L'antiamericanismo in Italia negli anni Trenta 8833904970


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L'antiamericanismo in Italia negli anni Trenta
 8833904970

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MICHELA NACCI L’ANTIAMERICANISMO IN ITALIA NEGLI ANNI TRENTA de



Bollati Boringhieri I

Con la prima guerra mondiale gli Stati Uniti acquisiscono diritto di parola nelle questioni europee. Ma se negli anni venti

il confronto tra i due mondi avviene prevalentemente su temi di politica economica, nel decennio successivo emerge con

prepotenza nell’opinione pubblica del Vecchio Continente una condanna senza

appello del sistema di valori d’oltre Oceano. L’immaginario collettivo degli europei contrappone una cultura ricca di valori spirituali, una civiltà fatta di sedimentazioni storiche, tradizioni e buon

gusto al regno senza passato dell’automatismo e del numero,

in cui il mate-

rialismo ha livellato e «fordizzato» le esistenze. Per la Nacci l’identificazione tra antiamericanismo e nazionalismo non è così scontata. Certo, il fascismo tenta la via

di una industrializzazione antiborghese, mitigata dalla conservazione della vena ruralistica; ed è vero che mete eroiche e

risanamento morale sono agli antipodi di industrialismo e plutocrazia. Ma la condanna ha radici più profonde: è ascrivibile più alla psicologia di massa che non alla critica politica. Essa utilizza infatti

un bagaglio di luoghi comuni che rimarrà invariato fino allo scoppio dell’ultima guerra. A Pintor, Pavese e Vittorini si oppone

una schiera variegata: filofascisti, storici al di sopra delle parti, conservatori, radicali di destra, saggisti, scrittori famosi e viaggiatori sconosciuti; tutti accomunati

dalla costatazione che l’Eldorado della tecnica si è trasformato in inferno umano, negazione di tutto ciò cheè sano, naturale, spirituale. La materia ha schiacciato il genio, la demoplutocrazia ha allontanato l’uomo dalla natura. L’italiano degli anni trenta si chiede se la sconcertante modernità americana

Nuova Cultura 15

Michela Nacci

L’antiamericanismo in Italia

negli anni trenta con otto fotografie di Berenice Abbott

Bollati Boringhieri

Prima edizione settembre 1989 © 1989 Bollati Boringhieri editore s.p.a., Torino, corso Vittorio Emanuele 86 Tutti i diritti riservati

Stampato in Italia dalla Stampatre di Torino CL 61-9049-9

ISBN 88-339-0497-0

Le illustrazioni, di Berenice Abbott, sono tratte dal volume New York in the Thirties, Dover Publications, New York 1973 © 1967 Berenice Abbott

Progetto grafico di Pierluigi Cerri

Indice

Prefazione Introduzione Il regno della tecnica e la fordizzazione del mondo La barbarie del comfort Guerrieri e mercanti Demos e oro Barbaro dominio Il pericolo giallo L’ombra di Babilonia Un gigante dai piedi d’argilla: la crisi del ’29 Au '‘£‘tamq[u aa ALU NI ‘0 nnAmericanismo e bolscevismo

90 100 116

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Il cinema fra arte e propaganda

Um! Luni

I disvalori della modernità

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Note

T/7

Bibliografia

20I

Indice dei nomi

209

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ora mito:

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Prefazione

Mi sono imbattuta nell’antiamericanismo alcuni anni fa, come parte significativa ma apparentemente di non grande rilievo di un argomento che mi è ancora molto caro: la cultura della crisi, la letteratura sul

tramonto dell’Occidente nell'Europa fra le due guerre. Questo, dunque, è un esempio classico di libro che mai si sarebbe pensato di scrivere, di ricerca che parte in sordina — una specie di compito da fare a casa — e cresce quasi da sola col tempo. Una delle ragioni, credo, è che, mentre vedevo sempre più chiaramente la necessità di approfondire l'argomento come necessità in sé, che prescindeva da desideri e inclinazioni personali, mi rendevo conto a mano a mano che il lavoro progrediva che difficilmente avrei trovato nella mia storia intellettuale un altro tema così divertente. Il libro che ora si può leggere è parte di una ricerca più ampia sull’antiamericanismo europeo, e ha preso forma durante i quattro anni che ho trascorso all’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Sono convinta che la sua impostazione e le sue prospettive derivino in buona misura proprio dal clima di scambi, discussioni, incontri, che anima quella istituzione. Una borsa del Cnr e una del Cnr-Nato presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi mi hanno consentito di allargare l’orizzonte delle ricerche e dei problemi da prendere in considerazione. In questi anni, durante i quali trovavo una collocazione per le mie ricerche che stesse fra la storia della filosofia, dalla quale ero partita e che non volevo abbandonare, la storia delle idee e la storia tout court,

ho maturato debiti nei confronti di persone alle quali mi è molto gradito in questa occasione renderli manifesti: di Paolo Rossi al quale

IO

Prefazione

sono debitrice di giudizi rigorosi mai disgiunti da un apprezzamento che probabilmente è stato decisivo per tutti i miei studi, di Eugenio Garin che ha avuto la bontà di discutere con me in più occasioni le mie ricerche, di Stuart J. Woolf dal quale ho ricevuto indicazioni e incoraggiamento, di Enrico Bellone che ha espresso sul mio lavoro pareri molto positivi. Sono numerosi gli amici con i quali ho scambiato opinioni e dai quali ho ricevuto, di fronte a una insistenza a tornare sulla questione che sarà loro parsa insopportabile, suggerimenti talvolta preziosi, critiche illuminanti: Maurizio Vaudagna e Gian Giacomo Migone, Peppino Ortoleva e Bruno Wanrooij, Ernestina Pellegrini e David Ellwood, Marco Diani e Pierre Milza, Luigi Marino e Zeev Sternhell, Victoria De Grazia e Francesco M. Cataluccio.

Ho avuto occasione di discutere impostazione e risultati di questo lavoro non solo con i colleghi dell'Istituto Universitario Europeo ma anche con i partecipanti al convegno «Tramonto dell'Occidente?» a Cattolica nel maggio 1988, in particolare con Domenico Losurdo e Livio Sichirollo. Alcune precisazioni che ora ritengo essenziali derivano proprio dall’apprezzamento e dalle osservazioni che ho ricevuto da loro. Ovviamente, io sola sono responsabile delle affermazioni contenute nel libro, come pure della delineazione di un problema nel quale in alcuni momenti sono stata l’unica a credere. Come si vede, flessi-

bilità e testardaggine hanno avuto entrambe un grande ruolo nella storia di questo libro, ma su fronti diversi. Evidentemente è stata la seconda a essere vinta dalla proposta di Giulio Bollati di dividere in due il mio lavoro, rimandando a un altro momento la pubblicazione della parte che riguarda la Francia: la facilità della vittoria parla a favore della bontà dei suoi argomenti. Ringrazio mio marito Scipione Guarracino per essersi limitato a

subire l’invadente antiamericanismo: le sue critiche mi avrebbero costretta certamente a un lavoro supplementare. Mio figlio Pietro sarà forse stupito che questo libro veda la luce: le fiere battaglie che ha combattuto con le pagine che venivo scrivendo sicuramente non dovevano permetterlo. M.N. Firenze, maggio 1989

L'antiamericanismo in Italia negli anni trenta

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Introduzione

Dopo un breve viaggio negli Stati Uniti, Paul Hazard scriveva nel marzo 1931: «Di ritorno4Parigi, mi accorgo che per essere alla moda

bisogna dir male dell'America; per essere alla moda, bisognava esal tarla oltre misura, tre 0 quattro anni fa, Il vento è cambiato; se continua così, non ci sarà più macellaio di paese, che sgozza il maiale nel cortile, che non parli con disprezzo dei mattatoi di Chicagow L'immagine dell’ America negli anni trenta: è un tema che richiama alla mente, quasi per associazione spontanea, i nomi di Gizime Pintor, di Cesare Pavese, di Elio Vittorini, le traduzioni, il cinema, le andlisi di Antonio Gramsci su «americanismo e fordismo», le discussioni su razionalizzazione e scientific management, V'identiticazione dell'America con il paese più avanzato del mondo dal punto di vista industriale, da un lato, e, dall'altro, con la terra della libertà e dell'auto affermazione individuale, Come dar torto 4 questo riflesso condizio nato? Come negare il legame fra l'America e il mito americano che si espresse, soprattutto negli anni trenta, nell'amore per la lettera

tura e il cinema di quel paese, nell’idezle di una democrazia che pro | prio da noi era assente? Ma sono tutte cose, queste, che vanno asszi

poco d'accordo con V'affermazione di Paul Hazard. Di fatto, questa immagine positiva dell’ America ha relegato în se condo piano l’immagine negativa di quel paese e di quel popolo, dando luogo, nella migliore delle ipotesi, alla convinzione che la critica del l'America e l'opposizione all’americanismo fossero da collegare 4 scelte di politica estera, e dunque da analizzare in contesti storiografici ben definiti, Se solo ci si immerge nel clima dell'epoca, tuttavia, se si ha la pazienza di sfogliare una rivista degli anni trenta, se si prendono

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Introduzione

in mano alcune delle numerose opere sugli Stati Uniti che uscirono in quegli anni, se si tengono presenti frasi come quella di Hazard, l’impressione che se ne ricava è esattamente contraria: appaiono come un'eccezione, un’esigua minoranza (anche se assai significativa) co-

loro che attribuivano all’ America valori positivi come quelli di libertà e di democrazia, mentre il giudizio ostile su quella civiltà emerge con la consistenza di una communis opinio. Del resto, proprio gli esempi addotti a prova dell’esistenza e della diffusione di un'immagine mitica dell’ America (che sarebbe poi tanto più presente e tanto più estesa quanto si abbandonano gli intellettuali e ci si avvicina all’«italiano medio») non parlano affatto in modo

univoco. A parte i repentini passaggi dall’esaltazione dell’ America come regno della libertà alla critica di quel paese come sede dello sfruttamento capitalista, il momento della maggiore simpateticità con quella civiltà è anche quello dell’ambiguità maggiore. Arzericana, la celebre antologia di autori americani curata da Vittorini e sempre citata come caso esemplare dell’atteggiamento positivo, esce nel 1942 con una introduzione di Emilio Cecchi. Qui si possono leggere alcune tra le frasi più velenose che la civiltà americana abbia mai suscitato nei suoi critici, qui stanno alcuni dei giudizi più pesanti su quella letteratura, qui il mito positivo trova posto solo come tendenza da combattere: la letteratura americana è «letteratura “barbara”, o in certo qual modo primitiva», è «come dementata e percossa dal ballo di san Vito». La ragione della sua grandezza, se grandezza vi è, sta nel suo realismo, nel far conoscere la realtà vera dell'America: «una barcollante piramide d’orrori». Cecchi sostiene che un motivo centrale della natura mostruosa di quella civiltà sia da ricercare nel fatto che essa «non da ieri, ha come postulato supremo il benessere e la felicità materiale».? Se poi passiamo a Giaime Pintor, conviene spostare l’attenzione

dalle famosissime pagine nelle quali se la prende proprio con Cecchi come espressione di un antiamericanismo tutto da condannare a quelle in cui, due anni prima, dipingeva un'America come civiltà dei numeri, delle folle, della secolarizzazione, delle macchine. Di quella civiltà prendeva a simbolo il cinema, proprio come in La lotta contro gli idoli lo avrebbe preso rovesciandolo di segno, vedendovi la presa del potere dell’uomo in giacca e cravatta, del borghese senza storia classica alle spalle: stavolta invece il cinema era l'esempio di qualcosa

Introduzione

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di molto diverso: «la corruzione dell’opera d’arte, la sua breve decadenza di fronte e contro la folla».‘ Quanto alle penetranti analisi di Antonio Gramsci, ogni volta che sono state usate come fin de non recevoir sulla questione dell’antiamericanismo, non ho potuto fare a meno di pormi una domanda: perché mai l'accettazione della tesi gramsciana, secondo la quale le opinioni critiche sulla civiltà americana di tanti intellettuali piccoli e grandi di casa nostra farebbero luce su una possibile sociologia dell’intellighenzia europea di quegli anni (tesi con la quale concordo appieno), dovrebbe impedire ogni verifica quanto agli effettivi referenti polemici della tesi stessa (gli antiamericanisti, appunto)? La carenza (davvero impressionante, se paragonata con la presenza e l’estensione delle critiche alla civiltà americana negli anni trenta) di studi su questo problema è legata probabilmente con le analisi, che invece iniziano a essere soddisfacenti, dei rapporti fra Europa e America nel primo dopoguerra e nel secondo, che riguardano cioè rispettivamente gli anni venti, lo scorcio degli anni quaranta e gli anni cinquanta. Quel che voglio sostenere è che, in entrambi questi casi, l’esame delle posizioni assunte dai paesi europei in materia di politica estera ha un rilievo di primo piano nel giudizio che veniva dato sull’ America. Ed è indubbio che, in questa prospettiva, siano molto importanti il ruolo svolto dai ministri degli Esteri, dai capi di governo, dalle diverse parti politiche, dagli esponenti delle forze economiche dei paesi in questione. Il problema assume tutt’altri contorni negli anni trenta. Prima di tutto, sono diversi i termini nei quali l'opposizione viene formulata: non è ancora (come negli anni cinquanta) una discussione politicoeconomica sul ruolo che l’America - l’«alleato nemico», come feli-

cemente è stata definita —’ svolge in Europa; non è più (come negli anni venti) una critica del wilsonismo dei quattordici punti, del democraticismo umanitario, del pacifismo, con i quali veniva identificata quell’ America che, partecipando alla Grande Guerra, aveva acquisito diritto di parola nelle questioni europee. Si tratta invece, negli anni trenta, dell’opposizione alla civiltà americana considerata in quanto civiltà e come un tutto, senza il bisogno cioè che, per essere completa, a quell’analisi si aggiunga il giudizio politico o l'esame delle mosse dei reciproci governi. Si potrebbe osservare che la questione dei debiti di guerra, da un lato, e l’oggettiva penetrazione economica

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Introduzione

dell’ America nell'Europa del periodo, dall’altro, sono e restano elementi determinanti in una ricerca sulle reazioni europee verso quel paese oltre Atlantico, sull’ostilità verso l'America. Oltre a essere indubbio, questo argomento è anche presente nella storiografia contemporanea, da una parte dell'Oceano come dall’altra. Quello che continua, invece, a essere presente in modo molto marginale, è lo studio

dell’opposizione europea (tanto diffusa, tanto virulenta, tanto insistente) all’americanismo: alla visione del mondo e al modo di vita propri dell'America 0, come si esprimevano i critici di allora, all’imperialismo culturale americano. E un fenomeno, questo, che non si registra (o, quanto meno, non si registra in misura così ampia) né negli anni venti né negli anni cinquanta. Parrebbe dunque, al momento di fare i consuntivi, che la motiva-

zione principale di questa ricerca sia da rintracciare nell’assenza di studi di un qualche peso sull’argomento, nell’oblio storiografico che sembra averlo relegato fra i soggetti di nessun interesse per lo studioso. A ben vedere, risulta invece di pari importanza una motivazione che appartiene a un diverso ordine di ragioni: è quello che comprende il desiderio (che diventa missione per coloro che sono dotati di una forte dose di autosuggestione) di interpretare infine nel modo corretto un problema già investigato da studi precedenti, e divenuto, in queste interpretazioni erronee, un luogo comune storiografico. In questo caso, i due ordini di motivazioni si sommano e si intrecciano, visto che, semplificando all’estremo, si potrebbe affermare della mia

ricerca che essa vuole interpretare correttamente una questione della uale la storiografia si sbarazza rapidamente citando alcuni auctores. E indubbio che l’immagine dell’ America nell’Italia degli anni trenta è uno di quegli argomenti che spiccano per la loro assenza nelle storie — oggi numerose e multiformi quanto a impostazione — del fascismo.° Ben che vada, fa parte degli argomenti marginali; nella peggiore delle ipotesi, fa parte delle esortazioni. Ma anche il modo in cui la sua assenza spicca è significativo: posto che l’America era presente in Italia come «sogno americano», il resto è storia politica, storia

diplomatica (assai frequentate dagli storici),” oppure la triste storia dell’imposizione e dell’accettazione di un consenso di massa che non lasciava spazio a ragionamenti ulteriori. La convinzione di chi scrive è molto diversa proprio su questo punto. Fra Giaime Pintor da una parte e le varie ricostruzioni dei

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rapporti che corsero effettivamente fra l’Italia e l'America dall'altra, resta uno spazio vuoto costituito dall’idea che di quel paese si facevano romanzieri, viaggiatori, intellettuali sedentari, giornalisti che scrivevano dall’Italia e corrispondenti dall’estero, singoli dei quali è

rintracciabile l'opinione (poiché spesso vivevano dell’opinione che riuscivano a creare) e gruppi culturali che si sono occupati della questione con una certa continuità. In questo spazio vuoto si colloca non

una qualche vaga idea dell’ America, insignificante — se così fosse come una delle tante idee che una mente oziosa può pensare: in questo spazio emerge con forza, invece, la versione italiana di quella corrente d’idee presente in modo così marcato nell'Europa fra le due guerre, che va sotto il nome di antiamericanismo. Non si tratta, in altre parole, della semplice avversione politica, culturale, di costume, per il grande paese oltre Atlantico che stava sorgendo come potenza mondiale, e contro il quale spingevano le linee portanti della politica estera del Regime. A questo proposito, bisogna ammettere che l’indirizzo generale della politica estera assunta dal fascismo in quegli anni dovette funzionare senz'altro come un comodo contenitore per l’antiamericanismo italiano, mentre è davvero difficile pronunciarsi sul grado in cui tale impostazione formò o influenzò in modo consistente una fetta dell'opinione su questo argomento, anche perché — come è stato osservato — in altri periodi, non dittatoriali, della storia d’Italia, l’anti-

americanismo si è espresso ugualmente, anche se sotto un’etichetta politica diversa.”

L’analisi dell'immagine negativa dell’ America rintracciabile in quegli anni porta alla luce stereotipi dell’antiamericanismo molto simili a quelli presenti nell’Inghilterra o nella Germania dell’epoca, per non parlare della Francia;!° fa riemergere un atteggiamento complessivamente negativo sugli Stati Uniti che non nasce all’improvviso, ma che raccoglie e utilizza alcuni luoghi comuni prendendoli dal bagaglio di quelli che l’America ha suscitato nell’età contemporanea, bagaglio che resta invariato almeno fino alla seconda guerra mondiale. Che tipo di problemi pone la permanenza di stereotipi negativi? Il fatto che l’avversione all’ America come civiltà diversa da quella europea sia stato accantonato non dipende forse, in qualche misura, dalla difficoltà di risolvere quei problemi? Spesso è accaduto, infatti, che la storiografia

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Introduzione

si sia come arrestata di fronte ad analoghe questioni di attribuzione di un argomento a una qualche storia speciale già consolidata. Ma, a riprova che l’antiamericanismo è tutt'altro che un tema secondario per chi si occupi di storia contemporanea, negli ultimi tempi proprio alcuni eventi di politica internazionale hanno spinto a porre l’attenzione su questo tema: per l’Italia,è stato il caso di Sigonella nell’ottobre 1985. L’emergere improvviso di un sentimento nazionalistico che si traduceva immediatamente in sentimento antiamericano ha fatto chiedere a qualcuno se tale sentimento non era già bell’e pronto nei magazzini dell'immaginario collettivo.!! Questo studio vuole anche essere un contributo a dare a questa domanda una risposta documentata. Il presente libro verte dunque sul mito negativo dell’ America nell’Italia degli anni trenta. Bisogna aggiungere: su questo fenomeno, e non su altri. Né, dunque, sull’ America come era davvero, né sulla sua influenza efFettira sulla politica, l'economia, i costumi europei,

né sulla portata e i limiti della razionalizzazione adottata dall’industria italiana, né - lo ripeto - sulla politica estera di quel periodo. E certo che molti luoghi tipici dell’antiamericanismo non fanno altro che prendere atto di processi reali che si stanno svolgendo in quel momento negli Stati Uniti, mentre in altri casi utilizzano le opinioni che gli americani stessi nutrivano sul proprio conto.'*? Dal mio punto di vista questo resta tutto sommato un aspetto secondario, data la scelta preliminare che ho fatto: quella di considerare significativa l’immagine dell’ America che si aveva in Italia non per il suo oggetto polemico, ma per gli abitanti del Vecchio Mondo, per la loro autodefinizione fra la crisi del ’29 e lo scoppio del secondo conflitto mondiale, per l’intero sistema di valori che opporsi alla civiltà americana

comportava. Mi verrà senz'altro rimproverato di non tenere nel debito conto che fra Europa e America c’era anche un problema di potere, anzi: di Potere. Sono convinta, da parte mia, che evidenziare

questo punto ovvio enfatizzandone la portata non avrebbe aggiunto niente di significativo alla presentazione e alla lettura della critica della civiltà americana che offro in queste pagine. D’altra parte, bisognerà pur riconoscere che gli intellettuali non sono esattamente uomini politici, e che forse il modo più pertinente che possedevano per riflettere sui rapporti di forza complessivi fra il Vecchio Mondo e il Mondo Nuovo era chiedersi - come facevano — che cos’è che rende deboli

Introduzione

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o forti le civiltà, era interrogarsi sulla natura di un’egemonia storica, qualunque sia il valore che si assegni a quella riflessione. Nell'ambito del mito negativo (che spesso prescinde dalla realtà) nel quale mi sono collocata, ho fatto dunque una scelta ulteriore: ho cercato in modo non sporadico di inserire questo antiamericanismo

così definito nella cultura della crisi europea, nella comparsa e nella diffusione di filosofie non progressiste e non lineari della storia, in un antimacchinismo che veniva da lontano, nelle visioni catastrofiste

del tramonto dell’Occidente, nelle correnti politico-ideologiche che esprimevano una protesta (spesso estetica) nei confronti del mondo attuale (moderno e materialista come l'America, appunto), che ipotizzavano la rivolta contro quello stato di cose nei termini di un nuovo inizio della storia (un inizio che tornava indietro nel tempo, fino al Medioevo, fino alle civiltà pagane e solari del Mediterraneo), che condannavano liberalismo e democrazia perché vi vedevano le origini del contemporaneo «dominio delle masse». Nel corso di questo lavoro, infatti, è venuta crescendo la convin-

zione che molti aspetti dell’antiamericanismo italiano sarebbero rimasti oscuri se non fossero stati collegati con contesti di riflessione comuni a tutto il Vecchio Mondo che avevano per oggetto il valore della modernità, il declino dell'Europa, la nascita della società e della cultura di massa, il pericolo giallo, il volto del futuro europeo, i danni o i benefici della tecnica per l’uomo." La direzione nella quale lavorare era dunque quella di riportare per intero l’immagine negativa della civiltà americana all’ Europa del periodo, a temi e preoccupazioni europei, e di collegarla con i due elementi di maggior peso in tali temi e tali preoccupazioni: il timore per la crescente egemonia americana (e quindi per l’inevitabile decadenza europea) e le concezioni non progressiste della storia. A confortare questa linea di ricerca stava l'impressione che se, come è stato affermato, l’americanismo negli anni venti si identificava non solo con il democraticismo wilsoniano ma anche con la tecnocrazia, con

l’ingegneria come possibile redenzione sociale, negli anni trenta esso si identifica invece, in maniera preponderante e inedita, con la forma e l’essenza della civiltà americana. In questo modo, esso toccava quei punti della sensibilità europea che non riguardavano solo taylorismo e fordismo, o gli ideali pacifisti, ma l’accettazione o il rifiuto di un modello di civiltà che rappresentava il futuro rispetto al

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Introduzione

Vecchio Mondo, e che combinava le macchine con la dittatura sociale, il consumismo con il rifiuto della storia.

Si trattava, in tutti questi casi, di giudizi che correvano non nella sola Italia fascista, ma in tutta l'Europa. Bisogna sottolineare come fosse europeo il giudizio su quel modello di civiltà che si espresse negli anni trenta nell’accusa — talmente estesa da non poter essere sottovalutata - di barbarie rivolta contro l'America, nell’opposizione fra storia e inciviltà, nella sentenza di materialismo, nella critica al cattivo gusto di quel popolo, nell’appello alla resistenza contro la mi-

naccia di un’invasione culturale, nel disprezzo per quella civiltà incivile che trovava il suo ideale nel comfort, nel rovesciamento sistematico

degli elementi che avevano costituito il mito americano (giovinezza, modernità, individualismo, libertà). Il sospetto che nell’antiamerica-

nismo il versante nazionale e quello comune a tutto il Vecchio Mondo fossero assai ravvicinati trova non poche verifiche: dai giudizi di Martin Heidegger alla perfidia (divenuta perfino proverbiale) degli inglesi contro la civiltà americana - da Oscar Wilde in giù — fino ai numerosi esempi offerti dalla cultura francese del periodo. Un autore esemplare per le sue tesi su questo argomento ha un nome tanto poco italiano quanto Werner Sombart. Possiamo tralasciare in questa sede gli articoli apparsi nel 1906 in «Archiv fùr Sozialwissenschaft» e poi raccolti in Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?, le posizioni espresse in Der Bourgeois (1913), la contrapposizione centrale in tutto l’antiamericanismo fra Handler und Helden (1915), per concentrarci invece su quella esemplare silloge di giudizi sull’ America che è Der deutsche Sozialismus. In questo testo del 1934 Sombart, che vede nella sua epoca l’«era economica», interpreta gli ultimi centocinquant’anni di storia europea e americana come la dimostrazione della «potenza del diavolo» ed esprime qui più chiaramente che altrove la sua idea che il male maggiore, fra quelli che hanno colpito il mondo, è rappresentato dalla moderna società industriale e dai suoi effetti:!6 la distruzione della fede, l’ancoramento al mondo

terreno, l’individualismo, l’ideologia e la pratica politica liberale, il predominio di una ratio economica sulle altre ragioni più impalpabili, la fede nella potenza della tecnica, la scomparsa della selezione naturale e il decadimento della razza, la diffusione del benessere, la con-

siderazione delle macchine domestiche come invenzioni a vantaggio dell'umanità, la trasformazione del superfluo in necessario, la produ-

Introduzione

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zione di merci, la dissoluzione delle piccole comunità, l’urbanizza-

zione, la creazione di spostati. Quando passa ai cambiamenti indotti

dalla società industriale sulle forme di vita, Sombart ne indica tre: l’intellettualizzazione, ossia l'eliminazione della libera iniziativa

individuale dal comportamento degli uomini, la materializzazione (o obiettivizzazione), ossia l'esclusione dell’uomo dal lavoro grazie

alla presenza di macchine, l’uguagliamento - dove si esprime maggiormente l’azione dell'economia — definito come tendenza all’uniformità del modo di vivere, dei paesaggi, dei popoli, delle abitudini alimentari ed estetiche. Chi avrà la pazienza di leggere questo libro troverà che tutte le caratteristiche che Sombart attribuiva al mondo industriale sono le stesse che per gli antiamericanisti italiani definiscono la civiltà americana. Le coincidenze non si limitano a quelle segnalate: vorrei darne ancora qualche esempio significativo. Per Sombart l’esistenza di un oggetto come l’aspirapolvere elettrico è un tragico segno dei tempi; allo stesso modo che per i critici italiani dell’ America, il mondo moderno che è giunto all’ultimo stadio della decadenza è quello caratterizzato dal denaro come metro per ogni tipo di scambi. Per tutto l’antiamericanismo — così come per Sombart - il progresso nella produzione di beni va di pari passo con un regresso delle capacità intellettive, il mercante trova la sua antitesi nel guerriero, l’essenza del

tempo presente è il materialismo che rende schiavi dei bisogni, «il confortismo» che dilaga «conduce alla putredine l’intero corpo sociale», i nuovi ideali sembrano essere la rapidità, la velocità e il sempre nuovo, le scellerate stigmate di un’epoca «bassa» sono la produzione in massa dei beni culturali, l’esistenza di scienze specialistiche, la separazione dell’uomo dalla natura.!* Non si può neanche affermare che costituisca una differenza il fatto che Sombart attribuisca questi tratti all’ America e all’ Europa insieme, mentre in una fase precedente gli era parso che appartenessero solo al Mondo Nuovo. Per gli antiamericanisti, era solo una questione di tempo, e personalmente una questione di maggiore o minore pessimismo. Ma, in fondo, la tesi che tutto il mondo industrializzato fosse ormai identico di qua e di là dall'Oceano era perfettamente comprensibile per chi cercava di difendere i valori del Vecchio Mondo dall’invasione della modernità, dall’americanizzazione. Semplicemente,

per qualcuno l’invasione era già avvenuta; ma, anche in questo caso,

DI

Introduzione

restava vero che era solo nel seno dell’ Europa che poteva essere trovata una possibilità di salvezza. Se passiamo alla cultura francese degli anni trenta, della quale mi sono occupata con una certa continuità e che sarà oggetto di una pubblicazione specifica, scopriamo che la discussione sull’ America, sui pregi e i difetti del modello che rappresentava, sul rapporto fra una

potenza in ascesa e le sorti dell'Europa, non solo è una delle discussioni importanti di quegli anni, ma coincide esattamente con temi e atteggiamenti dell’opposizione italiana alla civiltà dei grattacieli. La questione sulla quale si interrogavano grandi americanisti letti ancor oggi e poligrafi del tutto dimenticati, letterati nella mischia e sociologi che sarebbero diventati famosi, è ben sintetizzata dalle parole che scriveva Paul Achard: «Tutto sta nel sapere se, nel 1930, la civiltà è la polvere — anche autentica — o la stanza da bagno.»° In altri termini, il problema era quello se la civiltà americana, figlia com’era dell'industria e della tecnica, potesse considerarsi un’alternativa plausibile alla sola forma di civiltà che per l'Europa era concepibile, fatta di sedimentazioni storiche, di tradizione, di 0t1472 come spazio della cultura, di sottigliezze, di buon gusto. L’assoluta, sconcertante mo-

dernità dell’ America poteva essere definita una forma diversa di civiltà o la fine della civiltà tout court? Se l'America era il futuro del Vecchio Mondo, quel futuro avrebbe portato all’umanità doni graditi oppure avrebbe proposto come ideale la perfezione tecnica degli elettrodomestici, e la standardizzazione come male inevitabile?

E dibattendo di questi argomenti che si incontravano sul fronte dell’antiamericanismo filofascisti come Pierre Drieu La Rochelle e grandi amici degli Stati Uniti come André Maurois, storici al di sopra delle parti come André Siegfried e saggisti come Firmin Roz, conservatori come Georges Duhamel e radicali di destra come Robert Aron e Arnaud Dandieu, scrittori famosi come Paul Morand e viaggiatori sconosciuti. In una gradazione di sfumature che vanno dalla diffidenza all’antipatia, per arrivare fino alla repulsione, tutti questi autori discutevano del matriarcato americano e della donna che lavora come ibrido sessuale, della giovinezza storica che si faceva leggere come ingenuità e semplicismo, dell’incultura, della omologazione sociale, della cultura di massa, del macchinismo, della solitudine nella folla, dei numeri e delle macchine, del culto per l’oro e la quantità, del pes-

Introduzione

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simo gusto nel vestire e nel mangiare, dell’ottimo esempio che di quella inciviltà era il cinema, del passaggio del primato mondiale da un continente all’altro letto come tramonto dell'Occidente, del dispotismo sociale che faceva della terra della libertà il paese più dittatoriale del mondo, e che si affermava non con la forza delle armi o dell’ideo-

logia, ma per le ragioni stesse che rendevano quel paese il più progre-

dito di tutti. Se nelle posizioni che abbiamo appena mostrato si registrava uno scarto rispetto a quelle espresse in Italia, questo stava dunque nella maggiore radicalità degli argomenti, nella cattiveria maggiore espressa sugli americani, in tutta la gamma che va dall’ironia al sarcasmo. È da questo punto di vista che l’identificazione dell’antiamericanismo con il fascismo italiano risulta meno scontata del previsto mentre, per contro, il fascismo appare come un caso europeo di posizioni ben altrimenti diffuse. La ragione, nel caso specifico, è da ricercare nel fatto che i problemi rappresentati dall’ America e dall'eventuale americanizzazione dell'Europa erano in larga misura indipendenti dai confini nazionali e riguardavano argomenti tanto generali quanto possono esserlo quello del destino del Vecchio Mondo, dell’egemonia europea, dell'opzione pro o contro una modernità intesa più come complessivo sistema di valori che non solo come modernizzazione economica, della funzione dell’intellettuale nel mondo dove regnano le masse. Una stessa opposizione al moderno così inteso, una stessa esaltazione del valore in sé della storia (non necessariamente di quella della Roma imperiale), una stessa fede nell’etica della scarsità, e in

più, spesso, una stessa concezione di questi problemi nei termini offerti dalle visioni spengleriane della storia, una stessa sensibilità per l’analogia e i cicli di nascita e morte delle civiltà, era in grado di accomunare in Italia gazzettieri e intellettuali, in Europa fascisti e non. Prima di terminare, vorrei porre un problema. È sempre difficile ex post ricostruire le opinioni di un’epoca, afferrare la consistenza di correnti di idee delle quali si trovano le tracce, dare margini e spessore a immagini e miti, stabilire l’esatta estensione di luoghi comuni che pure appaiono ripetuti. In questo genere di imprese è quasi inevitabile scontrarsi con un ostacolo che in alcuni momenti appare insormontabile: in assenza di testimoni degni di fiducia, è possibile che si formino errate convinzioni circa la psicologia collettiva di un'epoca o di un popolo. A mente fredda, ognuno di noi è convinto di non

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Introduzione

credere nell’esistenza di un’anima collettiva che, mutevole secondo

i periodi storici e i diversi paesi, orienta le opinioni in una direzione comune. Sta di fatto che ogni ricerca che abbia per oggetto le mentalità, le opinioni collettive, le sensibilità diffuse, le convinzioni che non siano solo quelle di singoli autori, implica non la fede in quell’anima collettiva, ma certamente il pericolo di professarla pur senza volerlo. In questo caso, sarebbe davvero paradossale che questo accadesse, visto che a più riprese nel corso di questo lavoro viene messo in rilievo il grande ruolo che una psicologia dei popoli alquanto semplificata svolgeva nell’antiamericanismo italiano.?° La permanenza e il mutamento degli stereotipi sull’ America dal momento della sua scoperta fino ai giorni nostri è un argomento di grande attrazione. Nel più modesto arco temporale di cui mi sono occupata, ho incontrato esempi dell’un caso e dell’altro: a volte era facile collegare i pregiudizi antiamericani degli anni trenta con quelli di data anteriore, con esempi che avevo sotto gli occhi (Charles Dickens, Oscar Wilde, Paul Bourget) e l’ho fatto quando, in altra sede,

ho riportato un recente diario di viaggio a quell’antiamericanismo al quale stavo lavorando, in un modo con cui certo l’autore non concorderebbe.?! Ma più spesso, quasi come trama di fondo, ho cercato di evidenziare ciò che caratterizzava la critica della civiltà americana negli anni trenta in modo diverso rispetto a quello di altre epoche, enfatizzando gli elementi di rottura, di cambiamento, più che quelli di continuità: si colloca qui la considerazione, espressa in questo libro, della crisi del’29 come di uno spartiacque decisivo anche dal punto di vista dello sguardo europeo sull'America. Ma solo l’analisi di alcune correnti del pensiero europeo poteva servire davvero allo scopo: è per questo motivo che essa occupa tante di queste pagine. Sarebbe di grande interesse non solo il proseguimento di ricerche analoghe a questa per altri paesi europei, ma anche il confronto nel lungo periodo degli stereotipi antiamericani: è un’impresa superiore alle mie forze e la lascio di buon grado ad altri. Esprimo dunque solo una congettura quando affermo che un’analisi di questo tipo farebbe emergere, accanto a impressionanti identità di argomenti, una sostan-

ziale differenza nelle motivazioni generali della critica della civiltà americana nell'Ottocento, fra i conservatori degli anni venti, nel 68,

fra i comunisti degli anni cinquanta, per prendere solo qualche esempio.

Introduzione

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Un autore che ho sempre avuto presente nel corso di questo lavoro, anche se le sue tracce sono poco visibili nel testo, è Henry James: un caso portato all'eccesso di antiamericanismo americano. Un’ana-

lisi delle critiche rivolte al suo paese di origine da questo scrittore sospeso fra due mondi è una tentazione che si è affacciata spesso, e che è stata relegata fra le letture del tempo libero e fra i rimpianti. James aveva capito davvero molte cose sulla diffidenza reciproca e le reciproche incomprensioni di americani ed europei, quando attribuiva ai primi la disapprovazione morale per il Vecchio Mondo, insieme al fascino per la sua arte e la sua storia, e ai secondi un sentimento assai vicino al disprezzo. In una delle numerose pagine che ha dedicato all’argomento, faceva ricordare a un esponente della vecchia Europa, rivolto a un esponente del Nuovo Mondo, che esisteva qualcosa che era «l’esser troppo diversi per litigare».?° Questo libro vuole mostrare che quella convinzione, nell'Italia degli anni trenta, esisteva davvero.

Capitolo 1 Il regno della tecnica e la fordizzazione del mondo

Uno dei modi più diffusi per definire l’America era quello che la identificava con una tecnica pervasiva, onnipresente, agguerrita, divenuta quasi autonoma nel suo funzionamento e nelle finalità che si dava. E uno stereotipo vecchio quasi quanto la storia americana stessa

nei suoi rapporti con l’Europa,! che continua tuttora a essere presente, anche se negli ultimi anni appare soppiantato, quanto a intensità (e quindi a capacità di stupire), dai progressi senza limiti della tecnica giapponese.° E per questo motivo che bisogna tenere presenti posizioni come

quella di Icilio Petrone contro la civiltà meccanica, contro il «sopravanzare dell’evoluzione della materia sull’evoluzione dello spirito», contro il conseguente trionfo della massa intesa in senso numerico sul genio, poiché è proprio sulla base di punti di vista come questo che la civiltà americana poteva essere considerata una barbarie, e condannata.’ E che cos’era l'America se non, come osservava ad esempio Franco Ciarlantini, il regno dell’automatismo, della continua espansione produttiva, della specializzazione delle funzioni e della standardizzazione dei prodotti? Anche chi scriveva in quegli anni rilevava il nesso esistente fra l’America e l’immagine del regno della tecnica, e dunque fra l’antiamericanismo e l’antimacchinismo.? Mario Jannelli scriveva: «Alla macchina si imputa la responsabilità di tutta la crisi economica, sociale e spirituale, che travaglia il mondo moderno (...) È di quegli stessi anni una sorta di reazione europea contro l’America e l’americanismo.»° Ugo d’Andrea ricollegava, d’altra parte, la caduta del mito della macchina in Europa proprio con la nascita e l'espansione

Regno della tecnica e fordizzazione del mondo

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di un diffuso pregiudizio nei confronti dell’ America, e si riferiva al momento in cui il vecchio continente si era sentito minacciato «a oc-

cidente dalla esasperazione della sua civiltà borghese, e a oriente dalla negazione di questa stessa civiltà». Tutta sotto il segno della tecnica era l’America visitata da Margherita Sarfatti, affascinata dallo spettacolo di «rigida geometria» che tutte le cose offrivano, ma spaventata dall’ipotesi che l’evoluzione dell’uomo potesse concludersi nella sua trasformazione in robot. Scriveva nel 1937: «Dall'alto di questi edifici, è bellissimo veder formicolare in basso il flutto incessante ma alterno di milioni di balocchi automatici.» * Era l’idolatria americana della macchina che spiegava, secondo la Sarfatti, l’amore di quel popolo (amore altrimenti incomprensibile) per il jazz, per le danze moderne, il suo «fanatismo per le macchine parlanti», la sua «unità sentimentale» costruita da strumenti come la radio.’ Ma l’immagine dell’ America come paradiso della tecnica (che si rovesciava subito in inferno) era così diffusa da comparire in ogni

riflessione che quel paese suscitava. Emilio Cecchi, riferendosi alla penetrazione capillare dei mezzi meccanici nella vita di tutti i giorni, osservava nel 1940: «La prima impressione nelle strade di Washington è che nessuno ce la faccia più a camminare.» !° La tecnica aveva lo strano potere di spazzar via ciò che era considerato naturale, e di recuperarlo solo come espediente igienistico per rimediare ai guasti che proprio la sostituzione del naturale con il meccanico aveva provocato. Altrettanto diffusa era, dunque, la convinzione che la tecnica conducesse non alla liberazione dell’uomo dalle catene della necessità naturale, ma a una nuova e più costrittiva forma di schiavitù. Come scriveva Mario Tinti: La superstizione tecnicistica ed i suoi eccessi, approdando ad un aberrante virtuosismo, perdendo il rapporto di relazione fra mezzo e scopo mutuato dall’umana natura, invece della promessa liberazione dell’uomo dalla biblica maledizione della fatica, gli ha ribadito ai polsi la catena di una nuova schiavitù, lo ha maggiormente ingolfato nel suo destino terrestre, gli ha precluso più che mai la via verso il riacquisto del perduto «paradiso»; e mai come oggi appare significativo e trasparente il mito del supplizio prometeico.!!

Se queste erano le premesse per guardare con timore e disapprovazione al completo dispiegamento delle possibilità della tecnica che

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Capitolo primo

l'America sembrava aver realizzato, un primo punto intorno al quale si addensavano le testimonianze e le critiche era quello della meccanizzazione del lavoro e degli effetti negativi ai quali aveva condotto. Se l'industria americana era assai sviluppata, era più difficile sostenere che essa costituisse una soluzione umana al problema della produzione. «Quando l’operaio esce dalla fabbrica a notte inoltrata - scriveva Giulio Alimenti - (...) è completamente stordito dalla ec-

cessiva durata del lavoro ininterrotto e dal rumore delle macchine.» ! Lo stesso Alimenti attribuiva agli anni che avevano preceduto il 1929 l’illusione originatasi negli Stati Uniti, ma che si era diffusa poi un po’ in tutto il mondo, che la macchina avrebbe, in virtù delle sue sole forze, dei suoi progressi, arricchito tutti. In realtà, allo

sguardo disincantato di chi aveva visto il Grande Crollo e la disoccupazione crescente che l’aveva accompagnata, sembrava più vicino al vero affermare che la macchina progredisce non per migliorare la qualità o la quantità dei suoi prodotti e delle sue prestazioni, ma per cacciare gli operai dal lavoro che svolgevano." Invece Alimenti riaffermava una diversa concezione della civiltà, in alternativa radicale con quella americana: «La civiltà non va intesa come il portato della scienza materialista e di tutta la produzione meccanica dei nostri tempi. Il meccanicismo deve servire gli ideali e non soffocarli e distruggerli. La civiltà è una somma di virtù spirituali, e soltanto come tale va intesa.» !* E prevedeva la divisione dell'umanità in due categorie, quella dei popoli vitali e quella dei popoli decadenti, a seconda dell’accettazione o del rifiuto del macchinismo e delle sue conseguenze: Da una parte - scriveva — il dinamismo vitale, fatto di idealismo e di moralità, si affermerà in tutta la sua potenza quale dominatore assoluto della storia; dalla parte opposta, il dinamismo meccanico, fatto di materialismo e d’egoismo, mostrerà la fa-

tuità del suo sforzo e paleserà a tutti il suo irrimediabile fallimento nella storia.!5

Talvolta infatti, come in questo caso, non era il macchinismo di per sé a essere considerato cattivo, ma piuttosto la circostanza per

cui l’intera struttura produttiva dell’ America si era concentrata nelle mani di pochi detentori della ricchezza, e il fatto che questi si identificavano con la figura dell’avido capitalista che utilizza la macchina solo per trarne guadagni sempre maggiori: in una parola, si poteva sostenere che il problema stava nel perverso meccanismo per il quale

Regno della tecnica e fordizzazione del mondo

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il capitale, creato dal lavoro, non ritornava al lavoro. Non si trattava dunque, in questa prospettiva, di distruggere la macchina (come peraltro alcuni proponevano), ma di fare in modo che la macchina fosse apportatrice di benessere per tutti; e, nello stesso modo, mentre era assurdo sottolineare i vizi del macchinismo, si doveva parlare invece di conseguenze prevedibili del normale funzionamento di un sistema capitalistico. Non c’era da stupirsi se, a un certo punto, era arrivata la*crisi;* Che la colpa ricadesse sul macchinismo in quanto tale o sull’intero sistema economico, gli osservatori non mancavano di notare come

l'America procedesse a passi da gigante dal male al peggio, applicando, dopo quello classico, il nuovo industrialismo basato sull’automatismo meccanico.! In materia di riorganizzazione del sistema produttivo, l’Italia doveva, secondo Edoardo Malusardi, intendere la razionalizzazione come estensione e valorizzazione della manodopera, non certo «applicando pedissequamente i sistemi che ci vengono importati da altre nazioni, specialmente dall’ America».! Le ragioni per non imitare quel paese erano numerose, e stavano nel fatto che era divenuto il campione della standardizzazione e dell’automatismo, che sottoponeva l’operaio (ad esempio con il sistema Bedaux) a un vero e proprio surzenage, che faceva passare per «scientifico» il metodo dell’abbrutimento nel lavoro. L’immagine dell’industria americana era quella che offrivano articoli come quello di Vittorio Profumi, che descriveva un essere umano semplice mezzo, povero congegno, spesso logoro per l'eccessivo sforzo, sperduto nella folla senza nome, che per dieci ore al giorno non ha altra missione che stringere la medesima vite su cento radiatori uguali, come accade nelle officine Ford, dalle quali a sera esce incretinito e nelle quali non si vuole l’operaio intelligentissimo, ma quello medio e cioè standardizzato! !?

Da qui l’idea, tanto diffusa, di opporre all’americanismo una industrializzazione all’italiana, che fosse rispettosa delle specificità nazionali. Chi difendeva questa soluzione, come Bruno Brunello, affermava:

«Non si tratta oggi di difendere la nostra tradizione dal processo di industrializzazione, proprio dell’americanismo, quanto invece di industrializzarci secondo la nostra tradizione.» ?° Anche nell’analisi di Gaetano Ciocca, pubblicata nel 1936, l’America possedeva le stimmate della civiltà del lavoro e dell’industria, dello

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Capitolo primo

spirito d’iniziativa che conduce al primato economico: «L'America si trovò, sin dal primo giorno della sua storia, svincolata dalle catene spirituali che opprimevano l'Europa. Prima di questa conobbe il senso della nobiltà del lavoro, prima apprezzò la libertà economica, prima instaurò la solidarietà fra gli uomini.» Ma proprio in queste origini più lontane della nazione americana, proprio nell’industrialismo, era contenuto, secondo Ciocca, un principio di schiavitù economica, lo stesso che avrebbe condotto al crollo di Wall Street: L'utilità dell’industrializzazione — scriveva - non può crescere all’infinito. Questo non fu compreso in America nel periodo della prosperità. Nessuno s'è domandato se al fondo della corsa alla meccanizzazione e al complicarsi dei servizi, non vi fosse,

invece della libertà, una nuova schiavitù economica, giacché se è schiavo colui che è costretto a provvedere da solo alle necessità della vita, più è schiavo chi deve dipendere totalmente da altri, siano uomini o cose, macchine, servizi o checchessia.??

Secondo Ciocca, come pure nel giudizio di molti altri, il grande sviluppo, lo sviluppo esclusivo, dell’industria negli Stati Uniti aveva condotto a una inversione dell’utilità, per la quale la produzione in serie e i grandi profitti non si erano automaticamente tradotti in benefici per tutti, ma avevano creato sprechi e disagi, malattie e sfascio della famiglia, un aumento pletorico degli addetti ai servizi e il consumo forzato da parte delle masse, il saccheggio della natura e l’ipertrofia del credito che diveniva poi speculazione sfrenata.?? Tutte le malattie economiche derivavano, secondo Ciocca, «dall’uso cieco e sre-

golato degli strumenti di lavoro», che lo Stato deve invece disciplinare a vantaggio della collettività.” Nelle impressioni di viaggio di Lorenzo Piazza, significative di un modo diffuso di guardare alla civiltà americana in quegli anni (escono nel 1934), il viaggiatore affermava di essere contrario, dopo averlo visto in opera, «al sistema tutto americano del lavoro automatico standardizzato». Secondo Franco Ciarlantini, il primo risultato del «lavoro meccanizzato fino all’inverosimile» era rappresentato da «l’uniformità, la monotonia, il grigiore raggiunti»,?° insieme, certo, a un minimo di benessere per tutti. Ma era poi dubbio quale fosse il fine ultimo del persistere in quella scelta, poiché non sembrava che il più alto tenore di vita spingesse gli americani a essere davvero migliori degli altri popoli. Anche l'emulazione con gli altri paesi era contraddittoria, visto che non erano più pensabili floride economie autosuf-

Regno della tecnica e fordizzazione del mondo

ZI

ficienti; se, invece, lo scopo era quello di dare un esempio ai popoli più arretrati, i successi economici altrui si sarebbero rivolti contro l’America stessa, che avrebbe perso in questo modo il suo ruolo di dispensatrice mondiale di prestiti e di manufatti. Il fordismo (e in particolare quello che si esprimeva in My Philosophy of Industry) veniva letto come un’applicazione forsennata del macchinismo non solo al lavoro di fabbrica, ma a tutti gli aspetti dell’esistenza, fino a ridurre l’uomo che vi era sottoposto a un essere incapace di pensare. Con toni che ricordano da vicino quelli impiegati da Georges Duhamel, «il Doganiere» scriveva in uno dei corsivi che uscivano regolarmente su «Critica fascista»: Curioso tipo, questo Ford! Perché, se non vogliono pensare, non provvede lui con qualche bullone e con qualche molla di più a perfezionarli i suoi americani? Oppure si è già accorto che caldaie come quelle umane, una volta disabituate, non si adattano più a questa difficile funzione? ?”

Qualche numero prima, lo stesso «Doganiere» aveva scritto: «In Europa l’industrialismo non è arrivato a sopraffare tutte le manifestazioni della vita, laddove l’America ha rivelato la sua intera ingenuità nativa lasciandosi dominare dalla macchina, e rimanendo una nazione importatrice dei prodotti dello spirito.» ? Se Ottone Rosai denunciava il pericolo del livellamento di tutti con tutti insito nel sistema di vita americano, e quindi nell’americanizzazione dell'Europa,” Giuseppe Fioravanzo dava un giudizio molto negativo della razionalizzazione, con la quale era da intendersi che l’uomo veniva reso più macchina della macchina. I risultati? «Personalità (...) annullata», «automatismo coatto», «la libertà dello spi-

rito e del corpo sacrificata alla schiavitù dell’alto salario in regime di produzione intensiva».?° Ma gli strali più acuminati erano diretti contro la razionalizzazione estesa a tutta la vita, contro l'adorazione del dio Velocità, contro l’urbanesimo eletto a forma ideale della vita

associata, contro la tecnocrazia come forma rovesciata del materialismo che vorrebbe curare, in una parola contro quella che veniva definita come la fordizzazione dell’esistenza. Reduce da un viaggio nelle due Americhe, Vittorio Beonio Brocchieri osservava nel 1934:

Ora temo che la meccanizzazione vertiginosa di questa vita la quale rende l’uomo moderno vittima della macchina divoratrice da lui stesso inventata, scaraventandolo

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Capitolo primo

come un giocattolo con velocità di proiettile da un capo all’altro della terra, senza dargli più tempo né di sostare, né di riposare, né di riflettere, abbia fatto di noi tutti una massa di dementi e forse di schiavi. Sarebbe una tragica ironia, una terribile vendetta del destino.?!

Anche chi, come Francesco Flora, difendeva la macchina dall’accusa lanciatale da «sparuti filosofi oltramontani» (con i quali era da intendere essenzialmente Oswald Spengler)? di essere responsabile della morte della civiltà occidentale, doveva poi riconoscere che la «nuova civiltà strumentale»? conteneva in sé anche un pericolo: quello della mediocrità che si impone sugli animi e che annulla i risultati di tradizioni millenarie. Scriveva nel 1934, per far capire a che cosa alludeva: «E si vede oggi, ad esempio, che alcune grossolanità, tra americane e negre, guadagnano facilmente il gusto medio.» Tali grossolanità erano la diffusione di romanzi polizieschi e di spettacoli violenti, le danze ripugnanti, gli sport disumani e, insieme, l’amore grossolano del denaro e della quantità: l’adozione di teorie facili e comode, che lusingano la nostra epidermide e la nostra intima pigrizia: tali io dico il freudismo, lo spenglerismo, il male inteso relativismo, e in genere, poi, le dottrine che delle scienze naturali e matematiche, dell’economia e della sociologia, spostandone il valore, presumono valersi come di verità morali.34

La tecnica applicata all’architettura aveva prodotto non solo «grandi officine a vetrate enormi, eguali, casellari come di cimiteri» che di-

sgustano per la loro «monotonia», per il loro «standard senza aurea proporzione», ma aveva anche modificato la concezione della casa, dando un sostegno implicito all’idea, che appariva più adeguata ai tempi, di una vita nomade e zingaresca (guarda caso, proprio la tesi che sosteneva Spengler). Il pericolo, insomma, era quello di «farsi schiavi di un principio economico di standard» che avrebbe reso il mondo brutto e desolato, e gli uomini interscambiabili. Per non parlare del pericolo dell’«ammassamento»: Io son di quelli — scriveva Flora — che talvolta sognano le città rase al suolo, e le case sparse tra il verde di un’ampia campagna. Nelle metropoli moderne non si respira aria di piante, ma i respiri e la traspirazione degli uomini ammassati e delle macchine, che non sono odorosi: e su tutto grava il sentore della fuliggine.?6

Flora contrapponeva un «umanesimo della macchina» che trascendesse gli aspetti puramente tecnici e materiali di essa all’«americanesimo

Regno della tecnica e fordizzazione del mondo

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infantile e rettilineo» che invece considera la macchina come fine'a se stessa.’ Contro l'America quale simbolo dell’industrialismo doveva dirigersi, ovviamente, anche la vena ruralistica che serpeggiava nel fascismo, da un lato, e dall’altro la convinzione del primato italiano ri-

spetto agli altri paesi. Quando le due cose si univano, si può scommettere che non mancasse almeno una frecciata contro l’America. Espressione della prima di quelle due tendenze è ad esempio un articolo di Carlo Curcio che si scagliava contro «l’illusione industriale» che aveva afferrato anche l’Italia dell'Ottocento, e nel quale voleva esprimersi «il tormento di una storia deviata, di generazioni infiacchite, di menti insofferenti e per fortuna non rose dal tarlo della depravazione cittadina». Contro le «civiltà meccanicistiche d’altri paesi», l’Italia doveva ispirarsi alla terra per mantenere saldi i valori morali e il sentimento nazionale. Il filone ruralista, sempre presente nel panorama culturale italiano, e incarnato in «Strapaese», ebbe risonanza ufficiale nella campagna per il ritorno alla terra lanciata negli anni 1927-28 e poi intensificatasi nel 1934, e nella lotta contro la denatalità. Ma se il tema dell’industrialismo-corruttore-della-vita troverà in quelle parole d’otdine un’espressione particolarmente icastica (e messa poi così spesso in ridicolo per gli effetti retorici di cui sovrabbondava), la convinzione che uno sviluppo industriale esasperato comportasse mutamenti in peggio nella vita degli individui e nella morale corrente era una componente di rilievo dell’ideologia del Regime (o, se si vuole, di una delle ideologie del Regime). Raffaele De Leva, ad esempio, scriveva: «L’industrialismo ha favorito il dilagare dei germi di corruzione nei grandi focolai di infezioni sociali che sono le città industriali e in genere gli agglomerati umani più numerosi.» ?° L’esigenza del «ritorno alla terra» rappresentava non tanto una direttiva di politica economica, come è ben noto, quanto piuttosto una richiesta di risanamento morale teso a riequilibrare i dannosi effetti spirituali di uno sviluppo tutto incentrato sull’industria. L'America era dunque, in questo contesto, un termine di riferimento privilegiato, vista la identifica-

zione corrente di quel paese con il macchinismo. È in questo ambito di opinioni e riflessioni che vanno inserite anche le numerose definizioni della morale americana in termini di libertà sessuale, emanci-

pazione della donna, società matriarcale, le copiose denunce di una

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Capitolo primo

riproduzione malthusiana, del disfacimento della famiglia, dello svilirsi di legami un tempo ritenuti sacri.‘° Non si trattava di osservazioni isolate né stravaganti, poiché rientravano molto bene nella denuncia più generale dei mali dell’industrialismo che in America aveva dato la prova suprema dei suoi fasti e delle sue nefandezze. Fra gli effetti spirituali dell’industrialismo stavano infatti (e con qualche ragione, bisogna aggiungere) imutamenti indotti nella morale sessuale, e in genere la nascita di un comportamento borghese (ma esteso a tutte le fasce della popolazione) portato a una riproduzione esigua e controllata. L’urbanesimo era poi una conseguenza fra le più importanti di uno sviluppo monodirezionale, e che in America era giunto a esasperazione. «Ritorno alla terra» e antiamericanismo non andavano errati,

dunque, nello scagliarsi entrambi contro le città, caratterizzate da «un senso diffuso materialistico», nell’affermare che ciò che nell’urbane-

simo non era favorevole alla maternità era «una sua singolare anima interiore». Allora, quello di cui soffriva l'America poteva essere definito proprio come «mal di terra»: così faceva Felice Chilanti, che scriveva: «La moderna società urbana d’ America tutta vivente di macchine e brulicante sui suoi babelici alveari, soffre da vario tempo di un mal di terra acuto che si manifesta anche in certi orientamenti dell’arte; dell’arte americana (...): la cinematografia.» ‘°

Le differenze fra Europa e America diventavano qui gli elementi che separano una civiltà nata come civiltà contadina e un mondo in cui l'industria aveva preceduto l’agricoltura o l’aveva soppiantata completamente. Ma senza solide basi nella terra non poteva sopravvivere non solo una fiorente economia, ma neppure un vero e proprio sentimento nazionale, una civiltà autentica, una scala duratura dei valori.

Chilanti affermava: «L'industria americana s’è sviluppata così senza la terra e contro la terra. Di questo soffre tutto il nuovo continente, nella sua morale, nella sua società e nella sua economia.»

L’America era a tal punto il regno di una tecnica astratta e divorante che cercava di produrre nello stesso modo anche la soluzione ai suoi mali: era la tecnocrazia, un insieme di verità, di messianismo,

di rottami del passato, alla quale doveva invece essere contrapposta una visione realistica dei problemi. L’Italia (che adottava questa seconda soluzione) proponeva invece di ritardare, di frenare il progresso tecnico e — contemporaneamente — di promuovere una riforma ra-

Regno della tecnica e fordizzazione del mondo

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dicale del sistema economico. Ecco un esempio della fusione della corrente ruralista con la convinzione del primato italiano, alla quale si accennava sopra. Su questa stessa linea, Bruno Brunello affermava che per lo spirito latino la civiltà derivava dallo sforzo dell’anima «che insegue il suo sogno di perfettibilità, oltre ogni dato materiale, oltre lo stesso strumento più perfetto»: per questo la civiltà americana, basata com'era sul progresso tecnico e sul lavoro meccanico, non po-

teva aver valore. Anche nell’applicazione dell’organizzazione scientifica del lavoro, al taylorismo che rende l’uomo una macchina si opponeva una soluzione più «morbida», all’italiana, come proponeva, fra i moltissimi altri, Rosario Sottilaro.‘ L’Italia avrebbe dovuto in-

dustrializzarsi (o aggiornare il proprio sistema industriale) conservando al tempo stesso tutte le virtù che le venivano dalla sua antichissima tradizione preindustriale, contadina. Per far questo, bastava avere ben chiaro di fronte agli occhi un esempio negativo che fungesse da valido deterrente: quell’esempio fu identificato da molti nell’ America.

