Il tramonto dell'Antichità e altri scritti

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INDICE

E. Simeone - G. Ugolini, Il "tramonto" di Wil.amowitz Nota editoriale

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Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff Il tramonto del!' Antichità

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L'imperatore Marco

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L'impero universale di Augusto

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IL "TRAMONTO" DI WILAMOWITZ di Eduardo Simeone e Gherardo Ugolini

1. I.A fine di un'epoca. Wilamowitz e l'esperienza bellica «Ganz wie bei uns» ( «proprio come da noi»): con queste parole, secondo il vivido resoconto di Friedrich Solmsen, pare che il vecchio Wilamowitz, negli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale, fosse solito concludere i suoi discorsi nei quali trattava il tema del declino dell' antichità1• Era evidentemente un modo efficace per enfatizzare l'analogia tra le circostanze storiche del passato e del presente. Solmsen, che sarebbe diventato a sua volta un importante figura di antichista, in quel periodo era studente all'università di Berlino e aveva conosciuto e frequentato con una certa assiduità l'ormai anziano professore di filologia classica il quale, anche dopo aver cessato il servizio attivo nel 1921, continuava a frequentare!' ateneo e a tenere lezioni e seminari2. • Cfr. F. Solmsen, Wilamowitt. in his l..ast Ten Years, in «Greelv µiv t:ç 'Awoç E1Jletal tl8d'v, oi Sè vfoi oc:i>tl;oit' t1mSa. 1 1921 (NdA). 2 F. Schiller, Dr"e Worte des Wahns (Le parole dell'inganno), vv. 5-6. 1 Questa

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Perduto è per l'uomo il frutto della vita, finché egli cerca di afferrare ombre.

Una variante cli questa illusione è la fede nell'eterno progresso e nell'ampiezza della sua diffusione. Dalla lampada ad olio al petrolio, al gas, fino all'elettricità: non era questa una prova, una tra molte? È vero che la storia ha insegnato a quanti avessero orecchie per intendere che un'elevata civiltà materiale più cli una volta era caduta in rovina con ogni altra cosa, ma vuoti discorsi retorici hanno fatto dimenticare questo assunto. In realtà la storia insegna che al declino segue, alla fine, un rinnovamento, una risurrezione; ma solo l' anima, ciò che non era materiale nella civiltà abbattuta, può risorgere; non si tratta dell'illuminazione di una stanza o di una via, bensl della luce che dall'anima penetra nelle anime. Ebbene, in una catastrofe universale è andato distrutto cosl tanto che si finisce col non avere fiducia in ciò che ancora sopravvive; tanto più che molti si danno da fare per distruggere anche questo. Oggi qualcwio profetizza il tramonto dell'Occidente, stranamente solo di questo, considerato che pure la grande antica Cina è in preda alle stesse convulsioni'. Se l'Apocalisse avesse ancora presa sui cuori, allora si parlerebbe dei quattro cavalieri, dell'Anticristo, e del giorno del giudizio. Ma chi nonostante tutto non intende disperare, affronterà schiettamente le cose, al fine cli lavorare per la conservazione e per la ricostruzione, e in questo senso può non apparire superfluo indagare le cause che hanno portato al tramonto della civiltà antica. Lo si è fatto più volte, e anch'io tenterò cli esporre la mia opinione. La premessa è che noi non guardiamo ai tempi del crollo, allorché non solo i Germani, ma tutti i popoli vicini dell'Im) Allusione ironica all'opera di Oswald Spcngler, Der Untergang tks Ahendlandes (Il tramonto tkll'Occitknte), voi. 1, Wicn 1918, voi. 2, Miinchen 1922, un testo verso il quale Wilamowitz nutriva non poche riserve.

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pero oltrepassavano le frontiere: Beduini e Mauri, Alani del Caucaso, tutti barbari, ancor più pericolosi dell'impero Persiano. Dovunque essi riescono a sconfiggere gli eserciti imperiali, che sono composti perlopiù di reclute barbare, le province soggiacciono inermi ai loro piedi. Quasi in nessun posto, infatti, c'è la preoccupazione che insorgano gli stessi cittadini. Già solo per questo dobbiamo andare fino in fondo per trovare le radici di tale fenomeno. Assumiamo come pWlto di partenza proprio il periodo di massimo splendore, quello in cui Augusto aveva procacciato all'impero del mondo unità e pace, gli uomini salutavano con gioia l'inizio del!' età del!' oro e si poté diffondere la fede sincera nell'immortalità di Roma enella civilizzazionemondiale4 • Di primo acchito potrà apparire un paradosso desumere le cause del tramonto a partire da quel!' epoca grandiosa che in un altro saggio compreso in questa raccolta è trattato come inizio di un periodo universale romano, il quale ha prodotto le sue peculiari arte e cultura'. E infatti non sarebbe solo sbagliato, ma semplicemente assurdo, pensare che nel corso di cinque secoli non sia vissuto nessun uomo che fosse degno di eterna memoria, che non sia stata creata alcuna opera che bisognasse chiamare immortale, quand'anche scomparissero il Pantheon e Santa Sofia, il sistema dottrinario della dommatica cristiana e il Corpus Iuris non avessero più nessuna valenza pratica. Eppure il libro di Gibbon s'intitola proprio The History o/the Decline and Fall o/the • La tesi che la ~cad= ~ l mondo romanoavesst!e avuto inizio proprio nd momento ~I suo massimo splendore, ovvero durante la lunga pax Augwtea - a causa ~ l prolungato periodo di non belligeranza - era stata presentata da Wilamowitz in Das Weltreichdes Augwtus (L'impero universale Ji Augwto), confer= ~11915 (testo italiano in Appendice al presente volume). s Allusione al saggio Hellenismus unJ Rom (Ellenismo e Roma), compreso in Reden unJ Vortrage, voi. 2, Berlin 1926, pp. 148-170.

