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Italian Pages 174 Year 2023
MASSIMO RAFFAELI
Compagni di via e altri scritti di letteratura
Assaggi
Collana diretta da Giorgio Ficara e Raffaele Manica
Assaggi | 6
Massimo Raffaeli
Compagni di via e altri scritti di letteratura
© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma
www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Assaggi ISSN: 2612-0283 n. 6 – febbraio 2023 ISBN – Edizione cartacea: 9788855293228 ISBN – Ebook: 9788855293990 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: knowledge © okalinichenko – stock.adobe.com
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Premessa
Uno dei mali che affliggono la letteratura corrente è la grande rarefazione se non scomparsa degli scrittori-intellettuali e cioè di quegli autori che abbiano introdotto una volta per sempre il pensiero critico all’interno della loro stessa attività inventiva. Sentirsi parte di una società, guardare ai fatti economici e politici non come fossero fatalità ma precise dinamiche sociali, dibatterne il senso e la destinazione, non è più evidentemente una priorità per il maggioritario degli attuali scrittori. Non è detto tuttavia che scrivere una bella storia, o cosiddetta come oggi si usa, sia sinonimo di fare della buona letteratura perché limitarsi a coprire l’orizzonte d’attesa dei lettori, a intrigarli e appagarne le aspettative, come oggi è addirittura di senso comune per il prevalere della letteratura di genere, significa in effetti sottrarsi d’acchito all’apporto e al vaglio del pensiero critico (al suo sguardo reversibile, lanciato da chi scrive a chi legge, e viceversa), vuol dire per lo più smarcarsene per affidarsi agli automatismi del mercato, il quale è assurto nei decenni della egemonia neoliberale a estrema e residua autorità culturale. Perciò questo è un libro che guarda prevalentemente agli autori che chi scrive ha sentito più vicini nei suoi anni formativi quando, per la generazione dei maestri, per gli
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scrittori-intellettuali attivi fra gli anni Cinquanta e Settanta, era ovvio domandarsi in quale società si vivesse, quali fossero le forze in campo e persino (oggi sembrerà a taluni inverosimile) da che parte stare. Costruito assemblando pagine di diversa provenienza e grosso modo relative all’ultimo quindicennio, questo libro non è tanto o solo il frutto della nostalgia quanto, e soprattutto, di una acuta malinconia. Se la prima infatti è vanamente retroversa, spasima perché qualcosa torni pure se sa che mai ovviamente potrebbe ritornare, l’altra segnala viceversa una grave carenza o un vuoto al presente, un manque dicono i francesi, insomma il fatto che ormai sia obbligatorio dire io anche quando si dovrebbe dire noi. O, in altri termini, l’individuo isolato in luogo del legame sociale: «Essere un grand’uomo e un santo per sé stessi, ecco l’unica cosa importante», scrisse in Mon cœur mis à nu quel grande e presago reazionario che fu Charles Baudelaire. M.R.
Dal Novecento
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Fenoglio alle medie
Siamo qui per un grande scrittore, uno dei massimi, forse il più grande prosatore italiano del secondo Novecento, Beppe Fenoglio: ma lo è diventato, perché quando è morto, a soli quarantuno anni all’ospedale delle “Molinette” di Torino, era un autore conosciuto solo dagli addetti ai lavori. Era nato nel ’22 ad Alba, aveva pubblicato appena tre libretti, ma solo uno era stato segnalato dalla grande stampa italiana, I ventitré giorni della città di Alba, dei racconti a collana con un argomento concentrico, il suo argomento, la Resistenza. Beppe Fenoglio non era uno scrittore di professione, avrebbe potuto fare il giornalista o il professore, che sono i mestieri tipici degli scrittori italiani, e invece, con una scelta veramente polemica, ha fatto per tutta la sua breve vita l’impiegato in un’azienda che esportava vini e spumanti. Lì scriveva lettere commerciali in francese e in inglese. Era un uomo di paese e la sua piccola polis era il caffè. Lasciati sottotraccia i suoi interessi letterari, culturali, alle sei o le sette di sera, Beppe Fenoglio andava al caffè e giocava a biliardo, parlava di calcio (perché era un tifoso della Juventus) ma parlava soprattutto di un gioco di origine basca, la pelota, cioè il pallone elastico, che si gioca negli sferisteri con un guanto e una piccola palla, una specie di tam-
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burello a mano, e ad Alba c’era tale tradizione che Fenoglio ne ha scritto o vi si è riferito molte volte nelle sue opere. Ma non è che Fenoglio fosse proprio un autodidatta, perché aveva studiato al liceo e proprio al liceo di Alba aveva avuto due grandi maestri, Leonardo Concito, professore di italiano che morirà partigiano, e un altro, pure lui partigiano, Pietro Chiodi, il futuro traduttore di Martin Heidegger e l’autore di un bel libro di memorie partigiane, Banditi. Però Fenoglio venerava la sua insegnante di inglese, materia di cui era talmente appassionato che di inglese costellerà le sue pagine. Perché un ragazzo del ’22 che quando scoppia la guerra ha solo diciotto anni lardella i suoi scritti in inglese e certe volte si mette a scrivere in inglese direttamente? Ora non è così difficile dare una risposta. Chiediamoci intanto che lingua era l’italiano ufficiale del 1940. Era la lingua del fascismo, la lingua di Benito Mussolini, era la lingua delle lapidi e dei cippi del regime, cioè una lingua retorica, falsa, finta, la lingua dei “colli fatali” di Roma… una lingua bugiarda che bestemmiava i valori umani e in realtà esaltava il virilismo, la violenza del manganello. Per lui, scrivere in inglese, con ogni probabilità, era come disinfettare un italiano retorico, impronunciabile. Questa è stata la sua vera formazione, una formazione così precoce che Fenoglio si iscrive all’università di Torino ma dà soltanto qualche esame e poi lascia perdere. Sentiva, evidentemente, concluso il suo apprendistato. Fenoglio si è autodefinito una volta sola, e una volta per sempre, partigiano forever, “partigiano a vita”. Questa della Resistenza è la sua esperienza fondamentale, esclusiva. Ma di che tipo? Fenoglio aveva una istintiva ripugnanza del fascismo, ma non aveva sposato nessuna causa ideologica: non era fascista, appunto, ma non era nemmeno comunista, era un pallido socialdemocratico, al più, che il 2 giugno del ’46 voterà monarchia. Tra i partigiani aveva scelto i meno politicizzati, i “fazzoletti azzurri”, i badogliani, quelli che spesso avevano
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portato la divisa dell’esercito regolare fino all’8 settembre, il giorno dell’armistizio. Dov’è Fenoglio, ventunenne, l’8 settembre? Ha indosso la divisa da allievo ufficiale, è a Roma mentre i nazisti la stanno occupando: non ha nessuna intenzione di unirsi ai fascisti, perciò va alla stazione Termini, vestito da ufficiale italiano, cioè da bersaglio mobile, e lì vive una delle scene più tragicomiche della sua vita perché un cameriere del bar della stazione, per salvarlo, scambia con lui la divisa. È così, vestito da cameriere, che Fenoglio, dopo un lunghissimo viaggio in treno, arriva ad Alba e subito decide, insieme col fratello, di salire in montagna. Però attenzione, perché Fenoglio ha scritto quasi tutto della guerra partigiana ma ha parlato pochissimo di sé al di fuori dei romanzi. E un romanzo non è mai l’autobiografia diretta, ma è sempre una autobiografia trattata, traslata (oggi si parla di autofiction), cioè qualcosa che è sì autobiografico ma che deve essere aggiustato nei termini di una finzione. (Italo Svevo, quando gli chiedevano se Zeno Cosini, il protagonista de La coscienza di Zeno, fosse lui, rispondeva «no, quella è l’autobiografia di un altro»). Fenoglio ha parlato sempre della Resistenza ma solo indirettamente della sua Resistenza e noi sappiamo, d’altronde, che era un uomo molto laconico, parlava poco, ed era molto duro. Mesi fa sono state ritrovate le sue armi di partigiano, le teneva in casa, una carabina e la Colt con cui freddò di sua mano, sembra, una spia. Non era un uomo sanguinario, questo no, ma duro e laconico come gli eroi della letteratura inglese che amava di più, gli eroi di Shakespeare, del teatro di Marlowe, e infatti i suoi personaggi resistenziali si chiamano Milton e Johnny. Aveva qualcosa del cristiano protestante e in lui, più che la misericordia e l’indulgenza cattolica, c’era una concezione molto severa della vita umana. Finita la guerra, Fenoglio ridiscende ad Alba e comincia la strana vita dello scrittore che per otto ore al giorno stende lettere di import/export nel suo inglese scintillante e poi la sera,
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fumando senza tregua, si mette finalmente a scrivere le cose sue, le migliaia di pagine lasciate inedite, una specie di costellazione in cui molti testi si sovrappongono, si riscrivono, per essere poi abbandonati, rifusi, ancora ripresi. Tanto è vero che dobbiamo essenzialmente al lavoro dei filologi il recupero e il fatto di poter godere oggi della scrittura di un autore così grande. E qui va detta una cosa, come tra parentesi. La letteratura della Resistenza è una letteratura su cui si erano misurati allora i due scrittori che avevano “scoperto” Fenoglio e cioè Elio Vittorini, che aveva pubblicato Uomini e no, un romanzo ambientato a Milano durante l’occupazione nazifascista, e Italo Calvino, l’autore de Il sentiero dei nidi di ragno. Non tanto Vittorini, quanto Calvino voleva bene a Fenoglio ed è stato non solo l’unico scrittore presente al suo funerale ma, l’anno dopo, ristampando Il sentiero, dirà nella prefazione più o meno che «noi cercavamo un libro, il libro della Resistenza ma c’è soltanto uno che l’ha scritto per noi e quest’uomo è Beppe Fenoglio». Calvino è stato l’unico a riconoscere in vita la grandezza di uno scrittore sottovalutato, talmente sottovalutato che qualcuno aveva detto, all’uscita dei suoi primi racconti, che “infangava” la Resistenza. Perché non faceva della retorica mentre nella letteratura della Resistenza si trova in genere non poca retorica, si trova il proclama degli ideali in uno stile spesso molto fragile, insomma dei luoghi comuni. Ma le migliaia di pagine, da cui esce appena dopo la sua morte Una questione privata, Fenoglio come le aveva lasciate? In realtà aveva lavorato su due tavoli, il che vuol dire su due stili, uno apparentemente più semplice, quello lirico-elegiaco di Una questione privata, l’altro, epico, de Il partigiano Johnny. La poesia epica, rispetto alla lirica, è quella che dice “noi”, è la poesia non di un “io” ma di un mondo e infatti è la poesia del grande romanzo inconcluso, uscito postumo nel ’68, che appunto si intitola Il partigiano Johnny. Questa per Fenoglio è la forma più complessa, abbandonata ai suoi materiali anco-
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ra incandescenti. Poi c’è l’altra forma, che lui preferiva, quella del racconto che, rispetto al romanzo, è un genere elegiaco in quanto più legato alla intimità del ricordo personale. Per dire cosa sia Una questione privata partiamo dai dati più elementari. È un racconto scritto negli ultimi mesi della sua vita, databile dunque tra il ’60 e il ’63, e ne rimangono tre redazioni, tre stesure disposte linearmente ma è difficile dire se la terza sia definitiva. È probabile lo sia e su questo c’è un libro bellissimo di Gabriele Pedullà, La strada più lunga, uscito nel 2001 da Donzelli, dove Pedullà sostiene infatti, producendo delle prove, che quella è nella sostanza l’ultima versione voluta dall’autore. La storia è ambientata sulle colline che sovrastano Alba, fra Langhe e il Monferrato: nella edizione tascabile Einaudi che avete sotto mano, curata dallo stesso Gabriele Pedulla, è riprodotta una cartina molto utile per orientarvi. La vicenda del breve romanzo dura quattro giorni ma, prima di vederne lo schema, è giusto ascoltare la voce di Fenoglio e la canzone che ritma la vicenda, Over the Rainbow. Questa canzone è cantata da una grande interprete americana, morta giovane e in uno stato di follia alcolica, Judy Garland, ed è tratta dal film Il mago di Oz, una delle fonti del romanzo perché tra i dischi che Milton ha regalato a Fulvia, questo è il disco ossessivo, una canzone struggente che però, nell’atto di riascoltarla, ci suggerisce una cosa fondamentale: che in realtà Una questione privata è un libro nella Resistenza ma non della Resistenza, perché la sua materia prima non è la guerra partigiana ma una vicenda sentimentale, personale, “privata”, per l’appunto. Si tratta di un romanzo di formazione e, se Calvino lo associava all’Orlando furioso, io mi permetto di chiamare in causa nientemeno l’Odissea o, se volete, la favola di Pollicino. Lo schema è identico, quello del viaggio e della conoscenza di sé nel mondo, o viceversa: Pollicino deve uscire dal bosco, Ulisse deve tornare a casa, a tappe, e in ognuna di queste tappe mette alla prova una parte di sé (con Polifemo la forza fi-
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sica, con la maga Circe la sessualità, con i lotofagi il ricordo e l’oblio e così via). Se la struttura di Una questione privata, perfettamente circolare, è il viaggio, ogni volta che c’è viaggio, in letteratura, da Omero in avanti, c’è anche un intento di conoscenza della realtà, la ricerca di un senso. Perché sul serio è più importante viaggiare che non arrivare. Il portavoce di Fenoglio, Milton, eroe della letteratura elisabettiana, è ovviamente di derivazione autobiografica. Milton somiglia fisicamente a Fenoglio, che era complessato dal fatto di essere brutto, alto e ossuto come si vede nelle foto che il suo amico Aldo Agnelli gli ha scattato nei luoghi della Resistenza anni dopo la guerra. Fenoglio era complessato dal fatto di avere una voglia di lampone in viso e di avere un naso alla Cyrano de Bergerac, piuttosto pronunciato, però anche il naso o la sua presunta bruttezza diventano per lui un motivo romanzesco. Non esiste viaggio, non esiste odissea senza peripezie e ostacoli, impedimenti, e così per Una questione privata che si struttura in una duplice o triplice ricerca: Milton va alla ricerca di Fulvia, la ragazza torinese di buona famiglia, dai capelli color miele, di lei si è perdutamente innamorato e ricorda che l’unica cosa che ha potuto darle non è certo la sua prestanza, la sua bellezza. Le ha donato invece dei libri e dei dischi, una serie di dischi americani, sicuramente Over the rainbow e poi dei romanzi: infatti quando torna nella casa vuota è deluso dal fatto che Tess dei d’Ubervilles, che lui le ha regalato, un romanzo al femminile di Thomas Hardy, sia rimasto abbandonato lì sullo scaffale. Ma la ricerca di Fulvia si duplica perché la donna che fa da custode alla casa abbandonata dice a Milton, in maniera obliqua, del fatto che forse Fulvia e il migliore amico di lui, e partigiano come lui, Giorgio, forse è stato con lei, forse è stato con lei di notte. Per Milton è l’allarme assoluto. La ricerca di Fulvia viene immediatamente complicata dalla notizia secondo cui Giorgio è stato catturato dai fascisti. Milton si mobilita, in ogni senso. Di qui la ricchezza degli strati del romanzo e
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la loro necessaria ambiguità: Giorgio, un partigiano catturato dai fascisti, non è ricercato da Milton tanto per una questione di giustizia o di morale politica, quanto per una questione di gelosia, di amore deluso o sfregiato, pure se Milton non arriva a confessarselo se non di nascosto da sé stesso. Chi o che cosa sta cercando, allora, Milton? È difficile rispondere, proprio perché la ricerca di una donna e la ricerca di un amico si confondono o si sovrappongono alla ricerca di giustizia o di una verità. Forse, o più probabilmente, si identificano nella ricerca di un senso per la propria vita. Fulvia sta fra l’essere e il nulla come allora dicevano i filosofi esistenzialisti, tra cui il suo vecchio professore di Alba, Pietro Chiodi, e quei filosofi vedevano le persone vivere la vita sempre sopra un filo, come dei funamboli: tra l’essere e il nulla per quei filosofi c’era il filo o la caduta nella insensatezza. Ricercare un senso era stare necessariamente sulla fune. Ciò spiega il titolo paradossale del romanzo, Una questione privata, un titolo che allora parve sbagliato, ambiguo, persino offensivo. Stupì, allora, che qualcuno alludesse alla Resistenza come a una questione del tutto personale. Solo oggi comprendiamo come mai tra “Fulvia” e il “25 aprile” non c’è in realtà nessuna differenza e perché, viceversa, il “25 aprile” ha un senso solo se esiste l’amore per “Fulvia”, se esiste cioè un radicamento nella realtà, se esiste un valore della vita in cui crediamo fino in fondo e a qualunque costo. Altrimenti, davvero, il “25 aprile” è una questione di tutti, e cioè di nessuno.
[Trascrizione da un seminario su Una questione privata tenutosi, con le classi terze, nella Scuola media “Dante Alighieri” di Monte San Vito (AN) il 15 aprile 2014, poi in «L’Illuminista», n. 40/41/42, 2014].
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Il sangue intellettuale
«Non l’ho mai conosciuto. Io lo sento un compagno. Anche lui ha insegnato che vivere non è concludere ma incominciare». Roberto Roversi, Le descrizioni in atto (LX)
È stato fino in fondo un uomo del suo secolo, Velso Mucci, e del suo secolo, che fu detto il Secolo Breve per la parabola tesa e bruciante, egli ha incarnato sia le tensioni e le contraddizioni storico-politiche sia le attitudini espressive, complesse e polimorfe, che associano filosofia e poesia, engagement e vocazione artistica: un poeta, non esclusivamente né rigorosamente, ma essenzialmente un poeta, nel senso di una percezione del reale che da un personale nucleo emotivo sapeva diramarsi in pensiero e riflessione sui destini generali, questo è stato Velso Mucci. La sua opera, a lungo rimasta sottotraccia e a rischio di oblio, ricompare a cadenza e torna a interrogarci come possono soltanto le forme compiute (in sé concluse, sensate) nonostante una longeva dispersione e la natura centrifuga di un immaginario che si apriva in momentanei stati di equilibrio, per frammenti e interiezioni, ma tornava di continuo a sé stesso per fortificarsi o irrorarsi di realtà (l’asperrima, cruenta realtà del proprio tempo) e dunque per attingere una verità che non fosse soltanto la sua: semmai, come vollero gli antichi poeti, essa diveniva pane e cibo di molti, perché quando Mucci dice di sentirsi appena un italiano del Novecento in realtà ci sta dicendo di sentirsi solamente un uomo del tempo che gli
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è dato, cioè un uomo-massa, un singolo io gettato nel mondo che tre secoli di capitalismo hanno reso di tutti e di nessuno, un pidocchio o un astuto parassita della sua classe sociale, la borghesia, come amava definirsi ed era ancora un modo di dirsi poeta senza affatto proclamarlo. Dobbiamo a pochi testimoni e compagni di via se la sua memoria oggi non è estinta (per esempio al suo maggiore studioso, Renzo Pepi, e allo scrittore Mario Lunetta) e specialmente a Alberto Alberti che, coniugando filologia e pietas, prima ne ha salvato e inventariato il lascito documentario poi ne ha promosso la ripubblicazione secondo un piano organico, dove si alternano e si integrano editi e inediti, che intanto ne recupera lo scartafaccio itinerante, un vero e proprio zibaldone di pensieri diversi, il quale va sotto l’insegna di Mercato delle pulci, beninteso un titolo d’autore. Ancora da costruire un’organica bibliografia (e c’è da immaginare non sarà impresa semplice), tre ne sono gli epicentri visibili, le poesie raccolte da Natalino Sapegno in Carte in tavola (’68), i saggi politico-letterari che Mario Lunetta ha messo insieme in L’azione letteraria (’77) e il frammento di romanzo L’uomo di Torino (’67) curato da Valerio Riva in collaborazione con la vedova dello scrittore, l’indimenticabile Dora Broussard. Non è un caso si tratti di opere tutte fatalmente postume, a riprova della relativa nonchalance editoriale di chi, in vita sua, aveva sempre preferito il fare al già fatto ma non è neanche un caso si tratti di generi letterari dissimili e talora diametrali, a riprova della natura prismatica di un immaginario d’artista che, senza arrogarsi la qualifica di sperimentatore e meno che mai di avanguardista, sempre calcolava mezzi e fini dell’atto espressivo senza il pregiudizio di una poetica codificata e senza l’impaccio di un ruolo che pregiudicasse la medesima funzione intellettuale. Mucci, in altri termini, preferisce la chiarezza di una sua personale posizione nel mondo alla sicurezza e agli alibi di uno schieramento: o meglio an-
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cora, il suo schierarsi (l’essere un marxista, un comunista, la scelta di iscriversi al Pci e divenirne un funzionario dirigente) appare l’esito a lungo meditato di un posizionamento, un atto di pura necessità e non il risultato di una riflessione a freddo o di una premeditazione. Per Mucci scrivere è perseguire una verità fondata tanto nelle penombre di una lunga e tormentata vicenda personale quanto nella luce soverchiante di una condizione storica e di classe, come dicono i versi, e alcuni tra i più alti del nostro dopoguerra, del poemetto Dell’amore e di qualche altra passione o del testamentario Tempo e maree, dove storia e biologia si incrociano per ritrovarsi in una clausola di potente esattezza: «ma quali anni abbiamo dovuto battere / e che pensieri torcere / nei nostri crani terrosi». È una verità per così dire d’ordine paradigmatico, sull’asse verticale della lirica (sia pure di una lirica in certi passaggi associabile all’epica), che arriva a proiettarsi sull’asse sintagmatico della prosa di romanzo, se L’uomo di Torino non è altro che un romanzo di formazione in cui la biografia individuale (un destino e persino un atavismo di classe e di ceto) si incontra con l’autobiografia nazionale rappresentata dal regime fascista, lì fissato in una rappresentazione unicellulare e quasi da laboratorio. La vocazione leopardiana alla verità, nuda e senza infingimenti, la lezione marxista che addita un altro ordine di verità sovraindividuale, fermentano (e si parlano, senza mai confondersi) in un laboratorio critico di cui Mercato delle pulci registra puntualmente l’itinerario accidentato ma non meno limpido nella sua dialettica interna. Se una volta Roberto Longhi aveva affermato, con una invenzione delle sue, che critici si nasce e scrittori si diventa, ciò letteralmente si attaglia alla parabola di Velso Mucci, il cui approdo, assolutamente moderno, è un’idea (una pratica) della scrittura come perpetua disamina, filtro e dialogo, come costante messa a punto e calibratura rispetto a sé stesso e alla complessità del reale, perciò una idea e una pratica della scrittura come critica in atto dell’esistente che
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lo scrittore chiama “dialogismo” riconoscendovi il nucleo più fervido e riposto dell’attitudine alla espressione, anzi il dato che ne giustifica da sempre l’esistenza. Un concetto che negli anni tardi deve avere a lungo discusso con Galvano della Volpe (definito «scarpe fini e cervello grosso» nel suo zibaldone), il grande filosofo materialista che volentieri lo riceve al tavolo di un bar di piazza Vescovio dove, ostile ai senati accademici, egli ama tenere cattedra: Il dialogismo – se il lettore ce lo consente – è un procedimento poetico che, da un primo gruppo di parole generate da una emozione singolare, si spinge attraverso complessi di espressioni provocate da quel primo nucleo emotivo e sillabico e dalla folla delle sue ripercussioni, fino a un nodo che ne forza il limite e la saturazione, e al tempo stesso ne forza l’apertura in una sfera più ampia di sensi, in una sfera di determinazioni liriche più dense e portanti, nella quale infine anche gli elementi del nucleo iniziale si muovono e acquistano un significato più profondo.
È inevitabile leggere Mercato delle pulci (incluse le appendici di pagine rare e disperse) anche alla stregua di un promemoria e, virtualmente, di una biografia intellettuale. Spirito nativamente critico, Mucci sa che ogni incontro equivale a un banco di prova ovvero ad uno specchio ustorio da cui dedurre e valutare una immagine di sé o, al contrario, rigettare quanto vi si manifesta incongruo e refrattario. Bohémien per elezione paterna, radicato invece per tradizione materna, la sua vita troppo breve tradisce una dinamica ambivalente, di stasi e fughe recidive, punti fermi e zone telluriche, come bene evidenzia il decorso e la costruzione per addendi di Mercato delle pulci. È possibile fissarne la toponomastica che ogni volta si lega all’onomastica dove si profilano in retrospettiva le stazioni capitali, così come gli amici e i maestri: Torino 1931, la redazione del «Selvaggio» di Mino Maccari, l’amicizia coi
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pittori ed in particolare col perfetto intenditore di nebbie e di ombre che fu Spazzapan; Parigi 1934, la galleria sulla Rive Gauche gestita con suo cugino Sandro Alberti, l’amicizia di De Pisis, di Pablo Picasso e di Paul Éluard, colui che in versi diede alla rivoluzione il nome del suo amore; Roma 1945 e le grandi speranze del dopoguerra, di nuovo fra pittori e poeti, specie Vincenzo Cardarelli e Leonardo Sinisgalli, la fondazione della rivista «Il Costume politico e letterario» e la creazione di un oggetto unico, rimasto leggendario nella memoria degli intenditori, il Concilium Lithographicum; Bra 1956, il ritorno alla couche materna, l’immersione nel lavoro politico da antistalinista e cane sciolto maoista, la direzione di un periodico ufficiale del Pci, «La Voce di Cuneo»; infine qualche libro a stampa e qualche riconoscimento più o meno ingeneroso, il sogno di trasferirsi a Pechino da corrispondente de «l’Unità» e il viaggio terminale a Londra, dalle parti di Kensington Gardens, per scrivere in pace un romanzo che potesse rammentare l’Ulisse di Joyce e intanto raggiungere il cuore di tenebra suo e, insieme, della storia italiana. Sono luoghi e persone che intramano la vicenda di Mucci e riflettono un processo di metabolizzazione della scrittura come coscienza di esistere e lavoro di continuo posizionamento. L’atto della critica, nel senso etimologico che comprende il distinguere per valutare e giudicare sulla base di riferimenti storico-esistenziali e filosoficopolitici, è il centro motore del suo prisma espressivo e, ancora una volta, è l’origine di un paradosso cognitivo: la luce che se ne dirama, infatti, è quella di una poesia che ci aspetteremmo “pura” dall’allievo di Leopardi e Cardarelli nello stesso momento in cui però la definisce nello zibaldone quale «massima impurità del linguaggio», perché, gli capita di aggiungere, la poesia «nasce dagli uomini e non dall’aria in cui essi si muovono»; d’altro lato, il genere multiplo, duttile e malleabile per eccellenza, il romanzo, da lui viene reputato uno spazio disponibile solo in quanto disertato e aleatorio, «una scatola di
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tempo» la cui forma plastica serve a strutturare la «geometria del tempo psichico». Anche per questo motivo, non solo e non tanto per un ipotizzabile sospetto ideologico, Mucci critico militante può avvalorare i versi bianchi e netti di un classicista mentre sdegna i romanzi mimetici e iper-ambientati come Il dottor Zivago e Il Gattopardo. In un altro dei suoi aforismi ribadisce di sentirsi un «vecchio poeta» e un «filosofo nuovo», il che implica il mantenimento di una posizione e di una prospettiva umanistica, la quale rifiuta l’ideologia della crisi dell’umanesimo perché la traduce in un umanesimo consapevole dei suoi limiti storici e di classe. Nemmeno è un caso che in punto di morte Mucci sospettasse nella parola delle nuove avanguardie (in Italia il Gruppo 63) non la volontà, iscritta per esempio nella poetica di Edoardo Sanguineti, di trasformare il Mercato in Museo bensì l’intento, forse non completamente innocente, di mutare i reperti del Museo in valori di Mercato secondo una obbedienza tipica dei «pronipoti in fiale di quei “cadaveri” surrealisti che furono, intorno al 1924, un gioco collegiale di critica del tardo linguaggio romanticoborghese». Quanto a ciò, volentieri aggiungeva che i neoavanguardisti avevano barbe lunghissime e del tutto accademiche. Per parte sua, come oggi attestano le pagine di Mercato delle pulci, da tempo si era persuaso che la critica della poesia potesse darsi solamente nella forma di una poesia della critica, e viceversa. A questo pensava, vale a dire un grumo insolubile di verità scaturita dalla esperienza di uno e tuttavia condivisibile da ognuno, quando brandiva la sua insegna primordiale, il verso celeberrimo di Lautréamont per cui tutta l’acqua del mare non basterebbe a lavare una macchia di sangue intellettuale. Che è il sangue stesso della poesia.
[Prefazione a V. Mucci, Mercato delle pulci. Scritti inediti e rari 19301963, a cura di A. Alberti, Scalpendi, Milano 2015].
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Ricordo di Bassani
«Prima cari moriamo». G.B., Gli ex fascistoni di Ferrara
Esiste una geografia biografica e una storia sentimentale che ogni scrittore deve necessariamente oggettivare e rendere anonime in segni che vivano per il colmo della finzione e perciò attingano paradossalmente una verità (fu detto da un classico e una volta per sempre) tramite la menzogna: è la loro vita viva (i fatti, le esperienze, i pensieri, gli slanci, le utopie) che si dissimula per trovare equilibrio e appagarsi nell’opera stessa. Ma fu anche detto che il biografo di uno scrittore come un cane fedele fa due volte il percorso e idealmente lo prosegue all’infinito, muovendo dal testo alla vita e viceversa: in questo libro di ricordi, quasi una biografia al magnetofono e insieme una simbolica restituzione dell’affetto più esclusivo, uno dei maggiori scrittori del secolo scorso, Giorgio Bassani (19162000), firmatario del ciclo romanzesco che ha come titolo complessivo Il romanzo di Ferrara (1980), ritorna nel racconto di sua figlia Paola, fedele al padre sia nella testimonianza di un percorso umano ricchissimo di eventi sia nel riceverne un lascito letterario di straordinaria originalità e complessità come sanno i lettori di libri oggi ritenuti dei classici della letteratura secolare, ad esempio le Cinque storie ferraresi e Il giardino dei Finzi-Contini.