Capitolo 2 La barbarie del comfort

Quando erano i fascisti a esprimersi sulla questione dell’ America (o quando le sedi e le occasioni invitavano a parlare come fascisti), tornava di frequente l’opposizione fra un «vivere pericolosamente» adottato come norma ufficiale del comportamento individuale e collettivo, da un lato, e dall’altro quell’esempio di «vita comoda» che caratterizzava in generale tutto il mondo «moderno» ed era rappresentato a perfezione dagli Stati Uniti. Si trattava di uno stile di vita che esprimeva, per i suoi numerosi critici italiani, non tanto un suc-

cesso nel dominio della natura o nell’invenzione di strumenti e operazioni che rendevano la vita più semplice e più piacevole, ma piuttosto di una manifestazione di stanchezza vitale da parte della civiltà che produceva tali strumenti e tali operazioni. Un membro dei G.U.F. scriveva: «Il nostro secolo si distinguerà, nella storia, per molte caratteristiche; una di queste sarà la spasmodica ricerca del “confortevole”. L'umanità, come se fosse (...) malata e stanca, corre in cerca

di tutto ciò che rappresenti comodità e conforto.» ! E il peggio arrivava quando la ricerca del minimo dispendio possibile di fatica si estendeva alla sfera intellettuale, dando luogo alla pigrizia mentale che si accontenta del luogo comune. Ma anche per chi fascista non era, la ricerca del comfort a tutti i costi (ricerca che l'America sembrava manifestare in ogni aspetto della sua vita) appariva un segno chiaro della situazione paradossale alla quale conduceva un industrialismo esasperato: il perseguimento di un progresso sempre maggiore nella scienza e nella tecnica (in cui si impiegavano al completo le forze di tutta una civiltà), di perfezionamenti sempre più grandi in ciò che è utile alla vita (attrezzi, mac-

Barbarie del comfort

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chine, prodotti industriali) si scontrava infatti con la crescente incapacità di servirsi di quelle comodità e di quei beni da parte di una umanità disabituata progressivamente a vivere in modo attivo, ad avere rapporti reali con le difficoltà dell’esistenza. Il progresso a tutte maiuscole tanto celebrato nel mondo industriale rivelava così di essere un progresso nell’aberrazione e nell’impotenza.? «L'umanità, come se fosse malata e stanca...»:° l’espressione, a

prima vista eccessiva, impiegata dal membro dei G.U.F. citato poco fa comincerà ora ad essere più chiara. Essa manifestava una convinzione assai diffusa in quegli anni, e molto significativa per l’immagine dell’ America che poteva formarsi di qua dall'Oceano: era la convinzione che una civiltà che si impegnava eccessivamente sulla via dello sviluppo industriale finiva per dimenticare quei valori che sono essenziali per differenziare la vita umana dalla vita animale. Ma c’era probabilmente più di questo, e proprio il paragone fra uomo e animale ci consente di arrivarci. Era presente, e molto diffusa, l’idea

che l’invenzione tecnica di per sé (invenzione che, appunto, distingueva l’uomo dagli altri esseri) fosse espressione di un’umanità decadente e debole, di una civiltà alla fine, di un ciclo vitale volto verso l'esaurimento. Il legame istituito fra macchinismo e debolezza vitale non era certo una scoperta italiana, e ha origini sicuramente anteriori e più complesse: questo tema ha progenitori tanto autorevoli quanto possono esserlo Max Scheler e Henri Bergson (per restare nello stesso arco temporale), ma le prime formulazioni di esso possono esser fatte risalire ai pamphlet antimacchinisti di Thomas Carlyle e, in generale, alle reazioni suscitate dalla prima rivoluzione industriale.* In tutte queste versioni, la progettazione tecnica, pensata come la ricerca dell’utile (anche se di un utile non direttamente produttivo), non appariva collegata a una creatività in eccesso, alla ideazione geniale di congegni per alleviare la fatica e rendere la vita migliore, ma assumeva i melanconici contorni di espedienti escogitati da una specie (quella umana) che sentiva venir meno la sua forza vitale: mentre gli animali (ecco il punto) si modificavano producendo organi nuovi o sopprimendone di vecchi a seconda delle esigenze — diceva un evoluzionismo che non voleva assolutamente essere meccanicista —, l’uomo

dell’età industriale si era messo a inventare ordigni.

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Capitolo secondo

Per questo l'America, regno di una tecnica sempre più pervasiva e della ricerca indirizzata a rendere la vita facile, si identificava tanto poco con il paese giovane per antonomasia da rovesciarsi nell’imma-

gine di un mondo invecchiato anzitempo, proprio a causa del superamento delle difficoltà reso troppo agevole dalle macchine. Anzi, la civiltà americana non stava affatto dalla parte della novità, di una modernità esuberante e vitale, ma sul piano inclinato di una decadenza che procedeva di pari passo con i trionfi della scienza e i ritrovati della tecnica. Quando poi il macchinismo non era il segno di un ciclo storico che volgeva verso la fine (per la mollezza del vivere alla quale induceva), era la causa della barbarie così diffusa sul suolo americano, poiché appariva responsabile del produttivismo da un lato (e quindi di un materialismo gretto), e dall’altro di quella caduta del gusto che ad animi educati non poteva apparire che come inciviltà. E da questo punto di vista che faceva inorridire un'America intesa come regno degli elettrodomestici e delle automobili per tutti: la ricerca del comfort nella quale venivano spese le sue migliori energie poteva apparire connaturata a un paese che era l’enfant gété rispetto alle altre nazioni storicamente più mature e più temprate dagli eventi. La storia americana poteva essere letta come segnata fin dall’inizio da un’applicazione forsennata alla produzione della ricchezza, del benessere,

con un sovrano disdegno per tutto ciò che era formazione di un carattere nazionale, elaborazione di una cultura propria, creazione di ideali che fossero superiori a quello del facile vivere. Da questa prospettiva, la barbarie (ché tale veniva definita) che caratterizzava sto-

ricamente l’America risultava tutt'altro che contraddittoria con il grado di perfezione e la penetrazione capillare che avevano raggiunto la tecnica e la scienza della produzione: segno di un habitus mentale portato a sopravvalutare l’utilità rispetto al valore, l’adorazione di ciò che (la tecnica, le macchine) avrebbe dovuto essere solo uno strumento

al servizio di scopi superiori si sposava perfettamente con l’inciviltà che gli americani mostravano di possedere, con la loro (risaputa) mancanza di cultura, con l'assenza di tradizioni dalla quale era caratterizzata la loro storia, con la granitica incomprensione per gli aspetti più complessi della vita e del pensiero. L'America era la civiltà della «grossezza», del quantitativo, del

sempre più grande, in contrapposizione con la civiltà italiana della

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«grandezza» vera. La regola che valeva oltre Oceano era «quella di valutare ogni cosa umana dal suo volume, dai denari spesi, dalla utilità finanziaria che ne deriva, dalle larghezze, dalle lunghezze e dalle altezze», e dava luogo a opere che di grande avevano solo le dimensioni senza possedere il gusto, l'armonia, l’arte. Si trattava di ùna po-

sizione che poteva essere definita materialistica (vedremo in seguito quante volte tornerà questo aggettivo a proposito delle cose americane), «perché la grossezza si raggiunge col danaro, solo col danaro, dato che la tecnica, oramai, è in potere d’ognuno; la grandezza, invece, solo con l’ingegno».° Guglielmo Danzi scriveva nel 1935: «La legge del comfort è madre dell’ America moderna.» E spiegava in che cosa consisteva tale legge: «Ridotta ad un minimum la vita dello spirito, la vita della materia si è sviluppata con incredibile veemenza. Più l’anima si rattrappisce, più il corpo si fa turgido, poderoso, gigantesco. Si toccano gli estremi della “civiltà fisica”.» 7 Quando doveva dare un giudizio sull’evoluzione complessiva e sui risultati della storia americana, affermava: Così attraverso il maturare dei tempi, tutto ha assunto proporzioni gigantesche: produzione, industrie, commerci, finanze, quasi l’intera vita dell’uomo. Diciamo quasi perché in tanta furia creatrice, l’umanità d’ America ha trascurato di crearsi una morale, di «smaterializzarsi», di affrancare se stessa da quella che chiameremo la schiavitù delle cose concrete.?

L'America mostrava al mondo come si può godere di un «benessere diffuso e sostanziale».? «E il solo vero grande dono — scriveva Amerigo Ruggiero nel 1937 - che l'America ha fatto all’umanità: il concetto e la pratica del godimento dei beni materiali, dell’istruzione, della salute, della bellezza, delle gioie dello spirito da parte del maggior numero.» !° L’ipertrofia della produzione, il macchinismo idolatrato e diffuso, avevano provocato non solo ottimismo, ma anche

«un freddo egoismo conservatore».!! Tra i funesti effetti del macchinismo, quelli sinora menzionati erano in fondo i meno preoccupanti, visto che si trattava anche di quelli maggiormente prevedibili; oltre alla mollezza del vivere, all'ideologia della quantità, al grezzo materialismo, si doveva annoverare fra di essi, infatti, l’involgarimento, assai più grave, della vita e della cultura. Da questo punto di vista, era bizantino affermare che il progresso tecnico era la causa di quei mali, e si andava più vicino al vero

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Capitolo secondo

sostenendo che il benessere tecnicizzato rappresentava di per sé una forma di barbarie. Era la posizione di Giulio Alimenti quando affermava che la mania di «“scimmiottare” tutto ciò che è americano» era assurda non solo perché l’America doveva tutto all'Europa, ma soprattutto perché i migliori prodotti americani erano vere e proprie mostruosità. Alimenti scriveva: «Se il “jazz” americano rappresenta la “vera” musica moderna, vuol dire che l’umanità (...) non solo è in decadenza ma è già ritornata allo stato selvaggio.»!° Riferendosi al mondo americanizzato, «il Doganiere» si chiedeva: «per quanti segni il nostro tempo non appare come un’epoca di dichiarata barbarie?» Ed elencava il cinema, la radio, le «macchine parlanti», la passione

dilagante per la «letteratura criminale».!* Antonio Marinoni osservava nel 1932 come l'America apparisse arretrata culturalmente rispetto all'Europa, come vi regnasse il cattivo gusto in ogni settore della creatività umana.! Una viaggiatrice per diletto come Adriana Dottorelli notava un anno dopo: La chiarità degli ambienti, la disposizione generale delle linee esteriori, rivelano un gusto semplice non elaborato dalla civiltà, un gusto da uomini primitivi. Il senso pratico della vita, di cui gli americani si fanno un vanto, è diffuso in ogni loro manifestazione sia personale che collettiva. La standardizzazione degli oggetti di prima necessità, segue quella del loro pensiero e della loro sensibilità. Non vi è un popolo più egoista dell’americano. Esso non riconosce che un Dio: «il dollaro» e per esso dà le sue forze migliori. Nel paese delle automobili non esistono sentimentalismi, come li intendiamo noi.!

Lorenzo Piazza raccontava dei teatri di varietà che aveva visto,

«luoghi dove prospera esuberante e truculento un volgare americanismo da villan rifatto». Parlava delle condizioni barbariche in cui si svolgeva la vita americana: delle subways che sono una «vera bolgia infernale», del cibo pessimo («che intrugli!») e mangiato in fretta, del «rumore insopportabile del traffico cittadino», e affermava: «Gli Stati Uniti mancano di tradizioni artistiche e letterarie.» A suo avviso, il comfort che regnava in quel paese non andava disprezzato, ma trasceso in vista di fini più elevati.!6 «E le cucine! Incredibili abissi scavan le cucine tra i popoli, che nemmen le persone intelligenti riescon a colmare», scriveva Giuseppe Prezzolini nel diario tenuto durante il suo lungo soggiorno in America.!” Questa è una spia di quanto forte dovesse essere il pregiudizio

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nei confronti del cibo americano, o se si preferisce, di quanto netto dovesse essere il giudizio negativo su di esso: certo, di questo giudizio o pregiudizio, resta una traccia ben visibile, al di là dei commenti che solo i protagonisti o i testimoni potrebbero restituire. Il luogo comune delle pessime abitudini alimentari del popolo statunitense era ripetuto con tanto maggior stupore quanto sembrava che gli emigrati italiani partecipassero di quello stesso imbarbarimento del gusto, per il quale Mario Soldati arrivava a parlare nel 1935 di «deformazione dei sensi, decadenza fisiologica».'* Più in generale, l’assimilazione del modo di vita americano appariva a questo viaggiatore privo di preconcetti negativi come una perdita di spontaneità, di equilibrio e di accordo con se stessi: l'allegria degli emigrati plagiati dall’ America era per lui «l'allegria isterica dei bambini a sera, che sembrano al colmo della felicità e tutto a un tratto scoppiano a piangere disperati. L’allegria dei selvaggi. L’allegria degli americani»! La vittoria sul tempo e la conquista della velocità, l’utilizzazione razionale degli spazi, la distribuzione funzionale delle forze, tutti i prodotti più sofisticati della tecnica e dell'ingegno americani diventavano, per Soldati, altrettante manifestazioni della «organizzata barbarie americana».?° Le abitudini e le necessità del lavoro che spingevano gli americani a intasarsi nelle sub1w04ys due volte al giorno producevano lo stesso effetto che Louis-Ferdinand Céline aveva descritto nel 1932 come il «comunismo della cacca», e cioè una perdita di intimità personale e perfino di integrità fisica provocate dalla eccessiva vicinanza in spazi ristretti. Tutto ciò creava «quella crudele familiarità e quell’ironia loquace che distinguono le folle colpite da sciagura: i soldati al fronte, gli appestati al lazzaretto e casomai i dannati all’inferno». In tali condizioni, «chi parlerà ancora di dovute distanze e gusti personali?»?! Il carattere precipuo della barbarie americana,” tale da collegarla strettamente alle stesse condizioni che facevano dell’ America una potenza industriale e un paese all’avanguardia per la sua modernità in ogni campo, si rivelava a Soldati in un attimo di spaesamento, quando la sensazione di essere lontano da casa si faceva tangibile: E a un tratto mi avvertii paurosamente lontano dalle mie patrie, abbandonato, indifeso, peggio di un antico pioniere fra i pellirossa. I quali, almeno, uccidevano per difendere il loro paese, vivevano nelle praterie, si circondavano di riti pittoreschi, avevano arti e musiche: non erano barbari di questa barbarie spirituale, di questa invincibile aridità.”

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Capitolo secondo

Quella che abbiamo definito la barbarie del comfort si manifestava

per Soldati nell’albergo americano, con la sua esaltazione del razionale, del logico, e con la sua esclusione dell’inconscio. Scriveva: «Tutto serve. Tutto è giustificato (...) Corzfort. Service. Comodità. Servizio.

Parole magiche dell'America. Costrizione ragionata degli istinti, perversione: diremo noi (...) Nulla è meno pratico della decantata praticità americana. Isola, agghiaccia, atterrisce. Riduce i contatti umani a echi, riflessi, ombre.»

Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi si presenta come un documento importante in questa prospettiva, oltre che in quella più generale della presenza dell’ America fra gli emigranti meridionali. Nelle parole di uno di questi, alla tristezza provocata da una tecnica pervasiva e applicata alle necessità della vita quotidiana si contrapponeva la fuga nella campagna: «La vita è triste, tra quei grattacieli, con tutte quelle straordinarie comodità, e gli ascensori, le porte girevoli, la me-

tropolitana, e sempre case e palazzi e strade, e mai un po’ di terra. . Viene la malinconia.» In modo nient’affatto sorprendente, se solo si pensi alle critiche — diffuse fra gli osservatori europei — rivolte alla presenza di elettrodomestici nelle case americane e, comunque, all’applicazione eccessiva dell’inventiva tecnica ai problemi di tutti i giorni, quell’emigrato ricordava come liberatorio l'espletamento delle funzioni fisiologiche più elementari all’aria aperta, «non come in quei gabinetti americani, lucidi e tutti eguali». Ma è vero che proprio nelle pagine di Levi emerge una diversa, opposta, considerazione delle macchine nella vita quotidiana, quando ad esempio si mette in luce che, di contro al vuoto di contatti con Roma, con lo Stato unitario italiano, un elemento importante del rapporto con l'America, con New

York, era l’arrivo di «tutte le piccole macchine della vita comune»: tale americanizzazione completa dei mestieri non risultava affatto contraddittoria con le tradizioni contadine.? Qui sta forse la migliore conferma indiretta della tesi gramsciana sulla composizione sociale della categoria degli antiamericanisti europei, di quegli intellettuali dei quali Gramsci registrava con acutezza l'opposizione al materialismo, all’adorazione della quantità, alla mancanza di valori, all’in-

cultura americane, sostenendo che essi difendevano in questo modo la loro esistenza: «Essi sentono istintivamente — scriveva — che le nuove forme di produzione e di lavoro li spazzerebbero via implacabilmente.»

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Vittorio Beonio Brocchieri annotava: «Siamo nel regno del cemento armato, dell’acciaio, del nichel. Tutto è ridotto a geometria.» Var-

cando il confine che separa l'America del Sud da quella del Nord,

si chiedeva: «Il confine che ho varcato, mi conduce verso lo spirito

dell'avvenire o non piuttosto mi ricaccia nella sterile uniformità di un mondo fittizio, nella soffocante prigionia di un talento algebrico contro il quale l’eterno cuore umano agogna di affrancarsi con atto di sorda ribellione?» Ed Euno Poggiani, in una delle corrispondenze dall’ America scritte per «Regime fascista» nel 1935: «Case d’America. Cosa son dentro? Freddi termitai, tutti materia, ferro, cemento, cristallo, duralluminio, senza tradizioni, senza bellezza, senza

sogni. Vi si vive tra robinetti, bottoni, riflettori, lampadine. Tutto vi è standardizzato.» Sempre a proposito del connubio fra benessere e immaturità, Prezzolini scriveva nel suo diario: «Il mito del benessere americano va crescendo in Europa e ci sono milioni di persone che guardano all'America per scoprire il segreto della ricchezza e della felicità. Quale responsabilità per un popolo nuovo, che non ha sofferto, ed è pieno di fiducia ma senza saggezza né maturità.»? E, qualche anno dopo: «Negli americani apprezziamo la frequente bonarietà di vita e critichiamo la mancanza d’arte e la debolezza di pensiero, senza riflettere che sono qualità connesse.» Barbarie e mancanza di storia? dovevano avere più di un nesso occasionale fra di loro, secondo gli osservatori europei, e l'assenza di tradizioni alle spalle valeva probabilmente a spiegare la modernissima inciviltà americana. Non è un caso che nell’antiamericanismo la constatazione della giovinezza storica del Nuovo Mondo ricorra con l’insistenza dell’idea fissa, e assuma quasi sempre le caratteristiche del rimprovero. Come scriveva Roberto Cantalupo nel 1940: «La principale differenza tra l'Europa e l’America è questa, che noi siamo nati poco a poco, e l'America è nata tutta in una volta.» ?? Ingenui anche nei loro difetti, gli americani pensavano di sopperire a questa mancanza di storia e di cultura della quale si rendevano in qualche modo conto con un altro dei loro difetti capitali: l'abbondanza di ricchezza. Prezzolini rifletteva: «Nell’affittar che gli americani fanno di professori, musicisti, pittori d’Europa e condurli qui a insegnare c’è qualche cosa d’ingenuo, come di selvaggi che credon di acquistare il coraggio del nemico se ne mangiano il fegato.» ”

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Capitolo secondo

«Una scorciatoia verso il futuro»:?' così l'America appariva allo sguardo tutt’altro che ostile di Luigi Barzini quando osservava il consumismo, le invenzioni utili, la ricchezza diffusa. Scriveva: «Da tutto

ciò ebbi la vaga sensazione (rafforzata in seguito) di essere arrivato in un paese modernissimo che incuteva un poco paura, un paese che rifiutava forme e abitudini del passato, inventava tutto di nuovo, dove il denaro non era più un problema e la parsimonia era considerata una debolezza, forse anche un tradimento.» ”

Anche per Emilio Cecchi la civiltà americana stava sotto il segno della quantità contro la qualità, del puro accumulo materiale privo di fini più elevati, della mancanza di ogni forma di gusto; l'architettura, ad esempio, che pure realizzava edifici grandiosi, mancava di stile, di forma: «Non si distingue, nell’edilizia americana — scriveva —, un nuovo principio organico, una nuova cellula ritmica.» Il grattacielo «è piuttosto un’operazione aritmetica, una moltiplicazione».? Tuttavia, in queste pagine dove sono evidenti le tracce del Paul Valéry di La crise de l’esprit}" e più sotterranee quelle del Trazzonto dell’Occidente, o comunque di uno spenglerismo che doveva essere diffuso al di là della conoscenza dei testi (la diagnosi della fine di una civiltà che ha perduto la forma),}* era presente anche la frequente identificazione dei grattacieli con le moderne cattedrali, e l'assegnazione ad essi di un genere di bellezza certo non irenica ma piuttosto vicina alla follia e al peccato di superbia, ma comunque impressionante.’ Assai più frequente dell’ammirazione era però la critica, da quella astiosa a quella ironica, da quella che non partiva da preconcetti bell’e fatti a quella nazionalista e latina. Finiremo questo capitolo con due esempi (di tono diverso) di essa. Che cosa doveva l’America agli ita-

liani? si chiedeva Luigi Villari nel 1940. E rispondeva: «Ormai si ri-

conosce che l’italiano ha contribuito all’ America una potenziale ricchezza spirituale, quale può avere solo chi discende da una antichissima civiltà (...) Ha insegnato all’americano che vi è qualche cosa al di sopra del mero guadagno.» Convinto che il più incolto contadino meridionale fosse partecipe, per il solo fatto di essere nato e vissuto in un paese carico di storia, di «una sensibilità ai valori più fini della vita e un apprezzamento delle cose intellettuali e belle»,‘° Villari passava a chiedersi che cosa, per contro, l’Italia doveva all’ America. Ri-

spondeva: senso dell’organizzazione, spirito filantropico e, soprattutto,

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«numerose invenzioni pratiche», alcune utili «e altre di più dubbio beneficio, quali il “cocktail”, il “jazz” e certi tipi di films». Di tutt'altro stile il giudizio di Barzini, lontano dalla ruralità spontaneamente colta della citazione precedente, ma certamente non meno pungente. Barzini, pure affascinato da molti aspetti della vita americana, scriveva: Devo onestamente ammettere che le belle ragazze americane di quegli anni erano raramente belle come le più belle italiane, ma molto più numerose, per la nota legge per cui, in ogni campo, il meglio è meglio in Europa ma più raro, mentre il buono in America è infinitamente più diffuso e più facilmente reperibile, anche se non raggiunge i vertici europei.‘

Capitolo 3 Guerrieri e mercanti

Nella formazione di un giudizio negativo sull’ America agiva spesso una psicologia dei popoli alquanto semplificata, che assegnava a ogni nazione un’anima collettiva caratterizzata in senso univoco. C'era anche chi esplicitava tali schemi di giudizio,! più spesso sottintesi, elencando quattro tipi umani (che corrispondevano a quattro diverse nazioni), ai quali si contrapponeva il tipo d’uomo fascista: il tipo inglese era quello del genzlerzan, corretto, sereno, dominatore delle razze inferiori, ma anche egoista ed eccessivamente innamorato del comfort. Il tipo francese era quello del borghese, colto, raffinato, patriottico, ma al tempo stesso epicureo, amante della vita tranquilla e fiducioso nelle virtù dell’elettoralismo democratico. Il tipo bolscevico era lontano dall’ideale della vita comoda (e assomigliava in questo al fascista), sopportava sacrifici durissimi per il miraggio di un benessere esclusivamente materiale, e, distruggendo sul suo cammino — come

faceva — le aspirazioni superiori dell'umanità, veniva ad assomigliare sempre più al tipo americano. Vittorino Vezzani, autore di questa tipologia, scriveva: Nella immensa burocrazia del suo socialismo di stato e nei giganteschi falansteri delle mostruose industrie che va creando, il bolscevico tende a realizzare il Moloch della

standardizzazione di tipo americano, divoratore degli individui ridotti a numeri, polverizzati nella massa, tratti in schiavitù dalla statistica e dalle macchine.?

Su questo parallelismo fra America e Russia, e sulla sua rilevanza per l'argomento che ci interessa, avremo modo di fermarci nel corso di queste pagine.’ Per il momento, torniamo alla nostra psicologia dei popoli. Esisteva infine un quarto tipo, quello americano, «l’uomo di

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buona volontà e figlio delle proprie opere».* Le buone qualità che gli derivavano dall'essere l’erede del pioniere (individualismo, virile ottimismo, grandi doti di energia e amore del rischio) venivano offuscate dal fine al quale tutti quegli apprezzabili sforzi erano volti: Tuttavia, nei motivi che lo spingono, v’è troppo spesso una valutazione eccessiva dei beni materiali, una ricerca quasi esclusiva della ricchezza, che solo in alcune anime cede il posto all’amore del giuoco di cui la ricchezza diviene la posta. Nella lotta per la ricchezza, che in paese nuovo e senza tradizioni significa quasi illimitata potenza, troppo spesso si sacrificano i diritti altrui e ci si lega ad elementi di vita non essenziali.”

Questa immagine è presente, si può dire, in ogni pagina dell’antiamericanismo europeo degli anni trenta, si affaccia nelle sue argomentazioni con fare perentorio, si ripresenta in modo ossessivo da un

autore all’altro, dal reportage al romanzo, con l’insistenza di uno stereotipo tenace. E probabilmente, a indagare più a fondo, si scoprirebbe che si tratta, anche in questo caso, di un luogo comune dalle origini assai lontane, e che il giudizio di materialismo sulla civiltà americana fa parte del bagaglio culturale europeo (attraverso il quale l’Europa si dà una sua identità dandone una agli altri paesi) da tempo immemorabile. Ma più interessante, forse, dell’identificazione della

intera lista dei giudizi negativi (diventati presto stereotipi) che l'America suscitò dalla sua scoperta in poi, è l’analisi delle cause che, in alcuni periodi, fanno risaltare alcuni di questi giudizi sugli altri: in questo caso, che danno spazio al motivo del materialismo e della civiltà economica su quello (altrettanto presente da tempo immemorabile, e altrettanto stereotipato) della intraprendenza economica o dell’individualismo. E quello che caratterizza gli anni trenta del Novecento per quanto riguarda la formazione di un'immagine negativa dell'America è proprio questo battere delle critiche sulla presenza oltre Oceano di un homo oeconomicus privo di idealità superiori, è l’insistenza sul tema della civiltà americana come civiltà materialistica (e quindi come crepuscolo e fine della civiltà), è la contrapposizione dei guerrieri ai mercanti, del sangue contro l’oro, è la definizione della posizione che l’America occupa rispetto all’Europa come quella del «superato tempo della materia»: il mondo che rappresentava l'avvenire per i popoli vecchi si collocava in realtà, da un punto di vista non meramente tem-

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Capitolo terzo

porale, ma che guardasse invece al significato storico delle civiltà, in posizione assai arretrata rispetto a quei paesi che, come l’Italia, avevano prodotto cambiamenti radicali. L’adorazione del vello d’oro, la considerazione del benessere come meta suprema del vivere, si ponevano così come momenti precedenti, e superati, dal punto di vista di una ideale scala dei valori professati dai vari popoli, intesi ancora una volta come personalità complessive dotate di un carattere univoco: da questo nasceva anche l’identificazione degli Stati Uniti contemporanei con l’Italia dell'Ottocento, ancora fiduciosa nei valori dell’industrialismo e convinta che ogni ulteriore progresso rispetto al presente (già considerato come la civiltà contrapposta alla barbarie o a stadi primitivi del vivere associato) conseguisse spontaneamente da un incremento sempre maggiore dello sviluppo industriale e dall’elevamento del tenore di vita, dalle vittorie dell’igiene e dai trionfi della medicina, dalle scoperte scientifiche e dai ritrovati tecnici, dal posto sempre più grande che il lavoro occupava nella vita degli uomini. Il dio dell'America è il vitello d’oro, scriveva Cornelio di Marzio nel 1930: era un paese che non possedeva né razza né stirpe né storia, ma solo ricchezza, anche se tale ricchezza si rivelava poi come una miseria estrema, come un velo che copriva gli altissimi steccati sociali esistenti fra le classi, come una maschera della disoccupazione crescente.” Giulio Alimenti affermava nello stesso anno: «Il mondo s'inchina davanti all’America per la potenza del suo oro.» E infatti l’America appariva dotata di una ricchezza economica favolosa. «Dalla ricchezza in parola —- aggiungeva però —- è evidente che facciamo astrazione dei valori artistici e storici di cui gli americani non possono menar vanto.» La ricchezza americana rivelava ben presto di essere tutta basata sulla quantità invece che sulla qualità: ma senza quest’ultima era ben difficile riuscire a parlare di civiltà vera e propria.’

Da paese di Cuccagna, l’America si trasformava sotto gli occhi dei suoi osservatori in un mondo difficile e alla fine del suo ciclo vitale,

rivelava sotto la superficie di ottimismo e di prosperity «le rughe di una decrepitezza corrotta».!° Le ragioni andavano ricercate in un tratto che tutto l’antiamericanismo non mancava di sottolineare, e

cioè nello sviluppo esclusivamente industriale della civiltà americana, nel fatto che avesse puntato tutte le sue carte sulla riuscita materiale dell’uomo. «Come in uno specchio rovesciato» (immagine che sarà

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raccolta e ripetuta spessissimo a proposito degli Stati Uniti), l’America indicava in questo senso il minaccioso avvenire dell'Europa. Come anche gli altri critici europei mettevano in rilievo, il problema risaliva alla scoperta dell'America e al passaggio nel Nuovo Mondo di frammenti della cultura europea; «il Doganiere» scriveva: La spiegazione, secondo me, è una sola, e sta nella stessa natura della civiltà americana che ha portato i residui dell'Europa a svilupparsi in un terreno ricchissimo di possibilità materiali, ma estremamente povero di forze morali, le quali sole reggono e governano i popoli. La civiltà dell'Europa è nata e ha fiorito in virtù di ricchezze spirituali, cui le ragioni materiali ed egoistiche sembrano oggi minacciosamente prevalere, preparandoci un avvenire simile a quello dell’ America.!!

«Civiltà del lavoro»: così veniva definita di frequente la civiltà americana, senza che questo elemento riuscisse ad assumere connotazioni

positive. Léo Ferrero scriveva che gli americani concepivano il lavoro come fuga, come evasione dalla riflessione.!? Sui guasti della civiltà del lavoro richiamava l’attenzione anche Antonio Marinoni, secondo

il quale in America non esisteva il riposo che permette la contemplazione. Luigi Barzini affermava nel 1931: Questo boato profondo, il tumulto di un lavoro prodigioso di milioni di uomini e di macchine, è la voce della ricchezza che si forma. È il ruggito apocalittico di un’affannosa creazione perenne, da cui sgorgano e salgono al cielo, pietra per pietra, queste stalagmiti architettoniche dal profilo impetuoso e la statura alpina.!4

I grattacieli e le loro dimensioni, a cui Barzini alludeva, difficilmente potevano sottrarsi all'attenzione del viaggiatore, e con difficoltà ancor maggiore sfuggivano al destino di essere oggetto di deprecazioni o di paradossali esaltazioni, sempre in riferimento alle loro dimensioni non umane e alla realizzazione evidente degli sforzi di tutta una civiltà che essi rappresentavano. Mario Soldati osservava a proposito della bellezza, che non negava affatto, dei grattacieli: «E sarà anche bellezza artistica: ma di quella specie mostruosa che s’affida soprattutto alla magnitudine delle dimensioni (...) Le dimensioni dunque, non altro vale di queste architetture.» !? E la stessa cosa si poteva affermare per la civiltà che li produceva. Lo stesso Barzini citato sopra, ricordando a più di quarant'anni di distanza la sua vita in America, insisteva sulla fede, allora molto diffusa, e che lo colpiva spiacevolmente, nelle virtù del lavoro, sulla

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Capitolo terzo

«credenza che il lavoro fosse un modo di onorare Dio, e che il suc-

cesso e la ricchezza fossero unicamente premi alla virtù». Di conseguenza, la vita era concepita come una corsa perenne, e la visione

del mondo più diffusa si riduceva a un «pragmatismo volgarizzato» che mortificava la riflessione. Gli sembrava paradossale che gli uomini nuovi, modelli per l’illuminismo, e per l’individualismo esempi perfettamente riusciti, si fossero trasformati nei docili lavoratori (docili e abbrutiti), che dedicavano la loro vita a un lavoro dal quale certo

non proveniva felicità.! Il nemico di Roma sta a Oriente, si chiedeva Vittorio Profumi nel 1934, «oppure nell’onda materialistica che fiotta e ribolle intorno alla bandiera delle quarantanove stelle, nelle metropoli assurde dove lo spirito è sacrificato alla macchina ed all’acciaio, dove l’anima è morta e la divinità è l’oro?» !” Ricostruiva una storia ideale ‘dell’ America dalla sua scoperta in poi, che si poneva tutta sotto il segno dell’oro (appunto), e che terminava con il rovesciamento delle posizioni iniziali, con l'imperialismo economico e spirituale che dominava il mondo, con l’americanismo che minacciava l'Europa da vicino. Scriveva che la storia americana poteva essere posta sotto il vessillo dell’«avventura verso la materia»: L’America nacque con le stigmate incancellabili della materialità e dello spirito di adattamento (...) Tutto quello che c’era da apprendere dall'Europa fu appreso e subito degenerò: la macchina, inventata dal genio d’occidente, assunse presto un’importanza e una diffusione spaventose. Il capitalismo, fra gente che non aveva altra mira che il guadagno, raggiunse l’apogeo del proprio sviluppo (...) Niente spiritualità, niente idealismi! (...) L’utilitarismo è il volto del Nordamerica (...) Tutto era il dollaro.

Mentre si delineava l’opposizione fra oro e acciaio, l'Europa doveva pensare a volgersi dalla quantità alla qualità, dal guadagno, carattere distintivo dell’«aberrante antieuropa in marcia»,!* alla mistica. Quando Romolo Tritonj delineava la storia della formazione dell’uomo americano, descriveva la civiltà del West come democratica,

egualitaria, informata all’attivismo e al consenso con le idee della maggioranza, da una istruzione diffusa ma elementare, dalla fede nella sovranità del maggior numero.'° «Riassumendo quindi — affermava -, spirito pratico e da lottatore, ricerca di guadagno, idee democra-

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tiche, omogeneità, ideale dell’uomo medio, cameratismo, affezione nazionale, carattere provinciale e di Stato particolaristico, ecco gli elementi principali concorrenti allora a formare il tipo continentale americano.» °° L'America più autentica si trovava, a suo parere, nel Middle West, puritano e privo di influssi europei, dove si conduceva un'esistenza provinciale, monotona e convenzionale, standardizzata e alla maniera di Babbitt.?! Gli uomini che questa civiltà forgiava, ingenui e ottimisti, pratici ed energici, solidi e limitati intellettualmente, «impersonano — scriveva — lo spirito sano, chiaro e sodo che governa gli Stati Uniti». Concludeva: Insomma nel West rileviamo una specie di civiltà economica di genuini principi democratici, con sano civismo, basata su di una produzione in grande, con alti salari e con basso costo di produzione, la quale ha creato una grande prosperità, un diffuso benessere tra le masse, e ha elevato il loro tenore di vita conferendo ad esse

un maggior decoro di esistenza.??

«Una specie di civiltà economica»: era quanto, con un linguaggio più o meno suggestivo, veniva rimproverato con una insistenza davvero impressionante all’ America in quegli anni. Era quanto sottolineava Roberto Farinacci nel 1936 quando si riferiva alla «disordinata

frenesia americana in un paese cui solo Dio e sola morale è il dollaro».?? Era l'impossibilità di parlare della civiltà americana prescindendo dai numeri. «Una città americana — scriveva Euno Poggiani — non si può descrivere con soli aggettivi; ad un certo punto deve essere tradotta in cifre; l’ordine nazionale è essenzialmente imperniato su interessi materiali.» Edmondo Rossoni, in un discorso tenuto a Berlino nell’aprile del 1936, affermava: «Noi neghiamo che il materialismo economico possa determinare in eterno la storia. Nemmeno il denaro è un’idea. La “regalità” economica americana, con le macchine, con le merci e con le

anime fatte a serie non lascerà nella storia tracce gloriose.»?° «Una specie di civiltà economica» era la stessa cosa di «culto del vitello d’oro», secondo l’espressione di Margherita Sarfatti. L’americano, erede della mentalità della frontiera che vede il successo nel potere conquistato su uomini e cose, «accumula vertiginosamente il suo denaro con la sua fatica, senza concedersi piacere o tregua», e

lo considera un segno certo di virtù.” Le conseguenze erano quelle evidenziate, ad esempio, da Amerigo Ruggiero: «La vita americana

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Capitolo terzo

è terribilmente demoralizzante per i poveri e per i figli dei poveri. L'atmosfera di materialismo che la pervade conduce facilmente al delitto. L’onestà, la perseveranza, l’assiduità al lavoro, apparentemente

almeno, non pagano.» ”” Scriveva, riferendosi al periodo che aveva preceduto la crisi del ’29: «Era un’epoca di piena economia manchesteriana in cui l’immaturità e l’incoscienza di un popolo nuovo e infantile nel pensiero e nelle concezioni, credeva di aver scoperto un perpetuo paese della Cuccagna.» ? La vita americana era quanto di meno sacro si potesse immaginare: una esclusiva corsa al benessere.” Questo corrispondeva non a una

fase di pienezza vitale, come poteva sembrare a prima vista, ma piuttosto a epoche di indebolimento delle civiltà dal loro interno. Roberto Pavese, nell’esprimere questa convinzione, sosteneva: «Non mancano

argomenti per provare che l’uso dell’oro e della moneta in genere non risponde ad un bisogno imprescindibile ma riflette soltanto determinati periodi, che potremmo chiamare mercantili e che di fatto sono involutivi, delle varie civiltà.» La spiegazione del nesso fra materialismo e decadenza era questo: «Il bisogno del denaro sorge quando, chiusosi il periodo della conquista e dell’assestamento, ai guerrieri seguono i mercanti.» ? E si augurava che l’acciaio di un’umanità fascista e fortissima avrebbe presto sostituito l’oro dovunque. Per definire la politica americana che aveva seguito la prima guerra mondiale, Francesco Coppola parlava del «mercantilismo cinico» e della «puerile ideologia della politica americana». La mancanza di cultura poteva apparire alternativamente come la conseguenza o come la causa dell’economicismo che dominava la vita e le idee dell'America; comunque, a tutti si mostrava chiaro come il materialismo fosse, della cultura come la intendeva e la possedeva l'Europa, l’antitesi per eccellenza. Mario Gioia scriveva nel 1939: «L° America non ha una cultura vecchia di secoli come la nostra, ed essa è ancora orientata verso un’aspirazione prettamente materiali-

stica, in cui lo spirito della nuova civiltà non è ancora maturo come nella vecchia Europa.» Scagliandosi contro l’identificazione della cultura con l’utilità, Margherita Sarfatti aveva affermato alcuni anni prima: la cultura «è il contrario dell’americanismo, del taylorismo, del fordismo, del bolscevismo e di tutte le meccanizzazioni razionalizzate

dello spirito, messo alla porzione congrua, potato e deviato».?

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La «potenza del denaro» era riuscita, secondo Emilio Cecchi, a organizzare in America splendidi musei; ma ciò che vi era stato raccolto, le preziose testimonianze dell’arte e della cultura, risultavano completamente estranee all’ America, e appartenevano invece a quella tradizione europea che i padri fondatori erano giunti ad esecrare.” Lo sguardo di Cecchi era, tutto sommato e se paragonato ad altri, molto moderato, visto che considerava la denuncia della monotonia

e della ripetitività del lavoro una esagerazione, visto che il sistema industriale gli appariva dotato di grandi qualità e di qualche piccolo inconveniente, visto che la sinistra americana era ai suoi occhi «troppo borghese e utilitaria», soprattutto rispetto ai grandi meriti del forte individualismo di un personaggio come Henry Ford.” Eppure, un autore come Cecchi scriveva: Nessun dubbio sulla nequizia del caffè che si sorbisce in America. E circa le idee genetali (...) Gli americani non hanno idee generali, ammettiamolo. Ma nessun popolo è così persuaso d’averne, e le coltiva con tanta ambizione (...) potrebbe anche dirsi, che le proprie operazioni mentali l’America le compie, soprattutto, per pseudiconcetti.5%

Sottolineava come la vita mentale degli americani si svolgesse per compartimenti stagni: «E il riflesso — scriveva — d’una latente timidità mentale.» La politica dello struzzo, la sordità alle critiche erano tratti che caratterizzavano la storia americana fin dall’inizio: Dalle sue primissime origini, l’America è il più gigantesco, perfezionato ed elastico fin de non recevoir. È il caravanserraglio della «volontà di credere»: e credere quello che fa comodo, per evitarsi il disturbo di pensare, di mutare, d’accettare il confronto col vero, d’entrare in un processo dialettico con la realtà.?”

Questo punto dettava a Cecchi le pagine forse più pungenti che l'osservazione dell’ America dovesse suscitargli: la miglior garanzia che quel paese era impermeabile al comunismo risiedeva, a suo parere, nel fatto che mentre in Europa partiti, sindacati e movimenti si basavano su un’idea della vita e del mondo, in America riposano sull'utilità economica, con la quale si fanno ben poche rivoluzioni. Sotto il segno dell’«edonismo e (...) utilitarismo americano» si collocavano

per Cecchi sia un problema grave come quello della crescente denatalità fra la popolazione anglosassone, sia la discriminazione razziale, nient'altro che «strumento terrificante d’una tirannia economica».

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Anche per fenomeni ed esperimenti guardati in generale con simpatia, come il New Deal, spuntava l’accusa di materialismo: secondo Filippo Caparelli, ad esempio, nel tentativo rooseveltiano era compreso un elemento di economicismo che non era l’ultima fra le cause del suo sicuro fallimento. I provvedimenti adottati si tenevano tutti al solo piano economico e rispondevano all’illusione che ci si potesse liberare della crisi con una semplice manovra monetaria. «Resta soprattutto - scriveva Caparelli — la visione unilaterale dell’esperimento, tutto concentrato sul terreno economico, come se l’uomo non fosse prima morale e politico e poi economico.» L'America era dipinta in preda ad una rivoluzione collettivista: era il prezzo che pagava volentieri, e senza esserne consapevole, per tornare a quella prosperità che rimaneva il suo obiettivo primario.” L'America identificava la libertà con la libertà del denaro, e si sen-

tiva minacciata da un'Europa che mostrava di non credere più che l'arbitro dell'economia mondiale risiedesse oltre Oceano. Mentre la rivoluzione italiana non aveva bisogno di nessuna autorizzazione economica, all’ America cadeva la maschera —- siamo nel 1938 — di sportiva intraprendenza, di cordialità democratica che aveva portato fino ad allora, per rivelarsi attaccata come non mai all’aspetto economico dell’esistenza.‘ La società americana appariva dominata a tal punto dalla preoccupazione della floridezza economica e del mantenimento del benessere nazionale, che si poteva ipotizzare il suo intervento in una prossima guerra solo nel caso in cui la sua presenza economica sui mercati mondiali fosse apparsa minacciata; ma anche la sua conclamata neutralità si rivelava così non essere altro che una fragile facciata, che le esigenze sovrane dell’economia avrebbero potuto di colpo far cadere.” Chi, come Alberto Pirelli, scriveva le sue impressioni sull’ America a ridosso di un viaggio che vi aveva appena compiuto, iniziava con un atto d’accusa che era presentato come la reazione d’obbligo (e già di maniera) che il Nuovo Mondo doveva suscitare in coloro che

provenivano dal Mondo Vecchio. Quelle impressioni iniziavano così: Ecco l’atto di accusa: La civiltà meccanica moderna, nata in Europa e spinta all'estrema sua espressione negli Stati Uniti sta per rendere l’uomo schiavo delle sue macchine. L'uomo perde la sua personalità; egli si standardizza non soltanto negli abiti e negli usi ma anche nella mentalità; l'individuo si confonde nella massa, non è più che un ciottolo sul

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greto, arrotondato, levigato, in tutto simile ai tanti altri (...) La gente conosce il prezzo ma non il valore delle cose (...) La vita esteriore sta per sopraffare la vita interiore (...) Vulcano ha ucciso Apollo.4

Effettivamente, sono le note rimostranze dell’antiamericanismo europeo del periodo, quelle che anche a noi cominciano ad essere fami-

liari. Pirelli tentava di difendere la civiltà tecnologica mettendo in rilievo che uno dei suoi effetti era «il meraviglioso miglioramento del tenore di vita delle masse»,

sottolineando che se vi era livella-

mento, si trattava di un livellamento verso l’alto, verso mansioni più creative, e affermando che, comunque, la standardizzazione e l’uni-

formità dei prodotti non dovevano essere sottoposte a critica finché tali caratteri non avessero influito sull’attività intellettuale dell’uomo. Al termine di questa difesa della civiltà meccanica e dei suoi vantaggi, si faceva strada però una obiezione decisiva contro di essa: il benessere materiale non era sufficiente a creare una civiltà vera, se non

andava unito alla nobiltà dello spirito. In altri termini, esisteva il pericolo che quel tipo (inedito) di civiltà ottenebrasse i lati più elevati della personalità umana. Per contrastare questa possibilità, bisognava far ricorso all’idealismo, alla forza speculativa, era necessario tute-

lare l’individualità intellettuale di ognuno; si doveva far in modo che la ricerca del benessere si ponesse al servizio dello sviluppo delle forze morali più disinteressate. Da questo punto di vista, il miglior rimedio agli eccessi del meccanicismo moderno era rinvenuto nella tradizione secolare della vecchia stirpe latina. Se la tecnica rappresentava un rischio costante per la personalità umana in quanto non aveva problemi nel fare a meno di tradizioni ed eredità di pensiero, azzerandole, anzi, in quella tabula rasa che richiedeva di fare a chi la utilizzava, si capisce bene come la tradizione potesse essere invocata a rimedio dei guasti della civiltà meccanica. | L’invocazione aveva un gioco tanto migliore, poi, in quanto il simbolo e l'esempio compiuto di quella distruzione dei valori provocata dalla tecnica avveniva proprio nel paese che faceva dell’assenza di storia una delle sue caratteristiche salienti. Poiché il fascismo aveva valorizzato una certa tradizione a dispetto di altre, era a quella che si rifacevano i critici fascisti della civiltà americana: ecco allora la latinità, la romanità, il cattolicesimo, i valori dell’imzperium e del mondo

mediterraneo, risorgere dal fondo della storia ed essere utilizzati come una forma di ancoramento solido a una tradizione, di contro all’an-

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nullamento della storia che una civiltà basata sulla tecnica e sulla ricerca del benessere sembrava implicare. Per coloro che non erano fascisti o che, anche se lo erano, sentivano di meno il richiamo delle aquile imperiali e dei paludamenti romani, valeva invece il richiamo al valore della storia come dato che non aveva bisogno di ulteriori specificazioni, la contrapposizione dell’ America agli alti ideali, alla nobile morale, al patrimonio di pensiero che si era accumulato nel corso dei secoli. In ogni caso, un passato pieno di storia che stava alle spalle era considerato come portatore di un valore che di per sé era positivo. Le testimonianze della convinzione che la storia è un bene in sé,

e l'opposizione di una tavola dei valori fascisti contro l'America e l’americanismo sono davvero numerose; ci limiteremo qui a darne qualche esempio. Quando Antonio Bruers nel 1931 si scagliava contro la civiltà materialistica, aggiungeva che non era necessario volgersi verso

l'Oriente nella ricerca della salvezza, visto che il fascismo offriva già gli esempi per superare un materialismo che si collocava sul piano dell’animalità.‘ Quando «il Doganiere» rispondeva a Henry Furst, che su «L'italiano» aveva difeso l’America dagli attacchi che le venivano rivolti, precisava: «In Italia non ho mai trovato degli antiamericani, e neppure degli altri anti, ma soltanto della gente di buon senso e di civiltà antica che reagisce contro deviazioni ed esagerazioni, da qualunque parte esse vengano.»‘ Qual era l’immagine che il fascismo amava dare dell’uomo che forgiava? L'uomo nuovo (e al tempo stesso antichissimo) era un antiedonista pronto a una vita di rinunce e di eroismi, amava il denaro con moderazione considerandolo solo un mezzo, disprezzava i comfort materiali, combatteva lo spirito borghese in ogni sua forma, tendeva alla realizzazione di una «umanità fortissima». Da questo punto di vista, l’immagine dell’ America come regno del «culto cieco dell’oro», che - come si è visto — aveva larga diffusione, poteva diventare l'esatto contrario di quella che il fascismo ambiva a dare di sé, ed essere perciò esecrabile.‘ «Sia ben chiaro - scriveva l'anonimo Silus nel 1935 — che noi non siamo contro il progresso meccanico-comfortistico come progresso, ma contro quella corsa al benessere, all’alto livello di vita che l’ha provocato.» ‘ La principale fra le ragioni: «L'indice costante della statistica afferma in tutto il mondo il bassissimo quoziente di natalità delle zone cittadine e cioè di quelle che attingono a piene mani

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quel benessere che è la meta ultima — ma non mai raggiunta - dell’uomo moderno.» Di contro, i popoli asiatici si moltiplicavano: questo induceva a pensare che un ruolo determinante fosse svolto proprio da quella mancanza di benessere, di agi, di comodità, nella quale vivevano, da quell’orientamento dei loro ideali in senso non materialistico. Affermava: «Da troppo tempo l'Occidente si snerva sotto le carezze del comfort cosiddetto moderno, da troppo tempo le comodità uccidono i corpi come i caratteri.» 7° E accusava un popolo che si imborghesiva e una borghesia che non si accontentava mai, di perdere quella volontà che è essenziale per avere alti tassi di natalità. La tavola dei valori che l’Italia fascista rifiutava era proprio quella nella quale l’America era cresciuta: era nata dalla Riforma protestante, «portata avanti e snaturata dai Puritani e affermata e rafforzata dalla politica dell’89». Si tratta — specificava il commentatore — dell’opposizione, in tutti lore materiale al valore spirituale (...) Lo stesso imperialismo di certi non più dall’orgoglio di diffondere una civiltà o di contare un sole sul volto delle proprie terre, ma dall’accaparramento delle quantità come indice assoluto di supremazia.?!

i campi, del vapopoli discende senza tramonto materiali preso

«Il Doganiere» definiva in questi termini la «civiltà della bistecca» contro la quale lanciava i suoi strali: «La civiltà della bistecca è quella contro cui noi combattiamo. E la civiltà dell’urbanismo, del macchi-

nismo, dell’onnipotenza capitalistica, quella che adempie la propria missione coloniale col semplice ed unico scopo di sfruttare le terre e il lavoro degli altri.» ?? Nel 1941 Giuseppe Bottai affermerà che la guerra che si sta combattendo è la guerra del sangue (Italia) contro l’oro (America e Inghilterra): Sangue delle nazioni proletarie (...), sangue di emigranti sparsi per tutte le strade del mondo a vantaggio di tutte le plutocrazie; sangue di italiani contro l’oro dei beati possidenti, dei trafficanti di carne bianca, degli schiavisti umanitari, che volevano impedirci d’abolire lo schiavismo nell'impero del Negus. Oro contro sangue e sangue contro oro.?3

Chi era convinto che all’uomo e ai popoli fossero necessari una

mistica, delle mete eroiche, degli ideali sovrumani (dentro il fascismo,

era questo il caso di Gastone Silvano Spinetti, della Scuola di Mistica Fascista, ma era una posizione estesa ben al di là di quella scuola e degli esponenti fascisti), doveva condannare recisamente l’egoismo,

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l’individualismo «che allontana l’uomo dalla sua vera natura, distac-

candolo da ogni valore sociale, etico e spirituale», il «ragionamento calcolatore, edonistico», la «pseudolibertà del liberalismo». Doveva sentirsi agli antipodi, in altre parole, di tutto quello che caratterizzava le civiltà liberali e capitalistiche, e soprattutto la civiltà americana. Ma i caratteri propri della civiltà americana, e primo fra tutti l'ossessione del denaro, dovevano avere un posto di tutto rilievo nella violentissima campagna che venne condotta negli ultimi anni del Regime contro la borghesia (intesa come categoria politico-morale assai più che come classe economica). Non appare fortuito che il borghese si distinguesse per un tratto peculiare: la sopravvalutazione dell’estero rispetto alla sua patria. In uno di tali attacchi si faceva dell’ironia pesante sulla passione che il borghese nutriva per 1’America: «I baldi giovanottelli, ballerini alcoolici e modernissimi, trovano che 1’Ame-

rica afferma un nuovo quadrante del progresso con le danze negroidi, le miscele di gin, le salivazioni abbondanti dell’oppiato tabacco Chesterfield e il tossico della cocaina come controveleno al veleno delle omelie di Roosevelt agitatissimo.»?? Dal Processo alla borghesia redatto nel 1939 emergeva che la borghesia era «economismo»

(come il socialismo, del resto), era l’unione

della vita comoda e dello spirito sacrificato, era «la paura di qualsiasi sofferenza materiale», era il trionfo della ragione sull’istinto, era l’ateismo, l’internazionalismo, lo scientismo, il macchinismo, la so-

stituzione del ruolo preminente del guerriero con quello del mercante (ancora una volta!),°° era la povertà spirituale e la ricchezza materiale, come tutta la cultura moderna che inizia con Cartesio («scon-

ciamente materialista ed egoistica di fatto»), cosicché poteva essere considerata una spia non dubbia della fine di un ciclo storico. La borghesia era «benessere materialistico», era la realizzazione dell’uomo macchina secondo i metodi di Ford, era la servitù del denaro.” Al-

berto Luchini scriveva: «La rivolta ideale fascista è contro l’introduzione al Bolscevismo. È contro la barbarie materialista borghese.»58 Mentre il benessere diffuso e l’effettiva potenza economica?” facevano pensare all’ America di aver realizzato una civiltà superiore a quella europea, cadeva proprio uno dei miti attraverso i quali quel paese era stato visto per tanto tempo: il mito del paese dell’oro dove chiunque poteva fare fortuna, e che apriva le sue porte a tutti coloro

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che erano scacciati per le misere condizioni di vita dal paese natale. Quando l’America inasprisce la legislazione, dal 1927 già assai restrittiva delle immigrazioni, e parallelamente la situazione di chi è già emigrato diviene peggiore, la spiegazione che viene data insiste’ spesso sull’egoismo economico americano. La perdurante illusione della superiorità americana rispetto agli immigrati si basa anch'essa su un equivoco economicistico, «sull’equivoco che la quantità sia da preferirsi alla qualità, e che la produzione in serie sia un mezzo sicuro di progresso per mettere a disposizione di tutti, a buon mercato, i prodotti indispensabili alla vita umana». Del resto, era proprio il miraggio del benessere che attraeva (e aveva attratto, soprattutto nel passato) gli emigranti di ogni parte del mondo, rivelando solo in un secondo tempo la sua natura illusoria: era ciò che mettevano in rilievo quanti analizzavano l’argomento, osservando anche che la reazione americana era stata improntata a una «egoistica diffidenza» per la possibile minaccia alle posizioni raggiunte, e all’invidia dei progressi altrui.! La pretesa elasticità del paese in cui «c’è posto per tutti» scompariva come nebbia al sole: «Questa elasticità è stata eliminata da leggi diverse e tutte miranti unicamente a proteggere l'egoismo, sotto un certo aspetto fanatico, dei cosiddetti pionieri.» Si poteva affermare che gli americani avevano sempre fatto valere nei confronti degli stranieri «una pretesa superiorità etnica, (...) una asserita quanto

inconsistente moralità superiore e (...) una vantata predestinazione a un incontestabile predominio». Ma non è del tutto esatto affermare che l’antitesi alla barbarie del comfort, all’inferno del benessere per tutti, fosse indicata solo nell’Italia fascista, o nel passato ricco di cultura del suolo europeo: se

questi rimanevano gli esempi da seguire, un tratto dell’antiamericanismo che neppure l’Italia di questi anni smentisce è il ricorso degli osservatori ai fermenti di opposizione alla civiltà economica che si facevano sentire proprio all’interno dell'America, l’enfatizzazione di una «critica interna», il rilievo dato a tutte le voci che si levavano

contro quella imposizione della prosperità. Franco Ciarlantini scriveva nel 1931: «Già qualche poeta americano sente la nausea del monotono benessere che comprime la vita del suo paese, e grida che non è possibile esistere più a lungo senza la dolcezza della povertà e i santi patimenti della fame.» ® Quando Bianca Forzato Spezia tracciava il ritratto di Sherwood Anderson, sottolineava la presenza nello scrit-

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Capitolo terzo

tore del «tormento di uno spirito libero, che si dibatte nelle strettoie di una civiltà industriale falsa, vacua e soffocatrice della natura».

Anderson rappresentava con estrema efficacia «la brutalità del giogo dell’industrialismo, la meschinità dell’utilitarismo come fine dell’at-

tività umana e il disagio dell’aver perduto la visione dei fini della vita nell’unica considerazione dei mezzi». E Domenico Rosati scriveva a proposito della prosa corrosiva di autori come Mencken, Dreiser, Lewis: «Una critica spietata flagella le supine coscienze e le morali vacillanti.»

Ma era vero che anche autori americani, e spesso quelli

tradotti in italiano, sostenevano la tesi che la ricerca del guadagno avesse distrutto qualità morali assai importanti in un popolo. Sottolineando come l’America non fosse rimasta «cruda e incolta», ma lo

fosse piuttosto ridiventata a causa dello sviluppo industriale, del malcostume diffuso dalla vita moderna, del cattivo esempio della pubblicità, della «mentalità delle folle nei formicai» che si diffondeva con rapidità allarmante, James Truslow Adams richiamava, proprio come i critici europei, alla necessità di una vita intellettuale e spirituale più elevata. E uno dei numerosi esempi dell’utilizzazione da parte europea del disagio che proprio alcuni intellettuali americani sentivano a vivere nel proprio paese, a condividerne valori e abitudini. Il modello compiuto dell’utilizzazione di cui parliamo era la lettura di Babbitt in termini di denuncia. Ma non è certamente il caso di insistere su questo più a lungo. Non solo, infatti, era un espediente di uso assai largo nei critici di tutt’ Europa della civiltà americana: è una posizione che arriva fino ai giorni nostri.

Capitolo 4 Demos e oro

Che cos'è una «demoplutocrazia»? Una espressione esemplare di questa aberrazione storica, di questo r20nstruz2 in agguato, poteva essere indicata proprio nell'America. I motivi di tale identificazione saranno divenuti chiari una volta che avremo spiegato perché 1’America poteva essere definita dall’endiadi «demos e oro», utilizzata a questo scopo da un commentatore dell’epoca, e sottesa a molti dei giudizi che su quel paese venivano dati. Da un lato, gli Stati Uniti potevano essere descritti, come già abbiamo visto, come il regno dell’industria, del guadagno a tutti i costi, dell’adorazione dell’oro, con tutte le conseguenze che questo dato di fatto portava con sé: da uno sviluppo economico distorto a una inclinazione del pensiero verso il materialismo e l’utilità, dai fenomeni di rapacità che caratterizzavano il mondo del lavoro a un diffuso abbrutimento dei costumi, dalla de-

turpazione dell’ambiente all’involgarimento di tutte le forme di cultura. L’America si lasciava definire anche in termini di grande democrazia, se era vero che la sua indipendenza si era realizzata proprio in connessione con l’ideologia democratica, sulla quale si era basata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Per chi non nutriva una simpatia eccessiva per quel tipo di governo, diventava dunque possibile affermare che il paese in questione mostrava di essere dominato dalle caratteristiche peggiori della democrazia: sentimentalismo nel regno della politica, ideali umanitari, pacifismo, fiducia nella so-

luzione arbitrata secondo ragione dei problemi internazionali. Ma in queste definizioni possibili — che da sempre sono state date — c’era qualcosa di più del semplice accostamento: dall’unione delle due caratteristiche che l'America possedeva quasi per antonomasia

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Capitolo quarto

derivava un’aggiunta di significato che faceva tutta la specificità americana rispetto alle altre nazioni. La sovrapposizione di «demos e oro», l'interazione delle due cose, il loro intreccio funzionale: era su questo qualcosa in più che i critici dell’ America si soffermavano. Se, infatti,

un aspetto noto della democrazia era la tanto deprecata legge delle maggioranze numeriche, la fede nelle virtù dell’elettoralismo, l'enorme potere decisionale affidato a corpi dal funzionamento tanto irragionevole come erano le assemblee, un carattere che solo 1’America possedeva a tal punto era la funzione di copertura che la democrazia svolgeva a favore del capitalismo. L'ideologia democratica - si sosteneva — era una mera facciata che serviva a nascondere il potere reale: non certo. quello esercitato con il voto, ma piuttosto il potere delle «sessanta famiglie» che governavano di fatto le sorti del paese, lo strapotere di imprenditori di ogni tipo, la vera e propria anarchia nella quale l’industria aveva potuto nascere e prosperare. Quello che emergeva da queste critiche era l’esistenza, sotto le spoglie della democrazia, di una dittatura di fatto, esercitata dall’industria e dal capitale. I sentimentalismi e la facciata umanitaria che ricoprivano la politica negli Stati Uniti apparivano così solo un mezzo efficacissimo e convincente per lasciare il cittadino in balia dei potenti che nella realtà decidevano delle sue sorti. Demos e oro, l’uno alleato all’altro, rendevano

quella dittatura delle cose, dei meccanismi, dei potenti, facile e perfino desiderabile. L’America come sede di un capitalismo rapace è un'immagine presente lungo tutto il decennio che prendiamo in esame.? Marcello Boldrini, nel 1933, parlava di capitalismo esasperato, e ricordava come l’industrialismo avesse disgregato la famiglia; le grandi città (fenomeno di patologia sociale che all’industrialismo si era affiancato) avevano dato luogo a quella concezione utilitaristica della vita domestica che conduceva a una riproduzione malthusiana e, in prospettiva, alla sterilità.) Giuseppe Fioravanzo, nello stesso anno, usava il termine «plutocrazia»: il tentativo di dare alla plutocrazia un’organizzazione efficiente attraverso la tecnocrazia era fallimentare in partenza, poiché era segnato dallo stesso materialismo contro il quale voleva reagire. Solo il fascismo esprimeva un compiuto superamento del liberalismo, e indicava la strada di un ritorno alle buone e antiche tradizioni artigiane e agresti che valorizzavano lo spirito rispetto alla materia.‘

Demos e oro

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Bisogna ricordare che la posizione di quanti si esprimevano in quei termini, di quanti davano sull'America giudizi improntati all’unione di demos e oro, coincideva con le parole che Romano Bilenchi scriveva nel 1936: Non bisogna mai dimenticare, nel giudicare la situazione politica dell'Europa e del mondo, questo: che il fascismo è una rivoluzione in marcia contro il mondo capitalista, liberale, democratico, borghese, materialista, nelle sue forme corporee, cioè nei suoi istituti, e sopra tutto nel suo spirito, e che contro questo stesso mondo si mosse, contemporaneamente al fascismo, anche il bolscevismo.?

