La politica del desiderio e altri scritti

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Stefania Ferrando NOTA INTRODUTTIVA

La politica del desiderio e altri scritti di Lia Cigarini rende nuovamente disponibile il libro pubblicato nel 1995 presso Pratiche Editrice. I testi allora pubblicati si trovano nella Prima parte (1974-1994) del presente volume. Si aggiungono, in questa nuova pubblicazione, una ventina di scritti composti tra il 1999 e il 2020, raccolti nella Seconda parte (1999-2020), e un'intervista inedita a Lia Cigarini del 2020, realizzata da Riccardo Fanciullacci. Il libro si conclude con l'importante saggio di Ida Dominijanni, Il desiderio di politica, che introduceva l'edizione del 1995. La forma-libro in cui riuniamo la ricchezza ed eterogeneità degli scritti di Lia Cigarini non deve, però, trarre in inganno chi legge: non siamo di fronte a una teoria sistematica che si dispiega nell'arco di mezzo secolo. Ci troviamo, al contrario, in presenza di un pensiero che tiene dietro alla realtà e si incarna in un discorso che si trasforma in fedeltà a quello che accade e ai desideri di chi scrive. I testi pubblicati, che vanno dalla metà degli anni Settanta ad oggi, ci portano, proprio per questo, ad attraversare cinquant'anni di una storia politica che interpella in prima persona e nel nostro presente. Vi si incontra, infatti, una libertà femminile che sa leggere il mondo e trasformarlo, senza farsi dettare dall'esterno né il senso di quel che accade e ci accade né le pratiche che garantiscono efficacia a quella trasformazione. Immaginare di poter cambiare la realtà in prima persona, senza possibilità di delega nella ricerca di parole e pratiche fedeli a sé e alla trasformazione che si persegue: è la scommessa politica dei testi qui pubblicati che sento particolarmente importante nel nostro tempo. Ha un grande valore politico per me, che sono nata a metà degli anni

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Stefania Ferrando

Ottanta e ho incontrato il femminismo, grazie a mia mamma innanzitutto, quando già erano state inventate molte pratiche e parole per esistere, come donna, con libertà e felicità. Ma in che modo si può trasformare la realtà, con questa libertà e felicità? È questa la domanda che mi ha portata agli scritti di Lia Cigarini. Cambiare il mondo in prima persona e senza deleghe diventa, nel percorso tracciato dai testi qui pubblicati, una sfida radicale per la politica, il diritto e il lavoro. Le società neoliberali intercettano un bisogno profondo di valere come singolarità e ce ne offrono dei surrogati scadenti e violenti, che si traducono nella competizione, nella dinamica della prestazione, in relazioni strumentali e quindi alla fine in un'esistenza a disposizione del mercato, schiacciati da una realtà che, di per sé, pare immutabile 1 • C'è però una libertà che il liberalismo non conosce, o forse la intravede e per questo cerca di sradicarla: una libertà creativa, di creazione - chi fa arte, infatti, la pratica con una particolare sapienza. È la libertà di inventare mediazioni, parole e pratiche, che spostino altrove rispetto ai rapporti in cui contano i soldi o il potere. È l'avventura di vedere altro in sé e fuori di sé, per sentire che «il mondo racchiude molti mondi e noi già li abitiamo» (p. 213). Questa libertà sta al cuore della politica delle donne ed è la risorsa più grande cui affidarsi contro i dispositivi e i processi che - nella scuola, nell'università, nel lavoro, nella politica - ci svuotano del piacere e della forza di dire quel che viviamo realmente e quel che sentiamo giusto o vero 2 • Questa libertà conduce a sperimentare delle forme politiche sconosciute (come la pratica della relazione tra donne) che consentano di situarsi lì dove le cose accadono e si trasformano realmente, nel rapporto tra sé e sé, tra sé e il mondo, e nel mondo, secondo una trasformazione che ti contempli, non ti faccia a pezzi, imponendoti

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Penso qui al libro di TRISTANA DrNI e STEFANIA TARANTINO (cur.), Femminismo e Neoliberalismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà, Roma, Natan Edizioni 2014. 2 È sempre anche una contrattazione instancabile con la realtà, senza moderazione: LursA MuRARO, Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Mondadori, Milano 2009. In gioco non vi è però solo il desiderio, ma anche il piacere, nel far politica, nel parlare e pensare, un piacere del corpo e dell'anima insieme, come scrive MARIA MrLAGROS RlvERA-GARRETAS, Il piacere femminile è clitorideo, tr. it. di B. Verzini, Edizione Indipendente, collezione A mano, Verona e Madrid 2021.

Nota introduttiva

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di rinunciare a parti preziose di quel che sei e fai o alle relazioni in cui trovi grandezza. Si tratta di pratiche politiche che scartano tanto dal fascino del potere (da esercitare o a cui resistere) quanto dalle trappole della rappresentanza. Non è qui in questione solo la rappresentanza offerta dai partiti politici, rispetto a cui femministe come Lia Cigarini hanno messo in guardia già dall'inizio degli anni Settanta, quando i partiti sembravano ancora capaci di intercettare i movimenti della realtà e di trasformarla. Viene respinta anche la logica della rappresentanza che è presente in movimenti e associazioni, nei portaparola che coprono le voci di quelle e quelli di cui difendono gli interessi, e che ingaggiano lotte di potere sulla loro testa e le loro vite. Si apre invece la strada di un'altra politica, una politica che non si separa né dalla vita né dal piacere e che in questo modo produce spostamenti reali nelle vite reali e nel reale. È una politica che mette tra sé e il mondo un'altra donna e non un progetto di uomini che seduce nella misura in cui presenta come universale la propria parzialità. Un'altra politica, una politica del desiderio, fa saltare la lettura della realtà incentrata sul riconoscimento di categorie sociali a vario titolo discriminate - così come spesso è stata disgraziatamente usata, nella politica moderna, la parola «donne», riducendola a una condizione sociale. Non perché non vi siano oppressione e ingiustizie terribili, che segnano alcuné e alcuni più di altri e che dipendono anche dall'organizzazione delle nostre società, ma perché in gioco ci sono innanzitutto le vite di persone che hanno desideri, storie, intelligenza di sé e del mondo. E, proprio per questo, la giustizia e la felicità che spettano loro non si compongono nel quadro ordinato di una democrazia liberale che concede diritti individuali assegnandoti a un gruppo, o a una minoranza, e violando la tua eccedenza e la storia che porti con te. Non rinunciare a sé e alle relazicmi che ci permettono di parlare e agire in prima persona consente di riconoscere il lato oscuro di alcune promesse di giustizia, come l'uguaglianza formale garantita dall'emancipazione, che integra degli individui all'interno di un mondo già dato e pensato, distribuendo in realtà i pezzi di una torta avvelenata. Sono promesse che nascondono la terribile ingiustizia di dover dire e sentire secondo le parole e le forme di un altro, di un mondo costruito per secoli offuscando la parola femminile. Una politica che riconosce l'ingiustizia e la miseria simbolica di queste promesse è l'apertura a una libertà relazionale che non mira ad accrescere i singoli diritti, ma è invece «una mia

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storia umana» e «un processo, una storia che faccio con altre» (p. 87). È una libertà che viene prima - prima delle finalità sociali stabilite - e che sta in circolo con la giustizia, perché altrimenti la giustizia sarà sempre fatta e detta in forme non interrogate radicalmente rispetto a ciò che occultano e ancor meno a partire da quel che si è e si desidera. La grande posta in gioco è allora l'autorizzazione ad andare libera nel mondo, piuttosto che partecipare al mondo così com'è. Alcuni dei testi qui raccolti raccontano di una trasformazione del diritto, una trasformazione nominata a partire da pratiche concrete, ideate da Lia Cigarini insieme ad altre avvocate e giuriste (la pratica del processo, ad esempio), e dal lavoro politico fatto su grandi questioni che hanno attraversato la società italiana negli ultimi decenni del XX secolo, come l'aborto. Trovo in questi scritti un'indicazione essenziale: suscitare speranze smisurate nelle leggi, chiedere cioè al diritto di renderti visibile e risolverti i problemi che ti toccano profondamente, crea confusione politica e simbolica. Immaginarsi di coincidere con la posizione del legislatore porta le energie e la creatività lontano dai luoghi dell' esperienza e dalle contraddizioni che richiedono pensiero radicale e trasformazioni reali, come nel caso dell'aborto, in cui la questione vera da porre è quella della sessualità e più ancora del piacere femminile (pp. 44 sgg.)3. Situandosi e lavorando con altre sopra la legge, sul piano di ciò che conta veramente e fa sorgere autorità e libertà femminili, si ha poi la misura - una misura propria e intessuta di relazioni - con cui orientarsi e agire là dove si è o si desidera stare e produrre cambiamenti. Una delle conseguenze più importanti è non accettare l'evidenza delle forme che si presentano come capaci di realizzare dei cambiamenti rapidi e duraturi ·della vita collettiva, quali ad esempio le leggi, cioè in realtà il potere statale che invochiamo per produrle secondo i nostri bisogni. Sembrano misure capaci di assicurare una trasformazione rapida, ma secondo il tempo delle strategie politiche, un tempo fatto di scadenze e quindi scadente (come scrivono Lia Cigarini e Lu3 È il punto di CARLA LoNZI, Sessualità femminile e aborto in ID., Sputiamo su Hegel e altri scritti, et al./ Edizioni, Milano 201 O, pp. 53-60. Rispetto alla pratica del diritto che ne emerge: li.ARIA BoIANO e ANGELA CoNDELLO, Lia Cigarini e il vuoto legislativo come libertà, in ANNA SIMONE, ILARIA BoIANO E ANGELA CoNDELLO (cur.), Femminismo giuridico. Teorie e problemi, Mondadori, Milano 2019, pp. 147-162.

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isa Muraro in Al fondo e al centro della politica, p. 215). Promettono cambiamenti reali, ma spesso non tengono conto della vita reale delle leggi, la vita di chi le applica, di chi decide di ricorrervi oppure no (ad esempio in caso di discriminazione sul lavoro o di violenza), di chi vi rimane incastrata e spezzata, e di tutto il tempo e le energie richieste per contenerne gli effetti violenti e paradossali. Posizionarsi «sopra la legge» significa fare i conti fino in fondo rispetto ai cambiamenti che si ricercano e alle loro condizioni, sapendo che forse i conti non tornano mai del tutto: vi sono dei prezzi che si pagano comunque, in ogni pratica politica, e proprio per questo occorre essere lucide su quali siano questi prezzi e soprattutto su ciò che non si è disposte a pagare. Muoversi «sopra la legge» (giacché di un movimento si tratta e non di una posizione acquisita una volta per tutte) significa quindi spostarsi altrove rispetto al diritto praticato come strumento di lotta all'interno di relazioni di potere4. È stare in guardia rispetto a un diritto che come osserviamo in molti casi di violenza sulle donne - può sempre fare a pezzi quelle che vi ricorrono, perché è nato per regolare i rapporti tra uomini e il contratto sessuale sul corpo delle donne. «Sopra la legge» significa però anche un'altra cosa, altrettanto importante: è un movimento, pratico e simbolico, che sposta il diritto stesso, attraverso un altro modo di praticarlo (nelle relazioni tra avvocate e clienti, tra avvocate, con le giudici). Sono pratiche differenti che di fatto secernono un nuovo diritto. È un «diritto originale delle donne» (p. 76), la cui fonte sono il sapere, i desideri, le trasformazioni che emergono in quella realtà che sono le relazioni tra donne e in ciò che esse fanno nel mondo. Inviolabilità del corpo delle donne e libertà relazionale emergono come due dei principi autonomi di questo diritto, autonomi perché definiti e radicati in quelle relazioni, e che forse anche aprono ad una genealogia del diritto - di un diritto originale e quindi non intrinsecamente patriarcale - che non sapevamo prima discernere5.

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Penso in particolar modo ai lavori di Silvia Niccolai, che ringrazio per lo scambio prezioso su questa nota introduttiva: SILVIA N ICCOLAI, Donne: soggetti o oggetti dell'uguaglianza e del diritto?, in BARBARA PEZZINI e ANNA LORENZETTI (cur.), 70

anni dopo, tra uguaglianza e differenza. Una riflessione sull'impatto del genere nella Costituzione e nel costituzionalismo, Giappichelli, Torino 2019, pp. 283-314. 5 S. NrcCOLAI, Femminismo ed esperienza giuridica. A proposito del ritorno di un'antica regula iuris in ANNA SIMONE E ILARIA BoIANo (cur.), Femminismo ed esperienza giuridica. Pratiche, argomentazione, interpretazione, Efesto, Roma 2018, pp. 27-74.

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Riconoscersi la possibilità di cambiare la realtà in prima persona è anche un'occasione per pensare e vivere diversamente il lavoro e le contraddizioni che lo attraversano e ci segnano. È questa un'apertura di senso che il libro dona a chi lo legge. Le ingiustizie dell'organizzazione del lavoro e la violenza delle relazioni che vi si originano aggrediscono le esistenze materiali e spirituali - quelle di alcuni molto più che di altri - giorno dopo giorno, in un'esposizione continua. E la sofferenza cresce a misura della difficoltà di trovare il punto di appoggio per uscire dalla situazione costringente in cui ci si trova. Gli scritti sul lavoro qui pubblicati ci indicano un preciso punto di appoggio, radicale e radicato in ciascuna e ciascuno: la narrazione del lavoro, cioè le pratiche e le relazioni grazie a cui riusciamo a dire che cos'è un buon lavoro e una buona vita, ciascuna e ciascuno partendo da sé, facendo comunicare le parti scisse di sé. Il piano da cui innescare la trasformazione non è allora quello dei discorsi e delle pratiche che riducono la materialità della vita alle strutture economiche e agli interessi che ne discendono. È invece quello della competenza simbolica sulle nostre esistenze, cioè l'autorità di dire con parole tue quel che ti succede, quel che ti capita di essere e diventare. Il movimento Metoo lo ha mostrato con grande forza: le donne hanno parlato e sono state credute, il che significa che quell' autorità simbolica femminile circola e l'inviolabilità del corpo delle donne è un principio di realtà - nella pratica di sé e nelle relazioni con altre e con altri - che si sta affermando come principio di civiltà. Nelle pratiche e relazioni che nutrono la narrazione del lavoro, nella ricerca delle parole adeguate per nominare tanto le ingiustizie quanto i desideri, si radica la capacità di aprire dei conflitti che trasformino la realtà in un modo che abbia senso e valore per chi se ne fa protagonista. Si tratta, più profondamente, di non rinunciare all' amore per se stesse, ovunque ci si trovi. Di fronte alla paura di perdere il lavoro, di essere isolate, di non fare carriera o non vedersi più rinnovato il contratto, si anestetizza la propria capacità di contrattazione e quell'amore - verso di sé e il meglio di una situazione - che la nutre. Gli scritti di Lia Cigarini indicano una via: la presa di parola e il riconoscersi una capacità personale di agire sono pratiche che permettono di lavorare su questa paura, una paura che porta spesso a rigare dritte secondo le regole e i piaceri maschili, finendo nella sofferenza, nella depressione, nelle relazioni strumentali di calcolo e interesse. Perdere competenza simbolica è, infatti, perdere umanità. Significa

Nota introduttiva

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non solo soffocare quello che, in ciascuna e ciascuno, ci rende umani, capaci di parole giuste e di azioni in fedeltà a sé, ma anche perdere l'umanità comune, le risorse con cui si fa spazio all'altro mantenendo il proprio valore, relazionandosi o contrattando per allentare la stretta del modo in cui è organizzato e pensato il nostro lavoro. Non c'è infatti nessun rifugio né compromesso rispetto alla scommessa di andare libere nel mondo, con fedeltà a sé e alle relazioni che nutrono l'autorità con cui ci si dice e si dice la realtà. «Non c'è, nel simbolico, un luogo in cui ritrarsi» (p. 166): proprio perché non c'è né delega né riparo, quel che toglie la capacità personale di dare un significato a quel che viviamo ci sottrae esistenza e libertà. Ed è qui che si gioca il senso della differenza sessuale. Riflettendo sul «doppio sì», sul fatto cioè che molte donne dicano sì al lavoro e alla maternità, Lia Cigarini scrive: «Ho sempre lottato perché fosse chiaro che la differenza femminile non è dell'ordine delle cose, che fa dire che le donne sarebbero diverse perché fanno i bambini: no, la differenza femminile sta nel senso e nel significato che si dà al proprio essere donna ed è, pertanto, dell'ordine simbolico» (p. 276). È un'indicazione importantissima. La pratica della differenza non assegna a identità o nature, non deduce le parole e le azioni da un supposto ordine delle cose, ma riporta al senso e al valore che si è capaci di dare a quello che capita di essere e di desiderare. Il «doppio sì» non nomina allora il prorompere nel lavoro di un'essenza femminile, ma parla di una irriducibilità di desideri di donne capaci di innescare contraddizioni e cambiamenti profondi nel lavoro, che chiedono a ciascuna parole e invenzioni che diano loro un senso. La differenza sessuale è di natura simbolica e si incarna in quelle pratiche e relazioni che, permettendoci di dare un senso a quel che siamo, ci riconnettono alla realtà e a noi stesse, e ci danno il gusto di stare al mondo. Sono pratiche che hanno al cuore la qualità delle relazioni tra donne, quelle che permettono di dire una parola fedele alla propria esperienza e rendono possibile il gusto di agire e parlare nel mondo. Uno degli articoli qui pubblicati, scritto insieme a Letizia Paolozzi, invita a pensarle come «belle relazioni». Delle relazioni, cioè, in cui è in gioco la bellezza, come forma non corrosiva dello scambio relazionale: al contrario dell'intelligenza che, «con la sua tendenza a giudicare, è un'arma aggressiva» (p. 218). Mettere al centro la bellezza nelle relazioni, piuttosto che un'intelligenza da queste separata, è un'indicazione politica importante, da non dimenticare mai.

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È in questo modo che vedo allargarsi i confini del femminismo: nell'andare libere nel mondo, forti di queste relazioni, tenendo stretto il filo della genealogia femminile, con fedeltà a sé e senso della propria grandezza e di quella delle altre donne, anche di quelle che vengono dopo 6• È l'avventura di andare nel mondo, scommettendo che il mondo risponda a questa libertà. Un ringraziamento particolare a Riccardo Fanciullacci per essersi preso cura insieme a me di questa pubblicazione e per l'intervista finale a Lia Cigarini, incentrata sulla scommessa politica delle relazioni di differenza con gli uomini; a Ida Dominijanni per aver acconsentito a ripubblicare il suo testo introduttivo all'edizione del 1995; a Luisa Muraro per gli scambi che hanno orientato la scelta degli scritti; a Giordana Masotto e Clara Jourdan per la rilettura del manoscritto; a Clara Jourdan e Laura Milani per l'aiuto nella scansione e nella ricerca di alcuni articoli; e alla casa editrice Orthotes per la generosità con cui ha accolto questo libro.

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È la questione politica che pone BARBARA VERZINI, La madre nel mare. L'enigma di Tiamat, A mano, Madrid e Verona, 2020-

Prima parte (I 97 4-1994)*

• La prima parte corrisponde al libro pubblicato nel 1995, curato da Luisa Muraro e Liliana Rampello [N.D.c.]

Ringraziamenti

Ringrazio Lilli Rampello che ha voluto e curato il libro, Ida Dominijanni che lo ha con intelligenza introdotto. Senza il loro contributo i miei scarsi e scarni testi non avrebbero mai formato un libro. Nel quale c'è anche un lieve segno di Luisa Muraro che ha scritto le brevi introduzioni di ciascun capitolo. Di fatto per me la relazione con lei ha reso vera la scoperta che solo il vincolo con la propria simile è per le donne costitutivo di realtà, senza contare che molti di questi testi non li avrei scritti senza le sue pressanti richieste. Voglio comunque sottolineare che gli articoli qui raccolti sono solo la debole eco di una straordinaria esperienza di tante donne i cui desideri sovversivi si sono intrecciati in questi venti e più anni. Alcune donne, tuttavia, sono state essenziali nella mia storia e quindi anche in questo lavoro: Daniela Pellegrini, figura grande del movimento delle donne che ho incontrato nel 1966 (quando mi aggiravo un po' stordita dopo la sconfitta della sinistra comunista all'XI Congresso del Pci decisa solo a non rifare alcuna esperienza di partito) con l'occhio un po' messianico e in mano un testo che parlava di trascendenza femminile anziché di questione femminile: era già l'essenziale e su questo si aggregò il primo gruppo femminista in Italia, il Demau, e fu scritto il testo Il maschile come valore; Luisa Abbà, giunta a Milano nel 1970 con le altre del Cerchio Quadrato di Trento, cioè Silvia Motta, Elena Medi e Gabriella Ferri: da quel momento ho confrontato con lei ogni mia scelta e seguito le sue indicazioni perché ha per me l'autorità di un'acuta mente politica anchè se per la sua riservatezza la rivela a poche; Antoinette Fouque, del gruppo francese Politique et psychanalyse che per prima e dall'inizio ha criticato il femminismo indicando nella differenza la prospettiva più avanti e facendo della pratica dell'inconscio una efficace leva per la libertà fem-

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Ringraziamenti

minile; Giordana Masotto, che con Elena Medi ha voluto fortemente la Libreria delle donne di Milano e l'ha saldamente impiantata, e Renata Dionigi, che da più di dieci anni ne prosegue l'opera. Ringrazio inoltre le donne del Gruppo n. 4 tra cui Piera Bosotti, Bibi Tornasi, Luisa Muraro, Luisa Abbà, Cristiana Fisher, Margherita Tosi, Grazia Zerman, Patrizia Bonini, Rosaria Guacci, Rita Trosei, Giovanna Pajetta, Donatella Massara, Franca Spirito ... perché insieme ci siamo divertite molto dandoci tempi lunghissimi propri delle donne per discutere, scrivere «Sottosopra» - Più donne che uomini, e litigare furiosamente senza alcuno strascico di risentimenti vari. Infine, ringrazio le compagne e amiche della Libreria delle donne, tra cui Bibi Tornasi, Lia Bellora, Renata Sarfati, Milena Raimondi, Francesca Graziani, Marin'. Martinengo, Traudel Satder, Clara Jourdan, Valentina Berardinone, Cristiana Fisher, Pat Carra, Gabriella Lazzerini, Bice Mauri, Tiziana Vettor, Gemma Beretta, Laura Balestrini, Mariolina De Angelis, Gabriella Maisano, Denise Briante e le altre.

Lia Cigarini

Madre mortifera

Il film di Marco Ferreri, La grande abbuffata, da poco uscito sugli schermi, provocò una discussione fra Lia Cigarini e l'amico Elvio Fachinelli, psicanalista e scrittore, studioso dell'umanità dal suo vivo, attento alle forme nascenti della politica quanto distante dai suoi teatri convenzionali. Da quella discussione e da un testo di Fachinelli è nato Madre mortifera; il testo fu richiesto dallo stesso Fachinelli per la sua rivista «L:erba voglio», fu scritto da L.C. e presentato sotto la firma di Lillith. Una parte non piccola del pensiero di L.C. è affidata a testi collettivi; di questi La politica del desiderio pubblica quelli più debitori non al suo pensiero personale (gli altri non lo sono meno) ma alla sua iniziativa personale. Certo, un èriterio vago, insoddisfacente, ma è quello che si è trovato davanti al problema posto dal rapporto anomalo (non moderno) di L.C. con la scrittura, rapporto singolarmente privo di quella cosa che oggi si chiama autorialità. Del testo merita di essere sottolineato, da una parte, il tema madre che resterà costantemente presente nel femminismo, dall'altra, l'accento posto sulla potenza dei fantasmi, un punto di scienza politica (e di formazione umana) regolarmente trascurato. Da cui, forse, la diffusa e crescente perdita di senso della realtà dei nostri politici. 1 Lillith (gruppo Demau), Madre mortifera, «L:erba voglio» n. 13-14, 1974

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Le introduzioni di ciascun capirolo della prima edizione sono scritte da Luisa Muraro [N.D.c.]

Secondo Ferreri nella Grande abbujjàta e Fachinelli che la commenta nell' «Erba voglio» n. 13-14, il maschio è sulla strada di diventare inconsistente e superfluo, la femmina una madre mortifera. Poiché i dati di fatto sociologici non attestano un simile processo, si tratta di un fantasma. Un fantasma non è però meno reale; esiste nella testa di alcune persone; non solo, esso è anche in rapporto con la realtà sociale, che interpreta e può indirettamente modificare. È logico chiedersi allora di chi sia il fantasma, cioè di quale gruppo di persone esso interpreti il disagio, gli interessi, i bisogni; e chiedersi inoltre in quale rapporto esso fantasma sia con i dati di fatto storici. Il fantasma persecutorio del nazista nella testa di un ebreo, per esempio, è essenzialmente diverso da quello del comunista nella testa del piccolo borghese nord-americano, non è il caso di spiegare perché. È importante dare al fantasma un contrassegno di realtà; infatti, se esso risulta senza corrispondenze nei fatti sociali, vuol dire che la sua produzione comporta grande dispendio d'energia psichica e segnala uno stato di crisi e resistenza di altri problemi. Secondo Fachinelli il processo fantasmatico della virilità decrepita e della femminilità materno-mortifera interpreta, senza dubbio, un complesso di fatti reali. Infatti scrive: «Si vede bene [... ] emme la inconsistenza e superfluità del maschio sia legata strettamente, consustanziale alla catena, anzi alla legge della consumazione crescente, che regola questa società [... ] Appare chiara quella sorta di coincidenza tra modalità economica del consumo crescente e immagine pregnante di una madre saziante e divorante insieme, che non consente crescita e autonomia virile, e lascia nello stesso tempo profondamente disorientate le donne». Il fantasma F.-F. è dunque interpretante del consumismo; qui è sottinteso quello che in altri testi (Il desiderio dissidente, I travestiti, v. Il bambino dalle uova d'oro, Feltrinelli, 1974) è esplicitamente detto:

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Prima parte

il fantasma si produce nella storia psicologica dell'individuo seguendo un meccanismo recente caratteristico delle società occidentali: sparizione progressiva della figura paterna; correlativamente: importanza crescente del rapporto con la madre, che è il rapporto più «biologico», più «naturale» e finisce per improntare la posizione del singolo nei confronti della società; prevalenza del bisogno, della domanda letterale, morte del desiderio e del progetto. Nel commento alla Grande abbuffata: «... come se ogni sistema di allusioni e metafore, l'intero sistema dei simboli della civiltà fosse finito, scomparso». Che il fantasma non sia genericamente collettivo, che cioè esso possa non ritrovarsi in tutti, lo stesso Fachinelli ammette implicitamente quando riconosce che nel femminismo se ne trova semmai uno di segno contrario, quello del maschio-padrone; lo liquida molto sbrigativamente dicendo che è schematico, ottocentesco, nostalgica evocazione di un maschio forte e virile (che, ahimè, non esiste più). Finché ci limitiamo a constatare l'esistenza di fantasmi nella testa della gente, uno vale l'altro e nessuno può dirmi: il mio va bene, il tuo no. Si può andare oltre la semplice constatazione ponendo le domande prima indicate: di chi è questa formazione fantastica? che rapporto ha essa con la realtà culturale che abbiamo in comune? Perciò ci sembra discutibile il modo in cui Fachinelli liquida la protesta delle donne: portatore egli di un suo fantasma, notando che la rappresentazione dell'uomo come maschio-padrone non vi corrisponde, dichiara l'insignificanza di quest'ultima. Queste osservazioni possono bastare - sono fin troppo lunghe per avviare un dibattito non facile per via dei fantasmi che vi deambulano e per polemizzare con un testo in cui le cose taciute pesano quanto quelle dette. Tra le cose non dette, le donne: non si fa riferimento alle donne, ma alla madre. Perciò del femminismo si vede la protesta contro il maschio-padrone e non si vede il resto, che è l'essere nostro di donne insieme, pratica di rapporti tra donne, la possibile liberazione del nostro corpo, già iniziata, di emozioni prima bloccate o fissate univocamente sul mondo maschile, lotta per dare un linguaggio a questa gioia (delle donne). Le donne sono a parte la madre, in una misura e in un modo che tocca a noi indagare. Non la donna, dunque, poiché non è neppure vista, non esiste, ma la madre è mortifera. Questo potere le viene in questa cultura perché essa vi è come la negatività del padre, della cui

Madre mortifera

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legge è il supporto negativo. A lei in quanto tale sono assegnati i figli. Quanto a noi, a lei è assegnato il nostro stesso corpo, le sue forme, organi, cicli e ghiandole ... Altro che rapporto naturale, biologico, quello tra la madre e il bambino, come viene detto per essere dichiarato responsabile di catastrofici effetti in serie: ricerca esclusiva di soddisfacimento dei bisogni, morte del desiderio, desimbolizzazione. Del resto, da Freud a Lacan, la psicoanalisi afferma che il padre è la legge («attraverso il nome del padre la parola si trasmette») e che nella sua struttura il rapporto madre-bambino è attraversato dal desiderio e profondamente elaborato in chiave simbolica (fallica). Dalla nostra pratica politica abbiamo ricavato il sapere che ci sono sensazioni, sofferenze, deliri, immagini e simboli di donne anche in rapporto ai figli e che l'uomo non conosce. La comune assegnazione del nostro corpo e dei figli all'essere madre, stabilisce un rapporto la cui indagine non sottostà interamente neanche all'assioma lacaniano: il desiderio della madre è il fallo. Loppressiva invadente dilatazione della figura materna si produce perché (anche perché) manca la percezione di una divisione nel corpo della madre: la percezione del corpo muto della non-madre. Isteria materna, come la frigidità è l'isteria nel rapporto sessuale. Tale percezione, almeno come possibilità, è nell'esperienza della bambina e resterà nella sua storia di donna. La pregnanza stessa della figura materna - in una cultura (e c'è quasi un rapporto direttamente proporzionale) che stenta perfino a mascherare il disprezzo per l'essere donna, e in una organizzazione sociale che ad esse comunque nega il potere - dovrebbe segnalare la presenza di qualcosa o qualcuno che agisce nel rapporto apparentemente duale madre-figli. L attribuzione di potere alla madre è l'attribuzione del fallo alla madre (ed è infatti come «castrata» che la donna viene estromessa mentre resta la madre). Incapace di rompere la sua monotonia fallica, l'uomo è incapace anche di rappresentarsi la donna altrimenti che nella doppia figura di: (a) madre fallica (b) ragazza-fallo, le piume del suo uccello per la parata della virilità. Nella società neo-capitalistica e consumistica, con il prevalere di un autoritarismo astratto e l'accentuarsi delle esperienze soggettive d'impotenza, negli uomini sembra prevalere nettamente - e angoscio-

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Prima parte

samente - il fantasma della madre (c'è da notare, per altro, che è in aumento anche il travestitismo, cioè quasi una più pressante richiesta di parata virile rivolta non più alle donne ma ai maschi). L'attribuzione fantastica di fallo (potere) alla madre è un meccanismo che è stato analizzato e messo in rapporto con l'omosessualità maschile; noi proponiamo che l'analisi sia estesa a tutta la società patriarcale e che quella attribuzione sia la sua chiave interpretativa. Lo stesso fantasma F.-F. è un'approssimazione che ci porta vicini al nodo. Indirettamente esso allude a due cose che la lotta delle donne va affermando da tempo: il monismo sessuale della società patriarcale, per cui è dubbio (ormai, visibilmente) attribuire all'uomo una effettiva eterosessualità; angoscia profonda di entrare in una fase storica in cui le donne non vengono avanti a chiedere di essere come gli uomini, ma a far parlare il proprio corpo, la propria sessualità; in secondo luogo: l'esaltazione del potere della madre, l'attribuzione ad essa del potere fallico, nasconde il desiderio di ucciderla per mettersi al suo posto. Per stare ai film, questo meccanismo è ben rappresentato nella Caduta degli dei di Visconti, dove il giovane e debole rampollo della famiglia, aiutato nella sua scalata al potere dalla madre, alla fine la violenta e uccide. Se tutto questo sembra solo un'ipotesi teorica, basterà voltarsi a una situazione concreta che abbiamo tutti sotto gli occhi, la società italiana: madri onnipotenti ed esaltate, donne particolarmente asservite e mute, parata virile e fascismo endemico.

Lobiezione della donna muta

Siamo a metà degli anni Settanta, trionfano i collettivi, il grosso del femminismo italiano è mobilitato per la legalizzazione dell'aborto, che verrà sancita dal Parlamento nel 1978. Ma il più grande collettivo femminista milanese, quello di viale Col di Lana (sede aperta agli inizi del 197 6, in sostituzione di quella di via Cherubini), è in crisi, non per difetto di presenze fisiche, che sono numerosissime, ma di parola scambiata e partecipata. In questo contesto, L.C. scrive, insieme a Luisa Abbà, L'obiezione della donna muta, come un passo a lato rispetto al femminismo delle grandi manifestazioni e dei grandi numeri, per sporgersi sul silenzio femminile. Un passo a lato che è mille leghe distante dalla politica dei movimenti, fuori e distante da questa per tenere vuoto lo spazio necessario all'articolazione e all' ascolto delle domande. Le due autrici di questo breve testo, pubblicato anonimo nel 1976, secondo la pratica allora prevalente nel femminismo, daranno vita al Gruppo n. 4 che nel 1982 produrrà Più donne che uomini, un testo celebre del femminismo italiano, tradotto in francese, inglese, tedesco e spagnolo. Lia Cigarini e Luisa Abbà, L'obiezione della donna muta, «Sottosopra rosa», Milano, dicembre 1976

Postilla I - Ho sentito un senso di soffocamento quando si parlava (io stessa avevo fatto di tutto perché si arrivasse a questo discorso) del Collettivo come luogo di confronto fra pratiche politiche diverse, desideri diversi, ecc. e insieme irritazione per alcuni interventi demagogici in difesa delle donne spoliticizzate. Fisicamente mi sono allontanata dal cerchio di quelle che stavano attente alla discussione. Non era mai successo. Ho cercato di capire. Lattenzione, direi la tensione politica, al Collettivo, al suo funzionamento, aveva con violenza negato la parte muta di me, quella che non può e non vuole parlare e che per questo non accetta d'essere descritta, illustrata, difesa da nessuno. Né dal Collettivo né dagli analisti né da quella parte di me che parla. È andata e va così: ho sempre fatto attività politica e ci sono riuscita bene ma in quasi tutte le situazioni collettive mi mancava la parola, letteralmente; ho. chiesto l'analisi perché iniziando a fare l'avvocato mi ero ammutolita davanti a un giudice al quale dovevo chiedere un semplice rinvio. Ho deciso di finire l'analisi, durata sette anni, dopo un lungo silenzio, l'avevo chiesta per riuscire a parlare, la chiudevo con il desiderio di non parlare. Quasi un fallimento. Il ritorno del rimosso minaccia ogni mio progetto di lavoro, di ricerca, di politica. Minaccia o è la cosa realmente politica di me, cui dare sollievo, spazio? Una volta l'ho fatto, quando ho lasciato il partito e mi sono messa in un gruppo di donne, prima e durante il '68, gruppo ch'era una cosa marginale, piccola, rispetto a quel grande movimento. Il mutismo metteva in scacco, negava quella parte di me che desiderava fare politica, ma affermava qualcosa di nuovo. C'è stato un cambiamento, ho preso la parola, però in questi giorni ho capito che la parte affermativa di me stava occupando di nuovo tutto lo spazio.

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Prima parte

Mi sono convinta che la donna muta è l'obiezione più feconda alla nostra politica. Il «non politico» scava gallerie che non dobbiamo riempire di terra. - Mi sembra che anche Alba dicesse che la parte emancipata di lei soffocava l'altra, meno conosciuta, più sofferente, che preme per la liberazione. - A me, per esempio, delle donne che hanno il problema di abortire non m'importa niente, e questo costituisce un disagio personale e un problema politico. Non comprendiamo le diversità delle altre non dando spazio al nostro diverso. Negazione e non superamento.

Postilla 2 Legge = separazione = legge «Il personale è politico» ha funzionato finché il personale voleva dire: oppressione, privatizzazione, solitudine, ecc. Adesso ci sono stati dei cambiamenti prodotti da quella iniziale presa di coscienza e ci accorgiamo che il nostro personale, migliorato, non è più immediatamente politico. Infatti parliamo di mettere in rapporto le modificazioni personali con la dimensione politica. A causa di questa disarticolazione il cosiddetto politico ridiventa astratto. E da qui deriva, almeno in parte, la difficoltà che troviamo a definire un progetto politico per Col di Lana. La separazione tra personale e politico, pubblico e privato, è imposta dalla forza della legge (in senso proprio dal diritto) e produce legge. Infatti una parte dei problemi che vengono fuori in Col di Lana, come affitti, manifesti, chiave, nascono dalla necessità di regolamentare. Per noi donne la separazione tra personale e politico è pericolosa perché ci porta a disimplicarci dalla sessualità, dai rapporti stabiliti tra donne (rapporti che sappiamo stabilirsi dèntro e fuori il Collettivo, e che giustamente non conoscono luoghi privilegiati). Secondo noi questa disimplicazione ha come esito una cosa che conosciamo bene, la perdita della sessualità. In questa situazione, volendo comunque fare politica, rischiamo di metterci sulla strada del gradualismo: finora ci siamo occupate della sessualità e dei rapporti tra donne, ora affrontiamo altri temi (lavoro, istituzioni, ecc.) e confrontiamo le pratiche (medicina, libreria, ecc.). La mancanza di strumenti - finita l'autocoscienza, sospeso il tentativo analitico per tutte le ragioni che abbiamo detto nel documento - rinforza la tendenza al gradualismo.

L'obiezione della donna muta

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Noi pensiamo che gli «altri» temi hanno ragione di entrare nella nostra pratica politica, ma senza gradualismo, bensì legati direttamente alla sessualità e ai rapporti tra donne, che restano al centro della nostra politica. Esempio: una sola volta la discussione sulla maternità non è caduta nella sociologia o nella rievocazione biografica, quando l'abbiamo legata a quello che oggi avviene nel movimento delle donne.

Una signora del gioco

Nel 1975, a Milano, per iniziativa di L.C. e altre, apre la Libreria delle donne, tutt'ora attiva nella sua sede originaria, nelle vicinanze di piazza del Duomo 1 • I tre testi che seguono sono collegati alla vita della Libreria; questa, a sua volta, non è che un episodio della grande sfida culturale del femminismo internazionale cha ha fatto avanzare le donne nel mondo della cultura, e nel mondo attraverso l'istruzione e la cultura. Al femminismo più radicale (pensiamo, per fare un nome, alla nostra Carla Lonzi) si deve se i traguardi dell'assimilazione e dell'integrazione alla pari con gli uomini sono stati lasciati da parte per quelli, più ambiziosi, di una presenza originale e creativa, con la caratteristica, specialmente italiana, di una presenza di qualità dentro e fuori le istituzioni accademiche, senza soluzione di continuità.

Una signora del gioco, «Via Dogana» prima serie, n. O, Milano, maggio 1983 Libreria delle donne di Milano, Catalogo n. I - Testi di teoria e pratica politica, Milano, aprile 1978 Libreria delle donne e Biblioteca delle donne,

Catalogo n. 2 - Romanzi. Le madri di tutte noi, Milano-Parma, marzo 1982

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Nel 2001, dalla sede storica in Via Dogana, la Libreria si è spostata in via Pietro Calvi 29, sempre a Milano [N.D.C.].

UNA SIGNORA DEL GIOCO

Benedetta Craveri, Madame du Dejfand e il suo mondo, Adelphi, Milano 1982 Madame du Deffand, Lettere a Voltaire, a cura di Lisa Baruffi, Bompiani, Milano 1980

Le lettere di Madame du Deffand sono continuamente intelligenti e, come tutti hanno detto, scritte benissimo. Continua intelligenza applicata a tutte le cose che la interessano: caratteri, idee, letteratura, gioco sociale. E ai suoi interessi di donna.

Salotto e partito Madame du Deffand aveva infatti messo le cose in modo da avere il più celebre salotto di Parigi per un lungo tempo. E il salotto è, nel Settecento, un luogo di potere e piacere delle donne. In un senso più ampio e profondo di quello che possiamo immaginarci oggi. Perché in quel secolo anche la politica degli uomini si basava su una trama di rapporti personali; i gruppi si formavano intorno ad alcune persone: se esse cadevano in disgrazia (a corte) trascinavano con sé tutti i loro protetti e viceversa. Nel caso di Madame du Deffand: la caduta del duca di Choiseul indebolisce il presidente Hénault, quindi lei, di conseguenza i frequentatori del suo salotto, ecc. Allora, se la politica era una trama di rapporti personali, le donne potevano agire con più agio perché avevano e hanno un sapere particolare delle relazioni umane. Madame du Deffand forse più di altre sue simili si rese conto che il salotto doveva essere difeso dalla concorrenza dei nascenti partiti politici (in quel momento si trattava dell'ideologia illuminista) perché essi avrebbero cambiato radicalmente il modo di fare politica. Non più gente tenuta insieme dal gusto comune, dal favore del re o di una sua favorita o dal medesimo linguaggio o dal caso, ma uomini uniti da una medesima ideologia e organizzati per prendere i tenere il potere. Il partito avrebbe spazzato via il salotto come luogo in cui un'intera

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Prima parte

società si specchiava. In seguito i salotti si sono ridotti a essere luoghi marginali dove gli uomini di potere si potevano incontrare più piacevolmente. Madame du Deffand aveva capito tutto questo e ha lottato contro. Ammirava molto D'Alembert e ha favorito la sua elezione all'Académie Française, leggeva con grande interesse i libri e i libelli degli illuministi, ma osteggiò tenacemente il loro partito. Cercò di convincere in tutti i modi Voltaire, a cui si sentiva più vicina per formazione e gusto, a schierarsi con lei. Voltaire però rispose: «Siete una grande e amabile bambina, signora. Com'è possibile che non abbiate sentito che penso come voi? Ma ricordatevi che appartengo a un partito, e a un partito perseguitato, che, per quanto perseguitato, alla fine ha tuttavia ottenuto il più grande vantaggio che si possa avere sui propri nemici, quello di renderli allo stesso tempo ridicoli e odiosi. Capite dunque ciò che si deve alla gente del proprio partito; il duca d'Orléans diceva che bisogna avere la fede dei boemi» (p. 322). Al che lei risponde: «No, no signore, non sono una grande bambina, sono una piccola vecchia con tutti gli appannaggi della vecchiaia a eccezione del cattivo umore. Disapprovo Monsieur de Voltaire quando si associa o piuttosto si mette a capo di un partito che non ha nulla in comune con lui, a eccezione di un solo argomento; perché, per quel che concerne la morale e i gusti, non c'è nessuna somiglianza, né conformità; d'altronde, se questo vi diverte, avete ragione voi, non parliamone più» (p. 323). E Voltaire ribatte: «E voi, Madame, bisogna che vi sgridi. Perché odiate i filosofi, quando pensate come loro? Dovreste essere la loro regina e vi fate loro nemica. C'è uno di cui siete scontenta, ma bisogna che ne soffra l'intero corpo?» E lei: «Da che cosa deducete che odio la filosofia? Malgrado la sua inutilità, l'adoro, ma non voglio che la si travesta da vana metafisica, paradosso, sofisma. Voglio che ci sia presentata alla vostra maniera, seguendo la natura palmo a palmo, distruggendo i sistemi, confermandoci nel dubbio e rendendoci inaccessibili all'errore, pur senza darci la falsa speranza di raggiungere la verità». Madame du Deffand dunque rinunciò a essere la regina dei filosofi pur di difendere uno spazio d'azione suo e delle donne.

Una signora del gioco

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Il conflitto con M lle de Lespinasse A un certo punto B. Craveri ricostruisce, sempre attraverso le lettere, le manovre complesse e sottili che Madame du Deffand dispiegò per fare venire a Parigi, come sua dama di compagnia, una figlia illegittima del fratello, M.lle de Lespinasse, che l'aveva affascinata per la sua intelligenza e sensibilità. Racconta, poi, la storia del loro rapporto durato dieci anni e della loro rottura avvenuta, apparentemente, per la gelosia di Madame du Deffand dovuta al fatto che la giovane nipote vedeva nelle sue camere, separatamente, D'Alembert e i più brillanti frequentatori del salotto. In questa rottura io voglio vedere qualcosa di più di un conflitto tra due donne per il predominio mondano. Si spezza con il loro dissidio una continuità di esperienze, di atteggiamento verso il mondo, di sapere femminile che tante donne, grandi signore, avevano costruito per un secolo e mezzo in Francia. A partire da Madame de Sévigné e Madame de La Fayette. Con M.lle de Lespìnasse incomincia la lunga serie non ancora finita di donne intelligenti e appassionate che si battono per una causa o per un ideale quasi sempre giusti, ma che terranno poco o nessun conto degli interessi delle donne. Al punto che la sofferenza femminile (isteria) sembra diventare la molla delle grandi cause, delle istituzioni benefiche promosse o sostenute da donne, come l'associazione per proteggere le prostitute di Bertha Pappenheim, la Croce Rossa di Florence Nightingale, la lotta per la liberazione degli schiavi d'America, la società Fabiana di B. Veber, ecc. Oppure la figlia di Marx, Eleonor, morta di sfinimento perché oltre alla causa del proletariato si era dedicata a quella degli irlandesi, degli ebrei, ecc.

Frigidità e perversione Al contrario, nel Settecento, persino in Italia le donne sembrano avere una maggiore signoria sulle cose. Penso sia perché quel secolo era frigido e pervertito. La sessualità si esprime come artificio, gioco, invenzione (in questo senso una bellissima invenzione è la passione, nella vecchiaia, di Madame du Deffand per Walpole). Lo scandalo del Marchese de Sade diverte i suoi pari; infatti così commenta Madame du Deffand: «Un certo conte di Sade, nipote dell'abate autore del Petrarca, incontrò il martedì di Pasqua una donna alta e ben fatta, che

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Prima parte

gli chiese l'elemosina; le fece molte domande, le mostrò dell'interesse e le propose di toglierla dalla miseria, di farle fare la portiera di una casetta di sua proprietà vicino a Parigi. La donna accettò; le disse di presentarsi la mattina dopo; lei vi si recò; dapprima la condusse in tutte le camere della casa, in tutti gli angoli e i recessi possibili, e poi la portò nel granaio; arrivati lì, si chiuse dentro con lei, le ordinò di mettersi nuda; lei resistette alla richiesta, gli si gettò ai piedi dicendogli di essere una donna onesta; lui le mostrò una pistola che aveva estratto dalla tasca e le ingiunse di obbedire, cosa che lei fece subito; allora le legò le mani e la fustigò crudelmente. Quando fu tutta coperta di sangue, lui estrasse dalla tasca un vasetto di unguento, glielo applicò sulle piaghe e se ne andò. Non so se la fece bere o mangiare, ma la rivide solo la mattina dopo. Esaminò le piaghe e vide che l'unguento aveva fatto l'effetto che si aspettava; allora prese un coltellino e le tagliuzzò tutto il corpo poi prese lo stesso unguento, ne spalmò tutte le ferite e se ne andò. La donna disperata si dimenò in modo da rompere i suoi lacci, e si buttò dalla finestra che si affacciava sulla strada. A quanto dicono non si è ferita, cadendo; tutta la gente le si raccolse intorno; il luogotenente di polizia è stato informato del fatto; hanno arrestato Monsieur de Sade che, a quanto dicono, si trova nel castello Saumur. Non si sa che ne sarà di questa storia. Forse ci si limiterà a questa punizione, e potrebbe benissimo essere così, perché Monsieur de Sade appartiene a una famiglia abbastanza conosciuta e influente; dicono che il motivo di questa esecrabile azione fosse quello di sperimentare il suo unguento» (p. 456). La frigidità e la perversione sono l'esperienza di molte donne, le non isteriche. Consapevoli della mancanza di sessualità, perché non ravvivate dal desiderio maschile, coprono il vuoto intessendo tresche, relazioni complicate, che nella complicazione trovano forza, strategie di occultamento, giochi erotici che evitano il sorgere del fantasma dello stupro, perché sono appunto giochi, invenzioni. Ed è chiaro che si sta più a proprio agio in un secolo dove questa è l'esperienza di un intero gruppo sociale. Un sintomo di questa propensione è la poca importanza che si dà al sentimento materno. Madame du Deffand diceva: «l'idea di posterità mi sembra una chimera [... ] non l'ammetto per coloro che possiedono i più grandi beni e proprietà; a maggior ragione per coloro la cui fortuna è mediocre».

Una signora del gioco

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Lamore materno non è stato ancora inventato: i figli possono essere abbandonati e si rimane rispettabili, tanto più rispettabili se si è donne intelligenti e di spirito. È chiaro che nell'isteria e nella maternità ci sono anche emozioni e desideri di donna, ma sappiamo che la modalità di espressione è dettata dall'immaginario maschile. La posizione di Madame du Deffand e delle sue contemporanee è parziale: sterili eroine che non hanno da offrire che il rigore e l' intelligenza, senza corpo apparentemente ... anche se su qualcosa la loro autonomia si doveva pur basare: per me, appunto, sul corpo frigido, riconosciuto come tale. Si sa che non è sollecitabile, e a partire da questa esperienza, negata dagli uomini perché per loro tutte le donne sono sollecitabili e quindi suggestionabili, è possibile inventare percorsi diversi. Insomma tra le streghe dei secoli passati e le madri di quelli successivi, nel secolo di Madame du Deffand, alcune donne hanno goduto di un intermezzo di libertà e di piacere. Tra l'altro, come risulta dal libro di Lisa Baruffi che ha tratto la notizia da La Jemme au XVIII siècle dei Goncourt, nel Settecento moltissime donne chiedevano la separazione dal marito e andavano a vivere in conventi completamente aperti: le pensionnaires potevano uscire e ricevere chiunque volessero.

CATALOGO N. I - TESTI DI TEORIA E PRATICA POLITICA

Non esiste un punto di vista femminista. I libri cosiddetti femministi che sono in questa libreria valgono, se valgono, per il legame che hanno con la lotta delle donne e con la modificazione della realtà. In ogni caso non contengono il punto di vista femminista. Il pericolo che si corre con questa libreria è di far credere che qui si possa vendere e comprare la nuova visione del mondo dal punto di vista femminista. Su ogni argomento: favole, musica, letteratura, maternità, educazione, ecc. È importante che il sapere conquistato dalle donne attraverso l' esperienza e la pratica politica circoli in documenti, riviste, volantini e anche libri. Ma sarebbe catastrofico se questo sapere venisse assunto come ideologia, cioè come un discorso precostituito, tutto fatto. Invece di produrre idee attraverso la modificazione collettiva della realtà ci si accontenta di assorbire una visione del mondo traendola dai libri femministi. Così il movimento si riduce a fatto culturale. Usati in questo modo i testi del movimento servono da conferma e fanno censura. Esempio: l'insegnante donna, che cerca il libro femminista sulla scuola, in realtà sta subendo l'istituzione scolastica, avverte un disagio e tenta con la lettura di questo libro di sentirsi a posto come insegnante e come donna invece di fare una lotta là dove incontra le contraddizioni reali. Di questa situazione hanno approfittato gli editori mettendo sul mercato una merce fatta per rispondere a questa domanda passiva. Immaginare che ci sia un punto di vista femminista toglie la voglia di prendere posizione perché nessuna(?) si sente di parlare in nome delle donne. Lideologia - vale a dire il discorso politico che non ha più legame con la realtà - è molto chiacchierona, ma produce illusioni e consolazione a ripetizione. Insomma lascia le cose come sono. Abbiamo bisogno di teoria e questa si guadagna da ciascuna e da tutte le donne attraverso la pratica politica (perché solo politica?). Tutte sono competenti, non ci sono né autorità né autrici.

CATALOGO N. 2 - ROMANZI. LE MADRI DI TUTTE NOI

- Gli uomini sono gentili di cuore se non hanno paura ma hanno paura hanno paura hanno paura. Io dico che hanno paura ma se glielo dicessi la loro gentilezza si muterebbe in odio. Certo i Quaccheri hanno ragione, loro non hanno paura perché non combattono, loro non combattono. - Ma Susan B. tu combatti e non hai paura. - Io combatto e non ho paura, combatto ma non ho paura. - E vincerai. Vincere cosa, vincere cosa. Gertrude Stein, The mother of us ali

Scartata la critica letteraria, diversi approcci erano possibili. Alla rinfusa ne abbiamo usati molti. La trama del romanzo era seguita fino a che qualcuna non diceva: abbiamo inventato un altro romanzo ... Fermiamoci ad analizzare questo nostro modo di leggere che confonde vita e letteratura. Però una vera e propria analisi del modo di leggere non si è fatta. Alla rinfusa si attaccava di nuovo con il libro e con l'autrice da tutte le parti per trovare nella storia, nella costruzione del romanzo o nel linguaggio, l'inizio di un'invenzione che· rendesse conto di quello che sanno, che sono le donne, se ci sono. C'era la dichiarazione di quelle scrittrici che hanno affermato la neutralità sessuale dello scrivere. Noi però volevamo vedere se i loro scritti, magari in misura ridotta, a sprazzi, momenti, facessero apparire un simbolico delle donne. Contro la loro volontà abbiamo voluto affermare la nostra, ridurle alla parzialità per averne un guadagno politico. Un po' all'incontrario di quello che fa il movimento femminista e femminile quando esalta la presenza delle donne nella storia per potersi inserire con pari dignità in tutti i livelli della vita sociale. Noi abbiamo ripassato le scrittrici perché ci serviva un arricchimento per pensarci. Così, in effetti, le abbiamo deformate e ridotte a una frase a una immagine a un'invenzione linguistica. Per finire, ciò che abbiamo detto è risultato essere qualcosa che riguarda soprattutto noi, quello che andiamo cercando per noi.

Inviolabili

La battaglia per l'aborto legale (che diventerà legge dello Stato, la 194/78), a metà degli anni Settanta e la battaglia, cominciata poco dopo e non ancora conclusa, per una nuova legge contro la violenza sessuale al posto di quella del codice Rocco, videro L.C. all'opposizione, insieme a una minoranza che nel tempo è cresciuta notevolmente. I primi documenti di opposizione - volantini che all'epoca venivano, ancora per poco, ciclostilati - provocarono grande sconcerto, per il tipo di discorso, basato sulla pratica del partire da sé, e, ancor più, perché distruggevano l'ingenua presunzione di un unanimismo femminista. La posizione di L.C. era, e rimane, sul primo punto: la depenalizzazione, ossia che lo Stato non legiferi sull'aborto; sul secondo: è sufficiente cambiare, della legge Rocco, il titolo del reato, che sia non «contro la moralità pubblica e il buon costume» ma «contro la persona». La posta in gioco era, e rimane, una libertà femminile affidata alla pratica delle relazioni fra donne e non alle leggi dello Stato. La scelta di aprire quei conflitti va considerata, sommato tutto, produttiva; il femminismo italiano ne ha guadagnato la consapevolezza del legame profondo quanto ambiguo fra la legge e il corpo femminile, e ne è uscito vaccinato contro il «femminismo di Stato», prevalente nel resto della Comunità europea. Sullo stesso argomento L.C. ha scritto, con altre, il secondo capitolo del testo della Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987. Collettivo femminista milanese di via Cherubini (testo preparato da Lia Cigarini, Luisa Muraro, Antonella Nappi e Daniela Pellegrini), Noi sull'aborto facciamo un lavoro politico diverso, «Sottosopra rosso», Milano, gennaio 1975 ,Libreria delle donne di Milano, Sulla proposta d'iniziativa popolare per una nuova legge contro la violenza sessuale, ciclostilato in proprio, Milano, 11 ottobre 1979 Lo stupro simbolico, «il manifesto», 20 novembre 1979 Inviolabilità del corpo femminile, «Noi Donne», febbraio 1988 Rossana, non è andata proprio così, «Noi Donne», settembre 1989 Intervento, in Atti del convegno Inviolabilità del corpo femminile Pratiche politiche, processi, leggi, a cura del Centro donne del Comune di Livorno, aprile 1990

NOI SULL'ABORTO FACCIAMO UN LAVORO POLITICO DIVERSO

Non abbiamo aderito né partecipato alla manifestazione per l' aborto libero e gratuito: sul problema dell'aborto noi facciamo un lavoro politico diverso. 1.:aborto libero e gratuito ci farà spendere dei soldi in meno e ci risparmierà alcune sofferenze fisiche: per questo nessuna di noi è contro una riforma sanitaria e giuridica che tratti la prevenzione della gravidanza e secondariamente la sua interruzione, ma tra questo e il fate delle manifestazioni abortiste in generale e per di più con gli uomini ci passa. Perché tali manifestazioni sono in contrasto con la pratica politica e la consapevolezza che le donne in lotta hanno espresso in questi anni. Intanto diciamo subito che per noi l'aborto di massa negli ospedali non rappresenta una conquista di civiltà, perché è una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza e che per di più colpevolizza ulteriormente il corpo della donna: è il suo corpo che sbaglia perché fa bambini che il capitalismo non può mantenere ed educare. Si arriva all'ossessione americana: «siamo troppi, non respireremo più, non mangeremo più, ecc.». E il problema da risolvere diventa quello del controllo delle nascite e non il cambiamento della struttura sessista e capitalista della società. Non possiamo essere complici di questa falsa coscienza. Il lavoro politico va orientato e la soluzione va cercata nell'affermazione del corpo femminile che è: sessualità distinta dal concepimento, capacità di procreare, percezione della sessualità interna, cavitaria: utero, ovaie, mestruazioni. E il rapporto con le risorse, la natura, la produzione e la riproduzione della specie va impostato nel senso della socializzazione anziché dei tentativi di razionalizzare, mantenendola, la struttura familiare, la proprietà privata, lo spreco. Comunque l'aborto non è «la fine di una vergogna». La maggioranza delle donne che abortiscono nella clandestinità non si vergognano di essere clandestine. Se c'è vergogna è per altre cose e per altre cause.

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Prima parte

Anche le donne che hanno tutti i mezzi e sono in grado di accedere alla contraccezione meccanica e chimica, che hanno la possibilità di riflettere e ordinare la loro vita sessuale (in scelte, tempi, modi, forme e partner), ripetono il fenomeno del concepimento e il più delle volte dell'aborto, ripetono cioè la negazione e l'affermazione della gravidanza, ripetono esse stesse la violenza che le donne subiscono e si usano. Arcaismo invincibile delle donne - come pensa il razionalismo borghese - o per noi vitale indicazione di riflessione e lavoro politico. Emerge qui, la contraddizione tra sessualità femminile e sessualità maschile, la realtà del dominio maschile sulla donna; e si palesa quanto il problema dell'aborto coinvolga la donna - a livello conscio e inconscio - nel suo rapporto con la sessualità, la maternità e l'uomo. La clandestinità dell'aborto è una vergogna degli uomini, i quali spedendoci negli ospedali ad abortire ufficialmente si metteranno la coscienza in pace in modo definitivo. Si continuerà come prima e meglio di prima a fare all'amore nei modi che soddisfano le esigenze fisiche, psicologiche e mentali degli uomini. Rimane un divieto di situarci in un'altra sessualità non interamente orientata verso la fecondazione. Il corpo della donna, la sua sessualità, il suo godere non esigono necessariamente quei modi e quelle forme di intimità (coito) che poi la fanno rimanere incinta. Al contrario noi donne preferiamo: o essere lasciate in pace (le statistiche sulla frigidità parlano chiaro) o cercare godimento e gioia in altri modi. Allora, cosa dobbiamo volere e cercare per prima cosa? Il nostro star bene, il nostro piacere, la nostra gioia, oppure il rimedio (violento) ai gusti e alle preferenze di altri, cioè degli uomini? Esiste una profonda divisione e una contraddizione tra l'uomo e la donna, tra la sessuàlità maschile e la nostra sessualità. Non si risolve questa contraddizione eliminando il momento della lotta di sole donne (questo equivale a far prevalere ancora gli interessi degli uomini e a ribadire la subordinazione delle donne). In caso, con gli uomini potremo fare altre manifestazioni emancipatorie (per i servizi sociali, per il diritto al lavoro) ma non questa sull'aborto dove, come abbiamo chiarito, la contraddizione tra sessualità maschile e femminile esplode. Dove la violenza chirurgica sul corpo della donna non è che la drammatizzazione della violenza sessuale.

Inviolabili

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Richiedere l'aborto libero e gratuito insieme agli uomini è riconoscere sì in concreto la violenza che ci viene fatta in questi rapporti di potere con la sessualità maschile, ma facendosene complici e consenzienti anche a livello politico. Tra l'altro gli uomini marciano oggi per l'aborto libero e gratuito anziché mettere in discussione il loro comportamento sessuale, il loro potere fecondante. La nostra pratica politica non accetta di frazionare e di snaturare i nostri interessi: vogliamo fin d'ora partire dalla materialità del corpo, analizzare la censura che gli è stata fatta e divenuta parte della nostra psicologia. Agire per il recupero del nostro corpo, per un sapere e una pratica diversa che parta da questa analisi materialista. Senza la quale analisi è ridicolo parlare di «libera disposizione del corpo», e il conseguimento delle riforme servirà a soffocare la nostra lotta anziché svilupparla. Inoltre nemmeno dobbiamo ridurre, privatizzandolo in una dinamica di «gruppo politico tradizionale», il significato che nella nostra pratica ha il movimento delle donne: tutte le donne lo rappresentano in prima persona.

SULLA PROPOSTA D'INIZIATIVA POPOLARE PER UNA NUOVA LEGGE CONTRO LA VIOLENZA SESSUALE

Appena conosciuto il testo della proposta 1 abbiamo fatto delle riunioni nella Libreria delle donne di Milano per analizzarla e discuterla. Alcune sue parti ci sono apparse buone, altre invece criticabili. Ci sembra buona quella parte che limita i poteri di indagine e di decisione dell'autorità pubblica (giudici, poliziotti, medici) nei processi per stupro. Ma per la stessa ragione siamo contro l'articolo che introduce la procedura d'ufficio, appunto perché dilata l'intervento dell'autorità pubblica. Tutti i motivi che vengono portati a favore di quell'articolo non bastano a coprire il fatto che con la procedura d'ufficio si nega alla donna vittima di violenza la possibilità di decidere lei se vuole o non vuole cercare giustizia con un processo. Con la procedura d'ufficio la donna diventa obbligatoriamente il principale o l'unico testimone d'accusa contro gli autori della violenza. Deve quindi mettersi a disposizione di un tribunale che giudicherà su una materia che è il suo stesso corpo. Ci sono donne che non vogliono trovarsi in questa situazione. Le loro ragioni possono essere diverse, dalla paura di chi ha fatto loro violenza alla sfiducia nei tribunali. Tutte queste ragioni, secondo noi, vanno tenute presenti. Siamo perciò contrarie a un procedimento legale automatico che cancellerebbe le ragioni delle donne, giuste o sbagliate che.siano. E poi, chi giudica se sono giuste o sbagliate? Tra noi che ne abbiamo discusso, sono venuti fuori atteggiamenti molto diversi non solo su quello che ciascuna farebbe dopo il caso disgraziato di una violenNell'autunno del 1979 !'Mdl, l'Udi, il collettivo femminista di via Pompeo Magno, il coordinamento delle donne dell'Flm, costituitisi in comitato promotore, raccolgono 300.000 firme in calce a un progetto di legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale e lo presentano in Parlamento. 1

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za, ma anche su come questo caso sarebbe vissuto. Tale diversità non fa meraviglia, perché sul proprio corpo e sulla propria sessualità non c'è tra le donne un sentimento uniforme. La vecchia legge del codice Rocco prevedeva la querela di parte per permettere alla famiglia della vittima (cioè al padre o al marito) di valutare se il loro onore si accordava con un processo pubblico. Noi vogliamo la querela di parte per permettere alla donna di valutare se i suoi sentimenti e i suoi interessi si accordano con un processo pubblico. Preferiamo che questa valutazione rimanga individuale, per due rag1om: 1) perché noi stesse desideriamo riservarci la possibilità di una valutazione individuale (è giusto segnalare che questa posizione non è unanime: una ha detto che forse lei preferirebbe la denuncia d'ufficio per essere deresponsabilizzata, non dover decidere); 2) perché ci sembra importante che il movimento politico delle donne si confronti sempre nelle sue iniziative con quello che le donne, in concreto, sentono, desiderano, vogliono. Già è capitato che il movimento si sia mobilitato in difesa di donne che non potevano o non volevano sostenere fino in fondo la parte prevista da quella mobilitazione. Ci è stato detto che in futuro simili «eccessi» saranno evitati. Bene: il primo passo per evitarli consiste nel non prendersi gli strumenti legali che permettono di scavalcare la singola donna. Su questo punto è venuta fuori un'altra questione. La nuova legge ammette la costituzione di parte civile del movimento. C'è un motivo che riconosciamo valido: in un processo per violenza la singola quasi sicuramente ha bisogno di avere accanto a sé altre donne. Ma chi saranno queste altre donne? I movimenti organizzati oppure quelle con cui lei ha un qualche legame concreto? Per noi soltanto questa seconda eventualità è accettabile. Altrimenti capita che i gruppi organizzati diventino i rappresentanti ufficiali delle donne. La rappresentanza politica non deve ricostituirsi tra noi, visto che il fatto di essere «rappresentate» è una delle cose contro cui abbiamo lottato per trovare un minimo di esistenza e di espressione. C'è questo problema della nostra incerta esistenza sociale. Le donne sopportano in silenzio fatiche e purtroppo anche violenze quotidiane. Vogliamo che non sia più così, o che almeno si cominci a parlarne, a protestare apertamente.

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È giusto. Ma in che modo? È evidente che la denuncia penale non è l'unico modo, non si può neanche dire che sia il migliore. Ma con la legge che stabilisce la procedura d'ufficio, diventerebbe la strada obbligata per tutte. Quelle che non vogliono il processo, dovranno stare zitte o confidarsi in privato ... Noi chiediamo che altre strade rimangano aperte, per la presa di coscienza come per la denuncia pubblica - fatta, per esempio, in un'assemblea sindacale o in un'assemblea di donne o usando la radio, i giornali, ecc. Per questi motivi non ci sentiamo di fare nostro il progetto di legge. Resta che quella legge è stata pensata e probabilmente sarà sostenuta soprattutto da donne. Questo ci pone dei problemi. Primo, quello di trovare le parole e i modi per comunicare fino in fondo la nostra posizione. La critica che vorremmo fare non riguarda soltanto quei punti che abbiamo detto (denuncia d'ufficio, costituzione di parte civile del movimento organizzato), riguarda anche il fatto che delle donne si mettano a formulare leggi per regolare la violenza maschile e la sofferenza femminile. Regolare vuol dire anche registrare ufficialmente. Con questo mezzo si vorrebbe imporre alle istituzioni un certo rispetto per le donne e insieme aiutare queste ad affermare la propria esistenza sociale. Ma questo fare leggi, e suscitare speranze nelle leggi, è un mezzo che fa nascere una strana confusione. Che cosa abbiamo a che vedere noi con il ruolo di «legislatore»? Che cosa lega noi a questo ruoln, alla sua logica, ai suoi interessi manifesti o nascosti? Abbiamo visto in questi anni che la nostra marginalità, diventando autonomia dal mondo maschile, presa di coscienza e di parola, e arricchendosi con rapporti più significativi tra donne, si è tradotta anche in forza sociale. Il cambiamento decisivo da realizzare riguarda il rapporto uomo/ donna. La sostanza di questo rapporto sono fatti materiali e culturali che si radicano dove nessuna legge arriva. Un nuovo modo di fare politica è stato inventato dalle donne proprio per arrivare a quelle radici. Secondo noi è meglio andare avanti in questo senso anche sul problema della violenza sessuale. Bisogna che gli uomini smettano di considerare il corpo femminile come se fosse a loro disposizione. Limmagine della nostra «disponibilità» pervade la società e noi stesse l'abbiamo dentro. Noi vorremmo confrontarci su queste cose, realiz-

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zare dei cambiamenti di questa natura. Ma non vediamo in che modo, se va avanti un discorso in funzione del progetto di legge. Chiediamo perciò che sia ritirato . .Altrimenti quelle che, come noi, non sono d'accordo, si trovano costrette al dissenso e all'opposizione.

