Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995
 8806202235, 9788806202231

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Gilles Deleuze

Due regimi di folli e altri scritti Testi e interviste 1975-1995 Edizione italiana e traduzione a cura di Deborah Borea

Introduzione di Pier Aldo Rovatti

La «piccola frase» di Deleuze

Due regimi di folli ci porta dal 1975 al 1995 (l’anno del suici­ dio di Gilles Deleuze) attraverso una sequenza di scritti, cosiddet­ ti minori o sparsi, che compongono un’immagine di straordinaria chiarezza di un pensatore che, nei suoi grandi libri, ha messo spes­ so alla prova il lettore. Ci permettono di «conversare» con lui, dun­ que secondo una modalità che amava, perché ogni volta, nelle in­ terviste, negli interventi, nelle prefazioni alle traduzioni, nelle lette­ re aperte, negli articoli di giornale, negli abbozzi, Deleuze parla con franchezza: di filosofia naturalmente, di cinema, di letteratu­ ra, di musica, di pittura, ma anche di politica e cioè di come stan­ no andando le cose in un mondo in cui «si tende a confondere la conquista delle libertà con la conversione al capitalismo». Un con­ catenamento (per usare la parola per lui forse più importante) che per noi, suoi lettori, è essenziale per capire cosa sta costruendo e do­ ve sta mirando. E Deleuze stesso, in questi scritti, che registra l’e­ sigenza di parlar chiaro, rendendosi conto dei nodi difficili da sno­ dare e magari dei motivi di una certa delusione (per esempio, do­ po l’uscita di Mille piani). Così noi possiamo avvicinarci meglio a concetti come appunto «concatenamento», o «molteplicità», o «singolarità», o «piano di immanenza», o «linea di fuga», per non citarne che alcuni. Scorgerne, insomma, la portata concreta. Mi hanno colpito, soprattutto, due lettere inviate a quello che Deleuze chiama «Uno», cioè all’amico giapponese che stava tra­ ducendo in quella lingua alcune sue opere. Nella prima, del 1982 (cfr. qui n. 27), gli spiega (e ci spiega) che la lingua è sempre un in­ sieme eterogeneo, che bisogna scrivere nella propria lingua come se fosse una lingua straniera (come hanno fatto Proust e Kafka), che l’enunciazione non rimanda a un soggetto e che il modello di ciò potrebbe essere il discorso libero indiretto nel quale si produ­ ce l’impersonalità di un evento o solo di un piccolo dettaglio («le cinque della sera»). Proprio per questo, aggiunge, sta rivolgendo

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tanta attenzione al cinema. Nella seconda Lettera a Uno, del 1984 (cfr. n. 33), parla del suo sodalizio con Félix Guattari, nato sulla scia del ’68, e che lo accompagnerà fino all’ultimo. Cosi diversi, Guattari è «il mare» sempre in agitazione, Deleuze «la collina». Lui procedeva per lampi, Deleuze era il parafulmine. Insieme, di­ ce, saremmo stati «un buon lottatore giapponese». «Ridevamo di continuo». «Non abbiamo mai avuto lo stesso ritmo». I momen­ ti migliori di Mille piani ? « Il ritornello e la musica, la macchina da guerra e i nomadi, il divenire-animale». Abbiamo tratto vantaggio - dice ancora - dalle nostre differenze, anche se su certi punti (per esempio, sul «corpo senza organi») avevamo idee contrastanti. E ovvio che la sequenza degli scritti di Due regimi di folli, dai quali possiamo ricavare moltissimi spunti per ricostruire il «perso­ naggio» Deleuze, chiede la cornice delle opere pubblicate dal 1975 in avanti, alcune delle quali nate dal lavoro con Guattari. Almeno l’elenco di tali opere e le loro date vanno ricordati. Con Guattari, Deleuze aveva già pubblicato, con rumore, L'anti-Edipo nel 1972. Nel 1980 esce Mille piani (cfr. n. 22, l’intervista dello stesso anno che considera le due opere). Nel 1975 era apparso Kafka. Per una letteratura minore (sempre con Guattari), e nel 1977 Convenazio­ ni, altro esempio di lavoro a due (ma con Claire Parnet, questa vol­ ta) e testo paradigmatico come sintesi e chiarificazione del suo pen­ siero precedente. Il 1981 è l’anno di Francis Bacon. Logica della sensazione, incursione magistrale nella pittura. Ed è anche l’anno di Spinoza. Filosofia pratica. Del 1983 e del 1985 sono i due gran­ di libri sul cinema (immagine-movimento e Immagine-tempo), che segnano anche la riscoperta di Bergson. Nel 1986 Deleuze pubbli­ ca la monografia Foucault (Foucault era morto nel 1984). Nel 1988 esce La piega. Leibniz e il Barocco. L’ultima impegnativa opera scrit­ ta con Guattari data 1991 e si intitola Che cos’è la filosofia? Non bisogna, inoltre, dimenticare le due raccolte di saggi, Pourparler del 1990 e Critica e clinica del 1993. E neppure il canto del cigno di Deleuze, quell’Abecedario televisivo dei suoi concetti (registra­ to nel 1988 e messo in onda nel 1996) che non ha fin qui cono­ sciuto la forma di libro.

Se dovessi, però, indicare un basso continuo fra i tanti motivi presenti in Due regimi di folli, andrei dritto al confronto con Fou­ cault che a me pare il «ritornello» piu insistente e significativo del­ l’intera raccolta. Già risuona nel titolo stesso. Poi lo si ascolta nel­

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la lettera aperta a Foucault del 1977 (cfr. n. n), scritta l’indoma­ ni della pubblicazione della Volontà di sapere e intitolata Desiderio e piacere. Ritorna nell’abbozzo (1984) della ricordata monografia del 1986: Sui principali concetti di Michel Foucault (cfr. n. 35). E, ancora, nella testimonianza diretta del lavoro politico di informa­ zione sulle prigioni {Foucault e le prigioni, 1986, n. 39), nella qua­ le troviamo un ritratto prezioso e da vero amico dell’uomo Fou­ cault. Infine, l’ultima comparsa pubblica di Deleuze, nel 1988, a un convegno parigino su Foucault, con l’intervento su Che cos’è un dispositivo? (cfr. n. 50). Cominciamo dal titolo. Quali sono questi due «regimi» di fol­ lia? Si potrebbe dire: quello paranoico in cui i segni sono presi in un rimando infinito e quello del delirio centrato attorno a un sog­ getto dispotico, o tutti e due assieme ma contrapposti a una sorta di «schizofrenia» che è, secondo Deleuze e Guattari, una forma di delirio costruttivo. Nelle prime battute della Storia della follia (i960) Foucault aveva parlato di un’«altra» follia, quella cioè di coloro che credono di poter fare a meno della follia, o - in breve la follia dominante della ragione. Deleuze corregge il tiro: alla fol­ lia del capitalismo e dei saperi che lo legittimano (come la psico­ analisi che taglia il desiderio e toglie la parola) oppone il prolifera­ re rizomatico, la molteplicità dei mille piani, le linee di fuga che attraversano sempre i dispositivi stessi e li de-territorializzano. Perciò elogia il desiderio come produzione inconscia, libera e non soggettiva. Quando poi Foucault pubblica La volontà di sapere e la sua critica alla psicoanalisi, Deleuze corre a rendergli omaggio (cfr., appunto, Desiderio e piacere). Sono d’accordo, dice, non ci si deve nascondere né dietro la parola «repressione» né dietro la parola «ideologia», ma su desiderio e piacere il disaccordo è lampante. Se Foucault afferma «Non posso sopportare la parola desiderio», Deleuze replica «E io non posso sopportare la parola piacere». Se Foucault vede nel desiderio una chiusura in termini di sapere/potere, Deleuze vi legge la molla di ogni «divenire», e non ha dubbi che, invece, il piacere (troppo soggettivo ?) stia dalla parte degli strati di organizzazione e operi ogni volta un rientro nel territorio. Le due coppie (potere e sapere, riterritorializzazione e deterritorializzazione) si incrociano ma caratterizzano immagini molto diverse del pensiero. Possono incontrarsi, ma hanno struttura e direzioni dif­ ferenti. Il desiderio impersonale di Deleuze («un Hans-divenire-cavallo», cfr. n. 9) ha una differenza di natura rispetto al desiderio-sog­ getto che Foucault scopre nel suo scavo storico e teorico.

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Tuttavia, leggendo i vari interventi che costellano gli anni Set­ tanta e Ottanta, si coglie con evidenza che Deleuze è meno inte­ ressato a segnare le diversità di quanto sia invece attratto dal pen­ siero di Foucault e dalla possibilità di trovarvi una specie di casa comune, forzandone quelli che a lui sembrano i limiti, cercando una sorta di ibridazione. Non è qui il caso di seguire tutte le pie­ ghe di questo desiderato «divenir Deleuze» da parte di Foucault, e naturalmente del processo reciproco. Basti osservare come De­ leuze lo incalza di continuo: Foucault non si è spiegato bene sul concetto di verità, Foucault introduce nei dispositivi di cui parla le forme di soggettivazione come ripiegamenti del fuori, ma quel «sé» cui approda non è né potere né sapere, e allora di cosa si trat­ ta ? Foucault, infine, non ha avuto il tempo di portare a termine il suo lavoro: se l’avesse fatto, forse ci avrebbe mostrato come la sog­ gettivazione non passa più «per la vita aristocratica o per resisten­ za estetizzata dell’uomo libero [il greco, per esempio], ma per l’e­ sistenza marginalizzata dell’“escluso”» (cfr. qui p. 282). Ciò è già in nuce - come Deleuze sottolinea - nelle interviste dell’ultimo periodo, ma non solo, potremmo aggiungere: già in testi preceden­ ti, nel Pierre Rivière come nelle note sulle vite degli uomini infa­ mi, e infine nell’ultimo corso al Collège dedicato al Coraggio della verità. E vero che Foucault non articola compiutamente «l’altra metà» del suo pensiero, ma è pur vero che si avvia proprio su que­ sta strada.

Se ritroviamo in tale lavoro sul corpo di pensiero di Foucault qualcosa come un basso continuo, una griglia possibile di lettura di Due regimi di folli, l’esplosione di temi, riflessioni, prese di po­ sizione, deborda a ogni pagina in una molteplicità di direzioni. Sta al lettore che abbia un po’ di orecchio seguire il ritornello della sua filosofia (Guattari, per esemplificare questo insolito concetto, ri­ mandava a Proust e alla «piccola frase» musicale di Vinteuil), ritro­ varlo nella sua sintonia con Foucault stesso, nelle pagine su Proust della tavola rotonda del 1975 (ancora il tema della follia, cfr. n. 8), o in quelle sull’immagine e il cinema, sulla pittura, o magari in quel­ le sulla Palestina, sul pacifismo, o sul pensiero di Toni Negri. Alla fine, proprio nell’ultimo testo datato 1995 (L'immanenza, una vita...), le note di questo ritornello si fanno, se possibile, an­ cora più udibili. Sono le pagine che appartengono a un progetto mai realizzato il cui titolo avrebbe dovuto essere Insiemi e molte­

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plicità e in cui il problema del virtuale (ereditato da Bergson) avreb­ be avuto molto spazio. Secondo Deleuze non c’è filosofia senza costruzione di concetti (perciò è cosi vicina alle arti). Il filosofo, aveva detto, è uno che «intaglia la propria freccia». Inventare un concetto - aveva pure detto (cfr. l’intervista del 1991 rilasciata con Guattari a Didier Eribon, Abbiamo inventato il ritornello, n. 60) - è «operare un taglio inedito delle cose». Per fare ciò, occor­ re produrre nuove parole, magari strane e magari dall’etimologia un po’ folle. Bergson non sarebbe Bergson senza la parola «dura­ ta», così Derrida che scrive différance con la «a», e lo stesso Hei­ degger che trasforma radicalmente la parola «essere». C’è una pa­ rola di Deleuze? Forse la strana parola «ritornello» fa girare tut­ te le sue parole e le fa filare su una medesima linea: linee, concatenamento, divenire altro, molteplicità, singolarità, immanen­ za, piano... Riusciamo a pensare una coscienza senza io? O una «pura immanenza»? O un’esperienza «impersonale» e tuttavia «singolare»? Un «articolo» che insieme indetermina la persona e determina la singolarità, l’«ecceità» (meglio, l’«hecceità») dell’e­ vento, fino al piu piccolo ? In queste ultime sue pagine, Deleuze ci invita a considerare semplicemente che cosa è «una vita», una vita qualunque. Sugge­ risce di pensare alla vita dei neonati, tutta fatta di potenza e vir­ tualità. Una vita contiene solo virtuali, il piano di immanenza dà agli eventi virtuali una piena realtà. Basta leggere Dickens, ci di­ ce, se vogliamo entrare in questo mondo al cui lessico non siamo davvero abituati, ma nel sottofondo pare ancora di udire il moti­ vo del settimino che si irradia come un ritornello nelle pagine del­ la Recherche di Proust.

Restiamo ancora un po’ sbigottiti di fronte al lessico di Deleuze, il quale si congeda da noi lasciandoci letteralmente nei pasticci, se­ minandoci attorno una girandola di problemi aperti. Il lettore di Due regimi di folli potrà osservare e verificare qui che, se dagli Sta­ ti Uniti al Giappone, c’è stata una formidabile sensibilità a que­ sto lessico e a questi problemi, l’Italia - una parte non piccola e non insignificante della nostra cultura - ha rivolto a essi un’atten­ zione particolare, cui Deleuze stesso ha corrisposto con i suoi in­ terventi e anche con la sua stessa presenza (pur così parca). Eppu­ re si ha l’impressione di essere rimasti al palo di partenza: forse un eccesso di fretta ci ha spinto a voler capire subito quanto stava di­

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cendo e a tradurlo in gergo e comportamenti, evitando il «market­ ing letterario e filosofico» (cfr. la sua accusa ai «nuovi filosofi», n. 13), ma non un certo mimetismo o usando la strettoia di una lingua un po’ da iniziati, con ciò, a mio parere, tradendo l’idea di far emergere una lingua minore o straniera nella lingua maggiore, e lasciando inascoltato il suo appello in direzione di una filosofia che inventa e crea le sue parole e la sua musica. Sarebbe opportu­ no, allora, tentare finalmente di girare pagina e avviarsi con lui nella direzione che ci indica. E sarebbe bello che questo libro di­ ventasse una parte significativa di tale viatico. PIER ALDO ROVATTI

Prefazione

Questo secondo volume fa seguito a L'isola deserta e altri scrit­ ti. Raccoglie l’insieme dei testi redatti tra il 1975 e il 1995. La maggior parte di essi è scandita dal doppio ritmo dell’attualità (il terrorismo italiano e tedesco, la questione palestinese, il pacifismo ecc.) e della pubblicazione dei libri (Mille piani, Immagine-movi­ mento e Immagine-tempo, Che cos'è la filosofia? ecc.). La presente raccolta comprende conferenze, prefazioni, articoli, interviste, pubblicati in Francia e all’estero. Come per il primo volume, non abbiamo voluto influenzare il senso o l’orientamento dei testi con scelte precostituite, perciò ab­ biamo adottato un ordine di presentazione strettamente cronolo­ gico. Non si trattava di ricostruire un altro libro «di» Deleuze o che Deleuze aveva progettato. Si volevano rendere disponibili te­ sti che sono spesso poco accessibili, dispersi in riviste, quotidiani, opere collettive, pubblicazioni all’estero ecc. Conformemente alle esigenze espresse da Deleuze, non si tro­ veranno qui pubblicazioni postume né inediti. Tuttavia questa rac­ colta include un notevole numero di testi conosciuti dai lettori an­ glosassoni, italiani o giapponesi, ma sconosciuti al lettore france­ se. Con l’eccezione dei testi numero 5 (Nota per l'edizione italiana di «Logica del senso») e 20 (Lettera aperta ai giudici di Negri), dispo­ nevamo sempre degli originali francesi di cui Deleuze aveva con­ servato una copia dattilografata o manoscritta1, ed è quindi la ver­ sione che presentiamo qui. In nota, comunque, indichiamo sem­ pre la data di pubblicazione dell’edizione americana, giapponese, inglese o italiana. I principi adottati sono sostanzialmente gli stessi del primo vo­ 1 Per il testo numero 39 (Foucault e le prigioni) abbiamo ritrascritto l’intervista in ba­ se alla registrazione conservata su nastro magnetico.

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lume. Ci permettiamo di ricordarli. Nel presente volume non fi­ gurano: - i testi per i quali Deleuze non aveva dato la sua autorizzazione; - i corsi, qualunque forma abbiano (sia quelli pubblicati in ba­ se alle trascrizioni dei materiali sonori o audiovisivi, sia quelli rias­ sunti da Deleuze stesso); - gli articoli che Deleuze ha ripreso in altri suoi libri (molti dei quali sono stati ripresi in Pourparler e Critica e clinica). Le modifi­ che apportate non erano tali da giustificare la riedizione dell’arti­ colo nella sua versione originale; - gli estratti di testi (passi di lettere, ri trascrizioni, ringrazia­ menti ecc.); - i testi collettivi (petizioni, questionari, comunicati, ecc.); - la corrispondenza, con l’importante eccezione di alcune let­ tere di cui Deleuze aveva autorizzato la pubblicazione, come il te­ sto numero 55 (Lettera-prefazione a Jean-Clet Martin), o le lettere del testo numero 47 (Corrispondenza con Dionys Mascolo) che Fanny Deleuze ha permesso di pubblicare. A differenza del primo volume, non ci siamo sempre attenuti alle date di pubblicazione, poiché a volte presentavano uno scar­ to troppo evidente con le date di redazione. In quel modo un te­ sto avrebbe potuto annunciare il progetto di Che cos'è la filosofia? molto tempo dopo la pubblicazione dell’opera. Quindi, per evita­ re confusioni, ogni volta che è stato possibile abbiamo deciso di seguire l’ordine di redazione, enormemente aiutati dal fatto che la maggior parte dei testi manoscritti o dattilografati di Deleuze era datata con precisione. Se si vuole seguire l’ordine di pubblicazio­ ne, si può fare riferimento alla bibliografia completa degli artico­ li di questo periodo in fondo al volume. Abbiamo sempre riprodotto il testo nella sua versione iniziale, apportandovi le correzioni d’uso. Dal momento che Deleuze rive­ deva la maggior parte delle sue interviste, abbiamo conservato al­ cune caratteristiche tipiche della sua scrittura (punteggiatura, uso delle maiuscole ecc.).

Per non appesantire i testi di note, ci siamo limitati a fornire alcune indicazioni all’inizio di ogni testo, quando ciò poteva chia­ rire le circostanze della sua redazione o di una collaborazione. In mancanza di dati precisi, in alcuni casi abbiamo scelto un titolo per gli articoli che non ne avevano, specificandolo ogni volta. Ab­

Prefazione

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biamo anche completato alcuni riferimenti bibliografici, talora im­ precisi, forniti da Deleuze. Le note del curatore francese [e della traduttrice] sono segnalate. In fondo al volume si trova una bibliografia completa degli ar­ ticoli pubblicati tra il 1975 e il 1998, e un indice dei nomi.

Vorrei rivolgere un profondo ringraziamento a Fanny Deleuze per l’aiuto che mi ha fornito e la fiducia che mi ha testimoniato durante questo lavoro. Senza di lei, questa raccolta non avrebbe visto la luce. Vorrei anche ringraziare Emilie e Julien Deleuze per il loro incoraggiamento e sostegno. Desidero inoltre ringraziare Jean-Paul Manganare, Giorgio Passerone, Jean-Pierre Bamberger ed Elias Sanbar per il loro prezio­ so aiuto e amichevole sostegno; Daniel Defert per i suoi consigli, Toni Negri e Claire Parnet per i loro chiarimenti. Ringrazio inol­ tre Paul Rabinow, Raymond Bellour, Francois Aubral, Kunichii Uno, Jun Fujita e Philippe Artières, responsabile del Centre Mi­ chel Foucault, per i loro contributi. Infine, questa raccolta è debitrice all’indispensabile lavoro bi­ bliografico condotto da Timothy S. Murphy. Vorrei ringraziarlo per il suo importante aiuto. DAVID LAPOUJADE

DUE REGIMI DI FOLLI E ALTRI SCRITTI

I.

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i. Oggi non domandiamo quale sia la natura del potere, ma piuttosto, come Foucault, in che modo esso si eserciti, in quale luogo si formi e perché ce ne sia ovunque. Cominciamo con un piccolo esempio. Il marionettista ha un certo potere, quello di agire sulle marionette, ed è un potere che si esercita sui bambini. A questo proposito Kleist ha scritto un te­ sto mirabile1. Si potrebbe dire che vi siano tre linee. Il marionet­ tista non agisce secondo movimenti che rappresenterebbero già le figure da ottenere. Fa muovere la sua marionetta secondo una li­ nea verticale su cui si sposta il centro di gravità o, più esattamen­ te, di leggerezza della marionetta. E una linea perfettamente astrat­ ta, non figurativa, non più simbolica che figurativa. E mutante, per­ ché comporta tante singolarità quante sono le posizioni di arresto, che tuttavia non tagliano la linea. Non vi sono mai né rapporto bina­ rio né relazioni biunivoche tra questa linea verticale astratta, ma tanto più reale, e i movimenti concreti della marionetta. In secondo luogo, vi sono movimenti di un tipo molto diverso: curvi, sensibili, rappresentativi, un braccio che si arrotonda, una testa che si china. Questa linea non è più contraddistinta da sin­ golarità, bensì da segmenti molto flessibili - un gesto, poi un al­ tro gesto. Infine, una terza linea, dalla segmentarità molto più dura, che corrisponde ai momenti della storia rappresentati dal gioco delle marionette. I rapporti binari e le relazioni biunivoche di cui ci parlano gli strutturalisti si formano forse nelle due linee * In A. Verdiglione (a cura di), Psicanalisi e semiotica. Dagli Atti del Convegno di studi te­ nuto a Milano il 25-25 maggio 1974, trad. it. di Armando Verdiglione, Feltrinelli, Milano ’975» PP- 16-20. Conferenza pronunciata nel maggio 1974, nell’ambito di un convegno svol­ tosi a Milano sotto la direzione di Armando Verdiglione. L’intervento di Deleuze seguiva im­ mediatamente quello di Guattari, intitolato Semiologie significanti e semiologie asignificanti. Il dibattito successivo, a cui Deleuze partecipò solo di sfuggita, non è stato qui ripreso. 1 H. von Kleist, Dber das Marionettentheater, Berlin 1810; trad. it. Il teatro delle mario­ nette, il melangolo, Genova 2005 [nota di D. Lapoujade; d’ora in poi N^/.C.].

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segmentarizzabili e tra di esse. Ma il potere del marionettista si costituisce invece nel punto di conversione tra la linea astratta non figurativa, da una parte, e le due linee di segmentarità, dall’altra. Per il banchiere, e il potere bancario nel capitalismo, è un po’ la stessa cosa. E ben noto che vi sono due forme di denaro, anche se talvolta non vengono ben inquadrate. Vi è il denaro come strut­ tura di finanziamento, o creazione e distruzione monetaria: quan­ tità non realizzabile, linea astratta o mutante, con le sue singola­ rità. E poi una seconda linea del tutto differente, concreta, fatta di curve sensibili: il denaro come mezzo di pagamento, segmentarizzabile, destinato ai salari, con profitto, interesse ecc. E questo denaro come mezzo di pagamento implicherà a sua volta una ter­ za linea segmentarizzata, l’insieme dei beni prodotti in una data epoca, beni strumentali e di consumo (studi di Bernard Schmitt, Suzanne de Brunhoff2 ecc.). Il potere bancario si situa al livello di conversione tra la linea astratta, struttura di finanziamento, e le linee concrete, mezzi di pagamento - beni prodotti. La conversio­ ne si opera al livello delle banche centrali: il tallone aureo, l’attua­ le ruolo del dollaro ecc. Ancora un esempio. Clausewitz parla di una specie di flusso che chiama guerra assoluta, che non sarebbe mai esistito allo sta­ to puro, ma che nondimeno attraverserebbe la storia: non scom­ ponibile, singolare, mutante, astratto3. Di fatto, forse, questo flus­ so di guerra è esistito, come l’invenzione stessa dei nomadi, mac­ china da guerra indipendente dagli stati. In effetti, è sorprendente che i grandi stati, i grandi apparati dispotici sembrano non avere instaurato il loro potere su una macchina da guerra, ma piuttosto su burocrazia e polizia. La macchina da guerra è sempre qualcosa che viene dal di fuori ed è di origine nomade: grande linea astrat­ ta di mutazioni. Tuttavia, per ragioni facili da comprendere, gli stati dovranno appropriarsene. Costituiranno eserciti, faranno guerre sottoposte alla loro politica. La guerra cessa di essere asso­ luta (linea astratta) per diventare qualcosa che non è più festoso, sia essa guerra limitata o guerra totale ecc. (seconda linea, questa volta segmentarizzabile). E tali guerre prendono una certa forma a seconda delle esigenze politiche e della natura degli stati che le 2 B. Schmitt, Mannaie, salaires et profits, PUF, Paris 1966. S. de Brunhoff, L'offre de mannaie (critique dl un concept), Maspero, Paris 1971 e La mannaie chez Mane, Ed. Sociales, Paris 1973; trad. it- L* moneta in Marx, Editori Riuniti, Roma 1973 [NJ.C.]. 1 C. von Clausewitz, Vom Kriege, Berlin 1832; trad. it. Della guerra, Einaudi, Torino 2007, libro Vili, capitolo il [NJC.].

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conducono e che impongono a esse i loro scopi e i loro limiti (ter­ za linea segmentarizzata). Anche qui, quello che si chiama potere della guerra è nella conversione di queste linee. Bisognerebbe moltiplicare gli esempi. Le tre linee non hanno lo stesso andamento, né le stesse velocità, né le stesse territoria­ lità, né le stesse deterritorializzazioni. Uno degli scopi principali della schizoanalisi sarebbe quello di cercare in ciascuno di noi qua­ li linee lo attraversano, linee che sono quelle del desiderio stesso: non figurative, astratte, di fuga o di deterritorializzazione; linee di segmentarità, flessibili o dure, in cui il desiderio si impiglia o si muove sotto l’orizzonte della sua linea astratta; e cercare come av­ vengano le conversioni da una linea alle altre. 2. Guattari sta tracciando una tabella di regimi semiotici; vorrei dare un esempio che può essere qualificato sia come patologico sia come storico. Un caso importante di due regimi di segni si è presen­ tato nella psichiatria alla fine del xix secolo, ma va al di là della psi­ chiatria per concernere tutta la semiotica. Si concepisce un primo regime di segni che funziona in maniera molto complessa, benché sia facile da comprendere: un segno rinvia ad altri segni, i quali rin­ viano ad altri segni ancora, e cosi all’infinito (irradiazione, circola­ rità sempre in estensione). Qualcuno scende per strada, si accorge che il portinaio lo guarda con cattiveria, scivola, un ragazzino gli mostra la lingua ecc. In fondo, è come dire che ogni segno è doppia­ mente articolato, che un segno rinvia sempre a un altro segno, al­ l’infinito, e che l’insieme dei segni che si suppone infinito rinvia a sua volta a un significante maggiore. Tale è il regime paranoico del segno, che però si potrebbe anche chiamare dispotico o imperiale. C’è poi un regime del tutto diverso. Questa volta un segno o un piccolo gruppo, un piccolo pacchetto di segni, si mette a corre­ re, seguendo una linea. Non vi è più formazione di una vasta co­ stellazione circolare in perpetua estensione, bensì di una rete li­ neare. Invece di segni che rinviano gli uni agli altri, vi è un segno che rinvia a un soggetto: il delirio si costruisce in modo localizza­ to, è un delirio di azione piuttosto che di idea, una linea deve es­ sere portata sino alla fine prima che si incominci un’altra linea (il delirio litigioso, quello che i tedeschi chiamavano querulomania). Uno psichiatra come Clérambault divideva in questo senso il de­ lirio in due grandi gruppi, paranoico e passionale4. 4 G. G. de Clérambault, CEuvres psychiatriques, PUF, Paris 1942 (nuova edizione: Frénésie, Paris 1987), 2 voli. [NJ.C.].

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Può darsi che uno dei maggiori motivi della crisi della psichia­ tria sia stato l’incrocio tra questi regimi di segni del tutto diffe­ renti. L’uomo del delirio paranoico può essere sempre rinchiuso, presenta tutti i segni della follia; ma, da un altro punto di vista, non è affatto folle, il suo ragionamento è impeccabile. L’uomo del delirio passionale non presenta nessun segno di follia, tranne che su un piccolo punto difficilmente riscontrabile, e nondimeno è fol­ le; la sua follia si manifesta in bruschi passaggi all’atto (come nel­ l’assassinio). Anche qui Foucault ha definito dettagliatamente que­ sta differenza e questa complementarità dei due casi. Li cito per dare un’idea della pluralità delle semiotiche, cioè degli insiemi in cui i segni non hanno né lo stesso regime né lo stesso funziona­ mento. 3. Poco importa che un regime di segni riceva un nome clinico o un nome storico. Non che sia la stessa cosa, ma i regimi di segni attraversano «stratificazioni» molto differenti. Parlavo poco fa del regime paranoico e del regime passionale in termini clinici. Parlia­ mo ora delle formazioni sociali. Non si tratta di dire che gli impe­ ratori sono paranoici, e neanche l’opposto. Ma nelle grandi forma­ zioni imperiali, arcaiche, o anche antiche, vi è il grande significan­ te come significante del despota; e sotto di esso la rete infinita dei segni che rinviano gli uni agli altri. Tuttavia occorrono anche di­ versi tipi di categorie di persone specializzate che hanno il com­ pito di diffondere tali segni, di dire cosa essi significhino, di in­ terpretarli, di fissarne il significato: preti, burocrati, messaggeri ecc. E la coppia della significanza e dell’interpretazione. Ma non è finita: occorre anche che vi siano dei soggetti che ricevano il mes­ saggio, ascoltino l’interpretazione, obbediscano alla corvée - co­ me dice Kafka in Durante la costruzione della muraglia cinese e in Un messaggio dell’*imperatore . E ogni volta si direbbe che, arriva­ to al suo limite, il significato ridia significanza, permettendo sem­ pre al cerchio di ingrandirsi. Una formazione sociale qualsiasi ha sempre l’aria di funziona­ re bene. Non c’è motivo perché non funzioni. E tuttavia c’è sem­ pre un lato attraverso cui avvengono delle fughe e per cui si disfa. Non si sa mai se il messaggero arriverà a destinazione. E più ci si avvicina alla periferia del sistema, più i soggetti si trovano presi in una specie di tentazione: o sottomettersi ai significanti, obbedire agli ordini del burocrate e seguire l’interpretazione del grande pre’

In F. Kafka, Racconti, Mondadori, Milano 1992 [Ni/.C.].

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te, o essere trascinati altrove, al di là, vettore folle, tangente di deterritorializzazione. Seguire una linea di fuga, diventare noma­ di, emettere quelle che Guattari poco fa chiamava particelle asi­ gnificanti. Consideriamo un esempio tardo, come quello dell’im­ pero romano: i germani sono presi dalla tentazione di sprofonda­ re nell’impero, di integrarvisi, ma sono anche incalzati dagli unni, che formano una linea di fuga nomade, una macchina da guerra di un genere nuovo, marginale e non integrabile. Prendiamo un regime di segni del tutto diverso: il capitalismo. Anch’esso ha l’aria di funzionare benissimo, non vi sono motivi perché non funzioni. Esso corrisponderebbe piuttosto a quello che poco fa chiamavamo delirio passionale. Contrariamente a quanto accade nelle formazioni imperiali paranoiche con i piccoli pacchet­ ti di segni, qui grossi pacchetti di segni si mettono a seguire delle linee e su queste linee capitano cose di ogni genere: movimento del capitale-denaro; soggetti innalzati ad agenti del capitale e del lavoro; distribuzione ineguale di beni e modi di pagamento a tali agenti. Si spiega al soggetto che quanto più obbedisce, tanto più comanda, poiché obbedisce esclusivamente a se stesso. Ci sarà sem­ pre ripiegamento del soggetto di comando sul soggetto di obbe­ dienza in nome della legge del capitale. Senza dubbio questo siste­ ma di segni è molto diverso dal sistema imperiale: ha persino il vantaggio di chiudere le brecce, riconducendo sempre verso il cen­ tro il soggetto periferico e bloccando il nomadismo. Per esempio, nella storia della filosofia, è nota la celebre rivoluzione che ha fat­ to passare il discorso dallo stadio imperiale, in cui il segno rinvia­ va perennemente al segno, allo stadio della soggettività come de­ lirio propriamente passionale, che faceva ripiegare sempre il sog­ getto sul soggetto. E tuttavia, anche in questo caso, quanto più la cosa funziona, tanto più ha delle fughe da tutte le parti. Le linee di soggettivazione del capitale-denaro non cessano di emettere ra­ mificazioni, oblique, trasversali, soggettività marginali, linee di deterritorializzazione che minacciano i loro piani. Un nomadismo interno, un nuovo tipo di flussi deterritorializzati, di particelle asi­ gnificanti vengono a compromettere un dettaglio, e l’insieme stes­ so. Caso Watergate, inflazione mondiale.

2. Schizofrenia e società*

I due poli della schizofrenia.

Le macchine-organi. Il tema della macchina non significa che lo schizofrenico si vi­ va, globalmente, come una macchina. Si vive piuttosto attraver­ sato da macchine, dentro le macchine e con delle macchine den­ tro di sé, o accanto alle macchine. Non sono i suoi organi a essere delle macchine qualificate. Ma i suoi organi funzionano soltanto in quanto elementi qualunque di macchine, pezzi in connessione con altri pezzi all’esterno (un albero, una stella, una lampadina, un motore). Gli organi connessi a delle fonti, inseriti su dei flussi fanno a loro volta parte di macchine complesse. Non si tratta di un meccanismo, ma di tutto un macchinario alquanto disparato. Con lo schizofrenico l’inconscio appare per quel che è: una fabbri­ ca. Bruno Bettelheim descrive il piccolo Joey, il bambino-macchi­ na che vive, mangia, defeca, respira e dorme sempre collegato a motori, carburatori, volani, valvole e circuiti reali, finti oppure im­ maginari: «Doveva sistemare questi immaginari contatti elettrici prima di mettersi a mangiare poiché solo grazie alla corrente il suo apparato digerente era in grado di funzionare. Eseguiva questo ri­ tuale con una cosi sorprendente destrezza che uno doveva guar­ darlo due volte per essere certo che non ci fossero davvero né fi­ lo né presa»1. Anche la passeggiata o il viaggio schizofrenico for­ ma un circuito lungo il quale lo schizofrenico non smette di fuggire, seguendo linee macchiniche. Anche gli enunciati dello schizofre­ nico non appaiono più come combinazioni di segni, ma come il pro­ dotto di concatenamenti di macchine. Connect-I-Cut! grida il picco­ lo Joey. Louis Wolfson spiega la macchina da linguaggio che ha in* Encyclopedia Universalis, vol. XIV, Paris 1975, pp. 692-94. I riferimenti sono sta­ ti spostati in nota e completati.

‘ B. Bettelheim, The Empty Fortress. Infantile Autism and the Birth of Self, Free Press, New York 1967; trad. it. La fortezza vuota. L'autismo infantile e la nascita del sé, Garzan­ ti, Milano 2007’, pp. 271-72.

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ventato (un dito in un orecchio, un ricevitore-radio nell’altro, un libro straniero in mano, grugniti in gola ecc.) per sfuggire e far fug­ gire la lingua madre inglese, e poter tradurre ogni frase in un mi­ scuglio di suoni e parole che le assomigliano, ma che sono prese a prestito da diverse lingue straniere simultaneamente. Il carattere speciale delle macchine schizofreniche deriva dal fatto che mettono in gioco elementi del tutto disparati, estranei gli uni agli altri. Sono macchine-aggregati. Ciò nonostante funzio­ nano. Ma la loro funzione, per l’appunto, è quella di mettere in fuga qualcosa e qualcuno. Non possiamo nemmeno dire che la mac­ china schizofrenica sia fatta di pezzi ed elementi provenienti da diverse macchine preesistenti. Al limite, lo schizofrenico fa una macchina funzionale con elementi ultimi, che non hanno più nul­ la a che vedere con il loro contesto, e che entreranno in rapporto tra loro a forza di non avere rapporti', come se la distinzione reale, la disparità tra i diversi pezzi diventasse una ragione per metterli insieme, per farli funzionare assieme, in conformità con ciò che i chimici chiamano legami non localizzabili. Lo psicoanalista Serge Leclaire dice che non abbiamo accesso agli elementi ultimi dell’in­ conscio cosi come non incontriamo singolarità pure, saldate o in­ collate insieme «proprio dall’assenza di legame», termini dispara­ ti e irriducibili, uniti tra loro solo da un legame non localizzabile come «forza stessa del desiderio»2. Il che implica il rimettere in questione tutti i presupposti psicoanalitici sull’associazione di idee, le relazioni e le strutture. Cosi è l’inconscio schizofrenico: quello degli elementi ultimi che fanno macchina a forza di essere ultimi e davvero distinti. Cosi sono le sequenze dei personaggi di Beckett: sassi-tasca-bocca; una scarpa - un fornello della pipa - un piccolo pacchetto morbido indeterminato - un coperchio di campanello di bicicletta - una mezza stampella. Una macchina infernale si prepa­ ra. Un film di W. C. Fields presenta l’eroe mentre prepara una ri­ cetta di cucina seguendo una trasmissione di ginnastica: cortocir­ cuito tra due macchine, instaurazione di un legame non localizza­ bile tra elementi che animeranno una macchina esplosiva, una fuga generalizzata, non-senso propriamente schizofrenico. 2 S. Leclaire, La réalité du désir, in AA. W., Sexualité humaine, Aubier-Montaigne, Paris 1970.

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Il corpo senza organi.

Ma nella descrizione necessaria della schizofrenia ci sono altre cose oltre alle macchine-organi con le loro fonti e i loro flussi, i lo­ ro ronzìi e i loro guasti. C’è l’altro tema, quello di un corpo senza organi, che sarebbe privato degli organi, occhi tappati, narici tu­ rate, ano chiuso, stomaco ulcerato, laringe mangiata, «niente boc­ ca, niente lingua, niente denti, niente laringe, niente esofago, nien­ te stomaco, niente ventre, niente ano»5: nient’altro che un corpo pieno come una molecola gigante o un uovo indifferenziato. E sta­ to spesso descritto lo stupore catatonico, quando tutte le macchi­ ne sembrano essersi fermate e lo schizofrenico si fissa in prolun­ gate posture rigide che può conservare per giorni o per anni. E non sono soltanto i lassi di tempo che distinguono le cosiddette spin­ te processuali e i momenti di catatonia; in ogni istante sembra pro­ dursi una lotta tra il funzionamento esacerbato delle macchine e la stasi catatonica del corpo senza organi, come tra due poli della schizofrenia: l’angoscia specificamente schizofrenica traduce tut­ ti gli aspetti di questa lotta. Ogni volta un’eccitazione, un impul­ so scivolano nello stupore catatonico, e ogni volta lo stupore e le stasi rigide scivolano nel brulichio delle macchine, come se il cor­ po senza organi non cessasse mai di ripiegarsi sulle connessioni macchiniche, come se le esplosioni di organi-macchine non cessas­ sero mai di prodursi sul corpo senza organi. Non si crederà, tuttavia, che il vero nemico del corpo senza or­ gani siano gli organi stessi. Il nemico è l’organismo, ovvero l’orga­ nizzazione che impone agli organi un regime di totalizzazione, di collaborazione, di sinergia, di integrazione, di inibizione e di disgiun­ zione. In questo senso, si, gli organi sono effettivamente il nemi­ co del corpo senza organi che esercita su di essi un’azione repulsi­ va e li denuncia come apparati di persecuzione. Ma al tempo stes­ so il corpo senza organi attira gli organi, se ne appropria e li fa funzionare in un altro regime, diverso da quello dell’organismo, in base a delle condizioni in cui ogni organo è tanto piu tutto il cor­ po in quanto si esercita per se stesso e include le funzioni degli al­ tri. Gli organi, allora, sono come «miracolati» dal corpo senza or­ gani, secondo questo regime macchinico che non si confonde né con i meccanismi organici né con l’organizzazione dell’organismo. * A. Artaud, in «84», 1948, n. 5-6 (ora in CEuvres, Gallimard, Paris 2004, vol. IV, p. 1581).

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Esempio: la bocca-ano-polmone dell’anoressico. O certi stati schi­ zoidi provocati dalla droga, come quelli che William Burroughs descrive in funzione di un corpo senza organi: «Il corpo umano è scandalosamente inefficiente. Invece di una bocca e di un ano fuo­ ri servizio perché non un buco multiuso per mangiare ed elimina­ re ? Potremmo sigillare naso e bocca, riempire lo stomaco, fare un buco per l’aria direttamente nei polmoni dove avrebbe dovuto es­ sercene uno fin dal principio»4. Artaud descrive l’animata lotta del corpo senza organi contro l’organismo, e contro Dio, padrone de­ gli organismi e dell’organizzazione. Il presidente Schreber descri­ ve l’alternanza di repulsione e attrazione, a seconda che il corpo senza organi ripudi l’organizzazione degli organi o, al contrario, che si appropri degli organi sotto un regime anorganico.

Un rapporto in intensità. Bisogna dire che i due poli della schizofrenia (catatonia del cor­ po senza organi, esercizio anorganico delle macchine-organi) non sono mai separati, ma generano nel polo opposto delle forme in cui prevale ora la repulsione ora l’attrazione: forma paranoide, e for­ ma miracolante o fantastica della schizofrenia. Se si considera il corpo senza organi come un uovo pieno, bisogna dire che, in base all’organizzazione che assumerà, che svilupperà, l’uovo non si pre­ senta come un ambiente indifferenziato: è attraversato da assi e da gradienti, da poli e da potenziali, da soglie e da zone, destina­ ti a produrre successivamente questa o quella parte organica, ma il cui concatenamento soltanto è per ora intensivo. Come se l’uo­ vo fosse percorso da un flusso di intensità variabile. E proprio in questo senso che il corpo senza organi ignora e ripudia l’organi­ smo, cioè l’organizzazione degli organi in estensione, ma forma una matrice intensiva che si appropria di tutti gli organi in inten­ sità. Si potrebbe dire che le proporzioni di attrazione e di repul­ sione sul corpo senza organi schizofrenici producano tutti i vari stati intensivi per i quali passa lo schizofrenico. Il viaggio schizo­ frenico può essere immobile; e, anche quando vi è movimento, es­ so si compie sul corpo senza organi, in intensità. Il corpo senza or­ gani è l’intensità uguale a zero, inglobata in ogni produzione di quantità intensive, e a partire dalla quale queste intensità sono ef­ fettivamente prodotte come ciò che riempirà lo spazio a un certo 4 W. S. Burroughs, The Naked Lunch, Grove Press, New York 1959; trad. it. Il pasto nudo, Adelphi, Milano 2006, p. 150.

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grado o a un altro. Le macchine-organi sono dunque come le po­ tenze dirette del corpo senza organi. Il corpo senza organi è la pura materia intensiva, o il motore immobile, di cui le macchineorgani costituiranno i pezzi operosi e le potenze proprie. Ed è ap­ punto ciò che il delirio schizofrenico mette in luce: sotto le allucinazioni dei sensi, sotto il delirio stesso del pensiero, c’è qualcosa di più profondo, un sentimento di intensità, cioè un divenire o un passaggio. Si supera un gradiente, si oltrepassa una soglia o si re­ trocede a quella precedente, si compie una migrazione: sento che sto diventando una donna, sento che sto diventando dio, che sto diventando veggente, che sto diventando pura materia... Il deli­ rio schizofrenico si può raggiungere soltanto al livello di questo «io sento», che registra in ogni momento il rapporto in intensità tra il corpo senza organi e gli organi-macchine. Per questa ragione crediamo che la farmacologia, nel senso più generale, abbia un’estrema importanza nelle ricerche teoriche e pratiche sulla schizofrenia. Lo studio del metabolismo degli schi­ zofrenici apre un vasto campo di ricerca cui partecipa anche la bio­ logia molecolare. Tutta una chimica intensiva e vissuta sembra ca­ pace di superare le dualità tradizionali tra l’organico e lo psichico, almeno in due direzioni: la sperimentazione degli stati schizoidi indotti dalla mescalina, dalla bulbocapnina, dall’Lsd ecc.; il tenta­ tivo terapeutico di calmare l’angoscia dello schizofrenico, e al tem­ po stesso di rompere la corazza catatonica per far ripartire, per ri­ mettere in moto le macchine schizofreniche (impiegando «neurolettici incisivi» o persino l’Lsd).

La schizofrenia come processo.

La psicoanalisi e la famiglia «schizogena». Il problema è insieme quello dell’estensione indeterminata del­ la schizofrenia e quello della natura dei sintomi che ne costituisco­ no l’insieme. Perché è in virtù della loro stessa natura che questi sintomi appaiono spezzettati, difficili da totalizzare, da unificare in un’entità coerente e ben localizzabile: dappertutto una sindro­ me discordante, sempre in fuga da se stessa. Emil Kraepelin ave­ va delineato il suo concetto di demenza precoce in funzione di due poli principali: l’ebefrenia come psicosi postpuberale con i suoi fe­ nomeni di dissociazione, e la catatonia come forma di stupore con

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i suoi disturbi dell’attività muscolare. Quando, nel 1911, Eugen Bleuler inventa il termine schizofrenia, insiste sulla frammenta­ zione o dislocazione funzionale delle associazioni, che fa dell’as­ senza di legame il disturbo principale. Ma queste associazioni fram­ mentate sono anche l’opposto di una dissociazione della persona e di una scissione dalla realtà che danno una sorta di preponderan­ za o di autonomia a una vita interiore rigida e chiusa su se stessa (l’«autismo», a cui Bleuler dà un risalto via via crescente: «Direi quasi che il disturbo primitivo si estenda soprattutto alla vita istin­ tuale»). Sembra che in funzione dello stato attuale della psichia­ tria la determinazione di un’unità complessiva della schizofrenia non abbia potuto essere cercata nell’ordine delle cause o dei sin­ tomi, ma soltanto nella totalità di una personalità disturbata, espressa a suo modo da ogni singolo sintomo. O ancora meglio, se­ condo Eugène Minkowski e soprattutto Ludwig Binswanger, nel­ le forme psicotiche dell’«essere-nel-mondo», della sua spazializzazione e temporalizzazione («salto», «vortice», «rattrappimento», «impantanamento»). Oppure nell’immagine del corpo, secondo le concezioni di Gisela Pankow, che utilizza un metodo pratico di ri­ strutturazione spaziale e temporale per scongiurare i fenomeni dis­ sociativi schizofrenici e renderli accessibili alla psicoanalisi («ri­ parare le zone di distruzione nell’immagine del corpo e trovare un accesso alla struttura familiare»)5. Tuttavia, la difficoltà sta nel rendere conto della schizofrenia nella sua stessa positività e in quanto positività, senza ridurla ai caratteri di deficit o di distruzione che provoca nella persona, o alle lacune e alle dissociazioni che fa comparire in una supposta struttura. Non si può dire che la psicoanalisi ci emancipi da un punto di vista negativo. Ha con la psicosi un rapporto essenzial­ mente ambiguo. Da una parte, è consapevole che ricava tutto il suo materiale clinico dalla psicosi (era già vero nel caso della scuola di Zurigo per Freud, ed è ancora vero per Melanie Klein e Jacques Lacan: tuttavia la psicoanalisi è sollecitata piu dalla paranoia che dalla schizofrenia). Dall’altra, il metodo psicoanalitico, modellato interamente sui fenomeni nevrotici, sperimenta le difficoltà mag­ giori nel trovare per conto proprio un accesso alle psicosi (anche solo in virtù della dislocazione delle associazioni). Tra nevrosi e psicosi Freud proponeva una distinzione semplice, secondo cui il ’ G. Pankow, L’hommeetsapsychose, Aubier-Montaigne, Paris 1969, p. 240; trad. it. L’uomo e la sua psicosi, Feltrinelli, Milano 1977

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principio di realtà si salva nella nevrosi a prezzo di una rimozione del «complesso», mentre nella psicosi il complesso appare nella co­ scienza a prezzo di una distruzione della realtà, dovuta al fatto che la libido si distoglie dal mondo esterno. Le ricerche di Lacan fon­ dano la distinzione tra la rimozione nevrotica, che riguarda il «si­ gnificato», e la forclusione psicotica, che si esercita nell’ordine simbolico stesso al livello originale del «significante», una specie di buco nella struttura, un posto vuoto per cui ciò che è forcluso nel simbolico riapparirà nel reale in forma allucinatoria. Lo schi­ zofrenico appare allora come colui che non può piu riconoscere o porre il proprio desiderio. Il punto di vista negativo si trova raffor­ zato nella misura in cui la psicoanalisi chiede: che cosa manca al­ lo schizofrenico affinché il meccanismo psicoanalitico «faccia pre­ sa» su di lui? Può essere che ciò che manca allo schizofrenico sia qualcosa nell’Edipo ? Una sfigurazione del ruolo materno congiunta a un’annichilazione del padre, fin dalla più giovane età, che insieme spie­ gherebbero l’esistenza di una lacuna nella struttura edipica? Sul­ la scia di Lacan, Maud Marinoni invoca «una forclusione iniziale del significante del padre», per cui «i personaggi edipici sono a po­ sto, ma nel gioco delle permutazioni che si verifica c’è un posto vuoto. Questo posto rimane enigmatico, aperto all’angoscia che il desiderio suscita»6. Tuttavia, non è affatto sicuro che una struttu­ ra malgrado tutto ancora familiare sia una buona unità di misura della schizofrenia, pur estendendo questa struttura a tre genera­ zioni, e includendo cosi anche i nonni. Il tentativo di studiare fa­ miglie «schizogene», o meccanismi schizogeni nella famiglia, sem­ bra un elemento comune che lega la psichiatria tradizionale, la psicologia, la psicoanalisi e anche l’antipsichiatria. Il carattere delusorio di questi tentativi dipende dal fatto che i meccanismi in­ vocati (per esempio, il double bind di Gregory Bateson, cioè re­ missione simultanea di due ordini di messaggi che si contraddico ­ no a vicenda: «Fa’ questo, ma soprattutto non farlo... ») apparten­ gono in realtà alla banalità quotidiana di ogni famiglia, e non ci fanno penetrare affatto nel modo di produzione di uno schizofre­ nico. Anche se si elevano le coordinate familiari a una potenza pro­ priamente simbolica facendo del padre una metafora, o del nome* M. Mannoni, Lepsychiatre,sonfou et la psychanalyse, Seuil, Paris 1970, p. 104; trad, it. Lo psichiatra, il suo «pazzo» e la psicoanalisi, Jaca Book, Milano 1971, p. 94 (traduzione leggermente modificata).

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dei-padre un significante coestensivo al linguaggio, non sembra che si riesca a uscire da un discorso strettamente familiare in fun­ zione del quale lo schizofrenico si definisce negativamente, attra­ verso la supposta forclusione del significante. Un progresso verso un «più di realtà».

E curioso come si riporti lo schizofrenico a problemi che con ogni evidenza non sono i suoi: padre, madre, legge, significante. Lo schizofrenico è altrove, ma questa non è certo una ragione per concludere che gli manca ciò che non lo riguarda. Su questo pun­ to Beckett e Artaud hanno detto tutto: rassegniamoci all’idea che sulla schizofrenia alcuni artisti e scrittori abbiano fatto maggiori rivelazioni di psichiatri e psicoanalisti. In fondo, è lo stesso erro­ re per cui si definisce la schizofrenia in termini negativi o di man­ canza (dissociazione, perdita di realtà, autismo, forclusione) e che misura la schizofrenia in base a una struttura familiare in cui si rin­ traccia questa mancanza. Di fatto, il fenomeno del delirio non è mai la riproduzione, anche immaginaria, di una storia familiare in­ torno a una mancanza. Al contrario, è un troppo-pieno della sto­ ria, una vasta deriva della storia universale. Il delirio utilizza raz­ ze, civiltà, culture, continenti, regni, poteri, guerre, classi e rivo­ luzioni. E non c’è nessun bisogno di essere colti per delirare in questo senso. Nel delirio c’è sempre un Negro, un Ebreo, un Ci­ nese, un Gran Mogol, un Ariano; tutti i deliri hanno a che fare con la politica e l’economia. E non si crederà che si tratti soltan­ to dell’espressione manifesta del delirio: il delirio, semmai, espri­ me in sé il modo in cui la libido investe tutto un campo sociale sto­ rico, e in cui il desiderio inconscio aderisce ai suoi oggetti ultimi. Anche quando il delirio sembra maneggiare temi familiari, i bu­ chi, i tagli, i flussi che attraversano la famiglia e la costituiscono come schizogena sono di natura extrafamiliare e fanno interveni­ re l’insieme del campo sociale nelle sue determinazioni inconsce. Come dice molto bene Marcel Jaeger, «non se ne dispiacciano i grandi preti della psichiatria, ma i discorsi fatti dai folli non han­ no soltanto lo spessore dei loro disordini psichici individuali: il di­ scorso della follia si articola su un altro discorso, quello della sto­ ria, politica, sociale, religiosa, che parla in ognuno di essi»7. Il de­ lirio non si costruisce intorno al nome-del-padre, ma sui nomi della 7 M. Jaeger, L'«Underground» de la folte, in «Partisans», n. 62-63, febbraio 1972.