Se l’identificazione dell’ America con il capitalismo era assai più vasta di quanto qui non appaia, coloro che si scagliavano con la violenza che vedremo contro la mostruosità, l'oppressione umana e l’assurdo storico delle «demoplutocrazie» (ossia proprio coloro che orientavano il loro giudizio sulla base dell’endiadi demos e oro), condividevano in genere l’idea che il fascismo fosse una rivoluzione sociale, populista e antidemocratica, antieconomicistica e antiborghese. D'altra parte, il termine «demoplutocrazia» doveva essere così abusato per indicare l’America, da provocare un richiamo su «Critica fascista» a quanti ripetevano su quel paese giudizi bell’e fatti.$ «Gli Stati Uniti sono stati per più di un secolo — scriveva Amerigo Ruggiero nel 1933 — la nazione capitalista per eccellenza (...) Il capitalismo ha potuto qui funzionare senza intralci e senza deviazioni.» Il risultato positivo dell’innalzamento del tenore di vita era stato pagato a caro prezzo: «La febbre del lavoro, del guadagno, della speculazione travolgeva individui e comunità intere mantenendoli in una tensione nervosa e in una fissità di mira che non ammettevano deviazioni in altri campi: culturali, etici, politici.» L'America appariva non solo come la sede storica, ma come il luogo ideale del capitalismo, dove esso aveva manifestato la sua forma pura, estrinsecato senza in-

tralci di sorta tutte le sue possibilità. Posto che il capitalismo era lo stesso ovunque, Gaetano Russo affermava: Se la ipertrofia creditizia ha poi avuto negli Stati Uniti d’ America (paese giovane, privo di risparmi accumulati nel corso dei secoli) manifestazioni più gravi fino ad assumere grandezze astronomiche in rapporto a quelle dei paesi europei, è precisamente perché il capitalismo - quello senza aggettivi - vi ha potuto in pieno estrinsecare le sue attività.8

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Capitolo quarto

Si poteva dunque sostenere che in America si assisteva non a una

qualche degenerazione, ma al «fatale ed inevitabile svolgimento» del capitalismo, che nei paesi «vecchi» trovava degli ostacoli nelle tradizioni ancora vive e in un diffuso senso della misura. Attraverso il credito e le società anonime, continuava Russo, «il capitalismo (...) ha compiuto, nelle sue riverberazioni sociali, opera eversiva e sovversiva provocando sconvolgimenti e squilibri non soltanto di natura economica». Aveva realizzato, cioè, un «dispotismo ambizioso ed intollerante del capitale mobiliare anonimo», mentre contemporaneamente si diffondeva una «morale egoistico-utilitaria». Chi di-

fendeva un’economia collegata alle concrete realtà produttive e dotata di senso del limite, non poteva che condannare un’economia che, invece, appariva tutta artificiale, che allargava sempre di più la distanza fra produzione reale e speculazione, che produceva «gli artifiziosi plusvalori».? Beniamino De Ritis scriveva che, fin dalla sua formazione nazio-

nale, 1’America era apparsa come la patria di un capitalismo selvaggio ed estremamente concorrenziale; in seguito, era divenuto il paese in cui anche le università più prestigiose ricevevano finanziamenti dai grandi miliardari, un mezzo di sicuro effetto per spingere gli studenti alla «glorificazione imperitura dell’impero del denaro». Era «l'America del “self made man” orientata sempre verso un ottimismo ultraumano e una idolatria elementare del successo materiale ».!° «L’industrialismo iperbolico è stato la rovina dell'economia nordamericana», scriveva Gino Arias nel 1934.!! Quello che mancava a ogni sistema che si basava esclusivamente sull’industria era un rapporto salutare e proficuo con la terra: ma tale rapporto era impensabile per economie di quel tipo, fondate sull’artificialità e sulla produzione sganciata dai bisogni.'° Alla fine di tutto questo, si delineava una sconfitta storica, se era vero, come nessuno di questi autori dubitava, che esisteva un legame forte fra l’urbanesimo, la crescente artificiosità della vita, e la denatalità: è per questo motivo che tanti di questi giudizi sull'America, sulle demoplutocrazie in rovina, possiedono un tono di arrogante superiorità che riuscirebbe altrimenti incomprensibile. Si trattava di una civiltà destinata a essere colpita in ciò che è vitale, nel suo accrescimento e nella sua sopravvivenza demografica.!

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«In America non è felicità senza parecchio denaro», scriveva Mario Soldati nel 1935. Emilio Cecchi vedeva nel grattacielo americano l’espressione tangibile del materialismo diffuso, della «prepotenza economica» che caratterizzava la civiltà che lo aveva prodotto. Scriveva: «È il campanile senza campane d’una religione materialista, senza Dio. Rocche baronali della plutocrazia, igrattacieli ‘amaigliano in tutto alle torri medievali dei nobili, armati uno contro l’altro, entro la stessa cerchia di mura, e soltanto uniti contro il Comune,

la res publica.» La storia americana appariva caratterizzata dall’impronta borghese fin dalle origini, solidale con le virtù, i difetti, gli ideali di quella classe che era anche un modo d'essere dello spirito; ma all’epoca delle borghesie attive e intraprendenti, fattore propulsivo della civiltà, era succeduto il tempo delle borghesie conservatrici, egoiste perché sulla difensiva, che facevano quadrato attorno ai loro interessi, e di questo carattere declinante risentiva più di tutti proprio l’America che si era identificata appieno con i valori e il modo di vita borghesi.' Quel paese non riusciva a liberarsi dell’economicismo neppure quando lo voleva, neppure quando da questo abbandono sembrava dipendere la propria salvezza: il fallimento - così qualcuno lo giudicava — dell'esperimento rooseveltiano rivelava la realtà vera di un sistema che, per ritrovare la salute, cercava semplicemente di limitare la produzione, e che, anche quando sosteneva di trasformarsi profondamente, restava un’economia «di pura marca capitalistica». Gaetano Ciocca, che pure difendeva l’industrialismo dall’accusa di essere il portatore necessario di squilibri nello sviluppo e di immoralità nella vita dei singoli, definiva l'economia americana come la più libera che ci fosse, la più autonoma e indipendente. Riferendosi agli Stati Uniti scriveva: «Massimi vi sono l’industrialismo e la ricchezza.» !* La sua tesi era che l'applicazione sistematica della ‘macchina alla produzione conducesse a un’economia di tipo nuovo: era un'economia di massa caratterizzata da «abbondanza di beni e diminuita fatica», di cui l'America mostrava di essere un esempio. «Possiamo quindi concludere — affermava - che l’istrumentalismo e la macchina, che ne è la sintesi, hanno condotto al trapasso dalla economia di privilegio all'economia di massa.» !° Nell’economia di

massa, il consumo e il lavoro tendevano a equilibrarsi, il che spiegava come fosse possibile che tutti i meccanici americani non solo

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Capitolo quarto

riparassero le automobili di chi le possedeva, ma possedessero tutti un'automobile. Le identificazioni dell'America con il simbolo per eccellenza del capitalismo potrebbero occupare ancora molte pagine. Tutte avevano il tono di questa definizione che Leopoldo Piccardi dava dell’ America: «Un popolo di quasi centotrenta milioni di abitanti, unito dalla lingua e dalle tradizioni storiche comuni, pervenuto al più alto grado di sviluppo della civiltà industriale e capitalista.» ?° Scettici su un progresso inteso soprattutto come progresso materiale indefinito, convinti che lo sviluppo industriale avesse prezzi troppo elevati in termini di salute della morale e vita delle nazioni, i critici italiani contrapponevano alla plutocrazia il corporativismo, al progresso materiale un progresso inteso come espansione dell’interiorità, all’economicismo i valori della latinità. Ferrante Azzali affermava che era un'opinione falsa quella che identificava i valori della civiltà con il progresso economico: ma riconosceva che era proprio in base a questa opinione che la civiltà americana veniva anteposta a quella italiana.?! Una parola d’ordine corrente nel fascismo era invece quella che affermava di voler «liberare il lavoro dall’incosciente macchinismo determinato e retribuito da un supremo sistema economico, qualunque sia».?? Quando anche in Italia arriva la ventata razzista partita dalla Germania, l'etichetta dell'ebraismo serve a raccogliere e a spiegare tutto quello che è considerato distorto e aberrante nella civiltà degli ultimi due o tre secoli: la democrazia, la «misteriosofica massoneria», il «ca-

pitalismo mercantile», il «comunismo miserabile», l’«anarchismo integrale». Non solo, come in ogni forma di pensiero totalizzante, tutto si teneva, ma fra questi fenomeni sembrava anche possibile rintracciare delle forme di interazione, dei meccanismi

di causalità

reciproca.” «Tutte le Internazionali sono di origine ebraica», scriveva lo stesso anonimo commentatore un anno dopo, nel 1939: quella wilsoniana e quella comunista, quella dell’oro e quella dell’oppio. L’ebraismo si identificava con i valori della modernità in arte, in politica, in economia: «Il giudaismo, diretto alla realizza-

zione di un livellamento proletario e materialistico, aveva bisogno di un’arte cosmopolita che, al di fuori dei valori stilistici e particolari dei popoli preparasse l'avvento dell’bomzo occidentalis mechanicus, neobarbarus.»

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La condanna della civiltà plutocratica, ebraica e massonica, che veniva così facile ai commentatori italiani, faceva prevedere che l’America (come la Russia, e per gli stessi motivi) non avrebbe più esercitato nessuna influenza sui destini del mondo, la cui storia stava

passando dalla fase mercantile a quella spirituale-eroica. Come anche la Francia e l'Inghilterra, si trattava di nazioni che un tempo avevano avuto la loro parola da dire, ma che ora partecipavano del generale «clima della viltà borghese», da quando erano decadute (altra convinzione comune) le virtù proprie di una borghesia agguerrita e oramai in pantofole. Leo Negrelli scriveva: «Germe di eroismo c’è stato tra i pionieri dell’industria, deviato poi verso un materialismo plutocratico.»

°°

Ma si diceva, all’inizio di questo capitolo, dell’aggiunta di significato che la definizione dell’ America in termini di «demoplutocrazia» implicava. Quando l’espressione viene coniata ed entra in circolazione, Rosario Sottilaro scrive: «E facile (...) constatare che i tre paesi che

costituiscono le cosiddette “grandi democrazie”, sono i tre paesi più ricchi. Essi posseggono da soli tre quarti dell’oro del mondo e controllano economicamente i tre quarti del mondo: Stati Uniti, Inghilterra, Francia.» E aggiungeva: «Tre grandi democrazie, dunque, tre grandi plutocrazie! Mai, come in questi tre paesi, Demos fu così alleato dell’oro. Mai, nella storia dei popoli, in nome della libertà, del-

l’uguaglianza e della fraternità, fu un’alleanza così serrata di ricchi, per aggiogare al carro della loro politica i popoli non ricchi.» ? Quando la democrazia non appariva partecipe degli stessi vizi del capitalismo (poiché anch'essa deificava il numero e le mere quantità), addolciva gli aspetti più crudi della plutocrazia, e fungeva da elemento attivo per catturare consensi e adesioni agli scopi rapaci del sistema più spietato che ci fosse. Quando le convinzioni erano queste, si pro‘ cedevaa svelare qual era la vera essenza della democrazia: si scopriva che la democrazia non era altro che la dittatura di classe esercitata dalla borghesia a partire dal 1789 a suo favore, e si affermava che quella dittatura non era meno oppressiva delle presunte dittature politiche solo perché si esercitava subdolamente attraverso l'economia piuttosto che con mezzi più scoperti. Chi partecipava di questa idea, come Ernesto Brunetta, scriveva: «L’Ottocento segnò lo stabilirsi della dittatura democratica. » ‘5

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Capitolo quarto

Questo rovesciamento (paradossale a prima vista) delle connessioni

generalmente stabilite fra democrazia e libertà, e per contro fra dittatura e oppressione politica, veniva operato anche dagli altri critici europei della civiltà americana per sostenere che la vera libertà non stava di casa nei regimi liberaldemocratici. Un altro tratto di somiglianza fra quelle critiche e queste è l'assunzione di una terminologia e di strumenti dell’analisi marxista, di classe, per sottolineare gli aspetti salienti della civiltà americana intesa come demoplutocrazia. E davvero impressionante che autori certo non appartenenti alla tradizione

del movimento operaio evidenziassero l’oppressione del lavoro, l’imposizione del consumo, la disumanità del regime del capitale, il fatto che descrivessero il sistema capitalista appunto nei termini di un regime. E ancora, non manca di colpirci l’osservazione che essi facevano della durezza dei rapporti di classe sotto la facciata della libertà formale, la realtà del dominio di pochi coperta dalla maschera della partecipazione di tutti, l’analisi di fenomeni emergenti quali i mutamenti nel modo di vita delle masse e le trasformazioni relative della cultura, con la creazione tutta recente di una cultura di massa. E un

tratto costante e decisivo di quella destra novecentesca che è stata felicemente descritta come «radicale»,?° e che si differenzia dalle

altre proprio per il duplice carattere della critica del Sistema (botghese, capitalista, liberaldemocratico) da un lato, e per la concezione dell’alternativa al Sistema in termini di rivoluzione sociale autoritaria e populista dall’altro. Nell’analisi dell’antiamericanismo degli anni trenta, scopriamo che questa posizione gioca un ruolo centrale nella definizione dell’ America come barbarie del comfort, come unione di

demos e oro, e dunque nella formazione di un'immagine negativa che per almeno un decennio è stata corrente.

L’autore che sosteneva la tesi della dittatura democratica impiantata in America osservava infatti che il conflitto che aveva opposto borghesi e proletari era degno delle lotte fra tribù primitive per la sua violenza e la sua portata: «L'enorme progresso delle scienze, della produzione, delle comunicazioni, le energie naturali cadute sotto il dominio dell’uomo, mascherarono la reale portata dei fatti. Che l’umanità fosse ripiombata in un tenore di vita spietato e barbaro, non parve.» Le «plutocrazie democratico-borghesi» distrussero la tradizione, il senso superiore dello Stato, l’idea del sacro, per fare del

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denaro il solo valore riconosciuto: così «le energie motrici della civiltà europea cominciarono ad inaridirsi». Ma tutto questo doveva

volgersi alla fine contro quelle stesse plutocrazie, e proprio grazie a un fattore che richiama le considerazioni che abbiamo appena esposto: la creazione, ad opera delle crudeli condizioni di vita conseguenti alla dittatura borghese, di una massa di diseredati che sono facile terreno di ogni rivolta. Ne viene — scriveva Brunetta — che esiste nei paesi democratici una massa spostata, priva di mezzi di sussistenza e priva dei vincoli morali che i vecchi valori europei imponevano. Non esiste per questi spostati che il dio borghese del denaro, qualsiasi rivolta li trova nelle sue file, così le forze che la plutocrazia creò e utilizzò per il suo dominio, nel secolo xx le si rivolgono contro.39

Per Domenico Rosati l’America oscillava fra la «mascherata dittatura capitalista» e la «sentimentale demagogia», anche se l’anima di quel paese era il «capitalismo rapace» che muoveva nella loro azione perfino i presidenti della repubblica. Affermava che gli sbocchi possibili di quella situazione erano «o una aperta dittatura capitalista ed un'estensione del suo impero, o la strada dell’esperimento russo».?! Ma tutta quanta la storia americana poteva essere messa sotto il segno

dell'economia onnipresente: i suoi eroi erano «gli eroi della finanza e dell’industria, senza ideali e senza nobiltà», la tanto conclamata libertà si realizzava non nella libertà interiore, ma piuttosto nella libertà d’azione in cui possono soddisfarsi gli istinti predatori, i suoi alti principi si riducevano alla fede nell’uguaglianza sociale e perciò anche economica: È questa tinta decisamente economica che ostacolò lo stabilirsi di una classe aristocratica o media come classe dirigente, lasciando che questo ruolo toccasse all’uomo ‘ d’affari: il quale trasformò non solo il governo, ma tutta la struttura nazionale in una vasta azienda economica e nell’anima del popolo infuse la mentalità del profitto.

Il mondo appariva diviso fra nazioni plutocratiche e nazioni proletarie, visto che la lotta di classe si era spostata dall'interno di ogni singolo paese al contesto internazionale. Se fra le seconde stava l’Italia, le prime si identificavano — guarda caso - con le democrazie. Ancora una volta, era questa l’occasione per la rivelazione della realtà

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Capitolo quarto

vera delle democrazie che molti pretendevano di fare: «Le democrazie - si leggeva in un corsivo di “Gerarchia” del 1937 - difendono oggi un principio dinastico ben più duro dell’altro: il principio ereditario del capitale che non dovrebbe uscire dagli steccati della classe proprietaria.»? Amerigo Ruggiero notava che in America tutto era deciso dal ca-

| pitale, la cui influenza si esercitava in tutti i settori della vita sociale: «Nel paese capitalista per eccellenza, le grandi organizzazioni produttive e finanziarie esercitano sulla vita della nazione un potere assai più completo, rigido, inesorabile di quanto non avvenga in Europa, dove il capitalismo non ha mai avuto uno sviluppo così colossale e illimitato.» #4 Cercava poi di rispondere alla domanda se esistesse libertà reale in un paese così organizzato, e, dovendo riconoscere che ce n’era davvero poca, scriveva: «La più solenne corbellatura è quella della gazzarra elettorale in cui il popolo s’illude per un momento di esser sovrano.» Questa opinione era condivisa anche da chi, come Bruno Spampanato, vedeva nel fascismo la rivoluzione antiborghese e anticapitalista," e riteneva non solo che il regime borghese fosse

sempre senza eccezione un regime «demoplutocratico», ma che nei regimi sedicenti liberali si esercitasse il dominio incontrastato del capitale. Difatti — scriveva —, nessun secolo come il liberalissimo secolo delle democrazie vide costituirsi tirannidi così ferocemente chiuse e rigide come quella economica della borghesia capitalistica la quale fu assoluta e continua, e dei cosiddetti presidii parlamentari della libertà si servì per attutire ogni urto tra la propria sconfinata potenza ed una possibile resistenza popolare.

Della dittatura del capitale l'America era a suo avviso un esempio macroscopico: L'America rappresenta (...) la più spietata dittatura dell’ultima fase del processo borghese: del capitale (...) Quella che sembra una fase di sviluppata civiltà, cioè l’antigerarchismo e la perfetta uguaglianza di tutti i cittadini, favorisce solamente il nascosto predominio degli interessi finanziari che hanno miglior giuoco in uno Stato con pochissime sfumature sociali, che non possiede cioè gangli interni intorno a cui enucleare sistemi unitari o resistenze di masse.37

Sotto la democrazia americana, sosteneva Alberto Ferrari in una serie di corrispondenze dall’ America, si nascondeva il potere di fatto

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delle sessanta famiglie, che controllavano non solo l'economia, ma

anche la stampa, l’istruzione, la politica. «Come in queste condizioni si possa parlar ancora di democrazia, o meglio di democrazia Sembrava più approcome un ideale, non risulta tanto chiaro.» priato fare riferimento a una democrazia apparente che nascondeva una sostanziale aristocrazia. Anche il New Deal, visto in questa luce,

si rivelava come una lotta di potere fra una parte della grande ricchezza (i produttori dei beni di consumo popolari) contro l’altra (i grandi industriali dell’industria pesante e i finanzieri). Il principio democratico della partecipazione di tutti alla vita pubblica non solo finiva per generare un disinteresse diffuso, ma costituiva il fondamento ultimo per il potere delle camarille e delle macchine elettorali dei partiti.” Nell’opinione dei suoi critici, l America compiva l’operazione di rendere la democrazia funzione del capitale non solo all’interno del paese, ma su scala internazionale: non ad altro si riducevano i vari organismi responsabili degli arbitrati internazionali e del mantenimento della pace. La Lega delle Nazioni veniva interpretata come il tentativo di leggere la storia del mondo come storia non di forze più o meno grandi, ma di economie, di distinguere i popoli a seconda delle loro ricchezze, di vedere «i popoli e la storia sotto la specie del “mercato” aperto ai suoi prodotti»: Sogno-allucinato della pazzia saggia o meglio della pazza saggezza dei ricchi, credere a una lega universale fondata su paragrafi economici camuffati da principii politici, credere a un parallelogramma di forze economiche arbitre della lotta politica, credere in una società universale priva di moti sociali, credere infine alla eterna remissività dei poveri di fronte alla passeggera potenza dei ricchi.0

«Insolenti plutocrazie moraliste transoceaniche»: così Francesco Coppola definiva le forze americane nel 1935." Quando scoppia la seconda guerra mondiale, egli la interpreta come rivoluzione dei popoli forti ma poveri contro il «blocco plutotalassocratico» (come lo definisce), contro l’«internazionale demomassonica»,

«ebraico-

plutocratica» e «pacifista» che ha sede a Londra, Parigi e York.' L’anno seguente Coppola scagliava contro l'America degli attacchi più furibondi che ci sia capitato di leggere, dove riassunti i luoghi principali dell’antiamericanismo quasi nella loro

New uno sono com-

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Capitolo quarto

pletezza, e dove si esprime soprattutto l’idea dell’unione della democrazia con la rapacità sugli altri popoli: L’America di Wilson e di Roosevelt, ricchissima, imbarazzata anzi dalla propria ricchezza, plutocratica e dottrinaria, mercantile e fanatica, cinica e puerile, orgogliosa di una potenza tanto più facilmente reputata formidabile in quanto non mai seriamente provata in un capitale cimento; naturalmente indotta dalla inesperienza

storica, dalla iniziale atavica infatuazione puritana, dalla facilità della vita e del progresso meccanico, e dalla interessata adulazione altrui, nella più infantile e pedantesca presunzione; tenacemente persuasa di essere il nuovo popolo eletto, il paradigma e l’arbitro predestinato della civiltà democratica e della morale politica mondiale, il giudice di suprema istanza di una storia in cui da così poco tempo è entrata e che in grandissima parte ignora."

Capitolo 5 Barbaro dominio

Abbiamo osservato come la differenza che separa gli anni venti dagli anni trenta rispetto all’antiamericanismo consista nel passaggio dall’opposizione alla politica wilsoniana nei confronti dell'Europa alla formazione di una immagine negativa dell’ America tutta intera, intesa come civiltà opposta a quella europea.! Questo corrisponde al passaggio da un’ America dipinta come campione di democrazia che vuole imporre al mondo le sue soluzioni improntate a uno sdolcinato concerto di tutte le nazioni, all’ America intesa come minaccia per il Vecchio Mondo, stavolta in un modo complessivo ma tale da escludere l’aspetto politico in quanto tale: il Nuovo Mondo rappresentava un pericolo dal punto di vista economico, culturale, e soprattutto dal punto di vista del modo di vita. E un po’ stupefacente, allora, constatare come la denuncia dell’invasione economica dei mercati mondiali, negli anni trenta, sia tutto sommato

abbastanza contenuta

rispetto all’altra, che pottemmo definire come la denuncia dell’invasione dell’americanismo. Fra l’imperialismo, che a partire dalla prima guerra mondiale è davvero una caratteristica della politica americana, e l’americanismo, è il secondo fra questi pericoli che sembra raccogliere il maggior carico di ansie e preoccupazioni, la quantità più grande di virulenza e acredine. Si ha quasi la sensazione che la minaccia che l'America rappresenta davvero in termini di temibile concorrente economico venga ormai accolta con la rassegnazione che hanno tutte le constatazioni dei processi già avvenuti, dei fatti che già si sono verificati. L’americanizzazione del modo di vita, per contro, riesce a condensare un carico davvero impressionante di critiche, invettive,

profezie, utopie negative, come se contro tale tendenza fosse ancora

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Capitolo quinto

efficace la protesta o, forse, come rivalsa fittizia rispetto all’impotenza di ogni opposizione reale. Comunque stiano le cose, è facile osservare una sensibile differenza di tono nell’uno e nell’altro caso: da una parte, la constatazione del trionfante imperialismo economico che l’America esercita sul mondo lascia insensibilmente il posto alle riflessioni amare sulla perdita dell’egemonia europea, e si presenta più come deprecazione di uno stato di cose che come reazione attiva a una situazione sfavorevole, dal-

l’altra invece si ha l’impressione che la guerra si stia ancora combattendo, che il patrimonio di valori della civiltà europea minacciato dall’americanismo possa ancora essere salvato. Con l’espressione «barbaro dominio» (che originariamente indicava tutt'altra cosa),? vo-

gliamo però fare riferimento a entrambi i fenomeni e alle reazioni corrispondenti: allo stabilirsi nel mondo delle grandi potenze di una potenza che le supera tutte in estensione, e al fatto che essa corrisponda alla civiltà più barbara che la storia abbia mai conosciuto, cioè alla critica dell’americanismo visto come la nuova barbarie dei grattacieli, della produzione in serie e del jazz. La politica economica degli Stati Uniti ha oggi uno scopo fondamentale —- scriveva Carlo Emilio Ferri nel 1930 —: quello di creare un’eccedenza sistematica di esportazioni a vantaggio delle industrie locali e perciò anche le tariffe dei dazi, come del resto tutte le altre formidabili armi dell’organizzazione economico-finanziaria, vengono rivolte a determinare una bilancia del commercio congegnata in guisa che gli Stati Uniti divengano sempre più i creditori del mondo.‘

Se fino alla prima guerra mondiale l'America dipendeva dai crediti europei, la sua partecipazione al conflitto aveva invertito le posizioni: da quel momento, la politica americana era stata mossa da un’unica direttrice, dal «miraggio di poter affermare la propria supremazia plutocratica su tutto il mondo incivilito». Era ciò che si poteva definire, in altri termini, come «imperialismo economico nordamericano»: La verità — continuava Ferri - è che l’America del Nord muove alla conquista dei gangli bancari, industriali e commerciali dell'Europa e, sotto un certo aspetto, del mondo. Si sta compiendo da un decennio a questa parte una gigantesca alienazione di risorse produttive a favore dei gruppi plutocratici della democrazia di Washington.

Come si vede, tornava ancora una volta quel tema di «demos e oro» che abbiamo messo in rilievo nel capitolo precedente. La conquista

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americana era costituita dall’espansione produttiva, dal controllo dei mercati, dalla concessione di crediti (a partire dai famosi crediti di guerra), dalla penetrazione dei capitali, e giungeva alla fine alla «conquista delle energie produttive». Mentre si invitava l’Italia a mantenere la calma di fronte a ‘questa progressiva intrusione di capitali e imprenditori americani sul suolo europeo e mondiale, si faceva presente (come sarà fatto innumerevoli volte nel corso di questi anni)

che la potenza americana, tutta basata com'era sull'economia, non

possedeva basi solide, e sarebbe stata travolta dalla prima difficoltà. Era la felice illusione che faceva affermare: «Nel carattere essenzialmente economico dell’espansione americana sta la sua forza ma anche la sua debolezza: gli imperialismi per essere duraturi devono contenere degli elementi ideali.» L’anno precedente, Paola Maria Arcari aveva presentato l’imperialismo come una tendenza connaturata alla storia americana, legata al fatto che lo Stato si era identificato con la classe commerciale e industriale, e che l’industrialismo aveva trovato ottimi punti di partenza. Questo tratto costante di quel paese si esprimeva, da quando l America con i prestiti di guerra era divenuta la creditrice del mondo, nella scalata dei prestiti e degli investimenti all’estero, nel controllo e nelle garanzie, e infine nei protettorati, con un incremento progres-

sivo di tutte quelle limitazioni della sovranità economica e anche territoriale che tali iniziative comportavano per gli altri paesi. Se l'Europa non aveva da temere una conquista militare da parte degli Stati Uniti, doveva invece fronteggiare il pericolo in fondo più insidioso di una «lenta corrosione» sul piano politico, economico, commerciale,

poiché «fra tutte le forme di penetrazione e di conquista — affermava l’autrice —, l'imperialismo finanziario è certo quello che più assume le forme della potenza del male miltoniano».$ Anche secondo . Bruno Brunello l’imperialismo economico faceva parte dell’ America in modo non accidentale, ed era da mettere in rapporto con le concezioni di Henry Ford secondo le quali il benessere materiale è un bene morale, e la sua estensione a tutti i paesi del mondo un compito filantropico che qualcuno si doveva pur assumere.’ Un’opinione assai vicina a questa era quella che esprimeva Lorenzo Piazza quando trovava una correlazione fra il crescere della potenza americana e la nascita del suo imperialismo. Così si spiegava anche l’intervento nella prima guerra mondiale, al quale questo tipo di critiche toglieva la ma-

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Capitolo quinto

schera di missione umanitaria, per assegnargli il significato di cosciente calcolo delle opportunità che si aprivano in termini di aumento del

proprio raggio d’azione. Piazza scriveva: «Sacro egoismo, dunque, e

non già ossequio al diritto delle genti.»? Alla luce di quanto abbiamo già preso in esame e degli argomenti portati contro la civiltà americana che restano da analizzare, sembra che non andasse troppo lontano dal vero Vittorio Beonio Brocchieri quando, sintetizzando la storia degli atteggiamenti europei verso l'America, mostrava il passaggio dall’ammirazione per la sua democrazia, per il regno della libertà e dell’eguaglianza, per le possibilità di lavoro che offriva, alla paura che si era diffusa repentinamente in Europa nei confronti del ragazzo cresciuto troppo in fretta.!° Si può affermare che fosse mosso da quella paura chi riconduceva tutta la politica estera americana, da sempre, a moventi di ordine economico, chi vedeva nelle cause sposate dalla democrazia d’oltre Oceano un paravento a invasioni economiche, chi scopriva all’improviso l’esistenza di egoismi nazionali e desideri di espansione anche in paesi che non avevano alle spalle una storia di machiavellismo in politica. Virginio Gayda, un membro di questa folta schiera, scriveva nel 1932: Non è far torto alla politica estera degli Stati Uniti affermare che essa è soprattutto mossa da un sacro egoismo, da una predominante tutela dei propri interessi. Tutta la storia passata e presente della grande repubblica nordamericana ci prova che la sua politica estera è presente e attiva solo dove si tratta di fare qualche buon affare o difendere una posizione conquistata.!!

La situazione che si era creata faceva parlare della perdita dell'egemonia europea, schiacciata fra l’America e l’Asia.!? Sulla scia di Wilson, gli Stati Uniti aspiravano non solo a una sorta di arbitrato internazionale, ma a una rivincita europea per gli insuccessi accumu-

lati nel resto del mondo: questa poteva assumere l’aspetto di una vera e propria guerra, oppure della penetrazione economica di sempre. «La guerra qui non c'entra — si poteva leggere in un editoriale di “Critica fascista” del 1939 — ma c’entra invece di pieno diritto quell’altra guerra, quella economica, quella ebraica, di cui l’uomo della strada nemmeno s’accorge.» ! Ma quando si tratta veramente di guerra, e si delinea il pericolo di una partecipazione americana al secondo conflitto mondiale, la polemica cambia di tono, e passa a smascherare il proclamato pacifismo

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come fragile copertura ideologica del desiderio tutto conservatore di mantenere lo status quo: i popoli ricchi (i beati possidentes, come venivano chiamati) volevano frenare lo slancio dei popoli giovani e la loro volontà di espansione. Ma in uno strato ancora più profondo, sotto questo aspetto conservatore, c’era la preparazione vera e propria della guerra, il solito atteggiamento imperialistico dei lupi mascherati da agnelli.!4 Ma l’intervento, stavolta, non avrebbe potuto ammantarsi di «falsa nobiltà morale» e «falso altruismo» come durante la prima guerra mondiale, quando l’America era apparsa circondata da una «aureola morale» del tutto ingiustificata.!* Tuttavia, il successo oggettivo della politica estera americana (definita nei termini di «grossolana faciloneria, priva di qualunque stile e di qualunque misura») veniva anche in questo caso connesso con «un indebolimento della funzione direttrice della politica europea». Se questo accadeva, una ragione non secondaria andava trovata nella incomprensione, da parte di quel popolo barbaro, della complessità che anche in politica caratterizzava il Vecchio Mondo. I moventi, stavolta quasi scoperti, della politica americana, trascuravano il sottile gioco delle parti della politica tradizionale, e miravano apertamente a fini di natura economica; gli ideali democratici dei quali essa si ammantava erano, del resto, troppo fragili e abusati perché venissero davvero presi sul serio. Nello stesso editoriale di «Critica fascista» del 1939 si poteva leggere: D'altra parte, potremmo pretendere che l'America che ha una vita politica primitiva in corrispondenza delle sue idealità (modestissime) connesse all’indole, tutta na-

turale ed economica, della sua vita umana e sociale, ed una altrettanto elementare vita internazionale, si sforzasse di capire in qualche modo - invece di restare sbalordita e scandalizzata - la complessa politica europea, derivante dalla profondità della vita spirituale e morale e dall’intrico delle razze e degli interessi. Senonché, questa nostra pretesa, evidentemente, è eccessiva.!6

Mentre Ottavio Lefebvre d’Ovidio affermava che i motivi dell’interventismo

americano erano essenzialmente economici,! un ano-

nimo corsivista si dichiarava dispiaciuto dell’ipotesi che, se la guerra avesse distrutto ambedue le parti contendenti, sarebbe avvenuta una nuova spartizione del mondo: «Quello che dispiace, si diceva, è che a trarne profitto sarebbero altri continenti divisi da questa Europa da oceani o da una troppo fitta barbarie.» Ed esplicitava il riferimento già chiarissimo: «E questa sarà, per qualcuno almeno, una eccellente

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Capitolo quinto

occasione, come la scorsa volta, per tentar di mettere i piedi, economici si capisce, in casa nostra e per risicare una clamorosa esporta-

zione della loro civiltà al vero olio di oliva e cocacola.» !* Anche sotto gli aiuti all’Inghilterra si nascondeva, secondo questi commentatori italiani, il tentativo di assicurarsi per il dopoguerra un potere di arbitraggio su scala mondiale. Aldo Airoldi scriveva: «Sotto il velo di un intervento indiretto, vi è l'atteggiamento di chi vuol conseguire e rinsaldare una posizione di arbitro effettivo nei destini mondiali: ed è qui il significato più profondo e più dinamico della opposizione degli Stati Uniti al nuovo “ordine” europeo ed asiatico.» ! Lo stesso autore sottolineava due mesi più tardi che ora il controllo sulle economie degli altri paesi (che restava sempre l’obiettivo principale della politica americana) doveva essere raggiunto attraverso l’instaurazione di sistemi politici simili a quello statunitense: gli aiuti alle democrazie, la libertà dei mari, erano mezzi più sottili di intervento negli affari mondiali.?° Un altro degli argomenti che venivano fatti valere a riprova della volontà imperialistica dell’ America era l'atteggiamento che teneva nella questione del panamericanismo. «Il movimento panamericano - scriveva Antigono Donati nel 1930 — si è dimostrato una maschera per l'imperialismo economico, finanziario e politico degli Stati Uniti.» ?! Quando, nel dicembre 1933, Leopoldo Piccardi descriveva l’inizio della Conferenza internazionale delle repubbliche americane a Montevideo, prevedeva quel che gli europei avrebbero letto sotto le dichiarazioni di uguaglianza e solidarietà delle repubbliche di tutta l’America: la predominanza della repubblica nordamericana, lo spettro dell’imperialismo da parte della medesima. Scriveva ironicamente: È questa la vendetta che ama prendersi l’Europa dei sermoni che l’«uncle un fare fra di pastore e di pedagogo, usa somministrarle, contrapponendo chio mondo travagliato e perverso lo spettacolo di un nuovo continente, si sono fatti vegetariani e gli angeli della pace, con i relativi ramoscelli fabbricano in serie.??

Sam» con ad un vecove i lupi d’ulivo, si

Non si trattava di ironie fuori luogo, se solo si tengano presenti le reazioni che incontri e risoluzioni del movimento panamericano suscitavano. Anton Giulio Bragaglia affermava: «Una nuova civiltà veramente americana potrebbe sorgere domani sulle basi morali della civiltà india, assai meglio che non possa su quelle corrotte della sedi-

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cente civiltà yarkee, la quale pretende, in questi giorni, di assorbire l'America Latina e guadagnarla alla causa della Panamerican Union.» Mentre Margherita Sarfatti nel suo viaggio americano constatava l’esistenza di una volontà di espandersi verso il Sud a tutti i costi,” il corsivista di «Critica fascista» scriveva che a smentire la

tesi del «gran popolo americano generoso e intelligente» stava il «pericoloso imperialismo panamericanistico che minaccia direttamente interessi morali e materiali italiani».?? Era anche l’opinione di Francesco Coppola, che mostrava di considerare il panamericanismo come il tentativo da parte di una civiltà estranea a quella cattolica e latina di egemonizzare dapprima l'America e poi —- chissa? — forse il mondo.?° Ernesto Manuelli, sulla stessa linea, osservava: «La politica

di solidarietà panamericana degli Stati Uniti è politica di egoismo e »? di egemonia. Quando l’egemonia europea appare minacciata dalla crescente forza di espansione dell’ America, quando l'imperialismo americano sembra farsi strada con i mezzi della guerra guerreggiata ma ancor più attraverso l'ideologia democratica e l’intervento economico, nasce l’idea di una Europa davvero federata in una unità di intenti; Prezzolini annotava nel suo diario già nel 1929: «Gli Stati Uniti d'Europa è un pensiero troppo ragionevole perché sia adottato dagli europei. Finirà che diventeremo una colonia degli Stati Uniti d’ America.» 28 Si affacciava l’idea di una Paneuropa,? e in qualcuno quella di un’Eu-

rasia per far fronte all’ America: era quanto proponeva Filippo de Magistris, che chiudeva il suo corso di geografia economica e politica con la sensazione di una decadenza europea e di un nascente imperialismo oltre Oceano.?° Ma l’elemento sul quale si concentravano di più le critiche e le accuse, e che faceva tenere alto il valore delle proprie tradizioni e della propria cultura, era, anche nel caso del possibile predominio economico dell'America sull'Europa, il fatto che tale predominio andasse unito a un’invasione culturale, il fatto cioè che all’imperialismo (che nessuno ovviamente desiderava) si accompagnasse l’esportazione dell’americanismo, pericolo di fronte al quale gli italiani mostravano di essere ancora più sensibili. Si ha un buon esempio di come le due argomentazioni andassero spesso unite, e di come altrettanto spesso il discorso passasse dal primo elemento al secondo, in un articolo di Valentino Piccoli del 1930 in cui l’autore plaudiva all’«Antieuropa» di

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Capitolo quinto

Asvero Gravelli, schierandosi contro l'Europa americanizzante, pro-

testante e democratica, erede e succube delle ideologie atlantiche, mi-

nacciata dalla «piovra democratica» che ha al suo servizio «il bolscevismo asiatico, dissolvente, e le masse degli uomini di colore». L’invasione americana contro la quale invitava a vigilare era costituita proprio dal favore crescente con il quale i prodotti culturali provenienti da quel paese venivano accolti nel nostro; Piccoli scriveva:

A poco a poco l'America rende tutte le nostre economie mancipie di se stessa, e noi andiamo incontro a questo ingenuamente, anzi con compiacenza: e ciò non per il

fatto di pagare i nostri debiti, poiché ciò non è altro che il nostro dovere, ma con il cinematografo, gli spettacoli teatrali, con la preferenza degli infiniti prodotti americani. Tutte le volte che noi andiamo al cinematografo e assistiamo a un film amerisia a cano sono quattrini e quattrini che dall’Italia esulano in America.

Rispetto a questo ragionamento che si teneva, in fondo, ancora

ai dati puramente economici (se non per il rilievo dato alla compiacenza con la quale il dominio americano sarebbe stato accolto), con-

catenando fra di loro una spesa italiana con la provenienza dei prodotti (fossero pure culturali) che venivano acquistati, è più interessante per noi prendere in esame tutti quei casi in cui la critica della non-civiltà americana che avanza distruggendo arte, gusto e cultura secolari si stacca dal piano delle bilance commerciali per librarsi nell’aria dell'opposizione a una forma di penetrazione culturale che significa automaticamente la fine del modo europeo di concepire e vivere la cultura. È un passaggio espresso bene da Ugo d’ Andrea quando notava che la minaccia all’egemonia europea che l’America rappresentava non riguardava solo la perdita della centralità economica, bensì

la sostituzione dei valori (di cui il Vecchio Mondo era stato il progenitore per secoli) con pseudovalori accattivanti quali il successo materiale. Che cosa regalava, infatti, 1’America al mondo? Doni non gra-

diti come il vangelo della specializzazione, e che, anzi, spingevano a una difesa della propria integrità spirituale.’ L’elenco dei regali non graditi di cui l'America riempie l'Europa eguaglia in lunghezza solo quello dei difetti che quel paese possiede: dal primitivismo all’incultura, dall’immaturità a una certa forma di frenesia, dal materialismo alle espressioni culturali meno dotate di valore che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto. Se l'americano poteva essere definito un inglese più fanciullo e primitivo, meno calmo

Barbaro dominio

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e più sincero,” per l'America si arrivava a parlare di un arresto nello sviluppo della scala paleontologica della vita: era un paese che risultava arretrato dal punto di vista sia geologico che biologico.?* Il carattere del primitivismo che dalla natura si estendeva alle persone doveva colpire molto i critici italiani; Emilio Cecchi scriveva: «Tutta l'America è una formazione provvisoria e carovanesca. Ma le comunità negre, un po’ a margine, od anche (...) nel cuore stesso delle città, rappresentano il più inquieto e formicolante vivaio di quella selvaggeria nella quale la vita americana ancora attuffa le radici profonde.» La natura era sfrenata e la vita degli americani ancora attestata allo stadio delle tribù primitive. «La strapotenza d’una natura colossale — proseguiva Cecchi —, che è appena scalfita dalla tumultuosa azione degli americani, ci spiega l'atteggiamento di questi: niente contemplativo, ma pratico, utilitario, brutale.» E sottolineava «una certa pri-

mitività e rozzezza psicologica e culturale della razza». «La coscienza americana è un fermento d’energie barbare, pàniche.» ? Bruno Spampanato riconduceva il primitivismo (come veniva fatto anche dagli osservatori europei) al fatto che l’America si era staccata dall'Inghilterra quando possedeva il benessere economico ma non ancora la civiltà, quando non era giunta alla capacità di sviluppare nella direzione opportuna (che era quella della potenza temperata dalla cultura) tutti gli elementi di grandezza che l'Europa aveva trasferito nel Mondo Nuovo: In effetti, in America era l'Europa che ritornava ad una fase di splendore e ad un rigoglio miracoloso di vita. Male fecero gli americani, cioè gli europei americanizzati, a dimenticare questo, ed a tagliare bruscamente il cordone ombelicale di una

comunità non soltanto consanguinea ma anche storica, politica, economica col Vecchio Continente. Si ponevano così non soltanto contro l'Europa, ma fuori della vita del mondo. Vana illusione quella d’ignorare il centro della civiltà universale da cui pure s'erano irradiate luci sul giovane Stato delle stelle.

In questo caso, il rigetto di tutto ciò che proveniva dall’ America dipendeva proprio da questa tonalità solo economica che tutta quella civiltà aveva assunto; come scriveva Spampanato: «Influenza politica o morale, nessuna.»

Il rilievo dato al carattere del primitivismo nella civiltà americana resterà fino ai giorni nostri un elemento centrale dell’antiamericanismo, anche quando verranno esaltati gli aspetti di modernità che essa possiede rispetto ad altre: per Vittorio Beonio Brocchieri, ad esempio,

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Capitolo quinto

Los Angeles, come tutta quanta l’America, era «stramoderna eppure selvaggia».?* L'America, del resto, sembrava rendersi conto fin troppo bene del fatto che nessuna espansione economica su scala mondiale sarebbe stata duratura se non fosse stata accompagnata dall’idea che la fiaccola della civiltà e della cultura era passata dal Vecchio al Nuovo Mondo, e dunque dalla fine della superiorità europea.’ Per gli europei, e per chi esprimeva queste opinioni in particolare, il legame fino ad allora mai rimesso in questione fra l'Europa e la civiltà costituiva evidentemente una garanzia di fronte alla minaccia che l'espansione americana nel mondo passasse dal piano economico a quello culturale, e rappresentava in fondo una specie di risarcimento per la perdita, ormai già consegnata agli atti, dell’egemonia materiale. La possibile egemonia culturale da parte dell’ America, che sarebbe passata da immaginaria a reale se solo fosse venuto a cadere il rispetto dovuto agli europei in quanto autori della civiltà universale, toccava invece un punto assai debole della sensibilità del Vecchio Mondo, l’unico per il quale sentisse che era possibile fare qualcosa. È noto che uno dei modi di esorcizzare la paura consiste nel disprezzo diretto verso la fonte della minaccia, nella minimizzazione della sua consistenza. Ma mentre gli europei operavano questa minimizzazione,

affermando che ciò che li minacciava non poteva neppure definirsi propriamente come cultura, visto che possedeva piuttosto i caratteri della barbarie, questo faceva diventare la paura ancora più grande, poiché aveva chiamato per nome e dato contorni fin troppo crudi all’incubo che accompagnava i sonni della cultura europea, e che, per il fatto di essere disprezzato, non rinunciava affatto a fare apparizioni sempre più frequenti. Sono dunque da collegare strettamente con il tema della perdita dell’egemonia europea tutte le denunce (assai numerose in quegli anni)

del diffondersi dell’americanismo sul suolo europeo: in questo contesto, americanismo significava la sostituzione dell’idea tradizionale della cultura con forme più facili e più superficiali di svago, con ideali di vita incomparabilmente più bassi, con un modo d’essere che era l’opposto di quello necessario a creare cultura o a parteciparne. Su questo argomento interveniva addirittura nel 1937 un editoriale di «Critica fascista», che esortava ad occuparsi seriamente della questione della civiltà americana, visto che essa proponeva con successo alle gio-

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vani generazioni italiane degli scopi e dei valori, dei comportamenti e degli stili di vita che erano aberranti: dall’infatuazione sportiva alla lingua infarcita di esotismi, dall’ideale del denaro al cinema considerato come la massima forma di arte. Di fronte a tutto questo, l’editoriale faceva un’affermazione certo non nuova, con una violenza di

linguaggio della quale troveremo altri esempi ma che non per questo colpisce di meno; la civiltà americana veniva definita «falsa, scon-

quassata, corrotta, stupida, stupida fino alla disperazione». Chi lamentava l’esistenza di una crisi della civiltà europea era facilmente portato a collegarla con la marcia dell’americanismo negli animi degli europei. Quando, ad esempio, Francesco Coppola parlava di una crisi economica e politica dell’Europa che era anche «crisi ideologica, morale, sociale, (...) spirituale prima e più che materiale»,'! tale da mettere in pericolo non solo la potenza ma la stessa sopravvivenza dell'Europa in quanto civiltà, prendeva come punto di riferimento al quale collegare l’esplosione di tale crisi l’assurgere a potenza mondiale dell’ America; scriveva che fino alla prima guerra mondiale l'Europa era stata la sola civiltà attiva, dal momento che «non esisteva, come ora, la formidabile crescente potenza, profondamente antieuropea, degli Stati Uniti di America». Ricostruiva la storia americana dalla sua scoperta in avanti, per evidenziare come non avesse conservato che pochi elementi di quell’Europa dalla quale era nata, e per affermare che si trattava di una civiltà spirituale antitetica a quella europea.‘ Il motivo andava ricercato nell’estrazione sociale e nel livello culturale dei padri fondatori e dei primi immigrati, che avevano portato con sé «i germi di un puritanesimo religioso e moralista, dommatico fanatico e chiuso, o di un materialismo esasperato e avido, a tutto disposto per la conquista del successo economico, individualisti a oltranza così l’uno come l’altro». Ciò che man-

cava loro, e che per conseguenza sarebbe mancato all'America, era «la conoscenza e il sentimento della storia millenaria e della complessità e ricchezza spirituale della civiltà europea (...), il senso classico e umanistico latino della multiforme armonia della vita e della storia, e anche il senso dell’ordine mentale, morale, politico, romano e cat-

tolico che è in realtà la base e l’essenza della civiltà europea». In compenso, le caratteristiche di apertura e vastità che avevano trovato in America avevano permesso loro di sviluppare «il giovanile e violento orgoglio, quasi fisico, di una superiore sanità anche morale, che do-

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veva alla fine trasformarsi nel convincimento di una missione messianica di redenzione universale». Da questo insieme di fattori derivava l’imperialismo ideologico degli Stati Uniti, oltre che le loro caratteristiche permanenti che ne facevano l’antitesi dell'Europa: riappariva a questo punto la critica della civiltà americana sulla quale ci siamo già soffermati e che la riconduceva all’unione di «demos e oro». Coppola definiva nel modo seguente i tratti dominanti della mentalità e della politica americane: Puritanesimo moralista e pedagogico, materialismo individualista, semplicismo ideologico elementare e chiuso, certezza orgogliosa della infallibilità del proprio giudizio, convincimento profondo della propria superiorità e del proprio diritto di popolo eletto, ignoranza e disprezzo dell'Europa. Così che la civiltà americana, che poteva all’inizio considerarsi una derivazione di quella europea, è ben presto divenuta una deformazione e alla fine una negazione della civiltà europea.

Dalla prima guerra mondiale in poi (guerra che l America non aveva compreso nelle motivazioni più profonde, approfittandone solo per imporre le sue condizioni), l’America aveva oppresso e depresso l'economia europea e da allora, con le parole di Coppola: Non ha cessato di corrompere e imbastardirne il gusto e il costume e perfino il linguaggio, imponendole le sue fogge e i suoi usi e sin la musica dei suoi negri e il vocabolario del suo s/arg; non ha cessato, soprattutto, dalla pretesa di dettare all'Europa le leggi della sua morale internazionale, e di ridurre la multanime, millenaria, aristocratica civiltà europea al livello della sua novissima schematica civiltà.

L’America si rivelava in quelle pagine come il fantasma materializzato della «cattiva coscienza» europea dal momento che, come in analisi della storia americana che parallelamente venivano fatte in quel periodo, tutti i tratti che definivano quella civiltà provenivano dall'Europa. La storia europea diventava allora la causa e insieme la sintesi estrema dello sviluppo americano, tanto che riflettere su di essa equivaleva a penetrare nei nodi più intricati della civiltà americana. Se, dunque, di fronte alla potenza meramente materiale degli Stati Uniti, l’Europa poteva essere definita propriamente come «una unità storica di civiltà», «un sistema di forze, politiche, morali, economiche,

militari, imperiali, in funzione di un sistema di idee, religiose, filosofiche, morali, scientifiche, artistiche, politiche, sociali, e via dicendo»,° i primi germi di disgregazione potevano essere ritrovati sul

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suolo stesso dell'Europa, in quella Riforma protestante che aveva rappresentato da un lato la rottura della sua unità confessionale e dall’altro l'esaltazione dell’individuo contro la tradizione. Insomma, di-

ventava evidente che quello che caratterizzava l’America preesisteva nella storia europea; non nelle sue pagine alte di madre di civiltà imperiture, ma piuttosto nelle fratture e nei cedimenti che avevano segnato il suo progressivo declino. Così, l'America si configurava come l’estrinsecazione dei mali profondi che dilaniavano e indebolivano il Vecchio Mondo, di modo che le cause della crisi europea (intesa come perdita di egemonia nei confronti del Nuovo Mondo) ricadevano sull'Europa stessa. Se seguiamo ancora Coppola nella sua ricostruzione, troviamo infatti che i germi della Riforma germogliarono poi nel Terzo Stato, nella Rivoluzione, nell’Illuminismo e nell’Enciclopedia, nella negazione di ogni autorità, e poi nel liberalismo, nella democrazia, nel so-

cialismo. E una catena di eventi che non ci giunge nuova: chi identificava l'essenza dell'Europa con il cattolicesimo, trovava nel fatto che il più temibile avversario della centralità europea (l’America) fosse nato proprio dalla Riforma protestante una conferma all’avversione con la quale guardava a ogni deviazione dal nucleo autentico della civiltà europea. Se il collegamento fra Riforma, Rivoluzione, liberalismo, democrazia e infine socialismo, caratterizzava in generale il pensiero reazionario europeo già nell'Ottocento, possiamo affermare che esso svolgeva un ruolo non secondario proprio nel fornire argomentazioni all’antiamericanismo. Un'altra idea presente in queste pagine così significative e dense di Coppola è la convinzione che sia avvenuta un’alleanza (più o meno consapevole) fra l'estremo Occidente americano (e l'Occidente dege-

nerato europeo) da un lato, e l'estremo Oriente antieuropeo per definizione dall’altro. Come Oswald Spengler aveva scritto nel Trazzonto dell'Occidente, come Paul Valéry aveva osservato al termine della prima guerra mondiale, l'Europa aveva preparato la sua stessa fine rendendo il patrimonio della sua cultura trasmissibile a tutti, trasformando cioè saggezza e tradizioni in una certa quantità di informazioni tecniche, con le quali popoli impreparati a essere grandi potenze erano giunti di colpo a fronteggiare l’Europa sul suo stesso piano. Coppola scriveva: «La ideologia democratica, nazionalitaria, egualitaria, antimperialista viene, insieme col culto del progresso meccanico, univer-

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Capitolo quinto

salmente adottata da tutto l'Oriente asiatico e africano e messa sistematicamente al servizio del grande risveglio nazionalista e antieuropeo.» Questo non valeva solo per i cosiddetti «popoli di colore», ma anche per l’altra Antieuropa che stava ad oriente (la Russia bolscevica), che derivava i suoi principi disgregatori, ancora una volta, dall'Europa; e tali principi erano gli stessi ricordati per l’America.‘ Sul problema dell’interdipendenza fra crisi europea e crescente presenza americana dovevano soffermarsi molti degli interventi del Convegno Volta tenutosi a Roma nel 1932, convegno del quale Francesco Orestano faceva la sintesi in «Politica». Riferendosi ai temi che erano stati trattati con più insistenza, scriveva: «La civiltà americana è in sé stessa una forma, anche storicamente valutabile, della civiltà eu-

ropea (...) In ogni caso l'Europa non deve dimenticare che l'America è una propaggine del suo sangue.» ‘” Quando Coppola tornerà sull’argomento, nel 1939, per ribadire che la minaccia portata all'Europa proveniva dai tre fronti dell’ America yankee, della Russia bolscevica e dei nazionalismi extraeuropei, osserverà che l’elemento più preoccupante gli appare il fatto che da tutti e tre questi versanti ricada sull'Europa solo «odio e disprezzo», e che dunque un passaggio dell’egemonia mondiale a queste altre potenze comporterebbe di per sé la fine della civiltà europea, poiché il loro scopo è «distruggere la civiltà europea, il fiore cioè della storia umana, e sulla universale ruina instaurare il regno della universale barbarie». Quando poi 1’America interviene nella seconda guerra mondiale, e i suoi fini imperialistici divengono, secondo Coppola, manifesti, l'evento dà luogo a uno degli attacchi più violenti che la civiltà americana abbia mai suscitato: in esso si uniscono la denuncia della minaccia imperialistica che 1’America rappresenta e lo sdegno suscitato dal fatto che tali pretese all’egemonia mondiale provengano da ciò che può essere definito solo in termini di barbarie. Coppola spiegava perché lo sdegno che lo muoveva era uno sdegno «estetico»: Lo spettacolo di questo popolo di fuorusciti e di rifiuti europei mescolato di negri, di pellirosse e di meticci, che pretenderebbe di dominare sui più nobili popoli della terra, di questo popolo coloniale, rozzamente puerile, fanatico e rapace, avvezzo a misurare i valori umani col metro del dollaro e dei filosofemi di Wilson, che pretenderebbe di dettar norme e leggi ai popoli che da millenni hanno dato al mondo ogni luce di intelligenza, di bellezza e di fede, è altrettanto e più assurdo di quello di un bambino viziato che pretendesse di insegnare ai maestri, altrettanto e più ripu-

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gnante di quello di un villano arricchito che pretendesse di occupare il nobile palazzo dei suoi signori e ridurre questi all’ufficio di servi. L’imperialismo mondiale americano non è, come ogni altro imperialismo, la pretesa di sostituire la propria dominazione alla altrui, è la pretesa barbarica di abbassare universalmente l’intelligenza e la dignità umane nel mondo.

Coppola si riferiva, nell’articolo citato del 1932, all’imperialismo che si esercitava nel linguaggio: con la denuncia della «americanizzazione degli spiriti» ha più di un punto di contatto quell’opera (intrapresa dal Regime a partire dal 1932) di depuramento della lingua italiana da esotismi di ogni provenienza, che comportò anche la restrizione all'importazione di film stranieri, il conio di neologismi, la messa in ridicolo delle varie manifestazioni di esterofilia, sulle quali doveva ricadere il più profondo disprezzo nazionale. Rientra idealmente ?! in questo spirito la campagna condotta da Paolo Monelli dalle colonne della «Gazzetta del Popolo», per eliminare — come recitava il sottotitolo una volta che gli articoli furono riuniti in volume — «cinquecento esotismi» della lingua italiana, nella convinzione, propria non solo dell’autore, che «i popoli forti impongono il loro linguaggio, i loro modi di dire, le loro sigle, non raccattano ogni foresteria con balorda premura». Un giudizio che ricorreva sovente in quelle pagine era che molti degli esotismi in questione si escludevano da sé dall’uso degli italiani, poiché indicavano realtà che in Italia non erano mai state presenti per la sua eccellenza latina, o che erano scomparse in virtù dell’opera di formazione fascista della coscienza nazionale.” Si trattava, in genere, di termini che si riferivano alla moda, alla mon-

danità, alle abitudini frivole di pretesi aristocratici e nuovi ricchi. Ma, proprio per questo motivo, la provenienza di tali esotismi era nella maggior parte dei casi francese. Quando, tuttavia, si arriva al termine «sex-appeal», Monelli scrive: «Il sex-appea! è invenzione americana . dove per fare appello alla frigidità sportiva e indaffarata di quei giovanotti le donne debbono assumere strane movenze, strane penne, strano linguaggio, strani gesti.» ?‘ Gli autori ai quali abbiamo fatto riferimento, e il tono dei giudizi che esprimevano sulla non-civiltà americana consentono forse di comprendere perché nell’Enciclopedia Treccani la voce «americanismo» rimandasse subito al termine «americanata» per indicare il genere di fenomeni di cui parlava. Enrico Rosa, l’autore della voce, scriveva: «Nel suo uso più corrente, americanismo designa appunto

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Capitolo quinto

l'ammirazione, ingenua o ragionata, ma per lo più eccessiva, per idee o cose americane (degli Stati Uniti); ammirazione che talora diventa addirittura una

moda,

in contrasto

con

tradizioni culturali eu-

ropee.»? William T. Spoerri aveva tutte le ragioni di affermare, già nel 1936, che i critici più ostili della civiltà americana (identificata tutta intera con il fordismo) erano coloro che ritenevano che i suoi

pseudovalori e la sua forma involgarita di cultura stessero avvelenando lo spirito europeo. Un autore americano, invece, affermava: «L’americanismo era forse un sogno, ma grande.» Nelle sue parole, l’americanismo si identificava con la forza motrice della civiltà americana,

centrata sull’uomo comune: il termine che noi conosciamo (e che era usato in Europa) come sinonimo del materialismo e del cattivo gusto, diventava il superamento di ciò che è puramente quantitativo, l’espressione delle alte idealità che avevano guidato la storia americana. Forse però il significato, al di là del valore positivo o negativo che al termine veniva assegnato, era implicitamente proprio lo stesso, se è vero che anche Adams faceva riferimento a Dio e a Mammona,

allo sviluppo industriale che aveva travolto tutto il resto, e così via. La differenza più grande riguardava invece l’uomo comune: colui che era il depositario del patrimonio di saggezza e buon senso che caratterizzava una civiltà come quella americana, e che era invocato come il salvatore dagli eccessi della politica e delle fedi opposte, incarnava per i critici europei la più grande delle caratteristiche negative di quel paese che non aveva eroi, pensatori, esempi illustri, ma uomini co-

muni, mediocri e tutti uguali. L’americanismo era per tutti quei critici corruzione spirituale,

superficialità, infantilismo, incultura di massa, danze negroidi, incomprensione del ruolo che in una società debbono svolgere gli intellettuali, materialismo, religione intesa come

fanatismo;

alla sua

invasione l'Europa doveva opporsi con tutte le forze. Guido De Luca scriveva che l’America aveva fatto balenare la visione di un nuovo mondo ideale, grazie agli elementi di civiltà che le aveva fornito l’Europa, e che aveva deluso subito queste aspettative «col trionfo delle sue brutali forze materialistiche, col triste corteo dei suoi idoli mec-

canici, con l’incolta arroganza del suo mercantilismo».? Nel 1940 «Critica fascista» plaudiva alla critica impietosa dell’ America: «Una valutazione continuamente aggiornata del suo vero volto e della sua corruzione spirituale, è pratica da tenersi nel massimo conto.»