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STUPRO SIMBOLICO

Poco m'importa discutere in generale del nostro rapporto con le istituzioni; è un tema troppo generico. Mi interessa discutere se le donne devono formulare in articoli di legge l'esperienza, la pratica politica sulla violenza sessuale e, più in generale, sulla sessualità. Per fare le leggi è necessario avere in mente una figura ideale, quella del buon cittadino. E mi chiedo se, a questo punto della nostra riflessione sulla violenza sessuale, sull'amore e sulla sessualità, noi abbiamo presente questa figura ideale e se la vogliamo avere. Credo proprio di no. Ho presente, invece, tutte le contraddizioni della sessualità e della violenza, e non riuscirei né a formalizzare né a condannare dei comportamenti. Mi viene in mente (ne abbiamo parlato molto in questi anni) la questione dell'isteria. Discutendo di questa legge l' attenzione a questo fatto è importante. Noi abbiamo riconosciuto come violenza sessuale anche la violenza interiorizzata (fantasie di stupro, di prostituzione, disponibilità del proprio corpo, ecc.). Per le donne non è difficile simulare perché è così lieve la distanza tra la fantasia e agire la fantasia. La simulatrice in senso stretto svela qualcosa che siamo tutte noi, anche quando riusciamo a controllarci. Molte volte il movimento delle donne ha avuto a che fare con le simulatrici. Di fronte alle assemblee queste erano costrette a smentire, oppure erano smentite dai giudici dopo l'interrogatorio. Ma per le presentatrici della legge la simulatrice, l'isterica diventerà una nemica. Infatti l'isterica, inventando un reato, irride la legge. E tutto finisce nel ridicolo. Le più colpite dall'irrisione sono, evidentemente, le donne che credono nella legge. Ho fatto l'esempio della simulatrice ma gli esempi dell'isteria femminile sono tanti. E di fronte a questo quale deve essere la nostra attenzione, la nostra pratica politica? Quella di capire it messaggio dell'isterica (di colei che sembra sostenere la legge e il desiderio dell'uomo ma attraverso la deformazione e il teatro lo nega) o punirla perché ci fa fare brutta figura? Nel caso che la parte organizzata del

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movimento delle donne si costituirà parte civile tutte le volte che sentirà parlare di stupro sarei curiosa di sapere da che parte starà: della donna o della legge? Per quanto riguarda l'analisi del rapporto uomo-donna, madrefiglio, dominato dalla legge del padre, non siamo andate nel senso di imporre un'altra legge. Credo che la legge dei codici costituisca l' estrema astrazione della legge del padre. La nostra pratica in questi anni è andata nel senso dell'autonomia delle donne, simbolica e sessuale, prendendo le distanze dalla legge del padre che è quella che regola la sessualità e la simbolizzazione. Mi interessa vedere sotto questa ottica il rapporto donna-legge, e in questo senso dico che le donne non de-

vono proporre leggi. Inoltre, ci possono anche essere leggi buone, ma poi la macchina della giustizia è tutt'altra cosa: in un tribunale, in un processo, che alcune considerano addirittura uno strumento politico tra i tanti possibili, si riproducono rapporti di forza determinati e sfavorevoli alle donne. Nel momento in cui mi trovo in un processo chi mi dà la possibilità di reagire allo stupro simbolico del giudice, dell'avvocato e della legge che disprezza le donne? Se si bada solo allo stupro fisico una legge e un processo possono forse bastare; ma chi ha attenzione allo stupro simbolico si domanda quale pratica, quale politica permettano alle donne di non essere più stuprate simbolicamente. Questa legge regolamenta una contraddizione interna al mondo degli uomini. Ci sono uomini che hanno un comportamento deviante rispetto alla morale borghese. Nel processo avviene il regolamento di questa contraddizione. A me interessa modificare il rapporto uomo-donna nel senso di non dovere subire uno stupro simbolico che c'è anche nel momento in cui le donne entrano in rapporto con la legge. Nel caso della simulatrice che ho fatto prima, non è questione di stupro alla letterà ma neanche di pura fantasia. Nella simulatrice la figura dello stupro compare come effetto di una realtà prevaricatrice e violenta sui desideri delle donne. Questo intendo più o meno per stupro simbolico. E mi riguarda personalmente. Infatti la mia paura dello stupro era tale da impedirmi la sessualità, nel rapporto sessuale io avevo delle fortissime fantasie di stupro e di violenza. E queste fantasie non mi venivano evidentemente da quella particolare situazione. Contemporaneamente all'inibizione della sessualità c'era la mancanza di parola. In tutte le situazioni in cui mi mettevo in rapporto col mondo degli

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uomini, di studio, di lavoro, di politica, rimanevo muta ed era per me un enigma, non riuscivo a capire perché sentissi come sopraffazione, e come impossibilità a parlare, una situazione che mi piaceva e mi interessava. In un ordine simbolico dove i miei desideri non avevano mai trovato parole, il desiderio di un altro mi gettava in una dolorosa passività. Le donne hanno preso la parola in questi dieci anni di movimento e io ora non mi sento violabile. Allora mi sembra che una di noi dicesse nel suo intervento: quello che si è modificato in questi anni, la non violabilità delle donne, dovrà pur trovare un'iscrizione simbolica, magari giuridica, per quello che riguarda la violenza sessuale, in quanto il diritto fa parte dell'ordine simbolico. Sono d'accordo che quel tanto di rivoluzione simbolica che le donne hanno fatto debba trovare un'iscrizione. Però credo che ci sia differenza tra iscrizione simbolica giuridica della non violabilità delle donne, e una legge repressiva. Quando abbiamo sostenuto, a proposito dell'aborto, la depenalizzazione invece che una legge che lo regolamentava, abbiamo detto una parola giuridica che esprimeva la volontà che non si legiferasse sul corpo della donna, senza appunto presentare leggi alternative. E ci sono altri esempi: gli statuti sociali delle librerie delle donne, di associazioni, di cooperative, di giornali di donne, sono l'espressione giuridica di una pratica politica di rapporti tra donne. In questi casi ci siamo espresse anche a livello giuridico, ma è evidentemente tutt'altra cosa dal definire reati e dare pene.

INVIOLABILITÀ DEL CORPO FEMMINILE

Come è noto le parlamentari comuniste, socialiste e demoproletarie hanno presentato un proprio progetto di legge per modificare le norme vigenti sulla violenza sessuale e contemporaneamente è presentato il vecchio progetto di legge cosiddetto delle donne 1 • In questo momento, più che esprimere il mio radicale dissenso sulle norme contenute nei due progetti e, in generale, sulle velleità di legiferare da parte di donne sulle donne, mi interessa discutere l'operazione politica che le parlamentari hanno messo in atto. In primo luogo lo strano procedimento di presentare due leggi diverse sulla medesima materia sembra significare una cosa ben precisa e cioè che la legge cosiddetta delle donne viene, in questo contesto, ripresentata per fare un vuoto omaggio alle femministe. È vuoto poiché indirettamente le parlamentari considerano il testo di legge da loro attribuito al femminismo come qualcosa che sta fuori dalla storia, ripresentabile dopo dieci anni nonostante i dibattiti e i cambiamenti intervenuti nella società italiana specialmente tra le donne. E non badano al fatto che presentando anche un'altra legge quella attribuita alle femministe viene da loro stesse messa fuori gioco. In secondo luogo c'è da sottolineare che la presentazione dei progetti è avvenuta senza la minima discussione fra le donne. Esattamente com'era successo nel 1979 con la legge di iniziativa popolare Mld e Udi: allora le autrici, che evidentemente davano per scontata l' adesione delle altre donne, prima depositarbno il progetto presso la Corte di cassazione, poi consultarono i vari gruppi femministi.

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La proposta di legge redatta dalle parlamentari del Pci, Sinistra Indipendente, Psdi e firmata da alcune V~rdi e dalla dc Maria Fida Moro ricalca il vecchio tesro di iniziativa popolare: violenza sessuale come delitto contro la persona, riunificazione in una sola fattispecie della violenza carnale e degli atti di libidine violenta, procedibilità d'ufficio, fattispecie della violenza di gruppo, processo per direttissima a porte aperte, costituzione di parte civile (col consenso della vittima) di associazioni e movimenti.

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È risaputo che le critiche e le riserve espresse da donne furono numerose e radicali, sia per quel che riguardava il metodo usato dai gruppi proponenti sia per i contenuti della loro proposta. Soprattutto fu considerata inaccettabile l'introduzione della procedura d'ufficio che vuol dire processo sempre anche se la vittima non lo vuole. Oggi le parlamentari si arrogano lo stesso diritto di decidere per tutte senza prima aprire un vero confronto tra le donne e senza la scusante delle prime autrici di tale progetto, vale a dire il pensiero che di fronte all'orrore dello stupro le donne non aspettassero altro che una legge. Vorrei anche far notare che le attuali proponenti sono state elette dopo una campagna elettorale in cui esse andavano sostenendo un'idea diversa della rappresentanza, promettendo un legame più profondo e stretto con gli interessi del sesso femminile. La presentazione di progetti che contengono la procedura d'ufficio per i reati di violenza sessuale e la costituzione di parte civile per le associazioni che hanno nei loro statuti come scopo la difesa dei diritti delle donne cancellano, al contrario, la lotta, la riflessione e il sapere anche giuridico accumulato in questi anni dalle donne. Tra l'altro non capisco perché, dopo Cernobyl, siano state ascoltate le scienziate mentre in questa occasione nessuna ha voluto sentire il parere delle giuriste. Molte di esse che conoscono il processo per stupro, nel quale l'indagine si accentra necessariamente sull'esistenza o no del consenso della donna all'atto sessuale, avrebbero potuto confermare quanto sostenuto da molte oppositrici della legge, vale a dire che in materia di violenza sessuale la procedura d'ufficio è inaccettabile, perché la decisione se sopportare o no un processo di questo tipo non può che essere lasciata alla valutazione individuale della donna interessata. In sintonia con il movimento politico delle donne che ha cercato sempre di confrontarsi nelle sue iniziative con quello che le donne in concreto sentono, desiderano, vogliono. Mentre l'introduzione della procedura d'ufficio significa essere obbligate a entrare in un'aula di tribunale per difendere la dignità e la libertà femminile; se non lo si fa e si cercano delle altre strade di riparazione, si è delle poverette impaurite quasi conniventi con lo stupratore. A questo punto c'è da chiedersi: la dignità di chi si deve difendere? Forse di quelle che propongono le leggi. Difesa come, in realtà.

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È così incoerente con la pratica politica delle donne l'istituto della procedura d'ufficio che, anni fa, una femminista americana, impegnata in un progetto di riforma delle norme sulla violenza sessuale nel suo paese, non voleva assolutamente credere che su spinta di alcuni gruppi di donne si volesse introdurre la procedura d'ufficio in questa materia. Per quanto riguarda, infine, la costituzione di parte civile nei processi di stupro per le associazioni femminili, non mi sembra che le autrici delle proposte abbiano discusso a fondo il rapporto che si può dare tra la vittima del reato e le associazioni che si costituirebbero parte civile. Si ammette forse che le associazioni, anche più d'una, possono intervenire sostenendo magari linee di difesa tra loro contrastanti o contrastanti con quella della parte offesa? O si suppone che, trattandosi di donne, simili contrasti non possano darsi? E poi le proponenti non sono sfiorate dal dubbio che non soltanto i giudici possono celebrare i loro riti sopra la testa della donna violentata, ma che potrebbero farlo anche svariate associazioni femminili, ciascuna in nome dei diritti di tutte le donne? Se invece, come è sempre avvenuto, la rappresentanza viene rivendicata nel concreto del singolo processo con l'accordo della donna interessata, allora si rende superflua l'odiosa procedura d'ufficio giustificata con la ragione di fare giustizia anche per quelle donne troppo impaurite per denunciare gli autori del reato. Penso, per concludere, che le parlamentari abbiano agito così perché il loro quadro di riferimenti rimane quello dato, dove le donne sono un gruppo sociale oppresso. Ed esse, fidando nella neutralità del diritto, agendo a livello legislativo, cercano di tutelarle. Ciò significa, però, dire che la pratica politica dei rapporti tra donne - «dalle donne la forza delle donne», come recita la Carta delle donne comuniste - è un privilegio di poche mentre per le altre funzionerebbero solo le mediazioni neutre. Faccio, per spiegarmi meglio, un esempio: il terribile caso di Palmina, la ragazza pugliese di quattordici anni violentata e bruciata perché non voleva prostituirsi. Tutto quello che poteva fare una sentenza migliore sarebbe stato di punire i colpevoli mentre in realtà li ha mandati assolti per insufficienza di prove. Una sentenza migliore sarebbe stata dunque un segnale che la società italiana è progredita dal punto di vista del costume e del funzionamento della giustizia. A me, però, e penso a tutte le donne, rimarrebbe da risolvere il problema essenziale: la madre e le sorelle di Palmina (come di Jolanda e altre) non hanno garantito la sua vita e la realizzazione delle sue aspirazioni;

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hanno cercato invece di spingerla alla prostituzione, probabilmente a causa dell'immagine sconfitta e umiliata che esse hanno del sesso femminile. Quindi anche in questi casi, direi soprattutto in questi casi di situazioni particolarmente misere, il nodo politico da affrontare è come le donne possano darsi reciprocamente forza e valore e garantirsi l'inviolabilità del corpo.

ROSSANA, NON È ANDATA PROPRIO COSÌ

In un articolo apparso sul vostro mensile («Noi Donne» luglio/ agosto 1989) Rossana Rossanda scrive che ai tempi della 194 un solo gruppo di donne, la Libreria di Milano, non fece la campagna a favore della legge sull'aborto perché non voleva occuparsi delle disperate ma di quelle che si realizzano. In realtà le cose non sono andate come dice Rossanda. Molti gruppi femministi, tra cui la Libreria di Milano, sull'aborto hanno fatto, dal momento in cui i radicali hanno iniziato la campagna per la legalizzazione, un lavoro politico diverso, concentrandosi su tre punti: l'aborto come sintomo di una sessualità asservita, la necessaria autonomia di analisi e di pratica del movimento delle donne, l'insignificanza delle riforme in materia di sessualità. Questo, come appare evidente, non vuole dire disinteresse per l' aborto e per le «disperate». I gruppi di autocoscienza di Milano, Torino, Firenze e di altre città si trovarono, poi, d'accordo nel sostenere come unico intervento legislativo la depenalizzazione dell'aborto. In questo modo l'aborto non sarebbe più stato reato. Invece con la 194 non è reato solo se viene fatto nelle strutture ospedaliere pubbliche, in tutti gli altri casi è rimasto reato. Con la semplice depenalizzazione, comunque, si poteva evitare che lo Stato regolasse in vario modo il corpo o la volontà femminile, il suo intervento potendo essere limitato a consentire, per chi ne avesse bisogno, di abortire gratuitamente in ospedale. Le posizioni che ho ricordato sono state espress~ in convegni, volantini, articoli, a partire dal 1971 e riportati nei primi numeri di «Sottosopra» e nel secondo capitolo di Non credere di avere dei diritti (1987). lo credo che se il movimento delle donne nel suo complesso avesse allora respinto decisamente la parola colonizzatrice dei partiti, non assisteremmo oggi ai tracotanti interventi di uomini che ne parlano come se fosse un problema loro. E, in effetti, la legge che regola l' a-

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borto l'hanno decisa e fatta loro, in risposta a un bisogno femminile ma nelle forme che assicuravano un controllo maschile su tutta la faccenda. Penso, quindi, sia necessario riaprire la discussione, mettendo in gioco la propria esperienza e la propria pratica politica senza la preoccupazione di indebolire la legge n. 194, perché questo timore non farebbe che indebolire la nostra volontà e il nostro pensiero. Per finire vorrei aggiungere che non condivido la divisione tra donne disperate e donne che si realizzano perché ho visto molta disperazione fra le donne che si realizzano e anche il viceversa, non poca capacità di realizzazione tra quelle considerate disperate.

INVIOLABILITÀ DEL CORPO FEMMINILE PRATICHE POLITICHE, PROCESSI, LEGGI*

Per una ragione di pratica politica delle donne, non vedo questo incontro come un tentativo estremo di correggere una legge sbagliata, ma come un incontro che metta in risalto che questa non è una legge delle donne, perché buona parte del movimento autonomo delle donne, in questi dieci anni, in varia misura, si è dichiarata contro questa legge, e sempre di più quando si è dimostrato che la procedibilità d'ufficio non era necessaria a qualificare il reato. La gravità del reato non è determinata dalla forma del procedimento ma dall'entità della sanzione. Non è la legge delle donne: deve essere chiaro che se una donna non denuncia non è una donna colpevole verso il suo sesso. lo farei altre cose per ricostruire l'immagine di me dopo uno stupro. In una circostanza del genere io non denuncerei, sceglierei le mie compagne, per analizzare con loro quello che mi è successo, altre forme di protesta pubblica, non certo il processo. Non mi sembra adatto a ribadire l'inviolabilità del mio corpo. Questo incontro, dunque, è importante per significare che i sensi di colpa non portano le donne avanti: siamo uscite da questa economia di miseria. Non è sulla colpevolizzazione che noi agiamo. Ho sentito con molto piacere quello che ha detto Margherita lallonardo: noi • Nell'ottobre del 1988 il Centro Do~na di Livorno organizza un incontro

sull'Inviolabilità del corpo femminile - Pratiche politiche, processi, leggi. A tema, principalmente, la legge sulla violenza sessuale presentata in Parlamento, «a nome delle donne», da molte parlamentari. Fra gli altri interventi ricordiamo quello di Luisa Muraro, sulla possibilità di continuare a significare e praticare l'estraneità invece che spingere illusoriamente le donne a rivolgersi alla legge, e quello di Grazia Zuffa, senatrice del Pci, firmataria della legge (se pure con una posizione diversa da quella della maggioranza delle parlamentari, su questioni importanti, come la querela di parte, ad esempio), interessata soprattutto a rendere visibile il conflitto politico delle donne, di modo che ognuna responsabilmente dica ciò che pensa fuori dal falso unanimismo, che si richiama a un generico «le donne pensano questo». Di seguito gli interventi di Lia Cigarini. ·

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non dobbiamo andare in fonderia per dimostrare l'esistenza del sesso femminile, e non dobbiamo denunciare per significarla. Abbiamo una ricchezza di sapere e di pratica che fa esistere il sesso femminile, essa non deve essere dimostrata con questi atti autodistruttivi. Mi aspetto, quindi, dall'incontro, la registrazione degli spostamenti che si sono operati tra le donne con la discussione che c'è stata sulla legge. Mi interessano gli spostamenti, anche quelli che possono avvenire qui. Vorrei sentire, infine, sull'inviolabilità del corpo femminile quali pratiche politiche facciamo. La questione della legge sulla violenza può essere un esercizio critico di come si possa fare una pratica giuridica diversa. Sapevo che Annalisa Diaz e Grazia Zuffa erano per la querela di parte, così come altre parlamentari comuniste. La maggioranza invece, si sa, è per la procedura d'ufficio. Quello che contesto a tutte è di avere tirato fuori la legge dalla mattina alla sera, dopo lo stupro siciliano, senza una consultazione tra le donne e senza discussione tra le giuriste. Le parlamentari potevano poi prendere le decisioni che volevano, ma era corretto politicamente, prima di ripresentare la proposta di legge, dopo anni di silenzio e dopo una sconfitta (ricordate il progetto Bottari, l'emendamento Casini, ecc.), organizzare una consultazione tra le donne che non fosse una consultazione di sigle ma appunto degli incontri come questo. Non si può pensare che delle donne facciano le deputate stando a Roma al Parlamento e basta. Si sono presentate elettoralmente come rappresentanti delle donne e noi l'abbiamo contestato, ma se loro ci credono devono trovare dei canali, dei modi per comunicare con la complessità del movimento delle donne. In questa mancanza di ascolto vedo la responsabilità politica. A proposito della domanda di Luisa Muraro che diceva: «In fondo la parte che noi consideriamo più viva del movimento non si è mai interessata delle leggi, perché lo dobbiamo fare ora?». Credo perché alcune giuriste, avvocate come me, hanno iniziato una pratica sociale di donne nel diritto. Per tanti anni ho considerato che l'essere delle donne dentro e fuori dal diritto, cioè dentro perché alcune regole le coinvolgono, fuori perché una gran parte dei rapporti delle donne tra di loro e dei rapporti con gli uomini non sono regolati dal diritto, mi costringeva a fare l'avvocata in maniera neutra. A me era impedito di pensare il diritto da questa collocazione delle donne, che era anche la

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mia collocazione, perché anch'io ero nel diritto col nome del padre, ecc. Inoltre tutto il lavoro giuridico emancipazionistico non mi interessava perché tendeva a omologare le donne agli uomini. Quando, invece, la mia posizione politica ha coinciso con la passione giuridica? Quando ho sentito maturare la possibilità di iscrivere nel diritto il sesso femminile. Non genericamente, ma ho sentito maturare dei principi fondativi, perché le relazioni, gli scambi tra donne aumentavano. Luisa chiede: «È necessaria la mediazione? Cioè è necessario che l'iscrizione simbolica dell'esistenza del sesso femminile passi dal diritto?». lo, giurista, dico di sl. Posso essere naturalmente contraddetta da una donna, per esempio di tendenze anarchiche, che dice «no, questa mediazione a me sembra inessenziale». Farà altre mediazioni, oppure nessuna. C'è, a partire dal proprio desiderio, una pluralità di scelte politiche e una pluralità di mediazioni attraverso linguaggi diversi che possono essere quello del lavoro, quello del diritto e così via. Voglio dire che nell'elaborazione di un diritto sessuato io mi esprimo. Questa mediazione, questo linguaggio, con tutte le implicazioni che comportano, possono essere accettati dalle donne oppure no, però se mi assumò la responsabilità del progetto il conflitto non sarà distruttivo. Se quelle che si fanno eleggere in Parlamento e lì fanno leggi non pretendono di rappresentare tutte le donne (e che le leggi siano toccasana per tutte le donne), ci sarà sicuramente un conflitto, perché la mediazione istituzionale è ben diversa da quella, ad esempio, del processo, ma non sarà distruttivo. Nel momento in cui una parte consistente del movimento delle donne affronta la questione del diritto come misura di efficacia sociale di un progetto politico, e questo lo sta facendo Irigaray, lo stiamo facendo noi come gruppo di giuriste, lo stanno facendo il Centro Donna di Livorno, quello di Bologna, non è più possibile sostenere che l'unica mediazione tra il progetto delle donne e lo Stato sia la via parlamentare di fare leggi. Con pochi mezzi siamo sempre riuscite nel movimento delle donne a fare circolare sapere e pratiche, tanto che ora si è espressa immediatamente l'opposizione del movimento autonomo delle donne a questa legge. Nel '79 l'Mld e l'Udi, con un solo gruppo femminista, il Pompeo Magno di Roma, hanno lanciato questa legge. Già allora quasi tutti i gruppi femministi si erano dichiarati contrari. Non ho trovato un Centro donna favorevole a questa legge, né ho trovato delle singole donne che la sostenessero.

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Luisa Muraro e Grazia Zuffa sostengono che non si dà diritto senza sanzione. Sono d'accordo. Preferirei tuttavia dire che è indispensabile assumersi la responsabilità di fare giustizia. Oramai ci sono tante e tali implicazioni tra la pratica politica delle donne e la società, che delle verifiche e delle sanzioni ci saranno certo, ci saranno problemi enormi perché c'è un modo femminile di sfuggire al contratto o al patto tra donne, alla responsabilità del proprio progetto o desiderio. Ho sentito questo modo di agire in alcune parlamentari che hanno chiesto il voto delle donne perché avevano un loro desiderio personale di essere elette, oppure ritenevano che avesse un senso politico per le donne essere lì, e poi, di fronte alla sconfitta, hanno reagito dicendo che lì sono schiacciate dall'istituzione maschile. Allora è chiaro che giochi su due tavoli, perché da una parte ti senti talmente forte da chiedere alle donne un voto per essere eletta in Parlamento e dall'altra parte, quando sei sconfitta, dici: «Sono schiacciata dalle istituzioni». Questo è proprio un modo femminile di sfuggire alla responsabilità e lì bisogna scontare un'inadeguatezza che ancora esiste. Io ho chiaro che quando stabilisco un rapporto contrattuale con una donna, se c'è un abbandono la sanzione la do. Desidero che questo non sia solo un fatto personale, perché se si vuole sessuare il diritto non è pensabile che non ci sia alcuna misura. Nella politica e nei rapporti di scambio che noi stabiliamo con altre donne, rispetto ai progetti grandi o piccoli che siano, credo che un minimo di verifica ci sia già. Il punto in discussione è sempre la questione della miseria femminile. Abbiamo paura a nominare la sanzione, la necessità di essa, perché abbiamo ancora un'economia di miseria dove l'isolamento, l'attacco politico a una donna significa indebolire le donne. E da questa analisi che bisogna partire.

Rappresentare cosa

Molto tardi, forse troppo, a metà degli anni Ottanta, le dirigenti del maggiore partito politico di sinistra, che allora era il Partito comunista italiano (Pci), superando lo schema della parità e il linguaggio dello «specifico femminile», fecero un passo deciso verso il femminismo più radicale, quello della differenza. Si aprì uno scambio, in particolare con la Libreria delle donne di Milano e con L.C. Ma si aprì anche una contraddizione, l'indiscutibile valore di democrazia che il Pci dava alla politica della rappresentanza (elezioni, parlamento, leggi). Che senso ha la rappresentanza quando si tratta della differenza sessuale? È possibile rappresentare in Parlamento la differenza femminile? O non è indispensabile «esserla», senza pretendere di rappresentarla? Era la stessa questione che non fu mai posta nella sinistra parlamentare ma che si doveva porre per la differenza operaia. E che continua a porsi in generale, con urgenza crescente: che ne è del sistema della rappresentanza, quando si trova confrontato alla differenza? Larticolo di L.C. che qui si presenta non ricevette, purtroppo, risposte adeguate all'importanza della questione, e questo non per inconsapevolezza o superficialità, ma per un grave ostacolo che riguarda, storicamente, la mente femminile e che possiamo descrivere come una scissione fra due parti: da una parte la «donna muta», dall'altra la mediatrice delle altrui (maschili) mediazioni, non interrogate come tali.

Sul/,a rappresentanza politica femminile, «Sottosopra blu», Milano, giugno 1987

SULLA RAPPRESENTANZA POLITICA FEMMINILE

La separazione femminile Quando alla fine del convegno di Milano sulla pratica della differenza sessuale, del dicembre 1986, ho sentito dire da alcune che era ora di affrontare la questione della rappresentanza politica della differenza, ho avuto un attimo di vero sconforto. Mi domandai da dove uscisse quella vecchia parola e dietro alla parola una potente istituzione che cancella o ingabbia in un sol colpo la ricerca di parole di donne svincolate dalle regole e dalle aspettative della società maschile (del padre), la nostra ricerca di linguaggi originali (delle origini) . D'altra parte, nessuna nei due giorni di convegno aveva messo in dubbio il fatto (e come avrebbe potuto?) che le donne sono un sesso e non un gruppo sociale omogeneo - mentre la rappresentanza politica presuppone bisogni e interessi comuni. 1.:incontro di Milano, tra l'altro, era stato un tentativo di confronto tra donne che parlano da collocazioni differenti, dichiaratamente differenti, con progetti individuali e collettivi diversi e talvolta in contrasto. Un contesto, quindi, che non permetteva di ipotizzare una rappresentanza neppure delle donne che erano lì presenti. Non lo permetteva in alcun modo; per buona parte della discussione, infatti, alcune hanno chiesto insistentemente ad altre: da dove parli, dove'ti collochi, quali sono le mediazioni logiche e politiche che ti permettono di stare in un partito, in un parlamento, e qui tra noi? E le altre: siamo qui, però una parte di me è con le dimenticate da tutti e da tutte, con le braccianti pugliesi... E che senso ha oggi la vostra politica di separatezza? A mettere fuori luogo ogni discorso di rappresentanza c'era anche il pensiero, sicuramente condiviso da molte, che il senso della differenza sessuale esige che si ragioni con la forza della sua interna necessità e non con quella di una legittimazione ottenuta da istituzioni neutre o maschili.

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Chi aveva proposto il tema della rappresentanza ha poi spiegato che era da intendersi come «autorizzazione delle donne alle donne» e come capacità di «rendere presente» la potenza della differenza sessuale. Pensava inoltre che, siccome la democrazia classica non tollera la differenza sessuale come soggetto da rappresentare, il rappresentarla provocherebbe grande trambusto e sconcerto. A parte l'autorizzazione delle donne alle donne - che non ha veramente nulla a che fare con la rappresentanza politica - ho forti dubbi che l'essere donna, che è qualcosa di assolutamente qualitativo, sia rappresentabile nei modi (numerici, quantitativi) della democrazia classica. E, soprattutto, dubito che la presenza di molte donne in Parlamento sia un ingombro o provochi un qualche trambusto in quell'istituzione. Primo, perché, se affermi che è fondamentale essere in quell'istituzione per dare visibilità alla differenza, stai dicendo che dai molto valore a quel luogo, istituito da uomini di una classe sociale dopo che questa ebbe guadagnato un surplus di forza economica e di sapere. E mostri che non stai pensando che fra noi comincia ad affermarsi una fonte femminile di autorità sociale. Chi mi dice poi che le donne vogliano stare in tutte le istituzioni esistenti, parlamento, esercito, chiesa? Alcune sì, ma mentre quella che entra nell'esercito o nella chiesa vi entra chiaramente solo per se stessa, quella che entra nel parlamento, istituzione della rappresentanza, e per giunta vi entra con l'idea di una possibile rappresentanza femminile, copre la volontà di quelle che se ne tengono fuori. Quanto all'«ingombro», non dimentichiamo che dove c'è «funzione», uomini e donne sono uguali e la differenza sessuale passa per un arcaismo inutile. Locchio si abitua presto a vedere una donna al posto di un uomo quando lei assolve le funzioni previste da un ordine sociale pensato da uomini. La significazione della differenza sessuale non può andare senza trasgressione, senza sovversione dell'esistente. Non può essere ricalcata pari pari sull'ordine simbolico ricevuto ... s'intende, se c'è lotta per la libertà femminile e non semplicemente per l'uguaglianza con gli uomini. Penso, infine, che di per sé una maggiore presenza femminile in Parlamento non crea disturbo perché le rappresentanti debbono accettare molte potenti mediazioni: quella con il partito che le fa eleggere, quella di un'inevitabile adesione e legittimazione di quel potere maschile che lì si esprime, e tutte le mediazioni che domanda il fare

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leggi. Mediazioni e censure dei desideri femminili molto più drastiche dei famosi veli di cui l'immaginario maschile aveva,,,coperto il corpo femminile. In concreto, dunque, quello che le elette'•potranno far valere sarà, al massimo, un diritto di veto sulle leggi per le donne. Oppure agiranno come una piccola lobby, sul modello della democrazia americana. Sia chiaro, non penso e non parlo contro quelle donne che in Parlamento vanno apertamente, per un proprio desiderio, con una competenza e un'ambizione da far valere. La mia critica si rivolge all'idea di una possibile rappresentanza femminile e a quelle donne che la adottano nascondendo i propri desideri. Ricordo che quando facevo politica mista incontravo nelle riunioni gli operai, ero colpita dai loro corpi che significavano il lavoro e dalla precisione e concretezza con cui nei loro interventi descrivevano e analizzavano la realtà della fabbrica. Ero convinta che, come toglievano la parola a me e mi facevano sentire vacua con il loro sapere e la materialità dei loro apporti, così avrebbero costituito una formidabile obiezione (un ingombro!) ai mediatori del consenso nei luoghi istituzionali. Non è stato e non è così: il sistema della rappresentanza li ha privati dei loro corpi sapienti rendendoli, in quei luoghi, muti o mediatori essi stessi rispetto alla cosa che rappresentavano. Sono convinta che non possiamo fare a meno di mediazioni, penso anzi che le mediazioni diano forza alla presenza femminile, ma solo se sono fedeli, corrispondenti. Così, se vi sono donne che vogliono entrare in Parlamento, come tante sono entrate nelle professioni e nel mercato del lavoro, che mettano in chiaro il desiderio che le muove, i loro progetti politici, che dicano anche su quale universalità intendono scommettere e quanto, come pensano di difendere la loro parzialità femminile. Questo io intendo per una possibile mediazione fedele di sé rispetto all'istituzione e alle donne. In questa maniera esse si legano alle altre donne, a me, non attraverso l'istituto della rappresentanza ma attraverso l'affermazione di un desiderio femminile. In questa maniera, anche, si salta la politica impotente dei due tempi (di riformistica memoria), prima il tempo per acquisire la dignità di persona, poi il tempo (che non arriverà mai ... ) per iscrivere la propria indecente differenza. Ci siamo lasciate al convegno di Milano con l'intenzione di continuare a discutere. Eravamo consapevoli che la questione della rappresentanza della differenza sessuale, posta al convegno per un'esigenza

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di compiutezza teorica, poteva diventare in pratica una tentazione per alcune di noi di porsi quali mediatrici tra il movimento delle donne e la politica istituzionale. Noi stesse, d'altra parte, abbiamo bisogno di ragionare più a fondo su come nella vita sociale voglia di vincere ed estraneità s'intreccino fra loro e su come porci rispetto al gioco che in noi si crea fra queste due parti di noi. Rimane ancora tutta da fare l'analisi delle sovrapposizioni che si creano fra la lingua che la madre comunica (degli affetti) e l'altra lingua, quella sociale trasmessa dal padre. E riuscire a comunicare con semplicità che cosa intendiamo dire con il silenzio del corpo, dal momento che di fatto le donne parlano e apparentemente senza differenza dal linguaggio maschile. E riuscire ad agire nel mondo quel tanto di sapere, cambiamento e voglia di vincere che i gruppi di donne hanno prodotto, senza che il nostro agire appaia come un riflesso femminile dell'agire maschile. I fatti però sono andati più in fretta di quello che avevamo previsto. La crisi di governo e le elezioni anticipate hanno posto la questione della rappresentanza politica come concetto utile per ottenere, soprattutto da parte delle donne comuniste, più donne candidate nelle liste dei partiti e molte effettivamente elette. Ho letto con attenzione gli interventi delle donne al Comitato centrale comunista sulle elezioni, perché avevo preso sul serio l'indicazione contenuta nella Carta itinerante, dove si dice che le comuniste, a partire dalla loro differenza sessuale come dal loro desiderio di fare politica con gli uomini, si ripromettono di creare ingombro nella politica. Ma gli interventi non facevano che insistere sulla necessità di riequilibrare la presenza di donne e uomini in Parlamento, con l'argomento che le donne devono essere degnamente rappresentate e che la presenza femminile è essenziale al buon funzionamento del Parlamento e della democrazia. Quale ingombro sarebbe questo mai? Sembra di capire che le comuniste e altre intervenute al dibattito tenutosi recentemente al Centro per la riforma dello stato, oppure sui giornali sempre su questo tema, ritengano che una maggiore presenza femminile in Parlamento modificherà di per sé le regole del gioco. Le donne, esse dicono, vi entrerebbero come portatrici di una cultura meno distruttiva (per via della maternità), non vi porterebbero l'idea della politica come strumento di potere e sarebbero dotate di un più vivo senso etico.

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Così, magicamente, vediamo dei pregiudizi favorevoli rimpiazzare i vecchi pregiudizi sfavorevoli. Si tace sul fatto che le donne che vanno ad occupare posti di potere finora non hanno potuto impedire che le regole del gioco siano quelle volute da uomini. Si tace sul fatto che la forza di significare la differenza femminile nasce da un progetto pensato e costruito tra donne mettendo in gioco le pretese e le ambizioni ma anche l'estraneità femminile, e tenendosi fuori dalle misure morali. Si sorvola sulla contraddizione estrema, per adesso ancora un'impossibilità, di rendere parlante la differenza femminile e fare insieme ricorso agli strumenti simbolici della politica maschile, come elezioni, partiti, parlamenti. Si censura il fatto che i gruppi che hanno iniziato a elaborare il senso della differenza femminile, sono, come noto, gruppi formati da sole donne. Gruppi separati, come si dice. La separazione - non il separatismo, che è ideologico - è anche una categoria del pensiero che ha incarnazione sociale e che crea processi autonomi e asimmetrici, per cui, ad esempio, tu sai che le donne non devono andare ovunque qualcuno le chiami, né rispondere ogni volta che sono interpellate. Quelle che lo vogliono, lo dicano e lo facciano. In prima persona, per se stesse, senza il rivestimento di dire e fare per quelle altre che tacciono.

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«Che cosa vuole dire la libertà femminile?» s'intitolava il programma 1989 del Centro Culturale Virginia Woolf-B di Roma. Linterrogativo fu rivolto a donne, singole o gruppi, che erano testimoni e protagoniste del mutamento della società italiana, nella scuola, nelle università, nei palazzi di giustizia, nei sindacati: la libertà, dunque, intesa come «vita activa» (H. Arendt). Fu invitata anche L.C., insieme a Maria Grazia Campari, avvocata del lavoro, sua collega nel Palazzo di giustizia di Milano e ideatrice della pratica del processo. Il secondo dei testi riproduce l'intervento di Lia. Il primo fu scritto con la Campari, per un numero speciale della rivista «Sottosopra», intitolato Un filo di felicità e noto come il «Sottosopra oro». Della scrittura sua personale e altrui, è opportuno segnalare che L.C. la considera decisamente secondaria rispetto all'agire politico, da lei riguardato come una forma superiore, più vera?, di scrittura. Maria Grazia Campari e Lia Cigarini, Fonte e principi di un nuovo diritto, «Sottosopra oro», Milano, gennaio 1989 La pratica del processo, incontro con Maria Grazia Campari e Lia Cigarini, Roma 18-19 marzo 1989, Edizioni del Centro Culturale Virginia Woolf-B, Roma 1989 (qui solo l'intervento di L.C.)

FONTE E PRINCIPI DI UN NUOVO DIRITTO

I.:essere delle donne dentro e fuori dal diritto - oggetto di norme ma nominate con il nome del padre e del marito - ha disorientato per anni la nostra passione giuridica. Il lavoro legislativo emancipazionista (tante leggi di parità con gli uomini, contraddette peraltro da tante leggi di tutela della specificità femminile) non ci impegnava intellettualmente poiché tutto l'apparato teorico era già definito dal pensiero progressista maschile. Non ci restava quindi che difendere bene, come avvocate, le donne che volevano separarsi dal marito e le pochissime lavoratrici che utilizzavano le leggi di parità. Il gran numero di cause matrimoniali nelle quali si verifica un enorme scarto fra le responsabilità sociali che le donne si assumono verso i figli, da una parte, e le loro esitanti e modeste domande al giudice, dall'altra, e il pochissimo uso che esse fanno delle leggi di parità, tutto questo ci ha spinte ad interrogarci sul conflitto fra i sessi nel diritto. È evidente, infatti, che le donne vivono e si muovono in una società regolata dal diritto e non in una realtà in cui esse starebbero da una parte e la società dall'altra, così come è evidente che sono le relazioni sociali tra uomini e donne, con la forza e la parola normativa dei primi rispetto alle seconde, che rendono le donne impotenti ad agire. In altre parole, la relazione uomo-donna è già iscritta nel diritto e vi è iscritta in maniera che schiaccia la donna. I.:interrogarci è stato produttivo poiché è partito dallà nostra stessa estraneità e ostilità a ogni intervento legislativo in favore delle donne, così come a un impegno teorico nel quadro giuridico dato. Siamo arrivate alla conclusione che il problema per tutte, alla radice, è il medesimo: siamo inserite a pezzi nell'ordinamento giuridico. E possiamo essere tutelate dalla legge e usarla solo per quella parte che vede i nostri interessi coincidenti con quelli degli uomini. Dove, invece, si apre un conflitto fra uomo e donna, ad esempio nella famiglia o nel lavoro, percepiamo immediatamente che di tutela si trattava e

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per di più inadeguata, nonostante i vari aggiustamenti. La ragione è semplice: l'ordinamento giuridico esistente non prevede il conflitto fra i sessi e, quindi, non lo regola. Per questo, come giuriste, siamo impedite all'innovazione teorica se non osiamo affrontare i principi fondamentali del diritto esistente. La legislazione emancipazionista, che non li mette in discussione, deve nascondere il fatto della grande incertezza femminile ad avvalersi della legislazione anche quando questa andrebbe a nostro vantaggio, Ci siamo interrogate, dunque, sulla nostra impotenza e abbiamo cercato di lottare contro la legislazione emancipazionista non tanto per gli obiettivi che proponeva, sostanzialmente ragionevoli, ma perché colmava i vuoti dell'ordinamento riguardo alle donne, togliendo smalto e significato a quel non esserci per intero che per noi era la cosa più viva, e p~rché estendeva la regola data del diritto senza porre la necessità di un diritto originale delle donne.

Attualità del diritto femminile Il gruppo delle giuriste di Milano, di cui facciamo parte, ha scelto il processo come luogo più concreto e rigoroso per capire che cosa vogliamo dalla legge e per disvelare l' apparentemente paradossale posizione femminile che avverte la conquista dei diritti di cittadinanza e parità come negazione della propria differenza sessuale e, quindi, non considera questi diritti come agibili in concreto. La nostra intelligenza teorica si è svegliata solo quando abbiamo individuato la fonte del diritto femminile: i rapporti di scambio fra donne (per noi, nei processi, la relazione fra avvocata e cliente, e quella fra avvocate che si associano nella causa, e quella fra una giudice e una avvocata, ecc.), il sapere e il desiderio che li sostiene e la misura della modificazione che la lotta delle donne ha operato nei rapporti di forza fra i due sessi. Rapporti e relazioni nei quali si vanno precisando gli interessi femminili, la forza e il sapere che abbiamo guadagnato, i conflitti fra le donne e delle donne con gli uomini che la consapevolezza produce, e la necessità delle mediazioni. Da qui prendono esistenza le norme di un ordinamento sessuato di origine femminile, che riflettono i valori costitutivi dei rapporti che le donne allacciano fra loro. A partire da queste norme sarà possibile iscrivere nel diritto i principi della mediazione fra i differenti valori dei due sessi, prin-

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cip i che oggi mancano nell'orizzonte monosessuato maschile. A noi sembra che tre siano le acquisizioni da cui dovrebbe procedere la riflessione femminile sul diritto: il disvelamento operato dalla presa di coscienza o femminista del dominio di sesso in tutti i linguaggi, compreso quello giuridico; la vacuità della moltiplicazione di leggi e diritti che non hanno concreto inveramento (Luisa Muraro); il principio dell'inviolabilità del corpo femminile. Affermare questo principio significa non solo che lo stupro è un reato - lo riconosce tale già la vigente legge penale - ma che le donne non vanno riportate alla misura maschile (stupro simbolico). I..:iscrizione nel diritto dell'inviolabilità, a nostro parere, non è questione di legge penale bensì di costituzione dell' ordinameato giuridico. Alcune, soprattutto le politiche di professione, spesso ci chiedono che cosa intendiamo con «differenza sessuale». Bene, per noi la differenza si sostanzia nella libertà femminile e nell'inviolabilità del corpo delle donne. I..:iscrizione di tali principi è diventata attuale, poi,ché molte donne si rappresentano inviolabili: hanno acquistato autonòmia di giudizio, forza, sapere e una socialità altra rispetto a quella ritagliata per loro dal patriarcato. Inviolabili, quindi, anche nel caso di un'eventuale violenza carnale, poiché inizia a farsi strada una giustizia femminile. I sessi sono due e questa dualità si dà esistenza con l'iscrizione simbolica della differenza femminile. I sessi restano due anche dopo l' avvento del diritto femminile, che produrrà, come è tipico del diritto, regole e mediazioni universali, cioè che valgono per donne e uomini. Infatti, quello femminile è un diritto sessuato che nasce dalla constatazione che i sessi sono due: la sua universalità è una forma storicamente e logicamente nuova, che domanda riflessione anche filosofica. A questo proposito forse serve osservare che la donna può diventare madre di una figlia come di un figlio e che, privilegiando la genealogia femminile in quanto le dà forza e nome, non mancherà di avere cura dell'esistenza del figlio e del suo rapporto con lui. Per concludere, diciamo che il diritto femminile si pone come tertium nel conflitto fra i sessi. Esso assolve questa funzione per la ragione appena detta, che nasce dalla constatazione che i sessi sono due e si sviluppa mantenendola.

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La madre fonte del diritto sessuato Le norme del diritto che ci sono state presentate come universali sono, in realtà, un insieme di regole che strutturano una società ove le donne non sono contemplate come soggetti. Tali norme lasciano le donne prive di diritti soggettivi (Luce Irigaray). Il diritto che conosciamo, perciò, è segnato dall'impossibilità intrinseca di essere veramente valido per tutti i soggetti. La pretesa che esso sia universale è una finzione che ha potuto reggersi solo grazie alla mancanza (o all' estrema debolezza) dei rapporti sociali fra donne. Concretamente, ci siamo chieste come possiamo iniziare a operare. Abbiamo allora preso in considerazione il diritto scritto che conosciamo, il diritto del genere maschile, e abbiamo facilmente constatato che esso non costituisce un tutto monolitico. La norma giuridica scritta nella Costituzione, nei codici, nelle leggi, se ci si spinge oltre l'apparenza è, in realtà, frammentata: si enuncia come regola generale astratta, mentre rappresenta la soluzione mediatrice di un conflitto d'interessi contrastanti che si esprimono nell'orizzonte monosessuato maschile. A seconda dei mutevoli rapporti di forza fra gli interessi mediati, la medesima regola della mediazione (norma giuridica) si modifica al punto da esprimere contenuti diversi, talora perfino contrapposti. La nostra pratica ci ha insegnato che questo fenomeno si verifica non solo negli ordinamenti di tipo anglosassone (Common Law), ai quali è connaturata la formazione processuale della regola, ma anche, nonostante l'apparenza di una codificazione normativa rigida, negli ordinamenti giuridici di tipo latino. Anche in questi la regola del diritto scritto è suscettibile di interpretazioni tanto difformi - in relazione ai casi della vita sottoposti a giudizio, quindi in relazione agli interessi mediati - da modificare, fino a capovolgerli, i contenuti della mediazione. Se nel processo si modifica la regola giuridica che media gli interessi in conflitto, si può, come abbiamo già sottolineato, usare il processo come strumento di produzione di nuove regole di diritto. Inoltre, ed è la cosa politicamente in questione, noi pensiamo che questa pratica sociale sia la modalità più valida per produrre diritto femminile. È il processo, infatti, un momento istituzionale in cui le donne (avvocate, utenti, magistrate) sono soggetti della mediazione che si compie. Se esse si collegano in una relazione privilegiata, finalizzata a un progetto che ha una misura sociale e palesa i valori che esse vogliono affermati

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come loro propri nella società che le include, questi valori si contrappongono come un polo altro rispetto a quelli che hanno corso nel contesto sociale maschile. Il processo registra il conflitto e il livello dello scontro, svela nell'ur-genza della contrapposizione l'inesistenza di regole di mediazione tra i valori differenti di cui i due sessi sono portatori e, nel suo compiersi, esprime la mediazione possibile tra gli interessi sessuati confliggenti. Vengono così a esistenza regole di fonte femminile, l'ordine monosessuato maschile è scalfito e comincia a crearsi un ordine dei due sessi. Nel processo si vede in concreto come la libertà maschile limiti quella femminile, e viceversa. Naturalmente bisogna sapere che cosa è in gioco, poiché il prius da cui partire, per noi la libertà femminile, è fondamentale per la lettura del diritto. Come giuriste abbiamo individuato alcune regole che ci paiono fondamentali e che qui offriamo alla discussione per arrivare a costituire alcuni principi fondanti del diritto femminile. Il valore fondamentale è costituito dalla fedeltà alla propria identità sessuale, dall'affermazione di un'identità umana femminile, resa possibile dalla valorizzazione della genealogia femminile (L. Irigaray). I diritti soggettivi delle donne, quindi, possono venire all'esistenza solo se sono strettamente correlati ai loro componenti sessuati, solo se danno riconoscimento e valore alla differenza sessuale. I principi cardine del diritto di origine femminile possono ipotizzarsi o conflittuali o convergenti o autonomi con i principi del diritto maschile. La libertà, l'inviolabilità del corpo e la forma dei diritti politici sono esempi di principi concettualmente autonomi. Esempio di diritto convergente può essere la normativa per la repressione della violenza sessuale. Il diritto maschile interviene con una normativa repressiva del reato a tutela dell'ordinato svolgimento dei rapporti fra cittadini. Il diritto femminile, autonomamente (ma in modo almeno parzialmente convergente quanto agli esiti nel consorzio sociale) garantisce l'inviolabilità del corpo delle donne attraverso la valorizzazione della genealogia femminile, la responsabilità della donna madre verso il proprio sesso, quindi verso il sesso della donna stuprata, la sottrazione di solidarietà al figlio stupratore come espressione di autorità materna esercitata nel nome del proprio sesso. Esempio di normativa conflittuale dei due generi è nel diritto della coppia e della famiglia. Il diritto femminile in questo caso è conflittuale con quello maschile in quanto la libertà'. di un genere li-

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mita quella dell'altro. Lordinamento giuridico attuale non contempla il diritto della coppia, come per prima ha fatto vedere Luce Irigaray. Nella famiglia vige formalmente l'indifferenziato, per cui ogni membro adulto è responsabile della famiglia, mentre in realtà agisce la forte disparità fra il potere del padre e quello della madre. Anche nei doveri-diritti di fratelli e sorelle si notano spesso gravi disparità. Manca, in generale, una mediazione fra i due sessi, quindi una regola, un diritto differenziato, misurato sul valore e sui bisogni rispettivi dei due generi. Qui, il principio fondante della libertà femminile può calarsi, ad esempio, nel diritto della donna a decidere quanto al proprio corpo fecondo decidendo il numero delle maternità, quanto alla iscrizione dei figli come suoi propri discendenti nei registri dello stato civile e quanto ai diritti-doveri reciproci fra madre e figli (cfr. L. Irigaray nel «Diritto delle donne» n. 1, Bologna 1988).

Principi fondanti del diritto femminile Siamo dunque già in grado di nominare alcuni principi cardine di un ordinamento giuridico sessuato. Essi sono: - la libertà femminile - l'inviolabilità del corpo femminile - nuove forme politiche capaci di registrare l'efficacia del desiderio e la progettualità dei, delle singole, efficacia e progettualità che non trovano finalizzazione al bene comune in una società come la nostra, formalmente governata secondo il principio maggioritario e il sistema della rappresentanza. I principi cardine dell'ordine sessuato sono destinati a cambiare profondamente la Costituzione italiana (Adriana Cavarero). Quando la Costituzione è stata stesa e approvata, le donne erano mute quanto alla libertà femminile (forse identificandola con quella maschile) e all'inviolabilità del corpo. Si può quindi affermare che il patto costituzionale non è stato sottoscritto dalle donne. Vero è che queste hanno successivamente compiuto degli atti, come partecipare alle elezioni e accedere ai pubblici uffici, che possono apparire come una forma di adesione. Questa però era condizionata, nel senso che si esprimeva nelle forme e negli ambiti determinati dal diritto e dalla politica maschile, come se esse dicessero: accettiamo di esprimerci con le parole che ci avete dato, ma solo nei limiti delle parole che ci avete dato.

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Tant'è vero che hanno (abbiamo) decisamente rifiutato la rappresentanza di sesso non votando di preferenza per le donne. In questo modo si rifiuta lo strumento principale offerto dalla democrazia borghese per difendere i propri diritti. Tale rifiuto risponde a una ragione profonda e cioè che la differenza sessuale è un fatto qualitativo, non riducibile ai numeri, come le quote di rappresentanti in Parlamento e in altri organismi, enti o istituzioni. Le femministe non si sono contate per fare le loro scelte, per prendere decisioni, per conquistare nuovi ambiti di esistenza sociale. Si sono mosse e si sono regolate secondo il proprio desiderio e progetto spesso individuale o quasi, ascoltando in questo desiderio quella che il più delle volte si è rivelata una ragione profonda, condivisa da molte ma ancora inascoltata. Così esse hanno evitato di sottostare allo schiacciamento della maggioranza, seguendo piuttosto l'andamento dei rapporti d'amore, d'amicizia e familiari, dove non si vota e dove le cose vanno bene se vince la libertà. Non sappiamo assolutamente né vogliamo suggerire la forma che potrà avere la costituente delle donne perché abbiamo orrore della fissazione delle forme politiche. Abbiamo perfino esitato a usare la parola «costituente» nel timore che le politiche di professione se ne impadroniscano come slogan senza una pratica adeguata. Siamo però in grado di affermare che la Costituzione italiana è messa in questione e che dovrà aprirsi ai principi fondamentali del diritto femminile. Il pensiero politico e giuridico maschile si è incagliato sul rapporto uguaglianza-differenze, sul funzionamento della democrazia numerica, sull'estensione dei diritti senza la capacità di pensare gli strumenti e gli istituti per attuarla, cosicché le proclamazioni del diritto non hanno alcun inveramento. La discussiol).e, quindi, è più che aperta e l'elaborazione giuridica delle donne sarà preziosa per gli uomini come per le donne.

LA PRATICA DEL PROCESSO

Penso che una volta posta la questione della libertà femminile non resta, per la politica delle donne, che partire da lì e da questa trarre le proprie scelte. Quando noi abbiamo elaborato il progetto di sessuare il diritto, e questo è partito dopo il «Sottosopra verde» - Più donne che uomini, eravamo costrette tra estraneità al diritto e il nostro essere avvocate. Ci collocavamo quindi fuori dal diritto ed era come se volessimo iniziare una lunga marcia attraverso il diritto per rendere visibile, alla fine, la sessualità femminile. In questi anni c'è stato, invece, un passaggio dal progetto di sessuare il diritto a quello di essere libere di produrre diritto. Io vorrei analizzare il processo che ha coinvolto in questi anni noi giuriste, e altre donne che fanno pratica sociale a partire dall'affermazione della differenza sessuale, perché ritengo che in un momento di ricerca e confronto come quello di oggi sia più interessante vedere come si produce sapere sessuato che elencare concetti e idee. Com'è noto il progetto originario, che era già enunciato nel «Sottosopra verde», del 1983, era quello di rendere visibile la sessualità femminile nei luoghi dove ci aveva portato ad operare o il nostro desiderio o la nostra ambizione o, casualmente, la necessità della sopravvivenza attraverso l'affidamento, cioè attraverso un significativo rapporto con una donna a cui noi riconoscevamo sapere e la capacità di rafforzare il nostro desiderio. Nel caso specifico delle giuriste il progetto era quello di rendere visibile nei luoghi dove si fa giustizia, si pretende di fare giustizia, la sessualità femminile. In modo particolare smascherare la pretesa del diritto dato di essere l'unica mediazione possibile fra uomini e donne, mentre noi sapevamo, in virtù della nostra estraneità, che il diritto si è costituito per regolare i rapporti di scambio tra uomini e sapevamo anche che questa pretesa universalità del diritto è la pretesa di universalità del soggetto maschile.

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Come è noto la presa di coscienza femminista ha interrotto il processo di adeguamento delle donne a un diritto non loro, e permesso le scelte che poi successivamente abbiamo fatto, che sono essenzialmente due: la fiducia nel sapere femminile, nel valore del sesso femminile che è un darsi valore, naturalmente, e la lealtà verso il proprio sesso attraverso la difesa degli interessi delle donne, là dove c'è un conflitto tra uomini e donne. Abbiamo scritto, Maria Grazia Campati e io, nel testo di «Sottosopra», che la nostra passione giuridica era paralizzata dalla contraddizione tra l'essere avvocate, e volere fare la professione bene, e l' estraneità agli strumenti giuridici dati. Risultato, ansia e inadeguatezza, causate anche dalla pochezza teorica e dalla quasi nulla incisività delle leggi emancipazioniste. La consapevolezza dello scacco ha prodotto la volontà di modificare la situazione là dove eravamo più costrette. La conseguente scelta, dunque, è stata quella di affidarci ad altre avvocate nei processi dove c'è un conflitto diretto e concreto tra una donna e un uomo come nelle cause matrimoniali. E dove possono essere in gioco precisi desideri femminili: il desiderio di una donna che vuole difendere i propri interessi rispetto a quelli di un uomo; il suo desiderio di essere difesa da un'altra donna, avvocata, che ritiene, perché donna, più competente di un uomo; l'avvocata che, accettando di difendere solo le donne, manifesta lealtà verso il proprio sesso (contro un'idea della professione maschile) e, anch'essa, fiducia nel sapere femminile associandosi a un'altra avvocata che ritiene più preparata, allo scopo di rendere più efficace il proprio desiderio. Linizio del lavoro concreto, la pratica di affidamento tra avvocate, il costituirsi di gruppi di ricerca giuridica tra donne, hanno immediatamente modificato le cose perché, a mio parere, all'immagine e ai concetti pure giusti di estraneità e di neutralità si è sostituito l'agire. E ho visto l'assurdità di perdere energie e di faticare per analizzare la • neutralità della norma con lo scopo di sessuarla. Rischiavamo la paralisi. Abbiamo scoperto che rispetto al momento in cui avevamo analizzato la nostra estraneità e neutralità, le relazioni privilegiate hanno costituito già una realtà diversa. Questo perché, secondo me, si può affermare la libertà femminile nel momento in cui si trova il modo di agirla, e per noi è l'affidamento tra donne. Quindi siamo una realtà esistente quanto la realtà maschile, non siamo più un progetto di esistenza. E non siamo, soprattutto - per quello che ci riguarda - un progetto che inizia faticosamente una marcia per sessuate il diritto.

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Uno degli elementi che ci ha fatto capire che la nostra collocazione è cambiata, nel senso che possiamo agire a partire dalla libertà femminile, è il fatto che molte donne estranee al progetto ma contigue a noi perché avvocate o giudici, fanno chiaro riferimento a noi come donne che hanno una competenza e un sapere utile e valorizzante del sesso femminile. Queste donne non solo hanno modificato il comportamento avvicinandosi a noi, rafforzando quindi la contiguità fisica, ma hanno anche, credo, operato dei cambiamenti linguistici: il riferimento significante è ora l'autonomia delle donne nel diritto e non tanto la difesa degli interessi delle donne perché soggetti deboli. I cambiamenti linguistici sono determinati dall'aver assunto esse stesse, pur ignare del progetto, la relazione tra donne come riferimento significativo e questo ha prodotto quella che nel testo del «Sottosopra oro» - Un filo di felicità del 1989 abbiamo chiamato la lingua comune delle donne, la lingua-ragione. Lingua comune: avere dei significati uguali. Lingua-ragione: registrare che le donne si sono fatte mondo, sono una realtà produttiva di realtà. Faccio un esempio: ci sono delle donne che difendono sia gli uomini sia le donne nelle cause matrimoniali, però quando parlano nel gruppo di ricerca, gli esempi che loro portano, i ragionamenti g'iuridici che fanno, le realtà, le ipotesi di ricerca, si riferiscono solo a casi in cui loro hanno difeso delle donne, come se l'unica cosa significativa e stimolante della loro esperienza professionale fosse la relazione tra donne. La relazione tra donne è diventata dunque un significante linguistico che permette la traducibilità di cose che prima erano assolutamente distanti, cioè tra la voglia di emancipazione, tra il desiderio di essere un grande avvocato - qui uso il maschile - di una donna e la mia volontà, invece, di autonomia e di sessuazione del diritto. Prima era impossibile trovare una lingua comune, prima era impossibile trovare una comunicazione, adesso io credo sia possibile la traducibilità di queste esperienze diverse. La relazione tra donne come significante permette di descrivere il mondo, cosa che, nel progetto di sessuare il diritto, era ancora inesistente. Permettendoti di descrivere il mondo, ti mette in una situazione in cui tu non interloquisci più col diritto, non gli chiedi di rendere visibile il tuo sesso, né pensi che debba venirti incontro per risolverti dei problemi, pensi invece che la questione essenziale sia quella di produrre diritto.

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Ecco, dalla realtà che ho cercato di spiegarvi, e mi scuso per la difficoltà dell'esposizione, ho tratto la conclusione che il progetto è importante, ma che è essenziale la lettura contestuale dell'agire. Ho fatto alcuni esempi prima, di lettura contestuale dell'agire. Adesso provo a entrare più direttamente nella domanda posta: cosa vuole dire libertà femminile. Io penso che la libertà consista concretamente nel poter fare di una condizione umana imposta, come quella femminile, un'occasione di esistenza più grande. In questo, secondo me, sta la forza della politica delle donne, non certo nel fatto, che viene pure molto amplificato, che le donne sarebbero portatrici di valori salvifici per l'umanità e per la nostra società. Quando dico che per me la libertà consiste nel poter fare di una condizione umana imposta una cosa più grande, dico che è necessario fare leva sulla necessità, sulla costrizione per ampliare gli spazi di libertà femminile. Fare leva su quello che ci appare come un negativo delle donne: la paura, ad esempio, oppure la voglia di far carriera per alcune, la passività, ecc. Se si pensa che il negativo, che agisce in noi e tra di noi, deriva tutto dagli uomini, non è mai di origine femminile, in realtà non partiamo mai da noi, ci collochiamo per l'essenziale tutte fuori dai nostri legami con le altre donne. Togliamo, quindi, materialità e senso al nostro agire e pensare. Il punto di riferimento restano gli uomini: sia che ci si adegui alle loro regole sia che ci si differenzi. Il negativo della condizione femminile, infatti, di solito, giustifica il fare politica a partire dalla non libertà: la lotta contro la discriminazione. Penso, al contrario, che proprio la contraddizione, lo stato di necessità, sia la leva per ampliare gli spazi di libertà, che cioè la libertà sia questo, il trasformare una condizione imposta in una situazione di spazi più ampi. Fino ad ora le donne hanno pensato che essere nate donne era un ostacolo, un disvalore. Quando si è affermato il valore della differenza evidentemente questa condizione è divenuta un elemento di arricchimento, di modificazione dell'esistente. Ad esempio, la paura che le donne hanno delle situazioni conflittuali può essere una leva per una critica più puntuale dell'esistente. Voglio dire, se una donna ha paura, la riflessione sulla paura, e quindi la tranquillità che questa le può dare, le può far scoprire che ci possono essere delle donne che liberamente stanno fuori dalla competizione: liberamente, non più per paura o imposizione. Anzi penso· che la libertà delle donne si misuri anche dalla libertà di scegliere qualsiasi destino, anche quello di fare solo la madre, e che questo fatto non sia

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da considerarsi un ostacolo alla mia libertà, anche se ho fatto una scelta diversa. Un altro spunto, e parlo solo di spunti, è che dalla nostra pratica, che privilegia la relazione tra donne per agire socialmente, deriva una concezione non libertaria della libertà. Questo sarà spiegato meglio dalle filosofe di Diotima, Luisa Muraro e Chiara Zamboni, che hanno riflettuto su questa cosa. Comunque voglio sottolineare che una concezione libertaria della libertà tende ad aumentare i diritti della singola - o del singolo-, ma qui a me interessa la singola, i mezzi posseduti dalla singola, che è il soggetto. Mentre una concezione relazionale della libertà, cioè una mia storia umana che si fa insieme ad altre, non mira ad aumentare i miei singoli diritti ma è un processo, una storia che io faccio insieme ad altre. Alcune dicono: siamo ancora molto indietro, la libertà femminile è una piccola cosa che voi enfatizzate eccessivamente per trarre delle conseguenze politiche. Io rispondo di no, anche se mi rendo conto che la lingua comune è un germe, che le pratiche sociali della differenza sono faticose, appunto per troppo legame al progetto rispetto all'analisi della realtà, perché la libertà esiste nel momento in cui si è trovato il modo di realizzarla, cioè attraverso la relazione, la mediazione femminile. Naturalmente per significare questa cosa ancora piccola della libertà femminile, per poterla far esprimere, ma soprattutto per significarla nel diritto, noi abbiamo bisogno di aprire il maggior numero di spazi, di fare il più possibile vuoti nel sistema normativo e di ridurre le mediazioni date, come ad esempio la rappresentanza politica. Abbiamo quindi sostenuto e sosteniamo la depenalizzazione dell'aborto e non la sua legalizzazione. Le vicende attuali mi convincono che era una posizione esatta, da riproporre adesso. Per questa stessa ragione noi siamo state sempre per la querela di parte, sempre e non solo nel caso di violenza sessuale, poiché è uno strumento più flessibile e tra gli strumenti dati è quello più confacente alla pratica delle donne di partire da sé. Abbiamo parlato di alcuni principi cardine del diritto individuati dal movimento delle donne: l'inviolabilità del corpo e la libertà femminile, il diritto femminile che conosce e registra il conflitto tra i sessi come l'unico diritto esistente del conflitto di sesso, la genealogia femminile come fonte del diritto. Senza l'iscrizione di questi principi non vi è stato di diritto per le donne. Naturalmente, parlando di costituente delle donne, ci si trova immediatamente di fronte alla questione delle forme politiche e della rappresentanza. Qui si pone il problema, perché

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almeno una parte del movimento delle donne, facendo riferimento alla propria pratica politica, ha detto che non accetta il principio di rappresentanza. Quindi non può essere questo Parlamento a modificare la Costituzione italiana nel senso dell'iscrizione dei suddetti principi su proposta di qualche parlamentare, anche se donna. Infatti attraverso il meccanismo elettorale e il voto di preferenza alle donne, in realtà non si sceglie mai se l'ordinamento debba essere sessuato o no, perché entrano in gioco altre opzioni: voto per prima cosa la Democrazia Cristiana o il Partito Comunista e all'interno di questa scelta do la preferenza alle donne. C'è quindi una pluralità di scelte, di opzioni, e non c'è mai la scelta: ordinamento sessuato o no? Quindi, penso a una costituente delle donne. Però è evidente che è necessaria una lunga e ampia discussione tra le donne sui modi. Abbiamo, comunque, molti elementi: nei gruppi di donne, almeno è la mia esperienza, in questi venti anni non si è mai votato. La Libreria esiste da quattordici anni e le scelte non sono mai state decise con il voto. Non si è usato il principio di maggioranza e minoranza. La forma politica che le donne si sono date è quella di una democrazia del desiderio. Ciò significa che le donne si dividono e confrontano i loro progetti in base, appunto, al desiderio: non sono d'accordo con questa pratica politica, me ne vado e faccio un'altra cosa. Ritengo che il lavoro di ricerca e di riflessione debba essere fatto, in un primo momento, per via negativa; dire esattamente quello che si pensa sul principio di rappresentanza. E poi credere alla forza e alla serietà della propria forma politica. Voglio dire che, se ritengo che la pratica dell'affidamento è la forma politica che mi dà maggiore forza e maggiore contrattualità e che rende visibile una fonte femminile di sapere, di diritto e che riduce le mediazioni politiche, devo dire che questa forma politica è la forma più consona per arrivare a una costituente delle donne, a una scelta di ordinamento sessuato. Se credo che il gruppo di donne sia la forma più consona ai miei desideri e mi dia più forza, ecc., a partire da quell'acquisizione devo trarre tutte le conseguenze politiche in ordine alla scelta ordinamento sessuato sì o no. Abbiamo dunque delle pratiche politiche che consideriamo produttive: di gruppo, di affidamento, di relazione. Naturalmente si vede che c'è uno iato tra queste pratiche e la costituente. Tuttavia quello che lo rende più grande è la nostra stessa incredulità a credere che queste forme politiche siano tali da poter agire a livello di ordinamento giuridico.

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Forse questa discussione sarà molto conflittuale e molto aspra, però, va bene; un nostro amico giurista ci diceva che, in fondo, le fasi costituenti si distinguono per l'asperità del conflitto, per la rissosità, ecc. Naturalmente, qui si deve scontare la tendenza del movimento delle donne a non assumere il conflitto. Chi si espone a sostenere che le donne sono divise, che le donne sono in conflitto, che ci sono politiche diverse, che bisogna giudicare queste politiche, si espone al risentimento, all'attacco sconsiderato. Alcune, nella recente discussione della legge sulla violenza sessuale, hanno detto, ad esempio, che le sostenitrici della querela di parte erano delle poche privilegiate. Appunto questo non è un modo di discutere, bensì di tentare di distruggere l'avversaria e di non produrre nulla. Quando si discute di diritto, di norme, di fare giustizia, di principi cardine del diritto delle donne, di forme politiche, si aprono conflitti inevitabili. Un modo per confrontarsi potrebbe essere quello, appunto, di dire dove ci si colloca, da che pratica si parla, quali mediazioni si utilizzano, solo femminili, femminili e maschili, neutre, ecc. Non sto a un confronto che mi costringa a rispondere: quello che dici della mia pratica non è vero, non è vero che sono una privilegiata, non è vero che l'affidamento è gerarchia, non è vero che separo il privato e il pubblico, ecc. Abbiamo qui esposto un'esperienza di giuriste che parte dal desiderio di esserci nel luogo dove lavoriamo con una possibile integrità e col senso che diamo noi alle cose, usando, ne siamo consapevoli, soprattutto strumenti del diritto esistente per fare esistere un nuovo diritto. Tuttavia, come ho cercato di spiegare, non è più una lacerazione bensì, in virtù della lingua-ragione, una situazione, almeno per me, produttiva di sapere.