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storia. Nomi propri: si potrebbe dire che le zone, le soglie o i gra­ dienti di intensità che lo schizofrenico attraversa sul corpo senza organi (sento che sto diventando...) sono designati da questi no­ mi di razze, di continenti, di classi o di persone. Lo schizofrenico non si identifica con delle persone, ma identifica sul corpo senza organi alcuni ambiti e regioni designati da nomi propri. E per questa ragione che abbiamo tentato di descrivere la schi­ zofrenia in termini positivi. Dissociazione, autismo, perdita di realtà sono soprattutto termini comodi per non ascoltare gli schi­ zofrenici. Dissociazione è una brutta parola per designare lo stato degli elementi che entrano in queste macchine speciali, le macchi­ ne schizofreniche positivamente determinabili - abbiamo visto, in proposito, il ruolo macchinico dell’assenza di legame. «Autismo» è una bruttissima parola per designare il corpo senza organi, e tut­ to ciò che avviene su di esso, che non ha nulla a che vedere con una vita interiore staccata dalla realtà. Perdita di realtà: come di­ re cosi di qualcuno che vive a un punto insopportabilmente vici­ no al reale («quest’emozione che restituisce allo spirito il suono sconvolgente della materia», scrive Artaud in 11 Pesa-Nervi *)? In­ vece di comprendere la schizofrenia in funzione delle distruzioni che introduce nella persona, o dei buchi e delle lacune che fa ap­ parire nella struttura, bisogna concepirla in quanto processo. Quan­ do Kraepelin tentava di fondare il suo concetto di demenza pre­ coce, non lo definiva in base a cause o a sintomi, ma in base a un processo, a un’evoluzione e a uno stato terminale. Questo stato terminale, tuttavia, Kraepelin lo concepiva come una dissociazio­ ne completa e definitiva, che giustificava l’internamento del ma­ lato in attesa della sua morte. Karl Jaspers e, oggi, Ronald D. Laing concepiscono invece la ricca nozione di processo in tutt’altro mo­ do: come una rottura, un’irruzione, un progresso che spezza la con­ tinuità di una personalità, e la trascina in una sorta di viaggio at­ traverso un «più di realtà» intenso e spaventoso, seguendo linee di fuga in cui si riversano natura e storia, organismo e mente. E questo che avviene tra gli organi-macchine schizofrenici, il corpo senza organi e i flussi di intensità su questo corpo, effettuando tut­ to un collegamento di macchine e una deriva della storia. Da questo punto di vista, è facile distinguere tra paranoia e ’ A. Artaud, Le pèse-nerfs, in (Euvres completes, Gallimard, Paris 1956, 19701, vol. I, p. 112; trad. it. // Pesa-Nervi, in Al paese dei Tarahumara e altri scritti, Adelphi, Milano 2009, P- 53-

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schizofrenia (e le cosiddette forme paranoidi della schizofrenia): il «lasciami in pace» dello schizofrenico e il «non ti lascerò in pa­ ce» del paranoico; la combinazione dei segni nella paranoia, i con­ catenamenti macchinici della schizofrenia; i grandi insiemi para­ noici e le piccole molteplicità schizofreniche; i grandi piani di in­ tegrazione reattiva nella paranoia e le linee di fuga attive nella schizofrenia. Se la schizofrenia sembra essere la malattia dell’epo­ ca attuale, non lo è in funzione di genericità che riguardano il no­ stro modo di vita, ma in relazione a meccanismi molto precisi di natura economica, sociale e politica. Le nostre società non funzio­ nano piu in base a codici e territorialità, bensì sullo sfondo di una decodificazione e di una deterritorializzazione massiccia. Diver­ samente dal paranoico, il cui delirio consiste nel restaurare dei co­ dici, nel reinventare delle territorialità, lo schizofrenico non smet­ te di andare più lontano nel movimento di decodificazione e di de­ territorializzazione di se stesso (il progresso, il viaggio o il processo schizofrenico). Lo schizofrenico è come il limite della nostra so­ cietà, ma un limite sempre scongiurato, represso, aborrito. Il pro­ blema della schizofrenia è posto molto bene da Laing: come fare in modo che il progresso (breakthrough) non diventi un regresso (breakdown)9? Come fare in modo che il corpo senza organi non si richiuda diventando imbecille e catatonico ? E in modo che lo sta­ to acuto trionfi sulla sua angoscia, ma senza lasciare il posto a uno stato cronico abbrutito, oppure a uno stato finale di regresso ge­ neralizzato, come si vede negli ospedali? Bisogna anche dire che le condizioni dell’ospedale, cosi come le condizioni familiari, da questo punto di vista non soddisfano; e i grandi sintomi negativi dell’autismo, della perdita della realtà, sono spesso i prodotti del­ la familiarizzazione e dell’ospedalizzazione. Sarà possibile coniu­ gare la potenza di una chimica vissuta e di un’analisi schizologica per fare in modo che il processo schizofrenico non si trasformi nel suo contrario, cioè nella produzione di uno schizofrenico adatto al manicomio ? E in che tipo di gruppo, in che genere di collettività ?

’ Cfr. R. D. Laing, The Politics of Experience, Penguin, Harmondsworth 1967; trad, it. La politica dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1968, p. 135 [Nx/.C.].

3Tavola rotonda su Proust*

Roland barthes Dal momento che devo parlare per primo, mi accontenterò di sottolineare quello che, a mio avviso, dovreb­ be essere il carattere paradossale di ogni colloquio su Proust: Proust può essere soltanto l’oggetto di un colloquio infinito, perché, piu di qualunque altro autore, su di lui ci sarà infinita­ mente da dire. Non è un autore eterno, secondo me, ma un au­ tore perpetuo, come si dice di un calendario che è perpetuo. E non credo dipenda, per dir cosi, dalla ricchezza di Proust, che è forse una nozione ancora troppo qualitativa, semmai da una certa destrutturazione del suo discorso. E un discorso non sol­ tanto digressivo, come è stato notato, ma è anche un discorso bucato e decostruito: una sorta di galassia infinitamente esplo­ rabile perché le particelle si spostano e si scambiano di posto. Questo fa sf che io legga Proust - uno dei rarissimi autori che rileggo - come una sorta di paesaggio illusorio, illuminato pro­ gressivamente da luci che obbedirebbero a una sorta di reosta­ to variabile e farebbero passare gradualmente e instancabilmen­ te lo scenario attraverso diverse volumetrie, diversi livelli per­ cettivi, diverse intelligibilità. E un materiale inesauribile, non perché sia sempre nuovo, il che non significa molto, ma perché ritorna sempre fuori posto. Proprio per questo, è un’opera che costituisce una vera «mobilità», ed è forse la vera incarnazio­ ne del Libro sognato da Mallarmé. A mio parere, la Recherche du temps perdu (e tutti gli altri testi che vi si possono annove­ rare) può indurre soltanto delle idee di ricerca e non delle ri­ cerche vere e proprie. In questo senso, il testo proustiano è una

* Coordinata da Serge Doubrovsky. Sono presenti Roland Barthes, Gerard Genette, Jean Ricardou, Jean-Pierre Richard. Cahiers Marcel Proust, n. 7 (nuova serie), Gallimard, Paris 1975, pp. 87-116. Il testo è stato rivisto e curato da Jacques Bersani, con il consen­ so dei partecipanti.

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sostanza straordinaria per il desiderio critico. È un vero oggetto di desiderio per il critico, perché tutto si esaurisce nel fantasma della ricerca, nell’idea di cercare qualcosa in Proust e, per ciò stesso, inoltre, tutto rende illusoria l’idea di un risultato di que­ sta ricerca. La singolarità di Proust è che non ci lascia altro da fare che questo: riscrìverla, che è l’opposto di esaurirla. Gilles deleuze Per quanto mi riguarda, mi limiterei a porre un problema relativamente recente per me. Ho l’impressione che ci sia in quest’opera una specie di presenza molto importante, molto inquietante, la presenza della follia. Il che non vuol dire affatto che Proust sia folle, beninteso, ma che nella Recherche stessa c’è una presenza molto viva, molto grande della follia. A cominciare innanzitutto da due personaggi chiave. Questa pre­ senza della follia, come sempre in Proust, è distribuita in ma­ niera molto abile. Fin dall’inizio è subito chiaro che Charlus è folle. Appena si scorge Charlus, ci si dice immediatamente: non c’è dubbio, è folle. E il narratore stesso che ce lo dice. Con Albertine, invece, accade solo alla fine; non è una convinzione immediata, è un dubbio, una possibilità. Forse era folle, forse lo è sempre stata. E ciò che suggerisce Andrée alla fine. Chi è folle, quindi? Sicuramente Charlus. Forse Albertine. Ma non c’è qualcuno che è ancora più folle ? Qualcuno che si nasconde dappertutto e che manovra la certezza che Charlus sia folle e la possibilità che Albertine abbia potuto esserlo ? Non c’è qual­ cuno che conduce il gioco ? A condurre il gioco, lo sanno tutti, è il narratore. E in che senso questo narratore è folle ? Senza dubbio è bizzarro. Alquanto bizzarro. Come si presenta? Non ha organi, non vede nulla, non capisce nulla, non nota niente, non sa niente. Gli si fa vedere qualcosa, lui guarda, ma non ve­ de. Gli si fa sentire qualcosa, gli si dice: guardi com’è bello, lui guarda, poi nel momento in cui gli si dice: ma guardi, dia un po’ un’occhiata, qualcosa risuona nella sua testa e lui si mette a pensare ad altro, a qualcosa che lo interessa, e che non è del­ l’ordine della percezione, né dell’ordine dell’intellezione. Non ha organi, né sensazioni, né percezioni, non ha nulla. E una specie di corpo nudo, di grosso corpo non differenziato. Qua­ le può mai essere l’attività di qualcuno che non vede niente, che non sente niente, che non capisce nulla ? Mi pare che chi si trovi in queste condizioni non possa che rispondere a segni, a segnali. In altri termini il narratore è un ragno. Un ragno, che non è capace di fare niente, che non capisce niente: gli si può

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mettere davanti agli occhi una mosca e lui non reagisce. Ma non appena un angolino della sua tela inizia a vibrare, subito si muove, con il suo grosso corpo. Non ha percezioni né sensa­ zioni. Risponde a dei segnali, vede soltanto dei punti. Lo stes­ so vale per il narratore. Pure lui tesse una tela - la sua opera e risponde alle sue vibrazioni, anche mentre la sta tessendo. Ragno-follia, narratore-follia che non capisce nulla, che non vuole capire nulla, che non ha interessi, a parte quel piccolo se­ gno, laggiù in fondo. La follia, evidente, di Charlus, così come la follia, possibile, di Albertine provengono da lui. Proietta ovunque quella sua specie di presenza opaca, cieca. Ovunque, cioè ai quattro angoli di questa tela, la sua tela, che fa, disfa e rifa continuamente. Metamorfosi ancora più radicale che in Kafka, dal momento che il narratore ha subito la metamorfosi prima ancora che la storia abbia inizio. Ma cosa si vede quando non si vede nulla ? Ciò che mi colpi­ sce, nella Recherche, è che è sempre la stessa cosa, è la stessa cosa ma al contempo è estremamente variata. Se si cercasse di trascrivere la visione del narratore nello stesso modo con cui i biologi trascrivono la visione della mosca, ne verrebbe fuori una nebulosa con dei piccoli punti brillanti qua e là. Per esem­ pio, la nebulosa Charlus: che cosa vede il narratore, questo nar­ ratore che beninteso non è Proust? Vede due occhi, ineguali, con le ciglia che sbattono, e sente vagamente una voce. Due singolarità in questa specie di nebulosa dal ventre prominente che è Charlus. Nel caso di Albertine, non si tratta di una ne­ bulosa individuale ma di una nebulosa collettiva, distinzione che del resto non ha alcuna importanza. E la nebulosa «giova­ ni fanciulle» con alcune singolarità, di cui una è Albertine. Ac­ cade sempre cosi in Proust. La prima visione globale è una spe­ cie di nube con dei piccoli punti. C’è poi un secondo momen­ to, non più rassicurante del primo. In funzione delle singolarità che la nebulosa contiene, si organizza una specie di serie, per esempio la serie dei discorsi di Charlus, tre grandi discorsi co­ struiti sullo stesso tipo e con lo stesso ritmo, al punto che in tutti e tre i casi Charlus comincia con un’operazione che oggi si chiamerebbe di negazione: «No, lei non mi interessa», dice al narratore. Secondo tempo, l’opposizione: tra lei e me c’è una differenza talmente grande da risultare insormontabile, lei non è assolutamente nulla in rapporto a me. Infine, terzo tempo, la follia: nel discorso di Charlus, perfettamente dominato fin qui,

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ecco che qualcosa si inceppa. Fenomeno sorprendente, che si produce in tutti e tre i discorsi. Allo stesso modo, bisognereb­ be mostrare come ci sia una serie, anzi molteplici serie Alber­ tine, che si irradiano dalla nebulosa delle giovani fanciulle. Que­ ste serie sono caratterizzate da esplosioni sadomasochistische; sono serie abominevoli, costellate da profanazioni, sequestri; sono le grandi serie crudeli, nate dalla visione miope. Ma non basta. C’è un momento in cui, al termine di queste serie e co­ me in un terzo tempo finale, tutto si dissolve, si disperde, esplo­ de - e si richiude - in una miriade di piccole scatole. Non c’è più una Albertine. Ci sono cento piccole scatole Albertine, spar­ se qua e là, che non riescono più a comunicare tra loro, secon­ do una dimensione alquanto curiosa, una dimensione trasver­ sale. Mi sembra sia qui, in questo momento finale, che appare davvero il tema della follia. Con una specie di innocenza vege­ tale, all’interno di una compartimentazione a sua volta uguale a quella dei vegetali. Il testo più esemplare, da questo punto di vista, che mostra meglio di tutti la triplice organizzazione del­ la visione del narratore-ragno, è il primo bacio ad Albertine1. Si distinguono molto bene i tre momenti essenziali (ma se ne potrebbero trovare molti altri). Prima la nebulosa del viso, con un piccolo punto brillante, ballerino. Poi il narratore si avvici­ na: «Durante il breve tragitto delle mie labbra verso la guan­ cia furono dieci le Albertine che io vidi». E infine arriva il gran­ de momento finale, quando la sua bocca raggiunge la guancia e non è altro che un corpo cieco, alle prese con l’esplosione, la dispersione di Albertine: «[...] tutt’a un tratto, ahimè, i miei occhi smisero di vedere, il mio naso, schiacciandosi, cessò a sua volta di percepire qualunque odore, e da quei segni detestabi­ li appresi, senza per questo conoscere meglio il sapore del de­ siderato color di rosa, che stavo infine baciando la guancia di Albertine». Ecco ciò che ora mi interessa nella Recherche: la presenza, l’im­ manenza della follia in un’opera che non è una veste, o una cat­ tedrale, ma una tela di ragno che si tesse sotto i nostri occhi. Gerard genette Quello che dirò si ispira sia ai lavori di questo colloquio, sia a uno sguardo retrospettivo sul mio lavoro, pas­ 1 M. Proust, À la recherche du temps perdu, Gallimard (Plèiade), Paris 1966, vol. Il, pp. 363-65; trad. it. Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori (Meridiani), Milano 1986, vol. II, pp. 443-45-

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sato e recente, su Proust. Mi sembra che l’opera di Proust, per la sua ampiezza e complessità, nonché per il suo carattere evo­ lutivo, cioè la successione ininterrotta di stati diversi di uno stesso testo, da I piaceri e i giorni fino al Tempo ritrovato, pre­ senti alla critica una difficoltà che, ai miei occhi, è anche una chance: obbliga a passare dall’ermeneutica classica, che era un’ermeneutica paradigmatica (o metaforica), a un’ermeneuti­ ca nuova, sintagmatica o, se vogliamo, metonimica. Voglio di­ re che con Proust non è- più sufficiente rilevare le ricorrenze dei motivi e stabilire, a partire da queste ripetizioni, proceden­ do per sovrapposizione e omologazione, degli oggetti tematici di cui si traccerà poi la rete ideale, secondo un metodo la cui versione più esplicita è stata data da Charles Mauron, ma che è in definitiva quella di ogni critica tematica. Bisogna anche te­ nere conto degli effetti di distanza e di prossimità, in breve di posizione nel testo, tra i diversi elementi del contenuto. Naturalmente chi analizza la tecnica narrativa o stilistica ha sempre focalizzato l’attenzione sulle questioni attinenti la di­ sposizione; Jean Rousset, per esempio, ci ha parlato del caratte­ re sporadico della presentazione del personaggio nella Recherche e Leo Bersani di quella che egli chiama la «forza centrifuga», o «trascendenza orizzontale» dello stile della Recherche, e che la distingue dal Jean Santeuil. Ma ciò che è pertinente per l’a­ nalisi formale, secondo me, lo è anche, specialmente e in ma­ niera ancora più evidente in Proust, per l’analisi tematica e l’in­ terpretazione. Per fare soltanto qualche esempio che ho incon­ trato nel mio lavoro, non è senza importanza osservare che fin dalle prime pagine di Combray il tema dell’alcol e quello della sessualità appaiono contigui, il che favorisce (perlomeno) la lo­ ro ulteriore relazione di equivalenza metaforica. Per contro, trovo significativo l’effetto di dislocazione, o di ritardo, appli­ cato agli amoreggiamenti tra Marcel e la sua misteriosa cuginetta, che hanno luogo a Combray ma che saranno evocati, re­ trospettivamente, solo più tardi, al momento di vendere il ca­ napè di zia Léonie alla casa di appuntamenti di Rachel. O, ancora, un oggetto tematico come la torre di Roussainville, che appare (due volte) in Combray come testimone e confidente del­ le solitarie esaltazioni erotiche dell’eroe, ritorna nel Tempo ri­ trovato con un nuovo significato erotico, che si ripercuote sul primo significato e lo modifica après coup, quando apprendia­ mo che questa torre era stata lo scenario delle dissolutezze di

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Gilberte con i ragazzini del villaggio. Vi è qui un effetto di va­ riazione, una differenza nell’identità che è tanto importante quanto l’identità stessa. All’interpretazione non basta sovrap­ porre le due occorrenze, bisogna evidentemente interpretare anche ciò che resiste alla sovrapposizione. Tanto più che sap­ piamo bene come la Recherche si sia generata il più delle volte per esplosione e dissociazione di cellule iniziali sincretiche: è un universo in espansione, in cui elementi che in partenza era­ no molto vicini non smettono di allontanarsi. Per esempio, sap­ piamo che Marcel e Swann, Charlus e Norpois erano inizial­ mente confusi tra loro, osserviamo come la cosiddetta «Prefa­ zione al Cantre Sainte-Beuve» contrapponesse l’esperienza della madeleine a quella del pavé dei Guermantes, in una minuta pub­ blicata da Philippe Kolb vediamo come la rivelazione che eli­ mina ogni credenza illusoria sulle sorgenti della Vivonne in un primo tempo fosse acquisita già nell’infanzia, cosi ora tutta l’ar­ chitettura tematica della Recherche si regge sulla prodigiosa di­ varicazione di queste arcate, sull’enorme attesa della rivelazio­ ne finale. Tutto ciò impone, quindi, di prestare estrema attenzione alla disposizione crono-topologica dei significanti tematici, e dun­ que alla potenza semiotica del contesto, Roland Barthes ha in­ sistito più volte sul ruolo antisimbolico del contesto, che è trat­ tato sempre come uno strumento di riduzione del senso. Mi sembra che, a partire da osservazioni di quest’ordine, si possa immaginare una pratica inversa. Il senso è generato anche dal contesto, cioè lo spazio del testo e gli effetti di posizione che es­ so determina. Hugo, se non sbaglio, diceva: «In concierge [cu­ stode] c’è cierge [cero]». Direi con altrettanta finezza che nel contesto c’è il testo, e non possiamo sbarazzarci del primo sen­ za che ciò si ripercuota sul secondo, e questo in letteratura è un problema. Bisognerebbe piuttosto restituire al contesto la sua capacità simbolica, orientandosi verso un’ermeneutica, o una semiotica, che sarebbe fondata non tanto sull’invarianza paradigmatica quanto sulle varianze sintagmatiche, e dunque testuali. Ciò che significa - lo sappiamo almeno a partire da Saussure - non è la ripetizione, ma la differenza, la modulazio­ ne, l’alterazione, ciò che ieri sera Doubrovsky chiamava la no­ ta falsa *, cioè la variazione, anche nella sua forma più elementa­ re. Sarebbe molto piacevole pensare che il ruolo del critico sia lo stesso del musicista: interpretare delle variazioni.

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Mi pare che i tre discorsi che abbiamo appe­ na sentito e che a prima vista non sembrano avere nulla in co­ mune, siano invece presi nella stessa tela di ragno, appunto quella che descriveva Deleuze. Del resto, non è proprio questa la caratteristica di Proust, una frammentazione, un isolamen­ to completo e poi, alla fine, una comunicazione, un ricongiun­ gimento ? r. barthes Vorrei soltanto dire a Genette che se, nell’analizzare le variazioni, cerchiamo un tema, ci collochiamo interamen­ te dentro un’ermeneutica, perché seguiamo una strada che ri­ sale verticalmente verso un oggetto centrale. Ma (e credo che qui Genette abbia ragione) se si postula una descrizione o sem­ plicemente una scrittura della variazione, una variazione delle variazioni, allora in quel caso non si tratta più di un’ermeneu­ tica, ma semplicemente di una semiologia. Perlomeno è cosi che definirei il termine «semiologia», riprendendo d’altra parte una contrapposizione già posta da Foucault tra «ermeneutica» e «semiologia». jean-pierre Richard Vorrei aggiungere qualche parola a quanto ha appena detto Gérard Genette. Sono del tutto d’accordo con la concezione che ha sviluppato del tema come somma, o come serie di modulazioni; e sono anche d’accordo con il voler dare avvio a una tematica contestuale. Ma è sulla definizione stes­ sa di tema, data o suggerita, che vorrei sottolineare una legge­ ra differenza. Mi sembra, per esempio, che la torre di Roussainville, attraverso l’analisi che Genette apporta, non possa apparire davvero come un tema... G. genette L’ho chiamato «oggetto tematico». j.-p. Richard ... io lo vedrei piuttosto, diciamo, come un moti­ vo, cioè come un oggetto di cui Proust utilizza, in maniera mol­ to cosciente, le ricorrenze testuali per creare alcuni effetti - im­ portanti, sono d’accordo con Genette - di senso ritardato o di­ slocato. Ma ciò che mi sembra propriamente tematico, nella torre di Roussainville, è un altro aspetto: la possibilità che essa ci offre di aprirla, di farla esplodere quasi, e in ogni caso di operare una mobilitazione e come una liberazione disseminante dei suoi di­ versi tratti costitutivi (qualità o funzioni); insomma di disso­ ciarla, per ricollegarla ad altri oggetti presenti e attivi nell’e­ stensione della finzione proustiana. Fra questi tratti definitivi - nel senso che definiscono l’oggetto, senza mai finirlo, però, serge doubrovsky

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senza delimitarlo, ma anzi aprendolo su ogni lato verso l’ester­ no -, dunque fra questi tratti specifici ci sarebbe per esempio il colore rosso (suggerito dal significante Roussainville): il rosso che rinvia la torre alla libido di tutte le ragazzine con i capelli rossi. O ancora la verticalità (che lei, giustamente, ha appena chiamato fallica), la quale fa imparentare la torre con tutti gli oggetti che si innalzano; e anche, potremmo dire, V inferiorità'. perché tutto ciò che succede di erotico nella torre avviene sem­ pre nel piano interrato. Grazie a questa caratteristica la torre potrà modularsi in maniera sotterranea verso tutti gli altri luo­ ghi profondi e clandestini della Recherche, in particolare verso la cripta della chiesazdi Combray, verso il piccolo padiglione anale degli Champs-Elysées, di cui ci ha parlato l’altro giorno Doubrovsky, verso i metro di Parigi durante la guerra in cui Charlus fa delle strane passeggiate. La modulazione del tema qui può anche apparire autenticamente freudiana, perché accan­ to a uno stato infantile e autoerotico del sotterraneo (Roussainville), incontriamo un sotterraneo anale, quello degli ChampsElysées, poi un sotterraneo omosessuale, quello del mètro pa­ rigino. Consiste in questo, secondo me, la modulazione di un tema. Ciò che c’è di tematico in un oggetto, infatti, mi sembra sia non tanto la sua capacità di ripetersi, di riprodursi nella sua integrità, identica o variata, in diversi luoghi, attigui o distan­ ti, del testo, quanto la sua attitudine a dividersi spontaneamen­ te, a distribuirsi astrattamente, categorialmente verso tutti gli altri oggetti della finzione, in modo da stabilire con essi una re­ te di solidarietà implicite: o, se si preferisce e per riprendere una metafora decisamente assillante questa sera, per tessere insieme a essi, nello spazio anticipativo e rievocativo della lettura, una sorta di grande ragnatela significante. I temi si leggono allora co­ me le linee direttrici di questa ridistribuzione infinita: sono del­ le serie, certo, ma serie sempre esplose, convertite in altre serie, continuamente reincrociate o attraversate. E la nozione di traversa mi fa venir voglia, ora, di interpellare Gilles Deleuze, che ha evocato cosi bene, alla fine del suo li­ bro su Proust, l’importanza delle trasversali in quest’opera. D’al­ tra parte la torre di Roussainville può forse fornirci ancora un esempio eccellente: penso al personaggio di Théodore. Ricor­ date questo giovane, che fa visitare la cripta di Combray, in cui si trova la bambina uccisa di cui ci ha parlato ieri Doubrovsky, ma che è anche uno degli attori dei giochi erotici praticati nel­



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la torre, e ai quali partecipa Gilberte. Ecco confermato, attra­ verso il relais di un personaggio chiave, un legame stabilito chia­ ramente tra due modalità del sotterraneo proustiano, tra due delle nostre serie spazio-libidinali. Chiedo dunque a Deleuze, in proposito, come concepisca esattamente il senso della nozio­ ne di trasversalità in Proust. Perché la privilegia rispetto a tut­ te le altre relazioni che strutturano lo spazio proustiano, come la focalità, la simmetria, la lateralità ? E in che modo essa si col­ lega specificamente à un’esperienza della follia ? G. deleuze Penso che si possa chiamare trasversale una dimen­ sione che non è né orizzontale né verticale, posto ovviamente che si tratti di un piano. Non mi chiedo se nell’opera di Proust appaia una tale dimensione. Mi domando a che cosa serva. E, se Proust ne ha bisogno, perché ne abbia bisogno. Mi sembra, dopotutto, che non abbia scelta. C’è una cosa in particolare che egli ama, ed è l’idea che le cose o le persone o i gruppi non co­ munichino. Charlus è una scatola; le fanciulle sono una scato­ la contenente scatole più piccole. E non credo che questa sia una metafora, almeno non nel senso corrente del termine. Sca­ tole chiuse, o vasi non comunicanti: abbiamo qui due posse­ dimenti di Proust, mi sembra, nel senso in cui si dice che un uomo ha delle proprietà, dei possedimenti. Queste proprietà, questi possedimenti - che Proust maneggia lungo tutta la Re­ cherche - attraverso di lui, stranamente, comunicano. Ma una co­ municazione che non avviene secondo una dimensione che com­ prende ambiti in grado di comunicare tra loro, si può definire una comunicazione aberrante. Esempio famoso di questo tipo di comunicazione: il calabrone e l’orchidea. Tutto è a compar­ timenti stagni. Ed è in questo senso, non che Proust sia folle, assolutamente no, ma che si tratta di una visione folle, essen­ do questa una visione a base di vegetale piuttosto che di ani­ male. Quel che fa si che la sessualità umana per Proust sia una faccenda di fiori è che ognuno è bisessuale. Ognuno è ermafro­ dito ma incapace di autofecondarsi poiché i suoi due sessi so­ no separati. La serie amorosa, o sessuale, sarà dunque una sè­ rie particolarmente ricca. Se si parla di un uomo, c’è la parte maschile e la parte femminile di quest’uomo. Per la parte ma­ schile, si danno due casi, o meglio quattro: può entrare in rap­ porto con la parte maschile di una donna o con la parte femmi­ nile di una donna, ma anche con la parte femminile di un altro uomo oppure con la sua parte maschile. C’è comunicazione, ma

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avviene sempre tra vasi non comunicanti; c’è apertura, ma sem­ pre tra scatole chiuse. Sappiamo che l’orchidea esibisce, dise­ gnata sul suo fiore, l’immagine dell’insetto, con le sue anten­ ne, ed è questa immagine che l’insetto feconderà, assicurando così la fecondazione del fiore femminile con il fiore maschile: per indicare questa specie di incrocio, di convergenza tra l’e­ voluzione dell’orchidea e quella dell’insetto, un biologo con­ temporaneo2 ha parlato di evoluzione aparallela, che è proprio ciò che intendo per comunicazione aberrante. La scena del treno, in cui il narratore corre da una finestra al­ l’altra, passando dal paesaggio di sinistra al paesaggio di destra e viceversa, offre un altro esempio dello stesso fenomeno. Nien­ te comunica: è una specie di grande mondo esploso. L’unità non è in quel che si vede. La sola unità possibile bisogna cer­ carla nel narratore, nel suo comportamento di ragno che tesse la tela, da una finestra all’altra. Credo che tutti i critici abbia­ no detto la stessa cosa: la Recherche, in quanto opera, avviene interamente in questa dimensione, abitata soltanto dal narra­ tore. Gli altri personaggi, tutti gli altri personaggi, non sono che scatole, mediocri o splendide. s. doubrovsky Posso farle allora una domanda ? Che cos’è II tem­ po ritrovato in questa prospettiva ? g. deleuze Credo che II tempo ritrovato sia non tanto il momen­ to in cui il narratore ha capito o il momento in cui sa (uso del­ le parole sciatte, ma solo per arrivare subito al punto), quanto il momento in cui sa quel che stava facendo fin dall’inizio. Pri­ ma non lo sapeva. E il momento in cui sa di essere un ragno, il momento in cui sa che la follia era presente fin dal principio, il momento in cui sa che la sua opera è una tela, e in quel mo­ mento preciso si afferma pienamente. Il tempo ritrovato è per eccellenza la dimensione trasversale. In questa specie di esplo­ sione, di trionfo della fine, si direbbe che questo ragno abbia capito tutto. Che abbia capito che stava tessendo una tela, e che abbia capito che era prodigioso capirlo. s. doubrovsky Che uso fa lei delle grandi leggi psicologiche che il narratore fa intervenire lungo tutto il racconto e di cui infio­ ra il testo ? Le vede piuttosto come sintomi della sua follia o co­ me analisi del comportamento umano ? ’ Su tale questione Deleuze cita molto spesso il lavoro di Rémy Chauvin, Entretien sur lasexualìté, Plon, Paris 1965, p. 205 [NJ.C.].

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Assolutamente no. Credo del resto che siano molto localizzate: come diceva Genette, ci sono dei problemi topolo­ gici molto importanti. Le leggi psicologiche sono sempre leggi riguardanti le serie. E le serie, nell’opera di Proust, non sono mai l’ultima parola. C’è sempre qualcosa di più profondo di queste serie organizzate sulla verticale, o secondo una profon­ dità sempre maggiore. La serie dei piani che vediamo attraver­ sare dal viso di Albertine sfocia in un’altra cosa molto più im­ portante, e che è l’ultima parola. Lo stesso si può dire delle se­ rie contrassegnate dalle leggi della menzogna o dalle leggi della gelosia. Per questa stessa ragione, non appena Proust maneg­ gia le leggi, interviene una dimensione umoristica che mi pare essenziale e che pone un problema di interpretazione, un vero problema. Interpretare un testo, secondo me, equivale sempre a valutarne lo humour. Un grande autore ride molto. In una delle sue prime apparizioni, Charlus dice al narratore più o me­ no cosi: tu te ne freghi di tua nonna, piccola canaglia. Si può pensare che Charlus faccia una battuta volgare. Ma forse, in realtà, Charlus lancia K una predizione, e cioè che l’amore per la nonna, l’amore per la madre, tutta la serie, non è affatto l’ul­ tima parola, l’ultima parola è: tu te ne freghi... E infatti credo che tutti i metodi precedentemente invocati si ritrovino davan­ ti alla necessità di prendere in considerazione non soltanto una retorica, ma anche un’umoristica. domanda dal pubblico Roland Barthes, lei ha suggerito un rap­ porto tra la Recherche e il Libro mallarmiano. Potrebbe espli­ citare questo rapporto, oppure è soltanto un’idea? r. barthes E un progetto di avvicinamento, una metafora, se vuole. Il Libro mallarmiano è uno spazio di permutazione fra un testo letto e gli spettatori che cambiano posto ogni istante. Suggerivo semplicemente che il libro proustiano, lo spazio di lettura di questo libro proustiano, lungo tutta la storia, potreb­ be essere il Libro mallarmiano, questo libro che esiste solo in una sorta di teatralità non isterica, puramente permutativa, fondata su delle permutazioni di posti. Volevo dire solo questo. s. doubrovsky Vorrei approfittare del breve silenzio che si è creato per rispondere a Genette. Sono completamente d’accor­ do con ciò che ha detto poco fa. Tutte le scene della Recherche sono rivissute, ma ogni volta con una differenza qualitativa che dipende dall’evoluzione del libro, del testo come tale. Ed è per questo, per evitare ogni malinteso, che non ho presentato il mio

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commento come il risultato finale di una ricerca, bensì come uno sforzo per determinare nell’opera dei punti di riferimento che permettano successivamente di stabilire la rete di differen­ ze. Rispetto a ciò che ha appena detto Deleuze, forse non l’avrei detto con le stesse parole, ma più rileggo Proust e più so­ no sicuro, non che sia folle, ma - consentitemi l’espressione che sia un po’ «suonato». Per restare a questo livello soltanto, ci sono delle frasi all’apparenza di una logica perfetta, ma che, se le si osserva più da vicino, non stanno in piedi. Se ieri usa­ vo il linguaggio della psicoanalisi per descrivere questo tipo di fenomeno, è perché la psicoanalisi è il linguaggio ideale del fol­ le, è la follia codificata. Mi sono servito quindi di un sistema comodo, ma forse era solo per rassicurare me stesso. jean RiCARDOU Alcuni dei discorsi qui scambiati si articolano più facilmente di altri. Per esempio, ciò che vorrei formulare si ar­ ticolerà più agevolmente con quanto ha detto Gérard Genette. Chiederei dunque a Genette se considera specifica di Proust questa divaricazione e questa dispersione che al momento sti­ molano il suo desiderio critico. Da parte mia, ho l’impressione che questo fenomeno (mi piacerebbe definirlo «dispositivo osirico») sia caratteristico di ogni testo. Penso in particolare a un contemporaneo di Proust (ma di cui, nonostante ciò, si parla purtroppo sempre meno): Roussel. La sua pratica è forse com­ parabile a quella di Proust, nel senso che alcuni dei suoi testi, come Nouvelles impressions d’Afrique, sono composti da una leggibile proliferazione di parentesi, le une dentro le altre, che allontanano i temi e li disperdono sempre più. Ma lo si può cogliere anche nella composizione degli altri testi di Roussel. Tuttavia, mi inquieta un po’ l’idea che il fenomeno della di­ spersione potrebbe forse lasciar intendere che all’inizio esista una unità, successivamente dispersa. In altri termini: il dispo­ sitivo osirico suppone, prima della dislocazione, la presenza di un corpo primo, quello di Osiride. Da parte mia, ritengo op­ portuno correggere questo dispositivo con un’altra nozione: quella di «puzzle impossibile». In questo modo c’è si un insie­ me di pezzi separati fra loro da un’attività di messa tra paren­ tesi sempre rilanciata, ma allo stesso tempo, se si tentasse di ri­ comporre una unità che si suppone scissa partendo dai pezzi cosi sparpagliati, ci si renderebbe conto, per effetto di questo puzzle impossibile, che i pezzi non si incastrano bene gli uni negli altri, non c’è geometria compatibile. Ciò che mi interes­

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sa, insomma, è problematizzare il caso dell’unità: non soltan­ to (come lei mostrava) distanziamento e dispersione, ma anche ricongiungimento impossibile. Nessuna unità originaria. G. genette II rapporto tra Proust e Roussel è ovviamente trop­ po difficile per trattarlo cosi, ma c’è comunque un punto im­ portante che si può menzionare, e cioè che, per quel che ne so, Roussel ha un certo modo di padroneggiare il suo dispositivo, mentre ciò che caratterizza il dispositivo proustiano è che il suo autore non l’ha mai padroneggiato del tutto; possiamo dire che non l’ha padroneggiato perché è morto troppo presto ma natu­ ralmente sarebbe una battuta. Anche se fosse ancora vivo, so­ no sicuro che non sarebbe mai riuscito a padroneggiarlo, per­ ché è infinito. L’altra domanda è: si tratta di un fenomeno spe­ cifico dell’opera di Proust o di un fenomeno generale ? Credo che di fatto sia un falso problema perché, almeno io, sono sen­ sibile a un fenomeno che è caratteristico di Proust e a partire da esso sono tentato di rileggere in questa luce tutti gli altri te­ sti. Ma, da un altro punto di vista, si può dire che questi feno­ meni di distanza, di divaricazione ecc., sono la definizione stes­ sa di ogni testo. R. barthes Vedo che si gira sempre intorno alla stessa forma, quella del tema e della variazione. In musica c’è una forma ac­ cademica e canonica del tema e della variazione, per esempio le variazioni di Brahms su un tema di Haydn. C’è un tema da­ to all’inizio, e poi dieci, dodici o quindici variazioni. Ma non bisogna dimenticare che nella storia della musica c’è una gran­ de opera che finge di avere la struttura «tema e variazioni» mentre in realtà la smantella. Sono le variazioni di Beethoven su un valzer di Diabelli, almeno per come sono ammirevolmen­ te spiegate e descritte da Stockhausen nel piccolo libro di Boucourechliev su Beethoven. Ci si accorge che si ha a che fare con trentatre variazioni senza tema. C’è un tema dato all’inizio, un tema alquanto stupido, ma che è dato proprio, in un certo sen­ so, a titolo di derisione. Direi che le variazioni di Beethoven funzionano un po’ come l’opera di Proust. II tema si diffrange interamente nelle variazioni e non c’è piu trattamento variato di un tema. Il che vuol dire che in un certo senso la metafora (perché l’idea di variazione è paradigmatica) è distrutta. O, in ogni caso, che è distrutta l’origine della metafora; è una me­ tafora, ma senza origine. Credo che questo vada detto. domanda dal pubblico Vorrei fare una domanda che sarà un

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po’ come un sasso in uno stagno. Mi aspetto cioè risposte di­ verse, con cui spero di riuscire ad avere un’idea piu chiara di che cosa ognuno di voi sta cercando in Proust. La domanda è questa: il narratore ha un metodo ? deleuze Da parte mia, credo che il narratore abbia un meto­ do, anche se all’inizio non lo sa. Lo apprende secondo ritmi di­ versi, in occasioni molto diverse, e questo metodo è letteral­ mente, secondo me, la strategia del ragno. s. doubrovsky II metodo del narratore ? Direi che ce ne sono di­ versi. Il narratore è al tempo stesso qualcuno che pretende di vivere e qualcuno che scrive. Il che pone ogni sorta di proble­ mi. Questo mi riporta all’origine della metafora: rapporto ori­ ginale, rapporto con la madre, con il corpo, con quest’«io» che è un altro e che si cerca eternamente di ricostituire - ma si rie­ sce davvero a farlo ? - grazie a diversi metodi di scrittura. genette Quando ci si riferisce al narratore della Recherche, bisogna precisare se si usa questo termine in senso stretto o in senso ampio perché è ambiguo, e cioè se si designa colui che racconta, oppure l’eroe. Per quanto riguarda il metodo dell’e­ roe, non posso che ripetere quello che Deleuze ha scritto: im­ para un metodo di deciframento ecc. Questo è il metodo del­ l’eroe, che - possiamo dire - si costituisce poco alla volta. Per quanto riguarda il metodo del narratore in quanto tale, eviden­ temente esso trascende il campo della domanda posta. stesso interlocutore Se lei dice che il metodo dell’eroe, cioè del narratore in senso ampio, si costituisce poco alla volta, al­ lora su questo punto non è in disaccordo con Deleuze ? Perché, se ho capito bene quello che lei ha detto, Gilles Deleuze, la sua idea è che questo metodo si scopre soltanto alla fine. Ci sareb­ be stato in qualche modo uno sviluppo istintivo, uno sviluppo che si capisce, si rivede, si analizza soltanto nel Tempo ritrovato. G. genette Ho appena detto in che cosa ero d’accordo con De­ leuze. G. deleuze Si, non capisco dove lei veda un’opposizione in quel che abbiamo detto. stesso interlocutore Vedo un’opposizione tra l’idea che il me­ todo si costituirebbe a poco a poco e l’idea, invece, che esso si rivelerebbe soltanto alla fine. G. deleuze Mi perdoni, ma mi sembra la stessa cosa. Dire che questo metodo si costituisce localmente vuol dire sottolineare innanzitutto che, qua e là, c’è un certo frammento di contenu-

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to che è preso in un certo frammento di metodo. Che il narrato­ re alla fine si dica «ah, è cosi», non vuol dire che di colpo tut­ to si ricomponga; i brandelli restano brandelli, le scatole restano scatole. Quel che alla fine si coglie, però, è che erano proprio questi brandelli, senza alcun riferimento a una unità superiore, che costituivano l’opera in quanto tale. Non vedo, quindi, al­ cuna opposizione tra la costituzione locale dei frammenti di metodo e la rivelazione finale. stesso interlocutore Vorrei ritornare su una cosa che lei ha dichiarato nel suo primo intervento. A un certo punto lei ha detto: ma il narratore che cosa fa? Non vede nulla, non capi­ sce nulla; e poi ha aggiunto: non vuole capire nulla. G. deleuze Non gli interessa, avrei dovuto dire cosi. stesso interlocutore Allora mi chiedo se la volontà di non ca­ pire non faccia parte del metodo. L’idea di respingere: respin­ go questa o quella cosa perché non mi interessa. So istintiva­ mente che non mi interessa. Per cui c’è fin dall’inizio un me­ todo, che sarebbe quello di fidarsi di un certo istinto. Quel che si scopre alla fine è che questo metodo era giusto. G. deleuze Non che questo metodo era quello giusto, ma che que­ sto metodo ha funzionato. Non è mica universale. Quindi non bisogna dire: era il metodo giusto; bensì: era l’unico metodo in grado di funzionare in maniera tale da produrre quest’opera. stesso interlocutore Ma l’ambiguità non viene proprio dal fat­ to che, da una parte, il narratore avrebbe un metodo fin dal prin­ cipio e, dall’altra, che si tratta di un metodo che non postula il fine verso cui si tende ? Il fine non è stabilito, si delinea soltan­ to nel finale. G. deleuze Ma non è stabilito nulla. Tanto meno il metodo. Non soltanto non è stabilito il fine del metodo, ma nemmeno il me­ todo stesso. stesso interlocutore Forse, se non proprio stabilito, è perlo­ meno evocato. g. deleuze Evocato ? Mi rifaccio a un esempio preciso: la modeteìne. Essa dà luogo, da parte del narratore, a uno sforzo che è presentato esplicitamente come uno sforzo metodico. Qui c’è effettivamente un piccolo brandello di metodo in atto. Ma al­ cune centinaia di pagine dopo, veniamo a sapere che ciò che era stato trovato in quel momento era radicalmente insufficien­ te e che bisogna trovare qualcos’altro, continuare a cercare. Quindi non credo affatto - e mi sembra che anche lei si stia

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contraddicendo - che il metodo sia stabilito fin dall’inizio. Non è stabilito, funziona qua e là, con dei colpi a vuoto che sono parte integrante dell’opera. E anche dopo che ha funzionato bisogna usarlo secondo un’altra modalità. Cosi sino alla fine, quando interviene una... una specie... come dire?... una spe­ cie di rivelazione. Solo alla fine il narratore lascia intravedere qual è il suo metodo: aprirsi a ciò che opera su di lui una coerci­ zione, aprirsi a ciò che gli fa violenza. E un metodo. Lo si può comunque chiamare cosi. domanda dal pubblico Gilles Deleuze, vorrei ritornare all’im­ magine del ragno, che impressiona molto, per farle una doman­ da: che cosa se ne fa della nozione di credenza, che si ritrova cosi spesso in Proust ? Lei ha detto che il ragno non vede nul­ la; ma Proust molto spesso dice che questa o quella vista nuo­ ta in una credenza, cioè in una certa impressione anteriore al­ la vista stessa, per esempio, nel caso dei biancospini, l’impres­ sione provata il mattino alla messa. G. deleuze Anche in questo caso, non c’è opposizione. Quel che si oppone, se vuole, è il mondo della percezione o dell’intelle­ zione, da una parte, e il mondo dei segnali, dall’altra. Ogni vol­ ta che c’è una credenza, significa che c’è ricezione di un segna­ le e reazione a esso. In questo senso, il ragno crede, ma crede solo alle vibrazioni della sua tela. Il segnale è ciò che fa vibra­ re la tela. Finché la mosca non è nella tela, il ragno non crede assolutamente all’esistenza di una mosca. Non ci crede. Non crede alle mosche. Per contro, crede a ogni movimento della ragnatela, per quanto minuscolo possa essere, e crede sia una mosca. Anche se è un’altra cosa. stesso interlocutore In altri termini, un oggetto esiste solo se è preso nella ragnatela... G. deleuze ... Solo se emette un segnale che fa muovere la tela, che la fa muovere nello stato in cui si trova in quel momento. Perché è una tela che si sta tessendo, che è in via di costruzio­ ne, come per i ragni, e che non aspetta di essere finita perché ci siano già delle prede. L’unica credenza di Proust è la creden­ za in una preda, ovvero in ciò che fa muovere la tela. stesso interlocutore Ma è lui che la secerne, questa preda, che la fa divenire preda. G. deleuze No, lui secerne la ragnatela. L’oggetto esterno c’è davvero, anche se non interviene come oggetto, ma solo come ciò che emette dei segnali.

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STESSO INTERLOCUTORE deleuze Esatto.

Preso nella tela che lui sta secernendo.

STESSO INTERLOCUTORE deleuze Esatto.

Ed esiste solo in quel momento.

G. G.

Vorrei fare una domanda a Deleuze e a Doubrovsky. Gilles Deleuze, lei ha usato diverse volte la paro­ la follia: può precisare questo termine ? Invece, lei, Serge Dou­ brovsky, ha dichiarato che il narratore non è folle, ma «suona­ to», e questo richiede una spiegazione. G. deleuze Sono partito dall’uso che Proust stesso fa della pa­ rola follia. Nella Prigioniera c’è una bellissima pagina al riguar­ do: ciò che inquieta la gente non è il crimine, o il vizio, ma qual­ cosa di peggio, la follia. Lo si dice, quasi per caso, a proposito di Charlus e di una madre di famiglia che ha scoperto, o intui­ to - dato che non brilla per intelligenza - che Charlus è folle; e che, nell’accarezzare la guancia dei suoi figli grandi e nel piz­ zicargli l’orecchio, c’era ben altro che l’omosessualità: c’era qualcosa di inconcepibile, dell’ordine della follia. E Proust ci di­ ce: è questo a inquietare’. Quanto a sapere che cosa sia questa follia e in che cosa consi­ sta, da parte mia credo che si potrebbe parlare di schizofrenia. L’universo di scatole chiuse che ho tentato di descrivere, con le sue comunicazioni aberranti, è un universo fondamentalmen ­ te schizoide. s. doubrovsky Se ho usato la parola « suonato», è perché a mio parere non si tratta precisamente di follia. Non credo che il narratore sia completamente folle, sebbene ai testi citati da Deleuze si possa aggiungere quello in cui si dice che Vinteuil è morto folle. Il narratore cerca di lottare contro la sua follia, altrimenti - e di questo possiamo essere certi - non scrivereb­ be il suo libro. Ho quindi voluto introdurre, usando un termi­ ne gergale, quell’elemento umoristico che invocava Deleuze. Non sto a ripetere quel che ho detto ieri sulla nevrosi. Ciò che mi colpisce, per restare al solo piano della scrittura, è che so­ no sempre le stesse storie, gli stessi personaggi, le stesse situa­ zioni che continuano a riapparire ogni volta con una leggera variazione. Questo fenomeno, a cui Genette si riferiva poco fa, è stato analizzato a fondo da Leo Bersani nel suo libro su DOMANDA DAL PUBBLICO

’ Cfr. M. Proust, La prigioniera, in Alla ricerca del tempo perduto àt., vol. Ili, pp. 606607 [Nd.T.l.

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Proust4. Le cose si ripetono ossessivamente, le coincidenze so­ no troppo grandi; tutto avviene come se il racconto divenisse sempre più fantasmatico. Non siamo assolutamente più dentro un realismo narrativo qualsiasi, ma dentro un delirio che si ma­ nifesta come una narrazione. Bisognerebbe mostrarlo con tut­ ta una serie di esempi, ma per attenersi solo alle grandi massi­ me proustiane che siamo riusciti a raccogliere, l’effetto, a leg­ gerle di seguito, è davvero straordinario: il narratore espone dei tesori di ingegnosità per giustificare delle condotte che so­ no fondamentalmente aberranti. domanda dal pubblico Roland Barthes, mi piacerebbe porle una domanda che faccio fatica a formulare perché evoca un testo che comprendo con difficoltà, e cioè la prefazione al suo Sade, Fourier, Loyola. Si parla di «piacere del testo» in termini che evocano molto chiaramente Proust, e anche di una specie di at­ tività critica concepita come un sovvertimento o una deviazio­ ne, e che non manca di richiamare l’interpretazione delle va­ riazioni di cui parlava Genette. Questo mi sembra molto am­ biguo nella misura in cui nell’interpretazione delle variazioni non si è cosi lontani da una certa forma di pastiche che rischia di condurre ai peggiori errori critici. R. barthes Non capisco bene l’ambiguità del pastiche. stesso interlocutore Mi riferisco all’interpretazione delle va­ riazioni che lei sembra aver sottoscritto in quanto attività cri­ tica, e che metto in rapporto con quel piacere del testo che lei descrive. Vorrei sapere come questo si colloca. r. barthes II piacere del testo non ha un rapporto diretto con l’oggetto di questo colloquio, anche se, per me personalmente, Proust è un grandissimo oggetto di piacere; prima ho anche par­ lato di un desiderio critico. Il piacere del testo è una sorta di rivendicazione che ho lanciato, e che però ora deve essere ono­ rata su un piano più teorico. Direi semplicemente, in due pa­ role, che forse, vista l’evoluzione della teoria del testo, è arri­ vata l’ora di interrogarsi sull’economia o le economie del pia­ cere del testo. In che cosa un testo fa piacere? Qual è quel «più-di-godimento» di un testo, dove si colloca, è lo stesso per tutti ? Certamente no; e allora questa constatazione dove ci por­ ta metodologicamente ? Per esempio, si potrebbe partire dalla 4 Cfr. L. Bersani, Marcel Proust: The Fictions of Life and of Art, Oxford University Press, New York 1965 [Nz/.T.].