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Roman Empir! e l'epoca ci.tata non sarebbe I' aane se non partisse da 11 la caduta verso il basso. Ciò che vogliamo qui esaminare è perché l'impero sprofondò nell'abisso. Dobbiamo partire dalle forze armate. Augusto istitul un esercito stabile deputato, eccezion fatta per la guardia pretoria, solo alla protezione dei confini; le finanze non permettevano di più.L'esercito sarebbe dovuto essere romano, ma lo era solo negli ufficiali più alti in grado e nella lingua; infatti, accanto alle legioni romane c'erano numerosi reggimenti costituiti da uomini provenienti dai bellicosi popoli sottomessi che avevano la prospettiva di ottenere la cittadinanza romana, una volta che avessero terminato il lungo periodo di leva. In Oriente però dovevano essere già stati inclusi nelle legioni, come cittadini romani, anche dei greci, precisamente cappadoci. che parlavano greco e analogamente oriundi dell'Asia Minore. Con il passare del tempo, quando i cittadini romani si disabituarono sempre più allo spirito bellico, si accrebbe via via l'elemento straniero; questo fenomeno condusse alla coscrizione di mercenari di altre nazioni, fino al completo imbarbarimento dell'esercito. Già era impossibile che nutrissero un sentimento nazionale romano Mauri, Asturiani, Batavi e Traci che militavano in primo luogo nei reggimenti ausiliari; costoro nutrivano tutt'al più un sentimento di massima dedizione verso l'imperatore, o ancor più frequentemente verso il loro comandante. Ma ciò valeva anche per le legioni e quindi, nelle crisi politiche, la decisione spettava solo all'esercito, come si evidenziò subito al tempo della caduta di Nerone, allorquando il conflitto divampò tra le legioni che erano di stanza in Spagna, sul Reno, sul Danubio, in Siria. La guardia pretoria aveva liquidato Caligola. Alla popolazione cittadina, se mai avesse avuto una volontà E. Gibbon, The Historyo/the Dedine and Fallo/the RomanEmpire, London 1776-1789. 6

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politica, venne meno ogni potere. Pertanto l'unica rappresentanza del popolo romano è l'esercito, un'organizzazione imponente: la colonna traiana è un documento orgoglioso della sua grandezza, ma essa non può essere chiamata un monumento del popolo. In questo esercito gli ufficiali subalterni provengono dal volgo e tra di loro moltissimi vanno ad occupare posti inferiori dell'amministrazione. Questi due àmbiti, che presso di noi sono separati, tendono in genere a coincidere, ed anche i funzionari dell'ordine equestre spesso in un primo momento hanno servito nell'esercito. Era inevitabile che un poco alla volta anche singoli barbari giungessero alle cariche più elevate; già sotto Traiano, il mauro Lusio Quieto è stato promosso fino al rango di senatore, e cento anni più tardi Massimino è il primo barbaro a salire sul trono imperiale. In gioventù aveva pascolato il bestiame e chi osservi il suo ritratto, rinvenuto da poco, non ha bisogno di apprendere altro sull'imbarbarimento che penetrò dall'esercito nell'impero. Il fatto che Augusto si dovette limitare ad un esercito inadeguato, dipese anche dalla situazione dellefinanze. Per mantenere la linea del Danubio, che aveva appena raggiunto felicemente, contro una ribellione, egli dovette introdurre imposte tanto onerose da rinunciare alla conquista della Britannia ed abbandonare definitivamente il piano di estendere il confine dal Reno all'Elba. Di per sé la perdita di tre legioni nella selva di T eutoburgo si sarebbe potuta benissimo bilanciare; la divisione dei Germani fa sempre il gioco dei loro nemici. Cosl, tuttavia, risultò profetica la leggenda secondo la quale, presso il fiume Saale, una donna germanica simile ad uno spettro gridò a Druso «Fino a qui, ma non oltre»;. 'Cfr. Svetonio, De vita duoiucim Caesarum, Divus Claudius, 1, 2; Cassio Dione, Historiae Romanae, 55, 1, 1-5.

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Fin da principio le finanze si trovano nelle mani dell'imperatore il quale, in linea generale, doveva farsi carico di àmbiti sempre più estesi dell'amministrazione, in quanto il senato non si mostrava all'altezza dei suoi compiti. Un gigantesco possesso in beni demaniali, miniere, e in Egitto anche in regalie, apparteneva a Cesare. L'Egitto, per esempio, forniva il papiro a tutto il mondo e proprio le fabbriche divenute ora imperiali ne detenevano il monopolio. Il prodotto fino al quarto secolo si mantiene buono, ma nel tempo diventa sensibihnente peggiore, al punto che si ricorre alla costosa membrana di pelle, la pergamena. Questa è una prova di quanto sia decaduta la produzione. In principio dai proventi di questa proprietà e dalle imposte e tributi giungevano a Roma fiumi d'oro, tanto che ne restava un'enorme eccedenza per la soddisfazione dei costi dell'esercito e dell'amministrazione e per la fornitura di frumento a basso costo alla plebe urbana, il popolo romano presunto sovrano. I sovrani ligi al dovere, come Tiberio, l'hanno adoperata per intervenire dovunque ci fosse necessità; in caso di terremoti, alluvioni e simili; comunità e privati hanno sempre ricevuto un ricco sussidio e non soltanto la capitale è stata sempre arricchita di nuovi edifici. Tra questi non ci sono solo costruzioni di pubblica utilità, porti e acquedotti; più spesso però si tratta di edifici di lusso e questi ultimi sono la maggior parte anche nelle città dell'impero. Non solo Caracalla, ma anche Costantino fece costruire terme gigantesche a Roma, proprio come se ce ne fosse stato bisogno. Costruzioni di strade nell'interesse della circolazione e di canali esclusivamente per la bonifica sono rare, per il fatto che le imponenti arterie stradali che percorrono l'impero servono principalmente a scopi militari e spesso sono costruite dai soldati. E quanto gravemente pesa il rimprovero che un greco (A pollonio di Tiana) rivolge all'amministrazione romana: «non pensate ai bambini, ai giovani, alle donne, e neppure