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La biografia sentimentale di Paola si staglia in retrospettiva ed è scandita per spazi e tempi. All’inizio i suoi sono ricordi di ricordi, memorie familiari, miti domestici che le sono affidati da un coro di presenze già trasfigurate nell’opera del padre ma da lei decifrate o riscattate nella loro specifica fisionomia quasi fossero figure incombenti e non ancora ufficialmente accreditate. La scena primaria, dentro un dopoguerra livido e in bianco e nero ma comunque saturo di grandi speranze nell’avvenire, si svolge ovviamente a Ferrara nell’epicentro del Ghetto tra via Cisterna del Follo, la casa paterna dove fu piantata la magnolia a emblema e vergogna delle cosiddette leggi razziali, e via Vignatagliata dove si consumò prima la esclusione dalla comunità dei viventi e quindi l’aperta persecuzione degli ebrei. Lì Paola ha depositati i suoi primi indelebili ricordi, nel set di un’epica favolosa dove si profilano le case dei nonni (dimore d’altri tempi, oscure e labirintiche, spazi di un altrove assoluto), le stesse che videro la giovinezza ancora immemore del padre e di sua madre Valeria, poco prima divenissero, per la calamità dei tempi e per la ustione dei trascorsi familiari, il reliquario di una tragedia che mai potrà essere metabolizzata o smaltita. E lì Paola, tra quelle antiche pietre (il Castello incombente sulla città, i rettifili geometrici, i palazzi signorili, il perimetro di un vetusto campo da tennis) riconosce lo spazio primordiale e la couche residenziale che intramano il libro decisivo per la formazione di suo padre, la Officina ferrarese (1934) del maestro Roberto Longhi, nelle cui pagine dense di passato e di ricadute al presente è probabile Bassani abbia intuito per la prima volta come una città potesse essere vista alla stregua di una polis o come un universo sia pure prezioso ma locale potesse invece trasformarsi in un panottico universale. Però Longhi non è solamente il solista inimitabile della scrittura e il maestro sciamanico all’università di Bologna, nei pieni anni trenta, perché egli è anche e soprattutto un magnete attrattivo o comunque il diretto catalizzatore di quelle che
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per lo scrittore ferrarese resteranno le amicizie di una vita (da Francesco Arcangeli a Cesare Gnudi, da Attilio Bertolucci a Augusto Frassineti) e nello stesso tempo Longhi è un grande promotore di cultura e cioè il fondatore della rivista «Paragone» cui un Bassani ormai entrato nella prima maturità (e intanto responsabile anche del periodico «Bottoghe Oscure») devolve le energie di redattore, di critico e poi, dall’editore Feltrinelli, di imprenditore editoriale. È a questa altezza cronologica uno scrittore che ha alle spalle rare plaquettes giovanili di prose e poesie ma soprattutto esce da un severo apprendistato di cospiratore antifascista, di resistente e infine, nella Roma della occupazione nazista, di animale braccato in quanto giudeo vitando. (Non sarà mai un autore engagé ma proprio perché nutrito di una severa educazione etico-politica, pagata in prima persona, sospetterà costantemente nel formalismo e nella dottrina dell’arte-per-l’arte le seduzioni della vanità ossia di una letteratura narcisista e, in sostanza, dimissionaria). Ormai prossimo all’esordio ufficiale e niente affatto precoce delle Cinque storie ferraresi (’56), Paola lo rivede in presa diretta, con gli occhi stupefatti di una ragazzina inquieta, nei primi appartamenti ammobiliati a Roma preso insieme con Valeria e i due bambini (lei la maggiore, con suo fratello Enrico) in frangenti di strettezze economiche ma anche di lieta e svagata bohème nelle piccole trattorie sentimentali della capitale cui si aggiungono i nuovi amici che saranno anch’essi di tutta una vita, da Niccolò Gallo (il prediletto, mite e socratico dedicatario dell’opera completa) a Mario Soldati, da Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia a Carlo Levi e agli allora giovanissimi Cesare Garboli e Pietro Citati. Questo è il primo tempo di uno scrittore che già sa di essere tale ma permane nel suo apprendistato dividendosi tra l’insegnamento superiore, l’editoria e il lavoro per il cinema che garantisce finalmente una certa sicurezza economica alla propria famiglia. Bassani, nello sguardo di Paola, è un uomo dal carattere difficile, talo-
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ra refrattario e indocile, eppure è un marito affettuoso ed un padre presente il cui estro pedagogico si traduce in continui suggerimenti d’ordine letterario, cinematografico, artistico, in escursioni programmate a teatro o in siti archeologici, in liste di libri consigliati e di versi da mandare a memoria. Tutto ciò rivela un affetto profondo, radicale per i figli, dove la cultura è un elemento sostanziale, un pane quotidiano. Anche per questo Giorgio Bassani si è riservato tutto il tempo necessario per diventare finalmente lo scrittore Bassani. Nei ricordi di Paola, utilissima sia ai comuni lettori sia agli studiosi, è la rievocazione del metodo di lavoro e dell’usus scribendi di un autore laico che mantenne solamente per sé la religione dello spirito e sentì consanguinei i grandi intellettuali-scrittori e nella fattispecie, fra non molti altri, Alessandro Manzoni, Benedetto Croce, Thomas Mann nonché, specialmente nella cura lenticolare della pagina e nel tratto ossessivo della ricerca linguistica e stilistica, quel Gustave Flaubert che inseguiva un tono e un ritmo così compiuti da sembrare naturali e, nel frattempo, così lineari e mutamente ritmici da tollerare appena la lettura ad alta voce. Lo dicono i manoscritti da cui Bassani sembra non si separasse mai, oggi dispersi e forse trafugati, i suoi mitici quadernoni a quadretti dai margini capienti, trapuntati di varianti e correzioni che insistono nella memoria di Paola come fossero un alveo della ispirazione ed allo stesso modo una traccia itinerante di quanto il Manzoni aveva definito «l’eterno lavoro», vale a dire la ricerca inesausta della verità, parola temeraria che per Bassani corrisponde alla messa a fuoco di un frammento del passato, chiuso come un insetto nell’ambra ma poi liberato dal contraccolpo emotivo e intellettuale che lo restituisce al presente. E il passato di lui si concentra, nel qual caso, nella domanda scandalosa e tuttora ritenuta da molti imbarazzante o persino una pietra d’inciampo: perché gli ebrei italiani prima del ’38 e delle leggi
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razziali furono convinti sostenitori del fascismo e delle rovinose politiche di Benito Mussolini? (Proprio per questo Bassani, ora tutti lo sanno, è crocianamente un poeta della storia e non l’elegiaco cantore della memoria ovvero della nostalgia come vollero far credere a suo tempo alcuni esponenti del Gruppo 63: a costoro, pur ignorandone o rimuovendone gli insulti, lo scrittore medesimo rispose con il romanzo in cui culmina il ciclo ferrarese, L’airone, un’opera del ’68 che per innovazione tecnica e libertà inventiva batte in breccia le velleità ultramoderniste ed anti-romanzesche della neoavanguardia accademica). Nel libro di Paola e nel flusso dei ricordi che approda al periodo più difficile dell’esistenza di suo padre, segnato dalla malattia e da una progressiva perdita della memoria, non per caso si aggiungono in appendice alcuni addendi importanti: la ricca sezione fotografica, per lo più di scatti inediti o rari, e il carteggio familiare dedotto dagli anni remoti e avventurosi in cui spicca la figura di Valeria sua madre, autentica alter ego carnale e spirituale di Micòl Finzi-Contini, e con lei l’esempio di uno slancio alla vita e di un ardore che oggi la figlia rilancia nella tenerezza fervida e nell’entusiasmo di chi sa di sottrarre all’oblio i momenti segreti e talvolta essenziali di uno dei massimi scrittori del nostro Novecento. L’anno in cui si celebra il centenario della nascita del romanziere ferrarese, un anno tanto prodigo di convegni scientifici e contributi critici in Italia come all’estero, segno di interesse crescente e di una rinnovata generazione di lettori, non avrebbe potuto davvero meritare un viatico più intenso, e più intimo, del libro dei ricordi di Paola Bassani.
[Prefazione a P. Bassani, Se avessi una piccola casa mia. Giorgio Bassani, il racconto di una figlia, La nave di Teseo, Milano 2016].
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I cani di Fortini
a Donatello Santarone «Sul Sinai non ci sono cani». F. F., I cani del Sinai
Franco Fortini cresce nel tempo per il paradosso tipico dei classici, che parlano non al futuro semplice ma al futuro anteriore creando involontariamente un circolo virtuoso. C’è un rapporto dialettico e mai deterministico tra la biografia individuale di Fortini e quelli che egli chiama «i destini generali» ma ciò pertiene, sia pure indirettamente, non solo all’ambito della poesia ma anche a quello della solida prosa ed in particolare a un suo testo, il più rovente sotto il punto di vista autobiografico, I cani del Sinai, che esce nel ’67 da De Donato, in una collanina gialla che i giovani militanti della sinistra allora amavano molto. (Ora è in corso di traduzione in tedesco e da parte di uno scienziato sociale e fortiniano onorario, Peter Kammerer: dopo uno scambio epistolare con lui, mi è stato inevitabile rileggere questo piccolo libro che ha segnato la mia giovinezza e che ho ripreso in mano molte volte, a cadenza, nel corso del tempo). Fortini scrive nella sua piena maturità, a cinquant’anni, e vi introduce una premessa paradossale secondo cui nel Sinai non ci sono cani nello stesso momento in cui esiste, però, un pro-
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verbio autoctono che traduce «fare il cane del Sinai» con la capacità di dissimulare o con il ricorso alla ipocrisia (e questo è un caso, diremmo, molto italiano) di chi è solito salire sul carro del vincitore. L’impressione è che si tratti, alla lettera, di un proverbio d’autore. Il suo testo autobiograficamente più arrischiato è redatto nel luglio del ’67, appena dopo la Guerra dei Sei Giorni che vede disfarsi l’esercito di Nasser e invece trionfare i carri con la stella di re Davide guidati da Moshe Dayan. Sembra che suoi parenti fiorentini lo avessero accusato di non avere detto una parola riguardo al conflitto che va ancora sotto il nome di Guerra dei Sei Giorni, del giugno del ’67 per l’appunto, la terza guerra combattuta da Israele, uno stato che esiste da appena diciannove anni. Dopo pochi giorni Fortini si decide a scrivere la memoria di ventisette brevi suites, più che veri e propri capitoli, perché si tratta di un testo così forte, così intenso da guadagnare il ritmo della poesia pur rimanendo in prosa. Fortini, nato Franco Lattes, è figlio di un ebreo fiorentino e si è battezzato valdese dopo la promulgazione delle leggi razziste del 1938. La sua lunga e complessa evoluzione intellettuale, dove interagiscono e si integrano le Scritture e i portati di una asperrima sapienza mondana, in ispecie la tradizione marxista, e dove anche collidono l’istanza della poesia (quasi fosse una sua radice dissepolta, segno di elezione e di tragico privilegio) e il costante richiamo alle res durae di un mondo segnato in perpetuo dalla lotta di classe, tutto questo lo porta ad uno sguardo in cui presente e passato, autobiografia e storia, possono richiamarsi a specchio e tuttavia nei modi di una vicendevole allegoria. In altri termini, parlare di sé nei Cani del Sinai equivale a interrogare, con una parzialità del tutto consapevole, i «destini generali»; nello stesso tempo, scrutare il nero oroscopo di questi ultimi (come una cesura, uno sfregio agli automatismi e agli alibi della memoria) per lui significa
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spogliarsi di un riflesso ambiguamente stereotipo e denudare una realtà tanto più flagrante quanto più mistificata nel senso comune e nel consenso della pubblica opinione. E dunque: il disprezzo per gli arabi, l’esaltazione della superiorità militare israeliana, l’orgoglio di riconoscere nel vincitore finalmente i segni della civiltà occidentale e anzi gli emblemi della civiltà tout court. (È tutto quanto mezzo secolo dopo, oggi, il sussiego liberale ascrive all’onore di Israele quale «unica democrazia del Medio Oriente» e avamposto del mondo libero tacendo si tratti di uno stato etnocentrico, governato da quarant’anni quasi ininterrottamente dalla estrema destra nazionalista e oramai totalmente militarizzato che mantiene da decenni in condizione di cattività, perciò di segregazione e di sistematica persecuzione, il popolo dei palestinesi). Fortini scrive a muscoli tesi e scopre qualcosa che soltanto adesso realizza la sua etimologica perfezione nel momento in cui alla unanimità, in Occidente, l’opinione pubblica devolve un plauso preventivo a Israele e alle sue politiche. Si tratta di un dispositivo disarmante che ricorda, a termini rovesciati, «il socialismo degli imbecilli», formula con cui il vecchio August Bebel definiva certo antisemitismo al tempo della II Internazionale: sappiamo invece che andrebbero sempre rigorosamente separate, cioè non disgiunte bensì articolate, le nozioni di “ebreo”, di “sionista” e di “israeliano” che anche oggi sono invece dal senso comune percepite alla maniera di sinonimi: e accade pertanto, se “ebreo” viene associato ipso facto al governo di Israele e alle sue politiche rovinose, che chiunque si attenti a discutere tali politiche viene ritenuto per ciò stesso un antisemita. Paradosso vuole che simile accusa oggi provenga, specialmente in Italia, da liberali conservatori ed esponenti della destra (talora persino antisemiti autentici e spesso allevati in ambienti antisemiti) i quali, aperti laudatori della estrema destra al governo in Israele, si vorrebbero perciò filosemiti
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e amici elettivi di quel paese. Un utile volumetto di Claudio Vercelli, Breve storia dello Stato d’Israele, ci ricorda come nella Palestina del Mandamento inglese, quella dei pionieri Ben Gurion e Golda Meir o in generale dei kibbutzim socialisti, oggi ignorati nella stessa Israele (l’unica a parlarne con ostinazione, ad alta voce, è giusto l’opera di un reduce dal kibbutz, Amos Oz), venivano male accolti gli scampati dal Lager perché ritenuti dei vinti senza mercé o insomma dei colpevoli di inerzia e silenzio di fronte agli aguzzini: è noto infatti che le vittime prenderanno la parola per la prima volta solo nel corso del processo a Adolf Eichmann. Lì si avvia la mutazione di cui parla espressamente una storica israeliana, Idith Zertal nel suo Israele e la Shoah, cioè il trapasso metafisico che nella pubblica opinione stringe il sabra (il guerriero pioniere prometeico, il fondatore dello Stato) al suo rovescio taciuto che è il reduce, per l’appunto la vittima: l’attuale tabù, un vero e proprio dispositivo biopolitico, scredita come attentatore alla memoria della Shoah chiunque osi criticare o avversare le politiche vigenti nel paese. Simile dispositivo non soltanto nomina invano e di fatto bestemmia la memoria della stessa Shoah, degradandola a strumento di propaganda politica, ma confonde ancora una volta, e artatamente, le nozioni di “ebreo”, di “sionista” e di “israeliano” proprio come usavano, a segno rovesciato, i fautori del “socialismo degli imbecilli”. Fortini allora intuisce che anche in Italia molti improvvisati partigiani di Israele utilizzano, più o meno consciamente dissimulandola, la reductio ad unum che è tipica degli antisemiti tradizionali. Fortini, mentre scrive emozionato e a muscoli tesi, interroga la coppia diametrale dell’ebreo umiliato e del milite di Tsahal. Piangere l’uno ed esaltare l’altro, o viceversa, è perdere in essenza la più elementare verità, al presente tabuizzata e innominabile, perché ciò che li oppone fino a renderli entrambi fantasmatici, mitologici, è la violenza della lotta di classe, tanto
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più lacerante e pervasiva quanto più capace di continua mediazione e di trasfigurazione. Fortini distingue, criticamente, le nozioni di ebreo e di israeliano, di Stato di Israele e di classi dominanti/dirigenti di Israele, e intanto chiede a sé stesso che cos’è, nel Novecento, un “ebreo” e che cosa significhi anche la sua vicenda giovanile di entità umiliata, ferita, annientata. Fortini tiene sempre davanti a sé, in un nesso dialettico, quella duplice allegoria: l’una è dell’ebreo perseguitato (come suo padre, un modesto legale della cerchia dei Rosselli e di Salvemini, durante il fascismo incarcerato nella Firenze ghiaccia e buia di cui dicono i romanzi di Vasco Pratolini), l’altra è del soldato di Tsahal vincitore di cui legge sui giornali e che in quel ’67 vede in tv, forte, iattante e felice di esserlo. Sulla pagina de I cani del Sinai, si alternano infatti le immagini dell’esercito egiziano disfatto, i cadaveri abbandonati nel deserto (immagini ormai divenute ovvie e persino normali, salvo sparire dagli schermi dopo le aberrazioni orgiastiche e tanatologiche di Abu Ghraib, nel 2004). Fortini si chiede in chi mai riconoscersi, lui l’ex ragazzo fiorentino a nome Franco Lattes che un giorno venne preso a pugni da un caporione della Milizia e si chiede al presente la ragione di simili immagini, di tanta morte sovresposta o, per etimologia, di tanta oscenità: e si risponde che al presente, e ora più di allora, è la cosa orrenda e innominabile che governa la storia, è la lotta di classe. (Quando oggi si parla di conflitti religiosi, identitari, quando addirittura ci viene detto di essere in presenza del Clash of civilizations, lo scontro fra la civiltà giudaico-cristiana e l’islamica, tutto viene evocato ma non quello che, per il tramite della cremagliera economica, da sempre governa questo mondo, giusto la cosa orrenda e impronunciabile che è la lotta perpetua fra le classi sociali). Fortini conosce tuttavia la vecchia lettura marxista ed economicistica che riduce genericamente e stoltamente l’Olocausto
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a un mero prodotto del capitalismo e la rifiuta così come rigetta la lettura che si limita a mostrificare il sistema concentrazionario di fatto esonerandolo da responsabilità d’ordine storico, morale e politico. Quanto ai soldati di Dayan e al nazionalismo in armi benedetto, allora come ora, da tutte le cancellerie occidentali, ne è sgomento e forse ha in mente le parole di Isaac Deutscher che in una celebre conferenza del ’54, L’ebreo non ebreo, affermava essere un’ulteriore tragedia degli ebrei «il fatto che il mondo li abbia costretti a cercare la sicurezza di uno stato nazionale proprio nel mezzo di un secolo come quello attuale, quando cioè il concetto di stato nazionale sta pian piano imputridendo». Sono verità tuttora minoritarie ma che i cinquant’anni successivi hanno conclamate, entro e fuori di Israele, e sono verità che Franco Fortini non ha mai smesso di ribadire, talora di gridare, perché il tempo le ha come levigate e intanto rovinosamente ingigantite. Nello stupendo lungometraggio di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, Fortini/Cani, del 1976, il poeta legge le sue pagine di dieci anni avanti con un ritmo scandito e persino implacabile, è seduto in un patio inondato di sole, la natura intorno a lui fiorisce indifferente, estranea alla violenza delle cose dette e ricordate. Egli è ripreso costantemente di profilo, non alza mai gli occhi dal libretto sgualcito dove un filo di tenace fedeltà lo lega alle parole incise a futura memoria. Fortini, con il soccorso di immagini incandescenti o raggelanti, afferma ciò che una ventina di anni dopo, per altra via, sosterrà Zygmunt Bauman in Modernità e Olocausto secondo cui Auschwitz non rappresenta una eccezione ma, semmai, l’estremo mostruoso di una regola, la regola medesima della nostra civiltà tecnologica e del modello fordista di produzione, rivelandosi insomma come il frutto più avvelenato della dialettica dell’Illuminismo di cui dissero Adorno e Horkheimer in un saggio tanto celeberrimo quanto, troppe volte, frainteso. Ma
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Fortini vi deduce uno specifico ulteriore, muovendo tacitamente dalla nozione di ebreo che vuole dire alla lettera “colui che sta sull’altra riva”: Evocare i macelli nazisti equivale a chiederne una chiave, una interpretazione. Occorre appena aggiungere che si rifiutano fin da subito tanto l’interpretazione cristiana (il “segno di elezione”) quanto quella umanistico-liberale (il “delirio del totalitarismo”). Quel senso era: di aver riassunto, nella posizione di vittime e in una incredibile concentrazione di tempo e ferocia, tutte le forme di dominio e violenza dell’uomo sull’uomo proprie dell’età moderna; di aver riprodotto ad uso di una sola generazione umana quel che diluito nel tempo, nello spazio, nella abitudine e nella insensibilità, le classi subalterne europee e le popolazioni colonizzate avevano subito come diniego di esistenza e di storia, come alienazione reificazione annichilimento.
Come se Auschwitz-Birkenau fosse un acceleratore di particelle lì incanalate dalla storia delle società occidentali. Non si potrebbe dirlo con più forza e altrettanta moralità. Fortini scrive al presente come se il paese allegorico per antonomasia, Israele, fosse finito in un cul de sac. Chi ha una certa età ricorda l’immagine addirittura regale di Moshe Dayan, in televisione, come può rammentare la ristampa de I cani del Sinai da Einaudi nel 1978, nel periodo più buio della Repubblica, nel pieno dell’affaire Moro: per la copertina venne scelta una foto di agenzia in biancoenero scattata nel deserto, l’immagine di un ragazzo nella divisa di Tsahal sorridente e, a terra, un poster a brandelli di Nasser vicino a un carro armato. Ma nel ’67 a chi sta davvero parlando Fortini? Forse ai suoi parenti di Firenze che intendono il sionismo come riflesso difensivo di Israele (atteggiamento maggioritario pure se dopo gli studi di Georges Bensoussan dovremmo distinguere tra sionismo e sionismo) cui il poeta risponde con un rigurgito di
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ardore e di rabbia adolescente? No, egli non parla solo a loro evidentemente. Perché non soltanto Fortini, ma anche un suo amico ed interlocutore fin dai tempi dell’esilio in Svizzera, il grande germanista Cesare Cases (cui si deve un racconto autobiografico, stupendo, Cosa fai in giro, 1978) e lo stesso Primo Levi sono di continuo assillati dalla seguente domanda cui si deve una risposta esplicita, e fattiva: che cosa vuol dire essere ebrei? che cosa vuol dire esserlo nell’hic et nunc? che cosa significa avere memoria della vicenda ebraica, della Shoah? La risposta corrisponde ad un aut aut elementare: o la memoria è attiva, cioè in grado di modificare, come un tempo si diceva, lo stato di cose presenti oppure essa si riduce a un riflesso condizionato o peggio ancora a un’ambigua decorazione. (Sia detto per inciso, il Giorno della Memoria che la Unione Europea ha voluto nel 2005, pronubi tutti quanti i governi della destra, si è presto ridotto, salvo eccezioni, ad un retorico cerimoniale). Nell’explicit del suo piccolo libro Fortini vi ritorna in maniera accorata, come si trattasse del proprio testamento: I cani del Sinai non sono soltanto quei miei connazionali europei che hanno sfogato il loro odio per il diverso e il contrario (ieri gli ebrei, oggi gli arabi, domani il cinese, il sudamericano, qualunque “rosso”): sono anche metafora ironica dei nostri più vicini e goffi nemici, quelli che latrano in difesa delle tavole d’una legge che nessun dio ha mai dato e che nessuno sa più decifrare, tanto è lorda di vecchia strage. Attirarsi qualche latrato o qualche morso, è cosa davvero di nessun momento, senza merito né demerito. Bisogna voler ben altro; e anzitutto credere, come Lenin diceva, che ad ogni situazione esiste una via d’uscita e la possibilità di trovarla. E cioè che la verità esiste, assoluta nella sua relatività. «Se tu non vorrai più credere alla verità, nessuno vorrà più credere a te». Zelman Lewental, Sonderkommando del Crematorio II, Auschwitz-Birkenau, 15 agosto 1944
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Poscritto Fortini diffidava della poesia in quanto diretta espressione di un sentimento e insieme paventava la presunta autosufficienza delle filosofie. Lui che si sentiva allievo e compagno di via di Lukács come dei Francofortesi, lui che era stato da giovane coetaneo degli ermetici e in seguito la voce italiana del poeta più emotivo del suo secolo, Paul Éluard, si nutriva di filosofia guardando alla poesia come a un costrutto mineralizzato, a una forma dove si incontrassero (e, letteralmente, si riequilibrassero) le parti divise di sé nella esperienza del mondo. Perciò non distingueva, se non per la quota delle rispettive mediazioni e dislocazioni, tra la filosofia e la poesia, il pensare e il dire, i dati oggettivi e le vibrazioni emotive e perciò, anche, non si asteneva dal pronunciare una parola oggi infamata e ritenuta temeraria, “verità”, che in calce a I cani del Sinai fa rimare, come si trattasse di una endiadi dialettica, con “relatività”. Polemizzando per via indiretta con quanti ritenevano e tuttora ritengono il Manzoni (questo analista supremo, invece, della condition humaine) un tetro e anacronistico bigotto, Fortini amava citare il manzoniano Del romanzo storico, una frase in particolare dell’incipit secondo cui solo il vero è bello, ma «un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente». Non una verità contemplativa, dunque, ma rivoluzionaria in quanto è capace di modificare lo status di chi la accoglie. Non mirasse contemporaneamente alla mente e al cuore o insomma a quella che san Paolo chiama una metànoia, la “poesia” (nel nostro caso la “prosa” incandescente de I cani del Sinai) altro non sarebbe se non una ambigua decorazione, un alibi e non, come dicono i suoi stessi versi, pane e cibo di molti. Premessa necessaria alla trasformazione del mondo.
42 Le citazioni fortiniane provengono dall’ultima edizione de I cani del Sinai, a cura del Centro di ricerca Franco Fortini, Quodlibet, Macerata 2020, pp. 63 e 78-79. Una puntuale contestualizzazione è nel saggio di L. Lenzini, I cani del Sinai, oggi, in «Altraparola», n. 2, 2019. Nel testo sono citati o richiamati C. Vercelli, Breve storia dello Stato d’Israele, Carocci, Roma 2008; I. Zertal, Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, Torino 2007; I. Deutscher, L’ebreo non ebreo, Mondadori, Milano 1969; Z. Bauman, Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna 1992; Th.W. Adorno - M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1966; G. Bensoussan, Il sionismo. Una storia politica e intellettuale, Einaudi, Torino 2007; C. Cases, Cosa fai in giro?, Edizioni dell’asino, Roma 2019; P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.
[Elaborazione di un intervento alla Giornata di studio sul poeta e saggista Franco Fortini tenutasi a Roma il 9 maggio del 2017 nel Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre, poi con il titolo I cani di Fortini, Edizioni volatili, Casette d’Ete 2021].
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Sciascia e il suo amico cattolico
«[…] la libertà della stampa non è già la libertà di dire quel che gusta alla pubblica potestà ma quel che le spiace». Paul-Louis Courier, Processo a un liberale
Esistono amicizie che i Provenzali chiamavano de lonh, da lontano, quelle fra persone che non si vedono mai eppure si percepiscono in rapporto costante tra loro come interlocutrici entro un unico orizzonte d’attesa. Può dirsi tale l’amicizia nata circa quattro anni prima dell’uscita nel ’56 de Le parrocchie di Regalpetra tra Leonardo Sciascia e Valerio Volpini (Fano 19232000) giornalista e scrittore poligrafo, ex partigiano e militante della sinistra democristiana che a quella altezza cronologica, a parte alcune plaquettes poetiche circolate nella sua provincia, deve essere noto a Sciascia per due fortunate iniziative editoriali a sua cura, l’Antologia della poesia religiosa italiana contemporanea (Vallecchi, Firenze 1952) e poi, in collaborazione con Elio Filippo Accrocca, l’Antologia poetica della Resistenza italiana (Landi, Firenze 1955). L’immagine retrospettiva e nel senso comune quasi esclusiva di Sciascia scrittore laicissimo, naturaliter antidogmatico e segnatamente anticlericale (quella insomma dell’autore de Il Consiglio d’Egitto e Todo modo), rischia di obliterare il legame stretto in piena Guerra fredda con un corrispondente che è appunto un militante democristiano. Ma è noto da tempo che Sciascia medesimo (dopo una simpa-
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tia per il comunismo sorta fra gli anni del fascismo agonizzante, lo sbarco degli alleati in Sicilia e la neonata democrazia) dal ’45 al ’51, sia pure da indipendente, agisce e scrive a sua volta da militante democristiano collaborando con recensioni e interventi di materia civile a «Sicilia del Popolo», a «Il Popolo», che della Dc è l’organo nazionale, e a testate isolane minori come di recente ha ben documentato un saggio bio-bibliografico di Domenico Scarpa1. Si tratta di una militanza che, specie fra il ’48 e il ’51, segue il magistero e l’esperienza politica di Giuseppe Alessi, Presidente della Assemblea regionale nel ’47, al cui nome di limpido antifascista si lega il tentativo, presto naufragato, di dare corpo in Sicilia ad una autonomia politicoamministrativa emancipata sia dalle pratiche di un atavico trasformismo sia dalle ipoteche che le vecchie classi dominanti già stanno accollando ai nuovi assetti democratici. Non è un caso che Alessi, politicamente sconfitto, abbandoni la Dc nel 1951 come non è un caso che in contemporanea (e con un articolo sulla dura condizione dei salinari uscito, a quanto pare, con somma fatica nell’edizione nazionale del «Popolo») si interrompa anche la collaborazione dello scrittore ai fogli di orientamento democristiano. Che cosa resta a Sciascia di un simile apprendistato? Non certo l’anticomunismo da Guerra fredda, che oggi diremmo “trinariciuto” a segno invertito, ma semmai uno spirito e quasi un istinto di liberale che Scarpa nel suo saggio individua in due nomi già ricorrenti nella pubblicistica democristiana di Sciascia o comunque già aleggianti nel libretto di esordio, scritto in stile esopico e sapienziale, le Favole della dittatura (1950) che oggi possono intendersi come un UR/Parrocchie di Regalpetra
1. D. Scarpa, La prova democristiana di Leonardo Sciascia. Una ricerca in corso, in «Todomodo», IV, 2014, pp. 179-203.
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in crittografia. I due nomi simbolici corrispondono a Orwell e Brancati, così nella lettura di Scarpa: […] due scrittori liberali che si battevano, con l’arma della satira, contro i totalitarismi, senza distinzioni di ideologia e senza riguardi per nessuno. Persino alla linea dei trent’anni, Sciascia ambiva a essere l’erede di entrambi ma avrebbe seguito piuttosto la via del primo, dell’inglese.2
E qui vanno rammentate alcune occorrenze bibliografiche, davvero cruciali: risale al ’47, per la splendida versione di Bruno Tasso, l’uscita de La fattoria degli animali di Orwell nella “Medusa” di Mondadori; più ravvicinata la pubblicazione di due testi di Brancati, i suoi più appassionatamente militanti, entrambi del ’52: Ritorno alla censura (Laterza, Bari) sullo scandalo e le reprimende piovute sulla commedia La governante, nonché Le due dittature (Associazione italiana per la Libertà della Cultura, Roma) che è il testo a stampa di una celebre conferenza parigina in cui Brancati mette a fuoco le ragioni convergenti del suo antifascismo come del suo anticomunismo. È su questo terreno che Sciascia incrocia Valerio Volpini, un uomo (ha scritto il suo maggiore studioso, Fabio Ciceroni) di «integrale aperto umanesimo», un «testimone del tempo e povero cristiano»3. Nell’incipit del loro carteggio in parte pubblicato lo scrittore siciliano tende subito a smarcarsi da qualunque forma di integrismo, fosse anche quello ostinatamente evangelico di Giorgio La Pira e Danilo Dolci, se scrive infatti al nuovo amico marchigiano il 9 dicembre del ’55: «La mia natura e formazione è più libertina che mistica, ripugna a simili biografie»4; e se qualche anno dopo (da Caltanissetta, il 2. Ivi, p. 188. 3. F. Ciceroni, Introduzione, in V. Volpini, La terra innocente. Racconti marchigiani, Il lavoro editoriale, Ancona 2002, p. 11. 4. V. Volpini (a cura di), Dolci e La Pira mi ripugnano, in «Letture», n. 555, 1999, p. 77.
