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Italian, English Pages [298] Year 2013
LA CONCEZIONE STRUTTURALE Ingegneria e architettura in Italia negli anni cinquanta e sessanta
Allemandi & C.
LA CONCEZIONE STRUTTURALE Ingegneria e architettura in Italia negli anni cinquanta e sessanta
A CURA DI
PAOLO DESIDERI ALESSANDRO DE MAGISTRIS CARLO OLMO MARKO POGACNIK STEFANO SORACE
UMBERTO ALLEMANDI & C. TORINO ~ LONDRA ~ NEW YORK
Il volume è pubblicato con il contributo del MIUR, programma Prin 2008. La ricerca «La concezione strutturale. Ingegneria e Architettura in Italia negli anni cinquanta e sessanta» coordinata dal prof. Carlo Olmo è stata condotta dalle seguenti unità:
Unità di ricerca del Politecnico di Torino
Unità di ricerca del Politecnico di Milano
Responsabile scientifico Carlo Olmo
Responsabile scientifico Alessandro De Magistris
Partecipanti al programma di ricerca Michela Comba Sergio Pace
Partecipanti al programma di ricerca Cino Zucchi Anna Bronovickaja (Istituto di Architettura di Mosca)
Collaboratori Daniela Ferrero Alberto Bologna Cristiana Chiorino
Collaboratori Giulio Barazzetta Patrizia Bonifazio Maria Vittoria Capitanucci Ivica Covic Federico Deambrosis
Unità di ricerca di Venezia
Unità di Ricerca di Udine
Responsabile scientifico Marco Pogacnik
Responsabile scientifico Stefano Sorace
Partecipanti al programma di ricerca Roberto Masiero
Partecipanti al programma di ricerca Orietta Lanzarini Gloria Terenzi
Collaboratori Alessandro Brodini Francesca Mattei Luka Skansi
Collaboratori Francesca Mattei
Responsabile scientifico Paolo Desideri Collaboratore Fernando Salsano Coordinatrice scientifica per la pubblicazione e il seminario «La concezione strutturale. Ingegneria e Architettura in Italia negli anni cinquanta e sessanta» tenuto a Torino il 5, 6, 7, dicembre 2012 Michela Comba Si ringraziano Antonio Becchi (Max Plank Institute for Science di Berlino), Harmut Frank (HCU-Hamburg), Marzia Marandola (Università La Sapienza di Roma), Sergio Poretti (Università Roma Tor Vergata) e Bruno Reichlin (Accademia di Architettura di Mendrisio) che hanno partecipato come discussants al seminario.
Sommario
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Tra etica e scienza, tra liberalità e organizzazione CARLO OLMO
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Architettura e ingegneria
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L’estetica dell’impersonale MARCO POGACNIK
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Costruzione e progetto nelle opere di Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti e Aldo Favini GIULIO BARAZZETTA
49
Tecnica e architettura industriale: il cantiere Olivetti, due possibili protagonisti, alcune riflessioni PATRIZIA BONIFAZIO
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Progettazione industriale e committenza in Lombardia tra gli anni cinquanta e settanta. Tra scienza e poesia: aspirazioni tecnologiche e sperimentazioni strutturali all’insegna di un nuovo umanesimo liberale MARIA VITTORIA CAPITANUCCI
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Il vocabolario strutturale di Carlo Mollino tra gli anni cinquanta e sessanta MICHELA COMBA
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Moretti e Nervi. Alcune considerazioni sul disegno della Stock Exchange Tower a Montreal (1960-1965) ORIETTA LANZARINI
103
Una forte amicizia, una casa esile: Pier Luigi Nervi e Lina Bo Bardi ROBERTA MARTINIS
115
L’altra torre. Concezione strutturale, architettura e città nell’edificio in corso Francia a Torino (BBPR, Gian Franco Fasana e Giulio Pizzetti: 1955-1959) SERGIO PACE
129
Myron Goldsmith e l’Italia (1953-1955) LUKA SKANSI
144
Sedici edifici / Venti anni di architettura FEDERICO PADOVANI - MARKO POGACNIK
161
Protagonisti della ricerca strutturale
163
Circostanze e fortune internazionali dell’ingegneria italiana ALESSANDRO DE MAGISTRIS
181
Ascesa e declino della Scuola italiana di ingegneria TULLIA IORI - SERGIO PORETTI
195
L’apporto di Mario Salvadori nella carriera statunitense di Pier Luigi Nervi ALBERTO BOLOGNA
205
La Nervi & Bartoli spa (1947-1961). La creatività applicata all’industria delle costruzioni PAOLO DESIDERI - FERNANDO SALSANO
217
Analisi e accertamento strutturale del Palazzo del Lavoro di Torino STEFANO SORACE - GLORIA TERENZI
229
Riccardo Morandi per il V padiglione di Torino Esposizioni EDOARDO BRUNO
241
Giorgio Dardanelli, Riccardo Morandi, Giorgio Rigotti, Silvano Zorzi e il Servizi Costruzioni e Impianti Fiat RITA D’ATTORRE
253
Le coperture a grande luce nell’opera di Sergio Musmeci ALESSANDRO BRODINI
265
I ponti di Fabrizio de Miranda FRANCESCA MATTEI
277
Come caleidoscopi: gli elementi modulari a guscio a supporto centrale nel dibattito degli anni cinquanta FEDERICO DEAMBROSIS
289
Biografie
Tra etica e scienza, tra liberalità e organizzazione CARLO OLMO
Tracce e trame di una storia di azioni Vi sono due piani che si intrecciano negli studi che trovano il loro esito in questo volume. Il primo è quello delle tracce che i saggi seminano, il secondo quello delle trame che traspaiono se si ha la pazienza di intrecciarne gli spunti. Con una necessaria attenzione: a collocarli nell’ambito di una più ampia discussione, di cui queste trame sono una mise en intrigue. Nel 1948 Gustavo Colonnetti in un articolo difendeva la necessità del valore formativo degli studi umanistici, ma difendeva soprattutto il valore della storia come fondamento «non utilitaristico» della formazione di un ingegnere (e più in generale di un tecnico)1. Pochi anni prima Karl Popper, siamo alla fine della seconda guerra mondiale, pubblicava, dopo esserselo visto rifiutare due volte, il suo testo, che doveva divenire famosissimo, The Poverty of Historicism2, testo in cui metteva in discussione il possibile legame tra logica della scoperta scientifica e spiegazione storica. La sua era una critica all’argomentare storico non alla necessità di fare storia. Lo chiarirà anni dopo distinguendo tra historicism e historism. Il paradosso che ne nasce è ancor più evidente, se si allarga lo sguardo. Nello stesso anno, un altro filosofo, Carl Gustav Hempel, pubblicava il suo The Function of General Laws in History3. Questo testo avrebbe aperto, almeno per la filosofia analitica americana, un dibattito lungo due decenni sull’indagine storica in relazione ai processi conoscitivi e al sapere scientifico in generale.
1. ALESSANDRO COLOMBO E PAOLA GARBUGLIO, ALLESTIMENTO DELLA MOSTRA «PIER LUIGI NERVI. ARCHITETTURA COME SFIDA». CIVA, BRUXELLES, 4 GIUGNO - 8 AGOSTO 2010. FOTO ALESSANDRO COLOMBO E PAOLA GARBUGLIO.
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Uno scienziato delle costruzioni che difende la storicismo e un filosofo analitico che lo critica aspramente, ecco la prima trama, che conosce però altri protagonisti. Nel 1944 esce Dialektik der Aufklärung4, testo più che venato di un pessimismo sulle sorti della ragione scientifica che non può essere taciuto. Ma non è solo questo gioco delle origini a interessare in questa sede. Il nodo è quello che si riflette, come rileverà forse il più colto degli storici dell’ingegneria, Antoine Picon, nel suo saggio più metodologico, uscito nel volume tra Utopia e Ruggine, intitolato Verso una storia del pensiero tecnologico (e non della tecnica o della tecnologia...)5 su dove si colloca la frontiera di un sapere scientifico, che incorpora i fini, non solo il metodo e le procedure nella sua stessa definizione6. E così si precisa la prima traccia. Ad andare in discussione è la periodizzazione stessa su cui la ricerca è partita. È vero che oggi il dibattito sulla periodizzazione appare sfumato nella discussione storiografica. Eppure, anche per onestà intellettuale, è necessario rilevare che soprattutto l’incipit della ricerca viene retrodatato. Lo è nella discussione più allargata, lo fa, andando ancor più indietro nel tempo Sergio Poretti, lo confermano tracce che si colgono nei saggi di Alessandro De Magistris e di Marco Pogacnik. Per studiare le relazioni tra architetti e ingegneri negli anni cinquanta e sessanta è necessario spostare l’incipit della storia. La seconda trama che si intreccia strettamente con la prima e che emerge, se si studiano i rapporti tra Nervi e Bonadè Bottino, come tra Nervi e Bardi o tra Musmeci e Mollino, riguarda l’asimmetrico status sociale delle due professioni, qui sì soprattutto nel secondo dopoguerra. Lo rivelano sociologi della conoscenza come l’americano Peter Whalley che nel 1991 scrive il saggio Negotiating the Boundaries of Engineering: Professional Manger and Manual Work7. L’oggetto del saggio è lo status privilegiato degli ingegneri, lavoratori che godrebbero della fiducia della proprietà e del potere manageriale. Posizione che vorrebbe ribaltare le tesi di uno dei libri forse più conosciuti e discussi dell’intero Novecento, il libro di Burnham, The Managerial Revolution, scritto tra il 1936 e il 1939 e pubblicato nel 19418. Testo ripreso e radicalizzato da un grande storico dell’industrializzazione, Alfred Chandler, nel 1977, con l’altrettanto famoso testo, The Visible Hand: The managerial Revolution in American Business9. La collocazione sociale dell’ingegnere non è un tema secondario per capire le relazioni che queste figure intratterranno con gli architetti. Savoirs et pouvoirs è d’altronde il terreno di lavoro di molti storici soprattutto tra anni sessanta e anni ottanta, sulle tracce di Foucault e Lacan, ma non solo. Il mutare dello status sociale che avvicina nei vent’anni considerati l’ingegnere a una figura interna a un’organizzazione, mentre esalta la natura di libera professione dell’architetto, costituisce il fondamento di un’asimmetria che sarà anche sociale e culturale. Non è solo un problema di diverso modo di concepire la formalizzazione dei saperi a dividere ingegneri e architetti, a contrapporre una via «binaria» alla conoscenza a un metodo Grangeriano del conoscere10. Un trama questa che
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2-3. ALESSANDRO COLOMBO E PAOLA GARBUGLIO, ALLESTIMENTO DELLA MOSTRA «PIER LUIGI NERVI. ARCHITETTURA COME SFIDA». MAXXI, ROMA, 15 DICEMBRE 2010 - 20 MARZO 2011. FOTO ALESSANDRO COLOMBO E PAOLA GARBUGLIO.
sottolinea una scena privilegiata, oltre le scuole, soprattutto politecniche, che il lavoro di ricerca contribuisce a riportare al centro della riflessione storiografica: l’organizzazione del lavoro e il cantiere. Sin dalla metà degli anni ottanta queste tematiche che avevano attraversato la ricerca storica come quella economica parevano usciti dagli interessi di chi si occupava persino di costruzione, non solo di architettura. Saggi come quelli di Marco Pogacnik, Luca Skansi e Paolo Desideri ci riportano dentro il mondo che esisteva dietro palizzate, allora di legno, che segnavano un limite non solo fisico, ma giuridico e sociale. Con un arricchimento, rispetto alla letteratura degli anni ottanta: e due altre tracce importanti da sottolineare. La prima riguarda il cuore del lavoro scientifico: la razionalità, le forme della razionalità per come sono state studiate da chi si occupa di storia della tecnologia e della scienza (storie soprattutto su questo punto tutt’altro che convergenti). Con un correttivo non marginale: che la storia della tecnologia è diventata, non certo da oggi, elemento centrale della storia sociale. Non solo per quel dice Welley. Ben più radicale rimane la posizione di David Landes e ben più ricche di problemi, ancora oggi per noi, sono le tesi del suo The Unbound Prometheus, libro, che esce proprio nel 1969, tradotto in Italia da Einaudi nel 197811, il cui cuore è il rapporto tra tecnologia, industrializzazione e forme della razionalità. Il libro nasce dal lavoro di Landes nella costruzione della History of Technology della Oxford University Press e in particolare dal VI volume12. L’unico limite di quel lavoro era la sua aspazialità, un limite che ad esempio due interessati saggi usciti nel 2007 e 2008 si propongono di affrontare, quello di Isabelle Backouche, Mésurer le changement urbain à la périphérie parisienne e quello di Maurizio Gribaudi Ruptures et continuités dans l’évolution de l’espace parisien, entrambi usciti su «Histoire et Misure»13. A seguire quelle tracce e a riproporre l’importanza che lo Spatial Turn ha avuto nella storiografia architettonica, sono saggi come quelli su Morandi di Edoardo Bruno o di Federico Deambrosis su Pizzetti. Ne può discendere una storia della tecnologia non astratta dai cambiamenti che nascono o che generano - la discussione è aperta - nello spazio urbano. L’atlante, curato da Marco Pogacnik e Luca Skansi ce ne offre quasi la sintassi, e studi come quelli Michela Comba sul Regio di Torino14 l’occasione materiale di misurarli su una realtà urbana specifica. Misurare il cambiamento è istanza e necessità in parte utopica, che sta alla base della discussione sulla storia come scienza sperimentale. La discussione sulla natura sperimentale della ricerca storica occupa più di vent’anni della discussione storiografica, a valle di due momenti essenziali: la discussione tra Stone e Hobsbawm su «Past & Present» e l’uscita di Indagini su Piero di Carlo Ginzburg15. Con a valle un problema che
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alcuni saggi pongono, quello della scrittura di questa particolare storia: L’écriture de l’historie et la répresentation du passé, per riprendere un saggio del 2000 di Paul Ricoeur16, assumono per il segmento storiografico che viene trattato nel testo un valore del tutto particolare. Gli anni di cui ci si occupa sono gli anni cinquanta e sessanta del Novecento, gli anni insieme della crisi della razionalità scientifica (basta leggere le riflessioni di Sartre o Merleau-Ponty per misurarne la radicalità) e invece del consolidarsi di una razionalità binaria nelle scuole politecniche, non solo italiane. Si apre in quegli anni una discussione tra saperi e poteri dentro l’architettura e l’ingegneria. Questa forbice è mitigata solo in campi come quello che qui si è studiato, dal rimanere, - e siamo proprio alla fine di questa storia - un «progetto» (anche quello strutturale) con tutte le complesse relazioni tra obbiettivi, finalità e esiti che proprio il ragionamento, già illuminista, sul progetto si portava con sé. Le ragioni invece che inducono John Ely Burchard a fondare il Department of Humanities di MIT, oggi School of Humanities, Art and Social Sciences, e che restano completamente estranee al dibattito italiano ed europeo delle scuole tecniche si portano dietro, apre un’altra traccia importante che si ritroverà nel testo. Dietro quel passaggio da un Department in Economics a un Department in Humanities sta infatti una discussione che traspare in alcuni saggi del volume, quello tra Etica e Tecnica. Questa discussione, soprattutto in Usa, aveva già prodotto testi come Technics & Civilization di Lewis Mumford17 del 1934; poi la seconda guerra e la crisi proprio del ruolo sociale della scienza, dopo Hiroshima, aprirà e il tutto sfocerà nel famosissimo testo di Werner Heisenberg Physics and Philosophy: The Revolution in Modern Science del 195818. La presunta natura etica di un’ingegneria e di una architettura povere, uniscono quasi tutti i saggi. La risposta italiana alla crisi dell’immediato secondo dopoguerra, ma anche la scelta della prefabbricazione rispetto all’industrializzazione, è qui legittimata da argomentazioni (e retoriche) etiche che investono i materiali non solo le tecniche, come traspare soprattutto dai saggi di Stefano Sorace, di Maria Vittoria Capitanucci e di Alessandro Brodini. La riflessione sulla missione etica della libera professione appartiene d’altronde alle biografie di quasi tutti i personaggi che si sono studiati (il valore sociale dell’impresa è una cultura che ha le sue radici nel cattolicesimo sociale come nella riflessione Olivettiana19), ben più che alle scuole italiane. È sulla misura che si giocano anche partite più pubbliche, come quella della Triennale di Milano del 1951 o molto più teoretiche, come quelle che affrontano il problema di quale forma di razionalità propone una società tecnica, affrontate da Martin Heidegger nelle sue lezioni su Bringen und Stellen Weisen der Technik, rilette nel 1992 da Werner Oechslin20. Ma è soprattutto su «misurare il cambiamento» che si giocano battaglie che qui è solo stato possibile accennare: quella,
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4-5. ALESSANDRO COLOMBO E PAOLA GARBUGLIO, ALLESTIMENTO DELLA MOSTRA «PIER LUIGI NERVI. ARCHITETTURA COME SFIDA». PADIGLIONE C, TORINO ESPOSIZIONI, TORINO 29 APRILE - 15 LUGLIO 2011. FOTO ALESSANDRO COLOMBO E PAOLA GARBUGLIO.
ad esempio, sulla misura del progresso che sta alla base della stesa fondazione del CNR (e le meditazioni svizzere di Colonnetti sono una traccia preziosa21) o quella sull’organizzazione scientifica del lavoro e le sue misure (a valle di un’esperienza, quella dell’ENIOS, studiata in primis da Roberto Gabetti22), aiutano a consolidare la seconda trama che il volume propone. Ma la misura, nei suoi aspetti di rappresentazione pubblica del sapere (e del potere come precisa Karl Löwith nel suo prezioso e poco conosciuto libro su Paul Valéry23) costituisce, per il mondo che si è studiato in questi anni, una vera mitologia, o forse una mitopoiesis: rappresenta un terreno di costruzione della fama e insieme del conflitto, tra i protagonisti, tra impresa e protagonisti, tra protagonisti e società: e il saggio di Roberta Martinis è esemplare in questa direzione. Una traccia importante che percorre il volume, nel rapporto tra Mollino e Musmeci sulla copertura del Regio, che è stato trattato come conflitto in un saggio del 2006 di Arianna Astolfi, Luca Bruno, Michela Comba, Paolo Napoli24. Altre tracce emergono dal testo come il conflitto tra saperi esperti (tra ingegneri ma anche tra ingegneri e architetti) conflitto tra saperi, quando si discute sulla sottigliezza delle volte (siano esse di Nervi, Morandi o Levi) o quella dell’esilità dei ponti (Morandi in primis ma non solo). Una misura come terreno di scontro (piano essenziale per la storiografia, come ricorda il saggio di Jean-Claude Hocquet, Les mesures ont aussi une histoire, sul numero 1 del 1986 della rivista «Histoire et Mesure»25) che presto uscirà dalle scuole politecniche sostituito da un altro fondamentale protagonista della scuola che ancora si deve scrivere... quello della simulazione. E con la misura altre tracce emergono dal lavoro di ricerca, quasi altrettanto fondamentali. La riflessione sulle pratiche (e sulle azioni che ne sono la... messa in opera) sono ormai, da almeno quindici anni, il terreno su cui ha lavorato prima la storiografia sociale, poi quella economica e politica. Perché le pratiche come le azioni, dopo che si è svuotato quasi al suo interno l’impianto behaviorista che proprio negli anni cinquanta trova la sua sistemazione con i lavori del Center for Advanced Studies in Behaviorals Sciences fondato da Talcott Parsons, a essere il cemento ideologico non solo dell’ organizzazione scientifica del lavoro in quegli anni ma anche della stessa produzione edilizia. Le due tracce che escono da questo volume e ne costituiscono una terza trama si reggono su due riflessioni: che le azioni non hanno necessariamente una direzione (né un significato) lineare e che le fonti (problema che andrà posto per questo settore di studi) non sono tanto lacunose, ma sostanzialmente opache. Solo se si riparte da una concezione delle azioni come percorsi non lineari e le cui spiegazioni non sono nelle argomentazioni che le legittimano o solo in esse e se si prendo-
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no le fonti non come depositi di informazioni, ma come organizzazioni volontarie e intenzionali di azioni (tese o meno alla legittimazione - un altro grande problema che andrebbe discusso), si può arrivare a concepire (seguendo i lavori di Michel de Certeau e Dominique Julia e di Jacques Revel)26, quello che lo storico deve affrontare, proprio attraverso dei casi studio come quelli che qui si propongono all’attenzione del lettore: il cantiere come possibile invention du quotidien. Un’invention du quotidien dove le pratiche che sono leggibili essenzialmente in azioni e le produzioni di documenti che sono opache, insieme per necessità (il quotidien lascia soprattutto storie orali) o per ragioni giuridiche (i diari di cantiere sono fonti opache per le intenzioni di chi li compila è giuridica, più che memoriale). Il cantiere che emerge dai saggi di Rita D’Attorre, Edoardo Bruno e Francesca Mattei, lascia tracce di una possibile storia di azioni e di produzione intenzionale di documenti, dove l’intenzione non è certo la trasparenza della costruzione dell’opera. Ma apre anche a un’altra traccia fondamentale di questo lavoro, che i testi di Pogacnik e di De Magistris testimoniano. Questa storia non esiste senza il recupero importante di una dimensione cui la storiografia sta tornando dopo decenni di studi monografici o biografici. Lucette Valensi in una bruciante presentazione al numero 1 del 2002 di «Annales ESS», L’exercice de la comparaison au plus proche, à distance: le cas des sociétés plurielles27, non richiama solo Marc Bloch e le sua conclusione de L’apologie de l’historie, ma si spinge sino a negare lo statuto di scienza a quella storia che non si ponga il problema della comparazione. La trama che il volume propone al suo lettore è proprio quella di una comparazione tra azioni, pratiche non ancora simulate in modelli (anche se il rapporto tra prototipo e opera, come la relazione tra la Magliana e le opere di Nervi, ci propone è piena di stimoli), ma lo sono quasi tutti i saggi quando non descrivono, ma trattano di azioni: lo fa Sorace nel suo saggio sul Palazzo del Lavoro, Bruno parlando del V padiglione di Torino Esposizioni, lo fa soprattutto il lavoro sull’Atlante di Pogacnik e Skansi che affianca questo volume. Con un’attenzione che va ribadita. Quella che qui si propone non è una comparazione senza spazio: anzi i modi che la riflessione che questo testo comunque suggerisce e comporta, evidenziano come sia una comparazione tra quelle che Arjun Appadurai chiamerà Produzioni di località (nel suo libro Modernity at Large, mal tradotto come Modernità in polvere)28. Perché una storia che esce drasticamente, mi scuso per l’avverbio così inusuale per me, ridimensionata da questo lavoro , è quella geneaologica, cara a tante storie della tecnologia. Una produzione della località e non un paesaggio urbano o industriale, come si potrebbe riprendere dall’ultimo capitolo del testo già citato di Picon, Tra utopia e ruggine29 (troppo forse è il debito nei confronti della fortuna critica di Denis Cosgrove e dei suoi testi in quell’impostazione).
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La riabilitazione della scena che questo lavoro genera - e che ne è la trama forse più seducente - riporta il rapporto tra architetti e ingegneri alla loro capacità di produrre località, come risultati di azioni volontarie, di causalità non certo deterministiche, ma neanche casuali, di codici insieme informali e formali. Località come produzioni sociali di cui proprio i rapporti, anche di forza, che si stabiliscono tra architetti e ingegneri ne sono l’origine: perché la trama che il volume svolge, è anche una storia di conflitti, competizioni, persino gelosie (e non a caso sono queste ad aver lasciato le tracce più chiare su cui oggi possiamo costruire le nostre interpretazioni). Località opache, quasi come le fonti con cui si ha a che fare, quando si lavora su questi temi. Non esiste, tanto per far due esempi, neanche una topografia certa e condivisa di Mirafiori a Torino o dell’Ilva a Taranto, come ci dicono studi che hanno accompagnato questa ricerca ma non sono confluiti per necessità in questo volume (come i volumi sui progetti Fiat Engineering30). Muoversi negli archivi di Fiat o Condotte, significa muoversi dentro volontà di conservare e rimuovere, dentro cioè azioni che precostituiscono memorie e che vanno interpretate, come i disegni che li materializzano. Non è una diminutio historiae ammettere che la fonte come l’opera possano essere opache o che le azioni degli uomini non sono tutte lineari e non hanno una razionalità univoca: non c’è bisogno di aver letto il saggio su histoire e psychanalyse di Michel de Certeau con Luce Giard per rendersene conto31, anche se queste impostazioni in un mondo di storia della tecnica possono dare qualche inquietudine: ma una storia meno. Vorrei chiudere con due ulteriori trame che il volume lascia a chi vorrà continuarne a intrecciarle. La prima è la relazione che emerge (ed è ancora da indagare) tra tecnica e giurisdizione. La seconda è l’ossessione della legacy o se si vuole degli aspetti procedurali della storia (degli apparati che la formalizzano, in primis i disegni, i calcoli e le corrispondenze) che hanno fatto sparire dagli orizzonte della discussione, non dico degli studi, la questione del saper vedere. Non vorrei finire crocianamente, o peggio zevianamente la mia introduzione, ma certo il problema della corrispondenza o se si vuole della concatenazione causale tra documento e opera e l’autonomia dell’opera da catene di documenti che non sono quasi mai deduttive e ancor meno dimostrative, ma sono forme di argomentazione scientifica, si pone. Per non ricadere in un naturalismo (della fonte o dell’opera) o per non, all’opposto, legittimare qualsiasi relativismo, con annessa accettazione che la storia è narrazione. Anche se forse sulla forma narrativa propria di una storia come questa che non può solo pescare da generi diversi e presentarsi come solamente eclettica, bisognerebbe riprendere le riflessioni di Jerome Bruner del 198332.
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G. COLONNETTI, Valore umanistico degli studi scientifici, in «Rassegna dell’istruzione media», 1948, 6, pp. 1-3. 2 K. POPPER, Preface to the Second Italian Edition of The Poverty of Historicism (1975), ora in K. POPPER, After the Open Society, Routledge, Londra-New York 2008, pp. 308-311. 3 C. G. HEMPEL, The Function of General Laws in History, in «The Journal of Philosophy», 1942, 2. 4 T. W. ADORNO e M. HORKHEIMER, Dialektik der Aufklärung, Francoforte 1947 (trad. it. Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1966). 5 A. PICON, Verso una storia del pensiero tecnologico, in ID., Utopia e Ruggine. Paesaggi dell’ingegneria dal Settecento a oggi, Allemandi, Torino 2006, pp. 21-39. 6 Osservazione che è dello stesso Picon, A. PICON, Introduction, in ID., Digital Culture in Architecture. An Introduction for the Design Profession, Birkhauser 2010, p. 14. 7 P. WHALLEY, Negotiating the boundaries of engineering: professional managers and manual work, in «Research in Sociology of Organizaton», 1991, 8, pp. 191-215. 8 J. BURNHAM, The Managerial Revolution: What is Happening in the World, John Day Co., New York 1941. 9 A. CHANDLER, The Visible Hand: the Managerial Revolution in American Business, Belknap Press of Harvard University Press 1977. 10 R. GABETTI, Progetto e metodo in Progettazione architettonica e ricerca tecnico-scientifica nella costruzione della città, in Imparare l’architettura, Allemandi, Torino 1997, pp. 54 sgg. 11 D. LANDES, The Unboud Prometheus, Cambridge University Press, Cambridge 1969 (trad. it. Prometeo liberato, Einaudi, Torino 1978). 12 A History of Technology, vol. 6: The Twentieth Century, Oxford University Press 1979. 13 I. BACKOUCHE, Mésurer le changement urbain à la périphérie parisienne, in «Histoire & Mesure», 2010, 1, pp. 4786 e M. GRIBAUDI, Ruptures et continuités dans l’évolution de l’espace parisien, in «Histoire & Mesure», 2009, 2, pp. 181-220. 14 M. COMBA, L’architettura del Teatro Regio, Contrasto, Milano 2009, pp. 79-146. 15 C. GINZBURG, Indagini su Piero. Il Battesimo, il ciclo di Arezzo, la flagellazione di Urbino. Einaudi, Torino 1979. 16 P. RICOEUR, L’écriture de l’historie et la répresentation du passé in «Annales HSS», 2000, 4, pp. 731-747, ma anche per rimanere alla discussione sulla rappresentazione
del passato, P. BEVILACQUA, La verità nella storia, oggi in ID., L’Utilità della storia, Donzelli, Roma 1997, pp. 130-135. 17 E. MUMFORD, Technics & Civilization, Harcourt, Brace & Company, New York 1934. 18 W. HEISENBERG, Physics and Philosophy: The Revolution in Modern Science, Harper Collins, New York 1958. 19 C. OLMO, Le molte strade per la comunità, in ID., Urbanistica e società civile, Bollati Boringhieri Torino 1992, pp. 112-125. 20 W. OECHSLIN, I Darmstadter Gesprache, in «Rassegna», n. 52 , 1992, pp. 76-81. 21 G. COLONNETTI, Le premesse spirituali della ricostruzione, Losanna 1944. 22 Roberto Gabetti sviluppa questi temi nel lungo saggio che introduce G. AVIGDOR e R. GABETTI Architettura Industriale Piemonte negli ultimi cinquant’anni: edilizia industriale e paesaggio, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1977. 23 K. LOWITH, Paul Valéry. Tratti fondamentali del suo pensiero filosofico (1971), Ananke, Torino 2012. 24 A. ASTOLFI, L. BRUNO, M. COMBA e P. NAPOLI, Il fantasma del Regio, in S. PACE (a cura di), Carlo Mollino architetto, 1905-1973. Costruire la modernità, Electa, Milano 2006, pp. 177 sgg. 25 J.-C. HOCQUET, Les mesures ont aussi une histoire, in «Historie & Mesure», 1986, 1, pp. 35-49. 26 D. JULIA e J. REVEL, Postface, in M. DE CERTEAU, D. JULIA e JACQUES REVEL, Une politique de la langue (1975), Gallimard, Parigi 2002, pp. 439-440. 27 L. VALENSI, L’exercice de la comparaison au plus proche, à distance: le cas des sociétés plurielles, in «Annales HSS», 1, 2002. 28 A. APPADURAI, Produzione della località, in Modernità in polvere (1996), Meltemi, Roma 2001, p. 231 sgg. 29 A. PICON, Dalla rovina alla ruggine. I paesaggi dell’angoscia, in ID., Tra Utopia e ruggine cit., pp. 133 sgg. 30 Cfr. M. COMBA (a cura di), Maire Tecnimont. I progetti Fiat Engineering 1931-1979. Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2011. 31 M. DE CERTEAU e L. GIARD, Histoire et psychanalyse entre science et fiction. Un chemin non tracé, Gallimard, Parigi 2002. 32 J. S. BRUNER, Actual Minds, Possibile Worlds, Harvard University Press 1983: sono i testi delle Jerusalem-Harvard Lectures.
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Between ethics and science, liberality and organisation
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he core of the debate on the relationships between engineering and architecture, history of technology and history of the technological thinking and sociology of knowledge is raising some issues that need a clarification. The first one regards the earlier time period compared to the decades that had been considered at the outset. Isolating the second postwar period from the war one and, in some ways, mainly from the 1930s could be a mistake. This is stressed by Sergio Poretti’s reflections and some texts, including Alessandro De Magistris’s ones. A second issue is represented by the dissymmetry between engineers’ and architects’ social position in the second postwar period. A social dissymmetry, that is rooted also in the scientific paradigms that gradually asserted themselves. Rationality became central, increasingly more binary and connected to simulation, for engineers, whereas it was Granger’s style and probabilist for architects. This is highlighted by the essays written by Sorace, on one hand, and Brodini, on the other. A third issue is that of the spatiality of this history. Histories of professions and technologies do not always include the space dimension in the ones to study. This text, thanks to contributions such as those of Edoardo Bruno and Francesca Mattei, and others as well, presents the construction site also as a social and urban space, and not just as a separated space, ruled by its own social and sometimes legal norms. The space of a technological, social and cultural innovation. An idea of innovation that the text helps define in details, leaving behind schemes that could be too coherent. This is proved by Michela Comba’s and Federico Deambrosis’s essays, regarding two different aspects: within the complex relationship resulting from expertise in the case of Comba, and in the work of an Italian engineer in Argentina, dealing with problems that may regard the «transcription» of knowledge, for Deambrosis. However, the text presents at least two other issues, which are highlighted, in terms of importance, by the comparison with the international and national framework The first one regards the importance that «measuring the change» acquired in cultural and organizational terms. This is well stressed by Alberto Bologna in his work on Salvadori and, almost opposite to this, by Sorace, who dealt with Nervi’s Palazzo del Lavoro. Two types of measure confront each other in the 1950s and 1960s: a more intuitive one, making use of a model to perform experimental tests, and a more deductive one, based on the possibility for calculation to simulate how structures might behave. The book may grasp the more dramatic moment of a history that is coming to its end.
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The last issue that the book tackles is the complex linkage that bonds work ethic and construction of fame. This reconstruction focuses on the problem of «poverty» (in terms of materials, techniques, but also building sites, a kind of construction industry that, somehow, had to comply with an economic ethics that would be a winning weapon in calls for tender for Nervi & Bartoli building firm, but not only). Nevertheless, these were also the years when some great protagonists of Italian architecture and engineering understood and started constructing their «fame» thanks to a wide range of tools: conference, book, exhibitions, interviews. A form of duplicity that Roberta Martinis’s essay clearly describes, but that is also examined by other essays making part of the book. The book also emphasizes the state-of-the-art of this part of the history. And it does so by underlining how the research on the sources was not just a mere investigation, cataloguing, organization but, above all, a study of the «intentions» expressed by who organizes an archive. The study of the source as an intentional and not always clear organization - not just because it could presents some gaps, as for every source, but since it needs to be questioned and the quality of the questions will make the sources «speak», is quite a meaningful contribution for this book. This is also done by highlighting how a tradition of separated histories ended up emphasizing the formalistic side of the history of architecture and the once again formalistic, but in terms of formalization of construction techniques, side of the history of technology. The pathway that many essays tried to explore, starting with those by Poretti, Pogacnik, De Magistris, Comba, tries to interweave this two histories and therefore explore the history of the construction site as a social, technical, symbolic and negotiation place, and a place of specialist cultures and knowledge, above all.
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Architettura e ingegneria
L’estetica dell’impersonale MARCO POGACNIK
La ricerca e le forme Riflettendo sul progetto per il padiglione Philips (1957-1958) Iannis Xenakis parla a questo proposito dell’inizio di una nuova epoca nel campo dell’architettura. Dopo una prima età basata sulla geometria delle figure lineari e bidimensionali, attraverso una fase intermedia in cui con la costruzione voltata l’architettura incontra per la prima volta il tema dello spazio, «si assiste ora all’alba di un’altra architettura, realmente a tre dimensioni, più ricca, più sorprendente. Si tratta dell’architettura del gruppo volumetrico»1, l’architettura formata da superfici ottenute dallo sviluppo di conoidi e paraboloidi iperbolici. Il cemento armato che, dalla sua creazione, aveva imitato l’ossatura in legno - pensiamo alle tesi di August Perret - sembrava finalmente sul punto di liberarsi dalle costrizioni di una geometria lineare attraverso una rivoluzione nell’approccio al tema strutturale. Invece di trattare il calcestruzzo armato in forma di travi e pilastri, l’interesse si rivolge a forme a guscio, forme sottili, corrugate o curve. Xenakis è un testimone sensibile delle più innovative ricerche artistiche internazionali potendo muoversi con grande competenza in ambiti disciplinari fino ad allora impermeabili tra loro: musica e matematica, ingegneria e arti figurative. Gli anni cinquanta e sessanta rappresentano, in questo senso, un passaggio eccezionale nella storia del costruire. È il momento storico in cui la convergenza tra ingegneria e architettura - così intensamente invocata da Sigfried Giedion in Bauen in Frankreich - sembra potersi finalmente compiere e questo non tanto grazie alla volontà di alcuni singoli pionieri, quanto piuttosto a un lavoro collettivo svolto nel campo della ricerca strutturale. Il lavoro degli ingegneri diventa un punto di riferimento per tutti coloro che - dall’uso di nuovi materiali e tecniche - si attendevano la nascita di una nuova architettura. Il libro di György Kepes Structure in Art and in Science (1965) darà voce a questo Zeitgeist raccogliendo i contributi di artisti, architetti, ingegneri e storici dell’arte. Tra questi quello di Pier Luigi Nervi che in due brevi testi riassumerà in maniera molto pregnante il senso della sua opera presentandola - forse per la prima volta - in una prospettiva storica2. «I read some time ago that to define more accurately the forms for minimum resistence to movement for automobile bodies, a builder resorted to models of ice placed in a current of air which directly modified and corrected the models, melting the various points according to their greater or lesser resistence to the current, and producing the disired
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result. Where can one find a more impersonal and unchangeable molding process?»3. La descrizione del modello in ghiaccio plasmato da un getto d’aria calda rappresenta per Nervi il pretesto per esporre la sua convinzione sull’esistenza di leggi fisiche alle quali ogni progettista dovrebbe attenersi e che egli non esita a definire eterne e incontrovertibili. Ogni società tende a uniformarsi a un gusto dominante, ciò che Nervi definisce lo «stile» di un’epoca. La nostra - caratterizzata dalla realizzazione di ponti a grande luce, grattacieli e areoplani - ha sviluppato un gusto obbligato a rispettare le elementari leggi della fisica, le regole dell’economia costruttiva e dell’uso razionale dei materiali. Una volta affermatosi, questo gusto orienta ogni campo del progetto, anche quelli che non necessariamente devono obbedire alle rigide leggi cui deve rispondere la costruzione di un ponte sospeso di 3.000 piedi. Di conseguenza lo stile diventa una forza «impersonale e immodificabile» che si esprime nel disegno di un ponte come in quello di un cucchiaio. La geometria del paraboloide iperbolico che determina il disegno del guscio delle coperture del padiglione Philips ispira anche la soluzione per un oggetto di design come la lampada «Falkland» di Bruno Munari (1964) costituita da una serie di anelli metallici inseriti in una calza elastica di filanca4. Grazie all’azione della gravità il tessuto elastico si deforma assumendo naturalmente una configurazione a iperboloidi che rappresenta il punto di equilibrio delle forze (fig. 1). Lampade, tavoli e librerie, prendendo le stesse ardite configurazioni delle più innovative opere dell’ingegneria, danno forma a un gusto che permea ogni ambito dell’ambiente costruito, dalle arti tecniche a quelle figura1. BRUNO MUNARI, «FALKLAND», 1964. tive e all’architettura. LAMPADA IN FILANCA.
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Potrà essere certamente discutibile l’idea di leggi immodificabili che governano il disegno della forma - idea che si ripercuote nella preferenza assegnata da Nervi per la simmetria e le configurazioni chiuse -, ma il carattere impersonale come qualità del progetto moderno è un elemento che merita sicuramente di essere approfondito in quanto pone un interrogativo centrale sulla natura della creazione artistica. L’aspetto interessante dell’indagine sulla forma impersonale del progetto è legato anche all’ampio spettro degli ambiti coinvolti, dagli studi sul prodotto industriale a quelli sulle forme insediative storiche. Da una parte il richiamo alla scienza e allo sviluppo di nuovi approcci progettuali basati sull’analisi del comportamento di modelli - nei quali per la prima volta incomincia ad affacciarsi anche l’uso del computer -, dall’altro le ricognizioni sull’architettura anonima, rurale, spontanea o - per usare il titolo di una fortunata mostra di Rudofsky5 - l’architettura senza architetti. A livello internazionale fu il metabolismo giapponese - con le ricerche di Fumihiko Maki sulle forme collettive6 - a meglio interpretare questa idea volta a contestare la nozione di progetto come invenzione personale attraverso ricerche che ponevano sullo stesso piano la forma del prodotto industriale e quella dei tipi edilizi e insediativi anonimi della tradizione rurale. In Italia tali ricerche erano state inaugurate da Pagano già negli anni trenta con le mostre della Triennale da lui dedicate all’architettura rurale e alla produzione industriale anonima7 ed esse continuarono a trovare riscontro anche nel dopoguerra. A titolo di esempio, si può rinviare ai contributi dedicati al tema dalla rivista «Spazio». Gli interessi coltivati da Moretti andavano dallo studio dell’opera muraria nell’architettura di Ibiza fino allo sviluppo dell’architettura parametrica, dagli esempi colti del Campidoglio michelangiolesco all’architettura popolare in legno della tradizione alpina8. Anche la rivista romana «La casa» offrì nell’arco dei sei volumi pubblicati alla metà degli anni cinquanta uno spaccato significativo di questo tipo di approccio9: vedi il terzo volume sul tema del quartiere, il quarto su tipizzazione e industrializzazione (con saggi di Quaroni, Ciribini, Wachsmann, Paci e Argan), oppure il settimo su economia edilizia, pianificazione e fiscalità. Lo stesso libro di Kidder Smith, Italy Builds, testimonia di questo nuovo sguardo rivolto al tema della creazione architettonica fino a leggere l’architettura moderna come prodotto di una «native inheritance»10. Nel suo complesso, però, la risposta a questi temi fornita dall’architettura italiana fu connotata da un atteggiamento votato piuttosto alla contrapposizione ideologica che a un tentativo di sintesi: da una parte un’interpretazione pittoresca delle preesistenze ambientali - vedi il quartiere Tiburtino a Roma di Ridolfi e Quaroni con la sua ricerca di un linguaggio «neorealista» - e il QT8 a Milano di Bottoni con la sua sperimentazione sulle forme dell’industrializzazione edilizia. Partendo dall’assunto che lo studio di una struttura compiuto attraverso il puro calcolo analitico non è risolutivo per chiarire gli stati tensionali più complessi, quelli che si determinano nello spazio, nel secondo dopoguerra si diffonde l’uso di modelli di varia
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2. RICCARDO MORANDI, MODELLO DEL PONTE DI MARACAIBO. H. HOSSDORF, MODELLSTATIK, WIESBADEN-BERLINO 1971.
natura fisica (dalle soluzioni saponose al microcemento, fino all’analisi fotoelastica) (fig. 2). Il problema era quello della misurazione delle deformazioni e del loro calcolo, aspetti per i quali già a partire dai primi anni sessanta si incomincia a usare il computer, fino ad arrivare a creare - nella seconda metà degli anni settanta - dei software che potevano essere in grado non solo di rappresentare il comportamento di una struttura, ma anche di interagire con il progettista condizionando il processo della sua definizione formale. La pubblicazione del saggio di Sergio Musmeci Il calcolo elettronico e la creazione di nuove forme strutturali (1972) e la definizione del programma Enexsys da parte di Massimo Majowiecki nel 1973 indicano il momento in cui la progettazione strutturale in Italia compie agli inizi degli anni settanta il passaggio da un uso meramente strumentale del computer come calcolatore a un suo impiego come strumento di configurazione di inedite forme strutturali, da una cultura progettuale legata al modello fisico a una caratterizzata dalla manipolazione del modello digitale. In questo passaggio si materializza un diverso approccio all’opera strutturale, fortemente condizionato dagli studi compiuti in ambiti paralleli come quello dell’ingegneria aeronautica. Sia Heinz Hossdorf - un ingegnere tedesco che crea un importante laboratorio di modelli a Basilea (fig. 2)11 - che Sergio Musmeci avevano completato la loro formazione di ingegneri con studi in campo aeronautico. L’architetto Frei Otto - punto di riferimento in Europa per lo studio delle strutture leggere - era stato pilota di caccia della Luftwaffe durante la seconda guerra mondiale prima di fondare il celebre istituto di Stoccarda dedicato alle strutture leggere12. Con l’introduzione del computer nel processo di definizione formale del progetto13 e con l’esaurirsi della loro attenzione per la ricerca strutturale - testimonianza di questo rapido cambio di abito mentale sono la pubblicazione di testi come L’architettura della città di Aldo Rossi e Complexity and Contradiction di Roberto Venturi (entrambi del 1966) - gli architetti tornano a separare i propri destini da quelli degli ingegneri abbandonando l’idea del principio strutturale come elemento ispiratore del progetto14. Lo studio delle strutture, nelle due decadi successive al conflitto mondiale, si era concentrato con sempre maggiore varietà di risultati su forme complesse come quelle iperstatiche e le membrane, come lo studio degli stati coattivi e il precompresso. Queste ricerche si svilupparono con un atteggiamento sperimentale lontano dalla tutela svolta fino ad allora dalla scienza delle costruzioni classica (di impostazione matematica) attraverso la creazione di laboratori in cui si studiava il comportamento fisico delle strutture (ISMES a Bergamo, Torroja a Madrid, Hossdorf a Basilea, Frei Otto a Stoccarda15) e questo creò le condizioni per lo sviluppo di un pensiero strutturale più accessibile anche all’esperienza dell’architetto. L’analisi fotoelastica degli stati tensionali rendeva addirittura visibili le sollecitazioni e la loro disposizione all’interno della struttura: era breve il passo che portava all’esibizione delle linee isostatiche come espressio-
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ne decorativa / costruttiva di una soletta piana (lanificio Gatti di Nervi). Verso la fine degli anni cinquanta - proprio nella prospettiva della creazione di un comune sentire formale e strutturale - si sviluppa a livello europeo anche una nuova letteratura, subito recepita pure in Italia, che insegna a descrivere la struttura sulla base di principi morfologici. Si veda a titolo di esempio i libri di Fred Angerer sulle volte sottili o quello di Curt Siegel sulle nuove forme dell’architettura del dopoguerra16. Il volume di Joedicke sulle costruzioni a guscio, invece, uscì solo in tedesco e inglese godendo di una minore diffusione in Italia17. Si tratta di testi che non sarebbero pensabili senza il precedente costituito dal libro di Torroja, un tipo di letteratura cui anche l’Italia diede un importante contributo con opere come quella di Pizzetti e Zorgno18. Il libro di Siegel19 solo apparentemente sembra promuovere una aggiornata rivisitazione dell’International Style come definito nel noto libro di Henry Russell-Hitchcock20. Nel primo capitolo vengono discusse le caratteristiche formali-struttive del telaio affrontandone in primo luogo i problemi di carattere compositivo: la rotazione della struttura attorno all’angolo, il rapporto tra involucro e struttura, il cambio di passo struttu-
3. ALDO FAVINI, STAZIONE DI SERVIZIO CARBURANTI AQUILA, SESTO SAN GIOVANNI (MILANO), 1949. C. SIEGEL, STRUTTURA E FORMA NELL’ARCHITETTURA MODERNA, BOLOGNA 1968.
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rale tra due piani con diversa destinazione funzionale. Tra gli esempi portati un edificio di Luccichenti in cui quest’ultimo problema viene risolto in modo brillante piegando e irrigidendo la soletta a formare il parapetto del piano superiore. Il secondo capitolo è dedicato al pilastro a «V» come organo principe della costruzione a telaio. Col termine di pilastro a «V» l’autore intende un pilastro rastremato verso il basso come parte di un portale a due cerniere, la stessa soluzione che possiamo notare anche nella costruzione dei piedi di sedie e tavoli. La forma del pilastro a «V» riproduce fedelmente il diagramma del momento che risulta nullo in corrispondenza della cerniera e il suo disegno, quindi, ripropone quel carattere di impersonale necessità che caratterizza la struttura quando essa venga pensata in aderenza alle sue esigenze di stabilità ed economia del materiale. Ecco perchè possiamo riscontrare la presenza della stessa soluzione del portale con pilastri a «V» sia nell’Unitè di Marsiglia come nella sede dell’Unesco a Parigi, in due edifici improntati a ben differenti poetiche architettoniche. Il pilastro a «V» può, infine, subire tutta una serie di mutazioni morfologiche se combinato con una mensola (vedi le tribune di Nervi a Firenze), se scomposto in un sistema triangolare di aste (pilastro bifido, vedi il distributore di benzina di Favini a Milano, fig. 3), se aperto verso l’alto per meglio convogliare a terra i carichi della copertura (pilastro a «Y» come nel caso del palazzetto dello sport a Roma), se combinato in sistemi complessi come arcate o tripodi (soluzione esemplificata dai progetti di Enrico Castiglioni per Montecatini e Napoli), se sagomato con superfici rigate (vedi i pilastri sempre di Nervi per Corso Francia). Nelle diverse interpretazioni del pilastro a «V» possiamo riconoscere una rivisitazione della «Urform» di cui parla Goethe nei suoi studi sulla morfologia delle piante, una lettura delle forme la cui molteplice varietà viene ricondotta geneticamente a poche radici comuni. Anche nel capitolo dedicato alle strutture resistenti per forma viene sottolineata la fecondità di un approccio fondato sull’uso di una geometria elementare (basata su curve come conoidi e iperboloidi) dalla cui manipolazione prende forma una molteplicità praticamente illimitata di soluzioni ordinate in base alla distinzione tra strutture continue o discrete, resistenti per compressione o per trazione. L’uso che l’architettura fece di questi repertori di figure tecniche fu diverso da quello prefigurato dall’ingegnere per il quale l’espressione del reale funzionamento della macchina strutturale costituisce un principio formale inderogabile. Per l’architetto, invece, il telaio può essere piegato a esigenze ritmiche di facciata con cambi nel passo strutturale (Figini e Pollini in via Broletto a Milano, vedi l’inserto a colori), dilatato nella forma plastica delle membrature per fini espressivi (BBPR a Torino), oppure la sua continuità può essere interrotta con l’inserimento in facciata di parti murarie (fronte posteriore della Rinascente a Roma). Negli attacchi a terra il telaio può essere ulteriormente sottoposto a manipolazioni con l’inserimento di portali, pilastri a «V», mensole o nervature
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che, di nuovo, possono non trovare una visibile continuità strutturale con il volume superiore, traendo proprio da questi contrasti e aspettative disattese il loro contenuto compositivo. Vedi la soluzione del solaio nel palazzo degli Assessorati a Trento di Libera oppure la palazzina di via Salviati a Roma di Ugo Luccichenti, nel cui angolo si affastellano in una sorta di bricolage strutturale un pilastro rastremato con mensole intersecate da nervature trasversali (fig. 4). L’Atlante architettonico redatto dall’unità veneziana fornisce un quadro molto variegato dell’uso delle figure tecniche praticato dall’architettura italiana negli anni del boom economico21. Si potrebbe parlare, a questo proposito, di una sorta di manierismo strutturalista che caratterizzò soprattutto la meno accademica produzione edilizia contro la quale si abbattè negli anni sessanta il verdetto moralista delle tendenze neo-razionaliste.
4. UGO LUCCICHENTI, PALAZZINA IN VIA SALVINI, 1953. «L’ARCHITETTURA», 1957.
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I soggetti e il contesto storico L’interpretazione delle forme ha come finalità l’identificazione delle fonti e dei modelli utilizzati come anche l’analisi della grammatica sottesa al loro impiego. Per decifrarne la semantica, però, lo studio deve anche ricostruire il contesto all’interno del quale le forme svolgono la loro importante funzione di veicolo di una comunicazione iconica. I due decenni che rappresentano l’oggetto della nostra ricerca fanno parte di un arco storico più ampio, di cui gli anni della ricostruzione e del cosiddetto miracolo economico sono solo una parte. Tale periodo comincia agli inizi degli anni trenta e si conclude all’inizio degli anni settanta. Si potrebbero indicare delle date più precise, a puro titolo esemplificativo: il 1933 e il 1973. Il 1933 è l’anno in cui viene fondata l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale ed è anche l’anno in cui Pagano assume la direzione della rivista «Casabella». Il 1973 è l’anno della prima grande crisi petrolifera, l’evento che più di ogni altro scosse definitivamente ogni certezza di una indefinita crescita economica. Con il fallimento del concorso per il ponte sullo stretto di Messina del 1969 che - dopo l’epopea delle grandi infrastrutture costruite negli anni cinquanta e sessanta - rappresenta il vertice dell’ambizione dell’ingegneria italiana, si blocca un meccanismo di funzionamento del paese che da cinquant’anni vede l’Italia inchiodata ai risultati ottenuti nelle due decadi successive al secondo conflitto mondiale. In questo arco storico compreso tra il 1933 e il 1973, il ciclo economico è dominato dall’azione delle grandi imprese di stato la cui nascita, come detto, cade con l’istituzione dell’IRI. L’economista Pasquale Saraceno, cui si deve una delle più attendibili ricostruzioni della storia economica di quegli anni22, aveva proposto una periodizzazione che trova dei riscontri, forse non casuali, anche nel nostro campo di studi. Secondo Pasquale Saraceno, il sistema industriale che si sviluppa in Italia nel corso della prima metà del novecento accomuna il nostro paese a modelli di sviluppo più vicini a quelli sudamericani che non europei. Viene messo in piedi un sistema economico che aveva dato prova di funzionare ottimamente in situazioni eccezionali come l’autarchia e lo stato di guerra, ma - conclusa l’opera di ricostruzione - si apre un gravissimo problema, quello dell’integrazione dell’economia italiana nel contesto europeo e internazionale. Nel 1953 c’è l’ingresso dell’Italia nella CECA, Comitato Europeo per il Carbone e l’Acciaio, e già nel periodo 1953-1963 i parametri economici mettono in evidenza prima una battuta di arresto dello sviluppo e poi la fine del cosiddetto miracolo italiano23. Sarebbe molto interessante mettere questa scansione cronologica in parallelo con gli eventi che caratterizzano il campo dell’architettura e dell’ingegneria per cercare di capire in che modo il mondo del costruire abbia accompagnato le diverse fasi del ciclo economico e con quale contributo di idee e di progetti. 29
Affidiamoci all’evocazione di un unico caso esemplare, quello legato al dibattito sulla tradizione promosso da Rogers e dai giovani architetti della redazione di «Casabella». Dopo lo scontro con i «giovani delle colonne»24, De Carlo e Zanuso abbandonano la redazione nel dicembre 1956. Nel numero successivo Vittorio Gregotti viene promosso capo-redattore e il colophon della rivista viene decorato con la guglia della mole antonelliana. Si passa dal neorealismo al neoclassico e al neoliberity. Il dibattito sul tema della tradizione in architettura agita anche il Movimento milanese del MSA come emerge dalle relazioni pubblicate su «Casabella», n. 206. Significativo il contenuto della relazione di Guido Canella di cui vale la pena rileggere questo lungo passo: Si è resa... necessaria per gli artisti realisti la presa di coscienza dell’esistenza, in seno alla tradizione, di modelli che già si siano dimostrati capaci si interpretare i contenuti delle società che li esprimevano, rappresentandone compiutamente i sentimenti. [...] La considerazione, ad esempio, del romanzo storico dell’età romantica (Manzoni, Nievo), della valida pittura e scultura dell’Ottocento (Fattori, Gemito), del suo melodramma (Bellini, Verdi). Così in architettura noi crediamo non sia possibile fare oggi opera nuova e valida nel campo del realismo senza richiamarsi agli ideali e alle opere del nostro Ottocento, dell’epoca risorgimentale. [...] La tradizione che noi ancora rinveniamo come fondamento nella cultura e nell’opera di architetti nostri come Camillo Boito è stata, nell’attività del Movimento Moderno, completamente sommersa. Da qui all’accusarci di compiacimenti letterari, di rimpianto, di amore crepuscolare per il passato, di cui vorremmo evocare quasi il clima attraverso colonne, fregi e pinnacoli, ci sembra per lo meno fuori di posto25.
Tre anni più tardi, nel gennaio 1963, viene occupata la Facoltà di architettura di Milano. Le contestazioni avevano preso di mira in particolare i seminari scientifici. Le
5. SERGIO MUSMECI, SEDE DELLA SOCIETÀ FIORENTINI, ROMA, 1959. MUSEO MAXXI, ROMA.
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conseguenze di tali agitazioni furono un ridimensionamento del ruolo delle materie tecnico-scientifiche all’interno dei curricula di studio dell’architettura; la sperimentazione delle tecniche di prefabbricazione e industrializzazione (fig. 5) - Bottoni, Colonnetti e il CNR subito dopo la guerra ne avevano promosso lo studio26 - diventano un tema assolutamente marginale. Quando esce nel 1968 il libro di Oliveri sulla prefabbricazione, il tema rappresentava ormai una battaglia di retroguardia come quella combattuta dalla nuova redazione di «Casabella» diretta da Bernasconi dopo l’esautorazione di Rogers27. II questionario sottoposto nel 1961 dalla redazione di «Casabella» a diversi progettisti per fare il punto della situazione sulla ricerca architettonica a quindici anni dalla fine della guerra restituisce un quadro che evidenzia ormai la completa chiusura del dialogo sulla ricerca strutturale come ponte tra l’architettura e l’ingegneria. Carlo Aymonino e Leonardo Benevolo si lamentano del fatto che la situazione italiana abbia permesso il rientro in gioco di personaggi ritenuti «ai margini dell’impegno culturale nell’immediato dopoguerra». Questi personaggi marginali sono: Ponti, Vitellozzi, Caccia Dominioni, Gellner, Moretti, Montuori, Vaccaro, Nervi. Aymonino e Benevolo sintetizzano con queste parole la loro lettura del periodo in questione: «L’esperienza di questi 15 anni può essere riassunta nelle punte estreme che l’hanno caratterizzata: da una parte è Matera, città urbanisticamente pianificata cui la mancata attuazione della programmazione economica ha tolto ogni possibilità di reale trasformazione; dall’altra è Roma, dove le forze economiche volutamente non controllate condizionano e determinano una pseudo-pianificazione urbana. Da una parte è Luigi Cosenza, che ha abbandonato tutto - lavoro, università, INU - per protesta estrema contro la situazione attuale: dall’altra è Nervi che accetta tutto pur di realizzare sempre più vaste superfici coperte che non ci sentiamo di definire spazi». La radicalità della posizione di Aymonino e Benevolo è ben riflessa in questa conclusione che avrà per l’architettura il senso di una ritirata: Le possibilità di una trasformazione radicale della tecnica edilizia sono infatti direttamente proporzionali alle possibilità di una pianificazione degli interventi produttivi. Altrimenti l’esperienza, anche la più intensa, si limita al prodotto singolo e la concentrazione degli sforzi, tecnici e inventivi, non trova nella ripetibilità e combinabilità la garanzia del suo reale valore. Da questo punto di vista non ci sembra che oggi vi sia una grande differenza tra una casa colonica del Meridione, realizzata in tufo, e il grattacielo Pirelli, realizzato in curtain-wall fatto in casa28.
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I. XENAKIS, Musica Architettura, Spirali, Milano 1982, p. 98. 2 P. L. NERVI, Is Architecture moving toward unchangeable forms? e On the Design Process, in G. KEPES (a cura di), Structure in Art and in Science, Braziller, New York 1965. 3 Ibid., p. 96. 4 Una forma spontanea, in B. MUNARI, Arte come mestiere, Laterza, Bari 1972, p. 124. 5 B. RUDOFSKY, Architecture without architects: a short introduction to non-pedigreed architecture, Doubleday, New York 1964. 6 F. MAKI, Investigations in collective form, Washington University, School of architecture, St. Louis 1964. 7 Alla Triennale del 1936 Pagano partecipa con due mostre, una sui materiali da costruzione e la seconda sulla «Architettura rurale nel bacino del Mediterraneo». Alla Triennale del 1940 egli partecipò con una mostra sullo Standard. Vedi il numero monografico di «Casabella» del 1946 e G. PAGANO e G. DANIEL (a cura di), Architettura rurale italiana, Hoepli, Milano 1936. 8 Vedi in particolare «Spazio» 3 e 4 9 «La casa», a cura dell’Istituto Nazionale per le case degli impiegati dello Stato, Roma, De Luca. Collana «Quaderni di architettura e di critica» diretti da Pio Montesi nel 1956 10 K. SMITH, Italy builds; its modern architecture and native inheritance, The Architectural press, Londra 1955. 11 H. HOSSDORF, Modellstatik, Bauverlag, WiesbadenBerlino 1971. 12 Vedi anche l’importante contributo fornito alla ricerca strutturale dagli studi di areodinamica compiuti da von Karman e Argyris, quest’ultimo attivo a Stoccarda dove fornì un importante contributo all’introduzione del calcolo agli elementi finiti nella progettazione delle coperture per l’area olimpica di Monaco nel 1972. Nell’archivio di Sergio Musmeci vi sono diverse foto del cantiere di Monaco. 13 Vedi J. BARNETT, Will the Computer Change the Practice of Architecture?, in «Architectural Record», (1965), 1. 14 A. ROSSI, L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966; R. VENTURI, Complexity and contradiction in architecture, MoMA, New York 1966. 15 Vedi la pubblicazione degli atti del convegno internazionale di Venezia «I modelli nella tecnica», Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1956. Sul tema dei modelli il saggio più completo è ancora quello di M. A. CHIORINO con D. SABIA e L. BRUNO, Structural Models: historical notes and new frontiers, in F. LEVI, M. A. CHIORINO e C. BERTOLINI CESTARI (a cura di), Eduardo Torroja. From the philosophy of structures to the art and science of building, Franco Angeli, Milano 2003, pp. 120-158. 16 C. SIEGEL, Struttura e forma nell’architettura moderna
(1960), CELI, Bologna 1968; F. ANGERER, Volte sottili: struttura e forma (1960), CELI, Bologna 1957. 17 J. JOEDICKE, Schalenbau: Konstruktion und Gestaltung, Gisberger, Zurigo 1962 (trad. ingl. 1963). 18 E. TORROJA, La concezione strutturale: logica ed intuito nella ideazione delle forme (1957), ed. a cura di F. Levi, Unione tipografico-editrice torinese, Torino 1966; G. PIZZETTI e A. M. ZORGNO TRISCIUOGLIO, Principi statici e forme strutturali, Utet, Torino 1980. Vedi anche M. GUERCI, Tipologia delle strutture, Tamburini Editore, Milano 1961 e A. PETRIGNANI, Tecnologie dell’architettura, Görlich, Milano 1967. 19 L’architetto Curt Siegel ottenne la cattedra presso la Technische Hochschule di Stoccarda nel 1950, lo stesso anno di Jürgen Joedicke, entrambi fuoriusciti dalla DDR nata in quell’anno. 20 H.-R. HITCHCOCK e P. JOHNSON, The International Style, MoMA, New York 1932 (II ed. 1966) 21 M. POGACNIK e L. SKANSI (a cura di), Atlante dell’architettura italiana degli anni ‘50 e ‘60. Figure, forme, tecniche costruttive, http://atlante.iuav.it. 22 Saraceno nel 1933 era stato incaricato di occuparsi proprio del salvataggio delle banche italiane per conto dell’IRI. P. SARACENO, Intervista sulla ricostruzione, 19431953, a cura di Lucio Villari, Laterza, Bari 1977. 23 Nel 1948 l’IRI entra nel campo della siderurgia con la creazione del polo di Cornigliano; l’artefice dell’operazione è un altro grande manager di stato, Oscar Sinigaglia. Nel 1955 si inizia la costruzione del polo di Taranto. Nel 1953 accanto all’IRI viene costituita una nuova holding nel campo dell’energia, l’Ente Nazionale Idrocarburi, ENI, una creatura di Enrico Mattei. Nel 1956 progettazione della A1 inaugurata nel 1964. 1956 creazione del Ministero delle Partecipazioni statali. Il 1957 vede la costituzione della STET, azienda di telefonia che ottiene il monopolio su tutto il territorio nazionale e, nello stesso anno, avviene anche l’unificazione nel campo della navigazione aerea sotto il simbolo dell’Alitalia. Nel 1962 avviene la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la morte di Enrico Mattei. Nel 1963, in base alla ricostruzione di Pasquale Saraceno, si chiude il miracolo italiano. 24 «Casabella», (1955), n. 205. 25 Il documento venne firmato da Achilli, Canella, Drugman, Marcialis, Aldo Rossi, Tintori, Vercelloni. Nel giugno 1960 la discussione venne ripresa a Varenna portando alla chiusura del MSA. 26 Rassegna del primo convegno nazionale per la ricostruzione edilizia, Milano 14-16 dic 1945, Grafica Marinoni, Milano 1946. 27 G. MARIO OLIVERI, Prefabbricazione o metaprogetto edilizio, prefaz. di G. Ciribini, ETAS Kompass, Milano 1968. 28 «Casabella», (1961), n. 251, p. 8.
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The esthetics of impersonal
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n the second postwar period reinforced concrete started getting rid of the limits imposed by a linear geometry, thanks to a revolutionary approach to structural research. Instead of using a simple frame constituted by beams and pillars, shell-shaped and slender, corrugated or bended forms started receiving the main attention. A crucial turning point in the history of construction took place in the 1950s and 1960s, since engineering and architecture finally found a meeting point as Sigfried Giedion speculated in Bauen in Frankreich. The Gyorgy Kepes’s book Structure in Art and in Science (1965) would give voice to this Zeitgeist by collecting contributions by artists, architects, engineers and art historians - including Pier Luigi Nervi that, in two short essays, had wrapped up the sense of his work, very emphatically, by presenting it according to a historical perspective. “I read some time ago that to define more accurately the forms for minimum resistance to movement for automobile bodies, a builder resorted to models of ice placed in a current of air which directly modified and corrected the models, melting the various points according to their greater or lesser resistance to the current, and producing the desired result. Where can one find a more impersonal and unchangeable molding process?”. Nervi took the description of the model as an excuse to state that he was convinced of the existence of physical laws that he defined, without any doubt, everlasting and incontrovertible. The idea of immutable laws ruling the form design may be questionable but, in case impersonality is considered as a quality of modern design practices, it is something that can be found in many pieces of research dating back to that period, in both art and architecture. The study of techniques and other phenomena, such as anonymous or spontaneous architecture, proves this interest in a “collective form”, previous to any individual invention. The study of structures, in the two decades that followed World War II, focused on complex forms such as hyperstatic forms and membranes and also that of prestressed concrete. This kind of research was quite experimental and did not resemble the traditional building science (which had a mathematical approach) and this led to the creation of laboratories where the physical behaviour of structures could be studied, thus creating the right conditions to develop a structural theory that an architect’s experience was likely to access. The photoelastic analysis of the stress states could also make the stresses visible and detect where they were located in the structure. A new literature developed in Europe towards the end of the 1950s - it was meant to teach how to describe the very structure at the base of morphological principles, see for example Fred Angerer’s books on slender vaults or the one by Curt Siegel on the new forms of archi-
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tecture in the postwar period. These books could have never been written without a previous one by Torroja, a kind of literature that received important Italian contributions as well, such as Pizzetti’s and Zorgno’s works. Architecture used these sets of technical patterns differently from the way engineers used to make use of them. In fact, engineers considered the expression of the real structural functioning as a formal binding principle. The Architectural Atlas that IUAV unit drafted up may provide a very differentiated picture of the use of technical patterns in Italian architecture during the Italian economic boom (www.atlante.iuav.it). The bridge on the Strait of Messina represented the highest ambition of Italian engineering and when the call for tender for its construction failed in 1969 - after the epic moment of great infrastructures built in the 1950s- something broke down in the country’s mechanism and this would lead to a stalemate in the following decades. The survey that was published in 1961 by “Casabella” to take stock of the situation on architectural research fifteen years after the end of the war, gives us a framework where the debate on structural research as a bridge between architecture and engineering had already come to an end. The conclusions of what is stated by Carlo Aymonino clearly reflect this new situation: «The possibilities of a radical change in building techniques are directly proportional to the possibilities to plan production. Otherwise, even the most intense experience would be just focused on a single product and the real value of technical and creative efforts may not be guaranteed by repeatability or combinability. In this sense, we do not think that Pirelli skyscraper, made of a homemade curtainwall, is very different from a rural house in the South of Italy built in tuff».
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Costruzione e progetto nelle opere di Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti e Aldo Favini GIULIO BARAZZETTA
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e architetture di Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti e Aldo Favini, realizzate nei pochi anni del loro sodalizio, denunciano una forte intesa che se osservata nelle loro attività indipendenti rivela diverse linee d’indagine, alla ricerca della qualità del proprio lavoro e della puntualizzazione espressiva individuale, non divergenti però dai temi insieme sviluppati: quelli cioè della specializzazione tipologica degli edifici, della separazione e ripetibilità degli elementi che li compongono, della forma costruita dell’architettura, della prefabbricazione come metodo di progettazione architettonica, infine della iterazione e variazione come temi del processo che determina la configurazione della forma. Questo scritto descrive un’indagine avanzata ma ancora in corso, non è una «critica» o una «storia» ma la descrizione di un intreccio e di una condizione che fa emergere domande, attorno a nessi come costruzione / progetto e autorialità / lavoro collettivo, testimoni di una sofferenza di «teoria» del progetto e della costruzione verso la ricerca di un modo di fare o di una linea di condotta che non si limiti solo a individuare «poetiche». In questa osservazione si leggono pratiche, legami concettuali e codici. Per poter descrivere lo stato d’avanzamento delle ricerche intraprese ho voluto tracciare di nuovo tre «profili» utilizzando alcune opere che distinguono delle linee lasciando aperte possibili interpretazioni e altri studi. Nel 1955 Mangiarotti e Morassutti fondano lo studio di via Lanzone 7, che resterà attivo per cinque anni, in forte integrazione con Aldo Favini ingenere progettista in proprio dal 1956. Questi tre personaggi singolari si ritrovano nella cultura architettonica milanese raccolta attorno alla Triennale, alle riviste «Domus» e «Casabella» e allo studio BBPR. Se con Favini, nutrito dalla formazione romana con Ridolfi e dalla scuola torinese di Colonnetti, Mangiarotti porta avanti l’esperienza di Losanna si può dire che con Morassutti i due incontrino l’ala «veneziana» dell’architettura italiana. Forse proprio per questa originale «ibridazione» le loro opere si connotano come saggi alla ricerca della radice costruttiva dell’architettura e dell’articolazione dell’abitazione per la vita contemporanea. La connotazione costruttiva e il forte sperimentalismo di Favini, Morassutti e Mangiarotti è evidente nelle architetture descritte di seguito, la loro natura modellistica ne fa punti fermi nei loro curriculum e passaggi chiave dell’architettura italiana del dopoguerra intorno alle questioni della tecnica.
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1. ANGELO MANGIAROTTI, BRUNO MORASSUTTI E ALDO FAVINI, CHIESA DI NOSTRA SIGNORA DELLA MISERICORDIA, BARANZATE, 1956-1958. FOTO A. MANGIAROTTI, ARCHIVIO MANGIAROTTI.
La cappella Romanelli nel cimitero di Udine (1955) è un minuscolo recinto richiuso da un muro con una lastra di copertura sospesa su da tre esili sostegni di ferro. Un astuccio in cemento che racchiude una lastra tombale, un piccola panca con coppa metallica e qualche lapide in ferro alle pareti. Unica apertura il varco da cui si accede e la larga feritoia continua sul perimetro. Manca la porta metallica forata con inserti di vetri colorati di Lucio Fontana, scomparsa da tempo1. Questa verosimile «opera prima» di Mangiarotti e Morassutti segna il carattere del lavoro comune con l’uso dei volumi, della luce, degli spazi, e con la ricercatezza nel dettaglio. Traspaiono esperienze e riferimenti, la casa 50 x 50 di Mies van der Rohe composta con l’elementare tettonica di Wright, il lavoro di Morassutti con Scarpa, di cui questa cappella è la prosecuzione, l’ambiente della Triennale. A Baranzate questa scarna costruzione si trasfigura nel luogo della comunità cristiana. Un muro a scarpa curva di calcestruzzo e ciottoli delimita lo spazio della parroc-
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chia di Nostra Signora della Misericordia (1956-1958, fig. 1). Il recinto porta all’interno le formelle della Via Crucis scolpite da Cosentino che circondano il volume bianco della chiesa. Una cappella o un oratorio piuttosto che una parrocchiale, appoggiata a due metri dal piano di campagna su un rilievo raccordato con il suolo da un pendio erboso. Entrando nel recinto ci si trova di fronte due scalinate affiancate, a sinistra una discendente dall’aula, a destra una in discesa verso l’ingresso all’ombra a fianco dell’acqua del fonte battesimale. Entrando dal basso si sale un percorso mistico: dalla penombra degli ambienti seminterrati inferiori attraverso lo scalone interno alla sovrastante luce dell’aula vetrata. Si esce dal largo portone scorrevole della chiesa discendendo dalla larga scalinata verso la campagna. All’interno quattro colonne portano due travi principali gettate in opera con incastrate sei travi longitudinali prefabbricate la cui ossatura è formata da trenta conci montati e post-tesi. Lo spazio è coperto da pannelli fra le travi, l’ordine architettonico decora le facciate mostrandone la sezione. La carpenteria metallica leggera del rivestimento complanare alla copertura regge pannelli composti da due lastre di vetro rigato resi isolanti da un foglio di polistirolo interposto. L’isolante garantisce il carattere dell’involucro rendendo all’esterno abbagliante il volume bianco della chiesa, mentre all’interno si diffonde la luce solare filtrata dalla materia biancastra. La sera l’aula si trasforma in una lanterna diafana che irradia debolmente lo spazio circostante del recinto sacro. La copertina di «Domus» 3632 fissa le luci interne alle travi dello stabilimento Morassutti che balenano nella sera lungo una strada alla periferia di Padova (1959). La costruzione esibisce una struttura a doppia campata, in pilastri e travi di cemento armato, con una leggera copertura in lamiera piegata, ordita da travi a tubo illuminate internamente. Il fianco dell’edificio, in lamiera all’interno e in mattoni verso la strada, esalta il contrasto fra la costruzione e l’inconsistenza nervosa della copertura.
2. ANGELO MANGIAROTTI, BRUNO MORASSUTTI, ALDO FAVINI, CASA IN VIA GAVIRATE, MILANO, 1959. FOTO M. INTROINI, ARCHIVIO FAVINI, POLITECNICO DI MILANO.
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La abitazioni in via Gavirate a Milano (1959-1962, fig. 2), sono costrette nell’esigua geometria del lotto in tre volumi cilindrici raggruppati attorno al nucleo distributivo centrale. Le piante circolari ospitano ciascuna un appartamento e la forte carica progressiva di questo edificio si adegua ai toni d’avanguardia della pianta centrale3. Elementi così ben distinti descrivono una «palazzina» innestata su un «condominio» milanese sintonizzato sul sogno di un futuro avveniristico, ma accoppiato al più concreto obbiettivo dell’abitazione di proprietà. Le case dell’avvenire entusiasmano gli sposini, annuncia il «Corriere Lombardo» poco prima della conclusione dei lavori4. Sul principio della continuità dei prospetti è invece il titolo di «Domus» per l’edificio di via Quadronno 24, (1960-1962)5. Il vuoto del giardino pubblico prospiciente è delimitato da due volumi frammentati in superfici di poca larghezza per otto piani di altezza, giustapposte ad angoli aperti nella loro disposizione verticale. La composizione finale ricerca regole nuove, legando alla libertà delle disposizioni interne degli abitanti-clienti la configurazione di una facciata «adattabile» ma domesticamente aulica.
Aldo Favini 6 Laureato nel 1942 a Roma Aldo Favini è assistente di Gustavo Colonnetti al Champ Universitaire Italien di Losanna (1943-1945) dove incontra Olivetti e Rogers, fra gli studenti Mangiarotti e Silvano Zorzi. Ha pubblicato in Svizzera Lezioni di cemento armato e Volte sottili in cemento armato, problema al centro degli studi di allora su cui ritorna con il suo primo articolo in patria7. Rientrato a Milano alla fine del 1945, Favini nel
3. ALDO FAVINI, DISTRIBUTORE DI CARBURANTI «AQUILA», SESTO SAN GIOVANNI, 1949. ARCHIVIO FAVINI, POLITECNICO DI MILANO.
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1949 costruisce la pensilina del distributore di carburante a Sesto San Giovanni come direttore tecnico «con partecipazione agli utili» dell’impresa Mario Tamburini di Milano. Per la realizzazione dei diversi progetti appaltati all’impresa inventa soluzioni che si distinguono come veri propri saggi incastonati in opere altrui, come due coperture per la Bocconi di Muzio8. Ma la pensilina è l’inizio della sua attività, lo colloca nell’ingegneria delle strutture e gli garantisce riconoscibilità9. Favini apre lo studio a Milano nel 1956 quando gli impegni da progettista prevalgono su quelli da costruttore. La pensilina per il distributore di carburante Aquila a Sesto San Giovanni (1949, fig. 3) è una leggera superficie ondulata in cemento armato. La sua sezione ripete l’ondulazione in una volta sottile continua di 5 centimetri di spessore. Da questa pensilina si riesce a percorrere un itinerario che per la copertura della mensa dell’università Bocconi (con Giovanni Muzio 1955) e per la chiesa di Canton Vesco a Ivrea (con Marcello Nizzoli e Mario Oliveri 1958), porta alla trave a sezione triangolare variabile per lo stabilimento Aperol (con Bruno Morassutti 1963). Nella serie si manifesta un pensiero centrato sulle volte sottili per separarne il principio statico, dalla ripetizione modulare di superfici corrugate, nella sezione triangolare. Nella trave per Aperol le due superfici delle facce curve sono irrigidite dal piano della chiusura: una figura isostatica che congela l’equilibrio elastico della struttura precompressa. I sistemi a elementi prefabbricati di copertura hanno come esordio la struttura della chiesa di Baranzate dove il montaggio dei conci prefabbricati procede concettualmente assieme al rivestimento di ferro e vetro dell’aula e prelude alla produzione dello spazio modulare dell’impianto industriale. Un’esperienza che si è definita low-tech10, da cui Favini procede nella sperimentazione per produrre un elemento di copertura per impianti industriali, sintesi di orditura primaria e secondaria come il deposito a Mestre (con Angelo Mangiarotti, 1962) che si avvale per la prima volta di un unico elemento che integra la struttura con il piano della copertura, prefabbricato gettato a piè d’opera, sollevato e posto direttamente sui pilastri. L’affinamento delle tecniche di produzione, trasporto e montaggio porta a isolare gli elementi della campata: copertura, pilastro, trave, dal rivestimento, l’elemento di copertura che ne risulta viene chiamato convenzionalmente «tegolo». Per Favini il brevetto di «coppone ALFA» è un tegolo a «T» a sagoma curva, capostipite di sistemi ancora in uso per edifici industriali prefabbricati. Il «coppone ALFA» riassume le tecniche del cemento armato precompresso con quelle delle volte sottili, assolvendo luci sino a 30 metri, posto in opera e finito solo con la saldatura dell’impermeabilizzazione predisposta. Uno degli edifici più rappresentativi di questo sistema è lo stabilimento Max Market a Trezzano sul Naviglio (1969). Caratteristica peculiare di questo «capannone» è l’appoggio della copertura su «telai zoppi» a sbalzo su un solo pilastro con appoggio «Gerber» delle travi in continuità. Tale tecnica ottimizza il momento flettente permettendo un buon risparmio nell’armatura.
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Nel confronto con Silvano Zorzi si può vedere come quelle di Favini non sono grandi opere ma costruzioni ordinarie per la città contemporanea, disegnate negli spazi e nell’ordine degli elementi sempre pensando alla migliore esecuzione. Costruzione e cantiere sono il sentiero della formazione di Aldo Favini già a Roma negli anni trenta con Mario Ridolfi e Vittorio Serao11. Da allora l’efficienza costruttiva è rimasto l’obiettivo costante che procede dalla produzione artigianale con i primi saggi di strutture precompresse tradotti in architettura, poi con piccoli edifici, veri e propri modelli di verifica sperimentale, che conducono alla produzione in serie. La struttura resistente per forma è il presupposto di Aldo Favini che si applica all’affinamento pratico della teoria dell’equilibrio e della coazione elastica enunciati da Colonnetti. Contribuisce così all’esperienza perseguita da Franco Levi e dall’Istituto di Coazione Elastica di Torino, che certifica i progetti in cemento armato precompresso italiani guidando i progettisti delle strutture in c.a.p. in una sorta di lavoro sperimentale collettivo. Per Favini si tratta di una pratica estesa che riflette la messa in opera e isola gli elementi costruttivi come cristallizzazione per parti del processo di edificazione in cui la cultura tecnica descrive la propria traiettoria sino a una crisi già in essere nei suoi termini: la necessità dell’intuizione statica e costruttiva nel disegno della forma e il nesso fra procedimenti calcolo e verifica sperimentale sul modello. Un problema fatto risaltare dal calcolatore nella progettazione, con lo smarrimento di una cultura di progetto che ne deriva e la necessità di nuovi mezzi di rappresentazione.
4. BRUNO MORASSUTTI E ALDO FAVINI, VILLA A TERMINI DI SORRENTO, 1964-1965. FOTO G. CASALI, ARCHIVIO MORASSUTTI, IUAV, VENEZIA.
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Bruno Morassutti 12 Bruno Morassutti si laurea a Venezia nel 1946 allo IUAV rinnovato da Giuseppe Samonà con Carlo Scarpa, nello stesso anno di Masieri, Gellner, Valle. Seguono due anni di collaborazione a Padova dal fratello Giovanni, ingegnere, formatosi a Vienna nel Werkbund di Holzmeister Behrens e Hoffmann. La voglia di praticare l’architettura lo porta a Wright, nel 1949 va a Taliesin su indicazione di Scarpa e Zevi, questo significa anche l’incontro con le opere di Mies van der Rohe a Chicago e Neutra in California con un itinerario americano di fotografie che lo documenta. Al rientro in Italia nel 1950 descrive la sua prima villa a Iesolo come necessità «di mettere in pratica un insegnamento». Una sedia e una libreria in tondino di ferro, per la sezione curata da Scarpa alla ottava Triennale nel 1947 hanno introdotto Morassutti nell’ambiente milanese. La frequentazione prosegue allo studio BBPR e porta all’incontro con Angelo Mangiarotti con cui apre nel 1955 l’attività comune, chiusa nel 1961. La villa a Termini di Sorrento13 (fig. 4) è forse l’opera più caratteristica di Bruno Morassutti. La villa, sulla Costiera di fronte a Capri, è costituita da due coperture bianche monolitiche a vela capovolta appoggiate a sbalzo su quattro colonne che proteggono due parti della proprietà senza alterare la configurazione del suolo. Gli ambienti sono fatti dai muri di pietra dei terrazzamenti riconfigurati in abitazione, suddivisi dagli arredi, racchiusi da un raffinato ed elementare rivestimento in vetro e legno. Il terreno è attraversato per la massima pendenza dall’asse prospettico di una scala che divide e unisce ambienti domestici e terrazzamenti. La copertura su quattro colonne è di Baranzate ma i serramenti sono arretrati sotto il guscio delle coperture sino a estromettere i quattro capitelli metallici che sublimano14 la decorazione altrimenti assente. Il raddoppio della copertura destinato alla dépendance, rimanda alle due case per vacanze15 a San Martino di Castrozza, nelle quali alla centralità delle ville Morassutti e Carlevaro16 si sostituisce l’articolazione della doppia altezza. Sempre a San Martino la questione seriale è ripresa nel condominio «Le Fontanelle»17, dove gli alloggi a doppia altezza sono allo stesso modo originati dall’impiego del legno e contenuti ciascuno in un involucro di cemento armato. Modulando le quattordici abitazioni unifamiliari in una costruzione che trova la sua regola nel sito e nel paesaggio, Morassutti realizza ne «Le Fontanelle» l’esperienza di arte programmata applicata con Enzo Mari all’edificio collettivo vincitore del concorso inArch Domosic18. Proprio il modulo che scandisce l’insieme in rapporto al sito è il principio del centro d’istruzione IBM a Novedrate inquadrato nel paesaggio della Brianza. Questo progetto inaugura lo studio Morassutti Associati19 . Verso le esperienze modulari ripeture è anche il progetto per l’edificio di Longarone dove la fabbrica si articola attorno alla struttura in metallo e alla spazialità del giunto fissando e nelle facciate ancora una volta opalescenti in vetroresina ondulata. L’idea dell’archetipo trilitico per elementi è svi41
luppata invece con il progetto per l’edificio industriale per Aperol, disegnato assieme a Aldo Favini20 in uno studio della forma strutturale naturale, portando la campata ripetuta della prefabbricazione alla ieratica esemplarità della sala ipostila. Un punto di convergenza di Morassutti Associati è l’alloggio tipo, elemento minimo ed essenziale di un più articolato edificio residenziale, come il progetto di concorso per il sistema di prefabbricazione «Spazio 3» per la ricostruzione del Friuli (1977) e il quartiere residenziale a Castelnuovo di Conza (Salerno, 1980-1981), realizzato per il terremoto dell’Irpinia nel 1980. In «Spazio 3», il principio costruttivo è la misura del telaio portante. Utilizzato per Castelnuovo di Conza e per un quartiere residenziale a Staranzano (Gorizia, 1979), è invece il sistema di prefabbricazione pesante «FacepCasa» (1979), che tenta un sostanziale passaggio verso l’uso di grandi elementi nell’edilizia residenziale.