Barbaro dominio

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«Piccola guardia» affermava: «Si tratta di un paese sfasciato, sconnesso, incapace per costituzione d’imbarcarsi seriamente in un’avven-

tura che richiederebbe non solo altri dirigenti ma anche un altro popolo meno, molto meno, spiritualmente corrotto.»

Mentre Berto Ricci scagliava i suoi strali contro «la loro fanciullezza invecchiata e la loro incultura tradizionale», altri inveivano contro l'imitazione dei costumi stranieri, contro la mania della let-

teratura anglosassone. In uno dei prossimi capitoli prenderemo in esame la polemica contro il cinema americano come esempio significativo della difesa dei valori europei e latini contro l’avanzata dell’americanismo, contro qualcosa che si presentava da un lato come una forma d’arte involgarita all’estremo, e dall’altro come il veicolo di forme di comportamento, di abitudini e di modi di pensare che rappresentavano di per sé la fine dello spirito europeo.

Capitolo 6 Il pericolo giallo

Quando ci si occupa dell’antiamericanismo negli anni trenta, bisogna tener presente che nel corso del decennio, intorno a questo problema, vengono definiti e ridefiniti a più riprese i concetti e l’estensione di termini quali «occidentale» e «orientale», «Europa» e «Antieuropa»: sono mezzi, talvolta neppure troppo mediati, per dare un significato preciso e dunque dei confini chiari all'Europa, per indicare qual è la sua essenza. L’ America si identifica con l'Europa o ne è la negazione? E la Russia: è occidentale o asiatica? Quando si dice Occidente si enuncia un valore positivo oppure no? E quando si dice Antieuropa si pensa a una possibile integrazione delle differenze o solo a una negazione e dunque a una minaccia potenziale? E attraverso domande di questo tipo che avviene in quegli anni la formazione di un'immagine (o di immagini molteplici) dell’ America, così pure come della Russia e del Giappone, per restare a paesi dotati di una grande capacità simbolica; ed è nelle diverse risposte a tali domande che l’atteggiamento assunto verso la civiltà americana si differenzia da quello che la rivoluzione bolscevica o l’espansionismo nipponico suscitano. In queste pagine cerchiamo di esaminare alcune delle risposte più significative: il fatto che il nostro sguardo sia concentrato sull’ America non implica che trascuriamo i riferimenti alla Russia o al Giappone. Al contrario, dal momento che il giudizio su una di queste realtà includeva spesso anche una presa di posizione nei confronti delle altre. Non si trattava infatti solo di pedine di grande rilievo nel gioco della politica internazionale, né solo di potenze che davano la scalata al controllo dei mercati mondiali: il riferimento a questi paesi comportava quasi automaticamente l’espressione di un

Pericolo giallo

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giudizio sulle loro rispettive civiltà, sulla validità che possedevano in quanto modelli possibili di una storia futura. La concatenazione presente fra di loro è constatabile in modo banale: quando, ad esempio, nelle riviste ufficiali del Regime, la Russia torna ad apparire (dopo l’evidenziazione delle affinità fra Roma e Mosca) estranea all'Europa e al fascismo, questo coincide proprio con la fase di maggior benevolenza nei giudizi sull’ America, e con gli inizi dell’apprezzamento della civiltà giapponese. Al contrario, le fasi più crude dell’antiamericanismo corrispondono alla tesi della somiglianza fra la rivoluzione russa e quella italiana, da un lato, e dall’altro, ap-

punto, all'adozione del modello nipponico come esempio positivo. Più precisamente, in queste pagine cercheremo di mostrare dapprima la presenza di un’immagine del Giappone come minaccia (parallela a quella americana anche per i contenuti) portata contro l’egemonia europea, e in seguito la trasformazione di questa immagine in quella opposta della civiltà giapponese definita come alternativa all’americanizzazione dell'Europa, e stavolta proprio attraverso il riferimento a un nucleo essenziale di tale civiltà che risultava antitetico all'esempio americano. Il nesso esistente fra la perdita dell’egemonia europea e l’ascesa del Giappone allo status di grande potenza era espresso con grande efficacia da Beniamino De Ritis quando osservava nel 1935 che l’Europa non era più l'officina del mondo. Il pericolo di perdere l'egemonia mondiale non proveniva solo dall’estremo Occidente, dalla esasperazione americana della civiltà europea, ma si delineava la prospettiva di un estremo Oriente in rapido aumento demografico e al passo con la tecnologia europea, che avrebbe per sempre emarginato il Vecchio Mondo. In questo caso, l'Oriente appariva come del tutto estraneo all'Europa, e gli appelli che occasionalmente venivano lanciati all’ America si giustificavano proprio con il fatto che, | tutto sommato, i legami con quella razza e con quella civiltà erano maggiori di quelli che potevano legare il Giappone e l’Italia, il Giappone e l'Europa. Emilio Bodrero scriveva nel 1934: «Ma se v'è un momento in cui l’Europa e l’America dovrebbero ritrovare la loro solidarietà di razza, di civiltà, di nobiltà, è proprio questo in cui ricompare in varie forme, tali da impensierire, quel pericolo giallo che da qualche decennio è stato denunciato come la minaccia più grave all’Occidente.»? Il tema del pericolo giallo era nato in rela-

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Capitolo sesto

zione con le riflessioni sulla crisi e sulla decadenza dell'Occidente,

numerose soprattutto a partire dalla prima guerra mondiale: un elemento che ne faceva parte integrante era la convinzione che l’Europa stessa avesse preparato la sua fine con la trasmissione delle sue conoscenze tecniche a popoli che o erano troppo incivili per riceverle, o che, comunque, le avrebbero utilizzate in senso antioccidentale. Ecco riapparire nelle parole di Bodrero questa idea della barbarie unita alla tecnologia: «Un’Europa - continuava - che un’altra guerra indebolisse, resterebbe soccombente in un conflitto con un Oriente semi-

barbaro che avesse però ereditato l’uso degli strumenti della nostra civiltà.» ‘ Rino Longhitano affermava che il fascismo era arrivato al momento giusto per salvare l'Europa da pesanti minacce: «pericolo giallo, pericolo rosso, pericolo dello standard americano».? In fondo (e in questa fase) i tre pericoli si assomigliavano, poiché tutti e tre partecipavano della comune caratteristica di ergersi contro l'Europa come grandi potenze (come l’Europa era o era stata), ma senza il patrimonio culturale che essa possedeva; o meglio, con tutto il bagaglio culturale, la forma mentis, le abitudini consolidate in tradizioni, che comportavano delle civiltà profondamente diverse da quella occidentale. Il che era lo stesso, per chi vedeva quelle minacce farsi sempre più pres-

santi, che affermare la radicale incivilità di quei popoli: se per l'America questo non veniva che a confermare uno stereotipo ben presente nell’ambito europeo, della barbarie bolscevica si accusavano ora la rivoluzione comunista ora le origini mongole del popolo russo, mentre era possibile sostenere che la civiltà (che non poteva non essere considerata gloriosa) del Giappone era stata travolta da un modello di sviluppo all'americana. É in questo modo che nasce l’immagine di un Giappone che rappresenta la quintessenza dell'Occidente senza partecipare della sua civiltà: una sorta di apprendista stregone ormai in movimento inarrestabile. M.C. Catalano scriveva: I giapponesi hanno bene imparato e i maestri che li hanno iniziati ai segreti della vita meccanica, ma civile, dell'Occidente, possono vantare il buon volere e la capacità dei loro allievi: ormai i più gelosi segreti della nostra produzione sono noti, la nostra organizzazione è imitata e perfezionata, i nostri sistemi sono migliorati, le nostre macchine vengono acquistate, copiate ed adoperate come armi di concorrenza, della quale noi stessi, anche se involontari, siamo i finanziatori.‘

Pericolo giallo

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Il Giappone, poi, era un’ottima prova dell’asserzione mussoliniana secondo la quale il numero è potenza: il suo accrescimento demografico si doveva infatti a una razza forte dotata di alta natalità e alta mortalità, e non agli indici caratteristici di una razza indebolita quali sono una bassa natalità e una bassa mortalità. L'unione di questa situazione già favorevole con la tecnologia «rubata» agli occidentali permetteva l’invasione dei mercati mondiali con prodotti a basso costo, e costituiva un pericolo che minacciava non solo la traballante egemonia europea, ma addirittura quella americana.’ Esamineremo nel capitolo seguente la convinzione che l’America fosse entrata in una fase declinante della sua storia, simile a tutte le

fasi di declino che accompagnano il percorso delle civiltà: il contraltare positivo dell’ America al tramonto era rappresentato da quegli esempi di vigore e salute che erano indicati talvolta nei paesi emergenti sulla scena mondiale, e più spesso nell’Italia fascista. Ma chi osservava il crescere del pericolo giapponese contrapponeva alla civiltà estremo-occidentale in crisi l'esempio di forza che veniva dall'Oriente; Mario Sertoli, ad esempio, scriveva: L’America, afferrata dalla crisi, dopo anni di benessere e di opulenza, attraversa a sua volta un periodo di disorientamento non solo economico, che ne assimila molto e ne concaîena le condizioni e le sorti a quelle del vecchio continente. Unico, fra i potentati del mondo, ad esser sereno, il Giappone, isolato e protetto nel vasto labirinto del suo arcipelago di quattromila isole, affila sciabole sotto i ciliegi.8

Il Giappone veniva presentato come una immensa fabbrica-caserma, con bassi salari e uno sfruttamento paleoindustriale degli operai, dove si forgiava la «grande armata industriale nipponica che sta combattendo per la conquista di tutti i mercati del mondo».? Se l'Asia appariva ormai come un mercato chiuso per l'Occidente, era fonte di preoccupazione osservare l’invasione dei prodotti giapponesi sul mer| cato europeo e su quello americano: il pericolo giallo era diventato reale, grazie anche al favore con cui la popolazione aveva accolto le direttive in materia di politica demografica.!® Mentre l’accento messo sull’americanizzazione dell'Europa dava voce, come abbiamo visto,

all’appello per la formazione di una Eurasia unita e forte, quando il pericolo giallo entra a far parte decisiva delle paure che l'Europa nutre per il suo futuro, lo stesso grido d’allarme viene rivolto al Vecchio Mondo e al Mondo Nuovo, entrambi minacciati dall’insorgere della

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Capitolo sesto

nuova potenza. Si potevano leggere, allora, richiami di questo genere rivolti a tutta la razza bianca: È l’ora, ora tarda, ma non estrema per il ravvedimento dei bianchi. L’ora che ces-

sino le dispute, le stupide competizioni d’insensati egoismi. L’ora di raccoglierci. L’ora per tutti gli occidentali, per tutte le potenze d'Europa e d'America, di raccogliere ogni forza in un fascio; ponderare serenamente, senza stolti clamori, e mettere finalmente in atto, un ammonimento che il Duce ha espresso, con spirito universale, non per i soli italiani: moltiplicarsi, trasmettere all’avvenire la potenza della razza con la potenza del numero.!!

Ma per il momento, in attesa che la parola del Duce spingesse all’unione dei due popoli e al rafforzamento della razza bianca, non restava che prendere atto della invasione sistematica dei mercati un tempo europei, e poi americani, da parte dei prodotti dell’industria giapponese.! Non restava che constatare il fatto che il Giappone era passato da Stato feudale a grande potenza industriale nel giro di pochi anni, approfittando anche dei difetti degli occidentali. Luigi Raiss scriveva: Se è da ritenere impossibile che il Giappone abbia assimilato o possa assimilare completamente la civiltà occidentale, è pur certo ch’esso è riuscito a impadronirsi con una rapidità ammirevole della scienza e della tecnica occidentale, senza diminuire il valore delle sue antiche tradizioni. Dal momento, infatti, della forzata apertura dei porti, il Giappone comprende di non avere che un mezzo per liberarsi del penoso asservimento agli stranieri: mettersi alla loro scuola, imitarli, eguagliarli, sorpassarli. In questo è favorito dall’avidità delle stesse nazioni bianche che mettono a disposizione del nuovo Stato i loro esperti, i loro brevetti e macchine, facendosi concorrenza accanita per imporsi sul nuovo mercato.!3

In questo modo nasceva l’immagine del Giappone come tentativo riuscito di realizzare una industrializzazione efficiente e aggressiva; essa prendeva il posto che, fino a quel momento, era stato occupato dall’America. A giustificare tale sostituzione non c’era solo la somiglianza nei processi che i due paesi riuscivano a mettere in atto (anche perché l’industrializzazione giapponese sembrava ancora arrestata allo stadio dei bassi salari e della concezione strumentale del lavoratore), ma la vera e propria adozione da parte dei nipponici del modello di sviluppo americano. L’americanizzazione scavalcava l'Europa (dove trovava numerose resistenze) e sbarcava in Giappone, insieme all’azzerican way of life. Quello che ci sembra debba esser messo in rilievo

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è che, anche quando (come in questo caso) la minaccia alla civiltà europea era collegata all’assurgere del Giappone al ruolo di grande potenza, il capro espiatorio, la causa dei mali europei, fosse ancora una volta individuata nell’ America con le sue industrie e la sua filosofia,

con il modello della produzione in serie e della conquista economica del primato mondiale. Quando, infatti, sembrava che l’ideale giapponese fosse quello di «condurre una vita all'americana», che il Giappone risultasse privo di principi sociali, e mosso all’espansione solo da smanie territoriali, si concludeva che la diffusione (e l'imitazione)

della civiltà americana aveva prodotto solo danni per l'Europa: non aveva infatti avuto l’effetto di valorizzare altri lontani paesi dal ricco passato come alternative di civiltà, ma anzi aveva appiattito le loro peculiarità nella desolante omologazione dell’industrialismo. Corrado Sofia scriveva nel 1935: «Fra i principii che attualmente tendono a imporre al mondo una nuova forma di civiltà, quello che fra tutti convince meno è appunto il principio giapponese.» ! Anche Beniamino De Ritis osservava gli stessi fenomeni ed esprimeva un giudizio analogo sulle cause che li avevano prodotti: si stava verificando una «democratizzazione orientale degli “standards” ». De Ritis affermava: «L’Oriente si occidentalizza in termini di produzione di massa e di mercato sociale. E l’americanismo naturalizzato sul terreno asiatico dalla industrializzazione del Giappone.» !9 Il «nuovo Oceano storico» (come lo stesso autore scriveva un anno prima), dopo essere passato dal Mediterraneo all’ Atlantico, si apprestava ora a trasferirsi nel Pacifico. Colpa, anche in questo caso, e anche se indirettamente, dell’ America che, con la sua formazione, aveva incrinato

la saldezza europea. Poteva infine concludere: «La pressione obliqua e centrifuga esercitata finora dall’ Atlantico sull’ Europa appare un elemento di debolezza nella nuova posizione della civiltà bianca rispetto all’Asia e alle razze di colore.» ! Il modello della civiltà americana esportato in tutto il mondo era dunque ritenuto responsabile della perdita dell’egemonia europea che si profilava con chiarezza all'orizzonte, assumendo le vesti ora dell’americanizzazione modernizzante ora del pericolo giallo tecnicamente attrezzato. Mirko Ardemagni scriveva: Noi siamo arrivati ad una fase decisiva dell’evoluzione del mondo. Il progresso contemporaneo, l'immediatezza delle comunicazioni, le applicazioni scientifiche, il macchinismo, la «production-mass» del Nordamerica, il lievito sobillatore della propaganda

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Capitolo sesto

comunista hanno messo in risveglio tutte quelle razze e quei popoli che da qualche secolo erano i supini contribuenti della prosperità europea. I popoli di colore tendono all’emancipazione con una rapidità che non ha mai avuto precedenti simili.!8

AI processo per il quale l'Europa perdeva il monopolio industriale correva parallela la ricerca dell’indipendenza politica dei popoli di colore e la nascita del loro nazionalismo economico. D'altra parte, la sola salvezza ancora possibile per l'Europa stava proprio nella differenza fra le rispettive mentalità che altrimenti era denunciata come barbarie: mentre i popoli di colore erano infatti fermi all’idoleggiamento dei beni materiali (come durante la prima fase dell’industrializzazione europea), chi vedeva lontano —- e dunque Mussolini per primo —- aveva compreso che era necessario superare questo stadio e

dare all'umanità mete spirituali ed eroiche, poiché «mai, come in questo secolo integralmente materialista, l’umanità aveva avuto un obiettivo così unilaterale e una ragione così esclusiva di vita». A partire dal 1937, però, l’immagine del Giappone cambia radicalmente, come avevamo preannunciato: al quadro di un paese in rapida espansione demografica e industriale, che mira di fatto a una egemonia economico-politica prima in Asia e poi nel mondo, si sostituisce l'apprezzamento per quanto i nipponici stanno realizzando: questo costituisce il principio di nuovi equilibri in Estremo Oriente che all’Italia non dispiacciono, e inoltre questo scalfisce una preponderanza americana che — viceversa — è sentita sempre più come in-

sopportabile. Il modello giapponese si oppone a quello americano come esempio di una civiltà secolare contro la barbarie di una potenza economica priva di passato: è il momento in cui all’industrialismo rovinoso degli Stati Uniti, che livella cose e personalità, che completa l’azione disgregatrice già intrapresa dalla democrazia e dal dato della giovinezza storica, viene contrapposta l’industrializzazione giapponese, altrettanto efficace, ma in qualche modo temperata, ingentilita, giustificata di fronte al tribunale della storia, da tradizioni mil-

lenarie, da una gerarchia sociale fortissima, da una impronta religiosa che anima tutto il corpo sociale, da valori diffusi quali quelli di «servizio» e di «sacrificio». Da questo punto di vista, il Giappone non si presentava più (o non solo) come un pericolo, ma come l’alternativa tecnologicamente attrezzata all’americanizzazione. Romeo Bellotti, ad esempio, scriveva: «Il Giappone (...) è l’eroe, il nuovo Lohengrin che incarna i sogni della espansione asiatica e che dal giorno

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della sua prima vittoria sulla Cina entrò nella vita dell'Estremo Oriente e del mondo con una missione imperiale ben definita e di diritto divino.» L’anno seguente, parlava della elevatissima concezione nazionale, della meravigliosa coscienza collettiva che il Giappone mostrava di possedere.?! I successi giapponesi in Estremo Oriente si collocavano a tal punto

lontano dai trionfi di nazioni come l'America o l'Inghilterra, da configurarsi come un’alternativa di civiltà rispetto a esse. Cesare Galimberti scriveva: «Tramonta l’epoca dei grandi Imperi tentacolari, l’epoca “mercantile”, in un mondo che tende a rifondersi, con maggior rispetto per la geografia e la storia. L'Asia si avvia verso il ripudio delle demagogie russe ed americane, che le sono parimenti completamente estranee.» ?° Emergeva l’immagine del Giappone come contraltare positivo a quella dell'America: andavano in questa direzione le numerose riflessioni che si soffermavano sulla compresenza in quel paese di modernizzazione ed arcaismo, sulla coesistenza di una industria razionalizzata e di costumi tradizionali, della religione del taylorismo e delle danze sacre, su una situazione caratterizzata da una potenza crescente e al tempo stesso da una rigida gerarchia sociale, dai fenomeni tipici della rapida industrializzazione senza i guasti che essa normalmente comportava per l’assetto sociale e i costumi diffusi, che restavano invece quelli caratteristici di un paese preindustriale. Mario Appelius scriveva: L’amante di esotismo vi trova un paese pieno di colore asiatico, assolutamente diverso dagli altri luoghi della terra, abitato da un popolo che veste e vive in modo diverso dalle altre genti del pianeta il quale sta standardizzandosi terribilmente (...) Ma il Giappone è anche il paese degli alti forni, dell'industria razionalizzata, dell’apoteosi meccanica, dell’ultramodernismo, del Novecento trionfante, degli ultimi progressi tecnici (...) Questa struttura modernissima poggia (...) sopra una piattaforma sociale di essenza asiatica e di carattere tradizionale.

E ancora: «Nazione quasi medioevale dal punto di vista politico-sociale, ha viceversa tutta la struttura di una nazione modernissima.» ? Questo faceva tutta la differenza con l’altra immagine della modernizzazione, rappresentata dall’ America. Appelius scriveva che il Giappone si era occidentalizzato esteriormente ma non nella sua vita intima. «Se fosse successo altrimenti — osservava — il Giappone sa-

rebbe oggi una specie di grande Stato sudamericano abitato da un

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Capitolo sesto

popolo di razza gialla.» ?* Invece, il popolo giapponese possedeva (e non era disposto a perderle) caratteristiche tali da renderlo bene accetto a uno sguardo non molto simpatetico con la modernizzazione e con i suoi effetti: era un popolo guerriero, patriottico, disciplinato, omogeneo, sano e prolifico, proletario, professava il culto per il suo imperatore, aveva un’organizzazione sociale basata sulla famiglia e sui costumi frugali della gente.” Abbiamo visto dunque come sul tema del Giappone si alternassero e si susseguissero due posizioni diverse ed entrambe rilevanti per il tema che ci interessa: da un lato quella (che abbiamo presa in esame

per prima) secondo la quale il Giappone realizzava il pericolo giallo del quale si era parlato fino a quel momento solo in astratto, dall’altra quella che vedeva nell'Impero del Sol Levante un modello di civiltà alternativo a quello americano. Se nel primo caso il Giappone sembrava l'ennesima vittima del processo di modernizzazione che diffondeva nel mondo l’industria e l’americanismo, e venivano messi in

rilievo elementi quali l'incremento demografico, la rapida crescita economica, i progetti di espansione continentale, a configurare una minaccia crescente, nel secondo risaltavano caratteristiche quali il possesso di tradizioni antichissime, l'ordinamento gerarchico della società, il paternalismo ancora imperante nell’industria, il peso carismatico dell’imperatore, il ruolo di coesione svolto dall’esercito: in questa prospettiva, ad essere sottolineata era la coesistenza di una industrializzazione del tutto competitiva non solo con quella europea ma anche con quella americana, e di un patrimonio di valori e consuetudini sociali che faceva del Giappone la negazione dei regimi liberali e democratici, delle «plutocrazie» che professavano come sola fede quella nel denaro. Talvolta, poi, le due posizioni si mischiavano: era possibile allora pensare che il Giappone si avviava a conquistare l'egemonia economica dapprima in Asia e in seguito nel mondo proprio perché aveva una egemonia culturale da proporre, perché nel suo corpo sociale circolavano valori in grado di imporre la supremazia di quel paese sugli altri.2* Non era un'ipotesi delle più ottimistiche, poiché, se faceva toccare con mano la nullità culturale americana, suscitava qualche serio dubbio sulla validità della cultura europea, o comunque sulla forza propositiva che quella ancora possedeva. Erano problemi che riguardavano una delicata questione connessa alla storia delle civiltà, alla

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loro nascita e morte, alla forza con la quale riuscivano ad imporsi e ad essere un modello per le altre: era l'egemonia economica che si portava dietro quella culturale, oppure, come sembrava più probabile, era la riconosciuta capacità di un popolo di esprimere scienza e valori che imponeva da sé, senza spargimenti di sangue e senza sottomissioni obbligate, la supremazia di una civiltà sulle altre? Ma, nell’un caso come nell’altro, che cosa aveva da opporre l'Europa all'invasione dei prodotti a basso costo (che venissero dall’Est o dall’Ovest) e a civiltà che univano la forza della produzione alla capacità di offrirsi come una valida alternativa rispetto alla civiltà meccanica?

Se le civiltà erano vitali perché potenti, l'Europa certo non lo era (a vantaggio sia dell’ America sia del Giappone); se, viceversa, le civiltà erano potenti perché vitali, il Giappone manifestava nei fatti la sua superiorità rispetto all'Europa, e la rapidità della sua espansione poteva far sorgere il dubbio che anche l’opposizione all’ America dal punto di vista dell’esempio, della cultura, fosse già cosa fatta, ma fatta da altri.

Capitolo 7 L’ombra di Babilonia

Sotto quale voce doveva essere collocata la perdita dell’egemonia da parte dell'Europa? Se non si voleva restare alla mera constatazione del fatto, e quindi a un fatalismo pieno di risentimento, a quali strumenti concettuali era necessario far ricorso per comprenderla? I fenomeni che gli osservatori europei mettevano in rilievo a proposito dell’ America (e, come abbiamo visto, anche del Giappone), e che parlavano di primati scomparsi, di passaggi di mano nel dominio del mondo, di egemonia culturale che nei vincitori non c’era, della fine di una coerenza nelle vicende mondiali, di una potenza staccata dalla civiltà e di una civiltà trionfante ma incivile, erano la dimostrazione

dell’esistenza del male (e quindi andavano subiti come una sorte), o c'erano invece dei quadri concettuali all’interno dei quali essi potevano trovare una spiegazione plausibile? L’insistenza sulla perdita del primato europeo, il rilievo che nelle riflessioni degli europei assumeva la comparsa dell’egemonia mondiale americana, la duplice considerazione che suscitava la fisionomia del Giappone rispetto a queste due realtà e il ruolo che svolgeva nella politica internazionale, insieme al giudizio sull’ America in termini non solo di potenza dalle basi fragili, ma addirittura di civiltà alla fine della sua espansione vitale (come vedremo nel corso di questo capitolo), sono tutti elementi che parlano di una sensibilità molto spic-

cata per il tema della vita e della morte delle civiltà, che denotano cioè un interesse assai diffuso per le civiltà intese come organismi naturali caratterizzati da fasi di ascesa e fasi di declino. Intanto, per rispondere alla domanda che ci siamo posti, la perdita dell’egemonia europea poteva trovare posto in una filosofia pro-

Ombra di Babilonia

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gressista della storia? Ma, in questo caso, come spiegare il fatto che la vitalità del Vecchio Mondo apparisse esaurita, che la sua forza di espansione fosse azzerata, che le sue glorie consistessero solo nel rimpianto di una grande cultura e una grande storia che stavano entrambe ormai alle spalle? Come spiegare con l’ottimismo delle evoluzioni continue verso il meglio non le battute di arresto, ma quelle che si configuravano piuttosto come decadenze, fini, morti, di civiltà tutte

intere? A dar ragione di questi eventi valeva meglio il ricorso a filosofie della storia che spezzavano il fluire del tempo in epoche di splendore ed epoche di decadenza, e che facevano di ogni singola civiltà un episodio che aveva un suo inizio e una sua fine. Di fatto, nel prendere in esame le reazioni che l'America suscitava in quegli anni, si ha la sensazione che l’interpretazione di tutte le caratteristiche che facevano la specificità americana rispetto all'Europa stesse in una relazione molto stretta con una concezione della storia fatta di ascese e di crolli, di nascite e di morti, di giovinezza e di vecchiaia: si ha

l'impressione, cioè, che l’età più giovanile rispetto al Vecchio Mondo che l’America sembrava possedere funzionasse anche come una metafora, e che in questa metafora dei popoli giovani e dei popoli vecchi trovassero posto tutti i tratti della civiltà americana e, prima di tutti, il fatto che l'America fosse intesa come civiltà. Notiamo però fin da ora che a questo proposito, in relazione cioè all’immagine di un'Europa stanca e invecchiata che cedeva lo scettro a un'America giovane e impetuosa, si alternavano due prospettive di-

verse e quasi opposte (spiegheremo tra breve le ragioni di quel «quasi»). Da un lato, infatti, stava il parallelismo fra l'ascesa americana e il de-

clino europeo: nell’alternanza storica delle civiltà alla guida dello sviluppo mondiale, l’America aveva preso il posto che un tempo era stato dell'Europa. La sostituzione di un paese con l’altro avveniva sia sul piano dell’imperialismo economico sia su quello (al quale, come si è visto, gli europei erano assai più suscettibili) della diffusione dell’americanismo. Già in questa prospettiva si insinuava l’ombra di quel «quasi»: la civiltà che prendeva il posto di quella europea poteva davvero definirsi come civiltà, o non erano ravvisabili al suo interno dei segni che parlavano di potenza dalle basi fragili, di parerz et circenses invece che di vera cultura, di infantilismi elettorali, di culto del vello

d’oro, tutti indizi del dissolvimento dei grandi imperi? Proprio la definizione della civiltà americana come barbarie (esplicita o sottesa ai

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Capitolo settimo

giudizi dati su quel paese) rendeva il parallelismo di cui si parlava meno definitivo di quanto poteva sembrare a prima vista. Era tanto poco definitivo che gli si poteva affiancare un parallelismo simmetrico e opposto, secondo il quale di fronte a un’Italia che si rinnovava e ritrovava la sua forza nazionale (o di fronte a un Giappone che diveniva grande potenza senza gettar via la grandezza delle sue tradizioni, o infine di fronte a una Russia che conquistava una forza esterna ed

interna sempre maggiore),! stava un impero al tramonto, una civiltà

in dissoluzione, che si identificava con l’America: la scelta moderniz-

zante che quel paese aveva fatto e perseguito sino alle estreme conseguenze aveva qualcosa di estremo proprio nell'aver rivelato il suo fallimento complessivo. In entrambe queste prospettive era in opera una visione della storia certo di tipo non progressista. Questo non deve stupire, se solo si rifletta, come faceva Johan Huizinga nel 1935, alla rapidità con cui la parola progresso era scomparsa dalla bocca degli storici, dei filosofi, della gente della strada, a partire dalla prima guerra mondiale.? Alla disposizione degli eventi secondo una sequenza continua che andava verso il meglio si erano sostituite spiegazioni del corso storico che, semplificando, si possono indicare in tre diverse filosofie della storia. La prima è quella che trova espressione nel Trazzonto dell’Occidente di Oswald Spengler (e anche, in forma più complicata, nell’opera di Arnold Toynbee):? è la concezione della storia formata da un avvicendarsi di civiltà che, tutte, sono considerate come organismi

e dunque caratterizzate da una nascita, una fase di espansione e una morte. La trama dello sviluppo storico è data una volta per tutte (tanto che alla morte di una civiltà segue immancabilmente una rinascita), e sono già date anche le caratteristiche che distinguono le fasi di pienezza e le fasi di decadenza. Secondo Spengler, com'è noto, l’Occidente contemporaneo si trovava proprio in una fase di declino, e i presunti trionfi dei tempi moderni non erano che l’ennesima testimonianza di una ripetizione, l’età della vecchiaia che tornava ancora una volta.‘ La seconda è quella che legge nella storia, in tutta la storia dell’uomo, una decadenza progressiva a partire da un’età dell’oro iniziale, una discesa fatale da tempi mitici, solari, sovraumani e gloriosi: la tesi della storia come regresso era avanzata da autori come

René Guénon o Julius Evola. Anche in questo caso, l’età presente era un’epoca oscura, la più oscura di tutte, e ad essa non poteva suc-

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cedere che la fine, dal momento che non conservava nessuna traccia

(presente invece in altri periodi) del passato splendore. La terza spiegazione della storia alternativa a quella progressista era quella di ascendenza cristiana che può essere definita catastrofista o apocalittica in senso stretto: un autore come Nicolaj Berdjaev® separava nettamente la storia terrena, umana, «bassa», dalla storia celeste, metafi-

sica, «alta». Mentre la prima conosceva nascite e morti di civiltà, e sarebbe terminata nell’ Apocalisse finale, la seconda avrebbe avuto inizio proprio là dove la prima si concludeva, e avrebbe aperto agli uomini la strada della loro salvazione. Inutile dire che, anche in questo caso, l'epoca moderna che aveva seguito l’epoca medievale si faceva leggere come una caduta e non certo come un apice. In tutte e tre le filosofie della storia che abbiamo ricordato, e nelle

concezioni del procedere storico che, assai diffuse, si limitavano spesso a partecipare di una communis opinio non approfondita più di tanto, gran parte delle caratteristiche che solitamente venivano attribuite alla civiltà americana costituivano gli elementi delle epoche «basse», delle fasi terminali di un ciclo. Se è questa immagine del ciclo storico quella che sembra colpire maggiormente l'immaginazione proprio di coloro che non fanno i filosofi della storia di professione, è notevole osservare che nella morfologia storica spengleriana il predominio della tecnica, l’utilitarismo, la vita nelle grandi metropoli, gli scambi sotto forma di denaro e il ruolo centrale che esso svolgeva nella vita degli uomini, la denatalità, la presunzione della modernità, l'avanzata dei

popoli di colore, una forma di vita collettivistica, la divinizzazione della politica e dello Stato, la democrazia quale regime politico, stavano a caratterizzare una fase di declino nella vita di una civiltà. E ancora più interessante, per noi, è il fatto che elencando le caratteri-

stiche di una civiltà al tramonto noi ci siamo trovati a ripercorrere quasi puntualmente gli argomenti dell’antiamericanismo europeo. Ma procediamo con ordine, ed analizziamo più da vicino le due | prospettive a cui abbiamo accennato a proposito del parallelismo fra civiltà vecchie e civiltà giovani che si sovrapponeva al confronto fra Europa e America, prendendo dapprima in considerazione la tesi della decadenza europea e poi quella della decadenza americana, entrambe in relazione con la filosofia ciclica della storia. La constatazione dell’assurgere dell’ America allo status di grande potenza e la definizione di quel paese come il futuro (che invadeva

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Capitolo settimo

il passato senza rispettarlo) di fronte al Vecchio Mondo conduceva ad affermare che sul corpo dell’Europa erano già visibili tutti i segni della decadenza, dell’indebolimento vitale, della fine di un ciclo sto-

rico: questo poteva essere concepito come malattia o come declino fisiologico, poteva assumere i tratti cruenti di una fine subitanea o colorarsi invece delle tinte crepuscolari di una fase della vita dolce ma inevitabile. In ogni caso, se il Vecchio Mondo appariva davvero vecchio, c'erano nuovi mondi (quello giovane storicamente dell'America o quello nuovo alla civiltà industriale che era l'Asia) che si proponevano come individui storici inediti ai quali sarebbe passata la fiaccola della civiltà. In volumi come quello di E. Rosboch, in recensioni come quella di Ugo d’ Andrea,’ si esprimeva la convinzione che l'Europa stesse cedendo all’ America lo scettro dell’egemonia mondiale, che la decadenza europea fosse ormai inarrestabile, che si trattava non solo di una crisi economica ma anche di una crisi politica e spirituale, che l’invasione americana era incontenibile, a meno di un radicale rinnovamento. Quando tale rinnovamento sembrava condurre alla nascita di una nuova coscienza europea, «sarà forse il portato — ci si chiedeva — del pericolo asiatico ed americano che

minaccia la civiltà di Occidente?» *Nell’appello alla necessaria solidarietà europea contro le due minacce parallele, un primo passo da compiere era individuato nel «disincaglio finanziario e morale europeo dall’America».? Alfredo Signoretti scriveva nel 1930: «La presente generale depressione economica ci fa apparire le crepe spaventose della società capitalistica, tanto da renderci pensosi e da domandarci se non siamo veramente al tramonto di un ampio ciclo storico, se le vecchie concezioni e i vecchi metodi non siano definitivamente superati.» !° Quando la crisi europea non veniva ricollegata solo all’assurgere esterno e incontrollabile di altri paesi (e soprattutto dell’ America) al ruolo di dominatori del mondo, erano l’eccesso di civiltà, e l’identifi-

cazione della civiltà con gli indici quantitativi del benessere che l’Europa aveva scelto (come l’America, e come il mondo che si gloriava di essere moderno) ad essere indicati come le cause della decadenza

europea. Nel numero di agosto del 1935 di «Gerarchia» si poteva leggere: «Il prestigio della razza bianca deve alla raffinatezza della sua civiltà il principio della sua decadenza. Il ciclo storico dell'Europa sta forse per compiersi.» !! L’indebolimento della civiltà aveva i caratteri della ricchezza, dell’urbanesimo («le città sono i centri del-

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l'infezione sociale»), della ricerca eccessiva del comfort, del complicarsi delle leggi, dell’attenuarsi del peso delle tradizioni. «Tutti questi mali — si leggeva —- abbondano oggi in Europa.» ! Ecco riapparire i temi che, a partire da Spengler, avevano attratto l’attenzione di molti intellettuali europei sull’aspetto della fine delle civiltà piuttosto che su quello dei loro trionfi o del loro permanere. Per almeno un ventennio, autori che andavano da José Ortega y Gasset a Paul Valéry, da Thomas Mann a Filippo Burzio, avevano ritenuto più interessante il problema della fine di una civiltà rispetto a quello della sua affermazione o della sua stabilità. Non solo lo avevano ritenuto più interessante in teoria; lo avevano considerato vitale per le sorti dell'Europa e per il destino dell’intellettuale. Avevano espresso con toni pessimistici e con effetti talvolta molto efficaci dal punto di vista letterario la sensazione che l'Occidente stesse perdendo gli elementi che ne avevano fatto la culla della civiltà e la patria ideale dei prodotti più alti del pensiero. La nostra impressione è che l’antiamericanismo (se non altro quello degli anni trenta) non fosse che

un altro modo per dire le stesse cose: indicare nell’ America il futuro della storia non equivaleva forse, per gli antiamericanisti beninteso, ad affermare che la fine non di una qualche civiltà (europea, ad esempio), ma della civiltà tout court era alle porte? Questo è anche il motivo per il quale il tema del tramonto dell'Occidente occupa una parte non secondaria nell’analisi dell'immagine negativa dell’ America presente di qua dall'Oceano. Uno dei personaggi italiani più vicini alle discussioni su questo argomento era Julius Evola:! proprio la sua emarginazione all’interno del Regime ci consente di addentrarci più a fondo nel cuore del problema. Sulle riviste del ventennio, nei volumi che uscivano in quell’epoca e che portavano la firma di intellettuali fascisti più o meno noti, il tema del compimento di un ciclo storico, della fine della razza ‘ bianca, era molto diffuso, e molto discussi erano i testi di Spengler,

di Daniel-Rops, di Keyserling, di Carrel, che affrontavano il problema. L’atteggiamento che gli italiani tenevano a questo proposito era abbastanza omogeneo: era vero (lo aveva affermato anche Mussolini) che la civiltà occidentale attraversava una fase critica, e che in crisi

erano non solo l’economia e la politica, ma anche i valori propri dell'Occidente. Non ci si doveva però perdere nel pessimismo dei profeti della crisi, anche perché il fascismo indicava già con la sua stessa

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Capitolo settimo

esistenza la strada da percorrere per evitare il fatale tramonto. Chi, come Evola, aderiva più da vicino e con convinzione maggiore alle preoccupazioni per il futuro dell’Europa, sostenendo (fra l’altro) concezioni esoteriche e orientaleggianti che non potevano accordarsi con

il cattolicesimo, non riuscirà mai a diventare l’ideologo del Regime, e sarà guardato sempre con un misto di curiosità e di sospetto. La crisi dell'Occidente era, anche secondo Evola, crisi del liberalismo, della democrazia, del socialismo (loro figlio naturale), del macchinismo, del materialismo insensato, dell’ottimismo sciocco e della fede nella ragione: ma il fascismo, che superava tutto questo, dimostrava perciò stesso che non si doveva indulgere a un pessimismo impotente (come

la cultura della crisi faceva), ma lavorare per la realizzazione di un altro tipo di civiltà sulla quale la decadenza non avrebbe esercitato alcuna minaccia. Se la crisi di cui soffriva il mondo era crisi economica,

crisi delle politiche tradizionali e crisi spirituale, e se in tutti e tre i casi le vicende dell'espansione americana avevano svolto una funzione catalizzatrice, ciò che appariva fuori questione, come scriveva Roberto Ducci nel 1933, era che «alla triplice crisi, spirituale, politica ed economica, il fascismo ha opposto tutte le sue forze», ergendosi contro i miti opposti e paralleli dell’americanismo e del comunismo." La posizione degli italiani sulla questione della crisi della civiltà è espressa bene da un articolo di Mario Da Silva del 1934 nel quale Spengler è indicato come un autore inaccettabile perché cede al gusto di una troppo facile filosofia della storia, e al fatalismo che vi è connesso. Inoltre, il suo disgusto per ogni tipo di civiltà moderna testimonia non dei difetti della modernità, ma della incapacità da parte del tedesco di capire il nuovo.!” Nel 1938 un corsivo di «Critica fascista» affermava: Troppo spesso nella nostra stampa si legge la parola «crisi europea» o peggio giaculatorie vane su questa povera Europa in perenne ebollizione, dilaniata, disordinata, decadente. Uomini di penna, in Europa c’è pure l’Italia che per le crisi permanenti non ha un soldo di simpatia. Che ne direste se alla «crisi europea» sostituissimo l’espressione «rivoluzione europea»? Rammentiamo, rammentiamo insieme che solo in Europa si fa la storia del mondo, che solo in questa vecchia ma pur viva Europa la parola civiltà ha un significato. Lasciamo che la pensino diversamente soltanto i gaglioffi americani.!8

Il fascismo veniva dunque presentato come la soluzione positiva alla crisi della civiltà nella quale si dibatteva il mondo contemporaneo,

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e questo con toni tanto più enfatici quanto la crisi era dipinta come «integrale», «non (...) soltanto economica, ma anche spirituale», come

scriveva Vittorio Profumi. «Ci si trova oggi - sosteneva -, fine del secondo millennio dell’era cristiana, in un periodo di transizione e di assestamento, che nella storia del mondo non trova paragoni, e che può, fatte le debite considerazioni, soltanto avvicinarsi agli ultimis-

simi tempi dell'Impero romano.»! Il fascismo appariva come un'idea esportabile e già imitata, perfino in America.?° Se la civiltà occidentale era alla vigilia della fine, bisognava anche riconoscere che «nessun'altra civiltà si profila al fosco orizzonte, capace di sostituirla: né quell’americana, plutocratica e capitalistica, che si trova in condizioni ben peggiori, né quella bolscevica, asiatica in fondo». Scartate la soluzione liberale e quella socialista (opposte e identiche), la via da seguire poteva solo essere quella di un’epoca postcapitalistica da attuare attraverso il corporativismo fascista. E attraverso percorsi di questo tipo che il fascismo concepito come soluzione della crisi della civiltà si identificava con il fascismo come baluardo contro l'imperialismo spirituale dell’ America, come esempio antitetico a quello che essa offriva. Ma questo significava automaticamente rovesciare il gioco delle parti: allontanare dall’ Europa quella crisi della civiltà che ogni buon italiano doveva far mostra di non temere, e trasferire l’ombra di Babilonia (che accompagna la fine di un ciclo) dal Vecchio Mondo al Nuovo. In questo caso, di fronte all’Italia forte della sua storia e delle sue tradizioni ancora vive, di fronte

all'Europa che offriva ancora le coordinate essenziali per continuare a parlare di civiltà, stava un’ America in crisi profonda, che travestiva la propria vecchiaia con una giovinezza posticcia. Ma bisogna osser-

vare che, anche in questa prospettiva rovesciata, la lente che consentiva di leggere la vitalità europea e la decadenza americana era ancora una volta la filosofia ciclica della storia, che stavolta collocava

l’Italia in una fase di ascesa e l'America alla fine di un ciclo. La civiltà americana, tanto decantata dagli aedi americani del progresso come untraguardo avanzato, un successo, un culmine, si rivelava in-

vece una fase denunciavano mento di una l’urbanesimo

terminale nella storia mondiale delle civiltà. I segni che quel paese come un esempio del declino, del ripiegaciviltà su se stessa, erano molteplici: essi andavano dalesasperato al predominio dell'economia, dalla forma di

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Capitolo settimo

governo democratica ma già quasi dittatoriale (come vedremo) al dominio della tecnica, dall’affermarsi dei valori laici della modernità al-

l’inaridirsi delle fonti della vita spirituale. Se questi erano i tratti che, secondo tutti i filosofi della storia non progressisti di cui erano pieni quegli anni, caratterizzavano le epoche declinanti della storia, era poi paradossale osservare che solo gli americani, inconsapevoli di trovarsi alla fine di un ciclo, credevano nell’idea di progresso sia dal punto di vista esplicativo che da quello normativo. La giovinezza americana diventava una giovinezza meramente cro-

nologica, e sembrava opportuno iniziare a distinguere fra la novità dell'America alla storia (che la caratterizzava come un dato di fatto) e una giovinezza definita in modo più proprio come vitalità interiore, come «tensione spirituale». Guido Cavallucci scriveva nel 1936: Così, veniamo dunque a trovarci di fronte al concetto di una opposizione fondamentale tra nazioni giovani e nazioni vecchie, tra civiltà giovani e civiltà vecchie: opposizione da intendersi però non in relazione alle origini e alla durata di un popolo e di una civiltà, ma soprattutto come opposizione spirituale, opposizione di forma e di tipo.?2

Anche gli attributi di «rivoluzionario» e «conservatore» subivano una redistribuzione significativa, secondo la quale alla giovinezza dei popoli dinamici e rivoluzionari si opponeva il conservatorismo delle democrazie: Francia, Inghilterra e America.” Il concetto non cronologico della giovinezza che condannava America ad essere catalogata fra le nazioni vecchie si univa alla constatazione della crisi che aveva seguito il ’29, mettendo fine (e per sempre) all’epoca della prosperity, e faceva affermare che sull’impero americano si stendeva «l’ombra sinistra di una catastrofe latente che ricorda il destino dell’antica Babilonia».? Le circostanze che rendevano vicina una fine apocalittica della civiltà americana si esprimevano nella necessità in cui l'America si trovava di essere ricolonizzata, nel bisogno di immani lavori pubblici, nella rovina in cui la speculazione dei pionieri aveva gettato la terra. Beniamino De Ritis scriveva: «Questa

nuova terra vista dai primi coloni essenzialmente come speculazione chiede di diventare definitivamente una patria.» ? L'America non rinviava più ad immagini di giovinezza, di vigoria, di intraprendenza: una connessione che invece emergeva in modo si-

Ombra di Babilonia

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gnificativo era quella che veniva stabilita fra l'eccesso di prosperità materiale e la decadenza di un paese. Gaetano Ciocca lo metteva in rilievo con efficacia: L’eccesso della prosperità materiale costituisce il più grave pericolo per l’integrità della iniziativa, perché l’uso dei beni economici facilmente degenera nell’abuso e a sua volta l’abuso, spegnendo il piacere, induce l’uomo a rincorrere altri beni sempre più complicati e più falsi. Così la prosperità porta alla lenta decadenza e allo squilibrio economico, poiché l’incentivo a produrre è distrutto dalla smania di consumare.?6

Ciò che sottendeva questo legame era il rapporto che esisteva fra il lusso e la decadenza dei costumi, di ascendenza settecentesca. Citando

proprio Montesquieu, Ciocca affermava: L’urbanesimo ha sempre avuto un effetto deprimente sulla volontà. La vita cittadina spinge al lusso e alla vanità, manifestazioni di abulia (...) Ma il lusso e la vanità sono la morte dell’iniziativa, inducendo i corpi alle mollezze e riportando gli spiriti al bisogno infantile di essere dominati da qualche cosa.??

La decadenza americana, in queste diagnosi, avrebbe dunque avuto inizio con la chiusura delle immigrazioni e l'affidamento esclusivo della vita del paese alle forze cittadine, che conducono inevitabilmente alla morte delle civiltà. Le manifestazioni del declino in America erano più evidenti che altrove «perché ivi l’artificio è più grande e gli uomini si sono troppo allontanati dalla natura». Tragica è la sorte degli individui — proseguiva Ciocca - quando l’industrializzazione (...) passa il segno e le vie dell’utilità si offuscano e il ritmo produttivo si arresta.

L’individuo si trova isolato, privo di ogni possibilità di agire. Un senso pauroso di debolezza lo assale (...) L'America dà a chi la vede una incancellabile impressione

di provvisorietà (...) Che sarà fra cent'anni, di tanta ricchezza? A che scopo gli uomini avranno operato se nulla rimarrà a testimoniare la loro fatica? ??

Anche Amerigo Ruggiero nel 1934 tracciava dall’ America un quadro a fosche tinte, in cui l’arresto e poi la diminuzione delle nascite, iniziato con la chiusura delle immigrazioni, segnava l’inizio di un’epoca di stasi e forse di declino. Scriveva: All’apparenza sembra che non ci sia gente più vigorosa, più atletica, più attiva fisicamente e mentalmente di quella che abita questo paese. Ma, in effetti, la realtà è un’altra. La vitalità è scarsa, la media dell’esistenza corta (...) Crediamo non ci

sia paese al mondo che accumuli tanti rifiuti umani in periodi di tempo relativamente

IIO

Capitolo settimo

brevi. È un disfacimento completo, uno scompaginamento della persona fisica e psichica di cui chi ha in mente solo il decadimento prodotto dalla miseria non può formarsi un'idea. Sarà la famosa efficienza a logorare gli organismi più rapidamente che altrove, saranno tare organiche, sarà l’alcool, il fatto si è che attorno ai quarant’anni, e spesso assai prima, gli uomini, in America vanno a pezzi. Vagolano a torme in uno stato di semiebetismo.?°

«La legge del comfort è madre dell’ America moderna», sentenziava Guglielmo Danzi nel 1935. Spiegava che cos'era: «Di che si tratta? Del più paradisiaco dei corrosivi, di un veleno piacevole oltre ogni dire, di una lentissima ed insensibile morte volontaria.» É ancora: «Raggiunto un alto tenore di vita, gli uomini s’isteriliscono fatalmente in uno spietato egoismo conservatore. Le comodità diventano il loro pane, i piaceri la base indispensabile della loro esistenza.»?! Come già faceva Ciocca, come sostenevano coloro che leggevano la storia secondo i cicli di nascita e morte delle civiltà, Danzi collegava l’eccesso di beni materiali con il fenomeno della denatalità, e dunque con l’indebolimento e la fine di popoli che erano stati grandi. «Ci avviamo, insomma, verso il crollo dei grattacieli.» Che cosa accadeva? Il cerchio della vita — rispondeva Danzi ricorrendo ad immagini trimalcionesche da fine dell'Impero romano - si restringe sempre più: inesorabilmente. Si muore fra le musiche, nel lusso, inebriati dai vapori dell’alcool. La crisi dell'agricoltura distoglie i contadini dalla terra, li sospinge verso le crudeli, aride città, traboccanti di ricchezza e miseria. Le città diventano paludi di carne umana.

Il mito di Mida era un apologo appropriato sulla natura e la fine imminente della civiltà americana: «L’umanità d’oggi muore soffocata dalla cupidigia dell’oro. Incredibile caso di suicidio collettivo!»? Era un processo che poteva anche essere descritto con una sola parola: americanismo. Danzi scriveva: L’«americanismo» non potrebbe essere definito con più efficacia: è la vita economica che diventa fine a se stessa, circolo chiuso (...) Imborghesimento pavido, egoista, cinico, frollo, disonesto, la cui esistenza non ha altro compito oltre quello di difendere contro tutto e contro tutti le proprie vili comodità.

La polemica contro l'America intesa come pariva, e si poteva leggere infatti che la stava gli eroi per dare spazio ai mercanti. che seguivano tutte le civiltà nella loro

unione di demos e oro riapmarcia del progresso calpeQuesto era lo svolgimento vita, che le conduceva alla

Ombra di Babilonia

III

decadenza, e che poteva essere definito per l'Europa del secolo xx, minacciata dall’americanizzazione, il «veleno dell’oro». Se i popoli morivano, di questo era responsabile il progresso della civiltà meccanica, insieme alla diffusione di «un basso cerebralismo egoista e materialista». Dire «americanismo» era dunque lo stesso che dire «mentalità borghese». Danzi presentava il dilemma fra un Occidente già tramontato e invaso da popoli giovani, e un mondo finito che veniva rivitalizzato dal soffio dell’Italia. Si chiedeva: Vedranno i figli dei figli i cieli fatti oscuri da centinaia di migliaia di velivoli recanti verso i luoghi dei popoli vecchi nuove migrazioni di popoli giovani? Fiumi di carne umana strariperanno dai lontani alvei, volgendosi all’occidente crepuscolare? L’Europa sprofonderà nella notte? Strani uomini giungeranno a colonizzare le terre ingrassate da tanta morte? O non piuttosto sarà l’Italia che darà nuova vita alle necropoli europee,

agli abbandonati

campi,

ai deserti, alle vuote

sedi di una razza

spenta? 33

Lavorare in favore di questa seconda alternativa comportava un passo preliminare: quello che consisteva nel respingere e contrastare in ogni modo possibile l’influenza americana sullo spirito europeo. Franco Ciarlantini, a proposito della «smisurata potenza» dell'America, avanzava l'alternativa fra la fine di Babilonia (sommersa

da una potenza eccessiva) e una necessaria armonizzazione della ricchezza americana con quella degli altri popoli. Si trattava di un paese che mostrava di avere ben poco da insegnare a un popolo come quello italiano «di riserve spirituali sconosciute oltre Oceano e di allenamenti di secoli e secoli al dolore e alle lotte più aspre».? L'America non poteva più rappresentare un esempio neppure in quei settori in cui sembrava che eccellesse. Gli Stati Uniti, affermava Ciarlantini, ci possono offrire soltanto dei modelli di sapiente organizzazione — sapiente ma ‘ anche esasperante! - e di solerzia individuale a scopo di far milioni e miliardi. Ma i risultati di questa ricchezza che un tempo faceva restare estatica la vecchia Europa hanno forse serbato agli Stati Uniti una sorte migliore appena si è delineata la crisi

mondiale? ?

I viaggiatori italiani mostravano di essere molto colpiti dai fenomeni della «impressionante denatalità»,’ dell’elevato numero di malati mentali, di una forma di inceppamento e destrutturazione della vita della nazione americana: coloro che avevano avuto un’adeguata

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Capitolo settimo

preparazione a tutto questo attraverso le filosofie cicliche della storia, non se ne stupivano. Tutti gli altri se ne stupivano grandemente, poiché si trattava di una immagine del tutto inedita dell'America e dei suoi abitanti, che inizia a diffondersi proprio in questi anni; nel tentativo di trovare delle spiegazioni, tuttavia, era quasi inevitabile il ricorso a qualche elemento di quelle filosofie della storia che magari erano ignorate: spesso in modo inconsapevole, veniva ripro-

posto il legame (presente in esse) che collegava la fine di un ciclo storico con la denatalità, e la denatalità, a sua volta, con l’urbanesimo, con la nascita di bisogni artificiali, con l’industrializzazione,

con lo stile che aveva assunto la vita moderna. Lorenzo Piazza menzionava fra le cause che davano conto della situazione di crisi nella quale versava l'America «la dissoluzione dei vincoli famigliari per la rilassatezza del costume, la propaganda neomalthusiana e il femminismo, l’industrializzazione, la crisi e la disoccupazione, alcune speciali malattie ecc.».? È degno di essere segnalato, a questo proposito, il fatto che, proprio come nelle suggestive pagine del Trazzonto dell'Occidente sul «nomade abitatore delle grandi città», veniva osservato negli Stati Uniti contemporanei il fenomeno del nomadismo. Mentre per Spengler si trattava di un fenomeno che stava all’interno della vita cittadina e che dimostrava l’annullamento delle differenze fra un luogo e l’altro nella omologazione universale, chi descriveva il nomadismo americano si riferiva piuttosto ai dropouts cacciati ai margini della vita civile dalla spietatezza delle leggi che la governano e che non tollerano chi non vi si adatta. Nell’un caso come nell’altro, però, l'apparizione nel mondo tecnicizzato di una nuova forma di vita zingaresca parlava della fine di una civiltà. Giulio Alimenti scriveva: «L'umanità primitiva e selvaggia fu quasi completamente nomade.» Questo fenomeno era scomparso nelle civiltà progredite, anche se mai completamente. «Ma dove - continuava — il fenomeno degli spostati e del vagabondaggio assumono proporzioni vaste e suscitano l’interesse degli studiosi in modo particolare, è proprio negli Stati Uniti.» 38 Questa vita asociale, primitiva e barbara, fatta di comunismo delle cose e promiscuità, era causata dal «supercapitalismo» che spingeva fuori dalla vita produttiva un numero sempre più grande di persone, allargando continuamente il divario che esisteva fra i due estremi del lusso e della

De

Arabesco urbano, dal tetto: della Sixty Wall Tower, 70 Pine Street, Manhattan; 9 giugno 1938

2.

La sopraelevata, linee della Second e Third Avenue, Bowery Street angolo Division Street, Manhattan; 24 aprile 1936

Portone d’ingresso, 204W 13th Street, Manhattan; 5 maggio 1937

4.

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5.

La Fortieth Street, dalla Salmon Tower,

1r1W 42nd Street, Manhattan; 8 dicembre 1938

6.

Sulla Fifth Avenue: il ritmo della città, dal Seymour Building, 503 Fifth Avenue, Manhattan; 6 settembre 1938

| |

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7.

Il Rockefeller Center, dal 444 di Madison Avenue; 27 gennaio 1937

8.

