interessante tutto il processo che si è sganciato nella mia vita in relazione a questa lettera. Attualmente sono ancora in contatto con questo massone. Nel libro che ho scritto, in questo romanzo, c’è l’interpretazione di questa lettera ed è un’interpretazione prettamente gay, perché la ricetta… questa lettera spiega come si possano celebrare le nozze alchemiche tra due uomini… Questa è una cosa interessante, cioè il rapporto che ho avuto con la massoneria… Ce l’hai una fotocopia? Ma guarda in questo momento no perché c’è un regista della RAI di Milano che me l’ha chiesta e l’ho portata da lui, però troverai il testo della lettera di Paracelso nel libro. Poi ho parlato con lui recentemente e mi ha sconsigliato, essendo un romanzo, di fare il suo nome, per cui ci sarà uno pseudonimo nel romanzo, però poi, se la tratterò da un punto di vista più scientifico, come dice lui, allora ci sarà il suo nome.

Interessante… un testo storico… su questi gruppi nascosti nel Settecento francese… alcuni gruppi nascosti legati da un tipo di massoneria… A livello occulto esiste un giro omosessuale… In questo libro parlo di alcune persone sotto pseudonimo che partecipano a questo tipo di giri… C’è una massoneria esterna e una massoneria interna, appunto bisogna distinguere tra le due; ecco una cosa che se parli di Elementi puoi citare, questo collegamento con Siniscalchi… Come vedi tu il futuro gay italiano? Penso che se le cose procedono come procedono, cioè se ci sarà futuro, voglio dire se passeremo gli anni ottanta senza che ci sia una guerra, o cose di questo genere, credo che da un lato sarà sempre più forte l’accettazione, la tolleranza nei confronti degli omosessuali, aumenterà sempre di più la prostituzione maschile, aumenteranno le malattie veneree, perché effettivamente c’è un aumento attualmente delle malattie veneree, mentre la sanità, non intendo come scienza medica, ma intendendo come ministero della Sanità in Italia (che i tagli consistenti alle spese li hanno fatti lì, mentre hanno aumentato la Difesa – lo sapevi questo?), a parte questo, penso che ci sarà una sempre più forte mercificazione, ovvero credo che ci saranno più posti come il One Way, dei locali così dove si scopa, sarà più o meno equiparato agli altri paesi, ci sarà anche più accettazione da parte della Chiesa nei confronti dell’omosessualità, perché siccome la Chiesa si comporta come una qualunque grande industria, basta vedere quali sono i giornali cattolici… Allora chiaramente appena emerge un discorso a loro interessa immediatamente (prima restava nel confessionale, adesso diventa una cosa di cui può parlare un giornale). Però quello che può avvenire di più positivo, che è quello che si auspica, è che invece ci siano alcune persone, possibilmente le meno isolate possibile, che diano vita a delle iniziative che abbiano una risonanza nazionale e allora questa è una cosa che è anche possibile nei prossimi anni, per la quale ci sono alcuni che lavorano, possono essere delle iniziative di tipo artistico, delle

iniziative di tipo politico, ma tra virgolette, cioè non nell’ambito della politica, bensì come indicazione di nuove strade che si possono seguire; questa è una cosa che probabilmente avverrà. Per esempio, uno dei motivi – per citare il mio caso personale – per cui io ho aspettato così tanto a pubblicare questo libro e sto cercando proprio di calibrarlo parola per parola è perché ritengo che in un momento in cui la cattiva qualità degli oggetti che vengono proposti sul mercato è la norma, le cose che sono veramente anticonformiste sono invece quelle fatte con particolare cura, e penso che se questa cura è unita a un discorso disinibito, liberatorio, può anche succedere che abbiano successo. Volevo dire, io penso ad esempio che questo tipo di mercificazione che esiste, in Francia, negli Stati Uniti ecc., non la nego, però non la cerco completamente… io ad esempio faccio parte di un sindacato… non accetto, non voglio creare un sindacato di giornalisti gay, mi interessa molto di più andare da un sindacato e dire «sono un giornalista però sono frocio, ne parliamo adesso». Sì, capisco questo… be’ penso che sia molto giusto. Penso che perché si creino delle alternative alla mercificazione bisogna che ci siano degli esempi di chi si comporta concretamente e apertamente in un altro modo. Se ci sono questi esempi, se delle persone trovano il loro piacere nel fare delle cose diverse, tipo tu vai in un sindacato «normale» e dici io sono gay, allora ci saranno altri che lo faranno… Quello di cui dubito è che serva a qualcosa entrare nei sindacati… Può essere che uno abbia la necessità di entrare in un sindacato; allora tanto bene, tanto meglio che lo faccia… Questo è un altro discorso perché penso che entrando in un sindacato si può agire sul modo in cui i giornalisti trattano i problemi omosessuali… Certo, ma sono sicuro che la cosa importante è tenere sempre più a mente che si può agendo da soli cambiare tutto, se tutti

agiscono da soli pensando di cambiare tutto, allora qualcosa cambia; penso che non ci sia altro modo di fare. Non pensi, per parlare di altre cose, che ci sia una diversità fra il modo in cui vivono gli italiani del Nord di Torino, Genova, Milano e gli altri a Roma, Napoli… Sì, certo c’è una diversità chiaramente, però adesso è anche molto cambiato. Per esempio, io l’anno scorso sono andato a Taranto, a un convegno gay che c’era l’anno scorso, e lì ho conosciuto Ciro Cascina, fra l’altro… Sono andato a questo convegno gay e mi ricordo che sul treno, c’era stato il terremoto1, per cui era molto difficile raggiungerlo direttamente in treno, bisognava cambiare e io ero vestito un po’ così, no, però non particolarmente estroso, ma c’erano degli uomini con i quali parlavo e io non dicevo niente e loro a un certo punto m’hanno detto: ma è molto che sei gay? Allora, il fatto che la parola gay venisse usata in Basilicata che è una delle regioni… forse è la regione più povera d’Italia, così, mi dava proprio l’idea che oramai è tutto anche lì aperto a una comprensione maggiore di queste cose… Sta cambiando, nel senso dell’accettazione, sta cambiando molto, è indubbio, insomma non si può non tenere presente che cos’era l’Italia fino a dieci anni fa. Fino a dieci anni fa io non potevo dare fuori dalla Statale dei volantini del movimento omosessuale – nel 1972! – perché i rappresentanti del movimento studentesco mi impedivano di darli, questo dieci anni fa! Oggi io li posso dare anche fuori da una chiesa, me li lasciano dare, perché è cambiato… Quindi bisogna vedere sia gli aspetti positivi che quelli negativi di questa tolleranza. Speriamo che sia sempre di più. Perché ciò che ho visto a Roma in questi ultimi giorni… mi sembra che ci sono là due tipi di personaggi, due parti: quelli che si accettano come omosessuali, e lo dicono, e va bene, sono più o meno accettati, sono quello che sono, e un’altra parte, c’è un gruppo immenso di persone che vanno con ragazzi, con uomini ma

non dicono mai niente e non si considerano loro stessi come omosessuali… Ah be’, ma questo sì, è così, certo… Ma sai, penso che qui bisogna dare l’esempio, questo è vero… ci sono per esempio molti giovani che hanno facilissimamente dei rapporti omosessuali, anche degli amori omosessuali, ma anche a Milano, ora ti do un esempio: borghesia ricca, senza problemi, aperti di mentalità, due amici miei, uno di questi ha un rapporto con un ragazzo e lui dice mi raccomando, non dire ai miei amici che vengo a letto con te, perché non voglio che sappiano che sono omosessuale; lui incontra gli amici, era andato a letto con tutt’e due eppure non volevano dirlo… Quindi, queste forme ci sono, ma se noi pigliamo per esempio quelli che fanno la cultura, pigliamo Pasolini, per esempio, se Pasolini avesse scritto sul «Corriere della sera» un pezzo in cui diceva basta con questa ipocrisia, chiaro e tondo, io sono omosessuale, frocio, recchione, culo, checca eccetera eccetera eccetera, tutti coloro che sono così abbiano per piacere la stessa sincerità che ho io di dirlo, se avesse fatto così, e non l’ha mai fatto, ma non l’ha fatto neanche Arbasino… Nonostante ogni punto della narrativa di Arbasino esprima l’omosessualità pura, questo Eros… Sì, poi l’ha scritto in tutti i suoi libri… Allora questo bisogna cambiare, bisogna che ci siano delle nuove persone che si sostituiscano a loro, che abbiano… Però bisogna avere la forza di farlo… Ci sono delle persone che stanno cercando di agire in questo senso… Neanche Bellezza secondo me riusciva a dire che è gay… Sì, l’ha detto… Sì lo dice, però Bellezza è una persona molto colpevolizzata – fra l’altro l’ho sognato stanotte – tu vai da Bellezza e la prima cosa che ti dice è io sto male, tu sei uno stronzo… Cioè ci vogliono delle persone che sappiano comportarsi, delle persone che siano un esempio di vitalità e dignità e che al tempo stesso dicano io lo prendo in culo, cosa c’è? È una delle cose più belle della vita,

quindi questo bisogna creare, e speriamo che sia possibile, però è molto difficile perché, come tutti sappiamo, bisogna prima di tutto diventare bravi come loro, perché per quanto uno possa criticare Arbasino, però bisogna che sappia scrivere come Arbasino per criticare Arbasino, altrimenti non lo può fare, no? Altrimenti c’è il ressentiment, c’è l’invidia, allora se è l’invidia, non critichi con l’invidia, bisogna criticare da una posizione che sia pari, e questo si crea «col sudor della fronte», che poi può essere anche una cosa molto piacevole, ma è soltanto così. Volevo dire, ieri sera ero con Riccardo Reim, ho parlato molto con lui, e lui mi ha detto se io, se dico sono un frocio, mezz’ora dopo… ci sono tante telefonate a casa mia, di produttori, direttori che urlano, che sono pazzo… Ma lui sai che cos’è? Un paranoiato. Perché io, no, non ho mai avuto una telefonata o una lettera o una minaccia da qualcuno, mai, mai. E allora? Tutti sanno che sono gay… Io vado in giro con i tacchi alti, adesso tu mi vedi così perché questa è la mia tenuta da casa ma (guarda che sono uno che si veste in maniera… hai visto la fotografia no?) nessuno mai una volta mi ha fatto niente… per questo… perché questi hanno paura, perché loro ancora si vergognano, anch’io ho delle vergogne perché è chiaro che ho delle vergogne, non sono mica uno disinibito, se fossi uno disinibito parlerei come un libro stampato, starei benissimo; io credo che la cosa più importante sia questa: la gente ha paura della forza che è legata all’omosessualità, il motivo per cui l’omosessualità è repressa è anche la sua forza… … un potenziale… Un potenziale enorme; allora, questa gente pensa che loro avrebbero casini, ma non è vero, loro pensano così perché hanno paura, è una paranoia, è una cosa psichica. Che paura? Un esempio è stato appunto a Genova. Questo collettivo che si è formato ad aprile, all’inizio così a livello di punto d’incontro, mi hanno votato una sessantina di persone, per cui c’era abbastanza