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20 novembre del ’61) rilancia nei termini di un vistoso paradosso: «Ma vado convincendomi che persone come noi – come te, come me – stanno a sinistra dei comunisti. E così sia»5. Molti anni più tardi, dentro un paesaggio storico-sociale totalmente mutato, quando Sciascia è ormai Sciascia, accade che i due amici si ritrovino senza incontrarsi de visu nei giorni cupi della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro. Va qui ricordato che il suo amico cattolico dal 6 gennaio del 1978 è direttore de «L’Osservatore Romano» (tale rimarrà fino al 1° settembre del 1984) e che alla sua penna viene attribuito l’anonimo corsivo che, su probabile ispirazione di Paolo VI, sembra aprire una minima breccia nel fronte politico che va dalla Dc al Pci e si oppone a qualsiasi trattativa fra lo Stato e le Brigate Rosse. Il corsivo però stona con un intransigente editoriale di don Virgilio Levi, vicedirettore dell’«Osservatore», e se ne ha un’eco in una lettera di Moro ascrivibile, secondo l’edizione postuma, al 7 o all’8 aprile 1978: Mi è parso di cogliere in questi giorni, a quanto mi è stato riferito, una certa diversità di accenti sull’Osservatore Romano su un tema così complesso, con un indurimento finale però che sarebbe stato registrato con compiacimento da quelli che potremmo chiamare i fautori della linea dura, quelli, in una parola, che accettano il sacrificio di vite innocenti, purché si sfugga, come si dice, ad ogni ricatto.6
Quanto a ciò, precisa l’editore Miguel Gotor: Nei giorni precedenti L’Osservatore Romano aveva pubblicato un corsivo anonimo (ma del neodirettore Valerio Volpini) che si disse fosse stato ispirato personalmente da Paolo VI, favore-
5. Ibidem. 6. A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Einaudi, Torino 2008, p. 35.
47 vole alla trattativa con le BR, in cui si leggeva che «la richiesta di un passo preventivo non può certo lasciare indifferente la Santa Sede» e si ricordava come nel passato «nel riserbo discreto o palesemente il Santo Padre in persona o gli organismi della Santa Sede hanno interposto la loro opera».7
Una simile e sciagurata divaricazione fra pietà e realismo o cinismo politico costituisce già, potenzialmente, il nucleo ispirativo dell’opera che Sciascia licenzia a Racalmuto il 24 agosto del 1978, come è scritto in calce all’autografo de L’affaire Moro, un libro che non somiglia a nessun altro, scritto d’urgenza e a muscoli tesi, un pamphlet redatto alla maniera dell’amatissimo Paul-Louis Courier. L’affaire Moro essenzialmente è una analisi delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia e insieme è un giudizio sulla ricezione e sul loro uso pubblico a mezzo stampa e tv. Sciascia muove, ancora una volta, da un tragico paradosso e ne trae le conseguenze. Prioritaria per lui è la disamina del più corrente fra gli stereotipi, che nella pubblicistica di allora battezza Moro “statista”. Agli occhi di Sciascia, viceversa, egli è certamente un politico-intellettuale di massimo rango (imparagonabile al sottobosco parlamentare e governativo dei capi-bastone o dei cosiddetti peones) ma è l’uomo di partito per antonomasia, colui che solo qualche mese prima del rapimento ha rivendicato in Parlamento, a proposito di scandali e di notorie malversazioni, la intangibilità della Dc e anzi la sua non-processabilità e impunibilità, perciò identificando la parte con il tutto, il suo Partito con lo Stato, come avessero peso e dimensioni uguali, come se, alla lettera, fossero la stessa cosa. Agli occhi di Sciascia, è Moro ad avere creato e garantito in prima persona la logica che ora gli ricade addosso invocando venga lui immo-
7. Ivi, p. 35.
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lato a esorcisma di uno Stato bugiardo, spettrale e, di fatto, inesistente. Perché è Moro ad avere avallato e appoggiato i sicofanti, i suoi ex e però mai amici, che si chiamano Andreotti, Cossiga, Piccoli, Taviani, Rumor e Zaccagnini. Perciò agli occhi di Sciascia, Aldo Moro, che non è mai stato uno statista nel corso della sua longeva attività politica, di colpo lo diventa, per il più crudo fra i paradossi, proprio nel momento in cui si trova solo, abbandonato, scaricato nelle mani dei suoi stessi carnefici, prima nella prigione dove marcisce l’utopia di stalinisti criminali poi, già cadavere, stivato nel bagagliaio di un’autovettura. Insomma Moro parla e agisce da “statista” solo quando, nella solitudine più nera, riconosce la natura della pietas umana e rigetta finalmente la logica del potere. Quando maledice apertamente gli uomini del potere e li diffida dall’avvicinarsi a lui, dal parlare a suo nome: […] Moro è ormai certo che nulla sarà fatto per salvarlo. Più come ammonizione e previsione che come minaccia, scrive: «Non creda la DC di avere chiuso il suo problema, liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa per impedire che della DC si faccia quello che se ne fa oggi». E conclude: «Per questa ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore».8
Complementare e alleata della Dc è la logica del Pci, che dalla mattina stessa del rapimento di Aldo Moro sostiene indirettamente un governo di salute pubblica o di cosiddetta “unità nazionale” presieduto da Giulio Andreotti. Sciascia non può leggere questo fatto che come epilogo e contrappasso della
8. L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, Palermo 1978; poi Adelphi, Milano 1994, p. 104.
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strategia berlingueriana del “compromesso storico”, una scelta che esige, per sostenersi, la “invenzione” di qualcosa che in realtà non esiste, cioè lo Stato, se non nella forma del Partito e nella fattispecie della Democrazia cristiana. Una scelta rovinosa e, oggi sappiamo, politicamente suicida da parte dei comunisti: […] intanto il Partito Comunista può procedere all’invenzione dello Stato […]. E si può osservare che una tale invenzione, se ha funzionato a non far riscattare Moro e ad incutere qualche preoccupazione alla sinistra più a sinistra e qualche disagio agli intellettuali più ‘liberali’ e più isolati, non ha funzionato per nulla a scalfire la forza delle Brigate rosse o a impedire qualche loro azione.9
Dunque L’affaire Moro è un’opera di critica del potere in quanto è opera di filologia, o viceversa. Sciascia dà attendibilità e credito alle lettere di Aldo Moro che la pubblica opinione e la quasi totalità dell’arco costituzionale dei partiti svalutano invece come frutti di pura costrizione, di traviamento o plagio. Semplicemente Sciascia si rifiuta di negare l’evidenza e, ha notato Giuseppe Traina, richiama come prioritario il principio della investigazione per immedesimazione propugnato in Poe dal cavalier Dupin […]. Se ci si immedesima nelle condizioni del soggetto scrivente non sfuggirà mai l’evidenza, che rischia invece di sfuggire a chi guarda senza vedere, come nel celebre caso della Lettera rubata.10
Non sappiamo (almeno alla luce dei documenti disponibili) quale sia stata la reazione di Valerio Volpini, il suo vecchio amico cattolico, all’uscita de L’affaire Moro. Quanto ai comu-
9. Ivi, pp. 140-141. 10. G. Traina, Leonardo Sciascia, Bruno Mondadori, Milano 1999, p. 44.
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nisti, a darne l’idea basterebbe un epigramma di poco anteriore, e a firma nientemeno di Edoardo Sanguineti, che da solo vale una clausola: […] (perché, / per te, te l’ho detto, ti va bene il PCI, soltanto, se ti fa l’opposizione di sua maestà / la Borghesia, e basta): / sei un vecchio filosofo nuovo, tu, con i tuoi anni, / con la tua esperienza, con la tua tanta coscienza: / e allora, caro Sciascia, passo e chiudo.11
Allora si comprende perché L’affaire Moro cominci con uno sciame redivivo di lucciole nella campagna di Racalmuto e perché Leonardo Sciascia, congedandosi dal suo libro più «straziato»12, abbia voluto idealmente dedicarlo a Pier Paolo Pasolini, fraterno e lontano.
[In «Todomodo. Rivista internazionale di studi sciasciani», VI, 2016].
11. E. Sanguineti, Postkarten, Feltrinelli, Milano 1978, p. 126. 12. L. Sciascia, L’affaire Moro, cit., p. 12.
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Il campo aperto della vita
La prima cosa che colpisce, a leggere dopo oltre quarant’anni Racconti ambigui (usciti da Feltrinelli nel ’63, annus horribilis, col patrocinio nientemeno di Giorgio Bassani), non è tanto la loro sorprendente tenuta, o la freschezza in termini linguistico-stilistici, quanto la singolarità degli esiti, anzi l’unicità del punto da cui impongono di osservare il reale. Enzo Siciliano non è scrittore che abbia mai accreditato l’intellettualismo e le poetiche astratte, fermo da sempre com’è a una fede letteraria che si dispone all’immanenza dei testi, e giudica dai risultati, non dalle virtuali intenzioni; ma resta il fatto che ha goduto di una formazione filosofica nei tardi anni cinquanta impensabile per quasi tutti gli altri, dove il nome allora quasi ignoto di Wittgenstein equivaleva al pensare la pagina, e finalmente la propria pagina, quale un campo magnetico sensibilissimo, origine e risultato di un’esperienza che fosse partecipabile ad altri proprio in quanto vissuta/accreditata/pagata fino in fondo in termini individuali, e perciò infungibili. Questo vuol dire che oggetto dello scrittore Siciliano è da sempre la vita tout court, cioè un colloide di fatti, emozioni e pensieri che non si lasciano dirimere per decreto né si deducono linearmente per il privilegio di una postazione particolare: “dentro” e “fuori”
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vi concorrono, infatti, alla stregua di accadimenti simultanei, privi di contorni definiti, e al contrario essi tendono ad avvolgere e intrigare chi se ne fa tramite, obbligandolo al duplice ruolo di testimone e complice, dunque alla condizione di colui che registra e nel frattempo deve valutare, o meglio disporre il lettore ad una valutazione che non sia giudizio impassibile e sentenza ma sospensione dubbiosa, perplessità, disinganno. Vale a dire che la vita, registrandosi sulla pagina nell’istante in cui la sta invadendo, realizza e simula la bellezza smarginata di un campo aperto, di un luogo in cui il sopravvivere, o comunque il vivere, tenga a bada nella sua incertezza gli apriori troppo drastici (astratti e unilineari, ancora una volta) di quel che accade, ed è, solo in quanto ha avuto un’origine e presuppone una fine. Abusata e bestemmiata nel secolo come nessun’altra, la parola vita è invece così naturale e per lui necessaria, fisicamente incarnata, da implicare il sinonimo di coscienza, ovvero di disincantata consapevolezza. (Introducendo appena più avanti Prima della poesia, da Vallecchi nel ’65, Siciliano non a caso rigetterà dei coetanei l’agnosticismo della forma-labirinto e l’ossessione dell’inventario, il catalogo di matrice fenomenologica e neonaturalista, mentre vedrà nella diade estetismo/avanguardismo l’alibi aporetico e la coscienza infelice del Secolo Breve: «Il fatto sottolinea pure quanto sia diffusa la paura a porre in discussione il proprio destino, a confrontare la propria possibilità di vita col mondo: in definitiva la paura a testimoniare la propria presenza di individuo a tu per tu con una complessa, talvolta contraddittoria realtà quale è quella contemporanea». Se dalle tranches del decennio neorealista egli non doveva riscattare alcuna ipoteca, sospettava fra i coetanei la metafisica della sperimentazione, intuendo nella gelida nomenclatura del Nouveau Roman e nelle partiture percussive del Gruppo 63 una forma appena aggiornata di contenutismo travestito da neo-formalismo, o viceversa; così, preferiva guardare a quegli scrittori in prosa per cui la nuda e
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persino castigata espressione era divenuta arte dissimulatoria e insieme cognizione costante dell’esistere, scrittori senza alcun di più, bastevoli alla propria pagina e di essa sovrani, come potevano essere stati Henry James, Robert Musil e, davvero da vicino, Alberto Moravia). Il campo aperto della vita (nelle cinque storie che compongono Racconti ambigui e proseguono idealmente nel romanzo breve La coppia, del ’66) circoscrive le dinamiche della irresolutezza e, ogni volta, di un muto naufragio. Non si tratta neanche di vittime o di capri espiatori condotti al sacrificio da una società che muta intorno a loro, e tumultuosamente, trapassando dalla cornice arcaica a quella moderna e industriale, cosiddetta affluente. Al contrario, si tratta di uomini e donne comuni, così normali da occultare, sfuocandola, la radice piccolo borghese e in senso largo popolare, così apparentati nel sentire da ritrovarsi nella traiettoria occidua e indecisa di uno stesso destino, che a loro è comunque fatale, in termini esistenziali e antropologici prima che sociologici. Ma chi sono costoro, gli eletti a una ferita necessariamente non rimarginabile, i vocati a un sanguinare troppo lento, a un dissanguarsi incognito e straziante nel silenzio che intorno li irride e infine li rinnega nella diserzione e nel rifiuto di chiunque li abbia incontrati? Sono uomini e donne perennemente sotto tiro, adulti in bilico, gravidi di un’educazione sentimentale che non riescono a smaltire, oppure individui protesi a un futuro che non giungono ad afferrare, se non nella forma di una delusione proporzionalmente inversa rispetto allo slancio e alla carica dell’illusione: un bancario, ex artista, che cerca moglie e trova invece una ninfetta-silfide; un orfano di guerra, soffocato da maternage e onanismo, infelice Edipo travolto dall’etica salesiana; l’omosessuale cosmopolita che nel corpo glorioso di un ragazzo scopre invece la nerezza omicida del giuda; la donna che ambisce invano, subendola poi beffardamente, a una sua «plenitudine
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interiore, rara e desiderata»; l’uomo che nel denaro insegue la piena libertà, forse anche l’amore, e ne viene invece spento, presto annientato. È come se all’esordio, davanti alla totalità dei possibili narrativi, Siciliano sentisse oscuramente la necessità di interrogare e di variare a oltranza il mito classico di Dafne l’imprendibile, cioè il mito dell’andare a vuoto, dello spreco inconscio e della delusione; come se tutta l’esperienza pregressa di lui nemmeno trentenne gli ingiungesse, nell’atto del prendere la parola, uno schema elementare e coatto: dire il silenzio che passa fra il prima e il dopo dell’aspettativa di esistenza, fissarne l’esosa opacità, esigerne in qualche modo il valore e la pienezza tuttora possibili. Intransitività e precoce senilità, malcelato dongiovannismo, distratto bovarismo, mite delirio masturbatorio, risultano in effetti i primi contrassegni dei suoi personaggi, presi di scorcio (lasciati andare, progredire e lievitare, in tutto indenni da dispotismo d’autore) dal momento in cui avanzano e talora cadono fino a soccombere nel campo aperto della vita, una vita che spiano senza viverla o che ambiscono vivere mentre stanno pagandone il prezzo impensato. E il primo di costoro si domanda a un certo punto, con accenti di strazio che valgono un’interrogativa retorica e un’implicita dichiarazione di poetica: «Perché hai sempre voluto negare l’amore un attimo dopo avermelo dimostrato?». Potrebbe essere il finale predatato di Rosa (pazza e disperata), il bellissimo récit che nel ’73 conclude la giovinezza artistica di Siciliano. Se i Racconti ambigui non soggiacciono a programmazione ma li tiene insieme l’intramatura di chi spia destini convergenti fino a scoprirsene il complice, allora è anche vero che essi non si lasciano chiudere dentro il meccanismo risaputo della vita come attesa e successivo scacco. Qui non c’è infatti alcuna estetica del fallimento. Al contrario, spazi e tempi di risoluzione sono i bordi incolori del vivere, i margini e gli strascichi
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di vicende mai davvero concluse perché prese dentro l’enigma irreparabile della coscienza: quei personaggi sanno e non sanno di sé, si lasciano condurre alla trasparenza, sembrano a un certo punto totalmente esplicabili eppure, di colpo, scartano di lato e si sottraggono, tornano in un loro buio non più computabile, e proprio per questo riescono umanissimi, dando la sensazione di potere comunque sopravvivere a sé stessi. (Il lieve moto ondoso, la cadenza normale e depressa che segue la catastrofe, in La coppia, ha la forma del sigillo d’autore). La scrittura di Siciliano li modella con un duplice moto, dall’interno e dall’esterno, a un ritmo che ne favorisce pulsando l’affiorare e tuttavia li lascia muovere e pretende abbiano un respiro. Molto lontana è la tentazione del cinema (cioè la scansione rigida delle inquadrature, la logica del découpage) che invece ha suggestionato e tante volte demolito la generazione dei narratori coetanei; semmai, cromature e atmosfere gli provengono da una cultura musicale e pittorica (ad esempio Respighi giovane, Malipiero, e quindi Mafai, la spatola celeste di De Pisis) che lo scrittore ha assorbito alla stregua di un alimento, di una ritmica interiore, il che è ben altro dal riesumare dei reperti o dal sentire l’obbligo della citazione. Infatti gli elementi del libro e tutto quanto lo intesse da cima a fondo, cioè la luce del Tirreno, la bellezza smagliante di Roma pure quando è nuvolo, i tagli brevi di tenebra e muffe del centro storico, il composto grigiore nei quartieri di piccola borghesia, le trattorie a buon mercato, le nuove utilitarie e le case al mare, i corpi che per la prima volta si denudano e tentano di riconoscersi, il parlare/ragionare/appassionarsi dopo un lungo ammutolimento, tutto ciò non è soltanto un quadro d’ambiente e di cultura e nemmeno il riflesso di un affetto primordiale. È piuttosto, ed in retrospettiva, la sequenza dove si dispone un significato allegorico e, sia detto in altri termini, il fondale da cui muove la scrittura di Enzo Siciliano per congiungersi e intanto emanciparsi dalla propria tradizione, la quale, affer-
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mava un maestro, non va mai né celebrata né rifiutata, bensì disperatamente interrogata: l’amore e il profondo tremore con cui la richiamava a sé medesimo dicono che il giovane professore di filosofia firmatario dei Racconti ambigui la pensava già allo stesso modo.
[Nota introduttiva a E. Siciliano, Racconti ambigui. La coppia, peQuod, Ancona 2004].
«Officina» e dintorni
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Pasolini giornalista in versi
Un antico stereotipo separa lo scrittore (qui non si dice ancora un poeta) dal giornalista distinguendo la capacità di mediazione/elaborazione del primo dalla immediatezza/impellenza con cui il secondo prende direttamente la parola, laddove è ovvio, tuttavia, che le quote sono sempre variabili e che spesso ci si trova di fronte a intersezioni o contaminazioni fra l’una attitudine e l’altra, cioè fra uno stile più o meno relativamente elaborato, intransitivo, e uno che invece tende a guadagnare in trasparenza e unidirezionalità. Qui va detto subito che il giornalismo di Pier Paolo Pasolini, e massime il “giornalismo in versi” (un hapax categoriale che in Italia sembrerebbe appartenergli in esclusiva), è l’ennesima occorrenza del suo plurilinguismo e pluristilismo non solo perché egli ha liberamente e spesso contemporaneamente praticato la narrativa, la saggistica, il teatro, persino la pittura e infine anche il cinema, ma anche e soprattutto perché all’interno del medesimo codice poetico molto larghe e sistematiche sono sempre state le escursioni, dal monolinguismo allotrio e squisito delle Poesie a Casarsa (’42) a quello profumatamente italiano dell’Usignolo della Chiesa Cattolica (’58), dalla corda civile, con massicci inserti allocutivi e ragionativi in terzine più pascoliane che
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dantesche, de Le ceneri di Gramsci (’57) a un libro di struttura totalmente aperta, polimetrico e additivo, quale Poesia in forma di rosa (’64) il cui esito maggiore, fra la dichiarazione di poetica (autodifensiva e antiavanguardistica) e il testamento, è un poemetto che si intitola Una disperata vitalità e viene scandito nei modi di una intervista rilasciata a una querula portavoce della neonata, in Italia, società affluente che lo costringe a ritrovare i nessi e i punti di svolta della propria autobiografia. E si guardi pure al fatto che il suo libro poetico pressoché terminale di versi italiani, Trasumanar e organizzar (’71), è integralmente pensato e costruito in termini giornalistici tanto che per ben cinque volte vi compaiono testi semplicemente intitolati Comunicato all’ANSA. Ora, un diffuso senso comune tende a fissare l’immagine “corsara” e “luterana” di Pasolini nella sua estrema produzione, grosso modo ascrivibile all’ingresso negli anni settanta, fra gli articoli celeberrimi scritti per il «Corriere della sera», la Trilogia della vita e relativa abiura, le sequenze obitoriali di Salò e il grande palinsesto (allora ovviamente clandestino) di Petrolio. Questo induce a postdatare la profezia di Pasolini e dunque, per inganno prospettico, a sottovalutare o a trascurare in una terra di mezzo la sua ricerca nei pieni anni sessanta, per esempio la mozione ideologica di film come Uccellacci e uccellini (’66), Teorema (’68), Porcile (’69), l’emersione violenta del tetro in versi (o “di parola”, come lo chiamava) e il vastissimo epistolario che viene costruendo con i militanti e/o simpatizzanti del Partito comunista sulle colonne di «Vie Nuove». Si tende insomma a dimenticare o a ignorare che già il passo conclusivo de Le ceneri di Gramsci (l’explicit a stampa reca la data del 1954) proponeva una interrogativa drammaticamente sospesa, nostalgicamente allarmata: «[…] Ma io, con il cuore cosciente // di chi soltanto nella storia ha vita, / potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è
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finita?». Il poeta, allora, percepiva sé stesso come in uno iato e in una terra di nessuno ma è lì che forse e per la prima volta gli compare davanti lo spettro di quanto nominerà e combatterà apertamente nei suoi ultimi anni. In altri termini, si tratta di una duplice o anzi concentrica intuizione e nello stesso tempo di una folgorazione clinica circa il Miracolo Economico per cui, anche in Italia, il neocapitalismo sta divenendo la condizione umana tout court e, anche in Italia, le avanguardie culturali e artistiche sono «omologhe» (il termine si deve a Lucien Goldmann, allora molto presente nella sua riflessione) al neocapitalismo medesimo, il quale, nella sua fase più matura, non può concepire il pensiero e l’arte se non come sostanze fungibili, se non come merci. E scriverà Pasolini, a contravveleno, nel passaggio cruciale di un suo altro palinsesto, La Divina Mimesis, i cui appunti datano fra il ’63 e il ’67: Il poeta vive l’ansia dell’acquisto allo stato puro. […] Il poeta vuole infatti vivere tutte le figure economiche possibili, vuole infatti la miseria e la ricchezza. Egli non è un acquirente! Egli è un produttore che non guadagna! È uno che produce merce che può e non può essere acquistata! E, se è per avventura acquistata, non può essere consumata! Peggio della plastica o del catrame o dei detersivi! Acquirente senza aspirazioni (il suo esprimersi basta infatti a se stesso) e produttore senza acquirenti, o quanto meno senza consumatori, egli passa la vita a vivere le ansie – che permangono in lui – di chi vuol acquistare e di chi vuol vendere: ma a un loro stato inqualificabile. […] Far degenerare le ansie dell’acquisto e della produzione in qualcosa che è la loro purezza e la loro mancanza di funzione, questa è la parte del poeta.
Tale è la persuasione che anima quello che è probabilmente il libro meno studiato di Pasolini pure se brandisce nel titolo un aggettivo che anticipa il “corsaro” e il “luterano”, Empirismo eretico, che esce da Garzanti nell’aprile del ’72 e raccoglie saggi pubblicati fra il ’64 e il ’71, ripartiti in sezioni,
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tre, che corrispondono alle sue implicazioni più urgenti: la nuova questione della lingua (il neo-italiano televisivo che sta soppiantando progressivamente sia l’italiano della tradizione scritta sia, soprattutto, quello ereditario dei dialetti e delle culture particolaristiche); la morte della avanguardia, la cui ricerca di valore d’uso è integralmente neutralizzata e riassorbita nel valore di scambio del mercato; il cinema (il suo “cinema di poesia”, al presente) come lingua di un mondo ancora “reale” e riproducibile di fronte alla “irrealtà” (omologazione/ genocidio/“universo orrendo”) della società dei consumi. Ancora una volta il poeta vi ribadisce, con disperata ossessione, che la condizione borghese coincide oramai con la condizione umana in sé e per sé. È in un simile contesto, nel baricentro esatto del volume, che Pasolini ripropone una poesia (forse la sua più nota, in assoluto) che però ha escluso dal volume di versi dell’anno precedente, Trasumanar e organizzar, ed è Il PCI ai giovani!! (Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una Apologia), poemetto uscito in «Nuovi Argomenti» (n. 10, aprile-giugno 1968), ripreso in estratto da «Paese Sera» il 12 giugno 1968 e finalmente in integrale da «L’Espresso», il 16 giugno dello stesso anno, che lo pubblica in prima pagina, di spalla, senza rispettarne la scansione in versi, come si trattasse di un libello in prosa. È qui che Pasolini prende paradossalmente le difese dei poliziotti che il precedente 1° marzo a Valle Giulia hanno caricato e bastonato gli studenti mobilitatisi davanti alla Facoltà di Architettura: […] Adesso i giornalisti di tutto il mondo […] vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio / delle università) il culo. Io no, amici. / Avete facce di figli di papà./ Buona razza non mente. / […]/ Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti! / Perché i poliziotti sono figli di poveri. / […].
È anche nota la tesi da cui muove il poemetto: in Italia non c’è alcuna contestazione in atto ma semmai una guerra tra padri e
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figli, una guerra civile all’interno della borghesia, così come, e tanto meno, si prepara una rivoluzione perché si è in presenza, viceversa, di una trasformazione all’interno della borghesia stessa, divisa tra i padri paleocapitalisti (retrivi, bigotti, anacronistici) e figli della società affluente (laica, tollerante, consumista) che fungono senza rendersene conto da mosche cocchiere del neocapitalismo. Quanto a ciò, i poliziotti agli occhi del poeta rappresentano l’eterno sottoproletariato italiano, il volto di un’Italia arcaica ma non ancora corrotta da quanto presto egli chiamerà Universo Orrendo, il corpo di un domestico e amatissimo Terzo Mondo. In occasione dell’uscita del poe metto la redazione de «L’Espresso» ha organizzato una tavola rotonda (i cui atti compaiono all’interno del numero di quel 16 giugno) cui partecipano, insieme a Pasolini, il giornalista Nello Ajello, che coordina, un dirigente storico del movimento operaio, Vittorio Foa, un funzionario dei giovani comunisti, Claudio Petruccioli, e due anonimi studenti che rinfacciano al poeta la sua estrazione borghese mentre lo invitano a leggere Stato e rivoluzione di Lenin. A sua volta, Foa gli imputa il totale disconoscimento di una figura emergente, specie nelle fabbriche del Nord, l’operaio-massa di estrazione meridionale, mentre Petruccioli si limita ad affermare che «nel pensiero di Pasolini la classe operaia non c’è e non c’è mai stata», per una cecità tipica di chi divide «l’umanità in ricchi e poveri, in gente che puzza o non puzza». Si rifiuta di prendere parte alla tavola rotonda ma va a Roma, nella redazione del giornale, e legge di persona a Pasolini un testo appositamente preparato, un suo deuteragonista e da sempre compagno di via, Franco Fortini, i cui accenti non potrebbero essere più netti e ultimativi, «di tristezza e di rifiuto»: Questo articolo della Pravda scritto da Amendola e firmato da Pasolini non mi ha stupito. Nel corso degli ultimi dieci anni non mi ero fatto troppe illusioni sulla tua capacità di intendimento politico. Per te la lotta di classe è quasi sempre stata
64 soltanto la lotta dei poveri contro i ricchi e i rapporti fra borghesia e proletariato soltanto un consueto conflitto di razionalità e irrazionalità. Quando il sottosviluppo italiano illudeva ancora, la tua poesia è stata la poesia di quella illusione. Poi quando la realtà ha preso a sfuggirti e tu la inseguivi come un aereo che vuol spostarsi con la velocità della terra per rimaner sempre nel sole, hai preso a cercare il proletariato, anzi i poveri e la loro bellezza, fuori d’Europa, in Asia e Africa; e anche in America, purché inorganica negativa floreale. Da quando l’oppressione ha assunto nuove forme, non hai capito più. Hai ancora diritto all’elegia. Hai perso il diritto al ragionamento, perché non ne hai mai veramente riconosciuto il dovere.
Ma in calce ai suoi stessi versi, redigendone la Apologia, il poeta aveva cercato di chiarire una intenzione che non era tanto d’ordine politico-sociale quanto storico-antropologico, alla maniera di una profezia apocalittica: Insomma, attraverso il neocapitalismo, la borghesia sta divenendo la condizione umana. Chi è nato in questa entropia non può in nessun modo, metafisicamente, esserne fuori. È finita. Per questo provoco i giovani: essi sono presumibilmente l’ultima generazione che vede degli operai e dei contadini: la prossima generazione non vedrà intorno a sé che l’entropia borghese.
L’urgenza di una simile intuizione detta la scelta di scrivere sì dei «brutti versi», come li definisce, ma di scriverli comunque e di vederli pubblicati e discussi alla pari di un articolo di fondo. Ma «brutti versi» in che senso? La lingua è quella della immediatezza e, anche quando estesa a una mite invettiva, della conversazione; lo stile rigetta ogni metafora ed è integralmente denotativo, molto prossimo al grado zero della scrittura giornalistica; la metrica, relativamente casuale, risulta appena uno scivolo della voce che si immagina salmodiante; l’assetto retorico è frontale e assertivo dove prevalgono figure semplicissime
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quali l’antitesi e l’anafora in vista di un effetto parenetico, di mobilitazione delle coscienze o anzi di appello a un’entrata in massa nel Pci, un partito che al momento è spiazzato dall’insorgere delle contestazioni studentesche e tuttora è segnato dalla perdita della propria guida, Palmiro Togliatti, i cui funerali abitano la sequenza centrale di un film per proverbio di crisi e trapasso quale Uccellacci e uccellini. I versi dell’appello, nel poemetto, sono i più datati e cedevoli ma sono anche, sia detto ora per allora, i più rivelatori: […] / Ma andate, piuttosto, figli, ad assalire Federazioni! / Andate a invadere Cellule / Andate ad occupare gli uffici / del Comitato Centrale. Andate, andate / ad accamparvi in via delle Botteghe Oscure! / Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere / di un Partito che è tuttora all’opposizione / (anche se malconcio […]) / ed ha come obbiettivo teorico la distruzione del Potere.
Se si guarda allo stile e al tono complessivo, si potrebbe dire che Il PCI ai giovani!! inaugura la stagione degli Scritti corsari fornendone un esempio incalzante e predatato che oltretutto, e implicitamente, risponde al fallimento della neoavanguardia italiana il cui estremo esito, la rivista «Quindici» nata nel ’67, verrà estinto nell’agosto del ’69 per insanabili e interne divergenze proprio a seguito della contestazione studentesca. Se dunque i poeti del Gruppo 63 hanno condotto i loro testi a un grado estremo di complessità, intransitività e alla lunga di illeggibilità, Pasolini risponde con i versi spogli (di locuzione diretta, immediata) che confluiranno in Trasumanar e organizzar ma, prima ancora, prende la parola con i «brutti versi» dedicati agli scontri di Valle Giulia. Come se gli premesse di salvare il salvabile, di mantenere chiaro e fermo il nucleo della sua veridica intuizione, come se non potesse altro che ribadire, addirittura predicare, il fatto che è a rischio la nozione stessa di humanitas: perciò, anche riguardo alla poesia, la scrittura giornalistica gli appare come la più appropria-
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ta. Ma c’è un frangente capitale, poche volte rammentato, che corrisponde sia alla volontà pasoliniana di chiudere i conti (di batterla in breccia, sul suo terreno) con la neoavanguardia sia, in primo luogo, di salvare lapidariamente il contenuto di verità della propria posizione relativa al presente: nell’ottobre del 1967 (per una rubrica televisiva della Rai a cura di Vanni Ronsisvalle) Pasolini va a Venezia per intervistare, nientemeno Ezra Pound, il nume della avanguardia secolare, l’autore dei Cantos, qualcuno insomma che ci si aspetterebbe il suo perfetto antipode anche per i trascorsi biografici e politici. L’intervista, dal titolo Un’ora con Ezra Pound, va in onda proprio nel giugno del 1968. Silenzioso, ieratico come una statua intagliata nel basalto, Pound assiste a una palinodìa che in effetti duplica quella che Pound stesso ebbe a recitare nei confronti di Walt Withman. I due poeti, ha notato Angela Felice, si ritrovano adesso solidali nel deprecare il saccheggio del paesaggio italiano, impegnati a indagare i valori della poesia e la sua moderna condizione da neo-sperimentalismo linguistico, ovattati in una sorta di rarefatto ed esclusivo cenacolo [e] i due non mancano di divergere su una parola carica di senso, usata da Pasolini per instaurare un collegamento logico tra lo stato delle nazioni industrializzate e la conseguenza del loro essere quindi culturalmente avanzate. Proprio su quel quindi Pound ha da eccepire, quasi anticipando l’imminente pensiero apocalittico di Pasolini che di lì a poco infatti un quindi con quel senso non lo avrebbe usato più.
Ora Pound non è più il battistrada del modernismo e dei giochi di montaggio à la page bensì un sapiente e anzi un redivivo Alighieri che dalla deflagrazione del Caos secolare (mimata dalla struttura itinerante e proliferante dei Cantos) riesce a salvare un nucleo di verità così calato nel profondo, in verticale, da poter redimere l’universo esploso del Novecento in un nuovo e insperabile Cosmo poetico. I versi che Pasolini legge al co-
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spetto del vecchio maestro, traendoli dalla zona baricentrica e asperrima dei Pisan Cantos, si possono leggere nei modi di un viatico e, insieme, di un possibile testamento, quasi fossero il sedimento elementare della vita e, sperabilmente, di ogni vita: […] / Quello che veramente ami rimane, / il resto è scorie. / Quello che veramente ami non ti sarà strappato. / Quello che veramente ami è la tua vera eredità. / […].
Sappiamo che a quella altezza cronologica Pier Paolo Pasolini sente di dover salvare la sostanza umana, o il suo ultimo residuo, da ciò che pure ha chiamato l’entropia borghese. Colui che già ne La ricotta (1963) aveva fatto recitare a Orson Welles, per la voce dell’amico Giorgio Bassani, versi che valevano una autobiografia («Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore») li riaffida al presente e li dedica ai giovani contestatori diffidandoli dal ricatto dei padri, ammonendoli circa un estremismo che a lui sembra invece una forma inconsapevole, camaleontica, di conformismo e di cieca obbedienza allo stesso mondo che si proclama di voler abbattere e liquidare. Perciò, senza riscriverlo di fatto, egli riscrive tuttavia Il PCI ai giovani!! mantenendone il tono salmodiante e però modulandolo con gli accenti di una mesta, struggente, elegia. Il testo si intitola La poesia della tradizione e sta nel centro esatto di Trasumanar e organizzar. Il suo monito vibrante, accorato, verso figli ribelli ma spesso ciecamente obbedienti, rigidi estremisti senza amore, giovani in via di perfetta omologazione, nemici dichiarati della cultura e dunque di una tradizione ignorata, non ebbe allora chi volesse ascoltarlo: […] / Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo / a contraddirsi, per continuare; / vi troverete vecchi senza l’amore per i libri e la vita: / perfetti abitanti di quel mondo rinnovato / attraverso le sue reazioni e repressioni, sì, sì, è vero, / ma soprattutto attraverso voi, che vi siete ribellati, proprio come esso voleva. /[…].