Manbattan, da Boulevard East e Hudson Place, Weehawken, New Jersey; 9 novembre 1937

Ombra di Babilonia

II3

miseria. Ma quello che accadeva parlava non solo dei vizi del capitalismo americano (che pure nessuno trascurava di sottolineare), bensì anche della fine ingloriosa di tutta quanta la civiltà moderna, era «un segno sicuro di disfacimento e di sfacelo della società moderna».? Proprio l'adozione di una filosofia ciclica della storia (o comunque dell’idea che le civiltà percorrono un ciclo vitale che va dall’ascesa alla caduta) consentiva di dividere il mondo in due parti, una in espansione e l’altra sulla via del declino, anche quando le ragioni che spingevano a collocare l’America in basso (e corrispettivamente l’Italia in alto) erano di tipo più politico e consistevano nell’essere l’una una liberaldemocrazia e l’altra il regime fascista. L’anonimo corsivista di «Gerarchia» che si firmava Silus sosteneva che chi si abbandonava alle cupe visioni di una fine prossima della civiltà non era, in effetti, che un membro di quelle civiltà che si avviavano al tramonto:’° fin qui niente di nuovo, semmai una conferma a quanto abbiamo scritto a proposito della recezione italiana della cultura della crisi. Come si caratterizzavano quelle civiltà? Erano le democrazie di qua e di là dall’ Atlantico, che «corrugano le fronti e scoprono anni apocalittici nell’avvenire del mondo. L’addensarsi di nuvole a Oriente e a Occidente è per loro segno di certa perdizione, di precipizio civile, la fine della civiltà». Mentre l’Italia apparteneva alle civiltà sane e forti, «anche quella che noi chiamavamo la sana democrazia americana, mostra ormai i denti e la corda». Roosevelt si era rivelato un politicante come gli altri e mentre il Giappone si proponeva come il gendarme antibolscevico in Estremo Oriente, l’America tacciava proprio il Giappone di aggressione. Ancora una volta, la giovinezza tradizionalmente attribuita all’ America si rovesciava in una vecchiaia decrepita: 1’America si schierava «con le vecchie decrepite nazioni europee, scoprendo le rughe ingiustificate e senza tradizione del giovanissimo popolo americano». Che la civiltà liberale e capitalistica fosse giunta alla fine del suo ciclo storico era convinzione diffusa in un’area che comprendeva almeno il fascismo antiborghese, e cercava conferme nei fatti contemporanei, nelle analisi di economisti e politologi. Bruno Brunello, discutendo il volume di Harold Laski Derzocrazia in crisi, scriveva: «Ma come dall’antico schiavismo, la società degli uomini è passata a forme di maggiore libertà economica e politica, attraverso il mercantilismo, la bor-

II4

Capitolo settimo

ghesia liberale e il capitalismo industriale, la società umana, nel continuo suo cammino, viene realizzando altre forme sociali che inaugurano nuovi cicli di civiltà.» Fra «popoli che salgono e popoli che tramontano» la discriminante era il possesso di una forza vitale che facesse affrontare il futuro con un atteggiamento di attivismo virile opposto all’atteggiamento conservatore del possidente che non vuole correre nessun rischio. Il futuro storico — si poteva leggere nel 1938 su «Gerarchia» in un corsivo dai toni contemporaneamente antiamericani e antiborghesi - non è un «mandato» della Società ginevrina o una colonia da misurarsi a chilometri quadrati. Il futuro è un dio terribile di fronte al quale ci si presenta a mani vuote, senza rendite, perché di fronte al futuro tutto, dalle aspirazioni più eteree alla proprietà più reale, deve essere riconquistato.4

Tornava la contrapposizione fra guerrieri e mercanti, stavolta per in-

dicare la direzione che avrebbe preso la storia futura: «Il segreto della nuova storia non è più dunque la proprietà, ma la forza.» ‘ L’anno seguente lo stesso autore scriveva: «La civiltà moribonda essendo quella democratica, la civiltà nascente non può che essere aristocratica cioè veramente popolare.» ‘ Sullo stesso numero di «Gerarchia» si sentenziava: «E il disincantamento. Il secolo della borghesia e del meticciamento, cioè il secolo dell’oro e dell’uguaglianza volgono tragicamente al tramonto.» ‘ Quando la contrapposizione fra Vecchio Mondo in ascesa e Nuovo Mondo che si rivelava al tramonto non assumeva i toni della difesa d’ufficio del regime italiano, le sue argomentazioni diventavano condivisibili anche da chi non partecipava necessariamente di quegli entusiasmi sul radioso destino della razza latina. Quando i motivi del

decadimento del giovane organismo americano erano trovati nei difetti della civiltà moderna, o nelle caratteristiche delle società opulente (il che poi significava la stessa cosa), la descrizione dell’ America in termini di fine di un ciclo storico diventava quasi parte del senso comune di un’epoca. Era quanto faceva Gastone Silvano Spinetti quando scriveva: «Una civiltà crolla sotto i nostri occhi ed in contrapposto ad essa un’altra ne sorge più aderente allo spirito dei nuovi tempi.» La crisi da cui era corroso il mondo che decadeva era ricondotta a crisi dei valori, e la soluzione ad essa andava dunque cercata «in un nuovo ordine spirituale». L’egoismo e l’edonismo pro-

Ombra di Babilonia

IIS

dotti dalla civiltà del materialismo avevano privato l’uomo di quella mistica, di quegli alti ideali che gli sono essenziali per non cadere in un tipo di vita quasi animalesca: Il vero è che nella ricerca del benessere e della ricchezza troppi valori essenziali sono andati perduti, indispensabili all'equilibrio ed alla felicità dell’uomo. Prima di ogni sentimento, di ogni morale e di ogni religione, l’umanità «moderna» ha perduto ogni potere di vita e di resistenza, ha perduto soprattutto il concetto unitario della vita atomizzato e polverizzato nel moltiplicarsi delle specialità e delle formule.4

Sulla diagnosi della morte di una civiltà (e della corrispondente nascita di una civiltà nuova) molti potevano concordare; l'assenso riguardava sia i soggetti storici di quelle fini e di quegli inizi di un ciclo sia le cause che facevano di un periodo un’epoca in ascesa o in declino nella storia. L’identificazione dell’ America con uno di quei soggetti, e il coincidere di quelle cause con le argomentazioni dell’antiamericanismo sono i due elementi che risultano assai significativi per l'argomento che ci interessa.

Capitolo 8 Un gigante dai piedi d’argilla: la crisi del ’29

«È il tramonto sanguigno di un'epoca», scriveva Amerigo Ruggiero del crollo in borsa americano del 1929. La crisi di Wall Street segna davvero un passaggio, da più di un punto di vista. Nel commentare la crisi del ’29, gli osservatori italiani mettevano fra le sue cause proprio ciò che caratterizzava il sistema di produzione e il modo di vita dell'America: fra di esse si potevano porre l’ipertrofia del credito, il desiderio di uno sviluppo sempre più grande, una sproporzione crescente fra produzione, consumo e ricchezza reale, la corsa all’acquisto ad ogni costo, la febbre speculativa. La crisi, come aveva detto Mussolini e come verrà ripetuto decine di volte da quanti interverranno sulla questione, era una crisi de/ sistema, e non una qualunque crisi nel sistema, dall’entità insignificante e dalla pericolosità facilmente contenibile. Il «sistema» al quale si faceva riferimento era il capitalismo, ma anche la forma di governo liberaldemocratica. Comunque fosse, il sistema in crisi si impersonificava in un paese reale che davvero aveva vissuto una crisi economica seria: e si trattava dell’ America non solo per il fatto che la crisi del ’29 si era svolta Îì piuttosto che altrove, ma per il fatto che tutte le caratteristiche sia della liberaldemocrazia sia del capitalismo, l’America le possedeva allo stato puro, in forma esemplare, in modo talmente omogeneo da essere esaustivo della sua natura. E da questo punto di vista che parlavamo del ’29 come di uno spartiacque da prospettive multiple: con quella crisi non cade solo, infatti, la fiducia accordata fino a quel momento al capitalismo, come anche le parole di Mussolini testimoniano, ma nasce qualcosa di inedito. E da questo momento che l’identificazione fra l’America e il

Un gigante dai piedi d'argilla

naz.

capitalismo si fa evidente e diviene quasi un luogo comune; ed è solo a partire da questo momento che il capitalismo si identifica con la speculazione selvaggia e infondata. Questa doppia serie di identificazioni non era evidentemente possibile prima, quando l’immagine che l'America offriva di sé era prevalentemente quella del tutore della pace mondiale e della democrazia minacciata, quando il capitalismo sembrava ancora legato a un individualismo combattivo da pionieri, a uno sfruttamento selvaggio ma anche intraprendente e redditizio. Questo va ad aggiungersi a quanto notavamo nella Introduzione quando distinguevamo fra l’antiamericanismo degli anni venti e quello degli anni trenta. E solo a partire dalla crisi del ’29 che il legame forte (tanto forte da arrivare alla sovrapposizione) fra capitalismo da un lato e natura e ruolo dell’ America nel mondo dall’altro si manifesta,

si consolida, si diffonde. E questo avviene proprio quando su quel sistema economico si stende l’ombra della rovina, della crisi non con-

giunturale, dell’impasse storica,-come si esprimevano i contemporanei. E evidente che emerge proprio da questa coincidenza l’interesse che l’argomento presenta ai fini di questa ricerca. Quando l’immagine negativa dell’ America che questa privilegia coincide con eventi storici di grande peso, con date che separano un’epoca dall’altra, l'emergere di dati che caratterizzano quell'immagine negativa in modo diverso rispetto ad altri periodi va sottolineato con forza, per presentare l’antiamericanismo in un modo che lo veda non omogeneo da sempre, ma piuttosto sempre diversamente collegato (e dunque indipendente, in una certa misura) con le vicende europee del momento, con il diverso peso che il Vecchio Mondo sentiva di possedere rispetto ai mondi nuovi che si affacciavano alla storia delle grandi potenze, con le continuità e le cesure che caratterizzano la storia generale. Emerge proprio in questa svolta del ’29 una somiglianza fra l’antiamericanismo italiano e quello europeo, che testimonia di una recezione dell’immagine americana in una duplice chiave, nazionale e internazionale, alla quale abbiamo accennato nell’Introduzione, di una reazione all’egemonia americana indipendente in qualche grado dalle vicende del proprio paese. Dalla catena di identificazioni che abbiamo esposto risultava infatti, come mettevano in risalto sia i commentatori europei sia quelli italiani, che un tratto non secondario dell’eco-

nomia americana era il carattere di illusorietà, di artificiosità, di ir-

realtà che le era connesso. Se il capitalismo contemporaneo aveva ces-

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Capitolo ottavo

sato di essere pionieristico, esso aveva iniziato ad essere speculativo: il denaro era diventato un’entità astratta staccata dalla realtà della produzione, che si produceva e si autoriproduceva per forza propria. Questo tratto dominante del capitalismo in pantofole si manifestava nel prevalere della moneta sul prodotto, nella sostituzione progressiva della centralità della fabbrica con la centralità della banca, nel

ruolo sempre maggiore svolto dal gioco in borsa. Sarebbe senz'altro sbagliato voler sostenere che queste convinzioni sul credito, la moneta, l’irrealtà del capitale, nascono in questo momento: al contrario, siamo talmente convinti che esse vengono da lontano, che volentieri ne assegneremmo la nascita a quell’anticapitalismo romantico al quale ci siamo riferiti già in altre occasioni. E allora, nelle riflessioni che l’industria trionfante e il capitalismo «individualista» suscitano a caldo, che potrebbe essere ritrovata l’opposizione al denaro che si riproduce senza passare per il lavoro che lo crea, la condanna di un sistema economico che appoggia le sue basi sulla scommessa di una espansione continua, la critica di una produzione che sempre più produce facendo astrazione dalle mani (e dal cuore) dei lavoratori. Ma a noi pare anche che nell’anticapitalismo di Thomas Carlyle, rappresentante esemplare di questa corrente, fosse presente l’opposizione a un sistema economico e produttivo considerato come reale, che faceva del male e per questo era da combattere, che danneggiava l’uomo e la terra. Non c’era ancora (o c’era in misura molto minore) la tesi, che ora invece si fa prevalente, secondo

la quale il capitalismo è il sistema dell’irrealtà, la speculazione ne è l'essenza, e il suo destino sarà infausto non per la condanna morale che vi grava, né per qualche fatalità dello sviluppo storico, ma per la sua inconsistenza. E per questo che la potenza americana, identificata con l’industrializzazione capitalista, e dunque con il gioco irreale della speculazione, diviene una potenza dalle basi fragili, un gigante — appunto —- dai piedi d’argilla. Inoltre, il tema dell’industrializzazione come estremo artificio di

una specie indebolita, la tesi del capitalismo come potenza cartacea, l'opposizione del concreto della terra all’astratto della moneta, hanno in questo periodo una diffusione che va ben oltre i limiti del fascismo italiano. Indagare i temi e le motivazioni dell’antiamericanismo di questo periodo significa dunque imbattersi nelle idee semplificate, ripetute, banalizzate, di autori come Sombart o Schumpeter sull’es-

Un gigante dai piedi d'argilla

II9

senza del capitalismo attuale, significa scontrarsi con un esempio di quel ritorno al concreto che ha caratterizzato molte correnti della filosofia del Novecento, in un terreno nel quale lo spenglerismo di cui abbiamo parlato si mischiava con alcuni temi dell’irrazionalismo contemporaneo. Aveva buon gioco chi contrapponeva a quella economia fasulla, a quella falsa ricchezza, la realtà tangibile di una produzione limitata, le buone virtù possedute dal lavoro artigianale e agricolo, la realtà davvero reale della terra e dei suoi prodotti. Ma l’indignazione morale non era scomparsa del tutto come arma polemica, come accadeva anche nell’anticapitalismo romantico. Ne faceva le veci, in quegli anni, l’idea del corporativismo,” utilizzata come il tentativo di ridare un’anima all’economia, di umanizzare il mondo disumano della fabbrica

e del profitto, di ristabilire il primato della politica sulla produzione, sui settori bassi e materiali dell’esistenza. In questo senso, il corporativismo andava nella stessa direzione della contrapposizione delle buone qualità italiche e latine del risparmio e della parsimonia ai vizi (tipici di ogni capitalismo, e in particolare di quello americano) del consumismo e dell’avidità. Ruralismo, anticapitalismo, ideologia corporativa, svolgevano da questo punto di vista la stessa funzione polemica. Certo, si trattava della patetica opposizione di un paese povero e scarsamente industrializzato a un paese ricco: ma cosa poteva im-

portare, se l’obiettivo polemico era lo smascheramento della reale povertà di quello che passava per essere il popolo più ricco della terra, di quella che si autodefiniva come la civiltà più riuscita, di quello che era considerato il paese più prospero che esistesse? Di contro, potevano essere fatte valere le solide virtù delle nazioni proletarie, dei popoli più frugali ma più sani e più preparati ad affrontare le avversità. Esisteva anche un’altra spiegazione della crisi del ’29, in linea con lo stereotipo dell’antiamericanismo che vedeva in quella civiltà d’oltre Oceano la mancanza di misura, il gusto per l’eccessivo, la passione per il quantitativo sganciato da ogni valore. «Chi troppo vuole nulla stringe»: le norme della saggezza popolare riportavano in questo caso la grandezza americana alla sua reale consistenza, e indicavano la via della moderazione come alternativa all'adorazione dello smisurato che l'America sembrava manifestare in tutti i campi.

120

Capitolo ottavo

In entrambe le prospettive, la crisi del ’29 aveva i caratteri di una crisi salutare nel senso letterale che riportava la salute: nel primo caso perché consigliava uno sviluppo economico più realistico e moderato, nel secondo perché consentiva all'America il recupero di quei valori che le mancavano per essere davvero una civiltà. Ma la crisi era salutare anche per il duplice volto del pubblico al quale si rivolgeva lo svelamento del male e l’indicazione delle vie della guarigione: non solo, infatti, il popolo americano poteva apprendere dalle cose la lezione dell'umanità e della misura, ma il mondo, oltreché l’America, aveva di fronte, con la crisi, la dimostrazione della fragilità di una potenza presuntuosa e dei suoi valori.

Esaminiamo i vari elementi dei quali abbiamo parlato in relazione con la crisi del ’29 nei critici italiani della civiltà americana. Sulla ipertrofia speculativa quale responsabile del crollo di Wall Street insistevano in molti.’ Virginio Gayda scriveva: «Questo è il tragico risveglio del paese dei dollari. La prosperità è finita. Sembrava perenne, fondata su basi incrollabili, e si rivela con fragili piedi di argilla.» Continuava: La prosperità aveva per basi: l’organizzazione della produzione in massa, il;macchinismo estremo, la razionalizzazione, gli alti salari fondati su un mercato del lavoro sempre più chiuso, le alte tariffe doganali, ma soprattutto l’inflazione del credito — delle banche all’agricoltura, all’industria — e della produzione al consumo. Questo eccesso di credito ha gonfiato la produzione ed il consumo, sollevandoli a gradi non proporzionati alla realtà economica. La produzione ha superato il consumo: il consumo, moltiplicato dagli acquisti a credito, ha superato il limite reale dei redditi e dei salari. Tutta l'economia americana si è plasmata su forme artificiose ed equivoche.*

Si trattava di una specie di nemesi storica, se era vero che «la sovrana potenza del denaro» nella quale l’America confidava era stata prodotta dal drenaggio finanziario dell'Europa che era iniziato a partire dalla guerra. Ma la nemesi a cui pensava l’autore di quelle pagine (e molti altri con lui) aveva una portata ben più grande: consisteva nel rovesciamento dei titoli di vanto di cui si era gloriata fino al giorno prima la civiltà americana in altrettante cause della crisi che ora la tormentava. Il macchinismo e la razionalizzazione avanzata provocavano disoccupazione, gli alti salari elevavano i costi di produzione e rendevano più difficili le esportazioni, le alte tariffe doganali invitavano gli altri paesi alla rappresaglia. Ma, soprattutto, la dottrina

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dell’ottimismo e la convinzione che il denaro rendesse facile ogni cosa producevano lo sgradevole effetto di non saper che cosa fare nelle difficoltà presenti. Diventava possibile affermare che la crisi del ’29 in realtà si preparava da tempo, poiché l'economia americana offriva da qualche anno lo spettacolo della stretta simbiosi fra prosperità e disoccupazione; Giulio Alimenti scriveva: Dal ’22 in poi le crisi hanno preso un nuovo carattere. La prosperità continua e la ricchezza si accresce smisuratamente. Le fabbriche sono quasi tutte attive e le industrie basiche nelle migliori condizioni. Gli affari si moltiplicano. Ma la folla dei senza lavoro è andata via via crescendo dal ’25 in poi sino a divenire impressionante.5

Alle origini della crisi del 29 stava «l’ideologia economica, nata col capitalismo, del progressivo arricchimento individuale e collettivo portata ad un grado di esasperazione morbosa, perché considerata come fine supremo della vita umana». Ettore Lolini poneva alle origini della crisi americana la «passione per la speculazione», la «mentalità favorevole al consumo, al dispendio ed alla speculazione». Il sistema degli alti salari attuato da Ford (che era giustamente messo in una relazione molto stretta con la produzione di massa e il consumismo)

con il fine di incoraggiare i consumi operai denunciava in realtà una concezione dell’uomo bassamente materialistica: «Tutti i valori spirituali dell’uomo sono misconosciuti da questa ideologia materialista e meccanicistica, che concepisce l’uomo come una macchina destinata solo a produrre e a consumare!» Secondo Alfredo Signoretti, responsabile della crisi americana e, in generale, dell'aumento della disoccupazione mondiale, era non tanto

la razionalizzazione — «brutta parola che dà un suono sgradito alle nostre orecchie abituate all’euritmia romanza» -, quanto la «smisurata orgia speculativa che ha fatto perdere la sensazione dei rapporti reali», l'applicazione senza limiti del macchinismo (al quale invece andavano poste delle regole), l’astrazione del scientific management dal sistema sociale complessivo. Lo stesso autore osservava d’altra parte che del capitalismo forte di un tempo era rimasto solo «l’istinto di speculazione, avendo perduto o quasi quello del combattimento»: non esistevano più che «speculatori avidi e inetti.»? Questo è un tratto presente in molte delle riflessioni di quegli anni sulla crisi del "29, rintracciabile anche nella storia americana di quel periodo ricostruita a posteriori: così Luigi Barzini junior, parlando dell’ Ame-

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Capitolo ottavo

rica che aveva conosciuto durante la sua permanenza, descrive la situazione che precede il crollo come caratterizzata dal «lievitare automatico della ricchezza», da un lato, e dall’altro dalla inconsistenza di quella ricchezza non reale, composta di speculazione e titoli in borsa.!° Quando Kreuger, il re dei fiammiferi, si suicida in seguito alla crisi,

Signoretti ne approfitta per deprecare la trasformazione del capitalismo concorrenziale in capitalismo monopolistico, per riaffermare che, come si direbbe oggi, «small is beautiful», per stendere l'ennesimo atto d’accusa. Scrive nel 1932: L’esperienza che conta molto più delle teorie sta provando che una impresa azionaria anonima quando arriva a certi gradi di elefantiasi e principalmente quando conquista posizioni di monopolio perde tutti i vantaggi legati all’iniziativa privata, senza possedere le caratteristiche di stabilità sia pure talvolta lenta e pigra delle società pubbliche controllate.!!

In questa analisi, le responsabilità della crisi non ricadevano sulla macchina, ma sul dispendio di energie e sul cattivo uso dei suoi mezzi che il capitalismo aveva fatto, dando luogo a «sperequazioni ingiuste» e a un’impotenza economica generalizzata.!? La crisi colpiva «i/paesi privilegiati dal rigoglio capitalistico dell’ultimo secolo» e favoriva invece «l'ascesa delle nazioni giovani» come l’Italia. L'Italia, poi, aveva un asso nella manica che era rappresentato dall’idea corporativa. Essa non solo introduceva la giustizia come principio nell’ordine economico, ma metteva in gioco «fattori morali e spirituali» di cui gli altri paesi non disponevano.! Ancora una volta, il corporativismo significava assai più che un regime economico: era piuttosto un nuovo ideale di ordine morale per tutta la nazione. Era semplicistico — affermava ancora Signoretti nel 1933 — spiegare la caduta del dollaro in termini monetari. «Il fenomeno - scriveva —- è molto più vasto; si è venuti al redde rationem del sistema capitalistico nel paese che ne era impregnato fin nelle midolla più riposte.» E aggiungeva, riprendendo temi che abbiamo già anticipato: La crisi, che non è di oggi ma che è il risultato logico di un indirizzo e di un cumulo di colpe e di errori, sta eliminando la superfetazione speculativa che aveva maturato fino a negarlo sostanzialmente il principio dell’iniziativa privata che risponde ad un istinto eterno dell’uomo: la speculazione aveva dato luogo a realtà effimere che scompaiono nel turbine.!4

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Si doveva invece guardare alla «realtà vera», a responsabilità personali, a una economia concreta, come il corporativismo permetteva di fare. Alle origini della crisi stava una sorta di violazione dei limiti «naturali» dell'economia e del consumo: non si trattava solo di una fiducia esagerata nei meccanismi autoregolantisi dell'economia, non solo della fede insensata nel fatto che la prosperità non avrebbe mai avuto termine, ma anche della sostituzione di un’economia concreta con un’e-

conomia astratta, e del corrispondente incremento artefatto dei consumi attraverso una scellerata esaltazione del credito.! Anche Gino Arias nel 1933 metteva in rilievo, fra le ragioni della crisi borsistica, la mania americana del sempre più grande, la creazione di un consumo artificioso, l’esistenza, per mezzo della speculazione, di una ricchezza solo apparente, e avanzava la speranza che la crisi avrebbe aperto gli occhi all'America sull’impossibilità di continuare a pensare alla crescente espansione della produzione e del consumo.!” Ma a Beniamino De Ritis non sembrava che quel paese sapesse giovarsi della lezione: la reazione alla crisi era infatti identica alle cause di essa, e si limitava a una serie di manovre monetarie nel tentativo di riacquistare subito la prosperità, senza alcuna preoccupazione per modifiche più sostanziali dell’economia e del modo di vita.!* Se era vero che la crisi era de/ sistema, quel sistema poteva essere definito come «supercapitalismo». Mentre la sua evoluzione naturale portava (come la crisi del ’29 aveva rivelato) alla disoccupazione, il corporativismo avrebbe non solo assicurato il benessere a tutti attraverso un giusto uso della tecnica, ma anche posto fine alla crisi spirituale che agitava il mondo.!° La crisi metteva fine a un’epoca nella storia del capitalismo: si chiudeva il mondo degli «affari come libera avventura e della ricchezza come incessante speculazione», «l'universo chimerico del credito e della banca».?° Il crollo di Wall Street denunciava l'impotenza e l'inadeguatezza del capitalismo e del liberalismo, di fronte ai quali l’azione di Mussolini appariva risolutiva. L’artificio retorico, che non veniva utilizzato solo dal fascismo, consisteva nel presentare la situazione mondiale a tinte nerissime, per far risaltare i successi italiani.?! Alle origini della crisi anche per Gaetano Ciocca stava «il cancro

del credito», malattia quasi inevitabile di un industrialismo portato

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Capitolo ottavo

all'eccesso e dell’illusione che la prosperità non avrebbe mai avuto fine.?? Il ’29 mostrava il fallimento dell’economia liberale, del capitalismo in quanto tale, e non solo della speculazione intesa come una degenerazione di esso. Un corsivo di «Critica fascista» recitava nel 1938: «Ormai di economia liberale non cianciano più che gli economisti ancorati a Manchester.» ?? Ma se la crisi era crisi de/ sistema, e se il sistema in crisi era definito dal binomio demos e oro, se si identificava cioè con le liberalde-

mocrazie, si doveva poi ammettere che l’incarnazione di esso era costituita dagli Stati Uniti. Talvolta era invece l’Inghilterra a esser presa a simbolo del capitalismo, del liberalismo, e insieme del liberismo: la sua crisi segnava così la crisi irreversibile del capitalismo, di cui tanti si dicevano sicuri in quel periodo. Anche in questo caso, si era certi che il mondo stava passando da una forma di civiltà a un’altra: e la civiltà che-stava morendo era quella del capitalismo e dell’«elettoralismo», di cui l'Inghilterra era stata artefice e pilastro. Camillo Pellizzi divideva il mondo in due parti, a seconda che appartenesse alla civiltà malata o a quella nuova: e mentre il fascismo superava nei fatti liberalismo e democrazia, sull’altro fronte stavano l’Inghilterra, la Francia, la Germania e l’America, ancora fermi a quella

fase di sviluppo.?° E interessante notare che lo Stato liberaldemocratico veniva definito, con un rovesciamento significativo delle critiche che proprio dal punto di vista liberaldemocratico potevano essere rivolte ai regimi dittatoriali, o, se si vuole, con una utilizzazione stru-

mentale delle analisi che la sinistra storica aveva svolto dei regimi caratterizzati da una libertà formale (come appunto le liberaldemocrazie), come «dominio di molti nell’interesse di quei molti (...) Teoricamente, e mitologicamente, dominio di tutti nell’interesse di tutti»,

mentre lo Stato fascista era definito da termini quali «dovere», «servitù», «voto», era «quasi un soggetto mistico, un arcangelo mondano»,

rappresentava il passaggio dal dominio sullo Stato «all’atteggiamento morale della servitù verso lo Stato».” La crisi rivelava l’impotenza dei governi democratici e liberali 8 non soltanto dal punto di vista politico: la condanna storica che veniva invocata su di essi si richiamava a quel /aissez faire esteso dal campo economico alla vita generale degli uomini, per cui un governo che interveniva il meno possibile nella vita degli individui, che tendeva a scomparire, lasciava di fatto via libera al mercato, al regno

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sovrano del capitale, agli pseudovalori del consumo e del possesso. Per questo molti sottolineavano la difficoltà per l'America di approfittare degli insegnamenti di quella crisi: la sua compenetrazione con ideali e fini del capitalismo era stata troppo perfetta perché ora riuscisse a modificare valori e stile di vita. Amerigo Ruggiero (uno fra coloro che sottolineavano quella compenetrazione) scriveva che, se «fino al 1929 la nazione era vissuta in uno stato di ebbrezza», di «castelli in aria» e di «delirio collettivo», il passaggio a una vita più parca era una via difficilmente praticabile. Scriveva: «Ora il pericolo sta tutto qui: gli americani non riescono a persuadersi che quel genere di prosperità non tornerà più e che bisogna limitarsi a conseguire una prosperità media collettiva in cui non si riscontrino i contrasti demoralizzanti di ricchezze favolose accanto a miserie disperate.» Quei contrasti per il momento esistevano, invece: «Questa contrazione di pro-

duzione e di consumi, questo impoverimento graduale di un popolo in mezzo a un’abbondanza che dà le vertigini costituisce la grande tragedia dell'America moderna. »?? Il crollo in borsa del ’29 veniva ricollegato dunque, come si è visto, con le caratteristiche strutturali dell'economia americana, e non con

qualche accidente temporaneo di percorso; alle origini della crisi poteva essere posto con altrettanta legittimità l’intero modo di vita che l'America aveva scelto di praticare. É in questo senso che i tratti più significativi dell’h0mz0 americanus vengono indicati come cause neppure tanto remote della crisi: la mancanza del senso della misura, il disprezzo per i legami familiari, la concezione strumentale del lavoro, l’identificazione della felicità con il consumo, l'ottimismo stolto, la fiducia in se stessi, la convinzione (anche se smentita dai fatti) che

il campo delle possibilità di riuscita fosse ancora illimitato.’ Proprio grazie a questo, cioè all’identificazione delle cause della crisi con l’azzerican way of life, la crisi poteva essere salutata, come da più parti venne fatto, come apportatrice di verità, come rivelazione della malattia nascosta della civiltà americana che si nascondeva dietro la prosperità e il benessere. Alfredo Signoretti affermava che il 1929 era valso a smentire le numerose diagnosi sulla fine del Vecchio Mondo,e in generale a infrangere un atteggiamento europeo nei confronti dell’ America che andava dalla sudditanza psicologica all’ammirazione. Scriveva: «Si erano presi gli Stati Uniti come modello di vita economica e spesso morale e famigliare; l'ottimismo di

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Capitolo ottavo

Li ; }

quei giovani biondi pieni di attività e di giovialità sembrava invulnera- | n bile.» ?! In modo ancor più pungente, «il Doganiere» si pronunciava | per il carattere positivo che la crisi possedeva: se fosse continuata, |

sosteneva, avrebbe consentito la nascita, sulle ceneri della barbarie | americana, di una vera civiltà, non meccanica ma umana.”

La crisi del ’29 era diversa da tutte le altre perché la massa della | produzione non era diminuita parallelamente al numero degli operai licenziati, perché, in altri termini, aveva «carattere permanente».

Anche secondo Giulio Alimenti i suoi meriti erano grandi, visto che aveva sfatato la leggenda (condivisa dagli stessi disoccupati) «che chiunque lo voglia può divenire ricco», mentre più dura a morire restava la convinzione che la prosperità sarebbe ritornata nel breve volgere di qualche mese. «Ma sarà ben difficile - notava ancora Alimenti esprimendo un’idea assai diffusa — convincere gli americani che la loro eccezionale “prosperità” fu soprattutto l’effetto della guerra europea. »?

La crisi (che si era estesa dall'economia alla politica, fino giungere la morale) non presentava solo aspetti patologici ma molti lati positivi, poiché riequilibrava il rapporto fra valori riali e valori spirituali, riorganizzava l'economia mondiale (e

a raganche mateprima

di tutto quella nordamericana) in senso corporativo, e smentiva l’as-

surda teoria secondo la quale la civiltà americana sarebbe stata il culmine degli sforzi dell’umanità dalla Grecia in poi. Lucio Ingianni scriveva: «La sollazzevole storiella posta recentemente in circolazione sul trasmigrare del fulcro della civiltà da Oriente ad Occidente, sulla direttrice Atene, Mosca, Parigi, New York non poteva essere più clamorosamente smentita.»

Sul perché la crisi avesse questo carattere positivo, salutare, le opinioni non divergevano di molto. Per Mirko Ardemagni era il modo perché l’America ritrovasse un senso della vita più umano abbandonando la sua «morale edonista»: in questa direzione, la crisi era utile soprattutto al paese in cui si era scatenata con violenza maggiore. Dava,

dell’ America precedente la crisi, un'immagine di materialismo, di vita convulsa senza scopi più alti del benessere economico: il 1929 giungeva come una redenzione, e si ispirava a quelle virtù che gli immigrati italiani in quel paese avevano coltivato da sempre, formando una specie di cattiva coscienza del paese della prosperità e degli sprechi.” Scriveva:

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L'America, travolta dal progresso economico, aveva quasi dimenticato le ragioni di vita dell'umanità. Le folle, avventuratesi nei solchi della prosperità, affascinate dal miraggio dell’oro e dal sogno dell’abbondanza, avevano corso affannosamente, negli ultimi cinquant’anni, alterando l’ansito dei loro polmoni, abbandonando il bagaglio inutile delle tradizioni, saltando gli ostacoli della morale, dimenticando la loro stessa natura. La corsa era diventata fine a se stessa.36

Per «il Doganiere», la crisi aveva riaggiustato uno squilibrio, aveva

ridato senso della misura e delle economie necessarie a uomini che lo avevano perduto. Con una espressione ripetuta a iosa in quegli anni, Alfredo Signoretti affermava che il ’29 era stato salutare perché aveva mostrato che «indietro non si può tornare». Ciò che la crisi si lasciava alle spalle era il capitalismo individualista: questo era anche ciò che faceva tutta la difficoltà del tentativo di Roosevelt: «A noi sembrò — spiegava Signoretti — che il sistema di Roosevelt muovesse verso delle realizzazioni teoricamente giuste in un ambiente pregno della mentalità capitalistica.» E mentre gli Stati Uniti da un lato e l'Unione Sovietica dall'altro rappresentavano le esperienze più interessanti che si svolgevano sulla scena mondiale (visto che sfocia-

vano nel fascismo, secondo una interpretazione che prenderemo fra breve in esame), era con parole crude che si doveva ricordare il recente passato capitalistico americano: Ebbene, la Repubblica stellata è più interessante oggi che non ieri quando col dominio del dollaro dettava costumi e opinioni; il suo materialismo informe, brutale, che passava dall’autocrazia plutocratica allo schiavismo ci era repugnante; oggi ascoltiamo

voci di nobiltà umana che accompagnano un colossale sforzo di rinnovamento.??

Ma la sensibilità si acuiva quando la crisi veniva messa in relazione con i valori di tutta una civiltà, quando la correlazione fra crisi del 29 e moralità pubblica e privata diventava quasi un automatismo, — quando da un evento che segnava davvero un’epoca si traevano conclusioni che esulavano per gran parte dal campo più propriamente economico. L'immagine della crisi come apportatrice di salvezza morale, come svelamento agli altri popoli degli equivoci e delle debolezze dell’impero americano, immagine, come si è visto, così diffusa, non sarebbe però comprensibile senza la concezione dell’ America come barbarie del comfort, senza l’identificazione degli ideali americani con

il basso materialismo, senza il binomio «demos e oro» a indicare la

natura di quel paese, senza la contrapposizione tra la forza e l’eroismo

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Capitolo ottavo

delle nazioni proletarie e la gretta avidità dei popoli ricchi, senza la denuncia di un imperialismo americano che si dirigeva sull’orientamento dei pensieri e delle opinioni, senza tutti i temi, insomma, che caratterizzavano l’antiamericanismo degli anni trenta. Come spiegare altrimenti che una crisi economica fosse letta in termini di «una vera e propria rinascita, dal punto di vista morale più che da quello materiale», come acquisizione di «una più viva e forte coscienza sociale», «un più profondo criterio di responsabilità umana»? ‘° È difficile farlo se si trascura la considerazione della civiltà americana come una aberrazione nella storia, come la quantità senza la qualità, il regno dei grattacieli e dei nuovi barbari, e, soprattutto, se non si tiene ben

presente la paura collegata a queste immagini: quella dell’americanizzazione dell'economia e dei costumi europei. Qualcuno, anche

all’epoca di queste riflessioni, aveva ben chiaro questo legame: ricordando il periodo in cui «il futuro aveva nome America», definiva positiva la crisi del 29 perché «salvò l’Europa dal diventare schiava dell’imperialismo economico e morale americano».*!

Capitolo 9 Americanismo e bolscevismo

Prenderemo ora in esame una doppia serie di somiglianze che venivano stabilite in quegli anni dai critici della civiltà americana: da un lato quella che portava ad affermare che la Russia era diventata uguale all’ America, dall'altro quella simmetrica che conduceva a dire che l’America assomigliava sempre più alla Russia. Sarebbe errato considerare le due serie di somiglianze come identiche fra di loro. Nel primo caso, infatti, ciò che si voleva sostenere era che la Russia so-

cialista aveva adottato proprio quel modello di sviluppo — l’americanismo — che l’Europa cercava di evitare con tutte le sue forze: non poteva dunque rappresentare un’alternativa plausibile al fascismo, o ad una via di sviluppo «europea»; nel secondo caso, invece, ciò che si voleva evidenziare era la formazione, nel paese dell’individualismo per eccellenza, di un collettivismo che proveniva dalle cose stesse, dal sistema industriale unito alla democrazia politica, un collettivismo che non poteva essere definito politico, ma piuttosto sociale. Sono due parallelismi, questi, che potrebbero essere rintracciati anche altrove e che, per l’Italia, sono stati analizzati talmente poco da far affermare a più di uno studioso che le sole somiglianze proposte dal regime fascista erano quelle con il New Deal da una parte, e con la Russia rivoluzionaria dall’altra. Ma è un classico caso in cui la mancanza di sensibilità per un tema porta a sottovalutare tutti gli argo‘menti che parlano in suo favore. Che l’avvicinamento con il New Deal e con la Russia rivoluzionaria sia stato avanzato e sostenuto dal regime fascista è indubbio. Quello che è altrettanto certo è che non era il solo.

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Capitolo nono

Il dibattito su «Roma o Mosca» (che divenne lo spunto per soste-

nere la tesi di «Roma e Mosca») occupa infatti solo una fase del decennio in questione. In questo caso, quando venivano enfatizzate le somiglianze fra i due regimi che avevano compiuto delle rivoluzioni popolari e antiborghesi, l’America non mancava di essere ricordata come l’incarnazione della conservazione su scala mondiale, come un

esempio di capitalismo esecrabile unito al sistema di libertà formali più ipocrita che ci fosse: quello che faceva leva sul diritto di voto (considerato del tutto inefficace) e su un insieme di principi che avrebbero dovuto tutelare la libertà di ognuno pur senza sancire le modalità della partecipazione attiva alla vita pubblica. Ma all’immagine dell’Unione Sovietica rivoluzionaria si affianca dapprima, e si sostituisce poi, l’immagine ben diversa della rivoluzione che non ha cambiato niente, che, anzi, ha imposto con la forza un passaggio accelerato al capitalismo, che ha preso a modello l'esempio americano. Il socialismo assumeva sempre più i tratti dell’americanismo: veniva così a cadere l’alternativa comunista al mondo occidentale (o al fascismo),

in una omologazione che non riguardava solo l'Europa «cosiddetta liberale» e le due grandi potenze nemiche (America e Russia), ma anche il Terzo Mondo che, industrializzandosi, perdeva la sua diversità. Questo accadeva, per chi ragionava in questi termini,! per una caratteristica che accomunava tutto il mondo industrializzato, mecca-

nico, in cui regnava sovrana l’economia: che fosse comunista o liberale, arretrato o sviluppato, quel mondo era segnato da tratti identici che, ovunque, davano luogo prima o poi a una modernità intesa in senso qualitativo e non cronologico. Dove la modernità aveva seguito uno sviluppo esemplare, come in Europa, le sue tappe potevano essere ricostruite: i germi della dissoluzione avevano prodotto la Rivoluzione scientifica, la Riforma protestante, il Rinascimento; sviluppandosi, avevano dato luogo alla Rivoluzione francese. La democrazia, il liberalismo, il comunismo, si ponevano in un’ideale continuità con

essa. Il mondo «moderno» sceglieva la quantità contro la qualità, il terreno contro il celeste, il profano contro il sacro (ci torneremo fra qualche pagina): in questa sede è sufficiente sottolineare che una caratteristica essenziale di esso era ritenuta la scelta a favore dell’industria, della produzione di massa, del benessere materiale considerato

come sinonimo di felicità. Due ottimi esempi di esso si trovavano uno a Est e l’altro a Ovest, uno fra i grattacieli di New York e l’altro

Americanismo e bolscevismo

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fra le steppe del Caucaso, uno nell’americanismo e l’altro nel bolscevismo. Il fordismo adottato dalla Russia dei piani quinquennali è un problema che è stato discusso dai contemporanei e in sede storiografica; gli autori di cui parliamo davano tale adozione per scontata, e ne approfittavano per ribadire una loro convinzione: quella che ovunque il seme della modernità si impiantasse, nasceva un mondo dalle caratteristiche prevedibili e sempre uguali. Il mondo della scelta produttivista diventava così il regno dell’assoluta omologazione, a dispetto di ogni differenza di tradizioni o di regime politico. Le differenze di tradizioni e di regime politico si rivelavano ininfluenti anche nel caso del parallelismo simmetrico, quello che sosteneva che l’America stava diventando sempre più simile alla Russia. La tesi di questa vicinanza è più inattesa, e anche più ignorata dalla storiografia. Nello studio dell’antiamericanismo degli anni trenta essa si rivela invece di grande importanza, non solo quanto a presenza nelle discussioni sull’argomento, quanto per il suo ruolo interpretativo nei confronti della realtà americana. Il motivo per il quale si tende in generale a trascurarla è che oggi non verrebbe più in mente a nessuno di cercare nella Russia sovietica un esempio clamoroso di collettivismo sociale: lo si indicherebbe piuttosto (basti pensare al Marcuse di L’uomo a una dimensione) nelle società liberali sviluppate, senza bisogno di ulteriori riferimenti. In altri termini, mi sembra che il concetto di società dei consumi, di sistema totalizzante che condiziona

pensieri e comportamenti in modo soft, si sia talmente affermato dagli anni sessanta in poi, da aver perso la necessità di rimandare a qualcosa che gli stia fuori per renderlo comprensibile: oggi è più facile non riuscire a capire la specificità di paesi che non hanno (o non hanno ancora nella stessa misura) tale consumismo e tale omologazione so-

ciale. Può accadere perciò che, studiando un’epoca che non conosceva invece queste realtà in modo altrettanto netto, si sia portati a pensare che il parallelismo dell'America con il collettivismo russo non fosse che uno dei tanti strumenti polemici utilizzati contro quel paese, mentre quel parallelismo indica qualcosa di più e di diverso. L’identificazione dell’ America con il regno dell’individualismo è presente, e svolge anch'essa un ruolo nell’antiamericanismo perché consente di trasformare la patria della libertà nel paese della concorrenza sfrenata, della lotta per la sopravvivenza che non si cura di senso dell’umanità e solidarietà sociale. Ma quella identificazione svolge tutto

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Capitolo nono

sommato un ruolo secondario rispetto al rovesciamento di quella immagine e alla presentazione di un’ America illiberale perché consumistica, nella quale la libertà individuale si perde proprio in grazia dei meccanismi che ne hanno assicurato fino a una certa data la manifestazione: una stampa libera, la libertà di parola, il grande peso dei mezzi di comunicazione di massa non più nell’espressione delle opinioni ma nella formazione di una identica opinione pubblica. Il conformismo uccideva la democrazia, la società dei consumi distruggeva le differenze fra uomo e uomo, i beni prodotti in serie uniformavano gusti e comportamenti come i giornali e i partiti uniformavano le menti. L’America si avviava a diventare una grande caserma, una fabbrica di esseri tutti uguali, come la Russia aveva cercato di fare fin dall’inizio con le armi dell’ideologia e dell’indottrinamento politico, dell'imposizione di un partito unico. I mezzi che usava il collettivismo americano erano, se si vuole, ancor più pericolosi, poiché non prevedevano la coercizione né la sofferenza: era la situazione del benessere soddisfatto che creava le condizioni per rinnegare nei fatti la libertà individuale e le caratteristiche che fanno diverse le persone le une rispetto alle altre. Nella migliore delle ipotesi, la democrazia americana centrata sull’individuo si rivelava falsa: se cioè non era inesistente, si dimostrava

una maschera al duro gioco del capitalismo, una serie di convenzioni pittoresche ma del tutto staccate dai reali meccanismi della società. Quando l’America si rendeva conto dei suoi errori, quando cedeva all'evidenza della crisi del capitalismo, quando riteneva che la libera concorrenza fosse un sistema troppo spietato (oltreché inefficace), essa si volgeva al fascismo e cercava di imitarlo. Le somiglianze fra corporativismo e New Deal, che sono state ben esaminate da altri punti di vista,” possono essere lette anche in questo modo. Comunque, questa è l’unica prospettiva dalla quale leggeremo tali somiglianze, che rimandavano perlopiù a un’immagine positiva dell’ America. Iniziamo a documentare il primo senso dell’identificazione fra Russia e America, il versante cioè che affermava che l'Unione Sovietica aveva adottato l’americanismo. Chi sosteneva quella tesi, come Sergio Panunzio, sottolineava «il delirium tremens della pazzia economica, tecnica, industriale e meccanica» che aveva afferrato la Russia, la «religione della materia» che vi veniva professata, «il più gretto positivismo e il più spietato materialismo» che vi regnavano, portando

Americanismo e bolscevismo

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all'annullamento delle differenze fra capitalismo e comunismo: «gli uomini sono macchine; il branco ammazza l’individuo; il cimitero del-

l'uniformità tutto oscura e deturpa». Panunzio scriveva: «In Russia non si va che verso la religione, la idolatria della grande fabbrica. Stalin e Ford si equivalgono e si danno la mano.» ?Questo bastava a distinguere il fascismo dai due «fratelli nemici» di cui uno era la faccia nascosta dell’altro. Massimo Scaligero opponeva infatti il fascismo al «barbarismo sovietico-americano», e basava l’uguaglianza dei due paesi sul fatto che entrambi si rivelavano essere due civiltà meccaniche che privilegiavano la materia contro lo spirito, il collettivo contro il personale, la superstizione contro la conoscenza. D'altra parte, anche chi considerava la rivoluzione sovietica un esempio valido come quello italiano, ci teneva a distinguerle entrambe dal modello americano, fatto di economicismo e di uomini macchina, per esaltarne gli aspetti di rottura con le tradizioni democratico-liberali e di primato della politica sull'economia: è quanto faceva Bruno Spampanato, che osservava come solo quelle due rivoluzioni avessero risolto i problemi di una democrazia nuova, di contro alla dittatura mascherata da democrazia che la borghesia aveva esercitato nel corso dell'Ottocento.’ Tutti gli articoli citati finora si inserivano nella discussione su «Roma o Mosca» alla quale si faceva riferimento. All’intervento di Panunzio rispondevano due numeri dopo Luciano Ingianni e Riccardo Fiorini: per il primo Panunzio giungeva ad abolire le differenze tra Roma e Mosca per alcuni errori nella valutazione del fascismo e della rivoluzione; ° per il secondo Roma e Mosca avevano in comune più punti di contatto di quanto non si pensasse, il comunismo russo aveva fini non dissimili da quelli fascisti e l'evoluzione dei due regimi andava parallela.” Se nella tesi «Roma e Mosca» l'America svolgeva il ruolo di esemplificare ciò che quelle rivoluzioni si erano lasciate alle spalle, nella tesi «Roma o Mosca» l’identificazione fra Russia e America all’insegna di un capitalismo mascherato, del produttivismo e della civiltà materiale dispiegava tutti i suoi argomenti.* Nel corso della polemica, infatti, Spampanato doveva intervenire ancora, per osservare: «L'Unione Sovietica applica rigidamente, con l’intransigente e

superba ostinazione che hanno le rivoluzioni, tutti i precetti dell’industrialismo più spinto.» Nonostante le somiglianze con la rivoluzione fascista, lo scivolamento della Russia socialista sul modello americano

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Capitolo nono

denunciava la presenza di un errore di fondo, che faceva ricalcare ai sovietici i passi già compiuti dai regimi liberaldemocratici, dal capitalismo nella sua affermazione storica: «Lo Stato della Russia (...),

alla quale una torbida e frammentaria civiltà di importazione non permise il compimento di un processo formativo della società, tenta di iniziare il suo Regime dalla fabbrica, cercando di trovarvi un nocciolo di fusione, un principio di vita. Errore.»? Queste convinzioni avranno un largo seguito: nel 1932 Amerigo Ruggiero si soffermava ad analizzare «l’industrializzazione totalitaria della Russia», il cui regime veniva definito come «una forma di capitalismo di Stato». Si realizzava in quel paese una vera e propria americanizzazione alla quale gli Stati Uniti rispondevano con entusiasmo.

Ruggiero affermava: «La parola d’ordine nella Russia d’oggi è: 47ericanizzazione. Si studiano sistemi americani, si copiano le organizzazioni americane, si assorbono idee americane.»!° I fini del comu-

nismo si confondevano con il miraggio di una vita a tenore elevato come quella dell’operaio in America.!! La rivoluzione si era trasformata nel piano quinquennale, e realizzava le sue mete di rapida industrializzazione, di produzione in serie e di collettivizzazione attraverso «l’instaurazione dell’americanismo». Come scriveva A.,Fassio nel 1933: «Adottare per il Piano i metodi produttori dell’ America — il paese capitalisticamente più progredito — voleva dire per i sovieti superare tecnicamente il capitalismo mondiale e dimostrare la superiorità sociale delle teorie bolsceviche.»! Per chi osservava le realizzazioni sovietiche senza essere simpatetico con esse, si trattava

invece o di una contraddizione inspiegabile o di un destino. Francesco Flora si situava sulle posizioni (in fondo più benevole)

della contraddizione; parlando della passione per la macchina che sembrava aver afferrato tutta l’architettura contemporanea, scriveva: Non dico della Russia, che si accinge a oltrepassare il macchinismo americano con imprese titaniche, giacché pare che lo stato di natura egualitario al quale tende la grandiosa passione russa si accompagni col romanticismo della macchina, che è stata la vera origine della ineguaglianza sociale, se si deve credere a Rousseau e ai suoi eredi.!3

Sulle posizioni del destino stavano invece coloro che, come Tomaso Napolitano, esprimevano la convinzione che presto o tardi la rivoluzione internazionalista avrebbe ceduto il posto alle preoccupazioni di politica interna, e si sarebbe rivelata per quel che era: nient'altro

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che un produttivismo con una facciata diversa, come era da aspettarsi in un paese che voleva essere industriale e che non aveva il coraggio di allontanarsi in modo sostanziale dalla concezione borghese dell’uomo e della sua felicità.! La tesi del destino poteva essere una semplice variante di quella che leggeva l’americanismo russo come un’astuzia della ragione: nonostante le petizioni di principio sovietiche che volevano la Russia un’alternativa al mondo occidentale, il

comunismo si rivelava in perfetta continuità con il capitalismo, e meno che mai poteva dunque essere proposto come via d’uscita dai regimi liberali e borghesi, visto che era un ennesimo esempio della capacità camaleontica di quelli. Quando queste tesi diventano correnti, le interpretazioni che vedevano una qualche vicinanza fra Roma e Mosca sono state abbandonate, ed emerge piuttosto una critica liquidatoria dell'esperimento russo. Il programma comunista era fallito, e il fatto che la Russia fosse il terzo paese possessore d’oro lo dimostrava a sufficienza.” Gastone Silvano Spinetti scriveva nel 1936: I «profeti» della Rivoluzione russa sorta dall’esasperazione dell’estremismo classista — non riuscendo a discostarsi dal concetto naturalistico-utilitaristico della vita, proprio del mondo capitalista - considerano ancora l’industrializzazione e la meccanizzazione come la chiave di volta del loro esperimento reazionario.!6

Felice Chilanti osservava nel corso dello stesso anno: «Il comunismo non aveva torto di accusare il capitalismo d’aver portato i lavoratori sul piano del /avoro merce; ma il fascismo, mentre ripete l'accusa al capitalismo, non può non constatare che nel regime dei sovieti il lavoro merce è stato sostituito dall’uorzo macchina.» ! Il mito della Russia a questo punto‘è caduto completamente: la rivoluzione non fa che riprendere il peggio della tradizione occidentale: l’industrializzazione forzata, la deificazione dell’uomo come oggetto economico, la sempre maggiore produttività del lavoro, la razionalizzazione, le disuguaglianze economiche. «L'uomo - scriveva Chilanti — non poteva precipitare più in basso.»!S Si poteva assistere così a un duplice scivolamento: per un verso il bolscevismo si rivelava un «supercapitalismo di Stato», e, sul piano internazionale, «il comunismo sovie-

tico è la pattuglia di punta — o meglio la retroguardia - della barcol-

lante reazione democratica mondiale al fascismo». Per l’altro verso, invece, era la democrazia che correva nelle braccia del bolscevismo,

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dopo aver rivelato il suo vero volto di dittatura della classe che detiene il denaro. Giulio Fettarappa-Sandri scriveva nel 1938: Come la «democrazia» è l'etichetta sotto la quale si celano la dittatura di una classe, quella borghese, e l’onnipotenza di un solo fattore, il denaro, così sul piano internazionale essa rappresenta, con il suo tipico prodotto ginevrino, il tentativo di perpetuare l'egemonia prevalentemente economica, non eroica quindi ma materialista, delle nazioni ricche di oro e di materie prime. Non può quindi stupire che la democrazia sia l’anima della reazione antifascista e che il terrore della rivoluzione mondiale incombente la spinga a cercare, mettendo in gioco la sua stessa esistenza, l’alleanza aperta del bolscevismo.!9

G. Farina d’Anfiano affermava già nel 1930 che, se l'America era uguale alla Russia per la sovranità popolare, la Russia era d’altra parte il perfetto compimento dell’ America.?° Anche la crisi economica mostrava la caduta delle antitesi fra capitalismo e comunismo. Alfredo Signoretti sosteneva nel 1932: Di là dall'Oceano cadono i miti dell’industrialismo portato alle sue estreme conseguenze collo spopolamento delle campagne e nell’Eurasia il piano quinquennale già sterile nei suoi risultati industriali è logorato alla base dalla tragica situazione agricola che minaccia lo spettro di nuove carestie come quelle del 1920.?!

Qualcuno metteva invece l’accento sull’aspetto di giovinezza in-

colta che entrambi i paesi possedevano rispetto all'Europa. Domenico Rosati scriveva nel 1933: Ambedue sono giovani e nuovi ai cimenti della civiltà, senza tradizioni e senza legami con l'Europa; ambedue sono popoli primitivi e perciò per natura estremisti, facili all’ottimismo ed al pessimismo, alla violenza ed alla remissività, ambedue occupano una vastità d’impero che invita ai sogni, alle grandi rivolte ed alle grandi missioni. Nella rozza democrazia sociale della vita sovietica, nella diffusa convinzione che l’uomo del popolo è non solo uguale all’uomo di cultura e di prestigio sociale, ma spesso migliore, c’è lo stesso spirito della democrazia americana che ha sempre dato al mediocre uomo del popolo un vantaggio sull’uomo colto e di casta nei posti della vita politica più vicini al controllo ed alla volontà popolare. Ad ambedue manca il caldo scetticismo che è la caratteristica delle civiltà vecchie e che è il più forte ostacolo alle innovazioni?

Altri ritenevano che la similitudine fra l’America e la Russia derivasse dalla loro comune partecipazione al mondo materiale e spirituale della borghesia, dalla fede che entrambe professavano nella civiltà moderna.

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Felice Chilanti affermava: «Il liberalismo ed il comunismo sono (...) i due fenomeni tipici dell’epoca borghese.» ?? Se ci volgiamo dunque all’altro aspetto della somiglianza fra i due paesi, quello secondo il quale l'America si avvicinava sempre più alla Russia, ci imbattiamo nella convinzione di Giuseppe Prezzolini che l'America stesse scivolando verso un «socialismo di Stato», come

quando, nel suo diario americano, scriveva (è il 13 giugno 1932): «Del resto, il comunismo si sta attuando un po’ per tutto, sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno abbia l’aria di accorgersene. »? Sono parole che richiamano molto da vicino quelle di Georges Duhamel sul «comunismo borghese»:? tutte le argomentazioni che tendevano a dimostrare l’esistenza sul suolo americano di un collettivismo sociale non meno oppressivo di quello sovietico andavano in effetti nella stessa direzione. Quella di Bruno Spampanato, ad esempio, che, notando i molti

punti di contatto che esistevano fra i due paesi, scriveva: «Il capitalismo è, in una parola, collettivismo (...) Fa coincidere il cittadino con l’uomo

economico (...), abitua le masse a una mentalità collettiva.» Oppure quella di Luigi Barzini junior che, ricordando il suo lungo soggiorno americano, metteva in rilievo l’esistenza di una universale classe media,

di un uomo stereotipato quale, per una civiltà fatta di contrasti ed eccentricità come la nostra, sarebbe pensabile solo da un astratto scienziato sociale. Riferendosi agli americani, affermava: «Tutti sembravano appartenere (...) a una universale classe media, persino i mendicanti per la strada, sempre educati e decentemente vestiti.» ?” La spiegazione che dava nel 1931 della volgarità americana nel vestire si colloca perfettamente in questa rivelazione del collettivismo americano del modo di vita; cercando di spiegare perché in America non era possibile una eleganza discreta, scriveva: «Come dove ognuno grida bisogna gridar forte per farsi ascoltare, così a New York bisogna sottolineare lievemente ‘tutto per non farlo scomparire.» Metteva in rilievo poi un altro tratto dell’omologazione sociale americana: nel paese che richiedeva dal lavoratore uno specialismo assai limitato, si creavano le condizioni perché si formasse una massa di persone senza alcuna opinione sulle questioni di ordine più generale, facile preda delle suggestioni di chi si fosse proposto di dirigere quella massa in una direzione o nell’altra. Il latino - affermava - non può comprendere questa disciplinata regolarità dispe-

rante. Ogni uomo con cui viene in contatto gli sembra, a prima vista, infantile, ma-

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leducato, incolto (...) L'America è una nazione di specialisti. E sopra a questa moltitudine docile e malleabile di gente preoccupata da una cosa sola si elevano quei giganti che riescono a dirigere la folla, che giocano coi suoi desideri, che le fanno riempire stadi, che le fanno masticare montagne di «chewing gum».??

Il fatto che non ci fosse (almeno per il momento) niente di dramma-

tico nell’azione di quei zzeneurs de foules non rendeva il fenomeno che un po’ più desolante. La massificazione rimandava poi all’altro fenomeno della solitudine, per cui, paradossalmente, il paese della più grande omologazione sociale era anche il regno del più grande distacco fra uomo e uomo.?° Il collettivismo americano era fatto di standardizzazione; il carat-

tere di barbarie attribuibile a tutta quella civiltà era dato dunque dall’unione dell'abolizione delle differenze fra i vari prodotti, con il cattivo gusto, prerogativa dell’ America secondo tutti i suoi critici. Adriana Dottorelli, molto attenta agli aspetti del modo di vita americano e meno sensibile alle questioni sociali e politiche, osservava nel 1933: Le vetrine a cristalli ampi e scintillanti offrono alla nostra curiosità un vasto assortimento di cose standardizzate al cento per cento: guanti verdi, cravatte gialle e rosse con disegni esilaranti, scarpe pesanti e quadrate, e dolci variopinti, molto belli a vedersi, ma immangiabili. Ciò che vediamo a New York, lo vedremo ancora in ogni città degli Stati Uniti.?!

C'era chi arrivava a parlare di propaganda «collettivista e bolscevica» che proveniva dall’ America; Edgardo Sulis scriveva: Qui non si parla di chiudere le porte ai colossi che fino a prova contraria dovrebbero vedersi anche dall’Italia, con tutta la barriera alpina di mezzo: si domanda se la propaganda sistematica di un verbo collettivista o bolscevico cui è giunta l’esasperazione di una civiltà meccanica, è permessa in Italia e nell’Italia fascista.3?