5. ANGELO MANGIAROTTI, PROGETTO DI UN PADIGLIONE ESPOSITIVO ALLA XIV TRIENNALE DI MILANO, 1968. ARCHIVIO MANGIAROTTI.
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L’attività di Bruno Morassutti degli ultimi due decenni è impegnata in restauri, edifici religiosi e progetti di concorso21 fra cui quello per la Darsena a Milano22 nel 2004. Le ricerche di Morassutti si integrano qui con la necessità di approntare architetture per spazio pubblico.
Angelo Mangiarotti 23 Angelo Mangiarotti si laurea nel 1948 al Politecnico di Milano concludendo gli studi a cavallo della guerra contrassegnati dall’internamento al Champ Universitaire Italien di Losanna. Fra le sue prime esperienze la partecipazione agli allestimenti dell’ottava Triennale24,ma anche un pannello alla mostra sull’architettura italiana a Londra (1952) e il progetto della casa dei ragazzi al QT825. Nel 1954 è all’IIT a Chicago, dove incontra anch’egli i maestri e gli architetti europei in Usa, collabora con Wachsmann all’IIT e frequenta di casa Gropius a Lincoln. Dal 1955 al ritorno dagli Usa fonda lo studio con Bruno Morassutti. Dal 1961, dopo la separzione da Morassutti, Angelo Mangiarotti connota le sue opere da un indagine formale in attiva prosecuzione dei primi lavori. Non dimenticando il contatto costante con la cultura giapponese è sempre alla ricerca di «sintesi delle arti» in chiave architettonica. L’idea della costruzione, il disegno degli oggetti, degli interni e la scultura, si fondono in razionalità ludica che modella ogni occasione con sensibilità radicata nella produzione industriale. I componenti prefabbricati e il processo costruttivo, come per il deposito a Mestre (1962), il disegno dei sistemi, evolvono in ordini architettonici in cui la dimensione «seriale» si unisce alla tensione per la forma elegante26 in tutti gli stabilimenti sino a UNIFOR a Turate (1978). Non diversamente da via Quadronno, gli edifici per abitazione di Monza, (1972) e di Arosio (1977), si innestano nei temi della variazione seriale e con la prefabbricazione a pannelli modulari, che si sviluppano come sistema dal progetto per Piombino (1961)27. Ma le due opere che sintetizzano l’idea di Angelo Mangiarotti dell’architettura come paradigma mimetico della natura ricomposta nell’artificio della costruzione sono il Padiglione IRI alla Fiera del Mare di Genova (1963) e quello non realizzato per la XIV Triennale del 1968 (fig. 5). Il Padiglione di Genova (1963) è un’elementare copertura curva sospesa su quattro colonne che accompagna la linea dell’orizzonte marino, proteggendo la piattaforma in pietra del basamento su cui si dispone l’esposizione, da qui si accede a una sala conferenze al di sotto. Liscia e compatta come un osso di seppia la carpenteria aerea della copertura, cui il colore bianco e la natura metallica danno un vago aspetto navale, è realizzata dall’accostamento successivo di travi d’acciaio in un’orditura composta di lastre assemblate all’interno, convesse sull’estradosso e concave all’intradosso. Il progetto di Genova si avvale di pochi elementi analoghi a quelli di Baranzate eccezion fatta per il rivestimento assente. In entrambi i casi l’edificio elementare gioca con il paesaggio, la «vasta piana del mare» o la campagna milanese coronata da «monti sorgenti dall’acque». 43
Il Padiglione per la XIV Triennale del 1968, è la ricerca della vocazione espressiva dei gusci di fibro-resina e schiuma poliuretanica. Colato negli stampi il guscio del disegno industriale ritrova qui il carattere plasmabile della forma «gettata» proprio del cemento armato, come il terminal TWA dell’aeroporto di New York di Saarinen (1962). Nella configurazione del padiglione della Triennale il sistema degli appoggi a terra determina la sagoma della costruzione, le vedute interne e verso l’esterno fissano, assieme all’allestimento, la sequenza delle convessità e concavità degli spazi. La forma è armata da una dorsale strutturale centrale che appoggia al centro al suolo la successione dei gusci. In un modello di studio, quattro sezioni trasversali su fondo grigio, si mostra il formarsi della dorsale d’appoggio. Il lavoro incessante di Mangiarotti si completa con progetti per il sistema passante di Milano (1982-2009). Stazioni, sotterranei grandiosi, edifici metallici, pensiline eleganti e luminose, fra cui risaltano quelle di Porta Venezia, Rogoredo e Certosa. Tuttavia la sua opera sembra concludersi in silenziose sculture come la lastra in cor-ten segnata dal ricordo della strage di Sant’Anna di Stazzema (2000). Un’opera che ci rammenta la porta mancante della tomba Romanelli (1955) da cui molte di queste cose sembrano generate. Nelle opere di Favini, Morassutti e Mangiarotti che abbiamo descritto ciascuno ha portato avanti temi e problemi con radici simili: intenzioni sulla costruzione, sull’architettura e sul disegno industriale. Possiamo intuire dalle tracce documentate quanto possa esser derivato dal crogiulo del lavoro comune e quanto sia un’impronta di esperienze, codici o sensibilità individuali. In queste opere troviamo segnato un percorso che ne indica il valore ed è questione generale d’architettura: dalla forma costruita come enunciato dell’opera integrata alla separazione e ripetibilità dei suoi elementi, dalla prefabbricazione al disegno industriale dei componenti come ordine architettonico, della iterazione e variazione nella forma come risultato di un procedimento del progetto. Le soglie di questa serie non significano immediatamente un cambio disciplinare, dall’architettura all’ingegneria o al disegno industriale, ma propongono il superamento innovativo delle tecniche costruttive tradizionali nell’industrializzazione e nella società di massa: la condizione del pensare e dell’operare in architettura nel nostro tempo.
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1 Cfr. R. MARTINIS in G. BARAZZETTA e R. DULIO, Bruno Morassutti, 1920, 2008 progetti e opere, Electa 2008. 2 A. MANGIAROTTI, B. MORASSUTTI, G. MORASSUTTI e A. FAVINI,Edificio industriale a Padova, in «Domus», 1960, n. 363. 3 La soluzione di via Gavirate è riconducibile anche alla Johnson Wax Research Tower a Racine, (Wisconsin, 1944-1950) di F. L. Wright, già commentata da Morassutti nel 1955 e ripresa nel progetto di grattacielo a Genova (1955), con Mangiarotti e Favini, e in quelli di una casa albergo a Milano e della villa Morassutti a Lugana (Sirmione, Brescia, 1955-1958), entrambi con Mangiarotti, nei quali lo schema strutturale della torre è fuso all’espediente del pilastro a fungo messo in campo da Wright nel corpo attiguo alla Research Tower, ultimato più di dieci anni prima. Cfr. P. C. SANTINI, Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti:1955-1959, in «Zodiac», 1960, n. 5, pp. 170-179, che proprio in riferimento alla tipologia dell’elemento circolare a sostegno centrale, allude a una possibile ascalarità di temi formali nel disegno industriale degli oggetti realizzati negli stessi anni da Mangiarotti e Morassutti. 4 Le case dell’avvenire entusiamano gli sposini, in «Corriere Lombardo», 1961, 18 maggio. 5 Sul principio della continuità dei prospetti, in «Domus», 1960, n. 367; cfr. anche Sul principio..., in «Domus», 1963, n. 398. 6 G. BARAZZETTA (a cura di), Aldo Favini architettura e ingegneria in opera, Clup, Milano 2004. 7 Calcolo di una volta sottile a forma di conoide, in «Il cemento», 1946. 8 Mensa del Pensionato (1955) e Aula Magna (1962) dell’Università Bocconi, Milano, con Giovanni e Lorenzo Muzio. 9 C. SIEGEL, Strukturformen der Modernen Architektur, Verlag Georg Callwey, Monaco 1960. 10 Definizione che esprime la capacità di comporre con strutture produttive artigianali processi e edifici innovativi, coniata da Stefan Maeder per Baranzate (seminario Zhw Winterthur, 31 ottobre 2005). Per Tullia Iori Baranzate assieme al complementare cantiere del Palazzetto dello Sport di Roma di Nervi esemplificano i termini dell’ingegneria italiana (seminario Iuav Venezia, 16 novembre 2010) cfr. T. IORI, P. L. Nervi, Motta Architettura, Milano 2009; M. MARANDOLA, La costruzione in precompresso, Il Sole 24 Ore, Milano 2009. 11 Aldo Favini studia alla scuola per periti edili di Roma (1930-1935) dove insegnano l’architetto Mario Ridolfi e l’ingegner Vittorio Serao. Un mese prima del diploma viene coinvolto da Ridolfi e Serao nel progetto di
concorso per tre varianti di ponti, «Maillart», «Risorgimento» - Hennebique, «Margherita» sul Tevere al Foro Mussolini (1935). A Favini viene chiesta la verifica della soluzione «Risorgimento» , cfr. la biografia in G. BARAZZETTA (a cura di), Aldo Favini architettura e ingegneria in opera, Clup, Milano 2004. 12 G. BARAZZETTA E R. DULIO (a cura di), Bruno Morassutti 1920- 2008: opere e progetti, Electa, Milano 2009. 13 Villa von Saurma, Termini di Sorrento (1962-1964) con Aldo Favini. 14 Villa Morassutti di San Martino di Castrozza (1955) con Angelo Mangiarotti. 15 Case a schiera per vacanze a San Martino di Castrozza (1957-1960) con Angelo Mangiarotti. 16 Villa Carlevaro a Segrate (1969-1970) con Maria Gabriella Benevento, Giovanna Gussoni, Fernanda Buccino e Salvatore Di Pasquale 17 Unità residenzaile «Le Fontanelle», San Martino di Castrozza, (1964) con Andrew Powers. 18 Progetto vincitore del concorso inArch Domosic (1963) con Enzo Mari. 19 Bruno Morassutti, l’unione con tre architetti più giovani Mario Memoli, Giovanna Gussoni, Maria Gabriella Benevento. 20 Progetto dell’edificio Aperol a Padova, (1962-1974) con Mario Memoli, Giovanna Gussoni, Maria Gabriella Benevento. 21 Garibaldi Repubblica a Milano (1991), con Alberto Baccega, Maria Gabriella Benevento, Carlo Conti, Mario Memoli, Giovanna Gussoni. Concorso per «Una porta per Venezia» (1990-91), con Alberto Baccega, Alessandro Colombo, Carlo Conti, Giovanna Gussoni. 22 Concorso internazionale a inviti per la Darsena a Milano (2004), con Baccega, Cappa+Stauber, Conti, Gussoni. 23 F. BURKHART (a cura di), Angelo Mangiarotti opera completa, Motta, Milano 2010. 24 Anche essenziale il cortometraggio «Posizione dell’architettura» con Gatto, Malipiero e Veronesi 25 «Italian Contemporary Architecture», RIBA, Londra marzo-aprile 1952 e in «Domus», 1953, n. 283. 26 Cfr i sistemi FACEP 1964/74, U70 ISOCELL 1969 e BRIONA 1972. 27 Progetto per un complesso residenziale per dirigenti industriali a Piombino (1961); cfr. anche le ville Bianchi (1968) e Pederzoli (1971) e il complesso turistico a Murlongo (1971).
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Architectural and construction design in Angelo Mangiarotti’s, Bruno Morassutti’s and Aldo Favini’s work
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he design projects and works that Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti and Aldo Favini, carried out in the few years of their collaboration express a great deal of agreement in terms of construction. Each of the three designers’ independent activities reveals different paths of investigation in line with the obsessive quest for quality in their own job and expressive clarification marked by their personal attitudes. These three professional experiences include topics ranging from the specialized typology of buildings to the separation and repeatability of the architecture elements, from the bulit form of architecture to the concept of prefabrication as an architectural design methodology, iteration and variation as typical themes of the process determining the very configuration of the form. This kind of collaboration recalls typical situations of the national architectural debate regarding Italy’s reconstruction and industrialization process, where the characteristics of Italian architecture and its modern tradition can be easily glimpsed, as well as the specific features of the so called «Milan’s» architecture. Yet, this definition may be restrictive and misleading, since it is peculiarly pointing out by the fluctuation of a hypothetical Milan’s «core» towards the Turin’s, Rome’s and Venice’s poles of influence, as it can be grasped by their three biographies. A sort of representation of the “original features” of contemporary Italian architecture. We can eventually define it as a dialogue between leading characters, with different fortunes and successes, as it can be observed thanks to the several visions of architectural cultures and witnessed by the publication of their works. Furthermore, some of the stages that design and construction have gone through in our time can be recognized in the material documents regarding these experience. More precisely, it is possible to find the clues of the partiality of design that considerably marks the difference between designing in the late 1930s and the postwar period, and doing it at the end of twentieth century. The threshold we are dealing with does not immediately and necessarily indicate the transition from architecture to engineering or industrial design. Yet, it goes beyond the traditional planning, building and production techniques, to approach a different way to practice architecture. This is a clue of the crisis of a univocal artistic “authoriality”, of its dispersion and later reconfiguration into forms that resemble the “master buiders” of the constructors’ tradition, of a moment where multiple roles and responsibilities, which had to coordinate carefully in collective de-
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signing and construction practices, arose. A condition that was just apparently generated by the distribution of competences but it was actually dictated by the division of labour, by techniques, processes and procedures that concern representation and realization in the “industrial” building production. A condition that moved far beyond the initial separation between architects and engineers in the search of close collaboration, with other well-known examples as the aforementioned ones, overcoming stereotypes that divide the form to design as aspect, structure, building procedures, energy and mechanical plants, etc. This text describes an ongoing investigation. It is not a “critic” or a “history” but it is the description of a bind and a condition that raises, thanks to these designers’ plans and works, questions regarding construction / design and authoriality / collective work and witnesses the “theoretical” sufferance of technique, as the ‘master on matter’ that characterizes who works in arts or techniques - the search for a way to do things - a line of conduct rather than a way to manage - that does not just pinpoint “poetics”. This observation originates connections with procedures and works, conceptual links and codes. In order to describe the state-of-the-art of the recent research on “modern tradition” I decided to compile three “profiles” once again and I distinguished them by means of works that mark some specific lines by leaving possible interpretations and other studies open.
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Tecnica e architettura industriale: il cantiere Olivetti, due possibili protagonisti, alcune riflessioni PATRIZIA BONIFAZIO
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a sperimentazione strutturale in campo industriale conosce nel cantiere Olivetti molti e diversi progetti1. Dentro questo grande cantiere, che dura un tempo molto lungo (dal 1934 con i primi interventi di Figini e Pollini, fino al 1988 ultima grande commessa per Palazzo Uffici 2 a Ivrea, a opera di Gino Valle), si possono riconoscere infatti protagonisti ed esperienze che fanno della Olivetti uno dei «luoghi» obbligati per lo studio del progetto strutturale italiano, da non vedere tanto come espressione della grande tradizione ingegnerestica italiana di Nervi o di Morandi, quanto come luogo capace di stare al passo della produzione industriale italiana in campo architettonico e di permettere l’applicazione raffinata di sistemi costruttivi, dal cemento precompresso all’applicazione del brevetto di Aldo Favini, alla sperimentazione della costruzione metallica secondo il brevetto Covre2. Diversi progetti e diversi protagonisti nello stesso ««luogo»» consentono di approcciarsi ad alcune questioni cruciali: ad esempio, le architetture industriali (e quelle per i servizi all’industria) di Ivrea, viste in successione, possono essere pensate come un catalogo che mostra come le diverse generazioni di architetti e tecnici si rapportano al tema dell’architettura industriale e, in senso ampio, come affrontano la questione della tecnica in un contesto3, come quello Olivetti in cui la parola «tecnica» è chiave di lettura fondamentale e alimentata nel tempo da diverse riflessioni. O ancora, riflettendo sugli stessi esiti dei progetti architettonici e delle soluzioni strutturali (scelte che non comportano mai nel mondo Olivetti la messa a punto di soluzioni poi riprodotte in nuovi progetti), se la vera continuità che tiene insieme queste architetture, al di là della singolare committenza, non sia quel nucleo di tecnici impegnati in modo diretto nell’organizzazione della fabbrica: tecnici che concorrono alla formazione dei quadri dirigenti, riflettono sui concetti di staff e di line, di human relations (temi centrali nello scientific management e nell’organizzazione del lavoro), già in grado alla metà degli cinquanta di sostenere un lavoro di progettazione integrata4, partecipi alla creazione architettonica, seppure attenti alla divisione delle mansioni5, e coinvolti in quel cultural environment che contraddistingue la Olivetti. Tecnici le cui tracce sono frammentarie, forse meno visibili, ma non totalmente assenti nei disegni, o nelle carte che accompagnano il lavoro dello storico. A queste due riflessioni, se ne può forse aggiungere un’ultima, importante, che nasce dalla constatazione dell’unicità delle architetture per la Olivetti e del clima culturale in
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cui esse si collocano: il mondo Olivetti non è il luogo di elaborazione di una nuova cultura architettonica, ma di un’autonoma architettura6. Se questo è vero, l’esperienza della fabbrica di Ivrea può diventare a tutti gli effetti l’oggetto di una microstoria7, capace di diventare motore della riscrittura di un tratto importante dell’architettura italiana del Novecento. La questione della tecnica è cruciale, già a partire dalla prima rivista del mondo Olivetti, «Tecnica e Organizzazione», che dal 1939 al 1944 (con uscite non periodiche) si occupa di presentare i prodotti Olivetti e tutte le novità nel campo dell’organizzazione dei diversi reparti che compongono l’organigramma della fabbrica, della misura del lavoro, del calcolo applicato alla meccanica, via via fino ai singoli esempi di architettura industriale, presentati soprattutto per le loro caratteristiche riferite alla grandezza degli edifici e alle condizioni di spazio e di luce in cui si svolge il lavoro8. A fornire un possibile perimetro del terreno di cui si nutre l’idea di tecnica nel mondo Olivetti sono i progetti (politici e di architettura), i libri, le relazioni, che costituiscono vere e proprie «biblioteche», serbatoi di riflessioni che nel tempo lungo di vita della fabbrica conoscono interessanti declinazioni. Un mondo ampio che contiene prima tra tutte la stessa, reale, biblioteca di Olivetti. Dal 1934 e fino al 1943, diversi volumi e riviste compongono una biblioteca ragguardevole, da intendersi ambiguamente come «personale» e «di fabbrica»: molte riviste americane e francesi, tra cui la «Harvard Business Review», le «Annales d’Histoire Econimiques et sociales», la «Documentation economiques, Sciences Politiques et sociales», il «Journal of the Political Economy», la «Revue Internationale du Travail»; molte riviste di architettura italiane, come «Costruzioni-Casabella», e, importanti e internazionali, come «AC»; nessun manuale di costruzione degli edifici industriali9; molti libri di autori che si interrogano su questioni cruciali del tempo alle soglie della guerra, come ad esempio Hermann Keyserling e Lionel Robbins10, a cui il progetto delle Nuove Edizioni Ivrea offrirà un’ulteriore, ampio panorama di lavoro11. Nel dopoguerra, sarà il Movimento Comunità con la pubblicazione di pamphlet politici dal titolo significativo come Fini e fine della politica12, Tecnica delle riforme13, Tempi nuovi metodi nuovi14; e soprattutto le Edizioni di Comunità, a fornire il filo della riflessione sulla tecnica, con la pubblicazione di quei libri che si occupano dell’aggiornamento delle ricadute della tecnica sul lavoro umano e sull’applicazione dello scientific management nel contesto della produzione alle soglie del boom economico. A interessare quindi questo scritto non sono tanto la ripubblicazione nel 1952 del classico volume di Taylor15 o la traduzione dell’altrettanto classico volume di Lewis Mumford, Arte e Tecnica, nel 196116, ma la pubblicazione di autori come Georges Philippe Friedmann17, e Franco Ferrarotti18, che meglio di altri, pur presenti nel catalogo delle Edizioni, rendo-
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1. STABILIMENTO OLIVETTI A MERLO, ARGENTINA, 1954 (INCARICO); 1958-1961. ARCHIVIO TEKNE, MILANO.
no evidente quel continuo riposizionamento dei saperi (tecnici e inerenti le scienze sociali) rispetto alla questione dello scientific management a fronte della critica alla tecnica (o meglio al tecnicismo della tecnica). Accanto ai libri, gli incontri, che danno luogo a progetti, come quello con Gustavo Colonnetti per il catalogo edilizio e costruttivo dell’UNRRA - Casas dal 1948 e il milieu italiano in Svizzera negli anni del confino di
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2. «ZODIAC», RIVISTA SEMESTRALE DI ARCHITETTURA, GENNAIO 1962, N. 9: SUL FRONTE DALLA COPERTINA, LO STABILIMENTO OLIVETTI A POZZUOLI; SUL RETRO, UN RITRATTO DI MAX BILL.
Olivetti; e i continui seminari che si interrogano sul mondo della fabbrica, come quello - molto citato - organizzato da Luciano Gallino, sulle questioni della sociologia di fabbrica19, costituiscono ulteriori canali di circolazione di saperi, utili anche a misurare le questioni della tecnica nel tempo. Da un primo studio dei progetti realizzati in Olivetti, sia italiani che esteri (fig. 1), a partire dal secondo dopoguerra e fino agli anni settanta, due sono i nomi che emergono nei team di lavoro vicino ai nomi dei diversi architetti: Antonio Migliasso e Roberto Guiducci. Alcuni tratti sembrano avvicinare le biografie - ancora scarne per gli storici - di questi due tecnici, che intervengono in momenti diversi del processo di costruzione (il primo, infatti, ingegnere strutturale, nato nel 1923, allievo di Levi e laureatosi in ingegneria al Politecnico di Torino, si interessa per tutti gli anni Cinquanta del solo calcolo delle strutture in cemento armato precompresso degli edifici Olivetti; il secondo, laureatosi nel 1948 al Politecnico di Milano in ingegneria civile, si dedicherà all’organizzazione della produzione del progetto). Entrati in Olivetti, il primo nel 195120 e il secondo nel 195221, entrambi vivono esperienze di carattere politico, a cui sono chiamati per credo e per capacità tecnica: Migliasso sarà assessore all’urbanistica del Comune di Ivrea per la lista Comunità nel 195622; Guiducci fonderà la rivista «Ragionamenti» nel 1955 con Franco Fortini e Franco Momigliano, responsabile del centro studi economici della Olivetti23. Negli anni sessanta entrambi conoscono un signi-
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ficativo cambiamento di prospettiva professionale, segno anche di un mutato clima dentro la fabbrica Olivetti: nel 1958 Guiducci fonda la Tekne, come società di consulenza nel campo dei servizi all’architettura e negli anni sessanta - per rimanere alla sola committenza Olivetti - seguirà tre significativi progetti, quello del centro di calcolo a Rho, su progetto di Le Corbusier, con Emilio Aventino Tarpino24; quello del Residenziale Est su progetto di Igino Cappai e Pietro Mainardis a Ivrea (figg. 3-4), e infine quello dell’ampliamento di Scarmagno (fig. 5), nel 1968, intervenendo in tutti in modo diretto nel progetto degli architetti (per il progetto iniziale di Cappai e Mainardis la Tekne proporrà l’uso di elementi prefabbricati sia per la struttura che per i tamponamenti25) e con competenze che si esplicano dalla scala architettonica a quella territoriale (per Scarmagno, l’azione di Guiducci arriverà a riguardare tutto il comprensorio industriale, compresi gli studi sull’immigrazione forzata della manodopera verso Romano Canavese26). Antonio Migliasso interviene direttamente nella definizione di progetti legati non solo a Olivetti: sebbene, a differenza di Guiducci, il suo milieu professionale e sociale rimanga quello della Olivetti, la collaborazione con Alberto Galardi nella progettazione dello stabilimento Marxer a Loranzè nel 195927 apre infatti a una serie di progetti fuori del mondo eporediese, come quello per la Camera di Commercio di Torino con Mollino, Graffi e lo stesso Galardi28 (1964-1973), che permettono a Migliasso di affinare la sua capacità di calcolo e sperimentazione delle strutture e di gestione del progetto, messa a frutto successivamente nel cantiere Olivetti Harrisburg negli Stati Uniti29, dapprima nella definizione del team di progetto, e poi nella ricerca di soluzioni eleganti per le coperture della fabbrica progettata da Kahn30. Il dato più rilevante rimane l’acquisizione - grazie alle visite alle architetture, ai cantieri e agli studi di architettura condotti con l’aiuto dei tecnici che stanno lavorando al cantieri di Harrisburg31 - di conoscenze maggiormente legate alle tecniche di produzione dell’architettura, se al ritorno da Harrisburg e sulla scia dell’entusiasmo per il mondo americano della costruzione, sul modello dell’americana Barcley White Migliasso fonderà la Sertec, società di engineering, che per tutti gli anni sessanta, fornirà progetti e consulenze sia in campo architettonico che strutturale in Italia e all’estero a una committenza allargata, seppure la Olivetti rimarrà quella principale32. In particolare l’attività di pubblicista svolta da Guiducci, già a partire dalla metà degli anni cinquanta può rendere più trasparente il passaggio verso un ruolo maggiormente propositivo a livello progettuale e strutturale che i tecnici come Guiducci stanno assumendo dentro la Olivetti. Guiducci si cimenta nella scrittura di articoli nati come descrizioni a posteriori dei cantieri delle architetture Olivetti: per «CasabellaContinuità» sulla costruzione della fabbrica Olivetti a Pozzuoli33, a Buenos Aires34 e
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3. UNITÀ RESIDENZIALE EST, IVREA, PROGETTO DI IGINO CAPPAI E PIETRO MAINARDIS, PLASTICO DEL PRIMO PROGETTO, [1968]. ARCHIVIO TEKNE, MILANO.
4. UNITÀ RESIDENZIALE EST, IVREA, MODELLO DELLA STRUTTURA PROPOSTO DALLA TEKNE, [1968]. ARCHIVIO TEKNE, MILANO.
a San Paolo in Brasile35, sulla progettazione di Ignazio Gardella36 e, per «L’architettura, cronache e storia» sul Centro dei servizi sociali a Ivrea37. Anche per la natura delle riviste in cui appaiono, gli articoli sono molto lontani dalla letteratura strettamente tecnica o, meglio tecnologica corrente38, che circola tra i tecnici delle fabbriche del tempo o nelle facoltà di architettura39, e da quei repertori in bilico tra manuali e rassegne, pur molto in voga in quegli anni, in cui funzionalità e espressione strutturale sono il cardine della scelta degli esempi presentati40. L’articolo che più di altri forse meglio mette in luce il nuovo ruolo propositivo e progettuale di questi tecnici è quello che appare sulla rivista «Zodiac» (fig. 2), rivista nata anch’essa in ambito Olivetti nel 1958 e che si contraddistingue nel panorama italiano per la chiara proposta di riflessione sulle «forme», sulla «morfologia» e sul concetto stesso di «struttura» coniugati con l’idea di «tecnica», intesa come tecnica costruttiva e come tecnica della progettazione41. Il numero della rivista su cui compare l’articolo di Guiducci ospita tra gli altri un lungo articolo dedicato a Max Bill42, il cui ritratto campeggia nel retro di copertina, e un altro, dedicato al Padiglione del Veneto di Carlo Scarpa all’esposizione di Italia ‘6143. La compresenza di questi articoli da un lato rimarca la riflessione sulla forma, vero passepartout critico nel passaggio caratterizzante il panorama culturale degli anni cinquanta e sessanta, con la sostanziale coincidenza tra immaginazione strutturale e creazione artistica; dall’altra, la raffinata comprensione della distinzione tra tecniche di produzione del progetto e metodi di gestione del processo progettuale. L’articolo44 fa il punto sull’architettura industriale. Il suo autore offre al lettore la possibilità di riflettere non su un repertorio, ma su una sorta di tassonomia critica della produzione architettonica industriale italiana corrente: usando un linguaggio critico marcatamente crociano, e conscio che la fabbrica è vista come «mero luogo di investimento funzionale al ciclo produttivo», «una macchina per fare altre macchine», Guiducci distingue due correnti fra gli architetti italiani produttori di architetture industriali: quella «neo-artigianale», di coloro cioè che «disperando nei limiti e nei vincoli posti dall’industria, del poter fare dell’architettura, hanno preferito, seppure artiginalmente ritornare a quest’ultima», producendo modelli per l’industria futura. Questa corrente comprende per Guiducci Ignazio Gardella e lo stabilimento Borsalino ad Alessandria («lo stabilimento è una casa» e i segni dell’industrializzazione sono dati dai marcapiani e dai contorni delle finestre prodotti di cemento armato costruiti fuori opera); Marco Zanuso nello stabilimento di Palermo e il progetto Olivetti di San Paolo in Brasile (in cui l’architetto è riuscito «nell’indifferenza gigantesca della pianura e foresta brasiliana a segnare il punto e indicare le tracce dell’uomo»), la centrale termoelettrica di Samonà ad Augusta, gli stabilimenti di Figini e Pollini a Sparanise (dove il senso dello stabilimento «è una città»). Altra corrente è quella «neoindustriale», «portata alla rinuncia critica», dove l’adesione all’industria e quindi ai problemi immedia-
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5. STABILIMENTO OLIVETTI, SCARMAGNO, SCHEMA PLANIMETRICO PRIMA FASE, PROPOSTA DELLA TEKNE, GENNAIO 1967. ARCHIVIO DELL’UFFICIO TECNICO OLIVETTI, IVREA.
tamente tecnologici hanno il sopravvento «su quelli di creare nuove forme per nuovi modi di vivere, di abitare, di lavorare»: «L’architetto diventa ingegnere, e di più meccanico». In questa seconda corrente Guiducci include la fabbrica di Nervi a Roma, quella di Morandi a Frosinone («fabbriche che soffrono della medesima limitazione: strutture ardite, ricerche suggestive annullano poi la loro forza in un insieme sciatto e spesso banale»), quella di Vittoria ad Agrate («qui gioca l’equivoco che basti usare al massimo livello l’industria contemporanea per fare dell’architettura contemporanea»), il progetto di Zanuso per la Olivetti in Argentina, la fabbrica di Valtolina a Settimo Torinese. Infine a una corrente mista, composta soprattutto da esempi Olivetti, quali gli stabilimenti di Figini e Pollini per la ICO di Ivrea e lo stabilimento di Pozzuoli di Luigi Cosenza, quello di Vittoria a Ivrea, e tra i giovani architetti, quello di Gino Valle per le Arti Grafiche a Udine e quello di Francesco Dolza per le Officine meccaniche a Torino. Per Guiducci «stretta nella ferrea legge dello sviluppo quantitativo, l’industria non è stata in grado di comprendere che ciò che le suggeriva il movimento architettonico moderno era precisamente di razionalizzarla nel qualitativo. Il perdurare del preconcetto riduttivo che il massimo dell’efficienza possa essere conseguito solo strumentalizzando la vita dell’accumulazione, ha condotto, per mancanza di studio degli altri problemi,
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a realizzare un patrimonio di case inadatte, e quindi controproducenti anche all’efficienza industriale, per ogni classe di lavoratori dagli operai ai dirigenti; a costruire un patrimonio di fabbriche che si adattano quasi sempre malissimo alle esigenze moderne della produzione, alla sua elasticità, al suo bisogno di confortevolezza anche fisica e psicologica»45. Questo tipo di approccio porta Guiducci anche a rileggere la città stessa come prodotto industriale: «Il prodotto dei prodotti industriali del nostro secolo è la città in cui viviamo, la fabbrica, gli uffici in cui ci rechiamo al lavoro, le strade che percorriamo»46. Discorso autonomo assumono per Guiducci quelle grandi opere singolari, «sempre di più numerose e frequenti nel nostro tempo», come dighe, raffinerie, centrali elettriche e atomiche, esempi esenti per la loro stessa natura dall’ambiguità delle due dimensioni del lavorare e del vivere in cui convergono tecnica e espressione artistica. In esse, «la presenza dell’uomo è rara e sporadica». In questi oggetti, per Guiducci, la costruzione «può raggiungere una purezza non contraddittoria e l’architettura, liberata dalle difficoltà del compromesso, riesce a raggiungere insperati limiti di coerenza»47. Nel futuro, per Guiducci, «la fabbrica non tollererà l’architettura come superfluo sopra un luogo di ineluttabile fatica e di arbitraria sottomissione, ma la richiederà come fatto necessario della sua raggiunta maturità». Gli articoli di Guiducci testimoniano della maturità dell’approccio progettuale e del significato assunto dal tema dell’architettura industriale negli anni sessanta, non più visto come «occasione», ma come campo in cui esercitarsi in descrizioni, interpretazioni e interventi sulla realtà. Le azioni di Antonio Migliasso e Roberto Guiducci si sciolgono in una dimensione in cui la loro formazione ed esperienza di tecnici diventa anche etica (rapportandosi con il lavoro, inteso non solo come produzione) e politica (rapportandosi con la collettività e l’organizzazione della pubblica amministrazione). Se i tratti delle loro biografie aiutano a comprendere alcune delle caratteristiche del mondo Olivetti, resta da comprendere se possono far riflettere su altri «luoghi» dell’Italia del boom economico.
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1 Questo scritto presenta in sintesi alcune riflessioni parte di una ricerca più ampia e articolata, dal titolo Olivetti/Ivrea, Cultura di fabbrica e cultura architettonica tra anni trenta e anni settanta del Novecento, in corso di stesura. 2 Un elenco delle architetture volute dalla Olivetti a Ivrea si trovano in: D. BOLTRI, G. MAGGIA, E. PAPA e P. P. VIDARI, Architetture olivettiane a Ivrea, Gangemi editore, Roma 1998; per una lettura critica anche della produzione estera, P. BONIFAZIO e P. SCRIVANO, Olivetti costruisce, Skira, Milano 2001. 3 In questo senso potrebbe essere utile rileggere i progetti per gli edifici per le Officine Olivetti di Luigi Figini e Gino Pollini progettate dal 1934 alla seconda metà degli anni cinquanta e la contemporanea produzione teorica e progettuale condotta da Eduardo Vittoria per Olivetti nella seconda metà degli anni cinquanta. 4 Intesa come rapporto continuo con quelle discipline non propriamente architettoniche, ma provenienti dalla cultura della fabbrica, come la sociologia e la psicanalisi, quest’ultima entrata in Olivetti già prima della seconda guerra: C. MUSATTI, F. NOVARA, R. ROZZI e G. BAUSSANO, Psicologi in fabbrica: la psicologia del lavoro negli stabilimenti Olivetti, Einaudi, Torino 1980. 5 La questione della continua riorganizzazione dei quadri e delle interdipendenze dei diversi settori che compongono la fabbrica è, per Luciano Gallino, uno dei punti di forza dell’espansione della fabbrica stessa: L. GALLINO, Progresso tecnologico ed evoluzione organizzativa negli stabilimenti Olivetti, 1946-1959: ricerca sui fattori interni di espansione di un’impresa, A. Giuffrè editore, Torino 1960. 6 C. OLMO e P. BONIFAZIO, Serendipity a Ivrea, in V. GREGOTTI e G. MARZARI, Luigi Figini e Gino Pollini architetti, Opera Completa, Electa, Milano 1997, pp. 97110. 7 P. LANARO, A venticinque anni da L’eredità immateriale, Franco Angeli Editore, Milano 2011, in particolare il bel testo di Angelo Torre, Comunità e località, pp. 25-57, i cui temi ritornano nell’intervento introduttivo di Carlo Olmo al seminario «La concezione strutturale. Ingegneria e architettura in Italia negli anni cinquanta e sessanta», Torino 5-7 dicembre 2012. 8 P. BONIFAZIO, La rivista «Comunità»: il territorio e i suoi confini intellettuali, in C. OLMO (a cura di), Costruire la città dell’uomo. Adriano Olivetti e l’urbanistica, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pp. 111-143. 9 Archivio Storico Olivetti, Fondo Adriano Olivetti, Documenti vari, corrispondenza. Si veda anche La biblioteca di Adriano Olivetti, Collana Intangibili, Fondazione Adriano Olivetti, Roma 2012, con un’introduzione di Laura Olivetti. Questa schedatura riguarda i volumi contenuti nello studio di Adriano Olivetti, ora conservato a Roma, e non contempla ancora la catalogazione dei volumi personali, custoditi a Villa Belliboschi a Ivrea e la catalogazione ragionata dell’emeroteca, di
grande interesse ai fini di questo studio, conservata presso l’Archivio Storico Olivetti. 10 H. KEYSERLING, Analyse Spectral de l’Europe, Stock, Delamain et Boutelleau, Parigi 1930, acquistato nel 1939; L. ROBBINS, Economic Planning and International Order, McMillan, Londra 1937, acquistato nel 1940, Archivio Storico Olivetti, Fondo Adriano Olivetti, Documenti vari, corrispondenza, ma l’elenco è molto lungo. 11 Fondazione Adriano Olivetti, Nuove Edizioni Ivrea, elenco delle collane e dei collaboratori, carteggio, 1944: interessanti i nomi degli autori che risultano sotto contratto nel 1944: Bonservin, Kelsen, Gurvich, Berdiaeff, Maritain. 12 A. OLIVETTI, Fine e fini della politica, Comitato Centrale delle Comunità, Archetipografia, Milano 1949. 13 ID., Tecnica delle riforme, a cura del Movimento Comunità, Tipografia torinese, Torino 1951. 14 ID., Tempi nuovi, metodi nuovi, a cura della Direzione Politico Esecutiva del Movimento Comunità, Tipografia torinese, Torino 1953. 15 F. W. TAYLOR, L’organizzazione scientifica del lavoro, Edizioni di Comunità, Milano 1952, la prima edizione italiana è pubblicata nel 1915. 16 L. MUMFORD, Arte e tecnica, Edizioni di Comunità, 1961, tradotto dall’americano: Technics & Civilisation, Harcourt, Brace & Company, New York 1934. 17 G. P. FRIEDMANN, Dove va il lavoro umano? Edizioni di Comunità, Milano 1955, tradotto dal francese Où va le travail humain?, Gallimard, Parigi 1950. 18 F. FERRAROTTI, La protesta operaia, Edizioni di Comunità, Milano 1955. 19 I cui risultati sono in L. GALLINO (a cura di), L’industria e i sociologhi, edizioni di Comunità, Milano 1962. 20 Da una testimonianza di Antonio Migliasso all’autrice, Ivrea, 2001. 21 Guiducci inizia la sua attività professionale alla Bombrini-Parodi Delfino, dove si occupa di problemi infrastrutturali, e passerà alla Olivetti nel 1952 come responsabile dell’Ufficio Costruzioni che dirige fino al 1960. La Tekne ha una struttura iniziale simile a quella dell’ufficio eporediese, a cui si aggiungerà una sezione denominata «Progetto e Sviluppo», Archivio Storico Olivetti, Tekne, Curriculum, dattiloscritto, s.d. [1968]. 22 G. SAPELLI e R. CHIARINI, Fini e fine della politica. La sfida di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Milano 1990. 23 Archivio Storico Olivetti, R. Guiducci, Testimonianza su «Ragionamenti», dattiloscritto, s.d.; Testimonianza di Franco Momigliano in occasione della ripubblicazione di «Ragionamenti», datt., agosto 1978; Franco Momigliano, schema di introduzione alla ristampa di «Ragionamenti», manoscritto, s.d. 24 La collaborazione sul progetto di Le Corbusier è accennata in alcune lettere di R. Olivetti: Fondation Le Corbusier, M 2 (8) 94, 9 maggio, Lettera di Le Corbu-
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sier a Roberto Olivetti; FLC M 2 (8) 97, 21 maggio 1963, lettera di Roberto Olivetti a Le Corbusier; si veda anche R. GUIDUCCI, Da Le Corbusier a Le Corbusier, in Quaderni, n. 7-8, 1991, pp. 13-17. 25 Archivio Storico Olivetti, Corrispondenza Presidenza (98) 934, Corso Botta - Progetto Cappai e Maniardis, promemoria elementi da considerare in sede decisionale, dattiloscritto, 1968; Numero Monografico dedicato al Residenziale Est de «L’architettura cronache e storia», a. XXII, n. 3, luglio 1976. 26 Archivio Storico Olivetti, Centro di sociologia, Verbale della riunione del 6 ottobre 1965, dattiloscritto; e Centro di Sociologia, Luciano Gallino, Studio sull’area di Ivrea, 3 nov. 1967, dattiloscritto. 27 A. GALARDI e A. MIGLIASSO, Nuova sede dei laboratori Marxer a Ivrea, in «L’industria Italiana del cemento», dicembre 1962, n. 12, pp. 721-736. Si veda in questo senso l’apporto dato al progetto per l’edificio a uffici della Olivetti a Firenze, su progetto di Galardi, e lo studio strutturale di Silvano Zorzi e Augusto Bianco (1969-1972). 28 A. GALARDI, Architetto, Fundacion Gordon para el desarollo de las artes, Buenos Aires 2001; si veda anche M. COMBA, Carlo Mollino tra Sergio Musmeci, Alberto Galardi e Antonio Migliasso, intervento ai lavori del seminario «La concezione strutturale. Ingegneria e architettura in Italia negli anni 50 e 60», Torino 5-7 dicembre 2012. 29 Archivio Storico Olivetti, Antonio Migliasso, Progetto dello stabilimento per la Olivetti Underwood Corporation in Harrisburg, Pensylvania (situazione al 10/11/966), dattiloscritto. 30 Archivio Antonio Migliasso, Diario, 28 maggio 1969. Il montaggio dei lucernari (che ha bisogno di 13 persone), la deformazione delle lastre dovuta al loro spessore e il problema della trasparenza dei materiali sono i maggiori problemi del cantiere nel 1969. 31 Per esempio quelle condotte allo studio di Venturi l’11 settembre 1968, e quelle successive allo studio Giurgola nell’aprile del 1969: Archivio Antonio Migliasso, diario, manoscritto. 32 Le sedi della società sono Ivrea, Torino, Milano, Roma, e Tehran. Tra i committenti della Sertec, oltra a Olivetti, appaiono la Firgat, la Salmoiraghi, la Chatillon, la Honeywell, la Montefibre, diverse amministrazioni comunali e provinciali. L’area geografica di attività della Sertec è il Piemonte in prevalenza: Archivio Antonio Migliasso, Sertec, Curriculum, s.d. [1970].
33 R. GUIDUCCI, Appunti dal giornale dei lavori, in «Casabella-Continuità», 1955, n. 206, pp. 57 e sgg. 34 ID., Un esempio di progettazione «a posteriori»: la fabbrica Olivetti di Marzo Zanuso a Buenos Aires, in «CasabellaContinuità», 1959, n. 229, pp. 20-23. 35 ID., Appunti sulla fabbrica di Sao Paulo in Brasile dell’arch. Marco Zanuso, in «Casabella-Continuità», 1957, n. 216, pp. 66-71. 36 ID., Appunti sulla progettazione di Gardella, in «Casabella-Continuità», 1960, n. 235, pp. 7-12. 37 Fascia dei servizi sociali della Olivetti a Ivrea, architetti L. Figini e G. Pollini, presentazione di Roberto Guiducci, in «L’architettura cronache e storia», a. II, 1956, n. 9, pp. 178-181. 38 Che come rileva R. Gabetti è molto povera, di fronte all’aggiornamento continuo offerto invece dalla riviste tecniche di settore sia italiane che straniere: R. GABETTI, Architettura Industria Piemonte negli ultimi cinquant’anni, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1977, pp. 234244. 39 A. MELIS, Gli edifici per le industrie, con note tecniche del prof. Zignoli del Politecnico di Torino, A. Lattes e C. editori, Torino 1953; P. CARBONARA, Architettura pratica, vol. VI, tomo II, Utet, Torino 1962. 40 L. GUARNIERI e V. MORASSO, Architettura industriale, Gorlich editore, Milano 1954; G. FORTE, Architettura industriale. L’ambiente architettonico, mezzo di potenziamento della moderna società industriale, Gorlich editore, Milano 1964; G. ALOI, Architetture industriali contemporanee, con un saggio di C. Bassi, Hoepli editore, Milano 1964; A. GALARDI, Architettura italiana contemporanea, Edizioni di Comunità, Milano 1967; C. CAVALLOTTI, Architettura industriale, Gorlich editore, Milano 1969. 41 Distinzione ripresa dal saggio introduttivo al volume: R. GRIGNOLO (a cura di), Marco Zanuso. Scritti sulle tecniche di produzione e di progetto, Mendrisio Academy Press e Silvana Editoriale, Mendrisio-Cinisiello Balsamo 2013. 42 M. STABER, Max Bill und die Umweltgestaltung, in «Zodiac», 1962, n. 9, pp. 60-95. 43 P. C. SANTINI, Un’opera distrutta di Carlo Scarpa, in «Zodiac», 1962, n. 9, pp. 145-161. 44 R. GUIDUCCI, Presente e futuro dell’architettura industriale in Italia, in «Zodiac», 1962, n. 9, pp. 126-145. 45 Ibid., p. 127. 46 Ibid., p. 127. 47 Ibid., p. 143.
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Reflections on the relationship between technology and industrial architecture in Olivetti
S
tructural experimentation in the design of industrial architecture is evident in a great number of diverse projects at Olivetti. Various projects and architects at the same “site” allow us to reflect upon certain crucial questions: for example, Olivetti industrial architecture may be thought of as a catalogue of architects and technical approaches that discuss the theme of industrial architecture. In a broad sense, these projects confront the question of technology in a particular setting. At the Olivetti site the word, “technics” is the key to a fundamental reading of the situation and is constructed of diverse reflections. What is it that unites these diverse projects aside from being all constructed for Olivetti? It might be useful to examine the work of a nucleus of engineers who were charged with the direct organization of the working of the factory itself. The work of these individuals is difficult as the traces of their work are fragmentary, less visible, but on the other hand, not totally absent in the designs, or in the archived files that are the source for the historian. In addition to these two reflections, another might be added, an important one that is seen in the ensemble of the various buildings at Olivetti (in Ivrea and in the world) and in the cultural climate in which they are situated. The Olivetti «world» is not the embodiment of a new architectonic culture, but of an autonomous architecture and may become, in all aspects, the object of a micro-history capable of becoming a driving force behind rewriting an important episode of twentieth-century Italian architecture. To provide a possible boundary for the terrain that had allowed the technical idea in the Olivetti world to flourish would be to examine the artifacts such as the projects (political and architectural), the books by the Olivetti publisher Edizioni di Comunità, the reports and documents, all of which constitute the true «library» that document the long life of the factory. By examining these various documents that trace the various activities and artifacts (products, architecture, texts) of Olivetti, opens up a way to understand the complex and interesting variations of the importance of the Olivetti site. After a close examination of the built projects for Olivetti, whether by Italian or foreign architects, two names emerge for their impact: Antonio Migliasso and Roberto Giuducci. Certain facts seem to bring the biography of these two engineers in close connection even though they worked in diverse moments in the construction of the Olivetti factory town in Ivrea. The first, Antonio Migliasso, a structural engineer that was born in 1923, had been student of Franco Levi, and earned his engineering degree at the Polytechnic of Turin
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just after the end of the Second World War. During the 1950s he worked exclusively on the calculations for structures in prestressed concrete for Olivetti buildings. The second, Roberto Giuducci, graduated in Civil Engineering in 1948 from the Polytechnic of Milan. His work was dedicated to the organization of the master plan for the project. Migliasso came to Olivetti in 1951 and Giuducci in 1952; both were engaged in the political debate, because of their political approach as much as for their technical skills. Migliasso would become a council member of urban planning for the town of Ivrea, registered as a member of the Comunità party in 1954; Roberto Guidicci founded the socialist magazine Ragionamenti in 1955 with Franco Fortini and Franco Momigliano, who was the head of the Economic Study Centre at Olivetti. In the 1960s both went through a significant change in their professional life which was also a sign of the mutating changes inside the Olivetti factory: in 1958 Guiducci founded Tekne, an architectural services consultancy. In the same period he would oversee three significant projects for Olivetti: the Olivetti Computing Center in Rho designed by Le Corbusier, with Emilio Aventino Tarpino; in 1968 he was completely involved in the project for the East Residential Area in Ivrea designed by Igino Cappai and Pietro Mainardis and with the expansion by Scarmagno plant. For this project, Tekne was involved at the outset of the project by proposing the use of prefabricated elements for the structure and foundations. Deftly, he was able to propose the use of prefabricated elements that would start at the architectonic scale and move up to the scale of the site and of the territory. For the expansion designed by Scarmagno plant, Guiducci’s input served to have the project reevaluated at the larger scale at the entire industrial site, including non-built aspects such as studies on the forced immigration of workers towards the town of Romano Canavese. Antonio Migliasso intervened directly in the design of projects not only for Olivetti: the collaboration with Alberto Galardi for the project of Marxer plant in Loranzè opened up a series of projects outside of Ivrea and its environs, as that for the Chamber of Commerce for Turin designed with Mollino, Graffi, and Galardi (1964-1973). These projects permitted Migliasso to refine his ability to design and calculate complex structures and also to supervise the development and execution of the projects. He was most able to exploit these abilities in the next project for the Olivetti factory at the Harrisburg site, in Pennsylvania in the United States, a project designed by Louis Kahn. Perhaps the most relevant fact was Migliasso’s enthusiasm for the American method of construction which united the technical aspects of design production with the production of architecture. He saw this in the model of Barclay White & Co., and on this model, Migliasso would found Sertec, an engineering consultancy in Italy. Sertec was, during the 1960s, an important protagonist in designing projects and consulting in both the architectural and structural engineering fields in Italy and abroad. But even if Migliasso expanded his reach in this time, Olivetti still remained his main focus.
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One can see by the turn towards his role as a publicist by the mid-1950s by Guiducci the overall move towards engineers having an important role in proposing projects and innovative structural systems. This marks the changing role of the technical designer or engineer within the Olivetti world.
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Progettazione industriale e committenza in Lombardia tra gli anni cinquanta e settanta. Tra scienza e poesia: aspirazioni tecnologiche e sperimentazioni strutturali all’insegna di un nuovo umanesimo liberale MARIA VITTORIA CAPITANUCCI
«L
a Scienza e la Tecnica ci offrono ogni giorno nuovi ideogrammi, nuovi simboli, ai quali non possiamo rimanere estranei o indifferenti [...]. L’uomo nuovo che è nato dalle equazioni di Einstein e dalle ricerche di Kandinskij è forse una specie di insetto che ha rinunciato a molti postulati: è un insetto che sembra incredibilmente sprovvisto di istinto di conservazione [...] Scienza e Poesia non possono camminare su strade divergenti». Così scriveva sulle pagine della «Rivista Pirelli» nel giugno 1961, il poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli1, già ideatore e direttore di «Civiltà della macchina» l’innovativa testata aziendale di Finmeccanica con cui collaboreranno scienziati, strutturisti, poeti, letterati e pittori. Questa posizione, espressa certo in un periodo ormai maturo, può però considerarsi l’espressione chiara di una interrelazione tra discipline che, per tutto il dopoguerra, e nel decennio successivo, quello del miracolo economico, caratterizzerà un tipo di progettazione integrata anche nel senso del rapporto fra programmazione scientifica e progettazione colta. In una visione in cui l’ottimizzazione economica e la velocità di costruzione erano gli obiettivi dell’industrializzazione edilizia secondo una posizione condivisa, anche teoricamente, e attuata da uno stuolo di dotati ingegneri formatisi tutti al Politecnico di Milano. Figure di interesse non dissimili dai colleghi architetti, i cui destini furono vicini, paralleli o si incrociarono nei maggiori progetti della ricostruzione, accomunati persino in quella vocazione umanistica che aveva condotto i BBPR o i fratelli Latis a frequentazioni assidue in campo filosofico (molti seguirono le lezioni di Antonio Banfi ed Enzo Paci), ma soprattutto condividendo un umanesimo liberale mutuato dal campo economico oltre che sociologico2. Questi progettisti diedero vita a un «professionismo colto» capace, grazie alle grandi innovazioni strutturali e dei materiali di quegli anni, di un superamento, anche in termini linguistici, dei dettami razionalisti in un rinnovato rapporto tra tecnica e tradizione. Erede di una ricerca costruttiva che vede i propri esordi tecnico-strutturali, in primis, nelle sperimentazioni legate al mondo dell’edilizia residenziale di cui anche l’istituzione Triennale fu elemento trainante (si pensi solo all’esperienza del QT8 nel 1947) e, con essa, dibattiti e scontri nell’ambito di associazio-
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ni e organi come l’MSA, il Collegio Ingegneri e Architetti e lo stesso Comitato di Liberazione Nazionale a cui molti «costruttori di modernità» aderirono, quello degli stabilimenti industriali diventa nel tempo l’ambito in cui il mondo dell’ingegneria, dell’architettura e delle imprese, ma anche della committenza, possono permettersi le scelte progettuali più ardue. Il contesto lombardo certamente non si discosta dal clima italiano di quegli anni, nonostante esistesse già una condizione prebellica del sistema industriale, distribuito sul territorio in aree di ampio respiro con la presenza di importanti società come Pirelli, Falk, Breda, Marelli, Alfa Romeo che erano nella storia delle imprese italiane da fine Ottocento, e a cui, nel tempo, si andarono affiancando nuove aziende, soprattutto legate all’industria farmaceutica le cui sedi frequentemente apparvero sulle pagine delle riviste3 e dei volumi d’architettura del tempo. A questi si aggiunsero naturalmente molti gruppi stranieri come Siemens, Stigler Otis, Mercedes e, più avanti, anche l’IBM (fig. 1) grazie alle cui visioni sarà realizzata l’innovativa piastra di Segrate di Marco Zanuso (con. Cereghini, 1963-1975). Questi era da tempo impegnato con forza sui temi della prefabbricazione e dunque su una serie di progetti di tipo industriale, tra cui quelli per le sedi Olivetti a Buenos Aires e San Paolo (19551957) e, più tardi, in Italia, a Scarmagno, Crema e Marcianise (con Eduardo Vittoria tra il 1968 e il 1970) e aveva scritto, già nel 1954:
1. MARCO ZANUSO, PIETRO CRESCINI, STABILIMENTO IBM, SEGRATE, 1963-1975. ARCHIVIO IBM.
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La costruzione edile attende sempre dal nostro tempo un processo produttivo coerente alla nostra civiltà meccanica industriale. [...] Prefabbricazione del prototipo o del modello; modulazione geometrica, dimensionamento, problema del giunto, limite dello standard, variabilità, sostituibilità, trasformabilità: sono questi alcuni dei capitoli della ricerca e dell’orientamento. È un lavoro che ripropone l’essenza del costruire, dalle materie alla loro lavorazione, dall’elemento ai suoi limiti di componibilità: un lavoro di concentramento di forze propulsive da mondo della cultura a quello della produzione e della tecnica4.
Del resto con i finanziamenti derivati dal piano Marshall5, i cui obiettivi erano incentrati sugli investimenti produttivi, specie nel campo delle infrastrutture e dei beni di capitale, si infittisce la realizzazione di nuovi impianti che spesso raggiungono dimensioni di notevole portata con un impatto, sul piano paesaggistico, talmente forte da ridisegnare la condizione extraurbana lombarda nonché i limiti tra città e campagna. Peraltro, alla fine della guerra, nonostante le terribili distruzioni nelle città, sul resto del territorio italiano si presentava una condizione dell’apparato industriale, sebbene arretrato rispetto alle altre realtà europee, non estremamente danneggiato e pronto a essere riorganizzato e potenziato. In questo senso le visioni degli imprenditori rappresentarono la spinta iniziale a una nuova sfida rivolta all’innovazione profonda dei processi, dalla progettazione direttamente alla produzione edilizia, con nuove modalità di intervento sul territorio. Si parla di capitani di industria affiancati da figure di alto profilo e dalle capacità indubbie come l’eticamente irreprensibile Enrico Mattei per l’ENI o Giuseppe Luraghi6 per Alfa Romeo, il quale incarnò il piglio manageriale coniugato a una raffinata vocazione intellettuale e letteraria. Con loro, alcuni guru della comunicazione ante litteram, di Sinisgalli, si è detto, ma anche Arrigo Castellani7, che per la Pirelli, fu unico nella sua capacità di pensare alla forza mediatica dell’iconico grattacielo affidato ai due grandi nomi dell’architettura internazionale, Ponti e Nervi, e, al tempo stesso, all’effetto comunicativo di riviste di larga diffusione come «Vado e Torno» o dell’audace «Calendario». Costoro che agirono intorno, e all’interno, delle maggiori società italiane, rappresentarono l’elemento trainante di questa ripresa, indotta ma reale, che procedette senza sosta fino a tutti gli anni sessanta, in linea con quella concezione di «umanesimo liberale» che, in quel tempo, aveva preso voce attraverso gli scritti e le teorizzazioni di pensatori come Wilhelm Röpke8 con la sua visione di una società nella quale le attività economiche potevano integrarsi nel contesto culturale e morale, riconoscendo il ruolo determinante dell’individuo. L’economia sociale di mercato röpkiana divenne, così, l’essenza morale del rapporto fra etica ed economia nella dimensione sociale di quegli anni. Non fu certo un caso, dunque, che anche Luigi Einaudi, che aveva incontrato il filosofo ed economista tedesco nel 1944, avesse adottato la teoria della «terza via» per la rinascita economica dell’Italia repubblicana e che sia stata proprio la omonima casa editrice a pubblicare, già nel 1946, il suo La crisi sociale del nostro tempo (Einaudi).
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Dunque, anche in Lombardia si definiva un dialogo a più voci, fatto di committenti cui naturalmente facevano da controcanto progettisti affiancati, a loro volta, dalle imprese di costruzioni (Bonomi e Vecchi, Lodigiani, Brenta Castelli, MBM Meregaglia, Guffanti, Borio Mangiarotti, Morganti, Sicop, Sepi, Romagnoli, Bertani e Boselli, etc...) e da quelle società che iniziavano, con coraggio, a occuparsi di produzione edilizia e in 2. BBPR, STABILIMENTO UNIONE MANIFATTURE, NERVIANO, 1950-1953. ARCHIVIO BBPR. particolare di prefabbricazione leggera (la Feal9, le Officine Malugani, la Fratelli Greppi). Numerosissimi furono i professionisti che ebbero modo di confrontarsi in quegli anni e in quegli specifici ambiti, con realizzazioni di ampio respiro per gli stabilimenti e le loro sedi amministrative. I nomi degli architetti, molti dei quali protagonisti indiscussi del periodo anche in altri campi, sono Gardella, Ponti, BBPR10 (fig. 2), Bacigalupo-Ratti, Nizzoli-Olivieri, Mattioni, Soncini, Caccia Dominioni11, Magistretti, i Latis, Mangiarotti-Morassutti, Zanuso, Minoletti, Rosselli, Malaguzzi Valeri, Forti, Vittoria, Ghò, Gnecchi Ruscone, ma a costoro, come si è detto, si unisce l’esercito di professionisti dell’ingegneria che, con loro talvolta collaborarono o che a loro si sostituirono, proponendo progetti all’avanguardia ispirati alle esperienze di altri Paesi europei e del panorama internazionale. Da Arturo Danusso coinvolto in alcuni dei più importanti edifici rappresentativi della ripresa postbellica (Torre Galfa, Torre Velasca, Torre Pirelli) a Leo Finzi e Edoardo Nova, i cui calcoli, per strutture sia in acciaio sia in cemento armato, coinvolsero un numero inimmaginabile di interventi industriali, e non solo, in tutta Lombardia; da Giuseppe Valtolina a Carlo Rusconi Clerici che fondano una delle prime società di engineering in Italia, la VRC; da Vittore Ceretti, impegnato con successo anche nell’edilizia civile a Carlo Ravizza, attivo tra Italia e Germania, fino a Fabrizio de Miranda, tra i pochi a sperimentare costantemente le strutture metalliche in Italia. Un dettaglio sembra chiaro, il parterre lombardo aveva come riferimento l’universo dell’ingegneria strutturale nelle sue più disparate declinazioni, quello legato alla tradizione del cemento armato che nella penisola, in quegli anni, tra Torino e Roma, esprimeva, e aveva
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espresso, le sperimentazioni alte di grandi come Pierluigi Nervi, impegnato frequentemente anche su Milano, così come di Riccardo Morandi o di Sergio Musmeci con i loro sistemi infrastrutturali che ridisegnavano il territorio, da nord a sud; con essi, però, anche taluni protagonisti del panorama internazionale, i cui interventi e progetti venivano pubblicati dalle riviste di settore (i progetti americani di Albert Kahn, pubblicati su «Edilizia Moderna», assieme alla nuova tradizione ingegneristica francese e tedesca) o che avevano tenuto cicli di lezioni e incontri, anche in sedi istituzionali, come avvenne per Edoardo Torroya al Politecnico di Torino o per Pietro Belluschi, riferimento americano nei viaggi di formazione di numerosi ingegneri in visita presso l’MIT (Arturo Danusso, Bruno Morassutti, Bruno Peressutti dei BBPR furono tra questi). Così «Quando architetti, ingegneri e tecnici dell’industria indirizzano i loro studi sull’architettura industriale e coordinano fin dall’inizio i rispettivi apporti, i risultati hanno una forte probabilità di risultare pregevoli...», esordiva Luciana Finelli12 nell’articolo dedicato al nuovo intervento di Giuseppe Chiodi e Giulio Minoletti, nel già imponente stabilimento Alfa Romeo ad Arese (fig. 3), esprimendo un clima e una condizione ormai assodata e finalizzata a una visione di progettazione integrata per strutture dove la realizzazione e l’ampliamento di edifici per la produzione era ormai spesso affiancata anche alle sedi amministrative. Si era inaugurato, di fatto, un ambito progettuale, se non nuovo, del tutto ripensato che aveva a che fare certamente con le innovazioni tecnologico-costruttive, e di conseguenza con la sperimentazione struttura-
3. VEDUTA GENERALE DELLO STABILIMENTO ALFA ROMEO DI ARESE NEL 1976. ARCHIVIO STORICO ALFA ROMEO.
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le e con l’organizzazione e la gestione dei cantieri, ma che si focalizzava anche sulla pianificazione. Basti pensare, a proposito, all’operazione «urbanistica» condotta per l’Alfa Romeo dall’inglese Production Engineering Ltd e, in un secondo tempo, dall’Ufficio Impianti Alfa Romeo coadiuvato dalla stessa, con i suoi 720.000 mq coperti su una superficie di 210 ettari, dove si succederanno le abili capacità progettuali di Minoletti e Chiodi chiamati a realizzare la spina centrale del sistema, lunga un chilometro, raccordata lateralmente ai vari padiglioni. Tra questi, quello destinato al montaggio finale delle vetture presentava una struttura di interesse con elementi verticali in precompresso maturato a vapore su cui erano stese «travi a cassone, pure in precompresso, con condotto interno per la termoventilazione; la copertura in voltine a shed (tre per campo) poggiano su mensole sporgenti dalle travi e collegate con montanti metallici»13, tutti gli altri edifici, progettati dall’Ufficio Tecnico e a struttura metallica, utilizzeranno, per omogeneità d’insieme, la medesima copertura a shed. Di lì a poco (1968) nei lotti adiacenti, seguirà l’incarico ad Antonio Cassi Ramelli, all’ingegner Vittore Ceretti e a Vito e Gustavo Latis14, per la realizzazione della nuova direzione e del museo storico dell’Alfa Romeo (inaugurato poi nel 1976), un complesso che spicca ancor oggi, per chiarezza compositiva e perentorietà di linguaggio, condotto in parallelo al, forse più noto, intervento di Ignazio Gardella (con Jacopo Gardella e Anna Castelli Ferrieri, 1968-1974) 15 per la sede degli uffici tecnici della società (fig. 4). Qui il lungo edificio in cemento armato a vista, con struttura e facciate in sistemi prefabbricati, sospeso su pilotis e limitato agli estremi da due corpi simmetrici leggermente ripiegati rispetto all’asse, si poneva come il nuovo ingresso al grande complesso industriale16. Il caso della «cittadella industriale» di Arese non sarà certo unico in Lombardia, si pensi al sistema SNAM-ENI a San Donato17 con i suoi 8.000 ettari di superfici fondiarie, anticipato da una serie di casi di notevole portata tra cui quello della «Bicocca», il quartier generale della Pirelli18. Quest’ultimo aveva preso avvio già ai primi del Novecento ma nel dopoguerra necessitò di una riorganizzazione, anche in termini edilizi, con l’introduzione di nuovi impianti ad alto valore tecnologico, come il laboratorio cavi e la batteria di modernissimi vulcanizzatori alimentati da un avveniristico impianto termoelettrico. A queste innovazioni si era anche, fisica4. IGNAZIO GARDELLA, JACOPO GARDELLA E ANNA mente, affiancata la gigantesca CASTELLI FERRIERI, CENTRO DIREZIONALE ALFA ROMEO, torre di raffreddamento destinaARESE, 1968-1974. FOTO G. BASILICO. ARCHIVIO STORICO ta a diventare il simbolo del sito ALFA ROMEO.
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5. GIUSEPPE VALTOLINA, DISEGNO PER IL DEPOSITO PIRELLI, AREA BICOCCA, MILANO, 1961-1968. ARCHIVIO GIUSEPPE VALTOLINA.
stesso, assieme alla indimenticata e ardita mensa per gli impiegati19 inaugurata nel 1957 su progetto di Minoletti e Chiodi e sotto la supervisione dell’ing. Giuseppe Valtolina, incaricato dall’azienda. Quest’ultimo può certamente considerarsi una figura chiave nell’attività edilizia della Pirelli. Classe 1904, laureato presso il Politecnico di Milano, dal dopoguerra, diviene consulente edile esterno per la nota società lombarda20 per la quale realizzerà più di una quarantina di opere tra stabilimenti, depositi, uffici e filiali21 (fig. 5), in oltre vent’anni di collaborazione, così da conferire una forte impronta alla organizzazione e alla pianificazione delle strutture produttive della Pirelli in Italia e all’estero, caratterizzate dall’alto livello di efficienza e flessibilità dei sistemi costruttivi. Dall’esordio con la sede Pirelli Spa pneumatici di Settimo Torinese, Torino (19511966), alle ultime filiali di Milano del 1972, passando per le esperienze, in territorio anglosassone, con lo stabilimento Pirelli General a Eastleigh, (Gran Bretagna, 1965-1966) e quello di Pirelli Limited di Carlisle (Gran Bretagna, 1967-1968), questo uno dei rari casi in struttura metallica, anticipati dalle filiali e stabilimenti in Canada, Spagna e Brasile22. Incaricato anche della supervisione di progetti condotti da altri professionisti
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per conto della stessa azienda, come avvenne per la citata mensa della Bicocca, Valtolina sarà coinvolto, come è noto, nella progettazione della torre Pirelli (1955-1960), di cui caldeggiò fortemente con il Consiglio di Amministrazione di allora (presidente Alberto Pirelli, vicepresidente Leopoldo Pirelli, amministratori delegati: Luigi Rossari, Emanuele Dubini, Franco Brambilla) l’attribuzione del progetto a Nervi e a Ponti. Collaborò, fin dal piano di lottizzazione iniziale, con l’intero gruppo dei progettazione (studio Ponti-Fornaroli-Rosselli, Pier Luigi Nervi e Arturo Danusso, Eugenio Dell’Orto) per la realizzazione dell’edificio simbolo della ripresa economica della grande industria italiana, e lombarda, mentre sarà solo suo, il progetto dell’autorimessa di stampo «funzionalista» realizzata, tra il 1951 e il 1953, tra via Filzi e via Fara, adiacente al lotto successivamente occupato del grattacielo, oggi posta sotto tutela come l’intero intervento. L’ingegnere milanese, avrà inoltre modo di «appaltare» ad altri progettisti la realizzazione di alcuni interventi. È il caso, delle due torri di controllo, vetrate e in struttura metallica, realizzate dell’architetto Francesco Gnecchi Rusconi23, nei pressi di Lainate e di Vizzola Ticino dove, con Valtolina e Rusconi Clerici, aveva realizzato due piste per la sperimentazione pratica di pneumatici Pirelli. La sua attività nell’ambito della VRC vide poi relazioni intense con numerose altre realtà industriali, dalla Sirti alla Ricordati fino ai Farmaceutici Midy e alla Bassetti. Partecipe del dibattito culturale del dopoguerra, Valtolina intervenne con suoi scritti su riviste come «Spazio» e «Edilizia Moderna», indicando con chiarezza la propria propensione a una «progettazione integrata», mutuata da alcune esperienze all’estero, a Stoccolma e Oslo in particolare, ma con una evidente fascinazione per i progetti statunitensi, quelli degli anni trenta e quaranta di A. Kahn per la Chrysler Corporation a Detroit o per la General Motors a Cleveland, ad esempio, e le più recenti realizzazioni dello studio di ingegneria R. F. Giffels, V. E. Vallet, L. Rossetti per General Electric a Syracure e Bakelite Corporation a Ottawa24. Nelle sue pagine si leggeva: «L’edilizia industriale, inizialmente derivata dall’edilizia civile, ha assunto progressivamente una fisionomia propria in stretto rapporto con le sue particolari esigenze [...]. Nei moderni sistemi industriali la caratteristica più importante è rappresentata oggi non dalle macchine ma dall’impianto, cioè da quell’insieme di macchinari legati da precise esigenze che determinano un ciclo produttivo»25. Una dichiarazione d’intenti che propone un’Estetica dell’architettura industriale26, forse anche sulla spinta delle posizioni espresse da Reyner Banham27, e che vede collocare edifici destinati alla produzione, padiglioni espositivi e infrastrutture nella sfera architettonica senza distinzione alcuna. Così Carlo Pagani. nel suo Architettura italiana oggi (Hoepli 1955), dedica una sezione all’«Edilizia industriale» presentando lo spogliatoio di uno stabilimento di Franco Albini, le officine Olivetti di Ivrea di Luigi Figini e Gino Pollini, la cementeria a Merone di Mario Salvadè, il laboratorio di igiene e profilassi di Ignazio Gardella, uno stabilimento in Brianza di Mario Asnago e Claudio Vender e uno farmaceutico (Farmitalia) di Ippolito
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Malaguzzi Valeri e Gian Luigi Giordani. Nulla impedisce a Roberto Aloi, nel 1959, di aprire il suo Nuove Architetture a Milano, con il grattacielo Pirelli seguito da una serie di torri per il terziario che nel frattempo avevano ridisegnato lo skyline cittadino, alternando, poi, all’edilizia residenziale, la sede Bracco di Giordano Forti, la Loro Parisini di Luigi Caccia Dominioni, la mensa Pirelli di Chiodi e Minoletti, la sede Siemens di Carlo Rusconi Clerici, la Durban’s di Cesare Pea, la farmaceutica Sigurtà di Pepp Calderara e Renato Radici, la sede della Co-Fa di Gigi Ghò e infine, gli stabilimenti Malugani e Motom di Giuseppe Casalis e Umberto Busca. Così anche negli scritti, molteplici, di Pica28, la cui vicinanza al mondo dell’ingegneria e all’espressività strutturale di Nervi, in particolare, è nota. Negli anni sessanta il concetto di progettazione integrata, come si è detto, si fa più forte in termini di complessità e interventi come quello per lo stabilimento Elmag di Lissone progettato da Angelo Mangiarotti e dall’ingegnere Sbriscia, nel 1963 con l’impresa Facep, introduce, ad esempio, il tema del nodo trave-pilastro, nella totale coincidenza tra ricerca strutturale e rinnovamento del linguaggio architettonico secondo un’impostazione che aveva caratterizzato i progetti condotti già in precedenza dal grande architetto lombardo con Bruno Morassutti e con l’ingegnere Aldo Favini. Un anno dopo sarà la volta della Bassetti che inaugura il nuovo stabilimento di Rescaldina, pubblicizzato come «il più moderno stabilimento d’Europa per la più antica industria del mondo». L’edificio è come un grande sistema, a opera di VRC (Valtolina-Rusconi Clerici) e Favini, che contiene sotto di sé, in un’unica soluzione, tutto l’apparato produttivo avvolto da una copertura a volte sottili in cemento armato. Un sistema anticipato qualche anno prima da quello a voltine leggere in precompresso studiato da Egone Cegnar per lo stabilimento Biraghi (1956-1959), progettato dall’ingegnere Ceretti. Scambi, influenze e sperimentazioni all’insegna di una rinnovata concezione strutturale.
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14 Gustavo Latis, per l’occasione, su suggerimento del presidente Luraghi, viaggerà in Francia e in Svizzera per cogliere possibili riferimenti per la progettazione. Archivio Storico Alfa Romeo, fascicolo: Museo storico Alfa Romeo, busta: Latis. Archivio privato Vito e Gustavo Latis, faldone: Alfa Romeo. 15 Assieme realizzeranno anche la sede della Kartell a Noviglio (1966-1976). 16 L. FIORI e S. BOIDI (a cura di), Ignazio Gardella. L’Alfa Romeo, Editrice Abitare Segesta, Milano 1982. 17 Si rimanda a S. SERMISONI (a cura di), Metanopoli, attualità di un’idea, Snam, Milano 1995. 18 1872-1972 Cento anni di comunicazione visiva Pirelli, Scheiwiller, Milano 1990; Pirelli 1872-1997. Centoventicinque anni di imprese, Scheiwiller, Milano 1997. 19 Riferimenti bibliografici in G. DE AMICIS, Giulio Minoletti. La mensa impiegati alla Bicocca, Edizioni Unicopli, Milano 2002. 20 Subito dopo la laurea, entra nello studio di ingegneria di famiglia, di cui era a capo il fratello Agostino. Nel 1962 si associa a Carlo Rusconi Clerici fondando la Valtolina Rusconi Clerici spa (VRC), una delle prime engineering italiane; la collaborazione durerà fino al 1972 anno della sua morte. La società, poi, nel 1976 confluirà nella Tekne. Archivio privato Valtolina, fascicolo Giuseppe Valtolina. 21 G. VALTOLINA e C. RUSCONI CLERICI, VRC. Fabbricati per uffici, laboratori ed industrie, Tipografia Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo 1969; C. RUSCONI CLERICI, VRC. Progetti 1968-72, Tipografia Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo 1972. Archivio privato G. Valtolina, Fondazione Pirelli, fascicolo Giuseppe Valtolina. 22 La nuova sede Pirelli in Brasile, in «Edilizia moderna», 1961, n. 73. 23 Da un recente incontro con l’architetto Gnecchi Ruscone, 15 marzo 2013, dal suo libro di memorie Storie di architettura, in corso di pubblicazione. 24 G. VALTOLINA, Architettura industriale, in «Spazio», 1950, n. 2. 25 G. VALTOLINA, Come viene svolta la progettazione integrale e la sua programmazione nell’edilizia industriale introduzione a G. VALTOLINA e C. RUSCONI CLERICI, 1969, pag. II. 26 Dal titolo di un intervento di G. VALTOLINA in «Edilizia moderna», giugno 1952, n. 48, pp. 71-76. 27 Interverrà anche sul Pirelli Building Milan, in «Architectural Review», marzo 1961, n. 769. 28 A. PICA, Architettura italiana ultima, edizioni del Milione, Milano 1959; A. PICA, Architettura moderna in Italia, Hoepli, Milano 1964.
V. SCHEIWILLER (a cura di), «Civiltà delle Macchine», antologia di una rivista, 1953-1957, Scheiwiller, Milano 1989. 2 Soprattutto in linea con le idee di Adam Smith e Alexis de Tocqueville, fino all’Ordoliberalismo. 3 Sostanziale, in questo senso, il ruolo di «CasabellaContinuità» diretta da Ernesto Nathan Rogers che pubblica frequentemente le nuove realizzazioni industriali, inserendo così i casi italiani nel pieno del dibattito internazionale (tra il 1950-1970 spesso presenti su «Architectural Review» e «Architecture d’aujourd’hui»). Allo stesso modo «Spazio» di Luigi Moretti, enfatizzava la ricerca strutturale e la sua espressività. 4 M. ZANUSO, Un’officina per la prefabbricazione, in «Casabella-Continuità», dicembre 1953 - gennaio 1954, n. 199, p. 38. 5 Il finanziamento della ricostruzione, ERP (European Recovery Program), detto «Piano Marshall», prevedeva il trasferimento gratuito di beni da parte degli Stati Uniti. L’Italia ottenne un miliardo e quattrocentosettanta milioni di dollari. Finsider (assieme alla Fiat) fu tra i maggiori beneficiari di tali «fondi» e per questo ebbe modo di intervenire, tra il 1947 e il 1948, nella formulazione di un piano a lungo termine condotto dal centro studi dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) che si occupò degli investimenti su società e imprese anche lombarde. 6 G. BALDI, I potenti del sistema, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1976; R. CREMANTE e C. MARTIGNONI (a cura di), Un manager tra le lettere e le arti: Giuseppe Eugenio Luraghi e le Edizioni della Meridiana, Electa, Milano 2005; D. POZZI, Una sfida al capitalismo italiano: Giuseppe Luraghi, Marsilio, Venezia 2012. 7 Omaggio ad Arrigo Castellani, Pirelli, Milano 1969. 8 Wilhelm Röpke (1899-1966), economista e sociologo tedesco della Scuola di Friburgo, viene annoverato tra i più influenti diffusori dell’economia sociale di mercato. 9 FEAL: Fonderie elettriche alluminio e leghe. Si veda: La facciata continua in «Stile», 1958, n. 15. 10 I BBPR furono tra i primi ad affrontare il tema, subito dopo la guerra nel 1950-1953, con l’ampliamento dello stabilimento tessile di Nerviano realizzato con l’ingegnere Oberziner e l’impresa Guffanti, per l’imprenditore Giulio Riva, in cemento armato e shed inclinati. Si veda A. FERRATINI, Lo stabilimento Unione Manifatture a Nerviano in A. SELVAFOLTA (a cura di), Costruire in Lombardia, Electa, Milano 1986. 11 Si pensi all’innovativo stabilimento della Loro Parisini (1956). 12 L. FINELLI, Nuovo stabilimento dell’Alfa Romeo ad Arese, in «Architettura Cronache e Storia», 1965, n. 122. 13 Ibid. 1
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Industrial design and assignors in Lombardy between the 1950s and the 1970s. Between science and poetry: technological aspirations and structural experimentation characterized by a liberal humanism
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he relationship between the assignors’ world and the professional engineering and architecture one in the postwar period, especially in Lombardy, represents the core of this contribution that aims at recomposing, partially, the relationships that were at the base of new buildings and structural and constructive kinds of research that introduced experimentation and a new architectural language in the industrial facilities built for the then representative examples of the service sector, and that deeply affected the transformation of the Italian territory. All were protagonists of a dialogue with multiple voices. First, architects and engineers, together with building firms (Bonomi & Vecchi, Lodigiani, Brenta Castelli, MBM Meregaglia, Guffanti, Borio Mangiarotti, Morganti, Sicop, Sepi, Romagnoli, Bertani & Boselli, etc...) and those, very brave, companies starting to deal with building production, light prefabrication in particular (Feal, Officine Malugani, la Fratelli Greppi), which naturally acted as assignors’ counterpoint. A large number of professionals shared experiences in those years and in specific fields of the industrial sector, with ambitious scale facilities for production plants and, sometimes, with vertical buildings for their headquarters. The names of the architects, many of them absolute stars of this period, are Gardella, Ponti, BBPR, Bacigalupo-Ratti, Nizzoli-Olivieri, Mattioni, Soncini, Caccia Dominioni, Magistretti, the Latis, Mangiarotti-Morassutti, Zanuso, Minoletti, Rosselli, Malaguzzi Valeri, Forti, Vittoria, Ghò, Gnecchi Ruscon. And, as it has been mentioned before, there was an army of engineers who collaborated with the architects, in some occasions, and replaced them, in others, and presented cutting edge design projects, inspired by what was occurring in other European countries and worldwide. Starting with Arturo Danusso, who collaborated to the design of one of the most symbolic buildings of the industrial post-war reconstruction; to Leo Finzi and Edoardo Nova, whose calculations, for steel and reinforced concrete structures, regarded an almost unimaginable number of industrial buildings, but not only, all over Lombardy in the postwar period; from Giuseppe Valtolina to Carlo Rusconi Clerici who founded one of the first Italian engineering companies: VRC; from Vittore Ceretti, who successfully worked in the civil building sector to Giuseppe Chiodi, highly involved in the collaboration with G. Minoletti and others, from Carlo Ravizza, who worked also in Germany, to Fabrizio de Miranda, one of the few who constantly tested metal structures in Italy. One detail seems to be clear, the Lombardy’s experts in this field al-
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ways made reference to the universe of structural engineering in its most diverse forms, linked to the reinforced concrete tradition that in those years, between Rome and Turin, generated, or had generated, the first great experiments by big names like Pierluigi Nervi, who often worked in Milan, as well as Riccardo Morandi or Sergio Musmeci, with their infrastructural systems reshaping the Italian territory, from north to south. Yet, with the Italians, there were some international protagonists, whose design projects or buildings appeared in specialist magazines, or who held several series of lectures or seminars, even in important institutions, as it was for Edoardo Torroya at the Polytechnic of Turin or Pietro Belluschi, the American connection for many engineers that travelled overseas and visited the MIT for training purposes ( Arturo Danusso, Bruno Morassutti, Bruno Peressutti of the BBPR were three of them). Therefore, in Lombardy there was a large number of plants and industrial facilities whose highly innovative structural features were mainly linked to the concept of integrated design. The Alfa Romeo plant in Arese (Milan), in terms of specific cases of this kind, provided a prime example (together with ENI-Snam, IBM buildings and others) where characters like president G. Luraghi (or E. Mattei for ENI) embodied a new dimension of liberal humanism, in line with some Olivetti’s positions and with a philosophical-economic trend of German origin that appeared in Italy in those years, thanks to W. Röpke’s publications. A concept that the engineering world also welcomed, as it is proved by the solutions adopted by many designers and, in particular, by executives and people in charge of corporate communication of other important companies at that time- such as Pirelli, with its “enlightened” board of executives, consisting of poet-engineer L. Sinisgalli, “creative” economist A. Castellani and engineer G. Valtollina to whom a special in-depth essay is dedicated. Valtollina, a cultured engineer working independently for the most important industrial groups of that time, was a Pirelli company’s man of confidence, in fact he designed almost forty company plants and branches in Italy and worldwide.