68 Il passo da La Divina Mimesis è tratto dalla princeps, Einaudi, Torino 1975, pp. 34-35. Il poemetto Il PCI ai giovani!! è ora in P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, vol. I, pp. 1441-1450, mentre le annotazioni dei curatori nel vol. II, pp. 2957-2961. L’intemerata di Franco Fortini ora è in Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993, pp. 38-39. L’intervista di Pasolini a Ezra Pound, solo parzialmente accessibile su Youtube, rinvia a Pisan Cantos, LXXXI, poi in Canti Pisani, tr. it. di A. Rizzardi, Garzanti, Milano 1977, pp. 191-193: i rilievi di Angela Felice, consultabili nel sito del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa, stanno nella plaquette a cura di C. Vino, Il nulla lucente, Comune e Università di Bari, Bari 2014. I versi citati da La poesia della tradizione derivano da Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano 1971, p. 135. [In L. De Giusti - A. Felice (a cura di), Gettiamo il nostro corpo nella lotta. Il giornalismo di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 2019].
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Apologia di Volponi
La maturità intellettuale e artistica di Paolo Volponi (Urbino 1924-Ancona 1994) coincide con la ricezione, anche in Italia, dello stile minimalista, una scrittura per “via di levare” che mira alla nuda spoliazione e a una mimesi di pure notizie e di azioni semplicemente denotate. (Qualcuno, fondatamente, ha rilevato che è il segno di una resa alla dominazione mediatica e ai suoi imperativi, i quali costringono la prosa nelle angustie di una schematica sceneggiatura o di un suo sottoprodotto). Volponi, in un simile contesto, sembra una meteorite a partire dall’esordio tardivo nel romanzo (Memoriale esce solo nel ’62 per lo stimolo incessante dell’amico Pasolini) che suggella una lunga stagione poetica, culminate nel volume complessivo Le porte dell’Appennino (’60), testimone di uno sguardo laterale rispetto alle linee secolari, quelle di un sistema binario che vorrebbe opporre a oltranza Grande Stile e Avanguardia senza possibili intermedi. Il gesto poetico di Volponi viene dall’idillio leopardiano e però contraddetto, in una lingua grassa e ispessita, dalla lezione di Luigi Bartolini, il grande incisore che presta al giovane poeta innanzitutto una specifica modalità di vedere e di aderire corporalmente alla realtà. Prima poeta e poi romanziere, Volponi sempre si sentirà un autore massi-
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malista, in ciò fedele a un suo stesso personaggio (nell’unico romanzo autobiografico e in costume che abbia mai scritto, Il lanciatore di giavellotto, 1981), vale a dire il vecchio ceramista, suo nonno, che lavora a mano la materia prima, la accarezza, la impasta, ne controlla la temperatura e infine la decora. La pagina di Volponi nasce per accumulo, come dentro un vortice percettivo nel cui moto si condensa la massa critica in vista di una forma, di un disegno. Non si tratta nemmeno di un accumulo casuale ma di una restituzione virtualmente tridimensionale dell’effetto di realtà. Sia chiaro, tuttavia, che Volponi ignora o evade in anticipo l’altra diade secolare che discrimina Realismo e Invenzione, perché a lui non preme raccontare una storia e meno che mai una «bella storia» ma, al contrario, avanzare delle ipotesi, promulgare per iscritto un senso di impotenza, di crisi, e più spesso di intolleranza per il soffoco dello spazio ambiente. Ha sempre ribadito che non gli interessa il raccontare in sé, l’«accomodare» una qualche vicissitudine, ma «porre dei problemi che non sono chiari e che restano angosciosi». Classicamente, la poetica di Volponi mira a rinvenire una personale verità nelle cose e nei fatti del mondo. L’immaginario di Volponi divide il mondo in due ed è perciò un immaginario dialettico, sia pure di una dialettica che non conosce sintesi né, tanto meno, una irenica conciliazione. Duplice è il set dei romanzi in cui da un lato torna la perfezione umanistica di Urbino, la compostezza di una civiltà agricoloartigianale che sembra senza tempo (La macchina mondiale, ’65, in questo senso, se non il più grande è certo il romanzo più suo), dall’altro si profila la grande città industriale, frenetica, sommamente viva ma sporca del lavoro sfruttato, delle sue prepotenze politiche e padronali. Ambivalente è anche la fattura dei personaggi, specie quelli che abitano i romanzi maggiori, Corporale (’74) e Le mosche del capitale (’89), dei manager che sono contemporaneamente, e fatalmente, degli
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intellettuali. Al centro della narrativa di Volponi c’è ogni volta un capro espiatorio che prende su di sé il portato dei conflitti, sentendosi spezzato fra un prima e dopo, fra un qui e un altrove, dunque una specie di pharmakòs, veleno e rimedio, oppure di Don Chisciotte che muova vanamente guerra al mondo. Tali personaggi ripropongono la lacerazione di colui che è al vertice dell’industria (Volponi fu prima a lungo alla Olivetti, poi alla Fiat e alla FinArte) e nello stesso tempo è scrittore, severissimo critico della realtà industriale e sociale di cui è protagonista. Ma qui va anche detto che nonostante sia stato nei suoi anni estremi un parlamentare del Pci e di Rifondazione comunista, Volponi non pensa mai da marxista dottrinario: di famiglia medioborghese (suo padre era il proprietario della fornace di Urbino e aderiva al Partito Repubblicano), egli si è formato piuttosto una mentalità da illuminista radicale, con umori e accenti di autentico giacobino, i quali consuonano con la lezione dell’altro suo grande maestro, assieme a Pier Paolo Pasolini, cioè Adriano Olivetti cui rende omaggio nella dedica del libro culminante, Le mosche del capitale, definendolo alla lettera «maestro dell’industria mondiale». E alla lettera olivettiana è anche l’immagine che Volponi vagheggia quando pensa al mondo del lavoro e alla fabbrica, non certo in termini di potenziale sfruttamento e di coatta estrazione di plusvalore, ma quale luogo di partecipazione dal basso, di estensione della democrazia, di diffusione della civiltà tout court. Nel suo immaginario, pertanto, Pasolini e Olivetti sono figure corrispettive e antidoti reciproci, perché Pasolini incarna il mondo arcaico e frugale delle antiche pievi (però deprivato di certi aloni teneramente regressivi) mentre Olivetti annuncia una democrazia che si riscatta dalla reclusione in fabbrica e dal disordine ferino della società affluente. Infatti Volponi è da sempre affascinato dalla anonima tavola, conservata in Palazzo Ducale, che taluni attribuiscono al Laurana e che la tradizione intitola La città ideale: da tanta compostezza e armonia, da quella stessa luce
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equanime egli deduce l’utopia di una polis rediviva al presente. Quando Enrico Berlinguer affida a lui nell’aula del Senato l’intervento di contrasto al decreto del governo Craxi che nel 1984 abolisce la misura di protezione sociale detta della “scala mobile”, Volponi già nell’incipit del suo discorso, integrando esperienza personale ed immaginazione artistica, formula la propria visione del mondo. È un passo che il lettore trova riformulato ne Le mosche del capitale: La cultura industriale infatti non è la tranquillità della Confindustria o il peso della Confindustria sul paese, o la somma delle tecnologie di cui dispongono le industrie italiane, o la somma dei profitti che riescono a conseguire nel corso degli anni. La cultura industriale è invece la capacità di inventare una grande ricerca scientifica alla portata del paese, della scuola, delle organizzazioni pubbliche, delle amministrazioni e di tutte le forze del lavoro. La cultura industriale è quella della partecipazione di ciascuno a un progetto di trasformazione del paese secondo la propria coscienza e secondo la propria cultura e le proprie qualità morali, prima ancora che professionali.
A partire dagli anni settanta, il clima sociale e politico segna progressivamente l’opera di Volponi ed è ben rilevabile nei romanzi intermedi: intanto Corporale (’74), diagramma di una crisi che investe l’Occidente e si riassume nel terrore della bomba atomica da parte di un intellettuale-manager che è in anticipo, per più di un motivo, sul protagonista delle Mosche; poi Il sipario ducale (’75), ambientato a Urbino nei giorni in cui deflagra la “strategia della tensione”, dentro un’aria livida e satura di strage, forse il suo romanzo meno noto e più sottovalutato; infine un racconto lungo, Il pianeta irritabile (’78), favola allegorica di animali parlanti che davvero può evocare gli estri immaginosi e la tempra di uno Swift. Proprio nella favola post-apocalittica si annuncia la intuizione che è alla
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base delle Mosche secondo cui il neocapitalismo marginalizza il lavoro dopo averlo sfruttato fino all’annientamento e scegliendo piuttosto la finanza, vale a dire l’esclusiva produzione di denaro a mezzo di denaro. Perciò il neocapitalismo non ha bisogno che di addetti servili e di un certo numero di manager uniti nel credo della devozione aziendale, individui sordidi e predatori alla pari di antichi monatti. Anche nel romanzo della grande città industriale (il suo nome allusivo è «Bovino»), alla fine degli anni settanta si incrociano due differenti traiettorie: l’una è di Tecraso, l’operaio-massa di origine meridionale, il vecchio militante antagonista presto scartato e umiliato in un reparto-confino, l’altra è di un diretto portavoce dell’autore, il manager-intellettuale che ha il nome ambiguo di un cesaricida, Bruto Saraccini, sempre in bilico fra subalternità all’azienda (alle sue logiche crudeli, megalomani) ed una consapevolezza critica che lo mette a propria volta al margine, deriso dai superiori e compatito dai colleghi. Sentendosi preso in un incubo concentrazionario, costui allucina una vendetta che sa tuttavia derisoria: Un giorno dirò tutto, scriverò un memoriale, un libro bianco sui grandi dirigenti, sulle grandi politiche aziendali, la verità sulla ricerca e sullo sviluppo, sulle qualità produttive, sugli investimenti, sulle grandi novità tecnologiche, sui grandi, questi sì, altro che grandi, prelievi personali, soprusi, sulle mosche, sì, le mosche del capitale. Si fermò su questa immagine, che gli pareva cogliere esattamente la banda dei suoi nemici, tutti gli amministratori e i manager industriali di successo, fatti di voli e voletti, di ali e alette… azzurre come cravatte… tutti a modo, con gesti e accenti, aggiornamenti e riverenze, relazioni e riferimenti, le sapienti colorate voraci mosche del capitale, sì, le mosche … per di più svolazzano e ronzano dappertutto, in bell’inglese, per andare a succhiare e a sporcare. […] Anche i razziatori di schiavi d’oro e di pietre preziose nei più selvaggi e sperduti villaggi indios del Mato Grosso, anche i cacciatori meticci di animali e di insetti rari, di donne
74 e di bambini, e anche i capisquadra più ignoranti dei campi di lavoro, dei fazenderi tedeschi o olandesi, sono migliori, più intelligenti e capaci di questi neri sopravvissuti, fantasmi dell’industria fascista, dispensiera di tasse e di imposizioni, di ordini come di cattivi prodotti, complice di tutti i poteri più arretrati, negatrice di qualsiasi autentica cultura italiana, demolitrice di centri storici e di monumenti, sventratrice di vecchie civiltà e di meravigliosi equilibrati territori.
Volponi non ha avuto bisogno di imparare la parola “globalizzazione” per coglierne, nel punto di innesco, il dispositivo planetario, perché oramai nell’hic et nunc sul serio Urbino vale Ivrea o Torino. Se nel deserto del Pianeta irritabile, nel perfetto silenzio da dopo-bomba, poteva ancora sussultare un residuo di vitalità animale, nelle Mosche il mondo appare catafratto nella sua definitiva glaciazione. Gli uomini sono ammutoliti e a parlare rimangono non tanto gli animali quanto, specialmente, gli oggetti inerti. Questo paradosso ci informa della avvenuta reificazione di tutta quanta la realtà e pertanto il romanzo, un assoluto capolavoro, fra le rare scritture all’altezza dei tempi, ha struttura polifonica, è un organismo plastico, inclusivo, che accoglie e riplasma di continuo ingenti materiali della narrazione e/o della riflessione, mentre la luce che piove sulle cose e su gli ex uomini sembra collassare negli effetti di un luce e ombra che Volponi richiama dal Gran Secolo e dagli amatissimi caravaggeschi, da Mattia Preti e Gentileschi a Ribera e Battistello Caracciolo. Il romanzo esce nel 1989 al termine della Guerra fredda, paradossalmente nel momento peggiore. Insieme con notevoli letture (Franco Fortini e Cesare Garboli in primis), non mancano sorrisi ammiccanti e insulti più o meno larvati di anacronismo e veterocomunismo, nella generale incomprensione. Tant’è che lo scrittore si decide a pubblicare nel 1991 un romanzo di struttura ben più tradizionale che tiene nel cassetto da trent’anni, La strada per
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Roma, un romanzo di formazione con evidenti venature autobiografiche che in origine avrebbe dovuto intitolarsi Repubblica borghese da un verso di Addio Lugano bella. Che Paolo Volponi abbia sentito l’esigenza di normalizzare in senso così tradizionale il titolo dell’ultimo romanzo pubblicato non deve trarre comunque in inganno. Infatti, quando va a presentarlo in una scuola superiore di Lecce, il suo viatico agli studenti non suona meno netto e intransigente di sempre: Il capitale è un monarca assoluto, terribile, più duro del re Sole, molto più potente e prepotente. […] Il capitalismo ha avuto vari collassi, varie crisi, perché è così, è ingordo, avido, mangia troppo, molto di più di quello che può digerire e poi sta male e naturalmente fa pagare agli altri, sempre, le sue sofferenze.
[In «gli asini», n. 70/71, 2019-2020].
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Roversi e Dalla
L’annosa discussione sul rapporto (e sull’eventuale primato) fra canzone d’autore e poesia sembra essersi conclusa col verdetto, ormai accettato nel senso comune, secondo cui la poesia ha una sua musica interna e specifica mentre la canzone ha bisogno, per sostenersi, di una musica vera e propria. Una simile disputa non ha mai toccato quello che resta uno dei massimi momenti di collaborazione fra poesia e musica nella storia della canzone italiana e cioè l’incontro fra i testi del poeta Roberto Roversi e la musica di Lucio Dalla, pure destinato (giusto sull’abbrivio di quel contatto) a divenire a sua volta uno straordinario cantautore. All’inizio degli anni settanta, reduce dalla redazione di «Officina», libraio antiquario alla Palmaverde nel cuore di Bologna, firmatario di un libro poetico tirato al ciclostile (Le descrizioni in atto, del ’69) e punto di riferimento etico-politico per una generazione sia di scrittori sia di militanti, Roversi sta scrivendo un bellissimo romanzo sui movimenti e le rivolte studentesche (I diecimila cavalli, edito nel ’76 dagli Editori Riuniti, nella collana “I David” di Gian Carlo Ferretti, purtroppo mai riproposto) ma sta anche pensando da tempo a una commedia musicale sul modello di Brecht e Kurt Weill; per parte sua, Lucio Dalla (che vive a Bo-
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logna all’angolo di piazza Cavour, dunque a cinquecento metri dalla chiesa sconsacrata di Santa Lucia, in via Castiglione, dove Roversi sta recluso come un cospiratore giacobino, aveva detto il suo amico Pasolini) ha alle spalle una formazione di jazzista autodidatta, ha già raccolto il meglio del repertorio di esecutore nell’album Terra di Gaibola e ha avuto un impensabile successo, a Sanremo nel 1971, con la canzone 4 marzo 1943, che sa di avventura marinara e cristianesimo evangelico, scritta per lui dalla storica dell’arte Paola Pallottino. Chi fa incontrare il poeta e il musicista è un vecchio amico di Roversi, il cineasta Renzo Cremonini appena trasferitosi alla produzione di dischi presso la RCA: fra il ’73 e il ’76, dall’incontro sortiranno tre album (Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa, Automobili) e un cospicuo mannello di inediti, tutti riproposti, per la cura attenta di Antonio Bagnoli e una sontuosa veste editoriale, in Nevica sulla mia mano. La trilogia, la storia, canzoni inedite e manoscritti (Sony Music) che appunto comprende un volume di documentazione, ricco di apporti autografi e iconografici, unitamente alla riproduzione dei tre storici long playing più un quarto di testi inediti e rari. Fra Dalla e Roversi si tratta proprio di un incontro prima che di una collaborazione. Roversi scrive canzoni come fossero poesie, e di fatto esse lo sono: soltanto è più netta la scansione ritmica, più marcata la distribuzione delle strofe mentre il tono è più assertivo, frontale, più stagliate o isolate le immagini (rispetto, per esempio, all’andatura incatenata e poematica di ogni singola lassa delle Descrizioni in atto). In altri termini, Roversi non diminuisce o coarta la sua poesia ma la piega a un passo maggiormente sciolto, nello stesso momento in cui la affida alla musica di Dalla, il quale mette a punto, volta a volta, una partitura percussiva, fra jazz e rock, su cui sperimentare qualsiasi oltranza del suono e della voce, da certi adagi fondi, cupi e dissonanti ai limiti dell’espressionismo, a talune invenzioni dove esplode invece il perfetto virtuosismo dei suoi
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vocalizzi (fino al confine della pura lallazione, lo scat di Pezzo zero del primo album o, nel secondo, de La Borsa valori dove viene cantato, alla lettera, il listino dei titoli). Il giorno aveva cinque teste, un’immagine che viene da Mandel’štam, non propone un tema specifico ma per così dire una serie di sondaggi dentro il reale, dal problema dell’emigrazione (memorabili in tal senso L’auto targata TO e L’operaio Gerolamo) ai momenti della vita quotidiana dove vibra la corda più esistenzialista, specie nella Canzone di Orlando che include il verso eponimo «nevica sulla mia mano». L’opera seguente, Anidride solforosa, è del primo album un pieno svolgimento specie sul versante politico-sociale, come attestano canzoni di argomento storico (Le parole incrociate, una micro-Antistoria del Risorgimento) o di aperto impegno come Ulisse coperto di sale, Carmen Colon e Mela da scarto. Con il progetto del terzo lavoro che avrebbe dovuto intitolarsi Il futuro dell’automobile, Roversi sembra finalmente approdare all’opera cantata sul modello di Weill: qui si tratta di raccontare la storia italiana per il tramite dell’automobile e dei suoi simboli, dall’occupazione delle fabbriche a Torino nel primo dopoguerra al mito fascista di Nuvolari, dalle Mille miglia del secondo dopoguerra al Boom economico nel segno della monocultura Fiat, fino alla esorbitanza consumistica e all’imminente disastro ecologico (e qui si vedano i testi de L’ingorgo e Il motore del 2000). Dalla dà fondo al suo estro sperimentale, mette in scena lo spettacolo ma al momento di registrarlo accetta l’imposizione della RCA, messa politicamente in allarme, che esclude ben cinque brani (fra cui I muri del ’21, Statale adriatica, Assemblaggio) e amputa l’esilarante, benché durissima e persino profetica, Intervista con l’Avvocato, solo ora pienamente reintegrata e pubblicata con le altre nel quarto cd di Nevica sulla mia mano: il disco comunque esce mutilo nel ’76 e col titolo generico di Automobili, Roversi ritira il proprio nome e si firma con quello di un arcade settecentesco, Norisso, chiudendo bruscamente il rapporto con Dalla.
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Ora, assemblando carteggi, interviste e dichiarazioni, Bagnoli documenta sia il frangente della rottura (già evidente in un libretto pubblicato da Savelli nel ’77, Il futuro dell’automobile, dell’anidride solforosa e di altre cose, con gli interventi dei diretti interessati e pagine, davvero splendide, di Giovanna Marini e di Gianni Scalia) sia il prosieguo delle rispettive traiettorie: Roversi torna al proverbiale riserbo e attende a quello che sarà il poema del passaggio d’epoca (L’Italia sepolta sotto la neve), Dalla si avvia a una definizione della propria ricerca firmando integralmente tre album (Com’è profondo il mare,’77, Lucio Dalla, ’79, Dalla, ’80), forse i suoi più belli e tutti di impronta roversiana. Rimarranno a distanza per anni, Roversi e Dalla, fino al riavvicinamento di cui dicono le cinque canzoni musicate per la rappresentazione bolognese di Enzo Re (’98) e, precedentemente, il cameo intitolato Chiedi chi erano i Beatles che lo stesso Dalla suggerisce di mettere in musica a Gaetano Curreri degli Stadio. Moriranno nel 2012 a pochi mesi l’uno dall’altro ma dopo essersi, e non formalmente, riconciliati. Il 28 gennaio del 2003, ottantesimo compleanno di Roberto Roversi, Dalla gli aveva scritto queste parole: Da Roversi ho imparato tutto quello che conoscete o quel poco che sono riuscito a far diventare canzone, testi, progetti, sogni scritti e cantati o semplicemente sognati davanti a un microfono o alla luna. […] Ora Roberto, voglio dirti anche che sono ormai trent’anni che studio e volonterosamente provo a perfezionare la più grande delle tue lezioni ma mi sembra di avere cominciato solo ieri: la Dignità.
E cioè: non la tecnica per comporre una canzone d’autore e nemmeno per scrivere una poesia ma qualcosa che entrambe le precede, qualcosa di decisamente più essenziale.
[In «il manifesto», 13 novembre 2014].
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In morte di Francesco Leonetti
Complessità e antagonismo sono le parole-chiave per intendere, fra gli anni cinquanta e settanta del secolo scorso, figure individuali o gruppi politici e intellettuali che abbiano tentato sia di comprendere sia di sottoporre a critica radicale il neocapitalismo italiano e perciò, per quanto paradossale possa sembrare, di civilizzarlo. Fra costoro, di singolarissima fisionomia e di particolare vivacità, è stata la figura di Francesco Leonetti morto a Milano in una casa di riposo dove da tempo era ricoverato. Scrittore di partiture plurali, polifoniche, e militante della sinistra comunista (le due cose per lui non erano affatto separabili), Leonetti nasce a Cosenza nel ’24 in una famiglia borghese. Suo padre è magistrato, poi attivo nei processi di epurazione nello stesso momento in cui il figlio è costretto a curare una sordità sopravvenuta per lo scoppio di una bomba mentre, da coscritto dell’esercito di Salò, scavava una trincea dalle parti di Cassino. Gli rimarrà una ripulsa fisica per il fascismo nonché una inquietudine che gli indurrà in un primo tempo problemi di comunicazione e la scelta del mestiere di bibliotecario, fra l’altro nella prestigiosa Malatestiana di Cesena. Il suo dopoguerra a Bologna è comunque fervido di riferimenti: al Caffè Zanarini, in piazza Galvani, può incon-
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trare Roberto Longhi, il grande storico dell’arte, e Galvano della Volpe, filosofo materialista, un anti-Croce il cui lascito di estetica è scritto nella Critica del gusto, mentre è fuori dalle aule dell’Università che ritrova fra il ’55 e il ’59 due compagni del liceo “Galvani”, Roberto Roversi e Pier Paolo Pasolini, con i quali fonda la rivista «Officina», alla cui redazione presto si aggiungono Gianni Scalia, Franco Fortini e un finissimo italianista quale Angelo Romanò. Il programma della rivista punta sia a un bilancio del secolo sia a un rinnovamento della letteratura corrente opponendosi da un lato al Grande Stile (l’ermetismo, cioè il tardo simbolismo italiano) dall’altro a un neorealismo troppo spesso cedevole al populismo e alla propaganda edificante. Pasolini, in Poesia in forma di rosa, così ritrae l’amico: «Ma la formica laboriosa ha il buco / dove se ne sta sola, e canta / come la cicala. Questa la / sua vita, ma è vita / sua, nera». È la nerezza medesima di un immaginario nutrito dal pensiero-poesia degli outsider meridionali (Bruno, Campanella, Bernardino Telesio) che fermenta nei versi scanditi e scoscesi, volentieri gnomici, de La cantica (Mondadori, 1959) ma anche nella prose autobiografiche di Fumo, fuoco e dispetto (Einaudi, 1956, voluto da Elio Vittorini nella collana “I Gettoni”) e nel bellissimo romanzo di formazione che chiude i conti con Bologna e si intitola Conoscenza per errore (Feltrinelli, 1961). Il nome di Vittorini corrisponde per Leonetti a una autentica svolta. Vittorini dell’inquietudine politica e dello spirito di ricerca intellettuale è forse il massimo testimone della seconda metà del secolo, in Italia, e dunque trova nel più giovane scrittore (che per lui si trasferisce a Milano, sui Navigli) tanto una sponda quanto un fervido maieuta di iniziative culturali e politiche, specie per la rivista «Gulliver», pensata in termini internazionali e plurilingui che purtroppo non vedrà mai la luce nonostante l’adesione di Günter Grass, Maurice Blanchot, Hans Magnus Enzesberger e altri di simile rango. Ma
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Milano è il luogo di giuntura fra il nativo sperimentalismo e l’adesione alla neoavanguardia di Edoardo Sanguineti e dell’amico Elio Pagliarani, è il luogo del sodalizio con lo scultore Arnaldo Pomodoro (cui dedicherà il Libro per le sculture di Arnaldo Pomodoro, Mazzotta, 1974) e di altri compagni di via (su tutti Paolo Volponi, Umberto Eco, Nanni Balestrini, Antonio Porta) con i quali fonda la rivista «Alfabeta». E Milano è anche il luogo quotidiano di un ritrovato insegnamento, Estetica alla Accademia di Brera, e di un sempre più intenso impegno politico, nei pieni anni settanta, tra i gruppi di militanti marxisti-leninisti cui Leonetti adduce la nativa irrequietezza di scrittore e l’impegno condiviso con sua moglie Eleonora Fiorani, filosofa e autrice del notevole Fiedrich Engels e il materialismo dialettico (Feltrinelli, 1971). Sono questi gli anni apicali di un autore che accede al senso comune della nuova sinistra con alcuni libri che di quella stagione sanno esprimere l’immaginario utopico e l’inventiva sbrigliata con andatura ora da apologo filosofico ora invece da racconto picaresco, L’incompleto (Garzanti, 1964), Il tappeto volante (Mondadori, 1967) e il piccolo capolavoro Irati e sereni (Feltrinelli, 1974) nel cui titolo davvero pulsa lo spirito dei tempi. Quando Einaudi decide di pubblicare l’opera omnia di Leonetti (le prime uscite sono due raccolte poetiche, Percorso logico del 1960-75 e In uno scacco, 1978) è già segnato il principio della fine per il tempo della complessità e dell’antagonismo perché intanto si sta inaugurando ciò che fu detto riflusso ma significa ripiegamento, clausura intellettuale e smaccata reazione politica. E infatti Campo di battaglia (Einaudi, 1981) rappresenta per lui quasi un testamento predatato essendo un romanzo di degenza e malattia, un presagio di difficile dolorosissima sopravvivenza. Negli anni ottanta lo scrittore si defila per un periodo di ripensamento, quasi un processo di metabolizzazione della sua lunga vicenda letteraria e politica. Il progressivo affermarsi di un Pensiero Unico che sceglie la letteratura evasiva, acriti-
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ca, nonché la produzione di genere e di intrattenimento, cui si sommano la de-politicizzazione generalizzata e l’idea che il nostro mondo sia immodificabile, ne fanno ormai un refrattario alla grande editoria. Affida i suoi versi, sempre più scarni e gnomici, si direbbe leopardianamente disperati, alla piccola editoria di qualità aristocratica, come Scheiwiller di Milano o Manni di Lecce, per esempio Palla di filo (1986) o Le scritte sconfinate (1994) cui si aggiunge la raccolta complessiva Sopra una perduta estate. Poesie scelte 1942-2001 (No reply, 2008). Il suo ultimo tempo è dedicato a un bilancio critico e autocritico, come attestano il dialogo con Paolo Volponi in Il leone e la volpe (Einaudi, 1995), il bel documentario di Marina Spada Lo scrittore a sette code (2015) ma prima ancora la tranche autobiografica La voce del corvo. Una vita (1940-2001), a cura di Veronica Piraccini (DeriveApprodi, 2001). Quest’ultimo titolo, ovviamente, si riferisce a Uccellacci e uccellini (’66), il filmapologo di Pasolini dove Leonetti non compare ma presta la sua voce al corvo socratico, soccorrevole e incalzante, che accompagna i due pìcari Totò e Ninetto Davoli lungo il viaggio iniziatico che li inoltra nelle periferie del neocapitalismo italiano. Si è detto che, nella sua implacabilità, il corvo farebbe pensare a Franco Fortini ma quando si presenta a Totò, prima di essere spennato e sacrificato ritualmente, è proprio a Francesco Leonetti che viene da pensare: Io vengo da lontano… il mio paese si chiama ideologia… vivo nella capitale città del futuro… in via Carlo Marx 70 volte 7… Con tutta la sua furia inventiva, con il perpetuo dibattito sulla propria posizione e sui destini generali, Leonetti non era affatto un dottrinario: per lui “ideologia” non era falsa coscienza ma, come voleva il suo grande amico, era piuttosto un corrispettivo della “passione”, la passione di essere al mondo per testimoniarlo e insieme trasformarlo. [In «il manifesto», 19 dicembre 2017].
Compagni di via
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Fra Adorno e Benjamin
Più invocata o teorizzata che non effettivamente realizzata, la saggistica è un genere minoritario nel Novecento italiano. Volentieri scambiata con la scienza della letteratura ovvero con una libera variazione sul tema, essa non consiste nella pura filologia né, tanto meno, nella prosa d’arte. Al contrario, affermava Lukács un secolo fa nel testo fondativo L’anima e le forme, la saggistica è comprensione profonda e meditata di una forma o meglio è una “sapienza” scaturita dal “sapere” che viene interrogando con perizia e accanimento, ma si direbbe tuttavia in caduta libera, quella forma medesima. Vale a dire che è il risultato imprevedibile di una tensione o, meglio, della dialettica tra la libertà di un soggetto e i vincoli di un oggetto determinato (un’opera d’arte, un pensiero al lavoro). Che a sua volta la saggistica testimoni il carattere integrale di un’esperienza è quanto viene in mente davanti al volume che raccoglie finalmente le pagine disperse di Renato Solmi, Auto biografia documentaria. Scritti 1950-2004 (Quodlibet), nella cui vicenda sono transitati i temi e i massimi nomi del pensiero critico e della sinistra intellettuale. Nella ambivalenza del titolo si contiene già il segnale di un percorso complesso, anzi l’attitudine anfibia che è tipica di ogni vocazione saggistica:
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da un lato il confronto diretto con i testi della tradizione (per chi non lo sapesse, Solmi è stato fra l’altro il primo traduttore italiano di Adorno – Minima moralia, Einaudi, 1955 – e di Walter Benjamin – Angelus novus, Einaudi, 1962), dall’altro, una meditazione o meglio una collocazione degli stessi en situation, in modo da connetterli all’ambiente che li recepisce e da legarli volta a volta al frangente politico-intellettuale della cultura d’arrivo. Basterebbe, ad esempio, citare il passaggio dove Solmi, nella introduzione ai Minima moralia, evoca l’ambiguità del cosmopolitismo proprio nel momento in cui la società italiana sta entrando nella fase della modernizzazione neocapitalista e perciò si illude di poter rimuovere di colpo, esorcizzandolo, il suo retaggio provinciale: Occorre diffidare del viaggio, quando non è una necessità o una forma di vita. Dettato dalla curiosità, è l’espressione tipica della irresponsabilità umanistica. […] Come i grandi filosofi, da Spinoza a Kant, da Vico a Croce, sono sempre stati – secondo una definizione di Cecil Sprigge – filosofi residenti, così la percezione dell’essenza esclude la sovranità del viaggiatore. Che è sempre tentato di rifugiarsi nella formalità dell’io, e di congiungersi con l’uomo e con la natura umana al di sopra delle lotte e delle sofferenze degli uomini reali. La sua compassione, tutta impersonale e disinteressata, non potrebbe giungere fino alle estreme conseguenze.