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se ne interessa la vostra legislazione» 8• Ebbene, sulla noncuranza dell'educazione del popolo torneremo più avanti. Qui ci si limiti a riflettere un momento su quale economia, industria e commercio avrebbero potuto realizzarsi, se lo Stato avesse fornito capitale d'investimento a basso prezzo. Solo i grandi capitalisti prestavano denaro ed essi hanno valorizzato la terra e, da ultimo, hanno accresciuto l'intero impero. Già in età ellenistica vediamo come nelle singole città greche un uomo facoltoso, non sempre un antico cittadino, domini tutto; la comunità non può proprio fare a meno del suo aiuto economico. L'oppressione degli usurai romani, tra i quali i peggiori sono personaggi eminenti di Roma, come per esempio Bruto, è ancora molto più grave. Figure simili di uomini straricchi ci sono anche in epoca posteriore nelle città greche - Erode ad Atene è l'esempio più famoso -, ma se ne contano anche a Sparta, a Efeso e altrove. In una prima fase non nuoceva all'impero se questi possidenti acquistavano sempre più proprietà terriera, per quanto la loro azione fosse comunque dannosa nel momento in cui i loro servi non liberi prendevano il posto di contadini indipendenti; ma nel momento del bisogno, che comincia già con le guerre civili dopo la caduta di Commodo, l'enorme proprietà imperiale deve passare nelle mani di ricchi capitalisti di questa specie. Lo vediamo soprattutto in Egitto, dove la pressione fiscale che gravava sui contadini, fece sl che un numero sempre più grande di loro, a dispetto di tutte le misure più drastiche, abbandonasse la propria terra e si sviluppasse un brigantaggio inestirpabile nelle paludi del delta del Nilo. Il deserto si sposta verso il Nilo, diminuisce la popolazione greca, la terra cade nelle mani di grandi signori i cui servi della gleba gradualmente costituiscono la massa degli Egiziani ridotti a s Cft. Apollonio di Tiana, Epistola 54.

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/ellàhin. L'involuzione della società in direzione dd feudalesimo e della servitù della gleba qui è dd tutto evidente. I Tolomei hanno imposto una fiscalità piuttosto gravosa, ma essi non hanno mai attuato un fiscalismo tanto spietato e nd contempo stolto come quello romano. Questo regime non conosceva altro mezzo che l'estorsione, rese i consigli cittadini direttamente responsabili per la riscossione delle tasse e costrinse i cittadini, ancora in qualche modo solvibili, all' assunzione delle ormai temute cariche onorifiche dell' amministrazione autonoma. Rimaneva un solo escamotage, la svalutazione della moneta, che produsse effetti molto simili all'odierna emissione di carta straccia. Possediamo iscrizioni in cui gli stipendi sono computati non in moneta, divenuta ormai fittizia, ma in frumento. La riforma dell'assolutismo diodezianeo-costantiniano ha rimediato a questo fenomeno, ma non si allentò la pressione fiscale; perciò l'impero non poté reggere la politica espansionistica di Giustiniano, e lo splendore dei suoi edifici non può ingannare circa la decadenza delle province. Già l'evoluzione ellenistica aveva portato dappertutto al dominio della città sul territorio. L'insediamento di contadini, come l'avevano promosso i primi Tolomei e i Seleucidi, fu un'eccezione. L'impero romano constava di una somma di città; se è vero che in Gallia le tribù non furono spostate, Lutezia sostitul i Parisii, Durocortorum (Reims) i Remi. Ovunque non era ancora raggiungibile la condizione cittadina; questa condizione preurbana aveva il valore di uno stadio preliminare che si intendeva oltrepassare, ed il conferimento della giurisdizione urbana a villaggi dell'entroterra microasiatico, della Tracia, dell'Africa, o anche la fondazione di nuove città, è servito ad un progresso della civilizzazione, e in un certo senso lo fu davvero. La conseguenza, tuttavia, è stata pure il degrado del territorio che dipendeva da questa città. Gli agiati proprietari terrieri si trasferivano nel centro

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urbano e lasciavano amministrare le loro proprietà terriere da servi non liberi, fenomeno che osserviamo già prima in Italia. Llalmeno i signori si costruirono imponenti ville rurali e vi soggiornavano per un periodo più o meno lungo, anche se solo in visita. Una cosa del genere avviene raramente nella parte greca dell'impero. La conseguenza è il declino dell' economia rurale. La letteratura latina, dapprima, annovera ancora scritti apprezzabili su questa materia, ma se si osserva ciò che hanno prodotto i Quintilii sotto Marco (conservato nei greci Geoponica 9) si inorridisce di fronte alla fatuità e alla superstizione. L'impresa estensiva, come la poteva realizzare un tempo l'economia romana delle piantagioni, con schiere di schiavi barbari, a discapito della libera popolazione rurale, venne meno, perché non ci si poteva procurare più tali schiavi. Ma il succedaneo, per mezzo della locazione di parcelle di terra ad affittuari, ha comportato che quasi dovunque il popolo contadino fosse vincolato alla gleba e sprofondasse nella servitù. Nell'entroterra microasiatico queste forme sociali primitive si erano sempremantenute, e pertanto diverse sono le vie che hanno condotto al colonato. La fine è la stessa: la perdita della libertà per una grande parte della popolazione. Non si poteva più parlare, in questo caso, di intrapresa economica o addirittura di progressi. È difficile dare un giudizi.o sull'industria. Si è già parlato del deterioramento del papiro; nelle ceramiche esso è in confondi bile, se si pensa alla magnifica "terra sigillata" degli inizi dell'impero. Anche i tessuti allora non saranno stati cosl grezzi come i prodotti egizi conservati. D'altronde, non di rado capita di osservare che le regioni romanizzate dell'Occidente diventano più attive e prospere dell'Italia e dell'Oriente. I Geoponica sono una collezione di venti libri di agronomia, compilata durante il X secolo a Costantinopoli sotto l'imperatore Costanti.no VIl Porfuogcnito. 9