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constatazione che per millenni c’è stato incontestabilmente un piacere della narrazione, dell’aneddoto, della storia, del raccon­ to. Se ora produciamo dei testi che non sono più narrativi, in che economia di sostituzione si coglie il piacere ? Bisogna che ci sia uno spostamento del piacere, uno spostamento di quel «più-di-godimento», e al momento va cercata una sorta di pro­ lungamento della teoria del testo. E solo una domanda, non ho elementi supplementari da fornire per ora; è una cosa a cui si potrebbe immaginare di lavorare collettivamente, in un semi­ nario di ricerca, per esempio. Per quanto riguarda la seconda domanda, quella sull’interpre­ tazione delle variazioni, farei una precisazione: il critico non è affatto come un pianista che semplicemente interpreta, esegue delle variazioni che sono scritte. In realtà, il critico accede, al­ meno provvisoriamente, a una destrutturazione del testo prou­ stiano, reagisce contro la strutturazione retorica (il «piano») che negli studi su Proust finora ha prevalso. Al momento at­ tuale, il critico non è affatto un pianista tradizionale che ese­ gue delle variazioni presenti effettivamente nel testo, ma è piut­ tosto l’operatore di uno spartito, come quelli che esistono nel­ la musica postseriale. E la stessa differenza che ci sarebbe tra l’interprete di un concerto romantico e il musicista, l’operato­ re di una formazione (non si chiama nemmeno più orchestra) adatta a suonare della musica davvero contemporanea, secondo un canovaccio di scrittura che non ha più niente a che fare con la notazione di un tempo. Attualmente il testo proustiano sem­ bra diventare poco alla volta, attraverso quella sorta di eracliteismo che prende la critica, una specie di partitura piena di buchi su cui effettivamente si potranno non eseguire, ma operare del­ le variazioni. Ci si ricongiungerebbe cosi al problema che è sta­ to posto in un dibattito molto più concreto, e in un certo senso molto più serio - avvenuto questo pomeriggio -, tra coloro fra noi che hanno evocato il problema del testo proustiano, nell’ac­ cezione materiale della parola «testo»: forse in questo momen­ to avremmo bisogno dei famosi foglietti proustiani, non solo per la letteralità delle frasi che essi ci rivelerebbero, ma per il tipo, direi, di configurazione grafica, di esplosione grafica che rappre­ sentano. Vedo un po’ in questo modo una sorta di futuro, non della critica proustiana (che non suscita alcun interesse: la criti­ ca resterà sempre un’istituzione, ci si può sempre collocare all’e­ sterno o al di là di essa), ma della lettura e quindi del piacere.

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j.-p. Richard Dopo questo intervento di Roland Barthes, vorrei dire che tra le persone sedute a questo tavolo mi sembra esser­ ci un sostanziale accordo o almeno una convergenza: la prati­ ca della scrittura di Proust ci è descritta da tutti in una pro­ spettiva di esplosione, di frammentazione e di discontinuità. Mi sembra evidente, tuttavia, leggendo il testo di Proust, che ci sia un’ideologia proustiana dell’opera che va contro tutte queste descrizioni, un’ideologia molto esplicita, molto insisten­ te, anche un po’ pesante, che al contrario valorizza gli echi, le linee di somiglianza, i richiami, le risonanze, la divisione in par­ tì, le simmetrie, i punti di vista, le «stelle», e che termina, nei ben noti brani del Tempo ritrovato, con l’apparizione di un per­ sonaggio che riannoda tutti i fili sparsi fin li. Mi sembra quin­ di che ci sia qui una certa disparità tra l’ideologia proustiana esplicita del testo e la descrizione che voi ne date. Per cui la mia domanda è semplicemente questa: se questa disparità esi­ ste, che posto date all’ideologia proustiana nella pratica del suo testo ? Come spiegate questa contraddizione tra ciò che si dice di Proust e il suo dire ? r. barthes Personalmente vedo l’ideologia che lei descrive, e che peraltro si enuncia soprattutto nel finale... j.-p. Richard O lungo tutta l’opera? r. barthes ... piuttosto come un immaginario proustiano, un po’ in senso lacaniano; questo immaginario è nel testo, vi si siste­ ma come in una scatola, ma, aggiungerei, una scatola giappo­ nese: una scatola in cui dentro c’è sempre un’altra scatola, e co­ si via; e allo stesso modo l’ignoranza che il testo ha di se stes­ so finisce per figurare nel testo stesso. Ecco come vedrei più o meno questa teoria della scrittura, piuttosto che questa ideolo­ gia, che è presente nel testo proustiano. j.-p. Richard Questa teoria, inoltre e tuttavia, struttura il testo; a volte assomiglia proprio a una pratica. Deleuze citava per esempio, poco fa, e a ragione, l’esempio della madeleine, e di­ ceva che l’eroe ne aveva compreso il senso solo molto più tar­ di. Ma all’epoca della prima esperienza, Proust dice già: avrei dovuto rimandare di molto la comprensione del senso di ciò che mi era successo quel giorno. Qui c’è dunque proprio la pre­ supposizione teorica e la certezza di quel che è il valore, il va­ lore dell’esperienza interpretata in un secondo tempo. Mi sem­ bra difficile dire che soltanto alla fine, con un effetto di après coup, la ragnatela si tesse o si disfa.

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j. RiCARDOU Non dividerei affatto la formula di ideologia prou­ stiana dall’opera, direi piuttosto: l’ideologia dell’opera di Proust. Questa ideologia, interna insomma, ha due funzioni, a secon­ da che essa sia conforme o meno al funzionamento del testo. Nel primo caso, si avrebbe uno degli effetti di questa autorap­ presentazione di cui ho parlato nel mio intervento e su cui non insisterei. Ma questo non vuol dire (ed è un modo di attenua­ re alcune delle mie affermazioni precedenti) che ogni ideolo­ gia interna al testo sia per forza in accordo con il funziona­ mento del testo. Può anche succedere che essa vi si opponga. Con questa autorappresentazione inversa, il rapporto della fin­ zione con la narrazione non sarebbe più una similitudine, co­ me nell’autorappresentazione diretta, ma un’opposizione. Non una metafora, ma un’antitesi. In questo caso, potrebbe trattar­ si di una strategia dell’inganno. L’ideologia dell’opera attire­ rebbe tanta piu attenzione sull’unificazione, sulla somiglianza, perché il modo migliore di cogliere una dispersione è il deside­ rio stesso della somiglianza. Potrebbe trattarsi anche dell’indi­ zio di un funzionamento doppio. Nel mio intervento ho sotto­ lineato l’accostamento per analogia, che però è possibile solo a patto di separare, allontanare, distinguere: è su questo funzio­ namento complementare che hanno insistito Deleuze e Genette. A partire da questa insistenza, si potrebbe forse trovare nella Recherche un’ideologia contraddittoria: non più l’altro che di­ venta lo stesso (la parte di Swann che si fonde con la parte di Guermantes), ma lo stesso che diventa altro: i morti, le sepa­ razioni, le esclusioni, le trasformazioni (ogni cosa tende a di­ ventare il suo contrario). Ci sarebbe allora un’autorappresen­ tazione del funzionamento conflittuale del testo attraverso un conflitto delle ideologie del testo. G. genette Due parole a proposito di ciò che ha appena detto Jean-Pierre Richard: io credo che in Proust, cosi come in tan­ ti altri scrittori, ci sia un certo ritardo della teoria sulla pratica. In maniera molto approssimativa, si potrebbe dire che Proust è un autore del xx secolo con un’ideologia estetica e letteraria del xix. Ma noi siamo e dobbiamo essere dei critici del xx se­ colo, e dobbiamo leggerlo in quanto tali, e non come egli stes­ so si leggeva. Ciò nonostante la sua teoria letteraria è un po’ più sottile della grande sintesi del Tempo ritrovato, che porta tutto a compimento e racchiude tutto. Nella sua teoria della lettura, e della lettura del suo stesso libro, quando dice per

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esempio che il suo lettore dovrà essere il lettore di se stesso, c’è qualcosa che sovverte in parte l’idea della chiusura finale del­ l’opera, e di conseguenza l’idea (classico-romantica) di opera stessa. C’è poi un terzo elemento, il fatto che oggi il testo di Proust non è più quello che era nel 1939, diciamo, in cui si co­ nosceva essenzialmente la Recherche, più altre due o tre opere considerate minori. A mio parere, l’evento fondamentale nel­ la critica proustiana di questi ultimi anni non è il fatto che pos­ siamo scrivere o aver scritto su Proust, ma il fatto che Proust stesso, oserei dire, ha continuato a scrivere: è l’aggiornamento di questa massa di avantesti e paratesti ciò che rende la Re­ cherche più aperta oggi di quanto non fosse ieri, quando la si leggeva come un’opera isolata. Voglio dire che non soltanto es­ sa si apre nel finale, come abbiamo sempre saputo, nel senso che la sua circolarità le impedisce di chiudersi su se stessa, in­ terrompendosi; essa si apre anche all’inizio, perché non solo non finisce, ma da un certo punto di vista non è mai comincia­ ta, dato che Proust ha sempre già lavorato a quest’opera. E in un certo senso ci sta ancora lavorando: non abbiamo ancora tutto il testo proustiano; tutto ciò che diciamo oggi sarà in par­ te smentito quando lo avremo nella sua interezza. Ma fortuna­ tamente, per lui e per noi, non l’avremo mai interamente. domanda dal pubblico Fra tutte le cose che si sono dette, due mi sono apparse particolarmente inquietanti. Una è stata det­ ta da Deleuze, l’altra da Doubrovsky. Ed entrambe hanno at­ tinto dalla questione della follia. Una cosa è dire con Deleuze che nell’opera di Proust il tema della follia è ovunque, un’altra cosa è stendere la mano e dire: guardate, Charlus è folle, Al­ bertine è folle. Sarebbe come dire, allora, che tutti sono folli: Sade, Lautréamont o Maldoror. Perché Charlus sarebbe folle? G. deleuze Ma non sono io a dirlo, è Proust. Lo dice fin dal prin­ cipio: Charlus è folle. E Proust che fa scrivere ad Andrée: for­ se Albertine era davvero folle. E nel testo. Quanto al proble­ ma di sapere se Proust è folle o no, deve riconoscere che non l’ho mai posto. In questo sono come lei, la questione non mi interessa. Mi sono semplicemente chiesto se in quest’opera ci fosse una presenza della follia e quale fosse la funzione di que­ sta presenza. stesso interlocutore E vero. Però Doubrovsky prosegue di­ cendo che la follia, che questa volta è proprio quella dello scrit­ tore, traspare nel racconto a partire dal momento in cui, verso

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la fine, le coincidenze si accumulano. É compatibile con una visione non psicologica dell’opera di Proust? Quel che succe­ de in quel momento non è semplicemente un’accelerazione nel­ la ricorrenza dei temi ? Queste coincidenze, quelle che lei chia­ ma coincidenze, sono una prova di follia ? s. doubrovsky Da parte mia, credo che ci sia una strategia del narratore - intendo lo scrittore che scrive il libro - che consi­ ste nell’attribuire l’omosessualità agli altri, nell’attribuire la fol­ lia in particolare a Charlus o ad Albertine. Per sé si riserva il «nervosismo», in cui è facile riconoscere tutti i tratti di una malattia psicosomatica. Ciò che intendo dire è che l’intera opera appare come una sor­ ta di gioco con cui lo scrittore cerca di edificare un universo, di raccontare una storia che si può leggere, che si è potuta leg­ gere come una storia. Jean-Pierre Richard, poco fa, aveva ra­ gione a sottolineare la presenza di un’ideologia strutturante nel­ l’opera. Proust, uomo del xix secolo. Ma più si legge la Re­ cherche e più ci si accorge che si è dentro un universo mentale, psichico, se si preferisce, o meglio ancora inconscio, non so, ma comunque testuale, che gioca su due tavoli del tutto contrap­ posti: una storia si racconta, ma allo stesso tempo in cui si rac­ conta, si demolisce. stesso interlocutore Intende dire che a partire dal momento in cui il racconto non è più «realistico» si è nella follia? s. doubrovsky Credo che una certa sensazione di derealizzazio­ ne del testo induca a interrogarsi sulla follia. Ma, ripeto, que­ sta parola non mi piace. Aggiungerei solo che la perdita del prin­ cipio di realtà mi sembra una delle grandi scoperte della scrit­ tura moderna. domanda dal pubblico Vorrei fare due domande, una a Barthes e l’altra a Deleuze. Quando lei dice, Roland Barthes, che nella teoria del testo, per come è stata fatta finora, bisogna reintrodurre un’economia, sceglie come perno di questa nuova dimensione il piacere. Ma il piacere di chi? Lei dice: il piacere del lettore, il piacere del critico. Ma è possibile ricavare piacere da qualcuno come Proust che scrive al di là del principio di piacere ? E, in termini più ge­ nerali, non sarebbe ora, infine, di situare gli investimenti eco­ nomici dalla parte di colui che scrive piuttosto che dalla parte di colui che legge, visto che finora quasi nessuna critica è sta­ ta capace di farlo ?

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Forse nella ricerca intorno al tema del piacere, lo pongo in maniera un po’ ingenua, inizialmente alienata. Forse un giorno, effettivamente, questo mi porterà a fare la sua stes­ sa asserzione. Lei fa una domanda, ma in realtà dà una rispo­ sta che forse io troverò solo dopo mesi di ricerca; e cioè che la nozione di piacere del testo forse non reggerà. Tuttavia, vor­ rei pormi questa domanda, almeno una volta, all’inizio, sem­ plicemente e ingenuamente, anche se il percorso che farò mi dovesse distruggere, dissolvere in quanto soggetto del piacere, e dissolvere in me il piacere; forse non ci potrà più essere pia­ cere, forse non ci sarà che desiderio, il piacere del fantasma. stesso interlocutore Si, certo, lo chiamiamo fantasma, ma c’è anche un’altra cosa: una sorta di godimento connesso a un de­ siderio morto. Ed è forse proprio ciò che potrebbe definire lo sguardo del critico. r. barthes In ogni caso lei non ha tardato a colpevolizzare il pia­ cere che ho ricavato da Proust. Non sarebbe durato a lungo, comunque, me lo sento. stesso interlocutore Passo ora alla domanda che volevo fare a Deleuze. Lei ha detto che Proust si apre a ciò che gli fa vio­ lenza. Ma che cosa gli fa violenza, che cosa scopre, alla fine, che gli fa violenza ? g. deleuze II mondo della violenza, Proust lo definisce sempre, mi sembra, come ciò che è tutt’uno con il mondo dei segnali e dei segni. Ogni segnale fa violenza, qualunque esso sia. stesso interlocutore Ma non c’è un’altra lettura possibile di Proust ? Penso a un testo di Blanchot in cui si parla non di se­ gni ma di inscrizioni. Il ragno tesse la sua tela senza un meto­ do e senza un fine. Bene. Malgrado tutto, però, esiste un cer­ to numero di testi inscritti da qualche parte: penso alla famo­ sa frase secondo cui i due sessi moriranno ognuno dalla propria parte. C’è qui qualcosa che non si riferisce unicamente al mon­ do dei segni, ma a una serie molto più segreta e meno rassicu­ rante, una serie che sarebbe in rapporto, tra l’altro, con la ses­ sualità. G. deleuze Forse il mondo dei segni per lei è un mondo rassicu­ rante. Ma non per Proust. E non vedo perché fare una distinzio­ ne tra questo mondo e quello della sessualità, quando in Proust la sessualità è interamente immersa nel mondo dei segni. stesso interlocutore A un primo livello, si. Però è inscritta anche altrove.

r. barthes

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G. deleuze Ma di che tipo di inscrizione si tratta ? La frase che lei ha citato sui due sessi è una predizione, è il linguaggio dei profeti, non il «logos». I profeti emettono dei segni, o dei se­ gnali. E inoltre hanno bisogno di un segno che garantisca la lo­ ro parola. Non vi è alcuna retorica, alcuna logica. Il mondo dei segnali, quindi, non è affatto un mondo rassicurante, né tanto meno un mondo asessuato. Al contrario, è il mondo dell’erma­ frodito, di un ermafrodito che non comunica con se stesso: è il mondo della violenza.

4Sul dipartimento di psicoanalisi di Vincennes *

Quel che recentemente è successo nella facoltà di Vincennes, al dipartimento di psicoanalisi, all’apparenza è molto semplice: esclusione dall’insegnamento di un certo numero di docenti, per ragioni di riorganizzazione amministrativa e pedagogica. In un ar­ ticolo su «Le Monde», tuttavia, Roger-Pol Droit si chiede se non si tratti di un’epurazione in stile Vichy. La procedura di esclusio­ ne, la scelta degli esclusi, il modo in cui è stato trattato chi non era d’accordo, la nomina immediata dei sostituti farebbero pensare anche, fatte le debite proporzioni, a un’operazione stalinista. Lo stalinismo non riguarda solo i partiti comunisti, è trasbordato an­ che in alcuni gruppi di sinistra, e si è disseminato persino tra le as­ sociazioni psicoanalitiche. Lo confermerebbe il fatto che non tut­ ti gli esclusi o i loro alleati abbiano manifestato una forte resisten­ za. Per quanto non abbiano collaborato attivamente alla propria accusa, si potrebbe pensare che una seconda ondata di purghe po­ trebbe portare a un tale risultato. Non è una questione di dottrina, ma di organizzazione del po­ tere. I responsabili del dipartimento di psicoanalisi, autori delle esclusioni, in alcuni testi ufficiali dichiarano di agire secondo le istruzioni del dottor Lacan. E lui che ispira i nuovi statuti, ed è sempre a lui che all’occorrenza si sottopongono le candidature. E lui che reclama unxriordino, in nome di un misterioso «materna» della psicoanalisi. E la prima volta che un privato cittadino, a pre­ scindere dalla sua competenza, si arroga il diritto di intervenire in una università per effettuare o far effettuare, da sovrano, una rior­ ganizzazione che comporta destituzioni e nomine del personale do­ cente. Anche se tutto il dipartimento di psicoanalisi fosse consen­ ziente, il punto diffondo non cambierebbe, né le minacce che qui si nascondono. L’Ecole freudienne de Paris non è soltanto un grupCon J.-F. Lyotard, in «Les Temps modernes», gennaio 1975, n. 342, pp. 862-63.

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po con un capo, è un’associazione molto centralizzata con una clientela, in tutti i sensi del termine. E difficile concepire come un dipartimento universitario possa essere subordinato a un’organiz­ zazione del genere. Ciò che la psicoanalisi presenta come il suo sapere si accompa­ gna a una sorta di terrorismo, intellettuale e sentimentale, atto a spezzare resistenze definite malate. E già inquietante quando que­ sta operazione si esercita tra psicoanalisti, o tra psicoanalisti e pa­ zienti, con un fine certificato come terapeutico. Ma è ancora piu inquietante quando la stessa operazione mira a spezzare resisten­ ze di tutt’altra natura, in un ramo dell’insegnamento che - come dichiara esso stesso - non ha alcuna intenzione di «curare» né di «formare» degli psicoanalisti. Su coloro che si oppongono si eser­ cita un vero e proprio ricatto all’inconscio, attraverso il prestigio e alla presenza del dottor Lacan, per imporre le sue decisioni sen­ za possibilità di discussione (prendere o lasciare, e nel caso si la­ sciasse «la sparizione del dipartimento si renderebbe necessaria, dal punto di vista della teoria analitica cosi come dal punto di vi­ sta universitario... » - sparizione decisa da chi? e in nome di chi?) Ogni terrorismo si accompagna a un lavacro: il lavaggio dell’incon­ scio non sembra meno terribile e autoritario del lavaggio del cer­ vello.

Nota all’edizione italiana di Logica del senso*

È difficile per l’autore riflettere su un libro scritto alcuni anni prima. C’è la tendenza a giocare d’astuzia o a fare l’indifferente o, peggio, a diventare il commentatore di se stesso. Non che il li­ bro sia necessariamente superato; ma, anche se resta presente, è un presente «accanto». Ci vuole un lettore benevolo per ridare a esso attualità e prosecuzione. Mi piace questa Logica del senso per­ ché segna ancora per me una rottura: era la prima volta che cerca­ vo un po’ una forma che non fosse quella della filosofia tradiziona­ le; e poi era un libro gaio, in molti passi; e inoltre lo scrivevo in un periodo di malattia. Non ho niente da cambiare. E meglio che mi domandi perché avessi tanto bisogno di Lewis Carroll e dei suoi tre grandi libri, Alice, Attraverso lo specchio, Sil­ via e Bruno. Il fatto è che Carroll ha il dono di rinnovarsi secondo dimensioni spaziali, assi topologici. E un esploratore, uno speri­ mentatore. In Alice le cose avvengono in profondità e in altezza: i sotterranei, le tane, i cunicoli, le esplosioni, le cadute, i mostri, i cibi, ma anche ciò che viene dall’alto o si ritira in alto, come il gatto del Cheshire. In Attraverso lo specchio c’è invece una sor­ prendente conquista delle superfici (senza dubbio preparata dal ruolo delle carte senza spessore, alla fine del libro di Alice)-, non si sprofonda più, si scivola, superficie piana dello specchio o del gio­ co degli scacchi, anche i mostri diventano laterali. Per la prima vol­ ta la letteratura si dichiara così arte delle superfici, misurazione di piani. Silvia e Bruno è un’altra cosa ancora (forse prefigurata da Humpty Dumpty in Attraverso lo specchio): due superfici coesisto­ no, con due storie contigue - e si direbbe che queste due superfi­ ci si arrotolino in modo che si passi da una storia all’altra, mentre scompaiono da un lato per riapparire dall’altro, come se il gioco * Nota dell'autore all’edizione italiana, trad. it. di Armando Verdiglione, in G. Deleu­ ze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 293-95.

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degli scacchi fosse diventato sferico. Ejzenstejn parla in questi ter­ mini della pittura a rotolo giapponese, in cui vedeva la prima ap­ parizione del montaggio cinematografico: «Il nastro del rotolo “si avvolge” a rettangolo! Ma è l'immagine ad avvolgersi sulla superfi­ cie del nastro [...] e non il nastro ad avvolgersi su se stesso»'. In Logica del senso tento di dire come il pensiero si organizzi anche secondo assi e direzioni simili: per esempio il platonismo e l’altezza che orienteranno l’immagine tradizionale della filosofia; i presocratici e la profondità (il ritorno ai presocratici come ritor­ no ai sotterranei, alle caverne preistoriche); gli stoici e la loro ar­ te nuova delle superfici... Ci sono altre direzioni per l’avvenire? Tutti andiamo avanti o torniamo indietro, siamo esitanti fra tut­ te queste direzioni, costruiamo la nostra topologia, carta celeste, tana sotterranea, misurazione di piani e di superfici, altre cose an­ cora. A seconda delle direzioni, non si parla allo stesso modo, co­ me non sono le stesse le materie che si incontrano: infatti è anche una faccenda di linguaggio o di stile. Per conto mio, quando non mi sono più accontentato della sto­ ria della filosofia, il mio libro Differenza e ripetizione aspirava tut­ tavia ancora a una specie di altezza classica e persino a una profon­ dità arcaica. L’abbozzo che facevo di una teoria dell’intensità era segnato da una profondità, falsa o vera: l’intensità era presentata come proveniente dalle profondità (e non per questo mi piacciono di meno certe pagine di questo libro, in particolare quelle sulla fa­ tica e sulla contemplazione). In Logica del senso la novità per me consisteva nel fatto di apprendere qualcosa delle superfici. Le no­ zioni restavano le stesse: «molteplicità», «singolarità», «inten­ sità», «evento», «infinito», «problemi», «paradossi» e «proposi­ zioni» - ma riorganizzate secondo questa dimensione. Cambiava­ no le nozioni dunque, e anche il metodo, una specie di metodo seriale proprio delle superfici; e cambiava il linguaggio, un linguag­ gio che avrei voluto sempre più intensivo e passante attraverso pic­ colissime raffiche. Che cosa non andava in questa Logica del senso ? Evidentemen­ te essa testimoniava ancora di un compiacimento ingenuo e colpe­ vole nei confronti della psicoanalisi. La mia sola scusa sarebbe que­ sta: tentavo tuttavia, molto timidamente, di rendere la psicoana­ lisi inoffensiva, presentandola come un’arte delle superfici, che si 1 Cfr. S. Ejzenkejn, Neravnoduinaja priroda, Iskusstvo, Mosca 1964; trad. it. La na­ tura non indifferente, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 1981, p. 281 [NJ.C.].

Nota all’edizione italiana di Logica del senso

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occupa degli eventi come entità superficiali (Edipo non è cattivo, Edipo ha solo buone intenzioni...) Ma, comunque, i concetti psicoanalitici restano intatti e rispet­ tati, Melanie Klein e Freud. E dunque, adesso? Per fortuna non posso quasi piu parlare a mio nome, perché quello che è successo per me dopo la Logica del senso dipende dal mio incontro con Fe­ lix Guattari, dal mio lavoro con lui, da quello che facciamo insie­ me. Credo che abbiamo cercato altre direzioni perché ne avevamo voglia. L'anti-Edipo non ha piu altezza o profondità, né superfi­ cie. Li tutto succede, si fa, le intensità, le molteplicità, gli eventi, su una specie di corpo sferico o di dipinto a rotolo: corpo senza or­ gani. In due, vorremmo essere l’Humpty Dumpty della filosofia, o i suoi Stanlio e Ollio. Una filosofia-cinema. Credo anche che que­ sto cambiamento di modo comporti un cambiamento di materie o, viceversa, che una certa politica prenda il posto della psicoanalisi. Un metodo che sarebbe anche una politica (una micropolitica) e un’analisi (una schizoanalisi) che si proporrebbe lo studio delle molteplicità sui differenti tipi di corpo senza organi. Un rizoma, invece delle serie, dice Guattari. L'anti-Edipo è un buon inizio, a condizione di rompere con le serie. Ai lettori che pensassero: «Questa nota è idiota, e non modesta», risponderei: «Voi non sa­ pete quanto essa sia realmente modesta e persino umile. La paro­ la d’ordine è: diventare impercettibile, fare rizoma e non mettere radici».

6. Futuro della linguistica *

i. Henri Gobard distingue quattro tipi di lingue: vernacolare, materna o territoriale, di origine rurale; veicolare, di scambio, di commercio e di circolazione, urbana per eccellenza; referenziaria, nazionale e culturale, che opera un richiamo o una ricostruzione del passato; mitica, che rinvia a una terra spirituale, religiosa o ma­ gica. Può essere che alcune di queste lingue siano semplicemente dialetti, patois o perfino gerghi. Ma Gobard non procede affatto come un comparatista. Procede come un polemista o come una sor­ ta di stratega, preso a sua volta in una situazione. Si colloca in una situazione reale in cui le lingue si affrontano davvero. Non pren­ de in considerazione delle strutture, ma funzioni linguistiche che convergono attraverso lingue diverse, o in una stessa lingua, o al­ l’interno di derive o residui di lingue. Va da sé che la mappa del­ le quattro lingue si modifica nel corso della storia e a seconda de­ gli ambienti. Va da sé che essa si modifica anche in un certo mo­ mento e in uno stesso ambiente, a seconda della scala o del punto di vista considerato. Allo stesso modo, più lingue possono entra­ re in concorrenza per una stessa funzione, nello stesso luogo ecc.

2. Gobard riconosce volentieri i suoi debiti a coloro che han­ no incentrato i propri studi sui fenomeni di bilinguismo. Ma per­ ché Gobard preferisce il quattro al due (e nemmeno il quattro ri­ sulta essere davvero esaustivo) ? Il dualismo o il binarismo rischia­ no di lasciarci nella semplice opposizione tra una lingua alta e una bassa, tra una lingua maggiore e una minore, o anche tra una lin­ gua del potere e una del popolo. I quattro fattori di Gobard, in­ vece, non si accontentano di completare i precedenti, ne propon­ * Prefazione a H. Gobard, L'alienation linguistique (analyse tétraglossique), Flammarion, Paris 1976, pp. 9-14. Gobard, linguista, all’epoca insegnava all’Università di Parigi Vili (Vincennes) nei dipartimenti di psicologia e di inglese.

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gono una complessa genesi. In che modo una lingua assume il po­ tere, in un paese, o perfino su scala mondiale ? Con quali mezzi scongiurare il potere linguistico ? E la questione attuale dell’imperialismo dell’inglese, o piuttosto dell’americano. Non è bastato che fosse la più grande lingua veicolare, sulla scia dei circuiti econo­ mici e finanziari, è stato necessario che si incaricasse anche della funzione referenziaria, mitica e perfino vernacolare. Il western, per un francese, può avere lo stesso ruolo dei «nostri antenati gal­ li» per un nero; la canzone americana, o l’americanismo in pubbli­ cità, può avere un ruolo mitico; le espressioni gergali inglesi pos­ sono assumere una funzione vernacolare. Non si tratta di dire che i vincitori impongono una lingua ai vinti (sebbene spesso sia cosi). I meccanismi di potere sono più sottili e diffusi, passano per fun­ zioni estensibili, reversibili, che sono l’oggetto di lotte politiche attive cosi come di microlotte. 3. Citiamo a caso alcuni esercizi pratici per «l’analisi tetraglossica». Ciò che gli afroamericani hanno fatto subire alla lingua ame­ ricana: il modo in cui la percuotono attraverso altri dialetti e altre lingue, ma anche come ritagliano in essa nuove lingue vernacolari a proprio uso, come ricreano il mitico e il referenziario (cfr. il bel libro di J. L. Dillard, Black English1). Altro caso celebre, reso fa­ moso da Kafka: come gli ebrei cechi, alla fine dell’impero austria­ co, temessero lo yiddish in quanto lingua vernacolare, avessero di­ menticato il ceco in quanto altra lingua vernacolare degli ambien­ ti rurali da cui provenivano, si trovassero presi in un tedesco inaridito, distante dal popolo, in quanto lingua veicolare, e agli al­ bori del sionismo sognassero l’ebraico in quanto lingua mitica. O come oggi, in Francia e in altri paesi, il problema degli immigrati, o dei figli degli immigrati, che hanno perso la propria madrelingua e si trovano in rapporti difficili e politici con una lingua veicolare che gli è imposta. O anche la chance che hanno oggi le lingue re­ gionali di tornare in auge: non mi riferisco solo al risorgere del dia­ letto, ma alla possibilità di nuove lingue referenziarie, di nuove funzioni mitiche. E l’ambiguità di questi movimenti che hanno già un lungo passato alle spalle, in cui si mescolano tendenze fascistiz­ zanti e movimenti rivoluzionari. Esempio di una microlotta o di una micropolitica, che Gobard sviluppa in dettaglio in alcune pa­ gine molto felici: la natura e la funzione dell’insegnamento dell’in­ 1 J. L. Dillard, Black Englishy Random House, New York 1972 [N J.C.J.

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glese in Francia (i diversi tipi di professori, il tentativo di un unilinguismo inglese, il «francese facoltativo», e le controproposte di Gobard affinché l’inglese, pur riconosciuto come lingua veicolare mondiale, non cristallizzi le altre funzioni, che devono invece rea­ gire a esso attraverso il «diritto all’accento», referenti propri, de­ sideri polivoci). A proposito delle lotte interne alla facoltà di Vin­ cennes, Gobard abbozza una pièce teatrale piu bella di quelle di Ionesco.

4. La distinzione delle quattro lingue o delle quattro funzioni linguistiche potrebbe far pensare ad alcune distinzioni classiche dei linguisti, quando fanno vedere che un messaggio implica un destinatore e un destinatario (funzione emotiva e conativa), una comunicazione informativa (funzione veicolare), un contesto ver­ balizzabile (funzione referenziale), una scelta dei migliori elemen­ ti e combinazioni (funzione poetica), un codice su cui il destinatore e il destinatario devono intendersi (funzione metalinguistica). Gobard richiama il linguaggio del bambino sotto forma di una tetragenesi gioiosa, in cui distingue un vernacolare emotivo («mam­ ma»), un veicolare informativo («pappa»1), un referenziano poeti­ co («ba-ba-ba»’), e un mitico inventivo (codici infantili, linguaggi magici, «ambarabà»). Ma in effetti che cosa distingue le categorie di Gobard da quelle dei linguisti, e in particolare da quelle dei par­ tigiani di una sociolinguistica? Il fatto che, per loro, il linguaggio è ancora presupposto, e anche se pretendono di non presupporre nulla del linguaggio, restano all’interno di universali quali sogget­ to, oggetto, messaggio, codice, competenza ecc., che rinviano a un certo genere di lingue e soprattutto a una forma di potere in que­ ste lingue (c’è un capitalismo propriamente linguistico). L’origina­ lità di Gobard, invece, sta nel fatto di prendere in considerazione dei concatenamenti collettivi o sociali, che si combinano con mo­ vimenti della «terra», e formano tipi di potere eterogenei. Non nel senso abituale in cui si dice che una lingua ha un territorio, ma nel senso che le funzioni linguistiche sono inseparabili da mo­ vimenti di deterritorializzazione e di riterritorializzazione, mate­ riali e spirituali, che costituiscono una nuova geolinguistica. In bre­ ve, concatenamenti collettivi di enunciazione, invece che soggetti; coefficienti di territorializzazione invece che codici. Per riprende2 Loto in francese, espressione con cui i bambini intendono «latte» [N.tZ.T.J. y Arreu in francese, con cui si indicano le prime lallazioni [Nz/.T.].

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re gli esempi precedenti: come l’inglese veicolare deterritorializza i neri, che si riterritorializzano sul Black English; come il tedesco di Praga era già un tedesco deterritorializzato; come gli ebrei, che si sono separati dal ceco rurale, cercassero di riterritorializzarsi su questo tedesco con ogni sorta di artifici linguistici, poetici e cul­ turali (cfr. la scuola letteraria di Praga); e, al limite, l’ebraico co­ me riterritorializzazione spirituale, religiosa o magica. 5. In alcuni linguisti, oggi (per esempio in Ducrot), si delinea un tentativo di mettere in dubbio il carattere informativo del lin­ guaggio e l’assimilazione della lingua a un codice; di subordinare i problemi semantici e sintattici a una vera e propria pragmatica o politica, che libera i concatenamenti di potere messi in gioco in una lingua cosi come le possibilità linguistiche di lotta contro que­ sti poteri; di mettere in questione le idee di omogeneità struttura­ le di una lingua, o degli universali linguistici (compresa la «com­ petenza». ..) In tutte queste direzioni l’analisi di Gobard apre nuo­ ve strade, in cui inventa un suo proprio umorismo e le proprie idiosincrasie. Le lingue, infatti, sono dei pasticci, dei quark à la Joyce, non sostenute da strutture, ma in cui soltanto funzioni e mo­ vimenti vengono a fare un po’ di ordine polemico. Gobard ha ra­ gione perché, quando abbiamo qualcosa da dire, siamo come de­ gli stranieri nella nostra lingua. Fino a oggi, i linguisti sapevano troppe lingue, il che permetteva loro di compararle e di fare della scienza nient’altro che scienza pura. Gobard sa molte lingue, è il professore d’inglese più inventivo, che sa di essere francese e pre­ tende di essere siciliano. Per lui il problema è un altro, come i gran­ di medici-malati del linguaggio. Come essere balbuziente, non bal­ buziente a livello della parola, all’interno della parola, in una lin­ gua, ma come essere balbuziente a livello del linguaggio ? (Il più grande poeta francese, per l’appunto di origine rumena, è Gherasim Luca: ha inventato questo balbettamento non di una parola, ma del linguaggio stesso). Gobard ha un nuovo modo di valutare i rapporti tra il linguaggio e la Terra. Ci sono ancora in lui un Court de Gébelin, un Fabre d’Olivet, un Brisset e un Wolfson: per qua­ le avvenire della linguistica?

Su Le misogine*

«Sono sporco e volgare, e povero, capite, povero, se sapete co­ sa vuol dire povero... Si, anche normalista, arrivavo poveramen­ te con il metro della sera, suonavo poveramente, mi ubriacavo po­ veramente, fornicavo poveramente, si, morepauperum, non c’è bi­ sogno di tradurre...» E il narratore Alain che parla di se stesso? E l’autore Alain Roger che parla del suo romanzo? Quattro pove­ ri assassini di donne, preceduti o combinati con stupri disgustosi. Poveri sono anche i moventi: il Misogino ha in odio le donne e le uccide - anche se ha una donna dentro di sé: la famosa bisessua­ lità - e compie i suoi crimini traendo ispirazione da una giovane ragazza a sua volta bisessuale, il suo doppio inverso... L’omicidio come ricostituzione della scena primaria, o di un’androginia origi­ nale («sapere, sapere com’ero stato concepito, ecco ciò che voleva il mio corpo, vederla, vederla, quella scena mostruosa. Pieno di di­ sgusto, immaginavo mia madre...») Ci voleva questa povertà subita, voluta, ancora una volta una variazione psicoanalitica, affinché ne venisse fuori qualcosa, uno splendore. Un primo segnale allerta il lettore. Con discrezione, il romanzo sembra scritto in esametri, che affiorano sotto il testo, o che erompono di colpo nel testo («c’était au mois de juin, et j’avais vingt-quatre ans», «j’avais des voluptés de femelle envahie, j’éprouvais dans mes flancs... »l) E per accusare l’arcaismo del Mispgyne, il conformismo del suo tema, psicoanalisi in alessandrini ? E soltanto umorismo, potenza comica presente ovunque ? Oppu* Titolo del curatore. Gilles Deleuze fascine par «Le misogine», in «La Quinzainc littéraire», 16-31 marzo 1976, n. 229, pp. 8-9. Sul libro di Alain Roger, Lemisogyne, Denoel, Pa­ ris 1976. Alain Roger, romanziere e filosofo, nato nel 1936, era stato uno studente di De­ leuze all’epoca in cui insegnava a Orléans durante gli anni Cinquanta. Mantennero sempre un rapporto di amicizia. Inizialmente questo testo doveva fungere da prefazione al romanzo di Alain Roger. Per ragioni tecniche l’editore Maurice Nadeau lo pubblicò sulla sua rivista. 1 «Era nel mese di giugno, e avevo ventiquattro anni», «avevo voluttà di femmina pos­ seduta, sentivo nei miei fianchi... » [N J.T.].

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re è qualcos’altro, come se gli esametri fluttuanti ci conducessero in un nuovo elemento, la ricchezza sontuosa di questo romanzo? Già in un romanzo precedente, Jerusalem Jerusalem2, una gio­ vane ragazza dal nome démodé, dopo una vita povera, un’avven­ tura povera e un povero suicidio, diventava oggetto di culto, di santificazione di gruppo, recitazioni, confessioni, preghiere, van­ gelo, «così Cécile». Pagine straordinarie, come se il tema costan­ te di Alain Roger fosse la nascita di una religione in ciò che c’è di più quotidiano, di più miserabile. Il Misogyne riprende Jerusalem, un'elezione che si può applicare a qualsiasi cosa, a un popolo, ma anche a una specie, a una persona, a un nome antiquato che desi­ gna un evento. Affinché ci sia elezione, santificazione, basta che ci sia un’intensità che, anche se impercettibile o inconscia, sia fol­ gorante in ciò che c’è di più quotidiano; un nome proprio in una parola che funziona come nome proprio, in quanto segnalatore di questa intensità; un apparato avverso, nemico, che minaccia di can­ cellare le intensità, e di ricondurle nel povero quotidiano. In Alain Roger tutto il linguaggio funziona in questo modo, co­ me un nome proprio démodé, umile, folgorante, ma minacciato dal­ l’apparato delle parole quotidiane che gli si rivolta contro, e che bisogna distruggere continuamente per ritrovare lo splendore del Nome. C’è uno stile proprio di Alain Roger, di una bellezza e di una perfezione affascinanti. Esempio libero nel Misogyne, con il testo paranoico dell’uomo dei gatti: i. l’insieme dei Gatti (nome proprio) forma il popolo eletto; 2. l’automobile è l’apparato nemico che distrugge i Gatti', 3. per ogni Gatto investito si procederà all’incenerimento di un’auto.

Può capitare che il «procedimento» (che non è affatto un arti­ ficio, ma piuttosto la scrittura come processo) funzioni nell’altro senso, nel senso di una profanazione, di una volgarizzazione. Co­ sì, alla fine del Misogyne, anche la giovane ragazza dal nome de­ sueto - questa volta è Solange - si uccide; ma il narratore si dedi­ ca alla ricerca di un’altra Solange, di una ragazza con lo stesso no­ me, e a cui offrirà brevi frasi della «vera» Solange per fare delle associazioni di idee. E ogni volta, diversamente da Jerusalem, la piccola frase folgorante della vera Solange ricade nella piattezza e nella povertà delle parole quotidiane dell’altra, la frase - il nome 2 Gallimard, Paris 1969.

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proprio si profana nell’enunciato - parola comune: morte dello sti­ le, cosi come ci sono dei suicidi, dei felicidi ecc. Ma questo capo­ volgimento non ha grande importanza; vale soltanto come l’inver­ so o il doppio dell’unico movimento che conta, la santificazione, la sacralizzazione, l’elezione atea immanente. Questo movimento, questo processo, ha un nome molto noto: epifania. Un’epifania particolarmente riuscita - nel senso piu « joyciano» - fa la sua apparizione all’inizio del Misogyne, quando il narratore, dopo aver commesso il suo primo crimine per interpo­ sta persona, fa visita a Paul, che ha ucciso la sua donna in macchi­ na e che si trova all’ospedale, essendo rimasto a sua volta ferito: «Allora come una molla, Paul emerse da sotto le lenzuola! Io sob­ balzai. Era allucinante, questo sorriso tra le bende. Era come lag­ giù, il noce solitario...» Folgorazione di un’intensità. Ma, in ef­ fetti, come si può parlare della novità di Alain Roger, se egli si accontentasse di riprendere - per quanto perfettamente - il pro­ cedimento-processo inventato da Joyce, o di cui si trovano precur­ sori o corrispondenti in autori celebri, come Proust e altri ? Ci sembra che Alain Roger dia alle epifanie dimensioni del tut­ to nuove. Finora l’epifania oscillava tra la passione o la rivelazio­ ne repentina di una contemplazione oggettiva e l’azione, con cui una sperimentazione soggettiva prendeva una forma elaborata. Ma in ogni caso essa capitava a un personaggio o era il personaggio che la faceva capitare. L’epifania non era il personaggio stesso, o al­ meno non in primo luogo. Quando una persona diventa epifania in sé, cessa di colpo di essere una persona, non per divenire un’en­ tità trascendente, un dio o una divinità, ma per divenire Evento, molteplicità di eventi racchiusi gli uni dentro gli altri, e dell’ordi­ ne dell’amore. La forza di Alain Roger ci sembra essere proprio questa estensione dell’epifania, il fatto che coincida con un inte­ ro personaggio, e di conseguenza la spersonalizzazione del perso­ naggio, la persona-evento che diventa un evento non personale. Non pretendiamo cosi di fare un’analisi, ma di indicare un proble­ ma, un’impressione di lettore - in che cosa questo libro è un libro d’amore. Il personaggio-epifania è Solange, la giovane ragazza. Il narra­ tore è un professore, un piccolo professore, e Solange un’allieva della sua classe. Il professore Alain desidera uccidere delle donne, ma non osa farlo, cosi comincia col farne uccidere una a Paul. So­ lange stabilisce uno strano patto, un contratto con il professore, che lei estende a tutta la classe, il «formicaio», l’elemento collet-

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tivo. Scene brutte, povere, volgari. Successivamente lei ispirerà gli altri crimini, vi parteciperà a posteriori, li anticiperà e infine ne commetterà l’ultimo. Altre scene brutte e povere. Non andrà a letto con Alain perché lui l’ama e perché lei lo ama troppo («di­ re che l’amo è troppo poco, dice lei: né come figlio, né come fra­ tello, né come marito, ma tutti e tre contemporaneamente, e amo soprattutto questa donna sepolta in fondo a lei, ma che riconosco in ogni suo gesto, in ogni suo crimine...») Quindi Alain ha una donna dentro di sé, che vuole uccidere; Solange ha dentro di sé un ragazzo, che lei vuole che uccida. Entrambi bisessuali: Alain mi­ sogino, Solange «ragazzo femminile». Entrambi alla ricerca della scena primaria, l’unione tra il padre e la madre, questo padre che Solange odia, e questa madre che fa soffrire Alain. Si può sempre raccontare la storia in questi termini. E questa la lordura, la povertà, la volgarità di cui il narratore si fa vanto co­ si come del sistema delle parole comuni, anche se la psicoanalisi, lo strutturalismo, la significanza e la soggettività moderne ne fan­ no parte molto esplicitamente (lo stesso vale per Jerusalem Jerusa­ lem). Ma basta ripetere il nome proprio, Solange Solange, come Cécile Cécile, affinché appaia tutt’altro, le intensità racchiuse nel nome, una storia completamente diversa, una versione della sto­ ria totalmente differente. C’è un autore poco noto, che Alain Roger non sembra cono­ scere - un incontro fittizio è ancora più bello -, che attraverso va­ ri libri ha fatto una strana epifania della ragazza. Si chiama Trost, e descrive una giovane ragazza moderna, o del futuro, come «li­ beramente meccanica», macchinica’. Lei non si definisce né ver­ gine, né bisessuale, ma con un corpo-macchina adattabile ai mol­ teplici gradi di libertà: una condizione liberamente meccanica, au­ tonoma e mobile, deformabile, trasformabile. Trost faceva appello a tutte le sue speranze, o vedeva arrivare l’evento di questa «Don­ na-Caso», della «giovane ragazza-donna, replica ready-made e tro­ vata del mondo esterno, vero prodotto semplice dell’estrema com­ plessità moderna che lei d’altronde riflette come una brillante mac­ china erotica». Trost pensava che la giovane ragazza-donna nella sua realtà sen­ sibile e visibile sviluppasse una linea astratta, che era come la proie­ zione di un gruppo umano da scoprire, a venire: gruppo rivoluzio* Cfr. D. Trost, Visible et invisible, Arcanes, Paris 1953, e Librement mécanique, Minotaure, Paris 1955.

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nario, i cui militanti avrebbero saputo combattere il nemico dal­ l’interno, il vecchio nemico fallo della differenza tra i sessi, o - che è la stessa cosa - della bisessualità condivisa, contrapposta, distri­ buita da una parte e dall’altra. Ma la ragazza non raffigura o pre­ figura questo gruppo. Lei era non figurativa, e si incontra attra­ verso il «non figurativo del nostro desiderio». Lei era «intensità laicissima del desiderio», con il suo vestito o i suoi pantaloni lai­ ci. Puro desiderio essa stessa, si opponeva a quel che c’è di biogra­ fico o di memorialistico nel desiderio: nessun passato, nessun ri­ conoscimento, nessun ricordo risvegliato, il suo mistero non ri­ guardava un’origine o un oggetto perduto, ma un funzionamento. Incosciente e desiderante, lei si oppone con tutta la sua estra­ neità all’inconscio della psicoanalisi, a tutto questo apparato del­ l’io, del personaggio e della famiglia «che ci fa desiderare gli og­ getti della nostra perdita, i piaceri del nostro ambiente, che ci gui­ da verso le nevrosi e ci tiene attaccati alle reminiscenze». Infantile, senza memoria, si oppone a ogni ricordo d’infanzia, grazie ai bloc­ chi d’infanzia che la attraversano in intensità e la fanno stare a ca­ vallo di tante età diverse. Incestuosa, essenzialmente incestuosa, si oppone a maggior ragione all’incesto edipico regressivo e biolo­ gico. Autodistruttiva, si oppone alle pulsioni di morte così come al narcisismo, perché l’autodistruzione in lei era ancora vita, linea di fuga e viaggio. In breve, era la ragazza-macchina con «-sessi, la signorina Arkadin4, Ulrike von Kleist... Ecco quindi che cosa succede nell’altra versione coesistente del romanzo di Alain Roger, Solange Solange designa la folgorazione della giovane ragazza, che ha «tutti i sessi», l’«adulta impubere», il «ragazzo femminile», che «incarna tutti gli abbracci, dai più in­ genui ai più incestuosi», tutte le sessualità, anche quelle non uma­ ne, perfino quelle vegetali. Non la differenza tra i sessi, ancora me­ no la bisessualità in cui ognuno dei due possiede anche l’altro. L’e­ pifania, l’elezione è piuttosto come il sorgere di una molteplicità intensa che si troverà ridotta, annientata dalla ripartizione dei ses­ si e dall’assegnazione dell’uno o dell’altro. Tutto ha inizio dalla giovane ragazza: «Mi ricordo un’età in cui avevo tutti i sessi, il mio, il suo e altri ancora. Ma a tredici anni era quasi tutto finito. Potevo accanirmi quanto volevo contro la pubertà, evaporavano tutti, e diventavo cosi pesante...» La ragazza si trova presto alle 4 II riferimento è al film del 1955 di Orson Welles, Mr Arkadin (distribuito in Italia con il titolo Rapporto confidenziale) [NJ.T.].

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prese con un apparato che non è soltanto biologicamente pubera­ le, ma è tutto un apparato sociale destinato a ridurla alle esigenze della vita coniugale e della riproduzione. Il ragazzo sopravvivrà: la ragazza gli servirà da esempio e da modello, è lei la prima vittima che lo travolge a sua volta, la pri­ ma a essere intrappolata ma che farà da trappola, e che imporrà al ragazzo di passare attraverso di lei per subire la riduzione inversa e simmetrica. Per cui, al limite, c’è soltanto un sesso, quello fem­ minile, e una sola sessualità, quella maschile che prende le donne come oggetto. Il fallocratismo si è sempre servito della cosiddetta sessualità femminile. Per cui la differenza non è tra i due sessi, ma tra la condizione degli «-sessi, da una parte, e dall’altra, la sua ri­ duzione all’uno o all’altro dei due sessi. Alla folgorante Solange si oppongono tutte le false Solange che hanno accettato e voluto que­ sta pesante riduzione (cfr. la fine del Misogyne), cosi come all’epi­ fania della ragazza molteplice si oppone il quotidiano dell’uomo e della donna, cosi come alla condizione liberamente macchinica si oppone l’apparato riduttore, e cosi come al nome proprio intenso che racchiude una molteplicità si oppone il sistema delle parole co­ muni che distribuiscono la dualità... Leggete il romanzo: è, sf, la storia volgare del misogino che uc­ cide le donne perché ne ha una dentro di sé, ma è anche l’epifania della giovane ragazza che uccide e che si uccide per una storia com­ pletamente diversa. Bisogna immaginare Solange eterna e viva, che rinasce da sé, senza bisogno di uccidersi, la «leggera». Questo romanzo di Alain Roger si intreccia con il precedente in una con­ catenazione di vita e di rinnovamento.

8. Quattro proposizioni sulla psicoanalisi *

Permettetemi di presentare soltanto quattro proposizioni ri­ guardanti la psicoanalisi. La prima è questa: come la psicoanalisi impedisca ogni produzio­ ne di desiderio. La psicoanalisi è inseparabile da un rischio politi­ co che le è proprio e che si distingue dai pericoli implicati nel vec­ chio ospedale psichiatrico. Quest’ultimo costituisce un luogo di internamento localizzato. La psicoanalisi, al contrario, funziona all’aria aperta. Lo psicoanalista in un certo modo è nella posizio­ ne del mercante nella società feudale di Marx: funziona nei pori liberi della società, non soltanto nel suo studio privato, ma anche a livello delle scuole, delle istituzioni, della settorizzazione ecc. Questo funzionamento ci mette in una situazione particolare ri­ spetto all’iniziativa psicoanalitica. Il fatto è che la psicoanalisi ci parla in continuazione dell’inconscio, ma in un certo modo lo fa sempre per ridurlo, distruggerlo, scongiurarlo. L’inconscio è con­ cepito come una controcoscienza, un negativo, in un rapporto di parassitismo con la coscienza. E il nemico: «Wo es war, soli ich werden». Possiamo anche tradurre: là dove c’era l’es, devo suben­ trare io come soggetto, ma non cambia niente, nemmeno il «soli», questo strano «dovere in senso morale». Ciò che la psicoanalisi chiama produzione o formazione dell’inconscio sono sempre dei colpi a vuoto, conflitti stupidi, compromessi deboli o grandi gio­ chi di parole. Non appena riesce, si ha sublimazione, desessualiz­ zazione, pensiero, ma soprattutto niente desiderio - il nemico che * G. Deleuze e F. Guattari, Psychanalyse et politique, Bibliothèque des mots perdus, Alencon 1977, pp. 12-17. Questo testo e il seguente sono stati pubblicati assieme in un opuscolo dattilografato, in parte per opporsi a una pubblicazione pirata della conferenza di Deleuze pronunciata a Milano nel 1973 (qui abbreviata e modificata) e apparsa in A. Verdiglione (a cura di), Psicanalisi e politica. atti del convegno di studi tenuto a Milano 1'8-$ maggio 1973, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 7-11 (cfr. il testo n. 36 in L’isola deserta e altri scritti).