interesse, però erano tutti terrorizzati dal fatto di prendere contatti con le istituzioni: come facciamo? Chi ci va, chi non ci va? Ci sbatteranno la porta in faccia… poi abbiamo sfondato delle porte aperte perché nel momento in cui una delegazione di noi è andata in comune a parlare con l’assessore alla cultura, ma ’sti qua si sono prostrati… ma sì, la lotta omosessuale, fate quello che volete, un milione e mezzo nel giro di cinque giorni ci hanno dato, così come fossero state noccioline […], c’è una componente di moda culturale per cui bisogna aprirsi eccetera eccetera… però voglio dire: adesso le istituzioni guardano all’omosessualità come a uno dei momenti… come una potenzialità culturale incredibile […] adesso stanno facendo questa mostra megagalattica qui a Milano… Non pensi che gli omosessuali ovviamente oggi, dopo tutte queste lotte sono insomma un poco terrorizzati dai loro successi. Io non so se sono terrorizzati dai loro successi, io penso che i veri successi si vedranno nei luoghi di battimento perché se nei luoghi di battimento incomincia a esserci meno paura di guardarsi in faccia, meno paura di calarsi le braghe, meno differenziazione tra bello brutto ricco povero… con questo non dico che tutti devono fare degli sforzi di volontarismo, non è questo che dico, di vedere un cambiamento reale; se si vede un cambiamento reale, se c’è del buon esempio, allora cambia. Altrimenti continuerà così: ci sarà sempre più tolleranza, sempre più gente che lo dice, piano piano cambierà, e questo è probabile. Ci vogliono degli esempi, e gli esempi si fanno solo in prima persona Sì, però non finiscono per diventare degli esempi monolitici come quello di Pezzana? Sai, Pezzana […] io… non c’è una parola, una parola di Pezzana, una parola che sottoscriverei, lui ha firmato quella cosa che ho fatto io, io non firmerei mai una cosa che fa lui. Però, però chapeau! Perché Pezzana ha fatto tantissimo bene agli omosessuali in Italia, un bene enorme, perché tantissimi sono al suo livello e quindi è chiaro che al suo livello soltanto un uomo come lui poteva cambiare, è molto più facile che «il Giornale» di

Montanelli scriva delle parole pulite, educate nei confronti degli omosessuali perché ha come interlocutore Pezzana, piuttosto che se avesse me come interlocutore, perché io non farei l’interlocutore al loro livello. Ma lui lo ritiene giusto, e allora è stata una mediazione, la storia è fatta di mediazioni, di figure così, quindi benissimo che ci sia stato, ma per tanti, tantissimi è un bene. Però bisogna che ci siano anche al tempo stesso delle persone che agiscono secondo quello che è il loro criterio di bene, senza ognuno litigare con l’altro perché quello non serve, ognuno fa la sua strada… Io sono convinto che ognuno rispetto a quello che è il suo ideale più alto deve muoversi giorno dopo giorno, allora forse in questo modo si cambia meglio… A parte che poi Pezzana è simpaticissimo, come persona lui, eh, perché è buffo, […] è buffo io trovo, tutti siamo buffi ma lui proprio è… simpatico.

* Trascrizione a cura di Carlo Pallavidino. Prima revisione e correzione di Giovanni Sordini. 1 Riferimento al terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980. [N.d.C.]

C’è ancora speranza? Intervista a Mario Mieli di Gianpaolo Silvestri*

Il movimento dei Verdi si muove nella direzione di un’emancipazione dell’uomo? Sì, purché non si perda in sterili diatribe interne. È indubbio che oggi, soprattutto in Germania, il partito dei Verdi rispecchi il meglio del movimento reale. La loro leader, tuttavia, intrattiene rapporti troppo amichevoli con esponenti del Potere. Quali il Papa, Reagan, eccetera. Pensi che tra la lotta per la pace, quella per la liberazione dell’Eros e le istanze dei Verdi ci sia un’alleanza naturale? Certamente. Bisogna scongiurare la catastrofe ecologica, quella nucleare, e lottare sempre per l’affermazione naturale dell’amore: i tre obiettivi siano in realtà uno e trino. All’interno delle attuali strutture politiche (istituzioni) si possono raggiungere questi obiettivi? Io sono per principio contrario alla politica e conosco alcuni segreti massonici, pertanto ritengo che pace, liberazione e rapporto armonico uomo-natura verranno necessariamente raggiunti. È stabilito da sempre. Vuoi dire allora che i partiti sono contro l’armonia? Senz’altro, per come appaiono. In realtà essi sono manifestazioni interne del Potere che segretamente, sta già approntando la conciliazione tra i blocchi e un’equa ridistribuzione delle ricchezze esistenti, che, come dovrebbe esser noto, sono ventisei volte più di quanto sarebbe necessario per

dare a tutti gli abitanti del globo vitto, alloggio, istruzione e cure mediche gratuiti. Nel cuore della Chiesa (e della massoneria, e dell’aristocrazia in senso «lato») ciò è noto, non solo a me. Quest’anno è il centenario della morte di Marx… È anche il centenario della nascita di Mussolini, il cinquecentenario della nascita di Lutero, il cinquantenario dell’avvento al potere di Hitler, e sono trent’anni che è morto Stalin: questo, insomma, è l’anno fatidico 1983. Io sono e sarò sempre più marxista, proprio perché sono dalla parte del giusto, del vero bene: e l’idea marxiana del comunismo come Regno della Libertà è assai vicina alla verità del Regno dei Cieli. Nondimeno né Marx né Engels (né tanto meno i loro epigoni) capirono un cazzo della dialettica di liberazione sessuale, anche se Marx, scrivendo lettere d’amore alla futura moglie, ha esternato sentimenti tra i più alti e riscritto (senza saperlo?) pagine dei Vangeli. Quali forme di liberazione sessuale oggi? Eros libero comporta innanzi tutto rispetto per se stessi e per gli altri. Non si può amare il prossimo nostro veramente, se non si ama se stessi. La strada liberatoria e iniziatica erotica pura è detta Via della Mano Sinistra, se la si percorre scoprendo fino in fondo la carnalità, o Via della Mano Destra, se è ascetica. Io sono un adepto della Via della Mano Sinistra: si tratta, per percorrerla, di superare gradualmente tutti i tabù. Ritieni che la moda gay dell’uomo macho e del sadomasochismo rientri nell’alienato? Purtroppo sì, in larga misura. Occorre però dire che molti gay che frequentano il ghetto macho sono persone altamente disinibite, intelligenti, valide; tuttavia portano una maschera. Chi ha orecchi intenda. Nel tuo saggio Elementi di critica omosessuale tu affermi che l’Eros libero sarà transessuale. Vuoi dire che ci faremo tutti

operare a Casablanca? Apprezzo la battuta, ma tu sai bene che non intendevo dir questo. L’Eros libero è pansessuale, ovvero diretto verso tutto e tutti; ecco ciò che vuol dire nel mio libro, transessualità vuol dire attraverso tutta la sessualità. Chiaro? Coloro che si son fatti operare sono eunuchi (castrati dal sistema repressivo, nella maggior parte dei casi). Ma come Germaine Greer scrisse che April Ashley, un transessuale inglese, è simbolo di tutte le donne e della loro lotta d’emancipazione (le donne sono per la Greer «eunuchi femmine»), così noi possiamo anche assumere i nostri fratelli che si sono fatti operare come simbolo – uno dei tanti – del movimento gay di liberazione. Una domanda cattiva. E la sua vita rispetto a tutto ciò? Della mia vita parlo nel mio nuovo libro, che dovrebbe uscire questa primavera. S’intitola Il risveglio dei faraoni. A voi trovare la risposta… Sulla mia vita privata, mi spiace, ma non rilascio interviste, nemmeno agli amici.

«L’oca calva», Brescia, 1983, poi ripubblicata in Oro, Eros e armonia, a cura di Gianpaolo Silvestri e Antonio Veneziani, Roma, Fabio Croce Editore, 2002. [N.d.C.] *

Biografia critica

Nota autobiografica di Mario Mieli* Nato a Milano nel 1952, Mario Mieli è stato attivista del Gay Liberation Front nel 1971-72, del FUORI! (Fronte Unitario Omossessuale Rivoluzionario Italiano) fino al 1974, quindi dei Collettivi omosessuali milanesi fino al ’77. Non ha mai aderito ad alcun partito o gruppo politico. Nel 1977 ha pubblicato presso Einaudi (Torino) il saggio Elementi di critica omosessuale. Attore e autore di testi teatrali, Mario Mieli recita e si occupa di teatro da cinque anni. Esoterista, alchimista, di molte delle sue esperienze «iniziatiche» narra nel suo romanzo autobiografico che sta scrivendo da tre anni.

CRONOLOGIA

1952-1968 Mario Paolo Mieli nasce a Milano il 21 maggio 1952, penultimo di una famiglia di sette fratelli, quattro maschi e tre femmine. Il padre Walter, di famiglia ebraica, nacque il 19 gennaio 1903 ad Alessandria in Egitto. Dopo essersi trasferito a Milano nel 1923, lavorò per qualche tempo in un cotonificio diretto dal fratello maggiore; si creò in seguito una posizione costituendo una cooperativa per produttori di seta e, dopo la guerra, occupandosi di commercio di filati. Di convinzione liberale fino alla fine (negli ultimi anni di vita vide nell’ascesa di Berlusconi un grave pericolo

e un declino per l’Italia), radicalmente antifascista (il fascio gli chiuse l’ufficio nel 1933), lavorò a sostegno dei partigiani e fu denunciato come ebreo. Morì nel 1995. La madre, Liderica Salina, nacque a Milano il 29 luglio del 1912, figlia di musicisti. Il padre, pianista di professione, perse la vita sul fronte nel 1916. La madre, violinista (per un periodo sola rappresentante femminile nell’orchestra di Toscanini), si trovò a crescere la figlia da sola in situazioni precarie. Liderica entrò in collegio alle elementari, dove restò fino alla fine del liceo. Divenne insegnante di lingue. Morì nel 1993. I genitori si conobbero a Milano e si sposarono nel 1937. Nel 1946 avevano cinque figli. L’annuncio, molti anni più tardi, dell’arrivo del sestogenito, ne fece da subito il preferito. Tra il 1952 e il 1968 Mario vive a Lora, alla periferia di Como, dove i genitori erano sfollati durante la guerra e avevano costruito una casa di campagna, presso la proprietà di una sorella del padre. Il padre lavora a Milano, dove la famiglia ha mantenuto un domicilio; i viaggi tra Como e Milano sono frequenti. Gli anni della primissima infanzia sono caratterizzati dal legame di Mario e della sorella più piccola Paola Maria con i cugini milanesi Francesco (Kukki, 1951-1996) e Fiammetta Santini, che resteranno interlocutori costanti. Nel 1958 comincia le scuole elementari al collegio Gallio dei Padri Somaschi di Como, dove completerà le scuole medie e il ginnasio. Si distingue per il suo amore per la letteratura, le lingue classiche, la storia. Da giovanissimo scrive diari, storie, poesie. Il suo primo scritto pubblicato è una Novella di Natale (Giovinezze, collegio Gallio, a. XLIII, ottobre-dicembre 1965). Con la sorella Paola e i cugini, organizza varie rappresentazioni teatrali di testi letterari. Con i genitori e la sorella passa le estati a Venezia, visita per la prima volta Parigi e nel settembre del 1966 fa una crociera con tappe a Maiorca, Libia, Sicilia. 1968-1969