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Il vocabolario strutturale di Carlo Mollino tra gli anni cinquanta e sessanta MICHELA COMBA
«Quattrosoldi» Nel 1962 il periodico «Quattrosoldi» pubblicato dalle Edizioni Domus, nel numero di dicembre, presentava il gruppo Marzotto come azienda quotata in borsa dal 1961 attraverso Mediobanca, e pubblicava le fotografie del cantiere di ampliamento dello stabilimento di Trissino, a 10 km da Valdagno (fig. 1). Si trattava di 10.000 mq da adibire alla produzione di coperte, dove si sarebbe impiegata una strumentazione in gran parte elettronica. L’azienda aveva deciso di presentare il nuovo spazio produttivo invocando doti strutturali eccezionali: «La sala superiore del fabbricato per la tessitura è stata realizzata esempio unico in Europa - senza colonne e sostenuta solo da 10 archi sottili», si legge, ma a tali doti non veniva associata la firma di nessun progettista noto. D’altra parte la Marzotto non era l’unica ad aver scelto di spersonalizzare la propria immagine architettonica. Il fenomeno, tipico di un fordismo che molti storici economici sostengono mai arrivato in Italia, ma che invece è riuscito a rafforzarsi anche sfruttando la produzione edilizia, si interromperà solo - per alcune realtà industriali importanti alla fine degli anni settanta, quando sarà proprio il peso e il numero delle consulenze architettoniche esterne alle aziende a segnare una discontinuità significativa con i decenni precedenti1. All’inizio del 1963 la Marzotto, proprio su quello spazio di Trissino, aveva già una causa in corso con l’architetto Carlo Mollino. A detta del professionista, l’azienda avrebbe eseguito una delle proposte per l’ampliamento presentate da lui l’anno precedente. Annoso problema per Mollino - e non solo -, quando il committente era una grande azienda (come il caso dello showroom con appartamenti Fiat Vara di Novara, 1950-1954)2, il diritto di autore finiva col divenire una questione legale quando ingegneri e architetti si avvicendavano sulla medesima opera, e in particolare quando gli ingegneri facevano parte di un ufficio tecnico interno. Nell’archivio Carlo Mollino, proprio con le carte relative alla vicenda legale, sono conservate tutte le proposte progettuali dell’architetto per la Manifattura Lana Gaetano Marzotto & Figli. Nelle memorie affidate all’avvocato, l’architetto ha scritto: «Il committente eseguì l’opera tacitamente, adottando una soluzione struttiva esposta nella relazione di pro-
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1. IMMAGINI DELL’AMPLIAMENTO DELLO STABILIMENTO MARZOTTO A VALDAGNO PUBBLICATE DAL PERIODICO «QUATTROSOLDI» A DICEMBRE DEL 1962.
getto, soluzione che era stata scartata dopo una discussione a favore di altre». A maggio del 1962 il direttore tecnico dell’azienda aveva inviato a Mollino una lettera dove specificava la rinuncia a soluzioni particolarmente brillanti perché l’azienda stava canalizzando i suoi sforzi per perfezionare l’organizzazione e le attrezzature per raggiungere una gestione il più possibile meccanizzata dello stabilimento. Eppure a marzo dello stesso anno Mollino aveva confermato al committente che da Detroit (dove presso l’ufficio tecnico della General Motors era impiegato il suo amico ingegnere Aldo Celli, che nel corso degli anni cinquanta-sessanta ha svolto spesso il ruolo di consulente) erano giunte conferme che per il riscaldamento da applicare alle soluzioni proposte da Mollino non sarebbe stato necessario utilizzare sistemi eccezionali. La progettazione di Carlo Mollino per lo stabilimento Marzotto non solo c’era stata ma era arrivata ad una scala di dettaglio ed era stata approfondita anche da un punto di vista strutturale: si tratta infatti di un rarissimo caso (forse l’unico) in cui l’architetto stesso si era avventurato nella stesura di una relazione strutturale. Mollino fino ad allora aveva approfondito il tema soltanto una volta: nel testo Architettura arte e tecnica, scritto tra il 1945 e il 1947 con il matematico Franco Vadacchino - testo dove, soprattutto nel capitolo Evoluzione della tecnica architettonica, il termine «tecnica» è in realtà la traduzione di Vadacchino di «struttura», parola utilizzata invece dall’architetto durante la scrittura e poi corretta in seconda stesura3. Tramite con la Marzotto per Mollino, anche in fase di sollecito per il riconoscimento economico della prestazione professionale, fu l’ingegnere Vittorio Zignoli, fondatore e direttore dell’Istituto di organizzazione industriale del Politecnico di Torino, specialista di fama mondiale nel campo dei trasporti stradali e a fune; progettista e direttore dei lavori di costruzione della funivia del Cervino inaugurata nel 1952, che con il dislivello di 1.000 metri aveva raggiunto il primato europeo per lunghezza della massima testata e velocità di trazione. L’ingegnere aveva progettato anche la stazione a monte in collaborazione con Mollino: una struttura metallica con 4 montanti a traliccio che sorreggono le piattaforme a sbalzo e le terrazze soprastanti. Zignoli dal 1958 progettava e dirigeva i lavori di costruzione della Funivia dei Ghiacciai e contemporaneamente si occupava del traforo del Monte Bianco (poi inaugurato nel 1965) con un committente importante di Mollino, l’ingegnere Dino Lora Totino4. Zignoli, con la stazione del Früggen, rappresenta bene peraltro una fase progettuale di Mollino che si era sviluppata lungo gli anni cinquanta: quella «aerodinamica» degli sbalzi, dei balconi a mensola, degli appoggi a forcella, degli sbalzi a traliccio (la fase della Stazione-albergo al Lago Nero, dei condomini a Cervinia e Sanremo, del villaggio post-sanatoriale previsto sotto il colle della Maddalena a Torino, della casa sull’altopiano di Agra). Fase quella degli anni cinquanta, successiva al periodo di eclettismo strutturale che Mollino aveva dimostrato negli anni quaranta, come emerge nella de-
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2. PROGETTO DEL 1962 DI CARLO MOLLINO PER AMPLIAMENTO DELLO STABILIMENTO MARZOTTO A TRISSINO: «SOLUZIONE A» CON STRUTTURE AD ARCO IN C.A. UNA SERIE DI ARCHI DI 15 METRI CON IMPOSTA IN TERRAPIENO A SCARPATA. ARCHIVIO MOLLINO, P.14C,277.
3. PROGETTO DI CARLO MOLLINO PER AMPLIAMENTO DELLO STABILIMENTO MARZOTTO A TRISSINO: VEDUTA AEREA DELLA «SOLUZIONE A». GLI ARCHI SONO COLLEGATI DA UNA TRAVE ED È VISIBILE LA STRADA CHE PORTA AL GRUPPO UFFICI SOSTENUTO DALL’ARCO CENTRALE. ARCHIVIO MOLLINO, P.14C,277.
4. PROGETTO DI CARLO MOLLINO PER L’AMPLIAMENTO DELLO STABILIMENTO MARZOTTO A TRISSINO: «SOLUZIONE B» CON STRUTTURA «RETICOLARE SPAZIALE» IN ACCIAIO E CEMENTO ARMATO. ARCHIVIO MOLLINO, P.14C,277.
scrizione della Casa sull’altura («una tenda rigida, un padiglione»... «casa dei luoghi comuni ed eterni» di pianta basilicale, coperta a botte nella navata centrale, una volta a botte intersecata da lunette)5. Il progetto per Trissino (anticipato da quello per il concorso del Palazzo del Lavoro, la cui struttura è stata però concepita assieme a Sergio Musmeci) ha segnato una svolta, una nuova fase di sperimentazione strutturale successiva a quella aerodinamica, che forse non è disgiunta da quella concezione spaziale che Bruno Pedretti e Michele Bonino hanno definito «esperienziale», per descrivere il Dancing Lutrario, ampio cinema-teatro, disegnato da Mollino con Carlo Alberto Bordogna dal 1960. Caso esemplare nella ricerca dell’architetto sul continuum spaziale come «metodo di concezione e disegno attraverso linee che descrivono il movimento divenendo generatrici di spazio»6. Questa terza fase progettuale, intrapresa da Mollino intorno al 1959, emerge con chiarezza dalla relazione allegata al progetto per l’ampliamento dello stabilimento Marzotto - e forse non a caso durante la progettazione di uno stabilimento - ed era molto distante da quanto l’architetto aveva progettato anche solo cinque anni prima: il Calzificio Gatto di Pomezia ad esempio (1955-1956), con strutture in cemento armato calcolate dall’ingegnere (e imprenditore) Ferdinando Galdini. Per Marzotto Mollino si prefigurava il nuovo spazio produttivo di 100 x 120 m «libe-
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ro da fulcri intermedi» con al centro un gruppo di uffici, una «specola» collegata al perimetro da una passerella sopraelevata al perimetro; propone due soluzioni. Con la «soluzione A» immaginava delle strutture ad arco in cemento armato, come dei ponti a freccia minima: una serie di archi di 15 m di altezza, con imposta in terrapieno a scarpata, dove gli archi salgono «a saetta» da un declivio perimetrale (figg. 2-3). L’edificio, nei disegni con vista dall’alto appare isolato e circondato da una cornice erbosa; gli archi sono collegati in chiave da una trave longitudinale (una trave Vierendeel) e controventati dagli archi di testata. In questa soluzione il gruppo uffici di controllo appare dunque panoramico, a pianta ovoidale, sospeso all’arco centrale. L’accesso agli uffici è previsto anche carraio, per automezzi passanti trasversalmente sulla copertura: l’arco centrale portante il blocco uffici è all’estradosso una strada pensile, rinforzato dalla struttura portante e di collegamento della strada. Con la «soluzione B» Mollino proponeva invece una struttura «reticolare spaziale» in acciaio e cemento armato (fig. 4). Al centro un «pilone» o «torre di controllo» è portante scale e ascensore di accesso alla piattaforma soprastante. Questo «pilone» forma una doppia mensola in sommità e costituisce appoggio a due capriate reticolari principali che offrono appoggio a due schiere di capriate secondarie, sempre reticolari, poggianti all’altro estremo sui muri perimetrali. Un sistema di tiranti diagonali a 33 gradi, incrociati ai nodi inferiori di tutte le capriate, principali e secondarie, costituisce la controventatura e genera la caratteristica «spaziale» del sistema. Il sistema reticolare è sotteso da puntoni fusiformi («puntoni sagomati gettati a pressione in coppia con testa metallica incorporata e tiranti in acciaio»)7. Per questa struttura reticolare Mollino prevedeva di utilizzare elementi prefabbricati e il montaggio in opera mediante incastellature e messa in tensione con martinetti. Per la copertura aveva escluso elementi in vetro: la scelta avrebbe dovuto orientarsi su strisce di materia plastica trasparente, per cui l’architetto aveva consigliato una serie di ditte non italiane; negli appunti di progetto consegnati alla Marzotto si dilunga citando il sistema Zeiss-Diwidag a volte sottili in cemento armato, perché in virtù della curvatura degli elementi riflettenti, avrebbe generato una buona luce riflessa. Con la prima versione Mollino proponeva di sospendere gli elementi a shed ad un sistema di archi parabolici o di tralicci posti all’estradosso, visibili all’esterno della copertura. Questa soluzione detta «a ponte» sembra quella poi realizzata per l’ampliamento dello stabilimento. L’architetto - come rivela copia della relazione consegnata alla Marzotto - si era dilungato anche sui problemi che tale sistema avrebbe eventualmente sollevato, per il suo «aspetto piuttosto fieristico», proponendo di irrigidirlo con «tralicci secondari»: espediente che si sarebbe tradotto in « aumento di peso e delicate soluzioni di innesto». Non è facile rintracciare riferimenti e modelli (diversi da quelli citati nelle relazioni) che possano aver influito sulle scelte dell’architetto. Dal 1955 si è consolidata anche nel gusto molliniano una «estetica spaziale», estetica che peraltro emerge, proprio tra il
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1959 e il 1966, anche dalle pagine di «L’architecture d’aujourd’hui» (rivista da lui letta e collezionata), con gli articoli dell’ingegnere Robert Le Ricolais ad esempio. Più in particolare poi, la soluzione «a ponte», immaginata da Mollino per l’ampliamento dello stabilimento Marzotto, è anche molto simile a quella di un edificio che era diventato un modello di architettura industriale per i progettisti torinesi, nel corso degli anni cinquanta: la Centrale del Latte Comunale, disegnata dall’architetto Luigi Buffa (1949-1950), non pubblicata dai periodici nazionali ma da «L’architecture d’aujourd’hui», in un numero del 1956 dedicato all’architettura industriale europea. Qui si descrive la Centrale come una grande hall in cemento armato, sospesa a sovrastanti archi parabolici (che scandiscono le fasi di produzione che si svolgono all’interno), hall cosparsa di oblò per l’illuminazione8. Tuttavia è la «soluzione B» quella che Mollino ha articolato più ampiamente per Valdagno: nella relazione l’architetto aveva anche allegato una premessa Sulla concezione spaziale nelle strutture, dove si legge: «Sulla soluzione spaziale è concentrata attualmente l’attenzione degli studiosi e dei progettisti, però non rappresenta nulla di nuovo se non la tendenza a realizzare al limite tecnico quelli che sono i risultati teorici della scienza delle costruzioni»9. Tra le carte dell’architetto rimangono anche alcuni riferimenti che ha utilizzato forse per convincere la committenza della necessità di ricorrere a «strutture spaziali». Si tratta di immagini, probabilmente allegate alla relazione di progetto, introdotte da una premessa in cui Mollino ricordava che le luce massima ottenuta con strutture a shed metallici non superava allora i 30 m: le strutture in acciaio dello stabilimento Delco a Rochester (New York), progettato dalla Albert Kahn Associated Architect and Engineer; la struttura della fabbrica British Celanese di Wigon (England), progettata dallo studio di ingegneria di sir Alexander Gibb, uno dei più importanti a quel tempo, fondato da Gibb nel 1921 (fig. 5).
Il signor Bonaventura Tra il 1956 (anno della proposta per il calzificio Gatto a Pomezia) e il 1962 (anno dei progetti per Valdagno), si era consolidato il rapporto di Mollino con Sergio Musmeci. L’ingegnere, già noto al padre Eugenio Mollino, tra il 1951-1952 aveva progettato anche per il Servizio Costruzioni e Impianti Fiat, come collaboratore della Nervi & Bartoli, il ponte sul canale Laux dell’impianto idroelettrico di Fenestrelle10; nel 1958 chiamato a partecipare al concorso per il Palazzo del Lavoro (dall’impresa Guerrini, attraverso Bruno Zevi e Fiat), Musmeci si era ritrovato in gruppo con Carlo Mollino. Ha avuto inizio così anche un amichevole rapporto professionale, provato da una serie di lettere: la prima è datata 1960, dove Musmeci, oltre a riepilogare i fatti del concorso di Torino, raccontava a Mollino del suo impegno nel «colossale progetto per l’ap81
5. PROGETTO DI AMPLIAMENTO DELLO STABILIMENTO MARZOTTO A TRISSINO: APPUNTI DI PROGETTO ALLEGATI ALLA CAUSA MOSSA ALL’AZIENDA MARZOTTO DA CARLO MOLLINO. CON LA «SOLUZIONE A» MOLLINO AVEVA PROPOSTO DI SOSPENDERE GLI ELEMENTI SHED A UN SISTEMA DI ARCHI PARABOLICI O DI TRALICCI POSTI ALL’ESTERNO. ARCHIVIO MOLLINO, P.14C,277.
palto concorso dei Mercati Generali di Roma». L’armoniosa collaborazione finirà però col guastarsi durante la progettazione del nuovo Teatro Regio di Torino, per cui l’architetto proporrà Musmeci come consulente del Comune stesso per le strutture, in alternativa a un dipendente dell’Ufficio Tecnico Fiat. La proposta verrà accolta dalla
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città di Torino e l’ingegnere collaborerà con Mollino alla redazione della relazione strutturale, terminata a luglio del 1966 (e preceduta da quella sulle passerelle, inviata a maggio dello stesso anno). Tuttavia sarà l’architetto, «costretto a far da banchiere al municipio», ad anticipare per il Comune la somma dovuta a Musmeci, «come si usava al tempo del signor Bonaventura»11. Tra i progetti di Musmeci per il Teatro Regio (per le strutture delle passerelle che costituiscono il foyer insieme alle scale, dei collegamenti a ponte, delle strutture a sostegno della platea e della copertura della sala), è già stato approfondito il suo ruolo nella definizione della copertura: le tesi di Musmeci sono valse finchè l’ipotesi era quella di utilizzare una struttura mista in acciaio e cemento, ipotesi poi superata dal paraboloide iperbolico, scelto anche per ampliare il volume acustico della sala12. Allora, dopo il 1967, le proposte dell’ingegnere romano (pagate in parte e da Mollino) verranno superate - come quelle di Alberto Galardi e Antonio Migliasso per la nuova sede della Camera di Commercio di Torino - da quelle dell’ingegnere Felice Bertone, titolare dell’impresa che realizzerà entrambe le opere. Laureato al Politecnico di Milano nel 1930, volontario nella guerra civile di Spagna dalla parte nazionalista, poi impiegato dell’Impresa Bonomi di Roma e (dopo il campo di prigionia ad Orano, in Algeria ) titolare della propria dal 1947, Bertone che «fu soprattutto costruttore di fabbriche e convinto sostenitore del paraboloide iperbolico come solido generatore di illuminazione continua e diffusa, inseriva il paraboloide in strutture reticolari». Questo era stato accolto dalle élites locali, come un «ritrovato ingegnoso»... «da opporre alla mediocre luminosità delle coperture a shed o delle volte con lucernari»13 che stavano invadendo l’Italia durante ricostruzione. Prima del Teatro Regio, Bertone aveva calcolato e costruito anche il serbatoio d’acqua della centrale Enrico Fermi di Trino, «splendido origami», «costruito con un solido poliedrico a ottanta facce, prossimo alla sfera»14. Bertone dal 1966 seguirà, in parallelo al Regio, anche la costruzione della Camera di Commercio di Torino. La relazione strutturale allegata a questo progetto sarà redatta da un altro ingegnere, Antonio Migliasso, impiegato a lungo presso l’ufficio di progettazione della Olivetti e autore di un altro edificio pubblicato su riviste internazionali come «Architecture» e «L’Architecture d’Aujourd’hui»: il laboratorio farmaceutico Marxer di Loranzé, progettato con Alberto Galardi tra il 1962 e il 1964. Nonostante la relazione strutturale della nuova sede della Camera di Commercio di Torino sia accompagnata da una approfondita analisi sull’evoluzione storica della tipologia del «palazzo a uffici», impostata e discussa da Migliasso con Mollino, è difficile immaginare un coinvolgimento dell’architetto nella definizione delle strutture, come è capitato invece per il Teatro Regio (per cui rimangono diversi studi preliminari di strutture nervate, ad esempio). Per il nuovo Palazzo degli Affari - in particolare per l’edificio principale - è stata proposta una struttura difficilmente collocabile all’interno
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del percorso progettuale di Mollino, frutto molto probabilmente dell’esperienza di Antonio Migliasso nel campo delle grandi strutture in cemento armato15. Si tratta di una struttura appesa con un sistema a «tensione radiale», dove gli orizzontamenti sono appesi perimetralmente alla struttura a sbalzo dell’ultimo piano dell’edificio (un solettone di 50 centimetri in cemento armato precompresso da cui partono tiranti a sospensione, anch’essi in precompresso, inclinati di 40 gradi). Musmeci, come Galardi e Migliasso, hanno segnato con le loro proposte strutturali una discontinuità forte con i decenni precedenti dell’opera di Carlo Mollino. Tuttavia il loro peso progettuale - pur lasciando un segno nel vocabolario compositivo dell’architetto - in una realtà economica come quella di Torino, alla fine degli anni sessanta, viene superato dall’offerta di Felice Bertone. La piccola impresa di questo ingegnere sperimentatore - come nel caso della Nervi e Bartoli e della Giovannetti (con cui lavorava Riccardo Morandi) per Fiat16, si caricava della progettazione esecutiva delle strutture, oltre che della costruzione. Ma le ragioni per cui una pubblica amministrazione e un architetto, seppur facoltoso come Mollino, alla metà degli anni sessanta hanno ritenuto di doversi sgravare della consulenza di una società di ingegneria esterna, sono diverse e non soltanto economiche. In chiusura può essere utile sottolineare la contemporaneità con il Teatro Regio di due casi esemplari: quello della Metropolitan Opera House di New York, con le strutture di Amman e Whitney (dove gli aspetti impiantistici hanno assunto un rilievo forse maggiore) e quello della Sidney Opera House; grandi cantieri incubatori, in cui la committenza pubblica aveva investito per un ritorno di immagine, utile a riflettere ideali di innovazione. L’Opera di Sidney in particolare è divenuta luogo simbolo dell’identità nazionale ma anche del prestigio dei diversi ruoli svolti dalla società di ingegneria che lo ha costruito. Il processo di spersonalizzazione che ha caratterizzato l’ampliamento della Marzotto a Valdagno non è distante in fondo dalle strutture del Regio, completamente immerse nell’architettura e nella città storica: erano effetti di una volontà dell’architetto, oramai anacronistica, di accentrare e accentuare il proprio ruolo. Ma anche questa volontà seppur contrapposta - distante non era dalla civiltà fordista.
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M. COMBA (a cura di), Maire Tecnimont. I progetti di Fiat Engineering 1931-1979, Silvana Editoriale, Milano 2011. 2 M. COMBA, Carlo Mollino tra produzione industriale e unificazione edilizia a Torino nel II dopoguerra, in «Culture della Tecnica», n.s., 2004, n. 16, pp. 87-126. A. ASTOLFI, L. BRUNO, M. COMBA, P. NAPOLI, C. OLMO, in S. PACE (a cura di), Carlo Mollino Architetto 19051973, pp. 177-214. 3 M. COMBA (a cura di), Carlo Mollino. Architettura di parole, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 210-247. 4 Cfr. voce V. Zignoli di M. BONGIOVANNI, in Progetto e Cultura Società. La scuola Politecnica Torinese e i suoi allievi, Associazione Ingegneri e Architetti ex Allievi del Politecnico di Torino, 2010, pp. 112-113. 5 «[...] Coperta a botte nella navata centrale, una volta a botte intersecata da lunette di sviluppo massimo fino al centro volta che arrivano come per certe volte sottili in cemento armato a scaricare su piedritti divenuti parte stessa della volta. Di questi piedritti, caricati quasi solo di punta partono archetti che, oltre a formare una balconata perimetrale, finiscono per scaricare la spinta sulle volte rampanti delle navate laterali dove è ricavato il complesso camere da letto e servizi»: C. MOLLINO, Di-
segno di una casa sull’altura, in COMBA (a cura di), Carlo Mollino. Architettura di parole cit., p. 154. 6 M. BONINO e B. PEDRETTI in PACE (a cura di), Carlo Mollino Architetto cit., pp. 125-135. 7 Arch. Mollino Pdv. 14.4 8 Centrale du lait à Turin, in «L’architecture d’aujourd’hui», 1956, n. 69, pp. 68-69. 9 Arch. Mollino Pdv 14.4 10 Arch. Tecnimont Milano, E434. 11 Arch. Mollino, Lettera a Sergio Musmeci del 16 dicembre 1966. 12 L. BRUNO, in Il fantasma del Regio, in PACE (a cura di), Carlo Mollino Architetto cit., pp. 193-200. 13 G. RAJNERI, Felice Bertone in memoriam, in «Progetto e Cronache», 1992, n. 9, 1992, pp. 2-7. 14 Ibid. 15 M. SASSONE, Il nuovo Palazzo degli Affari della Camera di Commercio industria e agricoltura di Torino, in PACE (a cura di), Carlo Mollino Architetto cit., pp. 161-175 e L’architettura sospesa tra tecnica e utopia, in E. TAMAGNO (a cura di), Il Palazzo degli Affari di Carlo Mollino, Adarte, Torino 2010, pp. 121-133. 16 Cfr. i saggi di Edoardo Bruno e Rita D’Attorre nel presente volume, pp. 229-259.
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Carlo Mollino’s structural vocabolary between 1950s and 1960s
T
he 1958-1959 two year period represented a turning point in Carlo Mollino’s structural vocabulary. This Italian architect had look at metal structures with special attention since the 1930s: his first design projects for the Federazioni Agricoltori di Cuneo - Farmers’ Federation of the city of Cuneo, were an evidence of this interest, as well as the trussed frame where the cable-car arrival station of Fürggen lays on - calculated together with engineer Vittorio Zignoli, founder and director of the Istituto di Organizzazione Industriale- Institute of Industrial Organization, of the Polytechnic of Turin, and the metal structures that he proposed for the roof of the Teatro Regio in Turin, developed by Sergio Musmeci and never built. Between 1945 and 1956, Mollino primarily focused on those architectural elements that could stress the way cantilevered structures worked (such as corbelled balconies, cantilevered frameworks, mushroom-shaped pillars and hairpin stands), but in the second half of the 1950s he changed the focus of his attention. By that time he was more interested in other types of structures: honeycomb, spatial, suspended and shell structures. It was during this mature phase that the architect designed the roof of the Teatro Regio in Turin with a slender shell, and also the suspended structure for the Chamber of Commerce of the same city, resulting from a “radial tensioning system with floors hung at the last floor structure”. Engineer Antonio Migliasso was responsible for the structural design of this building. The engineer worked long years at the Olivetti Design Office and designed the pharmaceutical laboratory Marxer in Loranzé, in the Canavese area near Turin, together with Alberto Galardi, between 1962 and 1964. In the early 1960s - at the outset of a new designing phase for Mollino - the Turin’s architect designed part of the enlargement of the Marzotto plant in Trissino, close to Valdagno (Vicenza), one of his least known works. Nevertheless, the essay largely deals with this design project so that it becomes a study-case, where the architect put the collaboration with Sergio Musmeci to use for the competition to design the Palazzo del Lavoro in Turin. Two solutions were then proposed for a 12,000 sqm unique roof - this element was formed by reinforced concrete bridges with a minimum rise and a steel and reinforced concrete spatial structure. The plant would be enlarged according to the first solution that Mollino proposed, even though the architect was not credited as the author of the work. Mollino drafted a long report, as he did for the Chamber of Commerce, that had to go with this latter design of his - in this case the report dealt with “the spatial design of the structure” while, for the Chamber of Commerce, the report regarded “the de-
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velopment of a unique structural central core” (thanks to the use of floors held by prestressed anchors). These two reports contained the architect’s reflections but also bibliographical references and structural models of real buildings. The Valdagno design project was part of a new phase in the architect’s career, which was inaugurated with his design for the Palazzo del Lavoro in occasion of the Italia 61 exhibition and characterized by new collaborations with figures having nothing to do with the local entrepreneurial scene: Sergio Musmeci, Alberto Galardi and Antonio Migliasso. Since 1960 a strong friendship cemented with Musmeci, whom Mollino’s engineer father already knew, and in 1966, the two were very close by that time, Mollino proposed his friend’s name for the role of consultant for the Municipality of Turin, in charge of the structures of the Teatro Regio. Musmeci had to be an alternative choice to Mario Chiattone, working at the Fiat Engineering Office, that had to collaborate with Mollino in designing the theatre structures, as the city of Turin wished. And this was the work that witnessed the end of Mollino-Musmeci dialogue. Musmeci’s idea of a main room roof consisting of a steel and concrete trussed frame was abandoned in favour of a hyperbolic paraboloid roof in reinforced concrete: designed by a bizarre entrepreneur, engineer Felice Bertone, born in Catania- Sicily, graduated at the Polytechnic of Milan. He became an expert in the construction of finished reinforced concrete structures in Madrid, where he had gone because of the Spanish Civil War, and arrived in Turin to manage the consolidation works for the structures of the Teatro Regio in 1939 and there he also founded the company bearing his name in 1946. Nevertheless, the names of Musmeci, Galardi, Migliasso assumed massive importance in comparison with Bertone and the collaborators that Mollino had regularly worked with since 1940s: engineers Federico Calzone, Ferdinando Galdini, Giuseppe Prati, who used to be in charge of the calculations for the reinforced concrete structures. After 1958, since structural schemes developed dramatically, a big gap with the previous 15 year postwar period became evident, as it is reported in the documents stored at the Archivio Mollino - Mollino Archives (sketches, mail correspondence, reports and secondary sources from his library). It was all due to the fact that structures became a primary issue, and long reports dealt with them. Even Mollino’s new collaborations marked a big change, given that they replaced the old ones, mainly making part of the local entrepreneurial scene.
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Moretti e Nervi. Alcune considerazioni sul disegno della Stock Exchange Tower a Montreal (1960-1965) 1
ORIETTA LANZARINI
U
nico edificio realizzato del grande complesso denominato Place Victoria, la Stock Exchange Tower a Montreal, opera corale di Luigi Moretti e Pierluigi Nervi, è stata oggetto, in anni recenti, di una considerevole attenzione da parte degli studiosi, che hanno messo in luce alcuni aspetti significativi della sua progettazione2. Grazie a una ragguardevole mole di documenti, infatti, è possibile ripercorrerne, quasi giorno per giorno, l’intricata storia, protrattasi, ufficialmente, dal novembre 1960 al maggio 19653. A fronte di questa opportunità, però, nessuno studio ha finora ricostruito con precisione la scansione cronologica del progetto, né tentato di dare un ordine al complesso iter ideativo seguito da Moretti e Nervi, segnato da continui cambi di programma comprensibili solo intrecciando documenti e disegni. Questi ultimi sono, indubbiamente, la fonte meno considerata nelle indagini sull’opera canadese: i saggi di Legault e Sheppard, ad esempio, vengono illustrati da ben venti disegni di Moretti4, ma nella disamina degli studiosi si trovano solo pochi accenni al loro ruolo nella progettazione, e nessun tentativo di datarli o metterli in sequenza, né tantomeno di confrontarli con quanto prodotto dal coautore Nervi5. Un’altra questione, toccata solo marginalmente dagli studi, riguarda il peso dell’indagine teorica dei due progettisti, in particolare di Moretti, sulla genesi del complesso Place Victoria. Se osservazioni puntuali sono state formulate in particolare da Legault, Sheppard e Vanlaethem - a proposito delle scelte tecniche compiute nell’unica torre costruita, anche in relazione allo stato della ricerca sugli edifici alti in quel momento, meno approfondito è l’aspetto prettamente ideativo del progetto, rivelato principalmente dal corpus grafico prodotto da Moretti e Nervi. Questo è il tema che si propone di affrontare, nelle sue linee essenziali, il presente contributo. Prima di procedere all’analisi di alcuni disegni significativi, è necessario riassumere brevemente i passaggi fondamentali della storia della torre. Nel 1953 la Nationale Handelsbank of Amsterdam apre una filiale a Montreal, la Mercantile Bank of Canada, la cui direzione è affidata a Henri Moquette con l’incarico di acquisire aree presso Victoria Square, cuore della downtown, per ospitarne la sede. Terminata questa fase nel 1958, il direttore interpella, senza successo, alcuni investitori locali per sovvenzionare la costruzione di un complesso per uffici; il fallimento dell’iniziativa lo spinge verso una partnership con la Società Generale Immobiliare di Roma
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1. LUIGI MORETTI, STUDI PER LA STOCK EXCHANGE TOWER, MONTREAL, FEBBRAIO 1961 (?). AMM.
(SGI), la quale interessa altri sette investitori italiani (BNL, Efibanca, Finsider, Gruppo Edison, IMI, Italconsult e Snia Viscosa). Nel novembre 1960, definiti gli accordi tra le parti, viene istituita la «Place Victoria - St. Jacques Company», deputata alla gestione di un ambizioso progetto comprensivo di tre torri per uffici6. L’impegno della SGI nell’opera canadese porta al logico coinvolgimento di Luigi Moretti. Legato da stretta amicizia con Aldo Sammaritani, egli è considerato l’«architetto dell’immobiliare» con la quale collabora in numerose occasioni; tra queste, una consulenza per il quartiere San Berillo a Catania affidatagli, nel 1957, assieme ad Alvar Aalto e Pier Luigi Nervi7. La cooperazione tra quest’ultimo e l’architetto potrebbe aver incoraggiato i vertici della SGI a riproporre i loro nomi per Place Victoria. Una decisione affatto vincolante rispetto all’esito ultimo dell’impresa: scegliere Nervi - «the “wizard” of modern reinforced concrete»8 - significava, infatti, ipotecarne il destino strutturale con l’imposizione di un materiale, il cemento armato, talmente inconsueto per gli edifici alti da diventare di per sé un tratto promozionale del progetto. Moretti e Nervi sono chiamati a operare in un contesto denso di vincoli. Montreal si trova in una zona ad alto rischio sismico, oltre che soggetta a escursioni termiche di grande entità, parametri da considerare, assieme all’incidenza del vento, nella proget-
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tazione di edifici alti. Per agevolarne il lavoro, è istituito un project management group guidato dal project manager Edward Landway, dello studio Panero-Weidlinger-Salvadori, composto da professionisti di diversi settori; tra questi, gli architetti associati Greenspoon, Freedlander & Dunne e gli ingegneri D’Alemagne & Barbacki, che saranno, non senza conflitti, i principali interlocutori dei «master builders» italiani9. Fin dal primo incontro, tenutosi a Montreal dal 11 al 14 gennaio 1961, vengono discussi «the broad principles of structural design» e Antonio Nervi - intervenuto per lo Studio Nervi - segnala, da subito, l’opportunità di adottare per le torri una «reinforced concrete structure with a reticulated slab»10. Ai meeting successivi, il 19 e 21 gennaio, partecipa anche Moretti, il quale dimostra un precipuo interesse per l’inserimento del complesso nella città e per la possibilità di collegare «by way of underground levels the total complex of buildings, from Place Ville Marie level to Place Victoria level»11. È di questi anni, infatti, l’idea di Vincent Ponte, collaboratore di Pei, di creare un sistema di connessioni sotterranee del quale l’architetto romano afferra immediatamente le potenzialità12. All’indomani delle riunioni di gennaio, Moretti e Nervi iniziano a elaborare una prima versione di progetto, messa a punto tra febbraio e luglio 196113. Un fattore che ne condiziona, senza dubbio, l’azione progettuale è il grandioso programma architettonico di Place Victoria, ovvero il numero delle torri. Chi lo stabilisce, dunque? La risposta più semplice è che sia Moretti a suggerire, forse direttamente a Sammaritani, questa combinazione di sicuro impatto promozionale. Come rivelano i suoi disegni, la progressione dinamica delle tre torri, da ricondurre a unità, gli offre la preziosa occasione di approfondire, su un tipo edilizio per lui inedito, alcune ricerche condotte fin dagli anni giovanili. Una coppia di torri, vincolata da un fatale principio di simmetria, non avrebbe avuto, e non avrà, la stessa forza iconica14. In un primo studio, l’architetto approccia il problema in termini di strutturazione dell’insieme dei tre edifici, mettendo sullo stesso piano otto combinazioni planimetriche equivalenti, alcune delle quali verranno sviluppate15. Al pragmatismo morettiano nel definire un assortimento di forme possibili, non corrisponde, però, alcun esplicito riferimento alla struttura delle torri. Come si spiega un simile atteggiamento verso un tipo di edificio che non può quasi prescindere, per sua indole, dall’aspetto strutturale? La posizione di Moretti nei confronti dei grattacieli costruiti a metà del XX secolo è chiaramente espressa all’indomani del completamento della torre canadese, definita «una forma nuovissima eppure classica che ripudia, finalmente, i grattacieli prismatici, con le stesse dimensioni in basso come in alto, e ripudia, quindi, quella astrattezza costruttiva che li privava del senso dell’effettiva presenza del peso e dello sforzo della materia che peraltro è alla base dell’emozione architettonica»16. A giudizio di Moretti, dunque,
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il grattacielo prismatico, con la sua ineludibile consequenzialità di struttura e forma, non riesce a commuovere: il problema sembra essere, innanzitutto, formale e con la forma l’architetto tenta di risolverlo. Due studi inediti, forse tra i primi redatti, hanno un valore seminale per lo sviluppo del progetto (fig. 1). Moretti lavora con Nervi, che stima e del quale aveva pubblicato su «Spazio» un’aviorimessa, vera «cattedrale di cemento»17. Logico, quindi, che esordisca con una riflessione planimetrica e volumetrica, subito abbandonata, sulla torre Pirelli (1956-1961), che coesiste con pensieri generati dalla vicina torre cruciforme di Pei, così come dal grattacielo berlinese, in vetro e acciaio, di Mies van der Rohe (1921). Moretti assegna già un ruolo decisivo alla piastra che sostiene e rende monumentali i fusti delle torri, un basso e articolato volume che ne accompagna la scansione stereometrica. In altri tre studi, egli inizia a verificare l’impatto del complesso sulla città, tema al centro dei suoi interessi18 (fig. 2). Com’è evidente, la parte basamentale risente di esperienze morettiane precedenti, in particolare la villa «La Saracena» a Santa Marinella (1954-
2. LUIGI MORETTI, STUDI PER LA STOCK EXCHANGE TOWER, MONTREAL, FEBBRAIO 1961 (?). ALM, R. LEGAULT, PLACE VICTORIA: LA RISPOSTA DI MORETTI AL PARADIGMA MIESIANO, IN B. REICHLIN E L. TEDESCHI (A CURA DI), LUIGI MORETTI. RAZIONALISMO E TRASGRESSIVITÀ TRA BAROCCO E INFORMALE, MILANO 2010, P. 330.
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3. PIER LUIGI NERVI E STUDIO NERVI, PIANTA E ALZATO DELLA STOCK EXCHANGE TOWER, MONTREAL, 15 FEBBRAIO 1961. CSAC.
1957) e il collegio dell’Accademia Nazionale della Danza a Roma (1955-1968), mentre in due varianti il fusto delle torri, nonostante sia molto articolato, è scandito anche da balconi sporgenti, forse sulla falsariga del progetto per il Chicago Tribune di Gropius (1922). In tali soluzioni, l’architetto continua la propria investigazione sulla forma delle torri, senza alcuna evidente riflessione sulla struttura che le sostiene, se escludiamo una sorta di nucleo resistente al centro di due varianti planimetriche19. Quali sono le ragioni di tale scelta, contraddittoria alla luce del concreto interesse di Moretti, mostrato in altre occasioni, per le questioni strutturali? È possibile che l’architetto stia applicando al progetto quel principio di «trasfigurazione della struttura muraria» che aveva analizzato su «Spazio» valendosi, come esempio, dell’architettura toscana dal XIII al XVI secolo20. Si tratta di «un processo trasfigurativo», egli osserva, che consente la «trasformazione di una struttura muraria in una superficie espressiva i cui termini formali siano assolutamente estranei a ogni riferimento costruttivo»21. Dunque la struttura andrebbe del tutto trascurata? Non necessariamente, ma c’è uno scopo superiore da perseguire: «salire all’astratto» - e «l’architettura è per sua natura arte eminentemente astratta» precisa Moretti - «può solo una superficie di una struttura muraria che non debba reggere, intendo dire che idealmente sia posta a non reggere»22. Se il problema del grattacielo prisma-
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tico è, in sintesi, la subordinazione della forma alla struttura, la forma deve tornare a esprimere se stessa, anche obnubilando la struttura. Mentre Moretti tenta di stabilire la priorità dell’involucro sull’ossatura portante, Nervi si concentra, comprensibilmente, sulla risoluzione strutturale delle torri. Come testimoniano i primi disegni (fig. 3), datati febbraio 1961, l’ingegnere e i suoi collaboratori studiano una sola torre-tipo di impianto quadrato, sorretta da pilastri angolari, decrescenti dal basso verso l’alto, e da quattro sostegni al centro, mentre l’alzato è ritmato da griglie di finestre. Circa un mese più tardi si consolida l’idea di inserire due pilastri intermedi per ogni fronte e un nucleo centrale formato da travi disposte a croce di Sant’Andrea che, perfezionato, sarà adottato nel progetto finale23. Anche Moretti, a un certo punto, introduce nei disegni un’ossatura di sostegno agli angoli delle torri, forse prendendo atto di quanto stava studiando Nervi; tuttavia, l’architetto assegna al telaio strutturale un ruolo accessorio, quasi di semplice supporto delle scatole edilizie che muove ritmicamente al suo interno24; un probabile riferimento è il progetto del MOMA a New York di Howe e Lescaze (1930), che conferma la sua attenzione per gli edifici alti progettati prima dell’avvento massivo del grattacielo prismatico. Nervi, intanto, raggiunge la consapevolezza di quale struttura adottare. Il 7 giugno 1961 scrive da Zurigo al proprio studio (forse al figlio Antonio): «ho fatto ancora vari pensieri sull’ossatura di Montreal e mi pare che la soluzione integrale quella di far portare tutto il carico sui pilastri esterni offra serissime possibilità di essere la migliore»25; le sue indicazioni si concretizzano in una serie di disegni nei quali l’impianto del piano-tipo26 è molto vicino alla soluzione presentata alla stampa da Marcello de Leva, presidente della società Place Victoria, il 22 settembre 196127. Il piano attuativo di quello che è definito «the largest office complex in the world» - sviluppato in soli otto mesi e comprensivo di tre spettacolari torri di 51 piani per un costo di circa 90 milioni di dollari - prevede la costruzione di una prima torre, chiamata Stock Exchange Tower, entro il 1964, e in base al successo finanziario di questa, è preventivata la realizzazione delle altre due entro dieci anni28. Perplessità riguardo la mastodontica scala del complesso erano affiorate già nel maggio 196129, ma solo l’anno seguente, la drastica riforma del programma per Place Victoria troverà compimento. Il 6 febbraio 1962 Hugo Facci, dello studio Panero-Weidlinger-Salvadori, presenta alla «Ontario Concrete Association» di Toronto una versione aggiornata del progetto: la coppia di pilastri centrali appaiono posizionati dietro al piano delle facciate, ora lievemente bombate e segnate da un solo elemento verticale30. È la conseguenza, probabilmente, delle decisioni prese dopo l’incontro di gennaio 1962, durante il quale si era discusso dell’arretramento dei pilastri mediani anche a costo di una minore resa economica31. Inoltre, le condizioni climatiche di Montreal avevano imposto l’introduzione, almeno da ottobre 196132, di un rivestimento di pannelli in cemento per protegge-
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re la superficie esterna dei pilastri angolari dagli elevati sbalzi termici, anch’esso presente nella soluzione illustrata da Facci. I cambiamenti citati, al pari dei documenti coevi, dimostrano come aspetti basilari del progetto fossero, all’epoca, ancora in via di definizione. Questo stato di cose è testimoniato anche da un bellissimo disegno di Moretti databile, probabilmente, a dopo la metà di gennaio 1962, poiché la pianta di una delle torri mostra già le facciate incurvate (fig. 4). Come in una sorta di stream of consciousness, l’architetto stratifica soluzioni planimetriche, volumetriche e di dettaglio, mentre anima l’involucro delle torri corrugandone la pelle vetrata o scandendone i fronti con sequenze ritmiche che sembrano ancora generarsi dalla trasfigurazione di strutture murarie. Ma il disegno suggerisce forse un tema più importante. Moretti ipotizza la sagoma dei pilastri angolari in due piccoli studi, in alto a sinistra e al centro a destra, tra i pochi dedicati a questa parte essenziale della costruzione. Nonostante i sostegni siano stati quasi risolti, almeno nei disegni di Nervi, egli li rappresenta curvilinei, rimarcandone il carattere scultoreo e autonomo, per poi farli aderire, senza integrarli, agli spigoli delle torri. La messa a punto dei pilastri angolari è, senza dubbio, la chiave per comprendere il decorso, e molte delle antinomie, del progetto canadese. Benché il sistema strutturale sia
4. LUIGI MORETTI, STUDI PER LA STOCK EXCHANGE TOWER, MONTREAL, GENNAIO 1962 (?). ALM.
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definito entro giugno 1961 circa, la forma dei sostegni d’angolo è oggetto di discussioni continue, persino di conflitti tra i progettisti, e viene concordemente accettata solo il 24 aprile 196333. Il 14 giugno successivo si apre il cantiere34, ma a luglio Moretti deve ancora ribadire per tramite della Ediltecno Canada, impresa preposta a gestire la costruzione della torre, che «la forma del pilastro d’angolo esterno non dovrà essere cambiata per nessuna ragione»35. Nel febbraio 1963, infatti, l’ingegner Barbacki, forse esasperato dai tentennamenti del team italiano, aveva suggerito una variante per i pilastri angolari che comportava apprezzabili vantaggi economici36. Del rifiuto dei progettisti si era fatto portavoce Antonio Cecchi, il 4 marzo seguente, in una lettera all’ingegner Padoan della Ediltecno Canada: «Per un complesso di ragioni di ordine estetico, di ingombro e strutturale l’arch. Moretti ha studiato e il prof. Nervi ha approvato una forma [dei pilastri] che si differenzia dalla Vostra», della quale rimarcava poi le qualità: «non differenziare troppo la forma della struttura da quella dell’involucro che l’architetto progettista giudica meglio corrispondente alle esigenze estetiche della torre [può] compensare il maggior onere della esecuzione»37. Considerando le «esigenze estetiche della torre» che ruolo ha il profilo dei pilastri angolari? Come si spiega l’esigenza di Moretti di stabilirne personalmente il disegno, quando poteva lasciare allo Studio Nervi questa incombenza prettamente tecnica? La difficile messa a punto dei pilastri è dovuta sia a ragioni strutturali, sia all’ambiguità che li caratterizza: la loro sagoma, infatti, non è a vista, ma protetta dall’involucro che ne segue, approssimativamente, il contorno esterno (fig. 5). È chiaro che a fronte di questa dualità, il problema strutturale diventa inscindibile da quello figurativo. Se i pilastri non possono comunicare direttamente all’osservatore la fatica che compiono per sostenere le torri - in modo tale da esibire quella «effettiva presenza del peso e dello sforzo della materia»38 che origina l’espressione architettonica -, tale compito deve passare al rivestimento che li nasconde. Nell’ottica della ricerca di Moretti, dunque, a cosa equivale il disegno della sagoma del pilastro, o meglio, del suo involucro? Questa forma potrebbe avere, ai suoi occhi, il valore di una modanatura. Come scrive su «Spazio», «le modanature apposte agli elementi architettonici discontinui - pilastri, colonne, portali, finestre - assolvono la funzione di precisare, di scandire, l’individualità dei singoli elementi e di coordinarli in una legge spaziale comune». E ancora, la modanatura ha «la capacità di addensare al massimo, il senso del concreto, il senso di esistenza, di realtà obiettiva» dell’architettura, poiché «ogni cosa è visibile e con noi comunica per la sua superficie». Se compito del pilastro è reggere fisicamente la struttura, l’involucro che ne costituisce la proiezione - ovvero la sua modanatura - «può spingersi a partecipare in pieno all’ideale travaglio struttivo dell’elemento cui appartiene»39 sconfinando nel campo dell’espressione architettonica, quella che Moretti insegue, a costo di anni di discussioni, e che manca, a suo giudizio, al grattacielo prismatico.
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La dilazione del progetto, causata soprattutto dal braccio di ferro continuo tra le parti italiana e canadese, consente di variare, senza grandi problemi, il «programma pubblicitario» iniziale di Place Victoria durante l’incontro del 22-23 marzo 1962: l’ambizione di costruire tre torri sussiste ancora, ma dai 51 piani iniziali più 5 basements, si passa a 42 piani e 4 basements40; nel novembre del 1962, però, le torri diventano definitivamente due, con i lati paralleli tra loro e disposte su un basamento comune41. Nonostante le continue revisioni del piano di lavoro, lo studio Nervi aveva consegnato, il 16 luglio 1962, la «relazione di calcolo finale con relativi schemi costruttivi» e stava continuando a produrre disegni generali e di dettaglio per procedere alla costruzione della prima torre42. Il cantiere si apre un anno più tardi, il 14 giugno 1963, ma il 21-22 giugno Moretti è impegnato a redigere nuovi disegni alla ricerca di una soluzione ottimale per l’involucro, l’altra parte essenziale dell’architettura della torre assieme ai sostegni angolari. Fin da luglio 1962, infatti, gli era stato chiesto di fornire con urgenza, oltre alla «sagoma definitiva dei pilastri d’angolo della torre», il «prospetto definitivo» e il «raggio dei curtain wall del mezzanino»43. L’architetto avanza due ipotesi. Nella prima, il volume di base e le tre sezioni del fusto della torre, stretti dal telaio strutturale, si gonfiano, dando vita a un volume ottagono - «il cerchio degli uomini spezzato e respirante»44 -, che richiama il coevo grattacielo della Pan Am di Gropius (1958-1963). Nella seconda versione, prossima a quella costruita, egli si concentra, invece, sul coordinamento tra il corpo basamentale, il fusto della torre, entrambi piani, e i possenti pilastri angolari45.
5. PIER LUIGI NERVI E STUDIO NERVI, DETTAGLIO DEL PILASTRO ANGOLARE DELLA STOCK EXCHANGE TOWER, MONTREAL, 28 GIUGNO 1962. CSAC.
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Nei mesi seguenti, la costruzione procede rapida: il 27 luglio 1964 la topping-off cerimony sancisce la chiusura del 49° piano e il 1 maggio 1965 la Stock Exchange Tower - all’epoca, l’opera in cemento armato più alta al mondo, con i suoi 190 metri - viene inaugurata; l’ipotesi di realizzarne una gemella, invece, tramonta definitivamente nel 197246. Dalle parole dedicate da Moretti alla torre, affiora la consapevolezza che la sua personale battaglia contro il grattacielo prismatico era vinta: «Concepita in modo nuovissimo, secondo uno schema architettonico che esalta la forza costruttiva dell’edificio, concentrandone l’espressione nei quattro pilastri d’angolo» e ancora «per la prima volta anche lo schema delle grandi pareti vetrate [...] non è stato fatto piano e rigido, ma [...] come se i quattro piloni con la loro forza comprimessero il contenuto spaziale della torre»47. Un risultato possibile solo grazie al sodalizio vivo e dialogico tra Luigi Moretti e Pier Luigi Nervi48, concordi nel fare della Stock Exchange Tower una straordinaria macchina, non solo tecnica, ma anche emozionale. Per l’aiuto e le utili osservazioni, desidero ringraziare Alessandro Brodini, Marko Pogacnik e Annalisa Viati. 2 Vedi C. ROSTAGNI, Luigi Moretti 1907-1973, Milano 2008, pp. 135-146, 271-274; R. LEGAULT, Place Victoria: la risposta di Moretti al paradigma miesiano, A. SHEPPARD, Place Victoria: il simbolo della collaborazione tra architetto e ingegnere, e S. PORETTI e G. CAPURSO, Trasfigurazioni di strutture, in B. REICHLIN e L. TEDESCHI (a cura di), Luigi Moretti. Razionalismo e trasgressività tra barocco e informale, Milano 2010, pp. 329-351, 375-378; F. VANLAETHEM, Tour de la Bourse-Place Victoria, in C. OLMO e C. CHIORINO (a cura di), Pier Luigi Nervi. L’architecture comme défi, Cinisello Balsamo 2010, pp. 174-177; C. ROSTAGNI, Luigi Moretti. Forma come struttura o struttura come forma? La torre della Borsa di Montreal, in G. BIANCHINO e D. COSTI (a cura di), Cantiere Nervi. La costruzione di una identità. Storie, geografie, paralleli, Milano 2012, pp. 281-284. 3 Dopo l’inaugurazione, il primo maggio 1965, i lavori di completamento della torre continuano anche l’anno seguente. Il materiale documentario e grafico relativo al progetto è conservato in Archivio Pier Luigi Nervi MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma (d’ora in poi APLN), Archivio Pier Luigi Nervi Centro Studi Archivio Comunicazione, Parma (d’ora in poi CSAC), Archivio Società Generale Immobiliare Sogene e Archivio Luigi Moretti - Archivio Centrale di Stato, Roma (d’ora in poi ALM), Archivio privato Moretti-Magnifico, Roma (d’ora in poi AMM). 4 LEGAULT, Place Victoria cit., pp. 330-332, 334 e SHEPPARD, Place Victoria cit., pp. 340, 342, 344-347; i disegni sono datati 1960-1965. 5 Alcuni disegni dello Studio Nervi sono editi in VAN-
LAETHEM, Tour de la Bourse-Place Victoria cit., pp. 175177; il disegno pubblicato a p. 174, con la data 1961, è firmato da Moretti: se ne trova copia in ALM ed è databile, in base ai documenti, all’inizio del 1963 (APLN, P43/3, 4 e 13 febbraio 1963: promemoria e lettera di A. Sheppard a G. M. Padoan). 6 APLN, P43/2, dicembre 1961: Place Victoria, dattiloscritto (d’ora in poi datt.), pp. 1-5. 7 Vedi ROSTAGNI, Luigi Moretti cit., pp. 135-146 e ROSTAGNI, Luigi Moretti. Forma come struttura o struttura come forma? cit., p. 281. 8 APLN, P43/2, 22 settembre 1961: Speech by Mr. Marcello de Leva, datt., p. 2. 9 Per l’organigramma completo, vedi APLN, 43/2, dicembre 1961: Place Victoria, datt., pp. 6-8. 10 APLN, P43/2, 11-14 gennaio 1961: verbale, datt., p. 1. Per valutare i problemi, soprattutto tecnici, da affrontare sono presi a modello tre complessi in via di conclusione, dei quali il team visita i cantieri durante questo primo incontro, equiparabili a Place Victoria per peculiarità architettoniche, funzioni e resa economica: Place Ville Marie di Pei (1956-1962), la CIBC Tower di Peter Dickinson Associates (1958-62) e la CIL House di SOM (1958-1962). Inoltre, i partner italiani vengono edotti riguardo alla vasta messe di normative edilizie locali, e alla disponibilità e gestione dei materiali da costruzione. 11 APLN, P43/2, 21 gennaio 1961: verbale, datt., p. 2. 12 V. PONTE, Montreal’s Multi-Level City Center, in «Traffic Engineering», September 1971, pp. 20-25, 78. 13 L’incarico viene conferito ufficialmente ai progettisti nel marzo 1961 (ROSTAGNI, Luigi Moretti. Forma come struttura o struttura come forma? cit., p. 281). 14 La testimonianza di Sheppard, collaboratore di Mo-
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APLN, P43/3, 12-13, 15 gennaio 1962: verbale, datt., p. 2. APLN, P43/4, 5 ottobre 1961: verbale, datt., pp. 1-2. 33 «L’architetto Moretti ha approvato il disegno definitivo del pilastro d’angolo [...]. Ci ha confermato di aver discusso questo dettaglio con il prof. Nervi, il quale ne ha approvato la sagoma, con le modifiche eseguite il 24 aprile» (APLN, P43/3, 24 aprile 1963: promemoria datt. di W. Graff a Pifferi e Cellini). Questa procedura è confermata anche da SHEPPARD, Place Victoria cit., p. 349. 34 ALM, b. 18, s.d. (1966?), Place Victoria. A new concept of total business environment, opuscolo a stampa, s.p. 35 APLN, P43/3, 11 luglio 1963: lettera di Q. L. Carlson, vice presidente della Ediltecno Canada, alla Ediltecno Roma. 36 APLN, P43/3, 18 febbraio 1963: verbale, datt., p. 1. 37 APLN, P43/3. L’ing. Cecchi era amministratore delegato della Ediltecno Roma. 38 Vedi nota 16. 39 L. MORETTI, Valori della modanatura, in «Spazio», dicembre 1951 - aprile 1952, 6, pp. 6, 12. Corsivo mio. 40 APLN, P43/3, 22-23 marzo 1962: verbale, datt., pp. 1-7. 41 LEGAULT, Place Victoria cit., p. 333; SHEPPARD, Place Victoria cit., pp. 349-350. 42 APLN, P39/5, 16 luglio 1962: Place Victoria St. Jacques Co. Montreal Canada. Relazione strutturale, datt. 43 APLN, P43/3: Montreal - «Place Victoria Project» - Torre n. 1. Rapporto sulla situazione al 20 luglio 1962, datt., p. 6. 44 MORETTI, Trasfigurazione di strutture cit., p. 16. 45 Vedi disegni in SHEPPARD, Place Victoria cit., pp. 340, 342. 46 Documenti in ALM, b. 18. 47 Vedi nota 16. Parzialmente citato in LEGAULT, Place Victoria cit., p. 329. 48 All’indomani del completamento dell’opera, nel 1965, Nervi dichiara a Samaritani come la collaborazione con Moretti fosse stata «particolarmente felice» essendosi basata su «unità di idee e reciproca stima» (citato in ROSTAGNI, Luigi Moretti. Forma come struttura o struttura come forma? cit., p. 281).
retti, sembra confermare l’ipotesi: «Una volta gli ho chiesto [a Moretti]: perchè tre torri? Perchè non due, più alte e grandi? L’idea fu respinta immediatamente: con tre torri si ha la sensazione di creare un insieme unitario, mentre due avrebbero generato una dualità» (SHEPPARD, Place Victoria cit., p. 345). 15 Il disegno è pubblicato in SHEPPARD, Place Victoria cit., p. 344. 16 ALM, b. 18, 1965?, L. MORETTI, La torre della Borsa di Place Victoria in Montreal, datt., pp. 1-2. Citato in LEGAULT, Place Victoria cit., p. 330. 17 L. MORETTI, Un progetto di Pier Luigi Nervi per un’aviorimessa a Buenos Aires, in «Spazio», luglio 1950, 1, pp. 50-51. 18 Vedi disegni in LEGAULT, Place Victoria cit., p. 330 e SHEPPARD, Place Victoria cit., pp. 344, 347. 19 Pubblicate in SHEPPARD, Place Victoria cit., p. 344. 20 L. MORETTI, Trasfigurazioni di strutture murarie, in «Spazio», gennaio - febbraio 1951, 4, pp. 5-16. 21 Ibid., p. 9. Corsivo mio. 22 Ibid., pp. 5, 9. 23 Vedi scritto autografo di Nervi in APLN, P43/2, 14 marzo 1961: Complesso Montreal. Calcoli orientativi e disegni, datati 14, 17 e 18 marzo, in CSAC. 24 Vedi disegni in SHEPPARD, Place Victoria cit., pp. 346-347. 25 APLN, P39/4. Vedi anche appunti del 9 giugno 1961 con la comparazione di vari sistemi strutturali (APLN, P39/1). 26 Disegni, datati 15 e 23 giugno 1961, in CSAC. 27 Vedi nota 8. 28 B. BANTEY, First of Proposed Skyscrapers Would Be Finished In 3 Years, in «The Montreal Gazette», 23 September 1961, p. 1. Vedi anche l’opuscolo Montreal. A New Horizon, s.d. (1961) in ALM, b. 18. 29 APLN, P43/2, 17-18 maggio 1961: verbale, datt., p. 3. 30 APLN, P40/4, 6 febbraio 1962: H. FACCI, The Engineering Aspects of the Place Victoria Towers, Montreal, datt. LEGAULT, Place Victoria cit., pp. 330-331 afferma che questa è la prima versione del progetto, a suo parere presentata nel dicembre del 1961.
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Moretti and Nervi. Some observations on the design of the Stock Exchange Tower in Montreal (1960-1965)
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he topic of this contribution is the Stock Exchange Tower in Montreal, designed by Luigi Moretti and Pier Luigi Nervi, the only finished building of a great complex named Place Victoria, a compound firstly including three office towers, located in a strategic point of the downtown area. Recently, several studies have deepened some relevant, especially technical, features of the Canadian building, but both its origin and design development phase have not been retraced in detail yet. This survey is then structured on a double track: thanks to the remarkable amount of recorded documents it is now possible to go through the story of Place Victoria, almost day by day, whereas by examining the sketches by Moretti and Nervi the main technical, architectural and formal issues are highlighted. A massive financial machine was activated to design and build the whole project: “Place Victoria - St. Jacques Co. Inc.”, born in 1960 from the partnership between the Mercantile Bank of Canada and the Società Generale Immobiliare di Roma (SGI), supported by Canadian and Italian sponsors. If the ambitious scale of the design project is justified by the importance of the investment, choosing Moretti, the “official” architect of SGI, and Nervi, above all, - “the ‘wizard’ of modern reinforced concrete”sealed the fate of the towers from the outset, by using a material - reinforced concrete that was so unusual for tall buildings that became a promotional feature of the design project. The Italian “Master Builders” were assisted by a numerous technical staff, coordinated by Project Manager Edward Landway from the Panero-Weidlinger-Salvadori studio, where different professionals worked in; including architects Greenspoon, Freedlander & Dunne and engineers d’Alemagne & Barbacki, playing a central role in the story of the compound. There were many problems to be tackled. Montreal is a very delicate place from a seismic point of view and subject to elevated temperature excursions - these were standards that, together with the incidence of the wind, have to be considered when designing tall buildings. During the first coordination meetings, in early 1961, the main - technical, urban and architectural - aspects were debated; furthermore, the Canadian part provided their Italian partners with a wide range of technical and information material. These were the basis from which Moretti and Nervi started developing their first design version between February and July 1961. The drawings, which can be better interpreted if integrated with documents, prove the different design approach the two masters had, even though it is clear that the multiple
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changes of direction that Moretti creative pathway undertook, in this and following phases, depended on the development of design project, that was managed simultaneously by the Studio Nervi and vice versa. Moretti focused on the coordinated location of the three towers, 51 floors each, laid on a sort of articulated basement floor. His drawings reveal how, as a result of the surveys he had carried out since a young age, he managed to establish an expressive dialogue between the towers as a whole - keeping their distance from coeval prismatic skyscrapers - and the urban fabric, almost without considering technical solutions. On the other hand, Studio Nervi, from the first sketches, focused on a single square-shaped tower-type, supported by four massive corner pilasters and a central core made of two crossing beams. On 22nd September 1961 «the largest office complex in the world» was publicly presented: the first of the two towers, named Stock Exchange Tower, housing the stock exchange and other prestigious companies, was scheduled to be built within 1964, the other two towers would have to be completed in the following ten years. Nevertheless, the project was cut down dramatically in November 1962, when the number of towers was reduced to two. The Stock Exchange Tower building site opened in June 1963, the topping-off ceremony took place on 27th July 1964 and the tallest concrete building in the world, 190 m high, was officially inaugurated. The idea to build a twin tower finally failed in 1972, instead. So, what happened in the two years between the presentation of the design project and the beginning of the construction phase? The documents indicate an everlasting trial of strength between the Italian and the Canadian parts: the main topics for discussion were the corner pilasters, determining the structural and architectural expression of the tower and whose ultimate section was outlined in April 1963, but also the position of the intermediate piers, affecting, on the other hand, the appearance of the external part, which may have been specifically provided by Moretti. The pragmatic attitude of the Canadian team, careful at reducing costs by looking for the most convenient solution, was opposed by the architect’s iron will, sympathetic with Nervi in this matter, to maintain all the formal and technical features of the design project. The goal was achieved, eventually: as Moretti declared, the Stock Exchange Tower was “conceived in an innovative way, according to an architectural scheme emphasising the building strenght of the tower, whose expression is focused on the four corner pilasters” as if “they could squeeze the spatial content of the tower”.
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Una forte amicizia, una casa esile: Pier Luigi Nervi e Lina Bo Bardi ROBERTA MARTINIS
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el 1950 Pier Luigi Nervi viene insignito della laurea honoris causa dalla Facoltà di Architettura di Buenos Aires. Il viaggio che intraprenderà per andare a ritirare il titolo onorifico sarà la prima occasione per saggiare le possibilità e gettare le basi per la costruzione di una fama internazionale1. A Buenos Aires, sotto gli auspici di Giulio Pizzetti, ingegnere italiano allievo di Colonnetti, e di Francisco Montagna, decano della facoltà, Nervi stringe alcuni rapporti che condurranno a una serie di progetti pubblici e privati2. Nel frattempo Nervi pubblica con il titolo El lenguaje arquitectónico le lezioni tenute alla facoltà di Buenos Aires3. Nel volume densamente illustrato, dove Nervi propone i propri progetti come paradigmi di un nuovo sapere costruttivo, ad aprire e chiudere questa rassegna di modernità realizzata sono le immagini del sistema ad archi rampanti di una cattedrale gotica, e della sezione della cupola di Santa Maria del Fiore, a ribadire come sia la tradizione a segnare, e a insegnare, i limiti del proprio fare, e come la produzione di novità nasca dal rapporto tra forma e tempo4. Ai viaggi sudamericani non è estraneo Pier Maria Bardi, residente a quel punto con la moglie Lina Bo a San Paolo, e direttore del Museo d’Arte (MASP) fondato nel 19475. Approdato in Brasile nel 1946 conducendo con sé via nave la propria ricca collezione di libri, oggetti d’arte e dipinti antichi e moderni, Bardi allestisce con sapienza ed efficacia la cornice per una rifondazione (anche a uso commerciale), all’indomani della fine di un mondo, in un mondo nuovo6. La tappa successiva del primo viaggio di Nervi a Buenos Aires è infatti San Paolo. Il rapporto tra Nervi e Bardi, nato nel 1932 in occasione della recensione dello stadio Berta da parte dello stesso Bardi su «Casabella», viene mantenuto nel corso degli anni attraverso una regolare corrispondenza7. Nervi fin da subito incarna agli occhi di Bardi quella modernità da quest’ultimo auspicata, costruita sull’intreccio sapiente fra tecnica e tradizione; peraltro il critico-architetto e l’ingegnere-architetto sembrano riconoscersi l’uno funzionale all’altro, custodi entrambi, con strumenti diversi, delle ragioni della modernità. Dunque non stupisce la decisa promozione da parte del neo-direttore del MASP di Nervi, che per l’occasione si presenta indossando tutte le sue maschere: ingegnere, architetto, intellettuale8.
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Oggetto di questa doppia strategia di seduzione è Assis Chateaubriand, mecenate e promotore dell’operazione del MASP, personaggio assai discusso, proprietario della catena di radio, periodici e giornali «Diários Associatos», nonchè futuro diplomatico9. L’operazione perseguita da questo «citizen Kane» brasiliano è quella di fondare un polo internazionale della cultura nella capitale brasiliana, e di affidarne la direzione a Bardi. Il modello di committenza di Chateaubriand è preciso: Nelson Rockefeller, coordinatore dell’Office of Inter-American Affairs presso l’U.S. State Department, con il quale è in stretti rapporti, già organizzatore della grande mostra «Brazil Builds» del 1943 al MOMA, nonché presidente del MOMA (dal 1939) e del Rockefeller Center10. Nel 1947 sia il MASP che la sede dei «Diários Associatos», ma anche la redazione di «Habitat», si trovano al 230 della rua 7 Abril, nel centro di San Paolo. Tra il 1947 e il 1953 al MASP, con l’allestimento di Lina Bo11, sono organizzate le mostre su Alexander Calder, Max Bill, Saul Steinberg, Le Corbusier e Richard Neutra12. Nei programmi di Bardi vi era poi la pubblicazione di un gruppo di tre volumi divulgativi a cura del MASP, su Nervi, Le Corbusier (edito in occasione della mostra del 1950)13 e Neutra14. A novembre 1950 Nervi, reduce da Buenos Aires, tiene al MASP un corso sulle costruzioni in cemento armato, mentre viene prevista un’esposizione di «Scienza o arte del costruire?»15. Nella primavera 1951 su «Habitat» esce un articolo di Bardi, Nervi e o concreto, seguito da uno scritto dello stesso Nervi intitolato Resistencia de forma16. Il «Prix pour l’étranger non résidant au Brésil», assegnato a Nervi da una giuria presieduta da Siegfried Giedion il 29 novembre 1951, all’interno dell’Esposizione Internazionale di Architettura della prima Biennale del Museo di Arte Moderna di San Paolo, offre una seconda occasione di viaggio17. Nella stessa edizione della manifestazione, il Grand Prix International d’Architecture viene conferito a Le Corbusier, mentre nella sezione progetti per la residenza viene premiato Lúcio Costa18. L’aura di internazionalità che Bardi soffonde intorno a Nervi produce immediatamente una serie di commissioni che questi svilupperà al suo ritorno in Italia. A distanza di vent’anni si riproducono tra i due le condizioni di quell’incontro elettivo del 1932, quando Bardi aveva dischiuso a Nervi le porte dell’agone architettonico: nel 1950 sarà sempre Bardi a fornire all’ingegnere di Sondrio le chiavi per la fama internazionale. Naturalmente, allora come prima, il loro rapporto risulterà reciprocamente vantaggioso. Il primo progetto è la supervisione strutturale per il progetto della cosiddetta «Casa de vidro» di Lina Bo. È il primo edificio costruito da Lina in Brasile, è un’opera-manifesto, per l’accreditamento verso una certa committenza borghese e industriale, che aspira a una modernità facilmente identificabile19. La «Casa de vidro» si presenta come un edificio-cristallo, autonomo e autoreferenziale, un’architettura-macchina, un oggetto architettonico astratto, tanto da toccare appe-
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1. PIER LUIGI NERVI, STUDI PER LA «CASA DE VIDRO». CSAC, ARCHIVIO NERVI, VILLA BO-BARDI, SAN PAOLO [S.D.].
2. PIER LUIGI NERVI, STUDI PER LA «CASA DE VIDRO». CSAC, ARCHIVIO NERVI, VILLA BO-BARDI, SAN PAOLO [S.D.].
na il terreno su cui è delicatamente posato. Dai disegni conservati nell’archivio Nervi si evince come tutto il progetto delle strutture sia da attribuire all’ingegnere italiano, mentre Lina in questo momento sembra dimostrare una certa «non confidenza» con i materiali da costruzione, segnatamente acciaio e cemento armato20. I fogli contengono studi per le fondazioni, con i relativi pilastri e i solai; e uno studio per una scala a chiocciola in cemento armato, non eseguita (fig. 1). Le piante e le sezioni dei solai (in scala 1:5) sono poi corredate di indicazioni minuziose circa la disposizione delle armature, dove i ferri vengono accuratamente disegnati e descritti: tra questi, a margine di una tavola sull’unione tra i tubi Mannesmann e le 3. LINA BO BARDI, PIER LUIGI NERVI, IL COMPLESSO travi del solaio, troviamo un appunto GUAJANAZES A SAN PAOLO. «DOMUS», 1953, N. 282. in cui Nervi si raccomanda di «verificare con massima cura, anche in relazione alle modalità esecutive locali, l’unione delle travi a C con i tubi delle colonne» (fig. 2)21. All’ambito del MASP, vale a dire la committenza di Chateaubriand, è da ricondurre un altro progetto, di Nervi con Lina Bo, per il Fabbricato «Taba Guaianases» a San Paolo (1951-53), destinato a ospitare gli uffici della radio e della televisione dei «Diários Associatos». Il modello è sempre la committenza Rockefeller: e il grande edificio Taba Guaianases avrebbe emulato il Rockefeller Center di New York, secondo un’immagine del moderno probabilmente più che efficace per il suo committente sudamericano (e peraltro appena sdoganata da Giedion)22. Pubblicato su «Domus» nel 1953, il progetto comprende gli studi e gli impianti per la radiotelevisione, un auditorium per cinquemila posti (grande quanto la Radio City Hall), due teatri per millecinquecento posti ciascuno (fig. 3)23. Al di sopra della parte basamentale occupata dai teatri, si dispongono due edifici alti di trentadue e ventidue piani per millecinquecento appartamenti e uffici: una cittadella della comunicazione e insieme un’immagine del moderno. Lina spiegherà che «Tabas» sono i villaggi delle tribù indie, a indicare l’autonomia del complesso rispetto alla città (del resto anche
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la prima stazione televisiva ideata da Chateaubriand nel 1950, collegata alla RCA Television di Rockefeller, viene chiama «Tupi network» dal nome di una delle popolazioni native brasiliane24), una vera e propria «città nella città», e l’inizio di quella riflessione sull’idea del «tenere insieme» che accompagnerà tutta la progettazione di Lina25. Il «Taba Guaianases» attraversa una serie di fasi lunghe e complicate, nonché diversi cambi di ubicazione, a partire da un progetto di Lina del 1947 per un complesso comprendente un edificio in linea alto tredici piani, di cui quattro sotto terra, con un auditorium per trecentocinquanta posti, studi radiotelevisivi, un grande teatro26, per il quale Nervi viene coinvolto nel 1950-1951 per lo studio delle strutture nonchè nella redazione del progetto definitivo27. Nella monografia che l’Istituto Lina Bo e P. M. Bardi dedica a Lina Bo, per l’«Edificio Taba Guaianases», corredato dalla didascalia «calcolo strutturale ing. P. L. Nervi», sono documentate altre fasi di studio: da un edificio alto isolato, composto da tre nuclei cilindrici che si compenetrano tra loro, si passa a uno schema semicircolare, una sorta di grande Unité curva, collegato a uno trapezoidale, che sembrerebbe forse anticipare il «grande gesto» dell’Unesco, da una parte, e del Copan di Niemeyer dall’altra28. Si tratta di progetti che avrebbero tutti previsto delle strutture complesse. Negli studi, il progetto va via via definendosi in quello pubblicato su «Domus», dove «il problema più difficile è stato di ordine tecnico: costruire un palazzo su una grande sala da spettacolo, che non poteva necessariamente avere delle colonne nel mezzo [...]. La copertura dell’auditorium da cinquemila posti, che misura al massimo settanta metri di luce, è stata calcolata in “pre-teso” lamellare (come il cartone da imballaggio). La grande resistenza di questa copertura permette di costruire con un materiale leggero»29. Dalla fitta corrispondenza riguardante il progetto, tra Nervi, Lina e Bardi, emerge più volte la possibilità per Nervi di aprire uno studio a San Paolo, con il figlio Antonio30, e il telegramma di Lina Bo datato all’aprile 1951, che recita: «lavoro concluso - chateau autorizzami chiederle se disposto venire subito sanpaolo redazione esecutivi - combinare sua partecipazione e contratto - sembrami momento arrivato per apertura sua filiale», è eloquente31. Un ultimo e inconsueto incarico che Nervi riceve in questo contesto è un progetto per una piscina coperta all’interno della Residencia Francisco Pignatari, noto personaggio mondano, a San Paolo, datato 195232. Il progetto della villa è stato attribuito a Oscar Niemeyer, mentre quello per il parco terrazzato è di Roberto Burle-Marx (1954-1956)33. La copertura della piscina prevista da Nervi è costituita da tre pilastri dendriformi in cemento armato affondati nell’acqua, collegati da lucernari composti da tubi di vetro pyrex (fig. 4). È un progetto nel quale Nervi declina gli studi sulle coperture con sostegno unico (come il progetto per la sala ristorante del Kursaal a Castel Fusano, 1950)34 con i paradossi statici e l’utilizzo del vetro di Wright per la Johnsohn Wax, in una sor-
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ta di acclimatamento sudamericano dove tecnica e immagine del moderno in questo caso sembrano convivere infelicemente. È chiaro dunque come Nervi in Sudamerica all’inizio di un decennio cruciale abbia perseguito per tempo una lucida strategia di costruzione della propria fama, che possiamo qui «fotografare» al momento del suo innesco. Egli si mette in gioco su diversi piani: la didattica, la pubblicistica, i premi e i progetti. Riguardo a questi ultimi, tro-
4. PIER LUIGI NERVI, STUDI PER LA PISCINA PIGNATARI. CSAC, RESIDENCIA FRANCISCO PIGNATARI, SAN PAOLO, 1952.
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viamo Nervi alle prese con i temi più disparati, accettati evidentemente per accreditarsi rispetto a una committenza influente, dal gusto internazionale ma incerto. Funzionale a ciò è la rete di rapporti internazionali che egli va coltivando attentamente, quasi ossessivamente35. Il Brasile all’inizio degli anni cinquanta è un paese in cui la tecnica del cemento armato era pienamente sviluppata (si veda il Ministero dell’educazione del Brasile a Rio de Janeiro del 1936; e il complesso di Pampulha del 1942-1944), e dove lavorano abilissimi ingegneri-architetti come Arthur Oswaldo Bratke36: Eduardo Kneese de Mello, João Vilanova Artigas, quest’ultimo nel 1948 tra i fondatori della Facoltà di architettura e pianificazione di San Paolo, e Eduardo Affonso Reidy37, e dunque sembrerebbe il contesto adatto ad accogliere Nervi. All’interno di questo quadro si inserisce la figura di Lina Bo: sino alla «Casa de vidro» non è possibile attribuirle una produzione architettonica vera e propria, ma in rapida sequenza mette a punto progetti complessi come il Taba Guaianases e il Museu à beira do Oceano a São Vicente, progettato nel 195138. La collaborazione di Nervi per i primi progetti si può supporre sia stata fondamentale, proprio per colmare quel divario tra l’idea del moderno di Lina e la sua messa in opera. Francesco Tentori si chiedeva se non fosse stato proprio Nervi a suggerire la struttura del MASP, ma ciò non pare proprio plausibile dal momento che nel MASP l’immagine della struttura non rispecchia il suo assetto effettivo39. Ancora a 5. LINA BO BARDI, PADIGLIONI IN Nervi, in questo caso non documentato, FERROCEMENTO, 1951. LINA BO BARDI, MILANO. SAN PAOLO 1994, P. 89. anzi, platealmente ignorato, fa riferimento una serie di padiglioni in ferrocemento firmati da Lina e datati 1951, che riproducono fedelmente, con estrema incredibile sicurezza, a scala maggiore, il magazzino sperimentale della Magliana (fig. 5)40. Questa dichiarazione di modernità di Lina risulta ambigua, soprattutto se letta alla luce delle sue opere successive, dove la relazione con la modernità industriale si trasforma ulteriormente, diventa più personale, recuperando una relazione di «compromissione» con il mondo concreto, contingente, fino alla fase Brutalista del SESC, dove la relazione sempre con un mondo organico, animale, minerale e vegetale si fa sempre più stretta41.