Lautorità femminile

Verso la fine degli anni Ottanta, in Italia, compare nella letteratura politica, uno strano personaggio, nuovo e antico: l'autorità. Come ha scritto Hannah Arendt in Che cos'è l'autorità? (Tra passato efuturo, Garzanti, Milano 1991), l'autorità era sparita dal mondo moderno, dove l'abbiamo vista ricomparire a braccetto con ideologie di destra estrema. La cultura di sinistra conosce invece episodi importanti di critica dell'autoritarismo, ossia dell'abuso dell'autorità, senza una nozione positiva dell'autorità. Questa comincia oggi ad articolarsi, come autorità femminile, nella letteratura politica e scientifica del movimento delle donne. Ricordiamo alcuni titoli: Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti (1987); «Madrigale» n. 4, Napoli 1989; Centro Culturale Virginia Woolf-B, L'autorità femminile. Incontro con Lia Cigarini (1991) da cui il testo che segue; Anna Maria Piussi (a cura di), Educare nella differenza (1989); Ipazia, Autorità scientifica autorità femminile (1992); Luisa Muraro, L'ordine simbolico della madre (1991); Gemma Beretta, Ipazia d'Alessandria (199 3); Diotima, Oltre l'uguaglianza. Le radici femminili dell'autorità (1995). C'è una circostanza che spiega, precisamente, il ritorno dell'autorità mediato dal femminismo, è la critica dell'egualitarismo femminista (la cosiddetta «sorellanza fra donne») avanzata da grandi pensatrici come Mary Daly in Al di là del Dio Padre, con la nozione di «violenza orizzontale», e Luce Irigaray che, in Etica della differenza sessuale, parla delle «interminabili rivalità fra donne».

Prendere scienza eforza da una fonte femminile, firmato collettivamente dalla Libreria delle donne di Milano, scritto e letto da Lia Cigarini al convegno «Scienza, potere, coscienza del limite. Dopo Cernobyl: oltre l'estraneità», Roma, 4 luglio 1986. Atti pubblicati a cura di Graziella Leonardi, «Quaderni di Donne e politica», Editori Riuniti Riviste, Roma 1986. Note sull'autorità femminile, «Madrigale» n. 4, 1989-90 Incontro con Lia Cigarini, 14-15 dicembre 1990, in La pratica delle relazioni politiche fra donne, a cura dell'Associazione «La rete della differenza», Venezia, 1993 L'autorità femminile. Incontro con Lia Cigarini, Roma 15 febbraio 1991, Edizioni Centro Culturale Virginia Woolf-B, Roma, aprile 1991

PRENDERE SCIENZA E FORZA DA UNA FONTE FEMMINILE

Consideriamo preziosa l'indicazione emersa nel movimento delle donne di opporsi agli usi distruttivi o pericolosi della scienza, non partendo dall'oggetto scienza bensì dalla relazione tra donne. Pensiamo, cioè, che l'aver tenuto insieme l'oggettività dell'evento Cernobyl e la soggettività di essere donne costituisca una posizione feconda. Il nostro essere qui a confrontarci sulla differenza femminile, sulla sua esistenza sociale, significa finalmente che abbiamo scelto un'altra entrata nel mondo: a partire da un desiderio femminile mediato dal legame con l'altra donna, le altre donne. Noi siamo qui tra donne anche per chiedere alle scienziate e alle politiche di rendere conto a noi di quello che pensano e fanno, e di responsabilizzarsi nei confronti delle donne, sottolineando così la relazione tra soggetti dello stesso sesso. Questo è l'inizio di un' elaborazione sessuata della scienza, del potere, della politica. Ed è una modificazione dirompente perché mette fine all'oggettività del potere che alla lunga, come stiamo vedendo, nessun soggetto umano, né uomo né donna, riesce a controllare. Per noi vuol dire, anche, mettere fine a quel processo faticoso, doloroso e in sostanza poco creativo attraverso il quale una donna diventava un neutro. A guardarlo ora, dopo il capovolgimento operato dalla pratica e dalla teoria di questi anni, che ci hanno dato un corpo e un pensiero sessuato, quel processo di neutralizzazione sembra impossibile e umiliante. Ma in passato neutralizzarsi era quasi una necessità per la donna che voleva inserirsi nella società con un minimo di protagonismo. A quel punto la donna, trovandosi personalmente confrontata con una società pensata e governata da uomini, teneva d'occhio i pensieri, i gesti, le scelte dell'uomo, cercando di imitarli e assimilarli. Naturalmente non sapeva né poteva assimilare il desiderio sessuale maschile, e quindi neanche la presa maschile sul mondo e su di lei. Così come non sapeva quasi nulla del suo stesso desiderio di donna, che doveva tacere, sparire. Mai perfettamente, però. Qualcosa infatti ne appariva, ma come disturbo, sintomo paralizzante, sogni e fantasie evasive, allontanamenti improvvisi dagli impegni sociali, ecc.

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Per questo abbiamo passato tanti anni ad ascoltare e interrogare sintomi, sogni e storie individuali. Per interrogare l'estraneità femminile, trascurando deliberatamente una politica di obiettivi e rivendicazioni. Lestraneità femminile è provocata, noi pensiamo, dal fatto che la società e la politica, così come funzionano, rendono muto il desiderio sessuale femminile. Ed è provocata, bisogna pur dirlo, anche da come per cent'anni si è organizzato e si organizza il movimento delle donne nelle sue espressioni più ufficiali e più vicine alle istituzioni maschili. Considerando le donne alla stregua di un gruppo sociale oppresso e, tutto sommato, omogeneo. E non un sesso il cui problema di libertà e di esistenza sociale non ha risposta se non c'è iscrizione simbolica della differenza sessuale. Per mancanza d'iscrizione simbolica intendo la situazione in cui è indifferente che ci sia pensiero di origine femminile e forme sociali che lo manifestano con il segno della sua origine. Indifferente, va detto, anche alle donne. Il movimento di lotta delle donne ha ricostruito, è vero, una storia della differenza sessuale, i tentativi qualche volta riusciti di affermare una parola di donna, di stabilire dei legami significativi tra donne, dei rapporti di affidamento. Ma si tratta, per lo più, di una storia frammentaria e poco conosciuta. A causa dell'estraneità femminile anche le donne che sono arrivate a un certo protagonismo sociale, per esempio le politiche elette nel Parlamento o negli organismi dirigenti dei partiti o delle varie istituzioni, in realtà non rappresentano nulla, certo non le donne. Trovo, quindi, ozioso interrogarsi sulla delega perché, in realtà, finora le donne non hanno delegato nessuna. I..:estraneità, che è il rifiuto femminile di farsi omologare al desiderio e al progetto maschile - rifiuto pieno di contraddizioni, certo, perché siamo anche sedotte e attirate dai progetti maschili che si presentano sempre come dotati di valore universale - è il luogo dove le donne che vogliono far esistere la differenza sessuale sono andate a collocarsi, si sono spostate. Da lì hanno preso la parola. Come? Parlando tra di loro, stabilendo rapporti materiali significativi tra di loro. Questo ha voluto dire spezzare il percorso della socializzazione del desiderio che era: gli uomini amano gli uomini, le donne amano gli uomini. E si è modificata la rappresentazione del rapporto tra le donne e il mondo che era: tra me e il mondo l'uomo, il partito o altro dello stesso genere. Per diventare invece: tra me e il mondo un'altra donna.

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Dunque, spostamento nel luogo dell'estraneità femminile non per allontanarsi, perdere contatto con il mondo bensì per avere presa, avvicinarsi, attraverso la mediazione sessuata. Insisto che questo luogo spostato è un luogo sociale e non ha nulla a che fare con lo schema tanto ripetuto nel movimento delle donne, che dice: le donne e la politica, le donne e la società, le donne e la musica, la scienza, ecc. È invece politica delle donne, società delle donne, musica delle donne. Uscire dalla neutralità esibendo l'appartenenza al sesso femminile, ossia il nostro interesse e preferenza a pensare, ad agire con altre donne, dicendo che una donna può esserci maestra in maniera più completa di un uomo perché abbiamo una comune origine di sesso, questo, io credo, produce finalmente una responsabilità sociale di donne nei confronti del mondo. In altre parole, la responsabilità nei confronti del mondo nasce quando le donne stringono fra loro un patto sociale, quando cioè sanno e accettano che devono rispondere di sé, in primo luogo, alle proprie simili. Sanno e accettano che l'esistenza sociale, libera, una donna può e deve contrattarla con le sue simili, o non l'avrà mai. Sappiamo che questa parola, patto sociale fra donne, con quello che gli sta dietro, fa scandalo o sconcerto. Non è il patto di coscienza, infatti, vale a dire: mettiamoci insieme per quello che abbiamo in comune. E qualcosa di più costringente, più forte. Vorrei però che si riflettesse sul fatto che la differenza femminile e il conflitto di genere non ha riconoscimento nel contratto sociale. ' Ne viene di conseguenza che la differenza femminile è lasciata senza mediazione sociale. Lesempio da fare in proposito sarebbe la vicenda della legge contro la violenza sessuale, con le contraddizioni in cui ha messo le donne e le mostruosità giuridiche che ha prodotto. Pertanto l'irresponsabilità femminile è giustificata in sé ed è stata un modo, quasi l'unico, di tenere aperta la contraddizione. Ma la politica sessuata non è data una volta per tutte; bisogna costruirla e praticarla. Non c'è, per esempio, quando si afferma semplicemente che le donne sono contro il nucleare, la guerra e il potere. E inessenziale che si chieda al movimento delle donne di dire la sua ogni volta in cui succede qualcosa di minaccioso, come il pericolo di guerra o la repressione. È probabile che alcune, molte donne siano pronte a schierarsi, come già si sono schierate in passato, con tutte le cause giuste e contro tutte le guerre. Ma le cause per lo più sono state perse e le guerre si sono fatte.

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La responsabilità di donne nei confronti di quello che capita nel mondo si forma quando riusciamo a cambiare il modo in cui si produce il potere. Il potere cresce e si sottrae al controllo dei singoli soggetti umani, passando sopra le differenze qualitative e imponendo, anche nella testa dei singoli, la sua nuda logica. La donna è portatrice della prima, fondamentale differenza umana, quella di genere. Ma se lei non produce, per la via della sua differenza, scienza, diritto, autorità, allora è destinata ad adeguarsi al potere costituito o a contestarlo vanamente. Noi pensiamo che la pluralità di modi di produzione del potere, contro la sua unificazione in una oggettività senza volto umano, sia oggi la sola possibilità che abbiamo di uscire dallo schiacciamento e dall'impotenza. Per produzione sessuata del potere (economico, sindacale, politico, ecc.) non intendiamo il mettere a tema le possibili variazioni delle forme del potere. In questo modo, infatti, non si fanno mai i conti con il potere che già s'impone a noi e in noi. Intendiamo: agire il potere con il legame femminile; fare scienza, fare politica, ecc., prendendo forza e misure di giudizio da altre donne. La nostra pratica politica ha avuto, ha come oggetto il costruire e l'analizzare i rapporti tra donne, ed è stata efficace. Questi rapporti infatti si stanno allargando e potenziando nel corpo sociale, sia nei luoghi separati, come può esserlo la Libreria delle donne, o noi qui, sia nei luoghi dove sono presenti anche gli uomini. Ed è insieme cambiata, sta cambiando, la rappresentazione simbolica e sociale delle relazioni fra donne. Ma questa pratica politica si è trovata subito fra i piedi, ancor prima che nella testa, la questione del potere di origine femminile. Abbiamo proceduto in modo molto empirico, con scoperte occasionate da problemi terra terra. Il lavoro teorico è stato portato avanti riportando sempre le riflessioni nate dalla pratica di rapporti con altre donne, nel gruppo stesso delle donne che vivevano quei problemi. Senza mai scioglierlo; senza mai cercare la risposta dei problemi in un altrove di pensiero o di autorità estranei all'esperienza femminile. Ma a partire dalla propria esperienza concreta, a partire da sé. Restando nel luogo in cui il conflitto tra donne non chiama in causa un'autorità di origine maschile, abbiamo capito che esiste una femminile voglia di vincere. Che il desiderio sessuale delle donne o di molte donne, non si rivolge soltanto a figli, mariti o amanti, che

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erano i suoi oggetti leciti, di manifestazione sociale ammessa, ma anche verso oggetti sociali. Non per rivalità con gli uomini, ma per una genuina potenza umana, finora e ancora resa però vergognosa quando scaturisce da una donna. Per questa via, di ascolto dei conflitti tra donne, è stato possibile togliere la censura che pesava sul desiderio femminile. Questo si è legittimato anche sulla scena sociale. Non più mascherato dietro una rivendicazione di parità con l'uomo - se l'uomo può questo, io ho diritto di averlo - ma significato per se stesso, autentico desiderio femminile di libertà, di esistenza sociale, di conoscenza, di potere, di agire efficacemente. Si tratta, inutile dirlo, di un processo appena iniziato. Dalla nostra pratica politica abbiamo capito che il processo di legittimazione del desiderio sessuale femminile sulla scena sociale non ha luogo senza una autorizzazione simbolica di origine femminile. Senza questa, una donna rischia di restare sempre lacerata fra le sue pretese smisurate e la vergogna di manifestarle o i sensi di colpa. Alcune, una minoranza, se la cavano responsabilizzandosi in senso morale verso la società. Ma molte altre, la stragrande maggioranza, restano divise fra i doveri familiari e l'impulso, la voglia di entrare nella scena sociale, senza riuscire mai a risolvere il conflitto. Bisogna che la madre - s'intende, in senso simbolico - dica alla figlia: il tuo desiderio è buono, seguilo (e poi toccherà a te misurarti con la realtà), perché una donna possa portarsi con tutte le sue energie umane sulla scena sociale e lì fare i conti con la realtà data. In altre parole, la pratica della disparità tra donne, e dei conflitti che la disparità fa nascere, ci ha fatto scoprire la necessità della mediazione sessuata femminile. Questa, soltanto questa può liberare il desiderio femminile. E può tradurre in forme sociali visibili, e feconde per l'intero corpo sociale, quella ricchezza umana che finora passava e restava nei rapporti privati fra donne. Nella vita quotidiana una donna prende molto da altre donne e dà anche molto ad altre donne. Simpatia, solidarietà, compagnia, consolazione. Era un bene che ci ha aiutato a sopravvivere. La nostra politica consiste nel pensare e realizzare la trascrizione sociale di quello che passa nei rapporti fra donne, così da renderli produttivi là dove si amministra la giustizia, si fa scienza, si organizza il lavoro, si fa scuola, ecc. È in questo modo, noi pensiamo, che i contenuti della differenza femminile possono prendere corpo, sostanza.

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Non sono i contenuti che devono definire il senso della differenza femminile, ma viceversa. La differenza femminile, che si autorizza e significa da sé, può produrre nuovi contenuti sociali che servono a manifestarla di volta in volta, mai esaurientemente. Tra le forme di traduzione sociale dei rapporti fra donne, noi abbiamo individuato il rapporto di affidamento, il legame cioè che si stabilisce quando una donna preferisce una sua simile per confrontarsi con la realtà data. Non è un rapporto inventato da noi, ma scoperto: esisteva anche in passato, ed è quasi sempre rintracciabile nella vita di quelle donne che hanno cercato esistenza sociale libera senza subordinarsi al pensiero o alla volontà maschile. Il rapporto di affidamento, infatti, realizza la mediazione sessuata e attiva la fonte femminile di autorità sociale. La differenza femminile si iscrive nell'ordine sociale e diventa una potenza modificatrice del sociale, secondo noi, a condizione che ci sia una pratica della disparità fra donne. Senza questa pratica i conflitti tra donne si situano in un orizzonte neutro, di fatto maschile, e per le donne stesse risultano il più delle volte conflitti sterili o distruttivi. Per capire la fecondità di una pratica della disparità fra donne, occorre sottolineare che si tratta di una disparità vissuta all'interno di una differenza qualitativa, la prima e fondamentale differenza umana, quella di genere. Non di una disparità quantitativa neutra. In una società dominata da un processo di omologazione che cancella le differenze qualitative, ci rendiamo conto, è difficile intendere il senso politico e vitale di un confronto qualitativo. Il confronto, cioè, dettato da bisogni e desideri alla ricerca di soddisfazione. Ma noi, a causa della differenza sessuale, abbiamo il vantaggio era una disgrazia, è un vantaggio - di essere segnate da una differenza qualitativa incancellabile. La donna più potente di questo mondo resta pur sempre più simile alla sua simile donna che ai suoi pari grado di sesso maschile. La donna per la donna è la sua simile più prossima, il suo specchio di umanità e quindi, la prefigurazione di sé, il primo e fondamentale progetto di umanità. Questo è il fatto. Passarci sopra, non produce né libertà, né scienza, né giustizia. Per questo diciamo che gli interventi femminili nel mondo servono poco o niente se non prendono forza, ragione e argomenti da rapporti sociali fra donne. Da un'autorità sociale di origine femminile.

NOTE SULL'AUTORITÀ FEMMINILE

Quella dell'autorità femminile è una questione aperta, sempre in forse. Il costituirsi dell'autorità femminile, tuttavia, è determinante per rendere praticabile nella società la mediazione sessuata. C'è mediazione femminile, infatti, quando una donna per la realizzazione di un suo desiderio e progetto fa appello alla parola e alla decisione di una sua simile anziché all'autorità maschile. La mediazione sessuata sovverte le regole e le misure maschili solo se una o alcune donne, nei luoghi misti del loro agire sociale, di fronte a progetti evolontà maschili dirà: deciderò dopo aver ascoltato il parere di colei o di quelle con le quali sto lavorando e il loro parere è vincolante per me. In questo modo il potere maschile vede e sente il limite posto dall'esistenza del sesso femminile. Appare così sulla scena una differente fonte di sapere e una differente misura per agire nel mondo. Forza femminile è infatti capacità d'imporre la propria misura del mondo. E misura femminile del mondo è sì esperienza di relazioni tra donne ma soprattutto precisione nell'indicare quando, dove, come e con chi si acquisiscono e si spendono i guadagni realizzati. Ci siamo messe insieme, alla ricerca di parole di donne, svincolate dalle regole e dalle aspettative della società maschile, alla ricerca di linguaggi originali (delle origini). Le parole sono significanti, la babele delle parole nasconde ancora una volta i linguaggi originali. Per intenderci, una donna o alcune donne mosse, in realtà, da un loro particolare interesse (e in quanto tale legittimo), se parlano a nome della pratica della differenza sessuale, la occultano. Al contrario, se esse esprimono il loro personale desiderio possono potenziare e articolare la lingua comune delle donne. Insieme ad altre ho vissuto l'esperienza raccontata nel libro Non credere di avere dei diritti che non riassumo qui perché penso conosciuta dalle lettrici di «Madrigale>➔• A me pare essenziale, ora, trovare i modi attraverso i quali il «frutto simbolico dei rapporti fra donne entra nel mondo e mostra la sua origine. Mostra che il prima e più grande di una donna è ancora una donna fino all'origine».

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È un lavoro tremendo. Il simbolico maschile, infatti, ha occultato e confuso la differenza dei sessi, persino nella procreazione, dove non vi è, da nessuna parte, la donna e il suo desiderio. Il frutto simbolico dei rapporti fra donne - il bambino delle donne - è qualcosa che deriva direttamente dalla matrice, dalla madre. Tuttavia facciamo fatica a pagare il debito simbolico alla madre. Ciò significa, in concreto, che facciamo fatica a riconoscere la disparità tra donne, cioè quanto abbiamo preso da una donna. Attualmente noi ci troviamo nella contraddizione di sapere che è necessaria la potenza materna per agire e pensare liberamente nel mondo ma che, d'altra parte, molte donne la sentono come opprimente e schiacciante. Altre ancora vogliono raffigurare simbolicamente la mediazione sessuata, ma chiedono un altro nome che non sia madre, perché la madre reale opprime la figlia, e, quindi, quel nome non va bene. Io penso che ciò succeda perché, senza un'esperienza e una ricerca autonoma di donne e soprattutto un lavoro sul linguaggio a partire da sé, la madre rimane dove l'ha collocata l'uomo: matrice= materia senza parola, e come tale, un'usurpatrice quando vuole indicare una strada. Propongo, quindi, di partire ancora una volta ciascuna dalla propria pratica politica, e raccontarla. Io ho sentito, dall'inizio della mia scelta di fare politica con le donne, che il valore attribuito a un'altra dava valore ai miei desideri e a me stessa. Ho chiamato, poi, affidamento il rapporto con un'altra donna per sottolineare il di più che ad essa attribuivo e quanto questo mi fosse necessario per trovare una mia/nostra misura del mondo. Credo che l'urgenza di una misura femminile è sentita acutamente da quelle, come me, che hanno, contemporaneamente, rifiutato il destino tradizionale femminile (figli ecc.) e l'emancipazione, perché senza mediazioni date abbiamo fischiato di perdere ogni contatto con la realtà. La pratica dell'affidamento è stata, quindi, il mio modo di agire socialmente la mediazione sessuata. Sto ricavando da questa esperien- , za un maggior agio e forse inizio a individuare, insieme ad altre della Libreria delle donne, e del gruppo giuriste, quali punti della pratica politica, e di conseguenza, della teoria, vanno modificati e precisati. Il fatto che ha messo in moto la nostra riflessione è stato proprio il fallimento di un rapporto di affidamento nel gruppo giuriste, dove un'avvocata che condivideva con noi il progetto di pratica dell'affidamento e ne aveva tratto molti vantaggi, ha accettato una proposta professionale che proveniva da un uomo, tendente a metterla al posto

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di quella che più l'aveva aiutata nella professione. La stessa, inoltre, ha definito oppressivo il mio intervento che cercava di vincolarla al progetto politico del gruppo e al riconoscimento del debito nei confronti di colei che l' ,weva concretamente sorretta nella sua aspirazione a fare l'avvocata. È evidente che l'episodio ha rafforzato, nel luogo in cui agiamo, l'autorità maschile, che è riuscita a scompaginare rapporti tra donne che da anni si giocavano nella pratica politica del processo, pratica per noi essenziale per produrre diritto femminile. Questa smentita ha avuto in un primo momento un effetto devastante, di blocco totale dell'attività del gruppo giuriste. Poi, in un gruppo della Libreria delle donne, abbiamo riflettuto su questa esperienza e, più in generale, sui rapporti di affidamento che si sono articolati a partire dal «Sottosopra verde» e ne abbiamo ricavato qualche spunto per la discussione. Lesperienza delb. Libreria, che non è solo un gruppo di parola, bensì un luogo del fare (negozio, distribuzione di libri, edizione di testi, ecc.), di materialità di vita e lavoro insieme, un pezzo di società 1' insomma, è stata preziosa per la nostra analisi. Questa esperienza dimostra che il progetto iniziale non avrebbe retto se non si fosse sviluppata una forte contrattualità tra donne, vale a dire se non si fossero costituiti tanti rapporti duali per realizzare progetti specifici. Naturalmente contrattualità significa anche rotture e abbandoni. lo penso però che è sempre risultato chiaro che in gioco c'erano desideri, giudizi, energie e ambizioni di donne. In questo contesto si è formata autorità femminile alla quale tutte possono attingere per realizzare liberamente nel mondo i propri singoli desideri. Naturalmente anche qui l'autorità può essere intesa, e in alcuni momenti è stata intesa, come autorità materna, cioè gestione che media tra le donne che hanno au'torità e le altre, oppure come il fallo posseduto da alcune per ragioni e storie che esulano dalla pratica politica della disparità. Tuttavia, a me sembra che lo scambio tra alcune di noi sia vera e propria contrattazione, cioè una modalità di rapporto dove ciascuna, attingendo dalla ricchezza/autorità collettiva, può scegliere, di volta in volta, di misurare il propri'? desiderio e progetto con un'altra, di stabilire insieme le regole per attuarlo. Questa pratica impedisce che si affermi un'autorità di tipo materno o di tipo fallico, nel senso che la libertà di stabilire le regole - misurata con la volontà dell'altra - è tua.

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Tutto ciò fa chiarezza sul fatto che la madre è una figura simbolica e non reale e la relazione madre/figlia una struttura simbolica che fonda la genealogia femminile, mentre i rapporti di affidamento sono scambio tra donne; quando ti affidi a una che ha un di più di sapere essenziale per la realizzazione del tuo desiderio, riconosci l'esistenza e l'autorità dell'ordine simbolico della madre. Mi pare però evidente che con la madre non si contratta. Io credo che su questo punto si sia fatta confusione. Molte volte ho sentito dire; quella è la mia madre simbolica. E facevo fatica a far capire che non ci sono tra di noi madri simboliche in carne e ossa, essendo la figura della madre propria dell'ordine simbolico e non di una realtà di fatto. In Libreria ci sono anche dei rapporti (e sono i più felici e facili) inseriti nella verticalità del rapporto madre/figlia, per esempio a causa della forte differenza di età, ma non sono predominanti e forse non sono i più significativi per la pratica nei luoghi sociali, che a noi interessa particolarmente. In questi luoghi, dove l'autorità maschile ha regole collaudate e universalistiche, sembra che la forza del desiderio iniziale, che imposta il progetto, non sia sufficiente a reggere una relazione femminile che ha la pretesa di modificare le regole esistenti. Rispetto al progetto iniziale, infatti, la misura è data dai limiti, dagli aggiustamenti continui e dagli spostamenti che la realtà data ti impone. Sarebbe necessaria, quindi, la massima contrattazione tra donne, per agire con flessibilità e libertà, e, soprattutto, l'esplicitazione dello scambio. Al contrario, nelle relazioni di affidamento che si sono allacciate a partire dal «Sottosopra verde» nei luoghi misti, c'è poca contrattualità tra donne e non si riesce a rendere esplicito che cosa si scambia realmente. Probabilmente perché la tensione provocata dal confronto con il mondo maschile e le sue regole fa slittare questi rapporti nel privato, nell'amicizia; si rendono autonomi dal contesto e hanno una dinamica psicologica che prescinde dal mondo e dalle sue regole. Agisce, io penso, qualcosa di più forte e arcaico: l'estraneità femminile. Nei luoghi delle donne questo non succede perché non c'è estraneità o più precisamente sono stati costruiti sull'estraneità, e ci muoviamo con agio e da protagoniste. Di fronte all'autorità maschile e alle sue strutture simboliche, invece, l'alternativa sembra essere ancora l'adeguamento o il rifugio nell'estraneità. È necessario, quindi, pensare e precisare pratiche politiche estremamente flessibili. Tali, però, da incollarsi all'estraneità e al desiderio di ciascuna donna, dandogli nome e statuto. Questo materialismo

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dato dall'aderenza a quello che effettivamente muove le donne, impedisce la deportazione nel simbolico maschile. Solo così si evita di fare, come è in voga ora tra le intellettuali soprattutto comuniste, costruzioni e ingegnerie politiche a posteriori. La contrattazione tra donne, che è una forma della libertà femminile, perché svincola dall'autorità maschile e da quella derivata di tipo materno, mi sembra sia una di queste pratiche perché mette nelle mani di ciascuna la possibilità di affrontare la realtà con una misura femminile. È difficile, però, riuscire ad analizzare contestualmente ciò che succede e metterlo in parola, formalizzare in qualche modo i nostri scambi. Nel gruppo di riflessione stiamo dicendo che ci mancano «figure dello scambio» poiché il rapporto madre/figlia, come ho già sottolineato, fonda la genealogia e l'ordine simbolico femminile, ma non può significare la contrattazione tra donne. Pensiamo che senza figure dello scambio la lingua comune delle donne tende a depotenziarsi e irrigidirsi in parole e segni ripetitivi che occultano la differenza sessuale. È, alla fine, un invito al lavoro per quelle che sanno raccontare; mi vengono in mente Bibi Tornasi, Maria Schiavo e Fiorella Cagnoni, e per tutte quelle che hanno materiale e gusto per formalizzare contratti e testi.

LA_ PRATICA DI RELAZIONE FRA DONNE*

L.C.: Tenteremo, in questi due giorni, un confronto di pratiche. Naturalmente si pone un problema, come sempre quando si vogliono confrontare pratiche differenti. Cioè che noi qui ci possiamo scambiare delle parole, però siamo fuori dalla necessità, per me di essere avvocata, per voi di essere insegnanti o impiegate, operaie, ecc. Siamo distanti dal luogo materiale della necessità: il luogo in cui ognuna è costretta a stare, oppure ha scelto di stare, con tutte le contraddizioni che questo luogo ha. La situazione dell'incontro di oggi è di tipo facoltativo, mentre il luogo del vero sapere sessuato è laddove una è costretta a stare dalla necessità e dalla contraddizione. Con questa premessa, si può tentare un confronto fra pratiche. Io sento molto forte la difficoltà di comunicare le pratiche fuori dal contesto materiale, dal luogo della necessità. Tuttavia trovo giusto discutere di pratica politica della differenza e di creazione di simbolico. Perché come ha detto Luce lrigaray a proposito del simbolico: è come se ogni donna avesse in mano un pezzo di cartamoneta strappato e cercasse un'altra che ha l'altro pezzo per farlo combaciare. Sandra De Perini: Cercherò di spiegarti la nostra pratica qui al Centro. Avevamo necessità di un luogo dove apprendere e scambiare quella lingua comune che nasce dalla relazione politica e simbolica tra donne. Capire come fare un confronto di pratiche non è una cosa semplice. Ci siamo impegnate a dire continuamente il punto in cui ci troviamo, dove ognuna di noi si colloca e a essere sempre più precise nell'indicare come, quando, dove si acquisiscono e con chi si spendonq guadagni realizzati insieme, in modo da rendere conto di noi e di mettere continuamente in chiaro il nostro desiderio. • Il 14-15 dicembre 1990, il Centro Donna cli Venezia organizza due giornate cli lavoro sulla pratica di relazione fra donne. I temi sono quelli che più hanno fatto discutere negli anni Ottanta e sono stati già tutti richiamati nell'introduzione di Ida Dominijanni. Di qui la scelta di dare di seguito solo alcune domande e alcune risposte di L.C., lasciando comunque al testo una forma che rende conto di un lavoro collettivo.

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Non ci siamo mai legate tra donne attraverso l'istituto della rappresentanza, ma sempre attraverso l'affermazione fedele di un desiderio femminile. Ci siamo chieste se la relazione tra donne ha un senso e una ragione in sé, o se prende senso solo dentro un progetto. C'è tra noi chi la vede strettamente legata al progetto; per altre, invece, la relazione ha senso in sé, perché è la ragione stessa del progetto. Ci siamo interrogate per tre anni sull'oggetto della trasformazione, sapendo che la modifica interiore non è sufficiente e che spesso le nostre crisi politiche nascono dal fatto che il mondo «oggettivo» degli eventi e dei rapporti di forza procede senza tener conto di una ricchezza che tra di noi cresce, ma senza diventare spendibile fuori di noi. Il punto forte è stato assumere le relazioni tra noi come luogo di contrattazione. Abbiamo cominciato a contrattare tra noi qualcosa. Abbiamo visto la difficoltà ma insieme l'importanza della contrattazione perché, senza contrattazione, il rapporto duale spesso inizia in modo glorioso ma poi cade in un indistinto senza confini. L.C.: I problemi sollevati mi sembrano tanti. Parlerò prima di tutto della Libreria delle donne di Milano, che considero il luogo che ha permesso molti spostamenti nelle relazioni sociali. La Libreria per me è il luogo dell'autorità femminile, perché vi si è accumulato un sapere di donne e una genealogia femminile. La Libreria ha segnato simbolicamente il contesto italiano. Se chiudesse, infatti, nella città di Milano la cosa avrebbe un rilievo, così come nel movim~nto delle donne. Questo è per me avere esistenza simbolica. Lesistenza della Libreria mi ha favorito, nel luogo dove lavoro. Se donne avvocate e magistrate, magari lontanissime dalla pratica della differenza, si mettono in rapporto con me, io godo del vantaggio che loro fanno riferimento a un'autorità femminile che è la Libreria delle donne che tutte conoscono e stimano. Tuttavia il diritto femminile non lo possiamo scrivere in Libreria: per produrre pensiero sessuato bisogna stare nel luogo in cui il tuo desiderio (di essere giurista, ad esempio) si scontra con delle contraddizioni. Forse in un gruppo di sole donne, un gruppo di autocoscienza, si può fare a meno dell'autorità femminile, ma quando devi agire nella società e hai a che fare con il diritto maschile, con la filosofia maschile, con la fabbrica maschile, è chiaro che hai bisogno di un riferimento di autorità, perché altrimenti non ce la fai.

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La Libreria ha sostenuto la pratica della disparità proprio al fine della costituzione di autorità femminile. Su questo si è scontrata nel movimento delle donne dove era predominante un'ideologia dell'uguaglianza: «siamo tutte uguali in quanto oppresse»; «che disparità ci sono tra le oppresse?». Naturalmente la pratica della disparità non è nata dal nulla. In Libreria abbiamo a un certo punto nominato le disparità nei nostri rapporti, disparità di desideri e di competenze in un contesto molto materiale, dominato anch'esso dalla necessità. Essendo la Libreria un negozio, con i normali orari di un negozio aperto al pubblico, doveva essere garantita l'apertura, c'era la necessità di tenere i conti, fare i bilanci, ecc. Non era proprio come riunirsi in un gruppo di parola. E stata posta, a proposito dei luoghi delle donne, la questione separazione-separatismo. Personalmente, pur avendo fatto i primi gruppi di autocoscienza intorno al Sessantotto-Settanta, non ho mai parlato, definendo un gruppo di sole donne, di separatismo - che è una dichiarazione ideologica-, bensì di separazione, come momento fondamentale per la presa di parola femminile. «Separazione» definisce meglio la posizione in cui io sto: in un gruppo di sole donne, come è stata ed è la Libreria. Però io considero la Libreria al centro del mondo. Non la considero un luogo che le donne si ritagliano per poter parlare, fare, discutere. Penso che la Libreria delle donne, là dove c'è il mio desiderio, là dove ho le relazioni più significative, sia il centro del mondo. La discussione attuale tra le donne comuniste può essere utile a capire la differenza tra separazione e separatismo. Esse hanno fatto proprio il pensiero della differenza e parlano di partito di donne e uomini. Però intendono l'esserci dei due sessi come una spartizione del mondo, e in questo io vedo il separatismo. Come dire: siccome ci sono due sessi, io mi spartisco il partito, mi spartisco il sindacato, mi spartisco il mondo. lo penso invece che il mondo è uno e là dove insieme ad altre faccio politica c'è il centro del mondo. Troverò un limite, figuriamoci. Ma sono per chiarire la parola «parzialità». Il movimento delle donne ha molto usato questo termine, ma per dire il punto di vista delle donne, non per dire che i due sessi si devono spartire il mondo, costruendo due società parallele. Anche perché le due parzialità richiamano la complementarietà. Il soggetto maschile si è costituito perché ha pensato il mondo. Credo che il soggetto femminile si costituisca se pensa il mondo, a partire da sé, dalla propria pratica e dalle proprie relazioni. In questo senso intendo il mettersi al

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centro. Perché con la spartizione, anche al cinquanta e cinquanta, non si costituisce il soggetto femminile. Se penso il mondo a partire dal mio essere donna, se voglio dare un significato a questo essere donna, penso il mondo nella sua interezza. Se parlo di diritto femminile, non parlo di un diritto che vale solo per le donne: è un diritto che regola il rapporto tra donne, ma anche il rapporto delle donne con gli uomini. La strategia della spartizione (da cui le quote) non ha niente a che vedere con la nostra idea della parzialità intesa come punto di vista della soggettività femminile. Noi diciamo un punto di vista delle donne, mentre gli uomini hanno parlato per gli uomini e per le donne. È molto significativo politicamente se gli uomini riconoscono la loro parzialità, sarebbe davvero un fatto nuovo. Ma le donne lo sanno da sempre che ci sono due sessi e noi non possiamo volere che si formino due parzialità. Laltra questione, che ho cercato di affrontare nel mio articolo su «Madrigale», è quella della contrattazione. Anche lì siamo partite dall'esperienza. Ci siamo accorte che i rapporti, le relazioni che funzionano meglio in Libreria, ma anche, per quel che mi riguarda, nel Palazzo di giustizia di Milano, sono le relazioni che si iscrivono nella verticalità, quindi nella genealogia femminile: là dove c'è una differenza di età relativamente forte e il rapporto può prendere la forma della relazione tra madre e figlia. Infatti il primo rapporto che mi ha fatto venire in mente l'affidamento è stato quello con una avvocata che aveva quindici-venti anni più di me, molto brava anche rispetto agli uomini. lo ho agevolmente riconosciuto il fatto che la sua eccellenza mi dava la libertà di non dover dimostrare di essere brava come gli uomini, perché l'aveva già dimostrato lei. Questa cosa gliel'ho detta. E il riconoscimento di autorità femminile ha prodotto uno spostamento sociale: lei è una che non viene alle riunioni delle donne, ma mi consiglia nei processi, mi dà una consulenza forte. Non a caso un'altra relazione che si è diffusa è quella fra l'insegnante e l'allieva. La difficoltà sta invece nei rapporti che noi abbiamo chiamato di piccola disparità. Rapporti di scambio normali, che fanno riferimento a un progetto. Il rapporto che si inserisce nella genealogia è un rapporto che funziona, gli altri no, soprattutto nelle pratiche sociali. Abbiamo quindi bisogno di figure dello scambio. Perché articolandosi sempre di più l'agire nostro nel mondo, scambiamo cose molto parziali, come può essere fare una causa o una ricerca scientifica o altro. Quindi stiamo interrogandoci

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su che cosa si scambia. Viene fuori che a volte questi rapporti falliscono, perché non c'è esplicitazione di quello che vuoi, di quello che sei disposta a dare, non c'è insomma quella che noi chiamiamo contrattazione. Quindi l'esplicitazione di quello che si sta scambiando è la cosa fondamentale. Carla Turola: Sono una delle donne che hanno voluto questa assemblea mensile del Centro donna. Il mio desiderio era proprio quello di costruire una struttura di autorità femminile alla quale ci si potesse riferire e dare questa opportunità ad altre, allargando la rete delle relazioni. Ho cercato delle donne più libere di me, soggetti della propria esistenza e a queste, soprattutto a una, mi sono rivolta per diventare anch'io così. Nella struttura dell'assemblea, dove ci sono molte donne autorevoli, è come se si creasse una situazione di autorevolezza diffusa. C'è una sfasatura tra l'esperienza che mi dice sempre che l'autorità è quella di una donna in carne e ossa e l'esigenza di creare una struttura più collettiva di autorità. Secondo te le due cose sono in contraddizione o possono andare insieme? L.C.: Sicuramente si crea autorità femminile attraverso un estendersi di relazioni significative tra donne. Per relazioni significative tra donne intendo quando una donna per rapportarsi al mondo usa una mediazione femminile. Questo crea società femminile. E crea autorità femminile, perché c'è autorità femminile quando ogni donna per realizzare il proprio desiderio si riferisce a un'altra donna. E l'autorità femminile è messa in scacco là dove la donna non si riferisce più all'altra donna. Anzi permette addirittura che gli uomini scompaginino e lacerino queste relazioni. Non credo, quindi, che ci sia la donna che incarna l'autorità o la madre simbolica. Ci sono delle donne molto autorevoli perché hanno messo in moto delle cose. Addirittura c'è autorità, io credo, quando non c'è bisogno dell'incarnazione e ci si riferisce a un'autorità di cui tutte possono usufruire. L autorità femminile è sempre messa in discussione, perché qualsiasi lacerazione in una relazione significativa tra donne sembra farla cadere. Finché l'autorità femminile si basa unicamente su determinate buone relazioni tra donne, vuol dire che non esiste, perché basta che sia smentita una volta e non c'è più.

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Naturalmente c'è un momento in cui deve essere sottolineato che alcune donne hanno un'autorità. È come uno stadio presimbolico. Però penso che la madre simbolica non si incarni in nessuna, essendo la ricchezza a disposizione di tutte. Nadia Lucchesi: Negli atti del convegno sulla libertà femminile dell'89 al Virginia Woolf di Roma, tu dici che c'è una scarsa analisi da parte delle donne sul linguaggio della politica, che è più bloccato, più asfittico del livello di produzione simbolica che le donne hanno raggiunto. Ho sempre pensato che la politica tradizionale fosse un luogo nel quale le donne mitigassero la loro paura di presentarsi come soggetti. Trovano in qualche modo una protezione, rinunciando però alla loro differenza. Mi sono chiesta se questa difficoltà di analizzare il linguaggio non derivi dal timore di perdere una sorta di privilegio, che pure pagano molto caro, ma che emancipa da una condizione di indistinzione in cui le donne si trovano se non hanno altro riferimento che l'autorità maschile. L.C.: Per me la politica è in prima istanza la politica delle donne. Certamente nella politica tradizionale le donne tendono a essere imitative. Esercitare la libertà femminile vuol dire sottolineare, e non rimuovere la differenza. Questo è l'unico senso che do alla lotta della libertà femminile. Le donne che stanno nella politica mista, rimuovendo, occultando la differenza, non si muovono con libertà. C'è un linguaggio imitativo. Molte di noi sono state all'università, leggevamo dei libri ed era una specie di incubo fallico, perché leggevi e ti formavi unicamente su testi scritti dagli uomini. Ho poi cominciato a far politica, a lavorare ecc., sempre imitando e soffrendo. Quando infine prendi coscienza dell'oppressione simbolica, più che dell'oppressione materiale, allora ti stacchi da tutti, da tutto, e fai un lavoro a partire da te. Come le donne parlano, ad esempio, il linguaggio del diritto? Imitano, cercano di imitare alla perfezione. E molte, nell'imitazione, riescono benissimo. Però imitano un linguaggio costruito da un altro sesso su un'altra sessualità. Nella politica imitano male. Le politiche di professione sono poche. Nella politica c'è un grosso problema, quello del potere. La politica è potere e le donne hanno un problema con il potere. E quindi penso si possa dire che per molte donne stare nella politica tradizionale è un mero fatto di emancipazione. Nella politica mi sembra che le donne siano messe più in scacco che in altre professioni. In alcuni paesi - Stati Uniti, Unione Sovietica, Germania orientale - c'è un tasso elevatissimo di emancipazione femminile, eppure nella politica le donne sono rarissime, perché c'è il problema del

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potere, che è continuamente occultato anche nella nostra pratica. Il solo fatto di aver parlato della disparità ha causato grossi traumi nel movimento delle donne e il riconoscere un di più femminile è stato sentito come qualcosa di lacerante. Dall'uscita di «Sottosopra verde» si è manifestato continuamente in una parte del movimento delle donne il rigetto, perché c'era qualcosa che si avvicinava alla questione del potere. Se la politica delle donne per me è la politica, la politica tradizionale è secondaria. La scelta che posso fare di chi votare è secondaria rispetto alla politica delle donne. Lucchesi: Penso alla situazione del Centro, alla nostra necessità di mediazioni. Dobbiamo trovare il modo giusto, e quindi anche il linguaggio, per rapportarci con delle donne che stanno nelle istituzioni. L.C.: Non si inventa un linguaggio per trovarsi con le donne delle istituzioni. Già la parola istituzioni è un linguaggio ?feso dalla sinistra che non riesco a seguire. Il Palazzo di giustizia sarebbe un'istituzione, io sarei in rapporto con l'istituzione? No, concretamente faccio l'avvocata e per sostenere il mio desiderio cerco una mediazione femminile. E lì avverrà uno scambio e si troverà un linguaggio perché c'è una mediazione tra due desideri femminili. Se fai un gruppo come la Libreria, che è autonoma economicamente, la mediazione con l'istituzione comunale non è necessaria. Noi non incontriamo né un'assessora, né una consigliera, anzi alle loro richieste rispondiamo sempre di no. Se tu invece hai un Centro donna che si regge con finanziamenti comunali, lì sei stretta dalla necessità di trovare la mediazione, altrimenti ti salta il progetto. Non devi parlare diversamente, devi contrattare, dire «io voglio che viva un Centro, tu vuoi dei voti». Prima di tutto c'è lo scambio, la contrattazione. Il Centro non è un'istituzione. Non si può dire che sono in rapporto con il Centro donna istituzione, perché appunto questo è un luogo di relazione, desideri, ecc. Non puoi mettere il Centro donna fuori di te, quando lo consideri il luogo materiale della tua pratica. Quindi non è un'istituzione, è un luogo di donne che deve mediare per avere finanziamenti. Grazia Sterlocchi: Il luogo della convivenza con il partner e con il figlio è secondo te luogo della necessità e quindi creatore del sapere della differenza? L.C.: Ho definito luogo della necessità il luogo dove c'è la tua costrizione. Quindi non limitato all'attività lavorativa. Per me è difficile rispondere alla domanda se il luogo della convivenza con il partner e

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con il figlio è un luogo della necessità, perché è lontanissima dalla mia esperienza. Però penso che proprio l'emergere della libertà femminile permetta, finalmente, di poter essere una donna che fa liberamente come sua attività principale quella di madre o moglie. Credo che la libertà femminile si misuri molto dalla dignità che viene data al lavoro casalingo. Già le donne sono di serie B rispetto agli uomini; le casalinghe, quando impera l'emancipazione, sono di serie C rispetto alle donne. Il termine necessità designa il contrario di facoltativo. In un partito ci entri per scelta, al luogo delle donne vieni per scelta, nessuno ti costringe. Invece dovendo io lavorare, ad esempio come avvocata, se non modifico quel contesto sono a disagio per tutta la vita: per dieci ore al giorno resto lì a parlare una lingua maschile, a regolare interessi maschili, a cercare di tutelare le donne. Sarebbe insopportabile. Questo chiamo necessità: quando ti senti proprio attanagliata da una contraddizione, dal voler esserci e dal voler scappare. Là dove scegli per il tuo piacere e il tuo agio, è un'altra cosa. Le esperienze di relazione tra dortne devono avere uno statuto simbolico. Abbiamo parlato dell'ordine simbolico della madre. Nella circolarità di desiderio credo che si crei scambio, e ritengo che già esista un embrione di figure dello scambio: la ginecologa, l'ostetrica, la paziente, l'avvocata con la cliente, le due avvocate che si associano. C'è un ordine simbolico della madre: le donne fanno riferimento, adesso, non più solo alla miseria femminile, ma alla ricchezza femminile, sempre di più. Così, ad esempio, posso pensare che la madre è fonte del diritto. Lordine simbolico della madre dà delle indicazioni per regolare sia i rapporti tra donne che i rapporti tra le donne e gli uomini. Poi ci sono quelle figure dello scambio che nascono da esperienze dette e nominate, ad esempio la disparità, l'affidamento, ecc. Qualsiasi affermazione teorica che io abbia fatto si basava su un' esperienza e una pratica. Bisogna stare incollate alla pratica, all'esperienza, e dirla. Considero la teoria una pratica detta e nulla più. Ho trovato molto bello un libro dell'americana Carolyn G. Heilbrun, Scrivere la vita di una donna, edito dalla Tartaruga. È la stessa autrice che scrive gialli con lo pseudonimo di Amanda Cross. In realtà è una docente di letteratura americana, una studiosa delle autobiografie. Heilbrun ha notato che molte autobiografie di donne sono da un certo punto di vista, false: per esempio Golda Meir, che è stata primo ministro in Israele, Dorothy Sayers, che era una grande giallista, ma anche studiosa del Medioevo, si sono messe a scrivere

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autobiografie edulcorate. Facevano sparire la loro ambizione: «Ho fatto - scrive Golda Meir - il primo ministro di Israele unicamente per il bene della nazione». Nelle autobiografie, devono esserci desideri, passioni, scacchi, ecc., affinché appunto le donne entrino nella vita con dei modelli. Si capisce, dal contesto, che la Heilbrun intende il simbolico. Lei dice che ci devono essere delle «narrative» femminili, dei racconti che aiutino le donne a non dover sempre ricominciare daccapo, a far sì che una generazione non smentisca l'altra. Ormai come avvocata io difendo solo donne, tu fai partorire, quell'altra fa l'insegnante privilegiando le bambine, ecc. Queste figure sono sempre più presenti. Quindi non si tratta, credo, di unire pensiero ed esperienza pratica, si tratta di nominare, di raccontare l'esperienza. Questa è la teoria, il resto è ideologia. Ritorno sulla questione della disparità che è nata dalla pratica della Libreria. Abbiamo aperto la Libreria con l'idea di sottolineare che le donne scrivevano dei libri, che avevano dato un contributo alla letteratura, e per avere un luogo aperto al pubblico che ci sembrava ormai più interessante del piccolo gruppo di autocoscienza. Poi il progetto è andato specificandosi o modificandosi: non solo tenere aperto il negozio, ma anche scrivere dei testi, produrre teoria. E man mano che il progetto si modificava, veniva fuori il di più essenziale che qualcuna portava a sostegno di uno specifico desiderio. Così per tutta l'attività e la produzione teorica che la Libreria ha fatto. È chiaro che per questa produzione la passione teorica di alcune era fondamentale: di mettere in parola, di dire, di nominare, di comunicare. Se voglio produrre diritto, è chiaro che mi riferisco alle donne che il diritto lo sanno. Non posso riferirmi a nessun'altra e cercherò di farle entrare in questo progetto, perché considero il loro sapere fondamentale. Se non riesco ad avere le avvocate di cui ho bisogno per il mio progetto, il progetto viene meno. Non posso mettermi a scrivere leggi. Posso scrivere qualcosa, sull'inviolabilità del corpo e sulla libertà femminile, ma per un inveramento di queste cose sono necessarie le donne. Il di più nasce dalla consapevolezza che hai bisogno delle donne, hai bisogno della mediazione femminile, per affermare il tuo desiderio. Molto concretamente. Vi dicevo che quella delle giuriste è una pratica molto particolare, ma credo che sia interessante perché chi pratica il diritto si trova di fronte molti concetti universali, elaborati dal pensiero maschile.

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Quindi può essere interessante anche per voi, che fate altre attività, in cui però sono implicati concetti di libertà, di uguaglianza, di parità, ecc. Concetti non solo imposti, ma anche introiettati dalle donne. Dobbiamo sempre partire tenendo presente che l'ostacolo è in noi, gli ostacoli non sono gli uomini. La mia pratica politica può servire nel senso di vedere come si tenta di spezzare questi universali. Naturalmente sottolineo che è la pratica di una giurista. Parlerò quindi della mia pratica della differenza. Dico mia pratica, perché se dall'esterno può sembrare che tutto il femminismo italiano faccia riferimento al pensiero della differenza, in realtà al suo interno ci sono state e ci sono almeno due posizioni. La posizione nella quale mi riconosco pensa che la questione prioritaria da porsi sia questa: io sono una donna, ho un corpo di donna, devo dunque trovare un senso al mio essere donna. Questa è stata la posizione di partenza, credo circa vent'anni fa, di quelle donne che poi hanno prodotto la pratica della differenza. La seconda posizione, al contrario, nonostante alcune scelte sessuate (riunioni di sole donne, riferimenti alla differenza femminile, ecc.), continua a ritenere fondamentale il raggiungimento dell'uguaglianza con gli uomini. A credere cioè che l'uguaglianza sia un principio universale, valevole per uomini e per donne. Nell'ultimo documento delle donne comuniste, quello di Livia Turco, vedete questa curiosa posizione: prima si afferma l' emancipazione e poi la differenza. Si accetta il concetto universale della democrazia, la differenza è, quindi, secondaria rispetto all'uguaglianza e alla democrazia. Il risultato è che queste donne parlano di differenza, mentre la loro effettiva politica è tutta volta a chiedere la parità con gli uomini e le quote per le donne, nelle istituzioni maschili. Confermandole così valide anche per le donne. Nel riferire la mia esperienza di avvocata, so di riferire un' esperienza parziale ma, come dicevo all'inizio, considero essenziale, per confrontarsi fra donne, dire da dove si parla, dove ci si colloca - il famoso partire da sé. Che non vuol dire raccontare un vissuto, vuol dire definirsi in un contesto, dire da dove si sta parlando, da quale esperienza. Ponendo all'inizio la questione dell'essere donna, dell'identità femminile, abbiamo cominciato a lottare sul terreno della differenza, che è il terreno della libertà femminile. Perché la libertà a una donna spetta a causa che è una donna, e non a prescindere dal suo sesso. Invece la Costituzione italiana per affermare i principi di uguaglianza e

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libertà anche per le donne ha cancellato la differenza femminile. Essa infatti recita: «Tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di razza, di sesso, di religione». Ed è sempre così. Le donne possono partecipare all'istruzione, al lavoro, alla giustizia, in quanto sono come gli uomini. Questo è il principio che ha portato all'emancipazione femminile. Questo succede, secondo me, anche perché tra le stesse donne si è affermata l'idea che l'uguaglianza con l'uomo assicura la libertà. È questa l'idea più introiettata dalle donne: non tanto da quelle che si tengono preservate nel tradizionale destino femminile, oppure in altre forme di estraneità, quanto da quelle che entrano nel mondo, e ci entrano con questa idea, che l'uguaglianza con l'uomo assicura la libertà. Quindi, se impostiamo delle pratiche sociali, dobbiamo sapere che possiamo incontrare donne che hanno questo principio fortemente radicato e su questo si deve fare un lavoro. l.:imperativo è: devo lavorare a patto di cancellare il mio essere donna, se no sono esclusa. Per questo molte donne, soprattutto le politiche di professione, hanno visto con favore il superamento teorico delle leggi di tutela. Così dalla tutela si passa alla parità. Le leggi di parità, tuttavia, scavalcano la questione della differenza e affermano il principio che le donne devono essere come gli uomini per lavorare. A mio parere sia le leggi di tutela che le leggi di parità pongono alla donna sempre lo stesso dilemma: entrare nel mercato del lavoro e perdere l'identità femminile o rimanere legata ad essa ed essere espulsa dal mercato, o entrarci in posizione secondaria. Non c'è superamento perché il dilemma rimane uguale. Le leggi emancipazioniste di parità o pari opportunità sono strettamente correlate con quelle di tutela, perché non fanno uscire le donne da questo dilemma. Allora il punto è non saltare la contraddizione. La donna ha diritto alla piena realizzazione del suo sesso, compresa, quindi, la maternità, ma questo non si deve fare al prezzo di una discriminazione. Si può quindi cancellare la discriminazione affermando la differenza, al contrario di quello che fanno le leggi di emancipazione. La differenza non è altro che questo, il senso, il significato che si dà al proprio essere donna. È, cioè, dell' ordine simbolico. Molte si chiedono: ma cos'è questo simbolico? È app~nto il senso che noi diamo all'essere donna. La rappresentazione che diamo dell'essere donna. Mentre, di solito, l'essere donna è stato rappresentato dagli uomini. Una cosa semplice, in fondo. Molto più semplice che

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andare ad arrampicarsi su una costruzione del femminile attraverso la speculazione intellettuale. O anche attraverso delle invenzioni che possono essere smentite: che le donne abbiano una eticità maggiore degli uomini, ad esempio. Una cosa semplice invece: il senso che noi, attraverso la riflessione nostra e la relazione con altre donne, possiamo dare all'essere una donna. C'è un ostacolo, la difficoltà di individuare e registrare il conflitto tra i sessi negli scambi sociali e ragionare in termini di conflitto tra i sessi. Anche molte donne, che partono con l'idea della pratica della differenza, poi finiscono per cercare subito o la complementarietà, o addirittura la conciliazione con l'altro sesso. Avrete notato - perché da quello che ho capito ci sono molte di voi vicine alla politica delle donne verdi o delle donne comuniste - con che rapidità le donne comuniste che avevano affermato il principio della differenza sono andate poi a parlare di soggetto fondante, di partito degli uomini e delle donne, dove il conflitto con l'altro sesso è cancellato. È facilissimo questo immediato slittamento. È evidente che chi ragiona in termini di parità tende a eludere il conflitto tra i sessi. A non registrarlo. Ciò non significa che non si possa usare strumentalmente l'attuale legislazione di parità per una pratica della differenza. Cercando doè una mediazione tra differenza e uguaglianza, ma sapendo benissimo che sono due concetti antitetici. Si può usare, ad esempio, un'azione di pari opportunità, sottolineando che si fa quest'azione con mediazioni solo femminili. Ho visto un unico caso in cui obiettivi di parità sono stati affermati attraverso una pratica della differenza, all'Alfa Sud di Pomigliano. Ho detto prima della potente attrazione tra le donne, soprattutto tra le «politiche», di quegli universali che sono i concetti di uguaglianza e di libertà elaborati dagli uomini. Queste rappresentazioni, queste costruzioni che hanno fatto gli uomini sono seduttive, perché il concetto di uguaglianza è una potente rappresentazione, così come quello della libertà. Molte donne dicono: va bene la libertà femminile, ma cos'è questa libertà femminile? Mentre i concetti di libertà e uguaglianza elaborati dagli uomini sono concetti corposi che hanno secoli di storia. Per cui molte donne temono che se ci liberiamo da questi concetti ci rimanga poco in mano. Non è vero. Quelle donne che hanno sperimentato che sempre più i desideri femminili, per affermarsi nel mondo, hanno bisogno di mettersi in relazione con quelli di altre donne, sanno di avere guadagnato molto, sanno cosa è la libertà femminile.

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Mi ricordo di un sogno che ho fatto quando ero in analisi - si era da poco aperta la Libreria. C'era un convento con l'aria molto povera, molto miserabile, c'erano con me delle donne. Una della Libreria mi appariva nel sogno e diceva: è nato un bambino. E c'era in effetti una culla e io guardavo e mi sembrava che più che un bambino ci fosse una specie di ameba, una cosa quasi inesistente. Ricordo che l' analista interpretò nel senso che l'omosessualità politica, la relazione tra donne, lo stare tra donne, produceva dei mostri, mentre io associavo quel bambino-ameba alla nascita del simbolico. La psicoanalisi pensa sempre, anche le analiste più intelligenti, al rapporto con l'altro sesso come a un rapporto fecondo. Io invece avevo pensato che il bambino delle donne era quasi inesistente, però c'era, anche se il sogno manifestava l'angoscia che fosse un mostriciattolo. Naturalmente i sogni di questo tipo non sono più apparsi, man mano che guadagnavo dalla pratica della relazione. Non è tanto importante quindi definire che cos'è la libertà femminile, è più importante sapere qual è la modalità propria alla libertà femminile. Se si è trovato il modo, la leva della mediazione femminile, si può dire che la libertà femminile è venuta al mondo. Quando so qual è il modo, cioè la relazione femminile, per sentirmi più libera, è chiaro che la libertà femminile è nata. Limportante è avere la leva. È evidente che in questo modo si afferma una libertà relazionale, non individualistica. Affermando questo concetto siamo in conflitto con l'idea, oggi corrente, di libertà come un insieme di diritti in capo a un singolo e a una singola per difendersi dagli altri, per poter essere tutelato dalla società. Questa è un'idea individualistica della libertà, ormai fatta propria completamente da tutta la sinistra, che sempre di più parla in termini di diritti, del bambino, del vecchio, del malato, delle donne, del consumatore, ecc. Siamo in contrasto anche con l'idea anarchica di libertà, presente in alcuni gruppi femministi che affermano: io sono nata da me stessa, non è un'altra donna che mi definisce, mi definisco da sola, ecc. Di conseguenza rifiutano la relazione tra donne, la mediazione femminile. Invece la mediazione femminile per me è la leva alla libertà. La sostanza della politica della differenza, cioè mettersi in relazione con un'altra donna per realizzare il proprio desiderio nel mondo e modificare l'ordine maschile esistente. Come sapete, abbiamo chiamato questa relazione «affidamento», per sottolineare il riconoscimento di

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a~torità e il rapporto di fiducia con l'altra, che più di un uomo può aiutarmi nella realizzazione dei miei desideri. Vale a dire una pratica della disparità tra donne. Le donne erano e sono uguali nella discriminazione, nella miseria simbolica. Ma nel momento in cui ci sono desideri femminili e sapere, riflessioni, riconosciamo che le donne sono differenti tra loro. Inoltre, attraverso la pratica della disparità diciamo che la misura, la regola e la disciplina di queste differenze, non possono essere lasciate al mondo maschile. Penso che quelle che non accettano la pratica della disparità fanno sì che poi le differenze tra donne, di potere, e d'altro, vengano regolate dal mondo maschile. Con la pratica della disparità, invece, saremo noi che daremo alla differenza tra donne una misura, probabilmente diversa da quella maschile. Nel rapporto di affidamento c'è il riconoscimento del rapporto con la madre. Però il rapporto di affidamento è anche un rapporto di scambio. I..:affidamento è un rapporto in cui il desiderio parte da colei che si affida. Le contestazioni, che rimproverano all'affidamento di essere una pratica gerarchica basata sulla dipendenza, sono infondate, perché nell'affidamento il desiderio è della donna che si affida, non dell'affidataria. Cerchi chi può rafforzare il tuo desiderio, quindi ti dirigi verso quella che ha una forza, un sapere. Nel rapporto di affidamento c'è sicuramente sia il rapporto con la madre simbolica, che lo fonda simbolicamente, sia lo scambio. I rapporti di affidamento possono anche fallire, ma non c'è niente di drammatico in questo: il desiderio si rivolgerà altrove per realizzarsi. Ci può essere una che ti dice di no, perché non ci guadagna niente, allora viene fuori la contrattualità. È molto chiara la misura, quando una dice che non ci guadagna niente. Il progetto del gruppo giuriste è quello di usare il diritto dato per produrre nuovo diritto e aprire degli spazi e dei vuoti a livello legislativo. Come sapete, siamo state sostenitrici della depenalizzazione dell'aborto e non della legge sull'aborto, della querela di parte per la legge sulla violenza sessuale e non della querela d'ufficio. Siamo contro la legislazione di parità. Nella pratica del processo, come ho detto prima, c'è un tentativo di stabilire un rapporto tra valore, valorizzazione del sesso femminile, del suo sapere, ed efficacia-forza dei desideri femminili. Non solo affermare valore, ma verificare, misurare il valore femminile. Valore, efficacia, forza che sono la condizione per produrre diritto e, credo, per produrre qualsiasi sapere femminile. Senza forza femminile, non c'è diritto.

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Il bilancio che posso fare di questa pratica di affidamento nel processo è positivo. Nel diritto matrimoniale è chiaro a tutti, è visibile socialmente, che le donne avvocate hanno maggiore sapere. Questo è stato loro riconosciuto dalle donne. Le donne scelgono le avvocate nelle cause di separazione. Questo risultato è ormai senso comune femminile. La relazione tra avvocata e cliente oltre che tecnica è una relazione politica, nessuna cliente pone all'avvocata un quesito solo tecnico; chiede di essere sorretta nel suo desiderio. Se si vince la causa, si afferma un principio nuovo. Tutte le volte si mette in gioco nella causa un interesse femminile, con un'interpretazione del diritto che tende a essere diritto delle donne. Sono stati individuati e registrati punti precisi di conflitto fra uomo e donna, nel diritto matrimoniale. La vera differenza sta qui. Mentre le modifiche apportate in Parlamento alla legislazione matrimoniale dalle deputate comuniste, radicali, ecc., prendono sempre in considerazione la famiglia. Questo diritto infatti non si chiama diritto matrimoniale, ma diritto di famiglia, perché significa che lo Stato non prende in esame come oggetto per la legge il rapporto tra uomo e donna, il rapporto di coppia, bensì la famiglia. La famiglia è un'istituzione i cui rapporti interni lo Stato non vuole vedere. Noi vogliamo invece affermare un diritto della coppia. Le sentenze favorevoli ottenute attraverso la mediazione femminile costituiscono già i primi elementi di un diritto nuovo. Nel diritto del lavoro si sta affermando il principio che gli interessi delle lavoratrici non sempre collimano con gli interessi degli uomini. Questo è già senso comune delle donne, lo vedete apparire anche sui giornali. Naturalmente non in tutti i luoghi le donne possono darsi la mediazione femminile. È possibile a Milano, dove ci sono alcune avvocate del lavoro. Anna Pagnin: Quando in Libreria nascono dei conflitti come vi regolate? Li discutete collettivamente? 1 L.C.: Naturalmente in Libreria i conflitti si discutono. Quando è nato un conflitto forte nel gruppo insegnanti, la Libreria ha discusso per cinque mesi. E naturalmente il gruppo, se funziona come terzo, ha sempre una buona possibilità di sciogliere i conflitti. Nel conflitto, è sempre importante trovare il terzo. L'autorità della Libreria in alcuni casi è stata risolutiva, in altri no. Ci sono state delle perdite, tante donne che se ne sono andate. Sarebbe interessante vedere quando l' autorità femminile ha funzionato nello scontro di potere riducendolo al minimo e quando no. Quando la Libreria è stata una figura dello scambio e quando no.

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Carla Turola: Quando dicevi: bisogna mettersi al centro del mondo. Puoi precisare meglio questo concetto? L.C.: Mettersi al centro è il contrario di ritagliarsi uno spazio di pratica, un'elaborazione, riservata alle sole donne. Il gruppo giuriste del Palazzo di giustizia è un gruppo di sole donne, che agisce cioè con la mediazione femminile, non con quella maschile; però vuole produrre diritto di donne e di uomini, e in questo modo si mette al centro. Non c'è il mondo del diritto maschile dove ritagliarsi uno spazio per fare alcune leggi a favore delle donne. Sei al centro quando dici produco diritto. Paradossalmente penso siano molto più marginali e separatiste quelle che si siedono in Parlamento a fare leggi per le donne, anche se il Parlamento è considerato un luogo centralissimo.

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Rosetta Stella: Nell'articolo Note sull'autorità femminile, pubblicato su «Madrigale», ti riferisci al modo in cui appare sulla scena una differente misura per agire nel mondo. Nel gruppo del martedì del Virginia Woolf, abbiamo cominciato a lavorare, lo scorso anno, invertendo il punto di vista sul rapporto tra dentro (luogo di donne) e fuori (rapporti sociali). Così, invece di interrogarci sui guadagni che ognuna di noi trae dal Virginia Woolf per agire nei diversi contesti sociali, ci siamo chieste quali guadagni il Virginia Woolf poteva trarre dal nostro andare nel mondo. Questa nostra scelta allude, crediamo, al fatto che sentivamo le relazioni duali come mancanti di un luogo di autorità femminile. Alcune di noi hanno spesso definito il luogo separato come «madre». Il gruppo è diventato luogo di giudizio sui progetti e anche sulle relazioni messe in atto per attuarli. Insomma, abbiamo sperimentato che anche le relazioni duali hanno necessità di una scena, di una nominazione pubblica, di un giudizio radicato in regole autonome. Cioè in regole capaci di dare ordine a quelle stesse relazioni. Sappiamo, tuttavia, che la necessità del gruppo non va nella stessa direzione della esibizione, sulla scena sociale, di relazioni vincolanti tra donne. Ma è come se quelle relazioni non ci bastassero, se non sapessimo come comportarci quando falliscono. Vorremmo sapere come avete affrontato questo problema nel gruppo giuriste e in Libreria. L.C.: Anche nella Libreria delle donne di Milano il rapporto tra gruppo e pratiche sociali è stato il problema centrale di questi anni. Perché le due situazioni che avete prospettato - quella del gruppo e quella delle relazioni (che possono essere di affidamento e di diverso

• Il testo che segue è la trascrizione di un workshop del Centro Culturale Virginia Woolf-B. Rispetto ali' edizione integrale, pubblicata dal Centro stesso, abbiamo scelto di operare forti tagli e abbreviazioni alle domande perché il ragionamento lì svolto da L. C. mostrasse il suo proprio e autonomo articolarsi.

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tipo), attraverso cui agiamo nel mondo il nostro desiderio di autorealizzazione (per me, facendo l'avvocata) - non siano due scene separate, penso sia necessario uno scambio in tutte le forme che si riescono a individuare. A me è chiaro che, quando una donna del mio gruppo acquista prestigio e autorità in una pratica sociale - faccio l'esempio di Luisa Muraro che ha acquistato prestigio come filosofa, oltreché come donna della Libreria di Milano - lei valorizza la Libreria, così come l'essere della Libreria dà autorità alla sua parola. Credo però necessario, perché ci sia un accrescimento di forza del luogo di donne dove noi abbiamo scelto di stare, che cyelle pratiche sociali si produca realmente nuovo sapere. C'è scambio tra il gruppo e la pratica sociale se una non si accontenta di trarre forza dal gruppo e spenderla nel mondo, ma nel mondo fa una pratica politica dove è visibile la pratica del gruppo. Cioè produce nuove pratiche e nuovo sapere. Sapere filosofico, sapere sindacale, giuridico, ecc. Credo che questa sia la condizione fondamentale, nel rapporto tra il gruppo e le relazioni che mettiamo in atto nel mondo. Per fare un esempio che riguarda Roma, mi è chiaro che Franca Chiaromonte valorizza (questa è la premessa del vostro testo) il luogo delle donne, non prende solamente, se, nella sua pratica politica nel Pci, rende visibile la pratica che fa al Virginia Woolf. E questo succede se ci si chiede qual è il guadagno del gruppo e qual è il guadagno nella relazione nel mondo. E che cosa intendiamo fare di questo guadagno. Queste, credo, sono le due domande politiche fondamentali su cui interrogarsi, perché ci sia produzione di pratiche e di sapere. Sia nel gruppo, diciamo, di origine (quello dove ha preso corpo la pratica della libertà femminile), sia nel mondo. Credo che una delle forme di comunicazione possibili sia il protagonismo personale. E una forma dinamica di rapporto tra il gruppo e le pratiche sociali. Labbiamo chiamata «voglia di vincere». E un modo di mettere in rapporto il gruppo con quello che una vuole essere nel mondo. Naturalmente sappiamo - l'abbiamo sperimentato - che questa voglia di vincere è dinamica, ma crea squilibrio. Alcune, di conseguenza, per paura della critica, o dell'invidia, o di altri sentimenti, rinunciano al protagonismo personale, bloccano la loro voglia di dire e pensare nel mondo, per non squilibrare il gruppo. Invece, anche di fronte a episodi vistosi di protagonismo personale, che sembrano non rendere al gruppo quello che dà, io continuo a considerare il protagonismo una m01la dinamica a cui non voglio rinunciare.