A seguito di una malattia del padre, la famiglia si trasferisce a Milano. Nell’autunno del 1968 Mario si iscrive alla prima liceo classico al Parini, con la sorella Paola che entra in quarta ginnasio. Stabilisce i primi contatti con gli ambienti omosessuali milanesi. Il movimento studentesco rende l’atmosfera del Parini tesa ed effervescente. Tramite le amiche Claudia Weiss e Sabina Bentivoglio conosce Milo de Angelis, appena trasferitosi al Parini dal Gonzaga, che frequenta la seconda liceo. Comincia a scrivere poesie con regolarità e intavola un dialogo con Milo che inaugura uno scambio di testi poetici. Il professore di lettere e filosofia Marcello Dal Lago diviene un interlocutore significativo. Il 12 dicembre 1969, con l’esplosione della bomba di Piazza Fontana, inizia la strategia della tensione. Occupazioni e manifestazioni al Parini. In un’intervista su «Lambda» (1979) racconta: «Nel 1968 sono venuto a Milano e ho partecipato alle attività del movimento fino al 1971 quando sono partito per l’Inghilterra dove ho cominciato a partecipare al Gay Liberation Front» (p. 289). 1970 Nel 1969-70 frequenta la seconda liceo e incontra i gruppi di autocoscienza femministi. A febbraio-marzo viaggia a Londra con Paola e alcuni compagni di liceo (tra cui Enrico Parmigiani e Luigi Bossi). In primavera, con l’amica Daniela Goldoni partecipa alle prime rappresentazioni teatrali pubbliche tra cui, in giugno, una performance in via della Signora di Il Pubblico di Federico García Lorca (Archivio Mario Mieli). A giugno incontra il critico musicale e studioso di egittologia Denis Robert, canadese, che diverrà un punto di riferimento essenziale, tanto teorico quanto affettivo, per il resto della vita, anche se si incontreranno in due sole occasioni. «Nel giugno del ’70, all’età di diciotto anni, conobbi Denis Robert, uno degli

uomini che ho maggiormente amato e che ancor oggi riveste una grande importanza nella mia vita. Lo incontrai al Rick’s, un locale per omosessuali di Milano dove m’ero recato con Daniela Goldoni… Intavolammo una breve conversazione di cui ricordo ben poco, se non che pur piacendoci sempre più, quell’uomo ci deluse e ferì quando con molta sicurezza ci disse di non condividere le nostre idee comuniste, perché non credeva che attraverso movimenti politici si potesse cambiare il mondo» (Archivio MM, non datato). Comincia a sperimentare con le droghe. Viene rimandato a settembre in matematica e fisica, ma nel suo romanzo Il risveglio dei faraoni dirà di esser stato rimandato anche in greco. Nel settembre del 1970 Milo de Angelis e Angelo Lumelli distribuiscono un volantino all’Università Statale che dice: «Cerchiamo qualcuno che ama la poesia», con il sottotitolo «per una rivista letteraria». Si costituisce così un «gruppo di poesia» che comincia a fine settembre. Milo chiede a Mario di partecipare. Il gruppo si incontrerà regolarmente tutti i lunedì a casa di Lumelli, in via Col di Lana. Mieli vi parteciperà settimanalmente fino alla sua partenza per l’Inghilterra nell’autunno del 1971 e poi saltuariamente. 1971 Nel 1970-71 frequenta la terza liceo. Al gruppo di poesia del lunedì, diviene intimo amico di Michelangelo Coviello, che era cresciuto in parte a Como e che aveva frequentato come lui il collegio Gallio. Partecipa assiduamente alla lettura di critica poetica con de Angelis, Lumelli e Coviello, che resteranno interlocutori chiave e che lo ricordano come un lettore «formidabile e severo». Milo de Angelis osserva: «Quel che colpisce di Mario poeta è che mentre di ciascuno di noi si potevano cercare delle origini, dei maestri – tedeschi nel caso di Angelo, inglesi, americani e anche sperimentali nel caso di

Michelangelo, francesi e simbolisti nel caso mio – Mario sembrava venire da una zona indeducibile, non facilmente rintracciabile». Il suo, come Lumelli si esprime, «era un pensiero muto che veniva vestito», o, nelle parole di Coviello, una poesia dimostrativa, politica, estetica e misticheggiante insieme, rivoluzionaria ed erotica. Gli amici ricordano una serata dove si svolse un dibattito acceso quando Giovanni Fattorini e Carlo Ferraio, rappresentanti della «vecchia scuola», «attaccarono furiosamente» sia Angelo sulla parola «meriggio», secondo loro inaccettabile, sia Mario per la sua trovata linguistica «mi rupperò», che mescolava il passato remoto del verbo rompere con il futuro. Se la serata fu «polemica e dura», la «nuova scuola» ebbe la meglio (Dialogo con Paola Mieli del 19 luglio 2018, Archivio MM). Finito il liceo, secondo un’usanza di famiglia, si prepara a passare un periodo in Gran Bretagna. Dopo l’estate si iscrive alla facoltà di Filosofia dell’Università Statale di Milano. A fine settembre si stabilisce a Londra. Partecipa alle feste del Gay Liberation Front, di cui diviene attivista. A dicembre lo raggiunge il cugino Kukki (che, come riporta ne Il risveglio dei faraoni, viene arrestato a una manifestazione del glf). A un incontro del Gay Liberation Front presso l’All Saints Church a Notting Hill Gate conosce il pittore Piero Fassoni (19411987), che diviene compagno e interlocutore essenziale. Con lui condividerà l’attivismo nel glf. Fassoni resterà figura centrale fino alla fine, anche se non necessariamente sotto una luce positiva, e sarà destinato a impersonare un ruolo in parte persecutorio, superegoico e critico. 1972 In primavera ritorna a Milano. Il 5 aprile partecipa a quella che viene considerata la prima manifestazione pubblica di omosessuali in Italia, per protestare contro il Congresso internazionale di sessuologia su Comportamenti devianti della sessualità umana, organizzato dal

Centro Italiano di Sessuologia a sostegno delle terapie riparative – evento che segna la nascita ufficiale del FUORI!. Alcune foto lo mostrano di schiena con un cartello su cui è scritto «Psichiatri siamo qui per curarvi»; sotto una di esse, scrive a mano: «The body politic – May June 1972 – my back». (Archivio MM). A maggio va a Firenze con Piero Fassoni e gli amici Piera e Salvo. Accompagna le foto del viaggio con la nota: «Le malheur de la conscience» (Archivio MM). L’amica Manola Cherubini, attivista dei gruppi di autocoscienza, gli presenta, in via Fatebenefratelli, un suo compagno di classe di quarta ginnasio al Parini, Umberto Pasti. «Mi innamorai di colpo» scrive Mieli ne Il risveglio, anche se la relazione con Pasti comincerà solo alla fine del 1976. Organizza riunioni del FUORI! in via Marco de Marchi, dove abita con Paola e i genitori. Conosce Marc de’ Pasquali – poetessa e scrittrice – che diviene amica carissima per il resto della vita. Insieme, svolgono attività politica e lavorano alle riunioni del FUORI!. Stabilisce intensi rapporti di scambio e dialogo con i gruppi femministi e con le amiche dei collettivi di liberazione femminili, tra cui l’avvocata e saggista Lia Cigarini, a cui rimarrà legato. A partire dal secondo numero del FUORI!, uscito nell’estate, Mieli entra a far parte della redazione della rivista; il suo appartamento di via Marco de Marchi sarà il contatto milanese per le riunioni di autocoscienza del gruppo. Agosto: viaggio in Marocco con Piero Fassoni, Enrico Parmigiani e Paola. Il viaggio termina a settembre a Parigi, dove lavora coi compagni del FHAR. Al suo ritorno, con Piero Fassoni, pubblica l’articolo Marocco: miraggio omosessuale, nel numero 4 del «Fuori!», dove comincia ad analizzare la questione transessuale e riflette sulla politica del travestitismo come critica alla norma eterosessuale. In ottobre dichiara al padre la propria omosessualità. Uomo della sua epoca, il padre aveva una posizione rigida nei confronti dell’omosessualità e della liberazione sessuale in genere. Quando Mario si dichiarò, egli aveva una settantina d’anni, ed era malato

da tempo. Non più un padre forte come avrebbe potuto apparire nell’infanzia di Mario, ma un padre affaticato, fragile e pensoso, che sarebbe rimasto tale. Intese in parte la dichiarazione del figlio – che continuava a essere il figlio amatissimo, il fiore all’occhiello di cui stimava intelligenza, cultura e maniere – come una provocazione adolescenziale, un «comportamento» che si sarebbe forse modificato. Espresse il suo disaccordo radicale e i suoi timori, pur non reagendo in maniera violenta. Accettò invece il desiderio di Mario di viaggiare e non mancò di sostenerlo finanziariamente. Più tardi, a partire dalle prime crisi degli anni 1974-75, la questione omosessuale passò completamente in secondo piano; furono l’angoscia e le manifestazioni maniaco depressive del figlio a turbarlo profondamente. Cercò d’aiutarlo mettendogli a disposizione ciò che si sentiva di potergli offrire, incluso sostegno medico e indipendenza. Questo il padre reale. Ed è forse perché tale padre fu, con lui in particolare, accondiscendente, che Mario fece costantemente appello a un padre immaginario, feroce e punitivo, di cui sono costellati i suoi scritti, e che prese le vesti di Piero, di Sade, di Satana e via dicendo. Il 15 ottobre ha luogo un incontro internazionale organizzato dal FUORI! e dall’Internationale Homosexuelle Révolutionnaire nei locali di «Re Nudo» dal titolo Processo alla società maschile, a cui non partecipa. Come riportato da Domenico Tallone sulle pagine del «Fuori!» (n. 5, novembre 1972, p. 2), «appena aperto il dibattito, un gruppo di femministe romanesche dichiararono di parlare in nome proprio e non del loro movimento, accusarono gli omosessuali di atteggiamenti fallocratici, individuando tali atteggiamenti nel fatto che la riunione era stata da loro voluta con invito ai movimenti femministi a parteciparvi senza un preventivo accordo, e nell’articolo apparso sul numero 4 del “Fuori!” che, dissero, era chiaramente antifemminista». In questa occasione, l’amica Marc vi incontra Laura Noulian (traduttrice e oggi consulente letteraria), che diviene sua compagna. La coppia resterà legatissima a Mario.