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Nervi è ormai un amico lontano42, impegnato con il progetto per l’Unesco e proiettato verso altri contesti. Nel 1952-1953 egli aprirà lo studio Nervi, preposto alla progettazione di opere all’estero. Che sia stato un tempo di grande intensità lo testimonia Giulio Pizzetti, a sua volta in partenza per il MIT43, in una lettera a Nervi del 1955: «Fai il possibile per varare i tuoi procedimenti sul ferrocemento che negli Stati Uniti sono destinati a grande successo. Mettiti d’accordo con qualcuna di quelle organizzazioni specializzate nel lancio di prodotti brevettati, e che lavorano a percentuale sul ricavato: prometti una serie di prove presso il MIT in modo da creare intorno al ferrocemento quell’alone di scientificità che non ha e del quale del resto non ha bisogno. E poi lascia che suonino la grancassa e ti trasmettano in televisione, seduto su una solettina di mezzo centimetro»44. Il 19 settembre 1956 il Congresso brasiliano approva il progetto di trasferire la capitale del Paese in una nuova città: Brasilia, raccolta «per figure» di una modernità facilmente riconoscibile, sulla quale si appunteranno gli strali di Nervi dalla rivista «Casabella»45. Tuttavia l’ingegnere di Sondrio a Brasilia ci arriverà, ma alla fine della propria carriera, nel 1969, per costruire la sede dell’Ambasciata d’Italia, un pezzo progettato da lontano, nello «stile Nervi» più richiesto in quel momento46. R. MARTINIS, Pier Luigi Nervi in Argentina: elementi per la costruzione di una fama internazionale, in D. COSTI (a cura di), Cantiere Nervi: la costruzione di un’identità, Milano 2012. Ringrazio molto Marzia Marandola e Daniele Pisani per aver discusso con me, in più di un’occasione, questo lavoro. 2 MARTINIS, Pier Luigi Nervi in Argentina cit. Pizzetti in quegli anni stava conducendo dall’Argentina una politica di invito degli ingegneri italiani in Sudamerica: nel 1950 aveva sollecitato Morandi e Giovannetti a partecipare a dei concorsi appalto per esportare la tecnica del precompresso, in Argentina ancora poco conosciuta. Cfr. M. MARANDOLA, Riccardo Morandi ingegnere (1902-1989). Dagli esordi alla fama internazionale, in «Rassegna di architettura e urbanistica», numero monografico Ingegneria italiana, a cura di T. Iori e S. Poretti, 2007, n. 121-122, pp. 90-104, in particolare p. 103. 3 P. L. NERVI, El lenguaje arquitectónico, Buenos Aires 1951. Nel 1954 a Buenos Aires verrà fondata la casa editrice di architettura «Ediciones infinito», che inaugurerà la propria produzione con la traduzione dei primi volumi della collana «Architetti del Movimento Moderno» della casa editrice milanese «Il balcone». Nel 1955 verrà pubblicato il volume di Argan su Nervi. 4 Nel Lenguaje arquitectónico viene messo a punto un sistema di scrittura che potremmo definire analogo a quello che è stato definito il «sistema Nervi»: come nella pratica architettonica e ingegneristica, anche nella scrittura 1
egli seleziona una serie di argomenti che riproporrà secondo variazioni continue. 5 Cfr. R. MARTINIS, Pier Luigi Nervi e Pier Maria Bardi: un’amicizia, due continenti, in S. PACE (a cura di), Pier Luigi Nervi, architettura come sfida. Torino, la committenza industriale e la cultura architettonica italiana, Milano 2011, pp. 69-75; R. MARTINIS, Stadio municipale, in C. OLMO e C. CHIORINO (a cura di), Pier Luigi Nervi, architettura come sfida, Milano 2010, pp. 142-145. 6 F. TENTORI, P. M. Bardi con le cronache artistiche de «L’Ambrosiano» 1930-1933, Milano 1990, pp. 181-214. 7 MARTINIS, Pier Luigi Nervi e Pier Maria Bardi cit., pp. 69-70. 8 Cfr. MARTINIS, Stadio municipale cit. per la produzione pubblicistica di Nervi negli anni trenta-quaranta. 9 TENTORI, P. M. Bardi cit., pp. 181-184, 209-212; F. MORAIS, Chatô, o Rei do Brasil, San Paolo 1994; B. KUCINSKI, Chatô: o poder da chantagem. A Síndrome da Antena Parabólica, San Paolo 1998. 10 Cfr. R. M. A. ZUELER LIMA, Nelson A. Rockefeller and Art Patronage in Brazil after World War II: Assis Chateaubriand, the Museu de Arte de São Paulo (MASP) and the Musee de Arte Moderna (MAM), The Rockefeller Archive Center Research, Reports Online, 2010 (http://www.rockarch.org/publications/resrep.). 11 L. BO BARDI, Sistemazione di un museo in Brasile, in «Metron», 1948, n. 30, pp. 34-35. L’inaugurazione del MASP avviene il 4 ottobre 1947, mentre una cerimonia
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più solenne, alla presenza del presidente della repubblica e di Nelson Rockefeller, solo tre anni dopo, è del 1951. Cfr. Lina Bo Bardi, Milano-San Paolo 1994, pp. 44-51. 12 Ibid. 13 P. M. BARDI, Leitura critica de Le Corbusier, San Paolo 1950. 14 P. M. BARDI, A cultura nacional e a presença do MASP, San Paolo 1982. 15 Il corso di Nervi dedicato alle strutture di cemento registrò sessanta iscrizioni, cfr. P. M. BARDI, 20 anos do Museu de Arte de Sao Paulo, in «Mirante das Artes», 1967, n. 5. 16 P. M. BARDI, Nervi e o concreto, in «Habitat», 1951, n. 3, pp. 16-17; P. L. NERVI, Resistencia de forma, in «Habitat», 1951, n. 3, pp. 17-22. 17 Il premio è promosso dall’industriale Francisco Matarazzo, finanziatore del MASP, di cui risulta però anche antagonista nell’azione di promozione del Museo di arte moderna di San Paolo (sempre nell’orbita di Rockefeller). Cfr. ZUELER LIMA, Nelson A. Rockefeller and Art Patronage in Brazil cit. 18 Institut für Geschichte und Theorie der Architektur, ETH, Zürich, Archiv Siegfried Giedion (1888-1868), Dokumente, Bienal do Museu de Arte Moderna de Sao Paulo (1951-1954), «Biennale San Paolo Bericht»; R. BANHAM, Arquitetura na Bienal de Sao Paulo - Architecture at Sao Paulo Biennal, San Paolo 1952. Si tratta forse questa una delle occasioni che offre le basi per il progetto Unesco del 1953. 19 Sull’attività dello studio d’Arte e di Architettura Palma fondato da Lina con Giancarlo Palanti cfr. A. COELHO SANCHES CORATO, A obra e a trajetória do arquiteto Giancarlo Palanti: Itália e Brasil, Dissertação de Mestrado, Escola de Engenharia de São Carlos (EESC) 2004. 20 Centro Studi e Archivio della Comunicazione (da qui CSAC), Archivio Nervi (da qui A.N.), Villa BoBardi, San Paolo [s.d.]. Cfr. Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, Roma (da qui MAXXI), A.N., Corrispondenza San Paolo, 25 novembre 1950, lettera di Nervi a Bardi: «Dì a tua moglie che domani inizierò lo studio della vostra casetta e che conto di mandarvi gli esecutivi entro 5 o 6 giorni». Cfr. ibid. 13 dicembre 1950. 21 Ibid. Per la casa de Vidro i calcoli saranno poi fatti da Tullio Stucchi, cfr. M. CARVALHO FERRAZ (a cura di), Lina Bo Bardi, San Paolo 1993. 22 S. GIEDION, Space, Time and Architecture: the Growth of a New Tradition, Cambridge, Mass. 1941, p. 744. Cfr. ZUELER LIMA, Nelson A. Rockefeller and Art Patronage in Brazil cit. 23 CSAC, A.N., Fabbricato per Diários Associatos, San Paolo, P. L. Nervi (1951). Cfr. L. BO BARDI, P. L. NERVI, Il complesso Guajanazes a San Paolo, in «Domus», 1953, n. 282, pp. 4-7; Multi-storey block «Taba Guaianases» for a radio and TV company, Sao Paulo; designed
by Lina bo Bardi and Pier Luigi Nervi, in «Habitat», 1954, 14, pp. 4-10. Lina Bo Bardi cit., pp. 52-55, 70-73. 24 ZUELER LIMA, Nelson A. Rockefeller and Art Patronage in Brazil cit. 25 L. BO BARDI, P. L. NERVI, Il complesso Guajanazes a San Paolo cit., pp. 4-7. 26 CSAC, A.N., Fabbricato per Diarios Associados, San Paolo, P. L. Nervi (1951). Questo progetto è situato tra la rua Alvaro de Carvalho e la rua 9 de Juhlo a San Paolo. 27 CSAC, A.N., Teatro San Paolo (1957: sic 1951). Nervi studia soprattutto la sezione dei grandi pilastri binati a sezione trapezoidale che sollevano l’intero edificio da terra, e la disposizione dei cavi pre-tesi all’interno della struttura. Cfr. MAXXI, A.N., Corrispondenza San Paolo, 16 dicembre 1950, 08 gennaio 1951, 12 febbraio 1951. 28 Lina Bo Bardi cit., pp. 52-55, 70-73. Non è da escludere un riferimento all’edificio del Pedregulho costruito a Rio dal 1946 da Eduardo Reidy: cfr. D. PISANI, Come potrebbe abitare la classe lavoratrice, in «Casabella», 2010, n. 793, pp. 78-97. 29 L. BO BARDI, P. L. NERVI, Il complesso Guajanazes a San Paolo cit. 30 Ibid., 16 dicembre 1950 e 8 gennaio 1951. Cfr. anche le lettere datate 26 novembre 1952; 5 novembre 1953. 31 MAXXI, A.N., Corrispondenza San Paolo, sd.; cfr. anche le lettere datate 19 dicembre 1951; sd (tra gennaio e marzo 1952); 26 novembre 1952; 5 novembre 1953. Cfr. la lettera di Nervi a Aldo Bruzagli a proposito di Lina Bo: «progettista del grande teatro per la cui costruzione sono stato interessato e che dovrebbe essere il movente dell’inizio della nostra attività in Brasile», ibid., corrispondenza Argentina, 4 ottobre 1951, 32 CSAC, A.N., Residencia Francisco Pignatari, San Paulo Brasil, 1952. Cfr. MAXXI, A.N., Corrispondenza San Paolo, 18 marzo 1952 e 23 aprile 1952. 33 La casa, mai completata, poi distrutta, è stata recentemente sostituita da un albergo, mentre il giardino è stato trasformato nel parco pubblico dedicato a BurleMarx. La Piscina Pignatari era realizzata, come testimoniato da Fernando Tavora in un’intervista del 2002, all’epoca collaboratore di Burle Marx. Cfr. G. FERRAZ, Roberto Burle Marx and his Gardens, in «Arquitectura», 1957, 58, pp. 107-112; A. R. DE OLIVEIRA, Nove anos sem Burle Marx, in «Arquitextos», 2003, 37. 34 A. VILLALONGA, Pier Luigi Nervi. Uno de los màs grandes especialistas contemporàneos del hormigòn armado, in «Revista de Arquitectura», 1950, 10, pp. 287-305. 35 C. OLMO, Nella scia di Pequod, in OLMO e CHIORINO (a cura di), Pier Luigi Nervi cit., pp. 29-37, in part. pp. 32-35. 36 H. SEGAWA, Oswaldo Arthur Bratke, Pro Editores, San Paolo 1997; H. SEGAWA, Architecture of Brazil 1900-1990, Londra 2010.
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A. C. GIANNECCHINI, Técnica e estética no concreto armado: um estudo sobre os edifícios do MASP e da FAUUSP, Dissertação de Mestrado, FAUUSP, 2009; A. C. DE VASCONCELOS, Concreto no Brasil: recordes, realizações, história, San Paolo 1985; V. FRASER, Building the New World: Studies in the Modern Architecture of Latin America 1930-1960, New York 2000; A. PUNTONI (a cura di), Vilanova Artigas: arquitectos brasileiros / Brazilian architects, Lisbona 1997; S. LEHMANN, The Work of Vilanova Artigas and Lina Bo Bardi, 1950-1970. Regional Identity and Modern Architecture in the Postcolonial Brazilian Context, in P. HERRLE ed E. WEGERHOFF (a cura di), Architecture and Identity, Berlino 2008, pp. 321-333; cfr. K. FRANCK, The works of Affonso Eduardo Reidy, Londra 1960; Affonso Eduardo Reidy, Lisbona 2000. 38 L. BO BARDI, Museu à beira do oceano, in «Habitat», 1952, n. 8. Si tratta di un progetto che mostra attenzione per Mies della Crown Hall, e che prelude a quello del MASP. Si vedano però le strutture di Affonso Eduardo Reidy progettate per il Collegio experimental ParaguayBrasil di Asunción (1952) e il Museo d’arte moderna a Rio (1954). Il Paulistano di Eduardo Mendes da Rocha è poi del 1958, cfr. D. PISANI, Paulo Mendes da Rocha, Milano 2013. 39 Cfr. F. TENTORI, Ricordo della signora Lina, in GALLO (a cura di), Lina Bo Bardi architetto cit., pp. 150-164, in part. 161; G. GIRARDI, Il MASP 1957-1968, in GALLO (a cura di), Lina Bo Bardi architetto cit., pp. 99-118, in part. pp. 114-115 dove nota come quello che ci appare come un portale sia in realtà una struttura di travi precompresse appoggiate a pilastri, e «le mensole di appoggio, solidali con i pilastri, garantiscono il naturale scorrimento
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delle travi dovuto alle dilatazioni del calcestruzzo». 40 Pubblicati in Lina Bo Bardi cit., p. 89. 41 O. DE OLIVEIRA, Lina Bo Bardi, architetture senza età e senza tempo: la gallina della zia Esterina, in «Casabella», 2000, n. 681, pp. 36-55. 42 Nel gennaio 1953 Nervi era stato invitato a tenere un corso di Architettura strutturale presso la facoltà di Tucùman,l’invito verrà rinnovato a settembre 1953, da Cino Calcaprina, ma non se ne farà nulla. MAXXI, A.N., corrispondenza Argentina, 10 dicembre 1952 - 10 gennaio 1953. 43 Giulio Pizzetti viene chiamato al MIT da Pietro Belluschi nel 1955. Alla richiesta di referenze da parte di quest’ultimo, Pizzetti fornisce il nome di Nervi, già famoso negli USA. Ibid., 4 giugno - 12 luglio 1955. 44 Ibid., 29 gennaio 1955. 45 R. MARTINIS, La concordia discors tra Pier Luigi Nervi e Ernesto N. Rogers, in S. PACE (a cura di), Pier Luigi Nervi, architettura come sfida cit., pp. 113-121; R. MARTINIS, Ernesto Nathan Rogers, Pier Luigi Nervi e «Casabella», in C. BAGLIONE (a cura di), Ernesto Nathan Rogers (1909-1969), Milano 2013. In una lettera a Nervi del 1959 Bardi commenta: «Lina sta ora a Palma dove insegna teoria dell’architettura, e inaugura un nuovo museo da lei stessa organizzato. Dovrebbe quest’anno costruire il Museo nuova sede con un buon progetto. Ma non è contenta, e l’ambiente è oramai per le stravaganze più che per l’architettura». MAXXI, A.N., corrispondenza varia, lettera B, 2 gennaio 1959. 46 T. IORI, S. PORETTI, Pier Luigi Nervi. L’ambasciata d’Italia a Brasilia, Milano 2008.
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A strong friendship, a frail house: Pier Luigi Nervi and Lina Bo Bardi
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ven though the connections between Nervi and South America could be considered as a secondary topic, they provide, through an oblique angle, a chance to get a sense of Nervi’s future strategies to build his own fame. Moreover, South America was the place where Nervi’s “self-representation” abroad started to sprawl, by putting himself forward on a market of international assignments. In 1950, Nervi was awarded a degree honoris causa by the Faculty of Architecture of Buenos Aires and, contextually, he gave a cycle of lectures at the University, which would be then published under the title El lenguaje arquitectonico. This was a “well-prepared” travel, from a professional point of view, as it is proved by a series of letters between Nervi and some of the main directors of Italian-Argentinian companies, and design projects, as the one for the 150,000 seats stadium in Rio de Janeiro (1946) and a big-sized hangar for the National Airport of Buenos Aires (19481951). A series of further design projects (preserved at the CSAC in Parma) and correspondence (Pier Luigi Nervi Fund, MAXXI, Rome) furnish proof of Nervi’s high interest in the Argentinian and Brazilian scenarios, whose reference point, in the first case, consisted in the university scene of the Italian emigrated engineers, and Pier Maria Bardi, his wife Lina Bo and Assis Chateaubriand, in the second one. In the city of São Paulo, Nervi’s work as Lina’s consultant for the design of several buildings (“Casa de vidro”, the “Diarios Associatos” building and “Taba Guaiananses” complex) seemed to favour Lina’s recognition among bourgeois and industrial clients longing for a clearly distinguishable modernity. On the other hand, the Bardis constituted and constructed that first international back-up from which Nervi would start to build his fame abroad: e.g. the “Prix pour l’étranger non résidant au Brésil” that a jury chaired by Siegfried Giedion awarded to Nervi on 29th November 1951. He would travel to South America more than once and he would design many works there, so that he eventually opened a studio in São Paulo, together with Lina and his son Mario. Nervi’s South American stay was very likely to be remarkable in business terms: Nervi might have tried, through his design projects and lectures, to sell his patents. It is clear that Nervi had long “seduced” his possible clients, by means of multiple strategies: teaching (cycles of conferences), publications (articles, the book), awards, design projects. The latter regarded the widest range of possibilities: urban residences, something absolutely unusual for Nervi, where technological ideas- triumphantly celebrat113
ed in the El lenguaje arquitectonico-, rather than technique, played a protagonist role in redeeming Italy’s image abroad. South America was likely to be the most appropriate background for Nervi in the early 1950s. Nonetheless, these design projects brought light on the real industrial and technological conditions of Brazil, and with regard to this it would be worth asking how deeply the São Paulo’s architects knew the properties and structural behaviour of concrete and which were the features of concrete industry in Brazil at that time. In this scenario, the character of Lina Bo takes some problematic traits: since the “Casa de vidro” she did not have an architectural production of her own, but she designed huge buildings, one after the other- complexes as the “Taba Guaianases” or the “Museu à beira do Oceano” in São Vicente, designed in 1951 and published on “Habitat” in 1952. This declaration of modernity by Lina seemed to exceedingly ambiguous, especially if it is interpreted in the light of her following works, where a renovated connection with industrial modernity won back a “compromise” with the real, tangible world, thus welcoming the other world, that of nature and time. This framework was very distant from Nervi’s thinking, who, starting from the design project for Unesco in 1953, worked on a number of buildings where he developed that “Nervi system” which, thanks to the support of 848 patents, design projects and consultancies, would make him recognisable everywhere, granting him a solid success and turning him into a real living image of the Italian economic boom abroad. With all its controversies.
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L’altra torre. Concezione strutturale, architettura e città nell’edificio in corso Francia a Torino (BBPR, Gian Franco Fasana e Giulio Pizzetti: 1955-1959) SERGIO PACE
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a torre di corso Francia è rimasta sempre l’altra torre, nella letteratura costruita da e sui BBPR. La coincidenza temporale con la Torre Velasca, da un lato, e l’inserimento dell’intervento in un tessuto storico (seppur diversamente) consolidato hanno favorito una lettura omogenea dei due edifici, legati in modo indissolubile alla questione dell’ambientamento. Sono, del resto, gli stessi architetti a suggerirlo, fin dalla pubblicazione delle due opere (assieme a casa Laurani) su «Casabella-Continuità» nell’ottobre 1959 (fig. 1) - quando peraltro il cantiere torinese non è ancora concluso. «Per ognuna, abbiamo cercato d’interpretare il senso poetico della loro essenza tematica e quello delle preesistenze ambientali proprie al loro interno», dichiarano senza lasciar spazio ad altre interpretazioni, aggiungendo che, rispetto alla Torre Velasca, «l’edificio di corso Francia imposta problemi simili nel clima di Torino, con qualche maggior compiacimento, forse, in alcuni dettagli espressivi, interpretati dalla tradizione»: è una probabile allusione al complesso di portici e balconi che caratterizza l’edificio1. Pochi mesi dopo, ancora al traino della fama della Torre Velasca, anche «The Architectural Review» parla 1. BBPR CON GIAN FRANCO FASANA E GIULIO PIZZETTI, PARTICOLARE DEL PROSPETTO SU CORSO FRANCIA E SEZIONE dell’intervento torinese2. TRASVERSALE DEL COMPLESSO PER LA REALE MUTUA È però su «Architectural Re- A SSICURAZIONI. «CASABELLA-CONTINUITÀ», OTTOBRE 1959, cord» che, un anno dopo, N. 232. 115
compare un altro suggerimento importante: posto l’obbligo di studiare such traditional necessities, come portici e balconi appunto, l’edificio di corso Francia costituisce una risposta significativa «achieved within the framework of the structural system first developed for the Torre Velasca»3 (fig. 2). A Torino, quasi ancor più che a Milano, la concezione strutturale consente di dare una risposta alle questioni che il tessuto urbano pone, con le sue regole e la sua storia. Ricostruirne la storia aiuta a comprendere anche similitudini e differenze di due progetti paralleli. 2. BBPR CON GIAN FRANCO FASANA E GIULIO PIZZETTI, VEDUTA D’INSIEME DEL COMPLESSO PER LA REALE MUTUA ASSICURAZIONI DAI PORTICI DI PIAZZA STATUTO. «ARCHITECTURAL RECORD», SETTEMBRE 1960.
Il 16 aprile 1955, a Torino, la Società Reale Mutua di Assicurazioni entra in possesso di un’area di pregio, affacciata su piazza Statuto e compresa tra corso Francia e via Cibrario: si tratta di oltre tremila metri quadrati acquistati dal Consorzio della Tranvia Torino - Rivoli che proprio all’inizio del corso ha il suo capolinea4. Dell’avvenuta compravendita dà notizia, al Consiglio di amministrazione, il presidente della società assicurativa che - tra il 1951 e il 1967 - è Gustavo Colonnetti. Quale sia il peso del grande scienziato delle costruzioni nella definizione della vicenda progettuale e costruttiva non è dato sapere con esattezza: si tratta, tuttavia, almeno di una coincidenza emblematica. Di certo non si tratta di un investimento di modesta entità, come tanti che una società assicurativa potrebbe portare a termine. Lo scopo, infatti, appare chiaro nell’adunanza successiva, del 28 maggio: la Reale Mutua avrebbe in animo di cedere la sede storica - vale a dire l’edificio in via Corte d’Appello, costruito da Armando Melis de Villa e Giovanni Bernocco nel 1929-19365 - per trasferirsi in uffici nuovissimi, da costruirsi in un’area almeno logisticamente più comoda. L’antico quartier generale, in tale ipotesi, potrebbe essere alienato al dirimpettaio palazzo di giustizia, già in quegli anni
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alla ricerca di nuovi spazi. È plausibile che il presidente del consiglio d’amministrazione segua con molta attenzione l’evolversi dell’affare. Nelle prime settimane del 1956 la doppia questione è ancora oggetto di dibattito. Da un lato, si prendono in considerazione le proposte provenienti dal Consiglio comunale per quel che riguarda la vendita di via Corte d’Appello mentre, dall’altro si valutano i primi studi per l’edificio di piazza Statuto, da destinare - per quel che rimanesse a disposizione dopo avervi sistemato gli uffici della compagnia - ad appartamenti. Il progetto è presentato al Consiglio il 29 febbraio, con l’intenzione di avviare il cantiere nell’imminente primavera. In effetti, è fin dall’estate precedente che, al lavoro sulla ridefinizione di quell’area, si trova lo studio dei BBPR. Non si conosce il tramite tra la Reale Mutua e Belgiojoso, Peressutti e Rogers; quest’ultimo, tuttavia, conosce bene il presidente Colonnetti, se non altro per il comune esilio svizzero negli anni di guerra e l’attività condivisa presso il Centro Studi per l’Edilizia di Losanna nei mesi tra l’armistizio e la liberazione6. D’altra parte, l’eco del progetto per la Torre Velasca, la cui costruzione ha inizio il 1° febbraio 1956, può aver fatto puntare su un effetto di risonanza per quello che, per adesso, s’annuncia essere la sede della maggiore compagnia assicurativa d’Italia. In ogni caso, fin dal settembre 1955 da Milano sono giunti un primo schema di massima, costituito da una veduta prospettica d’insieme, a mano libera e colorata, imma-
3. BBPR CON GIAN FRANCO FASANA, VEDUTA D’INSIEME DA PIAZZA STATUTO DELLA TORRE PER LA REALE MUTUA ASSICURAZIONI, SETTEMBRE 1955. STAMPA FOTOGRAFICA DEL DISEGNO ORIGINALE, ARCHIVI DELLA BIBLIOTECA CENTRALE DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI TORINO.
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4. BBPR CON GIAN FRANCO FASANA, PROSPETTO SU CORSO FRANCIA DEL COMPLESSO PER LA REALE MUTUA ASSICURAZIONI, SETTEMBRE 1955. STAMPA FOTOGRAFICA DEL DISEGNO ORIGINALE. ARCHIVI DELLA BIBLIOTECA CENTRALE DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI TORINO.
5. BBPR CON GIAN FRANCO FASANA, MODELLO IN CARTONE DEL COMPLESSO PER LA REALE MUTUA ASSICURAZIONI, SETTEMBRE 1955. STAMPA FOTOGRAFICA DEL MODELLO ORIGINALE. ARCHIVI DELLA BIBLIOTECA CENTRALE DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI TORINO.
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ginata da piazza Statuto guardando verso il corso, una pianta 1:500 dell’isolato (siglata al 6 settembre), un prospetto su corso Francia, e, infine, un plastico in cartone, ancora 1:500, fortunatamente consegnato ai posteri grazie ad alcune foto in bianco e nero7 (fig. 3). L’ipotesi progettuale è di grande impatto volumetrico e visivo. Sui tre fronti strada dell’area trapezoidale si sarebbe disposto un corpo di fabbrica disarticolato, sia rispetto al filo stradale sia in sezione: da un’altezza di 34 metri (10 piani) su corso Francia, si sarebbe passati prima, per poche campate, a 21 metri (6 piani), per impennarsi quindi fino a 60 metri (17 piani) su piazza Statuto. Così, nella posizione più eminente, si sarebbe ottenuta una torre formata da due prismi sovrapposti, all’apparenza separati grazie a un piano arretrato. Su via Cibrario la continuità del fronte sarebbe stata meno compatta, per dar spazio a due edifici a terrazze, con quote massime a 21, 34 e 45 metri, entrambi appoggiati su un basamento variamente articolato in pianta, ma dall’altezza costante sul fronte stradale di 5 metri (figg. 4-5). In realtà, a guardar bene, appare evidente come i BBPR stiano portando avanti un’ipotesi di lavoro più complessa di quel che la realtà dei fatti consentirebbe: il plastico ha il fronte meridionale ben definito, mentre quello su piazza Statuto pare diviso a metà. Infatti, la proprietà della Reale Mutua non include - per adesso - l’intera parcella, rendendo impossibile qualunque ipotesi di una torre di tali dimensioni: l’acquisto della casa al numero 1 di via Cibrario sarà deliberato solo il 24 aprile 1956, ma la sua demolizione e conseguente ricostruzione avverrà solo negli anni successivi. A ogni buon conto, il progetto procede, anche se monco sul lato settentrionale e soprattutto con una modifica sostanziale nelle funzioni. Le trattative con la municipalità per la vendita dell’edificio di via Corte d’Appello arrivano a una fase di stallo, anche a causa della scadenza del mandato del sindaco Amedeo Peyron, garante dell’iniziativa. D’altra parte, la Reale Mutua ha fretta di occupare l’area già acquistata in corso Francia. Per tal motivo, nella seduta del 28 marzo, il Consiglio di amministrazione delibera di affidare allo studio d’architettura torinese di Gian Franco Fasana, comunque in collaborazione con BBPR (nello studio di Milano il progetto è seguito, in modo particolare, da Alvaro Redaelli e Silvano Tintori), una variante al progetto volta a trasformarne le destinazioni d’uso: da uffici per la società assicurativa, con 24 appartamenti di cinque vani ciascuno, a un mix di uffici, negozi e soprattutto case di taglio minore, cioè prevalentemente intorno ai tre vani, così come il mercato pare richiedere al momento. L’operazione, del resto, ha una sua straordinaria valenza immobiliare, in un momento cruciale per la storia urbana di Torino. La torre di corso Francia, infatti, va anche letta assieme agli altri edifici alti che un piano regolatore ormai vecchissimo non riesce ormai più a controllare e il piano regolatore nuovissimo in molti casi favorisce, anche in luoghi strategici del tessuto urbano8. Il 6 ottobre 1959, quando già il cantiere della Reale Mutua si avvia verso la conclusione, è, infatti, approvato finalmente il nuovo Pia-
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no Regolatore Generale, elaborato da un’équipe guidata da Giorgio Rigotti dopo un dibattito durato oltre dieci anni, dentro il Consiglio comunale e fuori. L’area all’imbocco di corso Francia è tra le più pregiate, zona residenziale ai margini del centro storico con una densità abitativa di 330 abitanti per ettaro e un indice di fabbricabilità fondiaria di 4,00 mc/mq9. Lo stesso piano, del resto, lascia ampi margini di manovra ai proprietari per quel che riguarda le altezze, poiché persino nel nucleo centrale è possibile derogare all’altezza di 21 metri, fino a 24 metri e oltre: «quando vengano risolte integralmente le composizioni di interi isolati, il Sindaco [...] potrà rilasciare licenze edilizie in deroga anche per altezze superiori»10. Tale pratica, d’altra parte, appare in sintonia con uno dei «fattori programmatici», dichiarati da Rigotti nella relazione introduttiva, vale a dire l’«opportunità di non consentire più la costruzione sporadica di case singole, sparse nella maglia delle strade, ma di consentire e favorire la costruzione di complessi edilizi unitari, facenti parte di quartieri attrezzati, [...] a completamento delle zone esistenti»11. Il progetto della Reale Mutua, tra Torino e Milano, si modifica anche perché cerca un’indispensabile sintonia con indicazioni di piano che favoriscono la contrattazione e lo scambio tra suolo pubblico e privato, tra licenze e privilegi. Il marciapiede porticato, tipico nelle aree centrali della città fino a piazza Statuto, è invece ignoto su corso Francia e probabilmente nasce in funzione di questi obiettivi per poi diventare un dispositivo retorico ed essere riletto come una modalità di ambientamento. In ogni caso, il progetto di massima è ormai pronto, vincolato a questioni di scala maggiore: è tempo di passare a un esecutivo. A questo fine, l’ingegner Giulio Pizzetti è invitato a studiare la struttura in cemento armato del complesso, in vista della redazione dei capitolati d’appalto e, quindi, della direzione dei lavori. Pizzetti è un personaggio del tutto eccezionale, nel panorama torinese: nato nel 1915, allievo al Politecnico di Torino di Giuseppe Albenga e soprattutto di Gustavo Colonnetti, con cui si laurea a 22 anni, tra il 1943 e il 1985 prima assistente e poi docente al medesimo Politecnico (dove dirige l’Istituto di Scienze delle Costruzioni nel 1969-1982, per poi passare - con scelta inconsueta - alla multidisciplinarietà del Dipartimento di Progettazione Architettonica), ma anche - con intervalli di tempo variabili - docente e professionista affermato in Italia e all’estero12. Alla metà degli anni cinquanta, pur stretto tra numerosi impegni professionali e didattici - nel 1959 è chiamato all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, quale professore straordinario di Tecnologia dei materiali e Tecnica delle costruzioni - l’ingegnere ha conservato a Torino la propria base operativa, non soltanto accademica e professionale: ancora nel 1959, tra l’altro, entra a far parte della dirigenza proprio della Reale Mutua. Tra settembre e ottobre si ultimano i preparativi al cantiere. Al Consorzio della Tranvia Torino - Rivoli è fatta richiesta di una concessione di diritto per un passaggio pedonale e veicolare che faciliti l’accesso all’interno del lotto, senza compromettere alcu-
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na parte del fronte su corso Francia. Nel frattempo cominciano ad arrivare le offerte per l’appalto dei lavori. Le prime sono selezionate dallo stesso Pizzetti, che porta all’esame del Consiglio di amministrazione le proposte di tre ditte, in vario modo specializzate in grandi strutture: la SAICCA (dal 1954 impegnata nella costruzione del Grattcielo Lancia, su progetto di Nino Rosani con la consulenza di Gio Ponti, Alberto Rosselli e Antonio Fornaroli), l’Impresa di Costruzioni Arch. Aldo Casassa (tra l’altro esecutrice, nel 1953-55, del cosiddetto Grattacielo nel centro di Pinerolo) e l’impresa dell’ingegner Luigi Raineri. Alla fine i lavori sono affidati a quest’ultima impresa, attiva a Torino dal 1925 e soprattutto negli anni trenta collaboratrice all’esecuzione dei lavori per la sede centrale della Reale Mutua in via Corte d’Appello13. Il cantiere ha inizio, anche se le incertezze sulle destinazioni d’uso continuano ancora, fin quando non si decide (ma a opera pressoché conclusa) di rinunciare per il momento all’occupazione dell’area d’angolo, su via Cibrario: ancora a fine 1959 si prevedono «alloggi di piccolo e medio taglio e [...] uffici da proseguire sulla piazza Statuto, secondo sviluppi che non sono ancora noti». Il progetto di completamento in stile sarà, infatti, affidato al solo studio di Gian Franco Fasana. Nel frattempo, con l’intermediazione di quest’ultimo, è maturata la collaborazione tra BBPR e Pizzetti. Finora dalle ricerche non è emerso alcun documento che possa raccontare il rapporto diretto che deve essere intercorso tra l’ingegnere e gli architetti, ma i risultati del progetto portano a pensare che si sia creata un’intesa piuttosto solida, dove l’apporto dell’uno o dell’altro ha finito per scomparire dietro all’omogeneità del risultato. La torre di corso Francia, in breve tempo, diventa uno degli esempi più interessanti e raffinati, per l’Italia di quegli anni, di concezione architettonica e strutturale omogenea, quasi simultanea. La struttura è l’elemento unitario della costruzione: i pilastri che sostengono la parte al di sopra del primo piano trasmettono i carichi dello stesso al piano terreno attraverso un’inclinata che è studiata in modo da suddividere la componente diagonale degli sforzi assiali, uno orizzontale che cimenta la copertura della soletta del piano terreno, l’altro scaricato verticalmente sui pilastri dello stesso. Nella parte alta dell’edificio i pilastri che dal secondo piano fuori terra sporgono m 1,20, si raccordano, attraverso la struttura del tetto, costituendo un insieme senza soluzione di continuità14.
Con queste parole i BBPR descrivono l’impianto strutturale della torre torinese, ponendo in rilievo l’importanza di una struttura di chiarezza cristallina nella definizione dell’immagine architettonica del complesso. Dietro a queste parole, probabilmente, s’intravedono soprattutto le idee di Ernesto Nathan Rogers, peraltro appena uscito dall’esperienza della monografia su Auguste Perret15, maestro cui, più d’ogni altro, la torre torinese sembra debitrice, nonostante le palesi differenze16. Così, gli architetti medesimi suggeriscono un’interpretazione definitiva dell’opera, dove la struttura diventa architettura, in sé, senza apparenti mediazioni.
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In effetti, nella concezione strutturale della torre di corso Francia, l’esito della collaborazione tra Pizzetti e lo studio milanese pare avvertirsi soprattutto nell’assenza di determinismo che caratterizza l’impianto. A fronte di altezze tanto diverse, il sistema di travi e pilastri in cemento armato avrebbe potuto modificarsi, soprattutto in sezione, arrivando a essere più coerente con i principi della statica. Eppure ciò non avviene: la coerenza dettata dalla scienza delle costruzioni è sacrificata nel nome della coerenza dell’edificio con la tipologia edilizia e la morfologia urbana. Il portico lungo l’intero pian terreno, alto fino ai mezzanini, non risente di alcuna variazione dettata dalle altezze differenti: sotto la torre o sotto al corpo di fabbrica di soli tre piani la sezione del pilastro così come il sostegno obliquo sono sempre identici, a testimonianza più di un’interpretazione contemporanea dei portici torinesi che non di un’asettica correttezza costruttiva. Giulio Pizzetti, dal canto suo, è sempre stato attento a costruire un rapporto dialogico tra composizione architettonica e «concrezione strutturale», come lui stesso ha descritto il proprio lavoro d’ingegnere strutturista a contatto con il lavoro dell’architetto, vent’anni dopo l’exploit di corso Francia17. In polemica con «taluni grandi maestri dell’Architettura strutturale» e sulle tracce dell’amato Eduardo Torroja18, l’ingegnere d’origine parmense rimane a lungo convinto che «il rispetto del regime statico [sia] condizione necessaria ma niente affatto sufficiente per la validità delle forme architettoniche»19. La seconda metà degli anni cinquanta, del resto, è fondamentale nella sua biografia intellettuale per precisare tali riflessioni, maturate in un contesto internazionale che ha pochi eguali per la cultura italiana, tra il MIT di Cambridge (Mass.) e lo IUAV di Venezia, tra la scuola di Ulm di Tomás Maldonado e lo studio di Pietro Belluschi e Eduardo Catalano, tra la «Casabella-Continuità» di Rogers e l’«Architettura» di Zevi. Con tenace perseveranza, Pizzetti contribuisce a costruire una via mediana tra le posizioni dell’ingegneria internazionale, spesso divisa - è una visione paradossale, ma non troppo - tra strenui deterministi e intuizionisti audaci. La torre di corso Francia è una delle possibili testimonianze costruite di una posizione spesso chiarita nella multiforme attività d’insegnante e conferenziere, abituato a porre le questioni in maniera radicale per affrontarle alla radice. Per Pizzetti, la frattura tardosettecentesca tra le competenze dell’ingegnere e quelle dell’architetto, cioè tra «linguaggio analitico» e «intuizione», appare ormai priva di fondamento storico. D’altronde autori come Maillart, Eiffel, Hennebique, Danusso «sanno realizzare queste eccezionali figure di progettisti», capaci di combinare «capacità scientifiche» e «sensibilità creativa». L’unico obiettivo condiviso non può che essere l’«unità strutturale», dove il linguaggio matematico funga da verifica dell’intuizione compositiva: solo così «l’ingegnere si è scosso di dosso la soggezione analitica e ha cominciato a vedere nella struttura la forma resistente e non soltanto un nido di incognite iperstatiche [mentre] l’architetto ha compreso che l’intuizione statica è una faticosa conquista, ben diversa dalla fantasia statica o dalla gratuita ricerca di originalità nei motivi strutturali»20.
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Il progetto e la costruzione della torre di corso Francia può essere messa a confronto con tali principi, pur senza pretendere di ricavare indicazioni metodologiche da scritti che nascono senza tali obiettivi. L’edificio vive della composizione - è forse questo, provocatoriamente, il termine più adatto - di due elementi: una struttura in cemento armato, omogenea ma non indifferente al contesto (ad esempio nella straordinaria variazione dell’angolo svuotato o nella accurata definizione dei particolari decorativi lapidei che rivestono i pilastri del portico), e un tamponamento in laterizio a faccia vista, dove alle bucature è riservato il ruolo del contrappunto al cantus firmus della struttura. A tali idee sia BBPR sia Pizzetti rimangono fedeli in questi anni, provando così a tener aperta la strada della collaborazione tra architetti e ingegneri, designer a pari merito: una strada destinata a chiudersi intorno alla metà degli anni sessanta21. Così, negli stessi mesi in cui termina il cantiere torinese, a Venezia Pizzetti inaugura l’anno accademico 1959-1960 con una prolusione dal titolo Forme strutturali e sensibilità strutturale, dove arriva a chiedersi: «Come imposteremo il problema strutturale? Io penso si possa impostare così: “certe forze devono agire in determinate posizioni spaziali in obbedienza a certe esigenze o comodità dell’uomo”»22: il pensiero dell’ingegnere è quasi tutto in questa definizione, tutt’altro che banale. Gli unici «fattori determinanti delle strutture» devono essere forza e momento, assieme ai loro corrispettivi di forma e momento d’inerzia, «con gradazioni quantitative dipendenti dal tipo di materiale impiegato». Questo implica di necessità, nei rapporti tra architettura e ingegneria, una corretta valutazione di ruoli e gerarchie nelle parti del progetto: «Prima condizione perché il linguaggio statico sia chiaro ed equilibrato è che la struttura non abbia mai un risalto sproporzionato alla sua importanza, per quanto allettante possa essere farne un motivo predominante. Se la struttura condiziona la soluzione architettonica sarà giusto sottolinearla, ma nei moltissimi casi in cui la struttura è del tutto irrilevante è un errore concentrare su di lei il fuoco dei riflettori». La concezione strutturale è, come ogni altro elemento nel progetto d’architettura, questione di responsabilità: fingere che ciò non sia o pretendere di schivarlo è un’illusione. Molto meglio è quando si vedano «finalmente le strutture non più come pezzi di catalogo di un museo matematico, ma come elementi vivi e vitali dei progetti». Proprio il tono accorato delle parole di Pizzetti rivela le difficoltà di una posizione tutt’altro che scontata, all’inizio degli anni sessanta. In seguito, quella questione di responsabilità, cui la torre di corso Francia prova a dare una risposta, sarà schivata o semplicemente cancellata, con buona pace degli innovatori. L’inizio degli anni sessanta è un passaggio critico nelle vicende dell’architettura e dell’ingegneria civile italiane: la fase del boom economico si avvia a una conclusione rapida e, per molti versi, inattesa. Con l’esaurimento della prima, eroica fase della Ricostruzione gli incarichi diventano sempre più difficili e rari. Eventi clamorosi, che avrebbero dovuto rappresentare l’avvio di
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una fase nuova anche nelle culture della costruzione, come le Olimpiadi romane del 1960 e l’esposizione torinese di Italia ‘61, si rivelano presto il vertice di una parabola destinata a decrescere. D’altra parte, lo stesso mercato edilizio, ristabilizzato dopo gli audaci furori degli anni cinquanta, richiederà una ridefinizione dei confini disciplinari e professionali di tutti gli attori in gioco, alla ricerca di nuovi spazi difficili da trovare. Gli ingegneri cercheranno di spostare definitivamente verso le infrastrutture e i grandi impianti le proprie energie, laddove gli architetti tenderanno a far crescere i propri spazi di sperimentazione e ricerca, in accademia o altrove, quando non intendano negoziare i propri margini di libertà con un mercato assai aggressivo. La fine della Ricostruzione, o almeno della sua prima fase, induce a una separazione delle carriere che, per molti versi, diverrà definitiva: è tempo, così, che l’architetto torni a far l’architetto e l’ingegnere torni a far l’ingegnere.
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Tre problemi di ambientamento. La Torre Velasca a Milano. Un edificio per uffici e appartamenti a Torino. Casa Lurani a Milano, in «Casabella-Continuità», ottobre 1959, n. 232, pp. 4-27. 2 Clarification from Milan, in «The Architectural Review», gennaio 1960, n. 755, pp. 1-2. 3 Recent Works of the BBPR Studio, in «Architectural Record», settembre 1960, pp. 187-196, in particolare p. 195. 4 La sequenza del processo decisionale si desume dai verbali delle adunanze del Consiglio di amministrazione della società assicurativa: ringrazio la dr.ssa Silvana Della Penna, responsabile del Museo Storico della Società Reale Mutua (Torino), per avermi messo a disposizione tale materiale. 5 P. G. BARDELLI (a cura di), La dimora della Reale Mutua in Torino. Esperienze di restauro del moderno. Nel 170° anno di fondazione 1828-1998, Reale Mutua Assicurazioni Cantino, Torino-Firenze 1998. 6 P. P. PERUCCIO, La ricostruzione domestica. Gustavo Colonnetti tra cultura politecnica e industrializzazione (19431957), Celid, Torino 2005, pp. 25-40. 7 Purtroppo non sembra rimasta traccia di documentazione grafica nell’archivio storico della Reale Mutua, dove pure dovevano essere conservati questi progetti. Fortuitamente (e fortunatamente) se ne conservano tuttavia stampe fotografiche, a ottima definizione, conservate dalla prof.ssa R. Rigamonti e da quest’ultima, in occasione della presente ricerca, generosamente donate agli Archivi della Biblioteca Centrale di Architettura del Politecnico di Torino. È questa, tra l’altro, l’occasione per ringraziarla. 8 A. MARTINI e D. ROLFO, Torino, una mappa verticale, in «Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti di Torino», a. LIV, dicembre 2010, n. 3, pp. 59-89, in particolare p. 70. 9 Il Piano Regolatore Generale di Torino 1959, in «Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e Architetti di Torino», a. XIV, marzo-aprile 1960, nn. 3-4. 10 Ibid., p. 12, parte III, art. 26. 11 Ibid., p. 26. 12 F. CATALANO e M. DEL PIAZ, Giulio Pizzetti. Ingegnere tra gli architetti, Centro Editoriale Veneto, Padova 1994. 1
13 T. DEL BEL BELLUZ, Giorgio Raineri architetto, Celid, Torino 1998, pp. 73-74 e p. 84, n. 1. Al di là di un cenno al ruolo svolto, per l’ossatura metallica, dalle Officine Nazionali di Savigliano, nemmeno un cenno è fatto alle imprese costruttrici nel volume curato da BARDELLI (a cura di), La dimora della Reale Mutua in Torino cit. 14 STUDIO ARCHITETTI BBPR, Edificio per uffici e abitazioni a Torino. Relazione tecnica, in Tre Problemi di ambientamento cit., p. 8; poi anche in E. BONFANTI, M. PORTA, Città, museo, architettura. Il Gruppo BBPR nella cultura architettonica italiana 1932-1970, Vallecchi, Firenze 1973, pp. 159-160 e A92-A93. 15 E. N. ROGERS, Auguste Perret, Il Balcone, Milano 1955. Il volumetto è stato ristampato in edizione anastatica e allegato al volume di S. PACE e M. ROSSO, Un maestro difficile. Augusto Perret e la cultura architettonica italiana, con la collaborazione di G. Fassino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino 2003. 16 A. FORTY, Concrete and Culture: A Material History, Reaktion Books, Londra 2012, pp. 90-92. 17 Si leggano soprattutto le pagine intitolate «Qualche considerazione di chiusura in tema di composizione strutturale» in G. PIZZETTI e A. M. ZORGNO TRISCIUOGLIO, Principi statici e forme strutturali, Utet, Torino 1980, pp. 801-817, in particolare pp. 807-808. 18 Decisivo è il suo contributo per la pubblicazione dell’edizione italiana del libro più importante di E. TORROJA, La concezione strutturale. Logica ed intuito nella ideazione delle forme, a cura di F. Levi, Utet, Torino 1966. 19 Ibid., pp. 808-809. 20 G. PIZZETTI, Intuizione e linguaggio analitico nell’ingegneria e nell’architettura, in «Casabella-Continuità», [ottobre] 1957, n. 216, pp. 50-52. 21 S. PORETTI, Modernismi italiani. Architettura e costruzione nel Novecento, Gangemi, Roma 2008. 22 G. PIZZETTI, Forme strutturali e sensibilità strutturale. Discorso pronunciato [...] il 7 marzo 1960 all’apertura dell’Anno Accademico 1959-1960, in CATALANO e DEL PIAZ, Giulio Pizzetti cit., pp. 187-199; il discorso è stato anche pubblicato, con qualche variante e con il titolo Le strutture in architettura, in «L’Architettura. Cronache e storia», agosto e settembre 1960.
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The other tower. Structural conception, architecture and the city in the building of Corso Francia in Turin (BBPR, Gian Franco Fasana and Giulio Pizzetti: 1955-59)
T
he tower in corso Francia has always been regarded as the other tower, in the literature that was produced about and by the BBPR. The Torre Velasca in Milan (1950-1957) has become an icon of Italian architecture in the 1950s, whereas the tower that was built on behalf of Reale Mutua Assicurazioni in Turin (1955-1959) made part of a wide and articulated production, remaining in the background. However, time continuity, on one side, and the fact that these two towers were located into consolidated historic contexts (albeit with some differences), on the other, facilitates a homogeneous comprehension of the two buildings, which are indissolubly tied to the issue of ambientamento [contextualization]. The same architects suggested this interpretation, since the two buildings appeared on “Casabella-Continuità” in October 1959 - moreover, when construction works were not over yet in Turin. There, the architects declared, leaving no room for other interpretation: “For each of these two buildings we have tried to interpret the poetic meaning of their thematic essence and that of the environmental pre-existence inside each of them”. Compared to the Torre Velasca, «the building in corso Francia set similar problems in Turin’s climate, with some more complacency, maybe, in some expressive details, interpreted by tradition», and this was likely to refer to the system of arcades and balconies, typical of the building. Few months later, in the wake of the fame of the building in Milan, also “The Architectural Review” published an article about the tower in Turin, with a highly similar description. Nevertheless, one year later, another suggestion appeared on the “Architectural Record”, with special regard to the building structure: since studying “such traditional necessities” was compulsory, the building of corso Francia represented a meaningful solution “achieved within the framework of the structural system first developed for the Torre Velasca”. In Turin, maybe more than in Milan, the structural concept provided a response to the issues raised by the urban fabric, with its own rules and history. The project for Turin - as well as the one for Milan, by the way - had an incredible real estate value, in a crucial moment for Turin’s urban history: the tower in corso Francia, in fact, must be included in a series of other tall buildings that a very out-of-date urban masterplan could not control any longer and that a very new urban masterplan was in favour of, in many cases, also in some strategic points of the urban fabric. On 6th October 1959, when the construction works for the Reale Mutua were coming to
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an end, the new General Masterplan, developed by a team led by Giorgio Rigotti, was approved after a ten year debate within the Municipal Council and out of it. The area where corso Francia starts is a very prestigious one, a residential area on the border of the historical centre with a dwelling density of 330 inhabitants per hectare and a 4,00 cubic metre / square metre floor space index. The design of Reale Mutua tower was then modified, also because it had to stick to the planning provisions facilitating the negotiation and the exchange between private and public areas, licenses and privileges. In order to properly answer these questions, the BBPR group started their collaboration with Giulio Pizzetti, a civil engineer. Even though there are no clear documents providing information on the direct work relationship between the engineer and the architects, the outcomes of the design project are likely to prove that the level of agreement was very high, and each author’s contribution ended up disappearing behind a homogeneous result. The tower in corso Francia, in a short time, became one of the most refined and interesting examples of homogeneous, almost simultaneous, architectural and structural conception in Italy at that time. «The structure is the unitary element of the building: the columns sustaining the part over the first floor convey the load from the first to the ground floor, by means of an inclined surface that was designed to split the diagonal component of the axial stresses [...]. In the high part of the building, the columns that protrude by 1.20 m from the second floor, finally join up through the roof structure, thus creating a seamless system». With these words, in 1959, the BBPR - and, maybe more in this case, Ernesto Nathan Rogers, who had just completed a book on Auguste Perret (a master to whom the tower apparently owes a lot) - describe the structure, by stressing its important role in the crystal clear definition of the whole architecture of the building. This is how the architects and, indirectly, the engineer suggested an ultimate interpretation of the work, where the structure becomes the very architecture. As an inseparable union where no one prevails, the structural conception is, just like any other element in the architectural design project, a matter of responsibility: pretending that it is not so or expecting to avoid, it is just an illusion.
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Myron Goldsmith e l’Italia (1953-1955) LUKA SKANSI
I
n una breve lettera della fine del 1954, Mies van der Rohe comunica a Myron Goldsmith di avere da poco aperto uno studio a New York, per seguire da vicino una prestigiosa commessa: la costruzione di un grattacielo per la Seagram Company sulla Park Avenue. Mies chiede a «Goldie» se esiste qualche possibilità per un suo ritorno negli Stati Uniti: «Even if you cannot return sooner - scrive Mies - we would like to have you in the office upon your return, since the Seagram jobs gives us the possibility not only paying more money than before but of working on new developments structurally»1. A partire dall’autunno del 1953 Goldsmith risiede in Italia, a Roma, dove gode di una borsa di studio Fullbright2. Ha già alle spalle una laurea (1939) e un master all’Illinois Institute of Technology (con Hilberseimer relatore, 1953)3, un lungo apprendistato come ingegnere presso la marina militare americana durante la seconda guerra mondiale e otto anni (1946-1953) di collaborazione presso lo studio di Mies van der Rohe a Chicago4. Goldsmith ottiene la borsa grazie all’indicazione di obiettivi scientifici molto precisi: nel progetto di ricerca dichiara di volersi recare a Roma per seguire le lezioni di Pier Luigi Nervi, presso la Facoltà di architettura, e proseguire con una ricerca, iniziata con la tesi di master, sullo sviluppo di alcune strutture a grandi luci, che devono essere perfezionate e trasformate da oggetti di ricerca teorica in strutture costruibili. Una ricerca che si deve avvalere, per Goldsmith, proprio della consulenza scientifica di Nervi5. Nella prima breve risposta alla lettera di Mies, Goldsmith si dichiara lusingato della proposta del maestro tedesco e, inoltre, particolarmente attratto dalla possibilità di cimentarsi su un tema centrale di quegli anni, come quello dello studio di struttura per un grattacielo in acciaio. Tuttavia, la sua risposta è negativa e viene giustificata dai progressi che i suoi studi stanno avendo in Italia, e dalla speranza di una collaborazione continuativa con Nervi6. Ma è soprattutto la seconda lettera a Mies, a qualche mese di distanza, a rivelare più in dettaglio le ragioni del suo rifiuto. Goldsmith inizia il racconto della propria attività romana proprio con l’assidua frequentazione delle lezioni di Nervi. Sebbene gli risulti insolito, e forse un po’ deludente, che in esse Nervi non illustri, se non raramente, la propria opera, le giudica «molto buone», poiché affrontano il problema della costruzione in generale7. Con la collaborazione di alcuni studenti, ha iniziato a trascrivere e raccogliere queste lezioni, con l’intento di offrirle come materiale didattico e di ricerca
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all’IIT8. Racconta inoltre, un po’ stupefatto, come Nervi non abbia alcuna influenza sulla scuola; il suo è considerato un corso minore, frequentato da pochi studenti dell’ultimo anno, mentre l’enfasi della scuola è indirizzata verso temi completamente opposti a quello dell’architettura strutturale. Goldie scrive, inoltre, di essere impegnato nello studio dell’opera di Nervi, aiutato in questo da un «very good engineer who used to work with Nervi» - Sergio Musmeci, con il quale collaborerà nei mesi successivi9. Allo stesso tempo sta cercando di prendere contatto con un altro «remarkable» ingegnere che lavora a Roma, sul quale formula un giudizio estremamente lusinghiero: «If it is possible to speak of a successor of Maillart, it is certainly he». Si tratta di Riccardo Morandi: «Perhaps I will find some way of working with him while I am still here»10. Infine, Goldsmith scrive che avrà la possibilità di pubblicare un estratto della propria tesi in forma di articolo in «L’Architettura»11, e spiega di essere impegnato nell’elaborazione di una proposta progettuale per il concorso per il ponte Garibaldi sul Tevere, con un ingegnere (Carlo Cestelli-Guidi) e un’impresa (la Carlo Allegri)12 (fig. 3). Queste due cose, sebbene non specificato da Goldsmith, sono evidentemente legate alla figura di Bruno Zevi, uno dei collaboratori del gruppo di progettazione per il ponte. Come dimostrano i documenti d’archivio, tra i due si instaura da subito un’amicizia cordiale, che durerà per molti anni, anche dopo la partenza di Goldsmith per gli Stati Uniti13. La lettera di Goldsmith a Mies è un prezioso documento che ci permette di comprendere l’effettivo radicamento dell’architetto americano nel contesto romano, l’ampiezza degli scambi culturali e delle collaborazioni che sviluppa nel corso della sua permanenza in Italia. Ma non solo. Ci permette di intuire cosa effettivamente rappresenti l’Italia in quegli anni, agli occhi internazionali (o perlomeno americani), nel campo dell’architettura strutturale. È bene ricordare che si tratta di un Goldsmith già maturo nelle proprie scelte e che, a partire dal 1955, quindi immediatamente dopo l’esperienza italiana, inizierà una importante e prolifica carriera come associate, prima presso Skidmore Owings & Merril (1955-1983) e in seguito nel suo studio professionale di Chicago. Un Goldsmith maturo, quindi, che rifiuta una certamente straordinaria occasione di collaborare con Mies, per un progetto di assoluto prestigio, su un tema strutturale che, proprio in questi anni negli Stati Uniti, era terreno di importanti sperimentazioni, sia dal punto di vista costruttivo che formale. La decisione di Goldsmith va quindi compresa, alla luce di possibili ragioni private (non per ultimo, l’apprezzamento per Roma14), e di quello che per lui in quegli anni rappresenta un privilegio, uguale se non maggiore della collaborazione con Mies: lavorare e studiare al fianco di Nervi. In più occasioni, Goldsmith tornerà a precisare come Mies e Nervi fossero stati per lui gli unici maestri. E per quanto il loro lavoro possa sembrare diverso e distante, la loro ricerca appare a Goldsmith identica, poiché per
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entrambi «l’architettura è determinata dalla struttura» e perché «in questi tempi, hanno dimostrato come si possano congiungere ingegneria e architettura»15. Nel corso del 1954, Goldsmith è impegnato nella stesura di alcuni articoli, che non vedranno mai la luce, ma dei quali è possibile trovare traccia nell’archivio16. Si propone prima alla redazione di «Progressive Architecture», e in seguito ad «Architectural Forum», per scrivere su due argomenti che suscitano il suo interesse, e che considera validi per una presentazione al pubblico americano: il primo, sull’opera di Nervi, e in particolare la tecnica del ferrocemento, il secondo, sull’appena ultimato Mercato dei fiori di Pescia, di Leonardo Savioli, Leonardo Ricci e Giuseppe Gori17 (fig. 5). Il tema centrale dell’interesse di Goldsmith per il lavoro di Nervi è la capacità dell’ingegnere italiano di esprimere la sensibilità statica in forma. Un interesse che segue contemporaneamente il percorso teorico e quello costruttivo nell’opera di Nervi. Per il proprio articolo incompiuto, Goldsmith trascrive e traduce alcuni brani nei quali Nervi si sofferma sulla necessità di sviluppare, per «costruire correttamente», una intuitività statica: intuitività che si è persa, nel progressivo rifugio degli ingegneri nella «fredda, impersonale e formulistica»18 teoria della resistenza dei materiali, negli studi sugli equilibri interni dei sistemi. Solo questa sensibilità statica, questa mentalità intuitiva, che Goldsmith definisce come l’aspetto «artistico» dell’arte del costruire, è in grado di umanizzare «the no-human laws of the equilibrium and resistance of materials», e solo questa ci può offrire una «supreme comprehension» della costruzione19. In altre parole, gli aspetti da decifrare nel lavoro di Nervi sono il modo con il quale viene affrontato e interpretato il dato tecnico, e il modo con il quale questo viene trasformato in problema architettonico. La disquisizione teorica sul rapporto tra forma e comportamento strutturale viene svolta all’interno di un’analisi dettagliata degli aspetti tecnici della produzione dei conci prefabbricati in ferrocemento, eseguita dalla Nervi-Bartoli. Goldsmith interpreta questa ricerca di Nervi sulla prefabbricazione in cantiere e sulla tecnica del ferro-cemento come l’invenzione di una nuova espressione architettonica della struttura. Ma perché, si chiede l’architetto americano, Nervi lavora in questo modo? «Per realizzare quella convinzione filosofica [...] secondo la quale si può ottenere una vera architettura in cemento armato soltanto se ci si libera concettualmente dei limiti tradizionali della costruzione lignea»20. I dettagli della sezione dei conci prefabbricati in cantiere - sono analizzate le aviorimesse e il Salone di Torino, schizzati più volte da Goldsmith - «are certainly economic». Si tratta di un’invenzione che è ovviamente frutto di un attento discorso tecnico, di un’acuta progettazione del cantiere, ma, sostiene Goldsmith, non si limitano solo a questo: «They do pretend to be architecture»21. In altre parole, nascono per risolvere un problema strutturale, ma sono pensati in termini di figure spaziali, di figure strutturali; trasmettono, appunto, quel senso statico e rappresentano, per usare la
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1. MYRON GOLDSMITH, «ELEVATION, 84 STORIES», STUDIO PRELIMINARE PER LA TESI DI MASTER «THE TALL BUILDING: THE EFFECTS OF SCALE», 1952 CIRCA. GRAFITE SU CARTA, 28 X 21,5 CM. ARCH264913. MYRON GOLDSMITH FONDS, CENTRE CANADIEN D’ARCHITECTURE / CANADIAN CENTRE FOR ARCHITECTURE, MONTRÉAL.
bella espressione di Luigi Moretti, delle trasfigurazioni di strutture22. Goldsmith è particolarmente puntiglioso nella descrizione delle caratteristiche tecniche delle sperimentazioni di Nervi. Riferisce degli esperimenti sui modelli fatti da Ner-
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vi sull’estensibilità massima delle dimensioni dei conci prefabbricati e sulle percentuali della malta cementizia rispetto agli strati di reti metalliche: tutti elementi finalizzati all’ottimizzazione delle caratteristiche meccaniche e costruttive. E l’idea di volte a conci, sagomati in base all’inclinazione dell’arco e che irrigidiscono la struttura - la via italiana alle volte sottili - diventa il particolare oggetto della sua attenzione. In questo contesto si inserisce anche l’interesse per il Mercato di Pescia. Goldsmith visita l’edificio e mantiene una corrispondenza con il suo ingegnere Giuseppe Gori. La copertura del mercato è infatti una grande volta costruita in conci di laterizio, leggermente armati, murati con malta e intonacati. Anche questi conci vengono assemblati a terra a formare grandi archi o travi curve: una volta completati, gli archi sono sufficientemente leggeri da essere alzati e posizionati su contrafforti in cemento armato. Il tutto, proprio come nel caso delle strutture di Nervi, senza ricorrere a macchinari complessi ma, anzi, basandosi su una mano d’opera ridotta e non qualificata. Sono quindi le volte sottili artigianali italiane ad attrarre Goldsmith. L’architetto colleziona una serie di depliant di imprese di costruzione e di fotografie di cantieri che documentano l’eterogeneità dei brevetti e dei materiali (laterizio, laterizio armato, cemento armato e ferrocemento). Tutte tecniche costruttive, scrive Goldsmith in una nota, finalizzate ad avere una struttura «that is plastic in form»23. L’unione tra architettura e ingegneria e l’espressione formale della sensibilità statica sono temi che caratterizzano già i lavori teorici di Goldsmith precedenti al suo arrivo in Italia; e i temi indubbiamente rispecchiano gli interessi culturali dell’ambiente miesiano e dell’IIT. Il problema posto dall’architetto americano nella sua tesi è il rapporto tra tecnica costruttiva, dimensione massima raggiungibile dalla struttura architettonica ed espressione formale. Tra le varie tipologie architettoniche prese in considerazione, Goldsmith dedica ampio spazio agli edifici alti, con l’obiettivo di riflettere su nuovi tipi strutturali di grattacieli a telaio, che rendano possibile raggiungere altezze superiori ai cinquanta piani24. Propone, infatti, una serie di studi, applicabili sia ai sistemi in acciaio che a quelli in cemento armato, che si basano sul principio di una struttura estradossata, di dimensioni imponenti, che ingloba il volume del grattacielo, liberando gli interni dalle strutture verticali. Gli studi per grattacieli in acciaio presentano, ad esempio, diversi sistemi di controventamento e nessun sistema portante interno. Questi studi, affrontati nella tesi solamente a livello diagrammatico, avranno uno sviluppo nel successivo lavoro di Fazlur Khan e confluiranno in alcune straordinarie realizzazioni di SOM (Skidmore, Owings & Merrill), come il John Hancock Building di Chicago25. Nel disegno per un tipo di edificio alto in cemento armato, Goldsmith cambia leggermente registro - questo lavoro viene pubblicato per la prima volta sulle pagine di «L’Ar-
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2. PROGETTO PER IL VELODROMO OLIMPICO DI ROMA. «L’ARCHITETTURA CRONACHE E STORIA», 1956, N. 5.
chitettura» nel 195526 - proponendo una doppia struttura: un telaio esterno che assorbe i principali sforzi e una struttura secondaria interna (fig. 1). Il telaio esterno presenta pilastri con dimensione alla base di 4,5 x 5 metri, che si rastremano salendo, e ampie campate di 43 x 55 metri. Tra una piattaforma e l’altra vi sono 15 piani: 7 sono appe-
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3. PROGETTO DI CONCORSO PER IL PONTE GARIBALDI A ROMA. «L’ARCHITETTURA CRONACHE E STORIA», 1956, N. 6.
si alla piattaforma superiore e 7 appoggiati a quella inferiore, mediante colonne di 40 centimetri di diametro. I vantaggi ottenuti da Goldsmith sono sostanzialmente tre: riduzione del numero di pilastri (8 rispetto ai 96 che sarebbero richiesti da un edificio tradizionale delle stesse dimensioni); assottigliamento delle travature orizzontali (che per-
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mette di ricavare più piani); possibilità di ottenere ogni 15 piani un piano libero da pilastri (tra parte portata e portante). Ma oltre il discorso puramente funzionale, è di assoluta centralità la ricerca di Goldsmith per una espressività del telaio. La forma del telaio deriva, infatti, puntualmente, dalla identificazione con il comportamento strutturale, che si manifesta nella variazione delle sezioni dei profili, come nella progressiva rastremazione. L’esibizione di questi comportamenti strutturali del telaio estradossato segue la convinzione di Goldsmith che solo la ricerca di un nuovo tipo strutturale offra la possibilità di elaborare anche nuove forme di espressione architettonica. Il secondo progetto sul quale lavora in questi anni, sempre sul tema di una struttura a grande scala, è quello per una copertura di 250 metri di diametro (fig. 4). Elaborato al di fuori del lavoro svolto all’IIT, l’edificio è caratterizzato da una gigantesca copertura ideata in precompresso, che copre un complesso sportivo composto da un’arena con 12.000 posti, piscine, campi da tennis e che viene pensata per essere sorretta da una grande struttura reticolare cilindrica, che libera lo spazio interno da sostegni. Questo studio è al centro della proposta di ricerca che Goldsmith presenta alla commissione Fullbright, ed è l’ipotesi per lo sviluppo della quale egli considera fondamentale la consulenza di Nervi. Nella lettera a Mies racconta, infatti, di aver sottoposto il progetto a Nervi, che lo ha giudicato «very promising»27. Nelle lezioni trascritte da Goldsmith troviamo ulteriori indizi sul giudizio di Nervi: l’ingegnere mostra il progetto agli studenti commentandolo: «come ideazione e concezione generale è logica, pulita e bella. Non c’è che ammirarla»28. È tuttavia molto scettico riguardo le possibili conseguenze delle dilatazioni termiche, e sostiene come strutture di questo tipo non debbano essere pensate in precompresso, bensì in ferro. A distanza di pochi anni, questo progetto avrà uno sviluppo concreto. Il principio strutturale del Coliseum di Oakland (1964-1968), realizzato da Goldsmith con lo studio SOM, si basa proprio sull’idea della grande reticolare cilindrica che sostiene una copertura a pianta circolare. Decisamente ridotto nelle dimensioni rispetto allo studio iniziale, l’edificio presenta un perfezionamento della travata, che viene semplificata nel passo e ingrandita nel profilo. Per quanto riguarda la copertura, parte del progetto criticato da Nervi, essa viene relizzata con catenarie che collegano la reticolare con un grande anello in cemento, che rimane sospeso sopra il centro del campo da gioco: l’intero sistema della copertura viene poi messo ulteriormente in tensione da sottili setti precompressi, lunghi 20 metri, posizionati sui cavi a montaggio finito. Una soluzione (precompressione e cavi d’acciaio) che in definitiva va nella direzione opposta alle indicazioni di Nervi29. Nel corso della permanenza romana, Goldsmith si cimenta con due progetti di concorso. Il primo, per il Velodromo per i giochi olimpici, concorso del 1955, in collaborazione con Hilda Selem, Eduardo Schameshon e James Ferris, quest’ultimo collega di Goldsmith già durante gli studi a Chicago e suo futuro collaboratore presso SOM
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(fig. 2). La proposta del gruppo risulta essere una delle poche che posiziona le tribune su due grandi terrapieni, ottenuti dallo scavo della pista. L’intento è quello di inserirsi nelle linee del paesaggio, eliminando il più possibile il dislivello fra il punto più alto delle gradinate e il livello stradale, rispondendo così in maniera adeguata anche alle indicazioni del bando, abbastanza rigide, sull’impianto planimetrico e sulle curve di visibilità30. L’unico tema strutturale presente nel progetto è un baldacchino, che emerge dal terrapieno in cima alla gradinata ed è costituito da una copertura in precompresso a forma di sottile guscio, appoggiata su tre supporti come una sorta di tenda rigida. Il secondo progetto, ancora più intrigante dal punto di vista degli esiti, è il già menzionato progetto per il ponte Garibaldi sul Tevere, formulato in collaborazione con Cestelli-Guidi, Zevi e Ferris (fig. 3). Un progetto particolare, apparentemente anomalo per il contesto italiano, che evoca interrogativi sulla effettiva paternità della soluzione: essa viene in parte chiarita in una lettera, indirizzata da Zevi a Goldsmith, nella quale il critico romano comunica l’avvenuta pubblicazione nella sua rivista del «nostro (anzi: il tuo)» progetto31. La struttura, costituita da archi a tre cerniere, viene modellata per resistere sia per forma che per precompressione: si tratta di due arcate di 40 metri di luce, a superfici cilindriche, armate in senso longitudinale e precompresse in senso trasversale. L’impalcato è invece costituito da una trave a cassone, con nervature longitudinali, la cui sezione varia in conformità alle resistenze ai momenti flettenti e agli sforzi di taglio. Si tratta di una proposta particolarmente suggestiva, che unisce con eleganza strutture a guscio con un impalcato lineare, a sezione variabile, e che non sembra l’esito di un’affinità, di un gusto strutturalista, ma deriva piuttosto da un ragionamento unicamente strutturale. Anche questo progetto avrà un epilogo americano in uno studio commissionato dalla Atlas Cement Corporation, sviluppato da Goldsmith per ponti da 180 a 300 metri di luce32. La particolare forma delle arcate a guscio ha delle affinità con alcuni studi sui paraboloidi iperbolici che l’ingegnere ceco Josef Polivka sviluppa nell’immediato dopoguerra a Berkeley33. Un lavoro certamente noto a Goldsmith, sia per la diffusione di questi studi nel contesto americano, sia grazie alla frequentazione e alla corrispondenza con Paul Chelazzi, ingegnere italiano, conosciuto già nel 1951 nel corso del suo primo soggiorno italiano34. Goldsmith considera particolarmente validi gli studi di Chelazzi, noto nell’ambiente professionale e accademico americano per una serie di brevetti per strutture di hangar a grandi luci denominati «Susparch», sviluppati proprio grazie alla consulenza di Polivka. Goldsmith si impegnerà nella promozione del lavoro di Chelazzi, in sintonia con i suoi interessi per strutture a grandi dimensioni, presso alcune riviste americane. Si tratta di coperture (costituite da grandi travi curve o da archi in cemento) sospese mediante cavi su piloni centrali: ne risulta un sistema a travata a doppio sbalzo, chiamata negli Stati Uniti «double cantilever», che permette di ottenere vaste luci libere35.
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4. VISTA DEL PLASTICO DEL COMPLESSO SPORTIVO, 1954. STAMPA ALLA GELATINA D’ARGENTO SU CARTONCINO, 35,2 X 30 CM. ARCH218875. MYRON GOLDSMITH FONDS, CENTRE CANADIEN D’ARCHITECTURE / CANADIAN CENTRE FOR ARCHITECTURE, MONTRÉAL.
In sostanza, una volta raccolti e analizzati questi episodi della prima carriera di Goldsmith, si può affermare che la sua esperienza italiana è stata particolarmente ricca ed eterogenea. Un’esperienza orientata verso la conoscenza del lavoro di Nervi, ma allo stesso tempo aperta alle diverse figure e agli stimoli che il contesto italiano di quegli anni offriva. In tal senso, l’attrazione di Goldsmith verso l’Italia si inserisce nel ricco panorama di scambi culturali tra Stati Uniti e Italia che, sin dai primi anni del dopoguerra, ha contraddistinto queste due culture architettoniche. Tuttavia, a differenza dei rapporti fino ad ora conosciuti, e che si costruivano principalmente su temi riguardanti la pianificazione, l’architettura o la storiografia, Goldsmith appare come una sorta di pioniere nel campo dell’architettura strutturale. L’attenzione americana per i progettisti italiani di strutture vivrà il suo momento più alto solo pochi anni dopo, sulla scia del-
5. LEONARDO SAVIOLI, LEONARDO RICCI, GIUSEPPE GORI, ENZO GORI, MERCATO DEI FIORI, PESCIA, 1948-1955. FOTO F. PADOVANI.
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l’esperienza nerviana delle olimpiadi di Roma, nella mostra del 1964 «Twentieth Century Engineering» al Museum of Modern Art di New York, dove si conterà una ricca presenza di progetti italiani36. Sarebbe forse inutile cercare nei progetti Goldsmith dirette influenze delle opere di Nervi: volte sottili artigianali, laterizio armato, ferrocemento sono tecniche legate a un mercato edilizio italiano, con organizzazione e specificità del cantiere radicalmente diverse da quelle americane. Inoltre, il frequente ricorso di Goldsmith alla tecnica della precompressione, già a partire dagli studi americani, mostra quanto i suoi interessi esulino da un apprendimento esclusivo del lavoro di Nervi. Ma è innegabile che sia proprio Nervi a rappresentare in quegli anni, insieme a Mies, il punto di riferimento per la ricerca dell’architetto americano, in particolar modo per il fascino dell’esplorare le possibilità espressive della struttura, dove architettura, ingegneria ed estetica collaborano a formare una complessa pratica dell’arte del costruire. Una ricerca che è allo stesso tempo formale e teorica e che trova in Nervi e nell’Italia degli anni cinquanta uno dei momenti più alti, come dichiara lo stesso Goldsmith, nella lettera di richiesta per il rinnovo della sua borsa: «Such theoretical work can be better done in Italy, indeed in Rome itself, it seems to me, than anywhere else in the world»37.
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L’articolo comprende esiti di una ricerca sul fondo Goldsmith della collezione del Canadian Center for Architecture di Montreal, dove sono stato Visiting Scholar nel corso del 2012. A questa istituzione desidero esprimere i miei più vivi ringraziamenti per l’accoglienza e il prezioso aiuto. 1 Traduzione mia. Lettera di Mies van der Rohe a Goldsmith, 28 dicembre 1954, CCA Collection, Myron Goldsmith fonds (d’ora in poi CCA). 2 La borsa gli verrà rinnovata per due volte e scadrà, definitivamente, il 14 settembre 1955. Lettera della Commissione per gli scambi con l’Italia a Goldsmith, 27 giugno 1955, CCA. 3 M. GOLDSMITH, The Tall Building: The Effects of Scale, Master of Science in Architecture, Graduate School of IIT, Chicago, 1953, CCA. 4 W. BLASER (a cura di), Myron Goldsmith. Building and concepts, Rizzoli, New York 1987; Myron Goldsmith: poet of structure, CCA, Montreal 1991. 5 Bozza del report dell’attività di ricerca svolta a Roma indirizzata alla Commissione scambi con l’Italia, maggio 1955, CCA. 6 Appunti per una lettera a Mies, 18 gennaio1955, CCA. 7 Lettera di Goldsmith a Mies, 27 giugno 1954, CCA. 8 Appunti per una lettera a Mies. Taccuini italiani, CCA. Le trascrizioni delle lezioni di Nervi sono tutt’oggi conservate presso il fondo Goldsmith. 9 In diverse lettere, Goldsmith segnala una collaborazione professionale con Musmeci. Di questa attività rimangono tuttavia nel fondo CCA poche tracce. 10 Lettera di Goldsmith a Mies, 27 giugno 1954, CCA. 11 M. GOLDSMITH, Dimensione e struttura, in «L’architettura cronache e storia», 1955, n. 2, pp. 248-250. 12 Concorso nazionale per l’allargamento di ponte Garibaldi a Roma, in «L’architettura cronache e storia», 1956, n. 6, pp. 850-853. 13 Zevi scriverà per Goldsmith una lista di architetture e di studi da visitare nel corso della sua permanenza italiana. In seguito, oltre alla corrispondenza tra i due, si segnalano due articoli sulla prima attività di Goldsmith negli Stati Uniti pubblicati da B. ZEVI, Scheletri nuovi per uno stadio, un palazzo per uffici e un ponte, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 37, pp. 495-497 e S. MUSMECI, Un hangar nell’aeroporto internazionale di San Francisco, in «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 43, pp. 63-66. 14 Lettera a Mies 27 giugno 1954, CCA. 15 Traduzione mia. M. GOLDSMITH, RIBA annual discourse, in «The Journal of RIBA», giugno 1966, pp. 252-257; vedi anche B. J. BLUM (a cura di), Oral History of Myron Goldsmith, Chicago Architects Oral History Project, The Art Institute of Chicago, 1990, 2001. 16 La permanenza in Europa di Goldsmith non si limita soltanto all’interesse per l’Italia. Compie un lungo
viaggio tra Svizzera, Germania, Danimarca, Svezia, Inghilterra, Scozia e Francia, visitando e documentando le opere dell’ingegneria dell’Ottocento e del Novecento. 17 Si sono conservati un dattiloscritto e diverse pagine di appunti su entrambi i temi, la corrispondenza con le riviste, il materiale di studio (articoli, libri, fotografie) e il materiale per l’illustrazione del testo, CCA. L’idea per i due temi risale già al 1951, durante la prima permanenza estiva in Italia. 18 Traduzione mia. Le citazioni sono riprese dalla bozza dattiloscritta dell’articolo su Nervi, pp. 1-2, CCA. 19 Ibid. 20 «First philosophical belief […] can only have concrete architecture when free from the bonds of wood construction». Appunti di Goldsmith, taccuino datato 26 maggio 1951, CCA. 21 Ibid. Corsivi miei. 22 L. MORETTI, Trasfigurazioni di strutture murarie, in «Spazio», 1951, n. 4, pp. 5-16. 23 Appunti di Goldsmith, 26 maggio 1951, CCA. 24 La considerazione elementare dalla quale parte l’architetto americano è che ogni tipo strutturale può raggiungere un massimo dimensionale, ossia, la sua efficienza è compresa entro dei limiti massimi: il grattacielo in muratura raggiunge al massimo 16 piani (Monadnock Building di Burnam e Root, 1891), mentre con struttura a telaio semplice in cemento armato (i Promontory Apartments di Mies, 1948) il limite viene calcolato sui 25 piani. GOLDSMITH, The Tall Building cit. 25 F. R. KHAN, Il primato tecnologico, in «Casabella», 1976, n. 418, pp. 44-53. 26 GOLDSMITH, Dimensione e struttura cit. 27 «The project holds a lot of promise». Lettera a Mies, 27 giugno 1954, CCA. 28 Lezione di Nervi del 25 gennaio 1954, CCA. 29 ZEVI, Scheletri nuovi cit. 30 Vedi il giudizio positivo del progetto in A. VITELLOZZI, Concorso nazionale per il Velodromo Olimpico di Roma, in «L’architettura cronache e storia», 1956, n. 5, pp. 690-700; Relazione di progetto, CCA. 31 Lettera di Zevi a Goldsmith, 22 gennaio 1956, CCA. 32 I progetti non saranno realizzati. Three projects by Myron Goldsmith and James Ferris, in «Arts and Architecture», agosto 1958, pp. 16-17. 33 V. DI SUVERO, L’ingegnere Jaro Joseph Polivka, collaboratore di F. Ll. Wright, in «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 45, pp. 203-210. 34 I due si conoscono a Perugia nel 1951, dove Goldsmith frequenta un corso di lingua italiana, e mantengono una corrispondenza nel corso degli anni cinquanta. Chelazzi, dopo una formazione italiana, è impegnato prima della guerra in realizzazioni di hangar aeroportuali in Cina; nel dopoguerra insegna in alcune
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università americane e lavora come consulente di alcuni studi, tra i quali la John Roebling and Sons. 35 Medesima tipologia «double cantilever» verrà applicata da Goldsmith negli hangar di San Francisco, benché diverso sarà il sistema studiato per sorreggere le travi a sbalzo.
«Twentieth Century Engineering», The Museum of Modern Art, New York 1964. 37 Lettera di Goldsmith alla commissione Fullbright, 16 aprile 1955, p. 4, CCA.
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Myron Goldsmith and Italy (1953-1955)
S
tarting from autumn 1953 Goldsmith spent two years in Italy thanks to a Fullbright fellowship. He already had a bachelor’s degree (1939) and a master’s degree at Illinois Institute of Technology (where Hilberseimer was the supervisor for his dissertation, June 1953), he had had a long apprenticeship as an engineer in the US. Navy during World War II and he had worked for 8 years (1946-1953) at the Mies van der Rohe’s studio in Chicago. Goldsmith obtained his fellowship thanks to the indication of very precise scientific targets: in his research project he declared he wanted to go to Rome to attend Pier Luigi Nervi’s lectures, at the Faculty of Architecture, and then carry on with a research he had started with his master’s degree thesis, the development of long span structure that had to be improved and turned from objects of theoretical research into structures that might be actually built. According to Goldsmith this research should have taken advantage of Nervi’s scientific advisory, as a matter of fact. While he was in Rome he received a letter from Mies van der Rohe that announced him the German architect had just opened a studio in New York, to take care of an important assignment: the construction of a skyscraper for the Seagram Company on Park Avenue. Mies asked “Goldie” if he might come back to the U.S.A., to work for the Seagram building and study “new structural developments”. In his response to Mies, Goldsmith flattered for the German master’s offer, and particularly eager to deal with such an architectural theme so crucial in those years - the study for a steel skyscraper structure. However, his answer was negative and justified by the fact that his studies were making important progress in Italy, and he claimed he also hoped to continuously collaborate with Nervi. Goldsmith started telling about his Roman experience starting with Nervi’s lectures, he used to attend painstakingly. Even though he considered strange, and perhaps a little disappointing, that Nervi did not talk about his own works, if not rarely, he claimed that his lectures were “very good”, since they tackle the construction problem as a whole. Thanks to some students’ collaboration, he started collecting these lectures, with the aim to offer them to IIT, to be used as teaching and research material. He also stated, a little surprised, that Nervi had no influence on the school; his course was considered a minor one, attended by a few last term students, whereas the school focused its attention on completely different topics from structural architecture. Moreover, Goldie wrote he was taking lessons on Nervi’s work, “a very good engineer who used work with Nervi” - Sergio Musmeci. At the same time, he was also trying to get in contact with another “remarkable” engineer that worked in Rome, to whom he expressed a highly flattering opinion: “it is possible to speak of a successor of Maillart, it is certainly he.” His name was Riccardo Morandi. “Perhaps ”, wrote Goldsmith “I will be able to find some way of working with him I am still here.” 142
Finally, Goldsmith wrote that he would have the chance to publish part of his degree thesis in “L’Architettura”, and explained he was drafting a design project for the competition for Garibaldi bridge over river Tiber, together with Carlo Cestelli-Guidi, another important figure of the Italian afterwar engineering culture. In the same years he participated in another competition for one of the most important facilities of the 1960 Rome Olympics (the Velodrome), he travelled throughout Italy and Europe, and met some important protagonists of Italian engineering (Chelazzi, Gori, Musmeci) and architectural culture in the 1950. The archival records regarding Goldsmith’s stay in Italy represent an important document allowing to understand to what extent the American architect actually was involved in the Italian context and the importance of the cultural exchanges and collaborations that he developed during his time in Italy. But not just this. It is also useful to see what Italy represented before the international audience in those years (or the American one, at least), in terms of structural architecture. Nervi represented, together with Mies, the reference figure for the expressiveness of structure, where architecture, engineering and aesthetics work together to generate a complex practice of the art of building. A research that is formal and theoretical at the same time and that founds in the work of Nervi, and in the work of contemporary architects and engineers in Italy, one of the highest moment of expression, as Goldsmith declared in a letter where he requested to renovate his fellowship: “Such theoretical work can be better done in Italy, indeed in Rome itself, it seems to me, than anywhere else in the world.”
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Sedici edifici / Venti anni di architettura FOTO
FEDERICO PADOVANI TESTO
MARKO POGACNIK
NICOLA E LEONARDO MOSSO, ING. LIVIO NORZI, CHIESA DEL GESÙ REDENTORE, TORINO, 1953.
La struttura e il sistema delle forze
FRANCO SIRONI (COORD.) CON ARCH. LORENZO M ARTINOIA E INGG. LEO FINZI E R EMO PAGANI, PALAZZO DELLO SPORT, GENOVA, 1960-1963.
JULIO LAFUENTE , AICARDO VIRAGO, ING . GAETANO R EBECCHINI , TRIBUNE DELL’IPPODROMO DI TOR DI VALLE, ROMA, 1958-1959.
Nascondimento e disvelamento della struttura
LUIGI MORETTI, CASA «GIRASOLE» IN VIA BRUNO BUOZZI, ROMA, 1947-1950.
SERGIO MUSMECI CON LEO CALINI, EUGENIO MONTUORI, LABORATORIO RAFFO, PIETRASANTA, 1956.
Antico decoro e nuove figure strutturali
LUIGI FIGINI, GINO POLLINI CON INGG . A RTURO DANUSSO, LOCATELLI , WEISZ , CHIESA M ADONNA DEI POVERI, BAGGIO (MI), 1952-1954.
AIMARO ISOLA, ROBERTO GABETTI CON ING . GIORGIO R AINERI , PALAZZO DELLA BORSA VALORI, TORINO, 1953-1956.
Trasparenze strutturali e tessiture murarie
ACHILLE E PIERGIACOMO CASTIGLIONI, CHIESA DI SAN GABRIELE A RCANGELO IN M ATER DEI, M ILANO, 1956-1959.
GIUSEPPE VACCARO CON ING . GIUSEPPE CHEMELLO, CHIESA DI SANT’ANTONIO A BATE , R ECOARO TERME (VICENZA), 1949-1951.
Lo schermo e l’involucro
M ARIO ASNAGO, CLAUDIO VENDER , CASA D’ABITAZIONE IN PIAZZA VELASCA, M ILANO, 1947-1952.
ANGELO M ANGIAROTTI E BRUNO MORASSUTTI, CASA DI ABITAZIONE IN VIA QUADRONNO, M ILANO, 1959-1960.
Il telaio e le sue diverse interpretazioni. Bricolage e disciplina classica
GIOVANNI M ICHELUCCI, CHIESA SACRO CUORE IMMACOLATO DI M ARIA, VILLAGGIO BELVEDERE , PISTOIA, 1959.