C’è qui dissimulata la radice da cui muove tutta la saggistica di Solmi: lo sdegno per la sofferenza o crudele parzialità in cui è costretta a dimorare l’esistenza degli esseri umani per costrizione di natura e/o di classe (la «vita offesa», suonava il celebre sottotitolo di Adorno), così come la necessità di non distogliere mai lo sguardo e cioè di aderire a quella stessa sofferenza pensandola radicalmente, come fosse una volta per sempre. L’idea della lontananza, la libertà che la forma-saggio può evocare nelle sue impervie escursioni, non avrebbero senso né legittimazione senza l’hic et nunc di tale punto fermo. E si potrebbe
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qui anche dire che “residenza”, con quanto di introverso e di ossessivo può richiamare la parola, significa semplicemente la ricerca di una propria verità. Lo conferma lo stile di Solmi che per mezzo secolo ha mantenuto infatti una fisionomia costante e ben riconoscibile: ampio e magnanimo nella costruzione dei periodi (fitti di subordinate e di incisi disposti in simmetria) come di chi è abituato a ragionare e a soppesare ogni argomento, ma secco e tagliente sia negli incipit sia nelle clausole, come di chi avverte sempre l’impellenza d’essere esplicito e il dovere della chiarezza. Insomma uno stile segnato dalla necessità di scrivere tutto «ciò che sappiamo e ci sforziamo invano di dimenticare», come gli capita di ammettere in un passaggio cruciale. Paradosso dei grandi intellettuali residenziali, tanto ricca e dislocata è la costellazione di Solmi quanto singolare è il decorso biografico che dal lavoro nella redazione di Einaudi (’51-’63) lo porta poi ad insegnare per trent’anni filosofia e storia nei licei di Torino e di Aosta. (Da Einaudi, dopo un lungo e tormentato rapporto, viene estromesso insieme con Raniero Panzieri per aver patrocinato il libro di Goffredo Fofi L’immigrazione meridionale a Torino, inviso alla Fiat e agli ambienti confindustriali). L’indice di Autobiografia documentaria ne rispetta la cronologia. Le prime tre parti sono dedicate agli anni dell’apprendistato in cui convivono gli interessi del filologo classico (sorprendenti, per un ventenne, le pagine di recensione ad opere di Jaeger, Snell, Cassirer, Ernesto De Martino), l’iniziazione al marxismo antidogmatico sulla rivista «Discussioni» (dove, amici di tutta la vita, scrivono con lui Luciano Amodio e Delfino Insolera) e il precoce confronto con la letteratura europea, in cui spicca, già acutissimo, il saggio su Il disgelo di Il’ja Erenburg uscito nel ’55 su «Nuovi Argomenti». La sezione centrale del volume riguarda invece l’attività del germanista e contiene le pagine su Adorno, Benjamin, Marcuse, in dialogo costante con Cesare Cases e, più indirettamente, con Franco Fortini. Forse meno noti ma non meno rilevanti
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gli scritti delle due sezioni successive: da una parte, i testi derivati dalla personale esperienza scolastica che costituiscono nell’insieme un lucido e persino spietato diagramma del ’68, nel combinarsi di pratiche innovative e promesse inadempiute; dall’altro, gli scritti raccolti sotto il titolo La nuova sinistra americana, la guerra del Vietnam e lo sviluppo dei movimenti pacifisti che testimoniano contatti di primissima mano (Günther Anders, Chomsky, il neomarxismo di Baran e Swezee) e una nuova collaborazione con Einaudi, grazie alla straordinaria “collana viola” di Luca Baranelli inaugurata proprio nel 1968 da La contestazione cinese di Edoarda Masi, due altri suoi interlocutori di lungo periodo. Chiudono il volume le pagine di memoria e ricordo dove tornano a pulsare tutte quante le luci della costellazione, da Raniero Panzieri, «un filo che veniva da molto lontano», agli amici di «Discussioni», da Sergio Caprioglio (collega da Einaudi, pioniere della filologia gramsciana) a Luciano Amodio suo iniziatore alla lettura di Hegel, dal padre Sergio al maestro di sempre, Theodor Wiesengrund Adorno, cui Renato Solmi ha voluto dedicare le parole che suggellano Autobiografia documentaria. Non si tratta di un congedo ma, ancora una volta, dell’invito da parte del saggista a risiedere laddove più dura ma anche più fervida si manifesta la verità del mondo: Non resta che partecipare, nei limiti delle possibilità, in uno spirito di solidarietà appassionata e di comprensione attiva, al movimento, o ai movimenti, che si vengono sviluppando un po’ dovunque e, come è noto, anche nel nostro paese, e che prefigurano l’avvento di una nuova Internazionale pacifista e nonviolenta, aliena da ogni forma di costrizione, ma non meno saldamente coesa e compatta di quelle che l’avevano preceduta.
[In «Alias», suppl. de «il manifesto», 12 gennaio 2008].
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Bianca la rossa
Dà un piacere sottile che in realtà trasmette una specie di conforto etico e politico leggere Bianca la rossa (Einaudi), l’autobiografia che sulla soglia dei suoi novant’anni Bianca Guidetti Serra ha scritto con la collaborazione di Santina Mobiglia. Due fatti colpiscono immediatamente il lettore: l’assenza di enfasi e di sovraesposizione narcisistica in un genere che invece tende, per statuto, al monumentale; l’attenzione costante, nel ricomporre il mosaico di una singola esistenza, a quello che via via si scopre esserne il tratto elettivo, e cioè l’attenzione alla legge come vincolo comunitario e nello stesso tempo come spazio di frontiera della democrazia: per cui la legge non è un dato semplicemente tecnico-procedurale ma è sempre il risultato di una molto più vasta e complessa vicenda storico-sociale. (Quanto a ciò, della ricca bibliografia di Guidetti Serra, avvocato penalista dal 1947 al 2001, vanno ricordati almeno due titoli che acquistano in retrospettiva il valore di palinsesti e di base documentaria per l’attuale autobiografia: i saggi e le note di diario raccolti in Storie di giustizia, ingiustizia e galera (19441992) per le edizioni di Linea d’ombra nel ’94 e soprattutto i due volumi di Compagne. Testimonianze di partecipazione politica al femminile, che uscirono nella collana degli “Struzzi” Einaudi nel ’77, mai più riproposti nonostante si trattasse di
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un’impresa unica nell’ambito della cosiddetta storia orale). Ordinato per cronologia, Bianca la rossa si scandisce in tre momenti. Il primo arriva al ’56, l’anno in cui Guidetti Serra, dopo la repressione dei moti ungheresi, sceglie di non rinnovare la tessera del Pci e dunque di abbandonare la militanza di partito: ha alle spalle una couche borghese, sia pure di modeste risorse economiche, l’incontro negli anni di liceo con il futuro marito Alberto Salmoni, gli intellettuali ebrei e i militanti di Giustizia e Libertà (Emanuele Artom, Primo Levi, Franco Momigliano, Luciana Nissim), l’attività cospirativa nella Resistenza e, nel dopoguerra, l’esordio nell’avvocatura dove già si manifestano i suoi specifici interessi: il diritto di famiglia, la condizione delle donne, il mondo del lavoro, i problemi dell’infanzia abbandonata, l’attuazione piena dei diritti costituzionali. È ciò che prende corpo nella seconda parte del volume, quando Bianca ritrova per così dire dall’interno, nello specifico della sua professione, le mozioni di natura etica e politica che da sempre ne caratterizzano il profilo. Peraltro è una donna che vive tutte le irrequietezze e i dubbi di chi tale si ritrovi all’interno di una corporazione maschile e nello stesso tempo è una intellettuale rimasta nel campo socialista senza legami esterni, perché sciolta dal giuramento di partito, e vicina, semmai, a gruppi di ricercatori e di liberi democratici (come nel caso del Centro Piero Gobetti, animato negli anni sessanta a Torino dal mite eroismo della leggendaria Ada). I processi cui partecipa da avvocato difensore o legale di parte civile delineano una tranche molto singolare della nostra storia recente: fra gli altri, il patrocinio di Adriano Rovoletto nel processo alla banda di Pietro Cavallero e Sante Notarnicola (’67); quello concernente, nel 1971, le annose schedature e le discriminazioni, all’interno della Fiat, di attivisti e simpatizzanti della sinistra; quello, di particolare delicatezza, celebrato a Torino nella caserma di via Lamarmora, per gli accusati di terrorismo e di affiliazione alle Br; o l’altro, più recente, che
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ha visto imputata la Eternit per un numero ingente di invalidi e di morti sul lavoro. Vi si delinea nel complesso una scelta di campo che significa, tra le parti in conflitto, stare sempre nella zona d’ombra, quella di chi viene leso, ammutolito, o reso inconsapevole (come a lungo nel caso delle donne e dei minori) dei suoi stessi diritti. E senza che tutto questo avalli l’ambigua metafisica, deprivata di caratteri storici e in sostanza populista, della subalternità e dell’emarginazione. Nel suo racconto Bianca non usa invano la parola “giustizia” proprio perché ne conosce la parzialità costitutiva, vale a dire la storicità del diritto: ad esso tuttavia si attiene nello stesso momento in cui, vagliando l’origine e la destinazione della norma, ne appronta una lettura critica, mai semplicemente ricettiva né, tanto meno, sommariamente demagogica. Il suo stile orale, come per iscritto, non ha nulla della tradizione forense: chiaro nell’esposizione, preciso nei riferimenti testuali, va indenne sia dal vecchio latinorum sia dai nuovi gerghi tecnocratici. E osserva, al riguardo: «Ho sempre cercato di attenermi a un’argomentazione razionale e basata sui fatti, puntando a un discorso sobrio e puntuale, teso a convincere più che a suscitare emozione»; nemmeno è un caso che licenziando l’autobiografia si senta in dovere di opporre frontalmente, alla stregua di una divisa etica, il vaniloquio del dire alla concretezza del fare: Mi è piaciuto il fare, e ho fatto quel che ho potuto, cercando sempre di essere me stessa. Nel mio operare ho anteposto i fatti concreti ai discorsi, la moralità delle persone alle idee. Non voglio dire che le idee e le parole non contino, ma sono più volatili, possono essere piegate a fini diversi. Nel mestiere e nella militanza ho cercato di far valere, contro la legge del più forte, i diritti dei più deboli. Non mi sono mai sentita antagonista per principio; quando mi sono battuta contro qualcuno, era per difendere qualcun altro.
Il bilancio che occupa la terza parte di Bianca la rossa trasmette l’ulteriore patrimonio d’esperienza di una donna che soltanto
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nella piena maturità è tornata alla politica attiva nel Consiglio comunale di Torino e nei banchi del Parlamento, eletta come indipendente prima di Democrazia proletaria poi del Pds. Il progressivo venir meno di ogni prospettiva politica, il sopraggiungere di un tempo in ogni senso calamitoso, non hanno impedito il suo operare nei settori che le sono intrinseci (ancora una volta il diritto del lavoro, la condizione delle donne, il problema dei minori) ma ne hanno viceversa delineato un inedito orizzonte, fra l’emersione di nuovi ambiti giuridici e vincoli sociali, non meno ferrei, di ritorno. Una antica passione civile e la fedeltà alla professione oggi non nascondono comunque il disincanto di Bianca. In esso non vi è nulla di retroverso o di nostalgico ma vi si nota la necessità di stringersi all’essenziale. A un poeta che probabilmente Bianca amerebbe capitò di scrivere che «tutto sommato / quello che conta è poco»: gli affetti di una vita, capaci di riuscire indenni a qualsiasi stato di turbolenza; le idee che non sono astratte idee ma forme in cui l’esistere, nei suoi medesimi conflitti, possa trovare un equilibrio e un senso; le parole scritte, quando non siano dettate dall’inerzia o dalla vanità; infine l’amicizia, che sul serio è un dono degli dei, dove «si può essere tranquillamente poligami, perché ogni amico o amica ha la sua speciale singolarità in cui troviamo una corrispondenza con i nostri molteplici bisogni e interessi». (E qui basti leggere, nel segno di una ferma elegia, il capitolo intitolato L’ultima passeggiata con Primo Levi). Di tutto questo dà testimonianza piena Bianca la rossa, con una limpidezza ed uno spirito di laicità che è lecito invidiarle. Dunque buon compleanno, di cuore.
[In «Alias», suppl. de «il manifesto», 27 giugno 2009].
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Balestrini in prosa
Ci fu un momento in cui lettori sospettosi e prevenuti nei confronti della neoavanguardia, quali il sottoscritto, in quanto partecipi del senso comune che la traduceva ispso facto nella letteratura della modernizzazione organica al neocapitalismo, colsero nel volume che raccoglieva i primi vent’anni del lavoro poetico di Nanni Balestrini (Poesie pratiche. 1954-1969, Einaudi, 1976) una conferma apparentemente definitiva del loro pregiudizio. Quel libro, pensavano, era la più conseguente applicazione di una poetica, un esercizio supremamente manieristico che convocava a freddo sulla pagina stralci della lingua corrente, spezzoni dei gerghi culturali o della nascente glossolalia mediatica per sterilizzarli e sottoporli a un duplice gesto di rigetto, cioè spezzandoli tramite il cut up e isolandoli per straniamento. Che poi Balestrini, primo in Italia, avesse utilizzato i calcolatori elettronici per i suoi montaggi stranianti, questo aveva per alcuni il valore di una riprova, come si trattasse di un esercizio che esonerando l’autore dalla sua diretta responsabilità creatrice affidasse all’automatismo della macchina il compito di una applicazione astratta e reiterabile a oltranza, di chi ha deciso di dimostrare sempre e comunque che vivere/esprimere/comunicare, qui e ora, corrisponde al
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trionfo o anzi all’apologia dell’inautentico. La sua modalità era tanto conseguente, duramente dedotta dalle proprie premesse taciute ma per così dire auto-evidenti, che a qualcuno veniva paradossalmente di rispondere «sapevàmcelo» e di chiudere il libro (cioè di liquidare tutto quanto il primo tempo di Balestrini) come fosse in presenza di una dichiarazione di poetica tanto più prolungata quanto più impedita ad uscire dal proprio automatismo: che alcuni compagni di via e di rango eccezionale, da Edoardo Sanguineti a Fausto Curi, gli avessero già dedicato pagine penetranti, per ulteriore paradosso poteva semmai alzare la posta e acuire il sospetto. Tuttavia, alla metà degli anni settanta, nel silenzio poetico che all’intorno dilagava (e che taluni avrebbero a lungo messo in conto al Gruppo 63 e innanzitutto a Balestrini), non meno di altri due suoi libri avrebbero permesso oramai di coglierne il percorso e valutare retrospettivamente sia il contesto sia il senso del suo lavoro: nel ’71 era infatti uscito da Feltrinelli Vogliamo tutto, partitura in prosa per una voce sola, scaturita dal basso della condizione operaia più anonima e di massa, un diagramma dell’antagonismo allo stadio primordiale; poi, all’inizio del ’76, nientemeno nei “Coralli” di Einaudi con una fiammante copertina a firma di Pablo Echaurren, quasi una suite di rosso rivoluzionario, era comparso La violenza illustrata, cioè il libro baricentrico del poeta milanese, nella cui sintassi (materiali giornalistici deietti, storie atroci della quotidianità, faits divers) la tecnica del taglio e del montaggio rivelava finalmente il suo spessore tridimensionale e dunque una valenza, a tutte lettere, politica: era chiaro che la poesia di Balestrini non rilanciava i sabotaggi più o meno ilari di un epigono dadaista, non perseguiva la messa in pagina dei precetti ammodernati della linguistica e delle cosiddette scienze umane, ma al contrario era critica in atto, una critica radicale del presente. O, meglio ancora, essa si configurava come una compiuta stilizzazione della parola al tempo del neocapitalismo, una parola
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elettiva e insieme costrittiva, alta e bassa nello stesso tempo, cioè di tutti e di nessuno: “autentica” solo in quanto pronunciata o agita, denudata senza infingimenti, dentro l’universo della totale inautenticità, la più ovvia e normale nel mondo che ci è dato qui-e-ora. La violenza illustrata non solo sfatò il pregiudizio ma permise a chiunque di riunire in un unico sguardo quanto precedeva a ciò che sarebbe seguito nella bibliografia del poeta, due metà opposte e complementari che oggi stanno tra di loro come il recto sta al verso o come l’esplicito può stare all’implicito. Una polarità che lo stesso Balestrini avrebbe resa ufficiale nel prosieguo, distinguendo la produzione in versi (la quale culmina in Le avventure complete della signorina Richmond, 1999, e si suggella nel recente Caosmogonia, Mondadori, 2010) dalla produzione in prosa che, a partire dal palinsesto di Tristano (allora ritenuto, nel ’66, un oggetto scritto di impervia decifrazione o persino di gratuita conformazione), culmina nella trilogia composta da Gli invisibili (’87), L’editore (’89) e I furiosi (’94), non una sequenza di romanzi ma una polifonia dedotta dai bassi dell’anonimato, un continuum che sgorga direttamente dalla zona infera della nostra società, «lasse narrative, a brevi capitoletti o paragrafi, un’andatura strofica che arieggia la specifica forma epica della medievale canzone di gesta»(come scrisse l’indimenticabile Mario Spinella, il cui rilievo è citato nel bel saggio balestriniano di Antonio Tricomi in La Repubblica delle Lettere, Quodlibet, 2010). A simile modalità, e alla maniera di un prosieguo, si riferiscono Liberamilano seguito da Una mattina ci siam svegliati (postfazione di Antonio Loreto, DeriveApprodi), l’uno dedicato alla vittoria elettorale di Giuliano Pisapia e perciò alla cacciata delle destre dal Comune di Milano, l’altro, una ristampa, incentrato sulla grande manifestazione ideata da «il manifesto» che si svolse nella stessa Milano il 25 aprile del ’94 all’indomani della prima vittoria elettorale delle destre. In entrambi i casi Balestrini utilizza il registrato di Radio Popolare e lo scandisce
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per blocchi seriali. Qui i gesti del taglio e del montaggio sono portati dall’autore nella piena condivisione dell’anonimato, perché l’autore esiste solo in quanto riordina e si mette nella condizione dell’ascoltatore. Il flusso, lo stormire delle voci, è il medesimo così come la fonte di emissione, ma molto differenti o antipodi risultano il contesto e l’orizzonte d’attesa: le voci di quel lontano 25 aprile sono ancora le voci del popolo diffuso, di una sinistra già logorata ma non ancora estinta (persone comuni, ex partigiani, militanti di base), quelle che Radio Popolare trasmette viceversa il 30 maggio del 2011 dal palco in Piazza Duomo sono voci in molti casi trascritte da un computer (messaggi di ragazzi già fuggiti all’estero, chiusi in casa o quelque part) oppure sono voci troppo risonanti, con un nome e un cognome risaputo (cioè gente di spettacolo, cantanti, satirici, scrittori di best seller, insomma tutto il notabilato di sinistra la cui parte in commedia nel ventennio azzurro, lo si voglia o no, è stata quella dell’opposizione di sua maestà). Quanto a ciò, l’accostamento di Liberamilano a Una mattina ci siam svegliati appare sintomatico mentre il tempo che intercorre fra l’uno e l’altro testo equivale a un passaggio di fase rovinoso, mortifero. Ha scritto di recente Nanni Balestrini, in uno dei passi più esatti di Caosmogonia: «[…] sempre più in fretta / ispira col naso / batte sempre uguale / ritrovarsi ridotti / qui ancora a dire fare/ per arrivare a/ adesso non respirare / sani e salvi e non sapere/ più chi siamo né //[…]». Questa è una conclusione tremenda ma forse è l’unica possibile, stando così le cose, per chi ha sempre creduto, con il maestro Lautréamont, che davvero la poesia dev’essere fatta da tutti e non da uno solo.
[In «il manifesto», 7 luglio 2012].
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La critica di Guido Guglielmi
Non è mai stato un critico militante, perché non ha mai scritto una recensione in vita sua, ma è stato un critico tout court, un saggista nella piena accezione e fra i più nitidi e penetranti, formatosi negli anni cinquanta alla scuola bolognese di Luciano Anceschi dunque attivo nell’età dell’oro della nostra critica: intermedio in una culla probabilmente senza eguali, tra il fratello maggiore Giuseppe (che fu il poeta di Panglosse, la voce italiana di Céline) e Angelo (che recensioni continua a scriverne tuttora), di Guido Guglielmi, mancato a settantadue anni nel 2002, esce ora un volume di saggi dispersi, Critica del nonostante. Perché è ancora necessaria la critica letteraria (Pendragon) nella precisa cura di uno dei suoi ultimi allievi, Valerio Cuccaroni, e con una nota partecipe di Niva Lorenzini. Va qui subito ricordato che Guglielmi, vero e proprio outsider del Gruppo 63, studioso di Palazzeschi e Ungaretti (da ultimo firmatario di un fiammante libro su Leopardi, L’infinito terreno, Manni, 2000), è visibile in retrospettiva tra coloro che gli furono vicini di stanza nell’Alma Mater, già negli anni settanta, i quali corrispondono fra gli altri ai nomi di Mario Lavagetto, Piero Camporesi e naturalmente Fausto Curi, il maggiore teorico della neoavanguardia. In quel fervido contesto, Gugliel-
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mi spiccava per la sua aria lunare e perpetuamente distratta, col sigaro che nessuno gli ha mai visto acceso, il volto adusto e scavato, un ciuffo nero e sbandato che poteva assimilarlo a un Andy Warhol più olivastro e meridionale. Chi ha avuto la fortuna di essergli allievo o di averlo almeno ascoltato a lezione o nelle conferenze (a Guglielmi non interessava poi molto la sede del suo dire che poi si rivelava un critico filosofare, fosse un’aula dell’Università, il portico di via Zamboni o un tavolo al Caffè Zanarini, dove fino all’ultimo si illudeva di potersi isolare con un libro e il minuscolo quaderno di appunti), chi insomma l’ha incontrato di persona sa che il suo stile orale era non il succedaneo ma la prosecuzione, ovvero una calcolata diversione, delle sue pagine scritte. Il cui passo era cadenzato e mai gravato dagli oneri a piè di pagina preventivamente metabolizzati, un passo cioè ritmato sulla disamina analitica (Guglielmi guardava alla Weltliteratur mentre le sue stelle fisse erano Lukács e Adorno) che puntualmente culminava in memorabili aforismi critici. Non era affatto uno storicista ma deduceva i testi dalla storia e a partire dalla distinzione capitale fra Antico e Moderno, l’uno riferibile alla immobilità di un mondo organico e chiuso, l’altro viceversa ascrivibile a un universo in vorticosa dinamica, aperto al futuro e perciò, nella sua prospettiva di illuminista-marxista, vocato sia alla trasformazione dei rapporti sociali sia alla liberazione degli esseri umani. Soleva ripetere infatti che gli idealismi (vale a dire le idealizzazioni dello stato di cose presenti) fioriscono sulla pelle degli uomini assoggettati. Per questo, agli occhi di Guglielmi, la critica come atto riflessivo e valutativo, come virtuale apertura alla alterità di spazio e tempo, è il crisma stesso del Moderno e per questo il cosiddetto Postmoderno ne è invece la conseguente o addirittura necessaria negazione in quanto riduce la temporalità alla spazialità leggendo il mondo nei termini di una immobile tautologia.
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Per il volume dei suoi saggi postumi (redatti fra il ’97 e il 2002, in tutto sette e divisi in due sezioni, l’una teorica, l’una propriamente analitica) è stato scelto non a caso il titolo, che viene da Lukács, di Critica del nonostante laddove il «nonostante» segnala al presente l’impasse di cui tratta il saggio inaugurale, quasi un testamento teorico: «Credo che la crisi della critica sia strettamente collegata alla crisi della letteratura: se c’è letteratura c’è critica; se non c’è letteratura la critica muore. Non è pensabile una letteratura che non sia nutrita di ragioni, quindi di ragioni critiche». Ciò significa per lui che è l’autore a doversi inventare un lettore (a esigerne uno che non c’è o è soltanto ancora potenziale) nello stesso momento in cui il lettore/critico che ne discorre è costretto a sua volta a inventarsi un pubblico ancora inesistente. O in termini più semplici: se chi scrive arriva ispo facto al pubblico in assenza di una mediazione critica, ciò vuol dire che chi scrive il suo pubblico l’ha già incorporato tale e quale, così come lo ha trovato, e perciò sta facendo della letteratura di intrattenimento. Cos’altro è il Postmoderno, si chiede Guglielmi, se non la riduzione dell’autore a consumatore, finalmente perequato al proprio pubblico, o viceversa? Che cos’è tutto questo se non l’apoteosi di un Mercato che assurge a esclusiva autorità culturale? (Le figure che nella seconda parte del volume sono oggetto di analisi vanno nella direzione opposta perché leggibili, di volta in volta, nei palinsesti di una modernità radicale e implacabile: Svevo, Joyce, Volponi e Samuel Beckett dei cui esordi in prosa di romanzo Guglielmi fornisce una lettura magistrale nel saggio L’antiparola della “Trilogia”). Ma c’è dell’altro. Se è vero infatti che letteratura e critica prosperano o decadono in endiadi, come nella dinamica dei neuroni a specchio o comunque sulla base di una intersezione, ciò succede sempre a causa della componente autoriflessiva di cui esse sono portatrici o meno. Guglielmi, che non è affatto un dottrinario, nel saggio intitolato La “critica della critica” ne individua il sintomo vistoso nel venire meno progressivamente
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di ogni “teoria della letteratura” (ma si potrebbe dire più semplicemente dell’abolizione di ogni componente intellettuale) cui è subentrata, e non si sa se più irenica o dimissionaria, la nozione di “senso comune”. E riguardo al volume di Antoine Compagnon che se ne fece battistrada in Italia (Il demone della teoria, Einaudi, 2000, allora molto apprezzato per esempio da Alfonso Berardinelli) scrive Guglielmi: Le teorie hanno indubbiamente dei limiti. […] Ma i limiti di una teoria si scorgono a partire da un’altra teoria. E non si possono invece far proprie esigenze che riportano al di qua della teoria, perché al di qua della teoria si trovano solo altre teorie degradate. […] La critica per altro è interessata alla forza conoscitiva delle opere. E per questo non può fare a meno di criteri di valore.
Lo stesso è detto, per altra via, a proposito della vessata questione del Canone e del celebratissimo, così come reazionario, Canone occidentale (Bompiani, 1996) di Harold Bloom; ancora una volta alla nostalgia di un mondo senza più storia o per sempre fuori dalla storia, il saggista bolognese oppone l’esigenza permanente della non-conciliazione, una tensione che attraversi l’esistente, che richiami il passato solo in vista di un altrove, di un futuro: I moderni hanno appreso a pensarsi storicamente. Per noi i canoni sono storici. E non possiamo percepire un testo fuori del suo rapporto temporale con il prima e con il poi. Diciamo moderno un canone in divenire, dinamico e non statico, diacronico e non sincronico. […] Esso diventa l’allegoria di un’altra possibilità di mondo, che guarda al futuro volgendosi al passato.
È per questo che, a voce e per iscritto, Guido Guglielmi ripeteva sempre che non possiamo mai esonerarci dalla critica e dall’obbligo di ripensare i fondamenti del nostro sapere. [In «Alias», suppl. de «il manifesto», 8 maggio 2016].
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Tutto Toti
Uno dei più impervi fra i romanzi italiani del dopoguerra, pubblicato da Feltrinelli nel ’77 con un titolo che non avrebbe potuto essere più esatto, Il padrone assoluto, si presentava al lettore invertendo la impaginazione e mostrando, dentro una compattezza tipografica così massiccia da lasciare lì per lì sgomenti, un perpetuo sabotaggio della forma convenuta e cioè un continuum di invenzioni lessicali, deviazioni dalla norma morfologica e sintattica, neologismi e neoformazioni, grafemi cabalistici, apporti plurilinguistici o, per meglio dire, mistilinguistici. Quel titolo aveva, con ogni evidenza, un duplice senso perché da un lato rinviava alla forza primigenia del linguaggio (una potenza dominatrice e insieme liberatrice) ma dall’altro preannunciava il proprio culmine nello stato di ammutolimento e dunque nella morte del soggetto. Quasi che per essere parlati dal linguaggio si dovesse smettere di parlare o, all’inverso, quasi che per farsene tramite si dovesse sparire o almeno occultarsi come persona fisica e portatrice di una biografia, di una poetica, di una ideologia. Il firmatario di quell’incredibile romanzo e di una bibliografia che non sarà probabilmente mai ultimata (tanto è fitta di partiture diverse, disseminate, centrifughe), colui che fu detto uno scrittore di tutte le scritture, è uno dei più originali poeti del nostro Novecento, Gianni Toti
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(Roma 1924-2007), la cui traccia scritta e visiva è da pochi mesi contenuta in un volume-catalogo di grande splendore tipografico, ricco di apporti antologici e contributi saggistici come di immagini e apparati, Gianni Toti o della poetronica (Edizioni ETS-La Casa Totiana) a cura di due studiose che gli furono vicine negli ultimi anni, Sandra Lischi (saggista, docente di arti elettroniche all’Università di Pisa) e Silvia Moretti (già allieva della Scuola Normale Superiore e firmataria di diverse ricerche totiane). Anche il titolo del catalogo è da spiegare perché va detto che la “poetronica”, uno dei suoi mille hapax, in quanto poesia realizzata con strumenti elettronici è il punto d’arrivo di un percorso alla cui origine c’è soltanto la parola come atto di fonazione e perciò di nuda espressione dell’umano. Per Toti l’atto di parola si divarica, nella sua apparente unità, come il recto e il verso del foglio in cui essa viene scritta, ma lo stesso si potrebbe dire del segno affidato allo schermo cinematografico o, da ultimo, a quello di un computer, laddove in superficie affiora l’automatismo della “comunicazione” (un termine che infatti Toti detestava), il gesto logorato dall’uso e asservito all’ordine esistente, mentre nel profondo si cela, imprevisto e spiazzante, un potere di mutazione e persino di mobilitazione percettiva che, alla lettera, si chiama “poesia”. Per Toti, che aveva letto Il Capitale in edizione di fortuna e negli anni della Resistenza romana, per lui marxista che sempre ripeteva il detto marxiano Ich bin kein Marxist, la “comunicazione” favoriva il valore di scambio delle parole, ridotte a vuoti a perdere, mentre solo la poesia ne poteva riscattare il significato traducendolo in valore d’uso. E infatti, in vita sua, Toti altro non ha cercato né voluto se non la poesia, nell’accezione più semplice e umana di un “fare” che estraesse parole e segni da una incognita profondità e tuttavia li mandasse per il mondo affidandoli all’esperienza degli altri. Perciò si percepiva signore assoluto di un linguaggio nello stesso momento in cui se ne sentiva totalmente vincolato. Perciò la realtà era
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per lui un insieme di segni immanenti da decifrare e riscattare, una specie di cosmo spinoziano dove il centro è ovunque e i confini da nessuna parte, dove il soggetto è una casella vuota e però mobile, imprendibile. Ha ricoperto la sua vita di parole scritte, di immagini filmate e infine computerizzate, ma il tocco di Toti, cioè lo scatto della sua inversione/riconversione percettiva o se si vuole della sua vocazione mitopoietica, è deducibile all’impronta. Per esempio dalla sua immensa produzione di giornalista e di inviato («l’Unità», «Lavoro», «Vie Nuove») che è inclusa in una scelta antologica, Planetario. Scritti giornalistici 1951-1969 (a cura di Massimiliano Borrelli e Francesco Muzzioli, Ediesse, 2009) e già compiuta con la pubblicazione di un libretto, Il tempo libero (1961), dove batteva in breccia il sapere degli analisti accademici paventando l’integrazione neocapitalista, vale a dire la colonizzazione pubblicitaria dei subalterni, ma prefigurando un tempo finalmente “liberato”, consapevolmente agito, dal tempo libero medesimo. (Era, questo, il suo personalissimo modo di intendere l’avanguardia e la massima di Lautréamont secondo cui la poesia dev’essere fatta da tutti e non da uno solo). E si pensi al suo cinema di poesia, differente ma non estraneo all’accezione che ne dava l’amico Pier Paolo Pasolini, nell’unico lungometraggio che la dittatura del mercato gli concesse, E di Shaul e dei sicari sulle vie da Damasco (1973), rimasto leggendario nella memoria dei cultori per l’inventiva e la sintassi, un film su san Paolo e i rivoluzionari zeloti ma nello stesso tempo un film sul nostro essere qui-e-ora, nell’epoca del tardo capitalismo, deprivati di parola e destino, ignari del fatto che la lingua del potere è la morte nella sua compiutezza, sordi al messaggio di chi nella resurrezione presagisce una liberazione degli esseri umani, nel corpo e nella parola. Si pensi infine, e ovviamente, alla pratica della poesia tout court, tanto quella scritta su carta (da Che c’è di nuovo, ’62, L’uomo scritto, ’65, e La coscienza infelice, ’66 ai più recenti Postreme cosmogonie del desertron, ’90, e I pe-
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nultimi madrigali, ’04) quanto quella sviluppata in video e al computer, la sua “poetronica”, dal pionieristico Per una video poesia (’80) a Planetopolis (’94), da La trilogia majakovskiana (’83-84) al terminale, pressoché testamentario, La morte del trionfo della fine (’03). Nel volume-catalogo (fra gli altri studiosi e testimoni vi compaiono Mario Lunetta, Tarcisio Tarquini, Italo Moscati, Anna Barenghi, Michel Chion, Marco M. Gazzano), la curatrice Sandra Lischi così presenta uno scrittore che sarebbe deminutorio definire poligrafo: Il suo universo era una casa con mille stanze, stanze dai muri cangianti, fluidi, aperti, fitti di immagini come le sue costruzioni video; non c’era modo di tenerlo fermo nella gabbia di un sapere, nei limiti di una scrittura, nella cornice di un dipinto o di un fotogramma.