Novembre: breve viaggio a Londra, dove ritorna per Natale. Passa il capodanno ad Amsterdam con Piero. In un album di fotografie raccolto da Mario, si leggono le seguenti righe firmate da Dario Bellezza: «Caro Mario, non puoi immaginare la mia grande carismatica gioia che ho provato in quei giorni trascorsi insieme nella patria dei tulipani, dei coc e delle Thermos sauna. Per me è stato come il sorgere di un nuovo giorno, molto più psichedelico degli altri, sei stato la radice, un fratello, un amico, un padre, un prete copto, un confidente, ma soprattutto sei stato MARIO. Lots of love, mio caro, con amore all’lsd.» (Amsterdam 1972-73, Archivio MM). Al ritorno, su «Fuori!», pubblica l’articolo London Gay Liberation Front. Angry Brigade, piume & paillettes. 1973 A maggio si reca a La Spezia in occasione di una mostra di Piero Fassoni. Una foto lo ritrae lì con Fassoni, Corrado Levi e altri amici (Archivio MM). Trascorre il mese di marzo a Parigi con Piero in concomitanza della pubblicazione della rivista «Recherches» di cui racconta il vernissage con amarezza e piccata ironia nell’articolo Paris-FHAR. Qui incontra i compagni del FHAR e uno degli attivisti più in vista, Guy Hocquenghem, da cui resterà fortemente deluso. A giugno parte per Berlino con Piero, Corrado Levi, Gianni Stefanacci e un amico di Corrado. Come racconterà nell’articolo Berlino: l’omosessualità scavalca il muro: «In cinque checche del collettivo FUORI! di Milano siamo finite a Berlino in occasione del Congresso internazionale indetto dall’Homosexuelle Aktion Westberlin (HAW) tra il 6 e il 12 giugno 1973 […]. La più grande manifestazione pubblica omosessuale mai tenuta in Europa ha nel complesso fornito l’inequivocabile misura del basso livello di politicizzazione in senso rivoluzionario e di autonomia rispetto al moralismo borghese-eterosessuale raggiunto dai gruppi omosessuali di liberazione in Germania».

Passa l’autunno e l’inverno a Londra, in una casa a Willsden Green, condivisa da diversi compagni, tra cui Piero, Gianni, George e Ulysse. 1974 A Londra si concentra sulla scrittura di testi politici. È raggiunto dal cugino Kukki, simpatizzante situazionista, con cui è impegnato in un intenso dialogo politico e nella messa in opera della rivista autogestita «Comune Futura», e con cui firmerà alcuni articoli. Scrive Dirompenza della questione omosessuale («Fuori!», n. 12, 1974), testo chiave per l’elaborazione di una teoria politica omosessuale e rivoluzionaria: «Dobbiamo imparare a comprendere noi stessi mediante la capillarità di un lavoro di presa di coscienza condotto in comune in seno ai gruppi ma anche nei rapporti con i partner e individualmente, meditando il nostro passato e analizzando criticamente gli avvenimenti che ci incorrono. Dobbiamo saper riconoscere le strutture in cui da secoli e secoli si tramanda la paranoia anti-omosessuale a mo’ di costante fondamentale, la paranoia che ci martoriò sui roghi, nelle galere e nei manicomi e che oggi continua a martoriarci nelle galere e nei manicomi, in famiglia e sul posto di lavoro, a scuola e durante il servizio militare, nei gabinetti pubblici, nei gabinetti psicoanalitici e nei confessionali, per strada e negli ambienti del ghetto, al cinema e alla radiotelevisione, nei libri e sui giornali; la paranoia che ci inchioda mediante la repressione poliziesca e mediante il parere degli “esperti” retrivi e di quelli “illuminati”, mediante Freud e Marlon Brando, mediante Visconti e Pasolini, mediante la nostra stessa opera e la nostra stessa inventiva stravolte dall’asservimento al sistema etero-sbirro di sempre» (p. 110). Scrive My first lady per «Comune Futura», dove analizza nei dettagli l’esperienza del travestitismo e la sua dialettica politica. La prima parte del testo, dove racconta di aver visitato il Victoria

& Albert Museum di Londra nei panni della first lady Jacqueline Kennedy, verrà poi ripubblicata nel 1976, nel n. 15 del «Fuori!». Passa la primavera a Londra, rientra a Milano a fine maggio. Con i compagni di Milano, tra cui Corrado Levi, fonda il Collettivo Autonomo di Milano, i cui primi passi risalgono alla primavera 1974. Il Collettivo pubblica a fine anno uno speciale «Usciamo FUORI!», come supplemento della rivista «Rosso», dove si spiegano le ragioni di tale scissione: «Il nostro collettivo autonomo FUORI!, nasce dalla distruzione-ricostruzione del precedente gruppo FUORI! di Milano!». Il Collettivo contesta la possibilità che la politica parlamentare possa essere uno spazio di realizzazione dell’orizzonte rivoluzionario: «La nostra raggiunta autonomia significa pure che la nostra lotta di liberazione dobbiamo portarla avanti noi, senza delega di alcun tipo», e prende di mira in particolar modo Angelo Pezzana e la sua «autorità (auto conferitasi) di parlare a nome nostro». Dal Collettivo nasceranno poi i Collettivi Omosessuali Milanesi (COM) e una molteplicità di esperienze autonome simili in tutta Italia, poi protagoniste del movimento del ’77 e del nuovo corso del movimento di liberazione, che vedrà l’emergere di realtà inedite, tra cui il Collettivo Frocialista a Bologna e il Collettivo Narciso a Roma. Sarà proprio quest’ultimo a prendere il nome di Circolo Mario Mieli dopo la sua morte. Dopo una vacanza in Calabria, si ritira a Lora, in compagnia dell’amico Gianni Stefanacci, per preparare gli esami universitari. Una telefonata di Piero inaugura un periodo di turbamento e rivelazioni. A novembre va a Londra per trascorrere i mesi invernali e lavorare alla sua tesi di laurea. Risiede a Wembley con un gruppo di amici, tra cui Piero Fassoni e Gianni Stefanacci. Scrive: «Scopro più che mai che l’oppressione delle donne è anche oppressione della femminilità in ogni essere umano. Io voglio liberare la “donna” in me. Ricreare in me l’equilibrio tra le componenti femminili e maschili del corpo e della mente; non voglio che in me prevalga il padre sulla madre, il figlio sulla figlia. Io non posso stare bene se sono solo uomo. E detesto questo

mondo eterosessuale che assolutizza e continua a riproporre la contraddizione tra i sessi. Ora so che per portemi aprire alla femminilità, per far scaturire la “donna” in me, io devo aprirmi alle donne, incominciare a vederle, a capirle, a comunicare con loro; sconfiggere il tabù del desiderio erotico per le donne che si mutila, desiderarle… E mi rendo conto che sono arrivato al punto in cui tutto ciò può verificarsi, e senza volontarismo, perché c’è piuttosto la voglia… una gaia voglia… un desiderio che più che omosessuale è lesbico» (Londra, 28 novembre 1974, lettera a Kukki, Archivio MM). La relazione con Piero diviene tesa, come riporta ne Il risveglio: «Mi spingeva a mettere in discussione qualunque atto compissi». E in una lettera a Kukki: «Donatien mi spaventa: da un lato io lo carico di quelle che la vecchia Freud definirebbe “proiezioni paranoiche”; vi sono parecchie analogie tra il mio caso e quello di Schreber: Flechsig-Dio-(padre) = Donatien-Diavolo(padre): ma senz’altro tutto ciò è troppo psicoanalitico, Donatien non è solamente il padre, anzi non lo è affatto, è Donatien. Comunque, queste “proiezioni paranoiche” non riesco a evitarle: qualcosa di fondamentale nel “meccanismo” della loro formazione mi sfugge. D’altro lato Donatien si presta a queste “proiezioni” o meglio sensazioni: mi sembra piuttosto fallocrate e forse capisco cosa intendevi dire quando dicevi di trovarlo un po’ reazionario» (Lettera a Kukki dicembre 1974, Archivio MM). A dicembre, vive un periodo di confusione, euforia, insonnia, accompagnato da un’esperienza che definirà «schizofrenica»; la città e gli incontri nella città si prestano a reinterpretazioni e a visioni sorprendenti. Ne darà descrizione dettagliata in una serie di lettere scritte tra il novembre 1974 e il febbraio 1975, che riprenderà più tardi nel suo romanzo autobiografico; vi farà riferimento anche in Elementi di critica omosessuale, a proposito dell’esperienza del «trip schizofrenico» e della nozione di transessualità. Viene arrestato a Heathrow per asportazione di un contenitore di kleenex da un bagno e per proposte erotiche a pubblico agente. Viene condotto alla stazione di polizia e poi nel carcere di Brixton.

Scrive: «Mi comportai divinamente», «risposi a tutte le domande senza esitare, come una gran star e con sprint fenomenale. Si misero in testa che ero drogato. Invece, io ero Dolores del Rio, come minimo» (Archivio MM). Lo raggiunge subito Paola e in seguito un fratello e la sorella maggiore. I famigliari pagano una cauzione perché venga liberato fino al giorno del processo. Viene seguito in una struttura psichiatrica del Marlborough Day Hospital, a St. John’s Wood. 1975 Processato il 15 gennaio a Londra, è condannato a pagare una piccola multa. Al rientro a Milano viene ricoverato per poco più di un mese in una clinica psichiatrica (Le Betulle, ad Appiano Gentile). Viene seguito dal prof. Carlo Zapparoli, allora psichiatra e psicoanalista di certa fama. All’inizio di marzo, i genitori gli prendono in affitto un appartamento in via Pontaccio. A Milo de Angelis, che lo visita nel nuovo appartamento e che si sorprende dell’arredamento bello ma «sbilenco», Mario risponde: «L’ho fatto pensando ad Angelo Lumelli, che ha un’intelligenza asimmetrica e irregolare». Riprende la scrittura e i materiali relativi alla tesi di laurea. A maggio viaggia a Parigi. Vi ritorna a luglio, e vi resta alcuni giorni prima di imbarcarsi col cugino Kukki per gli Stati Uniti, il 26 luglio. Visita New York. Verso la fine della prima settimana d’agosto si reca a Lanvender Hill, comune lesbica/gay fondata a West Danby nel 1973, situata sulle colline intorno a Ithaca. Ne sono membri Ded Asta, Sunny Bat-Or, Yvonne Fisher, David Hirsh, Bobby Jake Roberts, Mitchell Karp, Lazar Mintz, Zelik Mintz, Larry Mitchell, Joseph Modica, Luna Santini (amica di Mario), Chaya Spector, Allan Warshawsky. Su un quaderno di viaggio scrive all’amico Ulysse: «Amérique: l’idée que j’en avais avant d’y aller ne diffère pas beaucoup de ce que j’ai appris pendant ce voyage. Me voilà seul dans un bus qui traverse les États-Unis, je vais à San