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si annida nel cuore dell’inconscio. I desideri sono sempre troppi: polimorfo perverso. Vi verranno insegnate la Mancanza, la Cultu­ ra e la Legge, vale a dire la riduzione e l’abolizione del desiderio. Non si tratta di teoria, ma della famosa arte pratica della psi­ coanalisi, l’arte di interpretare. Interpretare, far regredire, regre­ dire. Tra le pagine piu grottesche di Freud ci sono quelle sulla fel­ latio, dove il pene equivale alla mammella di una mucca e la mam­ mella a un seno materno. In altri termini, la fellatio è per quando non ci sono mucche a disposizione, o la madre non c’è più oppure non ha più latte. E un modo per mostrare che la fellatio non è un «vero desiderio», ma vuol dire un’altra cosa, nasconde un’altra co­ sa, nasconde un altro desiderio. La psicoanalisi dispone di una gri­ glia perfetta da questo punto di vista: i veri contenuti di desiderio sarebbero le pulsioni parziali infantili, e la vera espressione del desiderio sarebbe l’Edipo (per strutturare «il tutto»). Appena il de­ siderio concatena qualcosa, in rapporto a un Fuori, a un Divenire, il concatenamento va sciolto, va rotto, si fa vedere che rinvia, da una parte, a un meccanismo parziale infantile e, dall’altra, alla struttura globale dell’Edipo. Cosi la fellatio si riduce a pulsione orale di suzione del seno più accidente strutturale edipico. Lo stes­ so vale per l’omosessualità, la zoofilia, il masochismo, il voyeuri­ smo e perfino la masturbazione: non vi vergognate di essere così puerili? E di fare un simile uso dell’Edipo? Prima della psicoana­ lisi si parlava di manie da vecchio sporcaccione, successivamente di attività infantile perversa. Ma è la stessa cosa. Si tratta sempre di distinguere i desideri veri da quelli falsi, si tratta sempre di rom­ pere i concatenamenti macchinici del desiderio. Noi invece diciamo: non avete inconscio, non l’avete mai avu­ to, non esiste un «es» al posto del quale l’«io» deve subentrare. Bisogna capovolgere la formula di Freud. L’inconscio dovete pro­ durlo voi, producetelo o resterete attaccati ai vostri sintomi, al vo­ stro io e al vostro psicoanalista. Ognuno di noi lavora e fabbrica con il pezzetto di placenta che ha sottratto, e che continua a es­ sergli contemporaneo in quanto ambiente di sperimentazione, non in funzione dell’uovo, dei genitori, delle interpretazioni e regres­ sioni a cui siamo collegati. Producete inconscio, benché non sia certo facile: non si trova ovunque, non si produce con un lapsus o un motto di spirito, e nemmeno con un sogno. L’inconscio è una sostanza da fabbricare, da situare, da far scorrere, uno spazio so­ ciale e politico da conquistare. Una rivoluzione è una formidabile produzione di inconscio, non ce ne sono tante altre, e non ha nien­

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te a che fare con un lapsus o un atto mancato. L’inconscio non è un soggetto che produrrebbe dei virgulti nella coscienza, è un og­ getto di produzione, è lui a dover essere prodotto, a condizione che non lo si ostacoli. O, meglio, non c’è un soggetto del deside­ rio cosi come non c’è un oggetto. Solamente i flussi sono l’oggettività del desiderio stesso. Di desiderio non ce n’è mai abbastan­ za. Il desiderio è il sistema dei segni a-significanti a partire dai qua­ li si producono dei flussi di inconscio in un campo storico sociale. Nessuno schiudersi del desiderio - qualunque sia il luogo: la fami­ gliola o la scuola di quartiere - senza che questo faccia traballare l’apparato o metta in questione il campo sociale. Il desiderio è ri­ voluzionario perché vuole sempre ulteriori connessioni. La psicoa­ nalisi taglia e spezza tutte le connessioni, tutti i concatenamenti, è la sua vocazione, odia il desiderio, odia la politica. Produzione di inconscio = espressione di desideri = formazione di enunciati = sostanza o materia di intensità. La seconda proposizione, quindi, riguarda il modo in cui la psi­ coanalisi impedisce la formazione degli enunciati. Concatenamen­ to macchinico di desiderio equivale a concatenamento collettivo di enunciazione nella produzione di inconscio. E nel loro conte­ nuto che i concatenamenti sono popolati di divenire e di intensità, di circolazioni intensive, di molteplicità di ogni natura (branchi, masse, specie, razze, popolazioni). Ed è nella loro espressione che maneggiano degli indefiniti, i quali tuttavia non sono indetermi­ nati (dei ventri, un occhio, un bambino...), degli infinitivi che non sono certo infiniti o indifferenziati, ma sono processi (camminare, fottere, cacare, uccidere, amare...), nomi propri che innanzitutto non sono persone (possono essere gruppi, animali, entità, singola­ rità, tutto quanto si scriva con la maiuscola), un hans divenire-ca­ vallo. Ovunque il segno (enunciato) connota delle molteplicità (desiderio) o incanala dei flussi. Il concatenamento macchinico col­ lettivo è tanto produzione materiale di desideri quanto causa espres­ siva di enunciati. Ciò che ha il desiderio come contenuto si espri­ me come un lui, il «lui» dell’evento, l’indefinito del nome pro­ prio infinitivo. Il «lui» costituisce l’articolazione semiotica delle catene di espressione, i cui contenuti intensivi sono relativamen­ te i meno formalizzati: in questo senso Guattari fa vedere come lui non rappresenti un soggetto, ma diagrammatizzi un concatena­ mento, non sovracodifichi gli enunciati, ma li trattenga semmai dall’oscillare sotto la tirannia delle cosiddette costellazioni semiologiche significanti.

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Tuttavia, impedire la formazione di enunciati è altrettanto fa­ cile che impedire la produzione di desiderio. Basta tagliare il lui in due per estrarne un soggetto dell’enunciazione che andrà a sovracodificare e a trascendere gli enunciati e, dall’altra parte, lasciare ricadere un soggetto dell’enunciato che prende la forma di un qua­ lunque pronome personale permutabile. I flussi di desiderio pas­ sano sotto la dominazione di un sistema imperialista significante; sono ricondotti a un mondo di rappresentazione mentale in cui le intensità si affievoliscono e le connessioni si sciolgono. Abbiamo fatto di un soggetto di enunciazione fittizio, io assoluto, la causa degli enunciati di cui il soggetto relativo può essere indifferente­ mente un io, un tu, un lui in quanto pronomi personali assegnabi­ li in una gerarchia e in una stratificazione della realtà dominante. I pronomi personali, lungi dall’essere in rapporto con il nome pro­ prio, ne sono l’annullamento in una funzione di scambio capitali­ sta. Sapete cosa bisogna fare per impedire a qualcuno di parlare a proprio nome? Fargli dire «io». Quanto più l’enunciazione ha co­ me causa apparente un soggetto, i cui stessi enunciati rinviano a dei soggetti tributari del primo, tanto più il concatenamento del desiderio si spezza, tanto più la condizione di formazione degli enunciati tende a fondere, e tanto più il soggetto dell’enunciazio­ ne serve a ripiegarsi su dei soggetti degli enunciati divenuti docili e scialbi. Noi non diciamo che un simile procedimento sia specifi­ co della psicoanalisi: appartiene fondamentalmente all’apparato di stato che si dice democratico (identità di legislatore e soggetto). Teoricamente si confonde con la lunga storia del Cogito. Ma «te­ rapeuticamente» la psicoanalisi ha saputo metterlo in atto in ma­ niera speciale: non pensiamo alla «topica», ma piuttosto all’ope­ razione con cui il paziente è considerato soggetto dell’enunciazione rispetto allo psicoanalista e all’interpretazione psicoanalitica - sei tu, Paziente, a essere il vero psicoanalizzante'. -, mentre viene trat­ tato come soggetto dell’enunciato nei suoi desideri e nelle sue at­ tività, da interpretare finché il soggetto dell’enunciazione si ripie­ ga su un soggetto dell’enunciato che ha rinunciato a tutto, a tutto ciò che aveva da dire e da desiderare. Questa situazione la si può vedere tra l’altro negli istituti medico-pedagogici, dove il bambi­ no si trova fessurato sia in tutte le sue attività concrete in cui è soggetto dell’enunciato, sia nella psicoterapia, in cui viene eleva­ to alla condizione di soggetto dell’enunciazione simbolica solo per essere meglio ripiegato sugli enunciati conformi e già fatti che gli vengono imposti e che ci si aspettano da lui. Santa castrazione,

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che non è altro che questo taglio del «lui» prolungato nel famoso clivaggio del soggetto. Ci si fa psicoanalizzare, si crede di parlare e si accetta di paga­ re per questa convinzione. In realtà non si ha la benché minima possibilità di parlare. La psicoanalisi è fatta interamente per impedi­ re alle persone di parlare e per togliere loro tutte le condizioni di vera enunciazione. E quello che vorremmo far vedere nei testi che se­ guono: nei tre casi presi a esempio, in che modo ai bambini si im­ pedisca di parlare, come non abbiano alcuna chance di cavarsela. Cosi nel caso dell’Uomo dei lupi, in quello del piccolo Hans e dei bambini di Melanie Klein, forse perfino peggiore di Freud. Con i bambini è ancora piu evidente il modo in cui gli si impedisce di produrre i propri enunciati. La psicoanalisi procede cosi: parte da enunciati collettivi già fatti, come l’Edipo, e pretende di scoprire la causa di questi enunciati in un soggetto personale dell’enuncia­ zione che deve tutto alla psicoanalisi. Siamo presi in trappola fin dal principio. Bisognerebbe fare l’opposto, è questo il compito del­ la schizoanalisi: partire dagli enunciati personali di qualcuno e sco­ prire la loro vera produzione, che non è mai un soggetto ma sem­ pre dei concatenamenti macchinici di desiderio, concatenamenti collettivi di enunciazione che lo attraversano e circolano al suo in­ terno, scavando qui, rimanendo bloccati là, sempre sotto forma di molteplicità, di branchi, di masse di unità d’ordine diverse che lo incalzano e lo popolano (niente a che fare con una tesi tecnologi­ ca, né con una tesi sociologica). Non c’è soggetto dell’enunciazio­ ne, ci sono soltanto concatenamenti che producono enunciati. Quando Guattari e io abbiamo tentato la critica dell’Edipo, ci han­ no attribuito posizioni stupide e ci hanno replicato con altrettan­ te scemenze: ma andiamo, Edipo non è papà-mamma, è il simbo­ lico, o il significante, è il segno della nostra finitezza, quella man­ canza a essere che è la vita... Ma, oltre al fatto che è ancora peggio, e che non si tratta di sapere che cosa dicono nella teoria gli psicoa­ nalisti, si vede bene che cosa fanno nella pratica e il loro basso uso dell’Edipo, visto che non c’è nient’altro. Anche e soprattutto da­ vanti ai detentori del significante, non possiamo dire «Bocche del Rodano» senza che ci venga fatta ricordare la bocca della madre, né «gruppo hippy» senza essere corretti con «grande pipi»1. Strut­ turale o meno, la personologia prende il posto di tutti i concatena­ menti di desiderio. Non ci si arrischia neppure di sapere fino a che 1 In francese groupe hippy e gros pipi sono due espressioni quasi omofone [NZTJ.

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punto il desiderio di un bambino, la sua sessualità siano lontani dall’Edipo, basta guardare il piccolo Hans. La psicoanalisi è un as­ sassinio di anime. Ci si fa analizzare per dieci anni, per cento an­ ni, e più a lungo dura, meno si avrà avuto occasione di parlare. E fatta apposta. Per conto nostro, bisogna andare più veloci. La terza proposi­ zione dovrebbe far vedere come la psicoanalisi proceda per otte­ nere questo effetto, l’annientamento dell’enunciato, la distruzio­ ne del desiderio. Essa dispone di una doppia macchina: innanzi­ tutto di una macchina di interpretazione grazie a cui tutto ciò che può dire il paziente è già tradotto in un altro linguaggio, tutto ciò che dice si presume voglia dire un’altra cosa. E una specie di regi­ me paranoico in cui ogni segno rinvia a un altro segno in una rete illimitata, in un’irradiazione circolare in continua espansione: il segno costituito come significante rinvia al significato, che gli re­ stituisce un significante (l’isterico è fatto per assicurare questo ri­ torno o questa eco che alimenta all’infinito il discorso della psicoa­ nalisi). E poi, allo stesso tempo, una macchina di soggettivazione, che rappresenta un altro regime del segno: questa volta il signifi­ cante non è più considerato in rapporto a un significato qualun­ que, ma in rapporto a un soggetto. Il punto di significanza è dive­ nuto punto di soggettivazione: lo psicoanalista stesso. E a partire da questo punto, invece di un’irradiazione dei segni che si rinvia­ no a vicenda, un segno o un blocco di segni si mettono a correre sulla loro stessa linea, costituendo un soggetto dell’enunciazione, poi un soggetto dell’enunciato su cui il primo si riporta - la nevro­ si ossessiva sarebbe il processo per cui, questa volta, il soggetto dell’enunciato ridarebbe sempre un soggetto dell’enunciazione. Non c’è soltanto coesistenza tra queste due macchine o tra questi due regimi, tra interpretazione e soggettivazione. Tutti i sistemi despotic! hanno conosciuto regimi di interpre­ tazione, con la collaborazione dell’imperatore paranoico e del gran­ de interprete. Regimi di soggettivazione animano tutto il capita­ lismo a livello dell’economia e della politica. L’originalità della psi­ coanalisi sta nella penetrazione originale dei due sistemi, o, come si è potuto dire, «oggettivazione dell’es» e «autonomia di un’espe­ rienza irriducibilmente soggettiva». Sono queste due macchine, l’una dentro l’altra, che fermano ogni possibilità di sperimentazio­ ne reale, cosi come impediscono ogni produzione di desiderio e ogni formazione di enunciati. Interpretare e soggettivare sono le due malattie del mondo moderno che la psicoanalisi non ha inven­

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tato, ma per le quali ha trovato la tecnica di mantenimento e di propagazione perfettamente adeguate. Tutto il codice della psicoa­ nalisi, le pulsioni parziali, l’Edipo, la castrazione ecc. sono fatte apposta. Infine, la quarta proposizione, che vorremmo fosse ancora piu rapida, riguarda il potere nella psicoanalisi. La psicoanalisi, infat­ ti, implica un rapporto di forze molto particolare, come mostra in maniera ammirevole il recente libro di Robert Castel, Lo psicanalismo2. Dire, come fanno molti psicoanalisti, che la fonte del po­ tere nella psicoanalisi è il transfert, è una risposta essenzialmente comica, come quella per cui la fonte del potere bancario sarebbe il denaro (le due fonti, d’altra parte, si implicano a vicenda, visti i rapporti fra transfert e denaro). Tutta la psicoanalisi è costruita sulla forma liberale-borghese del contratto; perfino il silenzio del­ lo psicoanalista rappresenta il massimo grado di interpretazione che passa per il contratto ed è anzi il suo culmine. Ma all’interno del contratto esterno tra lo psicoanalista e il paziente si svolge in segreto, in un silenzio ancora più grande, un contratto di altra na­ tura: quello che cambierà il flusso di libido del paziente, lo farà fruttare nei sogni, nei fantasmi, nelle parole ecc. Il potere dello psicoanalista si installerà all’incrocio tra un flusso libidinale, non scomponibile e mutevole, e un flusso segmentarizzabile che pren­ de il suo posto; e, come ogni potere, ha l’obiettivo di rendere im­ potenti la produzione di desiderio e la formazione di enunciati, in breve di neutralizzare la libido. Vorremmo concludere con un’ultima osservazione: perché, da parte nostra, non desideriamo partecipare ad alcun tentativo che si inscriva in una prospettiva freudo-marxista. Per due ragioni. La prima è che generalmente un tentativo freudo-marxista procede da un ritorno alle origini, cioè ai testi sacri, testi sacri di Freud e di Marx. Il nostro punto di partenza deve essere completamente diver­ so. Non indirizzarsi ai testi sacri più o meno interpretati, ma indi­ rizzarsi verso la situazione quale essa è: situazione dell’apparato burocratico nella psicoanalisi, nel partito comunista, tentativo di sovvertire questi apparati. Il marxismo e la psicoanalisi, in due ma­ niere diverse, ma poco importa, parlano in nome di una specie di memoria, di una cultura della memoria, e si esprimono inoltre in due maniere diverse, ma anche questo poco importa, in nome di 3 R. Castel, Lepsychanalysme, Maspero, Paris 1973; trad. it. Lopsicanalismo, Einau­ di, Torino 1975 [N j.C,].

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un’esigenza di sviluppo. Noi crediamo al contrario che bisogna par­ lare in nome di una forza positiva dell’oblio, in nome di ciò che è, per ciascuno di noi, il proprio sottosviluppo; ciò che David Cooper chiama il terzo mondo intimo di ciascuno’, e che fa tutt’uno con la sperimentazione. La seconda ragione che ci distingue da tutti i tentativi freudo-marxisti, è che tali tentativi si propongono di ri­ conciliare due economie: l’economia politica e l’economia libidinaie. Perfino in Reich viene mantenuta questa dualità e questa combinazione. Secondo il nostro punto di vista, invece, c’è un’eco­ nomia sola, e il problema di una vera analisi antipsicoanalitica è di mostrare come il desiderio inconscio investa sessualmente le for­ me di questa economia tutta intera. ’ Cfr. D. Cooper, The Death of the Family, Pantheon Books, New York 1970; trad, it. La morte della famìglia, Einaudi, Torino 1972, p. 26 [N J.C.].

L’interpretazione degli enunciati*

Nella psicoanalisi infantile si capisce meglio che in qualsiasi al­ tra psicoanalisi quanto gli enunciati siano schiacciati, soffocati. E impossibile produrre un enunciato senza che venga ricondotto a una griglia interpretativa prefabbricata e già codificata. Il bambi­ no non può uscirne: è «battuto» in partenza. La psicoanalisi è una formidabile costruzione fatta per impedire qualsiasi produzione di enunciati come di desideri reali. Facciamo tre esempi di bambini, perché in quel campo il problema è più evidente: il famoso picco­ lo Hans di Freud, Richard di Melanie Klein, Agnès come esempio di settorizzazione attuale. Si va di male in peggio. Mettiamo nella colonna di sinistra ciò che dice il bambino, e nella colonna di destra ciò che lo psicoanalista o lo psicoterapeuta sentono, o capiscono, o traducono, o fabbricano. Al lettore U giu­ dizio sull’enormità dello scarto che, sotto le spoglie della significanza e dell’interpretazione, segna il massimo di repressione, di tradimento. Questo lavoro di comparazione su tre casi infantili è stato fat­ to in gruppo (Gilles Deleuze, Felix Guattari, Claire Parnet, An­ dré Scala); con la speranza che si costituiscano gruppi analoghi, e mettano in discussione la lettera della psicoanalisi. * Con Félix Guattari, Claire Parnet e André Scala. In G. Deleuze e F. Guattari, Psy­ choanalyse et politique, Bibliothèque des mots perdus, Alencon 1977, PP- 18-33; trad. itdi Maurizio Ferraris, L'interpretazione degli enunciati, in «aut aut», 1982, n. 191-92, pp. 92-112. Questo testo è stato pubblicato assieme al precedente. E nato da un seminario te­ nuto all’Università di Vincennes. All’epoca, Claire Parnet e André Scala erano studenti e amici di Deleuze. Alcuni riferimenti in nota sono stati completati.

L’interpretazione degli enunciati

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IL PICCOLO HANS, 5 ANNI - FREUD.

A - Il primo movimento di Hans non è complicato: vuole scendere le scale per raggiunge­ re la sua amichetta Mariedl, e dormire con lei. Movimento di deterritorializzazione per cui una macchina-bambino cerca di entrare in un nuovo concate­ namento (per Hans, i genitori costituivano già insieme a lui un concatenamento macchinico, ma che avrebbe dovuto non essere esclusivo: «Risalirò do­ mattina per fare colazione e an­ dare al gabinetto»). I genitori la prendono male: «Allora ad­ dio. .. » Hans se ne va. «Ovvia­ mente viene riportato indietro». Dunque, questo primo tentati­ vo di deterritorializzazione nel­ la casa fallisce. Hans capisce che le bambine della casa non sono ammodo; decifra l’economia politica locale, e al ristorante trova una partner più adatta, «una donna di mondo». Secon­ do tentativo di deterritorializ­ zazione, mediante la conquista e l’oltrepassamento della strada. Ma anche qui, delle storie... Il compromesso prospettato dai genitori: Hans verrà ogni tanto nel loro letto. Non ci si è mai fatti territorializzare cosi bene nel letto della mamma. Questo è proprio un Edipo artificiale. Costretto, Hans si aspetta al­ meno quello che si aspettava

Freud non può credere che Hans de­ sideri una bambina. Bisogna che questo desiderio nasconda qualco­ s’altro. Freud non capisce nulla dei

concatenamenti e dei movimenti di deterritorializzazione che li accom­ pagnano. Conosce solo una cosa, il territorio-famiglia, la famiglia come persona logica: ogni altro concate­ namento deve essere rappresentati­ vo della famiglia. Bisogna che il de­ siderio di Mariedl sia la metamorfo­ si di un desiderio, che si suppone primario, per la madre. Il desiderio di Mariedl dev’essere il desiderio che Mariedl faccia parte della famiglia. «Dietro a questo auspicio: voglio che

Mariedl dorma con me, ne esiste si­ curamente un altro: voglio che Ma­ riedl faccia parte della nostra fami­ glia»!!

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Due regimi di folli

dal concatenamento-casa con la piccola Mariedl, o dal concate­ namento-strada con l’altra ra­ gazzina: «Perché non ci metti il dito, mamma?» - «Perché è una porcheria! » - «Che cos’è una por­ cheria? Perché?» Hans, inca­ strato dappertutto, circondato dappertutto: con un solo gesto lo si costringe e gli si vieta di prendere la madre come ogget­ to di desiderio. Gli si inocula il virus Edipo. B - Il piccolo Hans non ha mai manifestato il timore che gli ta­ gliassero il pene. Risponde con grande indifferenza alla minac­ cia di castrazione. Non ha mai parlato di un organo, ma di un funzionamento e di un agente collettivo di funzionamento: il fapipi. Il bambino non si inte­ ressa agli organi e alle funzioni organiche, alle faccende del ses­ so; si interessa al funzionamen­ to macchinico, cioè agli stati di cose del desiderio. Evidente­ mente le bambine hanno un fapipi, e anche le mamme, dato che fanno pipi: ci sono sempre gli stessi materiali, ma in posi­ zioni e connessioni variabili. L’identità dei materiali è l’unità del piano di consistenza o di composizione, è Vunivocità di essere e desiderio. Le variazio­ ni di posizione e connessione, le molteplicità, sono i concatena-

Nella psicoanalisi si ritrovano moda­ lità di pensiero teologiche. Talvolta si crede che vi sia un solo sesso, il ma­ schio, l'organo-pene (Freud); ma que­

sta idea si accompagna a un meto­ do di analogia, in senso volgare: il cli­ toride sarebbe l'analogo del pene, un piccolo pene mal fatto che non potrà mai crescere. Talvolta, invece, si cre­ de che vi siano due sessi, si restau­ ra una sessualità femminile specifi­ ca, vaginocentrica (Melanie Klein). Questa volta il metodo cambia: si passa a un metodo di analogia in

senso colto o di omologia, fondata sul significante-fallo e non sull’orga*. no-pene La professione di fede del­ lo strutturalismo, quale la esprime Lévi-Strauss, trova qui un'applicazio­ ne privilegiata: superare le analogie immaginarie a favore delle omologie strutturali e simboliche. Ma comunque sia, non è cambiato nulla: poco importa che si riconosca­ no 1 o 2 sessi, anche se li si situa

1 Cfr., per esempio, M. Montrelay, Recherchasurlaféminité, in «Critiques», 1970, n. 26.

L’interpretazione degli enunciati

menti macchinici che realizzano il piano a un determinato livel­ lo di potenza o di perfezione. Non ci sono 2 sessi, ci sono n sessi, ci sono tanti sessi quanti sono i concatenamenti. E cosi come ognuno di noi entra in tanti concatenamenti, allo stes­ so modo ognuno di noi ha n ses­ si. Quando il bambino scopre di essere ridotto a un sesso, ma­ schio o femmina, allora scopre la propria impotenza: ha perso il senso macchinico, gli resta soltanto una significazione di attrezzo. In quel momento, ef­ fettivamente, il bambino entra in depressione. Lo si è fatto sprofondare dentro, gli si sono rubati innumerevoli sessi! Ab­ biamo provato a mostrare come questa avventura capitasse pri­ ma alla bambina, è lei che pri­ ma di tutto si trova ridotta a un sesso, il bambino verrà dopo. Non si tratta affatto di castra­ zione, cioè di paura del bambi­ no di perdere il sesso che ha, e per la bambina dell’angoscia di non avere piu o di non avere ancora il sesso che non ha. Si tratta di una cosa del tutto di­ versa: problema del furto dei sessi precedentemente possedu­ ti dal bambino-macchina. (Cosi il fantasma dell’idraulico nel pic­ colo Hans, che il padre e Freud capiscono tanto male: è un fan-

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dentro ognuno di noi (bisessualità; desiderio di vagina nell'uomo, che sarebbe l’omologo dell’invidia del pe­ ne nella donna)2. Poco importa che si pensi in termini di analogia volga­ re, di organo e di funzioni organiche, 0 di omologia colta, di significante e di funzioni strutturali. Queste diffe­ renze sono solo teoriche ed esistono solo nella testa dello psicoanalista. Comunque, si collega il desiderio al­ la castrazione, che la si interpreti co­ me immaginaria 0 come simbolica (il solo problema è quale tra questi due metodi effettui meglio questa fasti­ diosa connessione). Comunque, si ri­ conduce la sessualità, cioè il deside­ rio come libido, alla differenza tra i sessi: errore fatale, sia che si inter­ preti questa differenza organicamen­ te sia che la si intenda strutturalmente, in relazione all’organo-pene 0 al significante-fallo. Non è cosi che pensa e vive il bam­ bino: 1) non c’è analogia di organo né

omologia di struttura, ma univocità del materiale, con connessioni e po­ sizioni variabili (concatenamenti). Né funzione organica né funzione strut­ turale, ma funzionamento macchini­ co. L'univocità, il solo pensiero ateo, quello del bambino; 2) l'univocità è anche il pensiero del multiplo n concatenamenti, in cui rien­ tra il materiale, n sessi; la locomotiva, il cavallo, il sole sono sessi non meno della bambina 0 del bambino; il pro-

2 B. Bettelheim, Symbolic Wounds, Free Press, Glencoe (111.) 1954; trad. it. Ferite sim­ boliche, Sansoni, Firenze 1973.

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Due regimi di folli

tasma di deterioramento, l’incu­ bo di inabissarsi, di essere ridot­ to a un solo sesso).

blema-macchina della sessualità sca­ valca ovunque il problema della diffe­

ricondurre tutto alla differenza tra i sessi è il modo mi­

renza tra i due sessi;

gliore per misconoscere la sessualità; 3) quando il bambino si vede ridotto a uno dei due sessi, maschile o fem­ minile, ha già perso tutto; uomo o donna designa già degli esseri ai

quali sono stati rubati n sessi; non c'è un rapporto di ciascuno dei due sessi con la castrazione, ma prima di tutto un rapporto dell’onnisessuale, del multisessuato (n) con il furto; 4) certo, esiste una dissimmetria tra la bambina e il bambino, ma consiste in questo: la bambina è la prima a cui

si rubano n sessi, a cui si ruba il cor­ po-macchina per farne un corpoattrezzo. I movimenti rivoluzionari femminili si sbagliano radicalmente quando rivendicano i diritti di una ses­ sualità specificamente femminile (Mlf lacanizzato!) Dovrebbero rivendicare per sé tutti i sessi, femminili quanto maschili, di cui la bambina è subito privata per diventare bambina. Freud misconosce continuamente la sessualità infantile. Interpreta, quin­ di misconosce. Capisce benissimo che la differenza tra i sessi in quan­ to tale lascia perfettamente indiffe­ rente il bambino; ma la interpreta co­ me se il bambino reagisse all’ango­ scia di castrazione conservando la propria credenza nell’esistenza di un piccolo pene nella bambina. Non è vero, il bambino non ha alcuna ango­ scia di castrazione, prima che lo si sia ridotto a un solo sesso. Egli si vi­ ve come se avesse

n sessi, che cor-

L’interpretazione degli enunciati



rispondono a tutti i concatenamenti possibili, nei quali rientrano i mate­ riali comuni alle bambine e ai bambi­ ni, ma anche agli animali, alle cose... Freud capisce benissimo che c'è una dissimmetria bambina-bambino, ma la interpreta come variazione dell’Edipo-bambina e dell’Edipo-bambino, e come differenza tra la castrazione­ bambina e la castrazione-bambino. Ancora una volta, non è vero: non ha nulla a che fare con l'Edipo 0 il tema familiaristico, ma con la trasforma­ zione del corpo, da macchina ad at­ trezzo. Non ha nulla a che fare con la castrazione legata al sesso che si ha, ma con il furto di tutti i sessi che si avevano. Freud salda la sessualità alla famiglia, alla castrazione, alla dif­ ferenza tra i sessi: tre immensi erro­ ri, superstizioni peggiori di quelle medievali, modo di pensare teologi­ co’. Non si può neppure dire che Freud interpreti male; ma, interpre­ tando, non gli riesce di capire che co­ sa dice un bambino. C'è molto cini­ smo nella dichiarazione di Freud: «Uti­ lizziamo le indicazioni che ci fornisce il paziente per presentare alla sua co­ scienza, grazie alla nostra arte dell'in­ terpretazione, il suo complesso incon­ scio con le nostre parole *.

C - Hans è dunque fallito nel suo desiderio piti profondo: ten­ tativi di concatenamenti mac­ chinici attraverso deterritoria­ lizzazione (esplorazione della

Qui, il padre e poi il professore non hanno la mano leggera. Nessuno scrupolo. Anche qui bisogna che il cavallo rappresenti qualcos’altro. E quest'altro è limitato: è prima di tut-

* Sono gli errori che attraversano gli articoli di Freud riuniti con il titolo La vita tes­ tuale Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti, Boringhieri, Torino 1970.

7^

Due regimi di folli

strada, ogni volta con una bam­ bina in connessione). Si fa riterritorializzare dalla famiglia. Però è disposto ad assumere an­ che la famiglia come concatena­ mento, funzionamento macchi­ nico. Ma il padre, la madre, «il Professore» sono li per ricordar­ gli, con gradi diversi, che la fa­ miglia non è quella che crede, un concatenamento, un funzio­ namento. Non agenti del desi­ derio, ma persone o rappresen­ tanti della legge; non un fun­ zionamento macchinico, ma funzioni strutturali, funzionePadre, funzione-Madre. Ed ec­ co che Hans ora ha paura di scendere in strada. Ha paura di andarci perché un cavallo po­ trebbe morderlo. Come potreb­ be essere diversamente, dato che la strada gli è stata chiusa, vietata, dal punto di vista del desiderio più profondo? E un cavallo non è affatto il cavallo come forma sensibile immagi­ nabile (per analogia) né come struttura intelligibile concepibi­ le (per omologia). Un cavallo è un elemento, un materiale de­ terminato in un concatenamen­ to strada cavallo omnibus cari­ co. Un cavallo, come abbiamo visto, è definito da una lista di affetti in funzione del concate­

to la madre, poi il padre, poi il fallo. (Non c'è modo di toglierselo di tor­ no, quale che sia l’animale conside­ rato, sarà sempre la risposta dei freudiani: cavallo o giraffa, gallo o elefante, è lo stesso, è sempre papà). Freud lo dice chiaramente: il cavallo non ha alcuna importanza in sé, è pu­ ramente occasionale''... Che un bambino veda un cavallo mentre ca­ de sotto le frustate e cerca di rialzar­ si con un grande rumore di gambe, con delle scintille, non ha alcuna im­ portanza affettiva! Invece di vedere nelle determinazioni del cavallo degli affetti intensivi e un concatenamen­ to macchinico, che distinguano effet­ tivamente il cavallo di strada da qual­ siasi altro animale e anche dagli altri tipi di cavallo, Freud intona il suo ri­ tornello: ma, insomma, ciò che il ca­ vallo ha sugli occhi è il binocolo di papà, ciò che ha intorno alla bocca sono i baffi di papà’! È pazzesco. Che cosa può fare un bambino con­ tro tanta malafede? Invece di vedere nelle determinazioni del cavallo una

circolazione di intensità in un conca­ tenamento macchinico, Freud proce­ de per analogia statica di rappresen­ tazioni e identificazione degli analo­ ghi: non è più il cavallo che fa un escremento perfetto con il suo enor­ me didietro (grado della potenza), ma il cavallo é esso stesso un escre­ mento e la porta da cui esce un de-

’ S. Freud, Analyseder Phobie eines fùnfjabngen Knaben (1908), in Gesammelte Werke, Imago Publishing, London 1941, voi. VII; trad. it. Caso clinico del piccolo Hans, in Casi clinici, Bollati Boringhicri, Torino 199». P 548. ’ Ibid., p. 339.

L’interpretazione degli enunciati

namento di cui fa parte, affetti che non rappresentano nient’al­ tro che se stessi: essere acceca­ to, avere un morso, essere fiero, avere un grande fapipì, delle grandi natiche per defecare, mordere, tirare dei carichi trop­ po pesanti, essere frustato, ca­ dere, scalpitare con le gambe... Il vero problema, per cui un ca­ vallo è «affettivo» e non rap­ presentativo, è: come circolano gli affetti nel cavallo, come pas­ sano, si trasformano gli uni ne­ gli altri ? Il divenire del cavallo c il divenir-cavallo del piccolo Hans, l’uno nell’altro. Il proble­ ma di Hans è in quale rapporto dinamico si pongano questi af­ fetti. Per esempio, per arrivare a «mordere», bisogna passare attraverso «cadere», che si tra­ sforma a sua volta in «fare chiasso con le gambe»67? Che co­ sa può un cavallo? Lungi dal­ l’essere un fantasma edipico, si tratta di una programmazione antiedipica; divenire cavallo per sfuggire alla morsa che gli si vuole imporre. Ad Hans hanno precluso tutte le soluzioni uma­ ne. Solo un divenir-animale, un divenir-inumano, gli permette­ rebbe di conquistare la strada. Ma c’è la psicoanalisi, che gli blocca quest’ultima risorsa.

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retano! Invece di porre il fare pipì e il mordere in un certo rapporto inten­ sivo con il cavallo, ecco che è il fapipì che morde! Qui Hans ha un so­

prassalto, modo per dire che suo pa­ dre non ha davvero capito nulla: «Ma il fapipì mica morde». (I bambini so­ no ragionevoli: sanno che i fapipì non mordono, proprio come i mignoli non parlano). Al che il padre risponde im­ barazzato: «Eppure, può darsi che lo faccia...» Chi è malato? Il piccolo Hans? 0 suo padre e il «professore» messi insieme? Malefatte della interpretosi e della significanza. Porche­ rie. Abbiate pietà dei bambini. Cosa vuole Freud, con una volontà sorniona e deliberata (si vanta lui stesso di non dire tutto al padre, per conseguire meglio i propri fini e po­ ter spremere le interpretazioni)? Ciò

che vuole è: 1) spezzare tutti i concatenamenti macchinici del bambino per ricondur­ li alla famiglia, che da quel momento sarà considerata come qualcosa di diverso da un concatenamento e sarà imposta al bambino come rap­ presentante della logica. 2) Impedire tutti i movimenti di deterritorializzazione del bambino, che co­ stituiscono tuttavia l'essenza della li­ bido, della sessualità; chiudergli tut­ te le uscite, i passaggi e i divenire, compreso soprattutto il divenire-ani­ male, il divenire-inumano; riterritorializzarlo nel letto dei genitori’.

6 Ibid., p. 283. 7 Freud ha evidentemente il presentimento di ciò che combatte, riconosce che il ca­ vallo rappresenta il «piacere del movimento» (ibid., p. 351) e che «la fantasia di Hans la-

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Due regimi di folli 3) Angosciarlo, colpevolizzarlo, de­ primerlo, immobilizzarlo, fissarlo, riempirlo di affetti tristi... a forza di

interpretazioni. Freud conosce so­ lo antropomorfismo e territorialità, mentre la libido non smette di anda­ re altrove. Freud non capisce nulla degli animali, del divenire dell'anima­ le e del divenire-animale: né dei lupi deirilomo dei lupi, né dei topi dell’Uomo dei topi, e nemmeno dei cavalli

del piccolo Hans.

D - Come può Hans non avere contemporaneamente paura (e per ragioni del tutto diverse da quelle inventate da Freud) ? Di­ venire animale, lanciarsi in un simile concatenamento, è una cosa seria. Ma, inoltre, il desi­ derio affronta qui la propria re­ pressione. Nel concatenamento cavallo, il potere di essere affet­ to viene riempito di affetti di addomesticamento, di impoten­ za, di violenza subita, non me­ no che di potenza e di fierezza, di forza attiva. Il percorso non è affatto desiderio-angoscia-pau­ ra; ma il desiderio incontra pri­ ma di tutto la paura che si tra­ sforma in angoscia soltanto do­ po e sotto l’azione familiare e psicoanalitica. Per esempio mor­ dere: è l’azione di un animale

Come fa Freud a realizzare il proprio scopo? Spezza in tre parti il conca­ tenamento macchinico di Hans: il ca­

vallo sarà, di volta in volta e sempre più profondamente, madre, padre, poi fallo. 0 più esattamente: 1) l'angoscia è legata inizialmente al­ la strada e alla madre («gli manca sua mamma nella strada»!), 2) l'angoscia muta, si fissa, si ap­ profondisce in paura di essere mor­ sicato da un cavallo, fobia del caval­ lo legata al padre («il cavallo doveva essere suo padre»), 3) il cavallo è un grande fapipi che morde. Cosi, l’ultimo concatenamen­ to di Hans e il suo ultimo tentativo di deterritorializzazione come divenire­ animale sono spezzati per essere ri­ tradotti in territorialità di famiglia, in triangolazione familiare. Perché, a questo punto, è così importante che

vota “sotto il segno del traffico”» (ibid., p. 309). Freud fa dei piani, riproduce la topogra­ fia, cioè marca lui stesso i movimenti di deterritorializzazione e le linee di fuga libidinali (si veda il piano casa-via-deposito per Idans, pp. 280-81; e il piano per l'Uomo dei topi, p. 403). Ma il disegno-programma è immediatamente ricoperto dal sistema fantasma-interpretazione-riterritorializzazione.

L’interpretazione degli enunciati

cattivo che trionfa, o la reazio­ ne dell’animale vinto? Il picco­ lo Hans morde o è morsicato ? Il divenire-animale svelerà a Hans il segreto della strada come linea di fuga, o gli darà la vera ragio­ ne del blocco e dell’impasse as­ sicurati preventivamente dalla famiglia? Il divenire-animale come deterritorializzazione su­ periore spinge il desiderio verso il suo limite: che il desiderio giunga a desiderare la propria re­ pressione - tema assolutamente differente dal tema freudiano, per cui il desiderio si reprime­ rebbe da solo.

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la madre si sposti verso il padre e il padre verso il fallo? Perché la madre non deve disporre di un potere auto­ nomo, che lascerebbe sussistere una dispersione territoriale; abbiamo visto che, anche se la madre domi­ na, il potere della famiglia è fallocen­ trico. Bisogna quindi che, a sua vol­ ta, il padre derivi il suo potere dal fal­ lo eminente, perché la triangolazione avvenga come operazione struttura­ le 0 strutturante. Solo a questa con­ dizione il desiderio castrato potrà so­ cializzarsi e sublimarsi. L’essenziale per Freud è affermare che il deside­ rio si reprime da solo. Per fare que­

il desi­ derio non sopporta le «intensità»’. sto, bisogna dimostrare che

Freud ha sempre in mente il modello isterico nel quale, come aveva visto bene la psichiatria ottocentesca, le intensità sono deboli. Quindi bisogna spezzare le intensità per impedirne la libera circolazione, la trasforma­ zione reale; bisogna immobilizzarle, ognuna in una specie di ridondanza significante 0 simbolica (= desiderio della madre, desiderio contro il pa­ dre, soddisfazione masturbatoria); bisogna ricomporre un sistema arti­ ficiale in cui esse ruotino in surplace. Bisogna dimostrare che il desiderio

non è represso ma si reprime da so­ lo assumendo come oggetto ciò che nella sua essenza stessa è Perdita, Castrazione, Mancanza (il fallo in re­ lazione alla madre, al padre, a se stesso). Cosi, l’operazione psicoana­ litica è fatta: Freud può pretendere • IbùL, pp. 257, 335, 340 e 348.

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Due regimi di folli con cinismo di attendere pazientemente e di lasciare parlare Hans. Hans non ha mai avuto la minima possibilità di parlare, di far passare uno solo dei suoi «enunciati». Ciò che è affascinante in una simile psicoa­ nalisi sono le reazioni del bambino: i suoi momenti di ironia quando sente che gli adulti esagerano’. E, al con­ trario, l'assenza totale di humour, la

noia pesante della psicoanalisi, l'in­ terpretazione monomaniaca, l’autosoddisfazione dei genitori e del Pro­ fessore. Ma non si può vivere di iro­ nia: il piccolo Hans ne avrà sempre meno, oppure la nasconderà sempre di più, converrà su tutto, riconoscerà tutto, si rassegnerà, sì, sì, volevo es­ sere la mamma, voglio essere il papà, voglio un fapipì grande come quello di papà... purché lo si lasci in pace, perché possa finalmente di­ menticare, dimenticare tutto, anche queste odiose ore di psicoanalisi.

RICHARD, IO ANNI - MELANIE KLEIN.

Questo libro di Melanie Klein è un di­ sonore per la psicoanalisi10. Si po­ trebbe credere che i temi kleiniani degli oggetti parziali e delle posizio­ ni paranoide e depressiva permetta­ no di uscire un poco dalla melma familiaristica ed edipica, come pure * Cfr., tra molti altri esempi, il dialogo di Hans con suo padre: «-Un bambino può pensarlo. - Non è bene, - risponde il padre. - Se lo pensa, è comunque bene, perche lo si possa scrivere al Professore». 10 M. Klein, Narrative of a Child Analysis, Hogarth Press, London 1961; trad. it. Ana­ lisi di un bambino, Boringhieri, Torino 1971.

L’interpretazione degli enunciati

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dalla teoria degli stadi. Di fatto, è an­

cora peggio. I due avversari presen­ ti: un giovane ebreo inglese pieno di humour, contro la vecchia austriaca del risentimento che spezza il bam­ bino. Combattimento in 93 riprese. Lo humour di Richard lo protegge ini­ zialmente: sorride educatamente al­ le interpretazioni di Mme K. (p. 33), osserva che è difficile «avere dentro tanti tipi di genitori nella testa» (p. 36), chiede di vedere il bell’orologio di Mme K. per sapere se la seduta sta per finire (p. 38), sembra molto preoccupato per il suo raffreddore (p. 42), risponde che «quando aveva raccontato tutte queste cose a Mme K., si aspettava di sentire esattamen­ te le spiegazioni che lei gli aveva da­ to» (p. 174). Ma Mme K., impertur­ babile e senza humour, continua il suo lavoro di martellamento: lui ha

paura

delle mie interpretazioni... Leitmotiv del libro: «Mme K. inter­

pretò,

Mme K. interpretò, m.me k. in­

terpretò». Richard sarà vinto e rin­

grazierà la signora. Gli scopi di Mme K.: tradurre immediatamente gli af­ fetti di Richard in un fantasma; con il tempo, portarlo dalla posizione paranoide-schizoide alla posizione de­ pressiva, dalla posizione macchinica (funzionamento) alla posizione di pic­ colo attrezzo («riparazione»); dal punto di vista della finalità, impedir­ gli di formare i suoi enunciati, spez­

zare ancora una volta il concatena­ mento collettivo che produce gli enunciati nel bambino.

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Due regimi di folli

Siamo in tempo di guerra, Ri­ chard legge tre giornali al gior­ no, ascolta la radio. Impara che cosa vogliono dire «alleato», «nemico», «tiranno», «bugiar­ do», «traditore», «neutrale». E lo impara politicamente, in re­ lazione con i nomi propri della Storia presente (Churchill, Hit­ ler, Ribbentrop, Darlan), con i paesi, i territori, il policentri­ smo apparente del Socius (la carta, le frontiere, le soglie, l’oltrepassamento delle soglie), con le macchine da guerra (bombe, aerei, navi ecc.). Costruisce dei concatenamenti macchinici: pri­ ma concatenamenti di paesi sul corpo pieno della Terra; secon­ do tipo, concatenamenti di navi sul corpo pieno del mare; terzo tipo, concatenamenti di tutti i mezzi di trasporto, aereo, auto­ bus, ferrovia, camion, paracadu­ te, sul corpo pieno del Mondo. E si tratta proprio di concatena­ menti libidinaìi: non, come cre­ de Mme K., perché rappresen­ terebbero l’eterna famiglia, ma perché sono degli affetti, dei di­ venire, dei passaggi, degli oltrepassamenti, dei campi di territorializzazione e delle linee di deterritorializzazione. Cosi, «vi­ sta capovolta», la mappa ha una forma bizzarra, confusa e me­ scolata, deterritorializzata. Ri­ chard disegna ogni tipo di con­ catenamento in relazione con gli altri: il corpo pieno della Ter­ ra come «enorme stella di ma-

L’interpretazione degli enunciati

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re» è l’«impero», colorato a se­ conda dei paesi, con i colori co­ me affetti. Se i paesi sono attri­ buiti ai membri della famiglia, non è affatto, come crede Mme K., perché l’«impero rappresen­ ta la famiglia» (p. m), ma per­ ché la famiglia stessa ha valore solo come un concatenamento che deve aprirsi e deterritorializzarsi secondo le linee di attac­ co e di fuga del Socius. Ciò che accadrà nella famiglia dipenderà da ciò che accade nell’impero. E ben vero che Richard si eccita, ma si eccita e si placa politicamente: è un Eros politico che, invece di ricondurre il Socius al­ la famiglia, apre i nomi della fa­ miglia a quelli della geografia e della storia, li ridistribuisce se­ condo un policentrismo politico. I paesi sono degli affetti, sono l’equivalente di un divenire-ani­ male di Richard (per questo Ri­ chard se ne attribuisce molti). La libido di Richard bagna la terra, si masturba sui Paesi. Sessualità-e-politica in atto. Dunque, per Mme K., l'impero è la fa­ miglia. Mme K. non aspetta, non si dà nemmeno, come Freud, l’aria ipo­ crita di aspettare: sin dalle prime se­ dute, Hitler, vediamo un po’, è quel­ lo che fa del male a mamma, è il papà cattivo, il pene cattivo. Vicever­ sa, la mappa sono «i genitori combi­ nati nel corso delle loro relazioni ses­ suali». «Mme K. interpretò: il porto in­ glese nel quale entrava il Prinz Eugen

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Due regimi di folli rappresentava gli organi genitali di sua madre». «Churchill e la Gran

Bretagna rappresentavano un altro aspetto dei suoi genitori». I colori so­ no i membri della famiglia ecc. ecc. Il tutto per 534 pagine. Richard è soffocato, il lettore scoraggiato. Ri­ chard sta per essere spezzato, pre­

so in un incredibile forcing, incastra­ to nello studio di Mme K. artificial­ mente: peggio che in famiglia, peggio che a scuola o dai giornali. Non si è mai dimostrato meglio che il bambi­ no non ha diritto di far politica: è chia­ ro che la guerra non è nulla per un bambino, per la libido del bambino contano solo «le sue pulsioni distrut­ tive». Bisogna quindi constatare que­ sto fatto: che la concezione kleiniana degli oggetti parziali e delle posizio­ ni, lungi dall’allentare la tenaglia freu­ diana, rafforza invece tutto il familiarismo, l'edipismo, il fallocentrismo propri della psicoanalisi. Mme K. ha trovato dei mezzi ancora più diretti per tradurre gli affetti in fantasmi, e per in­ terrompere il bambino, per impedir­ gli di produrre i suoi enunciati. E le ra­ gioni sono semplici: 1) la teoria delle posizioni è fatta per condurre il bambino dalla sua posizio­ ne paranoide-macchinica a una posi­ zione depressiva nella quale la famiglia ritrova un ruolo unificatore, di integra­ zione personotogica e strutturante per tutti gli altri concatenamenti; 2) Mme K. trae i suoi propri concet­ ti bipolari dalla scuola: il buono e il cattivo, tutti i dualismi del buono e del cattivo. Il suo studio è anche un'aula scolastica e una camera di

L’interpretazione degli enunciati

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casa. Mme K. fa lezione. È questa la novità di Melanie: non si può fare i bambini sul divano come equivalente del letto familiare, le serve l'equiva­ lente di una scuola. La psicoanalisi in­ fantile è possibile solo a quel prezzo (cosa che Anna, la figlia di Freud, non aveva capito)". Mme K., quindi, rein­ terpreta la famiglia a partire dalla scuola, ingravida la famiglia con la scuola. Ma dota inoltre la famiglia di forze artificiali che la rendono capa­

ce di stornare e di recuperare tutti gli investimenti libidinali dal Socius; 3) quanto alla concezione degli og­ getti parziali esplosi, si potrebbe dapprima credere che si tratti di un modo per riconoscere le moltepli­ cità, le segmentarietà, i concatena­ menti e il policentrismo sociale; ma di fatto è il contrario. Gli oggetti ap­ paiono come parziali, nel senso di Mme K., quando sono astratti dai concatenamenti macchinici in cui en­ trano, si disperdono e si distribuisco­ no, quando sono strappati alle mol­ teplicità a cui appartengono, per es­ sere ricondotti all'«ideale» di una totalità organica, di una struttura si­ gnificante, di una integrità personologica o soggettiva, che non sono ancora presenti, come confessa Mme K., ma che devono prodursi con il progresso della «posizione», dell'età e della cura (riconduzione agli strati11)... «Aliatine dell’analisi, il

" Cfr. tutti i passi sulla scuola in M. Klein, Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978. 11 Ignoranza del corpo senza organi in Melanie Klein, che vi sostituisce degli organi senza corpo.

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Due regimi di folli bambino non era disperato, nono­ stante i sentimenti penosi da lui pro­ vati, perché considerava la cura co­ me una cosa essenziale per lui». In che stato, mio Dio!

AGNES, 9 ANNI - SETTORIZZAZIONE.

j. hochmann, «Esprit», dicembre 1972. La settorizzazione ha molte sedi, ambulatorio, ospedale, dispensario, scuola speciale, équipe a domicilio. Policentrata, prende il Socius come modello, più che la scuola 0 la fami­

La grande crisi di Agnès coinci­ de con le mestruazioni. Lei esprime questa crisi «macchinicamente»: difetto macchinico, stato di minore perfezione, per­ dita di funzionamento, distru­ zione o alterazione di un mate­ riale (e non mancanza di un organo), la sua domanda alla psicoterapeuta: «Per favore, ri­ mettimi a posto, mi fa male l’ombelico» (p. 888); «mi han­ no preso tutto, mi hanno deru­ bata, hanno rotto la mia mac­ china» (p. 903)... Rifiuta un corpo-attrezzo, un corpo orga­ nico, e reclama la restituzione del corpo-macchina: trasforma la psicoterapeuta in una mario-

glia. Ciò non toglie che riconduca an­ cora di più il bambino alla famiglia, presa come unità di cura. Con un passato epilettico, Agnès è tolta dal­ la scuola pubblica, messa in una scuola specializzata, va al dispensa­ rio; poi l’équipe viene a casa. Gli psi­ coterapeuti cominciano con il tradur­ re tutto in linguaggio organico: si riconduce tutto allo strato dell’orga­ nismo, si riporta tutto a un «combat­ timento attorno a un organo», si par­ la in termini di organi e di funzioni, in­ vece che di funzionamenti. Tuttavia, gli psicoterapeuti devono pur ricono­ scere che si tratta di un organo piut­ tosto bizzarro e incerto: un mate­ riale alterabile, variabile a seconda delle sue posizioni e connessioni («mal localizzabile, mal identificabi­

le, ora è un osso, ora un motore, un escremento, il bebé, una mano, il cuore di papà 0 i gioielli di mam­ ma...», p. 905). Il che non impedisce loro di ribadire che il problema è so­ prattutto quello della differenza tra i

L’interpretazione degli enunciati

netta (p. 901). Marionetta di Kleist vivente e senza fili, Agnès si vede crescere dei fili: rifiuta i propri seni, il proprio sesso, i propri occhi per vedere, le proprie mani per toccare. Non si tratta affatto di differen­ za sessuale, si tratta delle diffe­ renze macchiniche, degli stati di potenza e di perfezione, delle differenze tra «funzionare» e «non funzionare più» (questo è sessuale: le mele fanno i bambi­ ni, le macchine fanno l’amore, sua sorella le ha fatto un bambi­ no). Si tratta talmente poco del­ la differenza tra i sessi che lei chiede aiuto a sua sorella Mi­ chèle, non ancora pubere, quindi non ancora sprofondata, dete­ riorata, rubata (p. 892). Agnès vive la famiglia come un concatenamento macchinico (un insieme di connessioni, di incro­ ci multipli) che deve fungere da base o da punto di partenza per altri concatenamenti: cosi Agnès potrebbe deterritorializzarsi in quegli altri insiemi che di rifles­ so modificherebbero quello del­ la famiglia - di qui, la speranza di Agnès di «ritornare alla scuo­ la pubblica frequentata da suo fratello e da sua sorella». Agnès distribuisce gli elementi e i ma­ teriali di cui dispone nella fami­ glia, come concatenamento per sperimentare tutte le connessio­ ni possibili, tutte le posizioni e i congiungimenti. L’articolo in­ definito attesta queste variazio-

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sessì, della castrazione e dell'ogget­ to perduto (pp. 891,905).