ADALBERTO LIBERA, EDIFICIO A BALLATOIO, QUARTIERE TUSCOLANO, ROMA, 1950-1954.
Il telaio. Plasticità delle membrature e rarefazione ritmica
BBPR CON ING. GIULIO PIZZETTI, EDIFICIO PER ABITAZIONI E UFFICI IN CORSO FRANCIA , TORINO, 1959.
LUIGI FIGINI, GINO POLLINI, CASA D’ABITAZIONE IN VIA BROLETTO, M ILANO, 1948-1949.
Il telaio. Discontinuità e conflitti.
FRANCO ALBINI, FRANCA H ELG CON ING . GINO COVRE , M AGAZZINI R INASCENTE , ROMA, 1957-1961.
Protagonisti della ricerca strutturale
Circostanze e fortune internazionali dell’ingegneria italiana ALESSANDRO DE MAGISTRIS
U
n lungo intervento di Reyner Banham apparso su «Architectural Review» nel febbraio 19601, in cui l’autore rimarcava «the sincere flattery to technology» e «lo sguardo quasi feticistico manifestato verso certe categorie di ingegneri» che godevano «di uno status senza precedenti, sia come collaboratori di architetti, che come ideatori di forme da imitare», ci ricorda la particolare congiuntura internazionale entro cui si inscrisse il «miracolo» dell’ingegneria italiana2. Radicata in una solida tradizione di pensiero e sollecitata dai caratteri e dalle congiunture materiali del ventennio3, la cultura strutturale del nostro paese si trovò infatti a operare in un panorama predisposto ad accoglierne e valorizzane le capacità. La «scuola» italiana della seconda metà del Novecento, ispirata da Gustavo Colonnetti e Arturo Danusso e manifestatasi attraverso il lavoro di Pier Luigi Nervi, Riccardo Morandi, Carlo Cestelli Guidi, Silvano Zorzi, Sergio Musmeci ma anche Aldo Favini, Fabrizio de Miranda, Valtolina, e molti altri, si fece strada in un quadro contrassegnato dall’infittirsi dei contatti sul piano scientifico e professionale, ma anche dal rinnovamento degli immaginari e, in generale, da un fervore operativo garantito dalla crescente apertura dei mercati; dunque dall’allargarsi delle occasioni progettuali che favorivano sperimentazioni ed esperienze e la loro irradiazione. Si può essere autorizzati a ritenere che il periodo compreso tra la fine del conflitto e gli anni settanta, destinati a segnare non solo per l’ Italia nette cesure, con l’ingresso decisivo del calcolo assistito del calcolatore4, rappresentarono una sorta di periodo aureo, una «golden age» nelle relazioni tra progettualità e ingegneria. L’apporto ingegneristico-tecnologico occupò una posizione privilegiata in una stagione di grande slancio teorico e applicativo che fu alimentata da rinnovati interessi morfologici MACEJ NOWICKI, CON WILLIAM HENLEY e tipologici, da contaminazioni scientifi- 1.DIETRICK E FRED SEVERUD, ARENA DI RALEIGH, che - si pensi agli interessi di Frei Otto che NORTH CAROLINA, USA, 1949-1954.
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portarono alla costruzione del laboratorio Biologie und Bauen, alla fortuna di On Growth and Form, alle esplorazioni di György Kepes -, da una nuova dimensione di scambi e incontri con la ricerca artistica e tra le discipline del progetto. Ne furono espressione biografie come quella dello stesso Frei Otto5 e di René Sarger, e le collaborazioni che conobbero, proprio in Italia, manifestazioni particolarmente virtuose a cominciare da quelle di Nervi con Ponti e Moretti, di Favini con Mangiarotti, di Albini-Helg e Covre e via dicendo. L’opportunità di approfondire l’apporto italiano in questo alveo, può aprire molte chiavi di lettura e rivelarsi utile per dimensionare con maggior precisione, il «feno2. KURT SIGEL’, STRUKTURA I FORMA V meno rapido e fulmineo» e le traiettorie SOVREMENNOJ ARKHITEKTURE, STROJIZDAT, MOSCA 1965. EDIZIONE RUSSA DI CURT SIEGEL, della cultura progettuale italiana nei deSTRUKTURFORMEN DER MODERNEN cenni centrali del secondo dopoguerra e ARCHITEKTUR, CALLWEY VERLAG, MONACO 1960. del cosidetto boom economico6. Vero è che tale sguardo ancora oggi entra in tensione con l’assenza di una narrazione storiografica di ampio respiro, sul piano internazionale, dell’ingegneria dell’età contemporanea: un nodo che rende problematica la stessa piena integrazione del contributo dell’ingegneria nella storia dell’architettura del ventesimo secolo. Parlando innanzitutto di cronologie, un punto di partenza non può che riguardare l’influenza allargata del secondo conflitto mondiale7; vicenda su cui solo in anni recenti si è dischiusa una riflessione sistematica e di vasto orizzonte. Quello della lunga preparazione al conflitto e della guerra8 fu in effetti un periodo che favorì ricerche e applicazioni e abbracciò entrambi i tracciati sui quali, tra diciannovesimo e ventesimo secolo, si era incamminata l’ingegneria strutturale. Il primo interessava il lavoro sulle strutture metalliche, strada maestra della cultura dell’ingegnere dell’ottocento, che tendeva con fiducia, grazie agli sviluppi prodigiosi della teoria classica, a traguardi sempre più ambiziosi di sofisticazione e leggerezza che portavano a coprire ampiezze sempre maggiori sino al limite della smaterializzazione. Il secondo riguardava il terreno delle strutture in calcestruzzo armato, altrettanto ricco di sfide e suggestioni figurative; terreno su cui per forza delle circostanze, come noto, si
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incanalò in via pressochè esclusiva9 la cultura italiana. Si trattava di un percorso che apriva, sulla base del lavoro pionieristico svolto su diversi fronti da Freyssinet, Baroni, Bauersfeld, Dischinger, Lafaille, Torroja, Maillart, Anton Tedesko10 e altri, percorsi promettenti 3. BISTYP - BIURO STUDIÓW I PROJEKTÓW TYPOWYCH per la tettonica degli edifici BUDOWNICTWA PRZEMYSL- OWEGO (UFFICIO PER GLI STUDI E I PROGETTI TIPIZZATI DELL’EDILIZIA INDUSTRIALE - J. straordinari, grazie alla pla- G LOWCZEWSKI, S. SIKORSKI, W. ZALEWSKI, Z. ZIELINSKI), smabilità che la matière cou- IMPIANTO INDUSTRIALE TESSILE, KALISZ, POLONIA, 1957-1958. lante consentiva. L’alveo della «mobilitazione» bellica coinvolse ovviamente la cultura ingegneristica. Tra i protagonisti dello sforzo legato «at large» alla guerra, vanno annoverati Ove Arup11 e, sul fronte opposto, Fritz Leonhardt12, progettista di infrastrutture, che operò nelle costruzioni della regione baltica13. Se Pier Luigi Nervi arrivò ai primi brevetti sul «nuovo materiale» che avrebbe portato a concepire il cemento armato - secondo la definizione di Sergio Poretti - come strategia aperta proprio nel pieno del conflitto (1943), vanno ascritti alla parentesi bellica anche altri decisivi passi compiuti dell’ingegneria italiana. Cestelli Guidi pubblicò nel 1942 il suo primo contributo sulla precompressione e fu nel 1944 che Riccardo Morandi depositò un primo brevetto relativo a un dispositivo di precompressione che sfruttava il riscaldamento del ferro attraversato da corrente elettrica. Terreno fertile sul piano operativo e per l’aggiornamento teorico, il momento bellico favorì la disseminazione delle conoscenze e il trasferimento di know-how tra paesi che avevano sviluppato ricerche avanzate sul piano teorico e costruttivo. Un ambito di avanzamento fondamentale fu quello delle tecniche di precompressione grazie alle relazioni tra specialisti francesi e tedeschi, in particolare tra Freyssinet14 e Fritz Leonhardt15 che ebbero contatti diretti negli anni della Repubblica di Vichy. La modernizzazione postbellica, osservata alla scala delle vicende internazionali, 4. FREI OTTO, PROGETTO DI SALA DA CONGRESSI PER CHICAGO, impegnò le culture del pro- 1959-1960.
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getto su diversi fronti, a cominciare da quello della prefabbricazione, fondamentale ambito dell’intensificazione delle relazioni tra ingegneria e architettura, rivolto tanto ai compiti della costruzione abitativa di massa, quanto ai programmi di ricostruzione industriale. Un altro terreno fu quello dell’affermazione di nuove forme strutturali, enfatizzate dai temi che nutrivano i nuovi orizzonti sociali e si imposero come campi di confronto competitivo, anche sul piano ideologico, nel panorama internazionale. Il compimento delle indagini teoriche e delle sperimentazioni precorritrici sulle volte sottili avviate tra gli anni venti e trenta, sorrette da una trattazione analitica per l’analisi membranale delle superfici di rotazione e traslazione, fu il quadro elettivo di questo discorso destinato a costituire un capitolo non trascurabile della storia dell’architettura degli anni cinquanta-sessanta16. Qui maturò, come scrisse Jürgen Joedicke al culmine di questa golden age, il tentativo «to replace the rectangular system of space enclosure, favoured until now, by other spatial forms». Si pensi alle soluzioni avanzate per gli impianti sportivi, le grandi aule congressuali ed espositive, agli spazi destinati, alle attività sportive, culturali, del tempo libero e commerciali, alle nuova edificazione industriale, alle opere infrastrutturali come i ponti o le costruzioni aeroportuali destinate ai voli civili entrati in una nuova stagione di sviluppo17. La cornice della guerra fredda, in questo scenario, agì da potente catalizzatore; mobilitando e indirizzando risorse e esaltando il confronto tecnologico che anche sul terreno della progettazione divenne parte fondamentale della competizione tra i sistemi. Un riferimento particolarmente calzante è quello della Kongresshalle di Berlino progettata da Hugh Stubbins, fortemente voluta da Eleanor Lansing Dulles, responsabile per Berlino del Dipartimento di Stato americano. La sua copertura a sella che conteneva una ampia aula congressuale si rivolgeva sugli spazi di una Berlino già divisa, anche se non dal muro, e idealmente unificata; parlava della modernità, del primato tecnico e soprattutto, dei valori della democrazia e del modello occidentale18. Anche in questa prospettiva possiamo leggere l’ambito particolare delle grandi ma19 5. «L’ARCHITECTURE D’AUJOURD’HUI», GIUGNO nifestazioni espositive e sportive . 1958, N. 78. Il campo va esplorato ragionando sulle sin-
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6. ROBERT CAMELOT, JEAN DE MAILLY, BERNARD ZEHRFUSS, NICOLAS ESQUILLAN, SALA DELLE ESPOSIZIONI DEL CENTRE NATIONALE DES INDUSTRIES ET TECHNIQUES, PARIGI, 1957-1958.
gole iniziative ma anche su un ampio arco di manifestazioni internazionali, o di grande risalto nazionale, che permette tra l’altro di precisare possibili periodizzazioni. Nel dopoguerra, il ciclo dei megaeventi «strutturali» prende avvio con il Festival di Londra del 1951, raggiunge il proprio culmine con le esposizioni universali e i giochi olimpici (ma anche iniziative fieristiche e commerciali come la l’Esposizione americana a Mosca e la Fiera di Zagabria) degli anni cinquanta e sessanta e ha un tardivo epilogo - dal punto di vista progettuale - nelle controverse Olimpiadi moscovite del 1980. Ciascuno di questi avvenimenti divenne occasione di esibizione - e talvolta di veri e propri avanzamenti20 - delle nuove soluzioni strutturali. L’epicentro del fenomeno può essere con sicurezza individuato nell’Esposizione di Bru-
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7. HELLMUTH, YAMASAKI & LEINWEBER, CON ANTON TEDESKO (ROBERTS & SCHAEFER), L & R CONSTRUCTION COMPANY, AIR TERMINAL, ST. LOUIS, USA, 1953-1954.
xelles del 1958. «Architectural Record» 21 parlò di «Festival of Structure». Segnò, ben al di là del celebre episodio rappresentato dal Padiglione Philips di Le Corbusier e Xenakis, il trionfo di una visione «strutturale» dell’architettura declinata da diversi paesi in termini almeno allusivamente sperimentali; in cui si potevano verificare gli stati di avanzamento delle ricerche e degli indirizzi emergenti (il tema delle strutture spaziali e di quelle pneumatiche) che di lì a poco avrebbero alimentato l’ondata radicale dell’architettura mondiale. La manifestazione fu contraddistinta, in particolare, dal trionfo delle superfici hypar22, contribuendo a dare risalto alle ricerche pionieristiche di Bernard Laffaille e Fernand Aimond sulle vele minime - le surfaces gauches - ritenute le più interessanti per le grandi portate23. Un quadro ragionato e anche solo approssimato delle testimonianze materiali di tale stagione eccezionale, è là da venire. Ma sono facilmente identificabili alcuni momenti salienti di questo frangente aureo della ingegneria strutturale, nel quale il testo di Curt Siegel Strukturformen der Modernen Architektur24 con i suoi disegni, schemi grafici e i riferimenti a un panorama di realizzazioni significative che includeva, tra gli altri, Nervi e Favini fu, attraverso molte traduzioni, come quella francese del 1965 destinata a
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grande successo presso l’ENBA25, o quella contemporanea (Struktura i Forma v sovremennoj arkhitekture) uscita in URSS per lo Strojizdat, un punto di riferimento nella letteratura progettuale internazionale. Ci riferiamo a realizzazioni la circolazione delle cui immagini, nelle diverse aree geografiche separate talvolta da rigide cortine politiche e culturali, dimostra la centralità aquisita dall’apporto e dalle sfide ingegneristiche agli sviluppi dell’architettura. Parliamo di opere come lo Skylon di Felix Samuely, realizzato per il festival londinese del 1951, la Rubber Factory di Brynmawr, frutto della collaborazione tra Ronald Jenkins e Ove Arup, il mercato di Royan, con la sua cupola circolare ribassata di 50 metri di diametro piegata in una successione di petali, progettata tra gli altri da René Sarger, la Schwarzwaldhalle di Karlsruhe26, oppure, già ricordata, la Kongresshalle di Berlino. Tra le realizzazioni infrastrutturali, l’air terminal di St. Louis (1952-1954) di Minoru Yamasaki con Anton Tedesko, risolto da una struttura a volte con costole di rinforzo diagonali e periferiche, disposte all’estradosso dei gusci, stabilì una premessa decisiva nella concezione delle nuove aerostazioni statunitensi che avrebbe portato al TWA Terminal del Queens (1956-1962). In un quadro alimentato dalle accese polemiche sorte attorno al Kresge Auditorium di Saarinen dell’MIT che attraversarono le pagine delle riviste tra le due sponde dell’Atlantico, il progetto di St. Louis fu particolarmente apprezzato da «Architettura cronache e storia» (novembre 1956) che vi riconobbe un edificio che trascendeva la «mera sperimentazione»: «impegnato nella tecnica, ma non razionalista»; «psicologicamente aderente, ma non romantico». Ma l’opera che occupò, sotto molti aspetti, un ruolo inaugurale in questa fase post bellica, fu la Dorton Arena, costruita tra il 1950 e il 1954 a Raleigh in North Carolina: una costruzione che si poneva sulla traiettoria inaugurata dall’ingegnere russo Vladimir Sˇukhov alla fine dell’Ottocento lavorando sulle membrane sostenute da elementi posti in tensione. Costruzione di elegante chiarezza compositiva e strutturale, anticipata dagli studi di copertura sospesa pretesa portate avanti da Bernard La- 8. P’ER LUIDZˇ I NERVI, STROIT’ PRAVIL’NO. faille negli anni trenta e messi in pratica nel GOSUDARSTVENNOE IZDATEL’STVO PO ’STVU I ARCHITEKTURE, MOSCA 1956. padiglione francese della fiera di Zagabria, ESTROITEL DIZIONE RUSSA DI COSTRUIRE l’Arena sembrava scaturitre dal gesto flui- CORRETTAMENTE, MILANO 1955.
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do che connotava gli schizzi e la grafica dell’autore, Macej (Matthew) Nowicki. Consisteva di due archi parabolici in cemento armato inclinati con un angolo di una ventina di gradi e contrapposti che ancoravano una copertura metallica a sella realizzata con cavi incrociati e messi in tensione dagli stessi archi, su cui era depositato un manto di lamiere27. L’opera aprì la strada a una stagione di realizzazioni strutturalmente affini che comprende il Dulles Airport di Washington D.C. (1958-1962) e il David S.Ingalls Hockey Ring (1953-1959). Il suo progettista, cosmopolita esponente di una cultura, quella polacca, che continuerà a essere presente sul fronte della ricerca strutturale nel dopoguerra28, fu senza dubbio un riferimento nel capitolo delle relazioni tra ingegneria e architettura che andava aprendosi e avrebbe accolto l’essenziale contributo italiano29. Macej Nowicki, che mise a punto la soluzione con Fred Severud (al quale si deve, con l’architetto W. H. Dietrick, l’ultimazione dell’opera), negli argomentati interventi scritti prima della tragica scomparsa, dimostrò piena comprensione nelle potenzialità dell’ingegneria e delle sue applicazioni nel rinnovamento dell’architettura contemporanea30. Ammirato da Mumford, fu un progettista dal talento completo, dimostrato dalle proposte per la ricostruzione di Varsavia, oltre al contributo portato alla costruzione di Chandigarh; la breve collaborazione con Saarinen31 ebbe probabilmente peso sulla ricerca verso cui l’architetto di origini finlandesi si indirizzò negli anni cinquanta. Con opere come quelle citate, l’edificio Unesco di Parigi, la piscina di Wupperthal,
9. COLLETTIVO DI PROGETTAZIONE COMPOSTO DA A. BELOV, V. DUGUEV, A. MURADOV, V. NOVIKOV, ING. V. POGULJAJ, CENTRO COMMERCIALE «GULISTAN», ASKHABAD, URSS, FINE ANNI SETTANTA. STRUTTURE DI SOSTEGNO DELLA COPERTURA IN FASE DI REALIZZAZIONE.
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il CNIIT di Bernard Zehrfuss e Nicolas Esquillan, la torre televisiva di Stoccarda, che indirizzerà uno specifico filone di realizzazioni, si delinearono tracciati capaci di fertilizzare, a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, un dominio vasto e originale, imperniato sul dialogo esibito tra architettura e invenzione strutturale. È questo lo sfondo nel quale si innestarono e andarono rapidamente costruendosi, a partire dall’immediato dopoguerra, con opere di immediata risonanza come il Palazzo delle Esposizioni di Torino32, le fortune ingegneristiche italiane, ormai parte non prescindibile del discorso tracciato in Italy Builds di Kidder Smith33. Nervi strutturista, sperimentatore, costruttore, fu la figura poliedrica di assoluto spicco, in questo affollato panorama. La sua «ortodossia» congiunta alla innovativa capacità di portare a estremo risalto formale la definizione dell’equilibrio statico attraverso le sagomature della progettazione strutturale, resero davvero unica una presenza il cui successo, abilmente e tenacemente costruito34, garantì la fortuna dell’azienda di cui era titolare ma, al tempo stesso, diede grande lustro a tutta la cultura progettuale italiana. Entrò, in sostanza, in consonanza anche con gli altri protagonisti di una straordinaria stagione progettuale favorita, negli anni della ricostruzione e del miracolo, dalle irripetibili occasioni predisposte dallo sviluppo accelerato di una economia indirizzata da un agguerrito quadro imprenditoriale e da uno Stato dalla robusta vocazione dirigistica. Tale successo trovò il suo apogeo divulgativo in occasione della mostra del MOMA «Twentieth Century Engineering» del 1964. Nella selettiva panoramica del catalogo, nella quale non a caso risaltava, nelle prime pagine, il gigantesco reticolo del sistema antinucleare di Thule, si rendeva un omaggio generoso alla nostra cultura, fotografata all’apice della sua espressione ma colta anche nei suoi precisi perimetri operativi, attraverso opere di Nervi, Morandi, Levi, Carè, Cestelli Guidi, Claudio Marcello e Zorzi. Preceduta sul cammino nordamericano dall’inserimento professionale e accademico di personalità quali Mario Belluschi35 e Mario Salvadori, la cultura progettuale e ingegneristica italiana darà testimonianza di sè, a partire dagli anni cinquanta, attraverso interventi nelle aule universitarie, riconoscimenti e realizzazioni che raggiungeranno il proprio apice nel caso di Pier Luigi Nervi in opere come il Bus terminal di New York, la cattedrale di Saint Mary a San Francisco e nello spettacolare ponte strallato in precompresso di Riccardo Morandi sulla laguna di Maracaibo. Se le fortune nella parte settentrionale del Nuovo Mondo, in primo luogo quella di Nervi, sono state ampiamente indagate e costituiscono il principale riscontro estero del «fenomeno» italiano, va detto che i terreni su cui si misurò l’ingegneria del nostro paese, o nei quali il suo contributo pervenne a notorietà, furono estremamente diversificati. Si trattava, talvolta, di realtà depositarie di una cultura strutturale importante: aperta all’innovazione, al dialogo, al confronto, all’assimilazione. È il caso dell’America Latina, che fu, per molte ragioni - in primo luogo in ragione della situazione economica-
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mente favorevole a ridosso del conflitto - la meta di viaggio inaugurale per figure di spicco della cultura progettuale italiana; accolte e riconosciute prima che altrove. L’Argentina della stagione peronista rappresentò un’area propizia per la quale la presenza scientifica e professionale nazionale, anche se si coagulò in effetti attorno a pochi, ma notevoli processi progettuali tra i quali il più importante fu probabilmente la costruzione della Città Universitaria di Tucumán (1948-1950). L’arrivo degli ingegneri e di altri illustri testimoni della cultura progettuale del nostro paese, a partire da Enrico Tedeschi e Cino Calcaprina, aprì molte fertili prospettive ma fu sicuramente agevolato dall’importanza della componente ingegneristica e dalla sensibilità strutturale nella cultura progettuale locale, riassunte. da figure quali Eduardo Catalano, poi emigrato negli Stati Uniti e la singolare, interessantissima personalità di Amancio Williams (1913-1989). Una cultura, quella iberoamericana in generale, nella quale la doppia formazione, vale a dire quella dell’ingegnere civile e dell’architetto, non era infrequente come attestano, anche sotto il profilo dello scarto generazionale, profili notevoli come quello dell’uruguayano Eladio Dieste36 o dell’argentino Ubaldo Vilar37. Ciò spiega, come molti progettisti stranieri abbiano trovato, in questa parte del Nuovo Mondo, un terreno particolarmente propizio per affermare le proprie idee e la propria attività favorite dalle normative, dalla mano d’opera, dalla rapida crescita dell’industria delle costruzioni. Il caso di Félix Candela, stabilitosi a lungo in Messico prima di emigrare negli Stati Uniti, è forse il più noto, in una cornice nella quale va sicuramente inserita la parentesi più o meno prolungata e articolata che interessò molti illustri connazionali. Questo dato permette anche di comprendere quanto, durante gli anni cinquanta l’ingegneria strutturale occupasse, in Argentina in particolare, un posto tanto importante da partecipare a una serie di contaminazioni transdisciplinari, rese possibili anche da peculiari strumenti di creazione e diffusione del dibattito. È questo il contesto nel quale tenne le lezioni pubblicate nel volume El leguaje arquitectonico (1951) Pier Luigi Nervi che la Facoltà di Architettura di Buenos Aires insignì della laurea honoris causa. Qui operò e pubblicò Pizzetti, le cui riflessioni sul ruolo della natura come fonte di ispirazione strutturale incontrarono il dibattito sullo spazio alimentato dai circoli artistici che operavano nella cornice del concretismo38. In ogni caso, col procedere degli anni cinquanta, e nel quindicennio successivo la presenza della ingegneria italiana in questa e altre parti del mondo, assumerà dimensioni rilevanti, espressione di un dinamismo favorito e veicolato dalla penetrazione dell’industria italiana (grazie alla Techint, della quale Pizzetti divenne direttore tecnico a Buenos Aires, al settore costruzione della FIAT39, alla Pirelli, alla Costruzioni Metalliche Finsider e altre imprese ), che porterà a episodi notevoli come quelli testimoniati
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10. COLLETTIVO DI PROGETTAZIONE COMPOSTO DA JU. BOL’SˇAKOV, V. TARASEVICˇ , V. PONTRJAGIN, D. SOKOLOV, ING. JU. ROZOVSKIJ, L. KHARITONOV, T. RUD’, G. L’VOV, E. ZˇUKOVSKIJ, V. SˇABLJA, ˇ BA», MOSCA, 1978-1979. CENTRO SPORTIVO «DRUZ
dalle fabbriche sudamericane di Olivetti, o le grandi costruzioni infrastrutturali in sistema misto acciaio-calcestruzzo come quelle che vedranno protagonista Fabrizio de Miranda. Pressochè ignorato sino a oggi, ma ricco di implicazioni e parte significativa di una ricostruzione attenta delle fortune italiane all’esterno, si rivela lo sguardo che i paesi dell’ Europa orientale, con molte sfumature, indirizzarono all’ingegneria e alla cultura progettuale del nostro paese. Il dato di fatto costante fu, in ogni caso, proprio il riconoscimento particolare riservato alla cultura progettuale del nostro paese nel suo insieme e, in particolare, all’opera e al profilo di Pier Luigi Nervi. La laurea honoris causa conferita nel 1961 al grande progettista dalla scuola politecnica di Varsavia, forse non casualmente assegnata nel momento più conclamato della sua affermazione internazionale e, soprattutto, della massima notorietà accademica e professionale oltreoceano, fu solo un momento di grande evidenza istituzionale, in un quadro di attenzioni e riferimenti, che assunse, dalla seconda metà degli anni cinquanta per un quindicennio circa, un carattere ricorrente. Vi trovano collocazione l’importante articolo della rivista degli architetti cecoslovacchi agli inizi degli anni sessanta dedicato al «metodo di lavoro» del professore italiano40, accanto a un vasto repertorio di contributi comparsi sulle pagine specializzate che si pubblicavano al di là della cortina di ferro: «Architektura», «Projekt», «Inz.ynieria i Budownictwo», «Deutsche Architektur», «Arkhitektura SSSR», «Architektura i urbanizm» e altre. Tutte pro-
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dighe di riferimenti sia all’esperienza ingegneristica del mondo occidentale - con ripetuti riferimenti, appunto, alle opere di Nervi - sia a quella, parallela, che stava maturando nell’est. In questo contesto l’Unione Sovietica occupò una posizione di punta, ritagliando un rapporto particolare con la cultura italiana, meritevole di un cenno specifico che non può prescindere dal riferimento al retroterra ingegneristico che collocava il paese, sin dalla fine dell’ottocento, su terreni avanzati a livello internazionale. Nell’URSS vi erano scuole di notevolissima levatura a Mosca (MISI), a Leningrado (LISI), come in altri centri regionali e operavano figure di assoluto spicco come quella di Vladimir Sˇukhov (1853-1939), prima ricordato, impostosi come pioniere delle tensostrutture e delle strutture metalliche resistenti per forma. Negli anni venti si affermò il contributo teorico di Aleksej Gvozdev (1887-1986), formatosi presso l’Istituto degli Ingegneri delle comunicazioni, che darà un apporto teorico sostanziale al metodo degli elementi finiti; e in quegli anni operò anche Artur Loleit (1868-1933), tra i membri fondatori dell’ASNOVA e poi aggregato al gruppo costruttivista, riconosciuto come uno dei più grandi specialisti, sia sul piano teorico che operativo, del cemento armato. Ma vi fu anche, nel periodo di avvio dell’industrializzazione forzata, il trasferimento di conoscenze garantito dall’emigrazione dall’occidente: è il caso di Felix Samuely (1902-1959), viennese formatosi a Berlino, già collaboratore di Mendelshon, attivo in Unione Sovietica, dove svilupperà per qualche tempo, a partire dal 1931, ricerche sulle strutture in acciaio. La destalinizzazione sottrasse la cultura progettuale sovietica alla condizione di temporaneo e relativo isolamento nella quale si era trovata a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. Imprimendo una forte spinta all’industrializzazione edilizia e alla ingegnerizzazione della cultura progettuale, riassunta dal Padiglione dell’URSS all’Expo 5841,spinse la cultura progettuale sovietica a misurarsi «alla pari» con gli scenari progettuali internazionali che andavano delineando nuovi orizzonti ingegneristici e tecnologici e architettonici. Si aprì allora una stagione di ricerche che troverà terreno fertile nella progettazione e realizzazione negli edifici sociali per lo sport, la cultura, per gli eventi espositivi, che diventeranno, per un quindicennio, una vetrina e un campo di sperimentazione avanzato. La svolta radicale innescata da Chrusˇcˇe¨v nel 1954 ebbe, come effetto immediato, la partecipazione ai consessi ingegneristici internazionali come la Fédération Internationale de la Précontrainte (FIP) e il Comité Eurointernational du Béton, che furono occasione di scambio con la cultura strutturale internazionale e, in particolare, per quanti riguardava gli sviluppi del precompresso, con quella italiana42. Franco Levi (in due occasioni, tra il 1956 e il 1958) e Riccardo Morandi si recarono in URSS, a Mosca, Leningrado e Kiev, incontrando tra l’altro Gvozdev. Dalla testimonianza di Levi43 sappiamo che furono incontri di alto livello scientifico e, for-
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se, non a caso, ebbero luogo nel momento in cui venne avviata la realizzazione della torre di Ostankino, una delle opere di ingegneria civile più ambiziose varate in URSS ultimata negli anni sessanta. In effetti la figura di Nervi - già famoso sin dagli anni trenta per i riferimenti e le immagini dello Stadio Berta contenute nel volume di Rempel’, Arkhitektura poslevoennoj Italii (L’architettura dell’Italia postbellica) del 1935 - godette di una attenzione del tutto particolare tra i protagonisti della cultura occidentale, testimoniata dalla tempestività con cui venne tradotto Costruire correttamente, con il titolo Stroit’ pravil’no nel 1956, appena pochi mesi dopo la prima edizione italiana e in perfetta sincronia con il libro americano tradotto da Giuseppina e Mario Salvadori44. Una breve presentazione «istituzionale» sottolineava l’interesse «particolare» dell’opera di Nervi per la sua capacita di risolvere «contemporaneamente» i problemi architettonici e costruttivi. Nella nuova congiuntura, il riferimento all’opera del progettista italiano, all’apice della fama internazionale quando venne pubblicata a distanza di otto anni la principale monografia in lungua russa45, acquisiva un connotazione operativa evidente, motivata dalla capacità riconosciuta di affrontare i temi più attuali della progettazione saldando espressività, evidenza strutturale e ragione costruttiva. Nervi non operò in Unione Sovietica, ma la lezione neviana trovò così molte repliche riferibili ad aspetti diversi, e alle più celebri opere della ricerca postbellica. Se alcuni progetti di edifici industriali, realizzati alla fine degli anni cinquanta richiamano le soluzioni costruttive in ferrocemento del Palazzo delle esposizioni di Torino, in altri casi di edifici pubblici veniva ripresa l’impronta formale di alcuni capolavori dell’ingegnere italiano, adattata ai sistemi costruttivi ormai dominanti nel paese. Due esempi: il centro commerciale di Askhabad con moduli statico-costruttivi chiaramente ispirati ai pilastri del Palazzo del lavoro di Italia ‘61, e una delle principali realizzazioni olimpiche: il complesso sportivo olimpico «Druzˇba»46 (1978-1979) il cui compatto volume centralizzato completò l’insieme dello stadio Lenin, fornendo un allusivo richiamo al Palazzetto dello sport, reinterpretato alla luce di una diversa idea strutturale e di organizzazione della poduzione e del cantiere. L’edificio, un volume destinato a ospitare varie attività sportive con una capacità di 1.800-4.000 posti, era risolto da una gigantesca copertura composta da una complessa struttura spaziale in cemento armato alla quale concorrevano un guscio centrale, di forma grossolanamente quadrata, serrato e corrugato sui quattro angoli e 24 imponenti strutture di appoggio romboidali che si elevavano dal suolo con forte inclinazione. Non sembra azzardato leggervi un riferimento trasparente alla lezione di Nervi: la ricerca di una identità tra forma e struttura, volta a immaginare una soluzione architettonica in cui si manifestasse l’evidenza del comportamento statico, messa in opera attraverso il metodo della «prefabbricazione strutturale». Lezione seguita con linearità, ma adattata a una visione produttiva ormai imperante, nell’URSS dei tardi anni settanta, fonda-
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ta sulla produzione a scala industriale di elementi strutturali di base, concepiti per garantire la riproducibilità delle strutture, secondo configurazioni molteplici e adattabili a diverse circostanze funzionali47.
R. BANHAM, Stocktaking: tradition and technology, in «The Architetcureal Review», febbraio 1960, 127, n. 756, pp. 93-100. 2 Si veda il saggio di S. PORETTI e T. IORI nel presente volume e anche : T. IORI, L’ingegneria del miracolo economico, «Rassegna di Architettura e di Urbanistica», 2007, XLI, n. 21-22, pp. 33-59. 3 S. PORETTI, Pier Luigi Nervi, costruttore italiano, in C. OLMO e C. CHIORINO (a cura di), Pier Luigi Nervi. Architettura come Sfida, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2010, pp. 119-133; S. PORETTI, Pier Luigi Nervi nell’Ingegneria del Novecento, in G. BIANCHINO e D. COSTI (a cura di), Cantiere Nervi. La costruzione di una identità. Storie, geografie, paralleli, Skira, Milano 2012, pp. 30-36. 4 A. PICON, Digital Culture in Architecture. An Introduction for teh Design Professions, Birkhauser, Basilea 2010. 5 W. NERDINGER (a cura di), Frei Otto. Das Gesamtwerk. Leicht bauen - Natürlich gestalten, Basilea 2005. 6 T. IORI, L’ingegneria del miracolo economico, in «Rassegna di Architettura e di Urbanistica», 2007, XLI, n. 21-22, pp. 33-59. 7 J.-L. COHEN, Architecture en uniforme. Projeter et costruire pour la Seconde Guerre Mondiale, CCA, Hazan, Montréal-Parigi 2011. 8 A. GRAZIOSI, Guerra e rivoluzione in Europa, 19051956, Il Mulino, Bologna 2006. 9 Il filone italiano delle strutture metalliche, riconducibile innanzitutto all’opera di Fausto Masi, meriterebbe forse maggiori attenzioni di quanto gli attuali studi non abbiano consentito. 10 E. HINES, D. BILLINGTON, Anton Tedesko and the Introduction of Thin Shell Concrete Roofs in the United States, in «Journal of Structural Engineering (ASCE)», novembre 2004, vol. 130, n. 11, pp. 1639-1650. 11 P. JONES, Ove Arup, Masterbuilder of the Twentieth Century, Yale University Press 2006. 12 J. KLEINMANNS, C. WEBER (a cura di), Fritz Leonhardt 1909-1999, Die Kunst des Konstruierens, Stuttgart, Axel Menges, Londra 2009; J-L. COHEN e H. FRANK (a cura di ), Interférences/Interferenzen. Architecture Allemagne-France 1800-2000, Musèes de la Ville de Strasbourg, Strasbourgo 2013 13 COHEN, Architecture en uniforme cit. 14 J. GROTE e B. MARREY, Freyssinet, la précontrainte et l’Europe, Editions du Linteau, Parigi 2000. I dispositivi di Freyssinet e Gustave Magnel furono del
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resto alla base del secondo e più fortunato brevetto depositato da Morandi nel 1949. Si veda M. MARANDOLA, Riccardo Morandi ingegnere (1902-1989). Dagli esordi alla fama internazionali, su «Rassegna di Architettura e di Urbanistica», 2007, XLI, n. 21-22, pp. 90-119. 15 J. KLEINMANNS, C. WEBER (a cura di), Fritz Leonhardt 1909-1999, Die Kunst des Konstruierens, Stuttgart, Axel Menges, Londra 2009; J.-L. COHEN, Architecture en uniforme. Projeter et costruire pour la Seconde Guerre Mondiale, CCA, Hazan, Montréal-Parigi 2011, pp. 223-224. 16 J. JOEDICKE, with contributions by Walter Bauersfel and Herbert Kupfer, Shell architecture. Documents of Modern Architecture, Alec Tiranti, Londra 1963. 17 A. VON VEGESACK e J. EISENBRAND, Airworld. Design and Architecture for Air Travel, Vitra Design Stiftung, Weil am Rhein 2004 18 V. DE GRAZIA, Irresistible Empire. America’s Advance tgrough Twenty-Century Europe, Harvard University Press 2005 19 J. MASEY e L. MORGAN, Cold War Confrontations. Us Exhibitions and their Role in the Cultural Cold War, Lacs Mueller Pub, Baden 2008 20 L. BLANDINI, L’ingegneria delle coperture degli impianti olimpici di Monaco tra modellazione fisica e computazionale, in «La concezione strutturale. Ingegneria e architettura in Italia negli anni cinquanta e sessanta», Politecnico di Torino, 5-7 dicembre 2012. 21 «Architectural Record», giugno 1958, 123, n. 6, 1958, pp. 163-170. 22 R. DEVOS, M. DE KOONING, L’architecture Moderne à l’Expo 58, Mercator, Dexia, Bruxelles 2006. 23 B. LAFFAILLE, Mémoir sur l’étude générale de surfaces gauches minces. Mèmoire de l’association international des Ponts et Chausses, vol. 3, Zurigo 1935, pp. 293-332; F. AIMOND, Etude statique de voile mince en parabolide hyperbolique travaillant sans flexion, vol. 4, Mèmoire de l’association international des Ponts et Chausses, Zurigo 1936. 24 C. SIEGEL, Strukturformen der Modernen Architektur, Callwey Verlag, Monaco 1960. 25 C. SIEGEL, Les forme structurales de l’architecture moderne, Eyrolles, Parigi 1965. 26 H. KLOTZ, Erich Schelling - Architekt 1904-1986. Aries, Monaco 1994. 27 «Architectural Forum», 1953, giugno, pp. 168-173. 28 J. JOEDICKE, Shell architecture. Documents of Modern Architecture, Alec Tiranti, Londra 1963, p. 74.
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29 T. BARUCKI, Matthew Nowicki. Poland. USA. India, Salix Alba, Varsavia 2010. 30 Composition in Modern Architecture, «The Magazin of Art», marzo 1949, pp. 108-111. 31 A. ROMÀN, Eero Saarinen. An Architecture of Multiplicity, Princeton University Press, New York 2003. 32 G. BIANCHINO e D. COSTI (a cura di), Cantiere Nervi. La costruzione di una identità. Storie, geografie, paralleli, Skira, Milano, 2012, pp. 128-133. 33 G. E. KIDDER SMITH, Italy Builds. L’Italia costruisce. Its Modern Architecture and native Inheritance, Reinhold Publishing, New York 1955. 34 A. BOLOGNA, «Pier Luigi Nervi negli Stati Uniti. 1952-1979. Le relazioni interpersonali, gli incarichi professionali, la costruzione della fama», Politecnico di Torino, Dottorato in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica, XXIII ciclo, 2010. 35 C. L. MEREDITH, Pietro Belluschi: modern American architect, MIT, Cambridge (Mass.) 1994. 36 M. DAGUERRE, Eladio Dieste. 1917-2000, Electa, Milano 2003. 37 JORGE-FRANCISCO LIERNUR, Arquitectura en la Argentina del siglo XX. La contrucciòn de la Modernidad, Fondo nacional de las artes, Buenos Aires 2001. 38 F. DEAMBROSIS, Nuevas visiones: Revistas, editoriales, arquitectura y arte en la Argentina de los años cinquenta, Buenos Aires 2011
39 M. COMBA (a cura di), Maire Technimont: I progetti Fiat Engineering 1931-1979, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2011. 40 R. SLADEK, Metoda pràce profesora Pier Luigi Nervi, in «Architektura Architektura CˇSR», 1962, n. 5, pp. 318328. 41 Si veda tra l’altro A. VASIL’EV, Proekt pavil’on SSSR na Mezˇdunarodnoj vystavke v Brjussele, «Arkhitektura SSSR», 1957, n. 2, 1957, pp. 43-46. Si veda anche: R. DAVOS, A Cold War Stretch. The Visual Antagonism of the USA vs USSR at Expo 58, in «Revue Belge de Philosophie et d’Histoire», 2009, 87, pp. 723-742. 42 M. MARANDOLA, La costruzione in precompresso, Il Sole 24ore, Milano 2009 43 P’ER LUIDZˇ I NERVI, Stroit’ pravil’no. Gosudarstvennoe Izdatel’stvo po stroitel’stvu i architekture, Mosca 1956. 44 P.L. NERVI, Structures, F. W. Dodge Corporation, New York 1956 45 E.K. IVANOVA E.K. e R.A. KACNELSON, P’er Luidzˇi Nervi, Izd. Lit. Po stroitel’stvu, Mosca 1968. 46 Il collettivio di progettazione era composto da Ju. Bol’sˇakov, V. Tarasevich, V. Pontrjagin, D. Sokolov, Ing. Ju. Rozovskij, L. Kharitonov, T. Rud’, G. L’vov, E. Zˇukovskij, V. Sˇablja, 47 E. ZˇUKOVSKIJ, G. AKULOV, V. SˇABLJA, Formoobrazovanie unificirovannykh obolocˇek i kupolov, «Arkhitektura SSSR», 1979, n. 2, pp. 6-8.
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The structural conception. On some international fortunes of italian engineering
A
long article published by Banham on “Architectural Review” in 1960, reminds us that the Italian engineering boom took place on an exceptionally favorable environment, both in terms of the number of available occasions for design in Italy during the reconstruction and the economic boom, and for what occurred at the international level. Resulting from a process that was rooted in the peculiarity of the autarchic period, the Italian structural culture, basically aiming at exploring the potential of reinforced concrete, was active in a scenario that was eager to welcome and enhance its inventive and application skills. In these years the ground was highly fertile to define new spaces and circumstances for engineering and architecture to meet, thus explaining the fortune of books such as Strukturformen der Modernen Architektur by Curt Siegel (1960), read and translated into many languages. The decades in which the Italian structural culture stood out, a culture that since the Colonnetti and Danusso’s lesson could express itself through the work performed by Nervi, Morandi, Cestelli Guidi, Zorzi, Musmeci but also Pizzetti, Favini, de Miranda, Valtolina, represented a sort of «golden age» to the relationships and interactions between engineering and architecture, marked by the fertilization of the relation between structural visions and architectural expressions. It was a period of great momentum, both in theoretical and design achievements, located at the threshold of calculators. This season has to be interpreted, far beyond exceptional episodes, within a broader framework that regarded the multiple fields of the structural vision. A season that was boosted by renewed morphological and typological interests, artistic and scientific fusions - consider the success of On Growth and Form by D’Arcy Thompson and Frei Otto’s Biologie und Bauen laboratory. The high level of the reciprocal exchange between different disciplines, resulted into particularly prestigious expressions in the Italian scenario: Ponti and Nervi, Nervi and Moretti, AlbiniHelg and Covre, Mangiarotti and Favini. This general situation led to important progress in several fields of application, metal structures and concrete - where the Italian best production focused on - tensile structures, morph-resistant structures, pneumatic structures. Masterpieces such as the Palazzo delle Esposizioni in Turin, the works for the Rome’s Olympics, the great infrastructures for the Autostrada del Sole were largely present on the specialist magazines, as well as the market of Royan, the Dorton Area in North Car-
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olina, the air terminal of St.Louis, the Kongresshalle of Berlin, The MIT’s Kresge Auditorium, the CNIIT in Paris, the Television Tower in Stuttgart. It appears useful to place and deepen the Italian contribution in this framework, not easy to focus because of the many gaps that hinder a comprehensive historical overview of engineering in the twentieth century, where Freissynet Torroja, Candela, Samuely, Arup, Lafaille, Sarger, Severud, Leonhardt, Tedesko and many others worked in, to better define its features and boundaries that led to a gradual marginalization after the pinnacle represented by the professional and academic recognition, especially for Nervi’s and Morandi’s work, and wrapped up in the “Twentieth Century Engineering” exhibition, organized at the MOMA museum in 1964. The North American success of of Italian engineering, a largely developed topic at least for what concerns Nervi, was the most important aspect of a recognition that, between the 1950s and 1960s-70s, had a global projection and interacted with different cultural frameworks. This was the case of Latin America, and the Peronist Argentina in particular: the first destination for many important figures of the Italian design culture, because of the favorable economic situation in the aftermath of World War II. When the Italian engineers, together with other prestigious representatives of the national design culture, arrived in such a propitious scenario to assert their ideas and activities, favoured by the regulations, the labour force, the quick economic growth and partly by the technological development, many fruitful perspectives finally disclosed. Nevertheless, this arrival was also facilitated by the importance of the engineering element and the structural awareness typical of the local design cultures (as it is proved by characters such as Eduardo Catalano, Eladio Dieste in Uruguay and Ubaldo Vilar in Argentina) that participated in interdisciplinary projects, also fostered by peculiar tools to create and spread the debate. This was, in fact, the context in which, after the war, worked and published Pizzetti and Pier Luigi Nervi held lectures published in the book El lenguaje arquitectonico. Newly founded, the Faculty of Architecture of Buenos Aires awarded him the first of the many academic awards that he received abroad. Anyway, from the fifties onwards, for two decades, the presence of Italian engineering in this and other parts of the world, would take considerable importance- an expression of dynamism of the Italian industry and entrepreneurship that would lead to remarkable episodes such as those witnessed by the partnership between the Olivetti company and Marco Zanuso, or large infrastructure constructions in steel-concrete mixed system such as those that characterize the work of Fabrizio de Miranda. The contribution of the Italian engineering culture in the countries of Eastern Europe has drawn a marginal attention so far, even though it is highly interesting, because it allows a broader look to the 1950’s-70’s structural phenomenon.
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The honoris causa degree that Pier Luigi Nervi received in 1961 by the Polytechnic School of Warsaw from the school of Warsaw Polytechnic was an emerging episode in the context of the attention that, in those years, with different nuances, the socialist countries paid to the Italian design culture. In some of these countries, because of recent developments and traditions, structural engineering was developing dramatically, also for ideological reasons. This is proved also by magazines as “Architektura”, “Projekt”, “Deutsche Architektur”, “Architekˇ SR”, “Architektura i urbanizm”, “Arkhitektura SSSR” that were, for the toptura C ics we are dealing with, as interesting as “Architectural Forum”, “Architectural Review”, “Architecture d’Aujourd’hui”, “Casabella”, “Domus” or “Zodiac”. The dialogue between architecture and engineering and the interest for new architectural forms whose birth was due to the development of construction techniques, lasted long, in the concerned period, in this part of the world. This interaction also had a climax until the early 1960s, as it is proved by sometimes interesting design projects and constructions, even because these works were specific examples of an idea of urban planning that was linked to the gradual growth of industrial production. The Soviet Union was on the front line within this framework. The turning point, which was triggered by the De-Stalinization, where engineering and the development of the reinforced concrete prefabrication were the core of the design theory, immediately contributed to open up to international engineering organisations such as the Fédération Internationale de la Précontrainte and the Comité Eurointernational du Bèton, which constituted a meeting and sharing point for the international structural culture. In this context Franco Levi and Riccardo Morandi were invited in the USSR between 1956 and 1958 to discuss their work on developments in prestressed concrete. Furthermore, the figure of Nervi, also in the Soviet Union, drew a very peculiar attention, among the other protagonists of Western culture. In fact Nervi’s Costruire correttamente (Stroit’ pravil’no. Gosudarstvennoe Izdatel’stvo po stroitel’stvu i architekture, Mosca 1956) was rapidly translated into Russian, an operation that was evidently decided by the top brass, just a few months after the first Italian edition and perfectly in line with the American book, translated by Giuseppina and Mario Salvadori. Nervi was at the height of his fame when his main monograph was published in Russian (1968) and in the new post-Stalin juncture, the reference to the Italian designer’s work, as it can be found in many articles and publications, was clearly functional, providing examples of a creative genius that perfectly fitted the most relevant themes concerning design at that time, able to join together expressiveness, structural evidence and construction reason. Nervi’s lesson proved to be effective in designing industrial architecture and big-sized sports and social facilities, interpreted in the light of the specific features of the Soviet construction industry and typological horizons of its architecture.
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Ascesa e declino della Scuola italiana di ingegneria 1
TULLIA IORI - SERGIO PORETTI
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egli anni cinquanta e sessanta l’ingegneria italiana si impone all’attenzione internazionale con una serie di opere strutturali di grande originalità. Nel passaggio dalla ricostruzione al miracolo economico le occasioni per realizzare grandi strutture sono tante: il rifacimento delle migliaia di ponti demoliti; l’Autostrada del Sole; le olimpiadi di Roma del 1960; il centenario dell’Unità a Torino nel 1961; gli hangar e le stazioni negli aereoporti internazionali; i grattacieli all’italiana a Milano e a Roma. In questo fervore operativo prende corpo una vera e propria Scuola di ingegneria strutturale. Come si spiega il paradosso per cui un Paese ancora in forte ritardo tecnologico esprime un’ingegneria particolarmente progredita? Per rispondere bisogna ripercorrere un itinerario. L’exploit dell’ingegneria Italian Style è il momento culminante di una lunga sperimentazione, iniziata con l’avvento del cemento armato ai primi del Novecento e continuata senza interruzioni negli anni dell’autarchia e della seconda guerra. Il boom dell’ingegneria è un fenomeno tanto esaltante quanto fulmineo. Già negli anni della crisi immediatamente successiva, la meteora dell’ingegneria Italian Style è scomparsa. E nell’attività seguente, a parte alcune code, l’opera strutturale italiana non riuscirà più a recuperare l’identità del periodo aureo.
L’egemonia del cemento armato La Scuola italiana è univocamente basata sul cemento armato. La sua evoluzione segue passo per passo l’avventuroso sviluppo delle grandi strutture realizzate con questo materiale. Durante l’Ottocento, infatti, sebbene nelle università si innesti una robusta tradizione scientifica, nei vari Corpi dello Stato l’ingegnere assume il profilo professionale del tecnico burocrate, che opera nella modernizzazione dei catasti, nello sviluppo della rete stradale, nella bonifica delle zone paludose. A parte poche eccezioni, la realizzazione delle strutture metalliche è generalmente affidata a imprese e progettisti stranieri. L’avvento del cemento armato, alla fine del secolo, imprime una svolta drastica allo sviluppo dell’ingegneria in Italia (e dell’edilizia in generale). La diffusione del nuovo materiale è immediata. Rispetto alla costruzione metallica, infatti, il cemento armato presenta una maggiore compatibilità con lo stato artigianale dell’edilizia italiana.
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Dopo un iniziale scetticismo, anche nel settore scientifico l’attenzione si concentra interamente sul nuovo materiale. L’adeguamento al cemento armato della meccanica delle strutture, sviluppata in precedenza con esclusivo riferimento alla costruzione metallica, è opera in Italia dei due più eminenti rappresentanti della disciplina: Camillo Guidi e Sivio Canevazzi. Essi operano, entrambi, a stretto contatto con alcuni pionieri del cemento armato. Guidi ha tra i suoi allievi Giovanni A. Porcheddu, che è uno dei più importanti agenti del sistema Hennebique. Canevazzi insegna a stretto contatto con Attilio Muggia che, a sua volta, è un agente dello stesso sistema francese. Comincia così quel proficuo interscambio tra scienza e tecnica che resterà uno dei capisaldi della scuola italiana. Protagonisti delle fasi cruciali della sua evoluzione saranno gli scienziati Arturo Danusso e Gustavo Colonnetti (allievi di Guidi), che agiranno in stretta collaborazione con una generazione particolarmente prolifica di ingegneri progettisti.
La sperimentazione su modelli e il «sistema Nervi» Dalla collaborazione fra Danusso e Nervi ha origine all’inizio degli anni trenta la linea sperimentale italiana sulle volte sottili. Questa tipologia strutturale, attraverso le opere di Torroja, di Candela, di Isler, è uno dei motori per il rilancio in grande stile della struttura in cemento armato. La superficie a doppia curvatura, resistente per forma, è uno strumento efficace per aggirare, per via geometrica, il punto debole della scarsa resistenza a trazione del calcestruzzo. Teorico e progettista, Danusso è convinto che il calcolo analitico basato sulla teoria elastica sia inadeguato a descrivere il comportamento statico della struttura in cemento armato (in quanto non può tener conto delle risorse nascoste che questa attiva nella fase plastica). Partendo da questa considerazione, il professore apre in Italia la strada della sperimentazione empirica per il calcolo e la verifica delle strutture (mentre Gustavo Colonnetti si impegna per l’affinamento dello strumento analitico). Il punto di forza della strategia di Danusso sta nelle prove su grandi modelli, che consentono di indagare direttamente lo stato di sollecitazione. Nel 1931, il laboratorio «Prove modelli e costruzioni», istituito nel Politecnico di Milano, inizia un’attività di supporto alla progettazione di strutture in cemento armato complesse e altamente iperstatiche - dalle dighe, ai ponti, agli edifici alti - che proseguirà, dal 1951, nel laboratorio dell’ISMES (Istituto sperimentale modelli e strutture) istituito dallo stesso Danusso a Bergamo. L’attività di Danusso si incontra, all’inizio degli anni trenta, con quella che Nervi, con lo stesso orientamento, sta autonomamente conducendo da alcuni anni. Operando come costruttore, l’ingegnere scopre direttamente in cantiere le inesauribili potenzialità derivanti dalla plasmabilità del materiale.
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Le dinamiche forme dello stadio Berta, sono il risultato di un’ideazione basata sull’apprezzamento intuitivo del comportamento statico. Rimaste nude per mancanza di fondi, esse procurano a Nervi un’immediata fama di progettista moderno. Qualche anno dopo, finalmente, nelle aviorimesse per l’aeronautica militare a Orvieto la collaborazione tra Nervi e Danusso può concretizzarsi con le prove su un modello (di celluloide), eseguite nel laboratorio di Milano. Negli stessi anni dell’autarchia e della guerra Nervi si impegna, con la sua impresa, Nervi & Bartoli, in una sperimentazione parallela, volta a reinventare il modo di fabbricare le strutture in cemento armato. Nelle forme resistenti, geometricamente complesse, il problema costruttivo da risolvere è quello delle casseforme necessarie per il getto in opera. E non si tratta soltanto del costo elevato: «La cassaforma in legname costituisce un passaggio obbligato attraverso forme proprie del legno, che limita la libertà della struttura cementizia», scrive Nervi in Scienza o arte del costruire? nel 1945. È necessario dunque inventare un procedimento costruttivo più adatto alla natura del materiale e quindi anche più semplice ed economico. Nasce da questa esigenza il «sistema Nervi». È un modo di fabbricare elementi in cemento armato del tutto nuovo. Esso si basa su due geniali espedienti: la prefabbricazione strutturale e il ferrocemento. La prefabbricazione strutturale consiste nel confezionare a piè d’opera piccole parti e nell’unire poi i pezzi prefabbricati con getti di «saldatura», ripristinando integralmente la monoliticità e la continuità strutturale. Si evita così la costosa centina-cassaforma necessaria nel procedimento usuale con il getto interamente in opera. Il ferrocemento è un inedito composto messo a punto negli anni della guerra, costruendo alcune barche. È un feltro composto di reti metalliche inglobate in un impasto di cemento e sabbia, adatto alla realizzazione di solette sottili, che sfruttano la resistenza per forma. In questo modo, anche nel confezionamento delle parti prefabbricate si fa a meno della casseforma, in quanto la rete d’armatura può trattenere l’impasto applicato direttamente a mano. Perfezionato attraverso numerose esperienze minori, il sistema si rivela adatto alla realizzazione di grandi coperture. Ed è questa la vera invenzione di Nervi: un sistema semplice ed economico per costruire strutture di grande luce. Nel 1947, per il salone B dell’Esposizione di Torino, saldando in sito piccoli «conci d’onda» in ferrocemento dello spessore di soli tre centimetri, prefabbricati manualmente a piè d’opera, l’ingegnere costruisce una volta a botte di oltre 90 metri di luce, con rapidità ed economicità straordinarie. Frutto a un tempo della concezione strutturale e del sistema costruttivo, la superficie minutamente ondulata o nervata, originale reinterpretazione della volta sottile, diventa nelle opere della maturità la cifra distintiva dell’architettura di Nervi.
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Gustavo Colonnetti e la precompressione Ma c’è un altro strumento su cui si incentra la rivitalizzazione della struttura in cemento armato in quegli anni. È la tecnica della precompressione. In questo caso la scarsa resistenza a trazione del calcestruzzo, che comporta la difficoltà di realizzare luci ampie, viene aggirata per via meccanica, approfittando della possibilità del composto armatura-calcestruzzo di innescare stati di coazione. Anche sul fronte internazionale della precompressione l’Italia è in prima linea. Mentre alla base dello sviluppo delle volte sottili, come abbiamo visto, c’è il sodalizio tra Danusso e Nervi, il protagonista assoluto dello sviluppo del cemento armato precompresso in Italia è un altro scienziato, Gustavo Colonnetti, anche lui esponente prestigioso della Scuola torinese. Convinto assertore della necessità di indagare le strutture «al di là della teoria classica dell’elasticità», Colonnetti ha studiato a lungo sia il comportamento del corpo elastoplastico sia gli stati di coazione. E quando, sul finire degli anni trenta, durante un giro di conferenze a Parigi viene affascinato dagli esperimenti di Eugène Freyssinet, intraprende un’efficacissima opera di divulgazione della precompressione in Italia. In quella «rivoluzione dell’arte del costruire», infatti, riscontra una geniale applicazione delle proprie teorie, al fine di ottimizzare il comportamento strutturale del cemento armato. Con questo entusiasmo, nel 1939 si impegna in varie iniziative: a settembre elabora un sistema di calcolo per le travi ad armatura preventivamente tesa; a dicembre deposita un brevetto per travi precompresse che sintetizza il meglio dei sistemi già messi a punto dallo stesso Freyssinet e, in Germania, da Dischinger e da Hoyer. Ma siamo in piena autarchia, a un passo dall’entrata in guerra e non è certo il momento più adatto per introdurre in Italia innovazioni nell’impiego del cemento armato. Colonnetti non si ferma per questo. Durante la guerra continua a operare nel Campo di internamento universitario italiano organizzato con la Scuola di Ingegneria di Losanna, in cui transitano alcuni degli ingegneri che saranno gli artefici della precompressione in Italia: Franco Levi, Aldo Favini, Silvano Zorzi. Richiamato a Roma nel dicembre del 1944 come Presidente del CNR, diviene uno dei grandi registi della ricostruzione. In questa veste imprime una decisiva accelerazione allo sviluppo del precompresso. Nel luglio del 1945 istituisce, presso il Politecnico di Torino, il «Centro di studio sugli stati di coazione elastica», affidando la direzione a Levi. Nel 1947 promuove il decreto legge che regola l’impiego delle strutture precompresse. Nel 1949 agevola la costituzione dell’ANICAP (Associazione Nazionale Italiana del Cemento Armato Precompresso). L’effetto dell’azione promozionale è immediato. Tra il 1949 e il 1951 si costruiscono i primi ponti in cemento armato precompresso: quello sul Samoggia di Giuseppe Rinaldi, collaudato nel marzo del 1950; il ponte sull’Elsa di Riccardo Morandi, comple184
1. SILVANO ZORZI, PONTE SUL TAGLIAMENTO ALLO STRETTO TRA PINZANO E RADOGNA, 1967-1970. FOTO S. PORETTI.
tato a settembre dello stesso anno; il ponte per l’impianto sul Mucone, del 1951, del più giovane Zorzi. È ancora l’inizio della sperimentazione. Lo schema statico è quello più semplice, la trave appoggiata, e la tecnica è quella più comune a cavi scorrevoli post-tesi. In cantiere, teorici e progettisti lavorano fianco a fianco. Ma per i progettisti più appassionati, il precompresso spalanca un nuovo, stimolante campo di ricerca. Da questa rivoluzionaria tecnologia nasceranno le inedite, stupefacenti strutture di Morandi, la stessa magia alimenterà il rinnovamento stilistico (più sobrio ma non meno sofisticato) che Zorzi condurrà sugli schemi strutturali più semplici (fig. 1).
Dalla ricostruzione al boom economico Con le volte sottili di Nervi e con i primi ponti in precompresso siamo già entrati nel vivo della ricostruzione postbellica. È iniziato un periodo di straordinaria operatività per l’ingegneria italiana, che finalmente può applicare concretamente, nei grandi piani infrastrutturali, gli esiti di linee sperimentali lungamente elaborate negli anni precedenti. Nella ricostruzione delle migliaia di ponti demoliti durante il conflitto, l’arco in cemento armato ordinario, che ha avuto ampia diffusione nel periodo tra le due guerre, continua a dominare la scena. Alla metà degli anni cinquanta, sulla ricostruzione si innesta un vasto programma di nuove opere edilizie e infrastrutturali. Siamo nel bel mezzo del miracolo economico. Nel giro di pochi anni, dallo stato di cronica arretratezza l’Italia entra direttamente nel 185
2. PIER LUIGI NERVI, ANNIBALE VITELLOZZI, PALAZZETTO DELLO SPORT, ROMA, 1956-1957. FOTO S. PORETTI.
piccolo gruppo dei Paesi più sviluppati. Un salto acrobatico che ha indotto recentemente gli storici dell’economia a definire il Paese «ritardatario di successo» sulla via della modernizzazione. È la fase in cui si forma sul campo la Scuola italiana di ingegneria. Non solo con le opere dei suoi protagonisti più noti, ma con l’apporto di due intere generazioni di teorici e progettisti, che operano in stretta collaborazione: i maestri Colonnetti e Danusso, affiancati dagli allievi Levi, Giulio Pizzetti, Guido Oberti, Ceradini; i progettisti, Giulio Krall, Nervi, Morandi, Carlo Cestelli Guidi inseguiti da vicino dai più giovani Zorzi, Musmeci, Carè e Giannelli, Galli e Franciosi. L’Autostrada del Sole, primo tronco di un vasto piano autostradale destinato a favorire il trasporto automobilistico privato, per l’ingegneria strutturale ha un effetto propulsivo straordinario, paragonabile a quello che il piano Ina Casa (che sta entrando nel secondo settennio) esercita sull’architettura. Il rapido avvio della costruzione è seguito da una straordinaria efficienza nella fase esecutiva. Il 19 maggio 1956 si posa il primo cippo e in meno di otto anni, il 4 ottobre 1964, l’autostrada viene aperta al traffico. Il segreto della rapidità sta nella frammentazione dei lavori in piccoli lotti, ciascuno di pochi chilometri. Il vantaggio della standardizzazione viene meno. Nei tanti appalti-concorso le opere vengono ridisegnate una
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a una. Alla fine, nella varietà dei ponti e dei viadotti, la «strada dell’Unità» diventa un repertorio completo delle diverse anime della Scuola italiana. Il ponte in precompresso è impiegato negli attraversamenti dei fiumi più prestigiosi (il Po, l’Arno, il Tevere). Le soluzioni, per lo più isostatiche, sono elaborate dagli specialisti della tecnologia, Zorzi, Morandi, Cestelli Guidi, Castiglia, Levi, Turazza, che usufruiscono dell’assistenza del Centro studi delle coazioni elastiche. Contemporaneamente, l’arco in cemento armato di grande luce svolge il ruolo della primadonna nel tratto appenninico. Nello spazio di poche decine di chilometri sono nascosti alcuni dei ponti più eleganti del Novecento italiano: il viadotto sull’Aglio di Oberti, il Poggettone e Pecora Vecchia di Carè e Giannelli, i ponti sul Merizzano e sul Gambellato di Krall, quello sul Sambro di Morandi. Il carattere epico dell’imponente cantiere autostradale è restituito dalle attrezzature scenograficamente artigianali della piccola impresa: «una splendida incastellatura di tralicci tubolari in acciaio disposti a ventaglio» o i temerari Blondin tipo Cruciani a falconi oscillanti, utilizzati per i getti in opera. Nella costruzione dell’Autosole, opera collettiva, si nota un’assenza eccellente. Quella di Pier Luigi Nervi. In compenso la sua opera sta entrando in tutte le case con le immagini televisive delle olimpiadi di Roma del 1960 e delle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia, a Torino. A Roma, l’ingegnere progetta e costruisce in pochi mesi con la sua impresa, Nervi & Bartoli, quattro autentici capolavori. Il Palazzetto dello Sport al Flaminio (fig. 2) ha una cupola di 60 metri di diametro, sostenuta da 36 cavalletti radiali, disegnata all’interno da una minuta trama di nervature romboidali. Il Palazzo dello Sport all’Eur è coperto da una cupola di 100 metri, fortemente ribassata e plasmata con fitte onde radiali. Lo Stadio Flaminio è scandito all’esterno dalla ripetizione dei telai delle gradonate, sulle quali spicca la snella pensilina dal profilo corrugato. Il viadotto di corso Francia è sostenuto da piloni sagomati, la cui sezione, cruciforme alla base vira seguendo una rigata verso il rettangolo in sommità. Nell’insieme, le forme architettoniche appaiono piuttosto tradizionali, con una netta predilezione per le curve simmetriche. L’originalità sta nelle minute modellature della struttura in cemento armato: trame e ondulazioni delle cupole e delle volte, sagomature dei pilastri. È il tratto inconfondibile dell’architettura di Nervi. Le superfici, sebbene plasmate con la ricchezza della decorazione, in realtà riproducono fedelmente il flusso delle tensioni interne alla struttura. È il risultato della leggendaria intuizione strutturale di Nervi, naturalmente. Ma anche delle potenzialità del «sistema Nervi», di cui le opere olimpiche sono il definitivo banco di prova.
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L’invenzione di Morandi Nelle grandi realizzazioni del boom la partecipazione di Riccardo Morandi è defilata. A Roma progetta il cavalcavia della via olimpica. A Torino disegna la futuristica monorotaia sopraelevata. Sull’Autosole firma alcuni ponti singolarmente sobri. Ma, parallelamente, l’ingegnere romano sta percorrendo una propria strada, lungo la quale arriverà a uno stile architettonico assolutamente unico. Fin dai primi lavori degli anni trenta Morandi tende a ridisegnare le più convenzionali strutture in cemento armato - ad arco, a travata, a telaio - alla ricerca di una maggiore leggerezza ed essenzialità. I setti e le lastre curve delle classiche strutture in cemento armato sono scomposte, nelle sue opere, in fasci di elementi lineari. Applicata al classico ponte ad arco, questa strategia conduce agli alleggerimenti della passerella sul Lussia, del ponte sullo Storms River, prima di arrivare all’impressionante esilità del ponte sulla Fiumarella a Catanzaro, col suo arco di oltre 230 metri di luce (fig. 3). Nel frattempo, in una sperimentazione iniziata negli anni della guerra, la strategia della leggerezza viene rafforzata dalla precompressione. Dall’impiego sapiente e appassionato della geniale tecnica nascono versioni ancor più sofisticate e leggere delle tipologie strutturali di base: la travata isostatica Gerber, il telaio incernierato al piede, la trave bilanciata con tiranti sottesi. Ma la vera invenzione di Morandi è la trave strallata su cavalletto bilanciato. La prima
3. RICCARDO MORANDI, VIADOTTO SUL FIUMARELLA, CATANZARO, 1958-1964.
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4. RICCARDO MORANDI, VIADOTTO SULL’ANSA DELLA MAGLIANA PER L’AUTOSTRADA ROMA-FIUMICINO, ROMA, 1963-1967.
realizzazione nel grandioso ponte sulla laguna di Maracaibo (il più lungo del mondo con i suoi nove chilometri), gli procura subito una fama internazionale paragonabile, tra gli italiani, solo a quella di Nervi. Alla consueta scomposizione in elementi lineari del pilone e dell’impalcato gerber si aggiunge il sistema antenna-stralli, che rende le membrature più esili e l’insieme più imponente e spettacolare. La trave strallata è già ampiamente collaudata nel campo della costruzione metallica. L’originalità della versione di Morandi consiste nella sua esecuzione con la tecnica del cemento armato precompresso, che prevede la modellazione artigianale degli elementi. Dal contrasto fra la leggerezza di struttura tirantata e la natura sostanzialmente muraria nasce la forza figurativa e simbolica del cavalletto strallato. Ne è ben conscio Morandi, che nelle successive realizzazioni italiane - il viadotto del Polcevera a Genova, il viadotto nell’ansa del Tevere alla Magliana (fig. 4), gli hangar all’aeroporto di Fiumicino - estende l’impiego del cemento in coazione anche agli stralli.
La scomparsa delle lucciole La volta ondulata di Nervi, la superficie minima di Musmeci, il cavalletto strallato omogeneo di Morandi, la travata sagomata di Zorzi, sono espressioni diverse di una Scuola unitaria, che esprime un’ingegneria Italian Style. Su quali elementi si basa l’identità così spiccata della Scuola italiana di ingegneria strutturale? Il protagonista è una singolare figura polivalente di scienziato, costruttore, designer. La sua origine è saldamente radicata nell’alveo del Positivismo di stampo ottocentesco in 189
cui cresce l’ingegneria moderna. La fedeltà al dogma della sincerità strutturale lo dimostra. Ma, nello stesso tempo, l’ingegnere italiano respira l’atmosfera prevalentemente umanistica della cultura del Paese. Di cui assorbe i principali caratteri. È un seguace del Neoidealismo. Subisce (come tutti) la straordinaria influenza di Benedetto Croce. E, anziché opporsi alla subordinazione della scienza rispetto alla cultura umanistica, subordinazione che dell’estetica crociana è uno dei caposaldi, ne diventa paradossalmente uno dei più convinti fautori. È un sostenitore del cattolicismo. Condivide in particolare la tesi del «concordismo» tra scienza e fede religiosa, centrale nella cultura italiana. Colonnetti parla di «ingegnere aiutante di Dio» e allude a una sostanziale equivalenza tra giustizia distributiva delle tensioni e giustizia divina. Danusso prospetta «l’ordine fisico (come) specchio analogico dell’ordine morale» e non perde occasione per tracciare suggestive analogie tra la meccanica e la vita. È un adepto del Futurismo. Col quale, per dir meglio, l’ingegneria scambia dall’inizio un rapporto di reciproca attrazione. Mentre ne alimenta l’iconografia con i propri contenuti, Positivismo, Scientismo, Tecnologismo, simmetricamente ne assorbe le tonalità espressive: l’immediatezza figurativa, il lirismo, il gusto visionario. Dall’ortodossa osservanza dei fondamenti dell’ingegneria moderna e dall’immersione nel clima letterario e cattolico dominante in Italia deriva il tratto identitario che meglio distingue l’ingegnere italiano (dall’anglosassone o dal mitteleuropeo): la particolarità del suo positivismo: un positivismo umanistico. Un tratto che lo accomuna, invece, a un’altra figura tipicamente italiana, quella dell’industrial designer, non a caso protagonista, in questi anni, di un successo internazionale altrettanto eclatante. D’altra parte il tavolo e il ponte condividono una delle radici più profonde dell’Italian Style: la conservazione della natura artigianale nell’oggetto tecnologicamente avanzato. Negli anni sessanta la fama internazionale dell’ingegneria italiana dilaga in tutto il mondo. Nelle cupole di Nervi, che fanno da sfondo alle prove olimpiche, e nel cavalletto strallato di Morandi si riconosce il made in Italy nelle sue forme più monumentali. Alla mostra «Twentieth Century Engineering» al Museum of Modern Art di New York, nel 1964, in un succinto panorama mondiale, è incluso un numero elevatissimo di opere italiane. Ma nello stesso momento in cui giunge al suo apice, il periodo aureo dell’ingegneria italiana si interrompe bruscamente. È una delle conseguenze dell’improvviso mutamento delle condizioni produttive del Paese, che in pochi mesi dall’eccezionale sviluppo del boom economico precipita nella successiva crisi congiunturale, nell’instabilità politica, fino alle crisi energetiche e all’Austerity degli anni settanta. Ma è anche l’effetto della trasformazione più generale e profonda del settore dell’ingegneria strutturale. L’avvento dell’informatica, i mutamenti degli strumenti di calcolo, la specializzazio-
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5. SERGIO MUSMECI, PONTE SUL BASENTO, POTENZA, 1967-1975.
ne avanzante conducono all’estinzione della figura classica del progettista di grandi strutture. D’ora in poi la grande struttura non è più l’opera individuale di un autore: è il prodotto, impeccabile e sofisticato, ma totalmente spersonalizzato, del team multinazionale e plurispecialistico. Nelle nuove dinamiche sovranazionali l’ingegneria italiana, dopo gli anni del miracolo, non riesce a ritrovare una propria identità. La generazione di Nervi, Morandi, Musmeci, Zorzi, consegna ai posteri un cospicuo patrimonio di opere di altissima qualità. Ma non lascia eredi. Contemporaneamente vengono meno anche le condizioni per la sopravvivenza del cantiere artigianale, con maestranze altamente qualificate e tuttavia a buon mercato. La sparizione della Scuola italiana di ingegneria è uno dei momenti del generale dissolvimento della cultura materiale italiana nella omologazione dilagante. Numerose sono le vittime coinvolte nella pasoliniana «scomparsa delle lucciole». Tra queste, una delle più illustri è l’ingegnere.
1 La ricerca di cui questo saggio è breve sintesi è condotta dagli autori nell’ambito del progetto SIXXI - Twentieth Century Structural Engineering: the Italian Contribu-
tion, ERC Advanced Grant 2011. Per informazioni sul progetto, riferimenti, bibliografia, vedi: www.sixxi.eu.
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Rise and fall of the Italian School of Engineering
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n the 1950s and 1960s Italian engineering got the international attention with a number of extremely original structural works. In the transition from the reconstruction to the economic boom, Italy had many chances to build great structures: the reconstruction of thousands destroyed bridges; the so called “Autostrada del Sole” (Motorway of the Sun); the Games of the XVII Olympiad in Rome in 1960; the 100th anniversary of Italian unification in Turin in 1961; hangars and stations in international airports; the Italian-style skyscrapers in Milan and Rome. A real School of Structural Engineering took shape from this creative rush. How the paradox of a country that lagged far behind others in terms of technology but, at the same time, generated a particularly advanced engineering could be explained? In order to answer this question we have to retrace our steps. The success of the Italian Style engineering, in fact, is the climax of a long experimenting process that started with the advent of reinforced concrete in the early 20th century and continued uninterrupted during the autarchy period and the Second World War. The Italian School was univocally based on reinforced concrete, a material that has completely replaced metal structures since the beginning of the century. It was firstly used for great structures in the scientific sector, thanks to Camillo Guidi and Silvio Canevazzi first and Arturo Danusso and Gustavo Colonnetti later on. These two closely cooperated with the most important Italian agents for the Hennebique system and then with a particularly productive generation of design engineers. The collaboration between Danusso and Nervi gave birth to the Italian Style applied to the slender vault - this structural scheme, thanks to its shape-dependent resistance is able to bypass the weakness represented by the low concrete tensile strength. In Italy, Danusso, theorist and designer, pioneered testing on large scale models to calculate and assess structures. He created the Prove modelli e costruzioni, Model and construction tests, lab at the Polytechnic of Milan in 1931 and ISMES in Bergamo in 1951. Along this pathway, he met Nervi in the early 1930s. The result of this meeting was the first model (made of celluloid) for the Italian Air Force hangars in Orvieto. In those same years Nervi, with his own building firm, took over a parallel testing to offer a new manufacture method to produce reinforced concrete structures. The “Sistema Nervi” (Nervi System) resulted from the double need to eliminate costly formworks and comply with the very nature of the material and it was based on two brilliant expedients: structural prefabrication and ferrocemento. The system, refined throughout multiple minor experiences, was perfect for large roofs - a slightly corrugated or ribbed surface, an original reinterpretation of the slender vault, then became the typical Nervi’s mark in his late architectural works.
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Prestressing would then regenerate reinforce concrete structures in those same years. In this case, stress effects were employed to save iron, on one hand, and to “train” concrete to oppose stress actions, on the other. It was another scientist who spread this principle, Colonnetti - thanks to his efforts first in autarchic Italy, then during his exile in Lausanne, and finally as the president of the CNR (National Research Centre) - the first bridges made of prestressed reinforced concrete could be built between 1949 and 1951. Due to postwar reconstruction and the following boom years, Italian engineering could finally apply the outcomes of processes that had been long tested in the previous years on real buildings. This was the stage in which the Italian School of Engineering started its on-the-job training, and not just with its most famous protagonists’ works, but with the contributions by a whole generation of designers: Nervi, Morandi, Krall, Cestelli Guidi closely followed by younger Zorzi, Musmeci, Carè and Giannelli, Galli and Franciosi. The Autostrada del Sole, with its high number of bridges and viaducts, gathered the several personalities of the Italian School. Prestressed concrete bridges mainly crossed the widest of rivers - the wide concrete arch played a protagonist role on the Appennini Mountains stretch and its construction, divided into a multitude of small parts that small building firms had to deal with, represented an epic and spectacular version of the Made in Italy. In the meanwhile, Nervi’s architectural concept asserted itself as a leading one with the four masterpieces that he designed for the 1960 Rome Olympics, with his Nervi & Bartoli building firm. In those same years Morandi, following his own pathway, developed an absolutely unique architectural style. The passionate and skilful way to use prestressing processes resulted into sophisticated and light versions of the basic structural schemes, to finally get to the cable-stayed beam on a balanced support, not made of concrete but steel. After the bridge over the Maracaibo’s lagoon in Venezuela, the same element was then used in Italy in the Polcevera bridge in Genoa, the Magliana viaducts and the Fiumicino airport hangars in Rome. In the 1960s the international fame of Italian engineering spread worldwide. But right when it peaked, the golden age of Italian engineering came to an abrupt end. This was due to the sudden change of Italian production industry but it was also the effect of the more generalized and far deeper transformation of the structural engineering field. Italian engineer could not find its own way in the new international framework. The generation of Nervi, Morandi, Musmeci, Zorzi, left a legacy of high-quality works but no heirs could go ahead with what had been done till then.
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L’apporto di Mario Salvadori nella carriera statunitense di Pier Luigi Nervi ALBERTO BOLOGNA
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ario Salvadori è una figura chiave nelle attività di Pier Luigi Nervi in Nord America1. Emigrato negli Stati Uniti nel settembre 1938 a seguito dell’emanazione delle leggi razziali con una borsa di studio ottenuta grazie all’aiuto di Enrico Fermi, Salvadori gode ancora oggigiorno di grande popolarità grazie al suo lavoro svolto oltreoceano in ambito universitario e in qualità di progettista dell’ufficio Weidlinger Associates di New York, Boston, Washington e Palo Alto2. Significativo è stato anche il suo ruolo di educatore: nel 1987 fonda presso il City College of New York il «Salvadori Educational Center on the Built Environment», un centro di studio, esistente tutt’oggi, che ha l’obiettivo di insegnare ai bambini la matematica e i principi di scienza delle costruzioni3 (fig. 1). Prima di stabilirsi negli Stati Uniti, Salvadori consegue due lauree a Roma, la prima in ingegneria civile e la seconda in matematica; nel 1934 comincia la sua collaborazione con Mauro Picone all’Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo (INAC), ente per il quale Nervi lavora negli anni della guerra4. È dunque plausibile pensare che Nervi e Salvadori si conoscessero già prima del 1938: entrambi sono infatti legati agli ambienti scientifici di Roma e Salvadori è già attivo in Italia nello studio e nella diffusione della teoria legata alle strutture in cemento armato5. La definizione dei loro rapporti rappresenta una questione cruciale per inquadrare le attività americane di Nervi, vicende che si collocano all’interno della sua «terza vita»6. Salvadori è una presenza costante in questa fase finale della carriera di Nervi. Tra il 1952 e il 1961 Nervi concentra i suoi sforzi nel diffondere attraverso la stampa specialistica statunitense le strutture che ha costruito in Italia e riesce, tra il 1954 e il 1. MARIO SALVADORI IMPEGNATO NELL’ATTIVITÀ DEL SALVADORI EDUCATIONAL CENTER 1965, a inserirsi nel mondo acca- DIDATTICA ON THE BUILT ENVIRONMENT DI NEW YORK. demico nordamericano, finaliz- PER GENTILE CONCESSIONE DI MICHAEL KAZIN.
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zando queste attività all’ottenimento di importanti incarichi professionali. La fama di Nervi in America è anche legata alla moltiplicazione degli scritti in suo onore avvenuta nel corso degli anni cinquanta: Salvadori contribuisce in modo decisivo alla diffusione del pensiero e delle opere del collega. Questa divulgazione avviene sia attraverso i contatti che Salvadori ha con la stampa specialistica del settore, come ad esempio nel caso di «Architectural Record», oppure attraverso i suoi scritti che godono di un’ampia diffusione negli Stati Uniti alla luce del suo ruolo di professore ricoperto dal 1939 al 1953 alla Columbia University, dal 1954 al 1959 alla Princeton University e ancora alla Columbia University dal 1960 sino al 1989. Salvadori, tra luglio e novembre 1954, pubblica tre articoli su «Architectural Record» con i quali spiega i principi statici legati al funzionamento delle membrane sottili in calcestruzzo armato: l’opera di Nervi viene citata in due di questi saggi e il suo lavoro accostato a quello di Ulrich Finsterwalder, Franz Dischinger, Fernand Aimond, Giorgio Baroni, Felix Candela, Eduardo Torroja, Matthew Nowicki ed Eero Saarinen7. Nel 1956, con la pubblicazione di Structures8 (la traduzione inglese di Costruire Correttamente) ad opera di Salvadori, viene reso noto anche oltreoceano un lato inedito di Nervi, ovvero quello del teorico dell’arte del costruire, aspetto sul quale l’ingegnere edificherà, negli anni a venire, tanta parte della propria fortuna. Questo volume, così come tutti i libri inerenti alla propria attività che vedranno la luce negli Stati Uniti, saranno utilizzati da Nervi come un vero e proprio strumento di promozione personale9. Nel giugno 1955 è Salvadori a fare da tramite tra Nervi e l’associate editor di «Architectural Record», Robert Fischer, invitandolo a spedire alla rivista copia del progetto presentato insieme a Giuseppe Vaccaro e Mario Campanella per la stazione di Napoli10. Nervi dimostrerà sempre grande volontà nel collaborare con «Architectural Record», ben conscio della visibilità che questo periodico è in grado di dargli oltreoceano11. «Architectural Record» si era già interessata ad alcuni lavori eseguiti dalle imprese di costruzioni di Nervi negli anni del fascismo: nell’agosto del 1933, ad esempio, pubblica le fotografie dello Stadio Berta e nel novembre del 1938 si concentra sulla prima serie di aviorimesse costruite a Orvieto12. Successivamente, tra il 1952 e il 1955, pubblica il progetto della sede dell’Unesco a Parigi13, ma sarà proprio il 1956 a sancire, a seguito del tramite di Salvadori con Fisher, l’ingresso di Nervi quale progettista straniero pubblicato con periodicità dalla rivista americana. Il numero di aprile 1956 presenta un saggio estratto da Costruire Correttamente, pubblicato per anticipare la prossima uscita di Structures, illustrato con le immagini delle aviorimesse, del Salone B di Torino Esposizioni, del solaio del Lanificio Gatti e il Kursaal di Ostia14. A luglio la rivista pubblica uno scritto di Nervi, The Place of Structure in Architecture, dal quale emerge la sua volontà di costruirsi la fama del teorico e del progettista dotato anche di una presunta competenza storica15.