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Consideriamo dunque la società dei popoli e degli uomini che abbracciava l'impero di Augusto. La sua struttura era complessa, non poteva reggersi in piedi nel corso del tempo, ed era inevitabile una tendenza al livellamento. Anch'essa fu una sciagura. Augusto ebbe una certa considerazione per la sovranità del popolo romano di cui era il primo cittadino. Il cittadino romano ha dappertutto una condizione giuridica privilegiata; l'Italia, che ormai contiene solo cittadini, e tutti gli altri municipi non pagano né una tassa sulla persona, né un'imposta fondiaria. I Romani sono al vertice delle province. Ma la cittadinanza romana è articolata in modo corporativo ed hanno un riconoscimento effettivo solo i due ordini superiori, quello dei senatori e quello dei cavalieri che, dal punto di vista giuridico, sono distinti in virtù della cospicuità del loro patrimonio. Si arriva al punto che addirittura il diritto penale è differente per le classi sociali. Però, in un primo tempo, in Senato erano prevalenti le antiche famiglie, nella misura in cui erano sopravvissute alle guerre civili; esse condividevano in Senato la sovranità del principe. Qui troviamo ancora patrimoni principeschi, un adeguato tenore di vita e prerogative corrispondenti; in questi àmbiti vivono le antiche tradizioni romane: hanno i loro clienti, qualcuno addirittura un seguito di cortigiani. Occupano gli antichi uffici cittadini, che però sono quasi soltanto cariche onorarie, amministrano a titolo onorifico le province pacificate, hanno il comando di grandi eserciti. A noi può sembrare assurdo che tali patrimoni rimanessero detassati e che solo a stento l'imperatore potesse imporre un'imposta sulle successioni ereditarie e sulle manomissioni. Questo antico e nobile ordine senatorio si è estinto alla fine del primo secolo. Quando Tacito e Plinio erano consolari, esso era composto essenzialmente da uomini che vi erano ascesi dalla classe equestre, spesso originari delle provin-

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ce; e se l'ubicazione a Roma, il fasto esteriore ela forza della tradizione produssero quell'atteggiamento senatorio che ha Tacito, e non mancarono infruttuosi tentativi di restituirlo politicamente all'antica sovranità, questo è accaduto proprio per il significato particolare di questo supremo ceto sociale. In seguito, quando Roma non era più capitale, si formò proprio Il una cerchia di famiglie che rivendicava e rimpiangeva l'antica romanità; ma chi conosce Ammiano10 sa che l'ordine senatorio non merita del tutto il riconoscimento a cui hanno avuto diritto quelle famiglie fino all'età di Teodorico. Dai cavalieri si è formato gradualmente un ceto di funzionari stipendiati che non erano separati dai militari. Entrambi erano legati all'imperatore. Anche in questo campo c'erano posti della massima dignità; il prefetto d'Egitto, che deteneva il potere di un viceré, doveva essere un cavaliere. Inoltre divenne possibile il passaggio alla carriera senatoria per il singolo ovvero per i suoi figli. Ma dal basso molti giunsero anche al ceto equestre e alle cariche corrispondenti, quindi subalterni con la corrispettiva preparazione di base. Tutta l'altra massa del popolo, politicamente del tutto priva di diritti, è disprezzata; erano straccioni o accattoni, come si suol dire. In effetti costoro svolgono un ruolo meno im~ortante dei liberti e addirittura di alcuni schiavi imperiali. E mantenuta la norma contemplata nell'antico costume romano per cui la manomissione rende lo schiavo un romano, benché nella prima generazione non sia raggiunta la piena parità e sovente continui il rapporto con i padroni di un tempo. A Roma, pertanto, si impose un elemento principalmente orientale, semiti e microasiatici con una mezza formazione greca, molti straordinariamente intraprendenti e scaltri. T rimalcione mostra a quale ricchezza potesse giunge10 Ammiano Mar~llino, storico latino, originario di Antiochia, nd TV secolo, autore di WJa vasta opera storica intitolata Rerum gestarum libri, che andava dal periodo di Nerva fino a Valente (dal 96 al 378 d. C.).

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reun uomo del genere e con quali mezzi. Sotto Claudio alcuni liberti, per un certo tempo, hanno retto la corte e l'impero, ed era un ex schiavo il governatore al cui cospetto stava Paolo a Cesarea. La servitù imperiale contava tali liberti a migliaia e addirittura schiavi in parecchi posti di responsabilità, al punto che gli uomini non liberi potevano conseguire ciò da cui restavano esclusi i liberi contadini ed artigiani. In.fine, abbastanza spesso è accaduto che proprio in Italia liberi cittadini, di propria volontà, scivolassero nella schiavitù. È ovvio che la diffusione della cittadinanza tra elementi di origine straniera non poteva comportare assolutamente alcun sentimento dello Stato e della patria. Ma il senso dello Stato finl col venire meno anche in tutto il popolo minuto romano, visto che non partecipava minimamente allo Stato. In compenso, gli elementi di origine straniera, perlomeno nella capitale, hanno guastato anche la razza. Roma, in quanto grande centro urbano, ha sperimentato con tutta evidenza quel fenomeno che poi si ripete sempre: lagrandemetropoli non fa altro che logorare gli uomini, producendone pochissimi di utilizzabili. Da quando l'Italia è romanizzata, la si può designare come il circondario di Roma. Tutte le colonie e i municipi seguono il vento che soffia da Il; in nessun luogo vi è vita culturale, una vita interamente propria, ed anche il benessere non progredisce, anzi già nel secondo secolo inizia a calare. Molto meglio stanno le provincie romanizzate, l'Africa, la Spagna e la Gallia. La Spagna prima fornisce gli scrittori più eleganti, quindi gli imperatori più eminenti; in Africa la Chiesa cristiana trova i suoi più illustri rappresentanti; a Roma la sua lingua fu, fino al secondo secolo, il greco. Scriveva in greco anche la comunità di Lione, ben più in virtù delle nuove relazioni commerciali con l'Oriente che per effetto della cultura di Massalia già allora romanizzata. D'altronde, Gallia e Aquitania sono state romanizzate solo più tardi; è solo tra il quarto e quinto secolo che Bordeaux