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Nel testo di «Madrigale», c'è l'esempio di una donna che, lacerando un rapporto di affidamento, ha suscitato la giusta protesta di un'altra e, per il suo desiderio di essere protagonista in prima persona, non ha guardato in faccia a niente. Naturalmente il gruppo ha avuto un forte contraccolpo. Però, è come se volessi mantenere la contraddizione aperta e non volessi in alcun modo condannare la spinta del protagonismo, anche se, in quel caso, invece di valorizzare il gruppo, l'ha lacerato. Per evitare lo squilibrio di questo elemento dinamico (il protagonismo in prima persona di ciascuna donna), a cui - insisto - non possiamo rinunciare, credo, tuttavia, sia necessario tentare una rielaborazione del concetto, più volte espresso, del pagamento del debito simbolico. Cioè della restituzione. Lo scambio tra protagonismo individuale e gruppo è fecondo. Ma come può avvenire? Come si evita che ci sia da una parte chi prende e spende nel mondo il suo desiderio di autorealizzazione e, dall'altra, chi recrimina su questo fatto, anche giustamente, visto che non ne vede la produttività politica? Ciò significa vedere come la restituzione, il pagamento del debito possono rimettere in circolo la forza e la valorizzazione che hai preso dalle donne. Il pagamento del debito è diventato, in molti casi, un riconoscimento verbale. Alessandra Bocchetti lo ritiene un'irritante giaculatoria. Io, molte volte, lo sento suonare come vacuo. Non credo, però, che si possa attaccare il riconoscimento verbale del debito come tale, perché è già qualcosa. Penso che questa sensazione di vacuità, e l'irritazione, derivino dall'invalidamento di questo riconoscimento del debito, che pure alcune verbalmente fanno, a gruppi o ad alcune donne. Si dà invalidamento innanzitutto perché vengono saltate delle relazioni importanti. Perciò, bisogna precisare, esplicitare gli scambi. Ad esempio, se una dice: «riconosco l'autorità femminile ... » bisogna chiederle maggiore precisione. Se, per esempio, dice: «faccio riferimento al Virginia Woolf o alla Libreria di Milano ... », credo sia importante chiederle a quale donna fa riferimento, qual è l'effettivo scambio chG c'è stato. Si tratta di fare, in primo luogo, questo, chiarire quale vincolo si ha con alcune e non con al tre. In secondo luogo, credo che l'invalidamento del pagamento del debito, nella forma in cui lo abbiamo conosciuto, di riconoscimento verbale, derivi dal fatto che ciò che è stato preso non è stato tradotto in pratiche sociali, non ha prodotto nuove pratiche e nuovo sapere.

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Oppure, ha prodotto una pratica irriconoscibile per le donne alle quali pure si paga il debito simbolico. Allora, se una donna fa riferimento alla Libreria come fonte di forza, lo dica, però lo renda anche visibile nella sua pratica. I modi per rendere visibile possono essere molti e vari. Faccio ancora riferimento a Franca Chiaromonte, che è presente e che è di Roma: il riferimento al Virginia Woolf deve risultare nella sua pratica nel Pci, in modo che le donne del gruppo possano riconoscersi, anche se non totalmente, visto che si tratta di dare vita a nuovi saperi e a nuove pratiche. Voglio fare, invece, l'esempio di Livia Turco: a un Forum delle donne, qui a Roma, ha detto che doveva riconoscere il debito che aveva nei confronti della Libreria e del Virginia Woolf, come luoghi originari della pratica e del pensiero della differenza. Ma, nella pratica politica che lei ha fatto, non ho riconosciuto quasi nulla della mia pratica; anzi, ho visto costruire con ostinazione la rappresentanza di genere. E qui viene l'altra questione, la contrattazione tra donne. La parola contratto a me piace perché mette in luce un accordo per fare una cosa, oppure un accordo su una pratica politica di relazione tra donne. La preferisco, quindi, al termine «patto tra donne» che è girato molto e che ha finito per essere inteso come un generico legame tra donne in quanto tali. Non era stato pensato così. Tuttavia, nell'ultimo congresso del Pci, è venuto fuori che le donne si dovevano regolare tra loro in quanto donne. lo intendo, al contrario, che la regola sia quella misura che nasce da una contrattazione precisa tra donne, che si danno reciprocamente autorità, perché una chiede all'altra che sostenga il suo desiderio. Quel desiderio preciso di quella precisa donna. Questo è misura e regola per me. Non ho mai inteso che, in un luogo dove sono presenti gli uomini, si potesse, a parte, stabilire contenuti e regole per le donne genericamente intese. In questo modo si ritorna alla specificità femminile, oppure si va alla costituzione di un partito delle donne, anche se il nome è «Consiglio». Ecco che, da un accordo dichiarato sulla pratica della differenza, è nata una cosa in cui non ci riconosciamo affatto, l'organizzazione partitica del genere femminile. Cosa che il movimento delle donne non ha mai neppure preso in considerazione poiché ha sostenuto la mediazione femminile, prima con l'autocoscienza, poi con la relazione tra donne, per sottolineare che il partire da sé è essenziale per sottrarre l'esperienza femminile alla regola maschile e produrre un'interpretazione propria, non certo per imitarla. Bisogna

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contrastare queste imprecisioni e questi slittamenti semantici, che rischiano di invalidare il pagamento del debito e la ricerca di una misura femminile. Questo lavoro politico di continua messa a punto è, in sostanza, ciò che intendo per precisione nella contrattazione. Naturalmente, pensavo che la parola «differenza» non lasciasse equivoci. Non potevo immaginare che venisse fuori il raggruppamento e la regolazione delle donne in quanto tali. Invece è successo. Credo, a questo proposito, che uno sforzo di precisione ci sia nei tentativi che stiamo facendo, più fedeli dell'esperienza personale, di parlare di libertà femminile, più che di differenza, parola che, anche se per me ha un significato precisissimo, è stata intesa da alcune come: «esistenza di due sessi e, quindi, spartizione tra due sessi». Quando abbiamo detto: «il mondo è uno, i sessi sono due» intendevamo che si dovesse rompere con l'universalismo maschile. Ma anche qui c'è stato uno slittamento semantico; e si è arrivati alla spartizione tra i due sessi di un partito, di un sindacato, di un consiglio di amministrazione, o di quello che volete. Stella: La seconda domanda è questa: tu parli della fatica a far capire che non esistono tra noi madri simboliche. Tuttavia, spesso accade che ci sia una concentrazione di attese e di richieste sulla figura autorevole, alla quale viene riconosciuto, in via quasi esclusiva, la legittimità del giudizio e, quindi, l'insostituibilità. Siamo convinte che far coincidere l'autorità femminile con l'autorità di una singola donna sia riduttiva della potenza simbolica dell'autorità in quanto tale. Ma abbiamo sperimentato che è necessario e, per il momento, niente affatto scontato, riconoscerla anche nella figura fisica in carne e ossa di una donna. Comunque, a noi non riesce facile agire in altro modo. Anche su questo vorremmo sapere come avete/hai lavorato. L.C.: I..:unica autorità femminile in carne e ossa è riconosciuta, è la madre che ti ha messa al mondo. Invece l'autorità femminile, lo statuto simbolico della madre sono, almeno per quello che mi riguarda, esistenti quando c'è ricchezza, armonia nei miei desideri, o in quelli del gruppo. Per madre simbolica intendo la forza, la ricchezza, l'armonia di alcuni momenti dell' esperienza del gruppo e della mia esperienza personale. In questi momenti c'è una ripresentazione della nascita. Quindi, è come se si riconoscesse l'autorità di un gruppo di donne o di una donna, perché c'è una rievocazione dell'autorità della madre. Ritengo che una donna che esercita autorità nel gruppo (e io riconosco autorità là dove una donna mi dà

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la parola) mi apre spazi di libertà, mi dà libertà. In quel momento, credo che agisca l'autorità femminile, lo statuto simbolico della madre. Ma non in carne e ossa: quella donna non è la madre simbolica. Stiamo parlando di strutture simboliche e non di donne autorevoli o di donne che fanno la legge e, quindi, esercitano il potere. Sono due cose diverse. Per me il potere femminile è quando una donna dà la legge in un luogo o in un insieme di relazioni. Invece l'autorità femminile è, appunto, quella struttura che dicevo prima: riconosco autorità in carne e ossa a mia madre, che mi ha messa al mondo; del principio che lei mi ha dato, che mi ha fatto nascere simile a lei, mi riapproprio nei momenti in cui sento armonia nei miei desideri e ricchezza di sapere. Questo lo devo a un gruppo, a una donna o ad alcune donne. Il problema che si è posto è: qual è lo statuto, l'ordine simbolico della madre? lo sono arrivata alla conclusione che si tratta di un processo fattuale, in cui è importante la contrattazione fra donne. Se si stabilisce un accordo tra due o più donne, il processo che ha portato a quell'accordo è importante, ma l'accordo stesso ha un di più di forza che vincola entrambe le contraenti. Questo di più rimanda all'ordine simbolico. Allora, per precisare meglio, voglio dire che riconosco la superiorità che ha il legame che fa ordine e armonizza i miei desideri. In quello riconosco l'autorità femminile. Se si vuole entrare più nel particolare, mi riferisco sempre alla mia esperienza, io do autorità alle donne che scommettono sulla politica delle donne. Do tutta l'autorità a chi dà forza e si spende nella politica delle donne. Non ne do nessuna a chi dà dei contributi intellettuali e poi sparisce. Do autorità alle donne che sono lì; così, sicuramente valorizzo quello che io stessa faccio. Stella: C'è il rischio che una donna autorevole diventi autoritaria. Qual è il limite tra autorità e potere che, nell'interscambio personale, si può mettere in corso? L.C.: Non credo che il problema sia se una donna è autoritaria o no. Il rapporto tra autorità e potere è quello che dicevo prima; vedo potere nelle donne che fanno la legge. In certi casi, lo considero anche necessario. Comunque, mi comporto a seconda del vantaggio che ne posso trarre; se poi quella legge non va - naturalmente stiamo parlando del potere - c'è ribellione. Lautorità femminile, invece, è lo statuto simbolico della madre. Insomma, si tratta di due livelli diversi.

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Volevo aggiungere qualcosa a proposito di una riflessione che abbiamo fatto di recente sulle figure dello scambio. Noi ci siamo mosse, finora, come se dovessimo creare relazioni tra donne. Questo è qualcosa di importante nelle relazioni che chiamo di affidamento, e cioè là dove e' è un desiderio preciso e ci si rivolge a una donna perché lo sostenga. In questi rapporti dove e' è vincolo, contrattazione, il lavoro politico è nominare che cosa si scambia, esplicitare quali sono i desideri e gli interessi in gioco. Tuttavia, ci siamo mosse come se dovessimo fare essere la realtà. Ma la realtà e' è già: nella società le donne sono già in relazione fra loro (anche perché le donne sono dovunque). Mi riferisco qui, tra l'altro, a un punto di partenza che avete usato al Virginia Woolf. Per esempio la paziente entra in relazione con la medica, l'avvocata con la cliente, l'insegnante con l'allieva, e così via. La realtà è fatta di relazioni fra donne che si incontrano. Ultimamente, in Libreria, abbiamo preso in esame un capovolgimento della nostra posizione. Non bisogna inventarsi le relazioni tra donne; nella realtà sociale, ci sono moltissime relazioni di scambio tra donne. Si tratta di nominarle come tali. Non e' è bisogno di creare relazioni materiali tra donne; quelle ci sono. Si tratta di nominarle come tali, di mettersi come scambiatrici nell' ordine simbolico della madre. Cioè nominare queste relazioni come relazioni tra donne, facendo leva su quello che la realtà ci presenta di rispondente al nostro· desiderio. Questo non significa rinunciare a mettere al mondo il mondo, ma agire sapendo che il mondo che stiamo mettendo al mondo trova già offerti i suoi elementi costitutivi e simbolici. Materiali per queste relazioni che si intrecciano, simbolici per il lavoro politico che abbiamo fatto in tutti questi anni per far esistere l'ordine simbolico della madre. Silvana Marconi: Nell'articolo su «Madrigale» scrivi che manca la figura di scambio, perché il rapporto madre/figlia crea genealogia, ma non fa significare la contrattazione fra donne. Invece, poco fa, dicevi che ogni giorno, ogni momento della nostra vita ci sono relazioni di scambio. Quindi penso che volevi intendere che manca la nominazione di questi rapporti, di queste figure di scambio, ma anche che in definitiva ci sono. L.C.: Lesserei degli scambi non vuol dire che ci sono figure dello scambio. Le madri e le figlie ci sono sempre state, ma la figura della madre simbolica non e' era. Parlo di figure simboliche, che diano ordine, armonia ai rapporti di scambio tra donne.

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Marconi: lo non vedo lo scambio in una figura simbolica, ma in una figura di contrattazione fra donne. Se mi dici che con la madre simbolica non si contratta, perché poi diventa simbolica la figura di scambio? L.C.: La madre simbolica fonda la genealogia. Non è una figura per la contrattazione, perché con la madre non si contratta. Gli scambi tra donne ci sono, non abbiamo. bisogno di crearli, tutti i giorni scambiamo qualcosa con le donne con le quali facciamo politica, con le mediche, le avvocate, le sindacaliste, le impiegate, ecc. Questi sono scambi materiali e reali che esistono. Siccome non è stato esplicitato e nominato quello che avviene, manchiamo di figure simboliche dello scambio. Si tratta, allora, di fare sì che ogni donna non debba ricominciare da capo a imparare come si contratta, come ci si pone in relazione tra donne. E la cosa su cui si interroga Carolyn G. Heilbrun - ho già portato questo esempio nel seminario di Venezia - nel suo libro Scrivere la vita di una donna. Lei sostiene che molte donne hanno scritto delle autobiografie false, perché volevano rispecchiarsi nelle interpretazioni che gli uomini davano del femminile. Così, hanno scritto autobiografie nelle quali si descrivevano come persone mosse solo da buoni sentimenti. La Heilbrun dice che, in questo modo, non si fa una cosa a vantaggio delle donne, che non sanno poi dove collocare la propria ambizione e i propri impulsi. E lei dice (le americane parlano in modo più semplice) che ci vuole un modello che qualsiasi donna può fare proprio, affinché non debba riscoprire tutto da sola. E, ugualmente, ho trovato interessante il testo di una giurista inglese, apparso qualche tempo fa sull'«Unità», che critica lo sforzo che fanno molte femministe nel suo paese, e molte americane, per mettere dei contenuti femminili nelle strutture istituzionali o simboliche maschili. Lei dice che il lavoro deve essere invece quello di strappare l'esperienza femminile a queste interpretazioni maschili e che, anzi, il lavoro di mettere contenuti femminili nelle strutture maschili - per esempio all'università - è inutile, non serve. Angela Putino: Ho capito che quello che dici sulla contrattualità, che è iscritta nell'ordine simbolico, a volte viene letto come una sorta di empiria. Come se si parlasse di opportunismi sociali. A volte ho l'impressione che, per molte, solo quello che è molto empirico è connotato di realtà. Sembra che quello che propone una realtà non direttamente avvistabile come empiricità - per empirico intendo le cose

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spesso già scontate - non riguardi più il discorso della contrattualità. Ho visto spesso questa separazione. Sembrerebbe che quelle che si propongono un'impresa conoscitiva ambiziosa per il proprio genere, oppure un sovvertimento di certe coordinate del sapere (perché, se una donna vuole veramente conoscere, finisce sempre per sovvertire delle altre cose), non abbiano bisogno di contrattualità, la contrattualità sembra legata solo al piano del diritto. Invece, mi pare che tu indichi una contrattualità sempre verificabile, ma non strettamente di diritto. L.C.: La contrattazione serve per arrivare a una misura femminile, che permetta di misurare nel mondo i propri desideri e progetti, senza andare allo sbaraglio e omologarsi. Dunque, contrattazione è esplicitazione dei desideri e di ciò che si mette in gioco, di che cosa si scambia con le altre. Franca Chiaromonte: Voglio tornare all'armonia tra l'esperienza del gruppo - o, comunque, del luogo riconosciuto di autorità - e l'esperienza personale. Tu dici: «lì viene rievocata la nascita e, quindi, vivificata l'autorità della madre». Ora, nel momento in cui vai da una medica, ma anche quando entri in relazione con un'altra ·donna per ottenere qualcosa sul luogo di lavoro, naturalmente, lì c'è un contratto, una contrattazione. Però, poi, può succedere che la relazione si interrompa, che nasca un conflitto, che, per esempio, di fronte all'altro ordine, non si riesca a restare aderenti al proprio. Penso che ognuna di noi abbia esperienza di questo, è come se, a un certo punto, non ce la si facesse. Noi abbiamo cercato di fare del gruppo un luogo forte, un luogo di riferimento in cui i conflitti fra le singole in relaziÌ;,ne per realizzare progetti trovassero una nominazione e una collocazione. Che vuol dire? Non è che il gruppo lavora come un tribunale e dice chi ha ragione e chi ha torto in quel conflitto. In particolare, io, che sono garante delle regole del gruppo, non agisco così, dicendo chi ha ragione e chi ha torto. Però, si cerca di collocare il conflitto in un ordine che consenta di acquisire un di più per tutto il gruppo. Ti chiedo: questa può essere una delle forme di comunicazioni possibili attraverso cui far vivere, nel contratto e nel conflitto (il conflitto che può derivare dal fatto che una dice che quel contratto non è rispettato), il nostro ordine? L.C.: Anche in Libreria c'è stato un conflitto tra insegnanti e sicuramente è stato importante che sia stato portato in Libreria e che anche delle donne che non lavorano nel gruppo insegnanti abbiano

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potuto svolgere quella funzione che tu dicevi. Sicuramente, questa è una forma di comunicazione. Penso, però, che, dopo questo lavoro, lo stesso gruppo deve produrre nuovo sapere e nuove pratiche, non svolgere questa funzione semplicemente di terzo, di mediazione nei conflitti. Per esempio, a proposito di valorizzazione reciproca, voi parlate, nelle vostre domande, degli incontri che si sono svolti al Virginia Woolf. Ora, certamente, una sindacalista, o un'insegnante traggono forza dal fatto che il luogo di donne organizza un convegno sulla pratica politica. Questi incontri, sicuramente, danno autorità alle donne, per le loro pratiche sociali, perché il Virginia Woolf è un luogo di autorità femminile. Però, secondo me, è necessario che in queste pratiche le donne producano nuovo sapere. Così come è necessario che il Virginia Woolf, dopo questi incontri, produca nuovo sapere. A me non interesserebbe fare da mediatrice nei conflitti, punto e basta; ci deve essere invece questo tentativo di modificare, spostare, rettificare la propria pratica. Sicuramente è una produzione di sapere del gruppo. In questo senso avviene una comunicazione e uno scambio. Stella: A me pare che si sia fatto qualcosa nella direzione di non considerare il conflitto una condizione di negatività, o di sanarlo in ogni modo, attraverso forme anche efficaci che potevamo trovare: abbiamo voluto mantenerlo in una condizione tale da poterne trarre quello che Franca stessa diceva, un di più di sapere per l'ordine che si andava a mettere in scena. Perché il problema non è la mediazione dei conflitti, ma è quello che io chiamo «educazione al vincolo». Con questo intendo dire un'educazione che parte dal desiderio di conversione del proprio atteggiamento nei confronti di un ordine differente. Rispetto a questo, non c'è sapienza. Per questo parlo di educazione, per contrastare questo tipo di insipienza. La sapienza, invece, è ciò che si acquista nella pratica, indagando a partire da sé, a partire anche dalle responsabilità che si mettono in gioco (noi l'abbiamo chiamata «essenzialità»); oppure dalle responsabilità nella sottrazione, nell' allontanamento, per lo svantaggio che si ripercuote su tutto il gruppo. Si può parlare, nella pratica quotidiana o nella politica di gruppi come il nostro, per esempio - , di una condizione di insipienza? Io credo che quello che fa problema sia l'ordine della madre, lo statuto della madre e l'autorità che da esso consegue. Si riconoscono le grandi disparità, i di più evidenti (ma anche i più casuali, sostanzialmente) mentre non c'è un'abitudine a una pratica della disparità, là dove l'au-

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torità è figura dell'ordine simbolico della madre. Per questo si preferisce la parola autorevolezza, perché allude a una qualità del carattere e, di conseguenza, è indiscutibile. Ecco, allora l'escamotage di tipo linguistico. Se questo è vero, la proposta, contenuta nell'articolo di «Madrigale», di mettere in circolo, nella discorsività tra noi, la contrattazione, ha in qualche modo sbalestrato, perché l'equivoco su questa parola è stato fortissimo. Si è creduto che ci fosse una nuova parola d'ordine, che consentisse, ancora una volta, di aggirare il problema. Perché, dato che l'autorità con la madre simbolica non è contrattabile, e, invece, i commerci sociali sono fondati sulla contrattazione, allora, a questo punto, noi possiamo aggirare il problema del riconoscimento del debito alla madre. È una tentazione, è certo che ha lavorato. Quindi, condurre le figure dello scambio sul piano simbolico, come tu stessa, peraltro, qui hai confermato, è necessario, perché l'ordine simbolico della madre si affermi. L.C.: Nell'articolo su «Madrigale» parlo del fallimento di un rapporto di affidamento. Sicuramente, una delle cause è stata la non esplicitazione dell'ambizione, del desiderio di quello che l'una e l'altra volevano. Si è dato per scontato, non c'è stata una continua messa a punto di quello che succedeva; io stessa mi muovevo dando per scontato che una persona che era stata così aiutata e che aveva tratto la sua forza sicuramente solo dal progetto del gruppo giuriste, sarebbe stata fedele al progetto. Non è stato esplicitato né l'aiuto, né il fatto che noi lo facevamo non perché era simpatica o per chissà quale ragione, ma unicamente per quel progetto. Se no, magari, non ci saremmo neanche incontrate, oppure non ci sarebbe stata simpatia. Insomma, non c'era una ragione al di fuori del progetto. Non c'era stata precisione, messa a punto, contrattazione. Sicuramente la responsabile di questo mancato affidamento sono io, perché ero quella che doveva esercitare autorità, nel fare la messa a punto di come stavano le cose. Per la considerazione che la cosa era talmente chiara che non c'era bisogno di dirla, per paura, anche, di esercitare autorità, per i famosi sbilanciamenti e squilibri, ho rinunciato a esercitare autorità. Questo non ha fatto ordine. C'è stato, nel gruppo giuriste, questo affidamento fallito. Tuttavia, nella mia esperienza, ci sono soprattutto rapporti che danno parola e libertà. Relazioni che ritengo superiori ad altre, perché mi permettono una parola fedele alla mia esperienza. In questo senso, mi sembra

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che siamo andate più avanti nell'elaborazione della disparità. lo, ora, la intendo in questo modo: riconosco superiorità al legame che fa ordine, che armonizza i miei desideri. Non parlerei, quindi, di donne che incarnano l'autorità, bensì di legami di strutture mediatrici che costituiscono autorità femminile. Elena Gentili: Quando ho letto su «Madrigale» l'uso, certamente non casuale, della parola contrattazione, che suscita immediatamente l'immagine di un accordo fra donne, fra due donne particolari, all'interno di un gruppo di donne, fra gruppi di donne, mi sono sentita un po' liberata. Perché ritengo sia molto importante nominare, dopo aver nominato la relazione fra donne, quello che è un accordo tra donne che responsabilizza la misura e l'impegno di quella relazione. Sono d'accordo con Lia quando dice che l'accordo è qualcosa di più di quella che è stata la trattativa tra le parti che l'hanno sottoscritto: va oltre queste parti. Però, l'alleggerimento che sentivo, Lia, nel nominare questa parola, penso che abbia a che fare con una grande difficoltà quanto alla possibilità di esportare le nostre regole fuori da quelli che chiamiamo i nostri «luoghi dati». Siccome sono convinta sia dell'esistenza di commercio sociale fra donne, sia della validità della mediazione femminile fra noi e il mondo, dico che abbiamo un problema politico: come esportiamo la pratica e la parola dei nostri luoghi, quindi la visibilità dell'autorità, quindi la mediazione femminile? Penso che stiamo correndo dei rischi politici gravissimi su questo. L.C.: Queste pratiche sociali, penso anche alla tua, Elena, non rendono visibile la pratica, magari fatta in luoghi dati, del movimento delle donne, se non c'è invenzione. Non credo che si tratti di esportare. Se penso a quanti aggiustamenti e a quanta modificazione di linguaggio, di riferimenti, di autorità anch'io ho fatto tra la pratica della Libreria e il gruppo giuriste e la pratica di relazione tra donne avvocate e donne giudice! Non credo che ci sia arricchimento se si tratta di esportare. C'è invece comunicazione ricca, se si inventano nuove pratiche molto contestuali ai vari luoghi. Insisto, non si tratta di esportare. Il mio muovermi con le avvocate che incontro nel Palazzo di giustizia, sicuramente non ha le stesse modalità della Libreria: ad esempio, non ho un legame come quelli che ho in Libreria (quei famosi legami a cui riconosco superiorità), ma sono io che devo agire senza questi legami. In questo sta la ricchezza, nel produrre nuove

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pratiche e nuovo sapere. Credo di avere autorità tra le avvocate perché sono della Libreria. La Libreria, a Milano, è più conosciuta persino nel Palazzo di giustizia di quanto non lo sia io come avvocata. Credo, pero, di avere fatto lì una pratica che ha arricchito la Libreria delle donne di nuovo sapere. Come le insegnanti, pur con i loro conflitti, proprio perché facevano una pratica che non era quella della Libreria, perché aveva modalità diverse, hanno portato arricchimento all'elaborazione. C'è stato qualcosa che ha modificato la stessa pratica della Libreria. Sicuramente una cosa importante, che è venuta ai luoghi delle donne - penso alla Libreria e, in una certa misura, anche al Virginia Woolf - dalle pratiche sociali che ciascuna di noi ha fatto, è stata la scoperta della centralità del nostro agire. Il fatto, poi, che si possa più agevolmente dire: «la Libreria è il centro del mondo» (perché lì mi sento più libera) di quanto si possa dire: «la giustizia è affare mio», rimane il problema. Tuttavia, questa affermazione significa che la politica delle donne arriva fin dove arriva una mediazione femminile. Quindi, potenzialmente, ovunque. Questo è avvenuto dopo che molte di noi avevano fatto delle pratiche sociali e avevano capito che non potevano collocarsi nel Palazzo di giustizia, nella scuola, ecc., dicendo: «la scuola è degli uomini, io faccio una pedagogia delle donne o faccio un gruppo di donne». Abbiamo avvertito necessario metterci al centro. Dire cioè: «la scuola è mia». Come se una, nel Pci dicesse: «il Pci è il partito delle donne». Per questo sono così furente con il Consiglio delle donne; perché vieta alle donne di dire, «il partito è mio». Questa acquisizione è venuta sicuramente dalle pratiche sociali, io devo produrre diritto, non posso pensare di produrre diritto delle donne, devo pensare che devo produrre diritto di uomini e di donne. Non è pensabile non collocarsi al centro. Anche la riflessione sulla parzialità è andata sbagliata nel mondo: per noi parzialità era «partire da sé»; per noi era importante che gli uomini riconoscessero la loro parzialità; ma non abbiamo mai pensato che dovevamo pensarci come una parte e avere una parte del mondo, il quaranta o il cinquanta per cento che sia. Tutte queste riflessioni sono sapere che deriva dalle pratiche sociali al gruppo. Questa non è esportazione, ma comunicazione viva. Squilibrante anche, perché nelle pratiche sociali c'è sicuramente il protagonismo in prima persona.

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Gentili: Parlo di esportazione nel senso di dire: «quei riferimenti partono effettivamente da me)). Credo che quei riferimenti debbano invadere territori di altre relazioni. Certamente, poi, avranno i loro modi per radicarsi e per dare quel guadagno che ognuna va cercando. Il problema politico è quanto queste regole, queste nostre pratiche e esperienze possano diventare un riferimento che lascia aperta questa porta alle altre, che diventi per le altre qualcosa cui potersi riferire. Letizia Paolozzi: A me piace l'idea di un doppio movimento, in cui, evidentemente, da una parte ho un gruppo di donne, dall'altra ho dei commerci sociali in cui focalizzo quelli che sono gli scambi che vado a costruire e che sono oggi e non erano ieri. Quando tu, Lia, citavi il libro di Heilbrun, mi veniva in mente che in quel libro, a un certo momento, si dice anche che le donne sono più capaci di avere scambi simbolici con altre donne quando diventano più anziane. Nel senso che fanno vuoto di quelli che sono stati i rapporti di autorità impositiva maschile del mondo e dell'ordine del mondo su di loro. Lì c'era proprio l'esempio di una donna che dice «chi se ne frega del marito, chi se ne frega dei figli, ecc., finalmente si può!». Allora, io credo che in questo doppio movimento ci sia la necessità di fare vuoto per poi andare a verificare questo vuoto con altre. E qui si crea un problema perché, se in un gruppo di donne costruisco un rapporto di affidamento con un'altra, a me quell'affidamento serve per sostenere i miei desideri, per renderli chiari. Quando vado in altri contesti - non si tratta di esportazione né di traduzione, ma di spostamenti - avrei bisogno di avere con me l'altra figura dell'affidamento, perché, se no, il mio desiderio diventa molto più incerto. Ecco un problema che mi trovo davanti in questo momento. Dentro il gruppo so che con l'affidamento si tira, si produce e si è efficaci, ma quando si esce e capita che ti venga chiesto di separarti, a quel punto il desiderio diventa meno chiaro, meno esplicito. Qui c'è ancora, credo, un ordine del mondo che fa pressione contraria, è un duello molto difficile. Rinalda Carati: A noi del gruppo del martedì piace la parte che ha a che fare con quella che Rosetta Stella chiamava educazione al vincolo e che per me si configura un po' come un tener presenti i due versanti, da una parte la necessità di riconoscere autorità femminile, dall'altra un agire, lo dico tra virgolette, «spregiudicatamente», che avverto anch'io come indispensabile e che poi, detto in altri termini, è la voglia di vincere. Specificare a chi ci si riferisce, come dice Lia, mi fa avvertire l'importanza di lavorare per chiarire perché il vincolo si crea

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con alcune e non con altre. Mi pare, però, che questo sia difficile non tanto nel momento in cui il vincolo si crea, quanto negli sviluppi del modo in cui il vincolo si tiene. La cosa poi è più complicata nei casi in cui si verifica un conflitto. Mi spiego: non riesco più a vedere come conciliare le cose, perché se un progetto è stato tale da impegnare esplicitamente due donne, avverto la rottura come inammissibile, non riesco a sopportarla, e sento, in questi casi, il valore del gruppo come luogo che mi consente di fare fronte a situazioni di questo tipo. Ma questo fa sì che mi riesca molto difficile avvertire i movimenti individuali, i miei stessi movimenti, nella loro parte positiva. Come dire, questo mi spinge più dalla parte del vincolo che dalla parte della libertà e della spregiudicatezza. Con la conseguenza che la paura dello squilibrio finisce col valere di più. Putino: Volevo chiedere ancora una cosa, perché ci sono delle espressioni troppo crude sull'ordine che a me non piacciono. Credo che fare ordine non significhi mantenere nel gruppo un sistema di controllo. Fare ordine immette nel simbolico materno, e basta. Noi non abbiamo, scusate se uso dei termini un po' troppo filosofici, delle affezioni uguali a quelle maschili, lo sappiamo benissimo. Ma, finora, la donna è stata regolamentata con un ordine maschile; quindi, la donna è luogo dell'espressività di tutta una serie di affezioni che non trovavano un proprio ordine interno, ma venivano regolate da un altro sistema. Dire «fare ordine» significa, invece, mettere ordine alle affezioni proprie. E, immediatamente, questo crea, rende visibile il simbolico materno. Nel senso che non esiste un simbolico materno senza ordine, altrimenti ci ricacceremo in quella posizione stranissima, che vuole la donna luogo del selvatico, del selvaggio. No, il simbolico femminile, il simbolico materno è naturalmente ordinato. È ordinato per essere simbolico, non esiste nessuna forma che non lo sia. E infatti Lia dice: «sento che esiste autorità quando esiste armonia». So l'aspetto armonico del riferirsi a un'altra; vi posso dire, però, che nella condizione di vincolo, ho subìto, sentito delle condizioni assolutamente costrittive. Una volta, quando decisi di andare a sentire che cosa diceva la Libreria delle donne, fu il richiamo al vincolo che mi fece espellere dal gruppo di Napoli. Allora, stiamo attente alle forme di organizzazione del vincolo. L educazione è un invito all'armonia. L.C.: Sono abbastanza d'accordo con Angela, non penso, infatti, a una regola del gruppo. lo parlo di legami, di accordi tra due. E preferisco, alla parola regola, la parola misura, che appunto vuol dire esplicitazione

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del desiderio e, soprattutto, messa a punto e nominazione di quello che succede. Quindi, non parlerei proprio di regola del gruppo. Infatti, insisto che, per me, la Libreria delle donne sono «alcuni legami», persin9 per la Libreria, parlo di «alcuni» legami fra due o anche di più, ma non di regola del gruppo. A proposito di quello che diceva Letizia, quando dico che si devono inventare nuove pratiche e nuovo sapere e che l'iscrizione simbolica è quella, dico anche che, nei nuovi contesti, è necessario trovare delle mediazioni nuove. Non esisterebbe il gruppo giuriste se io avessi puntato sui miei rapporti di affidamento preesistenti. Stella: Intuisco da quello che dice Angela Putino che c'è da parte mia un'identificazione tra la parola vincolo e la parola legame. Invece mi pare che Lia intenda, quando parla di legame, qualcosa di differente rispetto al vincolo. Ma la parola vincolo a me veniva come conseguenza del ragionamento sulla contrattazione, nel senso che, se è vero che il contratto, cioè l'accordo, è superiore, in valore, alle trattative, è anche vero che questo produce un di più che avvalora quelle trattative e che, nello stesso tempo, è regolativo di quella relazione. In questo senso è un di più; in questo senso lo vedo vincolante; in questo senso parlo di vincolo. Non nel senso di una regolazione del gruppo, o di una irreggimentazione delle relazioni del gruppo, cosa che proprio non esiste nella mia impostazione della politica. In assenza di un sistema di riferimento certo e simbolicamente acquisito, nella misura in cui il simbolico è nel farsi della pratica politica, quando possiamo considerare che alcuni segmenti di questo sistema sono superiori, al di sopra delle persone stesse che sono chiamate a rappresentarli? Alessandra Bocchetti: Secondo me, la difficoltà di molte donne di stare al vincolo dipende dal fatto che non lo si sente necessario: il vincolo resta, è forte quando, magari soltanto per un attimo, per un'illuminazione di un secondo, lo si sente assolutamente necessario. Per questo, avverto uno scarto rispetto a quello che avete detto. Lia Cigarini ha parlato di «esercitare l'autorità», e anche Rosetta Stella. lo penso che nel dire esercitare l'autorità ci sia, implicita, un'idea di forza. Credo, invece, che l'autorità femminile non si eserciti, che non si possa esercitare e che non ci debba essere nessuna forza che serva all'autorità femminile, dall'esterno. Insomma, posso mostrare autorità femminile. Non posso esercitarla. Ida Dominijanni: Mi interessa il discorso che faceva Alessandra Bacchetti e vorrei che spiesasse perché pensa che l'autorità si possa mostrare e non esercitare. E un punto chiave delicato, perché credo

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che l'esercizio di autorità introduca un movimento çli scambio, mentre il mostrare l'autorità femminile può produrre situazioni bloccate e non produrre scambio, tra chi ha autorità e chi riconosce autorità. Nell'esercizio di autorità c'è il lato poco piacevole, cioè la sanzione, il giudizio, ecc. Si fanno dei tagli, si hanno anche dei dolori; però, da qui si introduce un movimento di scambio. Bocchetti: Riprendo una tua immagine: quei «dolori» li devi fortemente volere. Penso, infatti, che ci debba essere, in ognuna di noi, un consenso profondo, radicale all'autorità femminile. Se non c'è questo, l'esercizio di autorità è una contraddizione in termini: eserciti potere, non autorità. Lautorità non ha bisogno di forza per affermarsi. Questa è la mia posizione. L.C.: Abbiamo detto che la madre simbolica non è incarnata da nessuna, ma è una ricchezza per le donne, cui si può attingere. Credo che Alessandra dica questo, cioè che l'autorità femminile, la madre simbolica è qualcosa a disposizione di tutte le donne, cui tutte possono attingere. In effetti, ho usato il termine «esercitare l'autorità» che secondo me non vuol dire esercitare autorità femminile. Insomma, credo che si possa dire che si esercita autorità, volendo così dire che non si sta esercitando potere. Chiarire che cosa si sta facendo, che cosa una mette in gioco, fare dei tagli; questo è esercitare autorità. Penso che l'autorità femminile sia qualcosa a cui attingere per darsi forza. In quel senso sono d'accordo con Alessandra. Penso, in questo senso, che si possa dire «io esercito autorità in quel contesto». Dominijanni: Sia l'autorità sia il potere, si possono esercitare in modo produttivo. Ho a che fare con donne alle quali riconosco autorità, che decisamente la mostrano, ma non la esercitano. Cioè, non la esercitano in rapporto con le altre donne, quindi non la mettono in circolo, quindi è un'autorità che non produce scambio. Bocchetti: Volevo aggiungere solo questo: la parte attiva, il soggetto attivo dell'autorità è chi la riconosce, mentre il soggetto attivo di chi esercita il potere è chi esercita il potere. L.C.: Ho detto prima che autorità e potere sono concetti diversi. Il costituirsi di autorità femminile mette in discussione il potere che una donna ha là dove lavora, o in famiglia, potere concesso, sempre più, alle donne, dall'emancipazione. Penso che dire «io esercito autorità» sia semplicemente dire che cosa si sta svolgendo nella relazione con un'altra.

La politica è la politica delle donne

In questi testi (tutti scritti per «Via Dogana» nuova serie, la rivista della Libreria delle donne di Milano) risalta la caratteristica tensione del linguaggio di L.C., fra lo «stare incollata alla realtà» e la scommessa teorica, spinta al massimo. Il kairos del primo testo, si collega al finale di Non credere di avere dei diritti (p. 188): «Ci sono cose, tra queste la libertà femminile, che non vengono per necessità storica ma avvengono perché favorite. C'è una parola del greco antico, kairos, che serve a nominare questo favore, questa forma della necessità che si mostra e si può leggere ma non dimostrare compiutamente. Significa che più cose disparate si combinano insieme e realizzano lo scopo come chi mirava allo scopo ma prima e meglio». Abbiamo dato al capitolo lo stesso titolo del primo numero 'di «Via Dogana» (giugno 1991).

Kairos: L'opportunità è dispari, «Via Dogana» n.s., n. 2, settembre 1991

La lotta per cambiare l'art. 15 del nuovo Statuto della Cgil e introdurre la libertà d'azione politica nel sindacato, «Via Dogana» n.s., n. 4, marzo 1992

Sopra la legge, «Via Dogana» n.s., n. 5, giugno 1992 Dopo l'accordo sul costo del lavoro: quale pratica?, «Via Dogana» n.s., n. 6, settembre 1992 Lia Cigarini e Franca Chiaromonte, Il comunismo a portata di mano, «Via Dogana» n.s., n. 8, gennaio-febbraio 1993 Fantasmi per lo Stato, figli per lei, «Via Dogana» n.s., n. 9, marzoaprile 1993 Appassionate di politica, esitanti ad agire nella vita pubblica, «Via Dogana» n.s., n. 10-11, maggio-agosto 1993

MIROS: L'OPPORTUNITÀ È DISPARI

Un punto essenziale della presa di coscienza di molte donne, la presa di coscienza che ha dato vita al movimento che da più di vent'anni c'è in Italia e in altri paesi, è che non vogliamo avere la vita che gli uomini hanno e che la società, che gli uomini hanno via via costruita, costringe anche le donne ad avere. Questo ha come conseguenza, per una parte di noi, che la rivendicazione dei diritti è del tutto secondaria rispetto alla ricerca di una pratica rispondente alla nostra presa di coscienza, così da dare significato alla realtà a partire da noi. Per questa parte di noi, la politica è, in primo luogo, creare un senso nuovo della realtà: è creazione di simbolico. Oppure, per altre vie, che va bene la rivendicazione di diritti uguali, purché non sia con lo scopo di poter fare la vita che fanno gli uomini. La rivendicazione dell'uguaglianza con lo scopo di fare la vita degli uomini, in effetti, uccide la ricerca di simbolico. Se interrogo la mia esperienza, so il senso di libertà e agio che mi ha dato il passare da una situazione in cui tentavo in tutti i modi di rimontare lo svantaggio rispetto agli uomini, alla situazione in cui l'autorità femminile ha luogo. So, inoltre, che questa è l'esperienza di tante altre. Perciò non posso accettare che la società registri la lotta delle donne come lotta per la parità con gli uomini, e poco cambia che ora lo faccia in nome della differenza. Il pensiero della parità - storicamente, di origine maschile, poi astrattamente applicato al rapporto uomo-donna - non tiene conto della storia mia e di moltissime altre, e tende a cancellare lo statuto simbolico della madre, almeno a livello del senso comune della società. Non oltre: oltre, esiste una ricchezza di esperienze e di sapere femminili originali, ancora troppo ignorati. Non c'è mai - ha detto Gemma Beretta in una riunione della Libreria sull'ultima legge per la parità uomo-donna - un passaggio o un momento della parità: o c'è autorità maschile o c'è autorità femminile. C'è sempre lo squilibrio. Ritengo che questa sia l'idea centrale della presa di coscienza delle donne. Lo squilibrio è introdotto dall'affermarsi dei grandi desideri. Il desiderio, infatti, è sempre squilibrante. L:effetto di assestamento si

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ha quando si cerca di incanalarlo nelle politiche femminili, politiche che ripetono lo schema mutuato dalla sinistra: realizzare cose pensate da alcune che vadano bene per tutte. Il problema è come dire e affermare il desiderio che negativamente si presenta come desiderio di non vivere come gli uomini. Abbiamo detto che il mezzo è la mediazione femminile. Ciò significa, per me, che l'essere in relazione privilegiata con altre donne, è la prima e più grande opportunità. A me è successo di avere un pensiero autonomo - pensiero che ha inciso sulla mia esistenza e ha cambiato i termini della politica - solo quando ho avuto delle interlocutrici, e lo stesso è successo a molte altre, nella politica come in altri campi. C'è un'evidenza della mediazione femminile. Tuttavia, occorre specificare che non va bene la mediazione di qualsiasi donna. E che, nella relazione, mia è la libertà di stabilire e accettare le regole, misurandomi con la volontà dell'altra. Altrimenti può succedere, com'è successo, che donne dichiarino avvenuti patti che nessuna ha discusso o sottoscritto. O che coinvolgano tutte, mediante l'istituto legislativo, in una rappresentazione del sesso femminile sentita da molte come svalorizzante. Un esempio di ciò è la recente proposta di legge Turco-Gramaglia di premiare i partiti che fanno eleggere donne così da accrescere la percentuale, bassissima, delle donne in Parlamento. Le due parlamentari si dicono preoccupate, fra l'altro, dalla prospettiva di elezioni con una sola preferenza, un'innovazione che si prevede sfavorevole alle candidature femminili (come aveva sottolineato la deputata Laura Conti, che anche per questo si è astenuta dal i;eferendum che ha fatto passare la preferenza unica). Ma, invece di interrogare il fatto che da quarantacinque anni le donne vanno sì a votare (sebbene un po' meno degli uomini) ma non votano le donne, le due parlamentari hanno pensato bene di proporre un' «azione positiva» per le candidate ... discriminate dalle donne stesse. Non era più sensato ipotizzare che, nell'elettorato femminile, vi sia una qualche obiezione alla democrazia rappresentativa o, più specificamente, alla rappresentanza di sesso? Lo sproposito della proposta (che, a me pare, getta discredito e dubbi sulla stessa legge delle pari opportunità) non deve nasconderci la presa che ha il pensiero della parità. Di fronte al disagio e alla sofferenza di stare in questa società dove prevale ancora il simbolico maschile, presentarsi come coloro che chiedono nel Parlamento giustizia per le donne, può assicurare una lunga vita politica anche in assenza di mandato da parte delle interessate.

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Ma sarebbe una vita da poco. Fare politica stando allo schema della parità, mette fuori gioco i grandi desideri e costringe alla mediocrità, creando così uno svantaggio più grande di quelli che si voleva togliere di mezzo: una donna che sedesse in Parlamento, come in qualsiasi altro organismo politico, non per la volontà delle elettrici e degli elettori ma per via delle quote, sarebbe senza autorità, sarebbe politicamente depotenziata. Al contrario, io penso che, se la mediazione accoglie il pensiero di un inevitabile squilibrio tra donna e uomo, autentica mediazione diventa rinunciare provvisoriamente a sistemare e pareggiare le cose, per favorire invece il formarsi di autorità femminile. Questa rinuncia a pareggiare donne con uomini, non preclude il godimento e l'agio che le relazioni con altre donne possono darti, né la possibilità di ricevere forza e misura per il tuo desiderio. Contrasta, invece, la tentazione di regolamentare e imprigionare i desideri delle altre. Se la mediazione è ristretta, fa passare solo cose piccole. Viceversa, la grandezza della mediazione può fare grande la nostra politica, come le nostre vite.

LA LOTTA PER INTRODURRE LA LIBERTÀ DI AZIONE POLITICA NEL SINDACATO

Il doppio salto mortale Il Congresso della Cgil poneva alle sindacaliste che vogliono agire partendo da sé e attraverso le necessarie mediazioni con altre donne, un problema politico molto difficile: significare la differenza sessuale e, nel contempo, rifiutare i luoghi separati delle donne e le politiche femminili per le donne (coordinamenti, quote, programmi femminili, ecc.). La politica delle donne domanda un doppio salto mortale: da una parte, affermare i propri desideri insieme alle proprie simili; dall'altra, non confinarsi e non farsi confinare; così, per una sindacalista, il campo dell'agire politico è tutto il sindacato e tutto il mondo del lavoro. Altrimenti, ora in nome della differenza come prima in nome della parità, le donne si troveranno costrette nello stesso dilemma di sempre: se vogliono pensare il mondo, non potranno mostrare di avere un corpo di donna; se nominano il loro essere donne, cioè affermano la loro libertà, saranno obbligate a pensare metà del mondo (o un terzo, come nella Cgil). Certo, la costruzione di relazioni femminili è difficile, e ciò rende faticoso scontrarsi e contrattare con gli uomini. Si capisce, quindi, perché molte donne chiedano e sostengano i coordinamenti (o altri luoghi separati) come forme politiche riconosciute dall' organizzazione, nella speranza di essere così più forti e ottenere di più. Tuttavia, in questo modo, si lasciano confinare e di fatto negano la differenza, che è libertà di pensare il mondo a partire dal proprio corpo di donna.

Che fare Avendo già guadagnato queste idee, alcune sindacaliste del Gruppo del martedì di Brescia, della Cgil scuola di Milano, del Gruppo Metis di Pescara, della Fiom di Milano, della funzione pubblica di

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Roma, alcune bancarie di Milano, ecc., riunite a Brescia insieme a donne del movimento, pensarono di lottare perché nel nuovo statuto della Cgil non apparisse alcun riferimento a forme organizzative specifiche delle donne. A favore di questa decisione c'era il fatto che l'Assemblea nazionale delle delegate, convocata un anno prima, si era dichiarata contraria alla ricostituzione dei coordinamenti delle donne. Ma, nonostante questo fatto, la proposta di nuovo statuto formulata per il Congresso conteneva un articolo, il 15, che faceva del coordinamento l'unica forma organizzativa della Cgil per le donne. A questo punto diventò necessario intervenire per modificare l' art.15 con la presentazione, in ogni categoria e in ogni realtà territoriale, di emendamenti, spesso simili, che avevano al centro la libertà di azione politica delle donne nel sindacato. Le sindacaliste di Brescia, ad esempio, hanno proposto questa stesura dell' art.15 (ripresentata identica a Pescara): «Per l'affermarsi di una autonoma pratica della politica sindacale femminile in Cgil è condizione necessaria che le donne decidano liberamente le forme politiche da darsi»; quelle della Cgil scuola: «La Cgil prendendo atto dell'agire della libertà femminile riconosce le iniziative e le forme politiche che le donne autonomamente si danno e mette a disposizione le necessarie risorse» (approvato al Congresso nazionale di categoria).

Simbolico contro potere Più importante delle formule adottate fu l'intrecciarsi delle relazioni: questo, infatti, permise alla volontà femminile di prendere forza e forma. È un punto di cui voglio sottolineare l'importanza. A differenza di quando ci si muove per collettivi e gruppi, che ti costringono a prendere posizione rispetto a cose precostituite, la relazione duale ti mette in gioco interamente: non c'è niente di escluso rispetto a quello che una è e ha capito, o può capire. La relazione non è il contenuto, che pesa e rallenta; la relazione è movimento e apre nuove possibilità, più grandi. Costituisce, quindi, la leva di una politica dell'esistenza femminile, che è altra cosa da una politica di potere. È simbolico contro potere. Di solito, in politica, per raggiungere un obiettivo si cerca di prendere potere e, per avere potere, si fanno alleanze. In queste relazioni, invece, è la soggettività a essere centrale: «In ogni emendamento c'era

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la presenza della relazione, così che alla fine, a Rimini, c'era molto di più di quello che io avevo fatto, c'era forza comune da spendere» (Maria Marangelli, Fiom Milano); «Ho riconosciuto autorità a quelle di Brescia e ho seguito il loro punto di vista, anche se io appartenevo alla maggioranza» (Pina Fasciani, Camera del lavoro di Pescara); «Aver cambiato l'art. 15 è un guadagno aggiuntivo, mentre abbiamo guadagnato esistenza, presa di parola nella forma che vogliamo» (Giulia Ghilardini, Cgil scuola Milano). Così, le donne che proponevano emendamenti, pur non essendo molte, hanno coinvolto mezza Cgil. Ed è successo, al Congresso della Lombardia, che donne con posizioni diverse rispetto ai contenuti della politica sindacale, si siano trovate d'accordo per sostenere la libertà di forma politica, facendo approvare a maggioranza un emendamento che contiene un no secco ai coordinamenti, a qualsiasi forma definita a priori di come le donne debbano stare nel sindacato, e al principio di elettività. · Infine, si arrivò a Rimini, cioè al Congresso nazionale di tutta la Cgil. Pina Fasciani, che faceva parte della Commissione statuto, così racconta quello che lì è successo: «In virtù del lungo percorso di relazione dispari tra noi ho posto in commissione la necessità di convocare l'assemblea delle delegate, ostacolata da molte dirigenti nazionali, tutte prevalentemente appartenenti ai coordinamenti. Siamo riuscite a ottenere la convocazione dell'assemblea delle delegate dove si sono verificati degli spostamenti significativi di alcune. Questo ha funzionato e, infatti, la votazione dell'emendamento lombardo da noi scelto (che ha ottenuto il ventuno percento) ha indotto la mediazione sull' art.15. Oggi lo statuto della Cgil porta un piccolo segno della nostra pratica: in esso, nell' art.15, appunto, si legge che la Cgil favorisce tutte quelle forme che le donne decidono di darsi».

È un varco Riflettendo su questa vicenda congressuale, a me sembra che l' aver così a lungo combattuto per modificare l'art. 15 e inserire nello statuto la libertà di forme politiche, significhi molto precisamente che questo è il sindacato che una parte delle donne vuole. E che questa volontà non sia limitata a una parte del sindacato. Gli statuti, infatti, sono una misura della contrattazione di tutte le forzè in presenza: dal

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momento che il principio di libertà di azione politica è stato iscritto nello statuto della Cgil, è la forma stessa del sindacato che è cambiata. Adesso questo è un sindacato dove donne e uomini che vogliono agire autonomamente, non solo possono ma sono incoraggiati a farlo. Certo l' art.15 nella sua versione finale, risultata da un compromesso quasi impossibile, poco lascia vedere di quella intenzione di libertà (tant'è vero che quelle che avevano lottato per modificarlo, non vi si sono riconosciute). Ma apre un varco da cui possono passare quelli e quelle che vogliono cambiare la politica sindacale cambiando il modo di fare politica. Ed è due volte importante ricordare-raccontare come fu aperto.

SOPRA LA LEGGE

La collocazione rispetto alla legge, che questo numero di «Via Dogana» indica, ha origine dalla pratica dell'inconscio. Dal fatto, cioè, che alcune donne, all'inizio degli anni Settanta, nel prendere coscienza del loro desiderio di libertà, hanno interrogato con strumenti analitici la propria sessualità e la propria resistenza alla norma (e, beninteso, alla non norma, il che ha permesso la nostra sopravvivenza). Con questo lavoro politico abbiamo scoperto l'invadenza, in noi, della legge del padre e quanto ad essa sfuggiva rimanendo però muto. E di conseguenza, la necessità di un lavoro di parola e di scrittura, consapevoli che lì nel linguaggio si giocava la nostra esistenza. Le prime formulazioni politiche, sconcertanti per molte, sono state quelle che si possono così riassumere: «nessuna legge sui nostri corpi», «depenalizzazione dell'aborto», «querela di parte», «uso della Costituzione se una vuole la parità». In sostanza: creare vuoti legislativi invece che nuove leggi, prendersi tempo per produrre una misura femminile del mondo e da qui un diritto originario. Naturalmente ci sono stati ostacoli enormi perché è potente l'attrazione tra le donne di quegli universali che sono i concetti di libertà e uguaglianza elaborati dagli uomini. Se ci liberiamo di queste rappresentazioni, ci sembra di non avere niente in mano. Non è vero. Abbiamo sperimentato che sempre più i desideri femminili per affermarsi hanno bisogno di mettersi in relazione con quelli di altre donne, e che vi sono sempre più luoghi nei quali possiamo dare senso al nostro essere donne. Questa è per noi la modalità della libertà femminile. Se si è trovata la leva - la mediazione femminile - si può dire che la libertà femminile è venuta al mondo. Si afferma, quindi, come libertà relazionale non individuale. Affermando questo concetto, siamo in conflitto con l'idea, corrente oggi, di libertà come insieme di diritti in capo al singolo per difenderci nella società. Chi vuole una rivoluzione simbolica, al di là della realtà dell' emancipazione, evidentemente si colloca in posizione critica rispetto alle leggi che via via il Parlamento sforna per incorporare la sessualità e rispondere al presunto desiderio delle donne di essere uguali agli UOmllll.

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Prima parte

Antoinette Fouque, del gruppo francese «Politique et psychanalyse», la prima donna che ha parlato di differenza e della necessità di un ordine simbolico nuovo, riassume bene la nostra posizione rispetto alle leggi quando afferma: «Quello che noi vogliamo, noi, e quello che abbiamo attuato, è stato di trasformare la nostra condizione di. escluse-internate in questo mondo, non in emancipazione (incluseinternate), ma, per effetto del gran balzo al di fuori, in indipendenza». lo credo che molte donne dei partiti e anche qualche femminista conducano le battaglie legislative perché, per abitudine acquisita dalla politica tradizionale, soprattutto di sinistra, pensano che il movimento delle donne sia un movimento sociale e, quindi, unificabile da obiettivi comuni. Al contrario, io penso che si tratti di un movimento squisitamente politico, formato dalla presa di coscienza di molte donne ma non di tutte, che ha come pratica quella di porre continuamente domande a se stesso e alla sua pratica, e in questo interrogarsi consiste la sua politica. In quanto tale, il movimento delle donne esprime compiutamente il suo significato e la sua volontà, e non ha bisogno di rappresentazione di sé in altro luogo. Un movimento, per di più, senza un centro, che anzi ha resistito ad ogni tentativo accentrante. Chi, quale gruppo, quindi, può rappresentarlo e legiferare in suo nome? La rivoluzione simbolica ha disegnato un crinale. Qui, nel movimento delle donne, c'è presa di coscienza, presa di parola, capacità personale di agire (indispensabile in ogni contrattazione nel lavoro), sovversione quotidiana nella famiglia, sottrazione del corpo al mercato patriarcale e capitalistico. Là, troviamo leggi emancipazioniste e progressiste, e tutta una «questione femminile» per l'insieme dei poteri. Una può scegliere dove stare e riconoscersi; l'unica cosa che fa disordine simbolico, è stare qui e là. Il sopra la legge è il luogo dell'esistenza simbolica, il luogo dell' autorità che io oggi riconosco ad altre donne e mi riconosco. E questo è per me il balzo al di fuori di cui parla Antoinette, balzo che ci dà tutta la libertà necessaria. Il vagheggiamento di un ordine sociale in tutto rispondente alle esigenze femminili, dal quale far dipendere la libertà di una donna, era un differire la presa di coscienza e la relazione significativa con un'altra. Nel momento in cui c'è autorità femminile, c'è tutto l'ordine simbolico necessario perché le donne possano diventare libere nei rapporti con le altre, con gli uomini e con l'intera società.

DOPO L'ACCORDO SUL COSTO DEL LAVORO: QUALE PRATICA?

C'è una politica della rappresentanza e c'è una politica della contrattazione. Fra loro non si escludono. Non possono escludersi, se non altro perché la contrattazione, nella politica come in tutte le relazioni umane, viene prima, a un livello più elementare. Però adesso c'è come una tendenza, da parte della politica-rappresentanza, a mettere in ombra la contrattazione, e perfino a eliminarla. Questa rivalità fra rappresentanza e contrattazione è familiare al movimento delle donne. Molte e molti vollero interpretarla come una richiesta di rappresentanza. Dal primo momento, pensiamo agli scritti polemici di Carla Lonzi, si è dovuto combattere contro questa interpretazione che copriva la caratteristica originale del movimento, nato da una presa di coscienza e dal cambiamento dei rapporti tra donne. Nella politica la contrattazione ha un valore insostituibile. Le viene dalla sua conformità con il linguaggio. Parlare è una forma di contrat~ tazione, la più elementare. La lingua non è una creazione individuale, ma nasce dallo scambio fra parlanti, e non diventa mai dominio esclusivo di qualcuno, ma resta sempre, per restare viva, comune. Per me, una politica senza contrattazione è una politica finta che copre appena i rapporti di potere, e che esclude di fatto tutti quelli e quelle che non sanno (o non vogliono) parlare per finta. Perciò ho trovato terribile quello che è successo il 31 luglio scorso. Lho visto come un tentativo di sottrarre competenza simbolica a quelli, donne e uomini, che per vivere devono mettersi sul mercato del lavoro. Il 31 luglio scorso i tre segretari delle maggiori organizzazioni sindacali hanno firmato un accordo con il governo per contenere il costo del lavoro. Due le misure prese: la soppressione della scala mobile (che tutelava le buste paga dall'inflazione) e il blocco della contrattazione articolata, che dava la possibilità, ai lavoratori e lavoratrici di una determinata azienda, di ottenere un salario superiore a quello stabilito dal contratto collettivo, se favoriti dai rapporti di forza e dalla loro capacità di lotta.

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raccordo ha suscitato molte critiche e, per fortuna, anche molta sorpresa. Tutti, compresi quelli che lo considerano necessario, lo hanno giudicato ingiusto. Se l'inflazione è un problema d'interesse generale, perché le misure colpiscono soltanto il lavoro dipendente? La risposta, purtroppo, è facile: perché era più facile colpire in quella direzione. Dunque, un accordo oltre che ingiusto, vile. Stipulato, non a caso, nel momento in cui fabbriche e uffici chiudevano per le ferie annuali, così da evitare una pronta risposta collettiva da parte delle persone più colpite e più ingiustamente colpite. I loro rappresentanti, però, lo hanno firmato. Da qui la sorpresa, più grande delle critiche. Negli stadi, a questo punto, il pubblico griderebbe «arbitro venduto». Ma è difficile o, forse, impossibile gridarlo quando si tratta non di un arbitro ma del tuo rappresentante e quando l'avere rappresentanza equivale a avere parola, come sempre più tende ad essere. E come anche questo accordo, io dico, tende a fare che sia, nella maniera più esplicita. Mi riferisco al blocco della contrattazione libera, che è un fatto insieme economico e simbolico. La contrattazione, infatti, è la pratica politica che dà esistenza simbolica a chi, per vivere, dipende dal mercato del lavoro. C'è la possibilità di organizzarsi in sindacato o in partito, è vero. Ma l'organizzazione viene sentita ormai come una forma scissa dalle persone in carne e ossa. La contrattazione è anche l'unica politica delle donne nel mondo del lavoro. Voglio dire che è l'unica pratica che, nei rapporti di lavoro, può far valere il di più che le donne sono, pensano e vogliono per sé e per gli altri. E si capisce perché, considerando che l'essere in relazione è la nostra originale forma politica. Nell'organizzazione, invece, la presenza femminile tende a diventare una questione di quote e di posti, subordinata alla logica del potere. Ho parlato di un fatto insieme simbolico ed economico. Nell'informatica si parla di interfaccia tra uomo e macchina. Ecco, la contrattazione realizza l'interfaccia tra economico e simbolico, fra soldi e parole: le due cose si toccano senza confondersi. E lo stesso può dirsi dell'intera faccenda in discussione. Così, il segretario della Cgil (non parliamo degli altri due, troppo filogovernativi) non è in nessun modo un venduto. Però ha firmato. Non solo ha firmato contro gli interessi che rappresenta. Ha firmato anche contro gli impegni da lui stesso presi nell'ultimo congresso, che erano di difendere la contrattazione come, un diritto di cui possono

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disporre solo le persone che la"._orano. Dopo la firma, come ~i sa, egli ha dato le dimissioni. Ma dopo. E stato ricattato con la doppia minaccia della crisi di governo e della rottura dell'unità sindacale, è la spiegazione data da alcuni. È lui che ci ha ricattati e continua a ricattarci, hanno replicato altri, della base. Nella sua lettera di dimissioni, il segretario della Cgil ha scritto: non c'erano le condizioni per un accordo più favorevole ai lavoratori dipendenti. Nell'intervista con cui poi ha cercato di chiarire il suo agire, ha detto: ho firmato per senso di responsabilità verso il paese. Sono spiegazioni fra loro molto diverse ma non contraddittorie. Là dove la forza, insieme vincolante e liberante, della contrattazione non si è imposta, è subentrato un senso esorbitante della propria responsabilità. Il capo del sindacato ha parlato come se fosse il capo del governo. Forse vuole diventarlo ma non lo è ancora. (E se mai lo diventerà, ci sarà da temere, perché egli è uno che preferisce immaginarsi i suoi impegni invece di stare a quelli effettivamente presi.) Tuttavia, il problema non è questo o quell'uomo, questa o quella donna, ma il tipo di rapporti che la politica degli uomini tende a far trionfare, troppo sbilanciati nel senso dell'organizzazione, della rappresentanza, del far capo a pochi. Se questa politica resterà l'unica, non ci sarà più neanche un paese verso cui sentirsi responsabili. Annullato il rapporto contrattuale con altri, perduto il senso della sua necessità, infatti, il paese diventa una fantasia piegabile alla logica del più forte e del dominio. A queste considerazioni, rivolte più agli uomini che alle donne, devo aggiungerne altre che ci riguardano (e mi pesano) di più. Io non faccio parte di sindacati né di partiti. Quello che ho scritto sopra, lo so per il legame che ho con donne che ne fanno parte. Con loro, in questi ultimi anni e perfino mesi, ho analizzato fatti, ho discusso idee, ho indagato dentro e fuori me stessa, aiutandole a fare lo stesso per quello che le riguarda. Queste donne, non meno di me, sanno il valore della pratica della contrattazione e come questa si leghi alla politica della libertà femminile. Ebbene, subito dopo il 31 luglio, nella fase più drammatica del dibattito, io mi aspettavo che esse intervenissero per spiegare quello che ho cercato di dire qui. Che lo spiegassero loro con la maggiore forza e precisione che viene loro dal contesto in cui, diversamente da me, sono inserite, per scelta o per necessità. Questo però non è capitato. Nessuna di loro ha voluto misurarsi con una contingenza storica che non sono la sola a giudicare difficile e importante, specialmente per la politica delle donne nel lavoro. A me

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pareva che dovessero farlo, per il sapere femminile sulla contrattazione da loro posseduto e perché il divieto della contrattazione polverizza lo strumento da esse scelto per agire la differenza. Il loro silenzio non è imputabile a un'estraneità femminile. Qui si dovrebbe, semmai, parlare di un'estraneità maschile, nel senso che ho detto: più facilmente della donna, l'uomo può immaginarsi di poter trascendere la relazione. Si tratta di un'altra cosa. E cioè che il sapere femminile della contrattazione manca di radici. In questo siamo simili al segretario della Cgil: neanche noi conosciamo effettivamente la fecondità di avere un vincolo e di saperci fare i conti. Manca di radici, secondo me, per la scarsità delle relazioni contrattuali fin qui realizzate fra donne. Non ci mancano relazioni fervide e strettissime quando sono in gioco progetti che riguardano luoghi, riviste, iniziative fra donne che si sono scelte. O quando sentiamo il bisogno dell'alimento simbolico di un sapere femminile. Ma allorché la scena cambia ed è in gioco l'agire nella politica mista, allora queste relazioni passano in secondo piano: diventano gratuite, oppure si restringono al contesto particolare di una città, di una categoria, di un partito. In ogni caso, riprendono il sopravvento geografie non disegnate dalla politica autonoma delle donne. Ciò ha diverse conseguenze. In primo luogo, ci ritroviamo consegnate al separatismo per cui ci sono come due scene, quella delle donne e quella della politica. Da qui viene la troppo facile emarginazione di ogni contributo femminile. Ma, soprattutto, appare chiaro che le relazioni fra donne non sono vincolanti per le stesse che le nominano, per cui non producono, non possono produrre autorità femminile. Né danno, quindi, la forza di testa e di volontà per intervenire in un dibattito come questo, che vede coinvolti i massimi poteri del sindacato e dello Stato. A pensarci bene, la mancanza di autorità non è una conseguenza, bensì l'origine del silenzio e della debolezza femminile: il contributo è debole o assente perché non ci si è misurate veramente con niente. In questi ultimi anni, ho seguito il congresso della Cgil e i due congressi del Pci-Pds, in stretta relazione con alcune donne lì attive in prima persona. L:ho fatto perché sono convinta che quei congressi facevano parte della politica delle donne. Ho sempre pensato che il mondo è uno, e ho sempre ragionato e agito perché le donne vi possano vivere da signore, come in casa propria. Nel caso di quei congressi, non era più questione, come tante volte in passato, di lottare contro

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la cancellazione o l'emarginazione. Non è più questa la questione. La politica delle donne si trova al centro. Si tratta che ne prendiamo coscienza e che sappiamo starci. Se ciò non avviene - e non può avvenire, lo vedo, se ci viene a mancare la forza delle relazioni - io ho una smentita delle mie pretese personali e tutte ne abbiamo un rimando di miseria. Forse a suo tempo non fui chiara nel dire quali erano le mie pretese e le mie condizioni. Adesso l'ho fatto.