Chiunque abbia avuto la fortuna di incontrare Gianni Toti sa che quella casa tutta quanta scritta e dipinta, satura di libri e di immagini, di foto e di affiches, è davvero esistita ed era la sua casa in via dei Giornalisti a Monte Mario, dove visse per decenni con la pittrice Marinka Dallos e poi con la seconda moglie Pia Abelli: dal 2009 la Casa Totiana è ricostruita nella sua integrità in via Ofanto 9 a Roma. Non si tratta di un semplice archivio né di un complesso museale ma, totianamente, di un centro propulsivo come dimostra un dvd, La casa totiana. Il paese delle cartaviglie, prodotto in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia, che contiene oltre al materiale documentario e a un bel ritratto in video della stessa Sandra Lischi (Planetoti notes, ’97), cortometraggi di omaggio e di ispirazione totiana (Tre prototipi, ’09) girati da alcuni allievi di un grande cineasta, Daniele Segre. D’altronde a chi gli aveva chiesto una decina d’anni fa cosa fosse davvero la poesia, Gianni Toti rispose con una semplicità molto prossima al candore: «Succede con la poesia che tutti ne parlano ma nessuno sa che cos’è. Per me, alla greca, la poesia è proprio un
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fare, è fare qualcosa che prima non esisteva. Una definizione antichissima, infatti, la chiama facitura di cosa che prima non era». Cioè un tutto che proviene da un nulla, o pressappoco: il padrone assoluto, non c’è dubbio.
[In «Alias», suppl. de «il manifesto», 22 giugno 2013].
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Pintor in un libro solo
L’incipit assoluto, ma sarebbe meglio dire l’origine di un’arte narrativa e insieme il pegno di tutta un’esistenza, è il richiamo al messaggio d’oltretomba che l’allora diciottenne Luigi Pintor (1925-2003) non avrebbe mai voluto ricevere. Si tratta della lettera che suo fratello Giaime gli spedì da partigiano in armi poche ore prima di passare il fronte e di perdere la vita per lo scoppio di una mina a Castelnuovo al Volturno, il 1° dicembre del 1943. In quella lettera, che è il testamento suo e di un’intera generazione, si dice appunto che la guerra, la guerra civile antifascista, ha deciso della vita di tutti e ha mutato il senso dello stare al mondo obbligando chiunque ad uscire dal reclusorio della pura costruzione di sé, dai gesti convenuti di una cultura distaccata e appagata, infine da una educazione aristocratica che presumeva di restare indenne anche di fronte alla barbarie. Quella lettera, che gli ritorna in mente a cadenza e alla stregua di un imperativo categorico, è alla base di ogni scelta successiva da parte di Luigi, a sua volta partigiano gappista nella Roma occupata dai nazisti, poi redattore a «l’Unità» e dirigente del Pci, quindi fondatore de «il manifesto» e maestro riconosciuto di almeno due generazioni di giornalisti, infine scrittore, nei suoi tardi anni, dalla
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pubblicazione di Servabo (’91) che si apre infatti col richiamo al messaggio postumo di Giaime. Insigne scrittore di memoria e di ricordi, Luigi Pintor, nella limpidezza di lingua e di stile che è soltanto sua, come avrebbe ribadito l’uscita in sequenza, fino in punto di morte, di altri tre libri, sottili e levigati come al solito, quali La signora Kirchgessner (’98), Il nespolo (’01) e I luoghi del delitto (’03), ora riuniti in un unico volume dal titolo, che si immagina redazionale in mancanza di altre indicazioni, La vita indocile (Bollati Boringhieri). Sono quattro parti divise idealmente in due ante e la prima, costituita da Servabo e La signora Kirchgessner, è pensata nei modi di un romanzo di formazione. Ma in realtà si tratta di un romanzo di ricordi lentamente affioranti, riproposti come fossili o reperti liberati dall’alone di buio che prima li oscurava. Non ci sono nomi propri né precise indicazioni topografiche, semmai figure emblematiche, rare e ribadite con pietà ossessiva alla ricerca dell’essenziale, quasi un repertorio di scene iniziatiche le quali, traghettate dal passato al presente in Servabo, vagheggiano o tentano il recupero di un senso alla vita che si presagisce invece dileguante: Cagliari anteguerra, le spiagge, la luce costernata di un mondo per lui inderogabile, magico nel suo chiarore elementare, e poi di colpo guerra e distruzione, la fuga in un altrove che promette pace e redenzione ma ancora ripropone, come sinistre meteoriti, la malattia, il dolore e da ultimo un’aura di tremenda evanescenza o di sostanziale vanità per ogni attimo vissuto e patito. Nella Signora Kirchgessner, che sta al libro d’esordio come il verso sta al recto e dunque rende espliciti o più riconoscibili i propri referenti, il fondo di amarezza e di malinconia emerge nudamente al presente nei modi di una retrospettiva e, anzi, di un dialogo muto con lo spettro del fratello: Spesso mi domando che effetto gli farebbe, se potesse vederla, la distesa di fango secco che ricopre oggi le terre promesse. […] Non riuscirebbe a trovare su nessun atlante la leggen-
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Se anche Stalingrado e la bandiera rossa issata sul Reichstag adesso sono meno che pallide decalcomanie, lo sguardo posato sul qui-e-ora rivela un paesaggio accorante nella sua banale, e micidiale, normalità: «Quando dall’alto degli anni guardo il mondo o la sua parodia girare sui piccoli schermi mi sembra un grande mattatoio impiantato su un grande immondezzaio». Poche immagini rendono con tanta esattezza la condizione che diciamo postmoderna o finalmente globalizzata. Pintor, a leggerlo con attenzione, non è tanto uno scrittore di memoria (perché ne paventa il flusso nostalgico, riparatorio e, di fatto, autoassolutorio) quanto, al contrario, è uno scrittore di ricordi, sebbene di ricordi deprivati di connotazioni soggettive, per un fatto di riserbo e pudore ma per mantenere, soprattutto, quell’anonimato che li rende emblematici e, di conseguenza, universali. In altri termini, se il sarcasmo (il «sarcasmo appassionato» che invocava Antonio Gramsci) è l’impronta proverbiale di Pintor giornalista, viceversa la pietas, una forma ricettiva e capiente del rispetto umano, è la cifra elettiva di Pintor scrittore. Cioè il compositore di una musica la cui partitura non è più riferita alle inversioni vibranti della sintassi o agli scatti delle clausole ma viene scandita in profondità e certe volte in sordina, non più nei modi di un pensiero scintillante e calcolato ma nell’ordine di una emozione trattenuta, serbata, di continuo ripensata. Lo stile mantiene il consueto nitore dell’essenzialità ma, nella contenzione di ogni estro e licenza, si modula a un ritmo più posato e introverso, con lunghe pause ed ellissi silenziose che ritrovano e si alternano al bianco della pagina. Col tempo lo stile del romanzo di formazione è divenuto lo stile della meditazione o anche della ricapitolazione interiore e così testimoniano Il nespolo
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e specialmente I luoghi del delitto. Qui i ricordi prendono il passo di pensieri vaganti e di aforismi, mentre il “prima” assoluto delle scene-madri o iniziatiche (il fratello, la guerra, la resistenza, l’impegno acerrimo nella politica) si rispecchia in un “dopo” non meno assoluto ma stavolta completamente disertato o persino desertificato, quando annota, per esempio: «Le rivoluzioni si fanno molte illusioni». Agli echi lontani del conflitto politico, al venir meno del sogno di una cosa, allo sfacelo e al paesaggio di ironiche rovine che oramai è divenuto il mondo, via via si sovrappone il gelo di una perdita, una duplice perdita, che ipoteca il futuro ostruendolo per sempre. Forse non esisterebbero i due libri terminali se Luigi non avesse perso prematuramente entrambi i suoi figli, Giaime e Roberta, ritrovandosi ancora una volta nella condizione del sopravvissuto. Qui è lui a dover dettare un testamento che sa di non poter contare su diretti destinatari, perciò si sente oppresso da un senso di colpa irremovibile, inespiabile, e arriva a ritenersi il responsabile di un duplice delitto, il più grave e nefando, che non ha mai commesso: Mi trovo finalmente sul luogo del delitto che non ho mai commesso ma che non ho impedito e di cui mi confesso colpevole senza attenuanti. […] Ma la mia mente è un archeologo che scava tenacemente nel passato e mi conduce di prepotenza dove non vorrei andare.
Per estremo e più crudo paradosso, al compiersi della parabola egli ritrova gli spettri di una storia dissipata e andata a male nel volto impenetrabile, da sfinge, di una natura ostile e matrigna, quasi che la Natura, chiusa nella sua dinamica inviolabile, duplicasse in effigie la mattanza della Storia con il suo portato di dolore, morte, insensatezza. Ed è infatti un messaggio leopardiano quello che ci lascia lo scrittore Luigi Pintor, il nostro compagno più indimenticabile. [In «il manifesto», 8 dicembre 2013].
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Gli scrittori di Mario Dondero
Mario scrive benissimo, con un ritmo che è pari solo ai riflessi percettivi, ed immediatamente ricettivi, del suo sguardo. E però Mario, a dispetto di una leggenda che lo vuole ubiquitario, è un uomo paradossalmente pigro. Un pigro che solo a cadenza si concede di agire il dono nativo, primordiale rispetto alla fotografia medesima, che è il dono della scrittura. Parte della sua leggenda induce a credere (e Mario la alimenta volentieri) che l’esordio nel fotogiornalismo sia dovuto al fatto che scrivere lo stancasse ovvero ne pregiudicasse la perpetua mobilità, l’andare per le strade del mondo, l’osservare le cose e le persone da vicino, insomma l’esser-ci, l’essere lì a testimoniare qualcosa che concernesse i principi di libertà individuale e di giustizia sociale. Quasi che la scrittura volesse dire un ritardo o rappresentasse un intralcio alla presa diretta sugli eventi cui, per un caso che si direbbe guidato da un destino singolare, sempre gli capita di assistere. È vero che Mario è uno dei protagonisti occulti, o traslati, nella bohème milanese di cui dice La vita agra del suo amico Luciano Bianciardi ma è vero, altrettanto, che ha sempre brandito, nei modi di una insegna orgogliosa e insieme di una autodifesa, la frase che attribuisce a Walter Benjamin secondo cui una foto vale mille parole.
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Perciò Mario, quando qualcuno gli ricorda di avere fotografato gli scrittori, una infinità di scrittori, e dunque vorrebbe etichettarlo come un fotografo di scrittori tout court, si rabbuia e si schermisce. Non perché non sia vero almeno in parte, ma perché una simile definizione lo offende nel suo intimo e lo offende due volte. In quanto lo rinvia, di riflesso, alla pigrizia personale che lo ha portato naturaliter alla parola degli altri (fossero pure suoi amici carissimi e consanguinei, quali Pier Paolo Pasolini, Paolo Volponi, Edoardo Sanguineti, per restare a una prossimità domestica) e in quanto, specialmente, tale stereotipo reclude ai suoi occhi gli scrittori in una categoria separata, elitaria, sottratta alle dinamiche del vivere usuale. Una volta ha affermato, nei modi di una insegna etico-politica prima che in quelli di una dichiarazione di poetica: Deve sempre rimanere chiaro che per me fotografare non è mai stato l’interesse principale. […] A me le foto interessano come collante delle relazioni umane, o come testimonianza delle situazioni. Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono.
La sua foto fondativa è quella dell’autunno ’59 che allinea frontalmente su un marciapiede parigino Samuel Beckett, Nathalie Sarraute, Alain Robbe-Grillet e gli altri autori poi accomunati dalla sigla del Nouveau Roman. Qualcuno, al riguardo, ha detto addirittura che Mario sarebbe stato fortuitamente l’inventore di quel gruppo avendone intuito, prima di Jérôme Lindon, il patrono delle Éditions du Seuil, sia l’innovazione radicale in termini di forma sia il denominatore antinaturalista che associava autori così dissimili: è comunque probabile che abbia avvertito una consonanza incognita a loro e fra di loro, un tratto potenziale di umanità in quel momento forse incognito a tutti ma compresente. Fatto sta che li ha messi in riga e li ha fotografati una volta per sempre. Ecco, Mario accosta uno scrittore come accosta una persona comune, è noto che predilige gli operai, i compagni di base, coloro che frequentano a
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Parigi i bistrot e a Milano o Roma le piccole trattorie sentimentali. Il suo compito (per un suo talento superiore cui non assocerebbe mai l’aggettivo di carismatico ma tale è, ad evidenza) è stanare d’acchito il contenuto di umanità che di volta in volta i suoi interlocutori, innumerevoli, manifestano davanti a lui e al suo obiettivo fotografico. Lo scatto di Mario, fatalmente, inesorabilmente, ne stilizza l’humanitas, fosse solo un gesto, uno sguardo imprevisto, una postura asincrona. Qui non c’è premeditazione e nemmeno appostamento ma una semplice, nativa, virtù dell’ascolto e della accoglienza. Col suo essere lì, Mario mette a proprio agio l’interlocutore, lo lascia nel suo spazio di luce ovvero nel cono d’ombra che gli corrisponde, non lo mette mai in posa ma lo lascia gestire ed esprimersi: la sua foto raccoglie, ogni volta, un gesto di partecipazione e di condivisione, essa è il tac che fissa uno scambio senza immobilizzarlo, semmai isolandolo in una figura di senso che rivela un carattere, un temperamento, un modo specifico e infungibile di stare dentro la vita. È raro che gli scrittori di Mario siano sorpresi al chiuso del laboratorio, più spesso l’incontro avviene in un luogo anonimo, letterariamente opaco e depauperato, oppure all’aperto, in spazi sociali e volentieri affollati: per esempio, Volponi che gioca a carte in un’osteria di Urbino, Sinjawskij che ammicca da un balcone nella banlieue parigina, André Schwarz-Bart o Vincenzo Consolo che sbucano da una stazione del métro. Mario non costruisce mai l’immagine e non la cerca ma si limita, col suo gesto sbadatamente sovrano, a trovarla o a dedurla dal reticolo di affettività e socialità che la sua presenza suscita immancabilmente, come nel caso di una foto celeberrima, la stessa che affianca in prospettiva Pasolini e sua madre Susanna, ritratti all’inizio degli anni sessanta nella loro casa dell’Eur. Non si tratta di un ritratto, magari di particolare intensità, ma di un etimo psico-esistenziale fissato in una foto, insomma si tratta della interpretazione più esatta e frontale di un destino umano e letterario.
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In fondo non è vero che Mario si sia messo a fotografare per sbarazzarsi di una cosa che lui giura essere troppo sedentaria e faticosa per lui, la scrittura, perché anche quando bluffa Mario dice sempre la verità e in questo caso, pur continuando a giurare il contrario, la dice due volte. Non solo perché ha disseminato, con il suo stile netto ed essenziale, talora pungente, centinaia di pagine su quotidiani e periodici (basterebbe citare, da ultimo, le didascalie redatte per i reportages pubblicati su «Diario») ma soprattutto perché Mario è un favoloso narratore orale: il suo racconto, la sua cordiale e ininterrotta affabulazione, sono già scrittura in atto come sa chi ha avuto la ventura di ascoltarlo dal vivo. Mario non entra mai nella materia del suo fotografare né gli interessa compulsarne, a posteriori, il soggetto e la resa. Che sia in questione un ritratto di Primo Levi, di un ex partigiano della sua Brigata “Cesare Battisti”, di un operaio della Breda o di un anonimo bracciante (nel suo sguardo tutti costoro hanno in comune il fatto di essere degli umani, senza ulteriori aggettivi), Mario ama rievocare l’occasione dell’incontro, il contesto ambientale, il momento storico, la sostanza dello scambio intercorso. In quel momento, lui che scatta di continuo e certe volte a raffica, occulta viceversa la macchina e, persino, la guarda con degnazione. Senza affatto volerlo, ne rivela la funzione, che non è quella di una scatola magica né di uno strumento vagamente predatorio ma di un’utile protesi, la sola che gli permetta di mobilitare, all’occorrenza sobillare, la materia prima del suo lavoro, i sensi umani, l’occhio che punta il proprio simile ad altezza d’uomo, la mano che semplicemente asseconda lo scatto. Non ha bisogno se non di un po’ di luce e cioè del vincolo che stringe le persone o dello spazio di rispetto che intercorre fra un individuo e un altro. In realtà non ha mai smesso di scrivere, Mario Dondero. [In N. Giustozzi - L. Strappa (a cura di), Mario Dondero, Electaphoto, Milano 2014].
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In morte di Mario Lavagetto
Il lavoro critico di Mario Lavagetto è già all’origine uno straor dinario paradosso: colui che sarebbe divenuto un teorico della letteratura di rango internazionale (e ufficialmente titolare per decenni di una cattedra di Teoria della letteratura) non era affatto uno studioso dottrinario né era disposto a trattare i referenti di un amore longevo (i grandi narratori francesi dell’Otto/Novecento, da Stendhal a Proust, gli ex lege italiani mai canonizzati come Svevo e Saba) alla stregua di pretesti o di esemplari utilizzabili per un disegno che li trascendesse e dunque, in cuor suo, li profanasse. Non è un caso che Mario Lavagetto non sia stato nemmeno sfiorato dalla vague dello strutturalismo che nei pieni anni sessanta tendeva a chiudere i testi in un algido diagramma per isolarli dalla storia e dagli stessi fatti della vita. Viceversa lui, il maggiore allievo di Giacomo Debenedetti, amava attenersi all’insegnamento primordiale della filologia che è l’amore del testo e però un amore vissuto con perfetta sobrietà e senso di responsabilità. Lavagetto non scrive note a piè di pagina, la sua sterminata plurilingue conoscenza delle letterature lo porta ad assorbire e metabolizzare una materia ingente che viene restituita al lettore nella sua essenzialità ed economicità, per quel tanto che è necessario: basterebbe, a titolo di esempio, il caso di Stan-
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za 43. Un lapsus di Marcel Proust (Einaudi, 1991), vertiginosa esquisse di poche decine di pagine dove una nebulosa ermeneutica che non ha pari nell’ultimo secolo viene attraversata, filtrata, e infine convogliata in uno sguardo che scruta da vicino, senza più diaframmi, la massima espressione romanzesca del Novecento. Ciò vuol dire che Lavagetto non fa un uso cerimoniale e meno che mai intimidatorio della tradizione ma, al contrario, opta per un suo utilizzo critico. Dal grande maestro ha peraltro dedotto la facoltà di narrare criticamente smarcandosi dal cerimoniale accademico come da una saggistica asfissiata da metodiche tanto più rigide quanto più fragili nel loro fondamento, come nel caso della ermeneutica di conio francese negli anni novanta, talora divenuta una vera e propria glossolalia: Lavagetto non sente neanche il bisogno di rivendicare il suo close reading perché l’ha già reso evidente con la splendida versione de Il rosso e il nero (1968), con tutta una serie di curatele per i “Grandi Libri” di Garzanti (per tutti gli amatissimi librettisti d’opera, Arrigo Boito, poi De Roberto, i Goncourt) e con alcune introduzioni, fra gli altri di Calvino, del medesimo Debenedetti e di Jacques Rivière, il leggendario editor della N.R.F. (Proust e Freud, Pratiche, 1985) cui lo accomuna una precisione analitica di impronta cartesiana che nel tempo sarebbe divenuta, per i lettori e gli studiosi, inconfondibile. C’è un titolo, fra i suoi maggiori, che ne rappresenta l’attitudine come un à la manière de, ed è Lavorare con piccoli indizi (Bollati Boringhieri, 2003), dunque interrogare il testo da una serie di parzialità (parole-chiave, ricorrenze, lapsus) che accedono, nella interpretazione, alla totalità di un testo ovvero al disegno di una fisionomia d’autore. Se è un filologo per elezione, Lavagetto è un critico materialista per vocazione e il suo interpretare non corrisponde a compulsare la pagina ma, ancora una volta, a interpellarla per tornare di nuovo a visitarla: nell’ultimo libro a stampa, Oltre le usate leggi. Una lettura del
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Decameron (Einaudi, 2019), non disdegna infatti, con umiltà e grande onestà intellettuale, di riandare alle pagine pionieristiche di Francesco De Sanctis ovvero alla lezione secolare di Sigmund Freud di cui pure ha dato specifiche edizioni (su tutte i Racconti analitici, Einaudi, 2011) sempre utilizzandone con la dovuta misura gli apporti metodici. Amava anche dire che il vero piacere del testo non consiste certo nella sua degustazione ma in una osservazione così puntuale da rendere visibile ciò che, se pure in evidenza, fino a un attimo prima non lo era e se Maurice Blanchot aveva detto infinito l’intrattenimento indotto dal testo, non esclusi i suoi effetti di deriva, Lavagetto gli opponeva mutamente non solo la costanza della osservazione ma la capacità di vedere quello stesso testo dislocato nello spazio e nel tempo. Perciò il solo nome che è lecito accostargli è quello di Aby Warburg, proprio per la innata facoltà di mediare spazio e tempo, di cogliere nell’hic et nunc di un dettaglio il lungo periodo della tradizione e, all’opposto, di estrarre da un archetipo tutta una serie di occorrenze al presente (e qui va aggiunto che un altro termine da lui prediletto è «palinsesto», che bene indica da un lato la stratificazione diacronica e dall’altro una evidenza sincronica): si potrebbe anche aggiungere che il suo Palazzo Schifanoia è stata appunto la Recherche, su cui è tornato un’ultima volta in Quel Marcel! (Einaudi, 2011), altro punto fermo della sua bibliografia. Pur non essendo stato un critico militante, Mario Lavagetto dei critici militanti è sempre stato un essenziale punto di riferimento come testimonia, tornasole di un momento drammatico, il piccolo aureo volume Eutanasia della critica (Einaudi, 2005) dove si legge una pacata, ma durissima nella sostanza, requisitoria al cospetto di un’industria culturale che ha fatto egemone la letteratura di genere o di evasione e ha resa inattiva, oramai liquidata, la nozione stessa di critica insieme con la pratica, individuale e sociale, dell’interpretazione. Al riguardo, scrive nel suo stile limpidissimo:
120 Uno dei principali elementi di fascino del testo letterario consiste proprio nel non lasciarsi mai ridurre a una sola, onnicomprensiva e definitiva, interpretazione: perché i grandi testi non vengono uccisi dall’ermeneutica, se mai ne sono arricchiti e amplificati.
Più unico che raro, è il dono che ci viene da chi riesce a vedere quanto si nasconde nella superficie delle parole.
[In «il manifesto», 1° dicembre 2020].
Tre scritti su Di Ruscio
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Un operaio e la condizione umana
«L’impetuosa, drastica forza espressiva, che penetra direi quasi nel corpo delle cose e sembra aprirle dall’interno, e l’eleganza delicata, raffinata e non meno profonda del sentire». Erich Auerbach, Il fattore personale nell’ascendente di san Francesco d’Assisi
A chi gli chiedeva quale fosse la differenza tra lo scrivere in versi e in prosa, Luigi Di Ruscio, ricorrendo ad uno dei suoi modi ironicamente elusivi ma sempre carichi di sottintesi, rispondeva che la prosa va per le lunghe e i versi invece vanno per le corte: ovviamente fingeva di dimenticare che proprio le sue poesie (da Non possiamo abituarci a morire, Schwarz, 1953, a L’Iddio ridente, Zona, 2008) erano venute disponendosi nei modi di un poema e anzi di una grandiosa avventura epica, quando le sue prose, dall’incipit di Palmiro (1986) disponendosi per segmenti aggiuntivi fra memoria e romanzo di formazione, ne avevano presto perequato la apertura alare, come testimonia il volume di insieme Romanzi (Feltrinelli) per la cura attenta di Andrea Cortellessa (che ne aveva già patrocinato da Le Lettere nel 2009 la sezione centrale di Cristi polverizzati) unitamente ad Angelo Ferracuti, lo scrittore fermano che del maestro è stato un fedele compagno di via nonché editore, fra l’altro, di La neve nera di Oslo (Ediesse, 2010) ora riproposta col titolo originale di Neve nera unitamente, in appendice, ad un racconto seminale, Apprendistato (gemello di quell’Apprendistati, Bagaloni, 1978, che è un capitolo decisivo
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dell’opera poetica), comparso nel numero unico di «Garofano rosso», un omaggio che nel ’77 alcuni amici fermani fecero a Di Ruscio in occasione di un ritorno, fra i non molti e col tempo sempre più rari, al paese natale. In realtà, poesia e prosa erano per lui due modalità espressive differenti senza essere diverse e infatti risultavano distinte solo per una questione di ritmo e di tono. L’una, la poesia, predilige la dizione frontale e la percussione, l’iterazione arroventata, perché è un atto di pensiero che rinvia di continuo al presente e ai dati ambientali, sociali: l’essere un operaio autodidatta, da decenni alla catena di montaggio di una fabbrica fordista, l’essere uno spatriato e il vivere dal ’57 in Norvegia, con una moglie e quattro figli che non parlano italiano, lo scrivere, infine, nel tempo residuo e in uno spazio totalmente insonorizzato, in un perfetto isolamento. L’altra, la prosa, viene da un gesto di affabulazione e di disseminazione che guarda al passato e al decorso della propria esistenza: è il flusso del vivere nel suo formicolare necessariamente comico, è la satura della vita stessa così come la rimanda, traboccando di suoni e di odori/sapori, l’onda travolgente dei ricordi. Opposti e complementari, poesia e prosa, incombono sullo scrittore nei pochi metri quadri di una stanza alla periferia di Oslo e realizzano l’utopia di un cosmo verbale che Di Ruscio ha dedotto o duplicato da un filosofo a lui carissimo, Giordano Bruno, un cosmo dove il centro è dappertutto e i confini da nessuna parte. Materia prima dei Romanzi è perciò una autobiografia che negli andirivieni dello spazio e del tempo acquisisce la forma del romanzo picaresco. Nella prima pagina di Cristi polverizzati c’è l’immagine del venire al mondo cadendo dalle acque fetali nelle acque sociali, all’inizio di Apprendistato l’immagine non meno primigenia di una gatta che partorisce in mezzo alla strada. Va detto che Vicolo Borgia, a Fermo, dove lo scrittore nasce nel 1930, è così affollata di gatti affamati/innamorati,
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sempre in cerca di avanzi di pesce, che ogni notte il vicolo risuona come un golfo mistico: Spiai una gatta che si sgravava, mi sembrava che i gatti uscissero dalla bocca, quattro cacati uno sopra l’altro e la gatta cominciò a leccarli poi a morderli sulla testa come fossero teste di pesce. Scrissi di questo spettacolo su un tema o diario, il maestro mi disse di alzarmi e spiegare quello che avevo scritto. Mi alzai e non dissi nulla, muto più di sempre, come se fosse colpa mia se la gatta si mangiava i gatti dopo averli cacati. Ebbi una grande vergogna che neppure oggi che riscrivo quel tema so cancellare per aver scritto su un tema di scuola elementare quell’orrore di gatti.
La vergogna di sentirsi un paria, il maestro fascista che lo mette all’ultimo banco e lo picchia col «Corriere della sera» arrotolato, ma anche la vergogna di scrivere (o «iscrivere», che è il più celebre dei suoi errori-lapsus) in una lingua basica, potentemente elementare, la quale ignora ogni ortodossia fonetica e grafica, tale è la culla da cui muove il pìcaro per le sue scorribande nel tempo di guerra, sul greto del fiume Ete, con le prime esperienze in cui si mescolano il sesso e la lotta per la sopravvivenza, il piccolo furto e una serie di lavori avventizi, poi finalmente la politica che, al passaggio del fronte, comporta l’iscrizione di un simile anarchico al Pci di Togliatti. È la vicenda di Palmiro dove intorno a colui che dice “io” si muove un universo di spiantati e falliti, di matti di paese e di minuscoli burocrati, insomma il microcosmo di una duplice sconfitta, quella della classe operaia (e nel suo caso sottoproletaria) prima a causa del fascismo e poi, nell’immediato dopoguerra, per il ritorno delle forze reazionarie e clericali. Il ragazzo che continua a dire “io”, percependosi come un folle o un giullare di dio, è il medesimo che passa per esperienze di sottoccupazione (fotografo ambulante, muratore a giornata, bracciante dei Cantieri Fanfani, lavapiatti, diffusore de «l’Unità») e viene indotto ad emigrare. Oslo, con la fabbrica fordista e la scoper-
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ta inopinata di ciò che Di Ruscio chiamerà «paradiso socialdemocratico», è all’altro capo del mondo e della vita, vale a dire rappresenta la sopravvivenza ma, nello stesso tempo, fornisce la matrice di quanto può spiegarla e legittimarla, e cioè la scrittura. Palmiro e i pannelli successivi del Bildungsroman non testimoniano altro se non questa duplice conquista. Di Ruscio infatti non racconta ma, lavorandola alla stregua di una materia sempre uguale e incandescente, dà forma a un percorso che corrisponde sia alla vicenda individuale sia a una parabola storica e di classe. Per lui, se la poesia è direttamente la parola del riscatto, la prosa è il referto, opposto e complementare, del cammino che l’ha resa fattibile. Di Ruscio scrive da fuori, in un luogo dove nessuno può intendere ciò che scrive, ma scrive anche da sotto e, si direbbe, dal luogo in cui nessuno ha diritto a una parola e a un destino, né potrebbe mai permettersi di dire “io”. Da una duplice parzialità, con furia esilarante e ossessiva, lo scrittore deduce la totalità che struttura e dà senso alla parola detta in prima persona. Si finge illetterato, ignora l’ortografia ma ha il passo svelto di Jules Vallès e di Hašek, il ritmo pulsionale di un Céline dell’estrema sinistra, il quale miri alla purezza anonima dei Fioretti di san Francesco cui guarda da sempre come ad un modello di nuda espressività. Ha letto i filosofi, su tutti Bruno e Spinoza, i maestri del pensiero dialettico ricavandone l’idea (dice Hegel nelle Lezioni di estetica da lui citate ripetutamente) che «la coscienza disgregata si esprime con il linguaggio scintillante che è capace di verità e si esprime molto meglio della coscienza cosiddetta onesta che le si contrappone». Palmiro (e i suoi addendi, le successive prose dei Romanzi) ha un unico ascendente, vale a dire la liberazione dallo stato di esistenza muta e asservita (Cortellessa lo chiama, nel suo saggio in postfazione, un combinato disposto di «storiografia espressionista» e «verbalizzazione straziata») e perciò sancisce la conquista felice della poesia, come nelle parole che suggellano il primo dei Romanzi:
127 Solo nascondendo tutti i miracoli potranno prolungare l’oppressione in eterno. E tra quelle colline nei sentieri scavati dai paesi diventava facile tutto, e dormire era un precipitare in qualcosa di molto soffice, e svegliarmi era un risalire da qualcosa di molto profondo, galleggiare nelle strade e navigare in aria, essere leggeri e felici oggi e anche dopo, e dicevo, ecco anche io salgo aerei precipizi e qualsiasi cosa scriveranno di questa terra carnale l’avrò scritta anche io, e ovunque troverete la mia poesia invisibile.
Che cosa ha voluto per tutta la vita Luigi Di Ruscio? Andrebbe intanto rigettata la qualifica di operaio-poeta ovvero di poetaoperaio, deminutoria e sommamente equivoca, perché a Di Ruscio non interessava tanto testimoniare di una condizione subalterna e, meno che mai, guadagnare da essa un’estetica corrispettiva. Sua era invece la massima posta e dunque leggere nello specifico della condizione operaia i tratti, potenziali e attuali, dell’esistenza reale e di ogni esistenza tout court: la condizione operaia, l’essere degli umiliati e offesi, era per lui semplicemente la condizione umana. Nessun dio avrebbe potuto salvarla, tanto meno resarcirla, e però l’arte (il passo svelto della poesia, il flusso della prosa) poteva viceversa assolverla. Negli epigrammi estremi di 15 epigrafi con dedica (Battello stampatore, Trieste 2007) scrive: «tutto ad un tratto ho capito / che Iddio non è altro / che l’idealizzazione del padrone / anche i cani hanno un padrone / e il credere in dio / non ci distinguerebbe dai cani». Questa non è blasfemìa ma il riconoscimento della umanità come condizione creaturale, è la consapevolezza del fatto che si nasce orfani e chi nasce dal candore dalle acque fetali davvero sprofonda nelle acque nere degli inferi sociali. Questa è la sua sola e legittima richiesta di poesia.