Francisco. Kukki est resté à la communauté de campagne: là, c’était bien, le paysage était magnifique, mais on ne baisait pas tellement. Les gens s’aiment beaucoup ; cependant ils sont dans un trip que je définirais “moraliste” et qui n’a rien à faire avec ma (petite) perversité. Le voyage (en bus) est fatiguant mais je me sens bien. J’adore cette solitude plaine de nouveautés… New York est encore plus dégueulasse que ce que je pouvais imaginer. On ressent une atmosphère très violente dans la rue… Tout le monde me dit that I will love San Francisco»1. A Buffalo, dove prende l’autobus verso Cleveland e Chicago, annota: «Squallore… Anche qui tutto sembra vecchio, fatiscente. Sembra di vivere in una pattumiera imbellettata» (Archivio MM). Il 15 agosto arriva a San Francisco in visita all’amica Luna; esplora la città. Il 29 agosto Luna lo accompagna alla Greyhound Station per il suo viaggio di ritorno a New York. Rientra in Italia a settembre, dopo essersi fermato a Provincetown, New York e Parigi. Lavora alla preparazione degli ultimi esami universitari e alla redazione della tesi di laurea. Il 2 novembre muore Pasolini. Con la sorella Paola, assiste alla proiezione privata, organizzata da intellettuali e membri del PCI, di Salò e le centoventi giornate di Sodoma. Critico della posizione di Pasolini, rimane colpito dalla sua preveggenza. Con un gruppo di compagni irrompe nel Convegno internazionale Sessualità e politica indetto da Armando Verdiglione (25-28 novembre) e ne contesta le premesse. Vi incontra Aldo Tagliaferri, con cui stabilisce un solido dialogo che si protrarrà fino al 1980. Viaggio ad Amsterdam a metà dicembre e a Londra alla fine dell’anno. 1976 Il 27 febbraio, sotto la direzione del professor Franco Fergnani, si laurea con lode in filosofia morale all’Università Statale di

Milano. In marzo si trasferisce in un appartamento in via Prampolini 4, presso l’amica Ulla Manzoni. Durante i primi mesi dell’anno partecipa alla costituzione dei Collettivi Omosessuali Milanesi (com), sigla che raccoglie vari gruppi d’autocoscienza, membri del fuori-autonomo e altri non associati. Mieli, Corrado Levi, Mario Rovere e altri partecipanti al COM costituiscono il collettivo teatrale Nostra Signora dei Fiori. A marzo va in scena La Traviata Norma, ovvero: vaffanculo… ebbene si!, replicato successivamente a Milano e portato in varie città, tra cui Roma e Firenze. Conosce Anna Sordini, di cui diverrà molto amico. In aprile partecipa al V Congresso nazionale del FUORI! a Roma, dove il FUORI!, proseguendo la sua alleanza con il Partito radicale, decide la presentazione di candidati omosessuali nelle liste del partito. Nella trascrizione degli atti del Congresso, nel numero 16 del «Fuori!», appare anche l’intervento di Mieli che afferma di parlare in quanto transessuale e oppone una dura critica al nuovo corso riformista del FUORI!: «Io so che sto per dire qualcosa di estremamente impopolare: coloro che si muovono nell’ottica della politicizzazione dell’omosessualità, si muovono in un’ottica che in fin dei conti danza un minuetto con le avances meschine, mortifere e liberalizzatrici del capitale. […] Il Parlamento è la rappresentanza di quel grande carnevale o spettacolo mortifero che è la società borghese, quindi per me sarà più un dispiacere che un divertimento – come invece diceva Cohen ieri sera – il fatto di vedere degli esponenti omosessuali in Parlamento, perché gli omosessuali io li voglio vedere diffusi in quegli ambienti dove si sta creando la rivoluzione, e cioè le fabbriche, i fabbriconi occupati, gli ambienti femministi, cioè l’omosessualità femminile, e i supermercati, i tram, i cinema, i cessi pubblici, che da ambienti del nostro ghetto possono diventare degli ambienti in cui si fa l’amore» (pp. 166-167). Dopo sei anni dal loro primo incontro, in aprile rivede a Milano Denis Robert, seconda e ultima occasione in cui si troveranno di

persona. Su questo incontro non smetterà di riflettere e scrivere. Il 19 giugno, a una rappresentazione della Traviata Norma al teatro in Trastevere a Roma, conosce Maria Bosio e Nico Garrone. Tra il 26 e il 30 giugno i Collettivi omosessuali milanesi partecipano al festival del proletariato giovanile di Parco Lambro organizzato dal mensile di controcultura «Re Nudo». A gesti d’ostilità verso femministe e omosessuali, Mieli risponde: «Non ce ne andremo. Vuol dire che da oggi non batteremo soltanto, ma com-batteremo»; «lotta dura contro natura!». Fonda il giornale «Il Vespasiano degli omosessuali», collabora con «Dalle cantine frocie», ideato e realizzato da Corrado Levi, e con il nuovo giornale del movimento «Lambda». Durante l’estate il collettivo teatrale Nostra Signora dei Fiori si scioglie, ma una sua parte, incluso Mieli, forma la compagnia Immondella e gli Elusivi. Si dedica alla riscrittura della tesi di laura per farne un libro. Da Giulio Bollati, per conto della casa editrice Einaudi, riceve una lettera datata 11 maggio: «Le confermo il nostro interesse alla pubblicazione della sua tesi di laurea». Il 13 maggio risponde: «Gentile dottor Bollati, sono felice perché ho ricevuto la Sua lettera. Come può vedere le mando subito la nuova redazione del penultimo capitolo (l’ultimo lo sto scrivendo). Telefonerò a Angelo Pezzana per chiedergli se le ha fatto poi avere i primi due capitoli riscritti… Per il momento, mi permetta di invitare Lei, la signorina Incisa e gli altri di Einaudi alla rappresentazione dello spettacolo teatrale La Traviata Norma: ovvero, vaffanculo… ebbene sì! che la compagnia Nostra Signora dei Fiori dei Collettivi omosessuali milanesi, di cui faccio parte, terrà presso il teatro Il Quarto, di via Cesare Correnti, qui a Milano, da domani venerdì 14 a domenica 23 maggio (tutti i giorni, escluso il lunedì, feriali ore 21, festivi ore 16.30). La ringrazio e Le invio molti, gai saluti! Mario Paolo Mieli». Come titolo provvisorio del libro propone L’anorma e fornisce indicazioni sull’eventuale sottotitolo: «Bisognerebbe subito sottolineare che si tratta di un lavoro sull’omosessualità maschile». In fase di elaborazione, il titolo del capitolo I (La gaia

scienza di fronte alla psicoanalisi) varia dal titolo definitivo (Il desiderio omosessuale è universale). In calce del capitolo VI, ancora senza titolo, si legge «non ci ho ancora pensato». Diverrà: Verso il gaio comunismo. (Archivio Einaudi). Il 13 giugno invia gli ultimi pezzi: Premessa e Conclusione. Il 15 luglio scrive a Bollati per sollecitare una «decisione definitiva rispetto alla pubblicazione del mio libro». Nel corso dell’estate lavora assiduamente alla riscrittura e alla revisione del libro. Il 4 ottobre scrive a Einaudi: «Eccoci ormai in ottobre e ancora nessuna proposta precisa da parte Sua. Il lettore s’è forse incantato? Se sì, La prego di dirmi chi è, potrei andare a trovarlo e aiutarlo a prendere una decisione più svelta (ma ciò sarebbe senz’altro contrario ai buoni costumi della Casa)» (Archivio E). In autunno i com occupano a Milano un edificio in via Morigi 8, dando vita a una sorta di comune e luogo di sperimentazione dove si incontrano artisti e attivisti, che Mieli frequenta, e dove il 21 e 22 maggio 1977 si terranno le rappresentazioni di Questo spettacolo non s’ha da fare della compagnia Immondella e gli Elusivi. Ottobre: viaggio ad Amsterdam in occasione di una mostra di Piero Fassoni – che da quest’anno risiede ad Amsterdam in maniera stabile. A Milano riprende la scrittura di Elementi, con già in mente l’idea di scrivere un’autobiografia. Il 14 ottobre Einaudi invia copia del contratto dell’opera Riflessioni sull’ideologia del primato eterosessuale (titolo provvisorio), di avvenuta consegna, da pubblicarsi nella collana «Saggi» (Archivio E). Il titolo definitivo sarà Elementi di critica omosessuale. Il 30 ottobre scrive a Bollati: «La Vostra decisione di pubblicare il libro nei Saggi da un lato mi lusinga, essendo la collana prestigiosa, d’altro lato mi fa pensare che venderà molto meno – visto che quello a cui io mi indirizzo è un pubblico di compagni (che un libro simile troveranno più facilmente il mezzo di rubarlo che di comprarlo. […] Firmando il contratto m’avrebbe fatto

almeno piacere sapere con una certa precisione quando il libro uscirà. La collana lo immortalerà senz’altro (oltre a nasconderlo: fino a che punto è paranoia?), ma ci terrei che non uscisse postumo» (Archivio E). 1977 In marzo ritrova Umberto Pasti, con cui comincia un’intensa relazione amorosa. Si trasferisce nella nuova casa in via Guerrazzi 3, dove resterà fino alla morte. La Traviata Norma viene replicata con successo. Il canovaccio della pièce, improvvisata di fatto a ogni performance, viene pubblicato dalle Edizioni de «L’Erba Voglio» di Elvio Fachinelli col titolo La Traviata Norma: vaffanculo… ebbene sì!, insieme a fotografie dello spettacolo e a testi di alcuni dei partecipanti: Francesco Ascoli, Bambola, Barbara, Antonio Donato, Corrado Levi, Luigi Locatelli, Gigi Luigi, Lele Màdera, Sergio Mellito, Mario Mieli, Daniele Morini, Pierangelo, Francesco Pertegato, Robertona, Maria Teresa Rovere, Guia Sambonet. In aprile esce per Einaudi, nella collana «Saggi», Elementi di critica omosessuale. Il 15 maggio scrive a Denis Robert: «Le livre que j’étais en train d’écrire l’année passée vient de paraître (il a été publié dans la plus importante série d’essais qui existe en Italie…) et je t’en enverrai une copie bientôt… Je suis en train d’écrire un “roman” et une grande paresse m’a pris, paresse directement proportionnelle aux intentions: je voudrais écrire quelque chose de beau… Mon style a changé: je cherche de rendre le “volume” des choses, je veux apprendre à décrire, je tends à la perfection… En bref, je suis trop obsédé par des questions de style, d’écriture et je ne me sens pas tranquille»2 (Archivio Denis Robert). Il 21 e 22 maggio, il collettivo teatrale Immondella e gli Elusivi mette in scena Questo spettacolo non s’ha da fare! Andate all’inferno, nella casa occupata dai Collettivi omosessuali milanesi

in via Morigi; quindi dal 22 giugno al 1˚ luglio presso il Teatro Arsenale di Milano, il 6 dicembre 1977 al primo festival di cinema/musica/teatro gay, organizzato a Parma dal collettivo teatrale Trousses, Merletti, Cappuccini e Cappelliere. È interpretato da: Francesco Ascoli, Stefania Curzi, Adriana Guardigli, Mario Mieli, Roberto Reale, Mario Rovere, Gaetano Scilletta, Pierangelo Zimmermann; altro interprete non coautore è Bambola; regia di Claudio Caramaschi. Passa l’estate ad Amsterdam e poi a Parigi. Muoiono la nonna materna e una zia paterna. Riceve una lettera «riservata» datata 25 luglio 1977 a firma dell’Ing. Francesco Siniscalchi, massone ed esoterista romano (scomparso nel 2014 e noto per aver smascherato le trame della Loggia p2), che lo contatta a seguito della lettura di Elementi. Siniscalchi gli scrive in merito a una «lettera alchemica» indirizzata da Paracelso all’amico Brunder. Inizia così un dialogo che marcherà profondamente gli interessi esoterici e alchemici di Mieli. Incontrerà Siniscalchi a Roma, a casa dell’amica Maria Bosio. In occasione del raduno contro la repressione indetto da Autonomi e Lotta Continua il 23 e il 24 settembre a Bologna – a cui partecipano centomila giovani, con dibattiti, feste, rappresentazioni teatrali, musicali e vari contrasti politici – Mieli prende possesso del palco e, strappando il microfono a Dario Fo, esorta i presenti a sfondare il muro di poliziotti che impedisce l’accesso dei manifestanti a Piazza Maggiore. Ne scriverà nella lettera Care checcacce del «Lambda». Un articolo di Luciano Santin su «Panorama» del 20 settembre, dal titolo Sette casi per l’autunno, lo presenta come uno dei sette personaggi chiave di quell’autunno, «il gay più discusso, più celebre e aggressivo d’Italia in questo momento». 27 novembre. Partecipa alla rubrica Come mai? della televisione RAI dedicata ai giovani, in cui è invitato a discutere del libro Elementi. Il libro Le Réveils des Pharaons di Denis Robert viene pubblicato in Canada.