IL COMUNISMO A PORTATA DI MANO

Si riparla di comunismo nel momento in cui finisce il comunismoStato ed entra in crisi il comunismo-partito. Possiamo parlarne, perché non incombe più il progetto o i progetti «per cambiare la realtà» depositati nelle organizzazioni partitiche: tutti strumenti estranei e confliggenti con la nostra pratica politica. Inizia una ricerca che coinvolge, in prima persona, quelle di noi che pensano la differenza femminile come irriducibile al sistema del profitto e del mercato, oppure quelle che sono «sentitamente» (cioè lo sentono) legate alle vicende del mondo operaio. Non possono quindi essere fatte generalizzazioni del tipo: il movimento delle donne è anticapitalistico, è di sinistra, ecc., perché non è vero. Né, tanto meno, si può dire che per essere comunista bisogna praticare la differenza o, viceversa, che la pratica politica delle donne è comunista. resistenza simbolica delle donne è la sola questione in gioco per tutte.' Rispetto a questa questione, movimento delle donne e femminismo sono parole riduttive, perché alludono a ideologie e a spazi politici comuni. Sarebbe meglio abbandonarle e nominare invece ogni singola pratica e scelta politica che le donne fanno. Ad alcune di noi - tra le quali noi due che curiamo questo numero di «Via Dogana» - la pratica della differenza ha dato un punto di vista e un metodo originale per iniziare a parlare di una questione che ci sta a cuore, e la consapevolezza che di comunismo si potrà parlare se comincia ad esserci nelle relazioni che si stabiliscono. La ricerca dunque inizia nell'unico modo possibile per noi: da quello che abbiamo a portata di mano, cioè dalla possibilità di modificare il nostro rapporto con la realtà. È un interrogarsi principalmente tra donne ma anche con alcuni uomini che !\anno dato segno di riconoscere autorità femminile nel mondo. Così, all'incontro della redazione allargata per preparare il numero, incontro che abbiamo fatto a Roma, hanno partecipato dodici donne e tre uomini. Diamo qui il riassunto degli interventi, privilegiando quelli non sviluppati nei testi che formano questo numero di «Via Dogana».

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Prima parte

La riunione è partita dalla domanda minimale «che cosa non vogliamo lasciar perdere del comunismo?» e, naturalmente, dal suo rovescio: «che cosa vorremmo non tornasse più del comunismo?» Non è tanto importante la parola, sottolineano molte, quanto la pratica. Anche perché, aggiungono altri, non si può dimenticare che la parola è «maledetta», «pesa come una pietra». Può sembrare strano - dice una - ma, del comunismo, io considero centrale l'idea di libertà. Quella marxista è un'idea relazionale di libertà e, come tale, risulta più vicina all'esperienza della libertà femminile, che è stata ed è, innanzitutto, mediazione e relazione con l'altra, così come risulta più vicina a ciò che succede di fatto agli esseri umani. Limpostazione borghese, invece, identifica la libertà con l'acquisizione di diritti: prima oppone individuo e società, poi mette in capo all'individuo tutta una serie di diritti che dovrebbero difenderlo dalla società. Ma che cos'è questo individuo? Dov'è questa società unica? Ciascuna, ciascuno è in relazione con più società. lo, per esempio, partecipo di una società femminile, ma di fatto sono anche in relazione con le donne e gli uomini che producono gli oggetti a me indispensabili per vivere. È questo che mi porta a non ritenere ordinata una rappresentazione della società nella quale persone necessarie alla sopravvivenza mia e di tutti sono considerate merce e sono così private di esistenza simbolica. Il massimo che viene proposto nei loro confronti, per esempio dalla sinistra, è un sentimento a me lontano come la solidarietà. lo invece desidero indagare, nominare il mio rapporto con la società operaia a partire dalla necessità che ad essa mi lega. Così come desidero tenere presenti le più società con cui sono in relazione. Non voglio rinunciare - interviene un'altra - all'idea di avere nelle mie mani la produzione del valore mio, di altre e di altri. E non vi rinuncio: sperimento ogni giorno, infatti, come sia possibile, attraverso la pratica della disparità, produrre un valore femminile che non dipende dalla razionalità del mercato. O - dice una sindacalista - non voglio che torni più l'idea che siamo tutti uguali, dalla quale, poi, deriva quella che dobbiamo essere tutti d'accordo. Per noi, nominare e praticare la disparità che c'è, ha significato aprire la porta alla parola e alla libertà. I..:aspirazione all'uguaglianza, al contrario, ha ingabbiato il desiderio di libertà. Ma che cosa c'entra tutto questo - chiede una - con il comunismo, parola il cui significato è stato decretato dalla storia? C'è in questa parola, come anche nella pratica «pre-mercato» che alcune de-

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scrivono come loro necessaria, un'arcaicità di rapporti che non mi corrisponde. Arcaicità - è la risposta - può darsi. Ma non mi disturba: ho sperimentato che nel definirsi comuniste c'è anche la volontà di rimanere incollate al sapere che si apprende proprio nell'esperienza primaria di rapporto con la madre, in quell'innocenza che consiste nel sentire che il mondo è corrispondente alla propria misura. Sul termine «comunismo» - interviene una terza - è aperta, non da oggi, una guerra semantica il cui campo non voglio abbandonare perché allude alla possibilità di rapporti sottratti al dominio del mercato. Gli uomini - ha detto uno dei partecipanti alla riunione - ragionano entro lo schema: o c'è la rappresentanza o c'è la tirannide, salvo poi trovarsi a fare i conti con il fatto che il corpo dei rappresentanti tende sempre a burocratizzarsi, a perdere il contatto con quello dei rappresentati. Perciò mi interessa la pratica delle donne, l'unica, a quanto mi risulta, che è stata capace di fare politica senza avvalersi della rappresentanza e riducendo al minimo la lotta per il potere . .Cunica, mi pare, capace di portare nuova linfa e nuovo senso al termine comunismo che io non mi sento di abbandonare, perché allude alla possibilità di estinzione dello Stato. Questi riconoscimenti - gli viene obiettato - non impediscono che molti di voi ritengano irrinunciabile la rappresentanza. Infatti - interviene un altro - se la differenza sessuale maschile vuole riacquistare senso politico, non può non interrogarsi sulla necessità che noi maschi abbiamo di separare la politica dalla vita e, di conseguenza, sul nostro rapporto con il potere. Molte donne, ormai, fanno politica senza per questo ricorrere alla rappresentanza. Senza separare, cioè, la politica dalla vita. Senza fare della politica un mestiere. Per questo, ora che il comunismo si è liberato dalle forme partitiche, ora che a tema torna ad essere la pratica concreta che ciascuna, ciascuno ha esperito del comunismo, le donne si trovano in una condizione di vantaggio. Alcuni cominciano a riconoscerlo. Eppure, anche lì nella nostra riunione, torna la domanda: «ma in una società dove non c'è rappresentanza, chi decide, ad esempio, sul tasso di sconto?», domanda emblematica di una politica imprigionata nella ricerca del potere che non hai. Domanda senza senso per molte, perché non ha senso affrontare cose totalmente indipendenti da noi e perché è essenziale non tanto chiedersi che cosa succederà in un futuro più o meno lontano, quanto capire, ora, come posso muovermi nella realtà in cui mi trovo ad agire. Essenziale, dice una, è l'arte di trarre vantaggio dalla realtà. Quello che abbiamo a por-

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tata di mano è la modificazione del nostro rapporto con la realtà, chiarisce un'altra, aggiungendo che non vuole più, del comunismo, l'idea che si debbano aggregare forze intorno a un progetto di cambiamento della società. Quell'idea - osserva un'altra ancora - è una delle cause principali della scissione tra fini e mezzi, presente nella tradizione comunista e di sinistra: se il fine è rimandato nel tempo, allora il mezzo, cioè la cosa presente, perde ogni relazione con esso e diventa una cosa qualsiasi, di solito una cosa scadente. Per noi, al contrario, l'obiettivo che curiamo è la pratica, cioè l'agire presente.

FANTASMI PER LO STATO, FIGLI PER LEI

I giornali raccontano il fatto di due giovani persone, maschio e femmina, mai denunciate all'anagrafe: «Fratelli-fantasma a Roma. Per lo Stato non sono nati: lui ha 18 anni, lei 22 ma Simone e Barbara nòn sono mai andati a scuola e all'anagrafe sono ignoti, la storia scoperta per caso da una pattuglia dell'Arma» («LUnità» 3/2/93); «I ragazzi fantasma del San Lorenzo. Nascita mai denunciata, la madre temeva che le fossero tolti» («Il Corriere della Sera» 3/2/93). Il fatto faceva pensare alle solite situazioni di miseria e ignoranza. Ma quando la madre, Marina Schiavoni, racconta come sia riuscita ad allevare e educare i figli fuori dalla legge, senza l'aiuto del marito quasi sempre in prigione, nelle sue parole io ho riconosciuto quella competenza e responsabilità delle donne in materia di figli, che pretenderei di veder riconosciuta dai tribunali nelle cause di affidamento dei figli a l'uno o l'altro genitore. Marina Schiavoni racconta: «Sicuramente me li avrebbero tolti. lo faccio dei lavori saltuari, pulisco le scale, tengo i bambini di altri. Non ho fatto mancare nulla ai miei figli. Sanno leggere e scrivere perché hanno preso lezioni private. Quando si ammalavano, ho trovato dei sotterfugi per farli curare come si deve. Insomma, hanno fatto una vita normale». I giornalisti abbandonano subito il caso, forse perché non ne risultava una storia di miseria femminile. E perché non colgono il suo senso vero. Lei dice: non li ho fatti registrare all'anagrafe perché me li avrebbero tolti. Non sarebbe mai successo, commenta la polizia, e i giornalisti pure. I giornali e la polizia sbagliano: molto probabilmente il Tribunale dei minori avrebbe agito come lei temeva. E un Tribunale speciale, costituito durante il periodo fascista, che agisce «nell'interesse del minore» senza il contraddittorio delle parti. Questo vuol dire che quanto sostengono i genitori, madre o padre che sia, attraverso i loro avvocati, non conta nulla. L «interesse del minore», naturalmente, è quello che si immaginano i giudici, gli psicologi e le assistenti sociali accreditati presso il Tribunale. Una madre povera, senza marito, è

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condannata in partenza. Davanti a quel Tribunale è difficilissimo ai poveri (alle povere), agli irregolari (alle irregolari), al genitore solo, far valere il proprio affetto per i figli e dimostrare di essere in condizioni di allevarli e educarli. L affetto, per valere, dev'essere ben presentato e infiocchettato: sicuramente, le migliori condizioni materiali offerte da una famiglia benestante sarebbero state determinanti per togliere i bambini a una donna povera e sola come Marina Schiavoni. Parlo con cognizione di causa. Bisogna sapere che l'istruttoria condotta dal Tribunale dei minori per arrivare a una decisione, è praticamente segreta. Se io fossi stata l'avvocata di quella madre, non avrei potuto intervenire sulle relazioni degli psicologi e delle assistenti sociali, perché non avrei potuto neanche leggerle se non alla fine, al momento della sentenza. Lazione delle avvocate e degli avvocati in questo tipo di tribunale, è limitata al minimo, in quanto noi rappresentiamo un interesse di parte, mentre sopra tutto dovrebbe stare l'interesse del minore, ma incarnato (o, forse, disincarnato) dal Tribunale stesso. È negata così la funzione del processo civile, che è quella di trarre giustizia dalle argomentazioni e prove portate dalle parti in conflitto. Insieme ad altre giuriste, ho pensato di usare il processo come strumento di produzione di diritto femminile. Nel processo, infatti, le donne (avvocate, utenti, magistrate) prendono attivamente parte alla mediazione che lì si compie. Ed esse, lì, possono affermare competenze e saperi che si pongono in conflitto con quelli più correnti e convenzionali. Ma nel Tribunale dei minori, per la ragione che ho spiegato, questa pratica del processo non è stata finora possibile. Con il risultato che nel Tribunale dei minori il desiderio delle madri nei confronti dei figli non ha parola e la mediazione dell'avvocata non può operare. Credo che non vi sia altra soluzione che abolirlo.

APPASSIONATE DI POLITICA, ESITANTI AD AGIRE NELLA VITA PUBBLICA

C'è un'opportunità grande di fronte alle donne: sta perdendo senso una politica che abbiamo radicalmente criticato. Ma c'è anche, da parte loro, un'esitazione ad apparire-agire nella vita pubblica. A Brescia, in un incontro organizzato dall'Università delle donne «Simone de Beauvoir», il 27-28 febbraio, ho interrogato e discusso insieme ad altre donne - dell'Università, della Libreria di Milano, di Diotima, sindacaliste lombarde, ecc. - questa esitazione, questa difficoltà a trovare corrispondenza tra il nostro desiderio, il bisogno di scambio e la nostra capacità di realizzarlo. Ragionare sulla nostra esitazione - è stato detto da Delfina Lusiardi e Oriella Savoldi - è un modo di capire dove si è, ascoltare un po' di più la passione per la politica che indubbiamente esiste. Ma che in questo periodo fa fatica a esprimersi, perché c'è una contrazione della possibilità di scambio anche tra donne. A me pare, tuttavia, dato che non mi sembra di verificare un difetto di determinazione nella realizzazione del mio desiderio, che la difficoltà stia nel fatto che non voglio tradurre la pratica della differenza nel linguaggio del politico dato, cioè del potere. Perciò mi sto interrogando sul come agire nella vita pubblica. Quello che intendo (ed escludo) con semplice «tradurre» è esemplificato dalla parabola politica delle. donne del Pci-Pds. Queste donne hanno riconosciuto che la politica della differenza produce forza e valore femminile (vedi la Carta, Dalle donne la forza delle donne) e sembrava che volessero tentare una mediazione, certo difficile, tra questa politica e quella del loro partito. Ma l'uso del linguaggio della politica maschile e, forse, l'aver considerato la differenza come contenuto da rivendicare e non come pratica da fare propria, le ha portate in pochi anni a una politica di lobby femminile (esplicitata da loro come tale): richiesta di posti, quote, solidarietà all'interno del ceto politico.

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Così molte donne della sinistra hanno pensato (e continuano a pensare) che la differenza possa essere un contenuto delle Commissioni di pari opportunità; che la differenza possa essere un contenuto della rappresentanza parlamentare; che la differenza possa specificare la politica del partito e del sindacato (dopo che questa è già stata decisa: vedi referendum sulla preferenza unica, vedi la riforma maggioritaria), significando solo in seconda battuta gli interessi delle donne. Questa debolezza, che ormai è evidente, secondo me era a monte, nella pretesa di spostare e rappresentare, nell'ambito del politico dato, una rivoluzione simbolica di donne che ha in sé un'altra concezione della politica non assimilabile a quella tradizionale. lo non nego che esista un desiderio - rivendicato specialmente dalle donne di sinistra - di fare politica in favore delle altre più che per sé. Nego però che questo desiderio debba tradursi in una politica di assimilazione della differenza femminile al simbolico maschile. Non è una buona mediazione, ad esempio, rivendicare per sé il simbolico femminile e, per le altre, le «meno favorite», l'emancipazione. Né lo è teorizzare «l'emancipazione diffidente» che fa della differenza l'orizzonte e dell'emancipazione la strada, strada che, però, porta in tutt'altra direzione. C'è un'efficacia dell'agire a livello del simbolico che anche noi, che pure la sosteniamo, stentiamo ad apprezzare. La distinzione fra autorità e potere nasce dalla percezione di questa efficacia dell'agire simbolico. Ma su questo punto c'è una contraddizione che bisogna avere presente, e che nell'incontro di Brescia è venuta in luce. Distinguere tra autorità e potere, per una donna, è relativamente facile, forse perché una donna non affida al possesso del potere niente di veramente essenziale per sé. La distinzione fra «simbolica» e «politica», suggerita da Adriana Cavarero, esprime questa facilità femminile. Che tale non è per il sesso maschile, la cui storia mostra che, nel possesso del potere, gli uomini mettono quasi tutto l'essenziale di sé. A Brescia Chiara Zamboni, facendo l'esempio di Diotima, ha detto che Diotima ha cambiato l'Università di Verona non cambiando le strutture attraverso leggi ma cambiandola simbolicamente (le ragazze che la frequentano sentono per sé una ricchezza femminile che prima non c'era). Tuttavia Chiara ha sottolineato che il suo lavoro di significazione di tale ricchezza è contemporaneamente risignificato da persone e strutture dell'università con il nome, bello e pronto, di «sperimentazione didattica», nome che non esprime anzi tende a cancellare quello che lì effettivamente si compie.

La politica è la politica delle donne

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Lo stesso conflitto simbolico sottolinea Oriella Savoldi quando dice: io prendo una posizione e al massimo mi qualificano come sinistra sindacale anche se ho una pratica politica differente. lo sono d'accordo con loro che questa significazione e risignificazione è un conflitto simbolico da cui non ci si può mai sottrarre, ed è anzi il lavoro politico che facciamo, o dovremmo fare, senza far conto che siano le leggi e le regole a parlare per noi. Ma, chiarita la questione del conflitto simbolico, Chiara ha chiesto: come facciamo i conti con la struttura del potere? come collocarci nell'università (~ nel sindacato)? Qui, in questa scansione fra conflitto simbolico-rapporti con il potere, traspare la contraddizione che dicevo. A me sembra che bisogna evitare la separazione fra autorità e potere, separazione che si tende troppo facilmente a fare da parte femminile, come quella fra «simbolica» e «politica» (A. Cavarero) o quella per cui si interroga la questione del potere indipendentemente dalla ricerca di autorità. La ricerca di autorità, da parte nostra, è un attacco diretto al sistema di potere maschile, che noi lo vogliamo o no. E viceversa, ogni scontro con il potere, anche il più burocratico e ovvio, pone in questione l'autorità femminile, e come tale va affrontato. La pratica che crea autorità simbolica di donne è creatrice, al tempo stesso, di nuova realtà sociale, o non è. E dà gli strumenti per la critica del sistema di potere. O non è. Al Centro Virginia Woolf-B, durante un incontro sul tema della passione politica (Roma, 12 febbraio), Luisa Boccia ha osservato lucidamente come la sua esperienza di dirigente dell'area comunista del Pds si sia conclusa con la sensazione di perdita di autorità, invece che con il sovvertimento del modo di far politica delle donne e degli uomini lì presenti. Forse perché la distinzione necessaria tra autorità e potere diventa facilmente separazione. E noi creiamo un primo livello di autorità femminile tra donne e un secondo (e secondario) livello nel quale ci confrontiamo con il potere maschile, fiduciose che nella nostra parola risuoni tutto il sapere attualmente accumulato dalle donne. Se siamo d'accordo che la forza dell'autorità femminile si misura nel mondo (e, quand'è il caso, nel confronto con il modo maschile di fare mondo), io concludo che non bisogna aprire conflitti di potere con gli uomini, perché il potere rientra nella loro maniera di intendere il rapporto con la vita, ma cercare invece una misura femminile, e cercarla in ogni occasione, anche nella più ordinaria gestione di strutture, organismi e aggregazioni.

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Lo so che può risultare faticoso prestare attenzione alla propria collocazione o a quella di altre, e al proprio desiderio, quando magari si tratta di decidere un qualche problema burocratico o di agire in situazioni che sembrano precostituite, ma anche lì si gioca qualcosa di essenziale di una politica della differenza e della libertà femminile. Non ci sono due scene né due tappe (tipo: autorità-potere; luoghi delle donne-luoghi misti). Non c'è, nel simbolico, un luogo in cui ritrarsi. Non c'è, almeno per chi ha passione politica, perché in questo sta la passione politica.

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Lintento di «Via Dogana» nuova serie - affermare la centralità politica della differenza femminile - trova conferma, oltre che nei cambiamenti reali, nella attuale tendenza delle agenzie internazionali a fare leva sulle donne per i progetti riformatori. Ma si scontra con l'inerzia o con la resistenza della politica vecchia maniera, non escluso, in parte, lo stesso femminismo. La sinistra, specialmente, non si distacca dal suo schema di un sesso femminile oppresso e sfruttato, con un'enfasi che rivela un misto di incapacità e di non voglia di registrare le tendenze della realtà che cambia. Da qui, l'importanza dello scambio con quegli uomini, tanti o pochi, al momento sembrano pochi, il cui desiderio di politica e d'amore non si sente minacciato dall'esistenza di donne autonome. Questo scambio L.C. lo ha sempre mantenuto intorno ai grandi temi della politica; negli anni Novanta è diventato fatto pubblico e impegno esplicito. Lia Cigarini e Luisa Muraro, Politica e pratica politica, «Critica marxista» n. 3-4, maggio-agosto 1992 Libertà femminile e norma, «Democrazia e diritto» n. 2, aprile-giugno 1993 Pensiero della differenza e critica della politica, «Critica marxista» n. 2-3, marzo-giugno 1994 Differenza, le porte strette che si aprono, intervista di Ida Dominijanni a Lia Cigarini e Luisa Muraro, «il manifesto», 1 maggio 1994 Meteore?, «Via Dogana» n.s., n. 17-18, luglio-ottobre 1994

POLITICA E PRATICA POLITICA

La pratica dell'organizzazione Ci sorprende, ogni volta, constatare come sia difficile farci capire sulla pratica politica - non solo la sua importanza ma perfino la semplice nozione - anche da donne e uomini comunisti. Ci sorprende. perché la tradizione marxista ha sempre messo l'accento sulla pratica. Basti pensare a Gramsci, che parlava di filosofia della prassi per indicare il pensiero stesso dei comunisti. Vero è che fra la cultura di sinistra e la cultura del movimento delle donne la comunicazione è resa difficile da una notevole distanza di linguaggi e di posizioni. Distanza che, secondo noi, è dovuta proprio alla differenza delle pratiche. Vediamo dunque di misurare questa distanza alla luce delle diverse pratiche politiche. Ci sembra che la pratica dominante nella sinistra sia (stata) l' organizzazione. A ciò corrisponde il fatto che la sinistra sia piena di organizzazioni. È organizzato il partito, sono organizzati i movimenti, è stata organizzata la stessa condizione umana (donne, giovani), per non parlare degli operai, dei contadini, ecc. Oggi, è risaputo, questa pratica politica versa in una grave crisi, che fa tutt'uno, si può dire e si capisce perché, con la crisi della sinistra. Le organizzazioni sono scollate dalla realtà; non esercitano alcuna attrazione sulle persone più giovani e forse in generale. In effetti sembra esserci un diffuso rigetto di questa pratica sociale (sebbene non si possa dire che si tratti di un fenomeno irreversibile: non è questo il punto). Il movimento delle donne, per parte sua, non ha organizzazione e non ha un centro coordinatore. Anzi, esso è positivamente contrario a ogni forma di organizzazione, compresa quella del semplice coordinamento. E questo fin dalle origini. Ci sono, ogni tanto, tentativi di innovare su questo punto, ma sono sempre falliti e non hanno neanche mai attecchito seriamente.

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Le pratiche delle donne Al posto dell'organizzazione abbiamo un certo numero di pratiche che molte riconoscono valide, che vengono trasmesse da una situazione all'altra e che vengono riprese anche dalle donne più giovani o da donne che non si considerano femministe. In questo senso, soltanto, si può riconoscere un tessuto unitario. La politica delle donne è come un insieme di pratiche, insieme che ha una parte più stabile e riconoscibile, e che può tuttavia variare e di fatto varia. Per importanza e riconoscibilità, viene al primo posto la pratica del partire da sé. Significa che la parola si usa, e la politica si fa, non per rappresentare le cose, né per cambiarle, ma per stabilire o per manifestare o per cambiare un rapporto tra sé e l'altro da sé. O anche tra sé e sé, nella misura in cui l'alterità attraversa anche l'essere umano nella sua singolarità. In altre parole, la pratica del partire da sé presuppone che ogni dire o fare sia una mediazione, e impone di mettere bene in chiaro quello che lì si gioca dalla parte del soggetto. Per smascherarlo? Sì, in caso, ma anche e soprattutto per liberare le sue energie, spesso frenate da rappresentazioni fasulle e progetti sforzati. In questo modo, secondo noi, è possibile stare disponibili alla realtà che cambia. Molto ha fatto discutere nel movimento il progetto di un campo della pace in Palestina, portato avanti da un gruppo di donne. La cosa ha suscitato discussione e critiche perché il partire da sé di questa iniziativa non è chiaro e non è stato messo in chiaro; una donna formata da quella pratica, in quell'iniziativa - le cui buone intenzioni nessuna mette in dubbio - non può non vedere il rischio di un volontarismo e di un attivismo non estranei all'imperialismo occidentale. Altro esempio, in positivo. Ci è stato rimproverato di fare politica senza avere già un'analisi della condizione femminile. Chi ragiona così, ha in mente (o, forse, segue meccanicamente) uno schema che non è il nostro. Noi non partiamo da un quadro generale, ma da contraddizioni vissute in prima persona (come: il blocco della parola nei luoghi misti, l'attrazione-repulsione per il potere, il misconoscimento sociale di sentimenti sentiti per sé come molto importanti, ecc.), che mettiamo al centro del lavoro politico. Così avviene che elementi che la rappresentazione dominante del mondo metteva ai margini, si trovano messi al centro del quadro, corrispondentemente al fatto che già si

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trovavano al centro della vita vissuta. È così che la visione delle cose cambia e, al tempo stesso, si apre un'altra strada di fare politica, più diretta e incisiva. In effetti, questa strada si è rivelata feconda. Molte vi si sono riconosciute e ciò ha dato luogo a quello che viene chiamato movimento delle donne; le idee e i testi nati da questo movimento, d'altra parte, conoscono una circolazione e un'accettazione estese. Alla pratica del partire da sé noi due facciamo risalire il fatto che oggi le donne possono essere viste e chiamate addirittura «soggetto forte» (Gaiotti De Biase, sull'«Unità» del 10 luglio 1992), termine che, detto per inciso, non condividiamo. Un simile risultato non sarebbe mai stato raggiunto se dal primo momento al centro del discorso politico - invece di quella che, nel discorso della sinistra, era la condizione femminile - non fosse stata messa l'esperienza vissuta in prima persona. Osserviamo, inoltre, come questo procedimento per passare dal caso concreto alla teoria, procedimento che sostituisce quello, antico, dell'astrazione, prima che da noi sia stato praticato da Freud: i suoi scritti lo illustrano bene. Un'altra pratica in cui tutte ci riconosciamo, riguarda il passaggio dal politico al non politico, che per noi è senza soluzione di continuità. Perciò noi ci troviamo volentieri in luoghi che sono e non sono politici, come librerie e circoli o case, e mescoliamo le occupazioni politiche con altre che non hanno questo nome, come le vacanze, gli intervalli del lavoro, gli amori, le amicizie. Non diciamo che tutto è politico, ma piuttosto che tutto può diventarlo. O, più semplicemente, che non troviamo criteri e non abbiamo interesse a separare la politica dalla cultura, dall'amore, dal lavoro. Una politica così separata non ci piacerebbe e non sapremmo farla. A questa esigenza di non separare la politica dalla vita, risponde anche l'uso della parola, segnato anche questo in una qualche misura dalla pratica psicoanalitica. Nei nostri convegni la presa di parola non è codificata; sopportiamo tempi vuoti, silenzi anche prolungati, incidenti di ogni genere; evitiamo per quanto possibile le relazioni già scritte, gli interventi preparati. I convegni, d'altra parte, sono tradizionalmente autofinanziati. I convegni e le altre iniziative danno vita a un nomadismo politico, aiutato dalla pratica dell'ospitalità, che crea una rete di rapporti attraverso cui circolano racconti, cassette, fotografie, fotocopie e testi stampati. Si dirà che tutto questo è tipico di un movimento relativamente giovane e perciò capace di vivere con poc.q.i mezzi. Ma c'è di mezzo anche una scelta di pratica politica e una scommessa in favore di una politica le cui forme non soppiantino

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le forme della vita. Così, è nostra abitudine riflettere sulle cose che facciamo, contestualmente o quasi al fare, il che dà, alle stesse che agiscono, la possibilità di correggere passo passo il loro fare. D'altra parte, nulla impedisce (e i fatti ce lo confermano ogni giorno di più) che le pratiche da noi inventate si traducano in pratiche comuni alla vita sociale o si saldino con antichi comportamenti femminili, restituendo o dando loro un significato di libertà femminile: a questo punto, non si può più parlare, in senso stretto, di movimento.

La questione del potere Nel suo editoriale sul n. 2 di «Critica marxista», Aldo Tortorella riprende un detto dell'arcivescovo di Milano, Martini, secondo cui «il guaio sta nell'interiore degli uomini», e commenta che sì, ma che, in questa maniera, ci si avvicina a concludere che la politica non c'entra. Perciò, aggiunge, «tentammo (tentai anch'io) di fornire una traduzione istituzionale e politica alla questione morale». Sembra quasi, da queste parole, che la politica sia, per definizione, esteriorità. Ora, ammettiamo pure che non si voglia portare la politica nell'interiorità per il giusto timore di non ricadere o cadere in una qualche forma di integralismo. Ma c'è una più semplice questione da sollevare, e cioè da dove venga quella opposizione fra interiorità ed esteriorità, che non corrisponde all'esperienza effettiva. Certo, non a quella femminile, se ci basiamo sulle pratiche che caratterizzano la politica delle donne. Con l'opposizione fra interiorità ed esteriorità, forse Tortorella e Martini si spartiscono in maniera equilibrata competenze e sfere di competenza. Ma ciò sembra corrispondere a una necessità di ordine storico (e dell'ordine sociale) più che alla comune esperienza umana, avvalorata dall'esperienza politica delle donne. Forse, dunque, la necessità di mantenere quell'opposizione, e di tenere la politica nell'esteriorità, non viene tanto dalla paura dell'integralismo, quanto dalla questione del potere; un potere spartito in due, indubbiamente, è una barriera contro l'integralismo. La questione della pratica politica si salda così con la questione del potere, centrale per la politica (come per la vita degli esseri umani e per la vita in genere).

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La pratica della disparità Al presente, nel movimento delle donne molte sono impegnate a riflettere su questo tema, cui siamo giunte attraverso la pratica della disparità e il dibattito che questa ha suscitato. Di pratica della disparità si comincia a parlare negli anni Ottanta, non prima. Ad essa ci ha portate (e qui facciamo riferimento specialmente alla Libreria delle donne di Milano) il fatto che non abbiamo organizzazione né ruoli né funzioni né altri dispositivi per sistemare le disparità reali. Il che ci esponeva senza difese alle forti emozioni che la disparità suscita. La pratica della disparità è nata come risposta a questo problema. La sua formulazione, da una parte, e la sua accettazione, dall'altra, sono ostacolate dall'egualitarismo che caratterizza la cultura di sinistra. Semplificando, diciamo che si tratta di non coprire e di non difendersi dal sentimento di una disparità nei confronti di una propria simile quando questo sentimento si fa sentire dentro di sé. Ma di prenderlo come il segno del risvegliarsi di un desiderio, facendo del rapporto dispari con l'altra la leva per la realizzazione del desiderio stesso. Come si può vedere, non si tratta, come alcuni hanno creduto, di avallare le disparità di una società ingiusta. Tuttavia, il senso della disparità che questa pratica dice di non coprire, può essere suscitato anche da questo tipo di disparità. Di nuovo, dunque, ci troviamo in presenza di una pratica che passa sopra la separazione fra realtà interiore e realtà esterna, rendendole reciprocamente traducibili. Della pratica della disparità, chiamata anche «la porta stretta», quelle che la accettano dicono che è un passaggio essenziale. Essa, infatti, è vitale per una politica della libertà femminile, in quanto produce autorità femminile invece di potere. Questo punto è oggi al centro di una riflessione che non possiamo anticipare. In molte siamo orientate a una politica centrata sull'autorità e decentrata dal potere; questo orientamento, d'altra parte, ci sembra interpretare nella maniera più precisa il movimento delle donne: interpretato, s'intende, non sociologicamente ma politicamente, come una scommessa sul senso della realtà che cambia. Linteresse che portiamo a questa impostazione si riassume considerando che il potere è omologante e distrugge la differenza femminile, come ogni differenza qualitativa. Non è una nostra scoperta originale. Come altri hanno già osservato per il movimento operaio, la conquista del potere o l'avere sempre di mira questa conquista, ha portato a perdere di vista il movente originario che era di creare una società libera e più giusta.

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Autorità e potere Di nostro noi portiamo un elemento in più, ed è la possibilità, provata praticamente, di creare autorità senza potere nei rapporti sociali. Fino alla distruzione di ogni forma di potere? La nostra formula, oggi, è questa: «il massimo di autorità con il minimo di potere». Non facciamo una proposta volontaristica: la più parte delle donne, infatti, sono internamente oppresse dal potere, dalla sua logica e dai suoi simboli. Lo dimostra il fatto, secondo noi non abbastanza considerato dalla sinistra, che le marce di avvicinamento ai posti di potere, tentate in varie forme, (pari opportunità, azioni positive, politiche delle quote, rappresentanza femminile) danno risultati sorprendentemente scarsi. Questo si constata anche in paesi di avanzata emancipazione, come gli Stati Uniti, dove, per esempio, vent'anni di «azioni positive» per portare più donne in parlamento hanno sortito un aumento di un solo punto percentuale, dal 16 al 17 per cento (secondo l' «Herald Tribune» del 15 luglio 1991). [esiguità di questi risultati contrasta con la visibilità e l'autorevolezza che le donne vanno acquisendo nella vita sociale. Se questo vale per gran parte delle donne, non sappiamo se valga per gli uomini, a parte una piccola minoranza in cui ci è facile riconoscere la nostra stessa ripugnanza per una politica ridotta a lotta per il potere. Manca, infatti, da parte maschile, un lavoro di presa di coscienza. Non possiamo quindi sapere quanto l'avere potere conti per un uomo e per la sessualità maschile. Di conseguenza, non sappiamo se la sinistra, nel suo insieme, possa agire politicamente fuori dall'impronta del potere, impronta che equivale, va precisato, a un ordine simbolico. A un linguaggio, cioè. Il rifiuto di questo linguaggio ci ha fatto sentire, in passato, estranee alla politica. Ora non più: ora noi facciamo politica contrastando la presa del potere sulla esistenza umana. Perché possiamo fare politica insieme a uomini, è indispensabile che vi sia presa di coscienza maschile sul potere. La spontaneità maschile, infatti, si lascia compenetrare dal linguaggio del potere, e così sbarra ogni possibile intesa.

Contro il capitalismo Non ci manca, per altro, il desiderio di uno scambio e, in caso, di un'intesa con uomini impegnati nella critica e nella lotta contro il capitalismo. C'è in noi due, come in altre, un'avversione al capi-

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talismo che ci spinge a cercare alleanze con persone o gruppi che lo combattono, pur essendo consapevoli che, probabilmente, il nostro anticapitalismo ha ragioni non coincidenti con quelle della sinistra tradizionale. Ma questo in sé non è un impedimento, se ci sarà scambio. Le ragioni della nostra contrarietà alla sintesi capitalistica, sono di due tipi. Ci sono le ragioni spontanee della condizione umana femminile: questa, come già sottolineato da Claudio Napoleoni, in Cercate ancora, si sottrae per alcuni aspetti alla comprensione capitalistica. Ci sono le ragioni della nostra pratica politica, che fa della relazione duale di scambio basato sulla fiducia - relazione marginale in una società capitalistica - la mediatrice della libertà femminile. In questa ricerca di uno scambio, che è già un tentativo di scambio, mettiamo in primo piano la questione della pratica perché ci sembra che possa dare la misura giusta delle difficoltà come delle opportunità che abbiamo davanti. Attribuiamo alla mancanza di una pratica politica adeguata, più che alla confusione mentale, lo sbandamento che ci sembra di notare nella sinistra, fra i molti che hanno l'ansia di adeguarsi (e non è, non sempre almeno, per conformismo) e altri che inclinano verso atteggiamenti apocalittici, quasi disinteressandosi di ciò che nella realtà si presenta come irrisolto o sospeso. Che a noi sembra non poco e non trascurabile: il gioco non è perso, come pensano gli uni, né tutto giocato, come pensano gli altri. Certo, i termini del gioco (per dire: del senso dell~ realtà che cambia) sono parecchio cambiati. Ma chi ha una pratica, noi sosteniamo, non è mai del tutto spiazzato. Chi ha una pratica ha il modo di stare alla realtà presente nei termini che questa realtà impone (e adesso, indubbiamente, per un anticapitalista sono termini duri) senza dover rinunciare a sé, alla propria esperienza, ai propri desideri. Vero è che questo vale se il sé, la propria esperienza e i propri desideri non passano, essenzialmente, attraverso il possesso di un potere; torna la questione di prima, torna la necessità di una presa di coscienza sulla questione anche personale del potere. C'è stata una smentita del prometeismo politico del movimento comunista. Ma la realtà che ha dato questa smentita, con ciò, ha dato prova di essere indipendente dai nostri progetti, non contraria. È una bella differenza; solo la volontà di dominio non riesce a coglierla.

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«Comunismo» Linvenzione e l'attenzione per la pratica, nel movimento delle donne, sono così importanti, e questa importanza si è così imposta almeno nel caso italiano, caso che il movimento internazionale delle donne ha finito per notare - da determinare il quasi abbandono del termine «femminismo», per nominare invece la pratica, fondamentale, della relazione tra donne. (In questa si riassumono le pratiche distintamente esposte sopra.) Lo diciamo avendo in mente il termine «comunismo». Molte donne danno volentieri questo nome al loro anticapitalismo, ma ne temono la carica ideologica che rischia di determinare sotto di sé il vuoto: vuoto di esserci e di effettualità. Durante la riunione con la redazione di «Critica marxista», a Roma, il 3 luglio scorso, pur condividendo il senso che lì molti esprimevano della difficoltà del tempo presente, più volte abbiamo percepito anche una tendenza al catastrofismo, sintomo di una ben più grave difficoltà, quella di stare al presente con ciò che ha di vivo. Difficoltà dovuta, ci sembra, alla voglia di stare al quadro ormai smentito, unita al peso eccessivo dato a queste smentite. La pratica del partire da sé, in un simile contesto, significa che di comunismo si può parlare se comincia a esserci nelle relazioni che si stabiliscono in quel luogo, in cui di comunismo si parla. E può succedere così che risulti più preciso e più significativo mettere in parole la pratica invece che parlare di comunismo. Quando c'è la pratica, i nomi vengono da sé, cambiano e, in caso, si ripresentano.

LIBERTÀ FEMMINILE E NORMA

Prima di affrontare la questione del rapporto tra libertà femminile e norma, credo sia necessario spiegare che cosa io intendo per libertà femminile. Insieme a altre ho pensato che la questione prioritaria da porsi fosse quella di trovare u:n senso al mio essere donna, cioè di chiedersi chi siamo e che cosa vogliamo. Questa è stata la rottura con la precedente politica dell'assimilazione al mondo maschile. Ponendo dall'inizio la questione dell'essere donna, abbiamo cominciato a lottare sul terreno della libertà femminile, perché la libertà ad una donna spetta a causa del suo essere una donna e non a prescindere dal suo sesso come recita invece la Costituzione e tutte le leggi di parità che ne sono seguite. Se io dico: sono una donna e, a partire da questa materialità, affermo la mia libertà, è cosa diversa che dire: i principi di uguaglianza e di libertà elaborati dal mondo maschile devono valere per uomini e donne. Da quello che ho detto fino ad ora appare chiaro che per me praticare la differenza e non occultarla, significa affermare la libertà femminile. Tuttavia, a questo punto, bisogna fare un ulteriore chiarimento su che cosa s'intende per pratica della differenza. Per alcune (e alcuni) la differenza significa sottolineare che le donne sono una cosa diversa dagli uomini (più etiche, meno violente, ecc.), che si differenziano, cioè, per contenuti dagli uomini, i quali rimangono per forza di cose il punto di riferimento. Assimilarsi con l'emancipazione o differenziarsi dagli uomini sono la medesima operazione, non c'è libera interpretazione di sé. Definisco questa concezione della differenza dell'ordine delle cose. Altre (e altri) ancora, ritengono che la differenza consista nell'inventarsi il femminile attraverso ricerche e pensamenti. Definisco questa idea della differenza dell'ordine del pensiero. lo penso, invece, che la differenza non sia né dell'ordine delle cose né dell'ordine del pensiero. La differenza non è altro che questo: il senso, il significato che si dà al proprio essere donna. Ed è, quindi,

dell'ordine simbolico.

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Mi sono dilungata a parlare della differenza e, soprattutto, del concetto di libertà per togliere di mezzo la rappresentazione della libertà femminile come estensione del concetto di libertà elaborato dagli uomini. Viceversa, la via, la modalità alla libertà femminile è per me la relazione tra donne. Sono arrivata così alla mediazione femminile, che per me è la sostanza della politica della differenza. Cioè mettersi in relazione con un'altra donna per realizzare il proprio desiderio nel mondo, potenziarlo e modificare l'ordine maschile esistente. Abbiamo chiamato questa relazione affidamento, per sottolineare: a) il rapporto di fiducia con l'altra donna che più che l'uomo può aiutarti nella realizzazione dei tuoi desideri; b) l'autorità che tu riconosci all'altra, alla sua parola, al suo sapere, vale a dire una pratica della disparità tra donne; c) il fatto che le donne erano uguali rispetto alla discriminazione, ma, nel momento in cui ci sono desideri e saperi femminili, riconosciamo che le donne sono differenti; e che tuttavia la misura di tali differenze non può essere lasciata ai ruoli, alle funzioni del mondo maschile; d) la significazione di un ritrovato e modificato rapporto con la madre. Viene così a configurarsi un «luogo» (di rapporti e di pratiche) che precede o supera l'ordine della norma e da cui dipende che vi sia un senso libero della differenza sessuale. Il sopra la legge, ho scritto su «Via Dogana» - rivista della Libreria delle donne, n. 5, interamente dedicato a questo tema del sopra la legge - è il luogo dell'esistenza simbolica, il luogo dell'autorità che io riconosco ad altre e mi riconosco. È evidente quindi, che chi vuole una rivoluzione simbolica si colloca in posizione critica rispetto alle leggi che via via il Parlamento sforna per incorporare la sessualità femminile e rispondere al presunto desiderio delle donne di essere uguali agli uomini. Per due ordini di ragioni: da una parte perché, come ho già sottolineato, considero essenziale insistere sulla pratica politica (relazione tra donne per produrre autorità e forza femminile); dall'altra perché ritengo più corrispondente al lavoro politico sul simbolico creare vuoti nel diritto esistente (dove la differenza femminile è recepita come debolezza da tutelare oppure, ma è la stessa cosa, da eliminare nella parità con gli uomini). Questo concetto del sopra la legge è coerente con la politica della differenza nel suo insieme. Tuttavia io noto che di quest'ultima oggi si comincia a intendere la giustezza, in particolare per quel che riguarda l'opposizione alla politica di parità. Ma non fino alle sue radicali

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implicazioni riassunte appunto nella figura di un sopra la legge. Perciò ha creato problema, ad esempio, il presunto «silenzio delle donne» nel dibattito sulla democrazia e le regole della rappresentanza; penso in particolare ad Antonio Cantaro, Le regole in campo («il manifesto», 24 febbraio 1993). Riguardo a questo articolo, c'è da osservare, per prima cosa, che da anni il movimento delle donne discute e produce testi di critica della rappresentanza e delle leggi, affermando la non volontà di tradurre l'indipendenza e l'autorità femminile nelle strutture del politico (potere). Se siamo, io sostengo, ancora alla denuncia del silenzio, ciò si deve unicamente al mancato riconoscimento di autorità alla elaborazione femminile. Senza attribuzione di autorità, infatti, non c'è comunicazione perché difettano le aspettative e il lavoro di ricerca e interpretazione di ciò che l'altro dice. A meno (come forse si pretende per le donne) che l'altro parli nei contesti e nelle forme familiari e previste. Entrando nel merito, Cantaro dice che «il tipo di sistema elettorale con cui si seleziona la rappresentanza costituisce uno dei fattori decisivi per stabilire quale gerarchia si intende operare». C'è qui un capovolgimento che non capisco: mi sembra evidente che, anche dal punto di vista di Cantaro, bisognerebbe riflettere e operare sulla produzione di senso (o di quello che a sinistra si chiamano valori) più che sulle regole, poiché le regole di per sé non producono senso e valori. Tant'è vero che il presente dibattito politico sulle riforme istituzionali sta diventando sempre più vuoto e complicato, e ha già tratto in inganno il corpo elettorale (vedi referendum). E allora si ritorna alla pratica politica come momento di presa di coscienza e modificazione personale e collettiva. Le regole, penso io, si curveranno in un senso o nell'altro a seconda del modificato rapporto con la realtà di donne e uomini, a seconda che la differenza femminile parli. E così via. A un certo punto Cantaro cita un passo di Kelsen: «La democrazia è una società senza padre. Essa vuole essere una società di equiordinati, possibilmente senza capi. Il suo principio è il coordinamento e la fratellanza matriarcale, la sua forma primitiva». Qui egli arriva, sorprendentemente, a delineare, con Kelsen, un concetto di democrazia che nulla ha a che fare con i vari possibili sistemi per regolare la rappresentanza e con la rappresentanza stessa. Posizione sostenuta - ma Cantaro non lo sa - dalla pratica della differenza che si oppone a ridurre l'insieme delle relazioni che costituiscono la società femmi-

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nile a politico (democrazia parlamentare, voto come unico modo di decisione, dominio della maggioranza, ecc.) e parla della madre come fonte del diritto. Se si fa propria l'interessante idea di democrazia di Kelsen, la pratica politica diventa determinante e di questa è necessario discutere. Non di regole: io penso che un movimento politico chiede aiuto al formalismo giuridico quando non ha più alcuna idea politica in testa. Dal punto di vista del diritto, il proprio di una politica della differenza non consiste tanto nel sommare diritti civili delle donne ai diritti già sanciti (come propone, ad esempio, lrigaray) ma nell'aprire vuoti nel diritto maschile, contro la sua tendenza a una normazione omniestensiva e la conseguente mortificazione dei rapporti e della sessualità. La libertà femminile resta affidata, nella prospettiva che io qui avanzo, alla forza delle pratiche politiche. Ed è la libertà femminile che apre il luogo del sopra la legge per donne e uomini.

PENSIERO DELLA DIFFERENZA E CRITICA DELLA POLITICA

Differenza e rappresentanza Un punto di partenza che, suppongo, qui abbiamo in comune è sapere che il pensiero della differenza sessuale non si accorda pacificamente con l'istituto della rappresentanza nelle sue varie forme e con le forme politiche partitiche. Tra le ragioni che si possono portare per spiegare questa incompatibilità a me interessa sottolinearne due. La prima è che le donne non sono un gruppo sociale omogeneo. In questo sono esattamente come gli uomini: divise per posizione economica, collocazione sociale, ecc. Ed è fuorviante (non a caso ha portato al fallimento della campagna per una equa rappresentanza di sesso) credere di poter contraddire a questa elementare verità delle differenze tra donne. La seconda ragione, invece, riguarda quello che le donne, tutte le donne, hanno in comune. Quello per cui una donna appartiene al genere umano femminile: è il valore simbolico della differenza sessuale che identifica le donne con se stesse e gli uomini con se stessi. Questo fatto di una differente identità umana incide sulla questione della libertà. Questo intreccio di differenze sociali tra donne con il senso comune della libertà non è mediabile dal sistema della rappresentanza poiché è un insieme relazionale che vive nei rapporti effettivi. Ciò non vuol dire che non si possono costituire politiche per assicurare la presenza di donne nella vita sociale e politica. lo penso che non solo le donne ma anche gli uomini qui presenti sappiano che la rappresentanza e le tecniche di governabilità sono una forma politica secondaria dalla quale restano fuori l'essenziale della umanità, le soggettività della politica, donne e uomini. È assurdo pensare che il voto espresso ogni quattro anni alle elezioni esprima adeguatamente i desideri, le volontà e le sofferenze di donne e uomini.

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Prima parte

Primario, a me sembra, è dire che le soggettività eccedono le regole della rappresentanza. Alcune di noi lo hanno detto e scritto. È essenziale, tuttavia, che donne e uomini che sentono tale contraddizione la riconoscano, la mettano in parole assumendosi tutte le conseguenze che questo comporta a livello di modificazione della pratica politica.

Perché hanno vinto le regole Ora, quelli delle regole (quelli, cioè, che indicano nelle regole la questione prioritaria) hanno vinto anche a causa di un certo mutismo femminile. È un peccato perché in tal modo un tessuto sociale traumatizzato (dalla caduta dell'Urss, dalla fine del Pci, da Tangentopoli) non ha avuto parola. Quelli delle regole hanno vinto perché si stanno riformulando le regole e le modalità della politica secondo l'ordine simbolico maschile e le esigenze degli uomini, cioè di una politica che ha al centro la competizione per il potere. Non è quello che voglio e sono certa che molte, moltissime donne non ·siano interessate alla competizione per il potere. Quello che vorrei è che ci sia senso libero della differenza sessuale per le donne e gli uomini al di fuori dei ruoli sessuali. Sono le donne le più coartate dal linguaggio politico prevalente. Sembra, infatti, che gli uomini vogliano tenere la loro libertà sotto la legge e le regole. Le donne della differenza, invece, no. Tuttavia, se gli uomini dichiarano - e vorrei qui verificarlo - che per loro l'esercizio e la competizione per il potere sono irrinunciabili perché corrispondenti alle loro esigenze, io non ho niente contro. Purché la modalità politica che ne consegue non sia unica, non sia considerata «la politica». Purché ci sia il senso che si tratta di una parzialità. È necessario che si verifichi quello che abbiamo chiamato un passo indietro degli uomini. Solo da questa spaccatura della politica è possibile un inizio di agire e pensare comune tra uomini e donne. Quindi vorrei, per concludere, che il senso libero della differenza possa agire come critica della politica così come del diritto e dello Stato.

DIFFERENZA, LE PORTE STRETTE CHE SI APRONO

Donna, giovane, cattolica integralista, leghista di ferro che si dice pubblicamente grata a un uomo, Umberto Bossi; ostile alla differenza sessuale, irriducibile nell'uso del maschile-neutro quando parla di sé. Lelezione di Irene Pivetti alla presidenza della Camera catalizza tutti gli interrogativi che il femminismo italiano si trova di fronte dopo le ultime elezioni. Primo, si spezza un nesso storico che sembrava ovvio fra conquiste femminili e sinistra; il protagonismo femminile può scegliere, talvolta sceglie, la destra, e soprattutto la destra sceglie il protagonismo femminile con più disinvoltura della sinistra. Secondo, o più complicato: la campagna elettorale prima, il risultato dopo hanno portato improvvisamente al centro della scena molte tematiche del femminismo della differenza, ma la destra più che la sinistra sembra essersene impossessata con il proprio segno, malgrado il femminismo, negli anni passati, abbia fatto di tutto per indicarle e imporle alla sinistra. Terzo, ma questa non è una novità: il protagonismo femminile, vedi il caso Pivetti, non è detto che venga speso a vantaggio delle altre donne. Interpretare quello che è successo non è semplice: si corrono due rischi, speculari. Il primo consiste nello schiacciare la politica delle donne sulla sinistra, e condividerne fino in fondo il lutto della sconfitta. L altro, all'opposto, consiste nel far finta che quello che è successo il 27 marzo non cambi nulla di quanto fin qui avevamo detto, come se la politica delle donne fosse estranea allo scenario complessivo. Fra questi due rischi c'è da ridefinire asimmetria e autonomia del pensiero politico femminile. In un tardo e piovosissimo pomeriggio milanese del 25 aprile (le dimissioni di Livia Turco da responsabile femminile del Pds non sono ancora intervenute), dopo la manifestazione, ne parliamo con Lia Cigarini e Luisa Muraro. Alla manifestazione non hanno partecipato - da sempre non amano questa forma di mobilitazione - ma la Libreria delle donne di Via Dogana è l'unico luogo pubblico aperto, salvo qualche interessato bar, in un centro di Milano con le saracinesche tutte abbassate.

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Prima parte

La prima battuta è di Luisa Muraro: «La vittoria delle destre per l'Italia è una sventura, che tuttavia rivela alcuni fatti e può aprirci delle porte strette, se sappiamo analizzare le nuove contraddizioni con i nostri strumenti. Intanto, quando si parla di destra e sinistra bisogna distinguere fra uomini e donne: cioè fra un sesso in crisi e uno in movimento. Prendiamo la sinistra. Negli ultimi tre anni, la sinistra ha di fatto abbandonato la politica della differenza sessuale che prima aveva dichiarato di voler praticare, per buttarsi a capofitto sulla politica delle pari opportunità (anche per colpa o per merito di Tina Anselmi, che sulle pari opportunità ha lavorato con grande tenacia). Dunque, ha abbandonato un'ipotesi incentrata sul protagonismo e sull'autorità femminile per tornare a una politica che rivendica la parità. In campagna elettorale, si è presentata alle donne con un programma tutto diritti e parità, di nuovo basato sulla rappresentazione delle donne come sesso svantaggiato, laddove il senso comune femminile si era già spostato sul protagonismo. I.:effetto sulle elettrici più giovani è stato catastrofico ... E la destra ha finito con l'interpretare le aspirazioni femminili meglio della sinistra, mettendo in campo donne che non avevano la preoccupazione di difendere parità e diritti». Però la destra ha dato spazio a un protagonismo femminile molto individualista, che non coincide con quello di cui parliamo noi. Per noi il protagonismo e l'autorità femminile sono sempre connessi con una pratica di relazione fra donne. Il protagonismo di Irene Pivetti rischia di essere molto misogino. Muraro: Sì, anch'io penso che il protagonismo individualista di queste donne non reggerà sulla lunga distanza. Però stiamo attente a come interpretiamo l'elezione di Irene Pivetti a presidente della Camera. Essa segnala che in questo paese oggi è necessario mettere una donna in un posto di prestigio come quello: questo la Lega l'ha capito e anche l'opposizione, che a sua volta aveva candidato Anna Finocchiaro. E questo, che lo sappia o no Irene Pivetti, è un risultato della politica nostra. Paradossalmente confermato anche dal suo uso ostentato delle desinenze in -o: ancora pochi anni fa, uno come Umberto Eco si spendeva per sostenere che la significazione della differenza sessuale nel linguaggio è irrilevante, oggi tutti hanno notato come quell'uso ostentato del neutro sia sospetto e finisca col rafforzare per negazione il femminile. Quello che sta succedendo può rafforzare la

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nostra contrattualità politica nei confronti degli uomini della sinistra. E ci rafforza anche nella nostra battaglia contro la sqJ;ategia delle pari opportunità: adesso è chiaro che si tratta di una strat~gia perdente.

Non sarei cosi sicura. I nostri compagni fanno presto a dire: volevate una donna? Eccola: c'è, ed è pessima. Muraro: Argomento povero e facilmente contrastabile con quest' altro: i vostri avversari vedono meglio di voi che oggi dare valore alle donne è necessario e vincente. Le contraddizioni vanno interpretate, dipende da noi leggerle e giocarle nel modo giusto. Anche quanto all'interpretazione dell'altro sesso. Per esempio? Muraro: Oggi è in atto uno straordinario cambiamento sociale nei rapporti fra uomini e donne: ma in assenza di autocoscienza maschile. Nel pieno di questo cambiamento travagliato, la vittoria della destra è un segno, pessimo, che sugli uomini ci dice alcune cose. In questa vittoria resuscitano alcuni tratti tipici dell'immaginario maschile tradizionale: potenza, esibizionismo, narcisismo. Ma questo è reso possibile da un deficit di autocoscienza maschile nella sinistra. C'è miseria simbolica maschile, e in questa miseria vince la destra, perché la incarna meglio: sta agli uomini della sinistra, che è e vuole essere la parte più civile della società, contrastare questa miseria avviando un'autocoscienza adeguata. Nel nostro tempo storico, la sinistra senza di questo non va avanti. Eppure la sinistra ci sente poco, da questo orecchio. E più in generale, ha sentito poco di quanto il pensiero della differenza sessuale ha provato a suggerirle, quanto a teoria e pratica politica. Cigarini: È vero, ed è uno spreco. A differenza che in altri paesi, in Italia il femminismo ha sempre cercato di interloquire con la sinistra. Suggerendo idee e pratiche (le prime per noi non esistono senza le seconde) che essa non ha saputo raccogliere. Ora si vede che avrebbe fatto meglio a farlo. Quali? Riassumiamole. Cigarini: Il nocciolo è sempre lì: soggettività e pratica del partire da sé. I.:idea che la soggettività eccede sempre le regole, e che quindi la politica non può essere ridotta a regole. E l'idea che il lavoro politico,

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che è in primo luogo lavoro sulle coscienze, deve basarsi sullo scambio di esperienze reali e di relazioni, e fare leva non su quello che manc_a ma su quello che c'è: desideri e potenzialità. Viceversa, prendiamo il Pds: negli ultimi anni si è mosso solo sul terreno delle regole - la legge elettorale in primo luogo. E invece la pratica della soggettività era proprio quella che a sinistra sarebbe servita, per contrastare l'individualismo della destra. Il messaggio della destra è chiaro: «l'individuo ce la può fare». La sinistra, è ovvio, all'individualismo deve controproporre la dimensione della collettività. Ma facendo leva sulla forza della collettività, sulla forza autonoma di cui anche i deboli e gli emarginati sono capaci. Invece il linguaggio della sinistra rimanda sempre alla debolezza, al bisogno di solidarietà, a qualcosa che deve venire dall'esterno e non da se stessi. È appunto il partire da sé che dà forza materiale e simbolica. Senza uno spazio di identificazione positiva, anche gli immigrati votano con entusiasmo Berlusconi, com'è avvenuto. Ti spieghi così anche il precipizio del voto operaio? Cigarini: Sì, perché se gli operai non sono più «classe», dovranno pur pensare a nuove pratiche politiche da inventare. Pratiche di relazioni in fabbrica, scambio, autorappresentazione; lavoro sulle coscienze - i punti su cui insistono le sindacaliste e le delegate di Brescia. Invece nel sindacato ci si divide fra una destra che fa gli accordi, e una sinistra che estremizza gli obiettivi; sulle pratiche che sarebbero davvero capaci di mobilitare soggettività e di costruire collettività, siamo a zero. Nei commenti elettorali, anche maschili, per spiegare la vittoria di Berlusconi non si parla d'altro che di simbolico, immaginario, linguaggio. Com'è che i nostri temi sono improvvisamente così popolari? Cigarini: Ha ragione Luisa Passerini nella sua intervista sul «Cerchio quadrato» della settimana scorsa, Berlusconi ha mobilitato un immaginario sedimentato. La politica del simbolico come l'intendiamo noi è un'altra cosa, è interpretazione della realtà che cambia, taglio trasgressivo del senso comune e produttore di senso critico. Quanto al linguaggio: non ci sono linguaggi «semplici» e linguaggi «complicati», ci sono linguaggi aderenti alla realtà, che perciò risultano sinceri e convincenti, e linguaggi separati, autoreferenziali, che non convincono nessuno. Bossi vince non perché parla semplice, ma perché nella

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sua elementarità è sincero. I politici di sinistra non vincono non perché parlino difficile, ma perché quello che dicono non è sostenuto da un'interpretazione della realtà. Diciamo queste cose da anni, d'accordo. Ma se non passano ci sarà pure un limite nostro, o no? 'Cigarini: Sì, c'è un tassello mancante al quale dobbiamo guardare. Per capire perché la pratica del partire da sé e della relazione si ferma troppo spesso sulla soglia del parallelismo (per gli uomini: privato/ politico, per le donne: politica delle donne/politica), e non riesce a passare dai margini al centro della politica. Noi stesse, nonostante il nostro impegno (pensa a «Via Dogana»), non siamo riuscite a contrastare questo parallelismo. Quello che è avvenuto ci dice che avevamo visto bene: la nostra interpretazione aveva individuato i punti di contraddizione e di leva giusti per tutti, donne e uomini. Bisogna insistere, ma trovando il tassello che manca.

METEORE?

Mi chiedo se il tentativo di «Via Dogana» di lottare contro il risultato ultimo dell'emancipazione femminile - la spartizione del mondo dato fra uomini e donne - abbia avuto qualche esito. Nel primo numero della rivista, tre anni fa, Luisa Muraro scriveva: «... ma il mondo di chi inventa, è nuovo e grande, non è già occupato, non c'è da pensare a fare quote e parti». E poi: «Se mi pongo nella genealogia della madre, se mi misuro sulla relazione con una donna, se sopra al potere costituito metto l'autorità femminile - se creo simbolico - allora è un altro mondo». La conclusione necessaria era, per Luisa, metter fine al dualismo per cui la politica delle donne sarebbe una politica accanto a un'altra, detta maschile o neutra. Io penso che, in effetti, nella politica noi abbiamo un di più di sapere, perché abbiamo elaborato una pratica adeguata: quella del partire da sé e della relazione, che tiene insieme vita e politica, pratica che lavora per connettere le persone, per modificare il rapporto con le persone e le cose, senza mai fissarsi in contenuti, né erìgere monumenti, sempre restando trasparente e mobile. Parlo di un di più femminile prezioso per tutti, donne e uomini. Ad esempio, la questione, per me centrale, dell'alienazione, cioè dell'identificazione di sé con il prodotto che si fa o si consuma, non è affrontabile (ed infatti cento anni di marxismo sono falliti su questo) se non con la pratica del partire da sé e della relazione. Eppure, quando ne parliamo, viene fuori che la pratica della relazione è convincente come pratica tra donne, e basta: non lo è per affrontare problemi sociali, economici, politici. La prova è nell'attesa, comune a moltissime femministe, di sostanziali cambiamenti da un eventuale governo dei progressisti, in assenza totale di una pratica alternativa. O nell'appoggio dato a candidature femminili al Parlamento, nonostante la critica della rappresentanza e nonostante la volontà della sinistra attuale di risolvere i problemi, compresi quelli prodotti dal conflitto dei sessi, con l'attività legislativa. O, ancora, nel lutto per la sconfitta elettorale dei progressisti, con il conseguente schiera-

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mento di gruppi di donne che si definiscono di sinistra, contro altre che vengono definite di destra: ma per noi non era primaria la libertà femminile, insieme all'attenzione spregiudicata per quello che le donne vogliono e cercano di dire, le modalità imposte dal potere essendo relativamente secondarie? Sembra, insomma, di ritrovarsi al punto di partenza: due politiche, quella delle donne tra donne, e l'altra dominante, l'unica che agli occhi di tutti decida le cose del mondo. In realtà, non è esattamente così. Ma perché così non finisca per essere, è necessario continuare senza scoramenti il difficile lavoro sul simbolico, cioè mettere in parole la nostra esperienza, osservarla e analizzarla nella collocazione centrale dove abbiamo risolto di stare non per un'invenzione linguistica, ma per la necessità, appunto, di non separare vita quotidiana e politica. La prima cosa che, in questa ripresa del lavoro, domanda di essere detta e analizzata, è la paura e l'angoscia che si provano talora leggendo la storia passata delle donne, dove il segno della differenza femminile nell'ordine simbolico ogni tanto è apparso, per poi scomparire all'improvviso. Abbiamo noi, oggi, una maggiore signoria sulle cose? Oggi, certamente, c'è una presenza di donne in tutte le professioni e lavori; molte di noi, inoltre, sono impegnate in progetti di modificazione dell'esistente (nella scuola, nelle fabbriche, nei giornali, nel sindacato, nei partiti, ecc.) facendo leva sulla relazione con l'altra. Tuttavia, si fa fatica o non si riesce a dire il soggetto donna che agisce. Alcune raccontano che il progetto complessivo le assorbe, con conseguente cancellazione o messa fra parentesi della soggettività femminile. Questo accade perché, avendo in mente qualche parola chiave, come ad esempio relazione politica e autorità femminile, esse operano laboriosamente dove si trovano, credendo che sia sufficiente il loro lavoro ben fatto, illuminato dalla teoria della differenza scritta nei testi. Trascurano quello che io chiamo il lavoro di mettere in parole: di ogni scambio nominare le parti, di ogni mediazione trovata dire che cosa va oltre queste parti e può diventare ordine di riferimento; .di ogni scacco il vissuto e l'elaborazione. E tutto questo avendo consapevolezza che l'autorità femminile, al pari della relazione, è una figura dello scambio; non si incarna, quindi, in nessuna donna, ma esiste in quanto circola. Dalla messa tra parentesi della soggettività femminile deriva una sorta di intimidimento di fronte al linguaggio degli uomini, visto come linguaggio del potere, di chi si realizza compiutamente nel

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prodotto, all'estremo opposto del mondo disegnato dalle relazioni. E deriva, insieme, la persistenza dei luoghi separati, sempre gli stessi da almeno quindici anni, luoghi dove si sta con agio perché c'è una lingua comune, che però nel mondo non ha corso. La politica delle donne si riduce così a fatto locale, marginale. Nonostante questi mancamenti, resta che la differenza femminile, come ho detto all'inizio, è mediatrice della differenza sessuale, quindi della differenza maschile. In altre parole, meno appropriate ma più chiare, la differenza femminile è una mediazione universale («universale» essendo un termine del linguaggio dell'uno, mentre ci servirebbe una parola relazionale). E qui la mia ansia sul fatto che il segno della differenza femminile sia una meteora si placa, perché questa consapevolezza teorica che io ho, le beghine del Duecento o le preziose del Seicento, meteore di libertà femminile, non l'avevano. Vero è che gli uomini non mostrano di aver preso coscienza della differenza maschile, che, rivestita di una pretesa universalità, continua a condizionare la più parte delle cose umane. I migliori arrivano a riconoscere l'importanza della differenza femminile, senza considerarla valida per sé. Recentemente, però, un poeta serbo-croato ha detto che la tragedia jugoslava, con le sue esibizioni di virilismo spietato, deriva anche dalla mancanza di femminismo nella cultura del suo paese. Evidentemente, non intendeva dire che mancano gruppi di femministe impegnati per la pace, bensì che il pensiero femminile non è mediatore nei conflitti fra uomini, come sarebbe se la differenza femminile fosse considerata un segno necessario all'esperienza di donne e uomini. Dunque, queste cose cominciano a dirsi. E, dunque, hanno cominciato a camminare, sebbene ciò non avvenga con la velocità o l' evidenza di cui avremmo bisogno per non cedere allo scoramento. Ma consideriamo l'enormità della sfida. Fino a ieri ci mancavano perfino le parole per formularla, tanto che, recentemente, alcune hanno confuso la contrattazione con una richiesta di riconoscimento, incapaci di vedere che, se una donna contratta con il mondo maschile, può farlo proprio perché non è più a corto di esistenza simbolica. Nell'intervista a Ida Dominijanni per «Il Cerchio quadrato» del 1 maggio, ho parlato di un tassello mancante; ora penso di averlo trovato, è l'efficacia mediatrice della differenza femminile. I.:impresa della mia vita comincia a dirsi con parole di significato compiuto.

Seconda parte (1999-2020)

Libertà senza emancipazione

Occidente/Islam. La via breve della libertà femminile. Un convegno femminista a Sana'a (Yemen) nel cuore antico del mondo arabo e islamico, «Via Dogana» n. 46-47, ... E dopo lo Stato sociale, dio inventò la donna, dicembre 1999 Libertà senza emancipazione, «Via Dogana» n. 61, Libertà senza emancipazione, giugno 2002

OccIDENTE/lsLAM.