Anche la famiglia viene tradotta in termini organici: fusione, simbiosi, dipendenza (e non connessione). Agnès sarà completamente ricon­ dotta all'Edipo familiare, come pun­ to di ritorno 0 di arrivo. Ai concate­ namenti di Agnès si fanno giocare dei ruoli familiaristici, invece di far

giocare alla famiglia un ruolo di con­ catenamento («volevamo offrire alla bambina un personaggio materno sostitutivo, con il quale essa avreb­ be potuto stabilire la relazione sim­ biotica che, postulavamo, le era mancata e che cercava disperatamente di ricostruire, nella negazione di una identità personale» (p. 894). Agnès, quindi, non solo è ricondotta allo strato dell’organismo, ma anche a quello della significanza familiare e

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Due regimi di folli

ni, cosi come attesta la circola­ zione degli affetti attraverso il concatenamento: un ventre, del­ le bocche, un motore, una mac­ china, un bebé (pp. 890, 908).

dell'identità soggettiva personale. Ma, dato che lei rifiuta l'identità sog­ gettiva e la famiglia significante non meno dell’organismo, si interpreteranno tutti gli elementi e i materiali di Agnès in termini negativi e come og­ getti parziali, nella misura in cui li si sarà astratti dalle combinazioni in cui Agnès cercava di farli entrare (p. 900). Si dimentica cosi che la prote­ sta di Agnès non ha affatto un’origi­ ne negativa, del tipo parzialità, ca­ strazione, Edipo esploso, ma una genesi perfettamente positiva: il cor­ po-macchina che le è stato rubato, gli stati di funzionamento di cui è sta­ ta spossessata.

«Agnès era diventata violenta. Esplodeva come una bomba al­ la minima frustrazione...» Co­ me avrebbe potuto essere altri­ menti? Come avrebbe potuto non tornare al suo «autismo di­ sperato» ? Tutte le volte le è sta­ to risposto: non sei tu che par­ li, sono degli altri dentro di te, non aver paura, tu sei Agnès, noi capiamo i tuoi desideri di ragazzina, siamo qui per spie­ garteli. Come avrebbe potuto Agnès non gridare: « Io non so­ no Agnès!» Ha passato tanto tempo a dire delle cose, a for­ mare degli enunciati che la psi­ coterapeuta non capisce. Agnès si vendica «marionettizzandola». Quando dichiara, a propo­ sito della psicoterapeuta: «Dice tutto ciò che faccio, sa tutto ciò che penso», non è un compli-

L’interpretazione degli enunciati

mento per la perspicacia di quest’ultima, ma piuttosto un’ac­ cusa di controllo poliziesco e di deformazione sistematica (co­ me potrebbe non sapere tutto, per deformarlo a tal punto?) Agnès è incastrata da tutte le parti - famiglia, scuola, Socius. La psicoterapeuta, che ha as­ sunto su di sé tutti i centri di potere, è un fattore centrale in questo incastramento generaliz­ zato. Agnès aveva n sessi, glie­ ne si dà uno, la si riconduce vio­ lentemente alla differenza tra i sessi. Agnès aveva n madri, co­ me materiali trasformabili, glie­ ne si lascia una. Agnès aveva n particelle di territorio, si occupa tutto il suo campo. «Il suo mo­ notono lamentarsi» non è «quel­ lo di Edipo lacerato tra esigenze contraddittorie» (p. 908), è piut­ tosto il grido: al ladro, al ladro!

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IO.

L’ascesa del sociale *

Non si tratta certo dell’aggettivo che qualifica l’insieme dei fe­ nomeni di cui la sociologia si occupa: il sociale rimanda a un set­ tore particolare nel quale si annoverano problemi all’occorrenza molto diversi, casi speciali, istituzioni specifiche, tutto un perso­ nale qualificato (assistenti «sociali», operatori «sociali»). Si parla di flagelli sociali, dall’alcolismo alla droga; di programmi sociali, dal ripopolamento al controllo delle nascite; di disadattamenti o di adattamenti sociali (del pre-delinquente, del caratteriale o del di­ sabile, fino ai diversi tipi di promozione). Il libro di Jacques Donzelot ha una grande forza in quanto propone una genesi di questo strano settore, di formazione recente e di crescente importanza, il sociale: un nuovo paesaggio si è radicato. Che i contorni di questo ambito siano fluidi, si deve innanzitutto riconoscerlo dal modo in cui esso si forma, a partire dal xvin-xix secolo, e con cui traccia la sua originalità rispetto a settori più vecchi, a costo di reagire su questi e di operare una nuova distribuzione. Tra le pagine di Donzelot che più colpiscono, mi riferirò a quelle che descrivono l’istan­ za del «tribunale dei minori»: si tratta del sociale per eccellenza. Ora, a prima vista, si potrebbe vedervi soltanto una giurisdizione in miniatura. Ma come con un’incisione studiata alla lente d’in­ grandimento, Donzelot vi scopre un’altra organizzazione dello spa­ zio, altre finalità, altri personaggi, anche mascherati o assimilati in un apparato giuridico: notabili come assessori, educatori come testimoni, tutta una cerchia di tutori e di tecnici che si stringe in­ torno alla famiglia esplosa o «liberalizzata». Il settore sociale non si confonde con il settore giudiziario, an­ che se gli dà nuove estensioni. Donzelot dimostrerà che il sociale non si confonde più con il settore economico, dato che inventa * Postfazione a J. Donzelot, La police des families, Minuit, Paris 1977, pp. 213-20; trad. it. di Renato D’Antiga, in «aut aut», 1978, n. 167-68, pp. 108-14.

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proprio tutta un’economia sociale e ritaglia su nuove basi la distin­ zione tra il ricco e il povero. Né si confonde con il settore pubbli­ co, o con quello privato, perché induce al contrario una nuova fi­ gura ibrida tra pubblico e privato, e produce esso stesso una ripar­ tizione, un intreccio originale tra gli interventi dello stato e i suoi arretramenti, tra ciò di cui si fa carico e ciò a cui si sottrae. Il pro­ blema non è assolutamente quello di sapere se vi sia una mistifica­ zione del sociale, né quale ideologia esso esprima. Donzelot do­ manda come il sociale si sia formato, reagendo sugli altri settori, implicando nuovi rapporti tra il pubblico e il privato; il giudizia­ rio, l’amministrativo e il consuetudinario; la ricchezza e la povertà; la città e la campagna; la medicina, la scuola e la famiglia ecc. Si vengono cosi a ritagliare e a rielaborare le divisioni precedenti p indipendenti; le forze in atto si applicano a un nuovo campo. E quindi con tanta più forza che Donzelot può lasciare al lettore il compito di trarre le sue conclusioni rispetto alle trappole e alle macchinazioni del sociale. Dal momento che il sociale è un ambito ibrido, specialmente nei rapporti tra il pubblico e il privato, il metodo di Donzelot con­ sisterà nel liberare delle piccole discendenze pure, successive o si­ multanee, ciascuna delle quali contribuirà a formare un contorno o un versante, un carattere del nuovo ambito. Il sociale si troverà all’incrocio di tutte queste piccole discendenze. Bisogna inoltre di­ stinguere l’ambiente su cui queste linee agiscono in modo da in­ vestirlo e farlo mutare: la famiglia - non che sia incapace di esse­ re da sola motore di evoluzione, ma lo è necessariamente accop­ piata ad altri vettori, così come gli altri vettori si accoppiano o si incrociano per agire su di essa. Quello di Donzelot, quindi, non è affatto l’ennesimo libro sulla crisi della famiglia: la crisi non è al­ tro che l’effetto negativo del sommarsi delle piccole linee; o piut­ tosto, l’ascesa del sociale e la crisi della famiglia sono il doppio effet­ to politico delle stesse cause elementari. Da qui il titolo Polizia delle famiglie1, che esprime innanzitutto questa correlazione e sfugge al duplice pericolo di un’analisi sociologica troppo globale e di un’a­ nalisi morale troppo sommaria. In secondo luogo, bisogna mostrare come a ogni incrociarsi di queste cause si montano dei dispositivi che funzioneranno in un certo modo, insinuandosi negli interstizi di apparati più vasti o più 1 II libro di Jacques Donzelot è stato da poco tradotto in italiano con il titolo II gover­ no delle famiglie, Sellino, Avellino 2009 [N2/.TJ.

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vecchi, i quali a loro volta ne ricevono un effetto di mutazione: è qui che il metodo di Donzelot diventa quasi un metodo incisorio, in cui si profila il montaggio di una nuova scena in un quadro già dato (come la scena del tribunale dei minori nel quadro giudizia­ rio; oppure ancora, tra le sue pagine più belle, la «visita filantro­ pica» che si inserisce nel quadro delle istituzioni di «carità»). In­ fine, bisogna determinare le conseguenze che le linee di mutazio­ ne e i nuovi funzionamenti hanno sul campo di forze, sulle alleanze, sulle ostilità, sulle resistenze e soprattutto sulle evoluzioni collet­ tive che cambiano il valore di un termine o il senso di un enuncia­ to. In breve, il metodo di Donzelot è genealogico, funzionale e strategico. E come dire quanto esso deve a Foucault, e anche a Ca­ stel. Ma il modo in cui Donzelot stabilisce le sue discendenze, in cui le fa funzionare in una scena o in un ritratto, e il modo in cui disegna tutta una mappa strategica del «sociale» conferiscono al suo libro una profonda originalità. Donzelot dimostra fin dall’inizio che una discendenza, o una piccola linea di mutazione della famiglia, può cominciare con una deviazione, con una scappatoia. Tutto inizia su una linea bassa. una linea di critica o di attacco contro le balie e i domestici. E già a questo livello c’è un incrociarsi di linee, perché la critica non si sviluppa secondo lo stesso punto di vista nel caso dei ricchi e dei poveri. Riguardo ai poveri, si denuncia una cattiva economia pub­ blica che li costringe ad abbandonare i propri figli, a lasciare le campagne e a gravare sullo stato con oneri indebiti; riguardo ai ric­ chi, si denuncia una cattiva economia o igiene privata che li spin­ ge ad affidare ai domestici l’educazione dei figli, confinandoli in spazi angusti. Vi è dunque già una sorta di ibridazione tra pubbli­ co e privato, che gioca sulla differenza tra ricchi e poveri, nonché sulla differenza tra città e campagna, per tracciare un abbozzo del­ la prima linea. Ma c’è subito una seconda linea. Non solo la famiglia tende a staccarsi dal suo inquadramento domestico, ma i valori coniugali tendono a staccarsi dai valori propriamente familiari e ad assume­ re una certa autonomia. Certamente, le alleanze restano regolate dalle gerarchie familiari. Ma non si tratta tanto di preservare l’or­ dine delle famiglie quanto di preparare alla vita coniugale, in mo­ do da dare a questo ordine un nuovo codice. Preparazione al ma­ trimonio in quanto fine, piuttosto che preservazione della fami­ glia per mezzo del matrimonio. Preoccupazione per la discendenza piuttosto che orgoglio per l’ascendenza. Tutto avviene come se la

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donna e il figlio, coinvolti nel fallimento del vecchio codice fami­ liare, trovassero sul versante della coniugalità gli elementi di una nuova codificazione propriamente «sociale». Nasce il tema della grande sorella - piccola madre. Il sociale sarà centrato sulla coniu­ galità, sul suo apprendistato, sul suo esercizio e sui suoi doveri, piuttosto che sulla famiglia, sul suo carattere innato e sui suoi di­ ritti. Ma anche qui la mutazione avrà una risonanza diversa nei ricchi e nei poveri: infatti, il dovere coniugale della donna povera la ripiega sul marito e sui figli (impedire al marito di andare all’o­ steria ecc.), mentre quello della donna ricca le conferisce funzioni espansive di controllo e un ruolo di «missionaria» nel?ambito del­ le opere buone. Si sviluppa una terza linea, nella misura in cui la famiglia co­ niugale tende essa stessa a liberarsi parzialmente dall’autorità pa­ terna o maritale del capofamiglia. Il divorzio, l’aumento degli abor­ ti fra le donne sposate, la possibilità di affrancarsi dalla patria potestà sono i punti più notevoli su questa linea. Ma, più profon­ damente, a essere compromessa è la soggettività che la famiglia trovava nel suo «capo» responsabile, capace di governarla, e l’oggettività che essa prendeva da tutta una rete di dipendenze e di complementarità che la rendevano a sua volta governabile. Biso­ gnerà trovare da qualche parte nuovi stimoli soggettivi; ed è qui che Donzelot mostra il ruolo della spinta al risparmio, che diviene il pezzo forte del nuovo dispositivo di assistenza (da qui la diffe­ renza tra la vecchia carità e la nuova filantropia, in cui l’aiuto dev’essere concepito come investimento). Sarà d’altra parte neces^ sario che la rete delle vecchie dipendenze sia sostituita con inter­ venti diretti, in cui il sistema industriale stesso rimedi alle tare di cui rende responsabile la famiglia (ecco cosi la legislazione del la­ voro minorile, in cui il sistema è tenuto a difendere il minore con­ tro la sua stessa famiglia: secondo aspetto della filantropia). Ora, nel primo caso, lo stato tende a liberarsi di oneri troppo pesanti facendo giocare l’incitazione al risparmio e l’investimento priva­ to; mentre, nel secondo caso, lo stato è indotto a intervenire di­ rettamente usando la sfera industriale per una «civilizzazione dei costumi». Al punto che la famiglia può essere al tempo stesso l’og­ getto di un elogio liberale, in quanto luogo del risparmio, e l’ogget­ to di una critica sociale e perfino socialista, in quanto agente di sfruttamento (proteggere la donna e il minore). Al contempo, l’oc­ casione di uno sgravio dello stato liberale, e il bersaglio o l’onere dello stato interventista: non una disputa ideologica, ma i due po­

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li di una strategia che sta sulla stessa linea. È qui che l’ibridazio­ ne dei due settori, pubblico e privato, assume un valore positivo per formare il sociale. C’è poi una quarta linea, che opera una nuova alleanza tra la medicina e lo stato. Sotto l’impulso di fattori molto diversi (l’e­ stensione della scuola obbligatoria, l’ordinamento militare, la pro­ mozione dei valori coniugali con l’accento sulla discendenza, il con­ trollo delle popolazioni ecc.), l’«igiene» diventa pubblica nello stes­ so momento in cui la psichiatria esce dal settore privato. Tuttavia c’è sempre ibridazione, nella misura in cui la medicina mantiene un carattere liberale privato {contratto), mentre lo stato intervie­ ne necessariamente attraverso azioni pubbliche e istituzionali {tu­ tela)1. Ma la proporzione di questi elementi è variabile; sussistono opposizioni e tensioni (per esempio, tra il potere giudiziario e la «competenza» psichiatrica). Inoltre il connubio tra la medicina e lo stato assume un andamento diverso, non soltanto per la politica comune perseguita (eugenismo, malthusianesimo, planning ecc.), ma per la natura dello stato che si suppone conduca questa politi­ ca. Donzelot scrive delle belle pagine sull’avventura di Paul Ro­ bin e dei gruppi anarchici, che testimoniano un «gauchismo» del­ l’epoca, con interventi nelle fabbriche, appoggio degli scioperi, propaganda per un neomalthusianesimo, e dove l’anarchismo pas­ sa anche attraverso la promozione di uno stato forte. Come nei ca­ si precedenti, è sempre sulla stessa linea che si scontrano i punti dell’autoritarismo, i punti della riforma, i punti di resistenza e di rivoluzione, intorno a questa nuova posta in gioco che è «il socia­ le», dove la medicina e lo stato, coniugandosi, diventano igienisti, in parecchi modi anche opposti che investono o rimodellano la fa­ miglia. Sulla Scuola dei genitori, sugli albori del planning familia­ re, leggendo Donzelot si apprendono molte cose inquietanti: si è sorpresi del fatto che le ripartizioni politiche non siano esattamen­ te quelle che credevamo. Per servire a un problema più generale: l’analisi politica degli enunciati - in che modo un enunciato rin­ via a una politica, e cambia particolarmente di senso, da una poli­ tica all’altra. C’è ancora un’altra linea, quella della psicoanalisi. Donzelot le ’ SuDa formazione di una «biopolitica», o di un potere che si propone di gestire la vi­ ta, cfr. M. Foucault, La volontà de savoir, Gallimard, Paris 1976, pp. 183 sgg.; trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 123 sgg. E sui rapporti contratto-tutela, a questo riguardo, cfr. R. Castel, L'ordrepsychiatrique, Minuit, Paris 1976; trad. it. L'ordi­ ne psichiatrico, Feltrinelli, Milano 1980.

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accorda molta importanza, in funzione di un’ipotesi originale. Si manifesta oggi la preoccupazione di arrivare a una vera storia del­ la psicoanalisi, che rompa con gli aneddoti intimistici su Freud, i suoi allievi e i dissidenti, o con le questioni ideologiche, per me­ glio definire i problemi di organizzazione. Ma se fino a oggi la sto­ ria della psicoanalisi è stata generalmente caratterizzata dall’inti­ mismo, anche al livello della formazione delle associazioni psi­ coanalitiche, è perché si rimaneva prigionieri di uno schema precostituito: la psicoanalisi sarebbe nata entro relazioni private (contrattuali), avrebbe formato degli studi privati e non ne sareb­ be uscita che tardivamente, per incidere su un settore pubblico (Imp’, dispensari, settorizzazione, insegnamento). Donzelot pen­ sa al contrario che, in un certo modo, la psicoanalisi si sia stabili­ ta molto presto in un ambiente ibrido di pubblico e privato, e che fu proprio questa una ragione fondamentale del suo successo. Sen­ za dubbio la psicoanalisi è arrivata tardi in Francia, ma è proprio su settori semipubblici come il planning che si appoggia, in rappor­ to a problemi del tipo «come evitare i figli non desiderati ?» Biso­ gnerebbe verificare questa ipotesi in altri paesi. Essa permette al­ meno di rompere con il dualismo schematico («Freud liberale Reich dissidente marxista») per individuare un campo politico e sociale della psicoanalisi in seno al quale si compiono gli scontri e le rotture. Ma, nell’ipotesi di Donzelot, da dove viene questo potere del­ la psicoanalisi di investire immediatamente un settore misto, «il» sociale, per tracciarvi una nuova linea ? Lo psicoanalista non è un operatore sociale, simile a quello prodotto dalle altre linee. Al con­ trario, molte cose lo distinguono dall’operatore sociale: non viene a casa vostra, non verifica quello che dite e non invoca alcuna co­ strizione. Ma bisogna ripartire dalla situazione precedente: c’era­ no ancora molte tensioni tra l’ordine giudiziario e l’ordine psichia­ trico (insufficienza della griglia psichiatrica, nozione troppo gros­ solana di degenerescenza ecc.), molte opposizioni tra le esigenze dello stato e i criteri della psichiatria4. In breve, mancavano le re­ gole di equivalenza e di traducibilità tra i due sistemi. Tutto av­ viene allora come se la psicoanalisi registrasse quest’assenza di ’ Istituto medico-pedagogico [N A C.]. 4 Per esempio, nel caso dei deliri, le istanze civili o penali rimproverano alla psichia­ tria, simultaneamente, di considerare folli persone che non lo sono «veramente» (caso del presidente Schreber) e di non scoprire in tempo persone folli che non lo danno a vedere (casi di monomanie o di deliri passionali).

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equivalenza e proponesse di sostituirvi un nuovo sistema di flut­ tuazione, creando i concetti teorici e pratici necessari a questo nuo­ vo stato di cose. Esattamente come in economia una moneta è det­ ta fluttuante quando il suo valore non è più determinato in rap­ porto a un tallone fisso, ma in rapporto ai prezzi di un mercato ibrido variabile. Il che non esclude evidentemente meccanismi di regolazione di tipo nuovo (per esempio «il serpente», che segna il minimo e il massimo della fluttuazione monetaria). Di qui l’importanza del confronto che Donzelot istituisce tra Freud e Keynes - è molto più che una metafora. Specialmente il ruolo molto partico­ lare del denaro in psicoanalisi non ha più bisogno di essere inter­ pretato in base a vecchie forme liberali, o a forme simboliche non idonee, e assume invece il vero e proprio valore di «serpente» psi­ coanalitico. Ma in che cosa la psicoanalisi assicura questa fluttuazio­ ne del tutto speciale che la psichiatria non riusciva a realizzare! Se­ condo Donzelot, il suo ruolo fondamentale è stato quello di far fluttuare le norme pubbliche e i principi privati, le perizie e le con­ fessioni, i test e i ricordi, grazie a tutto un gioco di spostamenti, condensazioni, simbolizzazioni, legato alle immagini parentali e alle istanze psichiche che la psicoanalisi mette in opera. E come se i rapporti Pubblico-Privato, Stato-Famiglia, Diritto-Medicina ecc. fossero rimasti a lungo sotto un regime di tallone, cioè di legge, che fìssa rapporti e parità, anche con larghi margini di flessibilità e variazione. Ma «il» sociale nasce con un regime di fluttuazione, in cui le norme sostituiscono la legge, i meccanismi regolatori e correttivi sostituiscono il tallone5. Freud con Keynes. La psicoa­ nalisi ha un bel parlare della Legge, ma fa parte di un altro regi­ me. Tuttavia non è certo l’ultima parola nel sociale: se il sociale è ben costituito, attraverso questo sistema di fluttuazione regolata, la psicoanalisi è soltanto un meccanismo tra molti altri, e non il più potente; ma li ha impregnati tutti, anche se deve scomparire o fondersi in essi. Dalla linea «bassa» alla linea di fluttuazione, passando per tut­ te le altre (coniugale, filantropica, igienista, industriale), Donze­ lot ha disegnato la mappa del sociale, della sua comparsa e della sua espansione. Ci fa vedere la nascita dellTbrido moderno: come i desideri e i poteri, le nuove esigenze di controllo, ma anche le nuove capacità di resistenza e di liberazione, si organizzeranno e ’ Su questa differenza tra la norma e la legge, cfr. M. Foucault, La volontà de savoir cit., pp. 189 sgg.; trad. it. pp. 127 sgg.

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si scontreranno su queste linee. «Avere una stanza tutta per sé» è un desiderio, ma anche un controllo. Inversamente, un meccani­ smo regolatore è incalzato da tutto ciò che lo supera e lo fa già scricchiolare dall’interno. Il fatto che Donzelot lasci al lettore il compito di trarre provvisoriamente le sue conclusioni non è segno di indifferenza, ma annuncia piuttosto la direzione dei suoi pros­ simi lavori siri terreno che ha delimitato.

II.

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Una delle tesi essenziali di Sorvegliare e punire' riguardava i di­ spositivi di potere. Essa mi sembrava essenziale sotto tre aspetti: i) Per se stessa e rispetto al «gauchismo»: profonda novità po­ litica di questa concezione del potere, in opposizione a ogni teo­ ria dello stato. 2) Rispetto a Michel, perché gli permetteva di oltrepassare il dualismo delle formazioni discorsive e delle formazioni non-discorsive che permaneva in L’archeologia del saperi, quindi di spiegare come i due tipi di formazioni si distribuivano o si articolavano seg­ mento per segmento (senza ridursi l’uno all’altro né confondersi. .. ecc.). Non si trattava di sopprimere la distinzione ma di trovare una ragione dei loro rapporti. 3) Per una precisa conseguenza: i dispositivi di potere non pro­ cedevano né attraverso la repressione né attraverso l’ideologia. Dunque, rottura con un’alternativa che tutti avevano più o meno accettato. Al posto di repressione o ideologia, Sorvegliare e punire formava un concetto di normalizzazione, e di disciplina. Questa tesi sui dispositivi di potere mi sembrava avere due di­ rezioni, per nulla contraddittorie, ma distinte. In ogni caso questi * In «Magazine littéraire», ottobre 1994, n. 325, pp. 59-65; trad- it- di Antonio Ne­ gri e Giorgio Passerone, Desiderio e piacere, in «Futuro anteriore», 1995, n. 1, pp. 23-34. Si tratta di una lettera indirizzata a Michel Foucault nel 1977, dopo la pubblicazione di La volontàrie savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978. E una serie di note, ordinate dalla A alla H, che Deleuze aveva sottoposto a Fou­ cault attraverso Fintermediazione di Francois Ewald. Secondo la testimonianza di Ewald, che accompagna la pubblicazione di queste note, Deleuze voleva esprimere il sostegno del­ la sua amicizia per Foucault, che stava attraversando una crisi, al momento della pubblica­ zione di La volontà di sapere. Le note riprendono quelle del «Magazine littéraire», legger­ mente modificate. 1 M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975; trad. it. Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976 [Nd.C ]. 1 Id., L'archeologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. L'archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1969

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dispositivi erano irriducibili a un apparato di stato. Ma, secondo una direzione, essi consistevano in una molteplicità diffusa, ete­ rogenea, e in microdispositivi. Secondo un’altra direzione, essi rin­ viavano a un diagramma, a una sorta di macchina astratta, imma­ nente a tutto il campo sociale (come il panottico, definito dalla funzione generale di vedere senza essere visti e applicabile a una molteplicità qualunque). C’erano come due direzioni di microana­ lisi, egualmente importanti, poiché la seconda mostrava che Mi­ chel non si accontentava di una semplice «disseminazione». La volontà di sapere * fa un altro passo rispetto a Sorvegliare e pu­ nire. Il punto di vista resta esattamente il medesimo: né repressio­ ne né ideologia. Ma, per farla breve, i dispositivi di potere non si accontentano più di essere normalizzanti, e tendono a essere co­ stituenti (della sessualità). Non si accontentano più di formare dei saperi, essi sono costitutivi di verità (verità del potere). Non si ri­ feriscono più a delle «categorie» malgrado tutto negative (follia, delinquenza come oggetto di internamento), ma a una categoria considerata positiva (sessualità). Quest’ultimo punto è conferma­ to dall’intervista alla «Quinzaine»4, inizio di pagina 5. A questo proposito credo, dunque, a un ulteriore avanzamento dell’analisi in La volontà di sapere. Il pericolo è che Michel ritorni a un analo­ go del «soggetto costituente» - e poi perché prova il bisogno di resuscitare la verità, anche se ne ha fatto un nuovo concetto ? Non sono questioni che mi pongo io, ma penso che siano due false que­ stioni che si porranno in ogni modo, finché Michel non si sia spie­ gato meglio. Un mio primo problema riguardava la natura delle microanali­ si che Michel aveva stabilito a partire da Sorvegliare e punire. Tra «micro» e «macro» la differenza non era di grandezza, nel senso che i microdispositivi concernono l’analisi dei piccoli gruppi (la fa­ miglia non è categoria di minore estensione rispetto a ogni altra formazione sociale). Non si tratta nemmeno di un dualismo estrin­ seco, poiché ci sono dei microdispositivi immanenti all’apparato di stato, cosi come a loro volta dei segmenti dell’apparato di sta­ to penetrano i microdispositivi - immanenza completa delle due di­ mensioni. Bisogna allora considerare questa differenza come una differenza di scala ? Una pagina di La volontà di sapere rifiuta espli­ * Id., La volante de savoir cit. [N J.C.]. 4 Id., Les rapports de pouvoirpassentà l’intérieur des corps, intervista con Lucette Finis, in «La Quinzaine littéraire», 1-15 gennaio 1977, ripreso in Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. Ili, n. 197, p. 230 [NÌ.C.].

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citamente questa interpretazione5. Ma questa pagina sembra rin­ viare il macro al modello strategico e il micro al modello tattico. Tutto ciò mi mette a disagio, perché i microdispositivi mi sembra­ no avere tutti - in Michel - una dimensione strategica (soprattut­ to se si tiene conto di quel diagramma dal quale sono inseparabi­ li). Un’altra direzione potrebbe essere quella dei «rapporti di for­ za» come determinanti il micro: vedi in particolare l’intervista della «Quinzaine». Ma credo che Michel non abbia ancora svilup­ pato questo punto: la sua originale concezione dei rapporti di for­ za, ciò che egli chiama rapporto di forza e che deve essere un con­ cetto tanto nuovo quanto il resto. In ogni caso c’è una differenza di natura, una eterogeneità fra micro e macro. Questo non esclude certamente l’immanenza dei due. Ma, al limite, mi domanderei: questa differenza di natura per­ mette che si parli ancora di dispositivi di potere ? La nozione di stato non è applicabile a livello di microanalisi, poiché, come dice Michel, non si tratta di miniaturizzare lo stato. Ma allora la no­ zione di potere è ancora applicabile, non è anch’essa la miniatu­ rizzazione di un concetto globale ? Sottolineo qui la mia prima differenza con Michel, attualmen­ te. Se, con Félix Guattari, parlo di concatenamento di desiderio, è perché non sono certo che i microdispositivi si possano descri­ vere in termini di potere. Per me, concatenamento di desiderio stabilisce che il desiderio non è mai una determinazione «natura­ le» o «spontanea». Per esempio, il feudalesimo è un concatena­ mento che mette in gioco dei nuovi rapporti con l’animale (il ca­ vallo), con la terra, con la deterritorializzazione (il cavallo al ga­ loppo, la Crociata), con le donne (l’amore cavalleresco) ecc. Dei concatenamenti del tutto folli ma sempre storicamente assegnabi­ li. Per parte mia, direi che il desiderio circola in questo concate­ namento di eterogenei, in una specie di «simbiosi»: il desiderio fa tutt’uno con un concatenamento determinato, è un cofunzionamento. Certo, un concatenamento di desiderio implicherà dei di­ spositivi di potere (per esempio i poteri feudali), ma bisognerà col­ locarli tra le differenti componenti del concatenamento. Seguen­ do un primo asse, si possono distinguere, nei concatenamenti di desiderio, gli stati di cose e le enunciazioni (il che è conforme al­ la distinzione tra i due tipi di formazioni o di molteplicità, secon­ do Michel). Seguendo un altro asse, si potranno distinguere le ter’ Id., La volante de savoìr cit., p. 132; trad. it. p. 89.

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ritorialità o riterritorializzazioni, e i movimenti di deterritorializzazione che determinano un concatenamento (per esempio tutti i movimenti di deterritorializzazione che implicano la chiesa, la ca­ valleria, i contadini). In questo caso i dispositivi di potere sorge­ rebbero ovunque si determinano delle riterritorializzazioni, anche astratte. I dispositivi di potere sarebbero dunque una componen­ te dei concatenamenti. Ma i concatenamenti comporterebbero an­ che delle punte di deterritorializzazione. In breve, non sono i di­ spositivi di potere a determinare i concatenamenti, e a costituirli, ma i concatenamenti di desiderio quando disseminano le forma­ zioni di potere secondo una delle loro dimensioni. Posso cosi ri­ spondere alla domanda, necessaria per me ma non per Michel: co­ me può essere desiderato il potere ? La prima differenza è dunque che per me il potere è un’affezione del desiderio (dato che il desi­ derio non è mai una «realtà naturale»). Comunque tutto questo è molto approssimativo: esistono rapporti ben più complicati di quel­ li di cui parlo tra i due movimenti, di deterritorializzazione e riterritorializzazione. Ma in questo senso il desiderio mi sembra che sia primo, e che costituisca l’elemento di una microanalisi. Seguo comunque Michel su un punto che mi sembra fondamen­ tale: né ideologia né repressione - per esempio gli enunciati o piut­ tosto le enunciazioni non hanno nulla a che fare con l’ideologia. I concatenamenti di desiderio non hanno nulla a che vedere con la repressione. Ma, evidentemente, per quanto riguarda i dispositi­ vi di potere, non ho la fermezza di Michel, rimango nel vago, vi­ sto lo statuto ambiguo che essi hanno per me. In Sorvegliare e pu­ nire Michel dice che normalizzano e disciplinano; io direi che co­ dificano e riterritorializzano (e suppongo che anche qui non sia solo una semplice distinzione di parole). Ma, visto il primato che per me ha il desiderio sul potere, ovvero il carattere secondario che per me hanno i dispositivi di potere, resta il fatto che le loro operazioni mantengono un effetto repressivo, perché essi annien­ tano non il desiderio come dato naturale, ma le punte dei conca­ tenamenti di desiderio. Prendo una delle tesi più belle di La vo­ lontà di sapere; il dispositivo della sessualità piega la sessualità sul sesso (sulla differenza dei sessi ecc.; e la psicoanalisi è del tutto dentro questo ripiegamento). Ci vedo un effetto di repressione, precisamente alla frontiera del macro e del micro: la sessualità co­ me concatenamento di desiderio storicamente variabile e determi­ nabile, con le sue punte di deterritorializzazione, di flusso e di combinazioni, sarà ripiegata su un’istanza molare, il «sesso», e an-

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che se le procedure di questo ripiegamento non sono repressive, l’effetto (non ideologico) lo è, perché i concatenamenti sono di­ strutti, non solo nelle loro potenzialità ma nella loro microrealtà. Allora essi esistono solo come fantasmi, che li cambiano e li svia­ no completamente, o come cose vergognose ecc. Piccolo problema che mi interessa molto: perché tra la gente «disturbata» c’è chi è più sensibile alla vergogna, e anche più dipendente dalla vergogna, di altri? (Per esempio l’enuresico o l’anoressica sono poco sensibi­ li alla vergogna). Ho dunque bisogno di un certo concetto di re­ pressione, non là dove la repressione si applicherebbe alla sponta­ neità, ma là dove i concatenamenti potrebbero avere molte dimen­ sioni, di cui i dispositivi di potere non sarebbero che una. Altro punto fondamentale: credo che la tesi «né repressione né ideologia» abbia un correlato, e forse dipenda essa stessa da que­ sto correlato. Un campo sociale non è definito dalle sue contrad­ dizioni. La nozione di contraddizione è una nozione globale, ina­ deguata, ed essa implica già una forte complicità degli elementi «contraddittori» nei dispositivi di potere (per esempio le due clas­ si, la borghesia e il proletariato). E infatti mi sembra che un’altra grande novità della teoria del potere di Michel sia questa: una so­ cietà non si contraddice, o solo raramente. Ma la sua risposta è: essa si fa strategica, essa fa strategia. Lo trovo molto bello, e vedo l’immensa differenza che c’è fra strategia e contraddizione - biso­ gna che rilegga Clausewitz a questo proposito. Tuttavia non mi sento a mio agio in questa idea. Direi invece: una società, un campo sociale non si contraddi­ ce, ma innanzitutto fugge, fugge da tutte le parti, e sono queste li­ nee di fuga che vengono prima (anche se questo «prima» non è cronologico). Lungi dall’essere fuori del campo sociale o dall’uscirne, le linee di fuga ne costituiscono il rizoma o la cartografia. Le linee di fuga sono pressappoco la stessa cosa dei movimenti di deterritorializzazione: esse non implicano alcun ritorno alla natura, sono le punte di deterritorializzazione nei concatenamenti di de­ siderio. Nel feudalesimo sono le linee di fuga che essa presuppo­ ne a venire prima; lo stesso vale per i secoli x-xn; lo stesso per la formazione del capitalismo. Le linee di fuga non sono necessaria­ mente «rivoluzionarie», al contrario, ma i dispositivi di potere le vogliono comunque tappare, imbrigliare. Attorno all’xi secolo tut­ te le linee di deterritorializzazione precipitano: le ultime invasio­ ni, le bande di saccheggiatori, la deterritorializzazione della chie­ sa, le emigrazioni contadine, la trasformazione della cavalleria, la

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trasformazione delle città che abbandonano sempre più dei mo­ delli territoriali, la trasformazione della moneta che entra in nuo­ vi circuiti, il cambiamento della condizione femminile con l’intro­ duzione dei temi dell’amore cortese che deterritorializzano anche l’amore cavalleresco ecc. La strategia sarà sempre seconda rispet­ to alle linee di fuga, alle loro coniugazioni, ai loro orientamenti, alle loro convergenze o divergenze. Ancora qui ritrovo il primato del desiderio, poiché il desiderio è precisamente sulle linee di fu­ ga, coniugazione e dissociazione dei flussi. Si confonde con esse. Mi sembra allora che qui Michel incontri un problema che per me non ha affatto lo stesso statuto. Se infatti i dispositivi di potere sono in qualche misura costituenti, vi saranno contro di essi sol­ tanto dei fenomeni di «resistenza», e la questione riguarderà allo­ ra lo statuto di questi fenomeni. Certo, nemmeno essi saranno ideologici né antirepressivi. Da ciò l’importanza delle due pagine di La volontà di sapere in cui Michel dice: non mi si faccia dire che questi fenomeni sono illusori... Ma quale statuto concede loro? Anche qui più direzioni: i) quella di La volontà di sapere * dove i fenomeni di resistenza sono come un’immagine inversa dei dispo­ sitivi: di quelli avrebbero le stesse caratteristiche, diffusione, etero­ geneità ecc., stanno gli uni di fronte agli altri; ma questa direzione mi pare chiudere ogni via d’uscita piuttosto che trovarne una; 2) la direzione dell’intervista a «Politique Hebdo»’: se i dispositivi di po­ tere sono costitutivi di verità, se c’è una verità del potere, come con­ trostrategia ci dev’essere una sorta di potere della verità, contro i poteri. Da cui il problema del ruolo dell’intellettuale, in Michel, e la sua maniera di reintrodurre la categoria di verità: rinnovandola completamente e facendola dipendere dal potere, egli ritroverà in questo rinnovamento materia per reagire contro il potere ? Davve­ ro non vedo come. Bisogna attendere che Michel spieghi questa sua nuova concezione della verità, a livello della microanalisi; 3) terza direzione: i piaceri, il corpo e i suoi piaceri. Ma anche qui la stessa attesa da parte mia: come possono i piaceri animare dei contropote­ ri e come concepisce Michel questa nozione di piacere ? Mi sembra, dunque, che ci siano tre nozioni che Michel consi­ dera in un senso completamente nuovo, ma senza averle ancora sviluppate: rapporti di forza, verità, piaceri. ‘ lbid.t pp. 126-27; trad. it. pp. 85-86. ’ Id., La fonction politique de l’intellectuel, in «Politique Hebdo», 29 novembre - 5 di­ cembre 1976, ripreso in Dits etécrits cit., vol. Ili, n. 184, p. 109.

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Mi si pongono alcuni problemi che non si pongono per Michel, poiché egli li ha già risolti in sue precedenti ricerche. Inversamen­ te, per farmi coraggio, mi dico di non avere altri problemi che lui invece trae necessariamente dalle sue tesi e dai suoi sentimenti. Le linee di fuga, i movimenti di deterritorializzazione non mi sem­ brano avere un equivalente in Michel, come determinazioni stori­ che collettive. Per me non c’è un problema di statuto dei fenome­ ni di resistenza: dal momento che le linee di fuga sono le determi­ nazioni primarie e che il desiderio concatena il campo sociale, i dispositivi di potere si trovano a essere prodotti da questi conca­ tenamenti, e simultaneamente li annientano o li tappano. Condi­ vido l’orrore di Michel per i cosiddetti emarginati: il romantici­ smo della follia, della delinquenza, della perversione, della droga, mi è sempre più insopportabile. Ma le linee di fuga, vale a dire i concatenamenti di desiderio, non sono create dagli emarginati. So­ no al contrario delle linee oggettive che attraversano una società, su cui gli emarginati si installano qua o là, per creare un’ansa, un vortice, una ricodificazione. Io non ho dunque bisogno di uno sta­ tuto dei fenomeni di resistenza, se il primo dato di una società è che tutto fugge, tutto si deterritorializza. Di conseguenza lo sta­ tuto dell’intellettuale e il problema politico dal punto di vista teo­ rico non saranno gli stessi per Michel e per me (più avanti cercherò di dire come vedo questa differenza). L’ultima volta che ci siamo incontrati, Michel, con molta gen­ tilezza e affetto, mi ha detto più o meno: non posso sopportare la parola desiderio; anche se voi la impiegate in un altro modo, non posso evitare di pensare o di vivere il desiderio = mancanza, o che il desiderio si considera represso. Michel aggiungeva: forse chia­ mo «piacere» quello che voi chiamate «desiderio»; in ogni caso ho bisogno di una parola diversa da «desiderio». Evidentemente, ancora una volta, non si tratta solo di una que­ stione di parole. Perché, a mia volta, io non sopporto granché la parola «piacere». Ma per quale motivo ? Per me desiderio non com­ porta alcuna mancanza; tanto meno è un dato naturale; esso fa tutt’uno con un concatenamento di eterogenei che funziona; è un processo, diversamente da struttura o da genesi; è un affetto, di­ versamente da sentimento; è «ecceità» (individualità di una gior­ nata, di una stagione, di una vita), diversamente da soggettività; è un evento, diversamente da cosa o persona. E soprattutto impli­ ca la costituzione di un campo d’immanenza o di un «corpo senza organi», che è definito solo da zone di intensità, soglie, gradien­

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ti, flussi. Questo corpo è tanto biologico quanto collettivo e poli­ tico; su di lui si fanno e si disfano i concatenamenti, è lui che so­ stiene le punte di deterritorializzazione dei concatenamenti o le li­ nee di fuga. Esso varia (il corpo senza organi del feudalesimo non è lo stesso di quello del capitalismo). Lo chiamo corpo senza orga­ ni, perché si oppone a tutti gli strati di organizzazione, quelli del­ l’organismo ma anche alle organizzazioni di potere. Insomma, so­ lo l’insieme delle organizzazioni del corpo spezzeranno il piano o il campo d’immanenza, e imporranno al desiderio un altro tipo di «piano», una stratificazione continua del corpo senza organi. Se quello che dico è piuttosto confuso, è perché mi pongo nu­ merosi problemi rispetto a Michel: i) non posso dare al piacere al­ cun valore positivo, perché il piacere mi sembra interrompere il pro­ cesso immanente del desiderio; il piacere mi sembra collocarsi dal lato degli strati e dell’organizzazione; e nello stesso movimento il desiderio è presentato come sottomesso dal di dentro alla legge, e scandito dal di fuori dai piaceri. In entrambi i casi vi è negazione di un campo d’immanenza proprio del desiderio. Non è casuale che Michel attribuisca una certa importanza a Sade, e io invece a Masochg. Non basta dire che io sarei masochista e Michel sadico. Po­ trebbe andar bene, ma non è vero. Quello che mi interessa in Masoch non sono i dolori, ma l’idea che il piacere interrompa la positi­ vità del desiderio e la costituzione del suo campo d’immanenza (come avviene, secondo un’altra modalità, nell’amor cortese: la costituzio­ ne di un piano d’immanenza o di un corpo senza organi in cui al de­ siderio non manca nulla, e diffida per quanto possibile di quei pia­ ceri che potrebbero interrompere il suo processo). Il piacere mi sem­ bra il solo mezzo per una persona o un soggetto di «ritrovarsi» in un processo che lo supera, che lo eccede. E una riterritorializzazione. Dal mio punto di vista, è lo stesso modo in cui il desiderio è sotto­ messo alla legge della mancanza e alla norma del piacere. 2) In compenso, l’idea di Michel che i dispositivi abbiano con il corpo un rapporto immediato e diretto è essenziale. Per me, però, lo è in quanto essi impongono un’organizzazione ai corpi. Mentre il corpo senza organi è luogo o agente di deterritorializzazione (e perciò piano d’immanenza del desiderio), tutte le organizzazioni e tutto il sistema di quello che Michel chiama «biopotere» opera­ no delle riterritorializzazioni del corpo. * Allusione all’opera Presentation de Sacher-Masoch, Minuit, Paris 1967; trad. it. Ilfred­ do e il crudele, SE, Milano 1991 [NzZ.C.].

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3) Potrei pensare a equivalenze di questo tipo: quello che per me è «corpo senza organi-desideri» è per Michel «corpo-piaceri» ? La distinzione di cui mi parlava Michel, «corpo-carne», è tale che io possa metterla in rapporto con «corpo senza organi-organismo» ? C’è una pagina molto importante di La volontà di sapere sulla vita come ciò che offre uno statuto possibile alle forze di resistenza’. Questa vita, la stessa di cui parla Lawrence, non è per me in nes­ sun caso Natura, essa è precisamente il piano d’immanenza varia­ bile del desiderio, attraverso tutti i concatenamenti determinati. Concezione del desiderio in Lawrence, in rapporto con le linee di fuga positive. (Nota di dettaglio: la maniera in cui Michel si serve di Lawrence alla fine di La volontà di sapere è opposta alla manie­ ra con la quale la utilizzo io). Michel è davvero avanzato nel problema che ci occupa? Vale a dire: mantenere i diritti di una microanalisi (diffusione, eteroge­ neità, carattere parcellare) e allo stesso tempo trovare una sorta di principio di unificazione che non sia del tipo «stato», «partito», totalizzazione, rappresentazione? Innanzitutto dal lato del potere stesso: ritorno alle due direzio­ ni di Sorvegliare e punire, carattere diffuso e parcellare dei micro­ dispositivi, ma anche diagramma o macchina astratta che copre l’insieme del campo sociale. Mi sembra che in Sorvegliare e punire restasse comunque un problema: il rapporto tra queste due istan­ ze della microanalisi. Credo che tale questione cambi un po’ in La volontà di sapere: qui le due direzioni delle microanalisi saranno piuttosto da un lato le microdiscipline, dall’altro i processi biopo­ litici9 10. Lo volevo già dire all’inizio di questo testo. Ora, il punto di vista di Sorvegliare e punire suggeriva che il diagramma, irriducibile all’istanza globale dello stato, operasse forse una microunificazione dei piccoli dispositivi. Bisogna capire adesso che saranno i proces­ si biopolitici ad avere una tale funzione? Confesso che la nozione di diagramma mi sembrava molto ricca: la ritroverà davvero Mi­ chel su questo terreno nuovo ? Ma dal lato delle linee di resistenza, ovvero di quelle che io chiamo linee di fuga, come concepire i rapporti, le coniugazioni, i processi di unificazione ? Direi che il campo d’immanenza collet­ tivo, nel quale si costituiscono - a un momento dato - i concate­ namenti e dove tracciano le loro linee di fuga, descriva un vero e 9 M. Foucault, La volontà de savoir cit., p. 190; trad. it. p. 128. w Ibid., pp. 189 sgg.; trad. it. pp. 127 sgg.

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proprio diagramma. Bisogna allora trovare il concatenamento com­ plesso capace di effettuare questo diagramma, operando la con­ giunzione delle linee o delle punte di deterritorializzazione. Par­ lavo di macchina da guerra in questo senso, ed è del tutto diverso sia dall’apparato di stato e dalle istituzioni militari, sia dai dispo­ sitivi di potere. Avremmo allora, da una parte, stato-diagramma del potere (lo stato come apparato molare che realizza i microdati del diagramma in quanto piano di organizzazione); dall’altra par­ te, macchina da guerra - diagramma delle linee di fuga (macchina da guerra come concatenamento che realizza i microdati del dia­ gramma in quanto piano d’immanenza). Tuttavia mi fermo qui, perché continuare metterebbe in gioco due tipi di piani molto dif­ ferenti: una sorta di piano trascendente di organizzazione contro il piano immanente dei concatenamenti, e cosi ritorneremmo sui problemi precedenti. E dove non saprei più come collocarmi ri­ spetto alle più recenti ricerche di Michel. (Addendum: nei due stati opposti del piano o del diagramma, mi interessa soprattutto il loro scontro storico, che si dà in forme molto diverse. In un caso, abbiamo un piano di organizzazione e di sviluppo che è nascosto per natura, ma che fa vedere tutto ciò che è visibile. Nell’altro caso, abbiamo un piano d’immanenza, do­ ve ci sono soltanto velocità e lentezze, nessuno sviluppo, e dove tutto è visto, udito ecc. Il primo piano non si confonde con lo sta­ to, ma gli è legato; il secondo, invece, è legato a una macchina da guerra, a una chimera di macchina da guerra. A livello della natu­ ra, per esempio, Cuvier ma anche Goethe concepiscono il primo tipo di piano; Holderlin in Hyperion, ma ancor più Kleist conce­ piscono il secondo tipo. Di conseguenza, due tipi di intellettuali. Oppure, in musica, le due concezioni contrastanti di piano sono­ ro. Il nesso potere-sapere, come Michel lo analizza, potremmo for­ se spiegarlo cosi: i poteri implicano un piano-diagramma del pri­ mo tipo (per esempio la città greca e la geometria euclidea). Inver­ samente, dal lato dei contropoteri, e più o meno in rapporto con le macchine da guerra, c’è l’altro tipo di piano, delle specie di sa­ peri «minori» (la geometria archimedea; o la geometria delle cat­ tedrali che sarà ostacolata dallo stato); tutto un sapere delle linee di resistenza, che non ha la stessa forma dell’altro sapere.

12. Il ricco ebreo *

Il film di Daniel Schmid, L'ombra degli angeli, uscito in due sa­ le a Parigi (Mac-Mahon e Saint-André-des-Arts), è accusato di an­ tisemitismo. L’attacco, come sempre, è duplice, perché alcuni or­ ganismi riconosciuti esigono dei tagli o reclamano la censura, men­ tre gruppi anonimi minacciano e diffondono allarmi-bomba. Perciò diventa molto difficile parlare della bellezza, della novità e del­ l’importanza di questo film. Sembrerebbe quasi che si dicesse: il film è talmente bello da potergli perdonare un po’ di antisemiti­ smo... Il primo effetto di questo sistema di pressione, dunque, è che non soltanto il film rischia di sparire di fatto, ma sparisce già col pensiero, travolto da un problema assolutamente falso. Film antisemiti ce ne sono di certo. E si capisce come alcuni film possano irritare un certo gruppo per ragioni precise e deter­ minate. Qui, invece, ciò che segna il superamento di una soglia è l’inanità radicale dell’accusa. Sembra di sognare. E vero che le pa­ role «il ricco ebreo» sono spesso pronunciate per designare un per­ sonaggio. E non è privo di importanza che da tutto questo perso­ naggio emani un fascino esplicitamente «voluto» dal film. Schmid ha spiegato molto bene una delle caratteristiche principali del suo film: i volti sono in qualche modo accanto agli attori, e ciò che es­ si dicono, accanto ai volti. Al punto che lo stesso ricco ebreo può dire «il ricco ebreo». Gli attori attingono da un insieme di enun­ ciati e da un insieme di volti, che stabiliscono una serie di trasfor­ mazioni. Le parole «lo gnomo, il nano» designano un inquietante omone i cui gesti e la cui funzione sono proprio quelli di un nano. * In «Le Monde», 18 febbraio 1977, p. 26. Sul film di Daniel Schmid, L’ombra degli angeli (Schatten der Engel, Svizzera-Germania 1976). Dopo il divieto di proiezione di diver­ si film da parte del ministero della Cultura nel corso del 1976 e del film di Schmid il 13 febbraio 1977, una cinquantina di personalità, tra cui Deleuze, firmano una petizione per protestare contro «l’irresponsabilità che consiste nel non analizzare la struttura di un film» e contro «gli atti di violenza che vietano la visione di un film».