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Sempre nel 1956 Fisher, su sollecito di Salvadori, contatta Nervi dopo aver già interpellato Gio Ponti per l’elaborazione dell’articolo sul Grattacielo Pirelli, pubblicato nel dicembre di quell’anno16. Nel 1958 Nervi non ha ancora costruito nessun edificio all’infuori dell’Europa eppure il suo nome si lega alla più rappresentativa architettura in cemento armato a livello mondiale: nel febbraio 1958 è proprio Salvadori a presentare al pubblico americano, ancora su «Architectural Record», gli edifici del complesso dell’Unesco di Parigi17. Nello stesso anno Aly Raafat, collaboratore di Salvadori alla Columbia University, pubblica Reinforced Concrete in Architecture contenente, oltre che alle immagini di ben dieci edifici di Nervi, anche una generosa introduzione dello stesso Salvadori che, ancora una volta, cita il lavoro di Nervi collocandolo tra le massime autorità dell’ingegneria mondiale del periodo18. Una volta ottenuta la consacrazione professionale anche negli Stati Uniti con il completamento della copertura per la George Washington Bridge Bus Station di New York e con la costruzione della field house al Dartmouth College (un edificio per l’atletica leggera), nel 1963 Salvadori domanda a Nervi di redigere la prefazione del suo Structure in Architecture, redatto con Robert Heller19. Salvadori e Heller rivelano i limiti dell’impiego del ferrocemento negli Stati Uniti, ovvero gli alti costi dovuti al forte impiego di manodopera20: saranno proprio questi i motivi di fallimento del cosiddetto «sistema Nervi» che porteranno, alla soglia degli anni settanta, lo Studio Nervi ad abbandonare le attività di progettazione negli Stati Uniti21. Altro capitolo fondamentale per comprendere le dinamiche legate alla popolarità raggiunta da Nervi negli Stati Uniti è il suo rapporto con le università nordamericane che lo porterà a ricevere importanti riconoscimenti, come l’assegnazione nel 1962 della cattedra «Charles Eliot Norton» a Harvard22. Nel 1956 Nervi si reca in visita a Raleigh in North Carolina (là dove in quegli anni si è stabilito l’amico Giulio Pizzetti), al Pratt Institute e alla Columbia University di New York, su invito di Salvadori, e alla Harvard University. A Raleigh Nervi tiene la lezione intitolata «On relations between Construction Processes and Architecture». A seguito del discorso pronunciato si svolge un dibattito coordinato da George Boas al quale prendono parte Salvadori, José Louis Sert e Garrett Eckbo: Salvadori fa la parte dell’interprete e del difensore delle idee e delle affermazioni di Nervi, dato che questi non parla inglese23. Salvadori si rivela negli anni una presenza costante nel corso dei viaggi americani di Nervi, specie a New York dove, insieme a Marcel Breuer e ai più giovani Paul Gugliotta e Paolo Squassi, rappresenta uno dei suoi referenti di maggiore fiducia24. Le carriere professionali dei due ingegneri si incrociano quattro volte in Nord Ameri-
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2. LA PRIORY CHURCH DI SAINT LOUIS. «ARCHITECTURAL RECORD», AGOSTO 1965, P. 144.
ca. Nel 1957 Nervi fornisce una consulenza all’ufficio di Weidlinger (col quale Salvadori collabora) per la Priory Church a Saint Louis25 (fig. 2): nonostante la vicenda legata a questo incarico sia scarsamente documentata e non si conosca la reale entità del lavoro svolto da Nervi, è comprovata la sua presenza all’interno della lista ufficiale dei progettisti (in qualità di «consulting engineer»26) e la sua collaborazione con lo studio degli architetti Hellmuth, Obata, Kassabaum27 (fig. 3). Nel 1958 Salvadori è il tramite attraverso il quale la Port Authority decide di contattare Nervi per affidargli la consulenza per il progetto della copertura della nuova stazione per autobus di New York28. Il complesso statico della struttura si rivela di difficile risoluzione in fase di calcolo e
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viene chiarito attraverso un sistema di equazioni risolto nel giugno 1960 dal calcolatore elettronico dell’Istituto di matematica dell’Università di Roma, sotto la direzione di Picone29. Nel marzo 1960 è ancora Salvadori a favorire l’incontro tra Nervi e Richard Olmsted, il business manager del Dartmouth College: lo Studio Nervi e l’Università di Hanover avvieranno un legame pro- 3. ONORIFICENZA CHE ATTESTA LA PARTECIPAZIONE DI PIER LUIGI NERVI AL PROGETTO DELLA PRIORY fessionale (durato sino al 1976) che CHURCH DI SAINT LOUIS. PER GENTILE CONCESSIONE porterà alla costruzione di due edi- DI IRENE NERVI. fici nel New Hampshire, la field house e lo stadio del ghiaccio, due strutture nate per essere presentate agli addetti ai lavori americani come icone di presunta modernità e progresso tecnologico30. Nel corso del progetto della field house, Salvadori ricopre un ruolo importante e contribuisce al buon esito dell’incarico garantendo con Olmsted circa la bontà delle scelte tecnologiche operate dallo studio di Roma, fungendo da referente a Nervi per l’ottenimento dell’iscrizione all’albo professionale del New Hampshire e segnalandogli John Minnich, l’ingegnere che si rivelerà fondamentale nelle fasi esecutive dei due cantieri di Hanover31. Salvadori opera anche come consulente nel 1962 nel progetto «Place Victoria» di Montreal conducendo studi statici per il solaio-tipo soggetto a forze sismiche32. L’amicizia tra i due si mantiene viva sino alla morte di Nervi e il 10 aprile 1980, poco dopo la sua scomparsa, Salvadori è protagonista di un commovente intervento in memoria dell’amico in occasione dell’incontro di studio organizzato dal Comitato del Premio Ingersoll Rand Italia33. Del 1980 è anche il volume più noto di Salvadori, Why Buildings Stand Up, tradotto nel corso degli anni in quattordici lingue e studiato ancora oggi in tutto il mondo da milioni di aspiranti ingegneri e architetti34 (fig. 5). All’interno del testo, Nervi viene presentato a più riprese come «genio», «pioniere della progettazione in calcestruzzo», «ultimo dei grandi costruttori» oppure come «uno degli ingegneri italiani più “strutturali”». Nel trattare la prefabbricazione Salvadori ricorda le celebri aviorimesse di Nervi; all’interno del capitolo dedicato ai ponti trova spazio la Cartiera Burgo e nella parte in cui vengono esaminate le «strutture forma-resistenti» Salvadori espone le potenzialità del ferrocemento riportando i disegni di un solaio a nervature isostatiche e lo scafo del-
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4. GLI ELEMENTI STRUTTURALI DELL’AEROPORTO DI NEWARK E LA CATTEDRALE DI SAINT FRANCISCO (DISEGNATI DA SARALINDA HOOKER) PRESENTATI DA SALVADORI ALL’INTERNO DELLA PRIMA EDIZIONE DI WHY BUILDINGS STAND UP.
5. LA QUARTA DI COPERTINA DELLA PRIMA EDIZIONE DI WHY BUILDINGS STAND UP CON I DISEGNI DI SARALINDA HOOKER.
l’imbarcazione Nennele. Nell’ambito delle coperture complesse presenta due opere americane costruite per mezzo della consulenza di Nervi, ovvero gli elementi strutturali dell’aeroporto di Newark e la cattedrale di San Francisco (fig. 4). Salvadori non nasconde mai la sua ammirazione nei confronti del più anziano collega e amico: egli tuttavia, nel corso delle vicende che legano Nervi agli Stati Uniti, risulta essere una delle poche persone (insieme a Sert e a Pizzetti) capace di riuscire a mettere da parte la sua stima per sottolineargli alcuni suoi errori e comportamenti, talora poco rispondenti alla definizione di «“Kalos Kai Agathos”. “A beautiful man”»35 con la quale lo ha voluto ricordare dopo la sua morte.
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1 Sulla carriera statunitense di Nervi cfr. A. BOLOGNA, The Cultural Contributions of Pier Luigi Nervi in the United States. 1952-1979, in G. PARATI (a cura di), New Perspectives in Italian Cultural Studies. Volume 2: the arts and history, Farleigh Dickinson University Press, Madison, New Jersey 2012, pp. 197-222 e A. BOLOGNA, Pier Luigi Nervi negli Stati Uniti. 1952-1979. Master Builder of the Modern Age, Firenze University Press, Firenze 2013. 2 Salvadori collabora con l’ufficio di Weidlinger dal 1945 al 1992 (dal 1961 in qualità di associato), cfr. P. NASTASI e K. WILLIAMS, Mario Salvadori. Un ambasciatore matematico negli Stati Uniti, «Lettera Matematica Pristem», dicembre 2007, n. 65, Springer-Verlag Italia, Milano 2007, pp. 44-55; P. NASTASI e K. WILLIAMS, Mario Salvadori and Mauro Picone: From Student and Teacher to Professional Fellowship, «Nexus Network Journal», 2007, vol. 9, n. 2, pp. 165-183. Dal 1942 al 1945 Salvadori è consulente nell’ambito del Manhattan Project, cfr. A. BUSSEL, Super Mario, in «Progressive Architecture», marzo 1995, pp. 52-55. 3 M. SALVADORI, Building: The Fight Against Gravity, Atheneum, New York 1979: questo volume dedicato «to the children of Harlem, who joyfully started me on a new career» si aggiudica il New York Academy of Sciences Children’s Science Book Award e il Boston Globe-Horn Book Award for Nonfiction. Sul lavoro di Salvadori cfr. anche F. WILSON, The Intuition of the Structural Engineer, in «Architecture. Official Magazine of the American Institute of Architects», marzo 1988, pp. 77-78. 4 Tra il maggio 1944 e il gennaio 1947 Nervi risulta essere «commissario» dell’Istituto nazionale per gli studi e la sperimentazione nell’edilizia, ente che collabora con l’INAC nell’occasione della pubblicazione del Prontuario per il calcolo del cemento armato: «L’Istituto per le Applicazioni del Calcolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche ha validamente contribuito alla compilazione di molte delle tabelle numeriche contenute nel presente volume», P. L. NERVI, Introduzione, in Prontuario per il calcolo del cemento armato, Edizioni della Bussola, Roma 1947, p. 6; sul lavoro di Nervi all’INAC tra il maggio 1944 e il febbraio 1945, cfr. Giudizi sull’opera trentennale dell’Istituto Nazionale per le applicazioni del calcolo, Tipografia Pio X, Roma 1959, p. 149. 5 Salvadori si interessa ai problemi teorici di ingegneria strutturale già prima di lasciare l’Italia, cfr. ad esempio M. SALVADORI, Un progetto di ponte ad arco in calcestruzzo armato di m. 400 di luce, in «Il cemento armato», 1935, novembre, pp. 129-131. 6 S. PORETTI, Nervi che visse tre volte, in T. IORI e S. PORETTI, L’ambasciata d’Italia a Brasilia, Electa, Milano 2008, pp. 9-50. 7 M. SALVADORI, Thin Shells. Article 1. Structural Behavior and Forms, in «Architectural Record», luglio 1954, p. 176; M. SALVADORI, Thin Shells. Article 3. Exam-
ples Here and Abroad, in «Architectural Record», novembre 1954, pp. 218, 220: in questa circostanza Salvadori cita la cupola costruita a Chianciano e una delle imbarcazioni con scafo in ferrocemento prodotta dalla Nervi & Bartoli. 8 P. L. NERVI, Structures, F.W. Dodge Corporation, New York 1956, traduzione inglese di P. L. NERVI, Costruire Correttamente. Caratteristiche e possibilità delle strutture cementizie armate, Hoepli, Milano 1955. 9 Nello stesso anno, Salvadori parlando delle volte sottili in calcestruzzo dichiara: «Now I believe that in this field Nervi is the one who has really shown us what can be done. His buildings, the large ones, point a direction which is very clear and in which certainly up to 1500 ft, there are almost no practical limitations», Religious Buildings. The Horizontal Cathedral. A Discussion with Mario Salvadori on Today’s Structural Potentials, in «Architectural Record», giugno 1956, p. 184. Gli altri volumi che contribuiscono alla costruzione della fama di Nervi negli Stati Uniti sono: A. L. HUXTABLE, Pier Luigi Nervi, George Braziller, Inc., New York 1960; P. L. NERVI, Buildings, Projects, Structures. 1953-1963, Frederick A. Preager Publisher, New York 1963; P. L. NERVI, Aesthetics and Technology in Building, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts 1965. 10 Cfr. la serie di lettere conservate all’archivio MAXXI di Roma all’interno della corrispondenza privata di Nervi (di seguito in questo saggio: MAXXI-c.p.), cit. in A. BOLOGNA, Pier Luigi Nervi negli Stati Uniti... cit. (lettera del 22 giugno 1955 da Nervi a Fischer, MAXXI-c.p.). Fisher sarà una delle prime persone a complimentarsi con Nervi per l’assegnazione della Brown Medal del Franklin Institute di Philadelphia, lettera dell’11 settembre 1957 da Fischer a Nervi e lettera del 20 settembre 1957 da Nervi a Fischer, MAXXI-c.p. 11 Lettere del 6 settembre 1956 e del 26 luglio 1957 da Fischer a Nervi; lettera del 25 settembre 1958 da Nervi a Goble; lettere del 12 settembre 1957, 7 novembre 1957, 6 marzo 1958 e 18 agosto 1958 da Nervi a Fischer, ivi. 12 Public Stadium in Florence, in «Architectural Record», agosto 1933, pp. 105-112; Hangars Provides Dear Space and Bomb Resistance. P. L. Nervi, in «Architectural Record», novembre 1938, pp. 54-56. 13 The Building Paris doesn’t Want: Proposed Headquarters for Unesco, in «Architectural Record», dicembre 1952,pp. 11-15; Unesco. Headquarters Design Modified for Buildings, in «Architectural Record», aprile 1955, pp. 217-224. 14 P. L. NERVI, A Philosophy for Building «Correctly», in «Architectural Record», aprile 1956, pp. 257-264. 15 P. L. NERVI, The Place of Structure in Architecture, in «Architectural Record», luglio 1956, pp. 189-191. 16 Ponti and the Pirelli Building, in «Architectural Record», dicembre 1956, pp. 155-164; lettera dell’8 novembre 1956 da Fischer a Nervi, MAXXI-c.p. 17 «When an outstanding architect like Marcel Breuer
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gets together with an outstanding engineer like Pier Luigi Nervi on a set of buildings like the ones for Unesco in Paris, the results are bound to be extraordinary», M. SALVADORI, Contrasts in Concrete, in «Architectural Record», febbraio 1958, pp. 165-169. 18 «The examples in this book clearly show that some of the outstanding structures built in concrete today are the result of the activity of a single man who is at the same time architect, engineer and contractor: Nervi is such a person, Candela is another and so is Torroja», M. SALVADORI, Foreword, in A. A. RAAFAT, Reinforced Concrete in Architecture, Reinhold Publishing Corporation, New York 1958, p. 9. Nello stesso anno Salvadori è anche l’autore della prefazione di un volume dedicato all’opera di Torroja e, come con Nervi, egli si definisce «personal friend of this extraordinary engineer», cfr. M. SALVADORI, Foreword, in The structures of Eduardo Torroja, F. W. Dodge Corporation, New York 1958, p. VII. «I have three good friends, well known to you, who are exceptional men - Pier Luigi Nervi, Eduardo Torroja, and Felix Candela», M. SALVADORI, The Engineer and the Artist, in «Perspecta. The Yale Architectural Journal», 1959, n. 5, p. 18. 19 P. L. NERVI, Foreword, in M. SALVADORI e R. HELLER, Structure in Architecture, Prentice-Hall, inc., Englewood Cliffs, New Jersey 1963. 20 «The use of Nervi’s Ferro-cemento, is not economical in the United States, because the pouring of cement mortar between the superimposed wire meshes must be performed by hand. Cement guns cannot be adopted in this case, because the velocity with which the mortar is ejected makes it bounce off the meshes.», ibid., p. 71. 21 A. BOLOGNA e G. NERI, Pier Luigi Nervi in the United States. The Height and Decline of a Master Builder, intervento (in corso di pubblicazione) programmato al congresso internazionale «ICSA 2013. Second International Conference. Strucures and Architecture», 24-26 luglio 2013, Universidade do Minho, Guimarães, Portogallo. 22 A. BOLOGNA, Pier Luigi Nervi negli Stati Uniti... cit, pp. 27-58. 23 P. L. NERVI, On Relations between Construction Processes and Architecture, in «Student Publications of the School of design North Carolina State College. Raleigh, North Carolina», 1954, inverno, n. 2, vol. 6, pp. 2-8. 24 Anche l’incontro tra Frank Lloyd Wright e Nervi avviene alla presenza di Salvadori nel corso di un ricevimento dato da Architectural Record nel 1956 a New York, cfr. M. SALVADORI, Le Strutture a guscio e le opere negli Stati Uniti di Pier Luigi Nervi, in Pier Luigi Nervi e la sua opera. Incontro di studio organizzato dal Comitato del Premio Ingersoll Rand Italia, Milano 1980, p. 23 e la voce «Nervi, Pier Luigi», in Current Biography 1958, p. 301. 25 D. C. CARY-ELWES, Planning a Monastery and Monastic School, in «Liturgical Art», febbraio 1958, pp. 48-
50; Le Prieure Saint-Louis (Missouri, USA), «Art d’église», 1961, IV trimestre, n. 117, pp. 116-117; Architectural Details: Gyo Obata. The Priory of Saint Mary and Saint Louis, Saint Louis County, 1962, in «Architectural Record», agosto 1965, pp. 144-145. 26 Cfr. l’attestato «Progressive Architecture. Design Award Program - 1958», Onorificenza conservata da Irene Nervi. 27 Lettera del 28 ottobre 1957 da Nervi allo studio HOK e lettera del 12 aprile 1962 da Elwes [parroco della chiesa, N.d.A.] a Nervi, MAXXI-c.p. Cfr. G. OBATA, Design of Saint Louis Priory and Church, in «Liturgical Art», febbraio 1958, p. 50; T. HORNER, In Good Soil. The Founding of Saint Louis Priory and School. 1954-1973, Saint Louis Abbey Press, Saint Louis 2001, p. 147; sulla collaborazione tra Nervi e Salvadori per questo progetto, cfr. M. LEVY, Eminent Structural Engineer: Dr Mario Salvadori, in «Structural Engineering International», 2007, n. 2, p. 194; H. ISLER, Shell Structures: Candela in America and What We Did in Europe, in G. NORDENSON (a cura di), Seven Structural Engineers. The Felix Candela Lectures, The Museum of Modern Art, New York 2008, p. 88. 28 M. SALVADORI, Le Strutture a guscio... cit., p. 24. 29 P. L. NERVI, Aesthetics and Technology in Building cit., p. 35, lettera del 17 giugno 1960 da Picone a Nervi, MAXXI-c.p. e Lavoro n. 1235. Risoluzione di tre sistemi ciascuno di 9 equazioni lineari algebriche in altrettante incognite. 17 giugno-30 giugno 1960, Istituto nazionale per le applicazioni del calcolo, Roma. 30 A. BOLOGNA, Aspetti inediti sull’opera di Nervi in Nord America: il Dartmouth College, in G. BIANCHINO e D. COSTI (a cura di) Cantiere Nervi. La costruzione di un’identità, Skira, Milano 2012, pp. 252-255. 31 Le vicende legate agli incarichi professionali di Nervi a Hanover sono dettagliate all’interno del Capitolo IV. 1960-1976. Il Dartmouth College e la parabola professionale statunitense dello Studio Nervi in A. BOLOGNA, Pier Luigi Nervi negli Stati Uniti... cit. 32 CSAC (Parma), Fondo Nervi, cartelle P.L. Nervi. Place Victoria Montreal. S. Jacques Project. 1962-66. 99/5 e 6 e P.L. Nervi. Place Victoria Montreal. S. Jacques Project. 19621966. n. inv. PRA1190. n.id. 15126. «Analisi Sismica delle Torri di Place Victoria, Aprile 1962 (Prof. Mario G. Salvadori)», MAXXI, P39, cartella 1126 Montreal Place Victoria. Calcoli statici (minute) solaio di prova. 33 M. SALVADORI, Le Strutture a guscio... cit., pp. 2125. 34 ID., Why Buildings Stand Up. The Strength of Architecture, W. W. Norton & Company, New York e Londra 1980. Il volume viene diffuso anche in Italia per volontà di Umberto Eco, M. SALVADORI, Perché gli edifici stanno in piedi, Bompiani, Milano 1990. 35 ID., Le Strutture a guscio... cit., p. 24.
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Mario Salvadori’s contribution to Pier Luigi Nervi’s career in Usa
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hat occurred in the USA between Pier Luigi Nervi e Mario Salvadori is the result of a long-time friendship. Their destinies met more than once for personal reasons, issues regarding cultural initiatives and important professional assignments. At first, Salvadori’s American connections and writings, always presenting Nervi’s works as examples of a good building process, contributed to create Nervi’s fame overseas and also to foster it, later on. Between 1952 and 1961 Nervi spread his theoretical thinking and the pictures of the buildings bearing his signature in Italy, made with the Nervi & Bartoli construction company, throughout the US specialist press and managed, between 1954 and 1965, to be part of the North-American academic world - his purpose was to get important professional assignments in North America. Salvadori strongly contributed to foster Nervi’s fame in the US, by favouring the publications of his works on “Architectural Record” magazine, or by helping him translate the conferences that were held in the most prestigious North-American universities. Salvadori translated the book Costruire Correttamente for the American audience in 1956. Nervi used Structures, and all the books concerning his work that were distributed in the USA, as a tool for his personal promotion. In fact, through the accurate and numerous publications of his writings and design projects, Nervi aimed at spreading his work among colleagues, scholars and possible clients, thus considering the books published in the USA as real portfolios of his professional work and as manifestos certifying his theoretical commitment as it was promoted in European and American cultural institutions in those years. With the passing of time, Salvadori became a constant presence in Nervi’s travels to America, especially to New York where he represented - together with Marcel Breuer and younger Paul Gugliotta and Paolo Squassi - one of his most reliable reference people, starting from the second half of the 1950s. Professionally, the two collaborated in four different occasions in North America, the first of them arose in 1957. That same year Nervi provided advice for the structural design of Priory Church in Saint Louis: the thin concrete vault that was designed by Weidlinger and Salvadori. This assignment, as the advice that he gave to Breuer for the construction of Saint John’s church in Minnesota, represented both one of the first moments when Nervi was called to deal with a work in the US and a collaboration with important engineering firms such as Hellmuth, Obata, Kassabaum (HOK) e Wei-
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dlinger Associates, which were already organized following modern management principles. Salvadori also represented the connection through which, in 1958, the Port Authority of New York decided to entrust Nervi with the task to provide advice for the roof design (still in cast in situ reinforced concrete) of the new Port Authority Bust Terminal Manhattan. The long professional collaboration that arose between Nervi and the Dartmouth College, which led him to design two buildings in New Hampshire (with vaults made of ferrocement prefabricated elements), started in March 1960, thanks to Salvadori, once again. During the design stage of the first building that the Studio Nervi designed in Hanover (a field house), Salvadori proved to be a fundamental figure - it was because of him that Nervi was entrusted with the assignment. In fact, he was the reference person for Nervi’s registration in the Board of Professional Engineers of New Hempshire and made sure the commissioners about the quality of the construction methods that his colleague had patented and used in Italy, which would have been applied for the construction of the field house, the first time in the USA. Salvadori’s contribution is confirmed once again in April 1962, for the «Place Victoria» task in Montreal, the skyscraper designed by Moretti and Nervi: in this occasion he participated as a consultant, together with Guy Panero and Paul Weidlinger and carried out seismic surveys on the building floor-type. Even after Nervi’s death, Salvadori kept on spreading the basic principles of static design and operation, contained in Nervi’s most famous masterpieces: in 1980 Salvadori published Why Building Stand Up, the book that best presents the quality of the design project in Nervi’s buildings. The study of the collaborations between Nervi and Salvadori unveils an important chapter in the story of the connections between Italian culture and engineering in the postwar period and the American architectural and building methods, not to mention those between the academic world and the profession and, last but not least, those between commissioners and design studios.
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La Nervi & Bartoli spa (1947-1961). La creatività applicata all’industria delle costruzioni PAOLO DESIDERI - FERNANDO SALSANO
Cantiere Nervi: la forma prima del calcolo Il periodo compreso tra gli anni della ricostruzione post bellica e la metà degli anni settanta dello scorso secolo rappresenta la fase di più piena espressione produttiva dello Studio Nervi, nato come studio tecnico di un’impresa di costruzioni e diventato nell’arco di circa dieci anni uno dei più importanti offices di progettazione della scena mondiale. Per comprendere correttamente la creatività, la forza innovatrice e la stessa forza culturale di Nervi progettista non possiamo distogliere lo sguardo da una delle sue principali peculiarità: la duplice condizione di progettista e costruttore, che con un neologismo potremmo definire la condizione di «costrautore»1. L’interesse della storiografia nei confronti di questa sovrapposizione di ruoli e di interessi culturali e imprenditoriali si è progressivamente assottigliata sino a far emergere quasi esclusivamente la figura del progettista. Sino a cancellare la figura, il ruolo, la cultura e gli interessi in partita del costruttore. Una sorta di palingenesi rispetto a una figura che nella reputazione sociale e nel volgere rapido di pochi decenni, assumeva in Italia il tratto di una generale impresentabilità culturale2. Per meglio inquadrare questa storia gioverà da subito affiancare al nome di Nervi i nomi dei tanti ingegneri che emergono sulla scena internazionale, più o meno negli stessi anni. Balza agli occhi, a metterli in fila tutti insieme, che sono tutti ingegneri-imprenditori. Figli tutti di una tradizione modernista che comincia con la rivoluzione industriale, tutti lavorano con lo strumento del loro ingegno per ottimizzare il risultato produttivo della loro impresa. A cominciare da Gustave Eiffel (ingegnere e imprenditore che fonda la sua impresa con Nepveu); a Hennebique che nel 1892 brevetta e mette in produzione il suo sistema di costruzioni in calcestruzzo armato; a Porcheddu che di Hennebique importa in Italia i brevetti; a Eugène Freyssinet che registra numerosi brevetti per il precompresso e fonda con Mercier e Limousin la Enterprises Limousin con la quale costruirà i suoi ponti; ad Anton Tedesko che, trasferito in America, è così costantemente impegnato come costruttore che non ha tempo di calcolare e rivendica il progettare «accord to my best practice»; a Felix Candela, anch’egli costruttore e progettista. Una tradizione non dissimile da tanti altri ingegneri-imprenditori della modernità, che nei settori più differenti della chimica, siderurgia, costruzioni ferroviarie, telecomunicazioni applicano il proprio sapere tecnico, la loro capacità creativa e innovativa all’otti-
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mizzazione dei processi produttivi della propria azienda, nel primario interesse di renderla più competitiva. Una storia fatta di brevetti, innovazione tecnologica, creatività, ottimizzazione delle proprie pratiche e finalizzata a una migliore collocazione sul mercato. Uno status imprenditoriale che non ha alcuna impresentabilità né sul piano sociale né sul piano culturale. Tra i tanti varrà la pena di ricordare le figure di Alfred Nobel e la sua fabbrica della dinamite e, più ancora, Guglielmo Marconi che inventa e brevetta il telegrafo senza fili e che, dopo aver fondato la Marconi Wireless Telegraph Company, riceve il premio Nobel e sedici lauree honoris causa. Nervi si mette sul mercato all’inizio della sua attività non come progettista, ma come moderno imprenditore nella filiera delle costruzioni civili. La sua creatività, la sua eccezionale capacità di sintesi, la sua profonda conoscenza dei materiali e del «suo» materiale per eccellenza che è il cemento armato, sono indirizzate a ottimizzare il processo produttivo, i tempi, il legittimo profitto. Per dirla con Francesco dal Co «l’economia è la regola» per tutti coloro che, come Nervi, Tedesko, Candela, costruiscono le proprie strutture affidandosi necessariamente assai più alla propria esperienza che non al calcolo, a partire dal fondamento economico del proprio giudizio3. Arte o Scienza del Costruire è allora anche il primato culturale dell’imprenditore-costruttore sul progettista-calcolatore. L’interesse per l’ottimizzazione del processo produttivo è sempre affrontata da Nervi, direi nello spirito di una via italiana al costruire, attraverso la forza della morfologia prima ancora che della tecnologia. Tecniche semplici e forme creative per ottimizzare i processi costruttivi, per garantire il risparmio dei mezzi e dei materiali impiegati. L’eleganza dell’economia prima ancora che l’eleganza delle strutture4. La forma e la creatività sono gli strumenti per ottimizzare i processi costruttivi più ancora che la «sola» risposta strutturale. L’eleganza è nella costante ricerca della riduzione dei mezzi e nella conseguente economicità della costruzione. Una posizione radicale che non limita in alcun modo la creatività delle morfologie; anzi, al contrario, si fonda sull’impiego della creatività e delle forme per ottimizzare i processi, e perciò si oppone a ogni forma di autoreferenzialità letta come «extravagant architects dreams»5. Da molti biografi è stato notato come questa fosse l’unica garanzia di assicurare concreta costruibilità alle sue intuizioni progettuali. Questa interpretazione «romantica», che vede prima il progettista visionario e poi il costruttore raffinato, va ribaltata. Costruire era il primo lavoro di Nervi, la sua prima passione, la sua principale forma di reddito. Ma al contrario dei cattivi impresari, che spesso lucrano tagliando sulla qualità delle realizzazioni, Nervi è convinto che la migliore redditività è assicurata dal migliore progetto, che il miglior contenimento dei costi nasce dall’intelligenza del progetto. Ma come ogni buon impresario, la sua finalità è quella di trarre legittimo profitto dall’attività di impresa. Attraverso lo strumento principale a disposizione del progettista, cioè la forma, Nervi
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affronta la sfida di costruire ottimizzando l’uso della materia, e conseguentemente i costi, vincendo la sfida del contenimento delle spese. Contenimento dell’uso indiscriminato e inutile della «materia», ottimizzazione dei processi di cantierizzazione attraverso morfologie appropriate e capacità delle forme di risolvere problemi di resistenza strutturale. È per questo che ci risulta oggi così difficile comprendere sino in fondo Nervi: una difficoltà generata anzitutto dall’opulenza e dalla ridondanza che sembra oggi primariamente caratterizzare il mercato dell’architettura e i suoi stessi apparati normativi. In assenza di un’effettiva necessità di risparmio della materia, in assenza di una vera esigenza di contenimento dei costi della tecnologia e di quelli della cantierizzazione, resta solo la cifra stilistica di forme stereotipe che per primo Nervi oggi non riproporrebbe. Basti, ad esempio, pensare al completo ribaltamento del rapporto dei costi manodopera/materiali tra gli anni del dopoguerra e oggi, per convincersi che i pilastri inclinati a sviluppo «a rigata», piuttosto che i solai ad andamento ispirato alle «isostatiche» (tutte soluzioni ieri ottimizzatrici dei costi e oggi realizzabili solo con costi insostenibili), non rientrerebbero verosimilmente più nella creatività nerviana. Questa condizione di «austerità» è alla base della creatività di molti dei contributi magistrali di quegli anni. È difficile ad esempio comprendere Torroja, o lo straordinario lavoro di Sergio Musmeci attorno al tema del «minimo strutturale» prescindendo da questa «cultura del contenimento dei costi». Una cultura progettuale oggi difficilmente riproponibile a partire, spesso, dagli stessi dettati normativi che imponendo margini di sicurezza e di ridondanza determinano una sorta di lobotomizzazione dell’intelligenza progettuale. Un’opulenza che produce oggi una torsione dell’orizzonte poetico dei progettisti che non sono più chiamati a risolvere i problemi attraverso la creatività, che risulta perciò tutta orientata verso l’inutile, il superfluo, il ridondante appunto. Un’architettura dentro la quale tutto è concesso alla forma, perché in realtà nulla le è realmente richiesto. Forme, potremmo dire, che non hanno alcuna «stringente utilità» dentro il processo compositivo.
Nervi & Bartoli spa: una storia d’impresa La vicenda biografica e professionale di Pier Luigi Nervi è ampiamente conosciuta, anche al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti. Meno conosciuto è invece il modello di gestione adottato dall’impresa: il management, le strategie di mercato, la gestione del capitale umano, l’organizzazione del lavoro (fig. 1). La storia d’impresa della Nervi & Bartoli è rimasta confinata nell’accidentato terreno delle memorie e delle tradizioni orali, dove realtà, ricordi, leggende e autorappresentazioni si mescolano in una matassa difficile da sbrogliare in assenza di riscontri oggettivi e verificabili6. Le testimonianze orali sono utili per ricostruire il «carattere» del personaggio o la complessa rete dei rapporti interpersonali, ma non possono sostituirsi a un esame analitico 207
1. SCHEMA DI ORGANIZZAZIONE INTERNA DELLA NERVI & BARTOLI SPA PUBBLICATO SUL CATALOGO DELLE OPERE REALIZZATE DALL’IMPRESA. NERVI & BARTOLI SPA, ROMA 1961.
del funzionamento operativo dell’impresa, per capire quanto sia stato un elemento determinante e condizionante dell’attività progettuale di Nervi. Come ha recentemente sottolineato Carlo Olmo, manca ancora una vera e propria «storia d’impresa» della Nervi & Bartoli, capace di uscire dal terreno delle mitografie7. A partire dall’analisi dei documenti dell’Archivio Nervi conservati presso il Centro archivi della Fondazione MAXXI, nel fondo denominato appunto «documenti d’impresa», è possibile iniziare a colmare questa lacuna, seppure nello spazio ristretto di queste pagine. Il funzionamento operativo dell’impresa è stato esaminato con gli strumenti concettuali della «business history». Sono state analizzate le strategie di mercato, il capitale umano, l’organizzazione del lavoro e le performance economiche, con l’obiettivo di ricostruire l’evoluzione della Nervi & Bartoli nel decennio che va dal 1950 al 19618. L’industria delle costruzioni è, almeno fino alla prima metà degli anni sessanta, la principale attività di Nervi. Il primo obiettivo che si pone l’ingegnere-architetto-costruttore è proprio la redditività della sua impresa, risultato al quale è finalizzata la ricerca di soluzioni innovative per risolvere complessi problemi strutturali. Il fine di un’impresa di costruzioni non può limitarsi alla realizzazione di un prodotto soddisfacente dal punto di vista formale o strutturale, ma si concentra sulla soluzione delle questioni relative all’economicità complessiva degli interventi costruttivi. L’esigenza di limitare i costi, principio alla base di qualunque attività imprenditoriale, agisce come stimolo della creatività del progettista, inducendolo alla ricerca di soluzioni innovative, che permettano di conciliare la riuscita formale e strutturale delle sue costruzioni con i vincoli imposti dalle necessità produttive. La stessa attenzione per il cemento, ad esempio, non nasce solo dalla ricerca intellettuale sulle multiformi applicazioni che il materiale può
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offrire alla creatività del progettista, ma ha origine nella necessità di far fronte all’alto prezzo dei materiali da costruzione sul mercato italiano. Il rapporto tra economia e creatività non è per Nervi uno stimolo inconscio, rintracciabile a posteriori dagli studiosi delle sue opere, ma un processo che si snoda nella piena consapevolezza del progettista. In più di un’occasione egli teorizza esplicitamente la fecondità dell’unione tra le due figure del progettista e del costruttore. Significativa, a questo proposito, è la presentazione, arricchita da dichiarazioni dello stesso Nervi, proposta dal più importante periodico professionale degli ingegneri britannici in occasione della consegna all’ingegnere italiano della Gold Medal of Architecture. L’interesse per il cemento può essere ricondotto a un’altra sua ossessione, l’economia. In Italia l’offerta di acciaio scarseggia frequentemente e i prezzi sono comparativamente più alti. Nervi considera l’economia il risultato finale della sua progettazione: «Nella mia lunga vita come progettista e costruttore, raramente ho trovato clienti in grado di affermare chiaramente il proprio problema, di scegliere con saggezza il progettista e il suo progetto o di accettare la responsabilità per un audace strutturale o una soluzione estetica. Anche se i clienti e i progettisti fossero entrambi privi di gusto, essi raggiungerebbero risultati migliori, forse inconsciamente, seguendo solidi criteri economici». Tuttavia, egli ha rispetto del giudizio dei suoi clienti. «La qualità media dell’architettura di un Paese è più influenzata dalle tendenze e dal livello culturale dei clienti che dalla conoscenza e dalla sensibilità estetica degli architetti [...] in una società avanzata, l’architetto raffinato sarà permanentemente disoccupato»9.
La riflessione di Nervi parte dalla consapevolezza che tanto la progettazione quanto la costruzione sono soggette a una serie di vincoli, non solo estetici e strutturali, ma prima di tutto economici: l’alto costo dei materiali, le esigenze dei committenti, la necessità di ridurre i tempi di realizzazione. Il «matrimonio» fra le due figure del progettista e del costruttore è per Nervi il migliore strumento per trasformare i vincoli in incentivi all’innovazione. La conoscenza dei materiali che può vantare un progettista-costruttore e la sua percezione dei limiti e delle difficoltà che si incontrano nell’esecuzione del progetto assicurano un «approccio realistico». L’esperienza del cantiere può però suggerire anche soluzioni audaci, ma razionali, che apparirebbero impossibili a un progettista «puro». Inoltre, il progettista-costruttore ha la possibilità di condurre esperimenti e test utilizzando le proprie strutture produttive, senza dover ricorrere a ditte esterne che farebbero lievitare i costi10. Il sistema di fare sia il progetto sia la costruzione stimola l’evoluzione del progetto. Un’impresa facendo bene entrambe arriverà alla soluzione più economica, ma riuscirà anche a mantenere la bellezza e la soddisfazione del cliente. Ciò come risultato di uno stretto contatto con il lavoro. La combinazione funzionerà, naturalmente, assumendo che l’imprenditore sia un ingegnere11. L’enfasi sul ruolo dell’ingegnere indica chiaramente quale sia per Nervi la figura chia-
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ve della triade ingegnere-architetto-imprenditore. Per competenze e formazione professionale l’ingegnere è l’unico che può garantire la buona riuscita dell’unificazione «sotto lo stesso tetto» delle diverse fasi che compongono il processo produttivo dell’industria edilizia; l’unico in grado di trovare il giusto equilibrio fra le esigenze strutturali, estetiche ed economiche. Non a caso Nervi, pur sostenendo di non vedere «alcuna differenza tra un architetto e un ingegnere», ha sempre rivendicato la sua provenienza dal mondo dell’ingegneria e il suo essere un «ingegnere civile»12. Dal punto di vista della struttura proprietaria e manageriale, la Nervi & Bartoli negli anni del miracolo economico è il classico esempio di «capitalismo familiare», se non addirittura «personale». L’autorità del titolare è indiscussa, anche se la proprietà è condivisa con il cugino ingegnere Giovanni Bartoli. La concentrazione di poteri nelle mani del titolare e fondatore dell’impresa si rivela allo stesso tempo un fattore di forza, finché Nervi è nel pieno della sua attività lavorativa, ma anche di debolezza, quando la figura di riferimento viene a mancare e l’impresa non dispone delle risorse umane capaci di rimpiazzarlo13. La leadership indiscussa di Nervi non significa tuttavia che il funzionamento dell’impresa dipenda dal capriccio personale del titolare. Il principale vantaggio competitivo è proprio il poter contare su un’organizzazione complessa ma efficiente, che consente di ottimizzare i tempi di produzione e di elaborare progetti comprensivi di un gran numero di variabili. L’attenzione quasi maniacale di Nervi per ogni dettaglio dell’attività svolta dall’impresa è testimoniata dai documenti d’archivio, nei quali emerge l’importanza attribuita non solo al lavoro progettuale in senso stretto, ma a tutti gli aspetti di quella che potremmo definire l’organizzazione «aziendale»14. La Nervi & Bartoli spa riesce ad attuare una strategia di mercato vincente, basata sull’offerta di un prodotto finale che combina qualità ed economia, grazie a un sistema di gestione dell’intera filiera produttiva che non ha eguali nel panorama delle imprese edili italiane. Il cosiddetto «sistema Nervi», fondato sulla concessione esclusiva alla Nervi & Bartoli delle privative relative all’uso del ferrocemento e della prefabbricazione strutturale, assicura all’impresa un vantaggio competitivo che si rivela decisivo nel mercato delle commesse pubbliche. L’abbattimento dei costi garantito dal «sistema Nervi» consente di superare i paletti finanziari imposti dalle gare di appalto, che in alcuni casi (come ad esempio il Palazzetto dello sport di Roma, figg. 2 e 5), vengono addirittura soppiantate da trattative private. Il «sistema» non si basa solo sull’innovazione tecnologica, ma anche sulla rapidità di esecuzione del progetto, frutto di un’organizzazione del lavoro di tipo quasi «tayloristico». Lo stesso Nervi ce ne offre una testimonianza diretta, nella descrizione del cantiere allestito per lo stabilimento Fiat NAN a Torino (1955, fig. 4). Per la rivista britannica «Prefabrication», Nervi illustra il suo «mass production methods cut erection time» (fig. 3), sottolineandone il carattere «produttivista»: «Orga-
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2. IL CANTIERE DEL PALAZZETTO DELLO SPORT A ROMA. NERVI & BARTOLI SPA, ROMA 1961.
3. SCHEMA DEL «METODO DI COSTRUZIONE DI MASSA» PREPARATO DALLO STESSO NERVI PER IL PERIODICO BRITANNICO «PREFABRICATION» (4/1957, N. 43, PP. 304-309).
4. CANTIERE DELLO STABILIMENTO FIAT NAN. «PREFABRICATION», 4/1957, N. 43, PP. 304-309.
nizzando opportunamente il lavoro, è possibile ottenere un’autentica “costruzione di massa” in cui ogni lavoratore svolge giornalmente lo stesso lavoro e gli stessi movimenti». La prima parte della giornata è dedicata alla posa delle travi prefabbricate, al piazzamento delle basi e degli stampi e alla diposizione dei rinforzi metallici. La seconda parte alla posa delle travi principali e delle lastre, che richiedono maggiore attenzione. Giornalmente viene effettuato lo spostamento del ponteggio per le travi principali e le lastre dei due piani superiori. Il getto della pavimentazione, più semplice e meno soggetto a incidenti, è realizzato durante la notte. Aperto il 2 aprile 1955, il cantiere viene chiuso il 31 dicembre, dopo soli nove mesi di lavoro. I mesi di aprile e maggio vengono impiegati nella preparazione degli stampi per il cemento e nell’istallazione del cantiere. La struttura dell’edificio in cemento armato viene completata a settembre. I mesi di ottobre, novembre e dicembre sono necessari per il completamento delle varie finiture (pavimenti, rivestimenti, pittura, cornici e vetri delle finestre) e per la sistemazione delle installazioni industriali e delle macchine operative15. L’innovazione tecnologica e l’organizzazione del lavoro sono i due pilastri su cui fa affidamento la Nervi & Bartoli per essere vincente nel suo core business, che è il settore dei lavori pubblici e della grande committenza industriale. In particolare, l’impresa riesce ad acquisire una posizione dominante nel mercato degli appalti per le grandi opere pubbliche, adattandosi con grande duttilità al sistema italiano delle gare basate sull’offerta più vantaggiosa. Anche in questo caso, non si tratta di un risultato inconsapevole della genialità del Nervi progettista, ma del risultato di una precisa strategia di mercato, decisa a tavolino dal vertice dell’azienda e dunque dallo stesso Nervi in versione «imprenditore» (fig. 5), come notato acutamente dalla già citata rivista degli ingegneri britannici: Sebbene Nervi sia versatile abbastanza da adattarsi alla «domanda» di ingegneria in ogni Paese, egli pensa che ci siano molti vantaggi nel sistema italiano di assegnazione dei lavori pubblici sulla base dell’offerta più vantaggiosa [«on a bid basis»]. Nervi, grazie alla sua combinazione di architettura, ingegneria e imprenditoria sotto lo stesso tetto - in aggiunta alla sua continua ricerca sugli usi del cemento e su metodi di costruzione innovativi - è difficile da superare con offerte al ribasso [«underbid»]16.
5. INTESTAZIONE DEL PROGETTO ESECUTIVO DEL PALAZZETTO DELLO SPORT, IN CUI NERVI SI FIRMA SOLO COME TITOLARE DEL BREVETTO DELLA COPERTURA IN ELEMENTI PREFABBRICATI E NON ANCHE COME PROGETTISTA.
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Nel 1956, d’altronde, per illustrare ai colleghi d’oltremanica le peculiarità delle proprie realizzazioni Nervi aveva insistito molto sulle possibilità offerte dal sistema italiano delle gare d’appalto: Io devo chiarire che sono sia il progettista di questi lavori sia il responsabile della loro costruzione come socio e come direttore tecnico nell’azienda che li ha costruiti. E devo anche dire che questa opportunità di unire questi due aspetti del processo costruttivo - il progetto e l’esecuzione - che spesso tende a essere separato in due distinte funzioni, ha grandemente contribuito a ogni successo che sono riuscito a ottenere. Il fatto che il progetto e la costruzione possano essere uniti in questo modo è dovuto al metodo di assegnazione dei contratti conosciuto come «competition-tender» che è già ampiamente diffuso e il cui uso tende a essere incrementato in Italia. [...] Un progetto che è buono dal punto di vista estetico e tecnico è quasi sempre sufficientemente economico; in ogni caso la commissione giudicante ha tutti gli elementi su cui basare la propria scelta e può anche accettare un’offerta che non è la più bassa, se le qualità del progetto sono tali da superare una piccola differenza nel costo17.
L’economicità complessiva del progetto diventa una variabile decisiva per l’accesso alle commesse di maggiore prestigio, come quelle per le «grandi opere» commissionate dallo Stato e dalle grandi imprese private negli anni del miracolo economico. È proprio questa tipologia costruttiva a necessitare di soluzioni più elaborate per risolvere tutte le questioni poste dall’interazione delle numerose variabili che caratterizzano il processo produttivo. La supremazia acquisita da Nervi nell’assegnazione delle opere di più alto valore simbolico (come quelle per le olimpiadi di Roma e per le celebrazioni del centenario dell’Unità a Torino) si spiega certamente con la sua genialità di progettista, ma anche con la capacità di costruire un sistema di produzione efficiente, che prevede un’organizzazione del lavoro complessa e l’attuazione di precise strategie di mercato; con la capacità insomma di agire con spirito «imprenditoriale».
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Sulla definizione di Nervi «costrautore» cfr. P. DESIDERI, Pier Luigi Nervi «costrautore», in F. R. CASTELLI e A. I DEL MONACO (a cura di), Pier Luigi Nervi e l’ar-
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chitettura strutturale, Edilstampa, Roma 2011, pp. 35-39. 2 In anni più recenti la sua attività di costruttore è stata rivalutata positivamente, ma anche nelle analisi più acute è rimasta confinata al rango di mero strumento esecutivo, funzionale alla corretta realizzazione delle sue intuizioni intellettuali. Fra gli ultimi studi sulla figura di Nervi ricordiamo: C. OLMO e C. CHIORINO (a cura di), Pier Luigi Nervi. Architettura come sfida, Silvana, Milano 2010/11; Pier Luigi Nervi e l’architettura strutturale cit.; R. DIRINDIN, Lo stile dell’ingegneria. Architettura e identità della tecnica tra il primo modernismo e Pier Luigi Nervi, Marsilio, Venezia 2010; T. IORI, Pier Luigi Nervi, Motta architettura, Milano 2009. 3 F. DAL CO, Nervi e Candela, relazione al convegno «Cantiere Nervi», Bologna, 26 novembre 2010. 4 P. L. NERVI, Scienza o arte del costruire? Caratteristiche e possibilità del cemento armato, Edizioni della Bussola, Roma 1945; P. L. NERVI, Critica delle strutture, «Casabella», 1959, n. 223. 5 F. CANDELA, Personal letter to Anton Tedesko, 5th december 1963, Princeton University Tedesko Archive. 6 Ad esempio Vittorio Nervi, figlio di Pier Luigi, ha raccontato l’«ambiente» dell’impresa Nervi & Bartoli in un libro, La vela rossa, in cui è enfatizzato il rapporto del padre con gli operai-impiegati, gli unici con i quali accetta di discutere le sue scelte, persino ideative. V. NERVI, La vela rossa, Trauben, Torino 1997. 7 C. OLMO, Nella scia del Pequod, in OLMO e CHIORI-
NO,
Pier Luigi Nervi. Architettura come sfida cit., pp. 2937. 8 Per i fondamenti teorici della business history cfr. A. CHANDLER, La mano visibile. La rivoluzione manageriale nell’economia americana, Franco Angeli, Milano 1992 (ed. or. 1977); P. A. TONINELLI, Storia d’impresa, Il Mulino, Bologna 2006. 9 Pier Luigi Nervi, in «Consulting Engineer. Journal of the professional engineer», 1961, dicembre. 10 P. L. NERVI, Concrete and Structural Form, in «The structural engineer. The Journal of the institution of structural engineers», 1956, n. 5, pp. 155-172. 11 Pier Luigi Nervi, in «Consulting Engineer. Journal of the professional engineer» cit. 12 «I never thought of myself as an architect. By education and by choice, I am an engineer. However, I see no separation between an architect and an engineer. We have a common area of responsibility; we both strive for the same result - that is: a structure with strength, utility and grace constructed in sincere collaboration from concept to final realization», ibid. 13 Sui rischi e i vantaggi del «capitalismo familiare» cfr. M. BURKART, F. PANUNZI e A. SHLEIFER, Family Firms, Discussion Paper n. 3.234, CEPR 2002; A. COLLI, Capitalismo famigliare, Il Mulino, Bologna 2006. 14 MAXXI, Fondo Nervi, Documenti d’impresa. 15 P. L. NERVI, «New Tecnique for Turin Factori», Prefabrication, 4/1957, n. 43, pp. 304-309. 16 Pier Luigi Nervi, in «Consulting Engineer. Journal of the professional engineer» cit. 17 NERVI, Concrete and Structural Form cit.
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Creativity applied to construction industry. Nervi & Bartoli spa (1947-1961)
A
s we know, the figure of Pier Luigi Nervi as a designer had overlapped that of Nervi as a building contractor until the first half of the 1960s, when Studio Nervi definitely left the building firm. The historiographical interest towards these overlapping roles and interests has gradually decreased until his role as a designer finally rose up and the contractor’s figure, role, culture and interests were wiped out. A sort of palingenesis concerning one single figure, the building contractor’s one, that, in terms of social reputation and with the quick passing of few decades was becoming culturally “unsuitable” in Italy. In order to correctly understand the creativity, the driving force and Nervi’s very cultural strength as a designer, we always have to keep in mind his “primary” interest: building. The building industry was Nervi’s main business, at least till the first half of 1970s. The engineer-architect-building contractor’s first aim was to make his company profitable, the search for innovative solutions to sort out any complex structural issues was aimed at that. The need to reduce costs, basic principle for any business, was a stimulus to the protagonist’s creativity, pushing him to look for innovative solutions allowing him to match formal and structural outcomes in his construction with the limits that production needs necessarily imposed. The building firm was not the only creative tool in Nervi’s hands, but his own creativity was applied to the construction industry, so that the highest profit was achieved but not to the detriment of the final result quality. Therefore Nervi’s entrepreneurial dimension must not be considered a residual factor, detached from design in the strict sense, on the contrary, it is a fundamental part of the design process, thus influencing its outcomes and targets. The relationship between economy and creativity is not an unconscious stimulus, that scholars may discover by studying Nervi’s work, but a process that the designer was fully aware of. More than once - for example in his articles, published in specialist international magazines - he clearly theorised the fruitful match of these two figures: that of the designer and that of the building contractor, restating the importance of the “economic principle”, at the base of his work. In particular, Nervi was a real Schumpeter-style contractor in developing a successful market strategy, based on the realization of a final product that combines quality and economy, through a management system regarding the whole production process that was unpaired in the framework of the Italian building firms. The so called “Nervi system”, based on the fact that Nervi & Bartoli was the only company to be granted the copyright to use ferrocemento and structural prefabrication, gave the building firm a com-
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petitive advantage that proved to be crucial, especially for public assignments. Technological innovation and labour organization were two pillars Nervi & Bartoli building firm relied on, to be successful in its core business: public works and important clients from the industrial sector. In particular, the building firm managed to become a market leader in calls for tender, extremely flexible to adapt to the Italian system of calls based on the most convenient offer. Once again, this did not result from Nervi’s genius as a designer unconsciously, but it is due to a precise market strategy, decided “arbitrarily” by the head of the building firm, Nervi himself in his “entrepreneur” version. Pier Luigi Nervi’s professional career and biography is widely known, not just limited to a small circle of experts. The management model that the building firm implemented is less famous: management, market strategies, human resources management, labour organization. The story of the Nervi & Bartoli building firm is confined by the uneven ground of memories and oral traditions, where real situations, memories, legends and self-representations intertwine so much that it is extremely hard to disentangle the different threads, without any objective or verifiable evidence. Starting from the analysis of the documents kept at the Archivio Nervi, at the Archives of the MAXXI Foundation, in a area called «corporate documents», the system through which the building firm worked have been analysed with the support of conceptual tools typical of business history - market strategies, human resources, labour organization and economic performances have been all studied, with the aim to retrace the development of the Nervi & Bartoli in the decade between 1950 and 1961.
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Analisi e accertamento strutturale del Palazzo del Lavoro di Torino STEFANO SORACE - GLORIA TERENZI
Considerazioni generali Gli anni cinquanta e sessanta rappresentano il momento di massima prolificità e maturità nell’attività professionale di alcuni dei maggiori progettisti architettonici e strutturali italiani del secolo scorso. Tra questi Pier Luigi Nervi, che raggiunge il culmine della fama internazionale in tale periodo, nell’ambito del quale produce molti dei più importanti progetti, realizzati e non, sia in Italia sia all’estero. In essi si affinano e vengono definitivamente affermati i suoi fondamentali principi di progettazione delle opere in calcestruzzo armato, che si configurano quale tratto indelebile del suo profilo autoriale, pur nel solco di una visione comune ad altri grandi maestri dell’epoca, primi fra tutti Morandi e Musmeci. Tali principi possono essere sintetizzati nei seguenti punti: un’accurata elaborazione della forma geometrica quale imprescindibile base di riferimento per la concezione del sistema strutturale; l’assegnazione di caratteristiche di «uniforme resistenza» alle membrature costituenti, e in particolare agli elementi facenti parte dell’ossatura verticale, in modo da ottimizzarne le dimensioni, e dunque anche il relativo impatto architettonico, grazie a un completo sfruttamento delle risorse dei materiali in funzione delle azioni di progetto; la conformazione di tipo nervato delle solette degli impalcati di copertura e di calpestio, i cui tracciati e le cui proporzioni vengono stabiliti tramite il diretto confronto con le linee isostatiche di trazione e di compressione derivanti dalla soluzione analitica, esatta o approssimata, del problema statico (non essendo ancora disponibili metodi e strumenti di calcolo automatico), con accurata valutazione degli stati tensionali locali; infine, la continua esplorazione delle potenzialità offerte dall’impiego del cemento armato tradizionale, con la ricerca di ogni possibile avanzamento delle frontiere delle prestazioni con esso conseguibili e delle forme strutturali disegnabili, prima della definitiva affermazione del cemento armato precompresso, dell’acciaio e della prefabbricazione in genere, sia per il progetto di strutture di grande luce sia per la più rapida esecuzione di opere di media dimensione. Proprio negli anni a cavallo tra i due decenni in questione si collocano le opere più importanti di Nervi, anche in relazione a eventi di grande rilevanza, quali i giochi olimpici del 1960 e i festeggiamenti per il primo centenario dell’Unità d’Italia nel 1961, che vedono la sua partecipazione, più volte vincente, ai concorsi di appalto-progetto per la realizzazione dei principali impianti o di edifici di alta rappresentanza. Successivamen-
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te ai primi anni sessanta e sino al termine della sua attività, questa si indirizzerà altresì verso un palcoscenico prevalentemente internazionale, sul quale verrà però a esprimersi in senso sempre più strettamente strutturale, sia per la particolare tipologia delle opere (tra cui compaiono grattacieli di altezza ai limiti della soluzione in calcestruzzo armato per l’epoca, come la torre della Borsa a Montreal e l’Australia Square Tower a Sydney; oppure l’ardita volta a falde conformate a iperboloide della cattedrale di Saint Mary a San Francisco) sia per il crescente allargamento a cooperazioni con illustri professionisti esteri, cui sarà principalmente demandato il progetto architettonico. Inoltre, molti dei progetti sviluppati in proprio da Nervi in tale nuova fase non troveranno realizzazione, ad eccezione dell’Aula delle udienze pontificie, nella Città del Vaticano, in cui le costole portanti della grande copertura a volta ribassata sembrano idealmente chiudere uno straordinario percorso di sperimentazione geometrica e statica, iniziato nel 1930 con l’avveniristica copertura a sbalzo dello stadio Berta di Firenze e articolatosi su altre splendide strutture, tra cui primeggia nel 1950 il Salone C per il Palazzo delle Esposizioni a Torino. Va peraltro osservato come con l’Aula vaticana vi sia già il passaggio a una soluzione essenzialmente prefabbricata, essendo ciascun costolone della volta costituito da 18 conci realizzati a terra e assemblati in opera. Gli edifici progettati da Nervi nell’arco di circa cinque anni, tra la fine dei cinquanta e l’inizio dei sessanta, rivestono dunque un ruolo di snodo, e per certi versi di «approdo», nella costruzione di strutture in cemento armato di grande rilevanza dimensionale, non solo all’interno del suo prestigioso percorso professionale, ma anche nel più vasto ambito delle scuole italiane d’ingegneria strutturale. Le grandi luci raggiunte nella soluzione a cupola, per il Palazzetto dello Sport e il Palaeur di Roma; l’ennesima esperienza di alto livello nelle coperture a volta, per il campo sportivo indoor Nathaniel Leverone Field House del Dartmouth College, a Hanover, New York; i virtuosismi nel plasmare gli alti pilastri della stazione di Savona, del Palazzo del Lavoro di Torino e del George Washington Bridge Bus Terminal di New York, a completamento di uno speciale «catalogo» che già annoverava quelli della sede dell’Unesco di Parigi, tutti assegnatari di forme geometriche elaborate e non strettamente «necessarie» in termini statici, e in quanto tali miranti all’esaltazione delle potenzialità estetiche del calcestruzzo; l’immaginifica esportazione dello schema statico del ponte sospeso all’imponente corpo di fabbrica della Cartiera Burgo di Mantova, con la proposizione di un modello di struttura portante verticale «a cavalletto» che troverà riproduzioni multiple negli autogrill italiani degli anni a seguire, tra cui quello di Motta di Limena, dello stesso Nervi, nonché di altri progettisti, sia nella stessa versione a doppio sostegno sia anche in quella a singolo elemento, con l’edificio portato in questo caso a sbalzo: tutte realizzazioni che spingono ai limiti, nelle diverse declinazioni, le capacità e le prestazioni del calcestruzzo armato tradizionale, sino a un punto tale da poter essere definite «di fine epoca».
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Proprio in tale prospettiva, è apparso particolarmente interessante analizzare in maniera approfondita alcuni di tali edifici, per verificarne la concezione strutturale (che rappresenta l’espressione chiave e il motivo conduttore dell’intero Progetto PRIN al cui interno questa ricerca è stata svolta), nonché la supposta ottimizzazione prestazionale delle principali membrature, spesso ipotizzata in chiave percettiva, ma sino ad oggi, almeno a conoscenza degli scriventi relativamente a pubblicazioni edite sull’argomento, mai rigorosamente valutata nel dettaglio. Partendo da un’iniziale disamina delle principali caratteristiche delle strutture sopra elencate, l’attenzione è stata quindi focalizzata su due tra di esse particolarmente rappresentative dell’impiego ai limiti delle risorse resistive e delle potenzialità costruttive del cemento armato, ossia il Palazzo del Lavoro di Torino e il George Washington Bridge Bus Terminal di New York. Infatti, tali edifici hanno proposto in misura ancor più pressante, rispetto ai restanti, due problematiche di assoluta «modernità», che si sarebbero ripresentate in modo sempre più consistente nei decenni a seguire, sino a condizionare in misura decisiva la scelta strutturale nell’opera di grande rilievo dimensionale: i tempi di realizzazione, per il primo caso, e l’intervento di ampliamento e modifica, in condizioni fortemente vincolate dall’esistente e dal contesto urbanistico, per il secondo. Problematiche che avrebbero trovato risposta, già in quegli anni da parte di altri progettisti, e imprescindibilmente da allora in poi, in soluzioni integralmente o totalmente prefabbricate, eseguite in calcestruzzo armato oppure in acciaio, come detto. Al riguardo si può peraltro osservare come l’orgogliosa, potremmo quasi dire ostinata determinazione mostrata da Nervi, che pure è stato tra i padri della prefabbricazione in calcestruzzo armato e del precompresso, nell’uso del cemento armato tradizionale in tali realizzazioni, discenda dal suo essere anche e fortemente imprenditore, in qualità di titolare della Società Ingg. Nervi & Bartoli (dopo l’iniziale esperienza, negli anni venti e nei primi anni trenta, della Società per Costruzioni Ingg. Nervi & Nebbiosi). È, infatti, tale ulteriore dimensione professionale che gli consente di realizzare in proprio tutti i suoi progetti su territorio italiano, e incidere significativamente anche su quelli all’estero, intervenendo personalmente in ogni fase del processo, progettuale prima e costruttivo poi. E in funzione di quest’ultimo risulta, dunque, decisiva l’ideazione e la produzione dei celebri sistemi di casserature, recuperabili o a perdere, generalmente in doghe lignee per le membrature verticali e in ferro-cemento per gli impalcati di calpestio e di copertura, che consentono di standardizzare l’attività operativa, con il raggiungimento di un’organizzazione e di una tempistica che potremmo definire proprie di una «prefabbricazione di cantiere» (che verrà però compiutamente attuata nell’Aula Paolo VI, come prima osservato). Infatti, oltre che negli esiti vincenti in termini di tempi di realizzazione, per il Palazzo del Lavoro, e di efficace costruzione su sottostante preesistenza, per il Terminal newyorkese (per il quale i classici casseri triangolari già ampiamente utilizzati in altre opere vengono appositamente riprodotti dalle locali imprese appaltatrici, W. J. Barney Corpo-
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ration e William L. Crow Construction Company), tale espressione può motivarsi anche per l’apparenza delle strutture in cemento armato, tutte a vista, così levigate e geometricamente «esatte» da far pensare, agli occhi di un osservatore non tecnico, appunto al frutto di una realizzazione basata su processi di prefabbricazione. È soltanto la totale continuità strutturale tra elementi di copertura e verticali, nel Terminal; e la mastodontica dimensione dei pilastri principali, nel Palazzo del Lavoro, che trasmettono poi la sensazione, più meditata, di trovarsi di fronte a membrature interamente realizzate con getto in opera. Tuttavia, la modularità dei casseri e l’avanzata organizzazione cantieristica, nell’aprire la strada, nella successiva attività di Nervi, all’applicazione della prefabbricazione propriamente detta, consentono ancora un estremo (appunto, «di fine epoca») ancoraggio a soluzioni tradizionali in calcestruzzo armato. Delle analisi condotte sui due edifici esaminati nello studio, per ragioni di spazio verrà qui presentata una breve sintesi di quelle relative al solo Palazzo del Lavoro. In quest’ultimo, infatti, trattandosi di un manufatto da concepire «a campo libero», con richieste legate alle sole volumetrie e alle luci libere, oltre al succitato vincolo di tempi strettissimi di costruzione, Nervi ha maggiormente potuto ispirare il progetto ai principi-guida ricordati all’inizio del paragrafo. Ne è emerso, dunque, di ancor superiore interesse ricercarne riscontro attraverso gli strumenti attuali della modellazione e dell’analisi in campo strutturale. Al riguardo si osserva come l’ampia e rilevante bibliografia dedicata a tale edificio ne abbia estesamente indagato gli aspetti storici, compositivi e tecnologici, mentre non siano stati sviluppati particolari approfondimenti di tipo strutturale, soprattutto in termini di analisi. È questo il contributo originale e distintivo che questo studio, di cui nel seguito è presentata una breve sintesi, rimandando agli articoli prodotti durante lo sviluppo del Progetto PRIN ed elencati tra i riferimenti in calce per una lettura dai contenuti più specialistici, si è proposto di offrire su quest’opera così rappresentativa dei principi progettuali di base e dell’attività più matura del suo autore.
Le caratteristiche strutturali dell’edificio e sintesi delle analisi condotte Come noto, il Palazzo del Lavoro è stato progettato nel 1959 e completato nel marzo 1961, dopo appena 16 mesi lordi di lavori (in realtà circa 12 effettivi di cantiere). Una
1. SEZIONI GEOMETRICHE E IN CEMENTO ARMATO DEI PILASTRI MONUMENTALI.
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tale rapidità di esecuzione suscita tutt’oggi ammirazione, specialmente in relazione alle dimensioni in pianta dell’edificio, pari a 160x160 metri, e considerando il vincolo funzionale corrispondente alla richiesta di una luce libera di 40 metri tra ogni successivo elemento portante verticale. La soluzione concepita da Nervi consiste in un insieme di 16 pilastri monumentali in cemento armato, tra loro identici e indipendenti, con sezione variabile con continuità lungo l’altezza, pari a 20 metri sino al colletto da cui si diparte la struttura di copertura. In figura 1 è mostrata l’intera sequenza geometrica delle sezioni, che partono con forma a croce di lato 6 metri per terminare con forma circolare di diametro pari a 2 metri, determinando in tal modo le sette successive zone di ripresa delle armature verticali e del getto. Nella stessa figura sono rappresentate anche le sezioni strutturali in cemento armato alla base, a una quota intermedia e in sommità. Tali grafici sono stati riprodotti fotograficamente dalle tavole di progetto conservate presso il CSAC, Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Paradigna (Parma). La struttura di copertura è costituita, per ciascun pilastro, da un pannello configurato «a fungo», supportato da 16 travi a mensola rastremate in acciaio, disposte radialmente. Le travi sono incastrate al colletto sommitale dei pilastri mediante un telaio circolare in acciaio e collegate alle estremità da quattro profili di raccordo. Questi ultimi definiscono il perimetro del pannello, irrigidendo al contempo l’insieme delle travi radiali e chiamandole a collaborare nell’assorbimento dei carichi verticali, permanenti e accidentali, e dell’azione radente del vento, così come trasmessi dall’impalcato metallico di copertura. Ciascuna coppia pilastro+fungo è separata dalle adiacenti tramite un giunto di larghezza pari a 2 metri, chiuso da un lucernario voltato in vetro, atto a garantire, oltre alla mutua indipendenza strutturale, anche un’adeguata illuminazione zenitale dell’edificio. La scelta della soluzione in acciaio per la copertura, progettata dall’ingegnere Gino Covre (autore anche della struttura metallica della Cartiera Burgo) è da correlarsi alla tempistica imposta, rispetto alla quale Nervi aveva ritenuto troppo rischioso portare a compimento i getti della soluzione alternativa in cemento armato, da lui inizialmente pensata, nei mesi autunnali e invernali immediatamente precedenti la consegna dell’edificio. È interessante notare come il progetto della soluzione in cemento armato, ricostruito mediante la ricerca d’archivio condotta nel presente studio, fosse molto simile a quello relativo alla prima proposta formulata per la pensilina del Terminal di New York, visto che Nervi lavorava parallelamente negli stessi mesi ai due manufatti, in pratica agendo su due tavoli anche fisicamente affiancati. Curiosamente poi, nessuna delle due proposte «gemelle» ha trovato la luce, essendo stata sopravanzata, nel caso newyorkese, da una soluzione visivamente (non strutturalmente) più leggera, con la nota conformazione «ad ali di farfalla», simbolicamente tese a spiccare il volo verso l’orizzonte marcato dal segno forte del George Washington Bridge. La sovrapposizione del pannello in acciaio al pilastro in cemento armato, seppur in questo caso pressoché obbligata dalla tempistica di cantiere, rappresenta comunque un
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elemento di notevole innovazione del progetto nel panorama non solo italiano ma anche europeo, visto che nel vecchio continente erano ancora piuttosto flebili gli echi delle scuole di progettazione statunitensi, che soprattutto a partire dal secondo dopoguerra avevano offerto ampio spazio alla coesistenza tra i due principali materiali strutturali «moderni» (in alternativa alla costruzione puramente in calcestruzzo armato oppure in acciaio). È evidente che, se i pilastri del Palazzo del Lavoro non avessero beneficiato del raffinatissimo disegno geometrico di cui li ha dotati l’autore, il risultato estetico avrebbe potuto essere piuttosto modesto. Viceversa, le due parti strutturali, di per sé già estremamente eleganti, si fondono splendidamente, dando luogo a un esito al contempo di grande eleganza e di monumentalità, che garantisce all’interno dell’edificio quel tono di «sacralità laica» generalmente percepito dal visitatore. I restanti elementi strutturali del Palazzo, che contribuiscono a loro volta significativamente alla monumentalità dell’ambiente, includono i due livelli di ballatoi perimetrali, le cui solette nervate in cemento armato sono state progettate da Nervi dichiaratamente seguendo il principio di corrispondenza all’andamento delle linee isostatiche di trazione e di compressione fornite dalla soluzione analitica. Tra gli elementi strutturali secondari, grande ruolo giocano le facciate continue in vetro-acciaio, costituenti una pionieristica applicazione del concetto di «curtain wall», soprattutto in relazione alle così grandi dimensioni d’insieme. Passando a una sintesi degli studi strutturali condotti1, i sedici pilastri monumentali in cemento armato, sottoposti ai carichi statici e alle azioni sismiche previste dalle attuali normative tecniche per le costruzioni in riferimento alla città di Torino, sono stati analizzati in campo lineare e non. Entrambi i tipi di indagini hanno mostrato un impegno delle sezioni soltanto approssimativamente corrispondente al decalage delle sezioni lungo l’altezza, con coefficienti di sicurezza che risultano minori nelle zone più basse delle colonne. In particolare, le più raffinate analisi sviluppate in campo non lineare, attraverso un modello agli elementi finiti a fratturazione diffusa per il calcestruzzo, e una speciale procedura applicativa push-over appositamente concepita e messa a punto in questo studio, pongono in evidenza più accentuate plasticizzazioni delle armature nel terzo inferiore dell’altezza. Tale esito è vi2. DISTRIBUZIONE DELLE TENSIONI NELLE BARRE DI sualizzato nelle immagini di figura 2, ARMATURA DEI PILASTRI MONUMENTALI AL TERMINE in cui sono riprodotte le distribuzioDELL’ULTIMO PASSO DELL’ANALISI PUSHOVER.
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ni delle tensioni nelle barre di armatura verticali, in corrispondenza della sezione mediana del modello agli elementi finiti, al passo finale (pre-collasso) dell’analisi statica non lineare. Ne emerge, dunque, non un’effettiva ottimizzazione del progetto strutturale dei pilastri, bensì una capacità di prestazione più simile a quella di una progettazione condotta con criteri attuali, tendente a localizzare i massimi effetti di plasticizzazione nelle zone critiche del pilastro (in questo caso, stante il semplice schema statico a mensola, situate nella zona di prossimità alla base). Le analisi hanno posto in evidenza anche le risorse assai elevate di resistenza, e più che apprezzabili di duttilità, delle colonne, tali da garantire condizioni di non collasso a fronte di azioni sismiche di ampiezza fini a 2,5 volte maggiori di quelle massime normativamente previste per Torino (e quindi rapportabili a intensità tipiche delle zone di massima sismicità del territorio italiano). Pur tenendo conto che il progetto era stato condotto con riferimento a una valutazione molto semplificata degli effetti sismici, questa ulteriore indicazione dell’analisi conferma l’orientamento di Nervi verso un dimensionamento generoso dei pilastri, finalizzato anche all’enfatizzazione della loro immagine monumentale, seppur sapientemente rastremata lungo l’altezza. Tale dato è naturalmente confortante anche in funzione di un futuro, auspicato recupero dell’edificio, per il quale non sarebbero da prevedere interventi di consolidamento dei pilastri. Le analisi condotte sulle travi radiali in acciaio costituenti la corolla dei sedici pannelli di copertura pongono in evidenza chiare insufficienze in termini di verifiche di instabilità, sia locale dei pannelli d’anima sia d’insieme. Tali risultati sono conseguenza non di carenze progettuali d’origine, bensì delle assai più restrittive richieste di verifica delle attuali normative rispetto a quelle in uso all’epoca, nonché degli stessi strumenti teorici e operativi di cui si disponeva, che consentivano valutazioni solo approssimative delle tensioni critiche di buckling. Sulla base delle insufficienze rilevate, è stato proposto un semplice intervento di riabilitazione strutturale, consistente nella saldatura di piatti diagonali sui pannelli maggiormente suscettibili d’instabilità, situati nella prima metà della luce. In figura 3 è mostrata una vista del modello agli elementi finiti di una delle travi in condizione riabilitata, corrispondente all’attingimento della prima instabilità locale, ottenuta per carichi di circa il 33% superiori a quelli massimi di progetto secondo le ONFIGURAZIONE DEFORMATA DI UNA TRAVE attuali normative. Tale soluzione, di bas- 3.INCACCIAIO DI COPERTURA RELATIVA AL PRIMO so costo e minimo impatto, consente dun- MODO DI BUCKLING IN CONDIZIONI RIABILITATE.
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4. DISEGNO DI PROGETTO DI UNA CAMPITURA-TIPO DELLE SOLETTE DEI BALLATOI PERIMETRALI E MAPPATURA DELLE ISOSTATICHE DI TRAZIONE CON TRACCIATO DELLE NERVATURE RIPORTATO IN SOTTOFONDO.
que di attingere agevolmente i livelli di sicurezza oggi richiesti. I solai nervati dei ballatoi perimetrali sono risultati effettivamente seguire, nel tracciato delle nervature, l’andamento delle isostatiche derivanti dalla soluzione analitica originaria e da quella agli elementi finiti condotta in questo studio, a conferma del rigore di concezione strutturale di questa soluzione d’impalcato distintiva di gran parte dell’opera progettuale di Nervi, come ricordato nel paragrafo introduttivo. Al riguardo, in figura 4 è riportato il disegno originale di progetto di una campitura tipo, e la mappatura delle tensioni di trazione, con sullo sfondo la pianta delle nervature. Una soluzione costruttiva che, ancora una volta, come in precedenti opere del maestro, ha consentito una grande riduzione dei pesi strutturali e dei costi, rispetto a una soluzione tradizionale a soletta piena, oltre all’incomparabile maggiore eleganza delle membrature a vista. Tutti gli elementi costituenti tali impalcati risultano pienamente verificati, ad eccezione di alcuni tratti di travi perimetrali, insufficienti a taglio, e delle travi degli sbalzi esterni. Un semplice intervento di rinforzo è stato ipotizzato anche in questo caso, attuabile mediante disposizione di tessuti in FRP 5. IPOTESI DI RINFORZO DELLE NERVATURE DELLE SOLETTE A nelle limitate zone interessaSBALZO DEI BALLATOI PERIMETRALI MEDIANTE DISPOSIZIONE te (fig. 5), con l’obiettivo, DI TESSUTI IN FRP.
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come per il consolidamento delle travi in acciaio di copertura, di minimizzare impatto architettonico e costi. Ai fini di valutare le prestazioni delle vetrate di facciata, anch’esse accuratamente modellate agli elementi finiti, sono stati formulati appositamente alcuni stati limite di danno non strutturale per la specifica tipologia «curtain wall», non essendo questi direttamente previsti nelle normative sismiche, né direttamente desumibili dalla letteratura scientifica sull’argomento. Ne sono risultate prestazioni relativamente modeste, con danni apprezzabili già per l’azione sismica scalata all’intensità corrispondente agli eventi normativamente definiti con le più elevate probabilità di occorrenza nell’arco della vita nominale di progetto, e danni molto gravi, con pericoli di collasso, per gli eventi con le più basse probabilità. Ciò fa ritenere opportuna l’attuazione di sostanziali interventi di rinforzo delle strutture di supporto delle vetrate, se non l’intera sostituzione delle stesse, in occasione di un possibile futuro riutilizzo dell’edificio.
Estesamente esposti in S. SORACE e G. TERENZI, Structural and Historical Assessment of a Modern Heritage Masterpiece: «Palazzo del Lavoro» in Turin, atti della conferenza internazionale «Structural Studies, Repairs and Maintenance of Heritage Architecture XII» (Chianciano, 5-7 settembre 2011), WIT Press, Southampton 2011, pp. 221-232; ID., Non-linear Finite Element Asses-
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sment Analysis of a Modern Heritage Structure, atti della conferenza internazionale «Computational Plasticity XI. Fundamentals and Applications» (Barcellona, Spagna, 7-9 settembre 2011), Cimne, Barcellona 2011, pp. 116-1 - 116-12; ID., Structural Assessment of a Modern Heritage Building, in «Engineering Structures», aprile 2013, n. 49, pp. 742-755.
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Structural Analysis and Assessment of Palazzo del Lavoro in Turin
T
he time period comprised between the 1950s and 1960s marks the most prolific phase in the professional activity of several prominent architectural and structural Italian designers of the twentieth century. Pier Luigi Nervi reached a world-wide reputation in those years, when he designed some of his most celebrated works and formulated his fundamental design principles, namely: the elaboration of the geometrical shape as the first step in the conception of a structural system; the assignment of “uniform resistance” properties to the constituting members, in particular to the vertical load bearing elements, so as to optimize their dimensions and relevant architectural impact; the definition of analytical equal stress line-based layouts for roof and floor slabs, in order to strictly relate structural calculus and design, by linking the latter to a careful evaluation of local stress demands; the ongoing exploration of boundaries in the use of reinforced concrete, before the final affirmation of prestressed concrete or steel high span solutions. The case study building examined in this research, i.e. Palazzo del Lavoro in Turin, is one of Nervi’s most outstanding works of the considered period and, at the same time, emblematic of his above-mentioned design principles. The building was designed in 1959 and completed by spring 1961, after 16 months only. It represented a really challenging enterprise, which still arouses admiration, especially when the short construction times are compared to the imposing size of the building - 160x160 metres in plan - and considering the strict architectural constraints imposed on the design, among which the 40 m-long free spans required between each vertical structural element. The solution devised by Nervi consisted in a mesh of 16 monumental reinforced concrete columns with variable sections along the height, which represent the most powerful example of the above-mentioned principle of uniform resistance applied to vertical members in his works. Each column supports a mushroom-shaped steel roof panel with 16 radial beams spanning from the center. The remaining structural elements, which also remarkably contribute to the monumental appearance of the building, include the reinforced concrete ribbed slabs constituting the two perimeter gallery floors, traced out following the analytical equal-stress lines of their plate model. Among the secondary structural elements of the building, the continuous glazed façades make a much advanced technical solution for the time, as they are an early application of the “curtain wall” concept, with remarkable global dimensions. A careful structural analysis of the building was carried out in this study to assess its current safety conditions, as well as to verify the degree of correlation of the performance of the main constituting members to Nervi’s design principles. The results of the study,
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aimed at offering new contributions to the critical interpretation of the activity of this master structural designer, can be summarized as follows. - The pushover analysis carried out on the monumental columns by an integrally cracking/crushing finite element model showed remarkable response capacities of these members. The main reason of this achievement lies in their wide safety margins, which highlight that the original design attempted to emphasize the monumental look of columns also by increasing their cross-sections (although by not impairing elegance, thanks to a refined and daring development of geometry along the height), rather than by optimizing their dimensions. - At the final stage of the pushover process, the extent of yielding in the reinforcing bars on the tension side of columns is limited to about 1/3 of the height. This underlines that Nervi’s design hypothesis of uniform resistance is not verified. - No type of buckling verifications carried out on the beams of the mushroom steel roof - global lateral-torsional and local web panel - was met. These unsafe conditions could be easily overcome by a low-impact and respectful retrofit intervention, which consists in strengthening the beams with a row of horizontal steel plates welded at mid-height of their cross sections, plus a diagonal plate positioned in the lower half of the panels, which proved to be the most prone to buckling. - The equal tension stress line-governed design concept of the flat slabs in the R/C gallery floors was accurately confirmed, instead, by the finite element solution. A Carbon Fiber Reinforced Plastics U-jacket strengthening solution was proposed for the unsafe rib members, which is as respectful of the monumental value of the building as the interventions outlined for the steel roof beams. - The seismic assessment analysis of the glazed façades revealed that they represent the most vulnerable building technology included in the edifice, and suggest they should be completely redesigned in any possible future architectural refurbishment projects.