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diviene un importante luogo di cultura. Naturalmente noi tedeschi pensiamo al grande periodo aureo della Renania romana, alle fabbriche di stoffe e di vetro, alle lussuose ville rurali e ai magnifici edifici di Treviri. Questo trova la sua spiegazione nella marcata romanizzazione che fu una conseguenza dei grandi eserciti di stanza sul Reno. Si può dire lo stesso delle lande danubiane, perfino della Dacia occupata solo per poco tempo. Tuttavia, per quanto riguarda la cultura letteraria, la vita intellettuale in generale, s'è ottenuto poco. E con l'arcaismo dell'epoca adrianea si è raggiunta quasi la fine. La nuova regione romanizzata ha dato buoni frutti solo nelle lingue romanze derivate. L'Oriente ellenistico o ellenizzato ha avuto bisogno di appena un secolo per riprendersi dal suo impoverimento. Le antiche città avevano conservato la loro autonomia amministrativa. Sia chefossero li bere e godessero formalmente degli stessi diritti dell'alleata Roma, sia che fossero sottoposte ad un governatore, la differenza in sostanza risultava solo formale. Dobbiamo ammettere, a ragion veduta, che Traiano fece esercitare tramite funzionari romani un forte controllo anche sulle città libere. Le due metropoli di Alessandria (che voleva dire sempre tuttol'Egitto) e di Antiochia non ebbero più neppure un'ombra di libertà cittadina, ma questo non sottrasse loro l'importanza come centri culturali. Le località dell'Asia Minore di antica fama, Pergamo, Smirne, Efeso, godettero, fino all'invasione dei Goti, di un elevato benessere. Nell'entroterra esso si è mantenuto ancora più a lungo; il viaggiatore trova nel deserto attuale intere città i cui edifici appartengono quasi del tutto all'epoca imperiale, e, sicuramente, l'Asia Minore, dal punto di vista materiale, non ha mai conosciuto tempi tanto felici. Come nei monumenti, cosl anche nella letteratura, dall'epoca di Traiano si esprime una vivacità davvero sorprendente, al punto che dall'età imperiale ci è giunto molto di più che da

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tutti i secoli precedenti messi insieme. In epoca successiva spicca maggiormente la Siria, e la Cappadocia, che al tempo di Augusto era ancora bar barica, fornisce alla Chiesa nel IV secolo i suoi più grandi lumi. È comprensibile che questa fioritura poté trarre in inganno non solo Gibbon ma anche Mommsen. Tuttavia, tanto il benessere quanto la letteratura appartengono solo ad un ristretto ceto superiore. Queste persone potevano fare sfoggio della loro cultura nonché della loro nobiltà ellenica, e potevano financo giungere al Senato romano; ma al massimo riusci.vano a giovare alla massa dei loro compatrioti impoveriti nella misura in cui abbellissero le città e distribuissero elemosine; la nuova letteratura à la page risultava ai più pressoché incomprensibile. Tra quegli scrittori ne troviamo certamente alcuni la cui personalità ci ispira rispetto e simpatia; e il valore di libri di quel genere, libri che si limitano ad elaborare bene l'antichità, è per noi relativamente grande. Ma in termini assoluti dobbiamo valutare che il periodo aureo si era insterilito e, quando le foglie appaiono di color giallo oro, allora sono foglie d'autunno chele tempeste presto copriranno di neve. Si è creata una grande spaccatura tra le persone istruite e la massa che diventava sempre più ampia. Né lo Stato, né i municipi provvedevano all'istruzione elementare, i collegi privati erano rari. Eppure, nelle città l'istruzione può essere stata organizzata in modo passabile, ma nel contado mancava del tutto; Il non c'erano né insegnanti, né medici. In Egitto possiamo osservare quanto sia spaventosamente alto il numero degli analfabeti; sarà consentito generalizzare questo dato. Nell'Atene di Aristofane ed anche in quella di Menandro ciò è impensabile per un cittadino o per uno schiavo domestico. Se guardiamo alla scuola superiore, la cosa più importante è che l'intero genere femminile viene gravemente trascurato. In generale, è incredibile quanto poco si viene a sapere delle donne da tutti i luoghi della letteratura. Non

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solo perché mancava loro la più profonda formazione intellettuale e morale che poteva essere conseguita soltanto dalla filosofia, ma anche l'ideale educativo dominante a quel tempo non se ne dava affatto pensiero. La retorica era diventata egemone, vale a dire il tirocinio puramente formale dell'intelletto al fine di poter tenere un discorso. Il sapere nelle cosiddette sette arti liberali, per quanto vi ci si approcciasse, forniva tutt'al più un po' di logica formale, forse qualche rudimento di matematica; la brodaglia della cultura comune era magra e diventava sempre più magra. Per un'autentica formazione essa è sempre nociva. Spesso la stessa filosofia sarà stata soltanto un pezzo dell'istruzione retorica; bastava conoscere i prindpi essenziali dei dogmi, per farne oggetto di discussioni, senza alcuna più profonda partecipazione. Questo potrebbe valere in generale per i Romani. L'imperatore Marco è un'eccezione, ed il suo epistolario mostra come egli abbia dovuto affaticarsi ad estrarre da libri antiquati vocaboli desueti per adornare i suoi discorsi. L'addestramento ad esprimersi in una lingua d'arte costava molto sudore, ma questo educava gli uomini allo spregio del sapere genuino e ancora di più al disprezzo della verità. Resta tuttavia una differenza: il collegamento a nobilissimi modelli ha preservato i Greci dalla degenerazione in un'ampollosità assolutamente incomprensibile come la manifestano decreti imperiali della tarda romanità e taluni autori pretenziosi, come ad esempio Ennodio11• Inoltre gli Elleni avevano una cosa che mancò sempre ai Romani, il luogo per gli esercizi sportivi del ginnasio, e vediamo che essi, non solo in Egitto, considerarono sempre questa cura per il corpo una prerogativa della cultura greca; il popolo minuto invecenon aveva tempo per questo. L'im11 Magno Felice Ennodio (47.3-521), originario ddla Gallia, poeta e oratore latino aistiano. Fu il decimo vescovo di Pavia.