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Gli enunciati nazisti, le dichiarazioni antisemite si affiancano al personaggio anonimo che li pronuncia stravaccato su un letto; op­ pure provengono dalla bocca della cantante travestita che si dà il caso sia proprio un ex dignitario nazista. Chi sono i personaggi ? Perché bisogna pur cercare su che cosa pretende di basarsi la demente accusa di antisemitismo. C’è innan­ zitutto la prostituta tisica, figlia del dignitario nazista. C’è «il ric­ co ebreo», che ha fatto fortuna con il mercato immobiliare e che parla del mestiere che fa, sfratti, demolizioni, speculazioni. Il le­ game che si stringe tra i due deriva da un sentimento di grande paura, la paura per ciò che il mondo sta diventando. Da questa paura che li abita, la donna trae involontariamente una forza che turba tutti quelli che le si avvicinano e che fa si che, qualsiasi co­ sa faccia e per quanto gentile sia, la gente crede di sentirsi disprez­ zata da lei. Il ricco ebreo ne trae invece un’indifferenza al desti­ no, come una grazia che lo attraversa, una distanza che lo situa già in un altro mondo. Ombre di angeli. Entrambi hanno una poten­ za di trasformazione, perché possiedono questa forza e questa gra­ zia (cosi come la trasformazione del protettore). II «ricco ebreo» deve la sua ricchezza a un sistema che non è mai presentato come ebraico, bensì come quello della città, della municipalità e della polizia; in compenso, trae la sua grazia da altrove. La prostituta deve la sua condizione al crollo del nazismo, ma la sua forza la prende altrove. I due sono i soli «viventi» vulnera­ bili nella città, nella Necropolis. Soltanto l’ebreo sa di non essere disprezzato dalla donna, né minacciato dalla sua forza. Soltanto la donna conosce l’ebreo e sa da dove viene la sua grazia. Alla fine lei chiede all’ebreo di ucciderla, perché è stanca e non ha più vo­ glia di questa forza che le sembra non servire a nulla. Lui va dalla polizia, si fa ancora proteggere da essa in nome del sistema immo­ biliare, ma non ha più voglia di questa grazia che diventa strana­ mente maldestra, incerta. Vedere le immagini sullo schermo: tut­ to ciò è il contenuto esplicito del film. Dov’è l’antisemitismo? Dove potrebbe essere? Ci stropiccia­ mo gli occhi, lo cerchiamo. E la parola «ricco ebreo» ? D’accordo, è una parola molto importante nel film. Nelle famiglie perbene, fi­ no a poco tempo fa, non si doveva pronunciare la parola «ebreo», si diceva «israelita». Ma erano appunto famiglie antisemite. E che dire di un ebreo che non è israelita, né israeliano e nemmeno sio­ nista? Che dire di Spinoza, il filosofo ebreo, escluso dalla sinago­ ga, figlio di ricchi commercianti, e il cui genio, la cui forza e il cui

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charme non erano privi di rapporto con il fatto di essere ebreo e di dichiararsi ebreo? E come vietare una parola del dizionario: la Lega contro l’antisemitismo dichiara antisemiti tutti quelli che pro­ nunciano la parola «ebreo» (a meno che ciò non avvenga nelle con­ dizioni rituali di un discorso rivolto ai morti). La Lega rifiuta ogni dibattito pubblico e si riserva il diritto di decidere, senza alcuna spiegazione, ciò che è antisemita e ciò che non lo è ? Schmid ha spiegato la sua intenzione politica, e il film non smet­ te di mostrarla, nella maniera più semplice ed evidente. Il vecchio fascismo, per quanto attuale e potente possa essere in molti paesi, non è il nuovo problema attuale. Si preparano altri fascismi. Si sta installando tutto un neofascismo rispetto al quale il fascismo pas­ sato è una figura folcloristica (il cantante travestito nel film). In­ vece di essere una politica e un’economia di guerra, il neofascismo è un accordo mondiale per la sicurezza, per la gestione di una «pa­ ce» non meno terribile, con un’organizzazione concertata di tut­ te le piccole paure, di tutte le piccole angosce che fanno di noi al­ trettanti microfascisti, incaricati di mettere a tacere ogni cosa, ogni volto, ogni parola un po’ forte, nella propria via, nel proprio quar­ tiere, nel proprio cinema. «Non mi piacciono i film sul fascismo degli anni Trenta. II nuovo fascismo è talmente più raffinato, più dissimulato. Forse, come nel film, è il motore di una società in cui i problemi sociali magari sono regolati, ma in cui la questione del­ l’angoscia è soltanto soffocata»1. Se il film di Schmid è vietato o boicottato, non sarà una vitto­ ria per la lotta contro l’antisemitismo. Sarà invece una vittoria per un neofascismo, e il primo caso in cui si potrà dire: ma alla fine, dovunque esso fosse, non era forse solo un pretesto, l’ombra di un pretesto ? Qualcuno si ricorderà della bellezza del film, della sua importanza politica e del modo in cui sarà stato eliminato. 1 Intervista a D. Schmid, in «Le Monde», 3 febbraio 1977.

*3A proposito dei nuovi filosofi e di un problema più generale*

Che cosa ne pensi dei «nuovi filosofi»? Nulla. Credo che il loro pensiero sia nullo. Per due ragioni pos­ sibili, a mio parere: innanzitutto procedono per concetti estremamente grossolani, la legge, il potere, il padrone, il mondo, la ri­ bellione, la fede ecc. In questo modo possono far nascere miscu­ gli grotteschi, dualismi sommari: la legge e il ribelle, il potere e l’angelo. Al tempo stesso, più è fragile il contenuto del pensiero, più acquista importanza il pensatore, e tanto più grande è l’impor­ tanza che si attribuisce il soggetto d’enunciazione rispetto agli enun­ ciati vuoti («io, in quanto lucido e coraggioso, vi dico..., io, in quanto soldato di Cristo..., io, della generazione perduta..., noi, che abbiamo fatto il ’68..., noi, che non ci lasciamo più inganna­ re dalle apparenze... »). Con questi due procedimenti rendono va­ na ogni fatica. Già da parecchio tempo e in tutti gli ambiti, infat­ ti, si lavora proprio per evitare questo genere di pericoli. Si cerca di formare dei concetti dalle articolazioni sottili, o molto differen­ ziate, proprio per sfuggire a grossolane nozioni dualistiche. Si cer­ ca inoltre di liberare delle funzioni creatrici che non passino più at­ traverso la funzione-autore (in musica, in pittura, negli audiovisi­ vi, nel cinema, persino in filosofia). Questo massiccio ritorno a un autore o a un soggetto vuoto alquanto vanitoso, e a concetti som­ mari stereotipati, rappresenta una sgradevole forza reazionaria. Ma è in sintonia con la riforma Haby: un serio ridimensionamen­ to del «programma» di filosofia. Parli cosi perché tu e Guattari siete stati violentemente attaccati da Bemard-Henri Lévy nel suo libro «La barbarie dal volto umano»' ? * Supplemento a «Minuit», maggio 1977, n. 24 (trad. it. di Stefano Giovanardi, Pao­ la Poni e Gianluca Spadoni, in AA. W., 1 nuovi filosofi, Lerici, Cosenza 1978). Il testo, datato 5 giugno 1977, fu distribuito gratuitamente nelle librerie in reazione alla massiccia promozione di numerosi libri di polemisti, riuniti sotto l’etichetta di «nuova filosofia». 1 B.-H. Lévy, La barbarica visagehumain, Grasset, Paris 1977; trad. it. La barbarie dal volto umano, Marsilio, Venezia 1977 [N J.C.].

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No, no, no. Levy dice che c’è un profondo legame tra L’antiEdipo e «l’apologià del marcio sul letamaio della decadenza» (è co­ si che si esprime), un legame profondo tra L’anti-Edipo e i droga­ ti. Perlomeno questo farà ridere i drogati. Dice anche che il Cerfi2*è razzista: davvero ignobile. Era da tempo che volevo parlare dei nuovi filosofi, ma non sapevo come. Avrebbero subito detto: guardate come è geloso del nostro successo. E il loro mestiere at­ taccare, rispondere, rispondere alle risposte. Da parte mia, lo farò una volta sola. Poi non ribatterò più. Ciò che mi ha convinto a in­ tervenire è stato il libro di Aubral e Delcourt, Contro i nuovi filo­ sofi0. Aubral e Delcourt tentano davvero di analizzare questo pen­ siero e giungono a risultati molto comici. Hanno fatto un bel libro corroborante, sono stati i primi a protestare. Hanno perfino affron­ tato i nuovi filosofi in televisione, nella trasmissione «Apostrophes». Allora, per parlare come il nemico, un Dio mi ha detto che era ne­ cessario che seguissi Aubral e Delcourt, con lo stesso coraggio luci­ do e pessimista. Se è un pensiero fondato sul nulla, come si spiega che riscuota tanto successo, si diffonda e riceva tante adesioni, come quella di Sollers? Ci sono parecchi problemi, molto diversi tra loro. Innanzitut­ to in Francia siamo vissuti per molto tempo con una certa moda letteraria delle «scuole». E una scuola è già di per sé terribile: c’è sempre un papa, manifesti, dichiarazioni del tipo «io sono l’avan­ guardia», scomuniche, tribunali, rivolgimenti politici ecc. In linea generale ha più ragione chi ha passato la vita a sbagliare, perché può sempre dire «io ci sono passato». Per questo solo gli stalinisti sono in grado di dare lezioni di antistalinismo. Ma in ogni caso, qualunque sia la miseria delle scuole, non si può dire che i nuovi filosofi siano una scuola. Sono dei veri innovatori: invece di fare una scuola, hanno introdotto in Francia il marketing letterario e filosofico. Il marketing ha i suoi principi particolari: i) bisogna che si parli di un libro, e che se ne faccia parlare, più di quanto il libro stesso parli o abbia da dire. Al limite, è necessario che gli in­ numerevoli articoli di giornali, interviste, colloqui, trasmissioni ra­ diotelevisive rimpiazzino completamente il libro, che potrebbe an­ che non esistere affatto. Per questo il lavoro a cui si dedicano i

2 II Cerfi è il Centro studi di ricerca e formazione istituzionale di cui Felix Guattari era uno dei maggiori responsabili [Nz/.C], i F. Aubral e X. Delcourt, Cantre la nouveUe philosophic, Gallimard, Paris 1977; trad, it. Contro i nuovi filosofi, Mursia, Milano 1978 [Nz/.C.].

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nuovi filosofi non riguarda tanto i libri da scrivere, ma gli artico­ li da ottenere, i giornali e le trasmissioni da occupare, le intervi­ ste da piazzare, i dossier da fare, un numero di «Playboy». Tutta un’attività che, a questo livello e a questo grado di organizzazio­ ne, sembra esclusa dalla filosofia, o sembra escludere la filosofia. 2) Inoltre, dal punto di vista del marketing, è necessario che lo stesso libro o lo stesso prodotto abbiano diverse versioni, in mo­ do da convenire a tutti: una versione pia, una atea, una heidegge­ riana, una gauchista, una centrista, anche una per i sostenitori di Chirac e per i neofascisti, e per una «unione di sinistra» un po’ annacquata e cosi via. Di qui l’importanza di una distribuzione dei ruoli a seconda dei gusti. In Clavel c’è qualcosa del dottor Mabu­ se, un dottor Mabuse evangelico, Jambet e Lardreau sono Spòrri e Pesch, i due aiutanti di Mabuse (che vorrebbero «prendere per il collo» Nietzsche)4. Benoist è Nestor, il fattorino. Levy è ora l’im­ presario, ora la script-girl, ora l’allegro animatore, ora il disc-jockey. Per Jean Cau tutto ciò va perfettamente bene; Fabre-Luce si fa di­ scepolo di Glucksmann; si ripubblica Benda, per le virtù del chie­ rico. Che strana costellazione. Sollers era stato l’ultimo in Francia a fare una scuola ancora vecchia maniera, con tanto di papismo, scomuniche, tribunali5. Im­ magino che, una volta capito il senso di questa nuova impresa, egli si sia detto che avevano ragione, che doveva farseli alleati, che sa­ rebbe stato sciocco lasciarsi scappare questa occasione. Arriva tar­ di, ma ha comunque fatto in tempo ad accorgersene. Poiché que­ sta storia del marketing applicato al libro di filosofia è davvero una novità, un’idea che «bisognava» avere. Il fatto che i nuovi filoso­ fi restaurino una funzione-autore vuota e che procedano attraver­ so concetti cavi, tutta questa reazione non impedisce un profon­ do modernismo, un’analisi adeguata del mercato e del panorama in cui siamo. Perciò credo che qualcuno possa anche provare una curiosità benevola per questa operazione, da un punto di vista me­ ramente naturalistico o entomologico. Per me è diverso, perché il mio punto di vista è teratologico: è l’orrore. Se è solo una questione di marketing, come spieghi che ci sia stato bisogno di aspettare proprio loro e che solo ora T operazione rischi di riuscire? 4 II riferimento è alla serie di film incentrati sul personaggio del dottor Mabuse, inau­ gurata da Fritz Lang nel 1922 con Dr. Mabuse, der Spieler [NJT.l. ’ Allusione al gruppo costituito intorno alla rivista «Tel Quel», di cui Philippe Sollers era uno dei principali animatori [Nz/.C.J.

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Per molte ragioni, che ci scavalcano e scavalcano essi stessi. Re­ centemente André Scala ha analizzato un certo rovesciamento nei rapporti tra giornalisti e scrittori, tra stampa e libro. Il giornali­ smo, assieme alla radio e alla televisione, ha preso coscienza sem­ pre più lucidamente della sua possibilità di creare l’evento (le fu­ ghe controllate, il Watergate, i sondaggi?) E poiché aveva sempre meno bisogno di riferirsi a eventi esterni, vista la sua capacità di crearne in gran parte, aveva anche meno bisogno di confrontarsi con analisi esterne al giornalismo, o con personaggi come l’«intel­ lettuale» e lo «scrittore»: il giornalismo scopriva in se stesso un pen­ siero autonomo e autosufficiente. E per questo che, al limite, un li­ bro vale meno dell’articolo di giornale che ne parla, o dell’intervi­ sta cui dà luogo. Gli intellettuali, gli scrittori e persino gli artisti sono perciò esortati a diventare giornalisti se vogliono conformar­ si alle norme. E un nuovo tipo di pensiero, il pensiero-intervista, il pensiero-conversazione, il pensiero-espresso. E immaginabile un libro che verte su un articolo di giornale, non più il contrario. I rapporti di forza tra giornalisti e intellettuali sono completamen­ te mutati. Tutto è cominciato con la televisione e i numeri da circo a cui gli intervistatori hanno sottoposto gli intellettuali condiscen­ denti. Il giornale non ha più bisogno del libro. Non sto dicendo che questo rovesciamento, questo addomesticamento dell’intellettua­ le, questa «giornalizzazione» siano una catastrofe. E successo che nel momento stesso in cui la scrittura e il pensiero tendevano ad abbandonare la funzione-autore, nel momento in cui le creazioni non passavano più per la funzione-autore, questa veniva ripresa dalla radio, dalla televisione e dal giornalismo. I giornalisti diven­ tavano i nuovi autori e gli scrittori che volevano ancora essere au­ tori dovevano passare attraverso i giornalisti, oppure diventare giornalisti di se stessi. Una funzione caduta in un certo discredito ritornava a essere moderna e ritrovava un nuovo conformismo, semplicemente cambiando luogo e oggetto. E questo che ha reso possibili le iniziative di marketing intellettuale. Quale altro uso si fa oggi della televisione, della radio o dei giornali ? Ma allora la questione non riguarda più i nuovi filosofi. Vorrei invece parlare ancora di loro. C’è anche un’altra ragione. Siamo già da molto tempo in pe­ riodo elettorale. Ma le elezioni non sono circoscrivibili a un luogo o corrispondenti a una data. Sono piuttosto come una griglia che condiziona ogni giorno il nostro modo di comprendere e persino di percepire. Riduciamo tutti gli eventi e tutti i problemi a questa

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griglia deformante. Le condizioni particolari in cui si inquadrano oggi le elezioni fanno si che si alzi il livello di imbecillità. Fin da subito i nuovi filosofi si sono inscritti proprio su questa griglia. Non importa che alcuni di loro si siano schierati immediatamente contro l’unione delle sinistre, mentre altri avrebbero desiderato ardentemente fornire a Mitterrand un ulteriore trust di cervelli. Le due tendenze si sono omogeneizzate in un’ostilità generale ver­ so la sinistra, ma soprattutto a partire da un tema già presente nei loro primi libri: l’odio per il ’68. Era una gara a chi sputava me­ glio sul maggio ’68. E proprio in funzione di quest’odio hanno co­ struito il loro soggetto d’enunciazione: «Noi, che abbiamo fatto il ’68 ( ? ?), possiamo dirvi che è stata una grossa scemenza e che non lo rifaremo più». L’unica cosa che hanno da vendere è un certo rancore verso il ’68. In questo senso, qualunque sia la loro posi­ zione rispetto alle elezioni, si inscrivono perfettamente sulla gri­ glia elettorale. A partire da questo, tutto tramonta, marxismo, maoismo, socialismo ecc., e non perché le lotte reali potrebbero aver fatto sorgere nuovi nemici, nuovi problemi e nuovi strumen­ ti, ma perché è la rivoluzione stessa a essere dichiarata impossibi­ le, in ogni condizione e in ogni tempo. Proprio per questo motivo tutti i concetti che cominciavano a funzionare in modo molto dif­ ferenziato (i poteri, le resistenze, i desideri, persino la «plebe») sono di nuovo globalizzati, riuniti nella scialba unità del potere, della legge, dello stato ecc. Per lo stesso motivo anche il Soggetto pensante ritorna sulla scena, perché l’unica rivoluzione possibile, per i nuovi filosofi, è l’atto puro del pensatore che la pensa impos­ sibile. Ciò che mi disgusta è molto semplice: i nuovi filosofi mettono in atto una vera e propria martirologia, compresi il gulag e le vit­ time della storia. Vivono di cadaveri. Hanno scoperto la funzio­ ne-testimone, che fa tutt’uno con quella di autore o di pensatore (vedi il numero di «Playboy» in cui si dice: i testimoni siamo noi...) Ma non ci sarebbero mai state vittime se queste avessero pensato o parlato come loro. Le vittime hanno dovuto pensare e vivere in tutt’altro modo per fornire del materiale a chi ora pian­ ge, pensa e dà lezioni in loro nome. Chi rischia la vita di solito pen­ sa in termini di vita, e non di morte, di amarezza e di morbosa va­ nità. Chi riesce a resistere è innanzitutto un vivente. Nessuno è mai stato incarcerato per la sua impotenza e il suo pessimismo, semmai il contrario. Dal punto di vista dei nuovi filosofi, le vitti­ me ci sono state perché gli era sfuggito ciò che invece loro hanno

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capito. Se facessi parte di un’associazione, sporgerei querela con­ tro i nuovi filosofi, che disprezzano un po’ troppo gli abitanti del gulag. La tua denuncia del marketing vuole forse dire che sei a favore del­ la vecchia concezione del libro, o delle scuole vecchia maniera? Assolutamente no. Non c’è bisogno di una simile scelta: o il marketing o la vecchia maniera. E una falsa alternativa. Tutto ciò che è vivo, oggi, sfugge a un’alternativa di questo genere. Guar­ diamo come lavorano i musicisti, come si lavora nell’ambito delle scienze, come cercano di lavorare alcuni pittori, come organizza­ no il loro lavoro alcuni geografi (cfr. la rivista «Hérodote»). Il pri­ mo aspetto sono gli incontri. Non intendo i colloqui o i dibattiti, ma il fatto che chi lavora in un campo si incontra con chi lavora in un campo completamente diverso, come se la soluzione venisse sempre da fuori. Non si tratta di comparazioni o di analogie intel­ lettuali, ma di intersezioni effettive, di incroci di linee. Per esem­ pio (è un esempio importante, visto che i nuovi filosofi parlano spesso di storia della filosofia), André Robinet tenta oggi di rin­ novare la storia della filosofia mediante l’uso dei computer; per­ ciò si incontra per forza con Xenakis. Il fatto che dei matematici siano in grado di far evolvere o di modificare un problema di tutt’altra natura, non significa che quel problema riceva una so­ luzione matematica, ma che comporti una sequenza matematica che si coniuga con altre sequenze. E incredibile il modo in cui i nuovi filosofi trattano «la» scienza. Far incontrare il proprio lavo­ ro con quello dei musicisti, dei pittori o degli scienziati è l’unica combinazione attuale che non rimandi né alle vecchie scuole né a un nuovo marketing. Sono punti singolari che costituiscono dei fo­ colai di creazione, delle funzioni creatrici indipendenti dalla fun­ zione-autore, staccati da essa. Ciò non vale soltanto per gli incro­ ci tra campi diversi: ogni campo, ogni sua parte, per quanto pic­ cola sia, è già di per sé fatta di tali incroci. I filosofi devono scaturire dappertutto: non perché la filosofia dipenda da una sag­ gezza popolare diffusa, ma nel senso che si produce in ogni incon­ tro, nel momento stesso in cui essa definisce un nuovo uso, una nuova posizione di concatenamenti - musicisti selvaggi e radio pi­ rata. Ebbene, ogni volta che le funzioni creatrici disertano in tal modo la funzione-autore, si vede quest’ultima rifugiarsi in un nuo­ vo conformismo da «promotion». Tutta una serie di battaglie più o meno visibili: il cinema, la radio, la televisione rappresentano la possibilità delle funzioni creatrici che hanno destituito l’Autore;

A proposito dei nuovi filosofi e di un problema piu generale

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ma la funzione-autore si ricostituisce al riparo degli usi conformi­ sti di questi media. Non a caso le grandi società di produzione ri­ cominciano a incoraggiare un «cinema d’autore»; Jean-Luc Go­ dard, allora, trova il sistema di far passare la creazione attraverso la televisione; ma la potente organizzazione televisiva ha, a pro­ pria volta, le sue funzioni-autore con cui impedisce la creazione. Quando la letteratura, la musica ecc. conquistano nuovi campi di creazione, la funzione-autore si ricostituisce nel giornalismo, che soffocherà le proprie funzioni creatrici e quelle della letteratura. Torniamo ai nuovi filosofi: in realtà non hanno fatto altro che ren­ dere di nuovo soffocante, asfissiante, un ambiente dove prima fil­ trava un po’ di aria. E la negazione di ogni politica e di ogni spe­ rimentazione. In breve, ciò di cui li accuso è di fare un lavoro me­ schino, che si inserisce in un nuovo tipo di rapporto stampa-libro completamente reazionario: certamente nuovo, ma conformista al più alto grado. Tuttavia non sono i nuovi filosofi che contano. An­ che se svanissero domani, la loro iniziativa di marketing sarebbe comunque ripresa. Essa rappresenta, infatti, la sottomissione di ogni pensiero ai media; allo stesso tempo, conferisce ai media quel minimo di garanzia e tranquillità intellettuali per soffocare i ten­ tativi di creazione che li costringerebbero a darsi una mossa. Quan­ ti più saranno i dibattiti cretini in televisione e i film d’autore nar­ cisistici, tanto meno sarà possibile la creazione, in televisione e al­ trove. Vorrei proporre una carta degli intellettuali, nella loro situazione attuale rispetto ai media, che tenga conto dei nuovi rap­ porti di forza: rifiutarsi, far valere delle esigenze, divenire produt­ tori, invece di essere autori a cui non resta altro che l’insolenza dei domestici o la risata di un clown di servizio. Beckett e Godard hanno saputo tirarsene fuori e creare in due modi molto diversi: ci sono molte possibilità nel cinema, negli audiovisivi, nella musi­ ca, nelle scienze, nei libri... Ma i nuovi filosofi sono proprio il mor­ bo che cerca di impedire tutto questo. Attraverso di loro non pas­ sa niente di vivo, ma avranno svolto la loro funzione se riusciran­ no a tenere la scena abbastanza a lungo da riuscire a mortificare qualcosa.

*4Il modo peggiore di fare l’Europa *

Il governo tedesco ha chiesto l’estradizione di Klaus Croissant. La chambre d’accusation' francese deve esaminare il caso il 2 no­ vembre. Perché questo giudizio dovrebbe essere un evento di im­ mensa importanza ? Il governo tedesco ha inviato un primo dossier, e poi ne ha in­ viati numerosi altri. Innanzitutto, esso accusa Croissant di esser­ si comportato da avvocato, cioè di avere fatto conoscere la condi­ zione di detenzione dei carcerati di Stuttgart, i loro scioperi della fame, i rischi di omicidio che gravavano su di essi, le motivazioni dei loro atti. Lo accusa inoltre di aver intrattenuto rapporti con terroristi o presunti terroristi (si diceva lo stesso anche degli av­ vocati francesi del Fronte di liberazione nazionale). E lecito pen­ sare che il governo francese abbia segnalato al governo tedesco l’i­ nanità del primo dossier, e che il governo tedesco abbia subito in­ viato altri documenti facendo tutti gli amalgami possibili ? Tuttavia, se la decisione della chambre df accusation ha un’im­ portanza cosi grande, non è solo perché i motivi a sostegno dell’e­ stradizione sembrano essere politici e perfino di opinione. E nem­ meno soltanto perché, nelle condizioni attuali, estradare Klaus Croissant vorrebbe dire consegnarlo a un paese il cui regime giu­ ridico è diventato d’eccezione, e in cui in prigione rischierebbe * Con Félix Guattari. In «Le Monde», 2 novembre 1977, p. 6. Questo articolo inter viene nella questione in seguito alla domanda di estradizione di Klaus Croissant, avvoca­ to di alcuni membri del gruppo terrorista rivoluzionario, la «banda Baader-Meinhof » (Ro­ te Armee Fraktion). Croissant, che si era rifugiato in Francia il io luglio precedente, vie­ ne arrestato a Parigi il 30 settembre. Il procuratore Rebmann lo accusa di aver «organizzato nel suo studio la riserva operativa terrorista della Germania occidentale». Il suo studio sa­ rebbe stato «il luogo in cui avveniva la preparazione degli attentati». Nonostante le forti proteste e le manifestazioni in Germania, Francia e Italia, la chambre d'accusation della Corte d’appello di Parigi si pronuncerà a favore deH’estradizione il 16 novembre. Crois­ sant sarà estradato in tutta fretta il giorno dopo. 1 Sezione istruttoria della Corte d’appello francese [Nz/.T.].

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una rapida eliminazione2*(che cosa gli accadrebbe se in Germania si compissero nuove azioni terroristiche ?) Sarebbe già sufficiente questo, ma c’è un’altra cosa ancora. In funzione degli avvenimenti recenti, il governo tedesco ha acquisi­ to una posizione di forza rispetto agli altri governi europei e an­ che rispetto ad alcuni governi africani. E in condizione di ordina­ re ai governi di allinearsi alla sua particolare politica di repressio­ ne, o di lasciare che la sua polizia operi sul loro territorio (cfr. richieste agli aeroporti di Barcellona, Algeri, Dakar ecc.). Dà le­ zioni agli altri governi; stranamente soltanto l’Italia è risparmia­ ta, al momento, forse a causa del caso Kappler1. La stampa tede­ sca è nella situazione di far riprodurre i suoi articoli da alcuni quo­ tidiani francesi, che li ricopiano senza ammetterlo: « France-Soir» come edizione provinciale del gruppo Springer; proposta di D’Ormesson su «Le Figaro» riguardo alla necessità di reagire a ogni at­ to di terrorismo uccidendo i detenuti di cui viene reclamata la li­ berazione. Si fa una cospirazione del silenzio rispetto ai due so­ pravvissuti del Boeing e di Stuttgart, le cui dichiarazioni, tuttavia, sarebbero elementi essenziali di ogni inchiesta. In breve, la Germania occidentale è in condizione di esporta­ re il suo modello giudiziario, poliziesco e «informativo», e di di­ ventare l’organizzatore qualificato della repressione e dell’intossi­ cazione negli altri paesi. E in questo contesto che la decisione del­ la chambre d’accusation assumerà tutta la sua importanza. Se desse l’autorizzazione a estradare Croissant, abbandonerebbe la sua giu­ risprudenza recente e favorirebbe al tempo stesso, volente o no­ lente, l’importazione del modello statale e giudiziario tedesco. In Germania il governo e la stampa fanno di tutto per suggeri­ re che i prigionieri di Stuttgart si sono uccisi, «come» fecero alcu­ ni capi nazisti: per fedeltà a una scelta demoniaca, per disperazio­ ne di chi ha perso la partita e si è messo al bando della società. Si parla stupidamente di «dramma wagneriano». E allo stesso tem­ po il governo tedesco si fa passare per tribunale di Norimberga. Perfino alcuni giornali di sinistra in Francia si allineano e si chie­ dono se Baader sia il figlio di Hitler, o magari il figlio di Schleyer stesso4. Anche a costo di cercare delle filiazioni, sarebbe più sem2 Andreas Baader e altri due membri della «banda» si erano suicidati il 18 ottobre nel­ le loro celle, in condizioni considerate sospette da alcuni [Nx/.C.]. 1 La Germania si rifiutava di estradare il criminale Kappler che era ritornato in Ger­ mania dopo essere evaso dall’Italia dove era stato condannato [N d C.]. 4 Hanns-Martin Schleyer era il presidente della Confindustria tedesca. Dopo essere

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plice ricordare che la questione della violenza, nonché del terrori­ smo, non ha mai smesso di agitare il movimento rivoluzionario e operaio fin dal secolo scorso, in forme molto diverse, come rispo­ sta alla violenza imperialista. Le stesse questioni si pongono oggi rispetto alle popolazioni del Terzo Mondo, a cui Baader e il suo gruppo si richiamavano, dal momento che consideravano la Ger­ mania un agente essenziale della loro oppressione. I detenuti di Stuttgart non erano uomini di potere fascisti, e nemmeno uomini che spingevano al fascismo in modo provocatorio. Cosi come il go­ verno tedesco non è un tribunale di Norimberga, e la chambre fran­ cese non è una sottosezione di questo tribunale. Croissant non de­ ve essere vittima di accuse senza prove, né della campagna stam­ pa che attualmente si sta facendo. Sono tre le cose che ci inquietano prima di tutto: la possibilità che molti uomini di sinistra tedeschi, in un sistema organizzato di delazione, vedano diventare intollerabile la propria vita in Ger­ mania e siano obbligati a lasciare il loro paese. Inversamente, la possibilità che Croissant sia consegnato e rinviato in Germania, dove rischia il peggio, oppure semplicemente espulso da un paese di sua «scelta» che non lo accetta più. Infine, la prospettiva che l’Europa intera passi sotto questo tipo di controllo reclamato dal­ la Germania. stato rapito e sequestrato da alcuni membri della Rote Armee Fraktion che, in cambio del la sua liberazione, chiedevano l’assoluzione di una decina di membri della loro organizza­ zione, Schleyer fu trovato morto il 20 ottobre 1977 [N J.C.].

T5Due domande sulla droga *

Solo due domande. Della droga, vediamo bene che non sappia­ mo cosa farne (come pure dei drogati), ma non sappiamo nemmeno come parlarne. A volte invochiamo dei piaceri, difficili da descrive­ re, e che presuppongono già la droga. A volte, invece, invochiamo delle causalità troppo generiche, estrinseche (considerazioni socio­ logiche, problemi di comunicazione e di incomunicabilità, condi­ zione dei giovani ecc.). La prima domanda potrebbe essere: c’è una causalità specifica della droga, e possiamo ricercarla in questa dire­ zione ? Causalità specifica non vuol dire «metafisica», e nemmeno esclusivamente scientifica (per esempio chimica). Non è un’infra­ stnittura che sarebbe la causa di tutto il resto. Bisognerebbe piut­ tosto tracciare un territorio, o il contorno di un insieme-droga, che starebbe in relazione, da una parte con l’interno, con i diversi ti­ ri di droghe, e dall’altra con l’esterno, con le causalità più generai. Prendo un esempio da un ambito completamente diverso, quelo della psicoanalisi. Tutto ciò che possiamo dire contro la psicoa­ nalisi non annulla il seguente fatto: che essa ha cercato di stabilire la causalità specifica di un ambito, non soltanto l’ambito delle ne­ vrosi, ma di tutti i tipi di formazioni e produzioni psico-sociali (so­ gni, miti...) In maniera molto sommaria si può dire che essa ha tracciato tale causalità specifica in questo modo: far vedere come il desiderio investe un sistema di tracce mnestiche e di affetti. Non si tratta di sapere se questa causalità specifica fosse giusta: si era comunque alla ricerca di una tale causalità. In questo modo la psi­ coanalisi ci ha tirati fuori da considerazioni troppo generali, an­ che se è ricaduta in altre mistificazioni. Lo scacco della psicoana­ lisi rispetto ai fenomeni della droga mostra molto bene come nel­ * Titolo redazionale: Deux questions, in F. Chàtelet, G. Deleuze, E. Genevois, F. Guattari, R. Ingold, N. Musard, C. Olievenstein, ... ou il est question de la toxicomanie, Bibliothèque des mots perdus, Alencon 1978.

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la droga si tratti di una causalità del tutto diversa. Ma la mia do­ manda è: si può concepire una causalità specifica della droga, e in quali direzioni ? Per esempio, nella droga, ci sarebbe qualcosa di molto particolare, e cioè che il desiderio investirebbe direttamente il sistema-percezione. Sarebbe quindi completamente diverso. Per percezione bisogna intendere le percezioni interne non meno di quelle esterne, e in particolare le percezioni spazio-temporali. Le distinzioni tra diversi tipi di droghe sono secondarie, interne a questo sistema. Mi sembra che, a un certo punto, le ricerche an­ dassero in questo senso: quelle di Michaux, in Francia, e, secon­ do altre modalità, quelle della beat generation, in America, cosi co­ me quelle di Castaneda ecc. In che modo tutte le droghe riguarda­ no innanzitutto le velocità, le modificazioni di velocità, le soglie di percezione, le forme e i movimenti, le micropercezioni, la per­ cezione che diventa molecolare, i tempi sovraumani o subumani ecc. E in che modo il desiderio entra direttamente nella percezio­ ne, investe direttamente la percezione (da cui il fenomeno della desessualizzazione nella droga). Un simile punto di vista permet­ terebbe di trovare il legame con le causalità esterne più generali, senza tuttavia perdervisi: cosi il ruolo della percezione, la solleci­ tazione della percezione nei sistemi sociali attuali, che fa dire a Phil Glass che, in ogni caso, la droga ha cambiato il problema del­ la percezione, anche per chi non si droga. E inoltre un punto di vista di questo genere permetterebbe di dare la massima impor­ tanza alle ricerche chimiche, senza il rischio, tuttavia, di cadere in una concezione «scientista». Ma se è vero che siamo andati nella direzione di un sistema autonomo Desiderio-Percezione, perché og­ gi sembra che abbiamo almeno parzialmente abbandonato questa direzione, specialmente in Francia ? I discorsi sulla droga, fatti dai drogati cosi come dai non drogati, dai medici e da chi ne fa uso, sono ricaduti in una grande confusione. Oppure è un’impressione falsa, e non va cercata una causalità specifica? Quel che mi sem­ bra importante nell’idea di una causalità specifica è che essa è neu­ tra e vale sia per l’uso delle droghe sia per una terapeutica. La seconda domanda vorrebbe che si desse conto della «svol­ ta» della droga, del momento in cui sopraggiunge questa svolta. Giunge necessariamente molto in fretta, e in modo tale che lo scac­ co o la catastrofe facciano necessariamente parte del piano-droga ? E come un movimento «a gomito». Il drogato produce le sue linee di fuga attive. Ma queste linee si avvolgono su se stesse, si metto­ no a roteare in buchi neri, ogni drogato dentro il suo buco, grup­

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po o individuo che sia, come un mollusco dentro una conchiglia. Infossato piuttosto che dissestato. Guattari ne ha parlato. Le mi­ cropercezioni sono ricoperte in anticipo, a seconda della droga con­ siderata, da allucinazioni, deliri, false percezioni, fantasmi, acces­ si paranoici. Artaud, Michaux, Burroughs, che se ne intendevano, odiavano queste «percezioni fallaci», questi «cattivi sentimenti», che sembravano loro al tempo stesso un tradimento ma anche una conseguenza inevitabile. E qui, inoltre, che si perde ogni control­ lo e che si instaura il sistema della dipendenza abietta, dipenden­ za dal prodotto, dalla dose, dalle produzioni fantomatiche, dipen­ denza dallo spacciatore ecc. Bisognerebbe distinguere due cose, in astratto: tutto l’ambito delle sperimentazioni vitali da quello del­ le imprese mortifere. C’è sperimentazione vitale quando un ten­ tativo qualunque vi afferra, si impadronisce di voi, instaurando connessioni sempre più numerose, aprendovi alle connessioni: una tale sperimentazione può comportare una sorta di autodistruzione, e può passare attraverso prodotti complementari o di stimolo, co­ me il tabacco, l’alcol, le droghe. Non è suicida, perché il flusso di­ struttore non si ripiega su se stesso, ma serve alla coniugazione di altri flussi, qualunque siano i rischi. Al contrario, l’impresa suici­ da si verifica quando tutto si ripiega su un unico flusso: la «mia» dose, la «mia» seduta, il «mio» bicchiere. E il contrario delle con­ nessioni, è la sconnessione organizzata. Invece di un «motivo» che serve ai veri temi, alle attività, un unico sviluppo piatto, come in una trama stereotipata, in cui la droga è per la droga e compie un suicidio idiota. Non c’è altro che una linea unica, ritmata dai seg­ menti «smetto di bere - ricomincio a bere», «non sono più droga­ to - quindi posso riprendere». Bateson ha fatto vedere come il «non bevo più» faccia strettamente parte dell’alcolista, perché è la prova effettiva che adesso può ricominciare a bere1. Lo stesso vale per il drogato, che non cessa di smettere perché questa è la prova che è capace di ricominciare. Il drogato, in questo senso, è il perenne disintossicato. Tutto è ricondotto a una cupa linea sui­ cida, che ha due segmenti alternativi: è il contrario delle connes­ sioni, delle linee multiple intrecciate. Narcisismo, autoritarismo dei drogati, ricatto e veleno: i drogati si ricongiungono ai nevro­ tici nel loro tentativo di rompere le scatole alla gente, di diffonde‘ Cfr. G. Bateson, The cybernetics of «self»: a theory of alcoholism, in Steps to an Eco­ logy of Mind, Chandler Publishing Company, San Francisco 1972; trad. it. Im cibernetica dell'«io»:una teoria dell’alcolismo, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976 INZT.].

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re il contagio e di imporre il loro caso (quindi la stessa impresa del­ la psicoanalisi come piccola droga). Ma perché e come avviene que­ sta trasformazione da esperienza anche autodistruttiva, ma pur sempre viva, a impresa mortifera di dipendenza generalizzata, uni­ lineare? E inevitabile? Se c’è un punto terapeutico preciso, è li che dovrebbe intervenire. Forse i due problemi che ho posto si ricongiungono. Forse è al livello di una causalità specifica della droga che si potrebbe com­ prendere perché le droghe prendono una cattiva strada, e dirotta­ no la loro causalità propria. Ancora una volta, che il desiderio in­ vesta direttamente la percezione, è qualcosa di sorprendente, di molto bello, una sorta di terra ancora ignota. Ma le allucinazioni, le false percezioni, gli accessi paranoici, la lunga lista di dipenden­ ze, sono cose fin troppo note, anche se continuamente aggiornate dai drogati, che si considerano degli sperimentatori, i cavalieri del mondo moderno, o i donatori universali di cattiva coscienza. Tra un problema e l’altro, che cosa è successo? I drogati non si servi­ rebbero della messa a punto di un nuovo sistema desiderio-perce­ zione per trarne il loro profitto e il loro ricatto? Come si inseri­ scono i due problemi? Ho l’impressione che attualmente non si vada avanti, non si stia facendo un buon lavoro. Il lavoro. Il lavo­ ro è certamente altrove rispetto a queste due questioni, ma al mo­ mento non si capisce nemmeno più dove potrebbe essere. Chi co­ nosce il problema, drogati o medici, sembra aver abbandonato le ricerche, per se stessi e per gli altri.

i6. Rendere udibili delle forze non udibili in se stesse *

Perché noi, non musicisti ? Il metodo seguito da Pierre Boulez lo ha portato a scegliere cin­ que brani musicali, legati da rapporti che non sono né di filiazio­ ne né di dipendenza; non c’è progressione o evoluzione da un bra­ no all’altro. Invece, sembra quasi che le cinque opere siano state scelte un po’ aleatoriamente, formando un ciclo in cui reagivano l’una rispetto all’altra. In questo modo si tesse un insieme di rela­ zioni virtuali da cui si può ricavare un profilo particolare del tem­ po musicale, valido soltanto per questi cinque brani. Si potrebbe anche immaginare che Boulez avesse scelto altri quattro o cinque brani: in tal caso si sarebbero creati un altro ciclo, altre reazioni e altri rapporti, e un altro profilo particolare del tempo musicale o di un’altra variabile diversa da quella temporale. Non è un meto­ do per generalizzare. Non si tratta, sulla base dei brani scelti co­ me esempi musicali, di elevarsi verso un concetto astratto del tem­ po rispetto a cui poter affermare: «Ecco che cos’è il tempo musi­ cale». Piuttosto, partendo da cicli ristretti, determinati secondo alcune condizioni, si tratta di estrapolare alcuni profili particolari del tempo, anche a costo di sovrapporre poi questi profili realiz­ zando una vera e propria cartografia delle variabili. Questo meto­ do riguarda la musica, ma può riguardare anche mille altre cose. Nel caso specifico del ciclo scelto da Boulez, il profilo partico­ * Testo distribuito durante una seduta di sintesi deU’Ircam nel febbraio 1978. Pre­ sentiamo qui una versione rivista. [Il testo è apparso su «aut aut», 1996, n. 276, pp. 2225, con il titolo II tempo musicale, trad. it. di Anna Maria Morazzoni. La nota iniziale spief[a: «Conferenza tenuta nel febbraio 1978 presso l’Ircam di Parigi, in occasione di un “ateier" organizzato da Pierre Boulez, con il titolo complessivo di Le temps musical. Boulez analizzò, nell’ordine, le seguenti composizioni: Concerto da camera di Gyòrgy Ligeti, Dia­ logue du vent et de la mer di Claude Debussy, Modes de valeur et d’intensité di Olivier Mes­ siaen, il proprio Eclat e A mirror on which to dwell di Elliott Carter. Ciascun incontro di analisi era seguito da una tavola rotonda ristretta, alla quale parteciparono Roland Barthes, Gilles Deleuze e Michel Foucault. Il testo di questo intervento, corretto dall’autore, è ap­ parso in Lire l’Ircam, Paris 1996, NJ.T.J

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lare di tempo non pretendeva affatto di esaurire il problema del tempo musicale in generale. Da un tempo pulsato' si vedeva deri­ vare una sorta di tempo non pulsato, salvo che poi il tempo non pulsato ritornava a una forma nuova di pulsazione. Il primo brano (Ligeti) indicava come, attraverso una certa pulsazione, si giunges­ se a un tempo non pulsato; i brani 2,364 sviluppavano o mostra­ vano aspetti diversi di questo tempo non pulsato; l’ultima opera (la n. 5 di Carter) illustrava come, a partire da un tempo non pul­ sato, si ritrovasse una forma nuova di pulsazione originale, molto particolare, molto innovativa. Tempo pulsato, tempo non pulsato: qualcosa di completamen­ te musicale, ma anche tutt’altra cosa. Il problema sarebbe sapere in che cosa consista esattamente questo tempo non pulsato, questa specie di tempo fluttuante che corrisponde un po’ a quello che Proust chiamava «un po’ di tempo allo stato puro». Nel suo carat­ tere piu evidente, più immediato, tale tempo detto non pulsato è una durata, è un tempo liberato dalla misura, sia essa regolare o irregolare, semplice o complessa. Un tempo non pulsato ci pone subito e innanzitutto in presenza di una molteplicità di durate eterocrone, qualitative, non coincidenti, non comunicanti. Di conse­ guenza si vede bene il problema: come si articoleranno queste du­ rate eterocrone, eterogenee, molteplici, non coincidenti, dato che con la massima evidenza viene a mancare la possibilità di ricorre­ re alla soluzione più generale e classica che consiste nell’affidare alla mente il compito di attribuire una misura comune o una ca­ denza metrica a tutte le durate vitali? Fin dall’inizio questa solu­ zione è preclusa. A costo di spostarmi in tutt’altro campo, penso che oggi i bio­ logi incontrino problemi analoghi, quando parlano di ritmi. Anch’essi hanno rinunciato a credere che ritmi eterogenei si possano articolare ponendosi sotto il dominio di una forma unificante. Le ar­ ticolazioni tra i ritmi vitali, per esempio i ritmi di ventiquattr’ore, i biologi non cercano di spiegarle ricorrendo a una forma supe­ riore che le unifichi e neppure a una successione regolare o irre­ golare di processi elementari. Le ricercano altrove, a un livello subvitale, infravitale, in quello che chiamano una popolazione di oscillatori molecolari capaci di attraversare sistemi eterogenei, in 1 Deleuze riprende qui il pensiero di Pierre Boulez che contrappone tempo pulsato e tempo amorfo, per definire le due categorie di tempo liscio e tempo striato. Vedi Pensar la musique aujourd’ bui, Gonthier, Genève 1964, pp. 99 sgg.; trad. it. Pensare la musica oggi, Einaudi, Torino 1979, pp. 89 sgg. [N d.T].

Rendere udibili delle forze non udibili in se stesse

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molecole oscillanti accoppiate che, quindi, attraverseranno insie­ mi e durate disparate. L’articolazione non dipende da una forma unificabile o unificante, né da una metrica, da una cadenza o da una misura qualunque, regolare o irregolare, bensì dipende dall’a­ zione di certe coppie molecolari lasciate andare attraverso livelli diversi e ritmicità diverse. None soltanto metaforicamente che si può parlare di una scoperta simile in campo musicale: molecole so­ nore piuttosto che note o toni puri. Molecole sonore accoppiate, capaci di attraversare livelli di ritmicità, livelli di durate del tutto eterogenei. Ecco la prima determinazione di un tempo non pulsato. Un certo tipo di individuazione non è riconducibile a un sog­ getto (io) e neppure alla combinazione di una forma e di una ma­ teria. Un paesaggio, un evento, un’ora della giornata, una vita o un frammento di vita... procedono diversamente. Ho l’impressio­ ne che il problema dell’individuazione in musica, certamente mol­ to complesso, sia di un tipo più vicino a queste seconde individua­ zioni paradossali. Che cosa viene detto individuazione di una fra­ se, di una piccola frase in musica ? Vorrei cominciare dal livello più elementare, apparentemente il più facile. Capita che una musica ci rammenti un paesaggio, come nel celebre caso di Swann in Proust: il Bois de Boulogne e la petite phrase di Vinteuil. Capita anche che i suoni evochino i colori, sia per associazione sia attraverso feno­ meni detti sinestetici. Infine, nelle opere capita che alcuni motivi siano legati a persone, per esempio si ritiene che un motivo wa­ gneriano designi un personaggio. Tale modalità di ascolto non è infondata o priva di interesse, forse a un certo livello di rilassatez­ za bisogna anche esperirla, ma tutti sanno che non è sufficiente. Infatti, a un livello più teso, non è il suono a rinviare a un paesag­ gio, ma è la musica stessa che avvolge un paesaggio autenticamen­ te sonoro, interno a essa (come avviene in Liszt). Si potrebbe so­ stenere la stessa cosa per la nozione di colore e ritenere che a mag­ gior ragione le durate, i ritmi, i timbri in se stessi siano colori, autentici colori sonori che si sovrappongono ai colori visibili e che non hanno le stesse accelerazioni né gli stessi passaggi dei colori visibili. Lo stesso vale per la terza nozione, quella di personaggio. Nell’opera alcuni motivi possono essere considerati associati a un personaggio; tuttavia, i motivi di Wagner non si associano soltanto a un personaggio esteriore ma si trasformano, hanno una vita auto­ noma in un tempo fluttuante non pulsato nel quale divengono, essi stessi e attraverso se stessi, personaggi interni alla musica. Queste tre nozioni diverse - paesaggi sonori, colori ascoltatili,

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personaggio ritmico - appaiono allora come gli aspetti in base ai qua­ li un tempo non pulsato produce le sue individuazioni di tipo af­ fatto speciale. Da tutte le parti, credo, siamo indotti a non pensare più in ter­ mini di materia-forma. Al punto che in tutti i campi abbiamo smes­ so di confidare nella gerarchia che procederebbe dal semplice al complesso: materia-vita-spirito. Abbiamo anche pensato che la vi­ ta potrebbe essere una semplificazione della materia; si può crede­ re che i ritmi vitali non trovino la loro unificazione in una forza spirituale, ma al contrario negli accoppiamenti molecolari. Tutta questa gerarchia materia-forma, una materia più o meno rudimen­ tale e una forma sonora più o meno colta, non è forse ciò che noi abbiamo smesso di sentire e che i compositori hanno smesso di produrre ? Quello che si è costituito è un materiale sonoro molto elaborato, non più una materia rudimentale che riceveva una for­ ma. E l’accoppiamento si realizza tra questo materiale sonoro mol­ to elaborato e forme che in se stesse non sono sonore, ma che di­ ventano sonore o udibili attraverso il materiale che le valorizza. Così Debussy, Dialogue du vent et de la mer. Il materiale riesce a rendere udibile una forza che non sarebbe udibile in se stessa, cioè il tempo, la durata e perfino l’intensità. Alla coppia materia-forma si sostituisceja coppia materiale-forze. Boulez: Éclat. Tutto il materiale sonoro molto elaborato, con l’estinzione dei suoni, era fatto per rendere sensibili e udibili due tempi, non sonori in se stessi, definiti l’uno il tempo della produ­ zione in generale e l’altro il tempo della meditazione in generale. Dunque, alla coppia materia semplice - forma sonora che informe­ rebbe questa materia, si è sostituito un accoppiamento tra un ma­ teriale elaborato e forze impercettibili che diventano percepibili soltanto grazie a questo materiale. Allora la musica non è soltan­ to di competenza dei musicisti, nella misura in cui non ha nel suo­ no il suo elemento esclusivo e fondamentale. Il suo elemento è l’in­ sieme delle forze non sonore, rese percepibili dal materiale sono­ ro elaborato dal compositore, in modo tale che si possano percepire anche le differenze tra queste forze, tutto il gioco differenziale di queste forze. Siamo tutti dinanzi a compiti abbastanza simili. In filosofia: la filosofia classica si dà una specie di materia rudimen­ tale di pensiero, una sorta di flusso che si cerca di sottoporre a con­ cetti o a categorie. Ma i filosofi hanno cercato sempre più di ela­ borare un materiale di pensiero molto complesso per rendere sen­ sibili delle forze che non sono pensabili in se stesse.

Rendere udibili delle forze non udibili in se stesse

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Non esiste l’orecchio assoluto, il problema è avere un orecchio impossibile - rendere udibili forze che non sono udibili in se stes­ se. In filosofia si tratta di un pensiero impossibile, cioè rendere pensabili, grazie a un materiale di pensiero molto complesso, for­ ze che non sono pensabili.

I7I seccatori *

Perché i palestinesi sarebbero dei «validi interlocutori» dal mo­ mento che non hanno un paese ? E perché dovrebbero averlo dal momento che gli è stato tolto ? Non si è mai data loro altra scelta se non quella di arrendersi senza condizioni. Non gli si propone altro che la morte. Nella guerra che li oppone a Israele, le azioni di Israele sono considerate delle risposte legittime (anche quando appaiono sproporzionate), mentre quelle dei palestinesi sono trat­ tate esclusivamente come dei crimini terroristici. Oltretutto, un morto arabo non ha lo stesso valore né lo stesso peso di un morto israeliano. Israele, dal 1969, non ha mai smesso di bombardare e di mi­ tragliare il Sud del Libano. Ha riconosciuto esplicitamente che la recente invasione di questo paese non era una risposta all’azione del commando di Tel Aviv (trentamila soldati contro undici ter­ roristi)1, ma il coronamento premeditato di tutta una serie di ope­ razioni di cui si riservava l’iniziativa. Per una «soluzione finale» del problema palestinese, Israele può contare su una complicità quasi unanime degli altri stati, con nuance e restrizioni diverse. I palestinesi, gente senza terra né stato, sono dei seccatori per tutto il mondo. Per quanto ricevano armi e denaro da alcuni paesi, sanno quel che dicono quando dichiarano di essere assolutamente soli. I combattenti palestinesi, inoltre, affermano che in fondo han­ no riportato una vittoria. Nel Sud del Libano avevano lasciato so­ lo gruppi di resistenza, i quali sembrano aver retto molto bene. Per contro, l’invasione israeliana ha colpito alla cieca i rifugiati pa* In «Le Monde», 7 aprile 1978. 1 Allusione alla vasta operazione lanciata, qualche settimana prima, dal governo di Be­ gin nel Libano meridionale, come rappresaglia al raid di un commando palestinese a nord di Tel Aviv che fece diverse decine di vittime. Si trattava, per lo stato di Israele, della piu vasta operazione mai condotta prima in territorio libanese; fece diverse centinaia di vitti­ me nei campi palestinesi e tra la popolazione libanese e provocò l’esodo di decine di mi­ gliaia di civili libanesi verso la capitale. Malgrado la sua entità, l’offensiva non riuscì a smantellare le basi dei combattenti palestinesi e il fronte rimase aperto [NxZ.CJ.