LA VIA BREVE

DELLA LIBERTÀ FEMMINILE

UN CONVEGNO FEMMINISTA A SANA A (YEMEN) NEL CUORE ANTICO DEL MONDO ARABO E ISLAMICO

Amo molto l'architettura e il paesaggio dei paesi arabi, il deserto. E non sento alcuna ostilità per la loro civiltà. La cosa stupiva sia me che le mie amiche. Perché sono una donna per di più estranea e indifferente alla dimensione religiosa della vita. Dunque una vera contraddizione come si dice. Certo, non avendo pregiudizi da femminista occidentale fissata su foulard, chador e veli, avevo avuto dei contatti anche se occasionali con donne in Egitto (dove vi erano già gruppi femministi all'inizio degli anni Settanta), Siria, Giordania e Palestina. E non mi ero stupita affatto della coraggiosissima lotta delle donne algerine seguita attraverso i loro scritti e documenti e i resoconti delle femministe francesi che avevano contatti diretti. Nello Yemen del Nord che avevo visitato dieci anni fa, invece, con le donne non era stato possibile alcun contatto. Giravano per le strade e nei luoghi pubblici velate. Probabilmente acute osservatrici del mondo, e con molte cose da dire. Ma io non potendole osservare in faccia non riuscivo a parlare con loro. È il velo sul viso, non il chador o il foulard che nasconde i capelli, a creare disagio. Non riesci a parlare con una donna che ti può osservare in viso mentre tu no. Così quando è arrivato un invito per Luisa Muraro, Diana Sartori e me a partecipare a settembre a una Conferenza Internazionale sugli studi femministi all'inizio del ventunesimo secolo, a Sana'a capitale dello Yemen, ero entusiasta all'idea di rivedere quella bellissima città (la Venezia d'oriente, come viene chiamata) ma, sospettavo, si trattasse di una conferenza organizzata e egemonizzata dagli Womens Studies americani e olandesi. In realtà le sorprese sono state tante e lo scambio con le donne yemenite, a viso scoperto, intenso. Percorrendo la strada dall'aeroporto alla città vecchia (Sana' a da quando l'avevo visitata io ha quadrupli-

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Seconda parte

cato la popolazione) scoprivo che le case venivano costruite alla stessa maniera di quelle antiche oppure rielaborate in chiave moderna con una particolare genialità architettonica. Per me questo è un segno inequivocabile di civiltà diffusa. Il giorno dopo, in un primo incontro all'Università, abbiamo capito che la conferenza era stata voluta e organizzata da un folto gruppo di docenti e studentesse raccolte nel centro di studi femministi dell'Università di Sanàa cui partecipano dei professori e qualche studente maschio . .Cidea dunque dell'incontro partiva dallo Yemen. Animatrici del gruppo di studio e della Conferenza erano due docenti, Raufa Hassan e un'altra di cui non ricordo il nome. Soprattutto la prima appariva di grande intelligenza e determinazione. Alla Conferenza la presenza occidentale era in realtà scarsa: un' americana, tre olandesi, due inglesi e noi tre italiane volute particolarmente da Raufa Hassan. C'erano, invece, donne e qualche uomo di tutti i paesi arabi (anche quelli in guerra fra di loro come l'Irak, il Kuwait, l'Arabia Saudita ecc.) più donne della Turchia, del Sudan, e dell'Iran. Questa, per chi conosce la storia e la politica di quei paesi, è stata la sorpresa più grande. Infatti una docente dell'Università del Cairo ha concluso i lavori dicendo: «quando tre paesi arabi s'incontrano è un avvenimento politico. Qui ci sono tutti, è un avvenimento eccezionale». Il rettore dell'Università di Sanàa aprendo i lavori della Conferenza ha dato una lettura di questo evento: le donne sono delle grandi mediatrici e, quindi, preziose in questo momento di cambiamento. Di quale cambiamento si tratta? Riassumo brevemente il contesto. Per quello che riguarda lo Yemen, sicuramente il paese vuole uscire dalla povertà (non ha i soldi del petrolio come l'Arabia Saudita e gli Emirati). Per questo il Presidente e il governo vogliono dare inizio alla industrializzazione e alla modernizzazione del paese. Hanno però bisogno di finanziamenti ed investimenti esteri. Sia la Banca Mondiale che i paesi occidentali, soprattutto l'Olanda, li concedono a patto che si risolva la «questione femminile» (o di «genere» come preferiscono dire ora). (La forza del movimento delle donne nei paesi occidentali è stata, dunque, molto importante per le donne dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo.) I modernizzatori sono quindi forzati a togliere le maggiori discriminazioni contro le donne perché glielo impongono i paesi occidentali finanziatori. Poi ci sono i laici-progressisti, quelli, cioè, che voglio-

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no per i loro paesi il modello di democrazia occidentale. Essi pensano che l'alleanza con i modernizza tori e con il movimento delle donne aumenterà la loro forza contrattuale. Ho sentito, tuttavia, alcuni uomini, professori delle università più prestigiose del loro paese, dichiararsi femministi, cioè riconoscere il conflitto tra i sessi e la necessità di una modificazione nella loro relazione con le donne. Ha detto uno: l'impasse della cultura araba è la questione delle donne. Un altro attore, poco presente alla conferenza ma potente nei vari paesi, sono gli integralisti islamici. Hanno parlato due o tre donne definendosi «femministe islamiste». La loro posizione è semplice: la legge islamica va benissimo nel diritto di famiglia, ci sono però bisogni sociali delle donne (più istruzione, più lavoro, più ambulatori) che devono essere ancora risolti dallo Stato. Il problema sta, dunque, in questo: vedere come i tre attori giocheranno le proprie carte nel cambiamento. Riuscirà il movimento delle donne a elaborare una propria autonoma misura oppure seguirà i modernizzatori e i progressisti nella speranza di ottenere qualcosa? Alla conferenza hanno parlato entrambe le posizioni. Comunque, lo scambio più interessante per me è avvenuto sul lavoro femminile. Nel gruppo sviluppo~lavoro, dove io ho fatto una relazione, mi sono trovata d'accordo con Nissren Jevel dell'Iran, che per prima cosa sottolineava come gli economisti non vedano il lavoro produttivo femminile nella famiglia, nell'agricoltura, nella tessitura e quindi dichiarano livelli di disoccupazione femminile elevatissimi in un paese ancora agricolo come l'Iran dove le donne lavorano più degli uomini. E quindi tutti gli organismi internazionali propongono piani di sviluppo folli per i paesi non industrializzati. Nissren Jevel propone, invece, di iniziare a interrogarsi sul senso che le donne danno al proprio lavoro e come la riflessione delle donne sul lavoro contribuisca a rivalutare il lavoro delle donne e uomini. Esattamente il tema della mia relazione. Questa coincidenza conferma una mia profonda convinzione: la lotta delle donne non è progressiva e gradualista. Trattandosi di presa di coscienza, di relazioni e di politica del simbolico, può essere viva anche in paesi non tecnologicamente avanzati. Bisogna aggiungere che nei paesi islamici la riduzione all'uno è quasi ossessionante. A nessuna donna potrebbe venire in mente di trascurare la politica del simbolico. È probabile quindi che il movimento delle donne dei paesi arabi non debba ripercorrere tutti i nostri passaggi.

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Altri interventi erano d'accordo con Nissren Jevel. Una libanese e una palestinese hanno detto a chiare lettere che non si può entrare nel cambiamento senza una propria misura del lavoro, dello sviluppo e della libertà. Nel gruppo sulla legge, poi, dove si erano collocate alcune femministe islamiche e le/i laici, c'è stata un'interessante discussione. Una docente dell'Università teologica del Cairo, So'ud Saleh, ha sostenuto - contro i laici che proponevano il modello occidentale e di democrazia - che il problema è quello di creare un'autorità femminile religiosa che affianchi l'autorità religiosa maschile. Ci saranno così le jatwa (sentenze islamiche) delle donne e quelle degli uomini. Dopo questo intervento tutti scherzosamente chiamavano So'ud Saleh la «Muftia», dottora della legge. In maniera strana, a partire da una teologa, la questione dell'autorità femminile era ritornata fuori dopo il riferimento iniziale del rettore dell'Università alle donne mediatrici indispensabili in un momento di cambio di civiltà. Infine, in una assemblea plenaria nella quale tutti i gruppi di studi femministi parlavano delle loro ricerche, quando Luisa Muraro ha riferito dell'esperienza originale di Diotima rispetto agli Womens Studies, c'è stato molto interesse e aperta simpatia. Anche la Muftia ha applaudito. Dunque, io ho sentito parlare, lì a Sana' a, la libertà femminile insieme, naturalmente, ad altre voci più fiduciose che lo sviluppo economico portasse di per sé la libertà delle donne. D'altra parte, il conflitto tra emancipazione e femminismo prima, tra femminismo dell'uguaglianza e femminismo della differenza poi, ha sempre percorso e continua a percorrere il movimento delle donne anche in Occidente. Si può andare ancora più indietro, all'origine del movimento delle donne. Jane Austen, quasi coetanea di Mary Wollstonecraft, avendo a cuore la dignità e l'autonomia delle donne rispetto agli uomini, fa in Mansfield Park una critica durissima alla nascente industrializzazione inglese. Pensa che distruggerà la civiltà inglese travolgendo tutti i valori acquisiti. Così è stato. Infatti l'Ottocento per le donne è stato un secolo orribile e di arretramento. Al contrario Charlotte Brèinte, paladina dell'emancipazione, presenta in Sherley gli operai inglesi, distruttori delle nuove macchine che toglievano loro il lavoro, come dei mostri. Li disprezza e li deride. La questione è ora davanti alle donne dei paesi meno industrializzati.

LIBERTÀ SENZA EMANCIPAZIONE

Per rispondere alla domanda che in questo numero pone la redazione di «Via Dogana» - vale a dire se è pensabile e praticabile un senso libero della differenza femminile senza passare per l' emancipazione - mi piace partire dal pensiero e dallo sviluppo linguistico dell'arte di Shirin Neshat. Shirin Neshat è una grande artista iraniana, già presentata con sapienza alle lettrici di «Via Dogana», n. 49/2000, da Valentina Berardinone. Ed è una pensatrice della differenza. Si può dire che attraverso le fotografie, i video e i film ha narrato essenzialmente la relazione tra donne e uomini nella sua terra, l'Iran islamico. La colloco là dove sta Virginia Woolf che con le parole ha saputo creare sia romanzi che saggi di riflessione sulla differenza femminile e di critica del simbolico maschile. È sicuramente il linguaggio artistico che permette a Shirin, che pure negli Stati Uniti ha studiato e vissuto l'emancipazione, di far parlare le sue origini spirituali e formali (l'Iran e l'Islam), il corpo femminile nella sua separatezza da quello maschile, la parola scritta delle poete iraniane e quella cantata dalle musiciste. Infatti, come sottolinea Valentina Berardinone, nella serie fotografica Woman ofAllah, Shirin ritrae se stessa con il chador e le parti del corpo che restano visibili ricoperte da una scrittura di versi delle poete persiane; e nel video e nei film uomini e donne cantano in modo differente, fanno cose differenti e si collocano in spazi fisici e simbolici differenti. Tuttavia, quando ad un incontro alla Triennale di Milano e in un'intervista («Flash Art» febbraio 2000) Shirin Neshat ha concettualizzato i significati della sua arte e ha preso una netta posizione politica in merito alla differenza femminile e all'Iran islamico, ho pensato subito che chi parlava conosceva la contraddizione tra libertà e emancipazione. La proposta di «Via Dogana» è dunque attuale e urgente per rinnovare una riflessione sul rapporto tra libertà e liberazione (delle donne) che all'origine del femminismo era stata tanto dirompente da farci dire che la politica dell'emancipazione era un ostacolo alla libertà femminile.

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Seconda parte

Riporto qui per intero la risposta che Shirin dà a una domanda sulla libertà negata delle donne in Iran, perché chiarissima e utile per la discussione: «Le donne islamiche sono un mistero per l'Occidente. Non sono per nulla rispondenti all'immagine proiettata all'esterno che le vuole immobili, passive; le donne dell'Islam hanno un'incredibile capacità di resistenza. Ma è profondamente sbagliato cercare di giudicare il rapporto uomo-donna nell'Islam con i criteri occidentali: le donne mussulmane non vogliono competere con gli uomini, anche se vogliono avere una loro voce nella società. Questa mancanza di competizione tra i sessi in Occidente viene percepita come ignoranza o stupidità, e questo è un giudizio che mi fa infuriare. In Iran il 63% degli studenti universitari è donna. In un mondo che le opprime e che nega loro molti beni materiali, le donne iraniane hanno trovato sollievo nella cultura, nel pensiero, e hanno sviluppato idee. Ora che c'è un cambio di poteri le donne iraniane stanno occupando uno spazio consistente nel mondo artistico, in letteratura e nel cinema e il loro ruolo politico è fondamentale. Un film proiettato in un minuscolo villaggio delle montagne può aprire gli occhi molto più di un comizio. Credo che le donne creino una rete, un movimento» (da «Flash Art»). Mi è subito tornata in mente la mia esperienza personale e quella di altre donne, donne scolarizzate che avevano una prospettiva professionale, non convinte però che la strada dell'emancipazione fosse da percorrere fino in fondo. Pensavamo che le conquiste di parità con gli uomini, da imitare e raggiungere, tendessero a cancellare la differenza femminile. Da qui è venuta la presa di coscienza femminista, che ha interessato le nostre vite ed è stata significata in vari modi. Alcune per anni non hanno fatto mostre, altre hanno lasciato la propria professione, alcune filosofe sono rimaste deliberatamente ai primi gradini della carriera universitaria e altre si sono impegnate al minimo nella professione. Tutto ciò non per coerenza ma perché la passione e il desiderio erano spostati dove c'era più libertà e agio; grazie alla presa di distanza dalla competizione con gli uomini. Insomma, esserci per sé e non per confermare gli uomini della loro universalità. Nel corso degli anni questa rottura con la lotta politica dell'emancipazione è stata criticata e misconosciuta dalla maggioranza delle donne politiche, impegnate nei partiti, nei gruppi e nei sindacati e da molte intellettuali. Queste donne politiche apparentemente assennate proponevano una sorta di gradualismo (anche le più rivoluzionarie

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Libertà senza emancipazione

pensano çhe per le donne, poverette, vada bene di tutto) nella lotta delle donne: prima l'emancipazione e il potere per tutte, poi, semmai agiamo la differenza. Non si sono mai convinte che la politica che proponevano sbriciolava letteralmente il senso libero della differenza. Ed era una vera e propria dichiarazione di non libertà, di sottomissione all'ordine simbolico del padre. Tuttavia l'emancipazione è nella nostra esperienza di vita, di studio e di lavoro e ci muoviamo in un contesto dove non c'è discriminazione giuridica, a differenza dell'Iran di Shirin. Per cui in noi è una tensione tra libertà ed emancipazione (la famosa e spinosa questione della indipendenza economica comunque da acquisire). Io so di aver guadagnato qualcosa che è molto più prezioso dell'indipendenza economica che mio padre voleva per me insieme alla mia realizzazione nella vita e nella politica dei comunisti che a lui stava a cuore. rho assecondato negli anni della giovinezza ricacciando indietro l'ansia e il disagio. Chiamo genealogia femminile il guadagno di un senso·libero della differenza femminile. Però so anche che il senso comune ancora legge questo guadagno di libertà come qualcosa di ottenuto in virtù dell' emancipazione concessa alle donne nei paesi più sviluppati dell'Occidente. Mi chiedo tuttavia se a livello inconscio questa parte del padre continui ad agire. Sarei arrivata alla conclusione che è ineliminabile dalla mia esperienza: il problema è non scinderla da me al fine di rendere pura l'idea di libertà femminile, ma elaborarla a livello più profondo. La tensione conflittuale tra libertà e emancipazione dunque permane nell'esperienza delle donne occidentali. Le donne si muovono nella società (nel mondo) con un forte senso di sé che si esprime come voglia d'indipendenza economica e di autorealizzazione in quello che fanno. Tuttavia in questo forte senso di sé io non riconosco la volontà di ingaggiare una competizione con gli uomini. (La competizione sarebbe la leva determinante della lotta di parità perc!hé è il cuore del modo di relazionarsi tra uomini in questa civiltà.) Le donne, infatti, quando vengono interrogate (inchieste, interviste o scambi verbali), non parlano più di obiettivi emancipatori: tendono a descrivere la loro vita così come è cambiata. Sembra a me l'inizio di una autocoscienza, dove la voglia di competizione con gli uomini non appare affatto nei loro desideri. Nell'arte e soprattutto nella letteratura, poi, il tema è completamente assente. Si preferisce

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stare in bilico tra il non detto e l'inizio di una messa in parola di qualcosa che non può essere denominato come emancipazione. D'altra parte le donne «assennate» e «realistiche» di cui parlavo prima, non hanno ottenuto alcun potere e appaiono sempre meno visibili. Ciò significa che fra il comune delle donne non c'era alcuna spinta reale a occupare la metà dei posti di potere maschile, ma soprattutto che c'è il rifiuto a essere rappresentate come quelle che vogliono contendere agli uomini i posti di comando. Che cosa, infatti, significherebbe questo se non la falsa, distorta e improbabile fine dell'esperienza e della vicenda millenaria delle donne e dell'altrettanto millenario conflitto tra i sessi? Ci sono desideri singoli di alcune di concorrere per il potere. Ma questa è un'altra storia. lo sento l'urgenza di nominare o rinominare la realtà che cambia a partire dal punto proposto alla discussione da Shirin Neshat: la non competizione con gli uomini come discFiminante per l'affermarsi di un senso libero della differenza sessuale. Alcune, ed io sono fra queste, tentano di percorrere la strada della relazione di differenza con gli uomini, che è fatta di scambio, conflitto, circolazione di sapere tra i sessi. Non abbiamo ancora un'impostazione precisa perché la discussione è all'inizio e ci sono delle resistenze ad affrontarla. Tuttavia, se quello che ho detto del desiderio femminile è vero (attendo però le obiezioni delle sostenitrici della inevitabilità della competizione), cioè che non si vuole ripetere un modo di relazionarsi pensato per una società di soli uomini, e che si vuole, piuttosto, mettere in gioco un altro modo di relazionarsi dove possono circolare piacere, emozioni, sapere, quale altra strada è possibile per il cambio di civiltà di cui «Via Dogana» parla?

Al fondo e al centro della politica

Con un filo di pensiero, «Via Dogana» n. 43, Con un filo di pensiero, maggio 1999

Al fondo e al centro della politica, con Luisa Muraro, «Via Dogana» n. 64, Io e il capitale, marzo 2003 Le belle relazioni, con Letizia Paolozzi, «Via Dogana» n. 72, Bellissime, marzo 2005

La fetta di torta, «Via Dogana» n. 82, 50 e 50. Sessi epotere, settembre 2007

CON UN FILO DI PENSIERO

In effetti, che cosa ha dato di prezioso alla cultura e alla politica la pratica della differenza? Nelle riflessioni che faccio quasi quotidianamente con Luisa Muraro abbiamo alla fine concluso: il partire da sé, la relazione duale di scambio come produttiva di modificazione perché mette in gioco il desideri0 della singola/o, il lavoro politico sul simbolico, il senso dell'autorità contro quello del potere. Sono portata a pensare che è tutto qui. Qualcuno potrà obiettare: ma è tanto. E, infatti, le donne sono in movimento negli studi, nel lavoro: si respira una certa aria di libertà tra le donne. E soprattutto è ancora aperta la sfida dentro di noi e nella società tra differenza e virilizzazione (essere come gli uomini). Tuttavia ci sono enormi problemi e contraddizioni. C'è, per cominciare, il fatto che il senso comune dei media e di molta politica femminile, attenti (gli uni e l'altra) unicamente alle donne promosse alla visibilità dal potere politico, continua a dire che le donne vogliono la parità e la spartizione del potere con gli uomini. Si assiste così a una amputazione sistematica di desideri e comportamenti. Io e Luisa ci giriamo intorno. Ne discutiamo accanitamente fra noi e con altre. Ma è tutto come sospeso, rarefatto (Luisa segnala i «progressi» della depressione); a me sembra più una situazione analitica, quan~o vedi la ripetizione ma non riesci a modificare l'agire. Tenterò di esporre alcuni problemi o anche semplicemente elencarli: 1) La relazione duale di scambio-contrattazione funziona tra alcune donne. Ha creato testi teorici, luoghi di aggregazione, letteratura, poesia, simbolico femminile. Ha suggerito una modalità di confronto con alcuni uomini (relazione di differenza), permettendo di uscire dalla logica identitaria di genere. Ma non è riconosciuta come forma della politica. Si dice: funziona solo tra donne.

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Anche chi, ad esempio Mario Tronti nel suo libro La politica al tramonto, riconosce al pensiero politico delle donne grande dignità culturale, non coglie la potenzialità di una pratica politica incardinata sulla relazione e sul desiderio di libertà del singolo. Tronti ha in mente il conflitto tra movimento operaio e borghesia che ha prodotto una lunga guerra civile nel Novecento. Conflitto dove c'era chi vinceva tutto e chi perdeva tutto. Conflitto che presupponeva la distruzione dell'altro. Quindi, per Tronti, finito quel conflitto, è finita la grande politica. Io direi che è semplicemente finita quella politica. Alcune donne e qualche uomo ne suggeriscono un'altra basata appunto sulla capacità modificatrice che hanno le relazioni e la contrattazione, da qui la possibilità di aprire conflitti relazionali. 2) In un contesto di modificazione del modo di produzione sembrerebbe naturale interrogarsi sul senso del lavoro ed- ascoltare i bisogni e i desideri di chi lavora, sia essa donna o uomo, dipendente o autonomo. Nessuno, ad esempio, sa come si rappresentano il lavoro le donne che ne stanno diventando la componente più dinamica. È necessario, quindi, ascoltare le singole donne prima di formulare ipotesi associative di tutela del lavoro e forme politiche che le rafforzino. Come si fa infatti a rappresentare il lavoro senza sapere che senso gli dà chi lavora? Alcuni gruppi a Milano, Verona, Brescia, Pescara, ecc. hanno iniziato una ricerca/ ascolto di bisogni e desideri, di raccolta di dati di realtà e contemporaneamente tentano un lavoro politico sul simbolico. Per me, assolutamente necessario. Penso, infatti, che l'attuale svalorizzazione del lavoro (rafforzata e non diminuita dalla richiesta delle 35 ore per legge e del salario di cittadinanza avanzate dalla cosiddetta sinistra sindacale e politica) sia, prima di tutto, simbolica. La teoria marxista, ormai centenaria, riteneva con ragione che del lavoro non si potesse fare a meno perché produttore di ricchezza, mentre del profitto sì. I tentativi di attuazione di tale teoria sono notoriamente falliti. A mio parere perché tra le altre cose non si è capita la forza simbolica del profitto (denaro come misura significante del valore della persona e quindi, mobilitante del desiderio non solo di quei pochi che ne accumulano molto, ma di moltissimi). A questo proposito dalla nostra ricerca/ascolto è emerso che per molte donne, vale a dire per noi stesse che componiamo il gruppo e per molte che abbiamo ascoltato e con le quali abbiamo discusso, il denaro è sì una misura non trascurabile perché assicura la soprav-

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vivenza e l'indipendenza, ma pensiamo che un lavoro abbia senso se procura soddisfacenti relazioni (questa affermazione è comprovata da un'inchiesta del sindacato torinese: i lavoratori mettono tendenzialmente al primo posto l'entità del salario, le lavoratrici la professionalità nel lavoro). Inoltre, per quel che riguarda il tempo, che è l'altra misura classica del lavoro, anche qui la differenza sessuale gioca. Infatti, tendenzialmente, le donne privilegiano la contrattazione individuale del tempo di lavoro. Vogliono in gran numero il part-time oppure preferiscono il lavoro autonomo, anche se ciò comporta meno soldi e meno carriera (a questo proposito è interessante la ricerca di Marina Piazza e altre, Riprogettare il tempo, Edizioni Lavoro). Sulla lettura di questi dati di realtà, com'è noto, c'è stato uno scontro durissimo, di cui ha dato atto, in parte, «il manifesto» a partire da un articolo di Manuela Canosio che dava il resoconto di un convegno da noi organizzato a Milano. Scontro che, a mio parere, ha come posta in gioco la differenza sessuale. Infatti una parte cospicua di donne e uomini della cosiddetta sinistra radicale e politica considera la pretesa femminile di contrattare individualmente o in gruppo l'orario di lavoro, al di qua degli accordi collettivi sindacali, come una forma di flessibilità addirittura paragonabile alla richiesta di licenziare senza giusta causa da parte degli imprenditori. Come mai, mi chiedo, chi rinuncia a una quota di denaro, misura assoluta del capitalismo, in cambio di tempo a propria disposizione, è considerata asservita al volere delle imprese? E come mai chi vuole decidere in prima persona, cioè più liberamente, di quello che è stato fino ad ora, della propria economia di tempo, denaro e modo di lavorare, viene considerata una che peggiora le condizioni di lavoro? Mentre chi sostiene la richiesta astratta di una legge per le 35 ore e per il salario di cittadinanza, che aboliscono ogni differenza e contraddizione, sarebbe un rivoluzionario ... In realtà si pretende che le donne, se entrano nel lavoro, debbano assimilarsi agli uomini, accettare le loro forme di associazione e di lotta politica e addirittura i loro significanti simbolici. Il che sembra senza senso, nel momento in cui le suddette forme politiche hanno perso linfa vitale per gli stessi lavoratori maschi. Ma forse un senso ce l'ha, senso che io definisco misogino, perché tendente alla cancellazione della differenza sessuale.

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Certo è che le nostre proposte di discussione si sono scontrate con uno sbarramento molto forte, soprattutto da parte di alcune donne (Rossanda, Carrosio, Casalini de «il manifesto», nonché alcune sindacaliste di Brescia e Milano). Così che non è riuscita, se non in misura parziale, una mediazione politica con quelle donne del sindacato e non, che pure della differenza sessuale hanno sentito parlare. Quindi siamo in difficoltà. 3) Perciò, io credo, è vitale il lavoro politico sul simbolico. Se è vero che molte donne non sono disposte a monetizzare le relazioni, neppure quelle sul lavoro, ma considerano più gratificante un lavoro dove possano potenziare le relazioni, anche se pagato meno, si può evidentemente nominare la relazione come significante alternativo al denaro e come misura della soggettività. Parlo della relazione in sé, che ha come fine quello di alimentare la relazione stessa, e non delle relazioni strumentali intrecciate per raggiungere obiettivi dati (ad esempio, posti di potere per governare in nome del bene comune). Sono stata sempre contraria al concetto di «bene comune». Ora con la guerra di Serbia e prima con il fallimento del movimento operaio, mi sono convinta che non c'è nessun potere statale, partitico, religioso, economico, che possa stabilire che cosa è bene e che cosa è male: è nelle relazioni che si decide. E da qui bisogna evidentemente riprendere l'analisi, l'approfondimento e la lotta, perché nel movimento delle donne non prevalga la concezione strumentale della relazione. Lo dice bene Chiara Zamboni su «il manifesto» del 16 aprile, invitando a prestare attenzione al fatto che una relazione tra due donne mette in moto qualcosa di imprevisto e di trasformatore. Quindi io risponderei alle obiezioni ricevute (sempre utili comunque): finché stiamo dentro al paradigma ricevuto, anche quello formalmente più rivoluzionario, si perde la radicalità delle idee nuove che avanzano. Secondo me il paradigma relazionale adombra una civiltà altra da quella che conosciamo. Ma è già al lavoro. Si tratta di cominciare a leggere la realtà con questo sguardo.

AL FONDO E AL CENTRO DELLA POLITICA

con Luisa Muraro

«I.:esperienza e il punto di vista delle donne è condizione ormai irreversibile per i rapporti sociali». Leggiamo questa frase in un documento scritto da cinque sindacalisti Fiom, quattro uomini e una donna (pubblicato in www.arsinistra.it e su «Critica marxista» 5/6, 2002). Che cosa vuol dire? Che c'è stato un cambiamento per cui oggi non si può più pensare i rapporti sociali senza tener conto di quel~ lo che vivono e pensano le donne. Ma che significato ha, in questo contesto, «le donne»? S'intende tutte oppure quelle che hanno preso coscienza e parola con il movimento femminista? È una questione che si pone spesso e che, secondo noi, è meglio lasciare così, in sospeso, senza fare separazioni. C'entra, infatti, la natura dei movimenti, pensate a quello delle onde del mare, che continua finché c'è elemento liquido. La discriminante significativa è un'altra e cioè che, con quel riferimento all'esperienza e al punto di vista delle donne, chi scrive mostra di non seguire più l'inclinazione neutra del pensiero che finora ha dominato il pensiero degli uomini in ogni campd, con la sua pretesa di essere universale. Chi ha scritto il documento, con quella frase mostra di sapere che il pensare, così come il vivere, è una faccenda di uomini e donne, e che bisogna tenerne conto, tanto più chi ha un'idea politica da avanzare, come in questo caso. Ma non è facile. Lo ha detto molto bene Paola Melchiori, commentando il Forum sociale europeo in un articolo intitolato Firenze e il femminismo che non c'era («il manifesto» 5 dicembre 2002). Lei al Forum c'era avendo alle spalle anni di femminismo e di partecipazione appassionata al «movimento di movimenti», ma non nasconde che c'era con una certa tristezza. Non mi urta tanto che a poche, pochissime donne è stata data parola autorevole - scrive - quanto l'assenza del sapere politico delle donne nelle analisi e nelle pratiche lì prevalenti. La Melchiori segnala questa sordità politica senza accusare nessuno, perché «mettere la relazione tra i sessi al fondo e al centro

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della politica non è una cosa facile». Bisogna però tentarlo, per non tornare indietro a fare della presenza delle donne nient'altro che «la questione femminile», ossia uno dei capitoli sociali del movimento, come sta capitando. Questa caduta all'indietro è quello che capita anche nel documento dei cinque sindacalisti. Anche qui, infatti, la presenza delle donne, introdotta come esperienza e punto di vista da cui non si torna indietro (irreversibile), diventa, una riga sotto, con un brusco passaggio («Oggi, non possiamo però ignorare ... »), quella che è sempre stata nella cultura della sinistra: una questione sociale, il problema di una categoria sociale colpita da determinate ingiustizie. Il ripetersi di questa riduzione delle donne, da presenza viva e parlante, a un problema, oggetto di un discorso neutro-maschile, è impressionante. Sicuramente c'è sotto qualcosa di molto forte, come un bisogno di ridurre l'altro dentro il proprio discorso. Quello che si nota in superficie è una specie di fretta di sistemare la cosa, ed una scarsa voglia di fermarsi ad ascoltare. Non sarebbe difficile mostrare come questi atteggiamenti di fretta e distrazione, finiscano per sfociare nei comportamenti tipici del potere con la sua tendenza a usare tutto e tutti per espandersi ed accrescersi. Ma i quattro più una che hanno scritto il documento, non mirano al potere. Mirano a dare voce agli operai, a mostrare il valore sociale del lavoro, a fare degli operai e dei lavoratori tutti i protagonisti di nuove lotte contro un capitalismo avido che non cura più la qualità del lavoro. Anzi, loro hanno patito e ora denunciano i meccanismi del potere che usa gli esseri umani per accrescere se stesso. Il lavoro e i lavoratori - si legge proprio in apertura al documento - sono serviti come giustificazione ideologica per una pratica di potere che ha improntato le organizzazioni del movimento operaio e che si è dimostrata falsa coscienza. È vero, com'è vero purtroppo che le denunce di questo tipo ci sono già state e non sono servite. Non bastano, infatti, senza un agire politico che sia sganciato dai dispositivi del potere, e che sia radicato nella realtà umana che si vive in prima persona, donne e uomini in carne e ossa, non dipendenti da rappresentanti né da apparati, dotati invece, singolarmente, di parola e di coscienza critica. Una seconda contraddizione di questo documento, secondo noi, è la sua richiesta di rappresentanza politica rivolta alla sinistra (partiti, deputati, organizzazioni, intellettuali) per conto dei lavoratori.

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I..:istituto della rappresentanza, entrato come noto in una grave crisi di credibilità, favorisce il mutismo dei più e le manovre dei potenti. Non è dunque la risposta ma, al contrario, forma parte del problema della eliminazione del lavoro dal teatro della politica. Ma forse la contraddizione è solo apparente. In quella che sembra una richiesta di rappresentanza ciò che conta veramente potrebbe essere una ricerca di esistenza simbolica. Questa ricerca costituisce forse e senza forse la domanda politica più forte dei nostri tempi: è bisogno di avere esistenza in prima persona, di averla agli occhi di altri, di sapere e sentire che la propria vita ha un senso, che si iscrive cioè in un ori~onte abitato da presenze e avvenimenti di cui si parla e in cui si parlà'con altri. Da tanti indizi s'intuisce che questo cercano anche gli autori del documento, per sé e per i loro compagni e compagne di lavoro. Se è questo, bisogna dire che lo dicono con parole piuttosto faticose, forse perché riprese da una cultura politica macchinosa, alla quale è mancata da sempre questa semplice verità: che la prima, più semplice «rappresentanza» la dà, a ciascuno di noi, la lingua materna. Ossia, la lingua - lingua o dialetto - che impariamo a parlare per prima e che custodisce le esperienze più vivamente sentite della nostra vita. E che sola può introdurre a una politica che mette al suo centro non la conquista del potere né lo sviluppo economico fine a sé stesso, ma la qualità dei rapporti fra esseri umani. Sul lavoro si continua a costruire teorie, che servono soprattutto a chi lo organizza e lo sfrutta. A chi lavora sarebbe tanto più prezioso trovare parole per dire la propria esperienza, nello scambio con altre e altri che la condividono. C'è una libertà che al liberismo fa difetto e che siamo abituati a riconoscere solo agli artisti, ma è sbagliato. È la libertà di inventare nuove mediazioni, indipendenti dai soldi e dai rapporti di forza. Che vuol dire: uscire dal determinismo, scoprire che il mondo racchiude molti mondi e che noi già li abitiamo. Il linguaggio e le relazioni sono il luogo di questa scoperta, anzi: noi siamo il luogo di questa scoperta, nella misura in cui ci lasciamo modificare nello scambio con le altre, gli altri. Mettere le relazioni al cuore della politica, è come l'apertura di un mercato libero e creativo, dove uno/ una smette di essere numero, mezzo, variabile, categoria, questione ... e acquista quella che i linguisti chiamano competenza simbolica: l' autorità di dire con le sue parole quello che gli capita di essere e di vivere. Dunque, la libertà. O, più esattamente, proseguendo nella nostra lettura del testo dei cinque, la libertà del lavoro.

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Nel testo, mettendo sotto accusa l'attuale modello produttivo e sociale, i sindacalisti scrivono che ormai si è andati ben oltre alla forza lavoro trattata come merce: questo modello «mette al lavoro o, meglio, a disposizione del mercato, l'intera esistenza di un individuo». Da queste parole sembra quasi che, contro il meccanismo della mercificazione e in risposta alla sofferenza nel lavoro, sia indispensabile tenere separati vita (privata) e lavoro (collettivo). A noi che da anni portiamo avanti una riflessione sulle pratiche politiche per creare più libertà e agio nel lavoro, sembra di avere trovato una strada, difficile ma percorribile, che è di portare al mercato tutto, cioè anche la qualità delle relazioni sul posto di lavoro, le risposte delle altre e degli altri alla propria presenza, i risultati qualitativi del proprio lavoro, con la soddisfazione che una o uno può averne personalmente ... La strada consiste, insomma, nel fare che la vita straripi nel lavoro, così che il lavoro sia riscattato dalla vita e sempre meno sia qualcosa su cui si esercitano le competenze di tecnici che non ne hanno esperienza in prima persona. Decisiva, a questo fine, è la qualità delle relazioni che si stabiliscono con il lavoro, e che fanno o possono fare barriera all'alienazione. Inoltre, se si vuole riproporre il lavoro come momento centrale di un'esperienza di libertà nella vita di donne e uomini, ci sembra fondamentale interrogarsi sul senso che il lavoro stesso prende nell'insieme dei rapporti umani, interrogarsi in generale ma anche in particolare, «avendo attenzione al singolo lavoratore», per riprendere un pensiero di Gramsci che troviamo citato nel documento dei sindacalisti. Non meno fondamentale dell'interrogazione sul senso del lavorare, infatti, è la risposta del singolo e della singola alla sua propria esperienza, perché senza questa risposta, per quanto in sé esigua, l'agire politico, inteso come agire della libertà, non approda a nulla, e tutto va secondo il piano inclinato dei rapporti di forza. Insomma, si tratta di sentire e di significare la qualità della realtà umana impegnata nell'esperienza di lavoro. Altrimenti, il lavoro si riduce a un'entità astratta misurabile solo quantitativamente. Va detto, tuttavia, che il di più relazionale che gli esseri umani, soprattutto le donne, mettono nel lavoro, sfugge a ogni riduzione astratta. Come tale, esso non è misurabile dal denaro (salario), ma è essenziale per diminuire la sofferenza nel lavoro e per reimpostare la questione del valore del lavoro. Di cui nessuno parla.

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Il testo dei cinque sindacalisti sostiene a un certo punto che la questione salariale, vale a dire una più equa redistribuzione della ricchezza prodotta, è un terreno di scontro decisivo, che ha anche un ulteriore interesse e cioè di mantenere apertà la prospettiva di un miglioramento della produzione e del lavoro. Ma questa sequenza si può capovolgere, forse con migliore risultato. Si può pensare, cioè, che una migliore qualità delle relazioni sul posto di lavoro, una maggiore attenzione alle esigenze, ai desideri e all'intelligenza di chi lavora, un maggior impegno per conoscere e far conoscere le esperienze di libertà e di creatività che pure ci sono nei luoghi di lavoro, porterebbero, di conseguenza, a condizioni migliori per la lotta salariale. Il racconto delle esperienze di lavoro di donne operaie e impiegate ci ha •convinte che gli operai non sono una realtà sociale omogenea di tipo quasi seriale. Per cominciare, ci sono le operaie, ossia corpi, punti di vista, modi di lavorare e pensare il lavoro, che sono differenti e originali. Per cui, a rigore, anche la rappresentanza sindacale, come già quella politica e più ancora di questa, dovrebbe essere messa in questione a causa di questa differenza, come di fatto sta succedendo: chi rappresenta chi e che cosa? Perciò pensiamo che, nella lotta della libertà che oltrepassa i confini del liberismo, la narrazione del lavoro sia qualcosa di prioritario, non solo quella del lavoro femminile che già ha cominciato a farla, ma anche del lavoro operaio e subordinato in genere. I sindacalisti che hanno scritto il documento di sicuro non ignorano l'importanza che ha avuto, agli inizi del movimento operaio, il racconto che Engels fece delle condizioni di vita e di lavoro degli operai inglesi. Può sembrare che, per tutto questo, ci voglia molto tempo, che è proprio quello che invece ci manca drammaticamente sempre di più. Ma attenzione che anche il tempo, come il lavoro, da entità quantitativa che si fa (e ci fa) a pezzi e pezzetti, può essere vissuto invece come tempo di qualità. Il primo è il tempo misurato dalle scadenze, tempo letteralmente scadente, in cui adesso una cosa vale e poi non vale più; il secondo, il tempo qualitativo, è come una quarta dimensione che raduna le molte cose intorno a quella che più ci sta a cuore. Dall'uno all'altro c'è un salto, che è anche un salto fuori dall'ordine imposto; fissare scadenze, infatti, pare che sia una delle operazioni preferite dal potere, forse per impedire che capiti l'imprevisto. Negli anni Trenta Simone Weil si fece operaia per mettere fine ad una separazione; attraversò con il suo corpo vivo i muri di un confinamento, con il proposito di farli cadere. Allora e' era un progetto

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rivoluzionario che aveva al centro la classe operaia, ma lei pensò che non bastasse e aveva ragione, perché quel protagonismo attribuito agli operai non riscattava le loro vite passate in fabbrica. E perché la loro alienazione faceva a pezzi anche lei. Il confinamento dell'esperienza del lavoro, che sia fatto con categorie economiche, sociologiche, sindacali o politiche, colpisce determinati esseri umani più di altri, gli operai più di altri, ma quello che viene così a trovarsi tagliato e separato, è la nostra umanità comune e quello che si perde è la competenza simbolica sulle nostre vite. Ma come si apre la quarta dimensione che dà senso e valore a quello che siamo, per noi stessi? La risposta si può ricavare da quello che stiamo facendo qui, che è di riflettere intorno alla possibilità di fare del lavoro un'esperienza di libertà, con persone con le quali siamo d'accordo e non siamo d'accordo, cercando parole che non chiudano il passaggio fra noi e loro. Si apre cercando nuove mediazioni, rinunciando ai discorsi già fatti, reimparando a parlare. Abbiamo pensato: ci sarà pure uno spazio politico al di fuori della rappresentanza parlamentare, dove le fuggiasche dalla «questione femminile» e i resistenti che non si rassegnano al degrado del lavoro, possano condividere qualcosa di quello che sanno e di quello che sono, sconfinando dal teatro della politica. Che ci sia questa possibilità, noi ne abbiamo fatto l'esperienza in pratica, cioè con una pratica che aveva anche un nome (autocoscienza) ma questo è secondario rispetto al fatto che quella pratica riprendeva un lavoro simbolico che le donne facevano da prima, quello di non lasciare che le cose importanti della vita - i rapporti, i sentimenti, i desideri, le sofferenze - passino sotto silenzio.

LE BELLE RELAZIONI

con Letizia Paolozzi

Secondo noi, nelle relazioni, anche la bellezza viene messa in gioco. Da quando la differenza femminile ci ha fatto capire che è impossibile separare corpo, affetti, emozioni dalla struttura sociale, dalla logica collettiva, dai canoni estetici, ci siamo rese conto che le relazioni possono essere segnate dalla bellezza. Su questo nessuna, speriamo, si permetterà dei dubbi. Solo che la bellezza ce la siamo persa per strada. Non abbiamo creato figure dello scat_nbio. Per un fascio di ragioni di cui alcune le intravediamo. Su altre bisognerà ancora ragionare. Intanto, è dipeso da noi. Noi che, nella politica delle donne, abbiamo fatto un lavoro sul simbolico e cercato le parole appunto che declinassero figure dello scambio come autorità, disparità, fiducia, affidamento, differenza. Ma della bellezza non abbiamo detto granché. Sia nel racconto dell'esperienza femminile sia nella prima riflèssione politica. Premevano altre urgenze. Fondamentale: quella dell'essere sessuato femminile che, nel «partire da sé», provava a sciogliersi, a livello di rappresentazione, dall'altro sesso. Nel frattempo, nel mondo anglosassone - ah le americane! - le donne del movimento si accanivano sul corpo femminile: sul proprio corpo. Giacché gli uomini questo corpo lo desiderano, cioè mi desiderano con i lunghi capelli biondi, tutta curve, depilata, soffice, cremosa, per disobbedirgli eccomi qui: impigrita nella carne. Con la testa rasata; i lunghi peli sulle gambe; insomma, per quanto possibile imbruttita. Farsi belle; farsi brutte. I contrari si sono toccati e la guerra tra i sessi prende strade francamente imprevedibili. Nel femminismo italiano, a osservare le foto d'antan, la bellezza non è stata così repressa. Bandita. Un movimento di ragazze e giovani donne e donne più anziane ha camminato senza contrapporre schede anagrafiche (come invece avviene adesso, noiosamente) tra le giovani (femministe in nuce) e le anziane (femministe pluridecorate). Eravamo un bel movimento. Lintuizione della bellezza l'abbiamo preserva-

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ta. Nell'album fotografico, infatti, le donne sono - siamo - eleganti, curiose. Diversissime. Tra i gesti liberatori, la varietà nel vestire: gonnellone, jeans, minigonne. Una eterogeneità sorprendente, sfiorata dalla bellezza. Che però non era nominata, per via di una singolare mancanza di pensiero. Anche oggi non c'è pensiero di donne capace di leggere le campagne consumistiche sulla bellezza. Che è comunque legata al corpo femminile. Che pure appartiene al corpo femminile. Non abbiamo bisogno di resuscitare la cultura neo-saffica per convincerci. Sappiamo del corpo femminile desiderato. Non solo oggetto di desiderio degli uomini. Ma corpo visto da altre donne. Noi proviamo attrazione per la bellezza femminile. Altre l'hanno provata per noi. Ci siamo accorte con sorpresa che ci guardavano. Sfuggendo ai canoni estetici, la bellezza crea relazioni attraverso un gioco di sguardi. Per questo non vogliamo stabilire dei canoni estetici. Dal momento che i canoni sono deperibili, mortali, mortiferi. Non a caso il gruppo di donne delle Città vicine è partito dall'assunto che le (belle) relazioni e la bellezza umanizzano le città. Consideriamo la bellezza un mezzo non aggressivo, non violento, dello scambio relazionale. Al contrario, l'intelligenza, con la sua tendenza a giudicare, è un'arma aggressiva. Che può agire negativamente. In fondo, nel movimento, gli scontri sono nati per via del giudizio. Non per disparità della bellezza. Per questo, anche, non rientra nel nostro registro stabilire dei canoni destinati a contrastare il mercato. Conosciamo abbastanza bene (per averla sperimentata in prima persona) l'ala moralizzatrice contro la taglia 42. Ci eravamo dette: se è l'Occidente a imporci quella (simbolica) servitù, noi la sveleremo. Sveleremo la futilità, la scarsa serietà della bellezza e di chi la detiene. Senza capire che, magari, quelle accuse potrebbero essere il frutto di un atteggiamento moralistico cattolico; oppure della sinistra. Un simile atteggiamento il femminismo l'ha tolto di mezzo. In Italia, il movimento non ha accettato di considerare l'imbruttimento una forma di sottrazione allo sguardo maschile. D'altronde, di una bellezza «stabilmente nostra» abbiamo avuto conferma più che dallo sguardo maschile, da quello materno e poi da quello femminile. A quel punto ci siamo interrogate su cosa mai poteva esserci di negativo nel fatto che anche ragazze dalle gambe storte, in minigonna inguinale, desiderassero riflettersi nello sguardo che loro stesse avevano sollecitato. Ci siamo domandate perché mai fustigare la provocazione - che si esprime con le pance nude - del desiderio maschile.

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Non per fare le avvocate del diavolo, ma a noi sembra che il corpo femminile che si sottopone a operazioni estetiche forse si inventa una nuova personalità. Nell'obbedire alla moda, forse ne lancia una nuova. Attraverso il trucco forse si sdoppia teatralmente. Scrive Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici: «Oggi i Caduvei si dipingono soltanto per essere più piacenti; ma un tempo quest'uso aveva un significato più profondo. Dalle testimonianze di Sanchez Labrador, le caste nobili si dipingevano solo la fronte, mentre il volgo si ornava tutto il viso; in quell'epoca, soltanto le giovani donne seguivano la moda. Il missionario è allarmato per questo disprezzo dell'opera del Creatore; perché gli indigeni alteravano l'apparenza del viso umano? Egli cerca delle spiegazioni: è forse per ingannare la fame che passano ore a tracciare i loro arabeschi? O per rendersi irriconoscibili dal nemico? Qualsiasi cosa si possa immaginare, si tratta sempre di trarre in inganno. Perché? Per quanta ripugnanza possa provarne, anche il missionario deve riconoscere che queste pitture hanno per gli indigeni un'importanza primordiale e in un certo senso sono fine a se stesse». Chissà se ancora (o di nuovo) oggi il trucco è un gesto fine a se stesso e così l'operazione di liposuzione, il collagene per le labbra. Certo, c'è di mezzo il rapporto con la giovinezza. E la vecchiaia che per alcune è una strada sbarrata. Nessuna attesa; nessuna possibilità di suscitare interesse. Per altre invece la vecchiaia non è un'esperienza grave, triste, melanconica. Anche questo abbiamo capito nel movimento delle donne. Abbiamo appreso la bellezza delle donne antiche, che portano la loro antichità con stile. Con eleganza. Vedere, guardare. Il gioco di sguardi - lo ripetiamo - è uno tra gli elementi più relazionali che conosciamo. La relazione, quando funziona, produce fiducia, forza. Così si spiega, perlomeno ai nostri occhi, la necessità di iniziare una riflessione sulla bellezza. Di colpo ci accorgiamo di disporre di un pensiero che è metà della civiltà umana. Lumanità è d'accordo che la bellezza è della sua componente femminile. Poiché noi della bellezza abbiamo una competenza simbolica, adesso ci interessa capire in quali modi giocarla nelle relazioni.

LA FETTA DI

TORTA

Interrogata dalla suocera, Claire Lalone, sul movimento delle donne, com'era, che cosa voleva, ecc., a ogni domanda Grace Paley, grande scrittrice americana e femminista, rispose che sì, ci sarebbero state donne avvocate, che sì, le donne avrebbero lavorato con stipendi pari a quelli degli uomini e che si sarebbero finalmente liberate dagli uomini che le comandavano a bacchetta, che sì, la gente avrebbe amato le figlie femmine tanto quanto i figli maschi. Ma c'è dell'altro da dire, aggiunse, e cioè che «la maggior parte delle donne del movimento non voleva un pezzo della torta dell'uomo. Pensavano che quella era una torta piuttosto velenosa, tossica, piena di armi, gas velenosi e ogni tipo di ignobile porcheria, non ne volevano neanche una fetta di quella torta». «È moltissimo», commentò allora Claire Lalone. lo dico che la richiesta del 50/50 è una fetta anzi una fettina di torta avvelenata e vorrei spiegare il perché. In tutte le 'proposte di parità e rappresentanza di sesso c'è un nucleo perverso che va disvelato, ed è che quelle politiche hanno come scopo l'occultamento della differenza femminile e soprattutto delle ; sue pratiche, pratiche che costituiscono un altrove e 'un altrimenti rispetto ai luoghi e alle forme della politica maschile. Si occulta regolarmente il fatto che le eventuali candidate dovranno, comunque, essere selezionate dai partiti e passare quindi attraverso le regole di carriera che essi impongono. E si sorvola, in questo caso, sul fatto che si tratta di mere candidature e non di una effettiva parità fra eletti. A parte ciò, la prima cosa da chiarire è che la rappresentanza nel parlamento e in tutte le altre assemblee elettive non ha a che fare con il principio di uguaglianza tra i sessi già sancito dalla Costituzione, bensì strettamente con il potere. Si tratta di una richiesta di spartizione del potere tra i due sessi, potere che nella democrazia rappresentativa si esercita per lo più attraverso i partiti. E le carriere nei partiti, così in parlamento e nel governo, si giocano sul potere. Le candidate donne, per arrivare a sedersi sui seggi delle assemblee elettive e nei posti de-

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cisionali, debbono quindi accettare molte, potenti mediazioni: quelle del partito che le farà eleggere, quelle di un'inevitabile adesione e legittimazione del potere maschile che lì si esprime e tutte le mediazioni che richiede il fare leggi e regolamenti. Un altro fatto incontestabile è che la gran maggioranza delle donne, finora, non si è mossa con forza, né dentro né fuori dai partiti, per l'obiettivo di una pari presenza femminile nei vari parlamenti nazionali, regionali, comunali, ecc. Cosa tutt'altro che trascurabile, perché, quando si tratta di spartizione del potere, si tratta di rapporti di forza, di pressione, di lotta, di determinazione per ottenerlo. In questi ultimi trent'anni, ripeto, quando si è riproposto da parte di alcune l' obiettivo della parità nella spartizione del potere, a me non sembra che ci sia stata una risposta di sentita adesione femminile. Ho visto invece l'impegno politico di donne per acquisire libertà nei rapporti con gli uomini, nel lavoro, ecc.; ho visto manifestazioni e continua vigilanza per difendere l'autodeterminazione delle donne nell'aborto. Ma non ho visto un'effettiva pressione per ottenere il riequilibrio della rappresentanza. Vent'anni fa, vigente il sistema proporzionale con ampia possibilità di preferenza, le donne comuniste avevano presentato molte candidate nelle loro liste: non si è notato un netto orientamento dell'elettorato femminile per dare la preferenza alle donne. Non solo dell'elettorato ma anche, mi riferisco al presente, delle elette. Quando, di recente, Rosy Bindi ha presentato la propria candidatura per leprimarie che dovranno designare il segretario del Partito Democratico, la maggioranza delle dirigenti e parlamentari dei DS, tranne una, Franca Chiaromonte, si sono dichiarate per Veltroni, anzi, per il cosiddetto ticket Veltroni-Franceschini, cioè per due uomini. Eppure, tra di loro molte si erano già pronunciate in favore di una legge per la parità delle candidature. Un'insensatezza logica e politica. O forse, la finalmente sincera dichiarazione: il partito è la mia patria e le donne vadano pure a farsi benedire. Perché mai, chiedo, la lotta delle donne insieme, dovrebbe mettersi al servizio dei partiti? Dai fatti, indubbiamente, risulta un'ambiguità delle donne, che è da interrogare, non da censurare: votano, dunque non dicono di no alla cittadinanza, ma non dicono sì alla rappresentanza di sesso. Di ciò si lamentano alcune politiche e commentatrici, le quali interpretano questo comportamento come una sconfitta del femminismo. Neanche Chiara Saraceno ne viene a capo e crede di vedere come unico rimedio quello di non andare a votare, finendo

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però contraddittoriamente a parlare di quote («Corriere della Sera» del 15/7/2007). Queste cancellano così in un solo colpo l'originalità (riconosciuta a livello internazionale) di una parte consistente del femminismo italiano, che è rimasta fedele alla pratica del partire da sé e delle relazioni, per la semplice, fondamentale ragione dei vantaggi ottenuti. Lesitazione delle donne a perseguire la parità non viene interrogata così come non s'interroga né la crisi della democrazia rappresentativa né le proprie contraddizioni al riguardo. In realtà le donne, come ogni elettore, sanno che le elezioni sono fatte per scegliere un partito o un altro, una coalizione o un'altra, ed è un puro corollario che all'interno di quella opzione, che è quella veramente significativa a livello di politica istituzionale, si vada poi a pescare una donna nella lista. D'altra parte, sono molte le donne, e io mi metto tra loro, che non vogliono stare in tutte le istituzioni create a misura di uomini: parlamenti, eserciti, chiese, ecc. Alcune sl éhe lo vogliono, ma mentre quella che entra nell'esercito o nella chiesa vi entra chiaramente solo per se stessa, quella che entra nel parlamento, istituto della rappresentanza, e per giunta vi entra con l'idea di una possibile rappresentanza di sesso, copre la volontà di quelle che si tengono fuori, anzi, che vogliono sottolineare la loro assenza da lì. Sia chiaro che non penso e non parlo contro quelle che al parlamento vanno apertamente per un proprio desiderio, con una competenza e un'ambizione da far valere. Io parlo contro la rappresentanza di sesso, ossia contro quelle che vorrebbero rappresentare anche i miei desideri e interessi. Contro ogni discorso di rappresentanza di sesso c'è, infine, il pensiero sicuramente condiviso da molte, che il senso della differenza femminile esige che si ragioni con la forza della sua interna necessità e non con la forza della necessità del diritto e delle forme della politica maschile, nelle quali è da includersi la politica di parità. Quando parlo di necessità interna, mi riferisco sia al gesto iniziale del femminismo, quando alcune decisero di riunirsi in piccoli gruppi di autocoscienza di sole donne, sia al lavoro politico per farla essere, la differenza, senza pretendere di rappresentarla: una pratica politica che si può quindi definire, senza mezzi termini, antiparitaria. La polis delle donne è un esteso movimento di luoghi, spazi e relazioni nazionali e internazionali, e ha una valenza politica secondo me maggiore del parlamento e di altre istituzioni consimili, se non altro perché non si basa sulla separazione tra pubblico e privato, politica

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e vita, ma, al contrario, è strettamente legata alle forme di vita. È in sostanza un insieme relazionale che vive nei rapporti effettivi che le persone hanno. Questa concezione della polis non è circoscritta al solo movimento delle donne. Alain Touraine vede, nell'impegnarsi delle donne a tenere insieme privato e pubblico, una strada per uscire dalla crisi di civiltà che stiamo vivendo. Di recente sul «il manifesto» del 28/6/2007, Marco Bascetta, parlando dei movimenti politici, afferma che essi «non sono domande, rivendicazioni, vertenze ma forze che tendono ad affermare degli stati di fatto». E aggiunge: «essi agiscono la democrazia contro la rappresentanza». Io penso che si riferisca principalmente al movimento delle donne. Sergio Bologna, in un testo in corso di pubblicazione, afferma: «se il lavoro femminile oggi è il lavoro tout court, le azioni di autotutela, le strategie di libertà, i modi di convivere con la precarizzazione, insomma il modo per non restare schiacciati dall' organizzazione del mercato del lavoro è quello delle pratiche femminili, quello - e non altri - è il modo di coalizione con valenza generale, con cui gli uomini debbono confrontarsi» 1. Perciò mi infurio quando vedo avanzare delle proposte di quote da assicurare alle donne nelle liste, perché, così facendo, non si fa che restringerle politicamente a una categoria, in un settore, mentre esse stanno guadagnando o possono guadagnare il centro della politica. In una prospettiva più generale, notiamo che questa richiesta di spartizione paritaria del potere è posta in un momento storico nel quale la democrazia rappresentativa è morente, poiché la prima esigenza della globalizzazione capitalista è quella di poter decidere più rapidamente possibile, quindi si tende a riconoscere più potere personale ai primi ministri, ai presidenti della repubblica, al governo, ecc. Domanda: questa deriva decisionista e liberistica va bene alle nostre sostenitrici delle pari presenze di donne e uomini in tutti i luoghi elettivi e decisionali? Sembra di sì. Esse arrivano a scrivere che l'obiettivo è quello della pari presenza, qualsiasi sia la legge elettorale. Esse, poi, plaudono indiscriminatamente ad Aznar come a Zapatero o Sarkozy i quali, con il potere personale che gli deriva dalle loro cariche e soprattutto dal leaderismo imperante, hanno nominato governi a metà costituiti da donne. Dunque, si vuole una presenza numerica di donne Sul libro di Bologna, si veda Riflessioni sul saggio di Sergio Bologna, Ceti medi senza futuro? Scritti, appunti sul lavoro e altro, infra, pp. 273-279 [N.D.c.] . 1

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nei parlamenti e nelle altre assemblee elettive, astraendo dal contesto politico istituzionale del paese. Non ci si pone neppure la domanda su che cosa hanno fatto per modificare l'ordine maschile di gestione del potere, le ministre di Aznar o di Zapatero. Inoltre, se si discute di democrazia paritaria, mi sembra, come minimo, che si dica quale idea di democrazia si ha in testa, quale legge elettorale sia tale da rafforzare la democrazia e quale no. Non sarei d'accordo, infatti, e come me molte altre, credo, con una riforma che, ad esempio, prevedesse sì un'ampia quota di presenza femminile nelle liste ma nel contempo assegnasse più potere decisionali al primo ministro o al presidente della repubblica. La democrazia paritaria, per le sostenitrici del 50/50, sarebbe il completamento della democrazia così come pensata dagli uomini. E quella pensata dalle donne? Se ne parlerà poi, rispondono alcune. Questo è l'obiettivo, rispondono altre, la differenza è un arcaismo che ci tira indietro. Altre ancora pensano che quest'obiettivo, così semplificato da essere quasi uno slogan, serva se non altro a smuovere le acque. A me sembra, molte volte, di urtare contro un limite teorico e pratico senza scampo. Tuttavia ci sono già delle intuizioni felici. Trovo di primaria importanza dire che le soggettività eccedono le regole della rappresentanza e dei partiti. Alcune di noi lo hanno detto e scritto. Altre, penso a Marisa Forcina e a Bruna Peyrot (una torinese che vive in Brasile, ha scritto La democrazia al tempo di Lula e La cittadinanza interiore), hanno già iniziato a riflettere sulla democrazia a partire dal pensiero e dalla pratica della differenza. Il pensiero di Bruna Peyrot ruota attorno a un'idea centrale: non c'è cittadinanza democratica credibile senza quella che lei chiama cittadinanza interiore, ovvero non c'è diritto che venga dall'esterno senza una mobilitazione della soggettività, che viene dall'interno. Lei propone in sostanza un decalogo di consapevolezze: la prima consapevolezza, non a caso da lei proposta per la cittadinanza interiore, è quella della differenza sessuale, ovvero la capacità di ricostruire la relazione tra donne e uomini dopo il femminismo, perché questa relazione,è stata messa in discussione alla radice e bisogna ripensarla; lei poi ne indica altre: il diritto all'autobiografia, e via dicendo. A me sembra che qualcosa si stia seriamente muovendo nel senso da lei indicato e trovo che «cittadinanza interiore» sia un'espressione molto bella ed efficace. Marisa Forcina, a sua volta, dice esplicitamente che l'autocoscienza, cioè la forma politica delle donne, è una forma della cittadinanza, perché la cittadinanza è per prima cosa le relazioni che stabilisci.

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So che la strada è lunga. Mi sembra, però, che qualche spunto felice per risignifìcare la democrazia tenendo ferma la barra della differenza, ora lo abbiamo.

Testi citati: GRAcE PALEY, L'importanza di non capire tutto, Einaudi, Torino 2007; ALArN TouRAINE, Le monde des femmes, Fayard, Paris 2006; SERGIO BoLOGNA, Ceti medi senza futuro? Scritti sul lavoro e altro, Derive Approdi, Roma 2007; PRUNA PEYROT, La cittadinanza interiore, Città Aperta Edizioni, Traina 2006; MARISA FoRCINA, Donne: lavoro e cittadinanza, in «Critica marxista» n. 6, nov.-dic. 2006.

Al mondo con amore e con onore

Voglia di stravincere. Intervista a Lia Cigarini di Marina Terragni, «Via Dogana» n. 68, Voglia di stravincere, marzo 2004 Insopportabile, «Via Dogana» n. 69, 11 settembre-I I marzo. Scriverò un poema, giugno 2004 Al mondo con amore e con onore, «Via Dogana» n. 70, Non c'è archivio per quelle immagini, settembre 2004

VOGLIA DI STRAVINCERE

Intervista a Lia Cigarini di Marina Terragni

L.C.: Partiamo da quello che ha scritto Luisa Muraro sulla lingua corrente, là dove dice che noi abbiamo un'idea sofisticata e perfetta della differenza sessuale, senza lacune, quasi priva di contraddizioni. Lei propone invece di considerare la differenza come si esprime nell' esperienza concreta delle donne e degli uomini, cioè ascoltando senza filtri la lingua corrente. Di mettere in discussione anche il linguaggio che abbiamo elaborato, confrontandolo con questa lingua corrente, che probabilmente sta parlando della differenza. La relazione con gli uomini, la relazione di differenza, io la penso come una relazione molto conflittuale ma non distruttiva. La pratico così e me la rappresento così. Forse però la mia è una rappresentazione ideale, perché quando poi entro in contatto con l'esperienza comune, quando come avvocata mi trovo a difendere le donne nelle cause di separazione, le vedo agire un forte senso di rivincita nei confronti dell'uomo con cui hanno vissuto. Come se avessero di fronte un nemico da distruggere. M.T.: Hai in mente qualche caso? L.C.: Quando c'è una lunga contrattazione per arrivare a una separazione consensuale o si finisce in giudizio, le cose vanno quasi sempre così. Soprattutto le donne disconoscono le capacità paterne del compagno. Dicono che non sa accudire i figli, che li fa ammalare, non sa farli studiare, ecc. lo riconosco una competenza speciale alle madri, ma non penso a un'assoluta inettitudine paterna, perché non giova a nessuna. Più precisamente penso che nel conflitto tra madre e padre il sapere femminile debba fare qualcosa di più che rivendicare un'assoluta competenza della madre. Anche perché in questo modo entra in gioco la libertà femminile. È libertà anche saper inventare mediazioni. Tuttavia per ora la propria libertà va seconda rispetto alla rivendicazione dell'assoluta competenza materna. lo tra responsabilità totale della madre e libertà vedo tante contraddizioni, loro no.

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M.T.: E sui soldi? La moglie che si separa, secondo la caricatura corrente, lotta fino all'ultimo quattrino. L.C.: Il problema non è qui. Lobiettivo vero è negare il partner come padre, come marito. C'è questo forte desiderio di rivincita sul maschio. Sui soldi, a parte forse quelle poche ricchissime, le donne non sono poi così agguerrite. A volte mi tocca richiamarle perché chiedano di più. La questione dei soldi la pongono soprattutto gli uomini, che cercano di dare il meno possibile o per farla pagare alla moglie che ha voluto la separazione, oppure perché per loro è una misura per sistemare le cose e i sentimenti. La lotta delle donne è soprattutto sui figli. Io sono d'accordo che vengano affidati alle donne, ma non sulla pretesa di cancellare totalmente il padre. Vogliono anche che lui sia riconosciuto come il colpevole assoluto della fine del matrimonio. Che resti agli atti. Ci sono anche i matrimoni che finiscono perché «lui non parla». I figli sono ormai grandi, e lui passa il tempo in silenzio davanti alla tv. Le donne pensano che un matrimonio senza comunicazione sia finito. Gli uomini si difendono dicendo di aver sempre lavorato e mantenuto la famiglia e quindi di ritenersi a posto. In genere questi matrimoni finiscono civilmente però nell'assoluta incomprensione tra le parti. Qui direi proprio silenzio tra uomo e donna non tra madre e padre. M.T.: Torniamo a quelle che vogliono stravincere. Di che cosa si vogliono risarcire, annientando il compagno? Qual è il conto che vogliono vedere saldato? L.C.: Il fatto di avere dato molto nella relazione e di non aver ottenuto nulla, credo. Questo ingenera un conflitto non mediabile, che mi lascia un po' disarmata, avendo un'idea di differenza femminile come capacità di comprendere l'altro, di saper gestire il conflitto relazionale tenendo una misura. M.T.: Cosa perdono le donne, perdendo questa misura? Di certo perdono l'amore degli uomini: dopo lo sterminio, costruire una nuova relazione non sarà facile. L.C.: Ciò che va perduto è la civiltà delle relazioni. Infatti le donne che io vedo dal mio osservatorio parziale ma strategico dicono qualcosa di un conflitto ancora selvaggio che rende zuccherosa la frase che ho appena detto, la civiltà delle relazioni. Insomma il conflitto tra i sessi, la stessa differenza così come agisce, ci toglie molte parole.

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M.T.: Quando poi ottengono quello che vogliono, le donne sono felici? L.C.: No. E infatti c'è molta depressione femminile. Quasi sempre queste donne restano sole. Pochissime vogliono un nuovo compagno, a differenza degli uomini che cercano di risposarsi. La novità positiva è che le donne possono contare sulle amiche, su una rete di relazioni con le donne. Ma questa è anche una strada di separatismo. M.T.: Da quanto tempo le cose vanno così? L. C.: Il passaggio è stata la presa di coscienza femminile, trent'anni fa. Prima le donne che si separavano erano vittime, totalmente dipendenti. Molti cambiamenti sono stati impressionanti: in primo luogo l'autonomia, scelgono loro di separarsi, scelgono avvocate donne, ci si fa sostenere dalle amiche, non si accetta di restare insieme quando non si comunica più, c'è l'indipendenza economica, ecc. M.T.: Ma tutto questo nuovo, tu dici, quest'autonomia, potrebbero essere giocati nel mantenimento della «misura» di cui parli tu. L.C.: Sì. Il salto di qualità che noi vorremmo, verso una civiltà segnata dalla differenza femminile, però non si vede. Quello che si vede è un femminismo aggressivo e separatista. Le donne hanno sicuramente guadagnato autonomia, ma il salto di civiltà di cui noi parliamo non c'è. La voglia di stravincere usa le parole del femminismo, la lingua dei diritti. «lo ho diritto»: è una lingua che si trova bell'e pronta sui femminili, nei mass media. Linguaggio che in verità è smontabile rapidamente, perché poi le donne sono molto sensibili alla relazione, sed parli riesci a riportarle alla loro esperienza reale. In questo la differenza la sento. I maschi sono granitici. Quando si difendono dicendo «sono un bravo marito», non riesci a fargli capire che se non parlano con la moglie il legame non c'è. Le donne invece restano sempre sensibili alla presenza dell'altro. M.T.: Questi matrimoni che esplodono in una conflittualità così forte mi fanno pensare ai delitti in famiglia. Anche qui spesso ci sono «bravi mariti», coppie normali. E anche qui, improvvisamente, la perdita di una misura, con conseguenze ben più gravi. Due aspetti che sembrano entrambi rappresentare un conflitto sordo, che oggi non trova più il modo di esprimersi. Sul lavoro, per esempio, il conflitto tra i sessi quasi non esiste più, tutto appare pacificato. Il conflitto è confinato nel privato, dove l'uomo e la donna se la v!dono da soli.

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L.C.: Indubbiamente c'è una grossa fetta di uomini che minaccia, anche nelle separazioni. Forse l'aggressività femminile va letta anche come risposta a questa minaccia. Io credo che il conflitto tra uomo e donna nella coppia sia percepito dal senso comune. Ma non nella profondità di cui parlavo prima. E dire che i dati statistici parlano chiaro: meno matrimoni (quelli religiosi calano a picco), meno figli; a Milano, città che indica sempre la linea di tendenza, uno su due matrimoni finisce in separazione. Ma nessuno/a che dica: donne e uomini non si sopportano e quindi non possono pensare a una vita in comune. lo ci vedo quel conflitto quasi mortale che scombussola il mio pensiero, però non so al momento che cosa dire, perché non è nella mia esperienza. M.T.: Penso che la gente sappia che questo conflitto c'è e che le mediazioni non si trovano. L.C.: Però viene rappresentato in modo vacuo, nella lingua dei diritti, il diritto della moglie e quello del marito, contrastanti. Quello che invece non è rappresentato affatto è il conflitto nel lavoro. Lì gli uomini e le donne si odiano, anche se qualcuna dice che è un luogo dove la seduzione gioca ancora un ruolo di mediazione, ma tutto cova sotto la cenere. Le donne si adattano al modo di lavorare maschile, fanno molta fatica a metterlo in discussione perché hanno paura di perdere posizioni. Chi dice che i capi donna sono uguali agli uomini o peggio, non considera che le donne non riescono a mettere in discussione quel modo di lavorare perché hanno paura di perdere. M.T.: Una fatica dell'adattamento che può creare degli scompensi nell'esercizio del potere. L. C.: Il comando, la gerarchia, sono molto legati alla sessualità maschile. Le donne che arrivano in certe posizioni finiscono per essere delle caricature. Lo dicevamo già nel «Sottosopra verde», qui c'è uno scacco femminile. Le donne non hanno avuto paura di affrontare il conflitto tra i sessi nella coppia e come ho detto combattono alla grande. Sul lavoro invece hanno paura e si adattano. M.T.: Mi pare che le giovani donne siano convinte che il conflitto tra i sessi non esista più, che sia una cosa del passato. Si affacciano alla vita affettiva e alla vita lavorativa con estrema fiducia. Poi, invece, andando avanti, la conflittualità deflagra. Moriremo confliggendo? Il conflitto è una componente ineliminabile della relazione tra i sessi?