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magine di una città come Pergamo si distingue da ogni città romana, innanzi tutto da Roma, in maniera assai caratteristica, grazie ai suoi magnifici ginnasi. Però, a poco a poco, la ginnastica viene abbandonata, il che ben si accorda con la passione per gli atleti di professione, fino al punto in cui il cristianesimo con il suo disprezzo del corpo la soffoca del tutto. La responsabilità principale!'avranno le terme col loro effetto spossante, le quali si diffondono in ogni dove, e nelle quali le persone, anche le donne, bighellonano oziosamente per mezza giornata. Si può percepire anche una degenerazionefisica. Moltissimi uomini in vista sono malaticci; le case di cura di Asclepio sono piene, si diffondono velocemente morbi nocivi, c'è una manifesta predisposizione. Che la popolazione, anche a prescindere da tali catastrofi, diminuisca sensibilmente, non può essere dimostrato con i numeri, ma è indubitabile. Vediamo famiglie estinguersi rapidamente, sono frequenti i matrimoni infecondi, ed è largamente diffusa l'esposizione di figli indesiderati che però spesso erano tenuti in vita da chili trovava, perlopiù per sfruttarli un giorno come schiavi e trarne profitto. È di per sé evidente che nell'àmbito di questa cultura non poteva svilupparsi alcuna vera scienza. Roma certamente le era refrattaria, ma presto anche presso i Greci il suo esercizio si limita quasi solo alla ricapitolazione. Possiamo osservare al meglio questo fenomeno nella medicina, dove la pratica conduce sempre ad osservazioni preziose ed anche allora era praticata con zelo. Ma oggi sappiamo che Galeno, il quale ancora cent'anni prima non aveva sprecato del tutto la sua autorità nella sola pratica, è principalmente solo un tramite della scienza antica. Le cose stanno più o meno cosl anche per Tolomeo che per secoli fu il grande maestro della geografia e dell'astronomia. Questi esempi possono bastare. Le arti figurative forniscono una testimonianza migliore della letteratura sul mutamento del gusto dell'epoca e il

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fatto che esse restino più vicine alla vita conferisce un certo fascino ad opere in sé poco piacevoli. È innegabile che all' architettura siano affidati nuovi compiti e che essa li risolva in maniera grandiosa. In essa si trova ancora una manifestazione della grandezza romana; inoltre non le nuoce affatto nemmeno il cristianesimo, dal momento che richiede nuovi edifici. Conosciamo nomi di famosi architetti, ma nessuno di pittori o scultori. Questo è molto grave. Per la maggior parte le statue conservate sono in effetti copie di modelli greci antichi e raramente di opere ellenistiche, analogamente all'arcaismo in letteratura. E se i rilievi della colonna di Traiano sono impressionanti, la decadenza nella colonna di Marco Aurelio è inconfondibile. E l'irrigidimento della forma a partire da Costantino segna il distacco dalla grecità; è un segno dei tempi il fatto che allora ammiratori e imitatori emulino tale irrigidimento. In relazione all'architettura e come progresso di essa, poté tutt'al più svilupparsi una nuova arte grandiosa, lo stile romanico, ma scultura e pittura hanno esaurito la loro forza creativa. A prima vista, può sembrare inconcepibile che noi vediamo in quei tempi dappertutto sintomi di un'involuzione insana, progresso solo nella direzione del declino, laddove i contemporanei non manifestano alcun sentore di ciò; al contrario, lodano la magnificenza del presente, e mantengono saldamente la fede nell'indistruttibilità della loro civiltà. Molto è da imputare alla disonestà dei retori; anche gli encomiastici soprannomi degli imperatori diventano sempre più altisonanti e in fin dei conti li designano signori delle terre e dei mari proprio quando essi non occupano nemmeno il loro trono. Ma con ciò non abbiamo ancora toccato il punto decisivo. La boria per aver fatto eccellentemente tanta strada si radica del tutto in profondità. La fede nella Roma eterna, nella indistruttibile maestà del suo impero, nella perfezione della cultura conseguita è maturata nel cuore degli

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uomini nell'età cli Augusto ed è comprensibile che allora essa fosse divenuta la religione comune dell'impero e si fosse imposta e mantenuta sotto forma cli culto cli Cesare. Era compatibile con tale culto il fatto che si praticasse, in maniera più tiepida o più fervida, il servizio degli dèi patri, delle diverse divinità cli tutte le contrade. E le differenti opinioni sull'esistenza e la natura cli questi dèi si accordavano anche con la fede nell'epifania del divino in un uomo, oppure nell'armonia universale del cosmo terreno e celeste che era pervaso dallo spirito divino. Negare questa fede nella forma del culto imperiale doveva apparire, cli fatto, un delitto cli empietà meritevole della morte. Ma essa non aveva valore per la moralità. E le quattro scuole filosofiche, che in Atene continuavano a diffondere le dottrine degli antichi maestri, avevano presa sul cuore cli pochi; gli sforzi benintenzionati della filosofia popolare producevano solo prediche sulla base dei testi antichi. Inoltre c'era l'astrologia cui si dedicavano in troppi, una vera e propria religione, ma il suo rigido determinismo annientò il sentimento della responsabilità etica personale, e le stelle rimasero per gli uomini pii lontane e fredde. Di qui la profonda aspirazione ad un aiuto divino, ad una redenzione. Nelle abiezioni in cui ci conducono i papiri magici domina una superstizione puerile e ripugnante. Anche in questa si trovano numerose divinità che sciamano dall'Oriente e conquistano migliaia cli persone. Culti assurdi o disgustosi stanno accanto ad una religione solare che si unisce al monoteismo greco il quale tollerava al suo interno innumerevoli dèi e demoni, al punto che sembra essere raggiunta la conciliazione della filosofia con la religione. Per questo culto solare Giuliano ha mosso guerra contro il cristianesimo. Invano, quantunque non si possa negare l'intima relazione della presunta giustificazione scientifica dei dogmi cristiani con il Neoplatonismo. Allora il cristianesimo aveva portato l'agognata redenzione al conculcato popolo minu-