1978 A gennaio è ad Amsterdam, dove fa uso di droghe e attraversa un momento di rivelazioni ed «esperienze magiche», cui segue un periodo fortemente depressivo. Il 9 febbraio, al Centro Formentini di Brera, partecipa alla presentazione del libro La perversione inesistente, ovvero il fantasma del potere di Francesco Saba Sardi, insieme all’autore, al sessuologo Marcello Bernardi e allo psicoanalista Giacomo Contri. Il 4 marzo scrive a Denis: «En ce moment je prépare un nouveau spectacle avec une dizaine d’amis. Le coté macabre sera représenté, et le grand finale sera une espèce de Last Supper – Carnaval des Animaux: “Revival de l’Age d’Or, s’il te plait”»3 (Archivio DR). Partecipa al programma televisivo Diversi in periferia di Enzo Di Calogero e Nereo Rapetti, trasmesso dalla RAI il 27 maggio nell’ambito del programma di approfondimento Tabù tabù. Va in onda un video in cui, truccato, in tuta bianca da operaio e con tacchi a spillo, intervista e dialoga con gli operai sulla repressione sessuale davanti ai cancelli dell’Alfa Romeo. Il 16 marzo, giorno in cui il nuovo governo guidato da Andreotti sta per essere presentato in parlamento per ottenere la fiducia, Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, viene sequestrato dalle Brigate Rosse, che uccidono cinque carabinieri e poliziotti della sua scorta. Il cadavere di Moro verrà trovato il 9 maggio. I mesi primaverili sono complicati dalla situazione politica, da quella che si comincia a delineare come la fine di un’epoca d’apertura e di dialogo sociale, sotto i colpi regressivi della ben architettata strategia della tensione. Trascorre un periodo di rimessa in discussione delle sue convinzioni teoriche, accompagnato da un profondo senso di solitudine e dalle difficoltà relative alla sua vita sentimentale. «Il compito di divulgazione del sapere esoterico che mi spetta, attraverso lo scrivere, è

sovraumano se devo essere solo per sempre davanti alla macchina da scrivere» (Lettera del 18 maggio a Umberto Pasti). Nei giorni 26, 27 e 28 maggio si tiene a Bologna il primo convegno del «movimento gay» non organizzato dal FUORI!. Mieli non vi partecipa. A giugno Elementi viene ristampato. Passa luglio e agosto al Ronco di Sasseta di Zignago (La Spezia), ospite delle amiche Marc de’ Pasquali e Laura Noulian. A luglio Einaudi gli annuncia che l’editore Anagrama intende pubblicare Elementi in spagnolo. Il 31 luglio scrive all’amica Anna: «È difficile spiegarti quel che è successo, ma la mia intera esistenza è crollata come un castello di carte e ho trascorso mesi sull’orlo del suicidio. Recentemente poi la tentazione di farla finita s’è fatta così forte, che ho dovuto darmi uno scrollone per uscire dalla disperazione totale nella quale ero piombato. Come noterai mi è anche molto difficile scrivere non dico bene, ma correttamente. Al centro di tutto sta la “pazzia” che mi ha ripreso questo inverno; delle ideologie di cui parli credo sia rimasto ben poco, visto che sinonimo del mio pensiero attualmente è DUBBIO. So che il mio più grande errore è sempre stato l’egocentrismo. Poi un sacco di cose mi hanno riempito di illusioni e la disillusione attuale è quella di uno che a ventisei anni scopre la solitudine. In ogni caso ho deciso di non uccidermi e di continuare a lottare». (Archivio Anna Sordini). Trascorre mesi difficili. In autunno riprende la scrittura. 1979 Il 16 febbraio, da Cervinia, scrive à Denis: «J’ai l’impression d’être entré(e) dans une nouvelle étape de ma vie, après la crise de l’année passée. Mon deuxième “voyage dans l’inconscient” a été suivi par une dépression très dure: mais j’en suis sorti plus capable de me rapporter aux autres, et maintenant je veux vraiment le bien d’autrui. Mes amitiés sont en train de se “solidifier”, et actuellement j’écris le cinquième chapitre de mon

roman: oui, toujours le même… Il m’a fallu beaucoup de travail apparemment stérile pour arriver à maitriser la plume. L’œuvre, finalement je m’en aperçois, est la “drogue” que je préfère… celle qui me permet de me sentir mieux et d’équilibrer ma vie intime. Je suis en train de préparer aussi un nouveau petit spectacle théâtral. Parmi les expériences magiques que j’ai fait l’année passée, il y en a quelques-unes en étroit rapport avec les “fantasmes” égyptiens qui se cachent dans ma tête. Je parle de fantasme parce que je n’ai aucune certitude sur mon (ou mes) identité(s) profonde(s)»4 (Archivio DR). Il 27, 28 febbraio e 1º marzo Michelangelo Coviello organizza al Teatro Out/off di via Montesanto un festival di poesia dal titolo Sex Poetry/Il sesso della poesia, la poesia del sesso, dove invita tra gli altri Balestrini, Mieli, Moravia, Porta, Spatola. Mario porta in scena Kracatoa. Trascorre un’estate dedicata alla scrittura a Sasseta di Zignago. «Quanto a me il lavoro procede, ahimè non so se sarò in grado di rispettare le scadenze. Tuttavia cercherò di darmi una smossa… Comunque la qualità comincia a soddisfarmi, frasi brevi brevi in cui cerco d’esprimere quel tanto di poesia» (Lettera dell’agosto 1979, Archivio AS). Trascorre il mese d’ottobre a Roma. «Mi sono divertito incontrando un sacco di gente e dandomi alla mia “politique”… Ieri sera mi son lasciata intervistare come “psicoanalista selvaggia”, per un libro che uscirà da Savelli; e, se avrai voglia, leggi il dialogo tra Lia Migale e me pubblicato in “Differenze”, rivista femminista che troverai tra breve alla Libreria delle donne». (Lettera del 3 ottobre, Archivio AS). Partecipa al II Convegno nazionale degli/delle omosessuali organizzato dal Collettivo Narciso di Roma nei giorni 1, 2, 3, 4 novembre 1979, nei locali dell’ex convento occupato in via del Colosseo 61 a Roma. In una video-performance dal titolo Non è mai troppo ovvio (che reca l’indicazione «Roma – novembre 1979» e la firma «Produzione Soft Video 1985»), con la regia di Franco Di Matteo e la partecipazione di Iole Rosa, realizza una scena di coprofagia

esibendosi in costume da regina. La scena si sposta poi in piazza San Pietro, dove Mieli fuma una sigaretta e passeggia per le strade del Vaticano. Parte per l’India con Elvira del Rosso e l’amico Ral. Il 15 novembre, in treno da Bombay verso New Delhi, scrive: «A poco a poco mi rendo conto come le teorie esposte in Elementi siano valide anche qui. Guai e guai derivano dall’oppressione dell’omosessualità e della sessualità in genere» (Archivio MM). Novembre, visita a Poona: «A Poona, dove ho incontrato la Guia nonché Giovanni Brivio che recitava con me nella Traviata Norma, ho potuto accertare che il succo del “pensiero” di Rajneesh è bluff, sostenuto da aggiornata retorica e da buona recitazione. L’organizzazione che circonda il “guru” è assai efficiente, e deficiente la stragrande maggioranza di chi lo segue. Chi scacciasse i mercanti dal tempio, all’hashram di Poona, credo, appiccherebbe un incendio» (Lettera del 22 novembre, Archivio AS). Il 22 novembre da New Delhi scrive le sue impressioni dall’India ad Anna Sordini: «La povertà del paese, poi, è ancor più spaventosa – ma l’aggettivo non è appropriato, dovrei dire pietosa – di quando non mi aspettassi, benché l’India negli ultimi decenni abbia fatto notevoli passi avanti. Enorme è la sperequazione delle classi. I ricchi possono condurre vita da nababbi spendendo assai meno che in Europa o in Nord America, e il reddito mensile pro capite e di venti, trenta rupie (due o tremila lire). Puoi immaginare pertanto quanto numerosi siano i mendicanti, i pezzenti, coloro che dormono sui marciapiedi. I marciapiedi di Bombay ne sono ricoperti, nei quartieri + poveri la gente dorme anche in mezzo alla strada. La mia breve esperienza – ma pur intensa – nel carcere di Brixton mi permette di affermare che, per molti versi, l’India sembra una prigione inglese» (Archivio AS). Da fine novembre, continua il viaggio solo. «Per il Nepal (cui appartiene oggi la regione nordindiana dove nacque il Buddha), sto per partire da solo… Cercherò di farmi bastare il denaro per due o tre mesi, che intenderei trascorrere tra i monti scrivendo la quasi-definitiva stesura del romanzo, che per il momento sarei

propenso a non intitolare più Gineprai, bensì Mistero gaudioso. La mia scrittura va rilassandosi dacché son partito da Milano. Ho anche pensato di raccogliere al mio ritorno le lettere che, come questa, mando agli amici e parenti, per farne un libretto che m’andrebbe di intitolare Lettere di un faraone dall’India» (Lettera del 22 novembre, Archivio AS). L’8 dicembre raggiunge Katmandu. 1980 Il 4 gennaio Einaudi annuncia il contratto con la Gay Man’s Press per i diritti inglesi di Elementi. Trascorre il mese di gennaio in Nepal per poi recarsi in Rajastan. Nel frattempo, in Italia, durante varie perquisizioni a Milano relative al terrorismo, anche il suo domicilio di via Guerrazzi viene perquisito. «La mia casa di Milano è stata perquisita e di conseguenza sono stato sfrattato. I miei hanno messo di mezzo un avvocato, ma anche se dovrò lasciarla poco m’importa perché avrei deciso d’ora innanzi di viaggiare di più e dunque non ho proprio bisogno di un alloggio fisso – e comunque così dispendioso – a Milano». E prosegue: «Il Nepal mi è piaciuto molto, ma “adoro” l’India, che è come una grande madre pazzerellona piena di fascino; ci vorrebbero anni non mesi tuttavia per farsene un’idea non proprio superficiale… La lontananza da Umberto è importante per me e per lui, credo. Abbiamo il tempo di capire fino a che punto ci siamo amati, odiati, aiutati, sfruttati. Non vorrei mai più avere un rapporto così vincolante e precario a un tempo. Spero tuttavia che anche con lui la storia abbia un seguito» (Lettera del 28 gennaio 1980 da New Delhi, Archivio AS). Il 5 febbraio da Bombay scrive: «Col libro sono andata avanti, ma ancora troppo nevroticamente; trovo più ricco lo stile, piuttosto immediato, di queste mie lettere. Però sento che sono a buon punto: mi è molto servito abbandonare la macchina da