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L.C.: Credo di sì. C'è asimmetria tra i sessi. Non c'è reciprocità, né complementarità. Possono esserci una libera differenza maschile e femminile che si confrontano, che confliggono, che trovano mediazioni. Ma il conflitto è ineliminabile. M.T.: Se però anche le donne rinunciano alla ricerca della mediazione, visto che in questo gli uomini non sono tanto bravi, c'è il rischio di finire nei guai. L.C.: Se confliggendo non si sa trovare una mediazione e una misura, o non si apre il conflitto tout court, come succede sul lavoro, si finisce nella sofferenza, nella depressione. Se la civiltà che le donne hanno creato nei secoli fino ad ora viene meno in cambio di un femminismo rivendicativo che rappresenta il conflitto solo sul piano dei diritti, si tratta di un ulteriore decadimento della civiltà. Proprio perché viene meno quella civiltà delle relazioni che ha saputo preservare taluni luoghi dall'invadenza del denaro e delle logiche competitive. C'erano delle relazioni in cui la competizione non entrava. Nella relazione materna, prima fra tutte, in cui a ogni figlio era dato secondo il bisogno. Oggi si fanno sempre meno figli, si lavora in modo sempre più competitivo, i figli vengono affidati a madri extracomunitarie che a loro volta affidano i figli ad altri, nel paese d'origine. Lo scenario è quello di una perdita di pezzi di civiltà. La pratica della differenza vuole aprire un'altra strada. Ma la pratica politica è di pochissime. M.T.: Torniamo alla volontà di stravincere. Può essere una compensazione alla mancanza di potere? Perché questa rivendicatività non viene messa invece nel perseguire il potere? L.C.: Per la verità io sono molto contenta che le donne rinuncino a competere per il potere nelle istituzioni o nelle imprese. E a mio parere con questa voglia di stravincere sull'uomo il potere non c'entra. Qui c'è delusione per il fatto che gli uomini non sanno tener vivo l'amore. C'è la rivendicazione dell'assoluto della maternità: ma la paternità esiste anche se gli uomini non sanno più cos'è. Non si tratta di potere. Qui sono questioni di amore, di figli, di felicità, di sofferenza. Un groviglio sentimentale, con l'idea che a sapere dell'amore sono le donne. M.T.: Come reagiscono gli uomini di fronte alla voglia di stravincere delle loro mogli? L.C.: In modi molto diversi. Tanti la mettono sui soldi. Ma c'è anche molta rassegnazione. Si sa che su queste questioni le donne

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sono favorite, che sono loro le più forti e decidono la separazione. Che hanno in mano la partita, e che anche le avvocate e le giudici sono quasi sempre donne. Del resto è vero che sul terreno dei sentimenti le donne sanno di più e hanno parola. I maschi restano muti. Quello che dico è che con tutta questa sapienza femminile si potrebbe fare di meglio. M.T.: Le avvocate tendono a rappresentare la voglia di stravincere? L.C.: In genere si adattano a queste richieste, riservando loro stesse la civiltà femminile al loro privato, senza portarla nella professione. È quello che si diceva prima: c'è paura di perdere se metti in discussione il modo di lavorare. E le cause, alla fine, devi vincerle. M.T.: Quando tu cerchi invece di praticarla, questa civiltà femminile, come fai a tenere insieme le due cose, la mediazione e la necessità di vincere? L.C.: Faccio una grande fatica, che non viene convertita in parcella. Parlo molto, con la cliente, coi due coniugi, con l'avvocata avversaria. Spendo molto tempo non retribuito. M.T.: Tieni un piede fuori dal mercato. L.C.: Diciamo così. Anche questa paura che hanno le avvocate, di perdere se agiscono diversamente, è un segnale del fatto che c'è bisogno di una pratica della differenza che abbia nuovi punti di attacco buttando a mare molte cose, molte parole. La nostra attenzione a quella che chiamiamo lingua corrente dovrebbe essere questo. Pensa che queste mie clienti separande mi sono tornate in mente solo dopo che Luisa ha parlato di lingua corrente. Anni fa le clienti le avevo sempre presenti e coincidevano con me, mentre adesso è un corpo a corpo, emotivo e linguistico, irrisolto.

INSOPPORTABILE

«Via Dogana» ha messo a tema la lingua corrente. Non è una proposta politica, «non si tratta cioè di sostituire il pensiero della differenza sessuale con un pensiero più avanzato. Ma piuttosto di tenerlo disarmato vicino al non pensiero di cose che non c'entrano ma càpitano». Per me, insofferente negli ultimi tempi al linguaggio un po' rarefatto e ripetitivo di questa rivista (le parole a me o danno energia per capire e agire o sono morte), l'idea di lingua corrente ha significato immediatamente un ripensare e far parlare le scelte che andavano facendo le mie clienti separande nei loro rapporti con gli uomini e i figli in nome del femminismo dei diritti, scelte magari opposte alle mie e dettate da un desiderio di rivincita che mi è estraneo. La mia lettura può essere discutibile e, infatti, è discussa. Ma il punto non è qui. Questo materiale - la relazione/conflitto con; gli uomini mi (ci) ha sempre coinvolto da vicino - è, diciamo così, pane per i nostri denti. È vero che io, insieme ad altre, ho fatto un salto a lato sottraendomi ai molti disagi della relazione quotidiana con un uomo. Tuttavia la riflessione sui rapporti con gli uomini, sempre viva e approfondita, ha creato un sapere che può circolare nonostante le scelte diverse tra me e le mie clienti, tra le lettrici di «Via Dogana» e forse si può dire tra le donne. Perché si è sempre cercato, con un'estesa pratica di relazioni, che non fosse una collocazione marginale (separatista) ed estranea al mondo. Questa collocazione a lato ma strettamente connessa con il mio (n0stro) desiderio di esistenza libera, si è rivelata preziosa anche per capire qualcosa della sempre maggiore femminilizzazione del lavoro. La riflessione di tanti anni in un gruppo a partire dalla nostra esperienza lavorativa, insieme agli scambi con altre donne lavoratrici e sindacaliste e con uomini interessati al tema del lavoro, mi permette di leggere il conflitto tra i sessi, la contraddizione tra vita e lavoro, la parlante differenza femminile, anche sotto quello che si presenta come un discorso di uguaglianza raggiunta con gli uomini e di adeguamento indolore al loro modo di lavorare. Ho la sensazione che, se

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il confronto andrà avanti con sempre più donne lontane dalla pratica della differenza, senza pretendere di ordinare il materiale secondo la lingua che si è già costituita in questi trenta anni tra di noi (sono state le linee seguite negli incontri sul lavoro voluti da Pinuccia Barbieri in Libreria), ci sarà una contaminazione dei linguaggi e del pensiero nel mettere in discussione il modo di lavorare maschile o perlomeno nel creare movimento e riflessione. E poi è capitato l'Iraq, le soldate, le torturatrici con scatto pornofotografico. Qui non mi sembra che abbiamo una riflessione collettiva e una pratica politica adeguata. Il salto a lato, nelle questioni della guerra (di questo tipo di guerra), lo abbiamo fatto ma risulta essere un salto nella marginalità o perlomeno nell'estraneità: la pratica di relazione tra donne non ha inciso né deciso, la relazione di differenza con gli uomini è faticosa. Da qui, l'impotenza politica più assoluta e frustrante rispetto al susseguirsi delle guerre (Israele-Palestina, Golfo, Kosovo, Iraq) e alla teorizzazione americana della guerra preventiva. Eppure Luisa Muraro, già nel 2001, subito dopo l' 11 settembre, nel testo intitolato Che cosa ci sta capitando? («Via Dogana» 58/59), invitava a uscire dall'autosufficienza, perché «capita qualcosa per cui non posso aver ragione ed è perfino ridicolo cercare di averla in quanto l'essenziale è ancora da pensare» e chiedeva di esserci in questa sfida: essere tutta con tutto senza restare attaccata a nessun contenuto perché i contenuti nascono dallo scambio e sono frutto della mediazione di volta in volta. La riflessione collettiva non si è però avviata, forse perché le mediazioni che usiamo per pensare e agire, vale a dire l' esperienza e la relazione con altre/i, qui non funzionano. Ma, d'altra parte, penso che senza riflessione collettiva niente si possa aggiungere a quello che tanti uomini di buona volontà hanno pensato e fatto. Poi, l'Iraq, le torture e soprattutto la foto della giovane Lynndie England con il prigioniero iracheno nudo al guinzaglio, foto che è già diventata l'icona di questa guerra. Ma, finalmente, a Roma, all'incontro su «Via Dogana» e lingua corrente, presso la Casa internazionale delle donne, 1'8 maggio scorso, è scoppiata una vivacissima e interessante discussione che ha prodotto una spietata e utile decostruzione del femminismo. Il dolore, la vergogna e lo scacco hanno costituito il punto vivo dell'esperienza, che prima mancava, almeno per quelle che erano lì, ma chissà per quante altre. Ed è a partire da quelle emozioni che si è iniziato a ragionare con originalità.

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Qui mi preme discutere, in particolare, delle osservazioni e delle idee avanzate a Roma da Luisa Muraro e da Ida Dominijanni. Luisa ha parlato delle carceriere americane che hanno partecipato ridendo all'umiliazione (e forse alle torture) dei prigionieri irakeni, come di un evento catastrofico che segnala il modo in cui molte donne hanno inteso la libertà femminile. Ha aggiunto che, comunque, dopo trent'anni di femminismo, la libertà femminile non può non c'entrare con questi orribili fatti. Perciò il sesso femminile non può più presentarsi come civilizzatore. I sessi da civilizzare sono due. Ha detto anche, senza esprimere valutazioni, che, per effetto della partecipazione di alcune donne alle torture, l'idealizzazione maschile delle donne come esseri salvifici è definitivamente caduta. Ida Dominijanni ha aggiunto e poi scritto, su «il manifesto», che l'immagine di Lynndie England con il prigioniero iracheno nudo al guinzaglio segnala un immaginario femminile degradato e reificante, un «immaginario post-femminista sul femminismo che trasfigura quello che è stato e resta un movimento di libertà: dalla fissità dei ruoli sessuali in una competizione per il potere». Io non so se l'immaginario femminile americano è cambiato a tal punto in seguito ad anni di femminismo aggressivo, competitivo, di legislazione di pari opportunità che ha coperto l'intuizione originale che i sessi sono due, propria delle femministe americane (Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi; Kate Millet, La politica del sesso). So che in Italia e in altri paesi quel femminismo aggressivo è assolutamente minoritario, e dubito che abbia avuto l'effetto di far straripare le fantasie sadiche-falliche, che le donne pure hanno, oltre il limite costituito dall'accoglienza dell'altro nel proprio corpo e nella propria vita, limite che la cultura umana conosce e pratica da sempre. Devo dire che in quello che ho letto delle femministe americane in anni recenti, ho trovato pochissima elaborazione della differenza e della relazione con l'altra/o. Di fronte a quella fotografia, dunque, io non ho pensato tanto a una questione di immaginario, ho provato invece un senso di scacco perché quella Lynndie mi è sembrata una ragazza fallo inebetita e mi sono detta che, come prima del femminismo, ci sono donne le quali continuano a mettersi a disposizione dei desideri e del simbolico degli uomini. A me non sembra che si tratti di una deriva della libertà •·femminile, come pensa Luisa Muraro, né di perdita secca del simbolico femminile. Constato invece che nel contesto di guerra, così come

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nei luoghi del potere economico e politico, si aggirano sempre più numerose donne falliche (come la Rice, la Thatcher e altre). E penso che in questi contesti trionfi la sessualità fallica di alcune donne, una sessualità che non ha alcun interesse alla libertà: vuole rigare dritto secondo le regole maschili e guadagnare qualcosa. Certo, mi mettono in contraddizione lacerante con parte delle mie simili. È questa la contraddizione che dobbiamo affrontare. Prendendo sul serio il lavoro politico che abbiamo fatto in questi anni sul simbolico, io mi trovo a pensare che senza relazione con l'altra/o, che è il significante della sessualità femminile, non c'è donna. Per cui guardo quelle mie simili e non vedo quello che considero l'essenziale della loro umanità. Ora veramente la cosa della guerra ci tira fuori dalle collocazioni che ci siamo date. Impossibile rifugiarsi nell'estraneità. Gli uomini hanno cercato in tutti i modi di regolamentare la guerra e di «normalizzarla». Ma nel momento in cui vi compaiono anche donne in ruoli attivi - in realtà distruttivi di sé e degli altri, simbolicamente fatte a pezzi - viene in terribile evidenza tutto quello che la guerra ha di insopportabile.

AL

MONDO CON AMORE E CON ONORE

Vorrei fare alcune annotazioni al mio articolo apparso sul precedente numero di «Via Dogana», Insopportabile, perché non sono del tutto contenta di quello che ho scritto. Ho scritto che guardando le fotografie delle soldate americane con i prigionieri iracheni umiliati e torturati, non vedevo delle donne bensì dei manichini fallici. Non c'è niente di consolatorio in quest'affermazione. Anzi: registravo il radicale annientamento, in quel contesto di guerra, del simbolico delle donne, simbolico che ruota intorno alla potenzialità del corpo femminile di essere due, di accogliere, nutrire, parlare all'altro. Per me e altre questa potenzialità pensa e agisce nella e attraverso la relazione duale, antidoto sia all'io ossessivo e solitario che a ogni identità collettiva. · Marco Bascetta, sull'ultimo numero di «Leggendaria» dedicato all'analisi di quello che è successo in Iraq, mi rassicura: nei corpi militari ogni differenza deve essere sacrificata, non resta che la diserzione, e richiama il grande esodo delle femministe dai gruppi extraparlamentari in guerra con lo Stato, esodo, dice, che segnò un limite, aprì una contraddizione senza «fondare un ordine nuovo e un nuovo principio di trascendenza in cui la molteplicità dei singoli è destinata a confluire». In effetti, il movimento delle donne in nessun paese si è dato un'organizzazione, un'ideologia comune, un apparato, neppure delle portavoce; è costituito invece da tanti piccoli gruppi, da tante pratiche differenti, da tante voci diverse, ecc .. Perciò alcune dicono: erano pochissime quelle che si sono arruolate nella lotta armata, sono poche quelle negli eserciti, saranno sempre una minoranza, non c'è da preoccuparsi troppo ... Tuttavia se guardo verso quello che succede intorno a me, lasciando l'Iraq e le soldate americane al loro inevitabile destino unisex, continua l'ansia per la fragilità della nostra pratica politica. So che con questa fragilità abbiamo sempre convissuto, avendo rinuncia_to a tutti i mezzi elaborati fin qui per rafforzare la propria politica, collocandoci in contesti più piccoli, più vicini alle relazioni quotidiane.

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Sono consapevole che sempre più pensatori della politica di sinistra (vedi da ultimo Miguel Benasayag) si accostano alla pratica di relazione come la più consona al momento storico. Ma, se allargo lo sguardo al mondo del lavoro ed ai luoghi decisionali della società (tribunali, industrie, professioni, università, polizia, ecc.) dove le donne stanno affluendo in massa, quello che vedo sono sempre più donne in trappola, fatte a pezzi simbolicamente. E così la differenza femminile diventa un fìlo sottile che si spezza in più punti, in più contesti. Non solo nei corpi militari e di polizia. Nel «Sottosopra» sulla fìne del patriarcato e, recentemente, a Diotima, è stato sottolineato che il patriarcato, anche se in modo perverso e oppressivo, preservava la differenza femminile. Ora, e con verità, questa è nelle nostre mani. Le donne sono in trappola (così non è stato per la mia generazione) perché tutto spinge a essere come gli uomini, a reclamare la spartizione del potere. I media, in maniera ossessiva, ogni giorno contano i posti conquistati o non conquistati, sfornano statistiche sulla poca presenza delle donne nei posti di comando. Sul «Corriere della Sera» del 19 luglio scorso, è apparsa un'inchiesta che mette sotto accusa la predilezione femminile per le facoltà umanistiche, chiamate con disprezzo ginecei, e sotto accusa sono anche le madri e le insegnanti che le spingono a questa scelta. Nel testo, che dà conto di una ricerca, qualsiasi asimmetria tra i sessi - che è uno dei modi con i quali si esprime la differenza sessuale - è condannata e deve essere corretta. Tra poco anche la predilezione femminile per la lettura sarà considerata tempo perso, sottratto alla lotta per conquistare posti di comando e soldi: gli uomini semianalfabeti ma bravi in informatica sembrano essere l'unico modello per questi ricercatori, donne e uomini che siano. È in corso una specie di campagna per la riduzione a uno, dei sessi e del simbolico. In prima fìla in questa battaglia c'è il femminismo della parità con ampio codazzo di sociologhe, esperte del lavoro e di economia, che martella proponendo obiettivi, carriere e chiedendo ossessivamente leggi di parità. È sicuramente necessario controbattere con maggior energia a queste posizioni che sono diventate la lingua corrente dei mass-media e del femminismo più realista del re. Non sono però per seguire quest'unica strada, anche se la condivido. C'è una spinta delle donne all'indipendenza economica e al pre-

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stigio sociale che le porta a occupare, comunque, posizioni e luoghi regolati dalla competizione, dalla gerarchia, dalle tattiche e strategie del potere maschile. Milagros Rivera in un recentissimo testo intitolato La mediazione femminile sostiene che in quei contesti non si riesce in alcun modo a fare passare la sessualità femminile se non la sua parte fallica. Non si trovano i «sentieri» e i «camminamenti» che pure alcune donne eccezionali in passato hanno scoperto e, quindi, si è strette in una contraddizione lacerante che porta a separare vita e lavoro, relazione (amore lo chiama Milagros) e prestigio sociale. Molte donne, soprattutto ai livelli direzionali, si adattano alle regole del «tra uomini» perché pensano di essere prese per pazze se marcano la relazione come orientativa nella vita lavorativa. Questo è il punto dunque: trovare il sentiero. Discutendo con Luisa Muraro dicevamo: la strada non può che partire dal rafforzamento dei rapporti tra donne in qualsiasi luogo: è stata la strada mia e sua e di tante altre, non siamo cadute in alcuna trappola, ci siamo mosse con libertà nel mondo senza rinunciare a stare al mondo con «amore» e «onore». In questo senso vanno le madri e insegnanti «sessantottine» deprecate dalla ricerca riportata dal «Corriere», che indicano alle figlie di seguire il loro piacere nelle scelte anziché i soldi, in questo senso va l'intervista, pure apparsa sul «Corriere della Sera» all'attrice americana Meryl Streep la quale, tra altre cose interessanti, dice: «sono grata alle donne che dirigono gli studios, come Sherry Lansing [... ] e come Amy Pascal, alla guida della Columbia. È un aspetto della storia di oggi di Hollywood che un giorno sarà scritto. Avere donne in consigli decisionali degli studios ha portato ruoli non solo alle ragazze giovani e belle». Quindi ci sono donne potenti e con prestigio sociale che non rinunciano all'amore per le proprie simili e per se stesse dando lavoro ad attrici bravissime ma anziane e nel contempo attraverso i film combattono la schiavitù femminile propria dell'Occidente: la pelle necessariamente liscia e la taglia 42. Questa è un'eccellente mediazione femminile. Si tratta, dunque, di lottare e pretendere dalle sociologhe, economiste, lavoriste, giornaliste e via dicendo, che, invece di accanirsi contro l'asimmetria tra i sessi nel lavoro (che è conflitto, dialettica, · più libertà), ci diano l'analisi dello stato dei rapporti tra donne, tra donne e uomini, e dei rispettivi punti di vista sull'altro sesso, nonché

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del disagio o dell'agio femminile, di come lavorano donne e uomini, dei conflitti e delle mediazioni. Insomma dobbiamo pretendere più rispetto per le scelte femminili. A me sembra ovvio che, se le donne per secoli hanno umanizzato la vita curando figli, case, uomini, feriti, ecc.., oggi vogliano umanizzare il lavoro, contro il macchinismo tecnologico maschile e scelgano quindi le facoltà umanistiche. Tuttavia il trauma iracheno e la consapevolezza di uno stato di guerra che è mondiale e permanente ha messo in discussione i contesti piccoli del nostro agire relazionale e ci spinge a disegnare un orizzonte più ampio. Il bisogno di fare ordine simbolico - che è tanta parte della politica delle donne - a fronte di accadimenti sempre più rapidi e sovrastanti, non può che allargare il contesto del nostro pensare e agire. Secondo me, non ha più senso dire: la pratica di relazione la agisco lì dove sono, non ha senso perché in realtà siamo qui e siamo altrove. Non la penso come un'operazione intellettuale bensì come un'esposizione di me stessa, della mia pratica di relazione duale in momenti e luoghi lontani dall'epicentro della mia attività. Certo, con il rischio di esporre agli occhi di tutti la fragilità della mia pratica di relazione. Ma qui si tratta di rendere viva la differenza femminile e non di custodirla con arte. Mi diceva di recente Ida Dominijanni: bisogna che l'amore smetta di essere, in politica, un indicibile, noi non possiamo parlare di amore come delle piccole illuministe. Sono d'accordo e credo che sia il modo di toccare (o rianimare, direbbe qualcuna) il desiderio maschile di uscire dalla corazza che lo imprigiona e dalle sue pulsioni distruttive nei confronti delle donne. Se la differenza sessuale è il cuore della libido e del desiderio, come penso, ci potrebbe essere un interesse maschile affinché sia viva. Può essere questo un sentiero da percorrere per fare sì che la mediazione femminile sia mediazione vivente per donne e uomini?

Relazioni politiche tra donne e uomini

Usare la mediazione maschile «Via Dogana» n. 75, Sessi e generazioni, dicembre 2005

USARE LA MEDIAZIONE MASCHILE

«Via Dogana» ha iniziato le sue pubblicazioni con un titolo che diceva la politica è la politica delle donne. Non era un'affermazione campata in aria, ma un concreto desiderio di riflessione e azione politica. Dopo di che qualcosa è successo: alcuni gruppi composti da donne e uomini hanno lavorato molto su questa corrispondenza tra politica e politica delle donne. Lo hanno fatto per cambiare la politica degli uomini che appare sempre più misera, autoreferenziale e senza idee, ma anche, per chi veniva dal femminismo, quella delle donne. La pretesa è ambiziosa. Ad alcune è sembrato un desiderio abnorme. In chi la enunciava, comunque, c'era e c'è la convinzione che, se non si va per quella strada, si nega la forza di sovversione della differenza stessa, in quanto questa, con la separazione, intendeva disfare e rifare la politica, il simbolico e il modo di relazionarsi tra donne e uomini. C'è però un ostacolo: il movimento femminista è rimasto sostanzialmente legato alla pratica della separazione come modo di creare società femminile. È una cosa preziosa ma una come me non riesce ad accontentarsi, pur riconoscendo che la società femminile dà grandi vantaggi esistenziali, fra i quali la competenza simbolica che ci permette di pensare il mondo. Ma, proprio per questo, perché porre limiti e confini al nostro agire politico? Un secondo ostacolo è costituito dalle donne che fanno politica all'interno dei partiti, nelle amministrazioni e nei movimenti misti. Sono collocate in modo da poter insegnare agli uomini qualcosa della politica delle donne. Non lo fanno. Da anni trascurano la politica e il sapere delle donne, nonostante che il loro tentativo di mettersi alla pari con gli uomini sia fallito (la vicenda delle «quote rosa» nelle liste elettorali è uno scacco sotto gli occhi di tutti). Perché questo comportamento perdente? Forse perché nella politica mista, dove l'essenziale è la lotta per il potere, ci può essere solo soggezione femminile? Ma, proprio per questo, perché non farsi forti, nel potere, con il riferimento alla politica delle donne?

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Tuttavia, se lo sguardo si volge agli uomini, si vede che qualcosa si sta muovendo. Non certo tra quelli che si spintonano per i posti nelle liste elettorali. Ma tra quelli che cercano prospettive di trasformazione nell'attuale deteriorarsi dell'agire politico. A me sembra, per esempio, che molti uomini che osteggiano la globalizzazione capitalistica, comincino a capire dove porta l'uso politico delle donne e ne vogliono uscire attraverso relazioni politiche tra donne e uomini. Su «Via Dogana», più volte si è segnalato che, nello stato di guerra globalizzato, si fa un uso politico delle donne: l'Occidente avrebbe la missione storica di portare, con la democrazia, la libertà delle donne. Nonostante le smentite in Afghanistan, Kuwait, Cecenia, Iraq, ecc., questa tesi ideologica viene sempre riproposta come superiorità dell'Occidente. È un argomento di grande ambiguità, perché sembra dare alle donne un protagonismo su scala mondiale nel mentre sono esse usate per regolamenti di conto tra maschi. Ambiguità che viene accresciuta dal supporto attivo che alcune donne di grande visibilità nei media danno a questo fittizio scenario politico. Fra i segnali positivi c'è da notare che gli scambi tra donne e uomini si sono intensificati. Quest'anno io ho partecipato a tre incontri con gruppi di uomini, a Asolo, a Parma e a Milano. In tutti e tre i casi si è discusso vivacemente intorno a un agire politico comune e intorno al conflitto tra i sessi. Penso inoltre a Mario Tronti, un interlocutore non dell'ultima ora, che recentemente ha avanzato una critica della democrazia rappresentativa facendo riferimento a Non credere di avere dei diritti, della Libreria delle donne. Un altro esempio, il lavoro, un campo di cui mi occupo perché penso che veda soggettività e oggettivazione in una tensione massima fra loro, cosicché lì la differenza sessuale può essere messa utilmente al lavoro. A un convegno a Barcellona sia Christian Marazzi sia Sergio Bologna, attenti osservatori della realtà che cambia in questo campo, hanno detto che non si può fare a meno delle pratiche femminili nel lavoro. Qualcuna obietta che è ancora poco. Io penso che sia importante e che questi spostamenti si intensificheranno con il passare del tempo. Infatti, viviamo in un contesto su cui pesa la guerra globalizzata, che fa paura a tutti, e che è segnato dalla crisi della paternità e del lavoro, crisi che coinvolge un numero crescente di uomini consapevoli di quanto perdono di gioia dedicando poco tempo e attenzione al mondo infantile e alle relazioni in genere. C'è da considerare anche la crisi della democra-

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zia rappresentativa, per effetto di una soggettività diffusa, nel senso che i famosi individui tanto cari al liberismo ormai vogliono esserci in prima persona, oppure si eclissano per saltar fuori ogni tanto come rivoltosi, certo non sono più funzionali a creare quel vuoto che richiede la formazione di un potere politico regolato dal meccanismo della rappresentanza. Perciò io credo che, per evitare disastri, ci sarà sempre più attenzione alle pratiche e forme politiche delle donne, che si sono costituite non intorno alla gara elettorale per il potere, ma nella ricerca di un'esistenza libera garantita dalla qualità dei rapporti. In questo numero di «Via Dogana» si propone uno sbilanciamento della politica delle donne a favore degli uomini. Non significa negare la politica delle donne, anzi, com'è chiaro dal mio assunto iniziale, la politica è la politica delle donne. Non significa neppure demordere dall'istanza che la competenza simbolica delle donne trovi la sua scrittura. Da qualche parte Luisa Muraro ha detto che c'è una lotta per la competenza simbolica, e un fronte sensibile è proprio quello della scrittura. Infatti molti gruppi di donne continuano la narrazione della propria esperienza e scrivono le parole che la dicono più fedelmente. Questa ricerca non è di ostacolo, anzi rafforza la scelta che io qui propongo, di usare la mediazione maschile per modificare le cose del mondo: alla fine sarebbe un guadagno di autorità femminile e non una perdita. So che per molte l'ostacolo maggiore a relazionarsi con uomini è la tendenza di questi, in ogni riunione, grande o piccola, a descrivere scenari grandiosi, a fare analisi macro economiche, a parlare in nome del pensiero critico o della moltitudine, e via dicendo. Anch'io preferirei, quando mi trovo faccia a faccia con un uomo, che questi ragionasse partendo da sé. Le grandi analisi, se m'interessano, preferisco leggerle. Tuttavia penso che, in queste analisi ad ampio raggio, gli uomini trasferiscono qualcosa della loro soggettività che non riescono a comunicare in maniera più diretta e semplice, e che proprio questo loro modo di porsi ne faccia dei mediatori della politica delle donne - la quale, a questo punto, sarà politica, senza specificaiioni, sarà la politica. Si tratta in sostanza di concedere una traduzione maschile della politica delle donne e contare sulla loro capacità di fare mondo. Luisa Muraro mi ha raccontato che anni fa, lei e Chiara Zamboni, insieme a due professori, avevano raccolto intorno all'idea di un' autoriforma dell'università più di duecento tra donne e uomini, la più parte docenti e una minoranza di studenti e amministrativi, da ogni parte d'Italia. Liniziativa non ha avuto il seguito che prometteva anche perché lei

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e Chiara nulla hanno concesso alla modalità maschile dell'agire politico. In sostanza, non si sono fidate della traduzione maschile della politica delle donne. Oggi, si sa che gli uomini hanno sempre più bisogno delle originali riflessioni e pratiche del movimento delle donne, riflessioni e pratiche che essi sono capaci di tradurre in agire politico, a modo loro, s'intende. Io ho bisogno della loro mediazione. Si tratta, dunque, di stabilire un rapporto di fiducia con quelli che si muovono verso il pensiero e la politica delle donne.

Fare la storia

Le storie sono storia: scriviamole, «Via Dogana» n. 102, Radicalità, settembre 2012

La rivolta nella rivolta. Per riprenderci la parola, Fascicolo speciale de «il manifesto» Il 68 delle donne, aprile 2018

LE STORIE SONO STORIA: SCRIVIAMOLE

Recentemente ho perso un'amica, cara a me e a molte altre. Si chiamava Laura Gallucci; aveva 64 anni ed è morta in un incidente in mare. Ripenso alla sua meravigliosa persona, al suo impegno politico, alla sua attività professionale. Desidero per lei e per noi che qualcuna ne scriva la vita. Già il libro autobiografico di Marina Piazza (L'età in più, Ghena, 2012) mi aveva fatto ritornare in mente l'importanza delle autobiografie (o biografie) scritte da donne. Nella mia giovinezza le leggevo con avidità: avevo bisogno di conoscere la vita di donne che avevano affrontato il mondo uscendo dai binari del destino femminile. Solo più tardi ho capito che cercavo precedenti, riferimenti, ispirazioni positive e modelli per la vita che io volevo vivere, cioè una genealogia femminile che mi desse forza. Nella marea montante del femminismo, all'inizio degli anni Settanta, di biografie e autobiografie ne sono state scritte e lette molte anche per merito del femminismo. Ma biografie o autobiografie di donne che hanno agito nella politica in questi ultimi quarant'anni, quelli del femminismo, ancora non ci sono, fatta eccezione del libro di Marina Piazza. Forse perché la marea, come tutte le maree, si è ritirata? Oppure perché quella necessità di genealogia (una donna come precedente e riferimento) a causa della libertà raggiunta, non c'è più? Oppure perché ci si è concentrate su altre pratiche che producevano teoria (e simbolico) ... Già nel 1988 Carolyn G. Heilbrun (Scrivere la vita di una donna, La Tartaruga, Milano 1990), pur sottolineando che se «il femminismo nelle sue precedenti incarnazioni non è riuscito a sopravvivere [ciò] può essere imputato proprio alla mancanza di una base teorica», metteva tuttavia in guardia dal pericolo che si perfezionino la teoria e lo studio a spese della vita delle donne «che hanno bisogno di trasformare in esperienza i risultati delle ricerche». Riflettendo, noto un fatto: l'appartenenza al movimento comunista ha ispirato autobio-

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grafie femminili (Teresa Noce, Rossana Rossanda, Luciana Castellina e altre), non così quella al movimento delle donne e mi chiedo perché. Io stessa, mi rendo conto, ho raccontato l'esperienza mia anche la più intima e quella di altre nel periodo dell'autocoscienza e questo è stato il fondamento del mio pensiero, perché ha modificato tutto l'ordine dei rapporti, delle priorità e dei punti di vista sul mondo. Curiosamente, poi, poco ho scritto - e mi sembra che questo si possa 1ire anche di altre - delle mie esperienze e scelte politiche successive. E successo e succede così che il pensiero politico che andiamo guadagnando, lo capisce chi fa una pratica simile, o chi ha una passione intellettuale per la teoria; le altre e gli altri, no. La scrittura-lettura di una biografia o di un'autobiografia suscita invece attenzione e intelligenza verso i fatti, senza i quali le idee scorrono facilmente, troppo. Tutte siamo d'accordo che la pratica del partire da sé ha rivoluzionato il rapporto soggetto e oggetto nel senso di impedire, nell'analisi, di oggettivare l'opera, il prodotto dell'attività umana. Cioè la parlante (o la scrittrice) ha un rapporto stretto con la sua azione politica o opera. Bene, io penso che tale rapporto (che peraltro è sempre in corso di trasformazione) tra soggetto e oggetto la biografia e l'autobiografia possano meglio esprimerlo che non i saggi, non solo quelli accademici, ma anche i nostri. Carolyn Heilbrun nel suo magnifico libro, che mi ha molto ispirata, sostiene che prima del 1970 molte autobiografie di donne erano false e piene di buoni sentimenti. Fa esempi tratti da autobiografie di donne che hanno conquistato fama e potere, le quali negano di essere state mosse dall'ambizione o dal desiderio di potere. Come se il successo sia avvenuto per caso e non per loro volontà. Oggi penso che se scrivessimo la biografia di una donna oppure la nostra stessa non cadremmo più in simili mistificazioni. Perché siamo state capaci di dirci la verità nei gruppi di autocoscienza. I rischi sono altri, il più temibile è quello di annullare o sottovalutare le scelte compiute e i progetti realizzati, come gestire una libreria o un circolo, per chiudersi in un flusso autocoscienziale tutto interiore e nutrito di immaginazione. Scriviamole dunque queste nostre storie, con i sentimenti provati ma anche le scelte fatte e le vicende vissute, storie che lette ne produrranno altre e ispireranno altre vite di donne (e di qualche uomo) e altra politica.

LA

RIVOLTA NELLA RIVOLTA. PER RIPRENDERCI LA PAROLA

È tempo di chiarire, dopo cinquant'anni, che il femminismo non è nato a seguito della rivolta giovanile nelle università (il Sessantotto). Quello che dirò, infatti, presuppone che si tenga presente una certa conoscenza di tutto il decennio con i suoi fermenti politici e culturali (li hanno chiamati i meravigliosi anni Sessanta). Già nel 1965 esisteva a Milano il gruppo femminista Demau (demistificazione autoritarismo patriarcale) che rifletteva non della «questione femminile» ma dell'estraneità di un'esperienza femminile il cui significato altri pretendevano dire, al posto di colei che la vive. Il principale bersaglio del gruppo era «la politica di integrazione della donna nell'attuale società». La polemica era rivolta soprattutto contro «le numerose associazioni e movimenti femminili che si interessavano della donna e della sua emancipazione cercando d'inserire e facilitare l'emancipazione della donna nella società così com'è». In sostanza, quelle associazioni erano accusate di non mettere in questione «la società a partire da sé donne» ma, viceversa, «sé medesime in funzione della società», una società «di tradizione decisionale maschile». Si invitava quindi le donne a diventare, da «condizionate» a «condizionatrici», da «membri della storia» a soggetti che «fanno la storia». Il gruppo pubblicò, negli 1966/67, due documenti, il primo intitolato Manifesto programmatico del Demau, il secondo Alcuni problemi della questione femminile, scritti prevalentemente da Daniela Pellegrini. E poi, nel 1969, Il maschile come valore dominante, firmato da Lia Cigarini, Daniela Pellegrini e Elena Rasi, pubblicato dalla rivista «il manifesto» n. 2. Quest'ultimo testo si distingue per la polemica con la lotta degli studenti. Dice: «Ci si deve chiedere come mai i movimenti anti-autoritari non mettano al centro della loro lotta la problematica delle donne e rimangono chiusi anch'essi in una mistica della lotta politica». E aggiunge: «non è cattiva volontà dei maschi che comandano tali movimenti ma totale inadeguatezza teorica», ossia incom-

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piutezza delle analisi sulle radici della violenza, sulla divisione sessuale del lavoro e sul concetto di alienazione. E conclude: «sono coinvolti anch'essi nella logica maschilista della vecchia cultura che dicono di voler abbattere». (Rosalba Spagnoletti, I movimenti femministi in Italia, Samonà e Savelli, Roma 1971, pp. 37-51). I.:articolo non fu discusso dalla redazione de «il manifesto». Non lo discusse nemmeno la sinistra parlamentare né quella extra-parlamentare, la prima essendo presa dalla mistica della politica partitica, la seconda dalla mistica dell'assemblea, forma politica inventata dagli studenti. Nel frattempo, però, con l'arrivo dei documenti delle americane che già praticavano il piccolo gruppo di autocoscienza, le studentesse avevano trovato una via d'uscita dalla loro difficoltà di parlare in assemblea, una difficoltà che era quasi di corpo, di voce. Infatti, a partire dal 1969/'70, confluirono in massa nella nuova forma del piccolo gruppo. Luisa Muraro, che era una di queste, chiama questo movimento di uscita delle donne dal Sessantotto, la rivolta nella rivolta. Si forma così un consistente movimento con un percorso vicino ma ben distinto da quello studentesco. Sarebbe interessante, oggi, in presenza di un movimento femminista vivo, autonomo, internazionale, fare un ripasso critico dei differenti percorsi politici di quegli anni. È impressionante come un lavoro simile non sia mai venuto in mente alla sinistra, che, nonostante la sua crisi crescente, è rimasta, senza eccezioni, chiusa e impermeabile alla rivoluzione femminista (il capitalismo ha saputo fare meglio). Per un ritorno critico sul Sessantotto, secondo me, il punto di partenza è il gesto di donne che si sono separate dalla politica degli uomini. Fu un gesto imprevisto perché in quegli anni cresceva la presenza femminile nelle università e si poteva pensare che fossero disponibili a integrarsi, riconoscenti, nel mondo pubblico maschile: nessuno tra gli uomini prestava attenzione all'atteggiamento femminile, fatto sostanzialmente di silenzio. Il gesto della separazione, dicono, ebbe luogo per la prima volta in una università americana, nel 1966, quando alcune studentesse lasciarono pubblicamente un'assemblea perché aveva, nel suo ordine del giorno, la «questione femminile». Considero, da sempre, questo gesto come il principio della libertà femminile: donne che rompono con un ordine del discorso che le fa oggetto per prendere la parola e essere soggetti.

Fare la storia

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Torniamo a riflettere sulla partecipazione di donne alle manifestazioni del Sessantotto. lo allora ho assistito con interesse alle assemblee di Architettura di Milano. C'erano studentesse, ma silenziose. In Statale, Giordana Masotto ricorda: «Era bello starci, io ascoltavo, scoprivo mondo e pensieri, ma rimanevo silenziosa, anche la città si trasformava ai miei occhi, mi muovevo in libertà, ma restavo silenziosa» («Critica marxista» n. 1, 2017). Nel silenzio di quella giovane donna e di tante altre, maturava un giudizio, lucidamente anticipato da Virginia Woolf con Le tre ghinee: «Questa non è la mia rivoluzione, questo non è il mio posto». Scrivendo questo testo, mi sono ritrovata d'accordo con il giudizio di Antoinette Fouque che, con l'amica poeta Monique Wittig, andò alla Sorbona e se ne andò con queste parole: «Questa è l'assemblea dei fìgli e dei fratelli che si riuniscono dopo il parricidio per fondare la democrazia escludendo le donne inglobate nella società dei fratelli attraverso il principio di uguaglianza». E, anche lei insieme all'amica, ha compiuto il gesto politico che accomunava le femministe di tanti paesi, la riunione separata di donne. Sono passati cinquant'anni. Luciana Castellina commentando le ultime elezioni politiche dice che la storia della sinistra «si è largamente consumata» («il manifesto», 9 marzo 2018). Chissà, a questo punto, se persone intelligenti di sinistra, Luciana in testa, non rivolgano finalmente la loro attenzione al Movimento femminista, incominciato allora e tutt'ora vivo e alla sua capacità di trasformare il mondo. E siano così in grado di fare una ricerca sul recente movimento #MeToo che, attraverso il partire da sé e la qualità delle relazioni, (pratiche politiche che hanno caratterizzato fìn dall'inizio il femminismo), ha messo in discussione il patto sessuale che sottende tutte le istituzioni umane. Con effetti immediati e dirompenti sulla politica tradizionale.

Immagina che il lavoro

Se Marx avesse capito, Contributo al convegno I ritorni di Marx, Alessandria 22-24/10/2015, Atti del convegno, Fondazione Luigi Longo Rappresentare e contrattare a misura dei soggetti in carne e ossa, con Giordana Masotto, intervento al convegno «Rappresentanza sindacale: la lezione dei Consigli e il futuro da costruire» organizzato da Associazione Pio Galli e Fiom nazionale (Lecco 30/01/2015) Riflessioni sul saggio di Sergio Bologna, Ceti medi senza futuro?, in Lia Cigarini, Christian Marazzi, Dario Banfì, Klaus Neundlinger, Luca Romano e Sergio Bologna, Condizioni e identità nel lavoro professio-

nale. Riflessioni sul saggio di Sergio Bologna, Ceti medi senza futuro?, DeriveApprodi, Roma 2008, pp. 3-11.

SE MARX AVESSE CAPITO

Il mio personale ritorno a Marx mai rinnegato ma non più frequentato da decenni, è stato mediato da alcuni testi della filosofa francese Simone Weil, quelli che ha scritto nel periodo 1933/1943, su Marx, il marxismo e i paesi e i movimenti comunisti internazionali, recentemente pubblicati dall'Editore Orthotes di Napoli con il titolo Oppressione e libertà, con una breve introduzione di Luisa Muraro e mia. Dico subito che per me la priorità è l'agire politico al tempo presente. E quindi guardare a Marx con questa urgenza e questa passione, la stessa urgenza che mi ha portato a leggere gli scritti marxisti di Simone Weil, scoprendo l'attualità della sua figura. Fra Gramsci e Weil esistono affinità che qui non possiamo tacere. Questo libro, infatti, raccoglie gli scritti di Simone Weil militant>. R.F.: Nell'espressione «questione maschile» avevo scorto anche una sfumatura ironica perché di solito si parla di «questione femminile». Però, mi ha fatto anche pensare al concetto di differenza maschile su cui Clara Jourdan ha scritto un articolo per «Via Dogana» già nel 1992 1 • Clara invita gli uomini a trovare delle parole per dire in che modo ciascuno di noi vive una situazione o un conflitto (ed esempio, le lotte contro il lavoro notturno). La reticenza maschile blocca la politica di tutti: non si può tessere una nuova civiltà se la differenza maschile è repressa o cancellata.

L.C.: I.:ironia c'era senz'altro. Come sai, si racconta che il gesto inaugurale del cosiddetto «femminismo della seconda ondata» ebbe luogo nel 1966, negli Stati Uniti, quando un gruppo di studentesse abbandonò un'assemblea in cui all'ordine del giorno gli uomini avevano messo la «questione femminile». Lasciarono gli uomini a parlare da soli di questa questione che si erano inventati. E si riunirono tra loro, altrove. Secondo il racconto, è così che è nato il primo gruppo di presa di coscienza e di parola femminile. Quel gesto di separazione aveva un significato preciso che fu immediatamente riconosciuto e ripreso: il senso dell'esser donne non poteva più esser determinato da altri, ma spettava alla libera elaborazione delle donne stesse. Fin dagli inizi del femminismo abbiamo riconosciuto come i discorsi sulla questione femminile fossero innanzitutto elucubrazioni maschili e come, anche grazie a questi discorsi, gli uomini tralasciassero di interrogare il modo in cui Loro trattano e si rappresentano le donne. E non mi riferisco solo alle violenze sessuali o familiari o alla prostituzione, ma anche alla presuntuosa idea che le forme della politica o del ragionamento che trovano più confacenti a se stessi siano come tali universali. Nel suo articolo del 1992, Clara invitava gli uomini a interrogare la loro differenza maschile e le donne a considerare l'ipotesi che certi comportamenti degli uomini, che di primo acchito non si spiegano, possano dipendere da una differenza maschile poco o nulla interro1 CLARA JouRDAN, La differenza maschile, «Via Dogana» n. 5, giugno 1992, pp.

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gata. Nel caso della lotta di molte donne contro il lavoro notturno, emerge la difficoltà di capire perché gli uomini non partecipino a questo conflitto: i turni di notte fanno male a tutti, non solo alle donne, eppure non sono mai divenuti un importante obiettivo della lotta maschile. Perché? Clara scriveva: «quante sono le questioni, ritenute sacrosante, che non fanno progressi perché c'è una differenza maschile che non parla ma fa opposizione?». È una domanda molto importante, che serve anche ad autorizzare gli uomini a dire, ad esempio, perché, in fondo, non trovano poi così insopportabile quell' organizzazione dei turni. «Una convivenza civile - concludeva Clara - non si costruisce sulla reticenza, né sulla pura repressione della sessualità maschile.» Sono del tutto d'accordo, ma nel mio articolo sulla crisi mi chiedevo se non c'è una resistenza speciale degli uomini a interrogare la loro differenza, ad accettare la parzialità. È questa la questione maschile che converrebbe, a loro, ma non solo a loro, mettere all'ordine del giorno. Questo lo ho constatato anche nei più vicini a me. R.F.: Scrivevi: «Non c'è dunque consapevolezza che l'inefficacia della politica sia da attribuirsi al disfarsi della genealogia maschile e del suo linguaggio, e al mancato confronto con l'altra e il suo sapere politico». E poco prima: «Il punto è che la società maschile nel suo insieme non ha preso coscienza della fine dei padri né della necessità di confrontarsi con la soggettività politica delle donne, sebbene alcuni sì ed è forse l'inizio di un cambiamento». Come esempio di scatto di consapevolezza e lucidità maschili, citavi il film del 2007 di Paul Haggis, Nella valle di Elah. L.C.: Sì, è un film con Tommy Lee Jones che interpreta un veterano dell'esercito americano, patriota e certo dell'onore dell'esercito, che viene informato dalla base militare in cui è di stanza il figlio, appena tornato da una missione in Iraq, che questi è sospettato di diserzione. Il padre non crede a questa ipotesi e inizia a indagare. Scopre così che il figlio era un soldato sbandato, drogato e sadico. E così anche i suoi commilitoni, che lo hanno ucciso e bruciato dopo una stupida lite. Man mano che scopre tutto questo, il padre capisce di non avere trasmesso niente di sé al figlio, neppure un po' di onore. E con ciò vede sgretolarsi la sua identità di soldato e di cittadino. La sua e anche quella degli Stati Uniti, come testimonial' episodio finale quando issa la bandiera capovolta, che significa che si è in uno stato di pericolo.

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R.F.: Tra l'altro, c'è una scena in cui si rende conto che lui stesso non ha saputo aiutare il figlio quando questi lo aveva chiamato dall'Iraq dopo un episodio drammatico che aveva scosso le sue certezze di soldato. Insomma, questo film mostra come l'istituzione che condensava i valori fondamentali della società patriarcale (la gerarchia, l'educazione attraverso il comando, la fermezza e il coraggio bellici, la disciplina militare come condizione per padroneggiare l'aggressività ecc.) abbia perso efficacia. È il crollo di uno dei paradigmi della trasmissione maschile. E, tra l'altro, all'inizio del film si vede che la fede in questa istituzione non è condivisa dalla moglie del protagonista ed è anzi causa di una lacerazione tra loro. Dicevi però che forse qualcosa sta cambiando tra gli uomini. Lo pensi ancora? In questi ultimi dieci anni ci sono stati degli spostamenti nella direzione che auspicavi?

L.C.: Non è facile dire se tra gli uomini ci sia stata invenzione simbolica di forme autonome e finalmente post-patriarcali. Prenderò come esempio un gruppo con cui ho avuto alcuni scambi nel corso degli ultimi anni: Maschileplurale. Si tratta di una associazione di uomini impegnati nella critica dei modelli patriarcali della virilità e in una ridefinizione del senso dell' esser maschi. Sono partiti, poco meno di quindici anni fa, dal problema della violenza sulle donne dichiarandolo apertamente un problema degli uomini, che richiede un lavoro di presa di coscienza per smontare quelle forme della sessualità maschile che sono la condizione più profonda dell'aggressività e della violenza. Ispirandosi al movimento · delle donne hanno praticato l'autocoscienza in piccoli gruppi separati e si sono impegnati in una politica delle relazioni e del partire da sé. Hanno prodotto alcuni documenti e alcune analisi interessanti. lo e altre abbiamo interagito con loro soprattutto negli incontri organizzati annualmente da Adriana Sbrogiò a Torreglia sotto il nome di Identità e differenza. Negli anni, però, ho notato da parte loro un interesse sempre più scarso verso quelle che noi chiamiamo le relazioni di differenza, cioè le relazioni di scambio tra uomini e donne. Le riunioni di soli uomini, giuste e necessarie per fare l'autocoscienza, si sono poi tendenzialmente tradotte in pratica politica di relazioni, ma solo tra uomini. Non è più la politica tradizionale, ma non è neppure ancora una politica che mette al centro lo scambio con le donne e con ciò che il movimento delle donne ha generato, a livello di idee, di pratiche e

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di invenzioni simboliche. Questo mi pare un appuntamento mancato. Naturalmente ci sono delle eccezioni, ad esempio Claudio Vedovati, che nell'intervento alla riunione di Identità e differenza del 2017 ha invitato a prendere finalmente la decisione di sbilanciarsi verso la pratica delle donne, oppure il mio amico Alberto Leiss, ma in linea generale non tro_vo neppure lì un desiderio di confronto con la politica delle donne. E come se, col tempo, avesse prevalso una linea separatista. Al di là dei rapporti privati, neppure questi uomini sembrano praticare relazioni politiche con donne, ad esempio nei luoghi in cui si trovano ad operare, come il sindacato, visto che alcuni lavorano lì.

La separazione e il separatismo R.F.: Questo esito in termini di chiusura e separazione che hai riscontrato persino in un gruppo come Maschileplurale, non caratterizza però anche una parte del movimento delle donne? L.C.: Come dicevamo poco fa, il movimento delle donne comincia effettivamente con un gesto di separazione e con il conseguente costituirsi di gruppi di sole donne. E stata•una cosa fondamentale perché ha consentito alle donne una presa di parola del tutto nuova: cose che non erano mai state dette sono state dette e dunque sono divenute dicibili. Anche Freud ha parlato del silenzio delle donne su alcune questioni che le toccano nell'intimo: ecco, quel silenzio è finito grazie a ciò che si è innescato in quei gruppi. La sessualità, il rapporto con la madre, i blocchi della parola riei contesti pubblici ecc.: tutto questo è stato analizzato a partire da come toccava ciascuna. E non lo si sarebbe potuto fare nei contesti misti, neppure in quei gruppi misti che pure volevano praticare una contestazione radicale dello stato di cose presente. La separazione è stato un gesto che ha richiesto coraggio, ma che per la sua forza intrinseca ha anche poi nutrito e sostenuto i nostri desideri. Voglio dire che la separazione dalla politica maschile e in molti casi dagli uomini in carne e ossa è stata un'azione in cui la libertà femminile si è manifestata in maniera davvero esaltante: sentivamo che stavamo facendo qualcosa di dirompente. Qualcosa che ha anche spaventato gli uomini ed è arrivato a toccare i loro inconsci. Elvio Fachinelli, che era un acuto osservatore della realtà che cambia, oltre che un amico, mi raccontava che persino i sogni dei suoi pazienti e delle sue pazienti hanno cominciato a cambiare. Ma non poteva

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interpretarli perché lui stesso era angosciato da ciò che ha chiamato l'entrata in clandestinità da parte delle donne. Non era certo la clandestinità dei gruppi armati, ma era una sottrazione radicale: le riunioni di autocoscienza si svolgevano in case private, per cui nessun uomo sapeva esattamente che cosa succedesse in quei gruppi e come si producessero quei testi che poi emergevano dal movimento. Le donne che fino a poco prima vedevano al loro fianco e da cui traevano conforto, ad esempio perché erano compagne di partito, erano scomparse: si riunivano tra loro non si sa dove. Questo li ha gettati nell'angoscia.

R.F.: Un vero e proprio trauma che ha scosso gli assetti più profondi dell'equilibrio pulsionale maschile ...

L.C.: Per riprendere un'immagine che Virginia Woolf usa in Una stanza tutta per sé, le donne a un certo punto non si sono più fatte trovare disponibili per reggere lo specchio agli uomini. E questo ha tolto agli uomini uno dei pilastri con cui gestiscono le loro insicurezze. Il silenzio maschile sul conflitto tra i sessi è cominciato in quel momento. Le analisi che i gruppi di autocoscienza dedicavano al rapporto tra donna e uomo non hanno trovato alcuna rispondenza nella riflessione maschile. Gli uomini insomma non hanno saputo partecipare al conflitto tra i sessi con la lucidità e la creatività che erano nel frattempo divenute indispensabili. Si sono invece rinserrati in un narcisismo sempre più aggressivo. Anche se è un'ipotesi controcorrente, io direi che è da quel momento, dunque già dagli anni Settanta, da quel trauma rimosso o insufficientemente elaborato, che la politica maschile ha cominciato a divenire sempre più ripetitiva e addirittura a restringersi, riducendosi all'economia e alla guerra, che è quanto abbiamo ancora sotto gli occhi. Ma, per tornare alla tua domanda, rispondo dunque che sì, il movimento delle donne inizia con un gesto di separazione, ma aggiungo che non bisogna confondere questo gesto con il separatismo.

R.F.: Ti interrompo un istante perché c'è qualcosa che non mi convince. Questa rimozione maschile dei sommovimenti che stavano accadendo e sono accaduti nel rapporto tra i sessi non riguarda forse soprattutto gli intellettuali e i politici? Mi pare infatti che a livello della vita quotidiana, molti abbiano cominciato abbastanza presto a operare degli spostamenti. Insomma, a livello dei costumi, la trasfor-

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mazione è a uno stadio più avanzato e anche gli uomini vi partecipano. Penso ad esempio all'idea che una donna non smetta mai di essere libera di lasciare l'uomo con cui pure ha costruito una relazione: è un'idea che si è saldamente radicata nella nostra mentalità. Se vi sono ancora troppi uomini che reagiscono con la violenza quando vengono lasciati, sono infinitamente di più quelli che ormai sanno che questa possibilità è nell'ordine delle cose giacché è conseguenza della libertà femminile. Non era molto diverso alla fine degli anni Sessanta? L.C.: Sì, mi basta ripensare alla mia esperienza con le cause di separazione o di divorzio. Gli uomini in generale reagivano in modo negativo alle richieste di separazione presentate soprattutto dalle donne (costituivano il 70%). Dunque è vero che a livello della vita quotidiana anche gli uomini hanno dato luogo a spostamenti e trasformazioni in risposta all' affermazione della libertà femminile. Tuttavia, quando si tratta di riscattare sul piano simbolico questi spostamenti elaborando figure e mediazioni che sappiano dirli con la dovuta profondità, e che sappiano svilupparne le possibili conseguenze sul piano politico o sul piano dell'organizzazione del lavoro, allora ci ritroviamo nell'impasse che dicevo. Gli uomini non si impegnano in questo esercizio di parola e di pensiero, né trovano soccorso in una classe politica e intellettuale attenta. E così ricadono su vecchi schemi di elaborazione .e su parole inadeguate, come la parola «parità». Gli uomini che si propongono di accettare o accogliere la libertà femminile per una questione di parità si stanno affidando a una mediazione al ribasso. E lo stesso vale per quelle donne che mirano a una libertà pari a quella degli uomini. R.F.: Torniamo al filo principale del discorso: qual è la differenza tra il gesto di separazione, che inaugura il femminismo degli anni Settanta, e il separatismo? L.C.: Il gesto di separazione è stato un atto di esaltante libertà perché animato da una scommessa grande: relativizzando e mostrando la parzialità dei modelli e dei paradigmi politici dati e dominanti, abbiamo fatto spazio a niente di meno che al desiderio di disfare e rifare la politica. Anzi, insieme alla politica, anche il simbolico e il modo di relazionarsi tra donne e uomini. Insomma, l'orizzonte della politica delle donne era ed è un cambio di civiltà.

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Ma quel gesto di libertà era anche determinato dalla necessità. Forse è proprio questo che gli ha dato tanta forza: è stato un'invenzione libera che ha sbloccato una situazione costringente. Eravamo, infatti, proprio mal messe: nel momento in cui non eravamo più destinate solo ai luoghi del privato, cioè alla casa come alternativa allo spazio politico o alla possibilità della carriera lavorativa o ai luoghi del sapere e del fare artistico, ecco che però ci veniva offerta la vi\ dell'emancipazione. Essere delle emancipate, cioè fare tutte le imprese che facevano gli uomini. Questi diventavano così il riferimento e la misura, ancora più di prima. Le forme e i modi assunti dalla libertà maschile diventavano la misura stessa della libertà. Ma la libertà è proprio il trascendimento delle misure ricevute nel tentativo di trovarne e inventarne di nuove che siano rispondenti al proprio desiderio. Separandoci dalla misura maschile e dalla sua falsa neutralità o universalità, abbiamo aperto lo spazio per una libera determinazione del senso dell'esser donne. Tra l'antica identificazione della donna con la madre e l'attuale tendenza a fare della differenza sessuale qualcosa di insignificante al fine di collocarsi al meglio nella sequela maschile, al fine di farci individui neutri, non abbiamo scelto: abbiamo fatto un passo a lato che ci ha svelato un orizzonte più grande. In questo orizzonte più grande fatto di relazioni tra donne sono ben presto emersi anche i conflitti e le differenze tra i desideri dell'una e quelli dell'altra. Ecco, il separatismo si produce quando queste differenze sono negate o rimosse per affermare un'immaginaria identità di genere, che poi finisce per essere astrattamente opposta a un altrettanto immaginaria costruzione monolitica del genere maschile. Le donne, compatte da una parte, e gli uomini, compatti dall'altra. È un'immagine che non corrisponde alla realtà e che non consente una giusta politica, cioè una politica lucida ed efficace: Il separatismo è un irrigidimento ideologico che blocca la portata e il significato del gesto di separazione. Innanzitutto, rende indicibili e dunque intrattabili i conflitti tra le donne, che invece sono produttivi di idee, di nuove analisi e di invenzioni. In secondo luogo, rende impossibile far leva sul desiderio e l'intelligenza di quegli uomini che si allontanano dalla politica del potere: esclude insomma di usare la mediazione maschile come un'altra possibile traduzione delle istanze e delle scoperte della politica delle donne. Infine, il separatismo impedisce di vedere che la posta in gioco ultima della politica delle donne e del conflitto tra i. sessi è il mondo che abitiamo in comune. Il sepa-

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ratismo crea o vorrebbe creare due scene: da un lato, la scena del tra donne o del tra uomini e, dall'altro, la scena comune, lo spazio in cui inevitabilmente accadono gli incontri con l'altro sesso. Ora, questa divisione alla lunga non tiene: è una forma di rinuncia. Si rinuncia a far valere di fronte all'altro quanto scoperto nelle relazioni tra donne, ma, così facendo, gli si toglie forza, lo si priva dell'ambizione e della potenza di essere qualcosa che ha valore per tutte e tutti. Penso alla figura dell'autorità simbolica femminile, che è stata inventata e introdotta non senza resistenze nella politica delle donne e che ha poi avuto un effetto potente nel liberare energie e desideri. A un certo punto ho capito che questa figura può essere giocata nello spazio comune, quindi ad esempio anche nei luoghi misti, sul lavoro, all'università, nei tribunali, in politica, altrimenti si sarebbero riprodotte le due scene, quella del tra donne, in cui circolava autorità simbolica femminile e quell'altra, in cui invece finiva per restare dominante la mediazione di potere. Ora tu mi chiedi se la tentazione del separatismo non abbia toccato anche il movimento delle donne, ben prima di quanto ora non rischi di bloccare delle iniziative maschili pur interessanti come Maschileplurale. La risposta è che certamente sì, questa tentazione c'è stata e talvolta ancora c'è. Sono state però anche elaborate diverse analisi e critiche a cui ci si può rifare per liberarsene.

La stanza della tessitura e il mondo R.F.: Il separatismo è un cattivo modo di dare seguito al gesto di separazione. Ma qual è il modo giusto?

L.C.: Innanzi tutto, per me non avrebbe alcun senso rinnegare quel gesto di separazione. È stato necessario, è stato importante e ha creato qualcosa, cioè la relazione tra donne, che è ancora fondamentale e irrinunciabile. La teologa ed economista svizzera lna Praetorius ha trovato una immagine efficace per dire questo punto. Riflettendo sul mito di Penelope ha parlato della stanza della tessitura, dove Penelope, in relazione con altre donne, riesce a disfare l'ordine maschile (dei Proci) e a svilupparne un altro. Ecco, questa stanza della tessitura come luogo in cui le donne possono non solo godere della compagnia reciproca, ma analizzare e cercare le parole per dire quel che accade loro e le tocca nell'intimo, talvolta risvegliando, talvolta bloccando il

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loro desiderio, è innanzitutto un luogo che è stato aperto dal movimento delle donne e dal gesto che lo ha inaugurato. Ed è un luogo in:inunciabile per la politica delle donne, ancora oggi. Il problema per me è non confondere questa stanza con il mondo: il sapere, il desiderio, la forza che lì trovano origine vanno rigiocati anche al di fuori, così che possano incrementare la loro potenza, ma anche essere sottoposti a verifica. La posta in gioco infatti non è solo creare degli spazi riservati in cui poter abitare con agio, bensì abitare con agio nel mondo. Cambiare la civiltà fino a potervi stare con agio, cioè con libertà. E almeno con un filo di felicità, perché io non credo al connubio tra libertà e sacrificio. Si può agire per la libertà e la felicità future solo agendo già ora la libertà e trovando già ora ragioni di felicità. Il separatismo insomma è chiudersi nella stanza della tessitura. Che però, a questo punto, è tessitura di non si sa che cosa: di benessere personale, di iniziative culturali, ma non di civiltà, non di un pensiero la cui consistenza lo renda un valido punto di leva per tutti.

R.F.: Mi fai venire in mente una pagina particolarmente felice di Angela Putino, in cui scrive che «ciò che pensa una donna è pensiero e non interesse di parte», per cui «ciò che lei pensa è pensiero per tutti».

L.C.: Qui tocchiamo il problema dell'universale. C'era un discorso che si spacciava per universale, ma che non lo era. Lo abbiamo criticato. Ora si tratta di fare spazio a un'altra idea di universalità e di parzialità. Mi pare un tema su cui voi filosofi e filosofe avreste da impegnarvi. Luce Irigaray ha indicato la strada quando ha parlato dell'universale come mediazione. Non si tratta infatti di criticare quei contenuti che si presentavano come neutri e dunque universali, per trovarne altri che siano effettivamente neutri e dunque effettivamente universali, cioè effettivamente al di qua della differenza sessuale. È proprio questa idea che mi sembra debba essere messa in questione. Luniversale non si raggiuge prescindendo o mettendo tra parentesi la propria differenza, bensì facendo leva su di essa. Però, ecco il punto su cui stavo insistendo, questo far leva sulla differenza è un far leva di fronte all'altra e all'altro. Occorre accettare lo spazio relazionale e, cosa che va insieme, occorre accettare che tale spazio sia attraversato da conflitti.

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R.F.: Potremmo dire che l'agire libero richiede che si facciano i conti con la propria differenza sessuale? L.C.: Questa richiesta, però, non è un dovere, una ingiunzione morale o strategica. Il fatto è che a cercare di saltare il lavoro di mediazione della differenza sessuale, come ad esempio accadeva nella proposta dell'emancipazione, si finisce solo per accettare una mediazione ricevuta. Questo, a un certo punto, alla fine degli anni Sessanta, è divenuto del tutto chiaro a molte donne. Ma vale anche per gli uomini, come cominciano a capire quelli che si sentono stretti in quella mediazione della differenza maschile che ha generato la politica tradizionale, con tutte le sue separazioni, ad esempio tra pubblico e privato o tra singolarità e collettivi, e la sua messa al centro della questione del potere. Questa politica non è un'invenzione diabolica imposta chissà da chi, è una forma d'ordine che ha trovato consonanza se non corrispondenza nella sessualità maschile - o forse solo in una sua organizzazione, che però è stata a lungo dominante. Noi siamo ridiscese nelle profondità della sessualità per vedere perché non ci corrispondeva e per cominciare a tessere forme diverse. Ora alcuni uomini sentono l'esigenza di fare un movimento simile. C'è però un momento in cui il lavoro di tessitura delle nuove forme e figure simboliche deve essere messo alla prova dell'altro. Secondo me questo momento è venuto.

La relazione di differenza R.F.: È per questo che a un certo momento, direi verso la fine degli anni Ottanta, hai introdotto, nella pratica e nel pensiero, quella che hai chiamato «relazione di differenza»? L.C.: Sì, volevo dare un nome e dunque uno spazio a quella specifica relazione in cui giocare, con uomini, i guadagni e le scoperte della politica delle donne. Fino ad allora c'era la pratica di relazione tra donne e poi il conflitto con l'altro sesso, cioè con le forme della sua politica, con il suo modo di ordinare la sessualità e il desiderio, con i suoi modelli per la ricerca, il sapere, il fare artistico e il rapporto con la storia, ossia il rapporto con i predecessori e i successori, insomma con la genealogia. Abbiamo criticato tutto questo, ma soprattutto ce ne siamo chiamate fuori per dedicarci alla tessitura di un altro ordine. A un certo momento, come dicevo, mi sono accorta, insieme ad altre,

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che stavamo scivolando verso la creazione immaginaria delle due scene. Luisa Muraro ha scritto un articolo per il primo numero di «Via Dogana», del 1991, che formulava efficacemente la messa in questione di questa divisione o di questo parallelismo: «la politica», diceva, «è la politica delle donne» 2 • Ossia, la politica delle donne va riconosciuta e praticata come la vera politica, non come una attività marginale, buona per una parte del tutto. È una politica per tutti perché fa spazio alla pratica del partire da sé, dunque della parzialità. Può essere adottata anche dagli uomini, ma occorre che non si pretenda di saltare all'universale. Si tratta di partire da come si è toccate e toccati dalle questioni universali, per poi fare tutto il percorso: distillare nel confronto con l'altra ciò che per te conta davvero in quelle questioni, ad esempio nella realizzazione attraverso il lavoro, nel sapere, nella lotta per la giustizia. Ebbene, la figura che evocavi, la relazione di dijferenza, serviva a dire che, oltre al confronto con l'altra donna, bisogna fare spazio al confronto con alcuni uomini. Serviva a dire che l'autorità acquisita grazie alle relazioni tra donne, bisognava tentare di farla valere anche di fronte agli uomini. Innanzitutto perché la misura femminile apparisse anche ai loro occhi come creatrice di mondo, ma poi perché potesse orientare anche quelli tra loro che stavano tentando l'esodo dal simbolico patriarcale. R.F.: Lautorità femminile che si fa presente anche nei luoghi misti (penso ad esempio all'università) rivela agli uomini la parzialità della misura cui si affidavano dandone per scontata l'universalità. Ma questa autorità si offre anche come orientamento e misura agli uomini stessi, o almeno ad alcuni tra loro.

L.C.: Si offre a quelli che cercano una nuova misura, che non è più quella del potere, dell'affermazione di sé, del narcisismo esasperato e della competizione. Ma naturalmente, come dicevo in un articolo del 2005 apparso su «Via Dogana», Usare la mediazione maschile (in questo libro), bisogna accettare che questi uomini che trovano un nuovo orientamento nella politica delle donne e nelle sue invenzioni simbbliche sviluppino una loro versione di queste invenzioni. Portando nello scambio quel che appare loro irrinunciabile e che magari non era tale per noi. 2

LursA MURARO, La politica è la politica delle donne, «Via Dogana» n. 1, giugno

1991, pp. 2-3.