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to e soprattutto al mondo femminile, e aveva creato per sé una nuova organizzazione comunitaria nella Chiesa, la quale infine costrinse lo Stato a venire a patti con lei. Ma questo non fu d'aiuto alla conservazione dell'impero; infatti, anche quando lo Stato dei Cesari non fu più il nemico, il pensiero e la speranza dei cristiani restarono indirizzati ad un'esistenza ultramondana. La grande opera di Agostino riguarda la città di Dio e la conservazione di Roma gli sta a cuoremeno della battaglia contro i donatisti. Il cristianesimo è anche ostile per sua natura ai valori dell'antica cultura, e se anche in un primo tempo fece un compromesso in Oriente e in seguito perlomeno non lasciò che l'assalto dei monaci giungesse alla completa vittoria, tuttavia dobbiamo ammettere che non era intenzione né di San Benedetto né di Gregorio Magno conservare l'eredità dell'antica Roma, il che non deve diminuire la nostra gratitudine verso la Chiesa e i conventi. Ed infine la filosofia e la religione, se hanno qualche valore, devono porre la questione dell'effettiva condotta morale, del suo frutto. Per quanto si voglia ancora prescindere dalle chiacchiere cortigiane su Nerone e Messalina e dalle recriminazioni degli autori satirici e moralisti, è sufficiente a provocare disgusto soprattutto l'estrema impudicizia della loro lussuria. Su questa strada si prosegue più oltre; l'avidità, la corruttibilità, la mancanza di prindpi delle classi elevate diventano sempre più terribili, sempre più ripugnante la brutalità delle esecuzioni capitali, e l'amor proprio sembra estinguersi nelle persone. Non c'è da stupirsi; colui al quale manca la libertà del cittadino e il coraggio dell'uomo in armi si umilierà, striscerà e mentirà come uno schiavo; cosl egli cambia anche padrone. Il cristianesimo, a dire il vero, come del resto aveva fatto anche la filosofia, benché non sotto forma di un diretto precetto divino, promuove le più alte aspirazioni al cambiamento morale, addirittura eccede con la pretesa di un'ascesi che nega il mondo, una dottrina

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contro natura, che però è comprensibile in un'epoca siffatta. Ma quando ad un tratto il mondo aristocratico si adatta alla nuova religione, lo spirito antico non è affatto svanito sotto il mantello del decoro e dignità esteriori. La corte che scacciò il santo Crisostomo12, con il suo sfarzo orientale e i suoi eunuchi, non sarà certo stata molto migliore di quella di Claudio. Come imperatrice, Teodora fu la garante dell'ortodossia, ma aveva esordito come danzatrice senza veli. Tutto quello che era possibile in àmbito cristiano lo può mostrare il fatto che nell'anno 766, quando a Pergamo i cristiani si difendevano contro gli Arabi, è stato perpetrato un atroce sacrificio umanon. Ciò non sarebbe stato possibile né nella Pergamo regia né in quella romana. Questo avvenne nel secolo che in tutta Europa ha visto la più buia barbarie. L'impero con la sua cultura era perito da tempo, a dire il vero non in bellezza ma ignominiosamente. Non l'ha distrutto la superiorità dei suoi conquistatori, ma si era esaurita la sua forza vitale. Abbiamo percepito la presenza di cause esteriori della decadenza già nell'epoca della sua massima fioritura, eppure esse non sono il nodo cruciale. Questo si trova negli uomini. Quando si estinguono la forza e il coraggio di agire moralmente, quando viene meno il senso dell'onore dell'uomo, quando l'uomo non si preoccupa più della propria libertà morale, ossia della propria responsabilità personale, oppure si crede giustificato in forza del fato che gli impongono le stelle, allora è finita. E quando non viene concepita nessuna nuova idea ed anche la Giovanni Crisostomo, originario di Antiochia, sucoesse nel 398 al patriarca Nettario sulla cattedra di Costantinopoli. Fu ~posto illegalmente da un gruppo di vescovi capeggiati da Teofilo di Alessandria e costretto all'esilio. Richiamato quasi subito dall'imperatore Arcadio, fu poi nuovamente esiliato prima in Armenia, poi sul Mar Nero. u Teofane, p. 390, in H . Gclzer, Perg11mon unte, Byzantinern und Osmanen, «Abhandl. Bcrl. Aka~m.», 1903, p. 56. (NdA) 12