[In «Lo Straniero», n. 167, 2014].
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La poesia di Luigi Di Ruscio
«Ero immerso nelle acque fetali, sono immerso in questa acqua sociale». Luigi Di Ruscio, Cristi polverizzati
Per decenni rimasta in uno stato di marginalità geografica e di semiclandestinità editoriale (a parte il consenso di alcuni mallevadori d’eccezione, quali Franco Fortini, Salvatore Quasimodo, Giancarlo Majorino, Antonio Porta) la poesia di Luigi Di Ruscio è emersa all’improvviso come un iceberg al passaggio del millennio e dunque nel contesto di una grave crisi sistemica, innanzitutto economico-politica, che ne ha svelata finalmente l’essenzialità, in senso stretto e persino etimologico. Il poeta del resto aveva sempre affermato, fino ad averne rauca la voce, che mentre la lingua del potere è sempre una lingua ricercata, contraffatta e intransitiva, quella di chi sta in basso viceversa è frontale, diretta, mirata alla esclusiva verità della propria testimonianza. Una lingua, quest’ultima, che può essere variata ma non abiurata, semmai replicata con la necessaria ossessione e fedeltà al nucleo di percezione primordiale che intanto la legittima. Quanto a ciò Di Ruscio è un poeta umanista in senso classico e già all’esordio, appena ventitreenne, sceglie un titolo, Non possiamo abituarci a morire (’53), che vale non tanto una dichiarazione di poetica quanto un progetto di resistenza o volontà di non accettare come “naturale” quel che
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invece si determina nelle dinamiche sociali e di classe. Venuto al mondo a Fermo in Vicolo Borgia, al tempo della dominazione fascista e in un ghetto di sottoproletari, alunno indocile e ripetente che non andrà oltre la quinta elementare, monello sbandato, comunista con evidenti venature anarchiche, poi ragazzo dai mille mestieri, infine nel ’57 migrante a Oslo dove per quarant’anni lavorerà da operaio alla catena di montaggio di una fabbrica metallurgica: tale è il suo cursus honorum, dove il tempo della poesia è un residuo sottratto con tenacia al tempo dell’asservimento ed è il solo privilegio concessogli da quello che chiama, alternando sarcasmo e ironia, il paradiso socialdemocratico. L’autore ne ha raccontata la vicenda nelle sue tarde partiture in prosa, da Palmiro (’86) a La neve nera di Oslo (2010), veri e propri romanzi picareschi, verbali autobiografici ai limiti della docufiction, insomma una prolungata diversione nel comico e nel grottesco laddove, tuttavia, la parabola del personale romanzo di formazione si duplica nella genetica di una dirompente vocazione alla poesia. Per lui, chiedersi come un uomo diventi un uomo equivale a chiedersi come e perché un uomo diventi un poeta. E infatti Luigi Di Ruscio, al di là delle ovvie etichette, non è stato né un poeta operaio né un operaio poeta ma, più semplicemente, qualcuno che ha saputo tradurre con i mezzi della poesia la condizione operaia nella condizione umana tout court. Limiti incoercibili perimetrano da sempre la sua scrittura, che di regola si produce al crepuscolo in un appartamento all’ottavo piano della prima periferia di Oslo, in Aasengata 4/c, nella stanza adibita (sono parole che gli presta l’amatissimo Giordano Bruno) a «stalletto» pieno di carte in cui domina, percussiva e fragorosa, una vecchia Olivetti. Nessuno in casa parla o intende l’italiano, né sua moglie Mary né i quattro figli, così come nessuno immagina in fabbrica la sua attività di scrittore, ma è proprio questa doppia condizione di parzialità
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(subordinazione sociale, alienazione geolinguistica) a garantire alla sua poesia il segno della totalità compiuta. Essere “sotto” e nel frattempo essere “fuori” significa per lui non poter essere che lì, eternamente, sulla pagina. Egli non deve nemmeno liberarsi di zavorra eccessiva e, pure se in realtà ha letto tutti i libri, continua a proclamare la propria ignoranza menzionando pochissimi riferimenti d’avvio come i sillabati di Ungaretti e Lavorare stanca di Pavese. Benché parli volentieri neanche in italiano ma in dialetto fermano, in realtà conosce le lingue, traduce le liriche di Ibsen dal norvegese, legge di continuo i filosofi, specie i classici del pensiero dialettico, ed è dalle lezioni di estetica di Hegel che deduce una volta per tutte l’idea secondo cui la poesia corrisponde a una coscienza disgregata che nella sua inversione si esprime in un linguaggio scintillante capace di verità e, pertanto, si esprime molto meglio della buona coscienza che le si contrappone. Per questo in ogni poesia di Di Ruscio c’è potenzialmente tutta la sua poesia e per questo la sua intera produzione (dalla plaquette d’esordio, passando fra l’altro per Apprendistati, ’78, Istruzioni per l’uso della repressione, ’80, fino alle clausole sapienziali de L’Iddio ridente, 2008) ha la circolarità di un autentico poema. Il poeta stesso ha detto più di una volta che la sua opera ha la forma del cosmo immaginato da Bruno e Spinoza, vale a dire un universo dove il centro si trovi dappertutto e i confini non si scorgano da nessuna parte. Non basta. Il cosmo poetico di Di Ruscio è una totalità dinamica, in perpetuo movimento, dove nulla è certo se non l’incalzare del ritmo, dentro uno stillicidio di varianti, correzioni, amputazioni che principiano da una particolare ortografia (morfologie distorte, metaplasmi, neologismi, dialettismi, lapsus d’autore) la quale deve rimanere allo stato incandescente, liquido, fino a rendere sinonimi lo scrivere e l’«iscrivere», massima capienza di un dire implacabile che neanche trova requie (tanto meno una rigidezza ne varietur) nella auto-antologia terminale delle Poesie scelte su cui, e con acri-
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bia, ha lavorato per la presente edizione Massimo Gezzi, uno studioso che è anche poeta conterraneo del grande fermano. Caso più unico che raro per chi abbia esordito in pieno Novecento, la poesia di Di Ruscio ignora la metafora alla stregua di una ambigua o bugiarda contraffazione mentre predilige a oltranza la postura metonimica. Sospetta gli aggettivi e vive più che altro di nomi e di verbi, il suo centro è la frase di senso compiuto o, meglio ancora, la connessione di frasi coordinate all’interno di un periodo. Ciò probabilmente vuol dire che, per il poeta, il pensare contiene l’esprimere e che la poesia o è pensiero in atto o non è. Quasi indenne da punteggiatura, essa è poverissima di figure retoriche che non siano quelle, le più schematiche (ma si potrebbe anche dire le più dialettiche), della ripetizione e della inversione. Il verso è lungo, la misura è libera e rilanciata dal ritmo, il che significa, a sua volta, che sulla metrica prevale in ultima istanza la pulsazione prosodica. Il suo pronome è l’“io” convenuto dei lirici ma si propaga nel “noi” dei poeti epici, non certo per la retorica surriscaldata di un engagement ma per il senso di prossimità e anzi di condivisione e letterale commensalità che il poeta prova nei confronti dei suoi simili, gli immolati nelle guerre volute dal potere, gli spatriati, i migranti, i subalterni alla catena di montaggio, chiunque patisca umiliazione e oblio nel micidiale meccanismo di inclusione/esclusione delle cosiddette società opulente o neocapitaliste. La sua materia prima è un costante andirivieni, trattenuto nel crogiuolo del presente insonorizzato, fra l’altrove assoluto di Vicolo Borgia (flash della vita offesa, immagini antiche di asfissia, di anonimato) e la prossimità che il tempo ha reso indecente, normale o del tutto “naturale”, di uno sfruttamento per cui l’uomo diviene il lupo dell’altro uomo. (Quasimodo mezzo secolo fa aveva visto in Hobbes, nelle fauci di un moderno Leviatano, il contesto appropriato a quel giovane poeta, noi diremmo invece la società neoliberale, non meno
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famelica). Perché leggere Di Ruscio, che dai bassi della condizione proletaria amava ripetere con Joyce che noi abbiamo meno speranze di una palla di neve all’inferno, è comunque un antidoto a quanto oggi si chiama, crisma di una egemonia proterva e planetaria, il Pensiero Unico. Qui valga per tutti il testo rubricato al numero CCCXIV del poema complessivo, dove il particolare e l’universale, per cortocircuito di storia e geografia, si danno ormai come una cosa sola: […] la fabbrica è l’ultima stazione / se ti licenziano è come se venissi sputato fuori nell’ignoto / in una caduta che non verrà attutita / l’operaio metalmeccanico è attaccato a qualcosa di diabolico / il polacco dice che lavorare / per l’avvenire sotto i comunisti era ancora peggio / qualche macchina ferma sembra una cassa da morto / per chi sta veramente male / mettersi sotto cassa malattia è difficile / di questo italiano straniero non sappiamo niente / si sa solo che puzza ed esiste.
Perciò è bene che un poeta troppo a lungo appannaggio di autori e studiosi happy few (circa la generazione più recente, da Eugenio De Signoribus a Enrico Capodaglio e Biagio Cepollaro, da Francesco Scarabicchi a Emanuele Zinato e Andrea Cortellessa) incontri finalmente un pubblico senza ulteriori aggettivi ed è bene che divenga di senso comune la parola potente, penetrante, di questo «proletario preistorico», come lo definì una volta, e con totale affetto, lo scrittore che in vita gli fu più vicino, Angelo Ferracuti. Dentro un paesaggio sociale che sembra di immutabile devastazione e poi di sopravvenuta glaciazione, splende infatti nei versi di Di Ruscio, del tutto isolata (sta nella intercapedine di Enunciati), una immagine dove la storia sembra contraddirsi, ovvero smentirsi, in natura rediviva, «quando nel paesaggio invernale morso dal gelo / improvvisamente esplode la fioritura del mandorlo» che brilla come «poca materia viva circondata di morte». Quel mandorlo perso nel gelo al fondo dell’inverno è certamente un riflesso della esistenza che tuttora si propaga oltre gli interdetti stori-
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ci e di classe, è un «debolissimo vessillo» ma è, come scrive, il vessillo medesimo della poesia, una fioritura in anticipo o in controtempo, nuda e inerme nella sua necessità.
[Prefazione a L. Di Ruscio, Poesie scelte. 1953-2010, a cura di M. Gezzi, marcos y marcos, Milano 2019].
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Anarchico e pìcaro
Il luogo in cui viene al mondo Luigi Di Ruscio, uno dei poeti epici della letteratura italiana e insieme un narratore di forza tellurica, è un set inimmaginabile ai cultori delle belle lettere. Si tratta di un quartiere-ghetto ai margini di una città dell’Italia centrale, Fermo, illustrata da una magnifica piazza, ogivale e basculante, del Sansovino. Viceversa, Vicolo Borgia è un budello stretto, le case di rimpetto quasi si toccano, alla metà degli anni trenta del secolo scorso non c’è luce elettrica né acqua corrente, il selciato è invaso da cartacce e rifiuti in cui frugano, alla ricerca di avanzi e lische di pesce, dei gatti enormi e perennemente in amore i cui richiami si alternano alle voci di chi si guadagna la vita con mestieri antichissimi come il venditore di pelli essiccate, il calderaio, il bracciante o il muratore. Il fascismo preferisce ignorare o nascondere quartieri del genere in cui lo spirito di sovversione e la lotta per la sopravvivenza sono una cosa sola. La scuola non è molto lontana ma è già oltre quel girone infernale di miserabili e sottoproletari di solito bocciati o espulsi, ovvero condannati all’abbandono. In un lungo memoriale autobiografico, Apprendistato (pubblicato semiclandestinamente a Fermo nel ’77, l’archetipo del romanzo Palmiro che invece esce nel 1986 da il lavoro editoriale di Ancona con una prefazione del poeta Antonio Porta), Di Ru-
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scio dirà che proprio la scuola, insieme con Vicolo Borgia, è stata paradossalmente il luogo per lui più formativo o, meglio, il luogo in cui suo malgrado e a sue spese ha dovuto imparare che cos’è la gerarchia sociale e, insieme, il meccanismo di selezione e di esclusione che essa comporta. Lì, a quanto pare, un maestro fascista, sempre in camicia nera, non solo lo aveva relegato all’ultimo banco, tra i somari e gli irrecuperabili, ma soleva picchiarlo in un modo che il poeta avrebbe decodificato in seguito nei termini di una esecuzione simbolica così odiosa da evocare, di riflesso, un corrispettivo impulso di ribellione: pare infatti lo picchiasse con il «Corriere della sera» arrotolato e pare anche che il monello se ne difendesse cospargendosi di inchiostro i capelli neri e fittissimi. Come se quello scolaro che commetteva continui errori di ortografia (cioè i lapsus d’autore, le straordinarie invenzioni lessicali di cui sarà cosparsa la sua prosa di scrittore adulto) ricevesse dalla cultura ufficiale il marchio d’infamia e fosse indotto a incorporare la trasgressione come gesto di libertà e, anzi, di difesa della propria identità. Chi ha avuto la fortuna di conoscere Luigi Di Ruscio sa che, anche nei suoi anni tardi, aveva mantenuto nel sorriso qualcosa di beffardo, quasi un gesto di complicità che lo faceva somigliare al ragazzo che era stato, un monello consanguineo di quelli raccontati da Jules Vallès, un ribelle somigliante a quanti abitano Zero in condotta di Jean Vigo. Quando pubblica Palmiro, che è alla lettera un Bildungsroman e cioè un classico romanzo di formazione, Di Ruscio è in tutto e per tutto già Di Ruscio. Ottenuta a fatica la licenza elementare, fino alla Liberazione dal nazifascismo, che a Fermo avviene nell’estate del ’44, la sua vita corrisponde a una libera esperienza del corpo e della mente fatta di scorribande sul greto del fiume Ete, di prime e molto spicce esperienze sessuali, soprattutto di pungenti osservazioni dell’ambiente che lo relega ai margini di una città bigotta, codina, che ha torpidamente
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accettato per decenni sia la dittatura fascista sia i rituali di un cattolicesimo controriformista, feticista. Quel figlio di nessuno non ha un mestiere anche se li prova tutti, dal muratore al bracciante a giornata, dal fotografo ambulante al venditore di libri a rate. Si iscrive al Partito comunista di Palmiro Togliatti ma non è ben visto in sezione perché ha la barba di tre giorni, veste in maniera impresentabile, si esprime in dialetto, sospetta il culto di Stalin e tiene comizi volanti che lo apparentano, piuttosto, a un trozkista o a un anarchico. C’è insomma un’anima borghese nel Partito che non lo riconosce e, a sua volta, lo emargina. Del resto la cultura di quel giovane è tipica del genio solitario e non del letterato à la page, egli la dissimula nell’ignoranza e persino nell’analfabetismo ma è capace di ricevere d’acchito e una volta per sempre la lezione di opere essenziali come le poesie di Ungaretti e Pavese, assimilate per la loro drammatica nettezza, le Lettere dal carcere di Gramsci e Roma città aperta di Roberto Rossellini, emblema di un paese liberato dal giogo della dittatura e dalle infamie della guerra. Quando pubblica il suo primo libretto (e dal titolo folgorante, Non possiamo abituarci a morire, nel ’53), nonostante l’avallo in prefazione di un poeta del rango di Franco Fortini, l’accoglienza a Fermo e altrove è di ironica condiscendenza per l’autodidatta e di rigetto per una testualità ritenuta rozza, schematica, quasi fosse un caso di neorealismo degenerato. Dunque la scelta dell’emigrazione, per Di Ruscio, è un obbligo: dopo Milano e Bruxelles, dall’estate del ’57 è a Oslo e si impiega, da addetto alla catena di montaggio, nella fabbrica metallurgica in cui lavorerà per oltre quarant’anni. Nel tempo che gli lascia libero la fabbrica e che gli concede il «paradiso socialdemocratico», scrive in assoluta solitudine i suoi libri in versi e in prosa. Nessuno intorno a lui (la moglie norvegese, quattro figli) parla o intende l’italiano e per questo la sua concentrazione è assoluta, carismatica, mentre il suo tema, ossessivamente ribadito e variato, è la condizione operaia intesa più semplicemente come
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condizione umana. Non meno coatta è la scelta di campo perché prendere la parola, per lui, d’ora in avanti significa accettare una duplice parzialità e dunque parlare da sotto, dal basso della subalternità sociale, ma nel frattempo parlare da fuori, sentendosi estraneo alla letteratura istituzionale, convenuta e beneducata, accademica o mainstream. Come nel paradosso della dialettica hegeliana, quella duplice parzialità innesca la totalità di una scrittura la cui sola posta è fissare una verità pagata in prima persona, la verità di chi vive nel mondo ma appunto è costretto a guardarlo, a subirlo, da fuori e da sotto. Peraltro, a quanti gli chiedevano cosa distinguesse la prosa dalla poesia, lo scrittore si limitava a rilevare che la prima va per le lunghe e la seconda, invece, per le corte. Palmiro non è soltanto il primo libro scritto in prosa da Di Ruscio ma è il baricentro della sua opera complessiva. Nella premessa del romanzo dice di essersi accorto, a un certo punto, di non avere più maestri e perciò di essersi dovuto ammaestrare da solo. Palmiro (un titolo che per antonomasia evoca il leader del Pci, Togliatti, detto il Migliore) risponde infatti alla domanda implicita in ogni romanzo di formazione: come si diventa un uomo? Una domanda, nel qual caso, raddoppiata: che cosa vuol dire o cosa implica, per un uomo, diventare un poeta? Qui, un giovane sottoproletario senza padri né maestri, povero ma libero come l’aria, un monello insolente e riottoso, si trova a valicare la sua linea d’ombra nel frangente più difficile della storia italiana, fra l’Occupazione nazifascista e la Liberazione. Senza volerlo né saperlo, egli passa dal mondo della necessità più dura (fame, guerra, solitudine) al mondo della libertà più assoluta. La sua indole di ragazzo sveglio ma ineducato, sboccato, la sua tempra di anarchico impunito non può che tradursi in una inclinazione al vagabondaggio e al nomadismo, in ogni senso, predatorio. L’anarchico è in realtà un pìcaro, il suo passo è scanzonato e ondivago, i suoi mae-
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stri finora inconsapevoli sono nel Pitocco di Quevedo, in Huck Finn, nel Viaggio al termine della notte o persino nei Fioretti di san Francesco dove a compiere struggenti eroismi sono umili frati detti “pecorelle di dio”. Il tono è scanzonato e alterna il sarcasmo all’ironia, il ritmo della prosa, velocissimo, a cascata, asseconda gli andirivieni del protagonista autobiografico che deve liberarsi dalle ipoteche del fascismo e, come ha notato Angelo Ferracuti nella sua prefazione a Poesie operaie (Ediesse 2007), deve anche emanciparsi «dall’iddio clericale, la cui presenza ha colonizzato la sua infanzia, l’ecclesia invasiva che ha sempre additato come l’Anti-Storia». Di Ruscio pensa e scrive a Oslo, a migliaia di chilometri e a decenni di distanza dai fatti ma, ora per allora, rinviene il decorso della propria vita e della sua vocazione. Tre sono le parti in cui si scandisce il romanzo dell’apprendistato: nella prima (La generazione bombardata), vi formicola il caos di Vicolo Borgia, si intravedono i segni nefasti del fascismo e dei suoi «bacarozzi neri» insieme con i sogni del ragazzo che vagheggia la rivoluzione quale «festa degli oppressi», secondo l’immagine di Lenin; nella seconda ed eponima (Sezione Palmiro), esplode invece la vicenda tragicomica del pìcaro che si iscrive al Pci e frequenta la sezione, da compagno di base, ma si scontra fatalmente con la retorica di militanti opportunisti e di dirigenti burocrati, spesso simili o comunque simmetrici ai notabili del fascismo trapassati in un attimo ai vertici della Democrazia cristiana, il nuovo partito di governo sostenuto dalla Chiesa e dalla Confindustria; infine nella terza parte (Firmum, o della poesia invisibile) la vicenda si compie acquisendo, retrospettivamente, il senso di un destino: colui che l’ambiente ha bollato come paria, come scalzacane populista e anarchico-individualista, opta in via definitiva per l’altrove. Se ne andrà, come l’antico Orazio, con scarso bagaglio ma portando con sé il bene esclusivo del suo corpo, della sua poesia. Dirà molti anni dopo, in una intervista rilasciata a Roberta Salardi («Nuova Prosa», n. 52, 2010):
140 L’italiano è come l’anima mia, certamente non è un’anima candida, si sporca continuamente. […] Ho scritto e soprattutto riscritto Palmiro molto liberamente senza nessuno scopo cosciente, la riscrittura del libro fu una specie di liberazione, riscrissi con tutta la mia allegria.
La prosa di Di Ruscio è il rovescio esatto della sua stessa poesia. Se il tono di quest’ultima è epico, se la postura è frontale, se il ritmo è cadenzato dalle anafore, la prosa ha invece la ricchezza plastica di una rediviva satura lanx e il suo passo, rapidissimo, stilizza la immediatezza del parlato. In realtà, Palmiro è un libro di ricordi ma si tratta di ricordi immessi nella traiettoria di un romanzo e perciò nel tracciato in cui l’eroe (uno scalcagnatissimo anti-eroe) fa proprio il suo destino pagandone il prezzo intero. Occorre immaginare il luogo in cui tutto questo è stato immaginato non per essere inventato ma, semplicemente, per essere riconosciuto: è una piccola stanza, lo «stalletto» la chiamava il poeta, ai piani alti di un qualunque palazzo della prima periferia di Oslo, in Aasengata 4/c, un ambiente spoglio, di pochi libri e di carte disordinate, dove si immagina un uomo che all’alba o appena dopo il tramonto, mai nei canonici orari di lavoro, batte furiosamente, senza tregua, su una vecchia Olivetti. Di Ruscio infatti non scriveva, semmai riscriveva o meglio ancora «iscriveva», vale a dire incideva sulla pagina con quella libertà svagata e trasandata che gli aveva rimproverato a suo tempo il maestro elementare in camicia nera. Nel suo loculo di Oslo, egli prendeva finalmente la parola al di fuori della letteratura e dal basso della gerarchia sociale, eppure, per il solo fatto di scrivere, poteva ritrovarsi di colpo al centro del mondo e delle sue più elementari verità, le stesse che lo vogliono diviso in classi, tra chi ha tutto e chi niente, tra chi sa e chi non sa, tra chi conosce il privilegio della vita propriamente detta e chi paga il prezzo della nuda sopravvivenza. Più volte Di Ruscio ha affermato di sentire la
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scrittura pari al cosmo immaginato da Baruch Spinoza, una totalità dove il centro è dappertutto e i confini da nessuna parte, perciò non è un caso che il finale di Palmiro si riferisca alla poesia non come a una salvezza individuale ma come ad una redenzione universale, sognata nel nome di chi vive oppresso, umiliato, ammutolito. Questa è l’unica compiutezza possibile, l’unico senso accessibile a quanti (e sono la maggioranza degli esseri umani, per congiuntura storica e stigma di classe) non dispongono né della parola né di un destino. In fondo, tutta l’opera di Luigi Di Ruscio è scritta a futura memoria di quanti non hanno mai potuto né possono tuttora permettersi di dire io.
[Préface a L. Di Ruscio, Palmiro, tr. fr. di M. Morelli, Anacharsis, Toulouse 2015].
Appendice
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Inni a Satana
a Nino Lucantoni
Ma esiste la poesia politica? La risposta del più grande poeta politico del Novecento, vale a dire Bertolt Brecht, è che no, essa non esiste, perché lo stesso Brecht diceva per paradosso che le vere poesie politiche parlano di alberi e mai direttamente di politica. Cosa comporta questo paradosso? Un primo livello di lettura ci rimanda al fatto, piuttosto scontato, che spesso la poesia politica è una poesia di tipo illustrativo, didascalico, è l’accompagnamento acustico o verbale di un gesto o di una azione e ha dunque una scarsa o nulla autonomia. D’altronde il paradosso di Brecht introduce una cosa molto più sottile e interessante, cioè che è “politica” la poesia che rimanda ad una tensione partecipativa, laddove anche una poesia dedicata a un albero può essere “sociale”e infatti una della poesie più belle di Brecht si intitola Il ladro di ciliegie. Il poeta è a Skovbostrand, in Danimarca, nell’estate del 1938, in fuga da Hitler prima del grande salto verso l’America, sonnecchia in dormiveglia nel suo povero cottage, da esule, vede un ragazzo che potrebbe assomigliare, non fosse tanto biondo, ad un piccolo mariuolo napoletano, che si è introdotto in giardino ed è salito su un albero per rubare delle ciliegie: il poeta lo guarda, il ragazzo lo guarda a sua volta e ha le ciliegie
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rubate in mano, ma Brecht richiude gli occhi e finge di rimettersi a dormire mentre il ragazzo se ne va senza dire una parola. Questa è una poesia “politica” perché rinvia a una tensione umana, ad una compartecipazione che non ha nemmeno bisogno di essere dichiarata: al contrario, e persino ovviamente, la retorica, il moralismo, l’ideologia, sono il baco nella mela di quella che tuttora saremmo portati invece a riconoscere come poesia politicizzata. E tuttavia l’affermazione così tranchant di Brecht potrebbe essere subito smentita dal fatto che è esistita una poesia politica, o meglio ancora civile, in età classica e basterebbero due reminiscenze liceali: Archiloco, poeta di cui rimangono pochi frammenti, colui che ammette di voler essere inerme di fronte alla guerra, di avere paura, e poi naturalmente Orazio, che rivendica la stessa paura perché scrive dulce et decorum pro Patria mori, dice che è bello e dolce morire per la patria, però lo scudo nella battaglia di Filippi lo ha buttato via e pare sia scappato. Come è fatta la poesia politica dei classici? In effetti è una poesia di tipo oratorio, retoricamente impostata, una poesia che rinvia a grandi immagini di encomio e illustrazione, nel caso di Orazio al principato di Augusto, nel caso di Archiloco alla formazione in età arcaica di quelle che saranno poi le poleis, città-stato che sopravvivranno solo se armate. Tale tradizione, fondamentalmente retorica, è fondata sull’amor patrio e sull’esaltazione della tutela della patria in armi e arriva, pari pari, alle letterature neolatine non esclusa la nostra, per cui, fatto salvo il caso eccezionale di Dante la cui ispirazione civile è così forte e così particolare da non fare qui paradossalmente testo, la poesia politica si codifica sostanzialmente nelle canzoni dedicate all’Italia e al suo mito, da Petrarca a Leopardi, canzoni di tipo nostalgico che rivendicano alla lettera quello che non c’è: l’Italia stessa, asservita, divisa, umiliata, misconosciuta. Tale tradizione, che si potrebbe definire grosso modo retorico-nazionalistica, conosce alla metà dell’800 una svolta ed è lì che davvero si può
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cominciare a parlare di poesia “politica” nel senso che spregiava Brecht, cioè una poesia impegnata o engagée, la quale aderisce in maniera più o meno esplicita ai grandi eventi storici che per la prima volta vedono protagoniste le masse e, nei paesi industrializzati, il movimento operaio. Si tratta nel qual caso della nozione di engagement di cui l’Affaire Dreyfus e il relativo J’accuse di Zola rappresentano l’epicentro in una vicenda che si sviluppa fra l’età della Seconda Internazionale e la seconda guerra mondiale, laddove esistono degli autori che scrivendo le loro opere, dunque non semplicemente firmando dei manifesti, vi recepiscono quello che pure sarà chiamato il “mandato sociale”. Ma chi è il mandante? Il mandante è il movimento operaio, le sue organizzazioni di massa. Tutto ciò produce una letteratura sterminata, le cui propaggini vanno oltre la seconda guerra mondiale, arrivano alla Guerra fredda, quando una simile produzione inizia ad essere datata e anzi postdatata, ormai storicizzata insieme con la nozione stessa di engagement. La poesia dell’impegno si manifesta in Italia con i condizionamenti di uno sviluppo storico mancato o parziale. Prendiamo il caso celeberrimo di Giosue Carducci che nel 1863, firmandosi Enotrio Romano, scrive l’Inno a Satana. L’Unità si è compiuta da appena un anno e mezzo e presenta le caratteristiche che la storiografia secolare ha poi canonizzato: un paese a sviluppo industriale parziale e ritardato, con il “triangolo industriale” al nord, la mezzadria nel centro, il latifondo miserabile nel meridione; un paese diviso geograficamente e linguisticamente, culturalmente; un paese in cui non c’è stata mai la “rivoluzione”, quella che Antonio Gramsci, scrivendo in carcere e sotto il controllo del censore, perciò in una lingua “esopica”, definisce la «riforma morale e intellettuale» alludendo al fatto che in Italia sono mancate sia la riforma protestante sia la rivoluzione politica della borghesia (anche perché in Italia non esiste una
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vera e propria borghesia, all’europea, come testimonieranno a oltranza i romanzi di Alberto Moravia, ma viceversa c’è una formazione di compromesso, camaleontica, che tiene dentro di sé elementi borghesi, proletari, plebei che a Roma si è sempre chiamato il generone). Non per caso un topos della storiografia e del pensiero meridionalistico afferma che il Risorgimento non è stato affatto una rivoluzione, come si augurava a vario titolo la parte democratica dei Mazzini, Cattaneo e Pisacane, ma è stata al contrario una annessione dinastica dovuta essenzialmente alla debolezza politica del cosiddetto Partito d’azione e naturalmente al genio diplomatico come al tatticismo avveduto del Conte di Cavour. Il contesto in cui nasce la nostra poesia engagée spiega come essa sia essenzialmente una poesia di intonazione sovversiva, proprio a partire dall’Inno a Satana. Qui si inaugura una produzione il cui arco cronologico si sovrappone ai primi cinquant’anni dell’Unità e, sfiorando la Grande guerra, culmina senza volerlo nei fatti della Settimana Rossa in quanto, e sia pure in vitro, annuncia e rappresenta una ribellione, una rivolta che, pur incorporando dei fermenti rivoluzionari, non riesce nemmeno potenzialmente né a costruire una ipotesi rivoluzionaria né a prefigurarla nella coscienza di chi vi partecipa. Qual è il retroterra, la materia prima, dei poeti sovversivi? La tradizione retorica del nazionalismo, si è detto. Il primo di costoro, Giosue Carducci, si forma a Pisa nella compagnia degli «amici pedanti», giovani e fieri classicisti che pure cercano di aggiornare i contenuti, non più in senso edificante ma in senso cripto-risorgimentale e più o meno apertamente ribellistico. (Qui si pone immediatamente, e sia detto solo per inciso, un problema che non solo gli storici della letteratura, ma anche e soprattutto quelli della tradizione popolare, sentono come una aporia, perché non è facile scrivere poesia partendo da un certo tipo di linguaggio, da una matrice ben precisa, e pretendere di innovarlo rovesciandone appena il segno. È duro dirlo ma va comunque detto che, per
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esempio, Giovinezza e Bandiera Rossa utilizzano lo sesso tipo di bigiotteria linguistica e stilistica: è ovvio che vanno a destinazioni diametrali e inconciliabili tra loro ma dal punto di vista della specifica cultura linguistico-letteraria di provenienza ci si trova di fronte ad una identità. Non basta volere qualcosa di rivoluzionario quando si utilizza materiale di provenienza conservatrice o reazionaria: Brecht ha visto giusto). Il primo campione, si diceva, risale al 1863 ed è l’Inno a Satana di Carducci alias Enotrio Romano, il canto di un trentenne giacobino, massone e repubblicano che qualche anno dopo, nel 1868, il ministro della pubblica istruzione Broglio (Presidente del consiglio Menabrea, della destra storica) rimuove per settanta giorni dalla cattedra di Bologna, perché, nell’anniversario della Repubblica Romana, il poeta, allora titolare della cattedra di Eloquenza, ha osato sottoscrivere un plauso a Mazzini, condannato a morte in contumacia, e allo sconfitto Garibaldi: un professore che si macchiasse di tutto ciò era evidentemente candidato alla rimozione anche perché Bologna era stata, non va dimenticato, la seconda città dello Stato Pontificio. In ogni caso Carducci ha salva la cattedra, lui che aveva scritto, in una lettera di poco successiva all’Inno, una proposizione che il ministro Broglio avrebbe trovata ancor più temeraria: Vive Marat! A bas les girondins et toutes les gens de bien! (È il Carducci che apre una antologia di cui questa conferenza è totalmente debitrice, Poeti della rivolta, a cura di un grande storico del movimento operaio e anarchico in particolare, Pier Carlo Masini, edita da Rizzoli nel 1977). Ma ecco finalmente l’incipit dell’Inno a Satana, dove già c’è l’intero armamentario, quanto a forme e contenuto, della poesia sovversiva presente e futura, in una forma ingenuamente ereditaria del classicismo: sono rime alterne di quinari e va immediatamente ricordato che il quinario, con il settenario, è una delle componenti dell’endecasillabo, il verso-base del-
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la tradizione italiana. Carducci utilizza il quinario, che ne è la parte più cantabile, ma al posto di celebrare il papa o il re egli celebra Satana come grande Signore delle Tenebre, contro la luce di una Italia che, all’altezza del 1863, gli fa evidentemente orrore. Lo schematico rivendicare la notte e le tenebre contro la falsa luce dell’Italia appena “risorta” scioglie l’inno alla potenza malvagia e distruttrice, la stessa in nome della quale sette anni dopo i repubblicani di Ancona intitoleranno Lucifero il loro giornale di sovversivi. A te, de l’essere Principio immenso, Materia e spirito, Ragione e senso; Mentre ne’ calici Il vin scintilla Sì come l’anima Ne la pupilla; Mentre sorridono La terra e il sole E si ricambiano D’amor parole, E corre un fremito D’imene arcano Da’ monti e palpita Fecondo il piano; A te disfrenasi Il verso ardito, Te invoco, o Satana, Re del convito. […]
Va ricordato come la poesia politica spesso nascesse, nell’antichità, da un’occasione conviviale: si è già citato Archiloco,
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ma si potrebbe aggiungere la poesia di Alceo ambientata nel simposio, una specie di club politico dove i grandi temi della polis venivano discussi a tavola dalle élites. Nell’Inno non solo il metro di quinari a rime alterne, ma la morfologia e tutto il lessico è classicista anche se, al posto dei «segnacoli cristiani», come li chiama altrove Carducci, ci sono evocazioni (e si pensi solamente a quell’arditissimo «imene arcano») di tipo lucreziano, epicureo e materialista. Più forte, molto più violento, è il finale di una poesia successiva, Versaglia, scritta nei giorni della Comune, perché si è nel maggio del 1871, ma che rimanda ai fatti della Grande Rivoluzione, una poesia che oggi in Italia forse non potrebbe essere pubblicata, dove Iddio viene definito una «carogna» decapitata da Immanuel Kant così come il Re da Robespierre. L’ultima strofe, per i martiri della repubblica giacobina, allude in realtà a quelli tuttora sepolti presso il Muro dei Federati nel cimitero Père-Lachaise, i comunardi trucidati dalle milizie versagliesi di Thiers. Rispetto all’Inno, il testo appare più complesso e lavorato, dimette il cantabile e utilizza invece quello che Carducci, nello stridore formale molto forte, chiama con Orazio la callida iunctura, una astuta modalità di mettere insieme le parole e di farle risuonare. Ecco l’explicit: E il giorno venne: e ignoti, in un desio Di veritade, con opposta fe’, Decapitaro, Immanuel Kant Iddio, Massimiliano Robespierre, il re. Oggi i due morti sovra il monumento Co ’l teschio in mano chiamano pietà, Pregando, in nome l’un del sentimento, L’altro nel nome de l’autorità. E Versaglia a le due carogne infiora L’ara ed il soglio de gli antichi dí… Oh date pietre a sotterrarli ancora, Nere macerie de le Tuglierí.