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R.F.: Pensi a qualcosa in particolare? L.C.: Questo potresti dirmelo tu, che ti sei avvicinato e ti sei confrontato con la politica delle donne: c'è qualcosa che per te conta e che ti pare che vada perso in questa politica? Molti uomini, ad esempio, hanno dichiarato di non potersi riconoscere nel trattamento che la politica delle donne riserva alla problematica dell'organizzazione o a quella della decisione, ossia del governare. La politica delle donne, in effetti, non è una politica dell'organizzazione: il movimento delle donne non è un movimento organizzato e non può esserlo. Perché? Faccio un esempio: non ci può essere una portavoce o una rappresentante delle donne; non siamo mica una categoria o un gruppo sociale. D'altra parte, le forme gerarchiche dell'organizzazione politica, che io conosco perché facevo parte delle organizzazioni giovanili del partito comunista, mal si adattano alle nostre pratiche che possono talvolta prendersi più tempo di quello di un'assemblea, perché i desideri e le istanze che li muovono emergono e trovano parola secondo un loro ritmo, e poi, però, altre volte, possono tradursi in azioni e iniziative di singole o di gruppi, senza dover passare per trafile burocratiche. R.F.: A me interroga invece la questione della decisione: non capisco se e come abbia un posto nella politica delle donne. L.C.: Per riflettere su questo punto mi sembra interessante raccontare un incontro che c'è stato nel 2012 tra noi della Libreria delle donne e alcuni di coloro che pochi mesi prima avevano dato vita a Macao - un centro per la sperimentazione artistica e culturale, come dicono anche nel loro sito, ma io aggiungerei pure un riferimento alla politica, nel senso che stiamo chiarendo. Nella primavera di quell'anno, un gruppo di persone impegnate nell'arte e nello spettacolo hanno occupato dapprima la Torre Galfa, che era vuota da quindici anni, e poi Palazzo Citterio, un edificio settecentesco abbandonato da quarant'anni e inserito nel progetto della Grande Brera, ma che di fatto era ancora in attesa di restauro. 1'.idea era di restituire alla città due edifici lasciati a se stessi e che dunque avevano finito per simboleggiare l' autoreferenzialità delle logiche della speculazione edilizia. Alla base del gesto c'era naturalmente un'idea dell'arte come non più separata dalla vita cittadina. E come spesso accade in questi casi, c'è stata una critica della rappresentanza e della delega e invece un riconoscimento

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dell'importanza delle relazioni, della cura e dello scambio in presenza. Ha così preso vita un esperimento di democrazia diretta con assemblee pubbliche e tavoli di confronto aperti. Dopo pochi mesi, però, alcuni di loro ci hanno contattato e hanno chiesto di poter discutere con noi. Non sapevano come risolvere il problema delle decisioni comuni e volevano confrontarsi con un gruppo di donne che da più di quarant'anni lavora insieme, fa politica insieme, ha un circolo e soprattutto, dal 1975, ha una libreria, cioè un negozio, un esercizio commerciale aperto sulla s!rada, dove dunque bisogna continuamente prendere delle decisioni. E stato un incontro, anzi, una serie di incontri e riunioni, molto interessanti perché ci si è confrontati sulle pratiche. Loro volevano una «democrazia partecipata», ma avevano fìnito per bloccarsi: erano esausti perché parlavano in libertà per ore, ma non sapevano come prendere le decisioni. Non volevano ispirarsi ai centri sociali che consideravano legati a una prospettiva troppo chiusa e vecchia, ma non erano convinti neppure dal modello di Occupy Wall Street, dove le decisioni dovevano essere sempre all'unanimità per cui ogni volta venivano interpellati tutti, anche coloro che non avevano preso la parola. Questo modello, ai ragazzi e alle ragazze di Macao, sembrava destinato a impantanare il lavoro comune. E così ci hanno cercato. Volevano sapere. Allora una di noi ha spiegato la pratica della relazione e la sua capacità di accogliere anche dei conflitti, delle divergenze radicali, delle disparità. R.F.: D'accordo, la pratica della relazione non teme che non vi sia unanimità, anzi inscrive in sé la consapevolezza che l'unanimità a tutti i costi è perlopiù pagata con la rinuncia da parte di alcune al proprio punto. Tuttavia, ricordare questo non basta ancora a spiegare come si produce una decisione.

L.C.: Hai ragione, è proprio la stessa cosa che in quell'incontro ha fatto notare Sergio Bologna, il quale poi ha ricordato l'altro ingrediente fondamentale della nostra pratica e cioè l'autorità simbolica. I conflitti che ci possono essere e che ci sono non si risolvono in scissioni o abbandoni, quando arriva il momento di una decisione, perché nella nostra politica circola autorità simbolica. Il che non significa che ci siano delle cape che decidono e le altre che si fanno andar bene la decisione. Alcune godono di autorità non perché siano state votate in qualche modo o perché occupino una qualche posizione in un sistema

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gerarchico. Il fatto è che le altre riconoscono loro questa autorità per l'efficacia delle mediazioni che hanno saputo proporre nel tempo, per l'intelligenza delle situazioni di cui hanno dato prova, nonché per la capacità di raccogliere le verità portate da chi non era d'accordo. È però successo in quest'ultimo periodo che conflitti seri in Libreria non abbiamo trovato una mediazione. Penso perché nessuna di noi, me compresa, sia riuscita a fare quel passaggio da dentro, come lo chiama Luisa Muraro. Cioè attraversare quello che ci tocca in profondità, che sentiamo. Insomma un minimo di consapevolezza di quello che ci succede dentro, in quel conflitto. Era l'intuizione della pratica dell'inconscio. La mediazione è un fuori - dentro. R.F.: Potremmo dire che la parola autorevole è quella che orienta la decisione perché sa ordinare le varie istanze e i vari elementi che sono emersi nel confronto? L.C.: Bisogna però evitare di credere che, all'arrivo di quella che hai chiamato la «parola autorevole», tutto il conflitto si dissolva perché ciascuna si riconosce in quella parola e vi riconosce mediato e ricomposto il punto che stava facendo valere. Non è sempre così: quella parola diventa autorevole perché molte la riconoscono e vi si riconoscono, ma può succedere che altre no e che semplicemente, per quella volta, abbiano fiducia in chi quella parola ha pronunciato. D'altronde, il punto che hanno cercato di far valere, e che non ritrovano alla fine, potranno riproporlo in un'altra occasione, magari dopo averlo elaborato meglio. Senza contare che quelle che godono di questo riconoscimento di autorità possono ben usarlo per sostenere la posizione proposta da altre. R.F.: Tornando all'incontro con Macao, qual è stata dunque la loro risposta a questo racconto delle vostre pratiche e al riferimento alla figura dell'autorità simbolica? L.C.: Linteresse era forte e anche la sorpresa. Certo però è forte anche lo schema mentale per cui l'autorità non sarebbe altro·, che il potere e che alla base della posizione d'autorità ci sarebbe un di più di forza, oppure una procedura (come l'elezione). Non è così. Lautorità simbolica non si esprime minacciando chicchessia di esclusione o d'altro. D'altro canto, l'autorità simbolica funziona nel contesto della ricerca di una mediazione, dove la mediazione da trovare non è tra

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due opinioni o punti di vista, è la mediazione di una situazione, la quale ovviamente include anche coloro che vi sono coinvolti, i loro desideri e le istanze che fanno valere. R.F.: Quindi la questione qui non è il comando.

L.C.: Se c'è un comando, cioè qualcuno che comanda ad altri, allora il problema diventa se la posizione di comando è occupata legittimamente o per un sopruso. Ad esempio, se sei stato eletto democraticamente, allora io sono tenuta a ubbidire al tuo comando, a meno che non violi degli accordi molto generali (il cosiddetto contratto sociale), e sono tenuta a farlo perché ho accettato la procedura che ti ha messo nella posizione di comando. Nel caso della mediazione, la situazione è del tutto diversa. Non c'è un arbitro che decide e gli altri che rispettano la decisione. La mediazione è piuttosto un processo attraverso cui alla fine si arriva a una decisione che essendo comune non richiede a nessuno di ubbidire a un altro. R.F.: La pratica della mediazione è dunque un modo per decidere insieme?

L.C.: Il problema è che cosa significa decidere in~ieme. Ad esempio, significa arrivare alla decisione su cui c'è unanimità? La politica delle donne si è orientata diversamente. Non si cerca l'accordo, pjù o meno unanime, si cerca la giusta articolazione della situazione in questione e dei desideri che vi sono coinvolti. Cioè, l'articolazione che media gli elementi della situazione e dà loro un ordine. Lautorità simbolica ha a che fare con la capacità di elaborare questa mediazione. Questa mediazione, la si accetta e riconosce per la sua efficacia e non per la posizione da cui è formulata. E la sua efficacia è la sua giustezza, la sua capacità di esser giusta con i vari elementi e desideri implicati. R.F.: Ma allora è davvero una falsa apparenza quella per cui la politica delle donne non fa spazio alla decisione. Sembrerebbe, proprio al contrario, una grande rielaborazione di che cos'è decidere. L.C.: Il problema è che la parola decisione rinvia a un taglio fatto in un momento prefissato, oltre che da qualcuno preventivamente autorizzato a farlo. Tutto questo è effettivamente molto lontano dalla politica delle donne. Come ha detto qualcuno, la nostra è innanzitut-

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to una pratica di parola. Nella Libreria, naturalmente, ci sono decisioni da prendere, ma la politica delle donne non è innanzitutto una sequenza di decisioni. È un luogo di elaborazione di mediazioni e di figure che ordinano una serie di istanze e di desideri. Ad esempio, la depenalizzazione dell'aborto, che è altra cosa dalla sua legalizzazione, è la figura che noi abbiamo elaborato per mediare la problematica dell'aborto. Più recentemente, Luisa Muraro ha ripreso una formula inventata dal cantante Black Milk per esprimere la sua posizione sulla gestazione per altri: born not made. Queste non sono «decisioni», anche se nascono come risultati di lunghi confronti e scambi. Più che opera della volontà, sono opera del discernimento o almeno tentano di esserlo. E sono offerte alle altre e agli altri, sono appunto «pensiero per tutti». Ma non sono offerte per solleticare la curiosità, bensì per suscitare un'adesione riflessa. Ora è chiaro che se intorno a una mediazione si aggrega adesione, se accade che molte e molti vi si riconoscano e la riconoscano lucida e giusta, allora poi quella mediazione comincia a operare e ad avere effetti come una ben radicata decisione comune. Talvolta qualcosa di essa può tradursi in forma legale, ma non è necessario, né sempre auspicabile. Tuttavia è ben lungi dall' essere una bella pensata. Piuttosto è realmente operante nel mondo. R.F.: Si tratta quindi di una mediazione che, suscitando riconoscimento per la sua giustezza, opera come una sorta di decisione comune ... Questa seconda formula, più complessa, ma anche più profonda, mi ha fatto pensare alla filosofa irlandese Iris Murdoch. Lei criticava l'eccessiva importanza che alcuni filosofi, ad esempio Sartre, attribuiscono all'idea stessa di decisione e proponeva di pensare le decisioni importanti piuttosto come delle prese d'atto di comprensioni che si sono stabilizzate: quando hai veramente compreso o afferrato una situazione e anche il posto del tuo desiderio in essa, allora poi l'azione viene da sé. L.C.: Direi che la politica delle donne riprende questa idea, ma la usa per pensare la politica e dunque il luogo delle «decisioni» comuni. Per questo ha quel rapporto molto particolare con il tempo cui facevo cenno poco fa: talvolta richiede molto tempo, il tempo necessario ad arrivare alla giusta mediazione, ma altre volte può fare spazio a un agire che sembra immediato e spontaneo tanto asseconda la comprensione raggiunta.

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R.F.: Mi colpisce la radicalità di ciò che chiami politica delle donne, un'espressione che talvolta può generare confusione. Quello che hai appena detto, ad esempio, si oppone a niente meno che all'idea del legislatore. Le forme che regolano e danno un ordine alla vita sociale non sono innanzitutto le leggi, né sono fissate da una qualche istanza che chiamiamo legislatore. Sono piuttosto quelle mediazioni che hanno suscitato adesione per la loro qualità ... L.C.: ... per la loro capacità di dire con verità l'esperienza e con giustezza i desideri che vi sono implicati. Certo che è così. È un ordine che sta sopra la legge. E hai ragione che l'espressione politica delle donne può confondere, ma non voglio rinunciarci. È sufficiente non trattarla come una definizione, ma appunto come un nome, un nome che ne ha altri accanto a sé, ad esempio politica del simbolico, visto che quell'ordine che sta sopra la legge è l'ordine simbolico, l'ordine che si fa con le parole e non per la loro forza performativa, ma per la loro forza semantica, cioè appunto perché sanno dire la verità. Oppure anche politica delle relazioni.

L'arte di confliggere

R.F.: Vorrei tornare ancora sulla «strada della relazione di differenza con gli uomini che è fatta di scambio, conflitto, circolazione di sapere tra i sessi», come dici in Libertà senza emancipazione (in questo volume, pp. 201 sgg.). È un punto che mi sta a cuore sia perché dà un nome a quello che noi stessi stiamo facendo ora, sia perché offre un'elaborazione diversa, e che mi pare più efficace, a qualcosa che altri cercano di pensare in termini di alleanza tra i sessi, se non addirittura di riappacificazione. Finito il tempo delle femministe arrabbiate, sarebbe l'ora di tornare a lavorare insieme ... L.C.: Questa rappresentazione è sbagliata. Direi che è semplicemente un'arma di lotta ideologica. Intanto per cominciare, prima delle femministe arrabbiate, non si stava affatto lavorando insieme. E questo per la semplice e decisiva ragione che non c'era riconoscimento dei due sessi, dunque non poteva esserci vero riconoscimento di una relazione libera. Il sesso femminile era il secondo sesso, cioè un sesso riconosciuto all'interno di una relazione gerarchica: alle donne la mera sfera riproduttiva, cioè la sfera riproduttiva pensata come qualcosa di

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secondario e di garantito per natura dal sesso femminile. Oppure, il sesso femminile era posto come qualcosa da cui prescindere per realizzare in sé il cittadino, il pensatore o l'individuo. In entrambi i casi non c'era libertà per una donna, c'era l'alternativa tra l'esser donna senza libertà o l'esser libera ma alla condizione e secondo le forme inventate dagli uomini, dunque non essendolo davvero. Detto questo, è vero che il femminismo è stato un gesto di rottura, che è ciò che vorrebbe veicolare quel riferimento alla rabbia, un gesto di rottura che ha prodotto un trauma di cui quella rappresentazione mostra quanto poco sia stato elaborato. Rabbia dunque ce n'è stata e ce n'era motivo, ma non è stata affatto la passione dominante. La questione si è spostata rapidamente: se all'inizio poteva essere prevalente l'idea di essere vittima di un furto da parte dell'altro sesso, ben presto la cosa ha preso un'altra forma. È stata riconosciuta l'infinità di un desiderio che cercava forme e contesti attraverso cui potersi esprimere. Gli uomini, dopo essere stati tolti dalla posizione di misura del nostro desiderio e della nostra libertà, sono anche stati tolti da quella di causa delle difficoltà o dei blocchi che nel frattempo emergevano. Pensa al rapporto con la madre, di cui Lacan dice che, per una figlia, è un ravage, una devastazione: abbiamo analizzato gli effetti di questa devastazione, abbiamo visto quanto sia intrinseca al patriarcato e dunque come fosse impossibile trovare lì le risorse per trasformarla. E così abbiamo dato vita a una ricerca autonoma che non aveva e non ha più nulla a che fare con una rimosqanza arrabbiata verso gli uomini. I luoghi e le pratiche del femminismo non sono stati luoghi e pratiche dominati da un sentimento reattivo, piuttosto, come già ti dicevo, dall'esaltazione della libertà, da una nuova circolazione dell'eros, dal piacere dell'iniziativa e dell'intrapresa. R.F.: Potremmo dire che è piuttosto una fantasia maschile quella per cui, quando vi riunivate, davate innanzitutto sfogo a una rabbia o a un risentimento verso gli uomini.

L.C.: Direi di sì, una fantasia alimentata dall'angoscia di non sapere cosa accadeva in quelle riunioni, ma anche dalla difficoltà di ascoltare e di operare le trasformazioni che erano ormai divenute necessarie. Non era possibile che continuassero a proporci le stesse vecchie mediazioni o anche un certo parlare di dialogo, come se fosse uno spazio che era sempre stato aperto e che noi avevamo chissà perché ab-

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bandonato. Questo immobilismo e questa sordità maschili facevano sì perdere la pazienza. Oggi mi dico che bisogna invece interrogarli e analizzarli. Ma non possono farlo le donne e di certo non da sole. Per questo serve la relazione di differenza. Una relazione che però ospita anche incomprensioni, blocchi e dunque conflitti, tutte cose che le parole che hai citato, alleanza e pacificazione, tendono a disconoscere. Bisogna invece imparare a praticare il conflitto senza farne una guerra, come abbiamo detto una volta intitolando il numero di dicembre 2001 di «Via Dogana»: Fanno la guerra e non sanno confliggere. R.F.: Questa distinzione tra conflitto e guerra mi interessa molto. Mi sono chiesto: che cos'è che fa sì che un conflitto non degeneri in guerra? La risposta non può essere che il conflitto mira alla pace, se non altro perché il conflitto di cui parliamo qui è in qualche modo interminabile. Tra i sessi non ci sarà mai l'armonia: come ci insegna anche la psicoanalisi, qualcosa non cessa di mettersi di traverso, il fatto che non siamo né corpi governati dal solo istinto, né puri esseri spirituali per cui il linguaggio sia un medium perfettamente trasparente. Ma qual è il principio che consente al conflitto di non cadere né nella separazione né nella sopraffazione? La mia ipotesi è questa: l'arte del conflitto richiede il riconoscimento del valore della relazione, che invece è negata sia nella separazione sia nella distruzione. L.C.: Mi trascini a fare filosofia ... Anche se non corrisponde al mio modo di procedere nel lavoro di pensiero, il tuo ragionamento mi pare buono, ma c'è una cosa che devo aggiungere. La relazione di differenza, che è la relazione di conflitto di cui stiamo parlando, la ingaggi in presenza di uomini singoli che hai incontrato per i casi della vita e in cui però senti risuonare il dubbio di fronte alle ripetizioni della politica tradizionale o la disperazione per il precipitare della civiltà o anche solo un'emozione per la proposta di un'esperienza in comune. Ora, questa relazione, che è di conflitto perlomeno perché non è detto che quanto ciascuno fa valere possa essere armonizzato con quanto fa valere l'altra, non deve certo diventare distruzione dell'altro o dell'altra, ma non è detto che debba essere salvata a ogni costo. Insomma, un conto è inscrivere il conflitto nel mondo, cioè nello spazio delle relazioni, un altro è subordinarlo alla salvaguardia di ogni relazione. Ci sono relazioni, comprese le relazioni di differenza, che non funzionano e che dunque meritano di finire. Ma questa fine

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non è la fine che ha luogo con la guerra. Lì finisce lo stesso spazio delle relazioni. A voler salvare ogni relazione, si finisce per sacrificare la libertà femminile. Se invece si difende lo spazio delle relazioni, allora si sta difendendo la libertà femminile, che si è da sempre pensata come una libertà relazionale. R.F.: Potremmo allora dire che l'arte del confliggere richiede che si riconosca il valore dello spazio delle relazioni? L.C.: Questo è chiaro. Perché si confligge se non, in ultima analisi, per una civiltà in cui si possa abitare con agio? E questo è lo «spazio delle relazioni». Neppure gli uomini più sordi verso la politica delle donne cercano per principio la distruzione dell'altro. Piuttosto ne cercano l'ubbidienza perché non sanno stare di fronte alla sua libertà. Ma senza libertà non può esserci davvero agio.

Critica della «doppia presenza» R.F.: Mi hai fatto capire come la relazione di differenza sia una figura che, a un certo punto, è stato necessario introdurre per non rinchiudere la scommessa grande del femminismo nell'immaginario delle due scene separate (il tra donne e lo spazio comune). L.C.: Quella figura risponde a due necessità. La prima è quella di offrire una mediazione o appunto una figura dello scambio a quegli uomini che cominciano a manifestare il desiderio di lasciarsi alle spalle la politica e l'ordine simbolico tradizionali. O meglio, offrire una figura dello scambio a quelle donne che si trovano a incontrare questi uomini, ad esempio nei loro luoghi di lavoro. l;idea della relazione di differenza serve a dire loro che giocare in questi incontri il di più di sapere e di libertà guadagnato nella politica delle donne è un modo di farlo vivere e rilanciarlo. Non è un dovere, ma una necessità di ordine simbolico. La seconda istanza per cui mi pare necessaria una figura come quella della relazione di differenza è legata a un certo desiderio di molte donne che viene identificato come un desiderio di giocare in politica la libertà guadagnata nel e grazie al movimento. Questa formula rappresenta un grande errore simbolico, quello di credere che il movimento delle donne non fosse già politica o comunque non la vera

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politica. In un solo colpo si riusciva a dimezzare la portata del femminismo e ad attribuire di nuovo credito alla politica maschile, che tornava ad apparire come il tavolo in cui si gioca la partita decisiva. Bisogna allora insistere sul fatto che la scommessa grande del femminismo, quella che chiamo il cambio di civiltà, non richiede affatto, per essere rilanciata, di essere tradotta nelle forme della politica maschile. Anzi, un tale passaggio l'avrebbe deturpata. È vero che dopo lo slancio degli anni Settanta, negli anni Ottanta c'era stato un certo ripiegamento nella politica delle donne: il tema della. sorellanza, il piacere dello stare tra donne potevano ingenerare una rimozione delle differenze tra le donne e dunque dei conflitti tra loro, nonché un acquietarsi nei guadagni ottenuti, rinunciando così al rilancio. E potevano persino portare quelle che non intendevano rinunciare alla loro ambizione e al loro desiderio ad allontanarsi dalla politica delle donne. Ma, là dove questo desiderio grande era di politica, la soluzione a questo problema non poteva essere quella di prendere la strada della politica tradizionale o eventualmente della cosiddetta «doppia presenza», nei luoghi delle donne secondo il loro ordine e poi nella politica dei partiti secondo il suo.

R.F.: In quello che hai appena detto mi pare di riconoscere la situazione rispetto a cui tu e le altre della Libreria delle donne avete scritto nel 1983 il cosiddetto «Sottosopra verde», cioè Più donne che uomini. Eppure lì non si parla ancora della relazione di differenza.

L.C.: Talvolta si presenta una difficoltà o un blocco, è come un'aporia, ma non appartiene solo alla logica, bensì si radica nell'esistenza e nella pratica. Tocca i singoli, ma non riguarda solo questa o quella singolarità: è lo stesso ordine simbolico che non sa comporre due cose che sembrano ostacolarsi reciprocamente. Allora occ;orre un'invenzione simbolica. Non è affatto una produzione arbitraria, ma qualcosa che dà prova di sé sciogliendo quel blocco e aprendo una via in cui possa tornare a scorrere il desiderio. Queste invenzioni simboliche, che sono mediazioni necessarie, spesso hanno una lunga gestazione quasi inconsapevole, poi arrivano come fulmini. Ma per sviluppare tutte le loro conseguenze occorre di nuovo del tempo, perché queste cose non si fanno solo con la mente, ma innanzitutto con la pratica e con la verifica delle relazioni.

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Ora, nel «Sottosopra verde)) è stata formulata una delle più importanti invenzioni del femminismo radicale, ma la figura delle relazioni di differenza, che in un certo senso è una delle sue conseguenze, è emersa molto dopo. Qual è l'invenzione introdotta esplicitamente in Più donne che uomini? Sostanzialmente è l'autorità femminile. Più precisamente, in quel testo non viene usata questa parola, ma si parla di relazioni di affidamento e di creare un precedente di forza; tuttavia, affidarsi a un'altra donna significa appunto attribuirle autorità, fare di lei una fonte della propria forza. Alla base dell'invenzione delle relazioni di differenza c'è, come abbiamo detto, l'idea che la forza generata creando quel precedente e praticando l'affidamento possa e debba essere giocata anche in relazioni di scambio con uomini che manifestino il desiderio di sottrarsi alla ripetizione dei modelli fallocentrici. Ma, all'inizio, è vero che l'affidamento e dunque la costituzione di autorità femminile, non avevano a che fare con il problema di come praticare lo scambio con degli uomini. Quelle figure e invenzioni simboliche servivano a sciogliere un nodo che era interno alla società femminile, cioè alle relazioni tra donne createsi grazie al femminismo radicale. Già nel «Sottosopra verde» si parla contro il «separatismo statico», ma innanzitutto per i suoi effetti sul desiderio e la libertà femminile. Ti cito un passaggio: «I gruppi di donne rischiano di diventare il luogo di un'autenticità femminile staccata dalla frequentazione sociale e dall'implicazione nei commerci sociali. [... ] nei commerci sociali [ ... ] il silenzio del desiderio e del sapere di un essere donna non fa che prolungarsi». Tieni conto che non è vero che il patriarcato non desse un posto alle donne, non dava un posto alla libertà delle donne perché misconosceva il luogo in cui tale libertà può svilupparsi ed elaborarsi, cioè le relazioni tra le donne: il patriarcato prendeva le donne una per una, escludeva e soffocava la forza generativa delle relazioni tra loro. Ebbene, quei temi, l'autenticità e la solidarietà, all'inizio degli anni Ottanta, stavano cominciando a dare luogo a effetti regressivi: lo star bene fra donne non intaccava la paura e la difficoltà di agire nei contesti misti. Inoltre, una risorsa che avrebbe potuto sconfiggere quella paura e quel senso di estraneità, ossia ciò che quel «Sottosopra» chiamava voglia di vincere, ecco, questa voglia di vincere e di affermarsi nel mondo era sentita come una minaccia per la solidarietà femminile, qualcosa che avrebbe potuto produrre divisioni e disparità, rompendo l'incanto della sorellanza. Il «Sottosopra verde» ha avuto coraggio nel mettersi dalla parte della voglia di

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vincere, dichiarando immaginario e mortifero l'ideale dell'unità compatta del tra donne. Ha affermato la necessità di imparare a praticare la disparità e ha indicato la strada per farlo: la pratica dell'affidamento a un'altra donna che sostenga il tuo desiderio anche in ciò che ha di sproporzionato. Si costituisce così la figura dell'autorità simbolica che sostiene il desiderio femminile senza chiedergli di moderarsi per stare alle misure maschili o per non infrangere l'unità del gruppo di donne. La pratica dell'affidamento richiede che si sappia riconoscere la genealogia femminile, cioè appunto le relazioni tra donne e il precedente di forza che rappresentano, ma non chiede affatto una sorta di moderazione del desiderio affinché resti nei ranghi del gruppo. È una risorsa per rilanciare il desiderio e la libertà femminili nel mondo comune, affinché in questo si inscriva una nuova misura. Tornando alla figura della relazione di differenza, questa serve a consentire un nuovo rilancio e a non cadere in quell'altro rilancio solo apparente che è in realtà una retrocessione ... R.F.: Questa soluzione che fa retrocedere sarebbe la doppia presenza che citavi poco fa?

L.C.: Sì, la doppia presenza vorrebbe fare spazio al desiderio femminile di cambiare le cose, dicendogli: sei cresciuto e ti sei fatto forte grazie alle relazioni tra le donne, ma per essere davvero efficace nel mondo devi passare per le forme della politica tradizionale, maschile. Sia chiaro, io non ho niente da obiettare a una donna che si candida in un partito per assecondare il suo desiderio di affermarsi. lo e altre obiettiamo a quelle che si candidano con la pretesa di rappresentare le donne. R.F.: Anche del movimento degHstudenti e del Sessantotto, oggi, si dice spesso che è stato un fenomeno culturale e non un evento politico. È uno dei modi con cui si è tentato di addomesticarlo o liquidarlo. Tuttavia, c'è una differenza tra il caso in cui tale lettura è applicata al Sessantotto e il caso in cui è applicata al femminismo. Del primo si dice che non è riuscito a essere la rivoluzione politica che voleva, ma ha avuto solo degli effetti culturali, come l'aver diffuso l'ideale dell' autenticità. Del movimento delle donne e della sua formula il personale è politico, invece, talvolta si dice che ha semplicemente scambiato il piano culturale per quello politico.

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L.C.: Il fatto è che da un certo momento in poi, nel movimento studentesco hanno cominciato a divenire dominanti delle formule che chi fa le critiche che mi citi sa riconoscere come politiche: la lotta di classe, la conquista del Palazzo d'inverno ecc. Una parte degli studenti ha insomma ripreso l'idea della politica come lotta per il potere e della rivoluzione come presa del potere di stato. Rispetto a questo paradigma è vero che il Sessantotto ha fallito. Ma il problema sta proprio in questo paradigma. E il femminismo se n'è smarcato senza compromessi. Con questo si è spostato sul piano meramente culturale? Niente affatto: ha scoperto, smuovendolo, lo strato più profondo della politica, che è dato dai rapporti tra i soggetti e dalle forme e rappresentazioni che li regolano. Le forme d'ordine del rapporto tra uomo e donna, non solo nell'ambito della coppia, oppure quelle del rapporto tra padre e figlio o tra madre e figlia, sono alcune delle maglie che il movimento delle donne ha disfatto, producendo immediatamente un effetto su tutto il tessuto sociale. È l'ordine simbolico che sorregge e orienta la vita delle istituzioni della politica tradizionale, che per questo abbiamo chiamato «politica seconda>>. Uno dei nomi della politica delle donne è politica del simbolico proprio perché si muove su quel piano più originario, trasformando le relazioni e i rapporti, quindi le loro forme e le rappresentazioni o gli ideali cui tali forme rinviano. È politica del simbolico e perciò politica delle relazioni. R;F.: Torno su una cosa che hai detto poco fa. Spiegavi che l'ordine patriarcale ha operato anche grazie al credito che gli veniva tributato dalle donne. Ora, in questa analisi riconosco quello che tu e altre avete formulato la prima volta in quel documento importante del 1996, noto come «Sottosopra rosso» e intitolato È accaduto non per caso. Iniziava con questo annuncio molto netto: «Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito. È durato tanto quanto la sua capacità di significare qualcosa per la mente femminile. Adesso che l'ha perduta, ci accorgiamo che senza non può durare. Non si trattava, da parte femminile, di un essere d'accordo. Troppe cose furono decise senza e contro di lei, leggi, dogmi, regimi proprietari, usanze, gerarchie, riti, programmi scolastici ... Era, piuttosto, un fare di necessità virtù. Che però adesso non si fa più, adesso è un altro tempo e un'altra storia, tanto che le cose decise senza e contro di lei, si sono messe a deperire». Vorrei chiederti: quel credito è stato ritirato solo perché non era stato dato esplicitamente, cioè solo perché troppe cose che riguardano anche lei erano state decise senza di lei?

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L.C.: Non è una questione di formalismo o di procedura. In un breve scritto che è riproposto in questo libro (La fetta di torta, pp. 221 sgg.), cito una pagina molto bella della scrittrice e femminista americana Grace Paley: vi si dice che il movimento delle donne non voleva una fetta più grande della torta degli uomini, magari metà di quella torta, ma voleva cambiare ricetta. È come se ora tu mi chiedessi: volevate una nuova ricetta solo perché non siete state interpellate quando è stata definita la prima? Ti rispondo citando ancora la Paley: non volevamo quella torta perché «era una torta piuttosto velenosa, tossica, piena di armi, gas velenosi e ogni tipo di ignobile porcheria». I..:idea è però che una torta non velenosa non si può cucinare senza il libero contributo creativo della mente femminile. Ti puoi riconoscere in una civiltà solo se hai contribuito a tesserne le forme, a fare sì che vi trovi spazio ciò a cui tieni, a cominciare ovviamente dalla tua libertà.

Appendice Introduzione alla prima edizione

Ida Dominijanni

IL DESIDERIO

DI POLITICA

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Materiale e immaginario Diversamente che nell'anima di Peer Gynt, cipolla senza nocciolo che apre al nichilismo del Novecento, c'è al cuore del pensiero politico di Lia Cigarini un nocciolo senza il quale tutti gli strati perdono di significato e si disfano nell'equivoco. Questo nocciolo, anch'esso tutto novecentesco, ha a che fare con la psicoanalisi e più precisamente con il debito, disconosciuto, che il concetto di materialismo ha contratto con l'eredità di Freud e che la politica si rifiuta di assumere nel proprio bagaglio teorico e pratico. O almeno così a me sembra, e con questa chiave in mano vi proporrò di guardare a questa raccolta di scritti, nella quale, come nella pratica analitica e nella tradizione novecentesca che ne è segnata, «le stesse cose ritornano» per ripetizione e differenza, ma senza che il nichilismo si impossessi di loro. Che così a me sembri io credo di sapere come mai, al di qua delle parole che questo nocciolo mostrano. Si sa infatti che al di qua delle parole, c'è fra un testo e i suoi destinatari una relazione che ne guida la lettura (e la scrittura), nella quale il movente di chi scrive si incontra · con l'immaginario di chi legge: è una relazione appunto immaginaria, dove il messaggio non si limita a passare ma si moltiplica per due e per infinite volte. Nel nostro caso poi si tratta di una relazione reale: di Lia dichiaro che è una mia amica; e che il nostro legame ha nella mia memoria un inizio preciso, il pomeriggio di un seminario di qualche anno fa al Centro culturale Virginia Woolf di Roma, quando lei, parlando delle somiglianze fra lo spazio «ritagliato» del setting analitico e gli spazi ritagliati per incontrarci fra donne nel primo femminismo, 1

Introduzione alla prima edizione de La politica del desiderio, pubblicata nel 1995 (Pratiche Editrice, Parma).

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Ida Dominijanni

mi aprì gli occhi sul rapporto fra pratica politica e pratica psicoanalitica. Tutto questo, lo so, conta nella mia lettura dei suoi scritti e la condiziona; ma non c'è bisogno di tutto questo, per mettersi di fronte a quel nocciolo che dicevo. Esso si mostra ripetutamente in questa raccolta - che si parli di legge o di sessualità, di pratica politica o di istituzioni, di affidamento o di autorità - ed è un nocciolo originario: sta all'origine del femminismo della differenza, ne definisce la distanza dal femminismo dell'emancipazione e dei diritti. Emblematici a questo proposito alcuni testi collettivi che qui non compaiono, ma restano imprescindibili per comprendere il percorso di Lia Cigarini nel suo sviluppo; come il foglio del 1974 dedicato alla pratica dell'inconscio 2 , dove il rapporto fra psicoanalisi e femminismo viene messo a tema in termini decisamente originali rispetto alla vasta letteratura, soprattutto francese e anglosassone, che lo ha variamente declinato.

Il setting dispari Non si tratta infatti o non solo, si legge in quel documento, di proporre un'innovazione teorica, un'aggiunta o una correzione del discorso freudiano (anche se di questo, come di tutto l'edificio del pensiero occidentale, si deve fare e si farà questione, a partire dalla differenza sessuale). Si tratta piuttosto di confrontarsi con la pratica analitica. Nel setting analitico agisce infatti una modalità della trasformazione che porta a ripensarne le modalità politiche classiche, perché fa interagire strettamente cambiamento di sé e del mondo, soggettività dell'esperienza e (presunta) oggettività del reale: mentre reinterpreta il proprio vissuto, il soggetto dell'analisi reinterpreta insieme la realtà, ne svela la costruzione, scompagina l'ordine del discorso che la struttura e lo rideclina «a partire da sé». Analogamente, nella pratica dell'autocoscienza e dell'inconscio il lavoro politico consisterà in primo luogo nel decostruire le rappresentazioni comuni della miseria

2

Alcune femministe milanesi, Pratica dell'inconscio e movimento delle donne, Foglio unico, Milano 1974, ristampato in «!:erba voglio» n. 18-19, ottobre 1974-gennaio 1975. I testi che lo compongono si intitolano: Rapporto analitico e istituzione, Circolazione del sapere analitico, Il gioco delle attribuzioni, Pratica comune analista! analizzata, Alcuni dubbi, Il rapporto con la madre, Madre, gruppo, aggressività; fra le autrici c'erano Lia Cigarini, Lea Melandri, Luisa Muraro.

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femminile che prescrivono «la realtà» delle donne e nel modificarle in accordo con il desiderio, sì che al posto dei destini prescritti si aprano le strade della libera costruzione di sé. 3 Ancora. Via via che nei gruppi di autocoscienza si manifestano i grumi del vissuto femminile che sbarrano la strada al desiderio - sequestro maschile della sessualità, difficoltà di espressione, disordine. nei rapporti con l'altra - la pratica psicoanalitica suggerisce strumenti preziosi per «scongelare» il corpo e la parola, costruire la relazione fra donne, guardare in faccia il fantasma della madre. Dalla forma dispari per eccellenza del rapporto analitico viene luce per accettare e mettere all'opera quella disparità che in qualunque gruppo e relazione umana «è fatale incontrare», che la politica maschile ordina da sempre in ruoli e gerarchie, e che nei gruppi del primo femminismo, abitati dall'utopia idealistica dell'egualitarismo, non si è saputo come elaborare e incanalare. 4 Quanto al fantasma materno, ben presto l'autocoscienza ha messo in evidenza come il gruppo di donne riattivi immediatamente, e analogamente al transfert analitico, il rapporto della bambina con la madre, e come «questa intricata vicenda di amore-odio, desiderio-aggressività» agisca nel modo di stare nel femminismo o nel rifiuto di farne parte. 5 3

Sul rapporto fra modello psicoanalitico e modelli politici della trasformazione, cfr. il mio Ordine simbolico e storia, in AA.Vv., Cultura e politica delle donne e sinistra in Italia, a cura di Anna Maria Crispino e Francesca Izzo, IG Informazioni (trimestrale della Fondazione Istituto Gramsci di Roma) n.3/1992, Roma. Sull'incontro fra primo femminismo e psicoanalisi, cfr. FRANCESCA MoLFINO, I possibili spazi della conoscenza psicoanalitica (e il relativo Commento di Mariella Gramaglia), in Aa.Vv., La ricerca delle donne. Studi femministi in Italia, a cura di Maria Cristina Marcuzzo e Anna Rossi-Daria, Rosenberg & Sellier, Torino 1987. 4 «Come non c'è reciprocità, così non c'è perfetta transitività nel rapporto analitico [... ] La mancanza di reciprocità è sua condizione strutturale [... ] I..:autorità di cui viene investita la figura dell'analista è fatta di silenzi e rituali forse più che di interpretazioni [... ] ciò che egli sa e può su di noi gli viene, prima che dalla investitura istituzionale, da una nostra attribuzione (transfert) [... ]. Nel rapporto analitico il potere attribuito ali' analista diventa, paradossalmente, la condizione essenziale per essere liberati dalla dipendenza». E ancora: «In qualsiasi gruppo, non escluso quello formato da sole donne [... ] in ogni caso ci si scontra con la disparità. Ma, mentre nei gruppi politici la disparità normalmente è incanalata nella struttura gerarchica più o meno istituzionalizzata dei loro rapporti interni, il movimento delle donne ha avuto fin dall'inizio la presunzione o l'ardire di porla come contenuto irrinunciabile nell'analisi e nella pratica di nuovi rapporti. Il trasferimento del rapporto analitico all'interno dei rapporti in corso tra donne dovrebbe portare chiarezza nella difficile ricostruzione delle richieste e degli investimenti che una donna fa su un'altra donna»: Alcune femministe milanesi, Pratica dell'inconscio, 'cit. 5

Ibidem.

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Pulp politics Torneremo presto su questa precoce (siamo nel '74) anticipazione di due questioni, disparità e relazione figlia-madre, che diventeran.no cruciali nel femminismo della differenza degli anni Ottanta. Del rapporto fra pratica politica e pratica psicoanalitica mi preme per ora fissare un punto, a proposito della nozione di materialismo che attraversa questi scritti di Lia. Corpo, desiderio, sessualità, fantasie, paure, processi inconsci: ecco il rimosso del legame sociale che va rimesso in circolo in una politica che voglia davvero essere «materiale», cioè legata alla materialità dell'esperienza umana, senza di che la volontà di trasformazione si rivela alla lunga inefficace e, paradossalmente, ricade in un immaginario tanto poco elaborato quanto attivo e potente. Inefficace e immaginaria è infatti quella politica che, credendo di poter prescindere da questa materia prima, se la ritrova costantemente fra i piedi, come ogni rimosso, in forma di ripetizioni, equivoci, ostacoli granitici al cambiamento, tutti presi naturalmente per «spiacevoli incidenti» 6 - anche quando, come accade eclatantemente in questa fine di secolo, c'è di mezzo il rigurgito di rimozioni collettive gigantesche, come nella ex Jugoslavia in guerra o nella memoria disastrata delle altre società ex-socialiste o della stessa Italia in transizione. Di questa accezione del materialismo e di un'adeguata pratica politica si occupa il numero di «Sottosopra» del 1976 intitolato Il tempo, i mezzi e i luoghi, dove il materialismo marxista è chiamato direttamente in questione, o per meglio dire è chiamata in questione quella politica della sinistra che ha ridotto il concetto di «condizione · materiale» al suo lato economico, dimenticando la lezione di Marx sul nesso che lega la condizione materiale alle condizioni della sua pensabilità e della sua rappresentabilità, che sono dell'ordine simbolico.

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«[Occorre] evitare la fuga nel «politico» e riprendere in considerazione fatti che rischiano altrimenti di passare per spiacevoli incidenti. In altre parole: rivalutare le fantasie e i processi inconsci [... ] perché costituiscono un aspetto non secondario della realtà attraverso cui passa sia la ripetizione dell'identico che la possibilità della modificazione», ibidem. Molti anni dopo scriverà Luisa Muraro (L'ordine simbolico della madre, Edirori Riuniti, Roma 1991, p. 91): «[È] vano fare la critica dell'esistente con lo scopo di cambiarlo: l'esistente si riproduce non perché sia giudicato buono ma perché lo riproduce un meccanismo che può risultare più forte delle nostre intenzioni e critiche, per quanto giuste. Il problema è, allora, spezzare il meccanismo della ripetizione».

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Una politica che, d'altra parte, non ha mai appreso la lezione di Freud, dopo la quale il materialismo non può - non avrebbe potuto - più prescindere dalla sessuazione del soggetto, dall'inconscio, dall' elaborazione simbolica senza cui la materia resta lettera morta, cosa priva di senso: pulp, diremmo dopo il film di Quentin Tarantino, manifesto dell'insensatezza in cui precipita il legame sociale nell'Occidente capitalistico di fine secolo.7 Siamo, come sempre nel miglior pensiero della differenza sessuale, al cuore delle questioni della tarda modernità, e in particolare di una questione, quella dello statuto della politica dopo l'irruzione sulla scena novecentesca del soggetto incarnato, che con una sola mossa dùplica l'individuo in uomo e donna, complica la sua razionalità con il desiderio e con l'inconscio, sposta la sua corporeità dai confini del biologico all'interfaccia del simbolico. Non si vede tuttora all' orizzonte una riflessione di parte maschile su quanto la crisi della politica di fine secolo risenta di questa sua mancata interiorizzazione della rivoluzione d'inizio secolo sullo statuto del soggetto; ma non per caso da qui muove il femminismo della differenza, e qui incardina la sua critica della politica. Di questo refrain del discorso della differenza sessuale le voci e le modulazioni, italiane, europee e americane, sono ormai moltissime e più o meno consonanti: non è questa la sede per disegnarne una mappa. 8 C'è però nella posizione che in questa mappa occupa Lia Cigarini un tratto specifico, che sta in una tenace aderenza del pensiero alla 7

«Fare dei gruppi che cercano di analizzare i rapporti tra le donne, l'isteria, le nevrosi, i sintomi del corpo e la sua espressività, con un'ottica analitica, cioè che ha attenzione all'inconscio e alla sessualità [... ] questo non è immergersi nell'intimismo e nell'irrazionalità, come alcuni credono, ma al contrario ancorarsi alla materia. Siamo stufe di imbatterci in una sinistra marxista piena di idealisti che hanno orrore del corpo e della materia»: Il tempo, i mezzi, i luoghi, «Sottosopra», dicembre 1976. Cfr. come la materia dell'inconscio e della sessualità orienta fìn da subito l'analisi politica sulle questioni dell'aborto e dello stupro (supra, pp. 43 sgg.), e come il nucleo di questo materialismo della pratica politica viene ripreso da LIA CIGARINI e LmsA MuRARO in Politica e pratica politica, supra, pp. 169 sgg. Sul concetto di materialismo femminista, cfr. Rosi BRAIDOTTI, Dissonanze, La Tartaruga, Milano 1994 e Il soggetto nomade, Donzelli, Roma 1995; ALESSANDRA BoccHETTI, Che cosa vuole una donna, La Tartaruga, Milano 1995. Chiara Zamboni ha parlato di «materialismo dell'anima» nel corso del «grande seminario» della comunità filosofica Diotima dell'Università di Verona nell'autunno del 1994, dedicato alla pratica del partire da sé. 8 Cfr. R. BRAIDOTTI, Dissonanze, cit., e !'Introduzione di Paola BoNO a Aa.Vv., Questioni di teoria femminista, La Tartaruga, Milano 1993.

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pratica: sì che nei suoi scritti l'innovazione teorica non si rarefà mai nei cieli di una storia delle idee ma si presenta sempre legata ai contesti in cui matura. È nella pratica politica che si delineano le mosse della teoria. Ma nel ventaglio delle pratiche, alla pratica dell'inconscio spetta un posto inaugurale: qui vengono alla luce le figure originali del pensiero della differenza, e qui si profila quella particolare forma di interazione dell'io femminile con l'ordine del discorso e della rappresentazione che costituisce il nucleo della scommessa sulla politica del simbolico.

Figure La donna muta, l'isterica, la madre simbolica: sono queste le figure cardinali che ritornano negli scritti di Cigarini, pronte a intervenire quando il percorso si blocca e domanda un ritorno all'origine. Figure dunque originarie, che segnalano e sbloccano gli inciampi - anche qui, «il rimosso ritornante)} - sulla via di un cambiamento politico lineare e progressivo, i sintomi di una condizione femminile irriducibile alla razionalità politica classica dei paradigmi dell'emancipazione e della liberazione. Ecco Lia che parla di Lia - esempio letterale del «partire da sé)} - ancora nel «Sottosopra)} del 1976: Il ritorno del rimosso minaccia ogni mio progetto di lavoro, di ricerca, di politica. Minaccia, o è la cosa realmente politica di me, cui dare sollievo, spazio? [... ] Il mutismo metteva in scacco, negava quella· parte di me che desiderava fare politica, ma affermava qualcosa di· nuovo. C'è stato un cambiamento, ho preso la parola, però in questi giorni ho capito che la parte affermativa di me stava occupando di nuovo tutto lo spazio. Mi sono convinta che la donna muta è l'obiezione più feconda alla nostra politica. Il «non politico» scava gallerie che non dobbiamo riempire di terra. 9 La politica delle donne non teme i vuoti e li attraversa: è nel vuoto che nasce l'imprevisto e la mancanza può capovolgersi in risorsa. Quando infatti «l'obiezione della donna muta)} riuscirà a farsi sentire nel dibattito sull'aborto, racconta una celebre pagina di Non credere di avere dei diritti, significherà «la mancanza che non è colpa di nessuno ma desiderio di qualcosa», dando voce a «quella parte di ogni donna 9

Il tempo, i mezzi, i luoghi cit.

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che non accetta di essere descritta, illustrata, difesa da nessuno», e in particolare non si lascia rappresentare nella condizione, mancante per definizione, dell'oppressa. La figura della donna muta apre così la porta a una soggettività affrancata dalla dialettica servo-padrone e a una politica mossa non più dal vittimismo reattivo ma dal desiderio attivo, scardinando il paradigma dell'oppressione e i suoi corollari della rappresentazione femminile in regime di miseria e della rappresentanza in regime di tutela. 10

La profezia dell'isterica Sintomo isterico l'afasia della donna muta, classicamente. Della critica dell'economia isterica (e della sua tradizionale interpretazione psicoanalitica) avviata dal movimento delle donne parla ampiamente un vecchio ma attualissimo scritto di Luisa Muraro cl Zulma Paggi 11 , indicando per quali tracce la figura dell'isterica assume un'importanza inaugurale nel femminismo. Per un verso essa annuncia infatti la tendenza delle donne a spendersi con smisurata oblatività a sostegno di grandi cause legittimate e legittimanti (maternità e maternage sociale) e a danno dei propri desideri: è l'atteggiamento in cui si traduce la «guarigione» (fallimentare) di Anna O. e la sua trasformazione in Bertha Pappenheim, e in cui il tratto isterico femminile si manifesta «normalmente» nell'agire sociale. Per l'altro e connesso verso, l'isterica annuncia la necessità della mediazione femminile 12 • Isterica è infatti, come dice l'etimo, la posizione - frequentissima - della donna che resta così attaccata all'utero materno da cercare, nella vita adulta, solo suoi simulacri e deludenti repliche, o viceversa continue occasioni di ribellione a questo attaccamento. Più propriamente, precisa Muraro, l'isterica si ribella alla madre reale in quanto ne percepisce la funzione

10

LIBRERIA DELLE DONNE DI MILANO, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, pp. 116 sgg. 11 LursA MuRARO E ZulMA PAGGI, Come, quando e perché Anna O. si è trasformata in Bertha Pappenheim, postfazione a Lucy Freeman, La storia di Anna O., Feltrinelli, Milano 1979. 12 La figura dell'isterica accompagna passo passo l'argomentazione di Luisa Muraro ne L'ordine simbolico, cit., ma di Muraro cfr. anche La posizione isterica e la necessità della mediazione, a cura di Mimma Ferrante, edizioni Donne Acqua Liquida e Biblioteca delle Donne - Udi di Palermo, Palermo 1993. Sulla rilevanza dell'isteria nella pratica politica femminista cfr. supra, pp. 51 sgg.

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sostitutiva del continuum materno (la «sequela delle madri») al quale

è attaccata, e del quale non trova significazione possibile nell'ordine simbolico patriarcale: in questo senso «l'isterica interpreta la relazione femminile con la matrice della vita. Interpreta la differenza sessuale» 13 • Tale essendo la portata emblematica di questa figura, si capisce che le spetti un compito cruciale per la strategia della libertà femminile. All'origine, questo segnala l'isterica, c'è una dipendenza dalla madre non riconosciuta e non elaborata; un debito aperto, una contrattazione mancata, una azione fallita, che mandano in scacco la relazione primaria e si ripetono nei successivi rapporti sociali. E qui si àpre la seconda porta, alla sequenza decisiva della pratica della differenza: gratitudine per la madre reale, costruzione della madre simbolica come figura della relazione di scambio, via d'accesso all'autorità femminile. Il contributo di Lia Cigarini si dimostra su questo passaggio particolarmente illuminante. Sappiamo infatti di quanti equivoci sia lastricata nel movimento delle donne la strada della madre simbolica e dell'autorità femminile. Equivoci comprensibili, perché si tratta di due figure non semplici, inevitabilmente impastate l'una con la madre reale, l'altra con il campo semantico tradizionale dell'autorità 14 : presentate nel pensiero della differenza sessuale come categorie dello scambio, continuano a pescare in un immaginario maternale regressivo e in un retroterra culturale autoritario e gerarchico, e per certi versi, equivoco dopo equivoco, li alimentano. È utile perciò, su questo punto, seguire il ragionamento di Lia passo passo.

Due fantasmi All'approdo della madre simbolica e dell'autorità femminile si arriva a partire da una necessità, e attraversando una contraddizione. La necessità è di tipo ultimativo, avendo come posta in gioco il contatto con la realtà o il delirio, e avanza in quelle donne - noi, le «femministe 13

14

L. MuRARO, L'ordine simbolico, cit., p. 60.

Alla «scommessa di un senso libero dell'autorità» - cioè alla scommessa di declinare il concetto di autorità sottraendolo ai suoi abusi nella cultura conservatrice e reazionaria e accordandolo, oltre che alla libertà femminile, alla scoperta novecentesca della crucialità del simbolico - è dedicato il volume della comunità filosofica DIOTIMA, Oltre l'uguaglianza, Liguori, Napoli 1995. Cfr. soprattutto la Prefazione di Luisa Muraro e i saggi di Chiara Zamboni, Ordine simbolico e ordine sociale, e Diana Sartori, Tu devi.

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storiche» in persona - che hanno rifiutato le sole prospettive concesse alle donne nelle società tardopatriarcali: o il destino biologico tradizionale o l'omologazione progressiva ai modelli maschili (o tutte e due le cose insieme, a proposito di smisurata oblatività femminile). Fuori da questa alternativa, c'è scritto in Non credere di avere dei diritti, «una donna non diventa libera ma superflua», e, aggiunge Lia nel suo articolo su «Madrigale», rischia una normalità delirante: «senza mediazioni date abbiamo rischiato di perdere ogni contatto con la realtà». 15 Rifiutate le «mediazioni date» - destino di moglie e madre, mimesi maschile - diventa dunque indispensabile inventarne altre, fuori dall'economia patriarcale: «tra me e il mondo un'altra donna, tra me e un'altra donna il mondo». Ma qui subentra la contraddizione. Perché dietro le altre donne, per ogni donna c'è la madre, e l'esperienza del rapporto con la madre può essere esperienza di una mediazione mancata, generatrice non di libertà ma di frustrazione e subalternità alla legge del padre: la madre è l'origine del tra donne, ma è anche il fantasma ritornante del suo potenziale scacco. Scrive Lia: Attualmente ci troviamo nella contraddizione di sapere che è necessaria la potenza materna per agire e pensare liberamente nel mondo ma che, d'altra parte, molte donne la sentono come opprimente e schiacciante. Altre ancora vogliono raffigurare simbolicamente la mediazione sessuata ma chiedono un altro nome che non sia madre, perché la madre reale opprime la figlia, e, quindi, quel nome non va bene. 16

Il nuovo nome sarà allora madre simbolica, e come tutti i nuovi nomi segnalerà uno spostamento, nel linguaggio e nelle cose. Ma prima di conquistarlo c'è ancora un fantasma, questa volta maschile, da guardare, come suggerisce il più antico scritto di Lia intitolato Madre mortifera. Supporto negativo della legge del padre, la madre si erge nell'immaginario maschile come una sorta di figura onnipotente contro-fallica e mortifera, che invece di significare la catena simbolica femminile la spezza ingoiando le donne-non-madri: l'esperienza di divisione del corpo femminile in madri e non-madri, propria della relazione primaria madre-figlia, è cancellata nell'inconscio e nella cultura maschile. 17 15 16 17

Supra, p. 100. Ibidem. Supra, pp. 18 sgg.

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Il fantasma femminile della madre si congiunge dunque e va di fatto a coincidere con questo fantasma maschile. Non per caso, in quanto è l'economia fallica a reggerli entrambi con la sua cancellazione della prima relazione genealogica femminile: smascherare l'uno vuol dire smascherare l'altro. La critica della figura dell'isterica, l'analisi del rapporto madre-figlia nel vissuto femminile, il dissequestro della donna e della madre dall'immaginario maschile sono le mosse preliminari allo spostamento dalla madre reale, figura ancora impigliata nell' economia patriarcale e/o nell'economia isterica, alla madre simbolica, figura di libertà collocata nella genealogia femminile. 18 Senonché questo spostamento non è garantito dalla regressione, che infatti è sempre in agguato nella tentazione di ridare corpo alla madre simbolica scegliendosi una donna in cui personificarla. Errore fatale nella pratica politica, perché riconduce la pratica sociale della disparità e dell'affidamento nelle secche dell'immaginario. Chiarisce Lia: Io credo che su questo punto si sia fatta confusione. Molte volte ho sentito dire: quella è la mia madre simbolica. E facevo fatica a far capire che non ci sono tra noi madri simboliche in carne e ossa, essendo la figura della madre propria del!' ordine simbolico e non di una realtà di fatto. 19

La madre simbolica istituisce dunque la genealogia femminile e il movimento della disparità e della mediazione fra donne, ma non si incarna in nessuna donna. Il punto è cruciale, perché apre a una concezione dell'autorità femminile come figura dinamica dello scambio, non come figura statica dell' òbbedienza o dell'ammirazione né tantomeno della dipendenza. Proprio in quanto figura simbolica e non incarnata, l'autorità femminile è «un bene comune», al quale «tutte possono attingere per realizzare liberamente nel mondo i propri

18

A proposito di questo spostamento, resta nel pensiero della differenza sessuale, a mio parere, un'oscillazione tra una figura della madre simbolica che trascende la madre reale, e l'ipotesi di un simbolico basato sulla gratitudine per la madre reale: leggendo e rileggendo gli scritti di Lia e confrontandoli con la proposta di Muraro ne L'ordine simbolico della madre non sono riuscita a risolvere in modo univoco questo problema, sembrandomi che Cigarini opti più per la prima soluzione e Muraro più per la seconda. Il tratto comune che supera l'oscillazione sta a mio avviso nella nozione di un simbolico non metaforico, come vedremo tra poco. 19 Supra, p. 102.

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desideri»: 20 non serve infatti a attivare rapporti gerarchici di potere né rapporti affettivi di captazione, bensì rapporti sociali di contrattazione fra donne, intessuti riconoscendo l'una il di più dell'altra: e ora dell'una ora dell'altra, secondo la struttura mobile dei desideri plurali, non quella fìssa dell'autorità personificata e idealizzata. 21 Rapporti di scambio, contrattazione: Cigarini sa bene che è questo e non altro ciò che fa difetto fra donne. Non mancano gli affetti e i rancori, gli amori e le invidie, le promesse incrollabili e i ricatti incrociati, né il lavorìo perenne dell'autocoscienza sui buoni e sui cattivi sentimenti. Manca lo scambio materiale, misurabile, dove si riscontra che cosa la relazione mette in gioco, a quali fini e con quali risultati, e se rieste a liberare desiderio femminile e a dargli corso o se invece va in scacco, regredendo da pratica sociale a promessa privata. 22

Corpo e parola Linsistenza di Cigarini sullo scambio taglia a mio avviso efficacemente - anche se ellitticamente, e lasciando in sospeso alcuni problemi - un grumo di discussione sulla madre e sul materno che tormenta la teoria femminista occidentale e in cui qui non è possibile neppure entrare; mi limito a toccarne le ricadute sulla pratica politica nella situazione italiana, facendo riferimento a un testo sull'argomento di Teresa De Lauretis, comprensivo delle obiezioni più significative mosse da varie parti al pensiero della differenza sessuale della Libreria di Milano. 23

20

Supra, p. 137. Supra, pp. 102, 125-126. 22 Supra, pp. 99 sgg. Per la comprensione dell'insistenza di Lia sullo scambio nell'economia dei rapporti fra donne sono debitrice al mio rapporto con Stefania Giorgi; per tutto quello che c'è dietro, ovviamente, a quello con mia madre. 23 TERESA DE LAURETIS, Immaginario maternale e sessualità, testo dattilosc'ritto (non pubblicato) per il convegno «Teorie del femminismo made in Usa» organizzato dal Centro di documentazione delle donne di Bologna il 26, 27, 28 novembre 1992; le citazioni che seguono sono tratte dalle pagine 1-5. Cuso che ne faccio non restituisce l'impianto complessivo del testo, incentrato soprattutto sulla questione della sessualità femminile e in particolare dell'identità lesbica in riferimento all'immaginario maternale e al simbolico materno. Teresa De Lauretis è autrice dell'Introduzione (pubblicata in Italia da «DWF» n. 15, 1991) all'edizione americana di Non credere di avere dei diritti (Indiana University Press). Una versione diversa del testo a cui qui sto facendo riferimento comparirà nel suo Sui generis. Scritti di teoria femminista, Feltrinelli, Milano [1996, N.D.R]. 21

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Siamo lontani, in questi scritti di Cigarini, da quell' «immaginario maternale» che, denuncia giustamente De Lauretis, in molto pensiero femminista americano «sostituisce il nome del padre con il corpo della madre», rivalutando quest'ultima come «figura a tutto pieno, immagine idealizzata di utopica sorellanza o fusionalità preedipica» carica di effetti politici e psicologici regressivi. Come abbiamo visto, la madre simbolica non istituisce maternage fusionale, bensì autorizzazione ad andare libere nel mondo; e più che corpo, significa linguaggio. Essa è infatti figura della prima relazione dispari di scambio, quella in cui si impara a parlare; come tale, diventa figura di una libertà femminile non individualistica ma relazionale (in cui cioè il processo di individuazione non avviene per separazione ma per mediazione con l'altra, dentro la relazione con l'altra), 24 e dell'aderenza della lingua all'esperienza (cioè di una pratica della significazione e della contrattazione che non perde i suoi riferimenti materiali). Sostiene De Lauretis, tuttavia, che l'insistenza sul versante del simbolico a scapito dell'immaginario, pur avendo il merito di «ridefinire il materno come rapporto simbolico e non naturale, sociale e non individuale o privato», andando così in direzione opposta a quella dell'immaginario maternale, cade nell'eccesso speculare di «produrre un soggetto femminile solamente simbolico, compatto, indiviso, che quindi si presenta come la controparte del soggetto cartesiano o di quello neutro-maschile della tradizione filosofica pre-novecentesca». Con il risultato paradossale di condividere con la corrente dell'immaginario maternale la cancellazione delle pulsioni e della sessualità. Di questa argomentazione condivido il timore che l'insistenza sulla valenza simbolica della madre lasci fuori scena gli effetti nell'immaginario che il simbolico femminile produce 25 e non presti «sufficiente 24

Supra, p. 71. Devo qui necessariamente dare per scontata la distinzione di origine lacaniana fra immaginario e simbolico, che risulta per l'essenziale da quanto scrive la stessa De Lauretis: «Ma, se è vero che «il simbolico femminile si basa su un immaginario femminile», come suggerisce Margareth Whitford a proposito di Luce Irigaray; e se è vero anche il viceversa, ossia che «è il simbolico che struttura l'immaginario», allora ogni simbolico - nel nostro caso quello femminile - produce come suo effetto un immaginario. Nel caso di Milano, quindi, non è illecito chiedersi, qual è l'immaginario effetruato o promosso dal simbolico femminile? A quali fantasmi dà la luce la madre simbolica? Quali sono i risvolti erotici del debito che abbiamo contratto con lei?»: Immaginario maternale, cit., pp. 4-5. Margareth Whitford è autrice di una preziosa monografia su Luce Irigaray: Luce Irigaray. Philosophy in the feminine, Routledge, London and New York 1991. Quanto a Luce Irigaray, è superfluo ricordare qui che 25

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attenzione ai contenuti immaginari del rapporto figlia-madre: identificazione, captazione o valorizzazione narcisistica, ma anche resistenze, aggressività o disidentificazione»: le oscillazioni sul rapporto fra madre simbolica e madre reale 26 mi sembrano una spia di questo non risolto problema, e così pure gli effetti indesiderati e imprevisti di un «cattivo uso» della madre simbolica nella pratica politica che la stessa Lia denuncia nel passo che ho citato sopra. Ma diversamente da De Lauretis, non credo che si possa addebitare alla nozione di simbolico che opera nel pensiero «milanese» della differenza sessuale l'accusa di costruire un soggetto femminile compatto e pre-novecentesco. Come abbiamo visto, la figura della madre simbolica nasce dall'analisi dell'isterica, a sua volta figura prima dell'io scisso novecentesco. Non solo. Per quanto una parte del femminismo si ostini a vedere nella centralità del simbolico un pericoloso distacco dalla (presunta) «concretezza» del corpo, dell'esperienza e dei rapporti economico-sociali, 27 la figura della madre simbolica tende a esprimere precisamente una nozione non metaforica ma realistica, materialistica, del simbolico, in cui corpo e linguaggio, esperienza e rappresentazione possono corrispondersi (tanto da prestarsi piuttosto alla critica opposta, di un simbolico troppo legato ai corpi e ai contesti da cui nasce). 28 È dunque la chiave di una proposta che ha al suo centro l'interazione continua fra vissuto e significazione. il suo contributo sulla differenza sessuale, sul rapporto madre-figlia e sul concetto di genealogia femminile è stato inaugurale e resta fondamentale per tutto il pensiero femminista occidentale e ha ispirato largamente l'elaborazione italiana del pensiero della differenza di cui stiamo parlando. 26 Cfr. nota 18. 27 Per ultimo, il recente convegno «Quale politica? Un incontro di parola tra donne» organizzato il 24 e 25 giugno a Bologna dall'Associazione Orlando ha riproposto, in vari interventi, questo equivoco. Sulle radici culturali e politiche della diffidenza per la politica del simbolico proposta dal pensiero della differenza sessuale, rinvio al mio Ordine simbolico e storia cit. 28 «Non parlo metaforicamente della madre. Ne parlo tuttavia simbolicamente», scrive Muraro a p. 19 dell'Ordine simbolico della madre, e ancora (p. 115): «È difficile non vedere un'opposizione fra realistico e simbolico, ma bisogna riuscirci per cogliere il significato del principio materno come io cerco di esporlo [... ] La politica delle donne può essere considerata una forma di simbolico realistico perché fa agire la differenza sessuale con effetti di libertà femminile (contro i suoi tradizionali effetti di non-libertà) senza fornire definizioni e rappresentazioni dell'essere uomo-donna». Questa nozione di «simbolico realistico» non è definita, ma agisce negli scritti di Lia Cigarini, e spiega precisamente, a mio avviso, il ruolo della pratica politica. La pratica è infatti il luogo in cui il simbolico femminile si mette-in-atto; per dirla alla maniera di Foucault, «avviene», cioè insieme emerge dai fatti e produce effetti: realisticamente, non metaforicamente. Del rischio di un eccesso di realismo in questa nozione di simbolico ho parlato nella mia recensione a Non credere di avere dei diritti, «Memoria» n. 19-20, 1987.

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Ida Dominijanni

Linsistenza di Cigarini sull'economia dello scambio fra donne porta qui: la modalità prima dello scambio è infatti la parola, il mettere in parola l'esperienza, sì che essa possa prendere corso sociale. Possibilità della parola, regime dello scambio: alla politica tradizionale può sembrare poco, ma basta fermarsi un attimo ad ascoltare quanto la parola si sia svuotata, in politica, per capire quanta verità contenga invece il rapporto fra esperienza, parola e trasformazione.

Politica e (è) pratica politica Non per caso, del resto, parte proprio dalla parola il testo (firmato con Luisa Muraro) che su «Critica marxista» si incarica di riassumere, anche per interloquire con uomini della sinistra, 1'«insieme di pratiche» che costituiscono la politica delle donne. Se al primo posto infatti viene la pratica del partire da sé, la parola vi gioca da protagonista, e di nuovo ai fini dello scambio: essa non serve solo a dire l'esperienza e la soggettività, ma a mediare fra soggettività e contesto, fra sé e altro da sé, «o anche fra sé e sé, nella misura in cui l'alterità attraversa anche l'essere umano nella sua singolarità». 29 La parola è perciò il pilastro di quel movimento fra dentro e fuori, fra interiorità e mondanità, che è il movimento cardinale della politica delle donne. Si parte da sé, dalle contraddizioni vissute in prima persona, non per restare a sé o per assolutizzare la propria esperienza ma per portarsi nel vivo dello scambio sociale: la pratica del partire da sé non insegna infatti l'immediatezza, ma al contrario la mediazione (fra sé e sé, fra sé e la realtà).

Fraintendimenti Con la pratica del partire da sé vengono richiamate, nell'articolo su «Critica marxista», la pratica della disparità e dell'autorità. Sottolineo la sequenza, perché è di senso comune, in quella parte del femminismo italiano che contesta vigorosamente l'elaborazione della Libreria delle donne di Milano, l'idea che fra il femminismo degli anni Settanta e quello degli anni Ottanta ci sarebbe una disastrosa frattura - autocoscienza e pratica dell'inconscio da una parte, disparità affidamento e autorità dall'altra; di là fedeltà al partire da sé, di qua suo tradimento in nome della costruzione di un ordine simbolico astratto 29

Supra, p. 170.

Il desiderio di politica

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e gerarchico - responsabile di una torsione autoritaria e politicistica del pensiero della differenza. 30 Si vede, si vuole vedere così frattura dove ci sono viceversa tracce profondissime di continuità, come questi scritti testimoniano. 31 Il fraintendimento è comprensibile da parte di quante hanno visto nel «tra donne» degli anni Settanta una versione «di genere» della dialettica della liberazione propria dei movimenti rivoluzionari della sinistra e delle loro forme politiche e organizzativet ma lo è molto meno da parte di quante hanno condiviso (con la Libreria di Milano e con altri gruppi del femminismo radicale), alle origini del movimento, la scoperta di come la relazione fra donne chiami in causa i cardini dell'antropologia politica, i tratti consapevoli e inconsci del soggetto individuale e collettivo, le modalità prime del legame sociale. Chi sa questo, che è un portato non della teoria ma delle vite segnate dalla rivoluzione femminile, non può vedere mimesi del maschile e adeguamento alle forme dell'esistente dove c'è invece una loro critica in radice; né può essere tratta in inganno dal rovesciamento di segno che il femminismo della differenza opera sul tradizionale significato di parole prese dal lessico politico comune. «Disparità», «autorità», hanno nella teoria-pratica della differenza un significato straniato quanto la recitazione di un brano del teatro di Bertold Brecht: è infatti il paradosso dell'estraneità femminile alla storia di queste parole a legittimarne un uso contro-paradossale nell'orizzonte della libertà femminile. Le donne sono state confinate dall'ordine simbolico patriarcale al disordine di relazioni rivali misurate sul desiderio maschile; sono state storicamente escluse dalle gerarchie sociali, costruite a immagine e rappresentanza della sessualità maschile; sono state poi assegnate, nei 30

Impossibile dare qui tutti i riferimenti