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prospettiva di coloro i quali non pensano solo a bere e mangiare è rivolta all'indietro, allora non si può che regredire. Non è possibile redimere chi non si sforza più di soddisfare le sue ambizioni. «Se il passato ti è chiaro e palese, agisci nel presente in piena libertà; puoi anche avere una speranza in un futuro che sia non meno felice»1◄. Ma il loro agire si trova nell'oscurità e nella servitù, ed essi non pensano al domani, non conoscono la speranza consolatrice, protettrice - fuorché i cristiani la cui speranza però risiede in un aldilà. Dobbiamo dW1que tracciare un parallelo con il presente, chiederci se esso autorizzi a credere che i giorni della nostra cultura siano contati? Mi sembra che sarebbe vano. Ma vale la pena che questo argomento ci stia a cuore poiché esso riguarda l'umanità, pertanto importa anche a noi. E se il mondo dovesse andare in rovina, ebbene cosl sia, purché noi custodiamo liberamente e fedelmente la dignità dell'uomo. Eppure noi non siamo come quegli uomini. Abbiamo la patria per la quale vale la pena non solo di morire, ma anche di vivere, nella consapevolezza che ognW10, per suo conto, è corresponsabile al successo del tutto. Abbiamo la libertà anche se siamo vincolati alla patria; questa genuina libertà è impressa nel cuore e lega l'uomo dabbene più saldamente di ogni norma esteriore. Poiché essa è la sorella dell' onore; questo sentimento affatto germanico ci dice ciò che noi non possiamo fare e ciò che dobbiamo osare anche per la libertà e la patria. Ubertà, onore, patria: erano questi i valori supremi che un tempo il giovane tedesco vedeva nella sua bandiera. Questa bandiera è umiliata, ma i valori sono e restano per noi sacri. Ma innanzitutto occorre una sola cosa: dobbiamo serbare in un cuore ardente la fede in una potenza eterna, chiamiamola l'ordinamento morale del mondo o il " Citazione di versi di Goethe, Zahme Xenien (Xenie miti), IV, vv. 1179-1182

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bene eterno, oppure diamole semplicemente il nome di Dio. Quindi il presente può appartenere ali'Anticristo, al maestro della menzogna, dell'ipocrisia e della scelleratezza. Dio non chiede il conto tutti i giorni della settimana, ma l'adagio greco sa che i suoi mulini macinano piano, ma macinano fino 1'. E la speranza che arrivi il giorno dd giudizio resta anche in coloro cui tocca morire nell'onta dd presente16•

" Allusione al proverbio greco antico secondo cui «i mulini degli dèi macinano tardi, ma macinano fino> (ò'I'& &wv cu.to00t µ1i).o1, cu.to00t 6& Àmta) a significare l'ineluttabilità della punizione divina. È attestato tra gli altri in Plutarco (De sera numinum vindiaa, 549d) e Sesto Empirico (A,/versus grammaticos, 1, 13, 287). Cfr. R Tosi (a cura di), Dizionario tklle senten;,e latine e greche, Milano 2017,n. 1982 " Il finale della conferenza rivela l'istanza attualizzante che muove Wilamowitz. Cfr. supra, pp. 26 s.

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Il poeta tragico raggiunge l'effetto più incisivo quando l'eroe cade vittima del destino in un modo tale che possiamo percepire concretamentela sua rovina. Molti non riconoscono la profonda tragicità del Tasso di Goethe1 perché il protagonista si schianta solo interiormente. La vita e la storia ci offrono fin troppi casi di scontri del genere con il destino, i quali tuttavia non sono meno tragici per la mancanza di quella catastrofe che il poeta tragico esige. Vogllo raccontare dell'imperatore romano Marco Aurelio, un personaggio la cui vita pubblica è ammantata del massimo splendore e che il suo popolo dopo la morte ha cooptato con gioia tra gll dèi dello Stato. Tuttavia gll è toccato di patire gravemente la condizione di aver dovuto sacrificare tutto ciò a cui lo indirizzavano l'inclinazione e il talento, mentre quella magnificenza esteriore e ogni fama postuma non avevano per lui il benché minimo fascino. Senz'altro questo fu un tragico destino. Ma non manca neppure una colpa tragica le cui conseguenze sono risultate fatali. Eppure, la sua esistenza fu una lotta vittoriosa contro il destino, • Dramma di Johann Wolfgangvon Goethe completato a Weimar nel

1790.

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vittoriosa grazie a una forza di volontà resa ancora più forte dalla fede tenace nella propria religione. Marco non è un grande imperatore e neppure un pensatore profondo; è semplicemente uno degli uomini più puri e più nobili che siano mai vissuti. E poiché egli stesso dà testimonianza della sua vita intima e della sua fede, ancora oggi è in grado di rafforzare la nostra volontà nell'adempimento solerte dei doveri e di indirizzarla a tutto ciò che è bene. Fu niente meno che Federico il Grande a provare un tale conforto proprio nei giorni più difficili della Guerra dei sette anni. Lo conferma la sua poesia Le stoi"cien, e, in segno di riconoscenza, egli ha fatto erigere busti dell'imperatore a Sanssouci2. Anch'egli ha sacrificato la sua esistenza al dovere verso lo Stato e ha imparato a rinunciare alla propria felicità personale. In verità, non è diventato uno stoico e non ha raggiunto la pace interiore che a Marco aveva procurato la sua religione. Nutriva disprezzo per gli uomini; anche Marco sapeva quanto valessero, ma «lasciava i loro peccati presso di loro», stando alle sue parole3, e non smise di fare loro del bene come se fossero suoi fratelli. Marco è l'imperatore che resse l'impero dal 161 al 180 d. C. e che respinse vittoriosamente sul Danubio l'assalto più pericoloso dei Germani. Di tale impresa raccontano nella maniera più esaustiva i rilievi sulla stele che ha dato il nome a piazza Colonna a Roma. Marco ha scritto anche un libro che nell'intelaiatura della storia letteraria è assegnato alla fiPalazzo (destinato ad essere un.a residenza estiva) dotato di un ampio parco fatto costruire a metà del Settecento dal Kaiser Federico il Grande a Potsdam in Brandeburgo sulla base di propri disegni. 3 Le stoicien è un componimento del 1761 (Frédéric Le Grand, Oeuvres poéti4ues d,e Frédéric 2. roi d,e Prusse, a cura di J. D. E. Preuss, Tome XII, Berlin 1849, pp. 181-189). La citazione si riferisce a Ricordi, IX, 20: Tò allou àµapT11JJ4iicd 6dK