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È un testo di violenza inusitata per la nostra tradizione e viene scritto da un poeta che più classicicista non potrebbe essere, ma la grandezza della poesia, rispetto all’Inno a Satana, sta proprio nella capacità carducciana di torcere il collo all’eloquenza, di far vibrare il linguaggio in termini non automatici o, tanto meno, cantabili. Carducci è un poeta oggi ridimensionato nella ricezione anche perché un tempo sopravvalutato da Benedetto Croce, et pro domo sua, in quanto Croce negava il valore di quel Decadentismo che non capiva e perciò riteneva, ad esempio, la poesia di Pascoli o Mallarmé, lasciò intendere da qualche parte, come un’arte rimasta al settimo mese di gravidanza. Il tempo sfronda i poeti, anche i più grandi, persino Omero a quanto pare, ma la maestria di Carducci rimane proprio nella sua capacità di dare tensione e forza al linguaggio tradizionale. Peraltro da Carducci nascono tutti i poeti che qui ci interessano, i poeti sovversivi, i quali presentano una conformazione variegata ma hanno per denominatore comune sia l’ingenuità politica sia la mancanza di un collegamento più o meno organico con il movimento operaio e le organizzazioni di massa che in Italia stanno appena nascendo. Sono semmai rubricabili in una sequenza di “-ismi”: il verismo (si pensi a Rapisardi o a un uomo politico, Felice Cavallotti, che ha scritto poesie che inneggiano ai primi opifici o allo stesso Filippo Turati, raffinato poeta, che ha firmato canzoni per il movimento operaio, per esempio l’Inno dei lavoratori, ma anche struggenti poesie in chiave elegiaca); il populismo (si pensi, come emblema, a un quadro col tempo divenuto un poster, Il quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, dove si vede il popolo marciare con passo implacabile e venire avanti in una prospettiva di presunto sfondamento su cui Massimo Onofri ha scritto anni fa un contributo di grande limpidezza); l’anarchismo (nel senso più generico del termine, che equivale al sentirsi fuori orbita
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o outsider e si pensi alla cerchia degli Scapigliati che rivendica il male, la notte, le tenebre, pure se volentieri in maniera apolitica e puramente estetizzante). Sono una selva, i poeti censiti da Pier Carlo Masini, e due sono i simboli, in tutto diametrali, che possono accomunarli, il petrolio e l’assenzio: va rammentato che le pétroleuses erano le donne che durante la Comune di Parigi appiccavano il fuoco contro i versagliesi mentre l’assenzio, lo sanno tutti, era le viatique vert, come lo definì Théodore de Banville, la bevanda stupefacente per antonomasia. La stessa Bohème, come autoesclusione dalla vita borghese, potrebbe rivelare in certi casi connotazioni politiche ma non è il caso della Bohème pucciniana, mentre è il caso, viceversa, del bellissimo Scene della vita di bohème di Henri Murger di cui si avvalsero Illica e Giacosa, i librettisti di Puccini, la cui sensibilità politica, pari a quella del compositore, era comunque irrilevante. L’elemento di ribellione sbrigliata, frontale, poco connotata politicamente, si rinviene al passaggio del secolo nella maggioranza di questi poeti e indipendentemente dal loro grado di coscienza politica che di solito è molto basso. Come esempio successivo, la scelta cade su un testo e su un’autrice che la mia maestra elementare di cinquant’anni fa letteralmente adorava, Ada Negri. (La mia, va ricordato, era una maestra a fine carriera, nata nel 1908, formatasi sotto il fascismo, una che imponeva si cantasse in coro il Natale di Roma, Sole che sorge libero e giocondo: Ada Negri era uno dei suoi cavalli di battaglia e Ada Negri era stata a sua volta una maestra elementare socialisteggiante ma alla fine molto fascisteggiante, prediletta e pluridecorata da un altro maestro elementare ex socialista, Benito Mussolini). Anche la sua poesia qui presa a prestito, Sfida, è debole in quanto schematica nella forma e inerte nel contenuto. È una specie di ode «barbara», come ne scriveva Carducci, presenta uno schema metrico raffinatissimo ma, dopo tutto, ribadisce il risaputo. Il fatto è che i nostri poeti rivoltosi dicono tutti la
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stessa cosa perché dicono tutti essenzialmente di no al mondo in cui vivono, e però non sanno dire altro: O grasso mondo di borghesi astuti Di calcoli nudrido e di polpette, Mondo di milionari ben pasciuti E di bimbe civette; O mondo di clorotiche donnine Che vanno a messa a guardar l’amante O mondo d’adulteri e di rapine E di speranze infrante; . E sei tu dunque, tu, mondo bugiardo, Che vuoi velarmi il sol de gl’ideali, E sei tu dunque, tu, pigmeo codardo, Che vuoi tarparmi l’ali?… Tu strisci, io volo; tu sbadigli, io canto: Tu menti e pungi e mordi, io ti disprezzo; Dell’estro arride a me l’aurato incanto, Tu t’affondi nel lezzo. O grasso mondo d’oche e di serpenti, Mondo vigliacco, che tu sia dannato; Fiso lo sguardo negli astri fulgenti, Io muovo incontro al fato; Sitibonda di luce, inerme e sola, Movo. E più tu ristai, scettico e gretto, Più d’amor la fatidica parola Mi prorompe nel petto! … Va, grasso mondo, va per l’aere perso Di prostitute e di denari in traccia; Io, con la frusta del bollente verso, Ti sferzo in su la faccia.
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L’automatismo quasi ecolalico, da filastrocca, è la condanna a morte di un testo che automatizza la serie di contrapposizioni elementari di Bene e Male, dunque la povertà come Bene e il lusso e la mollezza come Male, un automatismo che è sempre evanescente come ci ha insegnato un grande critico sovietico, Viktor Šklovskij, il quale ci ha pure ricordato che l’arte funziona solo quando spiazza i nostri meccanismi di attesa: mi vengono ora in mente diverse canzoni tradizionali della sinistra italiana ma mi viene anche in mente il fatto che, ogni volta che noi le cantiamo, da una parte avvertiamo un senso di partecipazione e di fraternità e però, dall’altro, una conferma statica, rassicurante, un ambiguo senso di euforia e insieme di sollievo. Tuttavia le cose non stanno sempre così, per fortuna. Ad esempio c’è una canzone, Addio a Lugano, che tutti conoscono con un titolo sbagliato, Addio Lugano bella, scritta da un poligrafo migrante, l’anarchico Pietro Gori, che fuggì in Svizzera ma gli svizzeri, che in quel periodo non volevano grane, lo portarono con i suoi compagni al confine a Basilea e lo cacciarono dal paese. Anche Addio a Lugano avrebbe tutte le caratteristiche dell’ecolalìa, cioè sembrerebbe condannata in partenza, eppure nella canzone resiste una tempra corale, partecipativa, che i versi di Ada Negri e quelli del buon vecchio Carducci non avranno mai. Confesso di amarla molto, e da sempre, anche perché sa riassorbire totalmente la retorica da cui muove: un ulteriore paradosso vuole che la retorica di Addio a Lugano sia persino più vistosa, più banale, rispetto a quella degli esempi precedenti eppure è una retorica completamente metabolizzata, capace di rilanciare il senso del testo, mai cedevole o prevedibile: Addio Lugano bella o dolce terra pia scacciati senza colpa gli anarchici van via e partono cantando
156 con la speranza in cor. E partono cantando con la speranza in cor. Ed è per voi sfruttati per voi lavoratori che siamo ammanettati al par dei malfattori eppur la nostra idea è solo idea d’amor. Eppur la nostra idea è solo idea d’amor. Anonimi compagni amici che restate le verità sociali da forti propagate è questa la vendetta che noi vi domandiam. E questa la vendetta che noi vi domandiam. Ma tu che ci discacci con una vil menzogna repubblica borghese un dì ne avrai vergogna noi oggi t’accusiamo in faccia all’avvenir. Noi oggi t’accusiamo in faccia all’avvenir. Banditi senza tregua andrem di terra in terra a predicar la pace ed a bandir la guerra la pace per gli oppressi la guerra agli oppressor. La pace per gli oppressi la guerra agli oppressor.
157 Elvezia il tuo governo schiavo d’altrui si rende d’un popolo gagliardo le tradizioni offende e insulta la leggenda del tuo Guglielmo Tell. E insulta la leggenda del tuo Guglielmo Tell. Addio cari compagni amici luganesi addio bianche di neve montagne ticinesi i cavalieri erranti son trascinati al nord.
Nella sua cantabilità la poesia di Pietro Gori ha in effetti una esattezza da epigrafe, come accade alla più bella delle canzoni sovversive: non la scrisse un italiano ma un francese, del tutto apolitico, Boris Vian, che, con la scusa di un soffio al cuore, si rifiutò di andare a combattere e, nei giorni della disfatta a Diên Biên Phu, compose Le déserteur, un testo difficilissimo da tradurre anche se ci provarono Giorgio Caproni e Luigi Tenco. La migliore versione resta quella di un cosiddetto paroliere, Giorgio Calabrese: «In piena facoltà / egregio Presidente / le scrivo la presente…», sembra ricalcata in assolo o dedotta nel ritmo, pure se con un effetto di secca accelerazione dell’epica corale di Addio Lugano bella. L’ultimo esempio è, in senso etimologico, il più straordinario e concerne l’estremo fra i poeti della rivolta e, nello stesso tempo, il primo di una possibile rivoluzione, Gian Pietro Lucini, nato nel 1867 e mancato nel 1914. Un uomo dalla vita difficile, tormentata, discendente da una importante famiglia di medici, recluso dalle parti di Como, a Breglia, minato dalla tubercolosi ossea. Veniva da una cultura positivistica molto schematica,
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confusionaria, non era affatto un poeta musicalmente raffinato, anzi all’armonia poetica era sordo come un banco, e però la sua poesia mostra beneficamente il difetto opposto a quelli che affliggono gli autori analizzati in precedenza, che spesso tendono a una cantabilità facile, cedevole. Lucini è l’autore di un libello encomiastico in morte di Carducci, Agli dèi Mani di Enotrio Romano, è il firmatario di molte raccolte poetiche, fra cui Revolverate del 1909 che Edoardo Sanguineti, una quarantina d’anni fa, ha cercato di imporre alla nostra cultura letteraria, purtroppo con scarsi risultati. Nella sua produzione vastissima spicca un trattato sul verso libero, con ogni probabilità il primo apparso in Italia, e specialmente un pamphlet intitolato Antimilitarismo che Lucini lasciò in bozze sul letto di morte nei giorni dell’attentato di Sarajevo, edito da Mondadori solo di recente e sconciato da una pessima curatela. Lucini muore poco tempo dopo la Settimana Rossa ma la prova del fuoco l’aveva già avuta nel 1898 quando il “Re buono”, Umberto I di Savoia, aveva tollerato e anzi istigato Bava Beccaris a sparare sulla folla di Milano, una folla di mendicanti, di affamati. Certo. Lucini va letto col machete, nel senso che è un poeta frondoso, talora ridondante, ma sa essere efficace, penetrante, in alcuni testi brevi come Maggio di sangue, una poesia violentemente antimonarchica, carducciana in essenza, pubblicata quando il vilipendio del Re era un reato gravissimo e come tale giudicato, specie se a mezzo stampa: Maggio di sangue, cantiam la clemenza delle mitragliatrici; / Maggio d’obrobrio, cantiamo il coraggio dei paurosi armati / contro all’inermi: o Maggio rosso, cantiam li Haynau italici / per le Città lombarde. Maggio d’odio / noi segnerem le case / della morte plebea, ricche case, per la riscossa estrema. / Maggio, il regalo a voi venga augurale di questo fratricidio; / o benigna Corona; Corona ben’amata, ecco l’omaggio / dei rantoli morenti e delle grida delli sgozzati.
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Lucini visse inconsapevolmente, in anticipo e in effigie, il fallimento della Settimana Rossa scontando nella ribellione ingenua o istintiva, la mancanza di un progetto e di una prospettiva, l’assenza di una base organizzativa che sempre distingue la ribellione da una rivoluzione. Il ribellismo dei poeti, il loro satanismo, l’inneggiare all’assenzio e al petrolio nasceva dunque su un terreno ancora troppo malsicuro e accidentato. Alzavano la voce, costoro, per coprire il brontolìo dei loro dubbi e delle loro insicurezze, non potevano immaginare e tanto meno presagire la massima di Bertolt Brecht secondo cui la poesia politica si scrive, per estremo paradosso, parlando di alberi. Quando uscì l’antologia di Masini, Poeti della rivolta, recensendola su «Rinascita» del 20 gennaio 1978, Edoardo Sanguineti scrisse qualcosa che vale anche come oroscopo della Settimana Rossa: «Quando contestazione e protesta non giungono all’altezza del cervello politico, è regolare, invalicabile, che esse si sfoghino semplicemente con il cuore etico».
[Trascrizione di un intervento al ciclo La Settimana Rossa cento anni dopo, Ancona, 18 luglio 2014, poi M. Raffaeli, Inni a Satana (Poesia e sovversione 1861-1914), con una nota di F. Scarabicchi, Istituto Gramsci Marche, Ancona 2014].
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Indice dei nomi
Abelli, Pia: 106. Accrocca, Elio Filippo: 43. Adorno, Theodor W.: 38, 42 n., 88-90, 100. Agnelli, Aldo: 18. Ajello, Nello: 63. Alberti, Alberto: 22, 26 n. Alberti, Sandro: 25. Alceo: 151. Alessi, Giuseppe: 44. Alighieri, Dante: 66, 146. Amodio, Luciano: 89-90. Anceschi, Luciano: 99. Andreotti Giulio: 48. Arcangeli, Francesco: 29. Archiloco: 146, 150. Artom, Emanuele: 92. Augusto, Cesare Ottaviano: 146. Bagnoli, Antonio: 78-80. Balestrini, Nanni: 83, 95-98. Banville, Théodore de: 153. Baran, Paul A.: 90. Baranelli, Luca: 90.
Barenghi, Anna: 106. Bartolini, Luigi: 69. Bassani, Enrico: 29. Bassani, Giorgio: 27-31, 51, 67. Bassani, Paola: 27-31. Baudelaire, Charles: 10. Bauman, Zygmunt: 38, 42 n. Bava Beccaris, Fiorenzo: 158. Beatles, The: 80. Bebel, August: 35. Beckett, Samuel: 101, 114. Benjamin, Walter: 88, 89, 113. Bensoussan, Georges 39, 42 n. Berardinelli, Alfonso: 102. Bergerac, Cyrano de: 18. Berlinguer, Enrico: 72. Bertolucci, Attilio: 29. Bloom, Harold: 102. Bianciardi, Luciano: 113. Blanchot, Maurice: 80, 119. Boito, Arrigo: 118. Borrelli, Massimiliano: 105. Brancati, Vitaliano: 45. Brecht, Bertolt: 77, 145-149, 159.
162 Broglio, Emilio: 149. Broussard, Dora: 22. Bruno, Giordano: 82, 124, 126, 130, 131. Calabrese, Giorgio: 157. Calvino, Italo: 16, 17, 118. Campanella, Tommaso: 82. Camporesi, Piero: 99. Capodaglio, Enrico: 133. Caprioglio, Sergio: 90. Caproni, Giorgio: 157. Caracciolo, Battistello: 74. Cardarelli, Vincenzo: 25. Carducci, Giosue: 147-158. Cases, Cesare: 40, 42 n., 89. Cassirer, Ernst: 89. Cattaneo, Carlo: 148. Cavallero, Pietro: 92. Cavallotti, Felice: 152. Cavour, Camillo Benso, conte di: 148. Céline, Louis-Ferdinand: 99, 126. Cepollaro, Biagio: 133. Chiodi, Pietro: 14, 19. Chion, Michel: 106. Chomsky, Noam: 90. Ciceroni, Fabio: 45 e n. Citati, Pietro: 29. Cocito, Leonardo: 14. Colussi Pasolini, Susanna: 115. Compagnon, Antoine: 102. Consolo, Vincenzo: 115. Cortellessa, Andrea: 123, 126, 133. Cossiga, Francesco: 48. Courier, Paul-Louis: 47. Craxi, Bettino: 72.
Cremonini, Renzo: 78. Croce, Benedetto: 30, 82, 152. Cuccaroni, Valerio: 99. Curi, Fausto: 96, 99. Curreri, Gaetano: 80. Dalla, Lucio: 77-80. Dallos, Marinka: 106. Davide, re: 34. Davoli, Ninetto: 84. Dayan, Moshe: 34, 38, 39. Debenedetti, Giacomo: 117, 118. De Giusti, Luciano: 68 n. della Volpe, Galvano: 24, 82. De Laude, Silvia: 68 n. De Martino, Ernesto: 89. De Pisis, Filippo: 25, 55. De Roberto, Federico: 118. De Sanctis, Francesco: 119. De Signoribus, Eugenio: 133. Deutscher, Isaac: 38, 42 n. Di Ruscio, Luigi: 124-141. Dolci, Danilo: 45 e n. Dondero, Mario: 113-116. Echaurren, Pablo: 96. Eco, Umberto: 83. Eichmann, Adolf: 36. Éluard, Paul: 25, 41. Enzensberger, Hans Magnus: 82. Erenburg, Il’ia: 89. Felice, Angela: 66, 68 n. Fenoglio, Beppe: 13-19. Ferracuti, Angelo: 123, 133, 139. Ferretti, Gian Carlo: 77. Fiorani, Eleonora: 83. Flaubert, Gustave: 30.
163 Foa, Vittorio: 63. Fofi, Goffredo: 89. Fortini, Franco: 33-42, 63, 68 n., 74, 72, 82, 84, 89, 129, 137. Francesco d’Assisi: 126, 139. Frassineti, Augusto: 29. Freud, Sigmund: 119.
Hobbes, Thomas: 132. Horkheimer, Max: 38, 42 n. Huillet, Danièle: 38.
Gallo, Niccolò: 29. Garboli, Cesare: 29, 74. Garibaldi, Giuseppe: 149. Garland, Judy: 17. Gazzano, Marco M.: 106. Gentileschi, Orazio: 74. Gezzi, Massimo 133-134. Giacosa, Giuseppe: 153. Giustozzi, Nunzio: 116 n. Gnudi, Cesare: 29. Gobetti, Ada: 92. Goldmann, Lucien: 61. Goncourt, Edmond: 118. Goncourt, Jules: 118. Gori, Pietro: 155-157. Gotor, Miguel: 46 e n. Gramsci, Antonio: 111, 137, 147. Grass, Günter: 82. Guglielmi, Angelo: 99. Guglielmi, Giuseppe: 99. Guglielmi, Guido: 99-102. Guidetti Serra, Bianca: 91-94. Gurion, Ben: 36.
Jaeger, Werner: 89. James, Henry: 53. Joyce, James: 25, 101, 133.
Hardy, Thomas: 18. Hašek, Jaroslav: 126. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich: 90, 126, 131. Heidegger, Martin: 14. Hitler, Adolf: 145.
Ibsen, Henrik: 131. Illica, Luigi: 153. Insolera, Delfino: 89.
Kammerer, Peter: 33. Kant, Immanuel: 151. La Pira, Giorgio: 45. Laurana, Luciano: 71. Lautréamont: 26, 98, 105. Lavagetto, Mario: 99, 117-119. Lenin, Vladimir: 63, 139. Lenzini, Luca: 42 n. Leonetti, Francesco: 81-84. Leopardi, Giacomo: 25, 99, 146. Levi, Carlo: 29. Levi, Primo: 40, 42 n., 92. Levi, Virgilio: 46. Lindon, Jérôme: 114. Lischi, Sandra: 104-106. Longhi, Roberto: 23, 28, 29, 82. Lorenzini, Niva: 99. Loreto, Antonio: 97. Lucini, Gian Pietro: 157-159. Lukács, György: 47, 87, 100, 101. Lunetta, Mario: 22, 106. Maccari, Mino: 24. Mafai, Mario: 55. Majorino, Giancarlo: 129.
164 Malipiero, Gian Francesco: 55. Mallarmé, Stéphane: 152. Mandel’štam, Osip: 79. Mann, Thomas: 30. Manzoni, Alessandro: 30, 41. Marcuse, Herbert: 89. Marini, Giovanna: 80. Marlowe, Christopher: 15. Masi, Edoarda: 90. Masini, Pier Carlo: 149-159. Mazzini, Giuseppe: 148-149. Meir, Golda: 36. Menabrea, Luigi F.: 140. Mobiglia, Santina: 91. Momigliano, Franco: 92. Moravia, Alberto: 29, 53, 148. Morelli, Muriel: 141 n. Moretti, Silvia: 104. Moro, Aldo: 46-50. Moscati, Italo: 106. Mucci, Velso: 21-26. Murger, Henri: 153. Musil, Robert: 53. Mussolini, Benito: 14, 31, 153. Muzzioli, Francesco: 105. Nasser, Gamal Abdel: 34, 39. Negri, Ada: 153-155. Nissim, Luciana: 92. Notarnicola, Sante: 92. Nuvolari, Tazio: 79. Olivetti, Adriano: 71. Omero: 18, 152. Onofri, Massimo: 152. Orazio, Quinto Flacco: 139, 146, 151. Orwell, George: 45.
Oz, Amos: 36. Pagliarani, Elio: 83. Palazzeschi, Aldo: 99. Pallottino, Paola: 78. Panzieri, Raniero: 89-90. Paolo, santo: 41, 106. Paolo VI, papa: 46. Pascoli, Giovanni: 152. Pasolini, Pier Paolo: 29, 50, 5971, 82, 84, 105, 114, 115. Pavese, Cesare: 131, 137. Pedullà, Gabriele: 17. Pellizza da Volpedo, Giuseppe: 152. Pepi, Renzo: 22. Petruccioli, Claudio: 63. Picasso, Pablo: 25. Piccoli, Flaminio: 48. Pintor, Giaime: 109-112. Pintor, Luigi: 109-112. Piraccini, Monica: 84. Pisacane, Carlo: 148. Pisapia, Giuliano: 97. Pomodoro, Arnaldo: 83. Porta, Antonio: 83, 129, 135. Pound, Ezra: 66, 68 n. Pratolini, Vasco: 37. Preti, Mattia: 74, 78. Proust, Marcel: 117. Puccini, Giacomo 153. Quasimodo, Salvatore: 129, 132. Quevedo, Francisco de: 139. Rapisardi, Mario: 152. Respighi, Ottorino: 55. Ribera, Jusepe de: 74.
165 Riva, Valerio: 22. Rivière, Jacques: 118. Rizzardi, Alfredo: 68 n. Robbe-Grillet, Alain: 114. Robespierre, Maximilien de: 151. Romanò, Angelo: 82. Ronsisvalle, Vanni: 66. Rosselli, Carlo: 37. Rosselli, Nello: 37. Rossellini, Roberto: 137. Roversi, Roberto: 77-82. Rovoletto, Adriano: 92. Rumor, Mariano: 48. Saba, Umberto: 117. Salardi, Roberta: 139. Salmoni, Alberto: 92. Salvemini, Gaetano: 37. Sanguineti, Edoardo: 26, 50 e n., 83, 96, 114, 158-159. Sansovino, Jacopo: 135. Sapegno, Natalino: 22. Sarraute, Nathalie: 114. Scalia, Gianni: 80, 82. Scarabicchi, Francesco: 133, 159 n. Scarpa, Domenico: 44 e n., 45. Schwarz-Bart, André: 115. Sciascia, Leonardo: 43-50. Segre, Daniele: 106. Shakespeare, William: 15. Siciliano, Enzo: 51-56. Siniawskij, Andrej: 115. Sinigallia, Valeria: 28-31. Sinisgalli, Leonardo: 25. Siti, Walter: 68 n. Šklovskij, Viktor: 155. Soldati, Mario: 29.
Solmi, Renato: 87-90. Solmi, Sergio: 90. Snell, Bruno: 89. Spada, Martina: 84. Spazzapan, Luigi: 25. Spinella, Mario: 97. Spinoza, Baruch: 88, 126, 131, 141. Sprigge, Cecil: 88. Stadio, Gli: 80. Stalin, Iosif: 137. Stendhal: 117. Strappa, Laura: 116 n. Straub, Jean-Marie: 38. Svevo, Italo: 15, 101, 117. Swezee, Paul M.: 90. Swift, Jonathan: 72. Tarquini, Tarcisio: 106. Tasso, Bruno: 45. Taviani, Paolo Emilio: 48. Telesio, Bernardino: 82. Tenco, Luigi: 157. Thiers, Adolphe: 151. Togliatti, Palmiro: 65, 125, 137138. Toti, Gianni: 103-106. Totò: 84. Traina, Giuseppe: 49 e n. Tricomi, Antonio: 97. Turati, Filippo: 152. Umberto I di Savoia, re: 158. Ungaretti, Giuseppe: 131, 137. Vallès, Jules: 126, 136. Vercelli, Claudio: 36, 42 n. Vian, Boris: 157.
166 Vico, Giambattista: 88. Vigo, Jean: 136. Vino, Carlo: 68. Vittorini, Elio: 16, 82. Volpini, Valerio: 43-49. Volponi, Paolo: 69-75, 83-84, 101, 114, 115. Warburg, Aby: 119. Warhol, Andy: 100. Weill, Kurt: 77-78. Welles, Orson: 67. Whitman, Walt: 66. Wittgenstein, Ludwig: 51. Zaccagnini, Benigno: 48. Zertal, Idith: 36, 42 n. Zinato, Emanuele: 133. Zola, Émile: 147.
Indice
p. 9
Premessa
Dal Novecento
Fenoglio alle medie
p. 13
Il sangue intellettuale
p. 21
Ricordo di Bassani
p. 27
I cani di Fortini
p. 33
Sciascia e il suo amico cattolico
p. 43
Il campo aperto della vita
p. 51
«Officina» e dintorni
Pasolini giornalista in versi
p. 59
Apologia di Volponi
p. 69
Roversi e Dalla
p. 77
In morte di Francesco Leonetti
p. 81
Compagni di via
Fra Adorno e Benjamin
p. 87
Bianca la rossa
p. 91
Balestrini in prosa
p. 95
La critica di Guido Guglielmi
p. 99
Tutto Toti
p. 103
Pintor in un libro solo
p. 109
Gli scrittori di Mario Dondero
p. 113
In morte di Mario Lavagetto
p. 117
Tre scritti su Di Ruscio
Un operaio e la condizione umana
p. 123
La poesia di Luigi Di Ruscio
p. 129
Anarchico e pìcaro
p. 135
Appendice
Inni a Satana
p. 145
Indice dei nomi
p. 161
Assaggi Collana di saggi di Critica Letteraria Diretta da
Giorgio Ficara e Raffaele Manica
1. Massimo Onofri, Fughe e rincorse. Ancora sul Novecento. 2. Luca Doninelli, Tre lezioni sul Romanzo. 3. Raffaello Palumbo Mosca, L’ombra di Don Alessandro. Manzoni nel Novecento. 4. Paolo Febbraro, Poesia allo stato critico. Saggi e interventi. 5. René de Ceccatty, Sibilla Aleramo. Notte in un paese straniero. 6. Massimo Raffaeli, Compagni di via e altri scritti di letteratura.
Compagni di via Che cosa tiene insieme scrittori in sé molto differenti come Beppe Fenoglio e Giorgio Bassani, Pier Paolo Pasolini e Franco Fortini, Leonardo Sciascia e Paolo Volponi o il poeta operaio Luigi Di Ruscio e un finissimo bohèmien quale l’oggi dimenticato Velso Mucci? Li unisce la convinzione che la letteratura non sia né debba essere una attività autonoma e tanto meno separata dalla società, ma che essa abbia senso soltanto se legata strettamente a istanze d’ordine etico e politico. Dunque la lezione di quei maestri è di particolare importanza nel presente che vede l’egemonia e anzi la dittatura della produzione di genere. Nella costellazione saggistica di Compagni di via, Massimo Raffaeli fornisce la mappa di un percorso in cui l’espressione letteraria e il pensiero critico si richiamano continuamente, nei modi della urgenza e talora dell’aperto conflitto con l’attuale senso comune dove dominano l’evasività dell’intrattenimento e gli alibi più o meno raffinati di una letteratura dimissionaria quanto alla propria funzione civile.
Massimo Raffaeli scrive di critica letteraria per “il manifesto”, “Il Venerdì di Repubblica” e collabora alle trasmissioni di Radio 3 Rai e della Radio Svizzera italiana. Ha curato l’edizione di autori italiani (fra cui Alberto Savinio, Primo Levi, Carlo Cassola, Mario Soldati) e ha tradotto autori della moderna letteratura francese, da Antonin Artaud, Jean Genet, Louis-Ferdinand Céline a René Crevel e Tony Duvert. Parte della sua produzione è raccolta in diversi volumi, fra cui da ultimo L’amore primordiale. Scritti sui poeti (2016), Marca francese (2019) e Di senso comune. Scritti per ‘Alias’ (2021).
Collana diretta da Giorgio Ficara e Raffaele Manica
€ 10,00
Assaggi | 6
ISBN ebook 9788855293990