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Riccardo Morandi per il V padiglione di Torino Esposizioni EDOARDO BRUNO
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e celebrazioni di Italia ’61 sono state per Torino l’occasione di mostrarsi al mondo intero nel suo apice di produzione non solo industriale, ma anche per il vertiginoso sviluppo urbano, proponendo l’applicazione del concetto di produzione in serie che veniva portato avanti negli stabilimenti di Fiat a quello che avveniva in campo edilizio. La frenesia nella fabbricazione dei «prodotti», che avrebbero costituito, lungo il Parco del Valentino, i complessi delle celebrazioni del Centenario, non si differenziava di molto da quella con cui si stavano costruendo le periferie per le grandi masse operaie provenienti dal sud Italia1. Sulla scia di questi interventi s’inserisce anche il padiglione espositivo interrato poi divenuto «garage»2, progettato da Riccardo Morandi nel Parco del Valentino: un’opera realizzata in soli sei mesi, nell’area del galoppatoio della Società Ippica Torinese che ancor prima, a cavallo del Novecento, ospitava il laghetto dei pattinatori3. All’ingegnere romano nel 1958 viene chiesto di ricavare in quell’area un padiglione espositivo ipogeo, in modo da non compromettere il Parco del Valentino: un compromesso per non allarmare i cittadini, «cavernicoli per rispettare il paesaggio»4. L’edificio rientra in un piano programmatico promosso dalla Società Torino Esposizioni che necessita di ulteriori spazi per ospitare l’annuale Salone dell’Automobile. La connessione con il vicino complesso costruito da Pier Luigi Nervi deve attuarsi per mezzo di un’ardita galleria sotterranea di 150 metri dotata di tapis-roulant. Per Morandi il progetto diviene l’occasione per mettere a frutto i lunghi anni di sperimentazione sul cemento precompresso nella creazione di ponti, che definiva «i veri monumenti del nostro tempo»5, creando uno spazio libero e sospeso, definito solo dal dosaggio di forze che sono per lo più interne, secondo quella coazione esterna che Nervi non amava utilizzare perché ritenuta «un artificio innaturale»6. Il «padiglione», il «salone», il «garage», la «sala» di Morandi viene salutata festosamente dalla città Torino7, entra a far parte dei capolavori indiscussi dell’ingegnere romano, per poi finire oggi in un angolo dimenticato della città: un vuoto e sordo involucro di cui non se ne afferra l’effettiva grandezza originaria a causa della sua trasformazione a parcheggio. Il V padiglione di Torino Esposizioni rimane icona incompresa se non si ripercorrono i primi progetti di ponti e si analizzano i lunghi anni di sperimentazione del calce-
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struzzo armato precompresso, «impropriamente detto cemento armato...»8. Si potrebbe cadere nell’errore di ritenerlo un’invenzione mirabile senza precedenti, frutto di un intervento demiurgico per aver oltrepassato il limite consentito dalla volta ribassata, dove l’imprinting visivo viene scosso dalla mancanza di una logica facilmente afferrabile. Niente di più lontano dalla verità: nell’opera di Morandi è l’equilibrio statico che viene pensato come «il tema più importante»9; l’ingegnere lo affronta nei suoi progetti disponendo con razionalità gli elementi costruttivi affinché si creino modelli staticostrutturali «semplici, facilmente controllabili [...] in cui la disposizione e la forma delle varie membrature esprimono chiaramente la funzione statica, cioè in ultima analisi la loro ragione di esistere»10. Morandi si affianca a molti studi che al tempo erano scaturiti «in molte menti in Europa»11, come quelli di Eugène Freyssinet e Gustave Magnel, mentre in Italia la scarsa applicazione tecnica lascia spazio alle applicazioni teoriche del professore Gustavo Colonnetti, fautore, insieme all’allievo Franco Levi, della diffusione di questa tecnologia nell’ambito della ricostruzione post-bellica. Morandi conduce invece la sua ricerca sul campo, secondo una vocazione tutta pionieristica dell’ingegneria postbellica, prima con la società Calci e Cementi di Segni, e successivamente con l’Impresa Giovannetti di Roma, i quali finanziano con lungimiranza i suoi studi. Il brevetto M1, che porta la firma congiunta di Morandi-Iafrate, arriva nel 1949 garantendo a breve il passaggio dalla sperimentazione all’applicazione. L’occasione è il ponte sull’Elsa, per una luce di 40 metri, dove convergono le istanze tecniche e il controllo del ministero dei Lavori Pubblici per conto del Centro studi sugli stati di coazione elastica del CNR12. Lo «scienziato» Franco Levi vi lavora come ispettore e ricorda nel giorno del collaudo che Morandi «tremava come una foglia. Ritrovò la sua romanzesca disinvoltura solo quando gli autocarri abbandonarono l’impalcato»13. Da quel momento Morandi inizia una produzione di ponti tale che alla fine degli anni cinquanta raggiunge una fama internazionale, soprattutto dopo l’affidamento per la costruzione del ponte nella laguna di Maracaibo (1957), tanto iconico quanto «rivoluzionario». Nella produzione di Morandi il precompresso è sempre la base, tuttavia le applicazioni negli schemi-statici possono essere molteplici: dalle soluzioni ad arco alle strallate, da quelle a telaio alla travata isostatica sino alla trave bilanciata14. Quest’ultima nasce dalla necessità di ridurre entro limiti ragionevoli le azioni indotte di precompressione, qualità che si deve poi tradurre in una notevole riduzione nei costi di cantiere. Riprende l’antico concetto della trave cantilever con due piedritti interni ed estremità in trazione, rende i piedritti due vere e proprie bielle inclinate aumentando lo spazio utile sotto trave, e trasla la portanza ai tiranti sottesi alle estremità.
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1. VISUALE DEL CAVALCAVIA SULLA VIA OLIMPICA A ROMA, ESEMPIO DI UTILIZZO DA PARTE DI MORANDI DELLO SCHEMA A TRAVE BILANCIATA NELLA COSTRUZIONE DI PONTI.
Morandi stesso ne descrive la carica innovativa, sostenendo che «è assai interessante per la possibilità di regolare a piacere il rapporto dei flettenti tra gli appoggi e la zona centrale della trave»; poi tenta di sfuggire formalismi, pur ribadendo che «la sua espressività architettonica discende semplicemente dall’estrema schiettezza di forma delle parti che lo compongono»15. Il modello viene utilizzato nel 1954 per il ponte sul Cerami a Galliano Castelferrato (Enna). La sezione trasversale ricalca l’impostazione della struttura già progettata in altre occasioni come sull’Elsa, sul Liri a Frosinone, per un ponte sull’Adda a Lecco, o con quello detto Gornalunga presso Enna, dove fa disporre conci prefabbricati dalle lunghe cavità longitudinali per ospitare i cavi per la pretensione. Poco prima di costruire il V padiglione l’ingegnere romano applica il tema della trave bilanciata anche nel progetto per il cavalcavia della via Olimpica (oggi corso Francia), su una luce di 55,4 metri (fig. 1), mentre di poco successivo è il ponte sul fiume Vella (1960-1962). Solo dopo tali interventi diviene progettista di ponti di fama mondiale, per lui è «la conquista di uno spazio, di una luce particolare [...] è un fatto di forma pura»16; lì si realizza la sintesi da lui invocata tra la figura dell’architetto e quella dell’ingegnere, in un non-luogo dove sembrano contare solo le leggi della matematica. È osservando questi esempi che si riesce a comprendere il V padiglione di Torino Esposizioni e a collocarlo all’interno del percorso di ricerca dell’ingegnere. Lo spazio appa-
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re una conquista di leggerezza tridimensionale che per Morandi non è né un gioco formale, né un semplice fatto tecnico, ma la volontà di gestire tutti i diversi elementi in modo coerente, senza dimenticare lo scopo ultimo dell’intervento: una grande volta ribassata e interrata17. A Torino trova una situazione complessa: una realtà paesaggistica delicata in cui inserire il nuovo Salone, una solida struttura decisionale con il Servizio Costruzioni e Impianti Fiat presieduto dall’ingegnere Vittorio Bonadè Bottino e il Centro studi sulle coazioni fondato da Colonnetti. La Società Torino Esposizioni, con Fiat tra i maggiori azionisti, richiede al Servizio Costruzioni e Impianti di prevedere una soluzione di comodato d’uso nei confronti del Comune di Torino, poiché ormai in scadenza sugli attigui terreni della Società Ippica Torinese. La demolizione delle strutture della Società Ippica e il suo trasloco a Nichelino, con il progetto degli architetti Roberto Gabetti e Aimaro Isola, apre squarci di riflessione ulteriori, dove i destini dei protagonisti della scena architettonica del dopoguerra si inseguono e incrociano ripetutamente. Gli uffici dell’ingegnere Bottino prevedono alcune soluzioni preliminari, volte a minimizzare di volta in volta l’intervento sul Parco. La visita dei dirigenti Fiat poi nel 1958 all’inaugurazione della basilica sotterranea di Lourdes18, opera di Freyssinet con travature in precompresso su pianta ovale, sembra suggerire l’intervento di uno «specialista» per la risoluzione di tali schemi complessi. Morandi era già noto agli uffici Fiat per la collaborazione nel calcolo dell’impianto industriale di Napoli del 195619; cantiere difficile per fondazioni su terreni instabili, dove aveva proposto una copertura a shed triangolari in precompresso. Il progetto definitivo del V padiglione porta la firma congiunta di Morandi e Bonadè Bottino, ma l’esperienza e l’innovazione portata dai protagonisti non sembra essere sufficiente per trovare l’assenso a un progetto tanto delicato. Il processo di attuazione si interrompe bruscamente il 31 marzo 195820, l’architetto Umberto Chierici, sovrintendente ai Monumenti del Piemonte, blocca il progetto secondo motivazioni che oggi appaiono lungimiranti21:la sofferenza che avrebbe arrecato il nuovo edificio ipogeo ai circostanti spazi del Parco del Valentino. Il mancato assenso genera una serie di reazioni e di relazioni politico-imprenditoriali, che si traducono in un’ostinata opposizione nel difendere le ragioni di un progetto che non può che portare benefici alla città di Torino. Strenui difensori, e con fitti carteggi, sono il presidente De Rossi della Società Torino Esposizioni e il sindaco DC di Torino Amedeo Peyron, i quali chiamano in causa l’allora ministro degli Esteri, il biellese Giuseppe Pella, affinché interceda a Roma presso gli uffici del Ministero dei Lavori Pubblici e dell’Istruzione, ai quali nel frattempo viene demandata la decisione in merito al progetto.
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In questa fase i tecnici rimangono ai margini, interpellati talvolta solo per il possibile ridimensionamento dell’impianto, anche se la posizione dell’ufficio di Morandi a Roma sembra apparire strategica per potersi comodamente interfacciare con l’amministrazione statale. Il 4 agosto 1958 il Ministero dell’Istruzione, sentito il Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti, approva il progetto senza riserve, criticando piuttosto le condizioni in cui versa il Parco del Valentino, mentre il benestare del Ministero dei Lavori Pubblici giunge solo il 28 febbraio dell’anno seguente, accompagnato da un’aspra e dura critica, che l’ingegnere Luigi Ravelli della Divisione Fiat in una lettera indirizzata a Bonadè Bottino descrive come «infelice preambolo», poiché si ritiene assurdo impostare un edificio per esposizioni completamente interrato. L’avvio dei lavori è immediato, la forza lavoro in cantiere si conta nelle 250 unità, la data di ultimazione prevista è per il 31 ottobre 1959, in tempo per l’annuale Salone dell’Automobile (fig. 2). La direzione del cantiere è affidata al Servizio costruzioni e impianti Fiat nella persona di Ravelli, che ricalca fedelmente i disegni contenuti nei 79 elaborati grafici consegnati da Morandi22. Il cantiere rivela tutte le contraddizioni delle grandi opere del dopoguerra italiano. Al fianco di innovazioni tecnologiche importanti come la post-tensione attraverso martinetti idraulici, rimangono pratiche tradizio-
2. VISUALE DALL’ALTO DEL CANTIERE DEL V PADIGLIONE DI TORINO ESPOSIZIONI, CON LE TRAVATURE DI SOSTEGNO DELLA COPERTURA COSTRUITE SU TERRAPIENO. ARCHIVIO PRIVATO LUIGI RAVELLI.
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3. LA CASSERATURA ROMBOIDALE DELLA COPERTURA DEL V PADIGLIONE, CHE MOSTRA TUTTA L’ARTIGIANALITÀ DELLA CONDUZIONE DI CANTIERE. ARCHIVIO PRIVATO LUIGI RAVELLI.
4. LO SVUOTAMENTO DELLA NAVATA DEL V PADIGLIONE DAL VOLUME DI TERRENO SU CUI ERA STATA IMPOSTATA. ARCHIVIO PRIVATO LUIGI RAVELLI.
5. IL V PADIGLIONE A CANTIERE ULTIMATO, DOVE SI MOSTRA LA GRANDE VETRATA DI CHIUSURA COME OPERA DI COMPLETAMENTO.
nali di movimento terra e lavorazione del calcestruzzo. L’appalto stesso dei lavori diviene fonte di polemica in quanto l’affidamento è di tipo diretto verso l’impresa dei fratelli Giovannetti, che collabora da tempo con l’ingegnere romano, facendo infuriare l’allora presidente del Collegio dei Costruttori Edili, l’ingegnere Rinaldi, per la mancata occasione di affidamento dei lavori alle «esperte» ditte piemontesi. Gli uffici Fiat preferiscono affidamenti diretti con ingegneri che si presentano in associazione a proprie imprese costruttrici, come era successo con la Nervi & Bartoli, e Morandi presentandosi con l’impresa che da ormai vent’anni gestisce gran parte dei suoi cantieri gli ha concesso un maggior margine di fiducia. L’ingegnere romano, che continuamente controlla il cantiere soprattutto per quello che riguarda la tesatura dei cavi di precompressione23, per risolvere l’edificio intende utilizzare lo schema statico della trave bilanciata. Il ritrovato però, in questo caso, è quello di essersi «ricordato dei suoi ponti, ma non ha fatto un ponte: ha chiuso uno spazio»24. Utilizza le bielle inclinate per appoggiare le sue travi, precompresse per ridurne l’altezza in campata, e al loro termine vincolate a biellette pretese in modo tale da non permettere l’innalzamento della trave stessa sotto i carichi della copertura. Il salone consta di elementi strutturali nascosti, come i setti controterra e i plinti di fondazione, plasticamente definiti dalle stesse forze agenti sull’impianto, che ne regolano la geometria, e
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gli elaborati diventano strumento di controllo e di interpretazione di telai che rimandano a forme geometriche semplici, controllabili. Morandi descrive sinteticamente l’idea generatrice della struttura del salone ipogeo nell’incipit della propria relazione di calcolo: «la struttura è costituita da una maglia romboidale multipla in cemento armato precompresso, appoggiante su puntoni a biella disposti obliquamente e resa iperstatica dalla presenza di due tiranti all’estremità degli sbalzi, secondo lo schema seguente (segue schizzo)»25 (fig. 3). Nessuna retorica nella relazione di calcolo, nessun valore architettonico esplicito, nonostante amasse ripetere che nel momento stesso in cui si opera una scelta di intervento si creano logiche lontane dalla pura scienza, allineandosi alle volontà della creazione artistica26. L’inaugurazione del XLI Salone dell’Automobile, durante la quale presenzia il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi27, vede il V padiglione sotterraneo terminato pochi giorni prima, con il posizionamento delle grandi vetrate di chiusura (fig. 5). La drammaticità dell’interno, dove gli elementi strutturali sembrano collassare da un momento all’altro, scuote l’immaginario architettonico, prevaricando sulle geometrie rettilinee della precedente basilica francese, secondo un accostamento diretto tra le strutture a ponte e lo spazio chiuso28. L’audacia del salone sotterraneo affascina i giovani architetti torinesi Roberto Gabetti e Aimaro Isola, che assiduamente frequentano il cantiere, tanto che da lì nasce la possibilità di partecipare al concorso per il Palazzo dell’Esposizione Internazionale del Lavoro in associazione con l’impresa Borini. Viene presentato un progetto in cui l’intesa tra composizione architettonica e copertura si rivela prepotente nella volontà di sospendere gli ambienti a margine del complesso come carico controbilanciante della copertura stessa; e l’immagine del V padiglione viene pienamente ribadita con le sue grandi travi rastremate in funzione del carico. L’esito del concorso in favore del contenitore nerviano determinerà in qualche modo il fallimento di questa tipologia per la copertura di grandi spazi e anche la presenza di Morandi nella città di Torino. Il legame che s’instaura tra l’ingegnere e la città appare filtrato dalla collaborazione con Fiat, l’industria che con la propria influenza riesce a incidere maggiormente nelle sorti urbane; quando l’espansione edile e industriale sembra per la prima volta rallentare, allo stesso modo tramonta la necessità di stringere rapporti per incarichi degni di nota. Morandi eseguirà ancora i calcoli per un ampliamento industriale all’interno di Mirafiori, per il corpo di fabbrica dei Trattamenti termici grezzi e un altro involucro all’interno di Mirafiori Meccanica della misura di 261 x 29,66 metri29. Lo stesso utilizzo del precompresso nella città di Torino sembra divenire una parabola che si costruisce tutta intorno alle celebrazioni per il Centenario e spesso sotto la promozione di Franco Levi. Gli interventi caratterizzati da questo utilizzo rimangono così all’interno dell’esiguo lasso di tempo a cavallo degli anni sessanta: la Borsa Valori di Gabetti e Isola del 1956, il Palazzo delle Mostre (più noto come Palavela) del 1960 ad
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opera degli architetti Annibale e Giovanni Rigotti insieme a Franco Levi, parte della struttura a piramide rovesciata del Museo dell’Automobile, calcolate dagli ingegneri Levi e Ivalio Ludogoroff e infine la struttura per la monorotaia Alweg degli interventi per Italia ’61, progettata e calcolata dallo stesso Morandi. Il precompresso sembra così pian piano sparire dall’utilizzo in campo architettonico, a causa degli alti costi di messa in opera e delle difficoltà nel controllare gli effetti interni di «rilassamento» dei cavi, per approdare all’utilizzo della prefabbricazione di elementi da inserire sul mercato per l’applicazione industriale e infrastrutturale.
M. COMBA, L’industria e le sue coperture, in P. L. NERVI, La committenza industriale, le culture architettoniche e politecniche italiane, a cura di S. Pace, Silvana, Milano 2011, pp. 129-139. 2 R. MORANDI, Hall d’exposition et garage a Turin, in «L’Architecture d’aujourd’hui», 1961, dicembre-gennaio, n. 99, pp. 34-35. 3 C. BIANCHI, Il Valentino. Storia di un parco, Torino 1984, pp. 94-96. 4 R. GABETTI, Il nuovo padiglione del salone dell’automobile a Torino-esposizione, in «L’architettura cronache e storia», marzo 1960, n. 11, pp. 233-235. 5 R. MORANDI, L’incontro creativo fra ingegnere ed architetto, in «Elsinore», dicembre 1963, n. 1, pp. 82-87. 6 ID., Ricordo di Pier Luigi Nervi, in «L’industria italiana del cemento», febbraio 1979, n. 2, pp. 71-72. 7 Pronto entro 7 giorni il nuovo salone costruito sotto i prati del Valentino, in «La Stampa», 23 ottobre 1959. 8 R. MORANDI, Qualche considerazione sull’evoluzione negli ultimi sessanta anni della progettazione di opere in calcestruzzo armato, in «L’industria italiana del cemento», febbraio 1985, n. 2, pp. 118-120. 9 S. MUSMECI, Structure and Architecture, in «L’industria italiana del cemento», ottobre 1980, n. 10, p. 780. 10 E. BENVENUTO, G. BOAGA, M. BOTTERO, P. A. CETICA e M. GENNARI, Riccardo Morandi ingegnere italiano, Alinea 1985, p. 21. 11 Pronto entro 7 giorni il nuovo salone... cit. 12 M. MARANDOLA, Riccardo Morandi ingegnere (19021989). Dagli esordi alla fama internazionale, in «Rassegna Architettura e Urbanistica», numero monografico di «Ingegneria Italiana», a cura di Tullia Iori e Sergio Poretti, gennaio-agosto 2007, pp. 90-104. 13 MUSMECI, Structure and Architecture... cit., pp 193194. Testimonianza di Franco Levi che ricorda anche un viaggio compiuto da entrambi con Morandi in URSS sotto invito, dove passarono in rassegna molti centri di 1
sperimentazione e incontrarono figure chiave della cultura ingegneristica sovietica, come Gvozdev, Strelesky o Pasternak. 14 G. BOAGA, Riccardo Morandi, Bologna 1984. 15 R. MORANDI, Su alcune recenti realizzazioni di strutture in calcestruzzo armato e in calcestruzzo precompresso, in «Atti e Rassegna Tecnica», agosto 1958, n. 8, pp 264-277. 16 MUSMECI, Structure and Architecture... cit. 17 MUSMECI, Structure and Architecture... cit. Scrive Edoardo Benvenuto: «non è solo un fatto economico o tecnico, né soltanto un fatto grammaticale o sintattico, bensì, nel senso più ampio del termine, un fatto retorico, di eloquenza discorsiva. La eloquenza nasce dalla considerazione della portata simbolica dei problemi funzionali, statici ed economici in gioco e dall’espressione di questa simbolicità in una forma consona». 18 Tratto dal discorso di papa Giovanni XXIII di domenica 31 maggio 1959 a vari gruppi di lavoratori, impiegati e dirigenti provenienti da diverse regioni d’Italia. 19 ACS (Archivio Centrale dello Stato), Riccardo Morandi, b. 169, 170. 20 Archivio Maire Tecnimont, 1958-1959, T356. Tutta la documentazione, sia per le tavole architettoniche sia per la corrispondenza riportata nel testo, che tratta della difficile vicenda di approvazione del progetto di Riccardo Morandi e Bonadè Bottino, è contenuta presso l’Archivio di Ex- Fiat Engineering. 21 Scrive il Sovrintendente nella lettera di diniego del 31 marzo 1958: «è indubbio che in un futuro più o meno lontano lo stesso nuovo salone sotterraneo non potrà più corrispondere alle aumentate esigenze: si richiederà allora nuovi sacrifice al già mutiliato piccolo parco e allora non sarà più possibile arretrare le nuove iniziative». 22 Archivio Maire Tecnimont, E262. 23 MUSMECI, Structure and Architecture... cit. La descrizione è quella di un cantiere vissuto come un campo
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di battaglia, con tutti i collegamenti possibili alla storia degli ingegneri collegati alle Scuole di applicazione militari. 24 BIANCHI, Il Valentino. Storia di un parco... cit. 25 MUSMECI, Structure and Architecture... cit. All’interno del tombolotto è presente anche per intero la relazione di calcolo di Morandi, che consta di 115 fogli corredati da disegni e schizzi.
GABETTI, Il nuovo padiglione del salone dell’automobile... cit. Gronchi ha inaugurato a Torino il Salone dell’Auto, in «La Stampa», 1 novembre 1959. 28 MUSMECI, Structure and Architecture... cit. La breve testimonianza di Zevi: «La scienza edilizia comunica un sentimento esistenziale che finora aveva ignorato: non solo l’audacia e il rischio, ma l’insicurezza, lo squilibrio». 29 ACS, Riccardo Morandi, b. 37, 39.
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Riccardo Morandi and the V Pavillion for Torino Esposizioni
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he context in which V pavilion iconic building by Riccardo Morandi was born was the city of Turin at the end of the 1950s, a restless building site. The urban sprawl generated by building practices that engulfed whole new areas to provide accommodation for workers coming from the South of Italy, accompanied also the major projects designed to generate an international interest in the Celebration for the Unification of Italy. On the front line, though never formally present, there was Fiat automotive company, which promoted the attempt to make Turin leave behind the city-industry combination, focusing also on new leisure activities, to promote international interest. In those years, Riccardo Morandi had already a well-established professional role and his extensive studies on prestressed technology, carried out before and during World War II in association with the Fratelli Giovannetti’s company, had long entered the construction phase, thus contributing to the reconstruction of bridges in different areas of the Country. In Turin, Morandi could also find the “Centro di studio sugli stati di coazione elastica” (Study Centre on Elastic consumption states), founded by Gustavo Colonnetti, to whom we owe the most important theoretical studies on post-tensioning of concrete elements, and the “Servizio Costruzioni e Impianti Fiat” (Fiat Construction and Installation Division), led by Engineer Vittorio Bonadè Bottino, at the head of an engineering office designing industrial plants and structures, as well as housing and social service facilities. The encounter between these two characters was fundamental to designing such an ambitious structure, where pioneering attitude, theoretical sensitivity and taylorist management of the construction site allowed the experimentation of new forms. The V pavilion was born in an extremely complex context: a long-abandoned area in the Parco del Valentino near the river Po where, during a century, the nineteenth-century Universal Expositions, a pond for skating purposes, the Turin Horse Riding Society and even the 1946, 1952 and 1955 Grand Prix Motor Racing were hosted. The noble hall by Pier Luigi Nervi did not seem to stem the tide of visitors to the Annual Car Show, therefore the Società Torino Esposizioni started seeking for new spaces in view of the celebrations of the Centenary. According to a piece of research carried out within the Archives of the “Ex Servizio Costruzioni e Impianti Fiat” (now Maire Tecnimont property) it was the Bonadé Bottino’s Office that developed the first architectural solutions, which included several planimetric provisions, each of them trying to occupy as little space as possible in the
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surrounding Park. Fiat executives then visited the opening of the underground Basilica of Saint Pius IX in Lourdes, concluded by the European master of the prestressed technique Eugene Freyssinet, only in 1958. The reference to the brutalism of an underground vault supported by prestressed elements can suggest why Bonadè Boottino called Morandi to think of a solution for the structure that had been thought for Turin’s park. Morandi’s expertise consisted of one of his most interesting structural patterns, which had already been experimented for the Bridge over the river Cerami in Sicily and the flyover over the Olympic Boulevard in Rome: the theme of the balanced beam with inclined rods. Morandi laid the structural elements of the V pavilion according to a scheme based on pairs of thin prestressed concrete beams, firstly resting on internal and inclined rods, anchored at the head to a second order of vertical rods. The sense of instability that is generated inside the pavilion is complete: the distance between the inclined supports seems inexplicable if the intrinsic forces that make up the system are not considered. The third dimension became Morandi’s real focus, where he conveyed all the experience he had gained in the construction of prestressed concrete bridges, so that he conceived a model-scheme that could be used for covering great spaces. The project was deeply studied when it was assessed as inadequate by the Superintendence in charge of Piedmont’s Monuments. The history of the approval of the project is fundamental to understanding the professional relations at the base of the works, rather than the technical data. Politicians, sponsors, promoters and technicians strongly defended the interventionist reasons beneath the surface and their rhetorics was supported by the institutional role they played. Thanks to a compromise between institutions the construction works only started in April 1959 and were completed six months later, in time for the start of the Annual Car Show, thus showing all the contradictions of the Italian construction industry, halfway between consolidated craft procedures and the technological innovation of the post-tensioning trunking laying. The inauguration of this iconic building demonstrated Morandi’s ability to generate complex architectures apart from bridges, not just simple infrastructures. This raised the opportunity to participate in the international competition for the Palazzo del Lavoro together with the emerging Turin’s architects Roberto Gabetti and Aimaro Isola and “Borini Padana Spa” firm, thus providing the chance to propose the scheme of prestressed giant beams covering large collective spaces. Morandi, after losing the competition, symbolically left the city of Turin, and the brutal use of prestressed concrete, which best suited industrial buildings devoted to serial production, disappeared from the late 1960s architectural scene.
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Giorgio Dardanelli, Riccardo Morandi, Giorgio Rigotti, Silvano Zorzi e il Servizio Costruzioni e Impianti Fiat RITA D’ATTORRE
Consulenze e studi sulle strutture in cemento armato e cemento armato precompresso Il Servizio Costruzioni e Impianti Fiat1 a partire dal secondo dopoguerra matura una vasta esperienza nel campo dell’ingegneria civile e impiantistica con l’acquisizione progressiva di un know-how tecnico estremamente differenziato. Sono questi gli anni a partire dai quali è possibile ricostruire come sia i progetti di costruzioni civili sia di impianti industriali, sulla quale la Divisione ha basato fin dall’inizio una parte importante della sua attività e del suo successo, siano ancora condizionati dall’indispensabile apporto di interventi specialistici esterni. A differenza delle soluzioni proposte per progetti di edifici civili, per quanto attiene gli stabilimenti industriali la società è ancora restia a sperimentare sistemi strutturali meno convenzionali di quelli messi a punto fino alla metà degli anni cinquanta. In realtà, il Servizio Costruzioni e Impianti conserva ancora la rigida logica dettata da indicazioni pratiche consolidatesi a partire dalla costruzione dello stabilimento di Mirafiori di Torino, dove le prescrizioni date ai progettisti presentano l’applicazione di rigidi schemi di produzione e sistemi costruttivi. Di grande interesse è lo scambio di conoscenze, molto più complesso di quanto non appaia, che si realizza tra la struttura della Sezione Costruzioni e Impianti e gli ingegneri progettisti esterni; facendo emergere come l’intera società operi attraverso un metodo di tipo sistemico, garantito non solo dalla multidisciplinarietà di azioni, ma anche da un protocollo che regola l’intervento di consulenze di esperti esterni al mondo Fiat a diversi livelli e fasi del progetto, soprattutto per quanto concerne il collaudo delle opere e le sperimentazioni strutturali. Superata l’impegnativa fase della ricostruzione, la Divisione si trova a disporre di capacità tecniche e di personale che vanno al di là delle necessità quotidiane della società torinese, e ad assumere alcune commesse al di fuori della Fiat. Per la costruzione di sistemi infrastrutturali nazionali ed esteri la sua azione progettuale è coordinata da alcuni ingegneri di rilievo, tra i quali Giorgio Dardanelli, ingegnere e professore del Politecnico di Torino che dal 1951 al 1974 all’interno della società ricopre il ruolo di direttore del settore Lavori Pubblici, oltre a dirigerne l’Ufficio Progettazioni Civili. È il 19 marzo 1964 quando viene inaugurato il traforo del Gran San Bernardo (fig. 1), prima galleria stradale alpina in grado di collegare l’Italia alla Svizzera separate per sette mesi l’anno dalla catena delle Alpi. La redazione del progetto del nuovo traforo, al-
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1. TRAFORO DEL GRAN SAN BERNARDO, VISTA DELLA STRADA COPERTA DI COLLEGAMENTO, S.D. ARCHIVIO MAIRE TECNIMONT, MILANO, E288.
l’avanguardia per l’epoca in quanto dotato di moderni impianti di ventilazione e sicurezza, per il versante italiano è affidata alla Sezione Costruzioni e Impianti, in particolare il coordinamento e la fase esecutiva dei lavori sono gestiti da Giorgio Dardanelli cui viene affidata anche la direzione lavori. Il progetto iniziale messo a punto a partire dal 1954, in collaborazione con l’ingegnere Aurelio Vaccaneo che si occupa della parte impiantistica, si basa principalmente su numerosi studi che riguardano la possibilità di realizzare una lunga galleria di base o una corta di valico con una strada coperta su entrambi i versanti che conduce agli accessi del tunnel2. Questo tipo di soluzione, per la prima volta largamente utilizzata nelle vie di accesso di gallerie, permette di risolvere brillantemente il problema di raggiungere in modo sicuro quote di valico di 1.900 metri e impegna Dardanelli e il Servizio Costruzioni e Impianti in una lunga fase progettuale. Infatti, se da una parte si rende più semplice e meno incerto l’esercizio della galleria, sussistono forti dubbi sulla possibilità e sul costo per mantenere in funzione durante il periodo invernale le lunghe strade coperte. Un problema tutt’altro che semplice in quanto si tratta di bonificare, dal punto di vista delle valanghe, un’intera costa montana e di assicurare il funzionamento regolare degli accessi in qualsiasi condizione di perturbazione atmosferica. Le carte di archivio mettono in evidenza una fitta corrispondenza tra Dardanelli, Vit-
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torio Bonadè Bottino, Luigi Ravelli e le diverse amministrazioni pubbliche coinvolte nella costruzione del nuovo traforo sull’utilità che la nuova galleria ricopre all’interno di un più vasto sistema di comunicazioni stradali italo francesi: dal traforo del Frejus (1960-1980), dove lo stesso Dardanelli viene supportato nella direzione lavori da Paolo Bocca, ingegnere responsabile del Servizio Ponti e Strade3, alla progettazione del traforo del Ciriegia (1963-1976)4, mai realizzato, e che doveva collegare Cuneo con la Provenza e la Costa Azzurra, inserendosi nel sistema delle comunicazioni stradali Nord-Sud di cui proprio il traforo del Gran San Bernardo può dirsi il fulcro. La fase preparatoria al progetto vero e proprio è fatta sì di consulenze, ma soprattutto di studi interni alla Divisione, in cui tutti gli uffici tecnici afferenti ai diversi campi si integrano tra di loro, con le conseguenti possibilità di predisporre l’organizzazione e le attrezzature di cantiere effettivamente adeguate alle esigenze del lavoro, e nella successiva fase di esecuzione, utilizzare con continuità e razionalmente i mezzi e le maestranze. Il I° agosto 1957 il presidente della Società Torino Esposizioni, l’ingegnere Daniele Derossi, conferisce ufficialmente ad Annibale e Giorgio Rigotti l’incarico di studiare «un primo abbozzo di progetto per la costruzione di un padiglione sussidiario del Palazzo delle Esposizioni»5. Il Servizio Costruzioni e Impianti e in particolare la Direzione Progetti Edili6, ufficio interno alla Divisione a sua volta articolato in diversi servizi con competenze specifiche, affianca fin dai primi studi i due professionisti torinesi occupandosi delle prestazioni tecniche per la direzione lavori e dello sviluppo del progetto sotto l’aspetto statico e impiantistico. L’ingegnere Luigi Ravelli riveste il ruolo di capocommessa, mentre a Vittorio Bonadè Bottino, «consulente onorario»7 del progetto, spetta il compito di coordinare tutte le azioni, sovrintendere le gare d’appalto e controllare l’attività edilizia. I due progettisti torinesi presentano tre diverse soluzioni8 e il comitato Torino Esposizioni, su indicazione di Bottino e Ravelli, opta per lo sviluppo della proposta che prevede «due saloni a galleria con elementi finali e di cerniera»9 e chiede che vengano fornite indicazioni più dettagliate, sulla base delle quali il Servizio Costruzioni e Impianti possa sviluppare i particolari costruttivi e strutturali per l’impostazione di un computo metrico attendibile. Vengono, inoltre, forniti dallo stesso Ravelli alcuni suggerimenti sulla collocazione che il nuovo complesso deve assumere, «in una zona allestita a parco in modo che un opportuno isolamento possa conferire all’edificio una linea e un carattere di spiccata singolarità distaccandolo e differenziandolo dall’edificazione circostante»10. Tra il settembre 1957 e il febbraio 1958, i Rigotti sviluppano nel dettaglio il progetto e parallelamente al lavoro dei due progettisti, nel marzo 1958, il Servizio Costruzioni e Impianti mette a punto uno schema dove vengono presentate otto ipotesi a confronto di riduzione progressiva dell’impianto generale, per valutarne l’abbattimento dei costi11.
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Due mesi dopo, quando vi erano ancora dei dubbi riguardo la soluzione da adottare, è la Divisione Fiat che prepara un nuova proposta che differisce nettamente dalle altre per il suo sviluppo parallelo a corso Unità d’Italia già corso Polonia, con ampi saloni disposti su due livelli uniti da una corte quadrata aperta verso l’interno, dove allo sviluppo del progetto architettonico si affiancano degli schemi di riutilizzo delle strutture pensate come aree attrezzate per diverse attività sportive12 (figg. 2-3). A fronte di questi studi, nel giugno 1958 si ritorna a una delle proposte elaborate nel settembre 1957: un unico contenitore a pianta circolare con salone anulare chiuso verso l’esterno e aperto su un giardino centrale. Il progetto strutturale viene portato avanti dal Servizio Costruzioni e Impianti che elabora una suddivisione in 87 campate realizzate con travi precompresse di 30 metri di luce poggianti su pilastri perimetrali e portanti il solaio piano di copertura13. Solo nel marzo 1959 viene lanciato l’appalto concorso unicamente per la struttura della cupola, vinto dall’impresa Gastone Guerrini di Torino su progetto degli ingegneri Franco Levi e Nicolas Esquillan. Nonostante i lavori commissionati per conto terzi, il cliente di gran lunga più importante per la Divisione continua a essere la Fiat. A partire dalla metà degli anni cinquanta il disegno delle fabbriche e dei suoi spazi comincia a colorarsi di inedite valenze come laboratorio sperimentale di un nuovo rapporto tra uomo, tecnica e architettura, in cui si ritrovano le specificità interne agli indirizzi disciplinari, e dove le diverse figure professionali, ingegneri e architetti, sono coinvolte non solo nella progettazione dell’edificio ma anche del suo processo produttivo. In particolare, la progettazione strutturale degli stabilimenti commissionati dalla prima industria automobilistica italiana viene affidata, in alcuni casi, direttamente alle imprese e a professionisti esterni, sulla base di rigidi capitolati di appalto che prevedono indicazioni strutturali di massima e che forniscono contemporaneamente tutti gli elementi necessari a consentire un sistema di lavoro condiviso, e non più riscontrabile nella progettazione di nuovi complessi industriali a partire dagli anni settanta. Riccardo Morandi è tra i primi e più noti ingegneri a lavorare da «esterno» al Servizio Costruzioni e Impianti Fiat. Se l’ingegnere romano esce dall’anonimato con la costruzione del padiglione sotterraneo di Torino Esposizioni (1958-1959), in realtà già nel 1956 viene chiamato per la progettazione delle strutture in cemento armato precompresso dello stabilimento Fiat di Napoli, il primo della società torinese costruito nel Sud Italia (fig. 4). Sulla base del capitolato d’appalto predisposto, Morandi insieme all’impresa Decina & Giovannetti, mette a punto il sistema strutturale dei nuovi fabbricati. Il progetto, tenuto ai margini del dibattito disciplinare e così semplice all’apparenza, si sviluppa su un solo piano e presenta una pianta rettangolare; un unico fabbricato composto di diverse strutture in cemento armato precompresso, come le travi di copertura a cassone
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2. SERVIZIO COSTRUZIONI E IMPIANTI FIAT, TORINO ESPOSIZIONI, NUOVI PADIGLIONI DI CORSO POLONIA, SOLUZIONI PROPOSTE, 12 MARZO 1958. ARCHIVIO MAIRE TECNIMONT, MILANO, T353.
3. SERVIZIO COSTRUZIONI E IMPIANTI FIAT, STUDIO PER SALONI DI ESPOSIZIONE, 13 MAGGIO 1958. ARCHIVIO MAIRE TECNIMONT, MILANO, 2603.
4. INGEGNERE RICCARDO MORANDI, STABILIMENTO FIAT A NAPOLI, STUDIO DELLA COPERTURA, SEZIONI. ARCHIVIO MAIRE TECNIMONT, MILANO, E536.
cavo del magazzino fronte nord eseguite a conci prefabbricati montate in opera e tesate. Sempre in calcestruzzo precompresso sono tutte le travi principali trasversali del fabbricato officina che sorreggono le capriate, su una maglia di 12,5 x 12,5 metri, ottenendo uno schema di distribuzione dei pilastri che regola lo spazio distributivo sia dello stabilimento che dell’area sulla quale insiste. Queste travi dalla caratteristica sezione a C sono gettate a terra campata per campata e, dopo parziale tesatura dei cavi, sollevate tramite gru e appoggiate sulla testa dei pilastri di sostegno. La continuità della maglia sugli appoggi è ottenuta tramite la saldatura finale di apposite barre di acciaio, sporgenti dall’estremità delle travi. Le travi reggicapriata a doppio T sono prefabbricate e solidarizzate tra loro con un getto di seconda fase in corrispondenza dell’appoggio sui pilastri, in modo da formare una serie di travi continue, e in corrispondenza del giunto di dilatazione si sdoppiano in due tipi, a forma di C e a forma di L rovesciata, mentre il solaio è di tipo misto in calcestruzzo e laterizi. Vi è una fitta corrispondenza tra Morandi, l’impresa e i responsabili di progetto del Servizio Costruzioni e Impianti, e in molti casi tra Morandi e lo stesso Bonadè Bottino, che chiarisce l’atteggiamento dell’ingegnere romano nei confronti del cantiere, luogo dove provare la validità delle scelte progettuali e depositario ultimo delle particolarità esecutive. Non sempre i disegni forniti si uniformano ai disegni di progetto contrattuali e ai corrispondenti particolari di finitura dei prospetti e degli interni e, in un paziente dialogo con i tecnici della Divisione e con continui sopralluoghi in cantiere, cerca di convincere i più scettici delle soluzioni adottate in un impegno continuo nel discutere anche nei dettagli le modalità applicative di realizzazione, le componenti e la qualità del cemento utilizzato dall’impresa. In realtà, all’inizio del 1957 Morandi propone una soluzione per la copertura a shed a falda curva, cui viene preferito un progetto più tradizionale, con shed triangolari. In questi stessi anni «l’altra» società automobilistica torinese, la Lancia, nonostante le difficoltà finanziarie, decide di investire su una politica dell’immagine, costruendo a Chivasso un nuovo stabilimento in grado di potenziare la produzione di automobili divisa tra le sedi di Torino e Bolzano. L’Ufficio Tecnico Lancia, guidato dall’architetto torinese Nino Rosani, mette a punto un primo progetto in cui viene decisa la disposizione planimetrica dei diversi reparti, ma senza la precisazione delle dimensioni o delle tecniche costruttive da adottare. Si tratta in realtà di studi che mettono in evidenza come i tecnici all’interno della Lancia non fossero ancora in grado di portare avanti in totale autonomia la progettazione di un impianto come quello di Chivasso, con la cui realizzazione la società puntava a superare la sua arretratezza tecnica. Il Servizio Costruzioni e Impianti Fiat, forte delle competenze maturate in questo par-
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5. INGEGNERE SILVANO ZORZI, STABILIMENTO LANCIA A CHIVASSO, FABBRICATO RIMESSA SOLUZIONE SOLAIO A FUNGO SCALA FRONTE NORD CARPENTERIA, GIUGNO 1961. ARCHIVIO MAIRE TECNIMONT, MILANO, E69.
ticolare settore, viene chiamato per la progettazione dello stabilimento e studia una disposizione dei fabbricati che segue in buona parte l’impostazione planimetrica di Mirafiori, con un dimensionamento proporzionale alle capacità produttive delineate dalla committenza. Vengono predisposti nel dettaglio i capitolati d’appalto per le imprese e gli ingegnerei progettisti e stabilite le maglie dei principali capannoni che riprendono le caratteristiche formali del nucleo originario di Mirafiori, benché differiscano per la struttura, in carpenteria metallica su una maglia di 24 x 12 metri. Nel 1961, per la progettazione del fabbricato collaudo vetture, viene chiamato l’ingegnere milanese Silvano Zorzi14, il quale, diversamente da come viene prescritto nei capitolati d’appalto, ne rivede la maglia e le dimensioni, adottando uno schema statico semplice risolto con una soluzione inedita15 (fig. 5). L’edificio presenta una rampa esterna di collegamento tra il piazzale parcheggio vetture e il primo piano e si sviluppa su tre piani con solai a piastra su pilastri a fungo in cemento armato di sezione ottagonale, le cui dimensioni variano progressivamente dal basso verso l’alto su una maglia di 12 x 12 metri. La forma costruttiva scelta raccoglie
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bene l’eredità maillartina del progetto per il deposito federale per il grano di Altdorf in Svizzera del 1912, e questo stesso tipo di soluzione sarà usata dallo stesso Zorzi nel 1975 su una maglia di 13 x 16 metri per il corpo basso della nuova sede della Peugeot a Milano16. Nel 1969, la mancanza alla guida della Lancia di un vertice imprenditoriale stabile e determinato nelle proprie scelte strategiche troverà una soluzione definitiva solo con l’assorbimento da parte di Fiat, ponendo così fine alla Lancia come società indipendente. A partire dal 1971 si decide di ampliare e apportare alcune modifiche allo stabilimento, il fabbricato rimessa progettato da Zorzi viene trasformato in officina finizione e collaudo vetture, e lo stesso ingegnere milanese è contattato per la disposizione del progetto. Questi progetti così diversi fra loro fanno emergere come la Fiat, attraverso il suo Servizio Costruzioni e Impianti, cerchi di assumere, nella progettazione di edifici industriali e non, un singolare prestigio sostenuto dalla ricerca di una componente strutturale di alta qualità, ancora garantita dall’indispensabile apporto di ingegneri esterni alla società.
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Il Servizio Costruzioni e Impianti Fiat viene fondato nel 1937 come ente responsabile delle progettazioni e costruzioni della società e, a partire dalla metà degli anni quaranta, da ufficio tecnico aziendale viene trasformato in una vera e propria sezione tecnico amministrativa 2 Il progetto, iniziato nel 1954, prevede una galleria autostradale con una lunghezza complessiva di circa 5.854 metri, costituita da una carreggiata a due corsie a doppio senso di marcia, con il piano viabile di 7 metri di larghezza, realizzato di pari passo allo scavo di perforazione e al rafforzamento del varco mediante getti di calcestruzzo. Il solaio piano che forma il soffitto del piano viabile ricava superiormente i canali per la ventilazione ed è costituito da travi prefabbricate a vista in cemento armato precompresso con soletta mista. Il collaudo delle strade di collegamento alla statale e dei ponti prossimi alla galleria sul lato italiano viene effettuato nel 1963 dall’ingegnere Giuseppe Maria Pugno, professore e preside della Facoltà di architettura del Politecnico di Torino, archivio Maire Tecnimont, Milano, E288, 1632, 1633, 1756, 1804, 1909. 3 Nel 1978 lo stesso Bocca sarà direttore dell’intero Settore Infrastrutture, archivio Maire Tecnomint, Milano, T784. 4 Nel 1963, la Società Italiana Traforo del Ciriegia affida al Servizio Costruzioni e Impianti Fiat la redazione del progetto di massima della galleria, che però non sarà mai realizzata. Giorgio Dardanelli, forte dell’esperienza maturata nella direzione del cantiere per il Gran San Bernardo, è incaricato della progettazione della nuova galleria, archivio Maire Tecnimont, Milano, da T133 a T146. 5 Lettera della Società Torino Esposizioni all’architetto Annibale Rigotti e all’ingegnere Giorgio Rigotti, Torino, I° agosto 1957, archivio Maire Tecnimont, T353. 6 L’ufficio è a sua volta articolato in diversi servizi con competenze specifiche, come il Servizio Urbanistica, che sviluppa prevalentemente piani regolatori, comprensoriali e di lottizzazione, ma anche studi architettonici e di infrastrutture per insediamenti civili e industriali. La direzione di questo stesso ufficio alla fine degli anni sessanta è affidata proprio a Giorgio Rigotti, archivio Maire Tecnimont, Milano, D7372. 7 Lettera della Società Torino Esposizioni all’architetto Annibale Rigotti e all’ingegnere Giorgio Rigotti, cit. 8 La «soluzione A» prevede un salone unico centrale a tre navate suddivise da esili colonnine in acciaio, mentre dietro il portico aperto di collegamento viene previsto un ampio giardino per mostre. La soluzione B consta di due saloni a galleria con elementi finali e di cerniera, con ingresso spostato su un lato e disimpegno diretto alla zona mostre. La soluzione C sviluppa un salone a galleria anulare spostato verso la parte più ampia e regolare del lotto, fascicolo con relazione delle tre soluzioni (A, B, C) elaborate dallo Studio A. & G. Rigotti, s.d., archivio 1
Maire Tecnimont, Milano, T353. Sull’argomento si veda C. CHIORINO, «Cantiere Italia 61». La ville industrielle costruisce i suoi simboli, Tesi di dottorato, Dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica, XVII ciclo, tutor: professor Carlo Olmo, aprile 2005. 9 Studio A. & G. Rigotti, Torino Esposizioni, Nuovo padiglione sussidiario in corso Polonia, relazione, computi, schemi, 16 settembre 1957, archivio Maire Tecnimont, Milano, T353. 10 Ingegnere Luigi Ravelli, Appunti sulla Costruzione d’un nuovo padiglione sussidiario di T.E., s.d., archivio Maire Tecnimont, Milano, T353. 11 Servizio Costruzioni e Impianti Fiat, Torino Esposizioni, Nuovi padiglioni di corso Polonia, Soluzioni proposte, 12 marzo 1958, archivio Maire Tecnimont, Milano, T353. 12 Servizio Costruzioni e Impianti Fiat, Studio per Saloni di Esposizione, 13 maggio 1958, archivio Maire Tecnimont, Milano, 2603. 13 G. RIGOTTI, Funzionalità e architettura nei Palazzi per Mostre. Il nuovo Palazzo delle Mostre di «Torino Esposizioni» nel comprensorio di «Italia 61», in «Atti e Rassegna Tecnica», 1961, giugno, n. 6, p. 188. 14 Anche Pier Luigi Nervi nel 1959 viene chiamato dalla Lancia per studiare la copertura in cemento armato e strutture di sostegno per alcuni capannoni del nuovo stabilimento. Propone diverse soluzioni, tra cui la più caratteristica presenta sempre una maglia 24 x 12 metri, con shed parabolici in volte sottili che assolvono funzioni di lucernario e che ricordano quelli usati dall’ingegnere di Sondrio per il deposito tranviario di Torino, pensati prefabbricati a terra e assemblati in opera. Il progetto per il reparto presse dello stabilimento di Chivasso verrà realizzato dalla società Ilva Costruzioni Metalliche di Milano su progetto dell’ingegnere Giovanni Corona, R. D’ATTORRE, Dopo Torino Esposizioni. Studi di coperture per progetti «minori» (1948-1959), in S. PACE (a cura di), Pier Luigi Nervi. Torino, la committenza industriale, le culture architettoniche e politecniche italiane, catalogo della mostra (Torino, 29 aprile-17 luglio 2011), Silvana, Cinisello Balsamo, 2011, pp. 43-47. 15 Progetto per fabbricato collaudo vetture, stabilimento di Chivasso, progettista ingegnere Silvano Zorzi, impresa Farsura (Milano), archivio Maire Tecnimont, Milano, E69. 16 Entrambi gli ingegneri in seguito all’esperienza di collaborazione maturata con il Servizio Costruzioni e Impianti vengono «arruolati» nella progettazione di alcuni viadotti dell’autostrada Torino-Savona. Riccardo Morandi progetta, con l’impresa Sogene (Roma), i viadotti di Tapello, Prete, Lidora, Strette, Nanta, Bianca e Bormida di Pallare del tratto Savona-Ceva, mentre Silvano Zorzi, con l’impresa Moviter (Torino), i viadotti sullo Stura e sul Sabbione del tratto Fossano-Torino, archivio Maire Tecnimont, Milano, E421, E422, T1047, T1050.
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Giorgio Dardanelli, Riccardo Morandi, Giorgio Rigotti, Silvano Zorzi and the Servizio Costruzioni e Impianti Fiat
T
he Servizio Costruzioni e Impianti Fiat (Fiat Construction and Installation Division), starting from the second postwar period has had extensive experience in civil engineering and building installations, gradually gaining an extremely differentiated technical know-how. The Division’s design project regarding the construction of infrastructures was managed by some remarkable engineers, Giorgio Dardanelli was one of them and he had been in charge of managerial duties between 1951 and 1974. Fiat was in charge of the design project for the Italian side of the Gran San Bernardo motorway tunnel, inaugurated in 1964. In particular, Dardanelli took care of the coordination and the construction phase and also managed construction works. The technical difficulties during the construction phase mainly occurred during the excavation, so that specific self-propelled drill rigs, formworks and concrete casting system were studied and manufactured. A covered road on both sides, the first time that such a solution was largely used to access a tunnel, made a 1,900 metres high mountain pass safely accessible, thus solving a long-time issue. Another office used to work within the Divisione Costruzioni e Impianti: the Direzione Progetti Edili (Building Projects Division), structured into several divisions with a specific expertise. This sector in the late 1970s was totally entrusted to Giorgio Rigotti, engineer and professor at the Polytechnic of Turin who, together with his father, architect Annibale Rigotti, designed the new Palazzo delle Mostre (1957-1961) (Exhibition Palace), on behalf of Società Torino Esposizioni. Since the first in-field studies the Servizio Costruzioni e Impianti had always supported the two Turin’s professionals, dealing with technical issues regarding construction management and design project development in terms of static and building installations matter. Simultaneously to the Rigotti’s studies, in March 1958 the Servizio Costruzioni e Impianti presented a scheme including eight different possibilities to gradually reduce the building installations, so to consider cost reduction. Two months later, when the possibility was not chosen yet, the Servizio Costruzioni e Impianti proposed a radically different solution compared to the previous ones, since the new building was running parallel to corso Polonia, with large halls on two storeys, connected by a squared court opening inwards. This new design project also allowed the possibility of reusing some equipped areas for multiple sports activities. The call for tender regarding the construction of the dome was launched in March 1959, and was won by Guerrini building firm thanks to a design project by engineers Franco Levi and Nicolas Esquillan. Even though the construction works were outsourced, the most important client of the
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Servizio Costruzioni e Impianti was still Fiat. A specialist expertise, which could not be found within the division, was still necessary to design industrial plants so to create a collective working methodology. Riccardo Morandi was one of the first and most famous engineers to work as an external consultant for Servizio Costruzioni e Impianti. In 1956 he was entrusted with the design of the new Fiat plant in Naples and, according to the tendering specifications, he developed, in collaboration with Decina & Giovannetti building firm, the structure of the new prestressed reinforced concrete buildings. Although Morandi proposed a pitched roof for the northlight shed at the beginning of 1957, a more traditional solution with triangle-shaped glazing was finally chosen. In those years, the “other” Turin’s automotive company, Lancia, decided to invest on the company’s image and built a new plant in Chivasso, near Turin. The Ufficio Costruzioni e Impianti Lancia (Lancia Construction and Installation Division), led by architect Nino Rosani drew up a first design project. Actually, this consisted of a series of studies highlighting the fact that Lancia’s technical staff were not able to design such an advanced plant completely alone by that time. Therefore, Fiat’s Servizio Costruzioni e Impianti was asked to design the plant and study the layout of the shops constituting it, partly in line with the layout plan of Fiat Mirafiori plant. In 1961 the Milan’s engineer Silvano Zorzi was entrusted with the design of the vehicle testing shop and the architect, not in compliance with the tendering specifications, modified the mesh and its size, by adapting a static scheme through an innovative solution: plate floors laying on mushroom octogonal slabs, whose size slightly changes from bottom to top, a form resulting from the Malliart’s legacy represented by the 1912 “Grain storage of the Swiss Confederation” in Altdorf. Fiat company had a positive attitude towards the options that professionals not making part of the Servizio Costruzioni e Impianti proposed for civil buildings. Nevertheless, in terms of industrial buildings the company was still reluctant to test less conventional structural possibilities compared to the typical mid-1950s patterns. On the other hand, the strict logic based on practical indications that had consolidated since the construction of the Mirafiori plant in Turin was still in place. The difference between these two buildings is so evident that demonstrates how the whole Servizio Costruzioni e Impianti used to implement a systemic method, relying on multidisciplinary actions and some specifications regulating the contributions by experts not working for Fiat at several development levels and stages, especially for static and structural testing.
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Le coperture a grande luce nell’opera di Sergio Musmeci ALESSANDRO BRODINI
U
n gruppo di opere di particolare impegno strutturale che, accanto alla progettazione dei ponti, ha occupato la trentennale carriera di Sergio Musmeci (19261981) è quello delle coperture a grande luce. L’analisi delle proposte elaborate dall’ingegnere romano in questo campo di ricerca evidenzia uno sviluppo nella sua concezione strutturale: se inizialmente, e per gran parte della sua carriera, Musmeci vede nella dinamica delle forze il principio generatore delle forme, negli ultimi progetti emerge invece un interesse per la messa in scena di uno spazio improntato sull’adozione di una geometria astratta, depurata da qualsiasi contenuto statico. Dall’organicismo di opere come il ponte sul Basento a Potenza ai reticoli di aste prismatiche delle installazioni realizzate per una mostra a Roma nel 1979: è a questa dialettica interna alla ricerca di Musmeci che viene dedicato il presente approfondimento. Musmeci è uno tra i più importanti ingegneri del secondo Novecento italiano e, come i suoi due più noti colleghi Nervi e Morandi, presso i quali ha svolto un prestigioso tirocinio dopo la laurea alla Sapienza (1948), mira al superamento della netta scissione tra architettura e ingegneria, affiancando all’attività professionale un’intensa ricerca teorica con l’obiettivo di aprire nuove vie di sviluppo per l’ingegneria strutturale. Inoltre, la collaborazione con alcuni tra i più grandi architetti contemporanei, per esempio Libera, Vaccaro e Mollino, gli consente di affinare una non comune sensibilità per gli aspetti più specificatamente architettonici dell’arte del costruire. Presentando sulle colonne de «L’industria italiana del cemento» la sua opera più famosa, il ponte sul Basento, Musmeci scrive: «Da tempo sono convinto che una struttura può essere progettata in modo da dare attraverso la sua stessa forma, una informazione completa sulla propria funzione, e d’altra parte non conosco altro modo per caricare una forma strutturale di un potenziale di comunicazione»1. Queste parole contemplano un rimando al binomio forma-funzione che riecheggia ovvie formulazioni novecentesche ma che, nell’ottica dell’ingegnere romano, viene traguardato attraverso lo speciale filtro della struttura. Secondo Musmeci, la forma di una struttura non è semplicemente il fattore che risolve un problema tecnico; essa costituisce anche un veicolo di comunicazione sul piano espressivo, così che tutto ciò che risulta «essenziale per il comportamento della struttura [...] dovrebbe far parte della forma visibile, in modo da essere comunicato come un messaggio»2. E sebbene l’espressività strutturale si fondi proprio sulla possibilità concessa a ciascuno di «afferrare un fatto statico con un at-
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to sintetico dello spirito»3, è necessario guidare l’osservatore rendendo manifesti gli aspetti che caratterizzano il comportamento statico del sistema. In che modo, dunque, la forma può rendere conto della sua funzione? Attraverso quali percorsi si può progettare una struttura che sia contemporaneamente parlante, bella e moderna? E, infine, come supera Musmeci, nelle ultime opere, l’esigenza di esplicitare gli equilibri tensionali per mezzo della forma? Il tema delle coperture a grande luce, affrontato dall’ingegnere sia in proposte rimaste allo stato progettuale, sia in edifici effettivamente costruiti, ci può aiutare a trovare una risposta agli interrogativi proposti. Le scelte che Musmeci compie tra le diverse tipologie di grandi coperture devono essere inquadrate nell’ambito della sua indagine teorica, poiché esse ne riflettono i risultati. La seconda laurea in ingegneria aeronautica, implicando lo studio di organismi realizzati con materiali resistenti, sottoposti a sollecitazioni diversificate al variare del contesto esterno, deve aver fornito a Musmeci un punto di vista privilegiato per lo studio delle coperture leggere. Nel libro La statica e le strutture (1971), egli offre una sistematizzazione della sua ricerca, il cui scopo emerge esplicitamente nell’ultima frase del testo, dove si auspica la fondazione di «una vera e propria teoria della progettazione strutturale, capace di contribuire alla scoperta o all’invenzione di nuove forme per le strutture»4. Questa rinnovata teoria dovrebbe da un lato ribaltare l’uso tradizionale della scienza delle costruzioni, impiegata solo in fase di verifica ma non come strumento attivo di progettazione, dall’altro basarsi sul principio dell’ottimizzazione secondo il quale una grande struttura viene concepita in modo che l’impiego di materiale sia il minimo possibile, elevandone cioè il rendimento, e allo stesso tempo in modo che le forze fluiscano in essa naturalmente5. Nel tentativo di ridurre la quantità di materia, il progettista si avvicina a quello che Musmeci definisce «minimo strutturale»6 (uno schema ideale, paragonabile a ciò che il ciclo di Carnot rappresenta per la termodinamica) e assolve al compito statico, ovvero dà forma a «un sistema di forze che interagiscono in un gioco sapiente, o per lo meno non banale, di equilibri»7. Così, non è l’arditezza della concezione o della realizzazione quel che rende bella una struttura: è invece la capacità di orchestrare le tensioni in campo ciò che trasforma un fatto tecnico in sintesi architettonica8. L’architettura strutturale, inoltre, deve essere autenticamente moderna, ovvero «invadere tutto lo spazio tridimensionale»9. Vi sono due vie che, secondo Musmeci, consentono di perseguire tali obiettivi: la prima conduce alla geometria del continuo e crea forme come gusci, membrane e tensostrutture; la seconda si orienta verso la geometria del discreto, sull’esempio delle strutture reticolari10. Le coperture progettate da Musmeci sono il frutto del cammino compiuto su entrambe le strade. In diversi scritti egli sottolinea come nel periodo tra le due guerre, quando si diffusero, soprattutto in Germania, le prime volte sottili, si perse l’occasione per creare opere in
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cui la forma coincidesse con il contenuto statico; in tal modo queste strutture, potenzialmente così moderne e aderenti alle possibilità del cemento armato, presto «morirono di morte naturale»11, sia perché gli architetti non dominavano la geometria differenziale e gli ingegneri non fornivano strumenti di calcolo per la scelta di forme più libere, sia per le oggettive difficoltà nella costruzione di casseforme troppo complesse. Il concetto che tali coperture siano autoportanti e resistenti per forma proprio in virtù di corrugamenti tutto sommato arbitrari risulta agli occhi di Musmeci troppo generico e, infatti, egli si sforzerà di far scaturire la forma da ragioni statiche. Inizialmente però egli non ha ancora pienamente focalizzato questa esigenza e, in uno dei primi esempi realizzati, le piegature della soletta nascono da esigenze formali, più che intrinsecamente statiche. È la palestra della Scuola nazionale di atletica leggera costruita a Formia per il Coni (1954-1955), in collaborazione con Vitellozzi: un grande volume rettangolare in calcestruzzo armato, con una luce libera di quasi 20 metri, coperto da una soletta a pieghettature parallele al lato corto e poggiata su due travi reticolari di 35 metri che distribuiscono i carichi su quattro punti d’appoggio posti agli angoli della pianta12. A proposito di questa copertura Musmeci riconosce una certa «audacia che in fondo era anche in parte incoscienza»13 per una soluzione che veniva realizzata per la prima volta, e ricorda il parere negativo (di cui non tenne conto) di Nervi, il quale liquidò il progetto con un lapidario: «No, così non si può fare, non si regge»14. Le falde inclinate alternativamente nei due sensi creano sei campate uguali, mentre le due estreme hanno una diversa inclinazione, si prolungano e poi si piegano a formare un traliccio di irrigidimento, che contribuisce a diminuire del 15% il momento flettente nella mezzeria della travata; questa presenta una specializzazione delle parti in base alla concentrazione degli sforzi. Visitando il cantiere, Musmeci si era reso conto che il disegno creato dai ferri d’armatura nelle falde, disposti secondo l’andamento delle isostatiche, «era piuttosto bello [...], però era una bellezza che poi andava nascosta. Fatto il getto non si sarebbe più vista»15. La consapevolezza che la copertura di Formia non esprima pienamente il proprio carattere strutturale spinge Musmeci ad approfondire un percorso progettuale che approda al laboratorio Raffo per la lavorazione del marmo, realizzato a Pietrasanta con Calini e Montuori (1956)16. Qui le dimensioni sono inferiori (luce libera massima 12 metri), ma la pieghettatura della soletta nasce dalle tensioni a cui essa è sottoposta; il corrugamento, cioè, segue il variare degli sforzi flettenti nelle diverse parti della copertura (fig. 1). In tal modo la forma denuncia, o meglio, è determinata dalle tensioni e viene ricavata attraverso un processo geometrico e matematico. Partendo dalla considerazione che nel calcestruzzo gli sforzi di trazione si concentrano nei ferri di armatura, Musmeci dispone quelli principali negli spigoli, tesi, mentre le compressioni sono visualizzate dai tratti di soletta (destinata a rimanere a vista e spessa solo 10 centimetri) compresa tra gli spigoli. Questi vengono mantenuti rettilinei, a creare una sorta di tra-
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1. SERGIO MUSMECI, LABORATORIO RAFFO A PIETRASANTA, 1956. COURTESY ARCHIVIO SERGIO MUSMECI E ZENAIDE ZANINI, MAXXI, ROMA, F 9764.
liccio di allineamenti che non solo facilita la predisposizione delle armature ma, sulla scorta delle considerazioni proposte da Giuseppe Vaccaro, secondo cui la lettura di un’architettura avviene attraverso schemi geometrici invarianti rispetto ai movimenti dell’osservatore, aiuta anche nella percezione dello spazio17. Musmeci considera quest’edificio una sorta di esperimento in cui il «dare forma visibile ai momenti flettenti»18 diviene una scelta progettuale che consente di formulare un giudizio sulla qualità dell’architettura, come egli stesso evidenzia esprimendosi con parole di apprezzamento per la grande copertura di un hangar a San Francisco, realizzata da Goldsmith19. Lo stesso tema del trasporre la realtà strutturale nella forma percettibile impegna Musmeci anche in altre coperture realizzate alla fine degli anni cinquanta: quella per il cinema di Montecchio Maggiore (Vicenza, 1957) e quella per il ristorante dello Stadio del Nuoto (Roma, 1959); rimangono invece allo stato di progetto quelle per una palestra a Frosinone e per la cappella dei Ferrovieri a Vicenza (1958)20. In questi stessi anni, Musmeci sperimenta anche un uso più organico e fluido delle forme, che in alcuni casi rimandano chiaramente al mondo della natura, di cui è un appassionato osservatore. In uno schizzo, rimasto a livello preliminare (fig. 2), sembra che egli studi la conchiglia Corculum Cardissa, di cui possedeva un esemplare, per trasformarla in una grande copertura, forse una sala per la musica (altra sua passione) o comunque uno spazio per il pubblico, poiché pare di potervi intravedere l’accenno
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a una gradinata. Vi sono altre proposte, rimaste allo stato progettuale, che testimoniano la sua attenzione per le volte sottili e in cui abbandona gli spigoli in favore delle linee curve. Nell’appalto concorso per i Mercati Generali di Roma, presentato in collaborazione con Vitellozzi, Castellazzi e Dall’Anese (1958), Musmeci si occupa dei plateatici della frutta e verdura: qui propone una membrana a compressione uniforme ed è proprio la condizione dell’equicompressione (innestata da cavi messi in tensione in alcuni punti fissi sui bordi) a determinare matematicamente la forma ondulata, caratterizzata da aperture a occhiello in corrispondenza degli appoggi, dove la membrana si incurva scendendo fino a terra con una sezione a C. Per tali occhielli, il riferimento che lo stesso Musmeci richiama è Frey Otto, con la differenza però che le strutture del collega tedesco sono tutte tese21. Nel progetto per lo stabilimento Ursus a Cassino (1961), una concezione simile guida l’ideazione della bellissima superficie lievemente increspata, stesa tra i più ordinari corpi di fabbrica degli uffici, traforata da bucature che scendono fino a terra a formare i pilastri (fig. 3). È invece un’onda che esce dal mare la grande volta sottile, con luce di circa 80 metri su base triangolare, pensata da Musmeci e Zenaide Zanini per il monumento ai Mille a Marsala (1960)22. Anche per il Palazzo del Lavoro di Torino (1959) è previsto l’uso di volte sottili. Musmeci, Mollino e Bordogna presentano, su un impianto di base comune, tre soluzioni molto diverse per la copertura: si è generalmente ritenuto che la loro collaborazione sia stata così intrecciata da non consentire di individuare le scelte di ciascun progettista. In
2. SERGIO MUSMECI, STUDIO PER UNA COPERTURA (?), ANNI CINQUANTA, MATITA SU CARTA DA LUCIDO, 395 X 790 MM. COURTESY ARCHIVIO SERGIO MUSMECI E ZENAIDE ZANINI, MAXXI, ROMA, 28841.
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3. SERGIO MUSMECI, COPERTURA DELLO STABILIMENTO URSUS DI CASSINO, 1961, CHINA SU CARTA DA LUCIDO, 235 X 1090 MM. COURTESY ARCHIVIO SERGIO MUSMECI E ZENAIDE ZANINI, MAXXI, ROMA, 27970).
realtà, sulla base dei documenti dell’archivio Musmeci è possibile determinare con certezza la paternità delle tre coperture23. La soluzione C è quella elaborata da Musmeci e prevede una volta sottile parzialmente prefabbricata. Date le dimensioni consistenti di 147x170 metri, il sistema di volte si articola in una serie di squarci e aperture per l’illuminazione e la grande spinta della parte centrale, con spessore in chiave di soli 7 centimetri, viene in parte contrastata da tiranti in acciaio disposti con interasse di 10 metri, messi in tensione tramite martinetti. La differenza tra la spinta della volta centrale e quella delle due laterali viene inoltre assorbita da una serie di puntoni a V, appoggiati sui tiranti, che rimanda al progetto del ponte sull’Astico presso Vicenza (1956), in cui i piedritti dell’arcata centrale si comportano esattamente come puntoni soggetti a compressione semplice. Invece, il disegno dei sostegni laterali del grande salone ha un chiaro riferimento formale, ma anche concettuale, ad altri due ponti: quello, solo progettato, sul Tevere a Tor di Quinto (1958-1959) e quello sul Basento24. Non si tratta cioè di pilastri veri e propri, ma di un sistema di volte sottili a doppia curvatura la cui forma, nascendo dalle condizioni imposte al regime degli sforzi (riduzione al minimo dei disturbi flessionali e massima utilizzazione del materiale a compressione uniforme), assicura l’integrale utilizzazione delle capacità resistenti della materia; persegue cioè il principio dell’ottimizzazione. La forma viene ricavata con l’ausilio di un modellino in cui la soluzione saponosa si dispone tra i contorni rigidi (superiormente le linee di contatto con la trave cava, inferiormente la fondazione); i bordi liberi invece sono rappresentati da fili flessibili messi in tensione dal film stesso (fig. 4). Anche le tensostrutture rivestono per Musmeci un interesse particolare, poiché in esse la forma deriva dall’equilibrio statico legato alla deformabilità dei cavi: il progettista è così obbligato a concepire una forma che non può essere casuale, ma che deve tenere conto degli stati tensionali in gioco25. Musmeci applica questi principi al progetto di concorso per il palazzo dello sport di Firenze (1965), dove propone una tensostruttura in cui tutti i cavi del reticolo spaziale, previsti in acciaio, vengono sottoposti al medesimo sforzo di trazione e creano una rete equitesa, composta da tre famiglie di cavi che assicu-
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rano la rigidità completa della struttura26. L’impianto generale è simmetrico e articolato attorno a due enormi piloni-traliccio in cemento armato, in forma di iperboloide svasato verso l’alto; un motivo, questo dell’iperboloide, utilizzato anche nel pilastro dell’edificio della Giunta nel Palazzo della Regione a Trento e che conosce un discreto successo presso altri ingegneri del Novecento27. Il progetto, salutato sulla rivista di Zevi come una «soluzione schiettamente strutturalistica», non è esente, secondo il critico, dal rischio di cadere nell’esibizionismo ingegneresco28.
4. SERGIO MUSMECI, STUDIO PER UN SOSTEGNO DEL PALAZZO DEL LAVORO DI TORINO, 1959, MATITA SU CARTA, 299 X 228 MM. COURTESY ARCHIVIO SERGIO MUSMECI E ZENAIDE ZANINI, MAXXI, ROMA, FALD. 13/3.
Invece, una copertura che sfoggia coerentemente il proprio valore strutturale è il deposito Italtubi a Roma, progettato in collaborazione con Livadiotti e Stegher (1963). La richiesta del committente, che l’opera abbia caratteri di eccezionalità strutturale e offra uno spazio il più libero possibile per lo scarico e stoccaggio dei materiali, viene assolta da una copertura in acciaio, sospesa a stralli, che crea una sorta di rete di travi29. Un grande esagono irregolare di 81 x 54 metri, formato da 40 triangoli equilateri, presenta sull’asse longitudinale tre pilastri che escono dalla copertura a quota 6 metri e salgono per altri 20 metri a reggere i tiranti. Vi è una gerarchia nel sistema di travi, che hanno specializzazione funzionale e, di conseguenza, sezioni variabili; i tre piloni, pure a sezione variabile, sono composti da quattro costole con profilo a doppio T e su di essi si aggancia un anello esagonale che funge da cerniera per l’innesto delle travi principali. Il tema della rete di travi per risolvere grandi coperture viene impiegato da Musmeci anche in altri edifici, come la chiesa di San Benedetto al Villaggio del Sole (Vicenza, 1960), la sala conferenze della Biblioteca Nazionale di Roma (1965) e, soprattutto, l’auditorium del Centro Atomico di Trombay, India (con Calini e Montuori, 1960)30. Qui la copertura, con un’ampiezza di circa 40 metri, ha una forma a piramide esago-
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nale ribassata, costituita da una maglia triangolare di nervature, ed è completata da un sistema di travi-parete perimetrali sostenute da quattro pilastroni31. Proprio lo schema reticolare impiegato in questo edificio ci traghetta verso la seconda opzione prospettata da Musmeci per la realizzazione di coperture che si fondano sulla geometria del discreto e che, nuovamente, riflettono la sua contemporanea ricerca teorica. Nel 1979 Musmeci pubblica su «Parametro» un approfondito studio dedicato alla geometria dei poliedri, che egli propone di utilizzare per la realizzazione di strutture spaziali modulari, dove il gioco delle forze non venga più tradotto in aspetti immediatamente percepibili, ma la struttura appaia ora nella sua pura essenza geometrica32. Le prime proposte prendono vita in occasione della Settimana dell’architettura organizzata nel 1979 a Roma dall’In/Arch, quando Musmeci ha la possibilità di coniugare i suoi recenti interessi per la geometria con la sperimentazione di un materiale nuovo prodotto da Italcementi, il calcestruzzo impregnato con polimeri33. Il risultato è duplice: da un lato una serie di «sculture» modulari esposte presso San Salvatore in Lauro in cui Musmeci studia le proprietà dello spazio e le leggi con cui si organizzano i sistemi regolari, dall’altro alcuni modelli tridimensionali per coperture con luci libere fino a 100 metri. L’obiettivo dichiarato è testimoniare uno spazio astratto, scientificamente moderno, depurato da tutte quelle connotazioni che non siano la geometria pura. Ma come ottenere questi sistemi reticolari, nei quali generalmente il problema tecnologico più delicato è il nodo? Musmeci conosce le soluzioni proposte, già negli anni trenta, da Wachsmann, dalle quali però si allontana perché egli utilizza aste con estremità che hanno sezioni uguali alla faccia del poliedro di nodo a cui devono aderire. Una volta collocate tutte le aste, si può immaginare che il poliedro che funge da nodo venga sostanzialmente eliminato. I primi passi in questa direzione erano stati compiuti già vent’anni prima: nel citato ristorante dello Stadio del Nuoto, dove i pilastri presentano una sezione di testa esagonale che si coordina con le falde inclinate della copertura; così come nella struttura reticolare dell’auditorium indiano, in cui il nodo viene risolto con l’incontro di superfici piane; ma anche nel progetto, non realizzato, per il ponte sul fiume Lao (1964), basato su un sistema di aste cave pensate come casseforme a perdere (soluzione riproposta anche per il progetto di ponte sul Niger, 1977). Il sistema reticolare con calcestruzzo impregnato permette di ottenere una struttura fortemente iperstatica, in quanto i nodi sono ora incastri e non cerniere e, secondo Musmeci, tale sistema è particolarmente adatto per la realizzazione di grandi coperture (fig. 5). Una prima proposta era già stata avanzata nel 1974 per coprire il complesso sportivo a Vallo del Diano (Salerno) con una struttura spaziale in lamiera sottile d’acciaio composta da moduli triangolari. Successivamente, tra le possibili applicazioni egli suggerisce l’impiego di una maglia rombododecaedrica (a ogni nodo convergono 12 aste) per la costruzione di un hangar a Beirut (1978). Ma il sistema può essere applicato an-
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5. SERGIO MUSMECI, COPERTURA MODULARE A MAGLIA ROMBODODECAEDRICA, 1978 CIRCA, CHINA SU CARTA DA LUCIDO, 956 X 685 MM. COURTESY ARCHIVIO SERGIO MUSMECI E ZENAIDE ZANINI, MAXXI, ROMA, 28451.
che per opere provvisorie, come nella protezione dell’area della Regia nel Foro Romano (1980), in cui la struttura è pensata in profilati metallici leggeri e giunti a rapido montaggio, che creano una serie di elementi geometrici identici virtualmente estensibile all’infinito e facile da rimuovere. Si tratta di proposte rimaste in nuce e non è chiaro come l’ingegnere avrebbe risolto i rilevanti problemi tecnologici e di montaggio. Certamente, però, questi ultimi progetti testimoniano di una virata negli interessi di Musmeci: ora gli elementi strutturali non vengono connotati dalla funzione statica a cui devono rispondere, ma sono piuttosto «vettori geometrici che offrono un sistema capace di dare leggibilità allo spazio puro»34. In questo modo la lettura degli equilibri statici interni diventa secondaria rispetto alla «percezione dello spazio e delle relazioni geometriche»35. La morte precoce di Musmeci ci ha privato delle applicazioni pratiche di queste ultime ricerche, da cui egli si attendeva «risultati completamente inaspettati, nuovi e significativi»36 e per i quali aveva intrapreso incursioni in nuovi ambiti di indagine, tenendo fede al proposito che, secondo lui, ogni progettista si dovrebbe porre: chi «vuole invadere un campo nuovo, deve necessariamente affrontare l’ignoto»37.
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1 S. MUSMECI, Il ponte sul Basento a Potenza, in «L’industria italiana del cemento» (d’ora in poi IIC), 1977, n. 2, p. 78. 2 ID., Struttura ed architettura, in IIC, 1980, n. 10, p. 778. 3 ID., Dattiloscritto in CCA Collection, Myron Goldsmith fonds, Personal papers and miscellaneous project files, Student records and research notes (1933-1956), c. 1. Ringrazio Luka Skansi per la segnalazione. 4 S. MUSMECI, La statica e le strutture, Cremonese, Roma 1971, p. 132. 5 ID., Il calcolo elettronico e la creazione di nuove forme strutturali, in M. ZEVI (a cura di) Architettura e computer, Bulzoni, Roma 1972, pp. 147-166. 6 ID., Il minimo strutturale, in «L’ingegnere», 1968, n. 5, pp. 407-414. 7 ID., Il ponte... cit., p. 78. 8 ID., Dattiloscritto CCA cit., c. 9. 9 Intervista di Manfredi Nicoletti a Musmeci, 11 novembre 1980, in Archivio Sergio Musmeci e Zenaide Zanini, MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma, (d’ora in poi ASM), fald. B1/4, p. 2.7. 10 S. MUSMECI, La genesi della forma nelle strutture spaziali, in «Parametro», 1979, n. 80, p. 13. 11 Intervista di Carlo La Torre a Musmeci, 7 ottobre 1980, in ASM, fald. B1/4, p. 40. Musmeci dedica la sua tesi di laurea alle volte sottili e, tra i costruttori di grandi coperture, cita spesso Dischinger, Finsterwalder, Torroja e Candela; MUSMECI, La genesi... cit.; ID., Copertura pieghettata per un’industria a Pietrasanta, in «L’architettura. Cronache e storia» (d’ora in poi ACS), 1960, n. 52, pp. 710-713; ID., Caratteristiche principali delle strutture in cemento armato, in «L’ingegnere», 1969, nn. 7-9, pp. 687-694. Per una panoramica sul tema cfr. S. PONE, L’idea di struttura. L’innovazione tecnologica nelle grandi coperture da Freyssinet a Piano, Franco Angeli, Milano 2005. 12 G. VACCARO, Scuola Nazionale di Atletica Leggera a Formia, in ACS, 1956, n. 8, pp. 86-91; R. CAPOMOLLA, Le «forme organiche strutturali». Materia e spazio nelle opere di Sergio Musmeci, in «Rassegna di architettura e urbanistica», 2007, nn. 121-122, p. 137. 13 Intervista di La Torre (cfr. nota 11), p. 10. 14 Intervista di Nicoletti (cfr. nota 9), p. 3.12. 15 Intervista di La Torre (cfr. nota 11), p. 4. 16 MUSMECI, Copertura pieghettata... cit. 17 Intervista di La Torre (cfr. nota 11), p. 39; il testo di riferimento è G. VACCARO, Principi di armonia nell’architettura, in «Spazio», 1952-1953, n. 7, pp. 54-56. 18 ASM, Dattiloscritto in faldone B1/5, p. 26.
Musmeci parla di «un’architettura di forze e di momenti flettenti», ID., Un hangar nell’aeroporto internazionale di San Francisco, in ACS, 1959, n. 43, pp. 63-66. 20 S. MUSMECI, Sergio Musmeci, CESICA, Pordenone 1979, pp. 92-99, 102-103; G. MORGAN, Cinematografo a Montecchio Maggiore, presso Vicenza, in ACS, 1961, n. 69, pp. 162-167; M. NICOLETTI, Sergio Musmeci. Organicità di forme e forze nello spazio, Testo & Immagine, Torino 1999. 21 Intervista di La Torre (cfr. nota 11), p. 24; MUSMECI, Sergio... cit., p. 120-123. 22 Concorso per il Monumento ai Mille, in ACS, 1961, n. 71, p. 357. 23 ASM, faldone P13/3. La «soluzione A», ad archi incrociati in cemento armato è di Bordogna; la soluzione B, a trave Gerber composta da due sbalzi che reggono una trave reticolare in struttura mista, è di Mollino; I progetti vincitori del concorso per il Palazzo del lavoro a Torino, in «Casabella», 1960, n. 235, pp. 33-42; S. PACE, «La verità non è una sola». Carlo Mollino e la difficile professione di architetto negli anni cinquanta, in ID. (a cura di), Carlo Mollino architetto 1905-1973. Costruire le modernità, catalogo della mostra (Archivio di Stato, Torino, 12 ottobre 2006-7 gennaio 2007), Electa, Milano 2006, pp. 117119; scheda di P. M. SUDANO, in C. BORDOGNA NEIROTTI (a cura di), Bordogna 65 anni di architettura, Allemandi, Torino 2001, pp. 47-48. 24 Intervista di La Torre (cfr. nota. 11), pp. 22-23. 25 MUSMECI, Struttura... cit., p. 785. 26 Concorso nazionale per il Palazzo dello Sport di Firenze, in ACS, 1966, n. 128, p. 136. 27 T. IORI e S. PORETTI, Un piccolo iperboloide, in A. COTTONE et al. (a cura di), Benedetto Colajanni. Opere, progetti e scritti in suo onore, Fotograf, Palermo 2010, pp. 633-642. 28 Concorso nazionale per il Palazzo dello Sport di Firenze cit., B. ZEVI, Atletica nelle catacombe, in Cronache di architettura, Laterza, Roma-Bari 1970, 11, p. 220. 29 I. STEGHER e P. COGLIATI, Copertura a doppio sbalzo, in «Acciaio», 1967, n. 12, pp. 587-591. 30 MUSMECI, Sergio... cit., pp. 110-117, 132-140. 31 Intervista di La Torre (cfr. nota 11), p. 15-17. 32 MUSMECI, La genesi... cit. 33 S. MUSMECI, Strutture nuove per un materiale nuovo, in IIC, 1980, n. 5, pp. 345-366. 34 MUSMECI, Struttura... cit., p. 779. 35 Ibid. 36 Intervista di La Torre (cfr. nota 11), p. 38. 37 Intervista di Nicoletti (cfr. nota 9), p. 3.12. 19
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Sergio Musmeci’s long span structures
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uring the professional career of Sergio Musmeci (1926-1981) bridge design played a primary role; but, along with bridges there is also a group of structurally complex buildings: long span structures. The aim of this text is to present some solutions by the Roman engineer, some were applied to actual buildings while others were design projects never realized. The types of roof that Musmeci designed for almost thirty years must be connected to his theoretical research, whose aim was the development of a new theory of form based on the concept of optimization: a structure must be conceived in order to use as little material as possible and to allow forms to flow naturally through it at the same time. By reducing the weight of a structure Musmeci got closer to the idea of “minimo strutturale” (minimum structures), a complex concept that was articulated in his book La statica e le strutture of 1971. Musmeci thought that testing already designed structures should not be the only purpose of construction science. On the contrary, this discipline should be exploited to provide a guideline for the design. In fact, when a form is conceived to increase the efficiency of a material, this will also offer a technical solution and a sort of expressiveness enhancing the whole architecture. Musmeci imagined two possible pathways to follow in order to create a structurally inspired architecture, such as bridges and long span roof structures, with the added value of being genuinely modern: the first regards the “geometry of the continuous” and creates forms corresponding to the forces at play (folded plates, shells, tensile structures); the second concerns the “geometry of discontinuity”, whose identical elements are coordinated according to coherent spatial systems (space frames). The study of long span structures allows us to take both pathways, in company of Musmeci. There are two examples in which the use of concrete folded plate roofs stand out for their higher architectural quality among the others that were made in the mid-1950s: the Coni National School of Athletics in Formia, designed in collaboration with Annibale Vitellozzi (1954), and the Raffo Marble Workshop in Pietrasanta, with Calini and Montuori (1956). In the second case, the corrugation did not originate from abstract geometric considerations, but rather from the stress to which the roof is subjected. During the same period, Musmeci also tried to use forms in a more organic and fluid way, thanks to the use of thin vaults. This is seen in the design project for Rome’s wholesale trading markets (1958), where the engineer opted for an equally stressed vault, or in the design of the roof for the Ursus plant in Cassino (1961), or in solution C for the Palazzo del Lavoro in Turin (1959), where we can find some points of contact with the design of the bridge on Astico River and that on Tiber River in Tor di Quinto. Even tensile structures were of interest to Musmeci, since they are “on the verge of sta-
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bility” and therefore one is forced to design not a random form, but something resulting from the static balance due to the bending rate of cables. Musmeci applied these principles for the design project that he prepared for the competition to build the Sports Palace in Florence (1965). The second pathway, the one towards discontinuity, led Musmeci to broaden his knowledge of geometry of space and to finally design space frame structures, where the geometrical matrix that was replicated according to identical modules played a leading role. The publication of a rich study in “Parametro” (1979), regarding polyhedra and anti-polyhedra, gave Musmeci the chance to explore this new field of research, with his first attempts being realized on the occasion of the Settimana dell’Architettura (Architecture Week, In/Arch, Roma 1979). Thanks to these studies, the engineer was provided the possibility of designing long span roof structures utilizing a modular system, seemingly similar to what Konrad Wachsmann had done. However, they were very different indeed, since Musmeci’s system provided a solution to the issue posed by nodes: it eliminated them. Both the design of the roof of a Hangar (1978), and that of the Règia in the Roman Forum (1980-1981) show the possibilities that this new covering system might have offered, if only death would not have prematurely stopped Musmeci when he was only fifty-four. The transition from concrete roofs (folded plates and thin vaults) to those based on geometry of discontinuity allows us to understand an evolution in Musmeci’s structural approach. In fact, at the outset he had been convinced of the fact that an architectural form had to fully express its own static peculiarities, but in the end he created an abstract space whose only features were purely geometric.