I seccatori

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lestinesi, i contadini libanesi, un intero popolo di coltivatori po­ veri. Distruzioni di villaggi e di città, e massacri di civili sono sta­ ti confermati: l’utilizzo di bombe a grappolo è segnalato da diver­ se fonti2. Sono anni che la popolazione del Libano meridionale non smette di andarsene e ritornare, in un esodo infinito, sotto i colpi di forza israeliani che non si capisce bene in cosa si distinguano dagli atti terroristici. L’ultima escalation ha lasciato in strada due­ centomila persone senza un tetto. Lo stato di Israele applica al Li­ bano meridionale il metodo già sperimentato in Galilea e altrove nel 1948: «palestinizza» il Sud del Libano. I combattenti palestinesi nascono dai profughi. Israele preten­ de di vincere i combattenti facendo altre migliaia di rifugiati, da cui nasceranno nuovi combattenti. Non sono soltanto i nostri rapporti col Libano che ci fanno di­ re: lo stato di Israele uccide un paese fragile e complesso. C’è an­ che un altro aspetto. Il modello Israele-Palestina è determinante nell’attuale problema del terrorismo, anche in Europa. L’intesa mondiale tra gli stati, l’organizzazione di una polizia e di una giu­ risdizione mondiali, che si stanno preparando, portano necessaria­ mente a un’estensione in base a cui la gente sarà sempre più assi­ milata a «terroristi» virtuali. Ci troviamo in una situazione simi­ le a quella della guerra di Spagna, quando la Spagna serviva da laboratorio e da sperimentazione per un futuro ancora più terribile. Oggi, è lo stato d’Israele a compiere la sperimentazione. Fissa un modello di repressione che sarà adattato e fatto fruttare in al­ tri paesi. C’è una forte continuità nella sua politica. Israele ha sem­ pre ritenuto che le risoluzioni dell’Onu che lo condannavano ver­ balmente, di fatto gli dessero ragione. L’invito ad abbandonare i territori occupati l’ha trasformato nell’obbligo di installarvi delle colonie. Attualmente ritiene che l’invio di una forza internaziona­ le nel Sud del Libano sia eccellente... a condizione che essa si in­ carichi in vece sua di trasformare la regione in una zona di polizia o in deserto controllato3. E un curioso ricatto, da cui il mondo in­ tero uscirà solo se ci sarà una pressione sufficiente affinché i pale­ stinesi siano infine riconosciuti per quel che sono, dei «validi in­ terlocutori», perché dentro uno stato di guerra di cui non sono cer­ to responsabili. 2 Bombe a grappolo è l’altro nome delle cluster bombs [N J.C.], 2 Una settimana dopo l’invio delle forze israeliane che occuparono fino a un sesto del territorio libanese, i «caschi blu» dell’Onu si installarono nel Sud del Libano [N J.C.],

i8. Il lamento e il corpo *

Filosofo e psicoanalista, Pierre Fédida pubblica L "absence do­ po Le concept et la violence e Corps du vide et espace de séance1. L "ab­ sence non è né un libro tradizionale, né una raccolta di articoli. E piuttosto una selezione del lavoro di una vita. Il fatto che Fédida sia giovane non toglie che possa commisurare il suo lavoro all’estensione di una vita in corso, e che effettui una specie di approfon­ dimento vitale, come fa un albero. E, in effetti, Fédida scrive bel­ le e strane pagine sul rapporto della scrittura con il legno, con la falegnameria, con il tavolo. All’arredamento psicoanalitico, che era un po’ povero, poltrona e divano, Fédida aggiunge il tavolo co­ me elemento conduttore attivo. Un tavolo massiccio, mobile dell’intersoggettività. Uno dei progetti più importanti di Fédida è quello di elevare la psicoanalisi allo stato di teoria e di pratica dell’intersoggettività. Non si tratta di fare una psicologia dello psicoanalista e dello psi­ coanalizzato, e della loro relazione, ma di costruire una struttura di intersoggettività che sarebbe come la condizione di diritto del­ la psicoanalisi. La grande novità del libro di Fédida è l’invenzio­ ne di ogni sorta di concetti-zwter, che indicano ciò che sta «fra», che non è né «l’uno» né «l’altro», ma che è nel mezzo, che fa da intermediario, da messaggero, da intermezzo: non più l’altra sce­ na, ma ciò che sta fra due sedute, con il tempo e lo spazio propri dell’intersoggettività. Se Fédida ha subito l’influenza della feno­ menologia e dell’analisi esistenziale (non soltanto Husserl, ma Bins­ wanger e Henri Maldiney) è perché in esse ha trovato il primo gran­ de tentativo di una teoria dell’intersoggettività come campo tra* In «Le Monde», 13 ottobre 1978. Sul libro di Pierre Fédida, L’absence, Gallimard, Paris 1978. Deleuze aveva fatto parte della commissione di tesi di Fédida, pubblicata poi con il titolo L 'absence.

1 Le concept et la violence, 10/18, Paris 1977; Corps du vide et espace de séance, Delarge, Paris 1977 [Njd.C.J.

Il lamento e il corpo

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scendentale. E noi crediamo che tutti gli inter-concetti creati da Fédida in questo libro siano in grado di rinnovare il pensiero psi­ coanalitico. Infatti, se si accetta questo punto di partenza - l’intersoggettività come campo originale, antecedente ai soggetti che la popo­ lano e agli oggetti che la arredano -, il compito diventa il seguen­ te: dare all’oggetto e al soggetto uno statuto nuovo, poiché questo statuto deve derivare da una intersoggettività che viene prima, e non l’opposto. E ciò che fa Fédida, costruendo una nozione mol­ to bella, quella di objeu (il gioco dell’oggetto, nome preso in pre­ stito da Ponge). In secondo luogo, i rapporti del soggetto con il corpo deriveranno anch’essi dal campo intersoggettivo; o piutto­ sto i disturbi cosiddetti psicosomatici, che segnalano proprio la va­ riazione di questi rapporti, deriveranno dai disturbi nascosti dell’intersoggettività. Tali disturbi si presentano sotto forma di lamen­ to, come altrettanti lamenti. In questo senso, Fédida fa il quadro dei tre grandi lamenti antichi che riacquistano oggi un’importanza moderna decisiva: il lamento melanconico, il lamento ipocondriaco, il lamento depressivo. I nostri tre flagelli. Tutta la psicoanalisi oscilla quando non è più sotto il regime nevrotico della domanda, ma sotto quello del lamento psicosomatico, incluso il lamento del­ lo psicoanalista. Fédida, in questo libro appassionante, ecceziona­ le, ci esorta proprio a una nuova comprensione di tutto questo cam­ po, dall’intersoggettivo allo psicosomatico.

19In che cosa la filosofia può servire ai matematici o ai musicisti soprattutto quando non parla di musica o di matematica *

Vorrei parlare di un aspetto molto particolare. Nella situazio­ ne tradizionale, un professore parla davanti a degli studenti che cominciano ad avere o hanno già una certa conoscenza di quella disciplina. Questi studenti seguono anche altre discipline; ci sono inoltre degli insegnamenti interdisciplinari, per quanto secondari. In generale, gli studenti sono «giudicati» in base al loro livello in una certa disciplina considerata in modo astratto. A Vincennes la situazione è diversa. Un professore, per esem­ pio di filosofia, parla davanti a un pubblico che comporta, a diver­ si livelli, matematici, musicisti, di formazione classica o di pop music, psicologi, storici ecc. Ma invece di «mettere tra parentesi» queste altre discipline per accedere meglio a quella che si preten­ de di insegnare loro, gli uditori, al contrario, si aspettano dalla fi­ losofia, per esempio, qualcosa che gli servirà dal punto di vista per­ sonale o che intersecherà le loro altre attività. La filosofia li riguar­ derà non in funzione di un livello che possiederanno in questo tipo di sapere, anche se è un livello zero di iniziazione, ma in funzione diretta del loro interesse, cioè delle altre materie o materiali di cui hanno già una certa padronanza. E quindi per se stessi che gli udi­ tori vengono a cercare qualcosa in un insegnamento. L’insegna­ mento della filosofia perciò si orienta direttamente verso il proble­ ma di sapere in che cosa la filosofia possa servire a dei matemati­ ci, o a dei musicisti ecc. - anche e soprattutto quando non parla di musica o di matematica. Un insegnamento di questo genere non * Opera collettiva pubblicata sotto la responsabilità di J. Brunet, B. Cassen, F. Chàtelet, P. Merlin e M. Rebérioux, Vincennes ou le désird’apprendre, Editions Alain Moreau, Paris 1979, pp. 120-21. Quest’opera voleva difendere l’esistenza e il progetto iniziale dell’Università di Vincennes, per come l’aveva definito Edgar Faure, ministro dell’Educazione. L’esistenza dell’università, all’epoca, era minacciata dal governo di Giscard d’Estaing, nella persona di Alice Saunier-Seité, con il sostegno attivo del sindaco di Parigi, Jacques Chirac.

In che cosa la filosofia può servire ai matematici o ai musicisti

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è affatto di cultura generale, ma è pragmatico e sperimentale, sem­ pre fuori da se stesso, proprio perché gli uditori sono portati a in­ tervenire in funzione dei loro bisogni o dei loro contributi. Di con­ seguenza, sono due i fattori importanti per cui Vincennes non si trova nella stessa situazione delle altre facoltà: da una parte, per quanto riguarda la distinzione degli anni di studio, poiché Vin­ cennes possiede gli strumenti per far coesistere, a uno stesso li­ vello di insegnamento, uditori con qualifiche ed età diverse; dal­ l’altra, il problema della selezione, poiché questa, a Vincennes, può essere subordinata a un metodo di diversificazione, in cui la dire­ zione di un insegnamento si rapporta costantemente a quelle espres­ se dagli uditori. La presenza di numerosi lavoratori e di numerosi stranieri con­ ferma e rafforza questa situazione. Si obietta, allora, che un inse­ gnamento di questo tipo non risponda alle norme e non riguardi uno studente tradizionale che pretende legittimamente di acquisi­ re la padronanza di una disciplina in quanto tale. Questa obiezio­ ne non ci sembra assolutamente fondata; al contrario, è di gran­ dissimo interesse pedagogico far risuonare all’intemo di ogni di­ sciplina queste risonanze tra livelli e campi di esteriorità. Non esiste uditore o studente che arrivi senza dei domini propri, sui quali la disciplina insegnata deve «attecchire» invece che lasciarli da parte. E l’unico modo per cogliere una materia in se stessa e dal­ l’interno. Lungi dall’opporsi alle norme richieste dal ministero, l’in­ segnamento a Vincennes dovrebbe far parte di queste norme. An­ che se ci si attenesse al progetto di riforma dell’insegnamento supe­ riore - fondare università concorrenziali a quella americana - bi­ sognerebbe, invece di sopprimere Vincennes, crearne altre tre o quattro. In particolare, una Vincennes-scienze, con questo meto­ do di insegnamento, sarebbe indispensabile (molti di noi potreb­ bero parteciparvi come uditori). Attualmente questo metodo è le­ gato di fatto a una situazione specifica di Vincennes, a una storia di Vincennes, che tuttavia nessuno potrà sopprimere senza far spa­ rire anche uno dei principali tentativi di rinnovamento pedagogico in Francia. Ciò che ci minaccia è una sorta di lobotomia dell’inse­ gnamento, degli insegnanti e dei discenti, a cui Vincennes oppone una capacità di resistenza.

20. Lettera aperta ai giudici di Negri*

Si può temere che i recenti attentati vengano a confondere un sentimento che stava facendosi sempre più pressante nel «caso Ne­ gri»: non ci sarebbe nulla, assolutamente nulla nei dossier dell’ac­ cusa che hanno condotto all’arresto di Antonio Negri e dei suoi compagni. La voce telefonica non offre nessun indizio, i luoghi dove Ne­ gri sarebbe dovuto essere svaniscono, gli scritti di Negri non sono più delle risoluzioni delle Br, ma al contrario sono analisi nelle qua­ li Negri si oppone alle tesi delle Br ecc. I giudici rinviano le prove a domani e vogliono trasformare l’interrogatorio in un dibattito teorico d’inquisizione. E vero che ne hanno il tempo e che la leg­ ge Reale permette loro di imprigionare gli accusati per quattro an­ ni prima di giungere al processo1. Pronti a sostenere un dibattito teorico, ci sembra che tre prin­ cipi siano in gioco, tre principi che coinvolgono tutti i democra­ tici. Prima di tutto la giustizia dovrebbe conformarsi a un certo principio di identità. Non si tratta semplicemente dell’identità del* In «la Repubblica», io maggio 1979, pp. 1 e 4. Toni Negri, filosofo italiano, nato nel 1933, già professore di Scienze politiche e sociali all'università di Padova, si rifugiò in Francia per sfuggire agli attacchi della magistratura italiana. Invitato da Louis Althus­ ser alla Scuola normale superiore, nel 1977-78 tenne un corso sui Grundrisse di Marx (che diede luogo alla pubblicazione di Mane oltre Marx, Feltrinelli, Milano 1979). Durante il suo soggiorno parigino strinse amicizia in particolare con Felix Guattari che, insieme ad altri, tenne Deleuze informato sulla situazione politica italiana. Deleuze e Negri si incon­ trarono solo nel 1987. Il «caso Aldo Moro» scoppiò il 16 marzo 1978 con il rapimento del presidente del Consiglio (della Democrazia cristiana) da parte delle Brigate Rosse, grup­ po terrorista armato. Dopo un lungo sequestro, il 9 maggio 1978 Aldo Moro fu assassi­ nato. Durante l'inchiesta, il giudice Galiucci (De) accusò Negri di complicità basandosi su indizi senza fondamento. Negri venne arrestato il 7 aprile 1979, incarcerato e trasfe­ rito in «regime speciale». Quando Deleuze scrisse l'articolo, il processo non era ancora iniziato. 1 La legge Reale del 1975 introduceva dei regolamenti eccezionali nel sistema giudi­ ziario italiano. In particolare, istituiva la custodia cautelare per una durata indeterminata [NJ.C.l.

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l’accusato, ma di quell’identità, o non contraddizione, più profon­ da che deve caratterizzare un atto di accusa. Se altri motivi di ac­ cusa vengono a emergere, occorre cambiare l’atto giuridico. In bre­ ve, è necessario che l’accusa possieda nel suo insieme un minimo di consistenza identificabile. Fino a quando questo tipo di iden­ tità dell’accusa esiste, ci si può difendere. Questo non è il caso del mandato di Roma, che comincia rica­ pitolando il sequestro di Moro come se Negri ci fosse stato, per in­ vocare in seguito gli scritti di Negri come se, non essendoci stato, egli fosse a maggior ragione ancora più responsabile. L’atto di ac­ cusa salta dall’azione all’istigazione, dall’istigazione al pensiero, dal pensiero a una qualsiasi altra azione, poco importa. Tale atto, cosi diverso e indeterminato, manca dell’identità giuridica la più elementare. «Tu sarai in ogni modo colpevole...» In secondo luogo, l’inchiesta e l’istruttoria dovrebbero confor­ marsi a un certo principio di disgiunzione o di esclusione: è que­ sto oppure quello..., e se è quello, non è questo... ecc. Nell’affa­ re Negri, al contrario, sembra che si vogliano in ogni caso conser­ vare tutti i termini delle alternative: se Negri non era a Roma, si conserva comunque la telefonata dicendo che è stata fatta da Pa­ rigi (o viceversa); se Negri non è direttamente coinvolto nel seque­ stro di Moro, lo ha comunque ispirato oppure pensato ed è come se lo avesse realizzato. Se Negri nei suoi testi e nelle sue dichiara­ zioni si oppone alle Br, si tratta di una maschera che prova ancor meglio il suo accordo con queste e che ne era il capo nascosto. Non si sfrondano le accuse contraddittorie, si aggiungono. Come dice Franco Piperno, accusato latitante, questa è una cu­ riosissima maniera di valutare la portata dei testi politici e teori­ ci2. Gli accusatori hanno una tale abitudine a considerare che in un discorso politico è possibile dire qualsiasi cosa, che non posso­ no assolutamente comprendere la situazione di un intellettuale ri­ voluzionario il quale non ha altra «possibilità» di scrivere se non quel che pensa. Andreotti o Berlinguer possono sempre nasconde­ re il loro pensiero, poiché in tale pensiero tutto è opportunismo3. Per contro, lo stesso Gramsci senza dubbio non avrebbe potuto. 2 Piperno, all’epoca membro dell’Autonomia operaia, fu arrestato a Parigi il 18 set­ tembre 1978. Le autorità italiane avevano chiesto la sua estradizione per l’imputazione di «insurrezione armata contro lo stato» [NJ.CJ. 1 Giulio Andreotti, più volte presidente del Consiglio italiano, era il leader della De­ mocrazia cristiana; Enrico Berlinguer era il segretario generale del Partito comunista. Fu uno degli artefici del «compromesso storico» tra il Pei e la Democrazia cristiana [NJ.C.].

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Due regimi di folli

In breve, ben lontana dal procedere per alternativa ed esclusione, l’inchiesta procede per inclusione, addizionando i termini contrad­ dittori. Perché queste negazioni della giustizia sono ormai possibili ? Noi crediamo che la stampa, con poche eccezioni, abbia avuto e continui ad avere un ruolo enorme nell’affare Negri. Non è la pri­ ma volta, eppure è forse la prima volta in questo modo sistemati­ co e organizzato, in questa maniera che «precede» (e la stampa francese non è stata meno volontaria e diffamante di quella italia­ na). La giustizia non avrebbe mai potuto abbandonare il suo prin­ cipio di identità, l’inchiesta non avrebbe mai potuto abbandona­ re il suo principio di esclusione, se la stampa non avesse offerto lo­ ro il mezzo per far dimenticare le mancanze e l’abbandono delle regole. In effetti la stampa, dal canto suo, è sottoposta a un altro prin­ cipio particolare. Quotidiano o settimanale, giornali o radio-tele­ visione, è un principio di accumulazione. Poiché vi sono «novità» ogni giorno, e poiché le smentite della vigilia non hanno influen­ za alcuna sulle novità di oggi o di domani, la stampa può operare l’accumulazione di tutto ciò che si dice da un giorno all’altro, sen­ za temere nessuna contraddizione. Il «condizionale» permette in­ fatti di riunire e moltiplicare tutto. Si può far apparire Negri co­ me presente lo stesso giorno a Roma, a Parigi e a Milano: le tre cose si accumulano. Se ne può fare un membro attivo delle Br, un ca­ po nascosto, oppure al contrario il partigiano di tutt’altra strate­ gia e di altri metodi: le tre cose si accumulano. Volendo credere a Marcelle Padovani in un giornale francese («Le Nouvel Observateur») si ha questo risultato: anche se non è delle Br, è un «autonomo», «e noi sappiamo quel che sono gli au­ tonomi italiani... »4. In ogni modo Negri merita quel che gli sta ac­ cadendo. La stampa si è abbandonata a una fantastica «accumulazione del falso», che non viene dopo, ma che permette alla giustizia e al­ la polizia di mascherare il vuoto dei loro dossier. Ci viene promes­ so uno spazio giudiziario e poliziesco europeo, questi non posso1 Riferimento all’Autonomia operaia di cui Negri fu uno dei principali responsabili. Si tratta di un movimento di estrema sinistra, vicino al marxismo, le cui tesi tengono con­ to delle nuove forme di lavoro e di lotta contro il lavoro. Si veda G. Deleuze e F. Guatta­ ri, Mille plateaux, Minuit, Paris 1980, pp. 585-86; trad. it. Mille piani, Cooper & Castelvecchi, Milano 2003, p. 647. Le autorità e una parte della stampa italiana consideravano le Brigate rosse come il «braccio armato» dell’Autonomia operaia [NJ.C.].

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no funzionare se non attraverso uno spazio europeo di stampa, nel quale tutti i giornali, dall’estrema destravalla sinistra, suppliscono al fallimento dell’inchiesta e del diritto. E giunta l’ora europea do­ ve non si comprenderà piu nemmeno il rimprovero anticamente rivolto alla stampa, quello di opporre una certa resistenza alle pa­ role d’ordine del potere. Che gli italiani non ci rimproverino, questa volta, di occupar­ ci di quel che non ci riguarda, di ciò che non conosciamo. Dei fran­ cesi sono stati messi in causa fin dall’inizio («la pista francese... », «la centrale parigina delle Br... »)’. Squallido regolamento di con­ ti che fa seguito a Bologna6? Negri è un teorico, un intellettuale importante, in Francia come in Italia. Italiani e francesi sono uni­ ti negli stessi problemi, nei confronti della violenza, ma anche con­ tro una repressione che non sente nemmeno più il bisogno di le­ gittimarsi giuridicamente, poiché si fa legittimare in anticipo dal­ la stampa, dalla radio, dalla televisione. Si assiste a un’autentica «carneficina» contro uomini che ven­ gono arrestati sulla base di «prove» delle quali il meno che si può dire è che sono vaghe, rimandate a domani. Noi non crediamo af­ fatto a queste prove sempre promesse. Noi vorremmo almeno del­ le informazioni sulle condizioni di detenzione, di isolamento. Oc­ corre forse attendere una catastrofe affinché i giornali possano par­ lare di una prova «definitiva» secondo la quale Negri era Pinelli7 ? ’ Quest’accusa fatta da politici di sinistra e di destra segui all’« Appello degli intellet­ tuali francesi contro la repressione in Italia», firmato da Deleuze e Guattari nel novembre 1977 [N J.C.]. 6 Nel settembre 1977 a Bologna ci fu un grande convegno internazionale contro la re­ pressione della polizia in Italia a cui partecipò la nuova sinistra italiana, gran parte degli studenti e i membri dell’Autonomia operaia (Guattari era presente alle manifestazioni) [NJ.C.]. 7 Anarchico caduto da una finestra del commissariato di Milano nel dicembre 1969, sospettato di essere responsabile dell’attentato omicida di piazza Fontana a Milano, avve­ nuto alcuni giorni prima (compiuto in realtà dai neofascisti con la complicità dei servizi se­ greti italiani, che segnò l’avvio della «strategia della tensione») [N J.C.].

21. Questo libro è letteralmente una prova d’innocenza *

Perché la pubblicazione del libro di Negri è importante1, non solo in se stessa, ma rispetto alla situazione di Negri in «regime speciale»? i) Perché in molti giornali italiani si è colta al volo l’occasione per promuovere una curiosa iniziativa di svalutazione: «Negri non è un pensatore importante, è un teorico mediocre e penoso... » Si noti che il fascismo, quando imprigionava un pensatore o un teo­ rico, non sentiva la necessità di sminuirlo; diceva piuttosto: «Non sappiamo che farcene dei pensatori, sono persone esecrabili e pe­ ricolose». Invece la democrazia attuale sente il bisogno di svalu­ tare, di persuadere l’opinione che si tratta di un falso pensatore. Ora, il libro di Negri mostra in maniera evidente ciò che tutti qui sapevamo: e cioè che Negri è un teorico marxista estremamente importante, profondo e nuovo. 2) In secondo luogo, Negri non ha mai voluto essere soltanto un teorico; la sua teoria, le sue interpretazioni sono inseparabili da un certo tipo di lotte sociali pratiche. Ora, i libri di Negri de­ scrivono questo campo di lotte in funzione di ciò che chiama ca­ pitale sociale, in funzione delle nuove forme del lavoro nel capita­ lismo: ne deriva, specificamente, che le lotte non avvengono sol­ tanto nel contesto dell’azienda o del sindacato. Ma in nessun momento il tipo di lotte pratiche analizzate e sostenute da Negri passa per il terrorismo, né si confonde con i metodi promossi dal­ le Brigate Rosse. In questo senso, dal momento che i giudici ita­ liani si interessano cosi tanto allo stile, alle intenzioni e ai pensie­ ri di Negri, questo libro è letteralmente una prova d'innocenza. Si * In «Le Matin de Paris», 13 dicembre 1979, p. 32. Su Toni Negri, vedi la nota di presentazione del testo precedente.

‘ Si tratta di Marx oltre Marx, Feltrinelli, Milano 1979, appena uscito anche in Fran­ cia [NJ.C.L

Questo libro è letteralmente una prova d’innocenza

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può dire allora che Negri sia doppio, e che come scrittore teorizzi una certa pratica sociale ma che, come agente segreto, abbia una pratica completamente diversa, terroristica? Sarebbe un’idea par­ ticolarmente stupida, perché, ovviamente a meno di non essere pa­ gato dalla polizia, uno scrittore rivoluzionario non può praticare un tipo di lotta diverso da quelli che approva e promuove nei suoi scritti.

22. Otto anni dopo: intervista 1980*

Che differenza cè tra l'opera del i9j2,«L'anti-Edipo», e quella del 1980, «Millepiani»? Gilles deleuze La situazione àeW Anti-Edipo era relativamente semplice. L’anti-Edipo trattava di un ambito familiare, ricono­ sciuto da tutti: l’inconscio. Esso si proponeva di sostituire al modello teatrale o familiare dell’inconscio un modello più po­ litico: la fabbrica al posto del teatro. Era una sorta di «costrut­ tivismo» alla russa. Di qui l’idea di produzione desiderante, di macchine desideranti. Mille piani è più complicato, perché cer­ ca di inventare i propri ambiti, i quali ora non sono più preesi­ stenti, ma vengono tracciati all’interno delle divisioni stesse del libro. E il seguito dell’Anti-Edipo, ma il seguito a cielo aper­ to, «in vivo». Per esempio il divenire animale dell’uomo e il suo concatenamento con la musica... Non ci sono anche delle differenze circostanziali tra i due libri? G. deleuze Certamente. L’anti-Edipo viene dopo il *68: era un’e­ poca di fermento, di ricerca. Oggi, invece, si assiste a una rea­ zione molto forte. C’è tutta un’economia del libro, una nuova politica, che impone il conformismo attuale. C’è una crisi del lavoro, una crisi organizzata, deliberata, al livello dei libri co­ si come ad altri livelli. Il giornalismo ha assunto sempre più po­ tere in letteratura. E inoltre un sacco di romanzi riscoprono il più piatto tema della famiglia, dispiegando tutto un papà-mamma all’infinito: è inquietante trovarsi davanti un romanzo già fatto, prefabbricato, all’interno della famiglia in cui si vive. E davvero l’anno del patrimonio, e da questo punto di vista L'an­ ti-Edipo è stato un fallimento completo. Andrebbe fatta una * Intervista raccolta da Catherine Clement, in «L’Arc», n. 49: Deleuze, nuova edi­ zione 1980, pp. 99-102; trad. it. di Luisa Feroldi, Dall’«Anti-Edipo» a «Millepiani». Col­ loquio 1980, in «Millepiani», 1996, n. 8, pp. 47-50.

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lunga analisi, ma la situazione attuale è molto difficile e oppri­ mente per i giovani scrittori. Non riesco a dire, ora, perché ho dei presentimenti tanto cattivi. Va bene, sarà per un "altra volta. Ma «Mille piani» rientra dunque nel­ la letteratura? Gli ambiti toccati sono molteplici, etnologia, eto­ logia, politica, musica ecc., in quale genere potrebbe rientrare que­ sto libro? G. deleuze Filosofia, non è altro che filosofia, nel senso tradi­ zionale del termine. Quando ci si chiede cosa sia la pittura, la risposta è relativamente facile. Un pittore è qualcuno che crea nell’ordine delle linee e dei colori (benché linee e colori esista­ no già in natura). Ebbene, allo stesso modo, un filosofo è qual­ cuno che crea nell’ordine dei concetti, qualcuno che inventa concetti nuovi. E chiaro che al di fuori della filosofia vi sia ancora del pensiero, ma non nella forma particolare dei concet­ ti. I concetti sono singolarità che reagiscono sulla vita ordina­ ria, sui flussi di pensiero ordinari o quotidiani. In Mille piani ci sono molti tentativi di concetti: rizoma, spazio liscio, ecceità, divenire-animale, macchina astratta, diagramma ecc. Guattari inventa molti concetti, e io ho la stessa concezione della filo­ sofia. Ma quale sarebbe allora l" unità di «Mille piani», dal momento che non c'è piu alcun riferimento a un ambito di base? G. deleuze Forse potrebbe essere la nozione di concatenamen­ to (che sostituisce le macchine desideranti). C’è ogni sorta di concatenamenti, e di componenti di concatenamento. Da una parte cerchiamo di sostituire questa nozione a quella di com­ portamento: di qui l’importanza che in Mille piani riveste l’e­ tologia e l’analisi dei concatenamenti animali, per esempio dei concatenamenti territoriali. Un capitolo come quello sul Ritor­ nello considera dei concatenamenti animali unitamente a dei concatenamenti musicali in senso proprio: è appunto questo ciò che noi definiamo un «piano» [plateau], dove i ritornelli di un uccello e ritornelli come quelli di Schumann si trovano posti in una relazione di continuità. Dall’altra parte, l’analisi dei concatenamenti, considerati nella molteplicità delle loro com­ ponenti, ci apre la possibilità di una logica generale: noi ne ab­ biamo tracciato soltanto un abbozzo, e il seguito del nostro la­ voro sarà probabilmente la costruzione di questa logica, che Guattari chiama «diagrammatismo». Nei concatenamenti ci sono stati di cose, corpi, mescolanze di corpi, aggregati, e inol­

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tre ci sono degli enunciati, modi di enunciazione, regimi di se­ gni. I rapporti tra questi due ambiti sono molto complessi. Una società, per esempio, non viene definita dalle forze produttive e dall’ideologia, quanto piuttosto dai suoi «aggregati» e dai suoi «verdetti». Gli aggregati sono le mescolanze di corpi pratica­ te, conosciute, permesse (ci sono anche mescolanze proibite di corpi, come l’incesto). I verdetti sono gli enunciati collettivi, ossia le trasformazioni incorporee, istantanee, che hanno luo­ go nella società (per esempio, «a partire da questo momento tu non sei più un bambino»...). Questi concatenamenti voi li descrivete, e tuttavia non sembrano es­ sere esenti da un giudizio di valore. «Mille piani» non è forse an­ che un libro di morale? G. deleuze I concatenamenti esistono come tali, ma in effetti hanno delle componenti che servono loro da criterio, e permet­ tono di qualificarli. I concatenamenti sono degli insiemi di li­ nee, un po’ come nella pittura. C’è ogni sorta di linee. Ci sono linee segmentarle, segmentarizzate; altre che si insabbiano o cadono dentro «buchi neri»; altre ancora sono distruttrici, configuratrici di morte; altre infine sono vitali e creatrici. Queste ultime aprono un concatenamento invece di chiuderlo. La no­ zione di astratto è una nozione molto complicata: una linea può non rappresentare nulla, può essere puramente geometrica, e tuttavia essa non è ancora veramente astratta, nella misura in cui traccia un contorno. La linea astratta è la linea che non trac­ cia contorni, che passa tra le cose, è una linea mutante. Lo si è detto a proposito della linea di Pollock. In tal senso, la linea astratta non è affatto la linea geometrica, ma è la linea più vi­ va, più creatrice. La vera astrazione è una vita non-organica. Quella di una vita non-organica è un’idea costante in Mille pia­ ni, ed è appunto la vita del concetto. Un concatenamento è tra­ scinato dalle proprie linee astratte, qualora sia capace di aver­ ne o di tracciarne. Oggi si assiste a qualcosa di molto curioso: la rivalsa del silicio. I biologi si sono spesso interrogati sul per­ ché la vita sia «accaduta» grazie al carbonio, piuttosto che gra­ zie al silicio. Ma è la vita delle macchine moderne a svolgersi tramite il silicio: tutta una vita non-organica, ben distinta dal­ la vita organica del carbonio. Si parlerà in questo senso di un concatenamento-silicio. Negli ambiti più diversi si devono con­ siderare le componenti del concatenamento, la natura delle li­ nee, i modi di vita e di enunciazione...

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Leggendovi, si può avere l’impressione che cosi siano scomparse le frat­ ture indiscutibilmente riconosciute come le più importanti: la frat­ tura natura-cultura, da una parte, e la frattura epistemologica, dal­ l’altra . G. deleuze Ci sono due modi per sopprimere o per attenuare la frattura natura-cultura. Uno consiste nell’avvicinare il compor­ tamento animale e il comportamento umano (Lorenz l’ha fat­ to, con conseguenze politiche inquietanti). Noi affermiamo che la nozione di concatenamento possa sostituire quella di com­ portamento, e che, rispetto a questa nozione, la distinzione na­ tura-cultura non sia più pertinente. Un comportamento è, in un certo modo, ancora un contorno. Mentre un concatenamen­ to è innanzitutto ciò che riesce a tenere insieme elementi molto eterogenei, un suono, un colore, un gesto, una posizione ecc., delle nature e degli artifici: è un problema di «consistenza» che precede i comportamenti. La consistenza è una relazione mol­ to speciale, fisica più ancora che logica o matematica. In che modo le cose prendono consistenza ? Anche tra cose molto di­ verse ci può essere una continuità intensiva. Quando prendia­ mo in prestito da Bateson la parola «piano», è appunto per de­ signare queste zone di continuità intensiva. Da dove viene la nozione di intensità che regge il «piano»? G. deleuze E stato Pierre Klossowski, recentemente, ad aver ri­ dato alle intensità uno statuto molto profondo, filosofico, ad­ dirittura teologico. Ne ha ricavato tutta una semiologia. Era una nozione molto viva nella fisica e nella filosofia del Medioe­ vo, che è stata più o meno eclissata dal privilegio accordato al­ le quantità estensive e alla geometria dell’estensione. Ma la fi­ sica non ha smesso di ritrovare a suo modo i paradossi delle quantità intensive, la matematica hanno affrontato gli spazi non estesi, la biologia, l’embriologia, la genetica hanno scoper­ to tutto un ambito di «gradienti». E anche qui è impossibile isolare dei processi che sarebbero scientifici o epistemologici. Le intensità riguardano i modi di vita, e una prudenza pratica sperimentale. Sono esse che costituiscono la vita non-organica. Forse la lettura di «Millepiani» non risulterà sempre agevole, non crede? G. deleuze E un libro che ha richiesto molto lavoro da parte no­ stra, e che ne richiede parecchio anche al lettore. Ma le parti che a noi sembrano difficili potrebbero risultare molto facili per qualcun altro. E viceversa. Indipendentemente dalla qua­ lità o meno di questo libro, a essere in questione oggi sono pro-

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prio libri di questo genere. Quindi noi abbiamo l’impressione di fare politica anche quando parliamo di musica, di alberi o di volti. Ogni scrittore si pone il problema di sapere se altre per­ sone riusciranno poi a utilizzare il suo lavoro, anche parzial­ mente, nel loro lavoro, nella loro vita o nei loro progetti.

*5La pittura infiamma la scrittura *

Prima che questo testo nascesse, quale forma assumeva la sua ammi­ razione per Bacon? Gilles deleuze Nella maggior parte delle persone, Bacon pro­ duce uno choc. Lui stesso afferma che il suo lavoro consiste nel produrre immagini, che sono immagini-choc. Il senso di que­ sto choc non rinvia a qualcosa di «sensazionale» (ciò che vie­ ne rappresentato), ma dipende dalla sensazione, cioè dalle li­ nee e dai colori. Ci si confronta con la presenza intensa di figure, talvolta soli­ tarie, talvolta a più corpi, sospese in un colore uniforme, in un’eternità di colori. Ci si chiede allora come questo mistero sia possibile. Si può arrivare a immaginare il posto di un pitto­ re di questo tipo nella pittura contemporanea e, più in genera­ le, nella storia dell’arte (per esempio l’arte egizia). Mi è sem­ brato che la pittura attuale andasse in tre grandi direzioni, che bisognerebbe definire non formalmente, ma materialmente e geneticamente: l’astrazione, l’espressionismo e ciò che Lyotard chiama il Figurale, che è diverso dal figurativo, è un’autentica produzione di Figure. Bacon si spinge ancora più lontano in questa direzione. A un certo punto lei stabilisce un legame tra i personaggi di Bacon e quelli di Kafka: c'è un nesso che lega la sua decisione di scrivere su Bacon dopo aver scritto su Sacher-Masoch, Proust e Kafka? G. deleuze C’è un legame plurimo. Sono tutti autori di Figure. Bisognerebbe però distinguere più livelli. Innanzitutto ci pre­ sentano delle sofferenze insondabili, delle profonde angosce. * Intervista raccolta da Hervé Guibert, in «Le Monde», 3 dicembre 1981, p. 15; trad, it. di Gianfranco Morosato, in Divenire molteplice, ombre corte, Verona 2002, pp./04-io. In merito alla recente pubblicazione di Francis Bacon. Logique de la sensation, Editions de la Différence, Paris 1981, 2 voli, (riedito da Seuil, Paris 2002); trad. it. Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995.

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In secondo luogo, prendiamo coscienza di una sorta di «manie­ rismo», nel senso artistico della parola, alla Michelangelo, pie­ no di forza e di humour. E ci si rende conto che, lungi dall’es­ sere una complicazione ulteriore, si tratta di un fatto di una semplicità estrema. Ciò che si credeva essere una tortura o una contorsione rinvia a posture molto naturali. Bacon sembra di­ pingere dei personaggi sotto tortura, lo si dice spesso anche di Kafka e si potrebbe aggiungere Beckett, ma basta guardare qualcuno costretto a restare a lungo seduto, per esempio un bambino a scuola, per vedere come il suo corpo assuma soltan­ to le posture più «economiche» in funzione di tutte le forze che si esercitano su di lui. Kafka ha Possessione di un tetto che pesa sulla testa: o il mento si affossa spaventosamente nel pet­ to, o la punta del cranio buca il tetto... In breve, ci sono due cose molto diverse: la violenza delle situazioni, che è figurati­ va, ma anche l’incredibile violenza delle posture, che è «figu­ rale» e molto più difficile da cogliere. Come si scrive un libro sulla pittura : convocandovi cose o esseri della letteratura, nel suo caso Kafka, Proust, Beckett? G. deleuze Ciò che in letteratura si chiama stile esiste anche in pittura ed è un insieme di linee e colori. Uno scrittore lo si ri­ conosce dal suo modo di avvolgere, di svolgere o di spezzare una linea nella «sua» frase. Il segreto della grande letteratura sta nel­ l’andare verso una sobrietà sempre maggiore. Per citare un au­ tore che amo, una frase di Kerouac finisce per essere una linea di disegno giapponese, poggia appena sulla carta. Una poesia di Ginsberg è come una linea espressionista spezzata. Si può cosi immaginare un mondo comune o comparabile tra pittori e scrittori. E proprio questa la posta in gioco della calligrafia. Scrivere sulla pittura le ha procurato un piacere particolare? G. deleuze Mi ha fatto paura, mi è sembrata un’operazione dav­ vero difficile. Esistono due pericoli: o si descrive il quadro, e al­ lora un quadro reale non è necessario (con il loro genio, Robbe Grillet e Claude Simon sono riusciti a descrivere quadri che non avevano bisogno di esistere), o si cade nell’indeterminazione, nell’effusione sentimentale, nella metafisica applicata. Il pro­ blema specifico della pittura riguarda le linee e i colori. E diffi­ cile estrarne dei concetti scientifici che non siano di tipo mate­ matico o fisico, e che non siano nemmeno letteratura deposita­ ta sul quadro, ma che siano in qualche modo ricavati dalla pittura e nella pittura.

La pittura infiamma la scrittura

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Non sarà questo anche un modo di scardinare il vocabolario critico, di rianimarlo? G. deleuze La scrittura ha un proprio calore, ma è in presenza della pittura che si colgono meglio la linea e il colore di una fra­ se, come se il quadro comunicasse qualcosa alle frasi... Rara­ mente ho scritto un libro con un simile piacere. Quando si trat­ ta di un colorista come Bacon, il confronto con il colore è scon­ volgente. Quando lei parla del cliché che preesiste alla tela, non affronta anche il problema dello scrittore? G. deleuze La tela non è una superficie bianca, è già interamen­ te ingombra di cliché, anche se non li si vede. Il lavoro del pit­ tore consiste nel distruggerli: il pittore deve passare attraver­ so un momento in cui non vede più nulla, attraverso un cedimen­ to delle coordinate visive. E per questo che dico che la pittura integra una catastrofe, che è anche la matrice del quadro. E evidente già in Cézanne e Van Gogh. Nel caso delle altre arti, la lotta contro i cliché è molto importante, ma resta piuttosto esterna all’opera, benché sia interna all’autore. A eccezione dei casi come quello di Artaud, in cui il cedimento delle coordina­ te linguistiche ordinarie appartiene all’opera. In pittura, inve­ ce, è una regola: il quadro esce da una catastrofe ottica, che re­ sta impressa sul quadro stesso. Ha scritto avendo i dipinti sotto gli occhi? g. deleuze Ho scritto con le riproduzioni sott’occhio, mi sono rifatto al metodo di Bacon stesso: quando lui pensa a un qua­ dro, non va a vederlo, ha delle foto a colori o anche in bianco e nero. Sono tornato a vedere dei quadri solo durante o dopo la scrittura. Ha mai avuto bisogno di allontanarsi dall’opera, di dimenticarla? G, deleuze Non ho avuto bisogno di dimenticarla. C’è stato un momento in cui la riproduzione non serviva più a niente, per­ ché ciò che essa mi aveva dato rimandava già a un’altra ripro­ duzione. Un esempio: guardo i trittici e ho l’impressione che vi sia una specie di legge interna che mi costringe a saltare da una riproduzione all’altra per confrontarle. In un secondo mo­ mento, ho l’impressione che, se questa legge esiste, essa debba nascondersi anche nei quadri singoli. Era un’idea nell’aria, che mi era venuta osservando i trittici. In un terzo momento, sfogliando le riproduzioni dei quadri sin­ goli, mi imbatto in un quadro intitolato Man and Child, in cui

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la costruzione in trittico mi sembra evidente. Rappresenta una bizzarra bambina, dai piedi enormi e dall’aria severa, con le braccia conserte, che guarda un tizio, come lo dipinge Bacon, seduto su uno sgabello regolabile, da cui non si sa se stia scen­ dendo o salendo. E evidente che questo quadro, per come è or­ ganizzato, è un trittico inviluppato invece di essere un trittico sviluppato. Cosi le riproduzioni mi rimandavano le une alle al­ tre, ma poi generalmente tra due capita di avere un’idea che rinvia a una terza riproduzione... In che modo le conversazioni di David Sylvester con Bacon sono sta­ te una base di lavoro diversa dai quadri1? g. deleuze E una base necessaria. Innanzitutto le conversazio­ ni sono belle, Bacon dice un sacco di cose. In generale, quan­ do gli artisti parlano di ciò che fanno, hanno una straordina­ ria modestia, una severità nei propri confronti e una grande forza. Sono i primi a suggerire in modo molto forte la natura dei concetti e degli affetti che si sprigionano dalla loro opera. I testi di un pittore agiscono dunque in modo completamente diverso rispetto ai quadri. Quando si leggono le conversazio­ ni, viene sempre voglia di porre ulteriori domande, e poiché si sa che non sarà possibile farlo, bisogna per forza cavarsela da soli. Non ha incontrato Bacon? g. deleuze Si, ma solo a posteriori, dopo aver scritto questo li­ bro. In lui si avvertono potenza e violenza, ma anche un gran­ de fascino. Appena resta seduto un’ora, si contorce in tutti i sensi, e si direbbe che sia un vero Bacon. Ma la sua postura è sempre semplice, tenuto conto di una sensazione che forse sta provando. Bacon distingue la violenza dello spettacolo, che non suscita il suo interesse, dalla violenza della sensazione co­ me oggetto della pittura. Dice: «Ho cominciato dipingendo l’orrore, le corride o le crocifissioni, ma era ancora troppo drammatico. Ciò che conta è dipingere il grido». L’orrore è ancora troppo figurativo, e passando dall’orrore al grido si guadagna moltissimo in sobrietà, tutta la facilità della figura­ zione viene a cadere. I Bacon più belli sono quelli in cui i per­ sonaggi dormono, o in cui un uomo visto di spalle si sta ra­ dendo. 1 D. Sylvester, Interviews with Francis Bacon, Thames and Hudson, London 1975; trad it. Interviste a Francis Bacon, Skira, Milano 2003 [N^.C.].

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Oltre alla dimensione di omaggio, il suo libro aspira anche a far vede­ re meglio i quadri di Bacon? G. deleuze Se sarà un libro riuscito, avrà necessariamente que­ sto effetto. Ma credo che abbia un’aspirazione più alta, quella che tutti sognano: accostare qualcosa che sia un fondo comu­ ne delle parole, delle linee e dei colori, e anche dei suoni. Scri­ vere sulla pittura, scrivere sulla musica, implica sempre questa aspirazione. Il secondo volume del libro (contenente le riproduzioni dei dipinti) non è una cronologia dell'opera di Bacon. Dovrebbe invece essere la cronologia della storia del suo attaccamento a Bacon, vorrebbe cioè ricostruire un ordine di visione? G. deleuze In effetti, a fianco del testo ci sono dei numeri che rimandano alle riproduzioni dei quadri. L’ordine con cui ap­ paiono è un po’ sconnesso per ragioni tecniche (lo spazio che occupano i trittici). Ma nella sua successione non rinvia a una cronologia di Bacon. Procede invece logicamente, da aspetti re­ lativamente semplici ad aspetti relativamente complessi. Uno stesso quadro può dunque riapparire quando in esso si scopre un aspetto più complesso. Quanto alla cronologia, nelle conversazioni Sylvester distingue tre periodi di Bacon, e li definisce chiaramente. Ma, poco do­ po, Bacon si lancia in un nuovo periodo, potere di un pittore di rinnovarsi. Per quel che ne so, ci sono ancora soltanto tre quadri: un getto d’acqua, un getto d’erba e un getto di sabbia. Si tratta di qualcosa di completamente nuovo, ogni «figura» è scomparsa. Quando ho incontrato Bacon, diceva che sognava di dipingere un’onda, ma che non osava credere al successo di una tale impresa. E una lezione di pittura, un grande pittore che arriva a dirsi: «Sarebbe grandioso se riuscissi ad acciuffa­ re una piccola onda...» E molto proustiano; o anche Cézanne: «Ah, se riuscissi a dipingere una piccola mela! » Lei descrive l'opera, tenta di definire dei sistemi, ma in nessun mo­ mento dice «io». G. deleuze L’emozione non dice «io». Come sostiene anche lei, siamo al di fuori di noi stessi. L’emozione non è dell’ordine del­ l’io, ma dell’evento. E molto difficile cogliere un evento, ma non credo che questo cogliere implichi la prima persona. Biso­ gnerebbe piuttosto ricorrere alla terza persona, come Maurice Blanchot quando dice che ci sono più intensità nella proposi­ zione «soffre» che in «soffro».

24Manfred’, uno straordinario rinnovamento *

La potenza di un artista è il rinnovamento. Carmelo Bene ne è la prova. Grazie a tutto ciò che ha fatto, può rompere con quanto ha fatto. Attualmente traccia per se stesso un nuovo cammino. E per noi tutti costruisce un nuovo rapporto, attivo, con la musica. Anzitutto ogni immagine comporta, in principio, elementi vi­ sivi ed elementi sonori. Per molto tempo, «facendo» teatro o ci­ nema, Carmelo Bene ha trattato contemporaneamente questi due elementi (colori delle scene, organizzazione visiva della regia, per­ sonaggi visti e al contempo uditi). Attualmente si interessa sem­ pre più all’elemento sonoro preso in se stesso. Egli ne fa una pun­ ta che trascina tutta l’immagine; l’immagine è passata interamen­ te nel sonoro. Non è più questo o quel personaggio che parla, ma il suono stesso diventa personaggio, un preciso elemento sonoro diventa personaggio. Carmelo Bene prosegue dunque il suo pro­ getto di essere «protagonista» o «operatore» più che attore, ma lo prosegue in base a nuove condizioni. Non è più la voce che si met­ te a bisbigliare, o a gridare, o a martellare, a seconda che esprima questa o quell’emozione, ma il bisbiglio stesso diventa una voce, il grido diventa una voce, e allo stesso tempo le emozioni corrispon­ denti (affetti) diventano modi, modi vocali. E tutte queste voci e questi modi comunicano dall’interno. Da qui il ruolo rinnovato delle variazioni di velocità, e anche del playback, che non è mai stato per Carmelo Bene un mezzo di comodità o di facilità, bensì uno strumento di creazione. In secondo luogo, si tratta non solo di estrarre il sonoro dal vi­ sivo, ma di estrarre dalla voce parlante le potenze musicali di cui * Trad. it. di Jean-Paul Manganalo, in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, Fel­ trinelli, Milano 1981, pp. 7-9. [Il titolo che appare nel libro è A proposito del«Manfredi al­ la Scala, Nd.T]. La versione italiana è inizialmente apparsa nel fascicolo allegato alla regi­ strazione dello spettacolo del i° ottobre 1981 alla Scala, Manfred - Carmelo Bene, Fonit Ce­ tra, Milano 1981.

Manfred', uno straordinario rinnovamento

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è capace, le quali tuttavia non si confondono con il canto. In effet­ ti, queste nuove potenze potranno accompagnare il canto, cospira­ re con esso, ma non formeranno né un canto né uno Sprechgesang-. è l’invenzione di una voce modalizzata, o piuttosto filtrata. E un’in­ venzione forse altrettanto importante che lo stesso Sprechgesang, ma essenzialmente distinta da esso. Si tratta al contempo di fissa­ re, creare o modificare il colore di base di un suono (o di un insie­ me di suoni), e di farlo variare o evolvere nel tempo, di cambiar­ ne la curva fisiologica. Carmelo Bene rinnova con questo lavoro tutte le sue ricerche sulle sottrazioni e addizioni vocali, che lo met­ tono sempre più in rapporto con le potenze del sintetizzatore. Il Manfred di Carmelo Bene è dunque il primo risultato di un grandissimo lavoro e di una nuova tappa nella creazione. In Man­ fred, questa voce, queste voci di Carmelo Bene si insinuano tra i cori cantati e la musica, e cospirano con essi, vi si aggiungono o se ne sottraggono. E falso dire che Carmelo Bene abbia reso più ser­ vizio a Byron che a Schumann. Non per caso ma per amore Car­ melo Bene ha scelto Schumann, la cui musica dischiudeva tante nuove potenzialità per la voce e comportava una nuova strumen­ tazione della voce. Non si sono sbagliati alla Scala di Milano. Tra il canto e la musica, Carmelo Bene inserisce il testo divenuto so­ noro, lo fa coesistere con essi, reagire su di essi, in modo tale da farci sentire l’insieme per la prima volta e da ottenere una profon­ da alleanza tra l’elemento musicale e cantato e l’elemento vocale inventato, creato, reso necessario. Davvero una straordinaria riu­ scita che inaugura le nuove ricerche di Carmelo Bene.

25-

Prefazione a L "anomalia selvaggia *

Il libro di Negri su Spinoza, scritto in prigione, è un grande li­ bro, che rinnova da piu punti di vista la comprensione dello spinozismo. Vorrei soffermarmi qui su due delle tesi principali che esso sviluppa.

i. L ’ anti-giuridismo di Spinoza.

L’idea fondamentale di Spinoza è lo sviluppo spontaneo delle forze, almeno in modo virtuale. Vale a dire che in linea di princi­ pio non c’è bisogno di una mediazione per costituire i rapporti cor­ rispondenti alle forze. Per contro, l’idea di una mediazione necessaria appartiene es­ senzialmente alla concezione giuridica del mondo, come quella ela­ borata da Hobbes, Rousseau e Hegel. Tale concezione implica: i) che le forze hanno un’origine individuale o privata; 2) che de­ vono essere socializzate per generare i rapporti adeguati che cor­ rispondono a esse; 3) che di conseguenza vi è la mediazione di un Potere («Potestas»); 4) che l’orizzonte è inseparabile da una crisi, da una guerra o da un antagonismo di cui il Potere si presenta co­ me la soluzione, che è tuttavia una «soluzione antagonista». Spesso si è detto che Spinoza appartenesse a questo ramo giu­ ridico, a metà strada fra Hobbes e Rousseau. Secondo Negri non è cosi. In Spinoza le forze sono inseparabili da una spontaneità e da una produttività che rendono possibile il loro sviluppo senza mediazione, cioè la loro composizione. Sono elementi di socializ­ zazione in quanto tali. Spinoza pensa fin dall’inizio in termini di * Preface, in A. Negri, L’anomalie sauvagp : puissance et pouvoir chez Spinoza, PUF, Pa­ ris 1982, pp. 9-12 (edizione originale: L'anomalia selvaggia : saggio su potere e potenza in BaruchSpinoza, Feltrinelli, Milano 1981; ora ìnSpinoza, DeriveApprodi, Roma 1998). Su To­ ni Negri vedi la presentazione del testo n. 20.