Un anno dopo, nel 1935, Sulis motivava la tesi dell’identificazione ormai completa fra americanismo e bolscevismo con lo statalismo, che a suo parere si era rafforzato in seguito alla crisi del ’29, e che trionfava a Est come a Ovest: «Il ’29 rinforza la tendenza: lo Stato, visto che l'individuo ha spremuto fino all’ultima goccia il limone della libertà economica e poi s’è ridotto sul lastrico, interviene in Russia diventando proprietario e in America farmacista.» Questo era possibile proprio dove l’individualismo aveva regnato sovrano fino al giorno

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prima: crollato il regime della libera iniziativa, l'individuo travolto nelle sue certezze più radicate cercava l’aiuto dello Stato aspettandosi da esso la panacea di tutti i suoi mali.? Dove invece - come in Italia - lo Stato era concepito non come un meccanismo ma come una forza spirituale, era impossibile sia la concezione liberale che vede nello Stato un nemico, sia l’abdicazione allo Stato di ogni iniziativa personale. L’ America, al contrario, e il mondo liberale in genere, oscillavano pericolosamente fra questi due poli, mentre lo statalismo appariva un destino quasi naturale della Russia. L’individuazione di una dittatura delle cose, di un collettivismo

sociale che nasceva nel paese più libero del mondo seguiva appunto di norma questo doppio binario: da un lato i provvedimenti rooseveltiani letti come l’ingresso dello Stato nell’economia, e più in generale il ’29 inteso come la fine del liberismo, dall’altro l'omologazione sociale sempre più estesa assunta come dimostrazione del fatto che gli effetti di una società industriale sono alla lunga liberticidi. Su questo secondo versante, ad esempio, si collocava la diagnosi di Valentino Piccoli, quando, nel 1932, sottolineava il livellamento sociale della civiltà americana, la crescente omologazione di pensieri e comportamenti: Babbitt poteva ormai essere considerato l’opera di un giornalista, la «cronaca della vita nordamericana quale gli si rivela giorno per giorno». «Questa tendenza all’uguaglianza esteriore e mentale» che rendeva Babbitt un nome antonomastico era stata quasi una strada obbligata dal melting pot, dalla fusione (che era necessaria) di razze e classi diverse. Ma ciò non la rendeva meno mostruosa: La mentalità «standard» è come un’enorme piovra che stende i suoi tentacoli su tutta la vita esteriore, imprigiona l’anima e la mente, e costringe le idee e gli atteggiamenti a uniformarsi a un tipo unico, allo stesso modo con cui i grandi stabilimenti meccanici producono i diversi pezzi di un’automobile secondo una sagoma ‘unitaria.34

Su questo versante si collocava anche Mario Soldati quando descriveva il regno del collettivismo americano prodotto dall'industria, che era contemporaneamente il regno della solitudine. Scriveva riferendosi agli alberghi americani: «Migliaia di finestre. Migliaia di celle identiche alla nostra. Ma quale solitudine!» La figura dei commessi viaggiatori che incontrava in treno lo spingeva a parlare di una solitudine macabra e di una spaventosa eguaglianza degli americani gli

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uni con gli altri, di una distanza minima che, forse proprio per questo, separava la normalità dalla follia omicida: «Trasudavano la solitudine, la sordidezza, l’aridità, l’astrazione: l’ultimo mendicante europeo era

più uomo.» Emilio Cecchi segnalava sia l’eccesso di individualismo (che peraltro considerava positivo) sia l'eccesso di uniformazione che caratterizzava la vita americana. Per il primo aspetto, era indotto a criticare il New Deal per gli stessi motivi per i quali in generale era esaltato; per il secondo affermava: «Come massa sociale, gli americani fanno spesso pensare alle pecore.» ? Contrapponeva all’origi-

nalità e alla libertà di opinione dei popoli mediterranei il conformismo americano: quello che si esprimeva nelle chiacchiere dal barbiere come quello che si manifestava nella riduzione del corpo femminile a un insieme di pezzi standardizzati, «come i pezzi che vanno al montaggio da Ford». L’uniformità era intensiva ed estensiva, spaziale e temporale, materiale e spirituale: alla bella differenziazione delle nostre piccole città corrispondeva la provincia americana, tutta uguale. All’«individualismo quasi nevropatico», al continuo invito all'avventura, faceva riscontro il tratto opposto dell’eguaglianza talmente spinta oltre

da possedere qualcosa di irreale. Cecchi scriveva: Pareva che, dalle tricromie delle riviste.di mode e dalle vetrine dei negozi, camicette e gonnelle fossero passate sui corpi, indistintamente, senza una grinza, con la loro eleganza anonima, impersonale. E anche i corpi, slanciati, elastici, di giusta misura, né grassi né magri, avevano un che d’astratto e di freddo: qualcosa che faceva pensare ai pomi, tutti identici, dello stesso colore, inodori, nelle mostre dei fruttaioli californiani.38

L’orrore per ia civiltà di massa, per la nascita della cultura di massa: gran parte dell’antiamericanismo degli anni trenta si lascia spiegare anche in questi termini. Comunque, quell’orrore spiega bene una reazione come quella di Margherita Sarfatti: la ricchezza messa così alla portata di tutti, come facevano gli americani, incarnava la sua «idea di un inferno moderno, efficiente e razionale». Scriveva: Il lusso economico, in serie, fra tutte le ipocrisie demagogiche, è quella che peggio mi ripugna (...) Se a me dessero incarico di prepararlo [l'inferno], l’organizzerei precisamente così, all’altezza dei nostri tempi, che non sono danteschi: una eterna, frenetica concupiscenza di materiali e meschine cose, dozzinali, senza luce di genuina bellezza, senza peso di verità intrinseca, perennemente a portata di mano, e perennemente rapinate nel gorgo di una moltitudine ugualmente travolta e impazzita per l’uguale cupidigia.

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Il «babbittismo» per la Sarfatti era la «standardizzazione della cultura», «l'uguaglianza conformista» e il «despotismo democratico», era il «dominio affettivo e sentimentale delle credenze e delle fedi»: non si potrebbe desiderare una descrizione migliore della dittatura che una civiltà di massa esercitava, attraverso la diffusione-imposizione di un cattivo gusto generalizzato, dell’uniformità delle opinioni, delle pseudoidee create dalla cultura di massa. Alla identificazione dell’ America e della Russia sotto il segno dell’industrialismo o di un oppressivo collettivismo sociale si aggiungeva la stretta parentela delle due teorie politiche che essi incarnavano, nel solco del preteso «smascheramento» della democrazia che le riflessioni sull’ America parevano invitare a compiere. «La concezione liberale della vita — scriveva ad esempio Amerigo Cerea nel 1938 — (...) oggi sembra trovarsi in identità dottrinaria col soviettismo; e non poteva essere altrimenti poiché la base di queste due dottrine è il materialismo e antistoricismo, il comune

denominatore:

l’individua-

lismo.» ‘° A questa identificazione conduceva l'osservazione di un «materialismo» che si era diffuso dopo la prima guerra mondiale, e che si esprimeva nella frantumazione dei valori, nel femminismo, nella

perdita del senso della tradizione: ma esso esisteva già da prima, ed era intrinseco alla «mentalità ottocentesca, liberaloide e decadente».

Lo si poteva considerare come un morbo sempre in agguato nell’Occidente. L’esterofilia (era già iniziata la campagna culturale autarchica) che mostrava di amare tanto il modello «liberalcomunistico» avrebbe dovuto rendersi conto di quanto, in realtà, esso fosse poco desiderabile, dal momento che il preteso regno della libertà si rivelava come libertà dell’arbitrio da parte dei più forti.‘! L’ America poteva apparire uguale alla Russia anche da un punto di vista più distaccato dai fatti e motivato in misura prevalente da convinzioni dottrinarie: questo accadeva se — come nel caso della rivista «Politica» — si credeva al‘l’esistenza di una linea che, senza soluzione di continuità, portava dal liberalismo al comunismo, dalla democrazia al bolscevismo, dagli

astratti principi di libertà e uguaglianza alla loro realizzazione (attraverso le tappe del parlamentarismo, dell’elettoralismo, del regime dei partiti) in un socialismo livellatore. Francesco Coppola, mosso da idee di questo tipo, affermava nel 1938: «Il presidente Roosevelt parla della democrazia parlamentare come del regime definitivo dell’umanità: la democrazia parlamentare, insegna invece la storia, non è che una tappa verso il bolscevismo, cioè verso la barbarie.»

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Chi, invece, era più attento alle manifestazioni della vita quotidiana in America, ai volti delle persone e ai vestiti che indossavano,

riteneva responsabili dell’aspetto che aveva assunto il paese «l’attività economica e la vita meccanizzata». Luigi Villari scriveva nel 1939: Tutto ciò produce (...) una certa monotonia nelle città dove tutto è standardizzato,

colle case simili, per lo più di legno, dall’Atlantico al Pacifico e dai grandi laghi al Golfo del Messico, e adorne di oggetti e suppellettili simili. La monotonia si riflette talvolta anche nelle idee e nei discorsi, essendo il genere di educazione e i giornali assai simili in tutto il paese.*

Se la civiltà complessiva dell’ America risultava un condizionamento oppressivo di idee e comportamenti, un lento scivolamento verso un vero e proprio regime comunista, ovvero (per i più pessimisti) uno

stato di fatto che non aveva niente da invidiare al comunismo in termini di collettivismo e uguaglianza forzata, la forma di governo della quale l’America tanto si gloriava come massima espressione della libertà individuale, del controllo da parte di tutti sulla gestione della cosa pubblica, della partecipazione della gente comune alla politica, si rivelava agli occhi dei critici come la copertura di interessi ben altrimenti reali, come la maschera ipocrita per i giochi senza scrupoli del capitale, come travestimento dell’economia che davvero faceva la legge. Si trattava tutt'altro che di una scoperta: questo «svelamento» era stato compiuto fin dalle prime analisi del pensiero socialista nell’Ottocento, e ripetuto fino ai giorni nostri. Quello che è più inconsueto è trovare, per uno di quegli inaspettati rovesciamenti delle dottrine politiche, questa tesi in bocca a collaboratori di importanti riviste fasciste, a inviati in America mossi da una forte ostilità nei con-

fronti di quel paese, a osservatori delle cose americane certo non esperti di analisi teoriche. Appare di nuovo quella utilizzazione degli strumenti per interpretare la realtà che provengono dalla tradizione socialista, dalle posizioni più caratteristiche del marxismo sulla questione delle libertà formali e del liberalismo, che abbiamo sottolineato a più riprese. Quello che appare sempre più chiaramente è che nei confronti dell'America potevano essere poste in gioco due serie diverse di critiche. Visto che si trattava del paese che era contemporaneamente il prototipo del capitalismo e della democrazia, ci si poteva richiamare sia alla critica tradizionalmente compiuta dalla sinistra della realtà

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| del capitalismo e dei suoi mali, sia alla requisitoria contro la democrazia che poteva provenire indifferentemente dalla destra o dalla sinistra (talvolta con l’utilizzazione degli stessi argomenti), con in più le argomentazioni portate contro il macchinismo da quell’anticapitalismo romantico che sarebbe sbrigativo etichettare in un modo qualunque. È notevole registrare che, dei due attacchi possibili alla dedi preferenza quello che inmocrazia, l’antiamericanismo li dichiamo per intenderci come «di sinistra» (svelamento del ruolo di copertura del capitalismo che svolge la democrazia) rispetto a quello «di destra» che al regime del numero avrebbe potuto opporre aristocrazie ed élites. Le argomentazioni di questo tipo svolgevano una funzione più importante nella critica dell'America come civiltà di massa. Se torniamo alla critica che in questo momento ci interessa, tro-

viamo Alberto O. Olivetti dichiarare che la libertà liberale aveva da sempre funzionato da copertura di interessi economici assai più consistenti: nella migliore delle ipotesi, la teoria politica era venuta dopo. Scriveva nel 1930: La libertà proclamata dal capitalismo nel campo politico come in quello economico non fu invero il resultato di un atteggiamento spirituale o di conclusioni filosofiche e moralistiche, ma ebbe come sfondo interessi concreti, escogitati da una mentalità mercantile e finanziaria (...) L'economia liberista prese in esame l’uomo, ma non

l’uomo reale nella sua complessità psicologica e storica, ma l’uomo econorzico; ossia la parte per il tutto, ragionando su la parte come se fosse il tutto.44

Giulio Alimenti presentava la democrazia come oppressiva tanto all’interno quanto nella politica internazionale: Non vi sono oggi — affermava — che nazioni della più «pura» marca democratica che esercitano un potere imperialista, tirannico, oppressivo, dissanguatore, su altri popoli. E non v'è che la democrazia che tenta d’interferire negli affari interni dei popoli liberi. E ciò si chiama libertà (...) La forza, lo strumento, l’essenza della democrazia moderna, sono la plutocrazia, la corruzione e l’ipocrisia. Essa è protettrice e suscitatrice di tutti i vizi, ammalata, fradicia sino alla midolla, e sta ammorbando l’umanità. Sia come regime interno che nei rapporti fra i popoli, si rende tutti i giorni più insopportabile e malefica.

Antonio Marinoni sosteneva la stessa tesi quando esprimeva i suoi

dubbi sul fatto che il governo della cosa pubblica fosse davvero l'emanazione della volontà popolare. Si chiedeva: «Ma in sostanza

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questa benedetta volontà popolare è talmente ligia, per necessità di cose, agli interessi del capitalismo, che è una mera illusione credere che il responso delle urne in una elezione presidenziale sia un barometro esatto della coscienza politica del popolo.»‘° Era in conseguenza di posizioni come queste che poteva essere ipotizzato un «ravvedimento» della coscienza politica americana tale da avvicinare la forma di governo di quel paese a sistemi come quello fascista, abbandonando il regime parlamentare che si rivelava incapace di padroneggiare meccanismi sociali sempre più complessi.‘ L’interpretazione «positiva» del New Deal come imitazione del fascismo italiano deve tener conto anche di questa prospettiva di lettura, che si richiamava infatti alla interpretazione della crisi del ’29 come provocata da quell’individualismo di facciata.'*# Ernesto Brunetta affermava che l’America era il regno dell’bomo bomzini lupus: Nella vita privata l'individuo economicamente forte possiede armi che gli consentono la più sfrenata libertà (...) Lo Stato non sa difendersi dagli speculatori politici e dal ring. In materia economica è indifferente, ma si piega a pochi esponenti della finanza e dell’industria. La giustizia, pur ammettendo l’eguaglianza delle pene, si lascia corrompere.

A questo individualismo senza limiti che si rovesciava in arbitrio era da addebitare il fenomeno della «ricchezza pletorica accumulata nelle mani di pochissimi», e la crisi del /zissez faire: «Sotto alla crisi americana stanno la prepotenza dell’imprenditore (...), l’imprevidenza della banca (...), la speculazione della borsa», cioè l’azione di ognuno in favore del suo interesse esclusivo senza nessuna forma di superiore armonizzazione degli interessi.” Sotto la tesi della democrazia americana come «falsa democrazia» vanno collocate anche le osservazioni di viaggiatori occasionali e assai poco motivati politicamente, come era il caso di Lorenzo Piazza: egli riconduceva la democrazia all’egoismo ipocrita, il laissez faire alla vittoria inevitabile dei più potenti (come ad esempio della pubblicità che finiva sempre con l’imporsi), il sistema parlamentare a una realtà fatta di «intrigo politico», «movimento dei facinorosi», «giuoco indegno dei capitali». Scriveva: «Libertà? Giustizia? Diritto delle genti? Tutto un ipocrita paravento di chiacchiere, tutto un giuoco indegno

d’egoismi, avvalorati, questo e quello, dalla violenza e dall’arbitrio,

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che si nascondono sotto la maschera delle così dette leggi civili e delle così dette convenzioni sociali.»?® Sotto la tesi della «falsa democrazia» si collocavano anche, in modo

più ovvio, gli osservatori più politicizzati della realtà americana, come era il caso di Giovanni Fontana: a suo parere, il principio democratico per eccellenza dell’uguaglianza dei cittadini, se inteso in senso giuridico-politico (e non in senso sociale, nel qual caso si sarebbe avuto solo un collettivismo livellato verso il basso), sembrava realizzarsi perfettamente nell’Italia fascista, e solo con molte difficoltà e manche-

volezze in America. Su questa tesi, nella varietà delle sue sfumature, molti dovevano concordare, e farne un elemento non trascura-

bile dell'immagine negativa dell'America. L’identificazione dell’ America con un individualismo attivo e intraprendente era dunque scomparsa? In un inventario dell’argomento, seppure non completo, saremmo tentati di rispondere con un sì deciso, se si ha in mente un’immagine di libertà e autoaffermazione individuale. Ma sarebbe improprio affermare che, in una forma o nell’altra, l’idea dell’individualismo come correlata all’ America in modo

forte fosse scomparsa. Si può sostenere proprio il contrario, se solo si ripercorrano tutti i testi dell’epoca che parlano di «sfrenata concorrenza», di «esasperato individualismo americano», di «visione contrattualistica della società», di «concezione meccanica, quantitativa,

materialistica», di «regno democratico delle moltitudini anonime», di «Vecchio Mondo degli astratti principi», di «agghiacciante amoralità» a proposito della mancanza tipica dell’ America di senso sociale, dell’«individualismo più anarchico e avventuroso», del «mito delle opportunities», di «liberalismo assoluto». Ma, appunto, basta tener presente che si tratta di un individualismo definito «in una forma o nell’altra»: nella fattispecie, offerto comunque come caratteristica negativa dell’ America. Nel settore di opinione che abbiamo preso in esame, l’identificazione dell'America con l’individualismo, quando

veniva proposta, aveva dunque le caratteristiche di una critica serrata. Più spesso, però, essa lasciava il posto a un giudizio di segno esattamente rovesciato: lo sviluppo dell’industrialismo e l'applicazione sistematica dei processi di razionalizzazione creavano le condizioni perché la standardizzazione uscisse dalle fabbriche e si estendesse ai modi di vita, agli stili di pensiero, alle personalità. Prendeva forma cioè l’idea che, se individualismo c’era nella civiltà americana, questo

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si era rovesciato in un collettivismo esistenziale, nell’uniformazione

universale, nel comunismo livellatore degli stessi beni offerti a tutti nello stesso modo. A questa convinzione che caratterizzava in generale l’antiamericanismo europeo del periodo se ne affiancava una seconda, di tipo diverso: gli osservatori italiani notavano che l'America godeva solo apparentemente dei vantaggi (presunti) di un sistema liberaldemocratico, poiché di fatto — come abbiamo visto —- era governata (e tirannicamente) dall’apparato dei partiti, dalla stampa quotidiana che decide dell’opinione pubblica, dal sistema dei mass media che in realtà condiziona ogni scelta. In due occasioni queste osservazioni si fecero più serrate: in un primo tempo durante il New Deal, e poi alla vigilia della seconda guerra mondiale. In entrambi i casi, il rovesciamento della libertà liberale in oppressione sembrava sul punto di realizzarsi compiutamente, nel primo caso perché il governo avrebbe dovuto imporre con la forza agli industriali iprovvedimenti rooseveltiani (e di fatto lo Stato interveniva già in modo pesante per imbrigliare il libero gioco dell’economia),7 nel secondo caso perché il popolo americano sarebbe intervenuto in un conflitto che non lo riguardava solo in grazia di una imposizione dittatoriale di tale direttiva.?* Che i fatti non dessero, nella prima di queste occasioni, e non abbiano poi dato (nella seconda) ragione a quelle critiche poco importava, ed esse venivano ripetute a dispetto delle prove contrarie. In realtà importa assai poco anche a noi, sebbene per tutt’altri motivi: quelle critiche sono infatti la spia di una interessante considerazione dell’ America nella quale i vantaggi della democrazia e dell’individualismo si tramutavano nei mali di un’oppressione strisciante e sempre più forte. Quando la convinzione prevalente non era questa, e si faceva sen-

tire invece una forte opposizione all’individualismo americano, giocava probabilmente la tesi (molto diffusa in alcuni settori del fascismo)

che l’era del capitalismo volgesse al termine, che stesse per tramontare la potenza dell’oro nel mondo, che l’epoca degli individui fosse finita.” Da questo punto di vista, qualche somiglianza doveva pur sussistere fra l’Italia e la Russia, anche se solo la prima riusciva ad armonizzare l'eccellenza dei pochi con la partecipazione di tutti. Sia che l’America apparisse come la sede naturale di un individualismo senza regole, sia che tale individualismo si rovesciasse in un collettivismo oppressivo, ciò che separava (fra le altre cose) la civiltà ameri-

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| cana da quella italiana era la considerazione assai diversa che esse avevano delle masse e del loro ruolo nella vita sociale e politica di una

nazione. Per un verso, infatti, la valorizzazione delle masse che il fa| scismo ostentava di mettere in pratica contrastava con la concezione

liberale degli individui come monadi isolate in lotta (più che in società) le une rispetto alle altre; ed è certo che una ragione dell’avvicinamento compiuto fra l’Italia e 1’America di Roosevelt, fra l’Italia e la Russia bolscevica, stava proprio nello spazio che tali regimi davano alle masse nell'economia e nella vita politica. Per l’altro verso, quando l’Italia fascista veniva presentata come il contraltare positivo alla realtà delle democrazie (e alle loro possibili degenerazioni comuniste), veniva messa in rilievo una concezione delle masse che ancora

una volta era molto diversa: nelle democrazie (come nei regimi comunisti) una concezione piattamente egualitaria e meccanicistica delle parti sociali, nel fascismo invece una raffinata dialettica fra masse ed élites, una visione gerarchica e organicistica del corpo sociale, il tentativo di estrarre dalle masse una aristocrazia.’ Individualismo e collettivismo erano egualmente estranei a quei propositi e a quelle concezioni: erano due poli estremi che giocavano fra di loro una partita del tutto inconcludente dal punto di vista dell’avanzamento della civiltà, che terminava inevitabilmente, infatti,

con la vittoria del più favorito. Forse era anche per questo che nelle analisi dell’epoca i due termini rimandavano con tanta facilità dall’uno all’altro. Piero Sacerdoti, ad esempio, scriveva a questo proposito un articolo paradigmatico, che iniziava con l’identificazione fra l'America e l’individualismo, sottolineava poi il ruolo che si erano assunti gli imprenditori nella vita americana, osservava come l’individuo si fosse trovato indifeso nel lavoro, e infine mostrava l’indebo-

lirsi dell’individualismo e il suo rovesciamento dopo la crisi del ’ 29.” Beniamino De Ritis affermava che l’America saltava dal secolo xvm degli astratti principi e della glorificazione dell’individuo, al secolo di Mussolini e agli ideali corporativi.?* Amerigo Ruggiero notava come anche l’individualismo economico si fosse trasformato da «lotta cannibalesca in cui tutti imezzi erano buoni per ottenere la vittoria» in una «corsa al monopolio». Nel suo giudizio, la fine dell’«epoca dell’individualismo senza freni e limiti» era un fatto necessario, anche

se doloroso.” L'epoca che andava dal 1789 al 1914 era stata l’epoca dell’individualismo, al quale andavano uniti la meccanizzazione del-

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Capitolo nono

l’uomo, l’edonismo, il liberismo, l’egualitarismo, il mito della massa,

il predominio della materia, lo spirito borghese, il culto dell’oro. L’individualismo sfociava infine nella società comunista. A.L. Arrigoni scriveva: «I suoi caratteri essenziali sono individualistici, meccanici,

materialistici, borghesi. L'ideale definitivo che esso si pone come obiettivo è unicamente il massimo benessere dell’individuo.»°° Quando scoppia la guerra, è un’occasione di più per ripetere che la libertà democratica si è rovesciata (come è nella sua logica che avvenga) in una dittatura che, grazie alla censura, ha tagliato fuori l'opinione pubblica dagli avvenimenti. Un’analisi, alla quale abbiamo rinunciato per l’esigenza di porre dei limiti alla ricerca da qualche parte, delle polemiche antiamericane durante la seconda guerra mondiale metterebbe probabilmente in rilievo l’utilizzazione di molti temi dell’antiamericanismo che fino a quel momento aveva visto nell’ America solo un nemico ideale, nella lotta ideologica contro un nemico in carne e ossa. Questo rimanda anche al compito, che lasciamo volentieri a qualcun altro, di esaminare la riapparizione degli stessi temi dell’antiamericanismo di cui noi abbiamo trattato nel dopoguerra, nel °68, negli anni più vicini a noi.

Capitolo 10

Il cinema fra arte e propaganda

Se i critici della civiltà americana avessero dovuto dire quali erano le cose con le quali l’America si identificava ai loro occhi, avrebbero probabilmente indicato il bagno e gli elettrodomestici in ogni casa, il possesso generalizzato di un'automobile, la scheda elettorale, il denaro facile; l’americanizzazione dell'Europa, poi, poteva esprimersi in modo tangibile nell’emancipazione delle donne, nella dissoluzione della famiglia, nell’imitazione di usi e costumi che si raccomandavano per il loro «essere al passo coi tempi», nella diffusione di una cultura di massa che prendeva il posto della secolare cultura europea. Se quei critici avessero dovuto fare un esempio circostanziato in quest’ultimo settore (l’invasione americana dell’animo europeo), difficilmente avrebbero potuto evitare di citare il caso del cinema. Quello che vogliamo sostenere non è solo che l’antiamericanismo comportò una certa opposizione ai prodotti cinematografici che provenivano d’oltre Oceano: in questa forma, l’affermazione è talmente ovvia da non richiedere l’onere della prova. Quello che vogliamo dire è invece che l’identificazione forte fra l'America e il cinema giocò un ruolo di rilievo nell’elaborazione di una immagine negativa della civiltà americana, consentendo di esprimere le stesse riserve e in qualche caso lo stesso disprezzo per la cultura made in America che in altre occasioni scaturivano dall’esame delle bilance commerciali del Vecchio Mondo e di quello Nuovo, dalla riflessione sulla fine di tutte le civiltà e dunque della civiltà europea, da un’analisi storico-antropologica dell’horzo amzericanus, della sua mancanza di storia e della sua fanciullaggine costitutiva. Per far questo (e sappiamo bene che si tratta poco più che di uno spunto da approfondire), non ci

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Capitolo decimo

siamo imbarcati nell'impresa appassionante che sarebbe stata rappresentata dall’analisi delle riviste di cinema dell’epoca: non ci interessava infatti individuare qual era l’immagine che del cinema americano avevano gli specialisti dell’argomento. Ci interessava invece enucleare, attraverso le stesse fonti che abbiamo utilizzato nel resto del

libro, le reazioni che quel cinema suscitava, e che suscitava il fenomeno del cinema tout court, fra i non addetti ai lavori. I motivi che ci hanno spinti ad addentrarci in un terreno affasci-

nante ma anche specializzato, e ad affrontare quindi le ire di chi conosce davvero l’argomento, sono vari. In primo luogo, c’era il legame, proposto a più riprese, fra il cinema e l’America: non fra quel paese e un qualche tipo di film, ma fra quel paese e tutto quanto il cinema, e il cinema nelle sue motivazioni più generali e in astratto. Si trattava di un’insistenza che andava oltre l’indicazione di analogie: il fatto che quelle analogie fossero sottolineate con una costanza un po’ ossessiva stava forse a indicare che il cinema poteva identificarsi con l’America prima ancora di tradursi in quel singolo spettacolo invece che in un altro. E il fatto che il cinema, prima della creazione si potrebbe dire, rispondesse così bene ai bisogni e al modo di divertirsi di quella società — secondo i pareri dei non specialisti che si esprimevano sulla questione — spinge a chiedersi se la critica al cinema americano non fosse che un altro mezzo per criticare la barbarie che si allargava sul mondo. In secondo luogo, poi, l'opposizione ai film che provenivano dall’America andava proprio nella stessa direzione del più generale antiamericanismo fino a ricalcarne gli argomenti uno per uno, dalla mancanza di cultura all’infantilismo, dalla barbarie del comfort al culto

del successo materiale. Mario Soldati, ad esempio, vedeva nel cinema americano un necessario sostituto offerto a quel popolo per compensarlo della vita rigida, regolata, noiosa, in una parola invivibile, che conduceva o, in alternativa, per fargliela dimenticare. Contrapponeva gli svaghi europei (più modesti, forse, ma senz’altro meno squallidi) e la vita europea («più ferma, più civile, più umana») alla vita americana, «monotona, arida, buia», che ha represso in ogni modo gli istinti

e che per conseguenza ha dovuto produrre «sensazioni fantasticate, avventure corse per procura»: in altri termini, gialli e cinema.! Soldati osservava però che questo ruolo comunque centrale del cinema nella vita americana aveva creato un gusto cinematografico che in

Cinema fra arte e propaganda

I5I

Europa non esisteva, e faceva sì che i film americani fossero davvero cinematografici: volgari forse, ma mai noiosi, a differenza del teatro

o dell’opera filmati che si producevano nel Vecchio Mondo. Accanto alla critica stava dunque l'ammirazione, in Soldati e in altri osservatori di quella realtà: per esempio nel commento di Vittorio Mussolini, divenuto famoso per la fonte da cui proveniva, sulla

vitalità e la giovinezza che il cinema americano mostrava di possedere. Mussolini notava: «il pubblico ormai vuol bene al cinema americano», e osservava che questo affetto era assai ben riposto, se solo

si rifletteva alla pesantezza di quello tedesco o alla frivolezza e al carattere antiquato di quello francese. Scriveva: Il fatto essenziale della questione rimane espresso così: l'America è giovane mentre l'Europa è stravecchia, e di tale situazione risentono i rispettivi pubblici, anche sul terreno del semplice divertimento spettacolare (...) È forse eresia affermare che spirito, mentalità e temperamento della giovinezza italiana, pur con le logiche e naturali differenze imprescindibili in un’altra razza, siano molto più vicine a quelle della gioventù d’oltre Oceano che non a quella russa, tedesca, francese, spagnola? Il pubblico americano ama del resto i film a grandi orizzonti, sente i vasti problemi, è attratto dal senso bambinesco ma felice dell'avventura, e se questa giovinezza gli è data dal non avere secoli di storia e di cultura, di sistemi e leggi filosofiche, è certo molto più vicina a quella della nostra balda generazione che a quelle, inesistenti, di molti paesi d'Europa.

E concludeva contrapponendo il carattere conservatore del cinema europeo al carattere perennemente innovatore di quello americano: «Noi italiani dobbiamo sentirci più vicini a loro [i maghi della California] che non plaudire a quella tendenza nettamente conservatrice di cui è permeata la produzione filmistica europea. »? Se è difficile parlare di un unico atteggiamento in epoca fascista nei confronti del cinema americano, e se è improponibile una distin‘zione netta fra un mito negativo dell’ America diffuso tra i «conformisti» e un mito positivo che sarebbe stato proprio dei «dissidenti», non sono condivisibili alcune affermazioni correnti, una delle quali vorrebbe che il cinema fosse stato in quell’epoca il mezzo privilegiato per la diffusione del mito americano. L'affermazione è corretta a condizione che prosegua nel modo seguente: e del mito negativo dell'America. L'attenzione che abbiamo prestato a questo argomento ci ha forse reso troppo sensibili alle critiche rivolte all’ America; pare tuttavia di poter affermare che il cinema si identificava immediatamente

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Capitolo decimo

- e in astratto — con la vita e la civiltà americane, e che proprio per questo motivo poteva condensare sia le critiche che l'ammirazione per quel paese, sia l'ostilità che la diffusione di un'immagine mitica. Peraltro, solo un’attenzione (che finora è stata molto esigua) agli atteggiamenti contrari alla civiltà americana nel suo insieme può far affermare, ad esempio, che dopo il 29, malgrado le varie iniziative per contrastare l’invasione dei film americani, il fascismo preferì accreditare un’immagine positiva di quel paese, scegliendo di non mostrare un'America sconvolta dalla crisi. Proprio la larga diffusione in Italia (e in generale in Europa) del cinema americano è responsabile in buona parte sia dell'amore che dell’odio verso l'America, anche se si vuol continuare ad assegnare un valore «positivo» all’apprezzamento di certi intellettuali italiani — i cui nomi sono troppo noti per essere ripetuti - per la cinematografia d’oltre Oceano. Ma l’immagine di un Regime che tollera, quando non incoraggia, la diffusione di un mito americano di massa pare che vada se non altro ridimensionata, come pure l’altra convinzione che fin dagli anni venti il cinema americano fosse visto solo come un modello da imitare.‘ È dalla considerazione congiunta di entrambi gli aspetti dell’atteggiamento assunto verso l’America che si possono comprendere non come ambigue né come conversioni opportunistiche alle posizioni del Regime - in questo caso contraddittoriamente assunto come ostile — le pagine dedicate al cinema americano da autori come Soldati o (lo vedremo) Flora. E importante sottolineare che non si tratta affatto di influenze esterne volte a mitigare adesioni entusiastiche al mito americano, ma che la critica pungente e l’apprezzamento per giovinezza e vitalità di quei film erano due facce complementari della presenza americana fra gli intellettuali europei di quel periodo, e che talvolta erano presenti contemporaneamente nello stesso autore.’ Il cinema (il cinema «in sé», si sarebbe tentati di dire) è legato tanto strettamente con l’America che, oggi come negli anni trenta, è possibile affermare che è più forte per l'immaginazione l’idea dell’ America che si riceve e ci si crea attraverso i film rispetto a quella che deriva da un'osservazione personale, e — il che è anche più significativo - che quell’idea cinematografica persiste anche dopo un’osservazione diretta: è quanto notava Luigi Barzini nei suoi ricordi, e potrebbe essere stata detta da un qualche cinéphile dei giorni nostri.

Cinema fra arte e propaganda

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Abbiamo intitolato questo capitolo «Il cinema fra arte e propaganda», e ci si potrebbe legittimamente aspettare un’analisi della considerazione del cinema come della nuova arte del secolo xx da un lato,

e dall’altro l’esame della concezione strumentale, propagandistica che il Regime mostrò di possedere del nuovo mezzo. Queste aspettative invece andranno deluse, poiché ci proponiamo di mostrare proprio il contrario di queste due affermazioni, e cioè da un lato che le caratteristiche negative che dalla civiltà americana ricadevano sul suo cinema erano tali da far sostenere che il cinema, cultura di massa, tutto era fuorché arte; dall’altro che si verificava un rovesciamento (uno di

quelli ai quali siamo ormai abituati) a proposito della questione del far propaganda: non era l’Italia fascista, secondo gli antiamericanisti che dicevano anche una parola sul cinema, che faceva propaganda, ma era la libera America che inquinava le coscienze, involgariva il gusto e imponeva con i suoi film le sue parole d’ordine. I film erano il mezzo privilegiato per propagandare l’americanismo su quel suolo europeo che economicamente era stato già vinto. Un editoriale di «Critica fascista» del 1° dicembre 1938 rifletteva sul fatto che la grande quantità di film con la quale l’America aveva fino ad allora invaso il mercato europeo aveva rappresentato una servitù morale prima e più che

. industriale: per dieci buoni film all’anno, l'Europa aveva dovuto subire le centinaia di fanciullaggini che provenivano da quel paese, prendendo per raffinati prodotti artistici e svaghi divertenti quelli che non erano che gli strumenti migliori per la diffusione dell’americanismo.” A cospetto di questo impegno serrato nella propaganda, la cinematografia sovietica poteva apparire una serie di impegnate opere

d’arte che diffondevano valori universali. Se il cinema è espressione di un popolo, il cinema sovietico (che denunciava un grande sforzo di propaganda ma insieme la presenza di intelligenza, serietà, critica) doveva essere contrapposto a quello americano, vacuo, borghese, facilone. Corrado Sofia scriveva a proposito del secondo: Vuol divertire e con una tecnica verista specula sugli istinti più meschini, cullando il suo pubblico in illusioni, facendo credere alla piccola dattilografa che sarà scelta e sposata dal direttore di banca, dando surrogati alle masse borghesi per la loro vita senza idea e senza splendore; il film russo, al contrario, vuole rendere lo spettatore più intelligente, più pensoso e più critico.*

AI pari di quello russo, anche il cinema americano faceva propaganda, ma a favore di una civiltà e di un modo di vita che non avevano nessun

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Capitolo decimo

titolo di merito e che, anzi, minacciavano con il loro esempio civiltà tradizionali e ben più autorevoli. Nessuno può negare - proseguiva Sofia — che la cinematografia americana sia anch’essa una cinematografia di propaganda. Rivelando i costumi di quel popolo il cinematografo americano diffonde nel cuore di continenti lontani, come l'Asia e l'Europa, abitudini e idee che difficilmente sarebbero penetrate. Sulla nostra moda e così sui ragionamenti e sulle azioni, ha finito coll’avere un’influenza considerevole alla quale dovremo reagire con gli stessi sistemi, sebbene con una diversa morale, se vogliamo essere un popolo giovane e sano.?

Appare chiaro fin da ora che i due elementi che volevamo evidenziare a proposito del cinema americano sono legati strettamente fra

di loro: la minaccia rappresentata per lo spirito europeo dal cinema americano dipendeva in buona misura dal fatto che quel cinema non era arte, che approfittava della facilità dello spettacolo per diffondere pseudovalori sotto la forma di una inconsistenza culturale finora mai sperimentata. La minaccia dipendeva dunque anche dal fatto che il cinema era cultura di massa. Le testimonianze e del pericolo rappresentato dal cinema americano, e del suo carattere non artistico sono numerose. Fra le prime

è da ricordare, nel 1930, l'indicazione di Ugo d’Andrea del macchinismo «mostruoso e lucido» dell’ America come della minaccia maggiore che i valori europei fossero sommersi. Si verificava, secondo d'Andrea, un asservimento politico ed economico e una parallela conquista morale delle masse: il cinema svolgeva la sua funzione essenziale proprio in questo settore.!° Anche una rivista come «Cinema» lamentava l’invasione americana che sommergeva l'Europa di brutti film e la rendeva «mercato di conquista».!! Consiglio e Debenedetti scrivevano: «In realtà 1’America importa ogni anno tra noi una percentuale di film di quasi infallibile successo che rappresenta il massimo sforzo artistico ed economico di una grande industria, senza peraltro documentarne gli orientamenti più originali e spontanei.» !? Tullio Cianetti, sulla stessa rivista, osservava: «Noi costruiamo sotto

il libero sole una civiltà nuova; ma poi tolleriamo che nel buio delle sale si mostri la vita di società che dovrebbero restare straniere al nostro spirito; 0, per rimanere nel campo dell’educazione popolare, di ambienti che presuppongono non solo le classi sociali, ma le caste.» !” Giorgio Vigolo affermava che gli americani «hanno fatto

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vivere un po’ tutti noi nella notturna demenza delle loro Broadway, negli incubi delle loro gesta di gangsters». Scriveva: Da Hollywood si irradia continuamente una propagazione dell’ America a tutti i meridiani e i paralleli: le torri di New York si lasciano vedere da ogni luogo del pianeta, ma anche i suoi più segreti ambulacri e ginecei. L'umanità intiera ha assorbito nella retina una dose un po’ eccessiva di americanismo, una vaga cittadinanza della repubblica stellata le è stata impartita.!4

Il pendant di tutto questo era poi l’esterofilia degli appassionati di cinema: «Per costoro — scriveva Biàncoli — solo ciò che viene dall'estero, specie se dall’ America, è degno di essere preso in considerazione, mentre gli sforzi di una giovane produzione come la nostra sono criticati prima ancora di conoscerne il risultato.» In un corsivo lapidario intitolato Miopia si leggeva: «Chi sa perché tutti i giovani che si dedicano al cinematografo sono miopi con gli occhiali cerchiati di tartaruga come Harold Lloyd? “Gusto americano”, come le sigarette? O vista corta?» ! Un corsivo di «Critica fascista» del settembre 1938 invitava a fermare l'importazione di film americani, poiché trovava nei film i più pericolosi propagatori di una civiltà: e quella americana, per di più, non aveva nessun valore.! Fra le negazioni al cinema americano del carattere di arte si può collocare l'affermazione di Leo Longanesi secondo la quale quella cinematografia è fatta solo di tecnica, e la realtà non le interessa;!* oppure la sufficienza (che in Francesco Flora si alternava all’apprezzamento sincero) che portava questo autore a definire i film americani «pietosi, di quella stupidità zuccherina che solo il cinema sa fondere».! O anche si potrebbero collocare sotto questa voce le accuse (che provenivano da chi si occupava di critica cinematografica in modo professionale) di convenzionalità, la constatazione che i film ameri. cani sembravano fatti alla catena di montaggio, la denuncia del loro infantilismo.?° Un corsivo di «Cinema» si riferiva, a proposito dei thriller, a «quel falso spavento fabbricato su misura, e su di una misura che è sempre la stessa». Lo stesso corsivista affermava: «Forse certi popoli fanciulli di altri lontani paesi possono ancora trovare in questa roba una certa quantità di sensazioni: come noi, da ragazzi, trovavamo un morboso piacere nelle storie di fantasmi. Ma il popolo italiano, in quanto a storie (cioè in quanto ad arte), è adulto da un pezzo.» 2! Commentando la quarta Mostra del Cinema di Venezia,

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Capitolo decimo

Ferruccio Bonfiglio scriveva: «Chiassosi, al solito, gli americani: e come potrebbe essere diversamente? (...) Comunque, ordinaria amministra-

zione: di grande levatura tecnica, naturalmente, come vuole il marchio di fabbrica d’oltre Oceano (...) Filmoni: tecnica, nient'altro.» ?2

Giorgio Vecchietti osservava che, in generale, il cinema americano era caratterizzato da «puritanesimo quacquero», «licenziosità smaccata», «apologia del reato», il «razzismo più tendenzioso», il «propagandismo più indigeribile».? Su «Critica fascista» si poteva leggere nel novembre 1940 che se il cinema e il teatro esprimono la società in cui nascono, quelli americani manifestavano la debolezza e il dissolvimento della vita democratica.” Il legame del cinema con la cultura di massa poteva essere sottolineato anche in positivo: un corrispondente dagli Stati Uniti attento come Amerigo Ruggiero traeva dalle nuove forme di comunicazione e dai mezzi nuovi che erano nati lo spunto per osservare che la tanto deprecata crisi della cultura non era che la crisi di ua cultura (la cultura borghese), da sempre separata dalle masse e dalla vita. «Nelle nazioni dinamiche come l’America, la Russia, l’Italia» — scriveva —

questa situazione stava cambiando, nel primo caso per l’estrema mobilità delle classi, negli altri due in seguito alle rivoluzioni che avevano avuto luogo. La creazione di una cultura diversa, di massa, che

in America si era già compiuta e che altrove non avrebbe mancato di verificarsi, era un segno dell’avvento delle masse sulla scena sociale, e di fronte a questo era secondario chiedersi se i nuovi prodotti culturali erano dello stesso livello dei precedenti. «Di qui l'enorme diffusione del cinematografo — scriveva Ruggiero —, della radio, la creazione di nuova musica e di nuovi generi letterari, di nuova architettura e di nuova poesia: jazz, romanzi polizieschi, racconti di misteri, verso libero, grattacieli.» ?°

Un punto significativo sul quale si concentravano le critiche era la manifesta incapacità degli americani di affrontare i soggetti storici, gli eventi capitali della storia europea: la mancanza di simpateticità veniva sostituita dalla perizia tecnica e dallo sforzo spettacolare. Ma la convinzione di poter ricreare ambienti e atmosfere del passato da parte del popolo che non possedeva passato storico produceva quei difetti che erano messi in evidenza nelle stroncature che spesso accompagnarono l’uscita di film «storici»: come quando Giorgio Vecchietti, a proposito di Cleopatra di Cecil B. de Mille, ne sottolineava

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l'ignoranza, la grossolanità, la presunzione, l’attacco alla romanità.? Quando invece iniziano le riprese del film italiano per eccellenza, Scipione l’Africano, l'anonimo Spectator scrive: «Si farà opera italiana

aderendo alla nostra storia, che gli americani saprebbero indubbiamente contraffare mercé colossali pompe spettacolari, mai rappresentate nella dignità della poesia e della storia». Mentre il Mediterraneo possedeva «una universalità (...) autentica e sostanziata di storia

e di memoria», il cinema americano trovava accenti di verità solo

quando parlava della sua realtà: ed era poi solo fonte di sgomento il fatto che quella realtà fosse costituita dalle torri di New York.? Chi indagava sul cinema (dove la massa è protagonista) e sugli effetti della mentalità americana (che si diffondeva attraverso di esso) su quella europea, metteva in rilievo — a riprova di quanto osservavamo sull’ambiguità fra gli osservatori europei — la «giovanile freschezza dei soggetti», ma si mostrava preoccupato per la grande ri-

cettività dell'animo umano di fronte a quel tipo di immagini, visto che il mondo cinematografico è «spesso malvagio, spesso triviale, in genere nocivo». Da questo punto di vista, la tecnica perfetta dei

film americani si raccomandava come un pericolo più che come una qualità. A proposito dell’ingenuità di certe pellicole, Tomaso Labriola si chiedeva se tale «incoscienza», come la definiva, fosse positiva, e

rispondeva: «Io dico che se la vecchiaia dei nostri popoli è in certo senso dolorosa, essa ha il grande pregio della maturazione attraverso un elemento psicologico importantissimo quale è la esperimentazione. Questa esperienza forma una barriera resistentissima contro quella

istintività che possiamo ben dire animalità.» Nella contrapposizione, che la produzione cinematografica esaltava — fra popoli giovani e popoli vecchi, «non so decidere — scriveva — se è desiderabile che il popolo nostro perda alcune sue caratteristiche e soprattutto il sentimento della tragicità della vita, frutto di secolare esperienza in esso esistente in profondità». E concludeva con un appello alla resistenza contro simili prodotti di esportazione: «Questa nazione italiana non può trastullarsi con fanciullaggini che hanno il fine di rappresentare la vita come uno scherzo nel quale tutto è facile, tutto finisce bene anche quando è cominciato malissimo.» ?° Sulla stessa linea si poneva Umberto Chiappelli quando deplorava l'assenza di un cinema fatto per il popolo: «Il materiale è tuttora creato da quella balordissima mentalità americana dalla quale purtroppo non

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Capitolo decimo

hanno saputo svincolarsi i responsabili di casa nostra.» Gli eroi fasulli di quelle pellicole erano in realtà tipi sconosciuti alla vera civiltà italiana, che è popolare: «Costoro si esibiscono negli aspetti di una vita che può rappresentare l’ideale per il piccolo commerciante arricchito e per il borghese citrullo, ma che è ignota all’uomo del popolo, intendendo per esso il nostro cittadino migliore.» Questo valeva soprattutto per i personaggi femminili: E le eroine? — scriveva Chiappelli - L'attenzione e la passione delle masse sono richiamate non su figure di mamme che allevano i figli, su massaie che lavano i piatti o puliscono i pavimenti, su operaie che sgobbano per produrre ed arricchire il paese, ma su ragazzine isteriche e capricciose, su donnette sterili ed equivoche cariche di gioielli, su avventuriere che passano il tempo fra la doccia, il gioco e la sbornia.

Una vera e propria corruzione del popolo italiano si realizzava, secondo chi scriveva quelle pagine, attraverso i modelli di comportamento e gli esempi offerti dal cinema americano, e soprattutto grazie alla rappresentazione della ricchezza come il bene supremo al quale ispirare tutta la propria esistenza, secondo le norme della «bassa civiltà americana dei mercanti e dei banchieri».?! Riconosciuto che il cinema possiede «valore umano ed universale che sorpassa il primitivo artifizio meccanico», e che è «storia documentata dei modi di

vita di una data società espressa in quei particolari rilievi e con quelle determinate invenzioni fantastiche», Ferrante Azzali si chiedeva se

la produzione italiana esprimesse il senso della realtà fascista, e concludeva che nei film prodotti mancava il lavoratore onesto e probo, mentre abbondavano tipi e situazioni di una realtà internazionale del tutto anonima.?°

Un grande critico cinematografico come Luigi Chiarini sosteneva che il cinema americano esprimeva a perfezione quel paese, per mostrare che ogni cinema è nazionale, e richiamare alla necessità di un cinema italiano, realista e popolare, di contro all’assoluta immoralità dei film americani, alla loro «frivolezza» e «vuotaggine interiore». Scriveva nel 1935: : Lo stesso cinematografo americano (...) ha il ritmo dello jazz e (...) è a serie, quasi

meccanico e di stabilimento, come la civiltà industriale e mercantile U.S.A. Che cosa è il cinema per gli americani se non frenesia collettiva, psicosi di masse, strumento di piacere e di ambizione, mezzo per far denari e per ubriacare le folle con suggestioni sempre nuove, con miti di bellezza effimeri come le mode? 33

Cinema fra arte e propaganda

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Sul richiamo a creare una cinematografia nazionale dovevano insistere in molti, in molti dovevano far appello alla necessità di non subire passivamente l’egemonia cinematografica americana. Era necessario che nascessero soggettisti, sceneggiatori, registi, in grado di competere con «la gigante industria americana». Le esortazioni a creare una cinematografia nazionale erano un veicolo delle stesse preoc-

cupazioni e degli stessi desideri che informavano la lotta contro l’esterofilia, la campagna per sostituire il Voi al Lei, la bonifica della lingua italiana. Ma a differenza di tutte le altre iniziative, l’«estero» dal quale l’italianità non poteva tollerare di essere corrotta non era un qualche paese della vecchia Europa liberale o di altri mondi non latini: possedeva la fisionomia di un paese specifico, che era anche

il maggior produttore di film su scala mondiale. L'America diffondeva così caratteristiche nazionali e modo di vita, concezioni del mondo e ottimismo facilone, umanitarismo e democrazia, amore delle co-

modità e buoni sentimenti, ingenuità e avvilente materialismo.’ Quando nasce la rivista «Cinema», alla quale si è già fatto riferimento, nel luglio 1936, è significativo che l’editoriale di Luciano de Feo che la apre metta in rilievo da un lato il genere di spettacolo che il cinema rappresenta, atto a «toccare in profondità l’anima delle folle», e dall’altro la necessità di indirizzare questo potenziale all'educazione e alla propaganda sotto il controllo e tramite l’intervento dello Stato?! L’esigenza di moralizzare il cinema era certo molto sentita, a giudicare dagli interventi sulla questione, e a giudicare dallo schema che quegli interventi seguivano: in primo luogo si riconosceva l’importanza del cinema. Il cinema è uno spettacolo diretto alle folle, che colpisce e convince con la suggestionabilità delle immagini. In secondo luogo, si evidenziava il pericolo rappresentato da un cinema abbandonato a se stesso: il modello da evitare era quello del cinema americano. In terzo luogo, si avanzava l'opportunità di aggiungere valori dall’esterno al cinema, oppure (il che permetteva di raggiungere lo stesso scopo) ci si richiamava a un intervento dello Stato.?* Se l’aggiunta di valori era il compito di una inafferrabile «coscienza nazionale», la fondazione di Cinecittà, nel 1936, sembrò realizzare almeno la seconda esigenza, e fu vista come esaltazione della cinematografia nazionale contro l’imperialismo americano.’ Era l'occasione per contrapporre al cinema d’importazione, che suscitava atteggiamenti er-

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Capitolo decimo

rati quali l’infatuazione per modi di vita stranieri, che alimentava «ambizioni perniciose», il cinema italiano del futuro, ispirato a quei valori di concretezza e di serietà che informano la vita italiana. «Sorge la nuova città e tramonta, speriamo, tutto un errato modo d’inten-

dere le cose del cinema.» ‘° Le numerose perorazioni a favore della trasformazione del cinema italiano in una vera industria andavano anch'esse in questa direzione, e rivelavano nel richiamo a una cultura autarchica la stessa opposizione presente in altri settori all’imperialismo culturale americano.

Capitolo 11 I disvalori della modernità

Le critiche rivolte alla civiltà americana che abbiamo analizzato finora formano come i vari tasselli di un mosaico che, giunti a questo punto, può essere osservato nella sua completezza. L'immagine che esso offre allo sguardo una volta che ci si sia allontanati tanto da non distinguere più i singoli particolari è quella della modernità.' L’identificazione dell’ America con il moderno è centrale nella critica italiana alla civiltà d’oltre Oceano, ed è responsabile di molti dei giudizi negativi che venivano portati su quel paese, come peraltro dell'apprezzamento del quale era fatto segno. Questa considerazione non può aggiungersi a quelle fatte finora con un «anche»: non possiede infatti i caratteri dell’accidentalità, ma tutto il peso della caratteristica che decide di tutte le altre, da introdurre piuttosto con un «insomma», o un «dunque». Se ripercorriamo gli argomenti che abbiamo trattato finora, ci accorgiamo dunque che ciò che sottendeva polemiche e accuse, deprecazioni e irrisione, era il giudizio negativo sul valore della modernità che si incarnava in America. Quel paese era definito in modo esauriente dal concetto di moderno perché riusciva a soddisfare una sua definizione cronologica e teorica, intensiva ed estensiva. L’unico elemento, infatti, che non entrava perfettamente in un’epoca «moderna» definita come America, e cioè la forte presenza e il grande ruolo che ancora svolgeva la religione nella vita di quel popolo, si faceva facilmente ricondurre alla storia americana, e risultava un tratto indissolubile dalla sua nascita. Ma allora, quando (come in questo caso)

la definizione concettuale del moderno non reggeva, diventava rilevante proprio il fatto che l’America fosse nata al resto del mondo, 11

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Capitolo undicesimo

alla storia, proprio in epoca moderna, e che di essa avesse assorbito e sviluppato i germi allo stato puro, senza ricordi di un passato diverso, e senza desideri di un cambiamento di direzione. Anche in

questo l'America era moderna al mille per cento: realizzava da quando era nata una modernità eterna, non solo perché soddisfatta di sé, come tutte le epoche moderne della storia, ma anche per la mancanza oggettiva di ogni termine di paragone che fosse alternativo. La passione di tanti americani per l'Europa? Nient'altro che un fenomeno di turismo culturale, di sudditanza all’autorità della tradizione e dell’arte,

alla quale anche i più incolti vanno soggetti senza peraltro comprenderne le ragioni. Non crediamo affatto che a questa affermazione si possano assegnare i tratti della scoperta: della sconcertante modernità dell’ America si rendevano conto anche i contemporanei, anche coloro che sentivano come insultante, come fastidiosa, o semplicemente come estranea (nelle varie gradazioni dell’antiamericanismo) la civiltà americana. Oggi la modernità dell’ America non è più (o non è per tutti) sconcertante come

allora: altri paesi ci stupiscono e ci spaventano con le loro invenzioni e con il ritmo della loro vita. Altre paure popolano i nostri incubi: quella della catastrofe nucleare, quella del degrado irreversibile dell'ambiente in cui viviamo. Questo è forse il motivo per il quale le differenze fra il Mondo Nuovo e il nostro Vecchio Mondo fanno riferimento (quando ancora lo fanno) all’incultura contro la cultura, all’infantilismo contro la maturità, ma non fanno più scendere in campo una presunta modernità di contro a una presunta tradizione. Ancora una volta, la guerra che si combatte è una guerra ben strana, e la posta in gioco sembra tanto effimera quanto può esserlo la supremazia culturale, la palma della creatività, la nazionalità dell’intellettuale alla moda. È significativo, però, che la parola modernità sia scomparsa dalle eventuali diatribe contemporanee, e sia stata sostituita piuttosto dal postmoderno.? Negli anni trenta, viceversa, il termine «modernità» veniva tirato

in ballo ancora con piena convinzione; anche da parte di chi non provava nei suoi confronti nessuna simpatia. Che la si amasse o la si odiasse, sembrava che la battaglia sulla modernità avesse ancora i caratteri della realtà, seppure di una realtà meno consistente rispetto alla modernizzazione, inarrestabile, della cultura o della vita privata. Modernità, dunque America. La caratteristica della giovinezza ripetutamente attribuita al continente americano era tipica dei moderni,

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| di coloro che sono arrivati per ultimi e che si credono i primi. Si trattava cioè di una giovinezza storica, che poteva essere letta come vita-

lità o come infantilismo, come vigoria o come inconsapevolezza, ma | che dipendeva nel bene e nel male dal fatto che solo nel 1492 Colombo fosse sbarcato in America. Il fatto che quella giovinezza si rovesciasse spesso nei critici della civiltà americana in decrepitudine, in vecchiaia, in malattia, non deve stupire, se solo si rifletta che la

modernità, nelle filosofie della storia non progressiste a cui abbiamo dato tanto peso in questa questione, si trova sempre alla fine di un ciclo storico, e fa passare per salute i sintomi di un ripiegamento vitale che precede di poco la morte. Se un carattere dei moderni era lo smisurato orgoglio per la loro civiltà, la presunzione di essere definitivi, la propaganda a favore della bontà del loro stile di vita, e se la civiltà americana eccelleva in questa autoapologia, la realtà quotidiana dell’ America parlava esattamente al contrario, e raccontava di persecuzioni razziali, di ingiustizie legalizzate, di disuguaglianza cronica, di-derelitti e disoccupati, di cru-

deltà e miseria. Una testimonianza in questo senso doveva venire anche dagli emigrati, di cui sarebbe assai interessante esaminare la posizione attraverso le lettere, ad esempio: all’Eldorado che si erano aspettati corrispondeva nei fatti una realtà di sfruttamento e di marginalità, di intolleranza e di nostalgie. Il rovescio della medaglia della modernità era il lavoro importato e a basso costo, il miraggio del benessere pagato con una durezza nella vita di tutti i giorni inimmaginabile dall’Italia, con una integrazione della quale ci si sarebbe dovuti sentir fieri, e che invece lasciava l’amaro in bocca. Poco importa se queste erano davvero le condizioni reali degli emigrati in America: quel che conta qui è che inviati speciali e scrittori, letterati e politici, enfatizzassero questi aspetti e non altri nella vita di quel paese. Come notava Luigi Barzini junior nel 1931: «Gli osservatori stranieri scelgono dal groviglio di osservazioni e di avventure giornaliere, soltanto quelle poche che possono costruire nel loro libro la spaventosa titanica metropoli di domani, fatta di macchine rombanti, di milionari, di bellis-

sime donne, di strade sospese, di modernità.» Ed è significativo che fra tutti i fenomeni possibili, proprio quelli che parlavano della ultramodernità del paese, del benessere diffuso, della incultura trionfante,

fossero scelti e divulgati. Proprio il padre di Barzini, che firmava la prefazione al libro del figlio, sottolineava del resto l’identità fra

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Capitolo undicesimo

l'America e la modernità, quasi a contraddire l'affermazione che | abbiamo or ora riportato, o a confermarla indirettamente. Luigi | Barzini scriveva: «New York compendia quella civiltà americana che, lodata o criticata, rimane il più stupendo e poderoso fenomeno di modernità nel mondo.»* Nella polemica fra Ugo Ojetti e Giuseppe Bottai a proposito di Italianità e modernità,” non a caso le critiche all’ America venivano da

chi, fra i due, ci teneva che l’Italia fosse moderna restando però italiana, da chi deprecava nel modello americano, che gli sembrava pericolosamente diffuso anche intorno a lui, l’ignoranza del passato storico, la recisione della continuità con la tradizione, l’astrattezza e il

cerebralismo avulsi dalla realtà. Ojetti dichiarava di aver predetto la fine del mito americano già un quarto di secolo prima, e gli sembrava che la realtà gli desse ragione: «Oggi non vedo più, nemmeno in Russia o in Germania, chi si proponga l'America a perfetto esempio di civiltà e di felicità.» Bottai rispondeva che nel superato americanismo precedente la crisi del ’29 vedeva solo «quell’ America (...) che non fu che una caricatura dell’Europa», mentre nelle discussioni e nelle riforme elettorali si affrontavano i problemi della civiltà moderna, ‘ nella quale nonostante tutto si viveva.‘ | L'America era tanto moderna, rispetto all’ Europa, da realizzarne

il futuro; Adriana Dottorelli osservava a proposito dei grattacieli americani: «Ciò che noi chiamiamo ancora futurismo, vi è realizzato, nel modo più sorprendente (...) Ve ne sono [di grattacieli] di bellissimi in stile gotico, saldissimi nella loro struttura ferrea, fari giganteschi del progresso e del modernismo più assoluto.» L'ideologia del futuro realizzato non poteva essere che l’idea di progresso, nella quale solo all'America era possibile continuare a credere come faceva.8 Agiva in alcuni osservatori la convinzione che i mali di cui soffriva la civiltà americana non fossero necessariamente connessi con i caratteri nazionali, etnici, geografici di quel paese, né con il modo e i tempi della sua formazione nazionale, bensì che essi fossero dovuti ai tratti propri di ogni civiltà che poteva essere definita moderna. La modernità appariva dotata di una vis propria, di una forza interna capace di vanificare le tradizioni precedenti (ove esistessero), di omologare razze e culture diverse, di trasformare le forme di governo secondo uno schema rigido e implacabile, che iniziava con il liberalismo e terminava con il comunismo. Ugo d’Andrea, ad esempio, scriveva:

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«Dalla Riforzza in poi il mondo moderno cammina a grandi giornate verso la dilatazione del potere nelle masse. Il liberalismo, la democrazia, il socialismo, il bolscevismo, sono tappe successive di un solo cammino.»? L'immagine dell’ America sovrastava talmente tutte le altre possibili come simbolo della modernità che, quando ad esempio era in questione Brave New World di Aldous Huxley, si affermava che il libro parlava dell’ America tout court e non (come è molto più vicino al vero) di un qualunque moderno mondo consumistico.! Anche Francesco Flora rifletteva sull’identificazione fra l’America e la modernità: «L’ America è il primo vasto e rapidissimo esempio della civiltà veloce moderna che mescola sangue e costumi, religioni ed arti.» Ma ai suoi occhi questo non era un titolo di demerito: era piuttosto il motivo per il quale quella civiltà non piaceva agli europei. Scriveva: «Gli europei si compiacciono di chiamare americanesimo, con facile ostentazione di compatimento, ciò che, assai volte, essi sen-

tono di non poter tuttavia respingere dalla civiltà contemporanea perché piace: è il rimorso contro la propria pigra voluttà, che prende nome di americanismo. » Alle origini dell’ America stavano il senso dell'avventura e la fierezza di uomini che non erano sottili ragionatori, la curiosità per il nuovo, «un ordine tutto moderno e cioè di strumenti di lavoro huovi e magari rapaci», un «furore attivo» dai caratteri spiccati di «innocenza», un grande ottimismo realizzatore. Secondo Flora, le brutte cose che 1’America diffondeva nel mondo non

potevano far dimenticare la sua giovane forza. Osservava con acume: L’antiamericanismo ha parecchie fasi e tesa europeista dell'americano, il quale non aveva avuto dalla storia (coi dollari reggiare l’europeo che si fa americano dozzinale.!!

periodi, e se un tempo satireggiava la prea colpi di dollari voleva ottenere quel che si rifà il Campidoglio), oggi preferisce satinell’amor della macchina. È una stoltezza

L’America era la modernità fatta carne e sangue per quelli dell’«Italiano», che si dichiaravano contro la civiltà moderna, e dunque

contro l’americanizzazione del mondo e dei costumi: sia l'equazione che la ripulsa valgono per tutto «Strapaese». Ma l’America era la modernità esemplare per Emilio Cecchi, che distingueva le civiltà antiche da quelle moderne sulla base della scelta che le prime compivano di ciò che valeva la pena di essere conservato, mentre le seconde

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applicavano una indiscriminata mania documentaria alle cose più insignificanti. Scriveva: Le antiche civiltà erano vigorose e vitali perché generosamente distruggitrici, e sì affidavano spavaldamente all'oblio. Ma il terribile del mondo moderno è che, come un malato sul lettuccio chirurgico, i suoi minimi gesti e respiri sono spiati e registrati da infiniti obbiettivi fotografici e microfoni. Si immortala l’effimero, dimenticandoci dell’immortale.!