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I ponti di Fabrizio de Miranda FRANCESCA MATTEI
Architetti ed ingegneri, noi tutti quanti siamo indispensabili e utili all’attività dell’acciaio. Tutta la storia dell’evoluzione della struttura per l’architettura in acciaio è una drammatica vicenda di «complessi»: ingegneri che si sentivano architetti e architetti che giocavano all’ingegnere e tutte le strutture in acciaio che sono state costruite dalla metà del secolo scorso ad oggi, quasi tutte, risentono di queste caratteristiche estreme, della decisione dell’ingegnere o dell’architetto a un tecnicismo astratto o particolaristico, anziché della techne. Ernesto Nathan Rogers, Strutture architettoniche in acciaio1
Il dibattito italiano sulla costruzione metallica
N el 1960, durante il convegno «L’acciaio nella moderna architettura» organizzato a Milano, Ernesto Nathan Rogers, esprimendosi in merito alla ricezione della tecnologia italiana dell’acciaio, sostiene la necessità di dialogo tra architetti e ingegneri, e si inserisce nella controversia sulle diverse competenze di coloro che operano nel campo delle costruzioni. Rogers ricostruisce l’evoluzione dei sistemi metallici citando una serie di casi da lui ritenuti paradigmatici: il Chrystal Palace, la Tour Eiffel, il Golden Gate, una serie di progetti di Mies e di Philip Johnson e, infine, le opere di Konrad Wachsman e di Buckminster Fuller. Come si vede, non menziona esempi italiani, un silenzio che, forse, lascia trasparire la scarsa considerazione dell’architetto per lo sviluppo di questo fenomeno nella penisola. La relazione di Rogers offre il pretesto per compiere qualche verifica. Cercheremo, pertanto, di esplorare il dibattito sulla costruzione metallica in Italia nel ventennio successivo al secondo dopoguerra e di esaminare alcuni progetti. Si è scelto di privilegiare l’opera di Fabrizio de Miranda, figura fondamentale ma ancora non sufficientemente conosciuta, che fisserà l’angolazione da cui osserveremo tale vicenda2. Nel 1960 in Italia si contano solo venti costruzioni civili realizzate con struttura portante metallica3 e, anche nel corso degli anni successivi, si aggiungono pochi altri esempi. Tra questi, vanno ricordati i capitelli del Palazzo del Lavoro a Torino (1959-1961) e le Cartiere Burgo (1960-1964), esempi che, all’epoca del suo intervento, Rogers non ha ancora potuto apprezzare (fig. 1). La sfortuna della costruzione in acciaio trova una prima spiegazione nelle vicissitudini dell’industria siderurgica italiana4, fortemente compromessa dal consolidamento della tradizione autarchica, che mette al bando l’utilizzo del metallo5. La ripresa, è noto, si deve al piano attuato tra il 1945 e il 1953 da Oscar Sinigaglia, alla presidenza della
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Finsider, la società del gruppo IRI che rileva dalle banche il controllo dell’ILVA, e delle società Cornigliano e Dalmine. Si tratta di un programma che attinge ai fondi del piano Marshall e mira alla creazione di un’unica industria a ciclo integrale6. Nonostante l’Italia raggiunga, nel 1956, la posizione di esportatore netto di prodotti derivati dal ferro, l’industria siderurgica non gode del favore popolare: questa, infatti, viene considerata una «grande parassitaria»7 a causa del suo limitato contributo - se confrontato a iniziative come il piano Fanfani - alla lotta contro la disoccupazione8. Il tutto conduce le imprese italiane a porsi il problema dell’«anima»9 ovvero dell’immagine pubblica, un problema che porta a un vivido interesse per l’esperienza americana e incoraggia un’intensa ricerca in ambito artistico finalizzata a promuovere l’industria stessa (figg. 2-3). Tale ricerca vanta tra i suoi pionieri Gian Lupo Osti per la Finsider e, in altri settori, Adriano Olivetti10. Quanto ai progetti, la storia italiana delle costruzioni in acciaio può essere raccontata tramite le grandi infrastrutture, e in particolare attraverso la realizzazione dei ponti11. In quest’ultimo settore, spicca il nome di Fabrizio de Miranda, progettista di alcune centinaia di ponti, detentore di cinque brevetti, nonché autore di un centinaio di saggi e di una decina di libri sul tema12. De Miranda inizia la carriera all’interno delle Officine Bossi di Milano e a partire dal 1958 lavora per l’ILVA, sempre nella sede di Milano. Nel 1959 fonda il Gruppo di progettazione delle Costruzioni metalliche Finsinder e nel 1969 avvia lo Studio di progettazione De Miranda, oggi Studio De Miranda Associati. Tra i suoi molteplici interessi, che spaziano dal settore civile a quello delle infrastrutture a interventi di consolidamento, la costruzione di ponti in acciaio costituisce l’aspetto più innovativo della sua attività. La vasta produzione dell’ingegnere non si può riassumere in queste pagine: si può invece tentare di raccon1. TORINO, PALAZZO DEL LAVORO ITALIA’61, tare, tramite alcune tappe del suo lavoCAPITELLI METALLICI. PUBBLICITÀ DELL’AZIENDA ro, il processo di inserimento della coBADONI DI LECCO, COMPARSA A PARTIRE DAL 1961 SULLA RIVISTA «COSTRUZIONI METALLICHE». struzione metallica nel quadro italiano.
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2. GINO SEVERINI, «NASCITA DELL’ITALSIDER», 1960. COPERTINA DEL PRIMO NUMERO DELLA «RIVISTA ITALSIDER».
3. PUBBLICITÀ DELLA FIAT, COMPARSA A PARTIRE DAL 1950 SULLA RIVISTA «COSTRUZIONI METALLICHE».
Tra il 1955 e il 1956, De Miranda progetta il ponte sul fiume Chiese, realizzato dalle Officine Bossi: si tratta del primo ponte italiano concepito in sistema misto acciaio-calcestruzzo (il Verbundbauweise) e la struttura è risolta con una travata Gerber su due luci e uno sbalzo13. Qualche anno dopo, tra il 1959 e il 1960, l’ingegnere realizza il viadotto Coretta a Barberino del Mugello all’interno dell’Ufficio Tecnico del Centro Costruzioni metalliche dell’ILVA in collaborazione con Silvano Zorzi per la parte relativa alle opere murarie14. L’impalcato è formato da due travate parallele appoggiate agli estremi di ogni singola campata, così da non risentire gli effetti di eventuali cedimenti dei vincoli verticali in fase di esercizio. Insieme ai viadotti sul rio Macinaie e sul vallone di Poggio Palina, entrambi disegnati da De Miranda, il viadotto Coretta è l’unico ponte in acciaio di tutto il tratto dell’Autostrada del Sole15. Il viadotto sul torrente Lao (1965-1966) a Laino Borgo (Cosenza), invece, è il primo con piastra ortotropa metallica realizzato in Italia, esemplato sull’Europa Brücke a Innsbruck (1963): una travata continua a sezione scatolare, in lamiera d’acciaio irrigidita da nervature saldate alla lamiera e poste all’interno della sezione scatolare del ponte, poggia su piloni in calcestruzzo armato. Questa volta, l’ingegnere si avvale della collaborazione di Cestelli Guidi, Gallo e Morandi per le parti in calcestruzzo (fig. 4).
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4. LAINO BORGO (COSENZA), VIADOTTO LAO. PUBBLICITÀ DELL’AZIENDA BADONI DI LECCO, COMPARSA A PARTIRE DAL 1969 SULLA RIVISTA «COSTRUZIONI METALLICHE».
5. FIRENZE, PONTE SULL’ARNO IN LOCALITÀ L’INDIANO.
L’opera - secondo Sergio Poretti un prototipo di struttura «italian style»16 - si sviluppa parte in curva e parte in rettifilo per una lunghezza complessiva di circa 1.100 metri, mentre l’altezza dell’attraversamento supera i 240 metri in corrispondenza del baratro17. La tecnologia composta in acciaio-calcestruzzo viene adottata anche nelle sopraelevate di Roma-San Lorenzo e di Genova, esempi che pongono il problema dell’inserimento di infrastrutture monumentali all’interno del contesto urbano18. Infine, va annoverato il progetto strutturale per il ponte all’Indiano, commissionato dal Comune di Firenze e realizzato dalle Costruzioni metalliche Finsider, primo ponte strallato in acciaio fabbricato in Italia, premiato ad Helsinki nel settembre del 1978 dalla Convenzione Europea della Costruzione Metallica19 (fig. 5). Dall’esame di queste opere, è possibile osservare la ricezione delle costruzioni metalliche da parte di De Miranda, che, evidentemente, predilige l’abbinamento con il calcestruzzo. Nel 1960, spiegando l’origine e il funzionamento di questo sistema, egli sostiene: Circa trent’anni or sono i costruttori, in particolare i nordamericani, rilevavano nella costruzione di impalcati da ponte e di solai per fabbricati, che una soletta di calcestruzzo armato gettata su travi metalliche e su queste semplicemente appoggiata, nella maggioranza dei casi, assorbiva una aliquota dei carichi applicati, ben maggiore di quella calcolabile attraverso una semplice ripartizione determinata nel rispetto della congruenza20.
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Il sistema misto appare una sorta di controcanto del calcestruzzo armato: si fonda, cioè, su una analoga concezione della struttura, come d’altra parte impongono le proprietà dei materiali impiegati. Ciò che guida la scelta dell’ingegnere, secondo le sue stesse dichiarazioni, è la convenienza economica, statica ed estetica della tecnica in acciaio21. Che questa fosse vantaggiosa, non è certo una scoperta del secondo dopoguerra: un decalogo che esalta la rapidità del montaggio e la leggerezza del materiale compare già nel 1933 in un celebre numero di «Casabella» quasi interamente dedicato alla costruzione metallica grazie agli auspici di un suo precoce promotore, Giuseppe Pagano22. Proprio alla V Triennale del 1933, Pagano aveva presentato il progetto della casa a struttura d’acciaio, elaborato insieme ad Albini, Camus, Palanti, Mazzolini e Minoletti23. Quanto affermato negli anni trenta viene ribadito nel 1949: tra le pagine di «Costruzioni metalliche» compaiono ben 14 argomenti in favore della costruzione metallica24. A questo punto, resta da capire in che modo De Miranda si collochi nel quadro italiano e come sia approdato a questa tecnologia che, per quanto conveniente, non riscuote un grande successo. In un’intervista del 2010, l’ingegnere racconta che intraprese lo studio delle costruzioni metalliche da autodidatta, leggendo testi di metallurgia e di tecniche costruttive, e si giovò delle esperienze in America, nell’ambito delle collaborazioni tra la Finsider e la American Bridge Company25. Stando alle sue parole, alcuni personaggi, conosciuti di persona o tramite gli scritti, hanno facilitato il suo approccio, come Fausto Masi, Giulio Krall, Vittorio Zignoli, Charles Massonet, Fritz Stüssi, punti di riferimento nella storia della costruzione. Fausto Masi, definito in più occasioni da De Miranda «il padre della costruzione metallica in Italia», è stato direttore delle Officine Bossi, e nel 1946 è tra i promotori della fondazione dell’Associazione fra i Costruttori in Acciaio Italiani (ACAI). Dal 1949 dirige la rivista «Costruzioni metalliche», pubblicata dalla stessa associazione. Tra i suoi scritti vanno ricordati La pratica delle costruzioni metalliche (1931), L’acciaio (1956) ed Estetica delle costruzioni in acciaio (1954). Giulio Krall - che lavora alla Ferrobeton di Roma, ed è professore alla Sapienza e fondatore insieme a Cestelli Guidi della rivista «Strutture» - si concentra sin dagli anni trenta sul tema della dinamica dei ponti in calcestruzzo. Vittorio Zignoli, professore al Politecnico di Torino, è noto, oltreché per i suoi studi sui ponti strallati, per aver dato alle stampe una sorta di trattato sull’argomento, intitolato appunto Costruzioni metalliche, edito da Utet (1956). Charles Massonet, professore a Liegi, è autore di testi incentrati sul tema della resistenza dei materiali, molti dei quali sono tradotti in italiano a cura di ACAI e vengono ancora oggi ristampati. Infine, Fritz Stüssi si dedica all’analisi delle grandi luci attraverso l’esame dello sviluppo storico delle costruzioni, come dimostra il celebre saggio dedicato al disegno di Leonardo per il ponte di Galata26. I temi approfonditi da questi ingegneri confluiscono nelle pubblicazioni di De Miranda. Il quale intreccia la letteratura spe-
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cialistica allo studio dei progetti stranieri, come i ponti Firth of Fourth e George Washington27, considerati un mezzo per ravvivare le ricerche condotte in Italia, come si è visto anche a proposito del viadotto Lao ispirato all’Europa Brücke. Più in generale, ACAI e l’Ufficio Italiano Sviluppo Applicazioni Acciaio (UISAA), istituito nel 1955, partecipano attivamente alla promozione di libri sull’acciaio. A loro si devono l’edizione di testi fondamentali, come Ponti stradali in acciaio, Costruzioni in acciaio, Edilizia industrializzata in acciaio, Moderni ponti stradali in acciaio, o la traduzione in italiano di alcuni manuali, come il famoso Stahlbau. Non vanno tralasciate le riviste sovvenzionate da queste stesse associazioni: «Costruzioni metalliche», pubblicata con questo nome dal 1949 fino al 1955, rinominata poi «Acciaio e costruzioni metalliche» fino al 1959, quando si assiste allo sdoppiamento in «Costruzioni metalliche» e «Acciaio», entrambe stampate ancora oggi. Questo nucleo di pubblicazioni, che rappresentano una vera e propria «biblioteca dell’acciaista», costituisce di fatto il veicolo principale delle idee e degli studi intrapresi all’epoca. Quanto alle occasioni di scambio diretto, spetta ad ACAI il merito di aver organizzato diversi cicli di lezioni volte alla diffusione della conoscenza di questa tecnologia. I Politecnici di Torino e di Milano, e l’Università Sapienza di Roma - facoltà dove lavorano esperti nell’applicazione dei sistemi metallici come Giuseppe Albenga, Aristide Giannelli, Luigi Stabilini - hanno offerto il loro contributo. È però importante sottolineare che le università hanno un ruolo tutto sommato marginale: in un articolo del 1952, infatti, viene segnalata la lontananza tra l’accademia e l’insegnamento delle costruzioni in acciaio28. I corsi organizzati da ACAI, pertanto, costituiscono un’importante occasione per osservare l’attività didattica di una serie di professionisti nel settore: Luca Sanpaolesi, Leonardo Finzi, Elio Giangreco, Giorgio Magenta, Guido Oberti e lo stesso Fabrizio de Miranda. Ci sono poi le mostre, i convegni e i congressi, spesso patrocinati da Oscar Sinigaglia. Si tratta di iniziative che favoriscono il dialogo tra coloro che intraprendono studi in questo campo e, parallelamente, registrano lo stato delle ricerche italiane rispetto a quelle condotte nel resto d’Europa, brulicante di iniziative. Oltre agli incontri di carattere specialistico, vanno ricordate alcune occasioni di più ampia risonanza. Nel 1949 le costruzioni metalliche sono rappresentate alla Mostra della Casa moderna a Torino con una serie di applicazioni tubolari per ponteggi, e grazie alla casa multipiano realizzata su progetto dell’architetto Luigi Giay con il contributo delle Officine Nazionali di Savigliano. La società ILVA presenta alcuni elementi prefabbricati costituiti dalle note travi stirate di sua produzione. Nello stesso anno, alla fiera di Milano vengono costruiti due padiglioni metallici, da completare per la Fiera del 1950, entrambi eseguiti dalla società Badoni a tempo di primato29. Alla IX Triennale del 1951 viene allestita da ACAI-ASSIDER la mostra fotografica «Acciaio nell’architettura industriale», curata dal pittore e fotografo Luigi Veronesi,
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nella quale vengono esposte fotografie riguardanti tutti i campi di applicazione dell’acciaio nelle costruzioni industriali30. L’anno dopo, nel 1952, si tiene a Torino, il Salone internazionale della Tecnica con una prima parte dedicata al settore metallurgico, una seconda a questioni di meccanica generale, e un’ultima alle macchine utensili31. Infine, viene ospitata un’esposizione dedicata alle pubblicazioni curate da ACAI. Risale al 1954 il «Primo convegno nazionale della costruzione metallica», che si svolge a Milano al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica. Partecipano, tra gli altri, Gustavo Colonnetti, presidente del Consiglio nazionale delle Ricerche, Giuseppe Albenga, presidente del Collegio dei Tecnici ACAI, Giuseppe Riccardo Badoni, presidente ACAI, e dall’estero Mirko Ros e Fritz Stüssi, entrambi del Politecnico di Zurigo. I temi affrontati spaziano dalle tecniche costruttive, alla manutenzione, alle potenzialità estetiche del materiale32. È interessante notare che in questo momento la produzione italiana dell’acciaio tocca i vertici più elevati: nonostante ciò, nella relazione conclusiva, l’industria siderurgica viene definita ancora la «Cenerentola o la grande sconosciuta nella famiglia industriale italiana». Una condizione di cui sono accusate proprio le università che «hanno poco a poco ridotto l’insegnamento delle costruzioni in acciaio» e «la concorrenza del cemento armato [che] tende a esorbitare dai campi naturali delle proprie applicazioni per invadere quelle dell’acciaio»33. Nel 1960 ha luogo il convegno «L’acciaio nella moderna architettura», già ricordato, cui partecipa anche Gio Ponti. Nel 1964 si svolgono a Pisa le «Giornate italiane della costruzione in acciaio», organizzate dal Collegio dei Tecnici della Costruzione in Acciaio, in collaborazione con ACAI34. Le «Giornate» sono dedicate ai progetti italiani realizzati nell’ultimo biennio e si concludono con una visita agli stabilimenti industriali. Interviene anche De Miranda, che sottolinea la sua perplessità a prendere parte all’iniziativa perché la «quasi totalità dei ponti, costruiti tra il 1954 ed oggi, erano stati realizzati su [suoi] progetti e aveva il timore di non poterne mettere a fuoco vari aspetti con una critica serena ed obiettiva»35. Un’importante testimonianza sulla centralità dell’ingegnere nella «guerra tra guelfi e ghibellini»36, combattuta tra chi sostiene l’utilizzo del calcestruzzo e chi favorisce quello del metallo. Il sintetico quadro delineato in questa rassegna offre qualche spunto per le prossime ricerche. Nonostante la scarsa diffusione della tecnologia in acciaio sembri relegarla in un capitolo secondario della vicenda della costruzione italiana, alcuni progetti, concepiti con tecniche e materiali innovativi (come il Verbundbauweise), garantiscono ai sistemi metallici un posto significativo nel panorama dell’ingegneria del secondo dopoguerra37: il che dipende da diversi fattori, come la precisa esecuzione consentita dal disegno della struttura metallica rispetto a quella in cemento, o la velocità di montaggio dovuta alla preparazione dei pezzi fuori opera. Da queste osservazioni, poi, si è profilato il ruolo egemone dell’industria siderurgica, vera protagonista di questo epi-
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sodio, che ha tentato di diffondere l’uso dell’acciaio organizzando mostre, patrocinando convegni, sovvenzionando corsi. Ma si tratta di una storia ancora in gran parte da scrivere.
Desidero ringraziare Fabrizio e Mario de Miranda per la disponibilità con cui hanno chiarito i miei dubbi. Devo molti degli spunti presentati in queste pagine a Marko Pogacnik e a Luka Skansi, cui va tutta la mia riconoscenza. Infine, sono grata ad Alessandro Brodini e Orietta Lanzarini per le utili osservazioni. 1 E. N. ROGERS, L’acciaio nella moderna architettura, in Atti del Collegio regionale lombardo degli architetti, 3 marzo 1960, ora in E. N. ROGERS, Architettura, misura e grandezza dell’uomo, a cura di S. Maffioletti, Il Poligrafo, Padova 2010, vol. II., pp. 719-725. 2 Tra le ricerche in questo ambito ricordo: M. ZORDAN, L’architettura dell’acciaio in Italia, Gangemi, Roma 2006; ID., Acciaio e industrializzazione: analisi di alcune singolari sperimentazioni del secondo Novecento italiano, Gangemi, Roma 2012. 3 F. DE MIRANDA ed E. RAPETTI, Considerazioni economiche sulle costruzioni in acciaio, in «Acciaio», 1960, n. 12, pp. 3-11. 4 Nell’ambito della ricchissima bibliografia sulla storia della siderurgia italiana, in questa sede rimando a: M. BALCONI, La siderurgia italiana (1954-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato, Bologna 1991. Sull’acciaio nell’ingegneria: W. NICODEMI ET AL., Il ruolo dell’acciaio nella rivoluzione industriale, in Storia dell’Ingegneria. Atti del Secondo Convegno Nazionale, (Napoli, 7-9 aprile 2008), a cura di S. D’Agostino, Napoli 2008, tomo I, pp. 145-154. www.aising.it. 5 Sul rapporto tra autarchia e costruzione: S. PORETTI, Architettura e costruzione: l’influenza dell’autarchia nel moderno italiano, in «Parametro», 2003, nn. 246-247, pp. 7981; ID., Modernismo e autarchia, in G. CIUCCI e G. MURATORE (a cura di), Il primo Novecento, Electa, Milano 2004, pp. 442-476. 6 BALCONI, La siderurgia italiana (1954-1990) cit. 7 La definizione è adottata in E. ROSSI, Settimo: non rubare, Bari 1962, cfr. BALCONI, La siderurgia italiana (1954-1990) cit., p. 79. 8 P. MAILLARD, Rapport de la division de l’acier de la Commission économique pour l’Europe, in «Politique étrangère», 1950, n. 2, vol. 15, pp. 234-240, www.persee.fr. 9 La definizione è in R. MARCHAND, Creating the corporate soul. The rise of public relations and corporate imagery in American big business, University of California Press, Berkley 1998. Sul caso italiano: C. VINTI, Gli anni dello stile industriale 1948-1965, Marsilio, Venezia 2007. 10 Su Gian Lupo Osti rimando a R. RANIERI, G. L. OSTI, L’industria di Stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni
nel gruppo Finsider, Il Mulino, Bologna 1993; Aspettai vent’anni, in «Una città», 2011, giugno, n. 185, www.unacitta.it. Su Adriano Olivetti: S. SEMPLICI (a cura di), Un’azienda e un’utopia. Adriano Olivetti 1945-1960, Il Mulino, Bologna 2001. Su rapporto tra arte e industria si veda: VINTI, Gli anni dello stile industriale... cit., pp. 27-58 e pp. 106-113. Sull’editoria d’impresa rimando a: www.houseorgan.net. 11 L’affermazione è in F. DE MIRANDA, L’acciaio nella costruzione dei ponti per le Autostrade, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1956, n. 6, pp. 273-279. 12 I. DONISELLI, Fabrizio De Miranda, ponti e strutture, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1994, n. 5; G. MENEGHINI, Fabrizio De Miranda nella storia dei ponti in acciaio, tesi di laurea, relatore: E. Siviero, Università Iuav, Venezia, 1997-1998; M. ZORDAN, Il contributo di Fabrizio De Miranda alla costruzione metallica nel secondo Novecento in Italia, in Ingegneria italiana, numero monografico di «Rassegna di architettura e urbanistica», a cura di T. Iori, S. Poretti, 2007, nn. 121-122, pp. 149-158. Si veda inoltre: Studio De Miranda Associati: Cinquant’anni di progetti in acciaio. Intervista al prof. Fabrizio De Miranda, a cura di I. Paoletti, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 2009, n. 1, pp. 83-86. 13 M. POGACNIK e L. SKANSI (a cura di), Atlante dell’architettura italiana degli anni ’50 e ’60. Figure, forme, tecniche costruttive, scheda 326, atlante.iuav.it. 14 POGACNIK e SKANSI, Atlante dell’architettura cit., scheda 325. 15 F. DE MIRANDA, Il viadotto Coretta sull’Autostrada del Sole, in «Acciaio», 1960, n. 12, pp. 1-7. Sull’Autostrada del Sole: T. IORI, L’Autostrada del Sole, in Storia dell’Ingegneria. Atti del Primo Convegno Nazionale, (Napoli, 8-9 marzo 2006), a cura di A. Buccaro et al., Napoli 2006, tomo I, pp. 1133-1142. www.aising.it. 16 S. PORETTI, Un tempo felice dell’ingegneria italiana. Le grandi opere strutturali dalla ricostruzione al miracolo economico, in «Casabella», 2005-2006, nn. 739-740, pp. 6-11. 17 C. CESTELLI GUIDI, F. DE MIRANDA e C. PELLEGRINO GALLO, Il progetto del viadotto sul fiume Lao dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 6, 1965, pp. 454-458. 18 Sulla sopraelevata di Genova: F. DE MIRANDA, La strada sopraelevata di Genova e sue caratteristiche di progetto, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 5, 1965, pp. 362363. Sulla sopraelevata San Lorenzo cfr. POGACNIK e SKANSI, Atlante dell’architettura cit., scheda 328. 19 F. DE MIRANDA, Il ponte strallato sull’Arno a Firenze
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in località all’Indiano, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1978, n. 6, pp. 3-7. 20 F. DE MIRANDA, Aspetti fondamentali della costruzione mista acciaio-calcestruzzo, in «Acciaio», n. 1, 1960. La bibliografia degli scritti di De Miranda sulla costruzione mista è molto vasta: in questa sede mi limito a ricordare F. DE MIRANDA, Ponti a struttura d’acciaio, Cisia, Milano 1971. 21 De Miranda sostiene che la sua concezione strutturale prevede «l’assenza di manierismi» e «un giusto equilibrio tra mezzi e fini dell’architettura», citando come summa di questo pensiero il libro di Pier Luigi Nervi, Costruire correttamente, pubblicato nel 1955. Cfr: Studio De Miranda Associati: Cinquant’anni di progetti in acciaio... cit., in particolare p. 86 per le parole tra virgolette. 22 «Casabella», 1933, nn. 8-9. 23 Il progetto della casa a struttura d’acciaio è pubblicato in «Casabella», 1933, nn. 8-9, pp. 5-13. Si veda anche: R. VITTORINI, La struttura metallica nella costruzione moderna in Italia, in «Rassegna di architettura e urbanistica», 1994-1995, nn. 84-85, pp. 132-142. 24 «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1949, n. 3, pp. 2-3. 25 F. DE MIRANDA, Sessant’anni di esperienza nella progettazione e costruzione di ponti e strutture, intervista in occasione del convegno presso l’Ordine degli Ingegneri della provincia di Potenza, 20 novembre 2010. Pubblicazione curata dallo studio De Miranda e associati, Milano 2010. 26 F. STÜSSI, Leonardo da Vinci als schöpferische Persönlichkeit, in «Schweitzerisches Bauzeitug» e poi pubblicato come monografia a partire dal 1959. 27 F. DE MIRANDA, Questioni centrali sul problema delle grandi luci e sul processo evolutivo del ponte metallico, in «Ac-
ciaio e Costruzioni metalliche», 1963, n. 6, pp. 303-314. Sulle implicazioni economiche ed estetiche del Firth of Fourth Bridge rimando alla lettura di M. BAXANDALL, Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Einaudi, Torino 2000. 28 Le costruzioni metalliche e le facoltà di ingegneria, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1952, n. 4, pp. 30-32. 29 V. AFFER, I nuovi padiglioni metallici alla fiera di Milano 1949, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1949, n. 2, pp. 15-18. 30 Il padiglione dell’acciaio alla IX Triennale di Milano, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1951, n. 5, pp. 1617. 31 Il II salone internazionale della tecnica a Torino, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1952, n. 4, p. 38; Al II salone internazionale della tecnica a Torino, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1952, n. 6, p. 24. 32 Gli atti vengono pubblicati su «Costruzioni metalliche», a partire dallo stesso anno. 33 Le parti tra virgolette sono riprese dall’editoriale in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1954, n. 6, pp. 317. 34 Notiziario, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1964, n. 4, pp. 222-226. 35 F. DE MIRANDA, Progetti e realizzazioni italiane dei moderni ponti in acciaio, in «Acciaio e Costruzioni metalliche», 1964, n. 6, pp. 307-337. 36 L’espressione è stata utilizzata da Fabrizio De Miranda durante un’intervista del 24 luglio 2012 curata dall’autrice. 37 L’idea viene espressa da Poretti che sottolinea l’alto profilo delle ricerche condotte in Italia che hanno per oggetto la costruzione metallica: S. PORETTI, Introduzione, in ZORDAN, L’architettura dell’acciaio in Italia... cit., p. 10.
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Fabrizio de Miranda’s bridges
I
n 1960, during the “L’acciaio nella moderna architettura” (Steel in modern architecture), conference organized in Milan, Ernesto Nathan Rogers claimed that a dialogue between architects and engineers was necessary for what concerned steel technology. Rogers retraced the evolution of the metal construction systems by mentioning a number of cases that he considered paradigmatic: the Chrystal Palace, the Tour Eiffel, the Golden Gate, a series of design projects by Mies and Philip Johnson and, finally, the works by Konrad Wachsman and by Buckminster Fuller. The architect did not mention any Italian examples - his silence might reveal that the development of these techniques in Italy was of little consideration. Rogers’s contribution gave us the chance for a further check: the aim of this paper will examine the debate on metal construction that was carried out in the twenty year time that took place in the second postwar period. Secondly, some design projects will be analysed as well, with a special focus on Fabrizio de Miranda. At the beginning of the 1970s, there were just twenty civil buildings whose load-bearing structures were made of metal and, even during the following years, very few examples added. The little fortune of metal building in Italy can be firstly explained by the ups and downs of the Italian steel industry, largely spoilt by the consolidation of autarchic policies, which banned the usage of metal. The recovery, as we know, was due to the plan by Oscar Sinigaglia, by then president of Finsider - a company of the IRI group taking over ILVA, Cornigliano and Dalmine companies from the banks. The plan obtained funding from the Marshall Plan and aimed at creating a single integrated steel making industry. With regard to the design projects, the Italian history of metal construction can be narrated through the great infrastructures and, above all, the construction of bridges. In this sector stands out the name of Fabrizio de Miranda, author of about a hundred essays and ten or so books regarding this topic. The evolution of his work - from the bridge on river Chiese, the first Italian bridge where the steel-concrete mixed system was used, to Coretta (1959-1960) and Lao (1965-1966) viaducts, until the Indiano bridge of the Florence motorway (1972-1978) - thus summerizing the multiple stages in the development of metal construction in Italy. The above mentioned examples are a clear evidence of the fact that mixed constructions made of steel and concrete characterized De Miranda’s work. Since this character was so important, it may seem that this technology symbolized the way metal constructions were adopted in Italy. The engineer - according to his statements - preferred this technique due to its economic, static and aesthetic convenience. He also claimed that he had a self-taught approach towards the study of metal construction, by reading books on metallurgy and construction techniques. Nevertheless, his
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approach was made more concrete thanks to personalities - such as Fausto Masi, Giulio Krall, Vittorio Zignoli, Charles Massonet, Fritz Stüssi. He then met some personalities - that he met later on. These were experts in the field of metal construction - but not only - who, thanks to their teaching activity and publications, contributed to create a library of specialist texts. The fundamental books to learn about steel technology can be pinpointed by analysing what these engineers wrote. Some magazines - often funded by the steel industry- should be included as well, as “Costruzioni metalliche”. It is worth remembering a number of events, which were not just mere occasions for the promoters of metal construction to meet, but it was there that the state-of-the-art of the Italian research could be compared with the European framework - some of the most important ones were: 1951 IX Triennale housing the photo exhibition entitled “Acciaio nell’architettura industriale” (The usage of steel in industrial architecture); the “Salone internazionale della Tecnica” (International Technology Show), housing an exhibition of the publications curated by ACAI (1952); the “Primo convegno nazionale della costruzione metallica” (First national conference of metal construction), which took place in Milan (1954); the “L’acciaio nella moderna architettura” (Steel in modern architecture), conference, organized in Milan, which saw the participation of Ernesto Nathan Rogers and Gio Ponti (1960); the “Giornate italiane della costruzione in acciaio” (Italian days of steel construction, 1964). Thanks to the picture that has been reconstructed in these pages, it is possible to show the indissoluble bond between steel structures and steel industry. It is finally evident how the research regarding metal construction - even though its little fortune in the field of design - has influenced the initiatives and the discussions that took place between 1950 and 1970, thus enriching the debate on modernity.
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Come caleidoscopi: gli elementi modulari a guscio a supporto centrale nel dibattito degli anni cinquanta FEDERICO DEAMBROSIS
V
erso la fine del 1951, Giulio Pizzetti, emigrato in Argentina nel 1948 per assumere l’incarico di direttore tecnico della Techint, scrive sul primo numero della rivista argentina «Nv» un breve saggio intitolato a «i nuovi mondi dell’architettura strutturale»1. Valutando scarsi i progressi compiuti dalla scienza delle costruzioni negli ultimi anni, Pizzetti propone l’uso di figure strutturali nuove, indipendentemente dalla possibilità di calcolarle matematicamente, senza perdere di vista quella che, in uno scritto di poco successivo, avrebbe chiamato «la lezione permanente della natura»2. Nello specifico Pizzetti allude alle volte sottili e l’unica immagine che accompagna lo scritto ritrae i pilastri «a fungo» del Johnson Wax Administration Building. Si potrebbe osservare come il messaggio di Pizzetti sia perfettamente congruente con l’approccio e il dialogo interdisciplinare che la rivista diretta da Tomás Maldonado vuole promuovere, ma come esistano al contempo evidenti distanze con i metodi scientifici «e persino freddi» insiti nel bagaglio ideologico e culturale che questa eredita dalle esperienze dell’arte concreta rioplatense di poco precedenti3. Tuttavia, non si tratta di una posizione inedita nell’Argentina di quegli anni. Lo scritto di Pizzetti richiama infatti per più versi, anche se mai in modo esplicito, le lezioni pronunciate alcuni mesi prima da Pier Luigi Nervi di fronte agli studenti della neonata Facoltà di Architettura di Buenos Aires dando un carattere unitario all’apporto della cultura strutturale italiana nell’Argentina dei primi anni cinquanta di cui la visita di Bruno Zevi nel 1953 e l’attività didattica e pubblicistica di Enrico Tedeschi avrebbero rafforzato la matrice organica4. Lo spoglio di «Nv» potrebbe indurre a chiudere un circuito davvero corto saltando al numero 5 del 1954 dove si illustra «una nuova unità strutturale», ovvero la volta a guscio progettata da Amancio Williams in collaborazione con lo stesso Pizzetti per alcune strutture ospedaliere previste nella provincia di Corrientes5. Ma gli elementi poligonali a guscio, modulari e retti da un supporto centrale, funghi, ombrelli o «calici», per utilizzare un’efficace definizione di qualche anno più tarda6, sono protagonisti di una circolazione più ampia nella cultura del progetto degli anni cinquanta. La fotografia che ritrae un modulo hypar progettato da Félix Candela sormontato, durante la prova di carico, dalla squadra che ha partecipato alla sua realizzazione, è forse la versione più celebre di ombrello in calcestruzzo armato tra i tanti disegnati e realiz-
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zati in America Latina negli anni cinquanta e sessanta e suggerisce, per questa figura strutturale, una connotazione quasi regionale che ne spiega, non senza qualche fondamento, l’enorme diffusione nell’area in ragione della sua particolare adattabilità alle condizioni locali, tanto climatiche, quanto economiche e sociali. Ma l’assimilazione delle strutture a fungo alla versione candeliana non dà conto delle molte variazioni compiute su questo tema, né di una circolarità, tra tavoli da disegno, cantieri, libri e riviste, che trascende ampiamente l’ambito americano. Una lettura che adotta l’Argentina quale punto di osservazione e l’Italia quale prospettiva privilegiata probabilmente non è esente da limiti altrettanto evidenti e tralascia quasi del tutto episodi importanti, come il testo di Joedicke sulle volte a guscio7. Ma forse può dare un’immagine qualitativa della vastità di ambiti, pratiche e discorsi che le strutture a fungo intercettano nel corso degli anni cinquanta e nei primi sessanta. Come un caleidoscopio, tale figura strutturale offre sul decennio una prospettiva capace di scomporne in una moltitudine di frammenti l’immagine e di restituirne al contempo una possibile sintesi.
Pietre miliari L’incarico per la progettazione degli ospedali a Williams risale alla fine degli anni quaranta quando, durante il primo governo Perón, il ministro della sanità Ramón Carrillo vara un piano che prevede il potenziamento delle strutture sanitarie in varie aree del Paese. A Williams sono affidate le località di Curuzú-Cuatiá, Mburucuyá e Esquina, tutte situate nella provincia di Corrientes. L’incarico prevede che l’impianto degli ospedali abbia uno sviluppo prevalentemente orizzontale e che l’architetto partecipi alla scelta dei terreni dove realizzare le opere. La seconda condizione è la principale ragione del viaggio che nel 1948 Williams compie nella regione e di cui rimangono una serie di scatti che documentano l’interesse per l’edilizia tradizionale locale e in particolare per il ricorrente impiego di portici, appropriati a un clima caldo e con abbondanti precipitazioni come quello subtropicale8. Sin dai primi disegni, realizzati in collaborazione con l’architetto catalano Antonio Bonet, la funzione del portico è affidata a una doppia copertura nella quale il livello superiore è composto di elementi modulari sostenuti da una colonna centrale9. È possibile che in questa fase preliminare abbia avuto un certo peso il periodo trascorso da Bonet, nel 1936, in rue de Sèvres a Parigi collaborando con Le Corbusier al progetto per il padiglione francese per l’Esposizione dell’Acqua a Liegi che, di là dalle differenze costruttive e statiche, presenta con i progetti per gli ospedali evidenti similitudini concettuali. La forma ipotizzata in questa prima fase (fig. 1) differisce però di molto da quella definitiva. Si tratta di una sorta di piramide di calcestruzzo armato di base quadrata, nervata in corrispondenza dell’altezza di ogni faccia. Spostandosi dal perimetro verso il 278
1. AMANCIO WILLIAMS, ANTONIO BONET E COLLABORATORI. PROGETTO PRELIMINARE PER TRE OSPEDALI NELLA PROVINCIA DI CORRIENTES CON LA PRIMA IPOTESI DI COPERTURA, 1950 CIRCA. SEZIONI. ARCHIVIO AMANCIO WILLIAMS, VICENTE LÓPEZ, PROVINCIA DI BUENOS AIRES.
vertice, la figura piramidale assume una forma quasi conica nella quale però la base non è costituita da un cerchio, bensì da quattro rami di iperbole equilatera e, pertanto, l’inclinazione non è costante. In questo modo la sezione resistente del perimetro risulta massima agli angoli, i punti più distanti dalle nervature attraverso le quali il perimetro stesso è appeso alla colonna centrale. Tale soluzione, adottata quasi senza variazioni, se non nell’altezza del supporto centrale, da Bonet nel progetto del sistema di case prefabbricate BGB del 194910, sparisce rapidamente dalle tavole di progetto degli ospedali per lasciare posto alla «nuova unità strutturale» di Williams e Pizzetti (fig. 2). La nuova geometria presenta profonde differenze, per quanto, come la prima, debba conciliare uno sviluppo radiocentrico con un perimetro quadrato. Ciò avviene gradualmente, attraverso una forma complessa e doppiamente curvata non derivante, come nella prima versione, dalla saldatura di due geometrie distinte. La compresenza, o forse la sovrapposizione, del cerchio e del quadrato nella concezione geometrica della «nuova unità strutturale» emerge con chiarezza dall’alternanza formale dei vuoti che Williams decide di lasciare nella copertura, talvolta eliminando completamente un modulo, in altri casi riconducendo parzialmente il perimetro di una coppia di moduli a due quarti di cerchio, ottenendo dei tagli «a co279
da di rondine». La nuova forma, inoltre, inverte la pendenza delle falde permettendo di convogliare l’acqua al centro e di smaltirla attraverso il supporto centrale: una condizione importante, forse irrinunciabile, in un sistema concepito, calcolato e verificato modularmente, ma inteso fin dal principio 2. AMANCIO WILLIAMS E COLLABORATORI. PROGETTO come continuo. PRELIMINARE PER TRE OSPEDALI NELLA PROVINCIA DI Contemporaneamente alCORRIENTES CON LA VERSIONE DEFINITIVA DELLA COPERTURA, l’avvio del Plan Carrillo, il 1953 CIRCA. PROSPETTIVA. ARCHIVIO AMANCIO WILLIAMS, VICENTE LÓPEZ, PROVINCIA DI BUENOS AIRES. governo Peròn investe su un altro ambizioso progetto: fare dell’Università di Tucumán un centro universitario di eccellenza con una capacità di attrazione sovranazionale, sfruttando la sua collocazione geografica, a nord-ovest del Paese, non lontana dalle frontiere con il Cile e la Bolivia. In questa prospettiva prende avvio la costruzione di una nuova città universitaria su un terreno di 18.000 ettari che l’università acquista sulla collina San Javier, a sei chilometri dal centro urbano di San Miguel de Tucumán (fig. 3). Al progetto, coordinato da Jorge Vivanco direttore della Facoltà di Architettura, partecipano un gran numero di progettisti di cui non è facile indicare l’effettivo apporto. Tra questi figurano Eduardo Catalano e Horacio Caminos, che dopo il fallimento di questa esperienza emigrano negli Stati Uniti, e gli italiani Cino Calcaprina, Ernesto Rogers, Luigi Piccinato, Enrico Tedeschi e Guido Oberti. Quest’ultimo è probabilmente il principale tramite per la consulenza a distanza di Pier Luigi Nervi11. Strutturalmente, la parte più interessante del progetto è probabilmente il centro comunale per il quale si immagina un «bosco» di colonne sormontate da gusci semiconici a base ellittica, alternativamente concavi e convessi. Il modulo, in pianta, non è un triangolo, ma il rombo risultante dalla somma di due gusci. Le colonne, previste alte e di-
3. GRUPPO DI PROGETTAZIONE DELLA CITTÀ UNIVERSITARIA DI TUCUMÁN. SEZIONE DEL CENTRO CIVICO, 1950 CIRCA.
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stanti tra loro 20 metri, avrebbero dovuto collocarsi nel centro geometrico della figura, in corrispondenza di un fascio di nervature dall’aspetto fortemente nerviano. È possibile che il progetto per gli ospedali si sia in certa misura ispirato a quello per Tucumán, pubblicato sulla rivista «Nuestra Arquitectura» nel 195012. Se li si osserva in sezione, i due sistemi presentano più di una analogia, sebbene il profilo disegnato da Williams intrattenga una relazione con la forma che, a un certo punto, esula dalla ricerca dello stato di compressione quasi pura per obbedire a ragioni estetiche13. Inoltre, il passaggio da una griglia triangolare a una quadrata avrebbe comportato profonde differenze spaziali e tecniche. In un momento in cui la fortuna di Nervi nel Paese tocca uno dei suoi picchi massimi14, possono notarsi altre similitudini (fig. 4). Anche Williams si serve di modelli in gesso, sebbene, almeno a giudicare dalle fotografie, questi appaiano meno sofisticati di quello del modulo per Tucumán collaudato nel laboratorio modelli del Politecnico di Milano. È curioso, inoltre, e forse è spiegabile con una suggestione nerviana, che il primo sistema di casseratura che Williams ipotizza preveda degli elementi in ferrocemento da stuccarsi con gesso15.
Caleidoscopia Negli anni successivi nuove esperienze internazionali si addensano intorno a questa figura strutturale. Tra queste, quelle che 4. PAGINA TRATTA DALL’EDIZIONE SPAGNOLA hanno maggiore visibilità e rilevanza sono DI BAUEN MIT TREGENDE FLÄCHEN. ONSTRUKTION UND GESTALTUNG DI FRED probabilmente i progetti e le realizzazioni di K ANGERER. VI SONO RAFFIGURATI IL SALONE B Félix Candela in Messico che sperimenta- DEL PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI DI TORINO no una serie di variazioni a partire dall’ac- DI PIER LUIGI NERVI E LA COPERTURA DEL CENTRO CIVICO DELLA CITTÀ UNIVERSITARIA costamento di quattro paraboloidi iperboli- DI TUCUMÁN. ci. Contemporaneamente, Eduardo Catalano studia, a Raleigh (North Carolina), un gran numero di figure strutturali ottenute combinando superfici sottili a doppia curvatura, riunite nel volume Structures of Warped Surfaces al principio del decennio successivo, tra le quali figurano varie soluzioni rette da un supporto centrale16. 281
5. AMANCIO WILLIAMS E LA MOGLIE DELFINA GÁLVEZ BUNGE RITRATTI SULLA COPERTURA DEL PADIGLIONE BUNGE Y BORN ALL’ESPOSIZIONE RURALE DI BUENOS AIRES DEL 1966. ARCHIVIO AMANCIO WILLIAMS, VICENTE LÓPEZ, PROVINCIA DI BUENOS AIRES.
In questo clima, amplificato dalla rinnovata attenzione di «Nv» per il progetto di Williams17, nell’Argentina della metà degli anni cinquanta si assiste al proliferare di realizzazioni e progetti di nuovi «paraguas», per lo più ispirati al modello candeliano. È il caso della copertura della stazione degli autobus del centro civico di Santa Rosa di Clorindo Testa, Boris Dabinovic, Augusto Gaido e Francisco Rossi o di quelle per le stazioni della rete ferroviaria metropolitana, realizzate in entrambi i casi con pilastri cruciformi. Una diffusione, non solo argentina e spiegabile anche con la compatibilità di tale figura strutturale con le condizioni produttive ed economiche e con l’organizzazione del lavoro e della maggioranza dei cantieri della regione, che porta alla rapida identificazione dei moduli «a ombrello» con la cultura progettuale del contesto latinoamerica-
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no. Ma ciò non impedisce loro di partecipare al contempo a immaginari più vasti che hanno altrove il loro epicentro. I testi Strukturformen. Der Modernen Architektur di Curt Siegel e Bauen mit tregende Flächen. Konstruktion und Gestaltung di Fred Angerer, entrambi pubblicati a Monaco di Baviera nel 1960 e oggetto di tempestive traduzioni, forniscono una esemplificazione eloquente di tale assimilazione18. Denominatore comune di questi volumi, in bilico tra manuale e rassegna, è una chiave interpretativa fondata sul binomio struttura-arte che prelude all’ingresso dell’ingegneria strutturale in uno dei massimi musei di arte contemporanea19 e ha, nel 1965, uno dei massimi picchi di visibilità20 nel celebre Structure in Art and in Science curato da Gyorgy Kepes. Qui, forse con scarso tempismo, Max Bill e Margit Staber ripropongono l’invenzione quale terreno comune ad arte e struttura e individuano la struttura quale elemento connotativo dell’arte concreta21. Il discorso non è nuovo, tanto meno in area rioplatense dove intorno al termine «invención» si articolano dalla metà degli anni quaranta la denominazione e le retoriche di uno dei principali gruppi di artisti concreti22. Un decennio più tardi è il volume dedicato a Nervi da Argan, pubblicato quasi simultaneamente in spagnolo in virtù di un accordo tra l’editoriale Il Balcone e la casa editrice Infinito di Buenos Aires23, a proporre una coincidenza sostanziale tra l’immaginazione strutturale e la creazione artistica. Ma forse è piuttosto il concetto di «buona forma», evidentemente «importato» da Max Bill nell’Argentina dei primi anni cinquanta e che ha straordinaria fortuna conciliandosi con una visone della realtà e della pratica dell’uomo che Alejandro Crispiani ha efficacemente definito «continua»24, a fornire la prospettiva più produttiva per osservare l’attitudine di Williams. Per spiegare una ricerca quasi infinita della compiutezza progettuale che lo spinge a progettare e riprogettare gli ospedali per Corrientes fino a quando i presupposti attuativi del Plan Carrillo perdono del tutto vigenza per effetto dei profondi rivolgimenti politici e sociali che scuotono il paese a metà degli anni cinquanta25. Ma a quel punto, se si eccettuano le piccole variazioni operate sul nodo di giuntura tra la colonna e la copertura26, la «nuova unità strutturale» è per Williams una forma definitivamente valida: una «unchangeable form» come scrive Nervi nel volume curato da Kepes27, o una «soluzione tipo» come già lo stesso Nervi aveva scritto nel 1953 sul secondo numero della rivista «Canon»28. E in quanto tale, per quanto talvolta - come nel caso del progetto per la fabbrica Iggam a Córdoba del 196229 - Williams non si precluda l’esplorazione di soluzioni alternative, questa diviene una costante della sua prassi progettuale, impiegata ogni qualvolta il programma è risolto con una doppia copertura30. Una teoria di progetti difficile persino da catalogare di cui l’unica realizzazione, per quanto effimera, è il padiglione della Bunge y Born all’Esposizione Rurale del 1966 (fig. 5).
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G. PIZZETTI, Los nuevos mundos de la arquitectura estructural in «Nv», gennaio 1951, n. 1, p. 13. 2 ID., La lección permanente de la naturaleza, in «Canon», 1951, n. 1, pp. 65-66. 3 «Cálculos, incluso fríos, pacientemente elaborados y aplicados» è la formula proposta dall’artista uruguayano Carmelo Ardén Quin sul primo e unico numero della rivista «Arturo», sorta di manifesto dell’arte concreta rioplatense pubblicato a Buenos Aires nel 1944. C. ARDÉN QUIN, scritto senza titolo in «Arturo», 1944, estate, n. 1, senza numeri di pagina; si veda inoltre F. DEAMBROSIS, Nuevas visiones: Revistas, editoriales, arquitectura y arte en la Argentina de los años cinquenta, Ediciones Infinito, Buenos Aires 2011, in particolare il secondo capitolo, pp. 85-129. 4 P. L. NERVI, El lenguaje arquitectonico, Ed. Ministero dell’Educazione-Università di Buenos Aires, Buenos Aires 1951; El ingeniero Nervi dio su clase inaugural en el aula magna de la Facultad de Derecho, in «Revista de Arquitectura», 358, pp. CCLXXX, CCLXXXII, CCLXXXIV, CCLXXXVI; Las Clases de Pier Luigi Nervi en la Facultad de Arquitectura y Urbanismo de Buenos Aires, in «Canon», 1951, n. 1, pp. 10-12. Per un’analisi panoramica del contributo della cultura progettuale italiana al dibattito argentino tra la fine degli anni quaranta e i primi cinquanta, si rimanda a J. F. LIERNUR, Fuochi di paglia. Architetti italiani del secondo dopoguerra nel dibattito architettonico per la «Nuova Argentina» (1947-1951), in «Metamorfosi», 1995, nn. 25-26, pp. 76-81 e a DEAMBROSIS, Nuevas visiones... cit., pp. 62-72; per una analisi della presenza italiana sulle riviste argentine degli anni cinquanta con particolare riferimento ai temi strutturali, si veda ID., Los temas estructurales en el panorama de las revistas de arquitectura en la Argentina de los años cincuenta, in «Block», luglio 2012, n. 9, pp. 8-17. 5 Una nueva unidad estructural. Arquitecto Amancio Williams, Ing. asesor Julio Pizzetti, in «Nv», 1954, n. 5, pp. 32-35. 6 Valor plástico de las estructuras: el caliz, in «Parábola», settembre 1961, n. 3, pp. 19-26. 7 J. JOEDICKE, Schalenbau, Konstruktion und Gestaltung, K. Krämer, Stoccarda, 1962. L’esile legame tra il testo e le esperienze qui descritte è costituito dallo spazio che Joedicke dedica agli studi sulle strutture membranali compiuti da Horacio Caminos, Atilio Gallo e Giuseppe Guarnieri. 8 L. MÜLLER, Un largo y sinuoso camino: La bóveda cáscara en los proyectos de Amancio Williams, in «Block», luglio 2012, n. 9, pp. 32-33. 9 Archivio Amancio Williams (Vicente López, Provincia de Buenos Aires, Argentina): disegni A.14.18 4011, A.14.18 4012, A.14.18 4013, A.14.18 4014, A.14.19 4044, A. 14.19 4045. 10 F. ALVAREZ e J. ROIG, Antonio Bonet Castellana, Barcellona 1999, pp. 118-121. 11 Come per gli altri progettisti coinvolti, è difficile de1
terminare con esattezza il contributo specifico di Nervi. La maggioranza della bibliografia è concorde nell’attribuirgli la paternità della struttura della residenza studentesca maschile, peraltro realizzata con evidenti difformità rispetto ai disegni. Su «Nuestra Arquitectura» appare una relazione scritta dall’ingegnere italiano sulla copertura del centro civico che tuttavia presenta più di un’ambiguità circa il suo ruolo effettivo nel percorso progettuale. Informe sobre este proyecto de los especialistas italianos, Ings. Nervi y Bartoli, in «Nuestra Arquitectura», settembre 1950, n. 254, numero monografico senza numeri di pagina; A. M. RIGOTTI, Fósiles de futuro: megaestructuras, in «Block», luglio 2012, n. 9, pp. 18-31. 12 La ciudad universitaria de Tucumán, in «Nuestra Arquitectura», settembre 1950, n. 254. 13 Devo questa osservazione all’ingegnere Tomás Del Carril. 14 DEAMBROSIS, Los temas estructurales... cit., pp. 9, 10, 14 e 15. 15 Archivio Amancio Williams, disegno A.14.2 3417. 16 E. CATALANO, Structures of Warped Surfaces, Raleigh (NJ) 1960. 17 J. GOLDEMBERG, La poética técnica de Amancio Williams, in «Nv», 1957, n. 9, pp. 11 e 12; Tres hospitales en la Provincia de Corrientes. Arq. Amancio Williams, in «Nv», 1957, n. 9, pp. 12-19. 18 C. SIEGEL, Strukturformen. Der Modernene Architektur, Monaco 1960 (ed. inglese: Structure and Form in Modern Architecture, New York 1962, ed. francese: Formes structurales de l’architecture moderne, Parigi 1966, ed. spagnola: Formas estructurales en la arquitectura moderna, Città del Messico 1966); F. ANGERER, Bauen mit tregende Flächen. Konstruktion und Gestaltung, Monaco 1960 (ed. inglese: Surface Structures in Building: Structures and Form, New York 1961; ed. spagnola: Construcción laminar: Elementos y estructuración, Barcellona 1961). 19 Twentieth Century Engineering, catalogo della mostra (The Museum of Modern Art, New York, 1964), introduzione di A. Drexler, The Museum of Modern Art, New York 1964. 20 G. KEPES (a cura di), Structures in Art and in Science, George Braziller, Inc., New York 1965. 21 M. BILL, Structure as Art? Art as Structure?, in ibid., pp. 150 e 151; M. STABER, Concrete Painting as Structural Painting, in ibid., pp. 165-185. Nel volume, come è noto, è coinvolto anche Pier Luigi Nervi che contribuisce con due saggi, mentre nei cosiddetti «Documenti visivi» sono illustrati alcuni progetti di Eduardo Catalano e Horacio Caminos. P. L. NERVI, Is Architecture Moving toward Unchangeable Forms?, in ibid., pp. 96-104; ID., On the Design Process, in ibid., pp. 105-110; G. KEPES, Strucutre: Visual Documents, in ibid., pp. 1-19. 22 Sulla Asociación de Arte Concreto - Invención e, più in generale, l’Arte Concreta in area rioplatense la letteratura è vasta. In prima istanza si rimanda a F. DEAM-
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BROSIS, Nuevas visiones... cit., pp. 85-129; A. CRISPIANI, Objetos para transformar el mundo. Trayectorias del arte
concreto-invención, Argentina y Chile, 1940-1970, Ediciones arq, Bernal (Buenos Aires) 2011, pp. 33-176; A. GIUNTA, Vanguardia, internacionalismo y política. Arte argentino en los años sesenta, Paidós, Buenos Aires 2001, pp. 45-83; M. E. PACHECO ET AL. (a cura di), Arte astratta argentina, catalogo della mostra (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo, dicembre 2002 marzo 2003; Fundación Proa, Buenos Aires, luglio-settembre 2003), Bergamo-Buenos Aires 2002. 23 G. C. ARGAN, Pier Luigi Nervi, Buenos Aires 1955. L’opera fu recensita, non senza qualche perplessità, sulle pagine di «Nv»: J. GOLDEMBERG, G. C. Argan: «Pier Luigi Nervi», in «Nv», 9, 1957, pp. 37-38. 24 A. CRISPIANI, Un mundo continuo, in «Arq», 2001, n. 49, pp. 57-59. 25 Riconoscere le conseguenze sui principali processi progettuali ed edilizi allora in atto del colpo di stato militare noto come «Revolución Libertadora» che il 23 settembre 1955 pone fine al secondo governo Perón non è sempre un’operazione agile. In alcuni casi, di cui forse il più notevole è il Teatro Nacional General San Martín a Buenos Aires di Mario Roberto Álvarez e Macedonio Oscar Ruiz, la discontinuità politica non impedisce la prosecuzione del processo, in altri, ciò che Anahi Bal-
lent ha definito «la fine dell’equilibrio» precede la fine istituzionale del regime. L’epilogo della vicenda dei progetti di Williams per la provincia di Corrientes, verosimilmente connesso con le dimissioni da ministro della sanità di Ramón Carrillo del 1954, non è ancora stato studiato nel dettaglio. S. PLOTQUIN, Dividir, sumar, multiplicar. Eficiencia y burocrazia en el ideario del proyecto del Teatro San Martín, in «Block», luglio 2012, n. 9, pp. 52-59; A. BALLENT, Las huellas de la política. Vivienda, ciudad, peronismo en Buenos Aires, 1943-1955, Ediciones arq, Bernal (Buenos Aires) 2005. 26 Verso la fine degli anni cinquanta, il giunto forato in calcestruzzo armato ipotizzato fino ad allora viene sostituito con un elemento metallico di più facile esecuzione, ma che interrompe la continuità dell’elemento dividendolo, concettualmente e costruttivamente, in due. 27 NERVI, Is Architecture Moving toward Unchangeable Forms? cit. 28 ID., Las proporciones en la técnica, in «Canon», 1953, n. 2, pp. 51-54. 29 C. WILLIAMS (a cura di), Amancio Williams: obras y textos, Summa+ Libros, Buenos Aires 2008, pp. 108115. 30 Per una panoramica dei molti progetti in cui Williams prevede il ricorso alla «nuova unità strutturale»: ibid., pp. 66-87 e 160-165.
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Like Kaleidoscopes: modular central support shell elements in the 1950’s debate
I
n 1951 Giulio Pizzetti wrote a short essay entitled “the new worlds of structural architecture” for the first issue of the Argentinian magazine “Nv”, where he suggested the use of new structural elements, regardless of the possibility to calculate them mathematically. In specific, he was making reference to slender vaults and the only picture included in the essay regarded the interior of the Johnson Wax Administration Building and its “mushroom”-shaped pillars. On one hand, Pizzetti’s message was perfectly coherent with the cross-cutting approach and dialogue that the magazine, whose director was Tomás Maldonado, aimed at promoting. Yet, at the same time, it was very different from “the scientific and even cold methods” making part of the ideological and cultural background that this magazine had learned form the slightly recent River Plate’s experiences in concrete art. However, this is not an unprecedented attitude in Argentina at that time: the text in fact, in many ways but never explicitly, made reference to the lectures that Pier Luigi Nervi had given some months before at the Faculty of Architecture of Buenos Aires. By leafing through “Nv”, one might be persuaded to close a very short circle and skip directly to the fifth issue (1954) where a “new structural unit” was presented: the shell vault that Amancio Williams designed in collaboration with Pizzetti for some hospitals that had to be built in the Corrientes province. But the shell polygonal elements, modular and supported by a central column, “mushrooms” umbrellas” or “stem glasses”, played a central role in a wider circulation of the 1950s design culture, which this contribution is aimed at retracing, at least partially. Just like a kaleidoscope, this structural form might provide a vision of the concerned decade that in the meantime atomized and summarized its image, at the same time: modular shell elements, in more than a case, gave a chance for the recurring instances of the 1950’s debate (structure and art, technique and invention, nature and science, etc) to meet or even integrate. In terms of geometry, Williams’s design for the hospital facilities, as it was conceived in the early 1950s in collaboration with Pizzetti or in its previously developed form together with Antonio Bonet, had obvious points of contact with the roof for the civic centre of the University of Tucumán campus, where Pier Luigi Nervi and Guido Oberti took part to the designing team, in many ways. These were the most remarkable of a series of design projects that were developed in Argentina around 1950’s, whose most relevant aspect was represented by the modular shell elements supported by a central column - a prelude to the many new international works containing this structural feature, designed and built in the following years. The most relevant and prominent among these design projects are the ones by Félix Candela in Mexico, where multiple
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variations were put in place such as the combination of four hyperbolic paraboloid elements. Anyway, it is also worth mentioning some theoretical contributions, as the one proposed by Eduardo Catalano in his book Structures of Warped Surfaces at the beginning of the following decade. In such a climate, enhanced by the fact that “Nv” drew renewed attention to Williams’s design projects, a great number of new “paraguas” were built and designed in the second half of the 1950s in Argentina, mostly inspired by the Candela’s model. This popularity, not just national and explicable because this structural element could suit the economic and productive conditions and labour organization of most building sites in the region, led to identify the “umbrella-shaped” modules with the Latin-American design culture. Nevertheless, this consideration did not prevent the modules to play a leading role in other scenarios worldwide, as it is proved by Curt’s Siegel (Strukturformen. Der Modernen Architektur) and Fred Angerer’s (Bauen mit tregende Flächen. Konstruktion und Gestaltung) books, published in Munich in 1960 and immediately translated. A common feature of these books is an interpretative scheme based on the structure-art relationship that peaked in term of visibility with the famous Structure in Art and in Science, edited by Gyorgy Kepes and dating back to 1965, even if the same scheme had been primarily developed in the mid-1950s. Such a relationship could be also intended according to a very popular formula in Argentinean design culture in the first half of the 1950s: actually, the “good form”, as it was often mentioned in Max Bill’s writings, seems to supply an effective point of view to observe the obsessive attention that Williams used in the definition of the shell vault for the hospitals, until he considered it perfect and used it as a constant feature of his design.
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Biografie
PAOLO DESIDERI Professore ordinario di Progettazione Architettonica presso la Facoltà di Architettura di Roma3. È stato visiting professor e visiting critic presso numerose scuole di Architettura europee e nord americane. Svolge intensa attività saggistico-scientifica che appare regolarmente sulle principali testate specialistiche di settore. Per la Zanichelli ha curato la monografia Pier Luigi Nervi (Bologna 1980). Tra i suoi progetti realizzati vanno almeno ricordati la Nuova Stazione Alta Velocità di Roma Tiburtina (2011); il nuovo Auditorium Parco della musica di Firenze (2011); le stazioni della metropolitana di Roma linea B1 (2012); il restauro e ampliamento del Palazzo delle Esposizioni di Roma (2007); il restauro e ampliamento del Museo Archeologico di Reggio Calabria (in realizzazione). ALESSANDRO DE MAGISTRIS Architetto, Professore Ordinario di Storia dell’Architettura, insegna nella Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano, con afferenza presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani (DASTU). È membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica del Politecnico di Torino. Tra le sue pubblicazioni si ricordano La costruzione della città totalitaria (1995), Paesaggi dell’utopia staliniana (1997), La Casa cilindrica di Konstantin Mel’nikov (1998), Highrise. Percorsi nella storia dell’architettura e dell’urbanistica del XIX e XX secolo attraverso la dimensione verticale (2004). Con Michel Vernes è autore del volume Odile Decq-Benoit Cornette. Opere e progetti (2003) Ha curato, con Carlo Olmo, una monografia su Jakov Chernihkov (1995) e con Irina Korobina il volume Ivan Leonidov. 1902-1959 (2009). CARLO OLMO Professore di Storia dell’architettura Contemporanea, presso il Politecnico di Torino, Professeur Aggregé e Visiting Professor presso l’EHESS di Paris, presso il MIT di Boston, l’Architectural Association di Londra e altre università straniere. Direttore del Dipartimento di Progettazione Architettonica dal 1994 al 1999, Preside della I Facoltà di Architettura dal 1999 al 2007, è coordinatore del dottorato di ricerca in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica dal 1991 al 2000 e poi di nuovo dal 2011 a oggi. Per Einaudi ha pubblicato Le Corbusier e l’Esprit Nouveau (con Roberto Gabetti, 1975), La
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città industriale (1980), Alle radici dell’Architettura Contemporanea (con Roberto Gabetti,1989) e La città e le sue storie (con Bernard Lepetit, 1995); tra le altre pubblicazioni di Olmo, Urbanistica e società civile, Bollati Boringhieri 1982, Dizionario dell’Architettura del XX secolo (Allemandi 1999-2001, e Treccani 2002-2004); Architettura e Novecento (Donzelli 2010), Architettura e Storia (Donzelli 2013). MARKO POGACNIK Ricercatore presso l’Università IUAV di Venezia. Ha tenuto corsi presso FH Potsdam (DAAD Gastprofessur), TUGraz, RTU Aachen, Uni. Dortmund (Vertretungsprofessur), Uni. Innsbruck (supplenza). Ha tenuto conferenze presso la TU Berlin, TU München, ILEK Stuttgart, Uni. Angewandte Kunst Wien, Université Geneve, Accademia di Mendrisio. Ha tenuto la Schinkelfestrede, Potsdam, 2008. Invitato dal National Museum of Contemporary Art di Seoul ha partecipato alla giuria del concorso per il nuovo MOCA Seoul, gennaio 2010. Responsabile dell’unità di ricerca di Venezia nel PRIN2008. Ha pubblicato sull’opera di Loos, Schinkel, Scarpa, Mies van der Rohe, Le Corbusier, Sitte, Th. Fischer, Ledoux, Fr. Gilly e Semper. STEFANO SORACE Professore associato di Tecnica delle Costruzioni presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura dell’Università di Udine. È autore di oltre 130 pubblicazioni scientifiche, di cui numerose su riviste internazionali. I filoni di ricerca riguardano vari temi dell’ingegneria sismica, della modellazione e riabilitazione strutturale, e la caratterizzazione meccanica di materiali e strutture. È stato responsabile scientifico in numerosi Progetti di ricerca internazionali finanziati dalla Commissione Europea, in Progetti MURST e PRIN, e nei Programmi esecutivi DPC-RELUIS. GIULIO BARAZZETTA Laureato nel 1978 presso il Politecnico di Milano dove è Ricercatore in Composizione Architettonica presso il Dipartimento ABC Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Professore in Progettazione Architettonica e coordinatore del Laboratorio di Progettazione e Costruzione dell’Architettura C2, Laurea Magistrale in Architettura delle Costruzioni presso la Scuola di Architettura Civile, Membro del Collegio Docenti del Dottorato AUC (architettura, urbanistica, conservazione). Autore e curatore di libri come: Provenza, monumenti e Città del Rodano (1992), Aldo Favini Architettura e ingegneria a Opera (2004), Bruno Morassutti 1920-2008 opere e progetti, (2009) e delle mostre itineranti collegate tenute in Italia, Svizzera e Spagna. È coordinatore tecnico-scientifico della «Fondazione Aldo Favini e Anna Gatta» e membro del comitato scientifico dell’Association Les Pierres Sauvages - Fernand Pouillon (www.sbgarchitetti.it).
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ALBERTO BOLOGNA Si laurea in Architettura al Politecnico di Torino nel 2007 e nel medesimo Ateneo ottiene il Dottorato in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica nel 2011. È collaboratore scientifico post-doc presso il Laboratoire de Théorie et d’Histoire 3 all’École Polytechnique Fédérale de Lausanne. Nel 2013 cura la mostra «Pier Luigi Nervi. Ingénieur. Architecte. Inventeur. A travers les photographies de la collection Alberto Sartoris» (ACM-EPFL). Tra le sue pubblicazioni: Pier Luigi Nervi negli Stati Uniti. 19521959 (2013) e Seoul Steel Life (con Michele Bonino e Marco Bruno, 2011). PATRIZIA BONIFAZIO Storico dell’architettura e dell’urbanistica: i suoi interessi di ricerca vertono sulla città dalla seconda metà del XX secolo, con una particolare attenzione allo scambio delle culture del progetto. È stata assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano (2004-2006; 2011-2012) ed è attualmente professore a contratto di Urban and Planning History presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. È inoltre responsabile del programma di architettura della Fondazione Adriano Olivetti e curatore del progetto di valorizzazione dell’archivio Ludovico Quaroni. Dal 2008 è responsabile scientifico del processo di candidatura a sito Unesco di Ivrea, «città industriale del XX secolo». ALESSANDRO BRODINI Laureato in Architettura al Politecnico di Milano (1998), ha conseguito il dottorato in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica presso l’Università IUAV di Venezia (2007), dove dal 2006 è collaboratore alla didattica. Nel 2008-2009 è stato borsista post-doc alla Bibliotheca Hertziana e attualmente è collaboratore scientifico della direttrice E. Kieven. Nel 2011 ha ottenuto un assegno di ricerca presso l’Università IUAV, con uno studio su Sergio Musmeci, i cui risultati saranno pubblicati in una monografia in preparazione (con Marco Pogacnik). Nel 2013-2014 sarà borsista post-doc della A. von Humboldt Stiftung presso l’Università di Bonn. EDOARDO BRUNO Si laurea nel 2012 presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino con un progetto di riqualificazione del V Padiglione di Riccardo Morandi. Stage in Maire Tecnimont (2010-2011) per la stesura del catalogo Maire-Tecnimont. I progetti di Fiat Engineering 1931-1979 a cura di Michela Comba. È stato selezionato nel 2011 a partecipare al Workshop internazionale di Bologna «After Urban Sprawl» per la riqualifi-
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cazione del quartiere periferico del Pilastro. Attualmente si occupa di progettazione architettonica presso 2MIX*Archistudio (Torino). MARIA VITTORIA CAPITANUCCI Storico e critico dell’Architettura, si è laureata presso il Politecnico di Milano e ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia e Critica dell’Architettura presso l’Università Federico II di Napoli. Dal 2001 è professore incaricato in Storia dell’Architettura Contemporanea presso il Politecnico di Milano, Facoltà di Design e, dal 2008, Scuola di Architettura e Società. Partecipa costantemente a progetti di ricerca nell’ambito del dipartimento DIAP e DASTU. È stata co-curatore di mostre e iniziative culturali presso la Triennale di Milano e la Biennale di Venezia. Collabora con riviste specializzate, è autore di saggi apparsi su atti di convegni internazionali e cataloghi, nonché di volumi sul periodo post-bellico in Italia e sull’architettura contemporanea tra questi: Agnoldomenico Pica 1907-1990. La critica dell'architettura come mestiere, Hevelius 2002; Vito e Gustavo Latis, Skira 2007; Milano verso l'Expo, Skira 2009; Il professionismo colto nel dopoguerra, Abitare RCS 2013. MICHELA COMBA Ricercatore e insegna storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Torino. Ha pubblicato con Bollati Boringhieri, Electa, Gangemi, Il Mulino, UTET, Jaca Book. Tra il 2004 e il 2008 ha curato cataloghi e mostre come Carlo Mollino architetto (Archivio di Stato, Torino 2006), Un grattacielo per la Spina (Palazzo Madama, Torino, 2008) e la sezione dedicata a Pier Luigi Nervi e la committenza industriale torinese in occasione della mostra itinerante «Pier Luigi Nervi. Architettura come sfida» (Torino Esposizioni, Torino 2011). Tra il 2010 e il 2012 ha lavorato sull’Archivio Maire Tecnimont e in particolare sul fondo Fiat Engineering, pubblicando un catalogo in 2 volumi con Silvana Editoriale. RITA D’ATTORRE Architetto e dottore di ricerca in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica, è assegnista di ricerca presso il Politecnico di Torino. Dal 2005 al 2009 è redattore della sezione Design de «Il Giornale dell’Architettura» diretto da Carlo Olmo. Ha collaborato alle mostre «Carlo Mollino architetto» (Archivio di Stato, Torino 2006), «Torino011. Biografia di una città» (Officine Grandi Riparazione, Torino 2008) e alla tappa torinese della mostra itinerante dedicata a Pier Luigi Nervi «Architettura come sfida» (Torino Esposizioni, Torino 2011). Dal 2010 al 2012 ha lavorato al progetto Archivio Maire Tecnimont del Politecnico di Torino.
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FEDERICO DEAMBROSIS Architetto e dottore di ricerca in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica, insegna Storia e Teorie dell’Architettura del secondo Novecento al Politecnico di Milano. Si è dedicato prevalentemente allo studio delle cultura del progetto tra gli anni quaranta e sessanta, con particolare attenzione alle ibridazioni tra architettura, arti e tecnica, all’architettura in Argentina tra anni trenta e anni settanta e al rapporto tra megaeventi e trasformazioni urbane. TULLIA IORI Professore Straordinario (ssd Architettura tecnica) presso l’Ateneo di Roma Tor Vergata, dove insegna Architettura tecnica. Dal 1994 conduce le sue ricerche indagando la storia della costruzione e delle tecniche costruttive, con particolare riferimento alle applicazioni sulla conservazione dell’architettura e dell’ingegneria moderna. Dal 2012 è impegnata nel progetto SIXXI (ERC Advanced grant 2011 - P.I. Sergio Poretti) dedicato alla Storia dell’Ingegneria Strutturale italiana nel XX secolo e coordina il lavoro del gruppo di giovani dottorandi e assegnisti di ricerca coinvolti. Per maggiori informazioni: www.tulliaiori.com; www.sixxi.eu. ORIETTA LANZARINI Ricercatore in Storia dell’architettura presso l’Università di Udine dal 2005. Laureata in architettura allo IUAV nel 1997, nel 2002 consegue un dottorato in Storia dell’architettura e dell’urbanistica nella medesima università con una tesi su Carlo Scarpa, pubblicata l’anno seguente. È autrice di numerosi saggi su museografia e allestimento in Italia, e ha collaborato a mostre dedicate a questi argomenti. Nel 2009-2011 è stata consulente scientifica per il riordino dell’Archivio Carlo Scarpa. Dal 1998 a oggi conduce uno studio sui manoscritti di disegni di architettura tra XV e XVI secolo; di prossima pubblicazione, un lavoro sul codice Destailleur B all’Ermitage (con Roberta Martinis). ROBERTA MARTINIS Studiosa di storia dell’architettura e dell’arte moderne e contemporanee, è docente di Storia dell’architettura e di storia delle costruzioni presso la SUPSI (Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana) di Lugano.
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FRANCESCA MATTEI Laureata in architettura all’Università IUAV di Venezia (2006) ha ottenuto il Master in Storia dell’Architettura presso l’Università di Roma 3 (2008) e ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’Architettura presso l’Università IUAV di Venezia (2012). Attualmente è assegnista presso il Politecnico di Milano - polo territoriale di Mantova con una ricerca sulle residenze dei Gonzaga nel primo Cinquecento. Tra le sue pubblicazioni, la monografia Eterodossia e vitruvianesimo. Palazzo Naselli a Ferrara (1527-1538) (2013) e diversi saggi sull’architettura moderna e contemporanea. SERGIO PACE Professore di Storia dell’Architettura presso il Politecnico di Torino, dove è altresì membro del collegio dei docenti del dottorato di ricerca in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica e responsabile della Biblioteca Centrale di Architettura. Ha dedicato la propria attività di ricerca all’architettura e alla città tra tardo Settecento e secondo Novecento, con una passione speciale nei confronti del lungo eclettismo europeo, studiando temi come gli spazi monumentali o l’architettura bancaria di secondo Ottocento ovvero autori come Carlo Mollino, Pier Luigi Nervi, Roberto Gabetti e Aimaro Isola. FEDERICO PADOVANI Nasce a Verona nel 1978 e si laurea presso lo IUAV di Venezia in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali con una tesi fotografica sugli edifici italiani degli anni cinquanta e sessanta. Durante gli studi universitari inizia l’attività professionale come assistente di fotografi italiani, internazionali e per agenzie. Da alcuni anni si occupa di fotografia e video per l’advertising e di gestione dei progetti internazionali in collaborazione con lo studio veronese Happycentro. Ha esposto in varie mostre collettive nazionali. SERGIO PORETTI Professore ordinario (ssd Architettura tecnica) presso l’Ateneo di Roma Tor Vergata, dove insegna Costruzione dell’architettura. Svolge ricerche nei settori della storia dell’ingegneria strutturale, della storia della costruzione e del restauro dell’architettura moderna. Nel 2011 ha vinto l’ERC Advanced Grant per la ricerca SIXXI - Storia dell’ingegneria strutturale in Italia nel XX secolo. È Coordinatore del dottorato di ricerca in «Ingegneria Civile» della Scuola di dottorato dell’Università di Roma Tor Vergata. Per maggiori informazioni: www.sergioporetti.eu; www.sixxi.eu.
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FERNANDO SALSANO Dottore di ricerca in storia politica e sociale dell’Europa moderna e contemporanea, è assegnista presso il dipartimento di Studi Urbani dell’Università Roma Tre. Studioso di politiche economiche, sociali e urbanistiche, è autore di monografie e saggi pubblicati su riviste italiane e internazionali. Svolge attività didattica e di ricerca in storia economica presso le Università Luiss-Guido Carli e Roma Tor Vergata. LUKA SKANSI Storico dell’architettura e assegnista di ricerca allo IUAV di Venezia. Ha conseguito il dottorato presso la Scuola studi avanzati a Venezia con una ricerca sul contesto russo prerivoluzionario (1900-1917). I suoi studi sull’architettura russa e sovietica, su Peter Behrens, sull’architettura italiana del dopoguerra, sull’architettura nella ex-Jugoslavia - sono stati pubblicati in diversi libri, riviste ed enciclopedie. È membro del gruppo di ricerca «Arte del Costruire» (IUAV). Ha ricevuto la menzione d’onore al Premio Bruno Zevi (2009), ed è stato Visiting Scholar presso il CCA - Canadian Center for Architecture di Montreal (2012). GLORIA TERENZI Ricercatrice di Tecnica delle costruzioni presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università di Firenze. È autrice di oltre 100 pubblicazioni scientifiche, di cui numerose su rivista internazionale. I principali filoni di ricerca riguardano vari temi dell’ingegneria sismica, della modellazione e riabilitazione strutturale, e la sperimentazione di materiali e strutture. È stata ed è membro di Unità di ricerca inserite in Progetti internazionali finanziati dalla Commissione Europea, in Progetti nazionali MURST e PRIN, e nei Programmi esecutivi DPC-RELUIS.
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© 2013 UMBERTO ALLEMANDI & C. SPA, TORINO FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI GIUGNO 2013 PER I TIPI DELLA SOCIETÀ EDITRICE UMBERTO ALLEMANDI & C.
L’intreccio quasi virtuoso di architettura e ingegneria illumina di una luce particolare un periodo di per sé unico nella storia italiana: gli anni cinquanta e sessanta del Novecento. Questo testo lo affronta attraverso lo sguardo di studiosi affermati e di giovani ricercatori dei Politecnici di Torino e Milano, dell’Università di Udine, di Roma3 e dello IUAV di Venezia, che lavorano su documenti e disegni inediti. Quello degli anni cinquanta e sessanta fu anche un boom di tecniche costruttive e figure strutturali ma soprattutto di progettisti (come Pier Luigi Nervi, Riccardo Morandi, Sergio Musmeci, Carlo Mollino, Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti, Aldo Favini, Luigi Moretti, Antonio Migliasso, Roberto Guiducci, Giulio Pizzetti, Gustavo Colonnetti, Mario Salvadori, Silvano Zorzi, Giorgio Dardanelli, Franco Levi, Fabrizio de Miranda). Professionisti e intellettuali che tra umanesimo liberale ed economia sociale d’impresa, negli anni dell’ENI di Mattei, della Olivetti, della Fiat, della Pirelli di Castellani, della Alfa Romeo di Luraghi, tra Torino, Ivrea, Milano, Roma, New York, Montreal, San Paolo e Buenos Aires, contribuirono a ricostruire con il paese anche la sua immagine nel mondo.
ISBN 978-88-422-2240-8
€ 25,00