scrivere (Céline ha ragione: evviva la penna!) e viaggiare. Un momento di riflessione» (Archivio AS). Passa il mese di marzo in Tailandia: «La Tailandia è un paese molto occidentalizzato soprattutto a Bangkok, città orribile e caldissima cha ha tuttavia un suo fascino ed è godereccia surtout du point de vu hétéro ma anche homo [soprattutto dal punto di vista etero ma anche omo]. La rivoluzione ahimoi non la si sente affatto nell’aria e i poveri cercano di arricchirsi aderendo sempre più a schemi di vita occidentali. Bangkok è l’unica grande città; Ching Mai, la seconda del paese, in paragone è un grosso borgo… selvaggio. Nei pressi del “triangolo d’oro” dove viene prodotta “la cavalla”, è frequentatissima da occidentali che si strafanno. Attorno ad essa gli ultimi villaggi tribali, interessantissimi e visitabili, in mezzo a campagne arse dal solleone. Percorsa da Nord a Sud, la Tailandia è talmente brulla che ci si domanda come possa essere un paese quasi del tutto agricolo» (Archivio MM). Il 5 aprile parte per Singapore. Visita Java e Bali: «Ma l’Indonesia – di cui ho visitato solo in parte (e piccola) Java e Bali – mi è parsa assai più bella. Paese ben più retrogrado, è dunque – costa dirlo! – più umano. Vegetazione lussureggiante, Bali è una meraviglia per quanto vi è stato conservato di antiche tradizioni animistico-religiose. Costumi variegati. Anche qui la vita è destinata a soccombere all’alienazione se in Occidente, da noi, le cose non mutano. Il museo di Jakarta è uno dei luoghi più magici che abbia visitato nella mia vita. Cosa doveva essere il paese fino a non molto tempo fa! Tutto ciò che di “etnico” è conservato, in quel museo, è opera d’arte raffinatissima pur nella propria primordiale semplicità» (Archivio MM). Ai primi di maggio è di ritorno a Milano. Il 23 maggio annuncia a Giulio Bollati un romanzo, di cui si dice particolarmente soddisfatto, dal titolo Souvenir de la croix, che intende proporre a Einaudi. Nella lettera sostiene di aver dimenticato il libro a Bali e di essere in attesa che questo venga spedito da amici. Nella stessa lettera, spiega d’avere proposto a Feltrinelli «l’altro romanzo che ho scritto in questi anni», «che vorrei ridurre a raccolta di novelle “metafisiche”, consegnato ad

Aldo Tagliaferri». Tagliaferri racconta che i materiali da lui visionati al riguardo erano quelli che sarebbero confluiti nella «storia del faraoni»: «In quella occasione esternai le mie perplessità chiedendogli, in sostanza, di rivedere con calma il testo prestando maggiore attenzione alla sua portata propriamente letteraria» (Lettera a Paola Mieli del 29 dicembre 2018). Per quel che concerne il manoscritto che Mieli dice di aver «dimenticato» in Oriente, che fu dichiarato disperso, non è escluso che fosse composto da materiali esistenti nell’Archivio Mario Mieli con il titolo Mistero gaudioso. Come si scopre colei che siamo e da altre pagine raccolte in una cartella dal titolo autografo Viaggio in India, dove si descrivono con brio le esperienze di viaggio. Altre pagine sparse confluirono per la maggior parte nel manoscritto definitivo del Risveglio dei faraoni. Come Mieli dichiara il 31 marzo 1980 nella sua nota autobiografica per l’edizione spagnola di Elementi, da tre anni sta scrivendo «il» suo romanzo autobiografico, facendo riferimento a un’opera singola e situando la data di inizio di tale lavoro nel 1977. Si può forse mettere in questione l’esistenza di un secondo romanzo andato perduto. Trascorre luglio e agosto al Ronco di Sasseta di Zignago (La Spezia): «Ho passato un periodo difficile di depressione e sconforto, sospendendo per forza di cosa la scrittura in genere… La quantità e l’entità delle cose emerse mi ha portato da un lato a rimpiangere, appena svanita, l’euforia, dall’altro a interrogarmi seriamente, tra mille dubbi, su ciò ch’è stato “vera esperienza” e quanto chimera infantilmente indotta. Benché non mi sorrida l’idea di fermarmi a Milano, sono giunta alla conclusione di fare l’analisi, perché ahimè da solo non so come procedere… Hai saputo della strage di Bologna?» (Lettera a Kukki dell’8 agosto 1980, Archivio MM). Il 22 agosto Einaudi lo informa che l’editore Wetenschappelijke Uitgeverij desidera pubblicare una versione olandese di Elementi. Esce Elementi in inglese. Il 6 settembre scrive a Einaudi riguardo le modifiche non autorizzate della traduzione: «La

pregherei di farmi sapere a quali condizioni i diritti di traduzione sono stati ceduti all’editore inglese, poiché ancora non me l’avete fatto sapere… Noto con disappunto che la traduzione inglese di Elementi non è integrale: è dunque possibile che la casa editrice Einaudi autorizzi un editore straniero a pubblicare traduzione parziale d’un testo senza avvertire previamente l’autore e chiedergli l’autorizzazione? Che io – per inciso – non avrei concesso». Segue inoltre la bozza di una lettera da indirizzarsi all’editore inglese che precisa: «Now we would want you to send us written guarantee that, in case of reprint, the translation will be completed, or, if some cuts will remain, they would be agreed with the author»5 (Archivio E). Il 29 settembre, alla presentazione della mostra di Pierre Klossowski curata dalla sorella Paola al padiglione d’Arte contemporanea di Milano, conosce Pierre Klossowski e Carmelo Bene. Ottobre: viaggio in Grecia con Piero Fassoni. Prima della partenza incontra Franco Fergnani. Riceve una lettera datata 11 novembre dall’editore olandese di Elementi che si dice «unhappy» d’aver appreso solo ora, in corso di traduzione del libro dall’inglese, che tale versione non corrisponde all’originale italiano (a causa dei tagli su di essa effettuati dall’editore inglese). È tuttavia soddisfatto di poter comunicare d’aver trovato un traduttore dall’italiano e di poter così assicurare la traduzione integrale dell’originale. 1981 A marzo si reca a Napoli dove partecipa con Aldo Carotenuto, Mario Perniola e Sergio Benvenuto a un convegno su «Sessualità e diversità» organizzato dall’associazione culturale Il Filo di Arianna (presieduta da Elio Cadelo). Dal 31 marzo al 5 aprile 1981 partecipa alla rappresentazione teatrale Sei giorni del monologo al Teatro Cristallo di Milano con il monologo Ciò detto, passo oltre. Mario Gamba su «Il Manifesto» scrive: «Ha vinto Ciro

Cascina, autore e interprete di un monologo, Madonna di Pompei, veemente e plebeo. Una sproloquiata di un personaggio gay di infima collocazione nella scala sociale. Un gay da “basso” napoletano, da cesso pubblico. Un gay patetico, tenero, accorato, violento. Nell’ultima serata della Sei giorni del monologo Ciro Cascina si è portato appresso una claque formidabile, un gruppo di omosessuali milanesi che ha fatto andare avanti le lancette dell’applausometro per più di mezz’ora. Così, il concorrente che sembrava avere la vittoria in tasca, l’altro gay Mario Mieli, lui ben più raffinato nello stile e nei richiami culturali, è stato bruciato sul traguardo». Il 28 marzo ha un’accesa discussione con l’amica Anna Sordini a proposito di Pasolini. In una lettera di scuse, il giorno successivo, scrive: «Tra amici, ogni tanto, purtroppo si litiga… Quel che ha causato il mio sfogo aggressivo è la stanchezza che ormai provo ogniqualvolta gli amici mi dicono cose che ritengo reazionarie o ideologiche. “Non toccarmi Pasolini” o altro mostro sacro è un tale pregiudizio da parte tua, così come è ingenuo chiedere “dove” Umberto abbia contratto lo scolo… Io credo che per opporsi concretamente e bene allo status quo bisogna radicalizzare sempre più a fondo, criticamente, il proprio pensiero. Prima di “accusare” gli altri di superficialità, bisognerebbe chiedersi se non sia tempo di smetterla di fare accuse superficiali: è evidente che io, gay, con la somma di repressione e di falsa accettazione che mi porto sulle spalle, non esprimo superficialmente parere negativo sulla figura di un altro gay, fra l’altro morto perché tale. Ripeto: per me è un uomo cha ha del tutto sbagliato accettando dei compromessi bassamente immorali, e mostrandosi incapace d’elevarsi a una visione del mondo rivoluzionaria» (Archivio AS). Il 22 aprile, da Cervinia, scrive a Denis delle sue preoccupazioni sulle minacce nucleare ed ecologica: «La sensazione sempre più forte che ho di questi tempi – e che trova purtroppo costanti riprove – è che si corra verso la distruzione, sia essa nucleare o ecologica. Non mi pare che vada affermandosi un’alternativa positiva al disastro, la cui ineluttabilità tuttavia mi

rifiuto di accettare. Tu mi dicesti che forse una speranza era in ciò che poteva nascere nel Nord Italia (e in Francia, in Canada: se ben ricordo furono questi i paesi che menzionasti come i più vicini a un possibile mutamento vitale). So poco di quel che avviene in Francia, e quasi nulla di quel che succede in Canada. Ma temo proprio che la situazione italiana sia grave e disperante. Vedo molta impotenza, vigliaccheria, malcostume, cinismo, adattamento all’“ineluttabilità” della crisi mondiale anche in coloro che, soprattutto dal ’68 in poi, sperarono nel meglio. Io esco da anni di complicata conflittualità psicologica e mi auguro di riuscire a operare ora con maggiore efficacia. Ma penso che grande stimolo riceverei da te, se più non mi tacessi le tue idee, le tue ipotesi, le tue scoperte. Credi tu che ci sia ancora speranza?» (Archivio DR). Trascorre la fine di agosto e il mese di settembre ad Amsterdam, dove lavora con la traduttrice alla presentazione olandese di Elementi. Vede con piacere l’edizione inglese di Elementi nelle librerie della città. Il 10 novembre scrive al dottor Carena di Einaudi: «Contavo di mandarle la stesura definitiva del mio romanzo… Vorrei ricordarle che manca l’ultima parte – non ancora battuta a macchina – e che mi riservo di portare alcune modifiche di struttura e alterazioni stilistiche. In attesa di ricevere una Sua risposta prima delle fine del mese, La ringrazio della gentile attenzione» (Archivio E). Il 16 novembre firma con Umberto Pasti l’appello Non c’è più tempo da perdere poi fatto circolare in una versione diversa con il titolo Appello per la pace e infine pubblicato a gennaio 1982 su «l’Unità» con il titolo Contro l’equilibrio del terrore, firmato da numerose personalità. Conosce il regista televisivo Guido Tosi, che gli propone di scrivere la sceneggiatura per un film su Milano, uno dei tre lavori dedicati alla città, commissionati da Rai 3 ad autori diversi. Il film, dal titolo Una favola spinta, che evoca temi trattati nel suo romanzo, sarà realizzato nel 1983-84 e andrà in onda una sola volta nel giugno 1984.