A un'America intesa dunque come sede della civiltà moderna si doveva necessariamente opporre chi scorgeva negli eventi contem-

poranei la crisi e il tramonto di quel mondo macchinista, progressista, mosso dall’ottimismo e confortevole di cui gli Stati Uniti si erano proclamati campioni, e che regnava in tutto il mondo «demoplutocratico». «La civiltà moderna —- si poteva leggere in un corsivo del maggio 1938 — fa schifo in tutta la sua nudità. In questa fantastica precisione di congegni, di leggi, di burocrazie, la più grande fra le macchine è ferma: l’anima.» Si assisteva a un «tramonto imponente nel fracasso di una moltitudine di mezzi meccanici». In pagine come questa si esprimevano la disaffezione per la civiltà delle macchine e la disillusione più radicale sulla bontà della tecnica per l’uomo, mentre la civiltà moderna appariva sotto le sembianze femminili di chi seduce con comodità e piaceri. Ed era possibile, allora, invocare «la necessità di ricominciare daccapo, dal punto in cui gli storici pongono il portone della modernità». Chi scriveva in questi termini doveva, in altra occasione, scagliarsi contro «l’attuale intossicamento scientifico della civiltà» e denunciare il fatto che nessuno accusava «la scienza come la maggiore responsabile di questo quasi apocalittico tramonto d’epoca». La civiltà che tramontava era la civiltà moderna, della Rivoluzione scientifica, della Riforma protestante, della Rivoluzione dell’°89, dell'economia e del materialismo, delle macchine e dell’igiene,

del malthusianesimo e del benessere, era la «vecchia e decrepita civiltà del “progresso” modello ’89».! Ma quando il termine «progresso» ha bisogno di essere messo fra virgolette, questo significa che la disaffezione per quella civiltà ha raggiunto punte molto alte, tanto da provocare l’idea che un rimedio efficace potrebbe essere un’inversione drastica del corso della storia, e la ripresa di esso dal momento precedente la crisi, cioè da prima dell’inizio dell’epoca moderna. E l’America veniva proposta come mo-

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dello per il futuro dell'Europa? Un progetto suicida, per chi la pensava così, visto che di quella civiltà moribonda, e comunque fasulla,

l'America era il campione: «Non si dimentichi — si leggeva in un violento editoriale di “Critica fascista” — che gli americani ritengono di essere inventori e depositari esclusivi della formula della civiltà moderna.»! Una caratteristica non marginale della modernità e dell’America era l'esaltazione della vita terrena, l’utilitarismo, l’econo-

micismo: se, in generale e in astratto, ai detrattori della civiltà moderna queste sembravano tendenze da condannare, l'America mostrava nei fatti come fossero tutte destinate al fallimento, oltre che all’im-

poverimento della persona. Il culto dell’azione proprio dei moderni era stato distrutto, secondo un corsivista, dalla crisi del 29; scriveva:

«Ci ha dimostrato che l’azione cieca può condurre al fallimento come in America, e ci fa riflettere che infine questo modo di pensare rassomiglia troppo al disprezzatissimo mito ottocentesco del progresso indefinito cui credevamo di aver dato onorata sepoltura. »!‘ Chi riconduceva la crisi della civiltà occidentale al Rinascimento e alla dissoluzione delle vecchie fedi, delle antiche cosmogonie, dei sistemi di valori tramandati dall’antichità, alla Rivoluzione francese

e ai suoi effetti di disgregazione sociale, vedeva negli Stati Uniti l’espressione esasperata dei mali della modernità: «Ateismo. Materialismo. Idealismo.»! Il materialismo - scriveva lo stesso Mario Tinti - (...) ha dato luogo ad una dege-

nerazione ed esasperazione del concetto di utilità, ossia all’utilitarismo. Figlio misticoide dell’utilitarismo è l’attivismo, cioè quella tendenza a miticizzare l’attività pratica (...) Questa tendenza al formularsi di un mito attivistico si manifesta nelle sue

espressioni più estreme in America, cioè dove la civiltà borghese europea è riuscita ad una più radicale rescissione dai principi tradizionali.!8

. Nata da un momento particolare della storia europea, e da un gruppo di europei peculiari, l’America era il figlio che estremizza le posizioni del padre accolte con una fede cieca, e che, cresciuto troppo in fretta, suscitava nel genitore rimpianto e paura. La vita nelle metropoli della civiltà contemporanea dava l'impressione di un corpo acefalo, di un agitarsi vuoto e insensato alla ricerca di una utilità pratica e immediata. Era un pericolo che minacciava da vicino anche la civiltà europea, la quale doveva recuperare il senso dell’otiuz e della contemplazione, oppure rassegnarsi a un rapido esaurimento.

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Come tutta la civiltà moderna, gli americani erano positivisti; in un corsivo dai toni molto violenti l'anonimo «Quirita» scriveva che,

poiché «hanno superato le vette della civiltà industriale capitalistica, partono da questa realtà, per fissare l'emblema e il tipo della civiltà di domani». Questa «utopia economicistica» si configurava come

la postrema americanata che, a parte ogni intenzione umoristica, pare destinata a funzione di epigrafe funeraria sulla pietra tombale della civiltà contemporanea, europea nelle origini, americana nelle conclusioni. Per il momento, le caratteristiche salienti di

un tale avvenirismo politico sociale sono queste: il paese più ricco del mondo può offrire lo spettacolo fulmineo della trasformazione in miserabilissimi poveri, di milioni di ricchi, attraverso un semplice sbalzo barometrico della Borsa di Nuova York.!?

L’insistenza sulla giovinezza americana come tratto negativo di quel paese va letta in questa prospettiva, nella quale risulta non solo come la ripetizione di uno stereotipo diffuso ovunque sull’ America, ma anche come la riproposizione di alcuni tratti che i moderni possiedono rispetto agli antichi: mancanza di esperienza e disprezzo per gli insegnamenti che provengono da essa, presunzione, illusione di essere i migliori e i definitivi, esaltazione infantile e incultura, spostamento del baricentro della civiltà dal valore all’interesse, dal trascendente al terreno. Una silloge dei giudizi critici su quegli eterni ragazzi che sono gli americani è destinata comunque ad essere ripetitiva: per questo

motivo, ci limiteremo a qualche esempio che restituisca il tono degli attacchi diffusi in volumi e riviste. L’America appariva sotto le vesti di una giovinezza storica che realizzava i suoi successi solo in campo materiale, senza darsi neppure la pena di formarsi tradizioni (quand’anche le fosse stato possibile), un patrimonio di creazioni spirituali, uno stile di vita e di pensiero degno di una civiltà la cui scomparsa avrebbe suscitato rimpianto. «Il Doganiere» scriveva: Non basteranno mai tutti i dollari dell'America a comperare un secolo di storia italiana, a creare un genio come Dante o come Napoleone, un artista come Leonardo, una istituzione come la Chiesa romana. E se anche domani moltiplicandosi i fulmini del Padreterno distruggessero tutta l'America, che ne perderebbe l’umanità? 20

Qualche numero dopo, lo stesso corsivista contrapponeva l’«ingenuità» americana (che consisteva nell’essersi lasciati dominare dalla macchina

e nell’aver considerato i prodotti dello spirito una merce d’importazione)

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alla grande tradizione europea: «Il fondo dell’antica civiltà classica, umanistica, tradizionale della vecchia Europa è proprio ciò che ci salva dal pericolo della civiltà americana, che forse noi riusciremo anche ad assorbire, senza lasciarci sopraffare, per quel senso della misura e dei limiti che in noi è fondamentale e che all'America manca.»? E ancora, all’inizio del 1931: «Molte volte mi sono posto il quesito se, e fino a che punto sia da ammirarsi l'America, paese di grandi possibilità, senza dubbio, ma anche di troppo giovane civiltà perché non sia da considerarsi transitoria, come ora si sta appunto dimostrando.»?? «La loro mentalità è puerile», scriveva degli americani Virgilio Lilli, e si esprimeva a suo parere nell’«americanata», «prodotto di una mentalità bambina al cento per cento». Il grande principio della civiltà americana era infatti «il grandioso, nel senso del più grande, dell'enorme, del mastodontico, dello sproporzionato, del fuori di misura.

Dove l’europeo ha dato al grandioso un contenuto tutto ideale e sostanziale, l'americano gli ha dato un contenuto affatto materiale, di

volume, tangibile». L’«americanismo», contrapposto all’«europeismo», esprimeva il senso non di una sproporzione fra simili, ma di un distacco fra elementi eterogenei: «Si tratta di due diverse mentalità 0, per meglio dire, d’una mentalità e d’una antimentalità. L’europeismo è la logica, il raziocinio, il “cogito”. L’americanismo è l’antilogica, l’antiraziocinio, il “facio”.»? «L’ America è una giovane nazione che (...) non ha il peso di una secolare tradizione da portarsi dietro le spalle», scriveva Bruno Brunello nel 1931. Se paragonata alle nazioni del Vecchio Mondo, che pure avevano «più o meno esaurita quella freschezza di energie propria dei popoli giovani», il bilancio non andava però a suo favore: Il patrimonio di cultura che possiedono le nazioni del Vecchio Mondo, risultato di secolari esperienze, non è da porre pur lontanamente a confronto con quello dell'America, la quale in gran parte delle sue manifestazioni civili e culturali dà segno di una grossolanità di concepimento completamente diverso dallo spirito del Vecchio Mondo.

Dalla letteratura e dalla vita americana risultava l’importanza esclusiva di elementi quali «la mancanza di storia», «lo spirito di business», «tecnica, meccanica, affare, benessere materiale, impresa».

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Ma nel sistema di specchi rovesciati che riflettevano fra di loro America ed Europa, il Nuovo Mondo non possedeva solo i caratteri dell’ingenuità infantile;” talvolta appariva invece il depositario di tutto il passato europeo, ma riassunto in un periodo assai più breve di tempo: «L'America in fondo può essere considerata in questo momento come un concentrato di tutte le esperienze che l’Europa ha iniziato, e che la crisi ha arrestato forse al momento opportuno.» °° Beniamino De Ritis esponeva lo stesso concetto quando discuteva della presunta giovinezza americana: Nella realtà gli Stati Uniti sono nati da una complessa storia coloniale, di cui sono rimaste imbalsamate non assorbite le particole più fluide del corpo europeo che andarono disperse per il nuovo mondo nelle esplosioni dell’epoca postrinascimentale e illuministica. Quando gli Stati Uniti, liberatisi dall’Inghilterra, ebbero la scelta fra lo spazio e il tempo, e cioè fra il creare una nazione storica o una società economica, essi scelsero la seconda alternativa, voltarono le spalle all'Europa e nella marcia sull’immenso retroterra occidentale, fermarono, come Giosuè, il sole all'orizzonte del secolo decimottavo.?”

Lo stesso De Ritis scriveva che dopo «il tempo glorioso della mitologia delle razze nordiche, del controllo delle nascite, degli alti salari che diede nuovi impulsi e nuove speranze all’euforia produttiva dei continenti nuovi», questi erano entrati in una fase di crisi profonda, rivelando all’improvviso la loro vera età, scoprendo sotto le sembianze giovanili una preoccupante decrepitezza, una vecchiaia assai più priva di slancio di quanto non si potesse affermare per il mondo «vecchio».?8 La giovinezza dell’ America, secondo coloro che non l’assegnavano alla fine di un ciclo storico predeterminato, e che si affidavano piuttosto agli eventi vicini a loro, era finita per sempre con la crisi del ’29, riportando quel paese alla sua naturale condizione di colonia sottoposta all’egemonia europea. Berto Ricci, fra i critici più accesi della civiltà americana, scriveva: «Mondo nuovo era una volta,

e non solo per ragione cronologica, l’America. Pareva, e in un certo senso e per un certo tempo fu vero, che uomini e cose di là avessero il dono della giovinezza, tanto più se messi a paragone con l’irrimediabile invecchiare e deperire d’un’Europa.» Quella che finiva era l'Europa delle metropoli, dell'industria, della democrazia, che aveva imitato a lungo l’America: «E di là avemmo Lega delle Nazioni e danze, e architettura, e condotta di vita e pratiche comodità, o meglio beha-

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viour e comfort.» Se niente di tutto questo era originario dell’ America, i mezzi e l'ottimismo per imporlo a tutto il mondo lo erano certamente: «Determinante del destino e della civiltà europea parve, e in un certo senso e per certo tempo fu, l'America di Wilson e di Charlot.» La crisi, il consolidarsi del fascismo, l'emergere del Giappone avevano però distrutto quell’egemonia nascente: Così il determinante si riavvia oggi secondo logica e secondo natura, a essere determinato; la colonia, a ricever norma e costume da una Patria rinsavita, e unificata

non per virtù di profeti puritani ma di Condottieri combattenti. Così e per sempre, mondo nuovo non è quello ultimamente scoperto, ma quello che rinnova sé e le sue anche lontane propaggini.?°

Il rovescio della medaglia, la cruda realtà dell’ America ingrata con i suoi immigrati e ingiusta con quella parte della sua gente che era americana, ma di colore diverso dal bianco, si faceva leggere dagli uni come una nemesi, dagli altri come una conseguenza scontata. Per coloro, cioè, che affermavano l’identità dell’ America con la giovinezza e la modernità, si trattava di un atto di giustizia che riparava presunzioni secolari, e rimetteva al suo giusto posto un popolo caratterizzato dall’autoesaltazione; per coloro che, invece, sottolineavano de-

crepitudine e vecchiaia di quel paese, la violenza e le storture sociali che sembravano caratterizzarlo fin dall’inizio non erano che le ovvie caratteristiche di un organismo inadeguato che lotta come può per sopravvivere. Comunque fosse, l’America appariva come il paese degli bard times,° dove il caso Lindbergh non era avvenuto una sola volta,?! dove la stampa nazionale iniziava a «demolire il mito della strombazzata civiltà americana»,’ dove imperversavano gli scioperi,” dove gli intellettuali erano per forza attratti dal comunismo, viste la violenza e l’ingiustizia che regnavano ovunque,? dove si predicava la pace mondiale e si preparavano le guerre,?? «dove si è battuto un nuovo record, quello della delinquenza minorile»,?° dove si praticavano da sempre razzismo, linciaggi, discriminazioni,” dove episodi racappriccianti rivelavano «a quale sconquasso morale sia giunto quel felice paese», dove tutto è gigantesco, persino la delinquenza,’ dove esistono città come Chicago, che è «violenta e tragica, respira il sangue, sopra le incombe il fato», dove la ricchezza si basa sulla miseria altrui e talvolta sulla morte,’ dove si operava la trasformazione da El-

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dorado a inferno," dove la gente beve per dimenticare come vive.* Margherita Sarfatti scriveva: «Lo straniero stupisce della ferocia inpulsiva, al tempo stesso che metodica e meticolosa, con la quale si applica questa tradizione di brutalità e immoralità, anche oggi, anche nella vita spicciola quotidiana del business.» Amerigo Ruggiero riscriveva tutta la storia americana basandola sulla violenza, sulla ricerca brutale di guadagno. Intolleranti, sfruttatori e pirati: ecco il vero volto dei padri fondatori. «La società americana ebbe origine dal disordine, dall’azzardo, dalla violenza.» E poi: La frontiera impregnò d’individualismo sfrenato, d’egoismo e di violenza la psicologia del popolo americano fino ai giorni nostri (...) La storia delle grandi ricchezze americane è storia di frode di violenza e di delitti (...) La verità — affermava — è che in America la vita umana non è stata mai tenuta in gran conto.

Concludeva che la violenza non era un tratto accidentale della civiltà americana, che i numerosi delitti che avvenivano erano «a tipo degenerativo» (e cioè senza un movente razionale), che gli antenati bru-

tali avevano lasciato agli americani attuali un carico di «profonda nevrosi». «In nessun altro paese come in America la linea che separa l'onestà dalla delinquenza è tanto sottile.» E ancora: «Le famose idealità si concretano in una storia di rapacità e di arrembaggio che ha pochi riscontri al mondo.» La tanto vantata libertà americana si rivelava essere nient'altro che un’assenza di governo da parte dello Stato, al posto del quale governavano le potenti organizzazioni capitalistiche: un bluff colossale, come scriveva Ruggiero. Emergeva anche come l'America fosse arretrata rispetto all’Italia dal punto di vista dei provvedimenti sociali (insufficienti), del sistema giuridico («un groviglio confuso ed inestricabile d’innumerevoli leggi»), delle istituzioni («antiquate»).“

Anche Giulio Alimenti, in una lunga corrispondenza dagli Stati Uniti, si proponeva di sfatare una leggenda, di fermare la «follia collettiva generalizzata in tutto il mondo» che consisteva nel pensare l’America come la terra promessa «in cui siano realizzati gli ideali di benessere sociale e di felicità umana per tutti». La realtà era assai diversa: l'America deteneva il primato mondiale della criminalità, la popolazione di colore viveva in stato di semischiavitù, i disoccupati erano una percentuale sempre maggiore della popolazione, le giornate

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di lavoro erano massacranti, regnava la miseria. «Gli Stati Uniti d'America offrono il migliore terreno per lo studio dei fenomeni di squilibrio sociale. Anzi possiamo affermare che la terra delle più grandi e favolose ricchezze, è anche la terra dei più grandi squilibri sociali.» 4 Lo stesso paese che voleva diffondere nel mondo quel bene supremo che è la democrazia, vedeva accadere poi al suo interno mille delitti che passavano sotto silenzio: il suo carattere nazionale restava definito da isterismo puritano, alcolismo, crudezza, incapacità di sintesi

universali.‘ Come i critici della civiltà avevano da sempre sottolineato, anche gli antiamericanisti collegavano strettamente la civiltà «progredita» con la criminalità, con l'aumento delle malattie mentali e del malessere generale, con le varie manifestazioni della patologia sociale. Un corsivista scriveva nel 1934: «Noi vediamo certi paesi — l'America, per esempio — ritenuti dai più all'avanguardia del progresso, inteso in senso puramente materialistico, accogliere il più alto grado di criminalità.» ‘ Sembrava paradossale (e molto significativo) che la civiltà del lavoro che l’America voleva essere, rivelasse proprio in quel settore le lacune maggiori: erano in molti a sottolineare che nel paese più avanzato del mondo mancavano le tutele più elementari per il lavoro operaio, come pure efficaci forme di assicurazione. I lavoratori o non erano organizzati o avevano sindacati corrotti al pari del sistema in cui vivevano, come osservava ad esempio Giulio Alimenti: In nessun’altra nazione industriale come negli Stati Uniti, il problema sociale presenta oggi degli aspetti paurosi e insieme assurdi (...) Il fenomeno ognor crescente del vizio, della criminalità e della corruzione, basterebbe da solo a dimostrare che se la civiltà dovrà vivere, la democrazia capitalistica dovrà finire in un futuro non molto lontano.8

- Veniva sottolineata l’arretratezza nella legislazione sociale, il fatto che nell’industria, nell’agricoltura, nei lavori pubblici, venivano impiegati emigrati e gente di colore in condizioni che facevano pensare

alla schiavitù.‘ L'espansione del capitalismo americano, dispensatore di comfort alle masse, aveva anche lati «meno noti, che sono assai

neri, tragici, spietati», come il lavoro forzato. Ripensando a «queste torme umane sfruttate, taglieggiate, spogliate dei loro guadagni, spesso massacrate», si poteva concludere che l’eroe della storia americana

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era il negriero. Anche l’automatismo industriale aveva un risvolto negativo: «Il paradosso dell'abbondanza in mezzo a milioni di persone che non hanno la capacità di acquistar nulla.»?° I costi di «un sistema produttivo brutale e inumano» quale quello americano non erano leggeri, e davano l'impressione di una schizofrenia fra la «gentilezza dei costumi» e la «ruvidezza selvaggia», l’«assoluta mancanza di riguardo per i diritti degli altri». Amerigo Ruggiero scriveva: «Accanto a istituzioni mirabili che non hanno riscontro in altri paesi civili, si verificano atti di barbarie che farebbero vergogna a un pellirossa.»?! Il paese delle opportunità di successo per tutti, nel quale regnava lo spirito di avventura del pioniere, si trasformava in un paese dove addirittura scarseggiava il lavoro, dove gli operai facevano sciopero non per migliorare il loro salario già buono (come un tempo), ma per rendere il lavoro che avevano (divenuto un bene da salvaguardare) più sicuro attraverso garanzie alle loro organizzazioni sindacali e attraverso la richiesta di contratti collettivi. Beniamino De Ritis osservava nel 1934: «Le moltitudini del lavoro americano, lungi dal pensare al miracolo delle opportunities, stentano a trovare le jobs che scar-

seggiano, quando non tremano allo spettro della disoccupazione che ancora si fa ammontare a dieci milioni.» ? Cadeva così anche il mito dell’ America come Eldorado degli emigranti, in modo tanto più significativo quanto esso era stato vivo in un paese come l’Italia dalla forte emigrazione oltre Oceano.” Invece di fare fortuna, gli emigrati avevano fatto la fortuna dell’ America. Se essi avevano tardato a farsi un’idea esatta della situazione, la di-

sillusione era stata egualmente cruda, quando avevano scoperto che «c'erano crudezze, barbarismi, una mancanza di ubi consistara che ai

provenienti da paesi a civiltà secolare dava le vertigini». Amerigo Ruggiero scriveva: Di tutta la gente valida e sana che il Molocco americano rastrellava insaziabilmente con le sue mostruose braccia metalliche, un gran numero ne veniva restituito ogni anno all’Italia minato dalla tubercolosi, avvelenato dalle malattie sociali, paralizzato dai reumatismi, invalidato da affezioni cardiache.354

L'America «aspra, selvaggia, dura», mostrava ben presto, e quasi sempre, agli emigrati l’altra faccia della modernità, fatta di una miseria molto più diffusa della ricchezza.” Ma Mario Soldati notava

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che la persistenza dell’immagine dell'America come paradiso del lavoro e del successo, della realizzazione personale, andava assai oltre le evidenze tangibili della sua illusorietà. L’emigrato continuava a pensare gli americani «tutti ricchi, tutti signori, tutti evoluti».? Anche

ciò che fino al 1929 era stato vero veniva caricato del peso di un’esagerazione infantile: «Bastava sbarcare a New York, in pochi mesi si diventava un signore.» Le pagine che America primo amore dedica all'integrazione degli italiani nella civiltà americana sono forse fra le più incisive del libro, e sottolineano con acutezza il contrasto fra le due civiltà: un contrasto che a Soldati appariva tanto più assoluto quanto l’integrazione avveniva per mezzo dei prodotti più scontati di un mondo già inferiore rispetto al nostro (ad esempio i giornali della domenica, definiti «coteste ebdomadarie enciclopedie di cretinismo»). L’«umanità di modi» tipica delle genti del Vecchio Mondo contrastava singolarmente con la «cecità spirituale» che caratterizzava tutti gli immigrati americani nei confronti della terra d’adozione. «Ma è tanto più doloroso in loro - notava Soldati —-, che decadono da una civiltà fra tutte antichissima e da quella dignità che anche nelle epoche e nelle regioni più misere mai non mancano al nostro popolo. »?” La violenza quotidiana e i delitti, la corruzione e il gangsterismo, il razzismo e la discriminazione, il primitivismo sociale e lo sfruttamento selvaggio apparivano i caratteri dell’ America, i caratteri veri che spuntavano da dietro il benessere, la democrazia, il successo dell’immagine che essa ci teneva a diffondere nel mondo. Chicago appariva a Soldati «una metropoli disfatta, sudicia, triste, dove milioni

di uomini vivono nella miseria e nell’abbrutimento. E, per questo — aggiungeva —, non v’è forse città che rappresenti meglio 1’America». 78 Emilio Cecchi sottolineava il dato per il quale in America erano avvenuti oltre cinquemila linciaggi dal 1882 a quella data, la contraddizione fra la tanto proclamata uguaglianza e l’esclusione dei negri dal diritto elettorale e dalla presenza sindacale. Scriveva: «E curioso notare come questa superiore letteratura, d’una civiltà fondata sull’idea del benessere, della felicità materiale, della tranquillità morale e quissimili, sia la più tetra, la più disperata e sconvolta letteratura del mondo.»?? Che venissero scritte frasi di questo genere è molto significativo; ancor più rilevante è il modo in cui venivano accolte. Recensendo

176

Capitolo undicesimo

America amara, che considerava un libro grandissimo, Icilio Petrone affermava: «È un'America senza amore, un’ America di una sentimen-

talità ufficiale immersa pazzamente in un igienismo morboso, in contrasto con intensi focolai di putredine morale, e perfino ideale, senza confronti». 9° Si trattava di giudizi duri, di frasi pesanti, e chi li pronunciava certo se ne rendeva conto. Quel che era importante documentare, dal

nostro punto di vista, era la loro presenza e il loro tono, il fatto che non fossero sentiti come contraddittori rispetto alla modernità americana, ma che di essa apparissero invece come conseguenze ovvie, nel migliore dei casi come inconvenienti spiacevoli ma inevitabili. Essi non denunciavano infatti un’arretratezza di sviluppo dell’ America, ma erano la prova della rapidità e della perfezione del suo sviluppo; non parlavano di un carattere nazionale sui gezeris, ma dell’omologazione nel peggio che non mancava di verificarsi quando si sceglieva la via della modernità; non contrapponevano la brutalità alla civiltà moderna, ma anzi consideravano quella brutalità come la conseguenza diretta di un eccesso di modernità; non vedevano nei difetti ameri-

cani un’eccezione ma la regola. Ma questo significava anche che era impossibile scegliere la modernità evitando quei mali, poiché la'scelta stessa li prevedeva. Conveniva dunque non scegliere, o indirizzarsi verso altri obiettivi. La sola scelta che poteva essere fatta con piena cognizione di causa era per il momento negativa: e l’antiamericanismo di quegli anni la testimonia a perfezione.

Note

Note all’Introduzione

1.

Hazard, Ur collège de jeunes filles en Amérique, p. 110.

2. Sivedano, ad esempio, Fernandez, I/ rito dell'America; Carducci, Gli intellettuali e l’ideologia americana.

3. Cecchi, Introduzione a Vittorini, Americana, pp. XVI, XIX, XXI sg. 4. Pintor, Poesia e documento (1941), in Il sangue d'Europa, p. 79. L'altro saggio al quale si fa riferimento è La lotta contro gli idoli (1943), ibid., pp. 148-59. 5. Cfr. Ellwood, L’alleato nemico. 6. Un’eccezione deve essere fatta per Zunino, L'ideologia del fascismo, pp. 322-44 e per Marino, L’autarchia della cultura, pp. 113-20. Cfr. anche De Grazia, Consenso e cultura di massa; Cannistraro, La fabbrica del consenso. È molto incisiva la rapida ricostruzione che del «sogno americano» compie Silvio Lanaro in L'Italia nuova, pp. 81-88; ma è significativo che, ancora una volta, la parola America non evochi altro che il suo mito positivo. Forse, se la prospettiva fosse rovesciata, o includesse almeno il rifiuto dell’ America come civiltà (un antiamericanismo, dunque, tutt’altro che appannaggio esclusivo del Regime), «le perplessità e le ripulse» che se-

condo Lanaro spuntano improvvisamente quando i due popoli — nel 1943-45 — si incontrano davvero, risulterebbero atteggiamenti assai caratteristici degli anni precedenti. Cfr. invece proprio su questo punto Gallerano, È arrivata l’America?.

7.

Un esempio in questa direzione è Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo.

8. Cfr. sull'argomento De Felice, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso; Id., Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario. 9. Cfr. l’intervento di Maurizio Vaudagna al colloquio sull’antiamericanismo organizzato al-

l’Istituto Universitario Europeo di Firenze da C. Fohlen nell’aprile 1984. 10. Cfr. Spoerri, The Old World and the New. 11. Cfr. Galli Della Loggia, Lettera agli amici americani, nonché Rubeo, Ma! d’America. 12. Cfr. ad esempio i saggi di M. Vaudagna, «Drammatizzare l’America!»: i simboli politici del New Deal edi D. Frezza, Informazione o propaganda: il dibattito americano fra le due guerre, in Vaudagna, L'estetica della politica, pp. 77-102 e 103-28, in particolare pp. 81, 84, 89, 115. 13.

Sono ovviamente le stesse intenzioni che muovono Hollander, Pellegrini politici.

14. Unalettura acutissima del contesto ideologico nell'Europa degli anni trenta che riflette anche su questi problemi è quello offerto da M. Salvati, I/ pubblico del simbolo, in Vaudagna, L'estetica della politica, pp. 25-43.

178

Note al capitolo primo

15.

Cfr. Maier, Between Taylorism and Technocracy. 16. Cfr. Cavalli, Introduzione a Sombart, Il capitalismo moderno, in particolare p. 49. 17. Cfr. Sombart, I/ socialismo tedesco, pp. 13-36. 18. Cfr. idid., pp. 37-62. 19. Achard, Ur ceil neuf sur l’Amérique, p. 14. 20. A evitare questa trappola mi pare che valga soprattutto il ricorso al lavoro degli altri. La fiducia riposta in loro evita che ognuno sia condannato eternamente a ripartire da zero, nello smisurato tentativo di assicurarsi un territorio tutto controllabile direttamente. 21.

Cfr. Nacci, Quando il moderno non è più di moda.

22.

James, L'americano, p. 97.

Note al capitolo primo 1. Cfr. ad esempio Spoerri, The 0/4 World and the New; Skard, The American Myth; Evans, America. 2.

Si veda, per un esempio recente, Zucconi, I Giappone tra noi.

3. 4.

I. Petrone, Verso l’uomo, in «Gerarchia», aprile 1939, p. 277; cfr. p. 278. F. Ciarlantini, L'organizzazione industriale e commerciale degli Stati Uniti, in «Gerarchia»,

maggio 1930, pp. 405-I1.

5.

Per un panorama dell’antimacchinismo negli anni fra le due guerre mi sia permesso rin-

viare a Nacci, Tecnica e cultura della crisi.

6.

M. Jannelli, L’uomo, la macchina e le crisi, in «Gerarchia», dicembre 1939, pp. 770 sg. U. d'Andrea, L'uomo, la macchina e la ricerca di Dio, in «Critica fascista», 15 aprile 1933, 160. Sarfatti, L'America, ricerca della felicità, p. 8; cfr. p. 285.

Ibid., p. 292. Eccoli] 1o. Cecchi, America amara, p. 176. 11. M. Tinti, La superstizione tecnicistica, in «Critica fascista», 15 gennaio 1935, p. 120. 12. G. Alimenti, La verità sull’America, in «La Stirpe», maggio 1930, p. 239. 13. Cfr. G. Alimenti, I/ capitalismo e l'avvenire dei popoli, in «La Stirpe», maggio 1931, p. 200. Per alcuni si trattava di un fine consapevole; cfr. ad esempio la Visita 4 Ford, di Giovanni Papini, dove l’industriale americano espone in questi termini il suo ideale: «Fabbricare senza nessun operaio un numero sempre più grande di oggetti che non costino quasi nulla» (Gog, p. 26). 14. Alimenti, I/ capitalismo cit., p. 203. 15. Ibid. Su questo cfr. sopra, cap. 7. 16.

Cfr.E. Fossati, I/ capitalismo nordamericano e la crisi, in «La Stirpe», giugno 1934, p. 258.

17. 18.

Cfr. A. Ruggiero, Capitalismo e sindacati in America, in «La Stirpe», aprile 1933, p. 190. E. Malusardi, Razionalizzazione e sistema Bedaux, in «La Stirpe», maggio 1933, p. 239.

Sull’argomento, cfr. Sapelli, Organizzazione, lavoro e innovazione industriale; Vaudagna, L’4méricanisme et le management scientifique.

19. 20.

21.

V. Profumi, Funzione di Roma fra Oriente e Occidente, in «La Stirpe», giugno 1934, p. 255. B. Brunello, Capitalismo e corporativismo, in «La Stirpe», marzo 1934, p. 106. Ciocca, Economia di massa, p. 118.

Note al capitolo secondo

22. 23. 24.

I79

Ibid., p. 147. Cfr. ibid., pp. 157-61. Ibid., p. 254.

25. Piazza, Nell’America del Nord, p. 101. 26. F. Ciarlantini, Lettere dalla «grande democratica». Aspetti e conseguenze del razzismo «yankee», in «Gerarchia», novembre 1939, p. 735. 27.

Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 15 giugno 1930, pp. 171, 231. Georges Du-

hamel, un autore francese oggi dimenticato ma centrale nell’antiamericanismo, aveva scritto nel 1930 nel pamphlet Scènes de /a vie future: «Inventate l’uomo strumento, come avete inventato il bue da aratura, la mucca da latte, la gallina da uova e il maiale da ingrasso (...) Non potete rendere ereditari, in questo paese in cui la legge impera sovrana, certe funzioni, certi mestieri che esigono qualità fisiche speciali? Non potete fare scientificamente l’allevamento umano e la selezione? Vi è davvero impossibile (...) imitare le api e le formiche, allevare un popolo di lavoratori asessuati puri da passioni, votati solo all'edificazione, al vettovagliamento e alla difesa della città?» (p. 226). 28.

Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 1° maggio 1930, p. 171.

29. O. Rosai, in «Il Bargello», 1930; cfr. «Critica fascista», 1° luglio 1930, p. 250. 30. G. Fioravanzo, Crisi di civiltà, crisi di velocità?, in «Gerarchia», febbraio 1933, p. 151; cfr. pp. 153, 155. 31. Beonio Brocchieri, Dall’uno all’altro Polo, p. 280. 32. Flora, Civiltà del Novecento, p. 7.

do IE E 34. Ibid., pp. 25 sg. BS ib paz; cir pio: 36. Ibid., pp. 32 sg. 37. Ibid., p. 35. 38. C. Curcio, L’amore alla terra, in «La Stirpe», gennaio 1930, p. 14. 39. R. De Leva, I problemi della civiltà moderna. Decentramento industriale e sviluppo demografico, in «La Stirpe», febbraio 1936, p. 50. 40. Cfr. su questo argomento Wanrooij, The American «Model». 41. V. Lo Bianco, I/ «problema dei problemi». Difendiamo la maternità, in «La Stirpe», maggio 1937, P. 135.

42.

F. Chilanti, Ma! di terra in America, in «La Stirpe», dicembre 1938, p. 358. 43. Ibid., p. 358; cfr. p. 359. 44. G. De Michelis, Alba e tramonto della «tecnocrazia», in «Gerarchia», febbraio 1933, pp. 125-331. 45. B. Brunello, Standards, in «La Stirpe», giugno 1931, p. 246. 46. R. Sottilaro, Produttività e salari, in «La Stirpe», agosto 1937, pp. 229 sg. Note al capitolo secondo

1. Pensiero dei G.U.F.: contro la «vita comoda», in «Gerarchia», giugno 1937, p. 428. 2. Sulla crisi dell’idea di progresso, nella quale si inseriscono questi temi, si vedano: Franchini, I/ progresso; Hughes, Coscienza e società; Garin, Filosofia e scienze nel Novecento, in particolare pp. 79-95; Id., Luoghi comuni sul pensiero del Novecento; Marramao, Potere e secolarizzazione, pp. 187-223; Sasso, Tramonto di un mito.

180 3. 4.

Note al capitolo secondo Pensiero dei G.U.F. cit., p. 428 (corsivo mio). Sull’antimacchinismo nella cultura dell'Ottocento e del Novecento si vedano: Runcini, I/-

lusione e paura; Williams, Cultura e rivoluzione industriale; W. Leiss, Scienza e dominio. Il «do-

minio sulla natura»: storia di un’ideologia, trad. it., Longanesi, Milano 1972; Rossi, Fra Arcadia e Apocalisse; Maldonado, Tecnica e cultura; Nacci, Tecnica e cultura della crisi; Wiener, Il progresso senza ali.

s. Come scriverà Giaime Pintor nel 1943, «grava sulla civiltà americana la stupidità di una frase: civiltà materialistica» (La lotta contro gli idoli, in Il sangue d'Europa, p. 155). 6.

Quidam, Pretesti. La vera grandezza, in «Critica fascista», 15 giugno 1935, P. 331.

7.

Danzi, Europa senza europet?, pp. 13 sg.

8.

Ibid., pp. 15 sg. Ruggiero, Italiani in America, p. 7.

No)

ro. Ibid., p.9. 11. Cfr. G. Rizzetto, Lettera dall'America del Nord. Incontro con un fuoriuscito, in «Critica fascista», 1° maggio 1938, p. 204. Cfr. anche ad esempio A. Ferrari, Gli Stati Uniti nella politica europea, in «Critica fascista», 15 luglio 1938, pp. 284 sg. 12.

13. I93I,

G. Alimenti, La verità sull'America, in «La Stirpe», maggio 1930, p. 235. Il Doganiere, Dogana. La nostra epoca di dichiarata barbarie, in «Critica fascista», P.

1° marzo

9I.

14.

Cfr. Marinoni, Cozze ho «fatto» l'America, pp. 166-68, 170.

15.

Dottorelli, Viaggio în America, pp. 12 sg.

16. Piazza, Nell’America del Nord, pp. 40, 52 sg., 263; cfr. pp. 116-18. 17. Prezzolini, Diario, p. 408 (annotazione del 1927). Prezzolini visse in America dal'1927 al 1962. 18.

Soldati, Azzerica primo amore, p. 53. Cfr. anche Cecchi, America amara, p. 139.

19.

Soldati, America primo amore, p. 54. Ibid., p. 85.

20.

21. Ibid., p. 89. Cfr. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 207. 22. Cfr. Soldati, America primo amore, pp. 122-25. 23060154 pitx50: ZA

SMIDIG PILOT:

25.

C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, pp. 87, 114.

26.

Gramsci, Quaderni del carcere, vol. 3, p. 2168; cfr. anche pp. 2141, 2179.

27.

Beonio Brocchieri, Dall’uno all’altro Polo, pp. 267, 271.

28.

vacorrispondenze apparvero poi raccolte in Poggiani, Viaggio nel Far West (parole citate a p. 34).

29. 30. 31. 32.

Prezzolini, Diario, p. 439 (annotazione del 1929). Ibid., p. 585 (annotazione del 1938). Cfr. ibid., p. 603 (annotazione del 1938).

Cantalupo, Continentalismo americano e continentalismo europeo, p. 3. 33. Prezzolini, Diario, p. 562 (annotazione del 1937). 34. Barzini, O America!, p. 60. Barzini scrive, nel 1978, riferendosi all’epoca del suo primo soggiorno in America, fra il 1925 e il 1930: «Gli americani non vivevano forse come noi

Note al capitolo terzo

181

europei avremmo vissuto solo dopo una o due generazioni? Non avevano essi abolito vecchie consolanti superstizioni, confortevoli antiche ingiustizie, scoperto audaci e rivoluzionarie soluzioni a polverosi problemi che tormentavano l'Europa rassegnata? E chi non preferiva la primavera all'inverno, la giovinezza alla vecchiaia, la ricchezza alla povertà, la buona salute alla

malattia, il governo della legge alla tirannia, una casa nuova fornita di tutto il comfort idraulico contemporaneo a una pittoresca catapecchia, coperta di edera, e frequentata dagli spettri?» (pp. 60 sg.). Proprio il tema di una casa nel Vecchio Mondo infestata dagli spettri, nella quale si imbatte un campione della moderna America, aveva dato vita a una delle satire più godibili del Nuovo Mondo grazie alla penna di Oscar Wilde: cfr. I/ fantasma di Canterville. Ma non voglio affatto suggerire che sia presente un riferimento diretto a questo racconto; del resto, non ce n’è bisogno, poiché è il racconto di Wilde che esprime piuttosto un punto di vista tutt’altro che isolato. 35.

Barzini, O America!, p. 28.

36.

Cecchi, America amara, p. 13.

37. Scrive Cecchi: «Caddero le torri di Babele, le moli di Ninive e di Babilonia: e cadranno i grattacieli» (i0id., p. 16).

38.

Su questo punto mi sia consentito di rinviare a Nacci, La crisi della civiltà.

39.

Cfr. Cecchi, America amara, p. 16. Cfr. anche l’Introduzione a Vittorini, Amzericana, pp.

VII-XXII. 40.

Villari, Negli Stati Uniti.

dr

bid, p.iroz,

42.

Barzini, O America!, p. 135.

Note al capitolo terzo

1.

V. Vezzani, Tipi ideali umani e tipo fascista, in «Gerarchia», agosto 1934, pp. 630-34.

2.

Ibid., p. 634.

Cfr. sopra, cap. 9. Vezzani, Tipi ideali cit., p. 631. Ibid., p. 632. Cfr. ad esempio Schénemann, Die Vereinigten Staaten von Amerika.

C. nigi San 265-67. Rivolta 8. G.

di Marzio, Aspetti di questo nostro mondo, in «Critica fascista», 15 luglio 1930, pp. Per la contrapposizione fra mercanti e guerrieri, fra plutocrazia e aristocrazia, cfr. Evola, contro il mondo moderno, pp. 428 sgg. Alimenti, La verità sull'America, in «La Stirpe», maggio 1930, p. 236.

9. Ibid. 10. Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 15 gennaio 1930, p. 30. rr.

Ibid. 12. Léo Ferrero, figlio di Guglielmo Ferrero e di Gina Lombroso, può essere considerato, quanto ad attività culturale, per buona metà italiano: per questo compare in queste pagine. Cfr. Ferrero, Oà est le bonheur? (1933), ora in Il muro trasparente, pp. 96-98. 13. Cfr. Marinoni, Come ho «fatto» l’America, p. 78.

14. 15.

Barzini, Nuova York, pp. 65 sg. Soldati, America primo amore, pp. 31 sg.

182

16.

17.

Note al capitolo terzo

Barzini, O Amzerica!, p. 145; cfr. p. 270. V. Profumi, Funzione di Roma fra Oriente e Occidente, in «La Stirpe», giugno 1934, p. 254.

Ibid. 19. Cfr. R. Tritonj, L'evoluzione nazionale degli Stati Uniti, in «Politica», ottobre 1938, pp. 133 Sg. 20. Ibid., p. 134. 21. Cfr. ibid., p. 150. 22. Ibid'\pp.u51,0153. 23. R. Farinacci, Prefazione a Poggiani, Viaggio nel Far West, p. 5. 18.

24.

25.

Poggiani, Viaggio nel Far West, pp. 29 sg.; cfr. pp. 32 sg. E. Rossoni, Aspetti politici e morali della nuova economia corporativa, in «La Stirpe», maggio

1936, p. 240.

26. 27.

Sarfatti, L'America, ricerca della felicità, pp. 154, 150. Ruggiero, Italiani in America, p. 135.

2.800 bid EpSE1:73) 29. O. Lefebvre d’Ovidio, Amzericanismo, democrazia e tradizione, in «Critica fascista», 15 dicembre 1939, pp. 59 sg. 30. R. Pavese, Oro, metallo ignobile, in «Gerarchia», aprile 1939, p. 261. 31.

F. Coppola, La nuova guerra europea. Le origini: 1919, in «Politica», marzo 1940, p. 275.

32.

M. Gioia, Problemi razziali tra le collettività italiane all’estero, in «La Stirpe», gennaio

1939, P. 4.

33.

Si tratta di un articolo di Margherita Sarfatti apparso su «La Stampa» e citato in Do-

gana, in «Critica fascista», 1° gennaio 1934, p. II.

34.

35.

Cfr. Cecchi, America amara, p. 18. Ibid., p. 36; cfr. pp. 28, 33 sg., 36.

36. come 37. 38.

Ibid., p. 49. A riprova di questo, Cecchi notava: «Si ricordi la fortuna ottenutavi da libri quello di Spengler sulla Decadenza dell'Occidente» (ibid.). Ibid., pp. 51, 53 Ibid., p. 96; cfr. p. 59.

39.

F. Caparelli, All’insegna dell'aquila azzurra, in «Gerarchia», marzo 1934, p. 219. Cfr. G. Pesenti, Alcuni aspetti del mondo nuovo, in «Gerarchia», maggio 1935, pp. 399, 402.

40. 41.

Silus, Commentario. Legalità rivoluzionaria, in «Gerarchia», gennaio 1938, p. 9.

42.

Ibid.

43.

Cfr. F. Bertonelli, La situazione nell’Asia orientale, in «Gerarchia», luglio 1938, pp. 483 sg. A. Pirelli, Luci e ombre della moderna civiltà meccanica (Impressioni di un viaggio negli Stati

Uniti d ‘America), in «Gerarchia», luglio 1931, p. 569. 45. Ibid., p. 570. 46. 47.

Cfr. A. Bruers, Civiltà asiatica e civiltà europea, in «Gerarchia», maggio 1931, pp. 442-45. Cfr. Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 15 ottobre 1933, p. 391.

48. 49. so.

Cfr. M. Palazzi, Verso una umanità fortissima, in «Gerarchia», novembre 1934, pp. 933-35. Silus, Commentario, in «Gerarchia», luglio 1935, p. 604. Ibid., pp. 604 sg.

Note al capitolo quarto

183

51.

Silus, Commentario, in «Gerarchia», febbraio 1936, p. 113.

52.

IlDoganiere, Dogana. Contro la civiltà della bistecca, in «Critica fascista»,

53. 54. 55.

G. Bottai, Ristampe. Sangue contro oro, in «Critica fascista», 15 luglio 1941, pp. 286 sg. G.S. Spinetti, Nostra mistica, in «Gerarchia», febbraio 1938, p. 83. T. Madia, Connotati, in «Gerarchia», giugno 1939, pp. 400 sg.

Di 137.

1° marzo 1936,

56. Roberto Pavese scriveva: «Se nei periodi costruttivi di storia domina la casta guerriera, in quelli conservativi ed involutivi prevale la casta dei mercanti, alla quale di fatto passa il governo della cosa pubblica. Le moderne democrazie insegnino.» Cit. in Sulis, Processo 4/la borghesia, p. 52; per le citazioni riportate finora, cfr. pp. 7, 20, 47, 57. 57. Cfr.-ibid., pp. 58, 65, 77, 129, 133 sg. 58. Ibid., p. 98. Ma nota bene che il bolscevismo era definito come «la decadenza della barbarie dorata borghese che si conclude nel Regno dell’Anticristo» (ibid.). Cfr. anche C. Pellizzi, Guerra civile in Europa. La crisi del sistema capitalista e la guerra, in «Critica fascista», 1° febbraio 1940, pp. 116-18. 59. L’imperialismo americano sul mondo sembrava derivare anche dal legame strettissimo che esisteva negli Stati Uniti fra religione e politica, eredità del legame storico fra protestantesimo e capitalismo; cfr. G. Alimenti, I/ problema religioso negli Stati Uniti ed i suoi missionari protestanti nel mondo, in «La Stirpe», aprile 1931, pp. 150-52. 60. F. Ciarlantini, Lettere dalla «grande democratica». Aspetti e conseguenze del razzismo «yankee», in «Gerarchia», novembre 1939, p. 735. 61. Recensione a Ruggiero, Italiani in America, in «Gerarchia», marzo 1937, p. 222. 62. Ciarlantini, Lettere dalla «grande democratica» cit., p. 736. 63. Ciarlantini, Dieci anni di fascismo, p. 110. 64. B. Forzato Spezia, Libri e scrittori d’oggi. «Riso nero» di Sherwood Anderson, in «La Stirpe», dicembre 1936, pp. 493 sg. Della stessa Forzato Spezia cfr. anche Libri e scrittori d’oggi. «Mitch Miller» di Edgar Lee Masters, in «La Stirpe», novembre 1937, pp. 345 sg. 65.

D. Rosati, L'America ed il suo esperimento economico, in «Politica», giugno-agosto 1933,

Pza: 66. Adams, Epopea dell'America, pp. 359, 365; cfr. p. 203. Note al capitolo quarto 1. R. Sottilaro, Le plutocrazie contro l’autarchia, in «La Stirpe», marzo 1940, pp. 69 sg.; il brano in questione è citato più avanti nel corso del testo. 2. Cfr. Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 15 marzo 1930, p. 116. 3. M. Boldrini, Farziglia e popolazione, in «Gerarchia», marzo 1933, pp. 231-40. 4. G. Fioravanzo, Crisi di civiltà, crisi di velocità?, in «Gerarchia», febbraio 1933, pp. 146-56. 5. R. Bilenchi, Universalità del fascismo. I nemici della rivoluzione, in «Critica fascista», 1° novembre 1936, p. 3. Sul parallelismo fra Roma e Mosca cfr. sopra, cap. 9. 6. Uno qualunque, Motivi. Pericolo delle scorciatoie, in «Critica fascista», 15 luglio 1941, p. 279. 7. A. Ruggiero, Capitalismo e sindacati in America, in «La Stirpe», aprile 1933, p. 189. 8. G. Russo, I/ corporativismo contro il capitalismo sovversivo, in «Critica fascista», 15 gennaio 1934, pp. 23 Sg. OI bd ip i24.

184

ro.

Note al capitolo quarto

B. De Ritis, Lettera dall'America del Nord. Roosevelt sulla difensiva, in «Critica fascista»,

15 giugno 1934, pp. 233 Sg. G. Arias, I/ ritorno alla terra, in «Gerarchia», febbraio 1934, p. 133. 12. Poiché tutto si teneva, Arias affermava: «Liberalismo e socialismo, aspetti diversi della stessa mentalità filosofica e politica, sono destinati a perpetuare l’industrialismo, il capitalismo e l’urbanesimo» (ibid., p. 133). Ma sull’argomento cfr. sopra, cap. 9. 13. R. Caniglia, Urbanesimo e fascismo, in «Gerarchia», giugno 1935, p. 517. rr.

14.

Soldati, America primo amore, p. 215.

15.

Cecchi, America amara, p. 14.

16. Cfr. G. De Luca, Lettera dal Belgio. Borghesia e rivoluzione, in «Critica fascista», 1° febbraio 1935, p. 138. 17. Cfr. F.M. Pacces, Corporativismo concreto, ma corporativismo, in «Critica fascista», 15 febbraio 1936, p. 116. 18.

Ciocca, Economia di massa, p. 62.

19.

Ibid., p. 88; cfr. pp. 91-93, 99.

20. L. Piccardi, Sviluppo e significato del panamericanismo, in «Politica», marzo 1938, p. 358. Era la definizione usuale dell’ America, presente nei manuali di geografia e nella voce dedicata a quel paese dall’Erciclopedia Italiana Treccani nel 1929: uno dei curatori di tale voce, Giuseppe Caraci, sottolineava il grande sviluppo industriale, «il singolare spirito di iniziativa, grandiosa organizzazione finanziaria, introduzione di sistemi via via più moderni e redditizi (macchinari, standardizzazione) e soprattutto, nelle più recenti fasi del fenomeno, contingenze storiche (crisi europea della guerra) quanto mai favorevoli ad intensificare una produzione che già di per sé tendeva ad oltrepassare largamente il fabbisogno interno» (p. 864). Cfr. anche De Magistris, Corsi di geografia, p. 475. 21.

F. Azzali, Problemi della civiltà moderna. Civiltà e progresso, in «Critica fascista», 1° ot-

tobre 1938, p. 366. 22.

Cfr. Ergo, Contro l’equivoco economistico, in «Gerarchia», novembre 1938, pp. 753 sg.

23.

Cfr. Ellevì, La democrazia, secolo d’oro dell'ebraismo, in «Gerarchia», dicembre 1938,

pp. 805 sg.

24.

Ellevì, Aspetti del giudaismo, in «Gerarchia», agosto 1939, pp. 528 sg.

25.

L. Negrelli, Tempi nostri, in «Gerarchia», ottobre 1938, p. 701.

26. Ibid., pp. 697 sg. Cfr. anche Piccola guardia, in «Critica fascista», 15 gennaio 1941, p. 89; Editoriale, ibid., p. 82. 27.

Sottilaro, Le plutocrazie contro l’autarchia cit., p. 69.

28.

E. Brunetta, Crisi dei valori e decadenza dell'Europa, in «Critica fascista», 15 febbraio

1932, p. 68.

29.

Cfr. Ferraresi, La destra radicale; Nacci, Ordine e rivoluzione.

30. Brunetta, Crisi dei valori, pp. 68 sg. 31. D. Rosati, L’Arzerica ed il suo esperimento economico, in «Politica», giugno-agosto 1933, Paizo: 32.

Ibid., p. 66 sg.

33.

Silus, Commentario. Falso scopo, in «Gerarchia», dicembre 1937, p. 830.

34.

Ruggiero, Italiani in America, p. 179.

35.

Ibid., p. 182.

Note al capitolo quinto

36.

Cfr. Spampanato, Democrazia fascista cit., pp. 50-52.

37.

Ibid., pp. 29, 40, 73.

185

38. A. Ferrari, Lettera dall’America del Nord. Le sessanta famiglie d’America, in «Critica fascista», 15 febbraio 1938, p. 123. 39. Cfr. A. Ferrari, Lettera dall'America del Nord. Elezioni d’America, in «Critica fascista», ° ottobre 1938, pp. 362 sg. Cfr. anche, dello stesso Ferrari, Lettera dall'America del Nord. Politica internazionale negli Stati Uniti, in «Critica fascista», 15 marzo 1938, p. 156.

40.

Silus, Commentario. Lega dell’oro, in «Gerarchia», febbraio 1938, p. 90.

41.

F. Coppola, Note politiche. Italia e Francia: intermezzo poetico, in «Politica», gennaio 1935,

Pw25% 42.

F. Coppola, La rivoluzione europea, in «Politica», giugno 1940, p. 12.

43.

F. Coppola, Considerazioni su questa guerra, in «Politica», giugno-settembre-dicembre 1941,

p. 179. Note al capitolo quinto

1.

Cfr. Introduzione.

2.

Cfr. su questo argomento Migone, G/ Stati Uniti e il fascismo.

3. Si tratta del titolo di un libro di Paolo Monelli del 1933, di cui avremo l’occasione di riparlare nel corso di questo capitolo. 3 C. E. Ferri, I/ protezionismo nordamericano, in «Gerarchia», luglio 1930, p. 568.

Ibid., pp. 569, 570, 571, 573. P. M. Arcari, Imperialismo economico americano, in «Politica», ottobre-dicembre 1929,

137; cfr. p. 130. Cfr. B. Brunello, Da/la crisi mondiale alla nuova utopia, in «La Stirpe», agosto 1931, p. 341. Piazza, Nell’America del Nord, p. 67. Ibid., pp. 80 sg. A lE 10. Cfr. Beonio Brocchieri, Dall’uno all’altro Polo, pp. 269 sg. 11. V.Gayda, Le elezioni negli Stati Uniti: dalla prosperità alla crisi, in «Gerarchia», dicembre 1932, p. 1043. Cfr. anche G. De Luca, Nuova Europa. Condizioni essenziali, in «Critica fa-

scista», 15 gennaio 1939, p. 9I. 12. Cfr. Editoriale, in «Gerarchia», novembre 1939, pp. 725, 727. 13. Editoriale, in «Critica fascista» 15 gennaio 1939, p. 81. 14.

Cfr. A. Ferrari, Lettera dall'America del Nord. L'America dopo Monaco, in «Critica fa-

scista», 1° marzo 1939, pp. 138 sg.

15.

Cfr. Editoriale, in «Critica fascista», 1° maggio 1939, p. 197.

16.

Ibid.

17. Cfr. O. Lefebvre d’Ovidio, Lettera dall’America del Nord. L'atteggiamento americano, in «Critica fascista», 1° settembre 1941, p. 331.

18. Piccola guardia, in «Critica fascista», 1° dicembre 1939, p. 41. Cfr. anche «Critica fascista», 1° settembre 1941, pp. 322 sg. 19. A. Airoldi, Meridiano di Roma. Gli aiuti americani, in «Critica fascista», 1° febbraio 1941, p. 106.

186

20.

Note al capitolo quinto

Cfr. A. Airoldi, Meridiano di Roma. Il discorso di Roosevelt, in «Critica fascista», 1° giugno

1941, p. 234. 21. A. Donati, I/ panamericanesimo, in «La Stirpe», ottobre-novembre 1930, p. 460. Cfr. anche M. Sarfatti, La povertà delle terre ricche, in «Gerarchia», dicembre 1930, pp. 1016-23. 22. L. Piccardi, Panamericanismo, in «Gerarchia», dicembre 1933, p. 1007. 23.

A.G. Bragaglia, Panorami americani. La riconquista indiana dell’America?, in «Critica fa-

scista», 15 novembre 1935, p. 32. Cfr. anche A. Palumbo, Il Mediterraneo americano e l’imperialismo degli Stati Uniti, in «Gerarchia», novembre 1933, pp. 925-32, dove sosteneva che l'egemonia politica era una conseguenza dell’egemonia economica che l'America mirava ad esercitare su tutto il continente. 24. Cfr. Sarfatti, L'America, ricerca della felicità, p. 243. 25. Piccola guardia, in «Critica fascista», 15 gennaio 1939, p. 89. 26. Cfr. F. Coppola, Nota all'articolo di L. Piccardi, Sviluppo e significato del panamericanismo, in «Politica», marzo 1938, p. 363. 27. Manuelli, Panamzericanismo economico, p. 216: cfr. pp. 9 sg. 28. 29.

Prezzolini, Diario, p. 435. Cfr. ad esempio Minimus, Pareuropa, in «Gerarchia», luglio 1930, pp. 525-36.

30. 31.

V. Piccoli, La crisi dello spirito europeo, in «Vita Nova», giugno 1930, pp. 532, 526.

Cfr. De Magistris, Corsi di geografia, pp. 475, 477.

32. U. d'Andrea, Rorza tra Asia e America in un libro di Giorgio Pini, in «Critica fascista», 15 agosto 1930, p. 306.

33. È la definizione che dava dell’americano O. Lefebvre d’Ovidio, Lettera dall’America del Nord. Gli Stati Uniti e la guerra in Europa, in «Critica fascista», 1° novembre 1939, p. 10. 34.

Cfr. G. De Lorenzo, Asia ed Europa, in «Gerarchia», maggio 1931, pp. 359 sg. 35. Non colpiva solo i critici italiani della civiltà americana: basti pensare all’insistenza sulla nascita in America di un tipo umano inedito descritta da Hermann von Keyserling (Arzerika, Der Aufgang einer neuen Welt) come l'apparizione sulla scena mondiale del «primitivo tecnicizzato» che univa all’uso quotidiano della tecnica più sofisticata un carattere e una cultura da primitivo.

36. Cecchi, America amara, pp. 89, 277, 292, 295. Cfr. su questa opera Piccola guardia, in «Critica fascista», 15 marzo 1938, p. 153. Luigi Pirandello, in una novella del 1936, aveva messo invece in rilievo la precarietà che esibivano le cose nelle quali l’America riteneva che si esprimesse di più il grado superiore della sua civiltà. A proposito degli edifici «prodigiosi» di New York, scriveva che a quelli «è negato d’imporsi come durevoli monumenti e stan lì come colossali e provvisorie apparenze di un'immensa fiera», e affermava che il sentimento che evocavano era quello di «una tristezza infinita». Cfr. La tartaruga (1936), in Novelle per un anno, vol. 2, pp. 872 sg. 37.

Spampanato, Derzocrazia fascista, pp. 67, 96.

38. Beonio Brocchieri, Dall’uno all’altro Polo, p. 278. Per un esempio recentissimo si veda invece Baudrillard, L’Amzerica, su cui cfr. Nacci, Quando il moderno non è più di moda. 39. Cfr. Quidam, Samuele Dodworth fa la voce grossa, in «Critica fascista», 15 dicembre 1936, p. 61.

40.

Editoriale, in «Critica fascista», 15 novembre 1937, p. 18.

41.

F. Coppola, La crisi dell'Europa e la sua «cattiva coscienza», in «Politica», ottobre-dicembre

42.

Ibid., p. 45.

1932, p. 44.

Note al capitolo sesto

187

43. Cfr. ibid., p. 48. 44. Ibid., pp. 49 sg. 45. Ibid., pp. 51 sg., 55 sg. 46. Ibid., p. 67; cfr. pp. 69 sg. 47. F. Orestano, Riassunto generale, in «Politica», ottobre-dicembre 1932, p. 123; cfr. anche bp: 117, 122. 48. «Tutte e tre queste incarnazioni dell’ Antieuropa sono state suscitate o coltivate dalla democrazia europea», scriveva F. Coppola, Momenti della lotta politica, in «Politica», settembre

1939, p. 42.

49. Ibid., p. 44. 50. F. Coppola, Considerazioni su questa guerra, in «Politica», giugno-settembre-dicembre 1941, p. 210. 51. La rubrica di Paolo Monelli, Una parola al giorno, era infatti precedente. Gli articoli furono poi raccolti nel 1933 nel volume Barbaro dominio. 52. Ibid., p. vm.

53. Monelli annotava a proposito del termine spleen: «È possibile sentire ancora parlare di spleen nell’Italia fascista, animosa, lieta di osare e d’intraprendere?» (ibid., p. 298). 54. Ibid., p. 283. 55. Rosa, Americanismo, p. 956. 56. Spoerri, The Old World and the New, p. 73. 57. Adams, Epopea dell’America, p. 158. L’autore scriveva: «Se l’americanismo, nel senso che si è detto, è stato un sogno, è stato anche una delle più grandi realtà della nostra vita nazionale, una forza motrice come il grano e l’oro (...) È l’americanismo: e il suo tempio è nel cuore dell’uomo ordinario, dell’uomo che non avrà fatto molto per la nostra cultura intesa in senso

stretto: ma nel senso più largo è stato lui, quasi da solo, a lottare per il grande sogno americano» (p. 159). 58. Cfr. C. Manetti, Panorami europei. Trittico Mediterraneo, in «Critica fascista», 15 marzo 1941, p. 160.

59.

G. De Luca, Lineamenti della civiltà del lavoro, in «Critica fascista», 15 febbraio 1941,

p. 118.

60. Segnalazioni-stampa, in «Critica fascista», 1° settembre 1940, p. 360. 61. Piccola guardia, in «Critica fascista», 15 settembre 1940, p. 369. 62. B. Ricci, Stoccate. La gran partita, in «Critica fascista», 1° novembre 1940, p. 6. 63. Cfr., contro l'imitazione dei costumi stranieri, Piccola guardia, in «Critica fascista», 15 novembre 1940, p. 25. 64. Cfr. Piccola guardia, in «Critica fascista», 15 febbraio 1941, p. 121. Cfr. anche Piccola guardia, in «Critica fascista», 1° settembre 1940, p. 349. Note al capitolo sesto

1. Sull’immagine del Giappone in contesti diversi da questi, e in una fase precedente, cfr. Arzeni, L'immagine e il segno. 2. B. De Ritis, Problemi della civiltà moderna. La fabbrica del mondo, in «Critica fascista», 1° novembre 1935, cfr. pp. 6 sg. 3. E. Bodrero, I/ Pacifico, in «Gerarchia», luglio 1934, p. 551.

4.

Ibid.

188

Note al capitolo settimo

s. R. Longhitano, I/ patto a quattro. Ricostruzione fascista dell'Europa, in «Critica fascista», 1° luglio 1933, p. 243. 6. M.C. Catalano, Giappone in marcia, in «Politica», giugno-agosto 1933, p. 103; cfr. pp. 93 sg. Inoltre cfr. L’uomo fascista, Cronache del mese, in «Gerarchia», agosto 1935, p. 724. 7. Cfr. G. Pedoja, Numero e potenza dei giapponesi, in «Gerarchia», ottobre 1934, p. 868. Cfr. anche G. Fioravanzo, L'Italia e il Mediterraneo, in «Gerarchia», aprile 1937, pp. 225-34-

8.

M. Sertoli, Meridiano di Roma. Il pericolo giallo, in «Critica fascista», 1° gennaio 1934, p. 12.

9.

C. Tedeschi, I/ Giappone e la sua espansione nel mondo, in «Gerarchia», marzo 1935, p. 231.

ro. Cfr. ibid., p. 237. 11. Ibid., p. 239. Giocavano il loro ruolo anche elementi di politica contingente: gli accordi nippo-germanici facevano prevedere che la lotta decisiva si sarebbe svolta fra il Giappone e l'America, e avevano un certo peso nel far ipotizzare una coalizione fra Europa e America; cfr. Gi-Ta, L'alleanza nippo-germanica per il predominio sul mondo, in «Gerarchia», aprile 1935, pp. 308-21.

12. Cfr. M. dei Gaslini, La politica coloniale. Il Giappone alla conquista del mercato etiopico, in «Gerarchia», marzo 1935, p. 293. 13. L. Raiss, L'equilibrio politico del Pacifico, in «Politica», marzo 1938, p. 367. 14. Cfr. ad esempio l’articolo di G.E. Pistolese, I fattori dell’espansionismo nipponico, in «La Stirpe», febbraio 1935, pp. 69-71. 15. C. Sofia, Un libro di Cesco Tomaselli. L’ultimo Giappone, in «Critica fascista», 1° settembre 1935, p. 431. 16. B. De Ritis, Lettera dall'Oriente. La notte araba in azione, in «Critica fascista», 15 aprile 1936, p. 187.

17.

B. De Ritis, I/ nuovo Oceano storico, in «Politica», gennaio 1935, p. 112.

18.

M. Ardemagni, La rivoluzione fascista salverà la razza bianca, in «Gerarchia», agosto 1935,

PR673"

19.

Ibid., p. 677.

20. R. Bellotti, Italia ed Estremo Oriente, in «Gerarchia», dicembre 1937, p. 841. 21. R. Bellotti, Italia e Giappone. Mistica della patria, in «Gerarchia», febbraio 1938, pp. 106 sg. Cfr. anche un articolo come quello di C. Villa, Le ragioni del Giappone, in «Gerarchia», marzo 1938, pp. 189-91, dove l'imperialismo giapponese veniva definito «mistico» (e quindi vicino a quello italiano), e la funzione del Giappone sulla scena mondiale caratterizzata come principio di ordine. 22. 23. 24.

C. Galimberti, Appunti sul conflitto cino-giapponese, in «Gerarchia», settembre 1938, p. 614. Appelius, Cannoni e ciliegi in fiore, pp. 19, 28. Ibid., p. 25.

25. 26.

Cfr. ibid., pp. 108-11, 124-29. Cfr. ad esempio R. Bellotti, Il conflitto in Estremo Oriente. Cina nazionalista ed imperia-

lismo nipponico, in «Gerarchia», agosto 1937, pp. 557-65. Note al capitolo settimo

1. Alfredo Signoretti sosteneva, ad esempio, che mentre il «supercapitalismo» americano crolCH Russia andava avanti (Esperienze e insegnamenti, in «La Stirpe», novembre 1931, pp.

481-83).

Note al capitolo settimo

2.

189

Huizinga, La crisi della civiltà, p. 6. Sulla diffusione di spiegazioni non progressiste della

storia si vedano Nisbet, Storia e cambiamento sociale; Marramao, Potere e secolarizzazione; M.

Nacci, La fine della storia: spenglerismo e postmoderno, in Mari, Moderno postmoderno.

3. La maggior complicatezza della concezione della storia di A.J. Toynbee è data dalla so| vrapposizione di un movimento generale interpretabile come progresso al succedersi periodico di civiltà che nascono e muoiono (cfr. A Study of History). 4. Sulle filosofie della storia di Spengler e Toynbee si vedano Braudel, La storia della civiltà; Febvre, Due filosofie opportunistiche della storia. 5. Cfr. Guénon, La crisi del mondo moderno, pp. 29 sg.; Evola, Rivolta contro il mondo moderno, p. 231. 6. Cfr. Berdjaev, I/ senso della storia; Id., Un nouveau Moyen Age. 7. Cfr. la recensione di Ugo d'Andrea al volume di E. Rosboch, La crisi della civiltà europea. Fra libri e riviste, in «Critica fascista», 1° luglio 1930, pp. 259 sg.

8. S. De Cesare, I/ fascismo e l’unità europea, in «Critica fascista», 1° gennaio 1933, Pp. 5. oielbidi; pro. 10. A. Signoretti, Deficienze o declino dell’economia capitalistica?, in «La Stirpe», ottobrenovembre 1930, p. 449. 11. 12.

L'uomo fascista, Cronache del mese, in «Gerarchia», agosto 1935, p. 724. Ibid.

13.

Dell’argomento si sono occupati Banfi, La crisi; Friedmann, La crise du progrès; De Mar-

tino, La fine del mondo; Nacci, Tecnica e cultura della crisi; Freund, La décadence. Il rapporto

stretto che lega l’antiamericanismo alle riflessioni sul tramonto dell'Occidente era già chiaro a un lettore dell’intelligenza di Giaime Pintor quando nel 1943 scriveva: «E tutti gli esteti oziosi che si sentivano contemporanei di Pericle, gli pseudofilosofi avvolti in distinzioni metafisiche, i giornalisti che avevano assunto la difesa dell'Occidente volsero le spalle a un popolo così manifestamente degenere» (La lotta contro gli idoli, in Il sangue d'Europa, p. 155). 14. SuEvola cfr. Festa, Evola tra mito e tradizione; Jellamo, Evola, il pensatore della tradizione.

15.

Sulla versione italiana della cultura della crisi e sulla risposta che venne data ad essa cfr.

Nacci, La crisi della civiltà.

16. R. Ducci, La diffusione del fascismo nel mondo, in «Politica», giugno-agosto 1933, p. 41; cfr. p. 39. 17. Cfr. M. Da Silva, Lettera dalla Germania. La morale schiavista di Spengler, in «Critica fascista», 1° gennaio 1934, pp. 13-15.

18. 19.

Piccola guardia, in «Critica fascista», 1° aprile 1938, p. 169. V. Profumi, Crisi di civiltà, in «La Stirpe», luglio 1933, p. 337.

20.

Cfr. ibid., p. 338.

21. Ibid. 22. G. Cavallucci, Problemi della civiltà moderna. Nazioni giovani e nazioni vecchie, in «Critica fascista», 15 luglio 1936, p. 278. 23. Cfr. ad esempio Giovinezza internazionale, in «Critica fascista», 15 agosto 1936, pp. 305 5g. 24. B. De Ritis, Lettera dall'America del Nord. Il dramma della prosperità sintetica, in «Critica fascista», 15 settembre 1936, p. 333. 25. Ibid., pp. 333 sg. 26. Ciocca, Economia di massa, p. 232. 27..

Ibid., p. 245.

190

Note al capitolo ottavo

28. 29. 30.

Cfr. ibid., p. 246. Ibid., p. 247. Ruggiero, America al bivio, pp. 113 sg.

31.

Danzi, Europa senza europei?, pp. 16-18.

3200514 ppa23:828: 33. Ibid., pp. 30 sg., 34, 65, 97, 119. 34. Ciarlantini, Dieci anni di fascismo, pp. 103, 107. 35 MMI DIA EPITO6Ì Come osservava Piazza, Nell’America del Nord, p. 219.

36.

3721614002201 38. G. Alimenti, Il vagabondaggio negli Stati Uniti, in «La Stirpe», giugno 1935, p. 269. 3900 40.

did pinzgo: Silus, Commentario. Colonne d'Ercole, in «Gerarchia», novembre 1937, pp. 763 sg.

41.

Ibid.

42.

B. Brunello, Derzocrazia in crisi, in «La Stirpe», agosto 1936, p. 360.

43.

Silus, Commentario. Legalità rivoluzionaria, in «Gerarchia», 1° gennaio 1938, p. 8.

44. 45.

Ibid. Silus, Commentario. La battaglia per la civiltà, in «Gerarchia», febbraio 1939, p. 92.

46.

Ellevì, Le due aspettazioni, in «Gerarchia», febbraio 1939, p. 113. G.S. Spinetti, Verso una nuova sintesi, in «Gerarchia», ottobre 1938, pp. 676-78.

47.

Note al capitolo ottavo

1.

Ruggiero, L'America al bivio, p. 10.

2.

Sul corporativismo inteso come protesta morale contro la civiltà moderna mi sia consen-

tito rinviare a M. Nacci, Intellettuali francesi e corporativismo fascista, Roma 1935, in «Dimen-

sioni», xI (1986), 40-41, pp. 6-29. In quel caso ero stata portata a sottolineare maggiormente la funzione che questo tema svolgeva tra i «fascisteggianti» stranieri: ma la sua diffusione in Italia non deve invece essere trascurata.

3. Cfr. ad esempio C. Pellizzi, La «grande proletaria» e la crisi mondiale, in «Gerarchia», settembre 1930, pp. 724-27. 4.

V. Gayda, Le elezioni negli Stati Uniti: dalla prosperità alla crisi, in «Gerarchia», dicembre 1932, p. 1042.

5.

G. Alimenti, La verità sull'America, in «La Stirpe», maggio 1930, p. 237.

6.

E. Lolini, Le ideologie nordamericane e la crisi economica, in «Critica fascista», 15 gennaio 1031 Pi255 7. Ibid., pp. 25 sg.

8.

A. Signoretti, Razionalizzazione, in «La Stirpe», febbraio 1931, p. 49.

9.

A. Signoretti, Iniziativa privata e piani economici nella crisi mondiale, in «La Stirpe», maggio

1931, p. 197. ro.

Barzini, O America!, p. 219.

rr.

A. Signoretti, Il re dei fiammiferi, in «La Stirpe», aprile 1932, p. 146.

Note al capitolo ottavo

I9I

12. A. Signoretti, La crisi del capitalismo. Una difesa che èuna condanna, in «La Stirpe», gennaio 1932, p. 1. LISA: Signoretti, Il processo di disintegrazione mondiale e la prova dell'economia corporativa, in «La Stirpe», giugno 1932, p. 243. 14. A. Signoretti, Insegnamenti rivoluzionari: il crollo di un simbolo e di un sistema, in «La Stirpe», marzo 1933, pp. 97 sg. 15.

Cfr. A. Signoretti, Rinnovamento del capitalismo?, in «La Stirpe», marzo 1933, p. 233.

16. 17.

Cfr. G. Zuccoli, Limziti dell’economia creditizia, in «Politica», giugno-agosto 1933, p. 47. G. Arias, La crisi bancaria americana, in «Gerarchia», marzo 1933, pp. 215-19.

18.

Cfr. B. De Ritis, Lettera dall'America del Nord. La marcia dei colletti bianchi, in «Critica

fascista», 1° dicembre 1933, p. 460. 19. G. Fiorioli della Lana, Orizzonti corporativi. La crisi del sistema, in «Critica fascista», 15 dicembre 1935, p. 64. 20.

B. De Ritis, Problemi della civiltà moderna. Il diversivo monetario, in «Critica fascista»,

° maggio 1935, p. 258.

21.

Cfr. ad esempio P. Capoferri, Senso spirituale e politico del sindacato, in «Gerarchia»,

gennaio 1935, pp. 58-62. 22.

Ciocca, Economia di massa, p. 180.

23. 24.

U.S.A.: prognosi riservata, in «Critica fascista», 1° febbraio 1938, p. 98, cfr. p. 99. Cfr. G. Arias, I/ significato storico della crisi economica, in «Gerarchia», giugno 1931,

pp. 482-87.

25.

Cfr. C. Pellizzi, Considerazioni sulla crisi britannica, in «Gerarchia», ottobre 1931, pp.

813-17.

26.

C. Pellizzi, L'iniziativa individuale nella politica fascista, in «Gerarchia», dicembre 1931,

Pp. 995-98. 27. 28.

Ibid., p. 996. Cfr. F. Caparelli, Testimonianze straniere sul fascismo, in «Gerarchia», febbraio 1933, pp.

112-20. Ruggiero, America al bivio cit., pp. 55, 130.

29.

30.

Sulla mancanza di senso della misura, cfr. L.A. Miglioranzi, L'organizzazione sindacale

negli Stati Uniti, in «Gerarchia», novembre 1930, pp. 928-31. 31. 32. 33.

A. Signoretti, Mobilitazione produttiva, in «La Stirpe», dicembre 1930, p. 506. Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 15 settembre 1930, p. 350. G. Alimenti, Gli sviluppi della crisi economica negli Stati Uniti, in «La Stirpe», gennaio

1931, PP. 7 Sg.

34.

L. Ingianni, Fisiologia e patologia della crisi, in «Critica fascista», 1° giugno 1932, p. 207.

35.

Cfr. M. Ardemagni, Gli italiani nel Nord America, in «Gerarchia», febbraio 1933, p. 121.

36. 37.

Ibid. Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 1° aprile 1933, p. 130. 38. A. Signoretti, Un grande esperimento economico e sociale. Un anno di governo Roosevelt, in «La Stirpe», marzo 1934, p. 98. 39. 40.

41.

Ibid., p. 99. Piazza, Nell’America del Nord, pp. 282, 286. R. Ducci, La diffusione del fascismo nel mondo, in «Politica», giugno-agosto 1933, PP. 37 Sg.

192

Note al capitolo nono Note al capitolo nono

1. Cfr. E. Sulis, Processo all’idea internazionale, in «Gerarchia», novembre 1936, pp. 749-56. Per Julius Evola America e Russia (fine di un ciclo) erano la conclusione estrema dei processi che presiedevano alla formazione della modernità: cfr. Rivolta contro il mondo moderno, pp. 445-47, 454 sg., 456-63, dove è molto presente l’idea del «dispotismo collettivo» americano.

2. 3. 4.

Cfr. Vaudagna, Corporativismo e New Deal. S. Panunzio, La fine di un regno, in «Critica fascista», 15 settembre 1931, pp. 343 Sg., 342. M. Scaligero, Pericolo di un mito contemporaneo, in «Critica fascista», 15 luglio 1931, p. 369.

5.

Cfr. B. Spampanato, Universalità d’ottobre. La crisi d'Europa, in «Critica fascista», 1° novembre 1931, pp. 405-07. 6.

Cfr. L. Ingianni, La rivoluzione fascista, lo spirito e gli interessi, in «Critica fascista», 15

ottobre 1931, pp. 381-83. 7. R. Fiorini, A proposito dell’antitesi Roma o Mosca, in «Critica fascista», 15 ottobre 1931,

pp. 383-85. 8.

La discussione sulle due tesi proseguì, oltre che con gli articoli già ricordati come quelli

di Scaligero e Spampanato, con M. Rivoire, Affinità ed antitesi fra Roma e Mosca, in «Critica fascista», 1° novembre 1931, pp. 413 sg.; A. Luchini, Obiezioni al neomoscovitismo, in «Critica fascista», 15 novembre 1931, pp. 432-34; L. Ingianni, Roma e Mosca. Nettissima antitesi e A. Tosti, L’abisso, entrambi in «Critica fascista», 1° dicembre 1931, pp. 455-57 € 457-59; B. Spampanato, Universalità di ottobre. Dove arriva lo Stato, in «Critica fascista», 1° gennaio 1932, pp. 16-19, per non citare che alcuni degli interventi pubblicati da «Critica fascista» a ridosso dei primi. C’è da notare che, in una fase leggermente spostata rispetto a questa, su

una rivista come «Gerarchia» le critiche all’ America andranno di pari passo con i segnali di simpatia per l’Unione Sovietica, anche se non mancheranno le osservazioni sull’americanismo dei russi, sul tentativo che essi compiono di raggiungere l’America, e così via. Cfr. ad esempio A. Palumbo, I/ piano quinquennale della Russia sovietica, in «Gerarchia», settembre 1933, pp. 7214-20: la Russia qui appare un paese davvero giovane, e la sua giovinezza storica proviene

dal fatto di aver compiuto una rivoluzione. Cfr. anche M. Ardemagni, Deviazioni russe verso il fascismo, in «Gerarchia», luglio 1934, pp. 571-73: si assisteva in Russia a una graduale rinuncia al marxismo e ad una accettazione progressiva dei principi fondamentali del fascismo; i russi, come gli italiani, avevano finalmente scoperto il nazionalismo. 9. B. Spampanato, Unzversalità di ottobre. Dove arriva lo Stato, in «Critica fascista», 1° novembre 1931, pp. 17, 19. ro.

A. Ruggiero, Tecnici americani in Russia, in «La Stirpe», settembre 1932, p. 389.

tr. Cfr. Tagi, I/ piano quinquennale e l’attrezzamento industriale della Russia, in «Gerarchia», febbraio 1932, pp. 133-45.

12.

A. Fassio, Teoria e pratica del bolscevismo, in «La Stirpe», dicembre 1933, p. 590.

13.

Flora, Civiltà del Novecento, p. 29.

14.

Cfr. T. Napolitano, Panorami europei. La nuova «carta» sovietica, in «Critica fascista»,

15 ottobre 1936, p. 381. 15. Cfr. A. Fiaccadori, Alcuni aspetti della politica economica sovietica, in «La Stirpe», no-

vembre 1935, pp. 477-79. 16.

G.S. Spinetti, Precisazioni. Fascismo e bolscevismo, in «Gerarchia», novembre 1936, p. 763.

17.

F. Chilanti, Sciopero generale nella Russia Sovietica, in «La Stirpe», novembre 1936, p. 452.

18.

Ibid., p. 453.

Note al capitolo nono

19.

193

G. Fettarappa-Sandri, Rivoluzione e controrivoluzione, in «Gerarchia», luglio 1938, pp.

453, 452.

20.

Cfr. G. Farina d’Anfiano, L'individuo e lo Stato nel regime, in «Vita Nova», agosto 1930,

21.

A. Signoretti, I/ senso sociale nella produzione, in «La Stirpe», agosto 1932, p. 337.

22.

D. Rosati, L'America ed il suo esperimento economico, in «Politica», giugno-agosto 1933,

p. 650.

P. 71.

23. F. Chilanti, A/ di là di due scuole, in «La Stirpe», novembre 1934, p. 492. Cfr. anche P. Sessa, La Russia bolscevica tra la fame e la guerra, in «Politica», gennaio 1935, pp. 66-110, in particolare p. 79, che sosteneva la dipendenza del marxismo e del leninismo dal capitalismo e U. d'Andrea, Problemi della civiltà moderna. Individuale e collettivo. Lettera aperta al «Cantiere», in «Critica fascista», 1° maggio 1934, p. 167.

24.

Prezzolini, Diario, p. 489.

25. Duhamel affermava, rivolto agli americani: «Voi avete, spinti dalle circostanze, messo in pratica il comunismo borghese» (Scènes de la vie future, p. 142). Con questa espressione Duhamel indicava la regolamentazione burocratica della vita, l'oppressione di leggi e regolamenti, la scomparsa delle differenze fra un uomo e l’altro, la nascita spontanea di una costrizione sociale sotto le sembianze accattivanti delle conquiste della civiltà. 26.

B. Spampanato, Rozza e Mosca o la vecchia Europa?, in «Critica fascista», 15 novembre

193I, p. 436. 27.

Barzini, O America!, p. 76.

28.

Barzini, Nuova York, p. 129.

29.

Ibid., pp. 159 sg.

30.

Cfr. ibid., p. 217.

31.

Dottorelli, Viaggio in America, p. 15.

32.

E. Sulis, Scambio o invasione?, in «Gerarchia», maggio 1934, p. 403.

33.

34. 35. 36. 375 38M 39. 40.

Cfr. E. Sulis, Esazze di forza, in «Gerarchia», febbraio 1935, p. 163. V. Piccoli, Babbitt o l’uomo standard, in «Critica fascista», 1° dicembre 1932, pp. 456 sg. Soldati, Amzerica primo amore, pp. 166, 195. Cfr. Cecchi, America amara, pp. 36, 40. Ibid:x\pa4o: bd ppwa224 242,257 Sg, 289. Sarfatti, L'America, ricerca della felicità, pp. 21, 20, 282 sg. A. Cerea, La libertà vera e quella falsa, in «Gerarchia», marzo 1938, p. 177.

41. 42.

Ibid., p. 178. F. Coppola, Momenti della lotta politica, in «Politica», marzo 1938, p. 325.

43.

Villari, Negli Stati Uniti, pp. 31 sg. 44. A.O. Olivetti, I/ punto debole della economia capitalistica e il tallone d'Achille della dottrina marxista, in «La Stirpe», luglio 1930, p. 342. 45. G. Alimenti, Disoccupazione e previdenze sociali in Europa e in America, in «La Stirpe», settembre 1931, p. 401. 46. Marinoni, Come ho «fatto» l'America, p. 73. 47. Cfr. ad esempio T.B. Morgan, L'influenza del movimento mussoliniano negli Stati Uniti, in «Gerarchia», ottobre 1932, pp. 854-56.

13

194

Note al capitolo nono

48. Il New Deal, in questo caso, era un’autocorrezione del sistema politico liberale che quel sistema metteva in atto senza aiuti esterni, per il solo fatto di aver preso coscienza delle falsità della democrazia e dei guasti del liberalismo, le prime in campo politico, i secondi in materia economica: il ruolo decisivo in questa agnizione era svolto nel primo caso dalle vicende della vita quotidiana, che mettevano a nudo il volto di chi davvero governava l’America, nel se-

condo —- ancora una volta — dalla crisi del 29. Si vedano, per una verifica di questa interpretazione: L. Barzini, L'Italia ha ragione, in «Gerarchia», agosto 1933, pp. 651-56; B. De Ritis, Lettera dall'America del Nord. Roosevelt sulla difensiva, in «Critica fascista», 15 giugno 1934, pp. 233 sg.; N. Giani, Il mondo fascista. «Le siècle du corporatisme», in «Gerarchia», febbraio 1935, pp. 176-80; G. Selvi, Fermentazione fascista nel mondo, in «Gerarchia», luglio 1935, pp. 567-82; Silus, Commentario, in «Gerarchia», luglio 1935, pp. 604-06; P. Chimienti, La riele-

zione di Roosevelt a presidente degli Stati Uniti (4 novembre r936), in «Gerarchia», febbraio 1937, pp. 104-09; Id., Due novità del tempo fascista, in «Gerarchia», agosto 1937, pp. 542-45. 49.

E. Brunetta, Esperizzento di Roosevelt, in «Critica fascista», 1° settembre 1933, Pp. 334 Sg. 5o. Piazza, Nell’America del Nord, pp. 29, 78. Cfr. anche V. Covi, La democrazia in pratica, in «La Stirpe», febbraio 1934, pp. 68 sg. 51.

Cfr. G. Fontana, Fascismo e democrazia, in «Gerarchia», aprile 1937, p. 237.

52. Queste espressioni sono tratte da: G. Arias, La crisi bancaria americana, in «Gerarchia», marzo 1933, pp. 215-19; V. Vezzani, Tipi ideali umani e tipo fascista, in «Gerarchia», agosto 1934, pp. 632 sg.; G. Mastrocchio, La concezione biologica dello Stato fascista, in «Gerarchia», luglio 1937, p. 470; M. Jannelli, Individuo e Stato. Il dominio dello spirito nello Stato fascista, in «Gerarchia», gennaio 1938, pp. 3 sg.; C. Pellizzi, Residui, in «Critica fascista», 15 giugno

1931, pp. 223 sg.; V. Lilli, Arzericanismo ed europeismo, in «Critica fascista», 15 novembre 1931, cfr. p. 438; B. De Ritis, Lettera dall'America del Nord. Fallimento delle razze nordiche?,

in «Critica fascista», 15 settembre 1933, p. 352; Id., Lettera dall'America del Nord. La marcia dei colletti bianchi, in «Critica fascista», 1° dicembre 1933, p. 460; F. Bresadola, Nuove economie sperimentali, in «La Stirpe», settembre 1933, p. 433.

53. L’elenco degli interventi che documentano questa interpretazione sarebbe lungo se fosse completo: a titolo di indicazione, si pensi a G.R. Maranzana, Cose dell’«altro mondo». L’avve: nire del dollaro così come è visto da Londra, in «Gerarchia», settembre 1933, pp. 747-58, dove si sosteneva la tesi che Roosevelt avesse poteri dittatoriali; F. Ciarlantini, L'organizzazione industriale e commerciale degli Stati Uniti, in «Gerarchia», maggio 1930, pp. 405-11, dove risultava che la democrazia americana era non falsa — come per gli altri autori che abbiamo preso in esame più sopra - ma apparente; D. Rosati, L’Azzerica ed il suo esperimento economico, in

«Politica», giugno-agosto 1933, pp. 69 sg.; Ciocca, Ecororzia di massa, dove si leggeva: «La formula della N.R.A. è, in fondo, la formula dello Stato corporativo con la differenza che negli ordinamenti corporativi l’iniziativa dello Stato e quella degli individui si saldano attraverso l’azione filtrante e disciplinatrice delle corporazioni, mentre nel nuovo ordinamento americano la disciplina è imposta agli individui brutalmente attraverso i codici di industria» (p. 208); Quirita, La città nuova, in «Gerarchia», aprile 1937, pp. 249 sg. 54.

Cfr. l’Editoriale di «Critica fascista», 15 settembre 1939, p. 345.

55. Cfr. R. Mattioli, Un errore del Keyserling, in «Gerarchia», luglio 1935, p. 651. 56. Cfr. ibid. Posizioni che si oppongono all’individualismo richiamandosi a masse organizzate organicamente nello Stato sono espresse in tutti gli interventi citati nella nota 52. 57. P. Sacerdoti, L'America verso il fascismo?, in «Gerarchia», novembre 1933, pp. 933-43. 58. B. De Ritis, Lettera dall’America del Nord. L’America scopre se stessa, in «Critica fascista», 1° giugno 1933, p. 213; Id., Lettera dall’America del Nord. Fallimento delle razze nordiche? cit., pp. 352 sg.; Id., Lettera dall'America del Nord. La marcia dei colletti bianchi cit., p. 460. 59. Ruggiero, America al bivio, p. 14. 60. A.L. Arrigoni, Il tragico equivoco di un secolo, in «Gerarchia», dicembre 1938, p. 839.

Note al capitolo decimo

195

Note al capitolo decimo

1.

Cfr. Soldati, America primo amore, pp. 176-84, 185, 188.

2. 3.

V. Mussolini, Emzancipazione del cinema italiano, in «Cinema», 25 settembre 1936, p. 213. Ibid., pp. 214 sg.

4. Cfr. sull’ argomento Brunetta, Cinema italiano tra le due guerre, pp. 69 sg.; Id., Storia del cinema italiano, in particolare pp. 409-16. 5. Sarebbe errato, infatti, prendere l'articolo di Vittorio Mussolini come esemplare di un clima: di quel clima esso rappresenta bene una faccia, quella positiva. All’articolo di Mussolini rispose un corsivo del «Doganiere» dove si leggeva: «Noi dobbiamo tendere verso la giovinezza (...) Così si possono trovare quei punti di contatto necessari ad ogni azione comune. Ma potremo trovarli un giorno in America?» (Dogana, in «Critica fascista», 1° ottobre 1936, p. 361). Giorgio Vecchietti riteneva troppo facile la contrapposizione fra un cinema americano spontaneo e accessibile e un cinema europeo cervellotico e pedante; in realtà, il cinema americano migliore era fatto da europei, mentre i film americani che piacevano agli europei non piacevano nella loro patria. Anche nel campo del cinema, l’Europa rivelava i tratti di una civiltà insuperata, mentre nelle opere americane circolava «una morale democratica, puritana, paci-

fista, filistea e razzista di pretta marca yankee» (L'uomo ombra. Chi si fida?, in «Critica fascista», 15 novembre 1936, p. 32). 6.

Cfr. Barzini, O America!, p. 70.

7.

Editoriale, in «Critica fascista», 1° dicembre 1938, p. 34.

8.

C. Sofia, I/ cinematografo affare di Stato, in «Critica fascista», 1° aprile 1934, p. 139.

9.

Ibid.

10. Cfr. U. d'Andrea, Rorza tra Asia e America in un libro di Giorgio Pini, in «Critica fascista», 15 agosto 1930, p. 306. Come abbiamo visto nell’Introduzione, erano proprio gli stessi

elementi dell’artificio tecnico e delle masse come destinatario dell’opera cinematografica che facevano condannare a Giaime Pintor il cinema americano come forma corrotta di arte nel 1941. Due anni dopo, è in base alle stesse ragioni che il cinema americano gli appare l’espressione adeguata dell’unico mondo che possa essere sentito come «contemporaneo». Da questo punto di vista, pare a Pintor che il solo altro esempio di arte diretta alle folle e decisa a servirsi dei nuovi strumenti in possesso dell’umanità sia il cinema russo. Cfr. Pretesto americano (1941), p. 79, e La lotta contro gli idoli (1943), in Il sangue d’Europa, pp. 79 e 148-59. 11. Cinema gira, in «Cinema», 10 agosto 1936, p. 93. Questa rivista rappresenta l’unica incursione che abbiamo fatto nel settore delle pubblicazioni di cinema, che invece sarebbe da esplorare con attenzione. 12. Consiglio e Debenedetti, Paroramzica di Venezia, in «Cinema», 10 agosto 1936, p. 105. 13.

T.Cianetti, Deve il cinema andare verso il popolo 0 viceversa?, in «Cinema», 10 novembre

1936, p. 334. 14.

G. Vigolo, Roma e Hollywood, in «Cinema», 25 novembre 1936, p. 374.

15.

Biàncoli, Durancòra, in «Cinema», 10 agosto 1936, p. 93.

16.

Biàncoli, Durancòra, in «Cinema», 25 agosto 1936, p. 131.

17.

19.

Piccola guardia, in «Critica fascista», 15 settembre 1938, p. 345. Cfr. «L'italiano», gennaio-febbraio 1933, numero speciale sul cinema. Flora, Civiltà del Novecento, p. 66; cfr. p. 78 per un giudizio positivo.

20.

Cfr. ad esempio Cinema gira, in «Cinema», 25 ottobre 1936, p. 287.

18.

196

Note al capitolo undicesimo

21. Il 40, Spunti polemici, in «Cinema», 25 ottobre 1936, p. 303. D'altra parte, le recensioni ai grandi film americani - come I lancieri del Bengala di Hathaway, o Accadde una notte e E arrivata la felicità di Capra - sono molto positive; anche la produzione di Lubitsch (ma si trattava ancora una volta di un europeo trasmigrato) suscitava commenti sulla vivacità e gaiezza del cinema americano. 22. F. Bonfiglio, Sguardo alla rvMostra del Cinema a Venezia, in «La Stirpe», settembre 1936,

p. 367. 23.

G. Vecchietti, L’uorzo ombra. Occasione perduta?, in «Critica fascista», 1° febbraio 1937,

pi EI2.

24.

Segnalazioni-stampa, in «Critica fascista»,

25.

A. Ruggiero, La crisi di una cultura, in «La Stirpe», dicembre 1930, p. 514.

15 novembre 1940, p. 32.

26.

G. Vecchietti, L’uomzo ombra. Interviste e snobismo, in «Critica fascista», 1° gennaio 1937,

p. 80.

27.

Spectator, Verso un grande film italiano. Scipione, in «Cinema», 25 agosto 1936, p. 133.

28.

Cfr. G. Vigolo, Roma e Hollywood, in «Cinema», 25 novembre 1936, pp. 373 sg.

29.

T. Labriola, Arizza europea e cinema americano, in «La Stirpe», giugno 1938, p. 179.

30. 31.

Ibid., pp. 179 sg. U. Chiappelli, Cinezzatografo per il popolo, in «La Stirpe», ottobre 1938, p. 305.

32.

F. Azzali, Rapporto cinematografico. Il cinema e la società italiana, in «Critica fascista»,

15 agosto 1938, p. 317; cfr. p. 318. 33.

Chiarini, Cinematografo, pp. 48, 39; cfr. pp. 15, 40.

34. Cfr. Piccola guardia, in «Critica fascista», 15 aprile 1940, p. 201. Cfr. anche Piccola guardia, in «Critica fascista», 1° novembre 1940, p. 9. 35. F. Martinelli, I/ cinerza: problema dei giovani, in «Gerarchia», agosto 1938, p. 569. 3604 Cir bd ipi570: 37. L. De Feo, Editoriale, in «Cinema», 10 luglio 1936, p. 8; cfr. Editoriale, in «Critica fascista», 1° luglio 1939, p. 262. 38. A questo schema si atteneva, ad esempio, l’articolo di padre A. Gemelli, Enciclica e cinematografo, in «Cinema», 25 luglio 1936, pp. 51 sg. 39.

F. Bonfiglio, Funzioni della «Città cinematografica», in «La Stirpe», giugno 1937,

pp. 165 sg.

40.

Giv., Una città e un impegno, in «Critica fascista», febbraio 1936, p. 118. Note al capitolo undicesimo

1. Sultema della modernità cfr. Berman, L'esperienza della modernità; Maldonado, I/ futuro della modernità; Galli, Modernità; Rella, Forme e pensiero del moderno. 2. Cfr. a titolo d'esempio, fra i molti libri sull'argomento, Mari, Moderno postmoderno. 3.

Barzini, Nuova York, p. 273.

4.

L. Barzini, Prefazione a Barzini, Nuova York, p. 6.

5.

La polemica si svolse sulle pagine di «Pegaso» e quelle di «Critica fascista» nell’ottobre

1932; cfr. Italianità e modernità (Lettera di Ojetti e risposta di Bottai), in «Critica fascista», I5

ottobre 1932, pp. 392 sg. 6. Ibid.

Note al capitolo undicesimo

7.

197

Dottorelli, Viaggio in America, pp. 19 sg.

8.

Cfr. Sarfatti, L'America, ricerca della felicità, p. 116.

9.

U. d'Andrea, Problemi della civiltà moderna. Individuale e collettivo. Lettera aperta al «Can-

tiere», in «Critica fascista», 1° maggio 1934, p. 167.

10. Cfr. G. De Lorenzo, Utopie del passato e del futuro, in «Gerarchia», gennaio 1934, che scriveva: «Aldous Huxley nel suo ultimo libro, Brave New Wor/d, ha voluto, seguendo le grandi orme di Swift e di alcuni romanzi di Voltaire, fare una satira del be/ nuovo mondo americano

ed americanizzante, col suo fordismo, taylorismo, hollywoodismo, etc., proiettandolo ingigantito nelle magnifiche sue sorti e progressive, sopra uno schermo dell’anno 632 dell’era di Ford»

(p. 17). 11.

Flora, Civiltà del Novecento, pp. 36 sg.

12.

Cecchi, America amara, p. 108. L'America era la modernità,

e dunque un modello da

rifuggire, anche per il tradizionalismo di un Fanelli, dove la «civiltà aritmetica» d’oltre Oceano si caratterizzava per taylorismo, edonismo, mancanza di forma; si vedano le violente ed emble-

matiche dichiarazioni di Fanelli, L'artigianato, pp. 173, 198-215, 423 sg., 431 sg. 13. Silus, Commentario. Morte civile, in «Gerarchia», maggio 1938, pp. 306, 305. «Cade l’illusione — si poteva leggere — che il progresso sia stato una avanzata dell'umanità» (p. 305). 14. Silus, Commentario. Il determinante scientifico, in «Gerarchia», settembre 1938, pp. 589, 591.

15.

Editoriaie, in «Critica fascista», 15 gennaio 1939, p. 81.

16.

Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 15 febbraio 1933, p. 70.

17.

M. Tinti, Problemi della civiltà moderna. Di che soffre la civiltà europea, in «Critica fa-

scista», 15 gennaio 1935, p. II9.

18.

Ibid., pp. 119 sg.

19.

Quirita, La città nuova, in «Gerarchia», aprile 1937, p. 249.

20.

Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 1° marzo 1930, p. 90.

21.

Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 1° maggio 1930, p. 171. Mino Maccari aveva

scritto nel 1928: «Val più un rutto del tuo pievano | che 1’America e la sua boria: | dietro l’ultimo italiano | c’è cento secoli di storia» (Trastullo di Strapaese, Vallecchi, Firenze 1928, pp. 10-19, cit. in Gramsci, Quaderni del carcere, vol. 1, p. 127. Si trattava di un punto centrale sia per i critici della civiltà americana sia per i sostenitori del valore di essa: infatti per Giaime Pintor il fatto che l’America, a differenza dell'Europa, non avesse cimiteri da difendere, si configurava come «la lotta contro gli idoli» (I/ sangue d’Europa cit., p. 158).

22. Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 1° gennaio 1931, p. 11. 23. V. Lilli, Americanismo ed europeismo, in «Critica fascista», 15 novembre 1931, pp. 437 sg. Cfr. D. Rosati, L'America ed il suo esperimento economico, in «Politica», giugno-agosto 1933,

pp. 64 sg. 24.

B. Brunello, Dalla crisi mondiale alla nuova utopia, in «La Stirpe», agosto 1931, p. 340.

25.

Come gli venivano assegnati, ad esempio, dal Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 15 giugno 1935, quando ne evidenziava l’ingenuità, l’infantilismo, l'atteggiamento di chi le

spara grosse e poi sta a vedere se qualcuno ci casca (p. 327).

26.

Il Doganiere, Dogana, in «Critica fascista», 15 luglio 1932, p. 270.

27.

De Ritis, Lettera dall'America del Nord. L'America scopre se stessa cit., p. 212. De Ritis, Lettera dall'America del Nord. Fallimento delle razze nordiche? cit., p. 352; cfr.

28.

P. 353.

198

Note al capitolo undicesimo

29.

B. Ricci, Stoccate. Mondo nuovo, in «Critica fascista», 15 giugno 1940, p. 267.

30.

B. De Ritis, Lettera dall'America del Nord. Gioventà americana, in «Critica fascista», 1°

novembre 1936, p. 15. 31. Cfr. Segnalazioni-stampa, in «Critica fascista», 15 gennaio 1937, p. 87. 32. 33.

Segnalazioni-stampa, in «Critica fascista», 15 febbraio 1937, p. 122. Cfr. A. Nasti, Europa al rimorchio. Confronti... odiosi, in «Critica fascista», ne luglio 1937,

pp. 302 sg. Gli scioperi impressionanti erano provocati dall’arretratezza americana in materia

di diritto dei lavoratori e salvaguardia del lavoro: il capitalismo rapace e disumano negava anche i contratti collettivi. Cfr., dello stesso Nasti, Europa al rimorchio... Europa e America, in «Critica fascista», 15 gennaio 1937, pp. 93 sg., nonché Segnalazioni-stampa, in «Critica fascista», 1° giugno 1937, p. 262. 34. Cfr. P.M. Pasinetti, Panorami americani. Gioventà rosa negli U.S.A., in «Critica fascista», 1° novembre 1937, pp. 12-14. 35. Cfr. G. Rizzetto, Lettera dall'America del Nord. Pax americana, in «Critica fascista», 1° gennaio 1938, pp. 74-76.

36.

Piccola guardia, in «Critica fascista», 15 giugno 1938, p. 249.

37. 38.

Cfr. Piccola guardia, in «Critica fascista», 15 agosto 1938, p. 313. Piccola guardia, in «Critica fascista», 1° ottobre 1938, p. 361.

39.

Danzi, Europa senza europei?, p. 16.

40. Sarfatti, L'America, ricerca della felicità, p. 85; cfr. pp. 86, 180. Già Federico Craveri alla fine dell'Ottocento sottolineava i caratteri «mostruosi» di Chicago (cfr. Milano, Fra Indios e Yankees, p. 193).

41. 42. 43.

Cfr. Piazza, Nell’America del Nord, pp. 8, 63. Cfr. Barzini, O Amzerica!, cfr. pp. 58, 182 sg. Sarfatti, L'America, ricerca della felicità, p. 153.

44.

Ruggiero, Italiani in America, pp. 117, 122, 125, 136, 167, 178, 183.

45. 46.

G. Alimenti, La verità sull'America, in «La Stirpe», maggio 1930, pp. 235, 239; cfr. p. 240. G. Rizzetto, Lettera dall'America del Nord. Pax americana, in «Critica fascista», 1° gen-

naio

1938, pp. 74-76.

47. Quidam, Pretesti. Dove sta la civiltà?, in «Critica fascista», 15 febbraio 1934, p. 76. 48. G. Alimenti, Le organizzazioni operaie degli Stati Uniti, in «La Stirpe», febbraio 1931, DPAZOZ SEI CELMDI5AE 49. G. Alimenti, Disoccupazione e previdenze sociali in Europa e in America, in «La Stirpe», settembre 1931, pp. 400 sg. 50. 51.

A. Ruggiero, Capitalismo e sindacati in America, in «La Stirpe», aprile 1933, pp. 189 sg. Ruggiero, Italiani in America, p. 112.

52. B. De Ritis, Lettera dall'America del Nord. I conflitti del lavoro, in «Critica fascista», 15 settembre 1934, p. 353.

53. Dedicato in parte alla disillusione degli emigrati e in parte alla loro integrazione sociale è Rolle, Gli emigrati vittoriosi. Molto chiaro risulta il mito americano come molla per la partenza dall’Italia, e in particolare «il mito che faceva del West americano il “giardino del mondo”»: più in generale, il mito delle infinite possibilità per tutti e dell’uguaglianza. Ed è molto efficace la descrizione della realtà di sfruttamento e di discriminazione che risultava proprio dalle lettere degli italiani e dai libri di ricordi dell’epoca, a partire dalla fine dell'Ottocento: è significativo, fra l’altro, che da queste prime testimonianze emergesse fra le caratteristiche degli

Note al capitolo undicesimo

199

americani il «crasso materialismo», il fatto che «c’era forse troppa democrazia e al tempo stesso troppa mancanza di buone maniere» (cfr. pp. 32, 159, 341, 41, 140-56). «Dopo il 1900, negli scritti dei viaggiatori andò diffondendosi un’altra immagine dell’ America, di un’ America meno regionale, più nazionale, più standardizzata. Al di là delle caratteristiche locali si formava il “modello” americano, un modello generico, spesso in contrasto con le realtà particolari» (p. 159). Insieme alla disillusione, si faceva strada l’idea che l’America avesse sostituito le virtù italiche con uno stile di vita tale da corrompere i nostri emigrati (cfr. p. 351). 54.

Ruggiero, Italiani in America, pp. 72, 97.

55.

Soldati, America primo amore, p. 22.

56. All’America vissuta in modo mitologico dagli emigranti meridionali, un’ America come «altro mondo», come «grande avventura», come «paradiso», dedica pagine assai penetranti Carlo Levi: sono le stesse in cui viene descritta la scena che si presentava agli occhi dello scrittore in visita nelle case più povere di un paesino della Lucania, con un piccolo altare nel quale erano appese le immagini dei numi tutelari della gente del luogo. Le immagini erano due: una era quella della Madonna di Viggiano, l’altra quella di Franklin Delano Roosevelt. Cfr. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, p. 107. 57.

58. 59. 60.

Soldati, America primo amore, pp. 38 sg., 41, 56, 58. Ibid., p. 147. Cecchi, America amara, p. 54; cfr. pp. 80-86. I. Petrone, Libri letti. America amara, in «Critica fascista», 1° marzo 1940, p. 155.

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Bibliografia La presente Bibliografia è stata divisa in tre parti: la prima riguarda i testi italiani utilizzati nel libro; la seconda offre gli elementi essenziali del contesto di idee degli anni trenta nel quale l’antiamericanismo viene inserito; la terza presenta la letteratura critica sull’argomento, non strettamente limitata al periodo preso in esame. È inutile dire che tutte e tre le sezioni sono tutt'altro che esaustive. È parso utile però, soprattutto per la seconda, raggruppare ed evidenziare le opere citate nel testo con la semplice indicazione del nome dell’autore, seguito da un titolo abbreviato.

1. Testi

Sono state spogliate sistematicamente le annate che vanno dal 1930 al 1940 delle riviste: — «Critica fascista» — «Gerarchia» —

«Politica»

— «La Stirpe». Un'attenzione più discontinua è stata prestata invece alle riviste: — «Antieuropa» — «Cinema»

— — — —

«L'italiano» «Il Saggiatore» «Il Selvaggio» «Vita Nova».

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Indice dei nomi

Achard P., 22, 178 Adams J. T., 60, 88, 183, 187 Airoldi A., 78, 185 sg. Alimenti G., 28, 40, 48, 112, 121, 126, 143, 172 sg., 178, 180 sg., 183, 190 sg., 193, 198

Anderson S., 59 sg., 183 Andrea U. d’, 26, 80, 104, 154, 164, 178, 186,

189, 193, 195, 197 Appelius M., 97, 188 Arcari P. M., 75, 185 Ardemagni M., 95, 126, 188, 191 sg. Arias G., 64, 123, 184, 191, 194 Aron R., 22 Arrigoni A. L., 148, 194 Arzeni F., 187 Azzali F., 66, 158, 184, 196

Babbitt I., 51, 60, 139, 193 Banfi A., 189 Barzini L., junior, 44 sg., 49, 121, 137, 152, 163, 180-82, 190, 193-96, 198 Barzini L., senior, 163 sg., 196

Baudrillard J., 186 Bellone E., 10

Bellotti R., 96, 188 Beonio Brocchieri V., 31, 43, 76, 81, 179 Sg, 185 sg.

Berdjaev N., 103, 189 Bergson H., 37 Berman M., 196 Bertonelli F., 182 Biancoli, 155, 195 Bilenchi R., 63, 183

14

Bodrero E., 91 sg., 187 Boldrini M., 62, 183 Bollati G., 10 Bonfiglio F., 156, 196 Bottai G., 57, 164, 183, 196 Bourget P., 24 Bragaglia A. G., 78, 186 Braudel F., 189 Bresadola F., 194 Bruers A., 56, 182 Brunello B., 29, 35, 75, 113, 169, 178 sg., 185, 190, 197 Brunetta E., 67, 69, 144, 184, 194 sg. Burzio F., 105

Caniglia R., 184 Cannistraro P. V., 177 Cantalupo R., 43, 180 Caparelli F., 54, 182, 191 Capoferri P., 191 Capra F., 196 Caraci G., 184 Carducci N., 177 Carlyle T., 37, 118 Carrel A., 105 Cartesio R., 58 Catalano M. C., 92, 188 Cataluccio F. M., 10

Cavalli A., 178 Cavallucci G., 108, 189

Cecchi E., 14, 27, 44, 53, 65, 81, 140, 165, 175, 177 Sg., 180-82, 184, 186, 193, 197,

199

210

Indice dei nomi

Ellevì, 184, 190 Ellwood D., 10, 177

Céline L. F., 41, 180 Cerea A., 141, 193 Chiappelli U., 157 sg., 196

Ergo, 184 Evans J., 178 Evola J., 102, 105 sg., 181, 189, 192

Chiarini L., 158, 196

Chilanti F., 34, 135, 137, 179, 192 Sg. Chimienti P., 194 Cianetti T., 154, 195 Ciarlantini F., 26, 30, 59, 111, 178 sg., 183,

190, 194 Ciocca G., 29 sg., 65, 109 sg., 123, 178, 184, 189, I9I, 194.

Colombo C., 163 Consiglio, 154, 195 Coppola F., 52, 71, 79, 83-87, 141, 182,

185-87, 193 Covi V., 194 Craveri F., 198 Curcio C., 33, 179

Daniel-Rops H., 105

Farina d’Anfiano G., 136, 193 Fassio A., 134, 192 Febvre L., 189 Fernandez D., 177 Ferraresi F., 184 Ferrari A., 70, 180, 185 Ferrero G., 181 Ferrero L., 49, 181 Ferri{CE74X0195, Festa F. S., 1890

Fiorini R., 133, 192

Dante A., 168 Danzi G., 39, 110 sg., 180, 190, 198 Da Silva M., 106, 189

Fiorioli della Lana G., 191 Flora F., 32, 134, 152, 165, 179; 192, 195;

197

Debenedetti, 154, 195

Fohlen C., 177 Fontana G., 145, 194 Ford H., 29, 31, 53, 58, 75, 121, 133, 140,

De Cesare S., 189

De Felice R., 177 Feo L., 159, 196 Grazia V., 10, 177 Leva R., 33, 179 Lorenzo G., 186, 197 Luca G., 88, 184 sg.; 187 Magistris F., 79, 184, 186 Martino E., 189

178, 197

Forzato Spezia B., 59, 183 Fossati E., 178

Franchini R., 179 Freund J., 189 Frezza D., 177 Friedmann G., 189

De Michelis G., 179

Furst H., 56

De Ritis B., 64, 91, 95, 108, 123, 147, 170, 174, 184, 187-89, 191, 193 Sg.,

197 Sg. Diani M., 10

Dickens C., 24 Doganiere (Il), 31, 40, 49, 56 sg., 126 sg., 168,

179-83, 191, 195, 197 Donati A., 78, 186 Dottorelli A., 40,

Farinacci R., 51, 182

Fettarappa Sandri G., 136, 193 Fiaccadori A., 192 Fioravanzo G., 31, 62, 179, 183, 188

Dandieu A., 22

De De De De De De De

Fanelli G. A., 197

138,

164,

180,

197 Dreiser T., 60 Ducci R., 106, 189, 191

Duhamel G., 22, 31, 137, 179, 193

193,

Galimberti C., 97, 188 Gallerano N., 177 Galli C., 196 Galli Della Loggia E., 177 Garin E., 10, 179 Gaslini M. dei, 188 Gayda V., 76, 120, 185, 190

Gemelli A., 196 Giani N., 194 Gioia M., 52, 182 Giosuè, 170

3

Indice dei nomi Gi-Ta, 188

Giv., 196 Gramsci A., 13, 15, 42, 180, 197 Gravelli A., 80 Guarracino S., 10

Guénon R., 102, 189

Hathaway H., 196 Elazard\Pra(Sp_,0177 Heidegger M., 20 Hollander P., 177 Hughes H. S., 179 Huizinga J., 102, 189

Huxley A., 165, 197

Malusardi E., 29, 178 Manetti C., 187 Mann T., 105 Manuelli E., 79, 186 Maranzana G. R., 194 Marcuse H., 131 Mari G., 189, 196 Marino G. C., 177 Marino L., 10

Marinoni A., 40, 49, 143, 180 sg., 193 Marramao G., 179, 189 Martinelli F., 196 Marzio C. di, 48, 181 Mastrocchio G., 194 Mattioli R., 194

Ingianni L., 126, 133, 191 sg.

Maurois A., 22 Mencken H. L., 60

James H., 25, 178 Jannelli M., 26, 178, 194 Jellamo A., 189

Miglioranzi L. A., 191 Migone G. G., 10, 177, 185 Mille C. B. de, 156

Keyserling H. von, 105, 186, 194

Milza P., 10 Minimus, 186

Kreuger I., 122

Labriola T., 157, 196

2II

Monelli P., 87, 185, 187 Montesquieu C. L. de, 109 Morand P., 22

Lanaro S., 177

Morgan T. B., 193

La Rochelle P. D., 22 Laski H., 113 Lefebvre d’Ovidio O., 77, 182, 185 sg.

Mussolini B., 96, 105, 116, 123, 147; 177 Mussolini V., 151, 195

Leiss W., 180 Leonardo da Vinci, 168 Levi C., 42, 180, 199 Lewis S., 60

Lilli V., 169, 194, 197 Lloyd H., 155 Lo Bianco V., 179 Lolini E., 121, 190

Masters E. L., 183

Nacci M., 178, 180 sg., 184, 186, 189 sg. Napoleone B., 168 Napolitano T., 134, 192 Nasti A., 198

Negrelli L., 67, 184 Negri A., 189 Nisbet R. A., 189

Lombroso G., 181 Longanesi L., 155

Ojetti U., 164, 196

Longhitano R., 92, 188 Losurdo D., 10 Lubitsch E., 196

Olivetti A. O., 143, 193 Orestano F., 86, 187 Ortega y Gasset J., 105

Luchini A., 58, 192

Ortoleva P., 10

Maccari M., 197 Madia T., 183 Maier C. S., 178

Pacces F. M., 184 Palazzi M., 182

Maldonado T., 180, 196

Palumbo A., 186, 192 Panunzio S., 132 sg., 192

212

Indice dei nomi

Papini G., 178 Pasinetti P. M., 198 Pavese C., 13 Pavese R., 52, 182 sg. Pedoja G., 188

Sacerdoti P., 147, 194 Salvati M., 177 Sapelli G., 178 Sarfatti M., 27, 51 Sg., 79, 140 sg., 172, 178,

Pellegrini E., 10 Pellizzi C., 124, 183, 190 sg., 194

Sasso G., 179

Pesenti G., 182 Petrone I., 26, 176, 178, 199

Piazza L., 30, 40, 75 Sg., 112, 144; 179 Sg, 185, 190 sg., 194, 198

Piccardi L., 66, 78, 184, 186 Piccoli V., 79 sg., 139, 186, 193 Pini G., 186, 195 Pintor G., 13 sg., 16, 177, 180, 189, 195, 197 Pirandello L., 186

Pirelli A., 54 sg., 182

182, 186, 193, 197 Sg.

Scaligero M., 133, 192 Scheler M., 37 Schonemann F., 181 Schumpeter J. A., 118 Selvi G., 194 Sertoli M., 93, 188 Sessa P., 193 Sichirollo L., 10 Siegfried A., 22 Signoretti A., 104, 121 sg., 125, 127, 136, 188-9I, 193

Pistolese G. E., 188 Poggiani E., 43, 51, 180, 182 Prezzolini G., 40, 43, 79; 137, 180, 186, 193

Silus, 56, 113, 182-85, 190, 194, 197 Skard S., 178 Sofia C., 95, 153 sg., 188, 195

Profumi V., 29, 50, 107, 178, 182, 189

Soldati M., 41 sg., 49, 65, 139, 150-52, 174

Qualunque (Uno), 183

Sombart W., 20 sg., 118, 178 Sottilaro R., 35, 67, 179, 183 sg. Spampanato B., 70, 81, 133, 137, 185 sg; 192 sg. Spectator, 157, 196 Spengler O., 32, 85, 102, 105 sg., 112, 182,

sg., 180 sg., 184, 193, 195, 199

Quidam, 180, 186, 198 Quirita, 168, 194, 197 Raiss L., 94, 188

Rella F., 196 Ricci B., 89, 170, 187, 198 Rivoire M., 192 Rizzetto G., 180, 198 Rolle A. F., 198 Roosevelt F. D., 58,72, 113, 127, 141, 147, 184, 186, I9I, 193, 199 RosaE

ts 187

Rosai O., 31, 179 Rosati D., 60, 69, 136, 183 sg., 193 Sg., 197

Rosboch E., 104, 189 Rossi P., 9, 180 Rossoni E., 51, 182

Rousseau J. J., 134 RoziEne22

Rubeo U., 177 Ruggiero A., 39, 51, 63, 70, 109, 116, 125, 134, 147, 156, 172, 174, 178, 180, 182-84, 190-92, 194, 196, 198 sg.

Runcini R., 180 Russo G., 63 sg., 183

189 Spinetti G. S., 57, 114, 135, 183, 190, 192 Spoerri W. T., 88, 177 sg., 187 Stalin J. V., 133 Sternhell Z., 10

Sulis E., 138, 183, 192 sg. Swift J., 197 Tagi, 192 Tedeschi C., 188 Tinti M., 27, 167, 178, 197 Tomaselli, C., 188 Tosti A., 192

Toynbee A., 102, 189 Tritonj R., 50, 182 Valéry P., 44, 85, 105 Vaudagna M., 10, 177 sg., 192 Vecchietti G., 156, 195 sg. Vezzani V., 46, 181, 194

Indice dei nomi

Vigolo G., 154, 195 sg. Villa C., 188 Villari L., 44, 142, 181, 193 Vittorini E., 13 sg., 177, 181 Voltaire, 197 Wanrooij B., 10, 179 Wiener M. J., 180

Wilde O., 20, 24, 181 Williams R., 180 Wilson T. W., 72, 76, 86, 171

Woolf S. J., 10 Zuccoli G., 191 Zucconi V., 178 Zunino PI Gt1z7

213

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. Francis Haskell, Le metamorfosi del gusto Studi su arte e pubblico nel xvi e xIx secolo

. Costanzo Di Girolamo, I trovatori

. Michela Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni trenta (in preparazione) Stefano Zecchi, La bellezza

M. Naccel anismo Antiameric =

inlItalia.

Bollati

Boringhieri

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- che sta distruggendo l’egemonia dell'Europa - sia solo una forma diversa di civiltà o la fine della civiltà. E la discussione coinvolge temi come il valore della modernità, la nascita della cultura di massa, il volto del futuro europeo, i danni

e i benefici del progresso. Il libro della Nacci colma un vuoto storiografico, e

mostra come gli stereotipi dell’antiamericanismo degli anni trenta corrispondano puntualmente a quelle che venivano considerate le caratteristiche di una «civiltà al tramonto». Michela Nacci (Firenze 1954) è ricercatrice in Storia della filosofia all’Univer-

sità dell’ Aquila. Ha pubblicato ricerche sulla letteratura concernente la crisi della civiltà, sul radicalismo di destra nella

Francia degli anni trenta e sulla nuova destra italiana, sul romanzo come fonte storica. E autrice di Tecrica e cultura della crisi (1914-1939) (Loescher, Torino 1982).

In copertina, Berenice Abbott, ponte di Brooklyn, 1936.

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L’immagine negativa del moderno secondo l’«ideologia italiana».

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IN ILL