Rinuncia all’idea di un viaggio a dicembre in Egitto e lavora al romanzo. 1982 Prosegue il lavoro sul romanzo, ma rimanda di nuovo la consegna all’editore. Il 2 febbraio scrive: «Gentile Dottore, m’ero ripromesso di farle avere entro il principio di febbraio la stesura definitiva del romanzo, sennonché, avendo da Lei saputo che l’avreste pubblicato a settembre, ho ritenuto opportuno lavorare maggiormente alla riscrittura… con risultati che giudico positivi. Pertanto mi scuso se ancora non posso farle avere il testo definitivo. Prenderò contatto col dottor Rugafiori, per sottoporre al suo parere le parti già ultimate» (Archivio E). Ginostra, 28 maggio: «Attendo con apprensione il giorno in cui telefonerò a Einaudi. Sto preparandomi alla peggiore delle ipotesi, ma speriamo che vada bene così posso continuare a lavorare incoraggiato dalla sorte (in tal caso impersonificata dall’editore)» (Archivio AS). Il 23 giugno Einaudi gli invia il contratto per Il risveglio dei faraoni e chiede la consegna della copia del manoscritto completa e pronta per la stampa entro il 30 settembre. Durante l’estate lavora intensamente al romanzo. Alla consegna del manoscritto segue un senso di liberazione, ma anche un momento depressivo. In ogni caso, non abbandona la scrittura. A novembre va a Campagnano (Roma) dove con l’amica Laura Noulian scrive e prepara delle rappresentazioni teatrali. Il 12 novembre scrive: «Sto iniziando a buttare giù la prima stesura del nuovo romanzo: incontro difficoltà già incontrate scrivendo Il risveglio ma stavolta so quel che si deve fare. Ovvero buttar giù tutto il più scioltamente possibile sì da rendere più facili poi tagli e riscrittura – dai quali affiora naturalmente la struttura dell’opera». E ancora: «Ho letto un quinto de Il mondo salvato dai ragazzini della Morante, e penso che dovrò cambiare editore perché pubblica troppe cacate… Se a me hanno fatto

tagliare un quinto del Risveglio, avrebbero potuto far tagliare a lei la parte del libro che ho letto e francamente trovo più noiosa di Aristotele! Ma la Morante in quella parte del suo “poema” ha questo di buono: che descrive la Turchia dei nostri ospedali. Insomma, non la invidio. Ho poi letto Mangiami pure della Maraini sempre pubblicato da Einaudi, c’è da vomitare…» (Archivio AS). A Natale 1982, appare in un video amatoriale girato dal regista Guido Tosi in compagnia dell’attrice Daniela Piperno. Nella breve intervista di appena più di dieci minuti descrive le sue ultime scoperte «spirituali», che però dice di voler tenere segrete. Annuncia l’uscita del suo ultimo libro Il risveglio dei faraoni nella primavera successiva e dice di essere uno dei pochi della generazione del ’68 a credere ancora nel cambiamento – un cambiamento che sarà non più politico, ma «magico». 1983 Gennaio e febbraio marcano un periodo di tensione e isolamento, in un succedersi emotivo che oscilla tra depressione, senso d’onnipotenza e senso di persecuzione. All’aspettativa positiva dell’uscita del romanzo s’alterna un rifiuto dell’opera. Esprime a più riprese preoccupazioni relative allo stile del libro, la cui ultima parte non lo soddisfa. La complessità delle diverse facce dell’io narrante, delle diverse personalità che lo governano, confluisce nella difficoltà di stile. Se fino ad allora le attività in cui era coinvolto – che si trattasse d’azione politica, di scrittura o di performance – avevano svolto una funzione di sostegno vitale, i dubbi relativi al romanzo cui aveva dedicato molti anni di vita hanno un effetto disgregante. Diversi fattori aggravano la crisi in corso: la messa in discussione della sua scrittura, la separazione da una relazione amorosa centrale nella sua vita e l’angoscia causata dall’idea di ferire i genitori con l’uscita del suo romanzo (anche se nessun familiare – tranne la sorella Paola e il cugino Kukki, e solo in parte – aveva letto il libro).

L’11 febbraio 1983, alle Scimmie di Milano, presenta una performance intitolata Dai bordelli di New Orleans, con Marc de’ Pasquali. Il 5 marzo rilascia un’intervista a Gianpaolo Silvestri in cui parla della prossima uscita del suo romanzo Il risveglio dei faraoni. In una lettera risentita, scritta lo stesso giorno a Umberto, dice d’aver inviato a Giulio Einaudi una missiva col contratto del romanzo stracciato. Il 7 marzo invia una raccomandata a Einaudi con i contratti di Elementi e del Risveglio stracciati. Il 9 marzo scrive a Einaudi una lettera di scuse in cui dichiara che i motivi «gravissimi che mi indussero a rinnegare la mia opera erano di natura familiare». Allega una lettera alla madre e una poesia ai genitori. Lo stesso giorno, in una nota autografa al cugino Kukki, racconta che i genitori, dopo una conversazione a proposito della lettera in questione, gli hanno dato «il loro Nulla Osta» per la pubblicazione del romanzo (Archivio MM). Il padre ripeteva allora qualcosa già espresso il mese precedente: di fronte al turbamento e all’angoscia di Mario, cercava di rassicuralo reiterando il suo totale consenso all’uscita del libro e invitandolo a fare quel che si sentiva – incluso il suo sostegno, nel caso non volesse proseguire con la pubblicazione, a ritirare il libro e pubblicarlo quando gli fosse sembrato meglio. Secondo Carlo Carena, l’11 marzo «l’autore rescisse il contratto e chiese la restituzione del manoscritto», in quella data già composto per la stampa e in bozze impaginate e corrette (Archivio E). Il prof. Walter Barberis, allora impiegato da Einaudi, ricorda una visita tumultuosa di Mieli da Einaudi, «il giorno prima del suicidio», alterato e aggressivo, vestito elegantemente. L’11 marzo, in una lettera inviata a Hubert Kennedy, Mieli scrive in un post scriptum: «Il mio libro non verrà pubblicato per mia libera scelta». Il 12 marzo muore suicida nel suo appartamento a Milano. ***

Nell’aprile dell’83, la famiglia ritirò il manoscritto del Risveglio dei faraoni. Le ragioni furono la convinzione di eseguire in tal maniera l’ultimo volere espresso da Mario e l’esigenza di rispettare privatamente il dolore della sua scomparsa. A nome di Einaudi, Carlo Carena spiegò allora come la casa editrice, rispettando il volere della famiglia, ritenesse comunque il libro «opera profondamente sentita, travagliata e alla fine pienamente realizzata, al di là di un’esperienza personale» (Archivio E) e rinnovasse la propria disponibilità alla pubblicazione, qualora la famiglia ne avesse ritenuto il caso. Il libro, mancante di alcune pagine, fu pubblicato clandestinamente nel 1994 da Umberto Pasti e Francesco Santini per conto della Cooperativa Colibrì, i quali, pur conoscendo l’ambivalenza di Mieli nei confronti del suo scritto, pensarono fosse venuto il momento di dare alle stampe un’opera per tutti così significativa. L’edizione fu nuovamente ritirata dalla famiglia, allora impreparata a una decisione che la scalzava e sulla quale intendeva far valere i diritti di Mario.

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Nota manoscritta del 31 marzo 1980, redatta per l’edizione spagnola di Elementi (Archivio Einaudi). 1 «America: l’idea che mi ero fatto prima di recarmici non è molto diversa da quello che ho imparato durante il viaggio. Ed eccomi solo su un autobus che attraversa gli Stati Uniti, vado a San Francisco. Kukki è rimasto alla comunità in campagna: si stava bene lì, il paesaggio era magnifico, ma non si scopava poi così tanto. La gente si vuole bene, ma sono in un trip che definirei “moralista” e che non ha nulla a che vedere con la mia (piccola) perversità. Il viaggio (in autobus) è faticoso ma mi sento bene. Adoro questa solitudine piena di novità… New York è ancora più schifosa di quanto potessi immaginare. Per le strade c’è un’atmosfera molto violenta… Tutti mi dicono che adorerò San Francisco». 2 «Il libro che stavo scrivendo l’anno scorso è appena stato pubblicato (nella collana di saggi più importante che esista in

Italia), e te ne manderò una copia a breve… Sto scrivendo un “romanzo” e sono stato colto da una grande pigrizia, pigrizia direttamente proporzionale alle intenzioni: volevo scrivere qualcosa di bello… Il mio stile è cambiato: cerco di restituire il “volume” delle cose, voglio imparare a descrivere, tendo verso la perfezione… In poche parole, sono troppo ossessionato dalla questione dello stile, della scrittura e non mi sento tranquillo». 3 «In questo momento preparo un nuovo spettacolo con una decina di amici. Sarà rappresentato il lato macabro e ci sarà un gran finale del tipo Ultima Cena – Carnevale degli animali: “Revival dell’Età dell’Oro, per favore”». 4 «Ho la sensazione di essere entrato(a) in una nuova tappa della mia vita, dopo la crisi dell’anno scorso. Il mio secondo “viaggio nell’inconscio” è stato seguito da una depressione durissima: ma ne sono uscito più capace di relazionarmi agli altri, e ora voglio davvero il bene dell’altro. Le mie amicizie si stanno “solidificando”, e in questo momento sto scrivendo il quinto capitolo del mio romanzo: sì, sempre lo stesso… Mi ci è voluto molto lavoro in apparenza sterile per arrivare ad avere la padronanza della penna. L’opera, ma me ne accorgo solo ora, è la “droga” che preferisco… quella che mi permette di sentirmi meglio e di equilibrare la mia vita intima. Sto preparando anche un nuovo piccolo spettacolo teatrale. Tra le esperienze magiche che ho fatto l’anno scorso, ce ne sono alcune in stretto rapporto con i “fantasmi” egiziani che si nascondono nella mia testa. Parlo di fantasma perché non ho nessuna certezza sulla mia (o mie) identità profonda(e)». 5 «Ora, saremmo grati se voleste mandarci per iscritto la garanzia che, in caso di ristampa, la traduzione sarà completata o, se alcuni tagli dovessero sussistere, questi siano autorizzati dall’autore».

Ringraziamenti

Si ringraziano tutti coloro il cui contributo è stato prezioso per la realizzazione di questo volume: Luigi Ballerini, Walter Barberis, Felix Cossolo, Michelangelo Coviello, Milo de Angelis, Vincenzo del Re, Stephan Janson, Angelo Lumelli, Giuliana Mieli, Giorgina Mieli-Vergani, Umberto Pasti, Denis Robert, Fiammetta Santini, Luna Santini, Gianpaolo Silvestri, Anna Sordini, Giovanni Sordini, Aldo Tagliaferri. Un ringraziamento speciale va a Cesare De Michelis per il suo affettuoso sostegno alla pubblicazione dell’opera di Mario Mieli.