Prefazione a L'anomalìa selvaggia

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«moltitudine», non di individuo. Tutta la sua filosofia è una filo­ sofia della «potentia» contro la «potestas». Essa si inserisce in una tradizione antigiuridica che passerebbe da Machiavelli e sfocerebbe in Marx. E tutta una concezione della «costituzione» ontolo­ gica, o della «composizione» fisica e dinamica, che si oppone al contratto giuridico1. In Spinoza il punto di vista ontologico di una produzione immediata si oppone a ogni richiamo a un Dover-Essere, a una mediazione e a una finalità («con Hobbes la crisi con­ nota l’orizzonte ontologico e lo sussume, con Spinoza la crisi è sus­ sunta sotto l’orizzonte ontologico»). Benché si intuisca l’importanza e la novità della tesi di Negri, il lettore potrebbe dubitare dell’atmosfera utopica che ne deriva. Inoltre, Negri sottolinea il carattere eccezionale della situazione olandese e quel che rende possibile la posizione di Spinoza: contro la famiglia degli Orange, che rappresenta una «potestas» confor­ me all’Europa monarchica, l’Olanda dei fratelli De Witt può ten­ tare di promuovere un mercato come spontaneità delle forze pro­ duttive o un capitalismo come forma immediata della socializza­ zione delle forze. Anomalia spinoziana e anomalia olandese... Ma in entrambi i casi, non si tratta della stessa utopia'? Qui intervie­ ne il secondo punto forte dell’analisi di Negri.

2. L "evoluzione di Spinoza. Il primo Spinoza, come appare nel Trattato breve e anche all’i­ nizio dell" Etica, rimane in effetti dentro le prospettive dell’utopia. Certamente le rinnova, perché assicura la massima espansione al­ le forze, elevandosi a una costituzione ontologica della sostanza, e dei modi attraverso la sostanza (panteismo). Ma proprio in virtù della spontaneità dell’operazione, o dell’assenza di mediazione, la composizione materiale del reale concreto non si manifesterà come potenza propria, e la conoscenza e il pensiero dovranno ancora ri­ piegarsi su se stessi, assoggettati a una produttività dell’Essere sol­ tanto ideale, invece di aprirsi al mondo. In questo modo il secondo Spinoza, quale appare nel Trattato teologico-politico e che si afferma nel corso delTEtóaz, sarà ricono­ scibile da due temi fondamentali: da una parte, la potenza della 1 E. Alliez, Spinoza au-delà de Marx, in «Critique», agosto-settembre 1981, n. 411-12, pp. 812-21, analizza proprio questa antitesi.

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Due regimi di folli

sostanza è ripiegata sui modi a cui fa da orizzonte; dall’altra, il pensiero si apre al mondo e si pone come immaginazione materia­ le. Qui l’utopia finisce, a vantaggio delle premesse di un materia­ lismo rivoluzionario. Non che l’antagonismo e la mediazione sia­ no ristabiliti. L’orizzonte dell’Essere sussiste immediatamente, ma come luogo della costituzione politica, e non come utopia della co­ stituzione ideale e sostanziale. I corpi (e le anime) sono delle forze. In quanto tali non si defi­ niscono solo attraverso i loro incontri e i loro scontri casuali (sta­ to di crisi). Si definiscono attraverso i rapporti tra un’infinità di parti che compongono ogni corpo, e che lo caratterizzano già co­ me una «moltitudine». Ci sono dunque dei processi di composizio­ ne e di scomposizione dei corpi, a seconda che i loro rapporti ca­ ratteristici siano adeguati o no. Due o più corpi formeranno un tutto, cioè un terzo corpo, se compongono i loro rispettivi rappor­ ti in circostanze concrete. Si tratta del più alto esercizio dell’im­ maginazione, il punto in cui essa ispira l’intelletto: fare in modo che i corpi (e le anime) si incontrino secondo rapporti di composi­ zione. Da qui l’importanza della teoria spinoziana delle nozioni co­ muni, elemento principale dell’Eric^, dal II al V libro. L’immagi­ nazione materiale stringe alleanza con l’intelletto assicurando al tempo stesso, sotto l’orizzonte dell’Essere, la composizione fisica dei corpi e la costituzione politica degli uomini. Ciò che Negri aveva fatto incisivamente per Marx con i Grundrisse, ora lo fa per Spinoza: una rivalutazione del rispettivo posto che occupano nell’opera di Spinoza il Trattato breve e il Trattato teologico-politico. In questo senso Negri propone un’evoluzione di Spinoza: da un’wtopw progressista a un materialismo rivoluzionario. Negri è indubbiamente il primo a conferire il suo pieno senso fi­ losofico all’aneddoto secondo cui Spinoza si era lui stesso disegna­ to come Masaniello, il rivoluzionario napoletano (si veda quel che dice Nietzsche sull’importanza degli «aneddoti» attinenti al «pen­ siero nella vita di un pensatore»). Ho fatto una presentazione estremamente rudimentale delle due tesi di Negri. Non credo sia il caso di discutere queste tesi e di apportare in maniera affrettata obiezioni oppure conferme. Que­ ste tesi hanno il merito evidente di rendere conto della situazione eccezionale di Spinoza nella storia del pensiero. Sono tesi profon­ damente nuove, ma quel che ci fanno vedere è innanzitutto la no­ vità di Spinoza stesso, nel senso di una «filosofia dell’avvenire». Mostrano il ruolo fondante della politica nella filosofia di Spino-

Prefazione a L"anomalia selvaggia

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za. Il nostro primo compito dovrebbe essere quello di apprezzare la portata di queste tesi e di comprendere ciò che Negri ha cosi trovato in Spinoza, in che cosa sia autenticamente e profondamen­ te spinoziano.

2Ó.

Gli indiani di Palestina *

Gilles deleuze Sembra che nei palestinesi sia maturato qualco­ sa. Un tono nuovo, come se avessero oltrepassato il primo sta­ dio della loro crisi e avessero raggiunto una regione di certez­ za o di serenità, di «diritto», che testimonierebbe una nuova coscienza. E che permetterebbe loro di parlare in modo nuo­ vo, né aggressivo né difensivo, ma «da pari a pari» con tutto il mondo. Come lo spieghi, dal momento che i palestinesi non hanno ancora raggiunto i loro obiettivi ? Elias sanbar Abbiamo percepito questa reazione fin dalla pub­ blicazione del primo numero. Alcuni si sono detti: «Ma guar­ da, i palestinesi fanno anche delle riviste come questa», e ciò ha smosso nella loro testa un’immagine ben consolidata. Non dimentichiamo che, per molti, l’immagine che rivendichiamo del combattente palestinese restava molto astratta. Mi spiego. Prima che imponessimo la realtà della nostra presenza erava­ mo percepiti solo come profughi. Quando il nostro movimen­ to di resistenza ha imposto un confronto con la nostra lotta, siamo stati di nuovo rinchiusi in un’immagine riduttiva. Isolata e moltiplicata all’infinito, era un’immagine di puri mi­ litaristi, e siamo stati percepiti come se non facessimo altro. Se preferiamo la nostra immagine di combattenti a quella di mili­ tari in senso stretto è proprio per sfuggire a quella immagine. * Con Elias Sanbar, in «Libération», 8-9 maggio 1982, pp. 20-21. L’intervista è pre­ ceduta da alcune righe redatte da Deleuze in merito alla « Revue d’études palestirùennes», creata nell’ottobre 1981, il cui obiettivo iniziale era di analizzare i fattori della crisi in Me­ dio Oriente: «Aspettavamo da molto tempo una rivista araba in lingua francese, ma pen­ savamo sarebbe arrivata dal Nord Africa. Ora l’hanno fatta i palestinesi. Ha due caratte­ ristiche evidentemente centrate sui problemi palestinesi, ma che riguardano anche l’insie­ me del mondo arabo. Da una parte, presenta delle analisi sociopolitiche molto approfondite, con un tono controllato, come a sangue freddo. Dall’altra, mobilita un “corpus” letterario, storico, sociologico, propriamente arabo, molto ricco e poco conosciuto». Elias Sanbar, scrittore palestinese nato nel 1947, è il redattore capo della « Revue d’études palestiniennes». E stato un caro amico di Deleuze a partire dalla fine degli anni Settanta.

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Credo che lo stupore che ha provocato la pubblicazione di que­ sta rivista derivi anche dal fatto che qualcuno deve iniziare a dirsi che i palestinesi esistono, non servono esclusivamente a evocare principi astratti. Se è vero che questa rivista viene dal­ la Palestina, cionondimeno costituisce un terreno in cui si espri­ mono preoccupazioni molteplici, un luogo in cui prendono la parola non solo palestinesi, ma anche arabi, europei, ebrei ecc. Le persone devono iniziare a rendersi conto soprattutto che, se c’è un lavoro come questo e una tale diversità di orizzonti, ci devono probabilmente anche essere, ad altri livelli della Pa­ lestina, pittori, scultori, operai, contadini, scrittori, banchieri, attori, commercianti, professori... una società reale, insomma, della cui esistenza questa rivista rende conto. La Palestina non è soltanto un popolo ma anche una terra. E ciò che lega questo popolo alla sua terra defraudata, è il luogo in cui agiscono un’assenza e un immenso desiderio di ritorno. Questo luogo è unico, ed è fatto di tutte le espulsioni vissute dal nostro popolo a partire dal 1948. Quando si ha la Palesti­ na negli occhi, la si studia, la si scruta, si segue ogni suo più pic­ colo movimento, si nota ogni cambiamento che la riguarda, si completano tutte le sue immagini antiche, in breve non la si perde mai di vista. G. deleuze Molti articoli della «Revue d’études palestiniennes» richiamano e analizzano in modo nuovo i procedimenti con cui i palestinesi sono stati scacciati dai loro territori. E molto impor­ tante, perché i palestinesi non sono nella situazione dei popo­ li colonizzati, ma sono stati evacuati, cacciati via. Nel libro che stai preparando, tu insisti sul paragone con i pellerossa1. Nel capitalismo ci sono due movimenti molto diversi. Da una par­ te bisogna far restare un popolo sul suo territorio, e farlo lavo­ rare, sfruttarlo, per accumulare un surplus: è ciò che in genere si chiama colonia. Dall’altra, invece, si tratta di svuotare un territorio dal suo popolo per fare un salto in avanti, anche a co­ sto di far arrivare la manodopera da fuori. La storia del sioni­ smo e di Israele, cosi come quella dell’America, è passata per di qua: come fare il vuoto, come evacuare un popolo ? In un’intervista, Yasser Arafat segna il limite del paragone1 2, e 1 Si tratta di Palestine 1948, Ìexpulsion, Les livres de la Revue d’études palestiniennes, Paris, che venne pubblicato nel 1983 (N J C.]. 2 In «Revue d’études palestiniennes», 1982, n. 2, pp. 3-17 [NJ.C.].

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questo limite costituisce anche l’orizzonte della « Revue d’études palestiniennes»: c’è un mondo arabo, mentre i pellerossa non disponevano di nessuna base o forza al di fuori del terri­ torio da cui venivano espulsi. e. sanbar Noi siamo degli espulsi particolari perché non siamo stati trasferiti in terre straniere, ma nel prolungamento di «ca­ sa nostra». Siamo stati trasferiti in terra araba, dove non sol­ tanto nessuno vuole che ci dissolviamo, ma in cui questa stes­ sa idea è un’aberrazione. Penso all’immensa ipocrisia di certe affermazioni israeliane che rinfacciano agli altri arabi di non averci fatto «integrare», che nel linguaggio israeliano significa «far sparire»... Coloro che ci hanno espulsi si sono immedia­ tamente preoccupati di un supposto razzismo arabo verso di noi. Questo significa, forse, che non abbiamo dovuto affron­ tare delle contraddizioni in alcuni paesi arabi? Certamente no, ma questi scontri tuttavia non dipendevano dal fatto che era­ vamo arabi; a volte erano inevitabili perché eravamo e siamo una rivoluzione in armi. Siamo comunque i pellerossa dei co­ loni ebrei in Palestina. Ai loro occhi il nostro solo e unico ruo­ lo consisteva nello scomparire. Da questo punto di vista la sto­ ria della fondazione d’Israele è senza dubbio un rifacimento del processo che ha fatto nascere gli Stati Uniti d’America. Vi è qui probabilmente uno degli elementi essenziali per com­ prendere la loro solidarietà reciproca. Allo stesso modo, ci so­ no gli elementi che fanno si che durante il periodo del manda­ to non avessimo a che fare con una colonizzazione abituale «classica», con la coabitazione dei coloni e dei colonizzati5. I francesi, gli inglesi ecc. ambivano a installare degli spazi in cui la presenza degli autoctoni era la condizione di esistenza di que­ sti spazi. Affinché una dominazione si eserciti, bisogna pure che i dominati siano presenti. Che lo si volesse o meno, si crea­ vano degli spazi comuni, vale a dire reti, settori, livelli di vita sociale in cui avveniva proprio questo «incontro» tra coloni e colonizzati. Che fosse intollerabile, carico di oppressione, sfrut­ tamento e dominazione non cambia il fatto che lo «straniero», per dominare il «locale», doveva inizialmente essere «in con­ tatto» con lui. * La Palestina, che fino al 1921 era sotto il regime militare britannico, successivamente si trovò posta, dalla Società delle Nazioni, sotto il Mandato della Gran Bretagna. Il re­ gime civile ebbe inizio nel 1923 e durò fino al 15 maggio 1948, data in cui i britannici se ne andarono e venne proclamato lo stato d’Israele [N J.C.].

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Arriva il sionismo che invece parte dalla necessità della nostra assenza, e che inoltre fa della specificità dei suoi membri (l’ap­ partenenza a comunità ebraiche) la pietra angolare del nostro rifiuto, del nostro spostamento, del «transfert» e della sostitu­ zione descritta cosi bene da Ilan Halevi4. Ecco come sono na­ ti per noi, arrivando sulla stessa scia di quelli che ho chiamato i «coloni stranieri», coloro che mi sembra giusto chiamare i «coloni sconosciuti»? Il loro modo di procedere è stato unica­ mente quello di fare delle proprie caratteristiche specifiche la base del rifiuto totale dell’Altro. D’altronde, penso che nel 1948 il nostro paese non sia stato semplicemente occupato ma che sia in qualche modo «spari­ to». I coloni ebrei, diventati in quel momento «gli israeliani», hanno dovuto vivere certamente cosi la cosa. Il movimento sionista ha mobilitato la comunità ebraica in Pa­ lestina, non intorno all’idea che i palestinesi un giorno avreb­ bero dovuto andarsene, ma intorno all’idea che il paese era «vuoto». E vero, c’è stato qualcuno che quando arrivò sul po­ sto constatò il contrario e lo scrisse! Ma la maggior parte di questa comunità, di fronte alle persone che sfiorava fisicamen­ te ogni giorno, andava avanti come se esse non esistessero. E questo accecamento non era fisico, nessuno inizialmente si la­ sciava ingannare, ma tutti sapevano che questo popolo oggi pre­ sente era «sul punto di sparire», tutti si rendevano conto inol­ tre che, affinché questa sparizione potesse riuscire, bisognava procedere fin dal principio come se fosse già avvenuta, cioè «non vedendo» mai l’esistenza dell’altro, benché fosse molto presente. Perché avesse successo, lo svuotamento del territo­ rio doveva partire da un’evacuazione dell’«altro» dalla testa dei coloni. Per farlo, il movimento sionista ha profondamente giocato su una visione razzista che faceva dell’ebraismo la base stessa del­ l’espulsione, del rifiuto dell’altro. In questo è stato decisamen­ te aiutato dalle persecuzioni in Europa, perpetrate da altri raz­ zisti, che gli hanno permesso di trovare una conferma del pro­ prio modo di procedere. D’altronde, noi pensiamo che il sionismo abbia imprigionato gli ebrei, e li faccia essere schiavi di questa visione che ho appe­ na descritto. Dico che li fa essere schiavi e non che li ha fatti es­ 4 I. Halevi, Question juive, la tribù, la loi, l’espace, Minuit, Paris 1981 [Nz/.C.].

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sere, a un certo punto. E lo dico perché, una volta terminato 1’0locausto, il loro modo di procedere si è evoluto, si è trasformato in uno pseudo «principio eterno» secondo cui gli ebrei sono sem­ pre, in ogni tempo e luogo, l’« Altro» delle società in cui vivono. Ma non c’è nessun popolo, nessuna comunità - fortunatamen­ te - che possa pretendere di occupare immutabilmente la posi­ zione dell’«Altro» rifiutato e maledetto. L’Altro nel Medio Oriente oggi è l’arabo, il palestinese. E, col­ mo di ipocrisia e di cinismo, è a quest’AItro, la cui sparizione è continuamente all’ordine del giorno, che le potenze occidentali chiedono delle garanzie. Invece siamo noi che abbiamo bisogno di essere garantiti contro la follia dei capi militari israeliani. Malgrado ciò, l’Olp, il nostro unico e solo rappresentante, ha presentato la sua soluzione del conflitto, lo stato democratico in Palestina, uno stato in cui dovranno essere abbattuti i muri esistenti fra tutti i suoi abitanti, quali che siano. G. deleuze La «Revue d’études palestiniennes» ha il suo mani­ festo, che occupa le prime due pagine del numero i : siamo «un popolo come gli altri». E un grido con un senso molteplice. In primo luogo, è un richiamo, o un appello. Non si smette di rinfacciare ai palestinesi di non voler ricono­ scere Israele. Vedete, dicono gli israeliani, vogliono distrugger­ ci. Ma sono più di cinquant’anni che i palestinesi, a loro volta, lottano per essere riconosciuti. In secondo luogo, è un’opposizione. Perché il manifesto di Israele è piuttosto «Non siamo un popolo come gli altri», per la nostra trascendenza e l’enormità delle nostre persecuzioni. Da qui l’importanza, nel numero 2 della «Revue», di due testi di scrittori israeliani Sull’Olocausto, sulle reazioni sioniste all’Olocausto, e sul significato che ha avuto questo evento in Israele, rispetto ai palestinesi e all’insieme del mondo arabo che non ne fu coinvolto. Esigendo di «essere trattato come un po­ polo fuori dalla norma», lo stato d’Israele si mantiene tanto più in una situazione di dipendenza economica e finanziaria rispet­ to all’Occidente, quanto nessun altro stato ha mai sperimenta­ to (Boaz Evron)5. Ecco perché i palestinesi tengono tanto alla rivendicazione opposta: divenire ciò che sono, vale a dire un popolo del tutto «normale». ’ B. Evron, Les interpretations de l’«Holocauste» : Un danger pour le peuple juift « Revue d’études palestiniennes», 1982, n. 2, pp. 36-52 [Nz/.C.].

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Contro la storia apocalittica, c’è un senso della storia che fa tutt’uno con il possibile, la molteplicità del possibile, il molti­ plicarsi dei possibili in ogni momento. Non è forse questo che la « Revue » vuole mostrare anche e soprattutto con le sue ana­ lisi attuali ? E. sanbar Assolutamente si. La questione del ricordare al mon­ do la nostra esistenza è certamente piena di significati, ma è anche di una semplicità estrema. E una sorta di verità che, quan­ do sarà veramente ammessa, renderà il compito molto diffici­ le a coloro che hanno previsto la sparizione del popolo palesti­ nese. Perché alla fine ciò che dice è che ogni popolo ha in qual­ che modo «diritto al diritto». E un’evidenza, ma di una forza tale che rappresenta un po’ il punto di partenza e il punto d’ar­ rivo di ogni lotta politica. Prendiamo i sionisti, che cosa dico­ no a questo soggetto? Non li sentirai mai dire «il popolo pale­ stinese non ha diritto a nulla», nessuna forza è in grado di so­ stenere una simile posizione, lo sanno molto bene. Per contro, li sentirai certamente affermare: «Non esiste un popolo pale­ stinese». E per questo che la nostra affermazione «il popolo palestinese esiste» è, perché non ammetterlo? molto più forte di quanto possa sembrare a prima vista.

27Lettera a Uno sul linguaggio *

Caro amico,

grazie per la tua lettera, cosi bella e buona. Poni molte doman­ de e, come sempre, solo colui che le pone è in grado di dare una risposta. Tuttavia tra di noi c’è abbastanza familiarità perché ti possa dire come vedo io il problema del racconto. In primo Juogo, mi sembra che il linguaggio non abbia alcuna autonomia. E in questo senso che esso non ha nulla di significan­ te. E fatto di segni, ma i segni non sono separabili da un elemen­ to completamente altro, non linguistico, e che si potrebbe chiama­ re «stati di cose» o, meglio ancora, «immagini». Come Bergson ha mostrato molto bene, le immagini hanno un’esistenza in sé. Ciò che chiamo «concatenamento di enunciazione» è dunque fatto di immagini e di segni, che si muovono o si spostano nel mondo. In secondo luogo, l’enunciazione non rinvia a un soggetto. Non c’è soggetto di enunciazione, ma soltanto concatenamento. Que­ sto vuol dire che, in uno stesso concatenamento, ci sono dei «pro­ cessi di soggettivazione» che assegneranno diversi soggetti, alcu­ ni come immagini, altri come segni. Per questo motivo mi sembra cosi importante ciò che nelle nostre lingue europee si chiama «di­ scorso indiretto libero»: è un’enunciazione presa in un enunciato che dipende a sua volta da un’altra enunciazione. Per esempio: «Lei raccoglie le sue forze, morirà piuttosto che tradire... » Credo che ogni enunciazione sia di questo tipo, e si compia a piu voci. Negli ultimi anni si è fatta della metafora un’operazione coesten­ siva al linguaggio. Per me le metafore non esistono. Intendo dire: l’unica «figura» è il discorso indiretto libero, ed è coestensivo al linguaggio. Non so se c’è un discorso indiretto libero in giappone­ * Testo pubblicato in giapponese nella rivista «Gendai shiso» (La rivista del pensie­ ro di oggi), Tokyo, dicembre 1982, pp. 50-58; trad, giapponese di Kuniichl Uno. Si tratta di una lettera indirizzata il 25 ottobre 1982 a Kuniichi Uno, studioso e traduttore di De­ leuze.

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se (bisognerà che tu me lo spieghi). Se non c’è, potrebbe essere perché è una forma talmente consustanziale al giapponese che non c’è bisogno di specificarlo. D’altra parte, tutto ciò che dico sul con­ catenamento mi sembra che per un giapponese sia ovvio. In terzo luogo, la lingua non è mai un sistema omogeneo, e non contiene sistemi di questo tipo. La linguistica, che sia quella di Jakobson o quella di Chomsky, crede a questi sistemi perché non potrebbe darsi senza di essi. Ma non esistono. Una lingua è sem­ pre un sistema eterogeneo o, come direbbero i fisici, un sistema lontano dall’equilibrio. Tra i linguisti, Labov lo dice in maniera molto netta, e in questo modo rinnova la linguistica. E anche ciò che, in ogni epoca, ha reso possibile la letteratura: scrivere lonta­ no dall’equilibrio, scrivere nella propria lingua come «in una lin­ gua straniera» (Proust e il francese, Kafka e il tedesco ecc.). Tutto ciò spiega perché attualmente lavoro sul cinema. Il cine­ ma è un concatenamento di immagini e di segni (anche il cinema muto comportava alcuni tipi di enunciazione). Ciò che vorrei fa­ re è una classificazione delle immagini e dei segni. Per esempio, ci sarebbe l’immagine-movimento, che si dividerebbe in immaginepercezione, immagine-affezione, immagine-azione. Ci sarebbero anche altri tipi di immagine. E a ogni tipo corrisponderebbero dei segni o delle voci, delle forme di enunciazione. Bisognerebbe fare un’immensa sinossi, ogni grande autore con le sue preferenze. An­ che in questo caso, scopro con meraviglia il cinema giapponese. A presto. Con amicizia.

28. Prefazione all’edizione americana di Nietzsche e la filosofia*

A Hugh Tomlinson

Per un libro francese, essere tradotto in inglese è sempre un’av­ ventura invidiabile. Dev’essere l’occasione per l’autore, dopo tan­ ti anni, di fantasticare sul modo in cui vorrebbe essere recepito, da parte di un lettore eventuale a cui si sente troppo vicino ma an­ che troppo distante. Due ambiguità hanno pesato sul destino postumo di Nietzsche: era la prefigurazione di un pensiero già fascista ? E questo pensie­ ro riguardava la filosofia, o non era piuttosto una poesia violenta, troppo violenta, aforismi troppo capricciosi, frammenti troppo pa­ tologici ? Forse questi malintesi hanno raggiunto il culmine in In­ ghilterra. Tomlinson suggerisce che i temi principali affrontati da Nietzsche, combattuti dalla filosofia di Nietzsche, il razionalismo alla francese, la dialettica tedesca, non avevano mai avuto un’im­ portanza essenziale nel pensiero inglese. Dal punto di vista teori­ co gli inglesi disponevano di un empirismo e di un pragmatismo che rendeva inutile per loro il passaggio attraverso Nietzsche, il passaggio per gli speciali empirismo e pragmatismo di Nietzsche, rivolti contro il buonsenso. L’influenza di Nietzsche in Inghilter­ ra poteva dunque esercitarsi sui romanzieri, sui poeti, sui dram­ maturghi: era un’influenza pratica, affettiva più che filosofica, li­ rica più che teorica... Tuttavia Nietzsche è uno dei più grandi filosofi del xix seco­ lo. Che inoltre modifica la teoria e la pratica della filosofia. Nietz­ sche paragona il pensatore a una freccia scoccata dalla Natura, che un altro pensatore raccoglie nel punto in cui è caduta per lanciar­ la altrove. Secondo lui, il filosofo non è né eterno né storico, ma «inattuale», sempre inattuale. Nietzsche non ha molti precursori. * Titolo del curatore. Il testo dattiloscritto è intitolato Preface pour la traduction an­ glaise. In G. Deleuze, Nietzsche and Philosophy, trad. ingl. di H. Tomlinson, Columbia Uni­ versity Press, New York 1983, pp. ix-xiv.

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A parte gli antichi presocratici, riconosce di avere un solo precur­ sore, Spinoza.

La filosofia di Nietzsche si organizza secondo due grandi assi. Uno concerne la forza, le forze, e forma una semiologia generale. I fenomeni, le cose, gli organismi, le società, le coscienze e gli spi­ riti sono dei segni, o piuttosto dei sintomi, e come tali rinviano a stati di forze. Da ciò deriva la concezione del filosofo come «fisio­ logo e medico». Data una cosa, qual è lo stato di forze esterne e interne che suppone? Va a Nietzsche il merito di aver costituito un’intera tipologia che distingue forze attive, forze agite e forze reattive, e analizza le loro diverse combinazioni. In particolare, l’attribuzione di un tipo di forze propriamente reattive costitui­ sce uno dei punti più originali del pensiero nietzschiano. Questo libro tenta di definire e di analizzare le diverse forze. Una semio­ logia generale di questo tipo comprende la linguistica, o piutto­ sto la filologia, come uno dei suoi settori. Perché una proposizio­ ne è di per sé un insieme di sintomi che esprimono una maniera di essere o un modo di esistenza di colui che parla, vale a dire lo stato di forze che qualcuno ha o si sforza di avere con se stesso e con gli altri (ruolo delle congiunzioni, a questo proposito). Una proposizione rinvia sempre in questo senso a un modo di esisten­ za, a un «tipo». Data una proposizione, qual è il modo di esisten­ za di colui che la pronuncia, che modo di esistenza bisogna ave­ re per poterla pronunciare ? Il modo di esistenza è lo stato di for­ ze in quanto esso forma un tipo esprimibile attraverso segni o sintomi. I due grandi concetti umani reattivi, quali Nietzsche li «dia­ gnostica», sono il risentimento e la cattiva coscienza. Risentimen­ to e cattiva coscienza esprimono il trionfo delle forze reattive nell’uomo, che arrivano a costituirlo sino a farne l’uomo-schiavo. Questo dice come la nozione nietzschiana di schiavo non designi necessariamente chi è dominato per destino o condizione sociale, ma qualifichi tanto i dominanti quanto i dominati, non appena il regime di dominazione avvenga attraverso forze reattive e non at­ tive. In questo senso, i regimi totalitari sono regimi di schiavi, non solo perché assoggettano un popolo, ma soprattutto per il tipo di «padroni» che esaltano. Una storia universale del risentimento e della cattiva coscienza, a partire dal prete ebreo e dal prete cristia­ no fino al prete laico di oggi, è essenziale nel prospettivismo sto­

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rico di Nietzsche (i supposti testi antisemiti di Nietzsche sono in realtà dei testi sul tipo originale del prete). Il secondo asse riguarda la potenza, e forma un’etica e un’on­ tologia. I malintesi su Nietzsche culminano con la potenza. Ogni volta che si interpreta la volontà di Potenza nel senso di «volere o cercare la Potenza», si ricade sulle banalità che non hanno nul­ la a che vedere con il pensiero di Nietzsche. Se davvero ogni cosa rinvia a uno stato di forze, la Potenza designa l’elemento o piut­ tosto il rapporto differenziale tra le forze in presenza. Questo rap­ porto si esprime in qualità dinamiche come «affermazione», «nega­ zione».. . La potenza non è quindi ciò che la volontà vuole, ma al contrario ciò che vuole nella volontà. E «volere o cercare la poten­ za» è solo il grado più basso della volontà di potenza, la sua forma negativa o l’aspetto chev prende quando le forze reattive la trascina­ no nello stato di cose. E uno dei caratteri più originali della filoso­ fia di Nietzsche il fatto di aver trasformato la domanda «cosa ?» in «chi?» Per esempio, data una proposizione, chi è capace di enun­ ciarla ? Ancora una volta bisogna sbarazzarsi di ogni riferimento «personalistico». «Chi»... non si riferisce a un individuo o a una persona, ma piuttosto a un evento, vale a dire alle forze che sono in rapporto in una proposizione o in un fenomeno, e al rapporto ge­ netico che determina queste forze (potenza). «Chi» è sempre Dio­ niso, una maschera o un aspetto di Dioniso, un lampo. Il malinteso Sull’Eterno Ritorno è altrettanto grande di quello che pesa sulla volontà di Potenza. Perché ogni volta che si conce­ pisce l’Eterno Ritorno come il ritorno di una combinazione (dopo che tutte le altre combinazioni si sono prodotte), ogni volta che si interpreta l’Eterno Ritorno come il ritorno dell’identico o dello Stesso, al pensiero di Nietzsche si sostituiscono nuovamente delle ipotesi puerili. Nessuno ha spinto cosi lontano quanto Nietzsche la critica di ogni identità. Per due volte in Zarathustra Nietzsche ne­ ga esplicitamente che l’Eterno Ritorno sia un circolo che fa ritor­ nare lo Stesso. L’Eterno Ritorno è rigorosamente l’opposto, per­ ché è inseparabile da una selezione, da una doppia selezione. Da una parte, selezione del volere o del pensiero, che costituisce l’e­ tica di Nietzsche: volere soltanto ciò di cui si vuole anche l’eter­ no ritorno (eliminare tutti i mezzi-voleri, tutto ciò che uno può vo­ lere quando dice «una volta, soltanto una volta... ») Dall’altra par­ te, selezione dell’Essere, che costituisce l’ontologia di Nietzsche: la sola cosa che ritorna, la sola adatta a ritornare è ciò che diviene nel senso più pieno della parola. Ritornano soltanto l’azione e l’af­

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fermazione: l’Essere appartiene al divenire e appartiene soltanto a esso. Ciò che si oppone al divenire, lo Stesso o l’identico, a ri­ gore non è. Il negativo come il grado piu basso della potenza, il reattivo come il grado più basso della forma non ritornano, per­ ché sono l’opposto del divenire, il quale costituisce il solo Essere. Si vede di conseguenza in che modo l’Eterno Ritorno sia legato, non a una ripetizione dello Stesso, ma al contrario a una trasmu­ tazione. E l’istante o l’eternità del divenire che elimina tutto ciò che gli resiste. Esso libera, ancora di più crea, il puro attivo e l’af­ fermazione pura. E il Superuomo non ha altro contenuto, esso è il prodotto comune della volontà di Potenza e dell’Eterno Ritor­ no, Dioniso e Arianna. Per questo Nietzsche afferma che la vo­ lontà di Potenza non consiste nel volere, nel bramare o nel cerca­ re, ma soltanto nel «dare» e nel «creare». E questo libro si propo­ ne innanzitutto di analizzare ciò che Nietzsche chiama il Divenire.

Ma più ancora che su analisi concettuali, la questione Nietz­ sche poggia prima di tutto su valutazioni pratiche che sollecitano un’atmosfera generale, ogni sorta di disposizione affettiva del let­ tore. Nietzsche ha sempre conservato un profondissimo rapporto tra il concetto e l’affetto, proprio come Spinoza. Le analisi con­ cettuali sono indispensabili, e Nietzsche le porta più lontano di ogni altro. Ma finché il lettore le coglierà in un clima che non è quello di Nietzsche, esse resteranno inefficaci. Finché il lettore si ostinerà: 1) a vedere nello «schiavo» nietzschiano qualcuno che si trova a essere dominato da un padrone, e che merita di esserlo; 2) a concepire la volontà di potenza come una volontà che vuole e cer­ ca la potenza; 3) a concepire l’Eterno Ritorno come il fastidioso ritorno dello stesso; 4) a immaginare il Superuomo come una raz­ za data di padroni, non ci sarà alcun possibile rapporto positivo tra Nietzsche e il suo lettore. Nietzsche apparirà come un nichili­ sta, alla peggio come un fascista, alla meglio come un profeta oscu­ ro e terrificante. Nietzsche lo sapeva, conosceva il destino che lo attendeva, lui che fece di una «scimmia» o un «buffone» il dop­ pio di Zarathustra, e annunciò che Zarathustra e la sua scimmia sarebbero stati confusi (un profeta, un fascista o un pazzo...) Per questo motivo un libro su Nietzsche deve sforzarsi di correggere l’incomprensione pratica o affettiva tanto quanto di restaurare l’a­ nalisi concettuale. Ed è vero che Nietzsche ha diagnosticato il nichilismo come il

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movimento che travolge la storia. Nessuno ha analizzato meglio il concetto di nichilismo, l’ha inventato lui. Ma, per essere precisi, l’ha definito come il trionfo delle forze reattive, o come il negati­ vo nella volontà di potenza. Non ha mai smesso di opporvi la tra­ smutazione, ovvero il divenire, che è al tempo stesso l’unica azio­ ne della forza e l’unica affermazione della potenza, l’elemento trans-storico dell’uomo, X* Oltreuomo (e non il Superuomo). L'Oltreuomo è il punto focale in cui il reattivo è sconfitto (risentimen­ to e cattiva coscienza), e in cui il negativo lascia il posto all’affer­ mazione. In qualunque istante sia colto, Nietzsche resta insepara­ bile dalle forze dell’avvenire, dalle forze ancora a venire, che richiama dai suoi desideri, che il suo pensiero disegna, che la sua arte prefigura. Non si limita a diagnosticare, come diceva Kafka, le forze diaboliche che già bussano alla porta, ma le scongiura ad­ destrando l’ultima Potenza capace di intraprendere una lotta con esse, contro di esse, e di stanarle in noi cosi come al di fuori di noi. Un «aforisma» alla Nietzsche non è un semplice frammento, un pezzetto di pensiero: è una proposizione che assume un senso so­ lo in rapporto allo stato di forze che esprime, e che cambia senso, che deve cambiare senso, a seconda delle nuove forze che è «ca­ pace» (potenza) di sollecitare. Senza dubbio è questo l’aspetto più importante nella filosofia di Nietzsche: aver trasformato radicalmente l’immagine che ci fa­ cevamo del pensiero. Nietzsche sottrae il pensiero all’elemento del vero e del falso. Ne fa un’interpretazione e una valutazione, inter­ pretazione di forze, valutazione di potenza. E un pensiero-movi­ mento. Non soltanto nel senso che Nietzsche vuole riconciliare il pensiero e il movimento concreto, ma nel senso che il pensiero stes­ so deve produrre movimenti, velocità e lentezze straordinarie (per­ ciò, di nuovo, il ruolo dell’aforisma, con le sue velocità variate e il suo movimento di «proiettile»). Ne consegue che con le arti del movimento - il teatro, la danza, la musica - la filosofia assume un nuovo rapporto. Nietzsche non si accontenterà mai del discorso o della dissertazione (logos) come espressione del pensiero filosofico, sebbene abbia scritto le dissertazioni più belle, in particolare la Genealogia della morale, con cui tutta l’etnologia moderna ha un «debito» incolmabile. Ma un libro come Zarathustra non può che essere letto come un’opera lirica moderna, non può che essere vi­ sto e inteso come tale. Nietzsche non fa un’opera lirica filosofica o un teatro allegorico, ma crea un teatro o un’opera lirica che espri­ mono direttamente il pensiero come esperienza e movimento. E

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quando Nietzsche afferma che il Superuomo assomiglia più a Bor­ gia che a Parsifal, o che fa parte contemporaneamente dell'ordine dei gesuiti e del corpo degli ufficiali prussiani, a torto le intendia­ mo come dichiarazioni prefasciste, mentre invece sono note di re­ gia che indicano come il Superuomo debba essere «recitato» (un po' come Kierkegaard quando dice che il cavaliere della fede asso­ miglia a un borghese vestito a festa). Che pensare sia creare è la piu grande lezione di Nietzsche. Pensare, tirare un colpo di da­ di...: era già questo il senso delTEterno Ritorno.

29Cinema-1, prima *

Lei si chiede perché in tanti scrivono sul cinema. È una doman­ da che vale per lei come per me. Forse perché il cinema comporta molte idee. Chiamo Idee le immagini che fanno pensare. Passan­ do da un’arte all’altra, la natura delle immagini varia ed è insepa­ rabile dalle tecniche: colori e linee per la pittura, suoni per la mu­ sica, descrizioni verbali per il romanzo, immagini-movimento per il cinema ecc. E in ognuno di questi casi i pensieri non sono sepa­ rabili dalle immagini, sono del tutto immanenti a esse. Non ci so­ no pensieri astratti che si realizzano indifferentemente nell’una o nell’altra immagine, ma pensieri concreti che esistono soltanto at­ traverso queste immagini e i loro mezzi. Far emergere le idee ci­ nematografiche vuol dunque dire estrarre dei pensieri senza astrar­ li, coglierli nel loro rapporto interno con le immagini-movimento. E per questa ragione che si scrive «sul» cinema. In questo senso, i grandi autori cinematografici sono dei pensatori tanto quanto lo sono i pittori, i musicisti, i romanzieri o i filosofi (la filosofia non ha alcun privilegio). Ci sono punti d’incontro tra il cinema e le altre arti che posso­ no giungere a dei pensieri simili. Ma non perché ci sia un pensiero astratto indifferente ai suoi mezzi d’espressione, semmai perché le immagini e i mezzi d’espressione possono creare un pensiero che si ripete o viene ripreso da un’arte all’altra, ogni volta in modo auto­ nomo e completo. Prendiamo un esempio di suo gradimento: Ku­ rosawa. In Dostoevskij compaiono di continuo personaggi che si trovano dentro situazioni di grande urgenza e che hanno bisogno di risposte immediate. Ma tutt’a un tratto il personaggio si ferma, sembra perdere tempo senza motivo: ha infatti l’impressione di non * Intervista raccolta da Serge Daney, in «Liberation», 3 ottobre 1983, p. 30. In oc­ casione della pubblicazione di Cinema 1. L'image-mouvement, Minuit, Paris 1983; trad. it. Cinema 1 L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1993.

Cinema-ir prima

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aver ancora trovato il «problema» nascosto, più urgente persino della situazione in cui si trova. E come se qualcuno, mentre è inse­ guito da un cane rabbioso, si fermasse di colpo e si dicesse: «Ma c’è un problema, qual è questo problema ?» E precisamente ciò che Dostoevskij chiama Videa. Poi ci si rende conto che in Kurosawa ci sono Idee nello stesso identico senso. I personaggi di Kurosawa non smettono di risalire dai «dati» di una situazione urgente ai «dati» di una questione ancora più urgente che è nascosta nella situazio­ ne. Ciò che chiamo pensiero non è il contenuto della questione, che può essere astratto e banale (dove andiamo, da dove veniamo ?), ma questa risalita formale dalla situazione a una questione sepolta, que­ sta metamorfosi dei dati. Kurosawa non fa un adattamento di Do­ stoevskij, ma la sua arte delle immagini-movimento e i suoi mezzi specifici lo portano a creare un pensiero che è già esistito una vol­ ta, nell’arte delle descrizioni verbali di Dostoevskij. Il fatto che stia o meno adattando Dostoevskij diventa alquanto secondario. Lei stesso, per esempio, distingue diversi tipi di immagini nel cinema. Parla dell’immagine in profondità, in cui c’è sempre qual­ cosa che ne nasconde un’altra; dell’immagine piana, in cui tutto si dà a vedere; delle combinazioni di immagini, in cui ognuna scivo­ la sulle altre o si incastra nelle altre. E evidente che non sono sol­ tanto mezzi tecnici. Bisognerebbe inoltre tenere presente l’inter­ pretazione degli attori: i diversi tipi di immagini esigono recitazio­ ni molto diverse. Per esempio, la crisi dell’immagine-azione ha imposto un nuovo genere di attori, non «attori non professioni­ sti», ma al contrario dei «non-attori» professionisti, attori di stra­ da, come - in Francia - Jean-Pierre Léaud, Bulle Ogier o Juliet Berto. E anche per gli attori non si tratta solo di tecnica ma di pen­ siero. Gli attori non pensano sempre, sono loro stessi dei pensie­ ri. Un’immagine ha valore esclusivamente per i pensieri che crea. Nelle immagini che lei distingue, l’immagine piana è inseparabile da un pensiero che reagisce su di essa, e che d’altra parte varia a seconda degli attori: in Dreyer la soppressione della profondità co­ me terza dimensione è inseparabile da una quarta e da una quinta dimensione, come dice lui stesso (e gli attori recitano di conseguen­ za). In Welles la profondità non è quella dell’immagine profonda di cui parla lei: è legata alla scoperta di «falde di passato», raddop­ pia Timmagine-movimento in un’esplorazione del passato che il flashback di per sé non sarebbe assolutamente in grado di costi­ tuire. E una grande creazione cinematografica, è la costruzione di un’immagine-tempo che comporta nuove funzioni di pensiero.

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Due regimi di folli

Lo stato della critica cinematografica sembra piuttosto buono nei libri e nelle riviste. Ci sono parecchi libri molto belli. Forse è in virtù del carattere recente e rapido del cinema: attualità e velo­ cità. Al cinema non c’è ancora l’abitudine di distinguere il classi­ co (ciò che è stato fatto e che sarebbe l’oggetto di una critica uni­ versitaria troppo sicura di sé) e il moderno (ciò che si fa adesso e che sarebbe giudicato dall’alto). Questa distinzione, tra un’arte e la sua storia, è sempre dannosa. Se sarà applicata al cinema, risul­ terà ancora dannosa. Per il momento c’è un compito già avviato: la ricerca delle Idee cinematografiche. E al tempo stesso la ricer­ ca più interna del cinema e una ricerca comparata, perché fonda un confronto con la pittura, la musica, la filosofia e addirittura la scienza.

30. Ritratto del filosofo da spettatore*

Il suo libro precedente era una monografia su Francis Bacon: com'è passato dalla pittura al cinema? C'era l'ombra di un progetto in quest'ordine di passaggio? Gilles deleuze Non sono passato dall’una all’altro. Non credo che la filosofia sia una riflessione su altre cose, sulla pittura o sul cinema. La filosofia si occupa di concetti: li produce, li crea. La pittura crea un certo tipo di immagini, linee e colori. Il ci­ nema crea un altro tipo di immagini, immagini-movimento e immagini-tempo. Ma anche i concetti sono immagini, sono im­ magini di pensiero. Comprendere un concetto non è né più dif­ ficile, né più facile che guardare un’immagine. Non si tratta dunque di riflettere sul cinema, è normale che la filosofia produca concetti in risonanza con le immagine pitto­ riche di oggi, o con le immagini cinematografiche ecc. Il cine­ ma, per esempio, costruisce spazi particolari: spazi vuoti, spa­ zi in cui i pezzi non hanno connessioni fisse. Ma anche la filo­ sofia è portata a costruire concetti spaziali corrispondenti agli spazi del cinema, o agli spazi di altre arti, della scienza... Ci possono anche essere punti di indiscernibilità in cui la stessa cosa potrebbe esprimersi in un’immagine pittorica, in un mo­ dello scientifico, in un’immagine cinematografica, in un con­ cetto filosofico. Tuttavia, ogni disciplina ha il proprio movi­ mento, i propri mezzi, i propri problemi. Lei abbandona progressivamente - o provvisoriamente - gli oggetti di studio abituali del filosofo per rivolgersi verso altri supporti : forse più moderni? meno sorpassati? più attraenti? più distensivi? G. deleuze Forse no. La filosofia ha il proprio supporto, alquan­ to attraente e distensivo. Non credo alla morte della filosofia. * Intervista raccolta da Hervé Guibert, in «Le Monde», 6 ottobre 1983, pp. 1 e 17; trad. it. di Gianfranco Morosato, in Divenire molteplice, ombre corte, Verona 2002. In oc­ casione della pubblicazione di Cinema 1. L'image-mouvement. Minuit, Paris 1983; trad. it. Cinema 1. L'immagine movimento, Ubulibri, Milano 1993.

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I concetti non sono cose severe o antiquate. Sono animate entità moderne. Prendiamo un esempio. Maurice Blanchot spiega che in un evento coesistono due dimensioni insepara­ bili: da una parte ciò che sprofonda e si compie nei corpi, dal­ l’altra una inesauribile potenzialità che eccede ogni attualizzazione. Egli costruisce, quindi, un particolare concetto di evento. Ma può accadere che un attore sia spinto a «interpretare» un evento sotto questi due aspetti. Si potrebbe applicare al cine­ ma la formula zen: è «la riserva visiva degli eventi nella loro precisione». Ciò che è interessante in filosofia è che essa pro­ pone un taglio delle cose, un nuovo taglio: raggruppa in uno stesso concetto cose che credevamo molto diverse, e ne separa 1 altre che credevamo molto vicine. Ma anche il cinema è un ta­ glio di immagini visive e sonore. Ci sono modalità distinte di taglio che possono convergere. Preferisce una sala cinematografica a una biblioteca? G. deleuze Le biblioteche sono necessarie, ma non ci si sta be­ nissimo. Mentre si suppone che le sale cinematografiche siano luoghi di piacere. Non mi piace molto la proliferazione delle piccole sale, in cui i film sono programmati a ore precise. Mi sembra che il cinema sia inseparabile dalla nozione che ha in­ ventato, di spettacolo permanente. Mi piacciono invece le sa­ le specializzate: nella commedia musicale, nel film francese, nel cinema sovietico, nel cinema d’azione... Si sa che è stato il Mac Mahon a lanciare Losey. Ha scritto davanti allo schermo, al buio? g. deleuze Non scrivo durante lo spettacolo, mi sembra un’idea bizzarra. Ma butto giù degli appunti subito dopo. Sono uno spettatore ingenuo. E soprattutto non credo all’esistenza di di­ versi gradi: non c’è un primo grado, un secondo, un terzo. Se c’è qualcosa di buono al secondo grado c’è anche al primo, se non c’è al primo non c’è nemmeno al decimo, né al millesimo. Tutte le immagini sono letterali e devono essere prese letteral­ mente. Quando un’immagine è piana, non bisogna ridarle in alcun modo, nemmeno col pensiero, una profondità che la sfi­ gurerebbe: è questa la cosa difficile, cogliere le immagini nella loro datità immediata. E quando un cineasta indica «attenzio­ ne, non è altro che cinema», è di nuovo una dimensione del­ l’immagine che bisogna prendere alla lettera. Ci sono più vite distinte, come diceva Vertov, una vita per il film, una vita nel

Ritratto del filosofo da spettatore

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film, una vita del film stesso, che vanno colte simultaneamen­ te. In ogni caso, un’immagine non rappresenta una realtà sup­ posta, essa è in quanto tale tutta la sua realtà. Le capita di piangere al cinema? G. deleuze Piangere o meglio far piangere, ma anche far ridere, sono funzioni di questa o di quell’immagine. Si può piangere perché è troppo bello, o troppo intenso. C’è soltanto una cosa fastidiosa, ed è la famosa risata del cinefilo nelle cineteche, quelli che ridono al secondo grado, come dicono loro. Preferi­ rei un cinema intero in lacrime. E normale e necessario pian­ gere di fronte a Giglio infranto di Griffith. Il suo libro contiene venti rimandi, la maggior parte dei quali si riferi­ sce a scritti sul cinema. Per un attimo non ha avuto ilfantasma di un testo originale: di far finta di essere il primo spettatore, praticamente solo con l’immagine, e di scrivere alla cieca, o meglio in uno stato di autentica veggenza? G. deleuze Un film è inseparabile non solo da una storia del ci­ nema, ma anche da ciò che è stato scritto sul cinema. Un aspet­ to della scrittura è dire ciò che si è saputo vedere. Non esiste uno spettatore originale. Non c’è un inizio né una fine. Si ar­ riva sempre a metà di qualcosa, e si crea soltanto nel mezzo, dando nuove direzioni o biforcazioni a linee preesistenti. Ciò che lei chiama veggenza non è una qualità dello sguardo dello spettatore, è una qualità possibile dell’immagine stessa. Per esempio, un film può presentarci delle situazioni sensomo­ torie: un personaggio reagisce a una situazione. E qualcosa di visibile. Ma ci sono dei casi in cui il personaggio si trova in si­ tuazioni che eccedono ogni reazione possibile, perché è troppo bello, troppo forte, quasi insopportabile: come capita all’eroi­ na di Stromboli, in Rossellini. In questo caso c’è una funzione di veggenza, ma già nell’immagine stessa. I veggenti sono Ros­ sellini, Godard, non lo spettatore. Ci sono inoltre immagini che si presentano non solo come vi­ sibili, ma anche come leggibili, benché restino pure immagini. Tra il visibile e il leggibile c’è ogni sorta di comunicazione vi­ siva. Sono le immagini che impongono allo spettatore un cer­ to uso dei suoi occhi e delle sue orecchie. Ma poi lo spettatore non ha che intuizioni vuote se non sa apprezzare la novità di un’immagine, di una serie o di un film. Questa novità del tipo di immagine è necessariamente inseparabile da tutto ciò che precede.

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In che modo può valere la novità? G. deleuze La novità è il solo criterio di ogni opera. Se non si pensa di aver visto qualcosa di nuovo, o di avere qualcosa di nuovo da dire, perché scrivere, perché dipingere, perché pren­ dere in mano una cinepresa? Anche in filosofia, se non si in­ ventano nuovi concetti, perché fare filosofia ? Ci sono solo due pericoli: ridire ciò che è già stato detto o fatto mille volte, o cercare il nuovo per se stesso, per puro piacere, a vuoto. In en­ trambi i casi significa copiare, copiare il vecchio o la moda. Si può sempre copiare Joyce, Céline o Artaud, e anche credere di essere migliori di loro perché li si copia. Ma il nuovo, di fatto, non è separato da qualcosa che si mostra, che si dice, che si z enuncia, che si fa emergere e che inizia a esistere per se stesso. Il nuovo, in questo senso, è sempre l’inatteso, ma anche ciò che diventa immediatamente eterno e necessario. Ricopiarlo, rifar­ lo non suscita alcun interesse. Un grande film è sempre nuovo, ed è questo che lo rende indi­ menticabile. Le immagini cinematografiche sono chiaramente firmate. I grandi autori cinematografici hanno le loro luci, i lo­ ro spazi, i loro temi. Non si può confondere uno spazio di Ku­ rosawa con uno di Mizoguchi. La violenza di Losey non può essere confusa con quella di Kazan, la prima è una violenza sta­ tica, immobile, la seconda un acting-out. Un rosso di Nicholas Ray non è lo stesso rosso di Godard... Lei parla spesso di «problema» quando si riferisce alla luce o alla profondità di campo : perché sarebbero dei problemi? G. deleuze Se vuole, questi sono dati dell’immagine. Ma si par­ la giustamente di «dati» di un problema, e in virtù dei suoi dati un problema ha soluzioni assai diverse. In questo sta il nuovo: nel modo in cui i problemi sono risolti altrimenti, ma soprattutto perché un autore ha saputo porli in maniera nuo­ va. Tuttavia, non c’è un modo migliore di un altro. E una que­ stione di creazione. Prendiamo l’esempio della luce. Alcuni hanno posto il problema della luce in rapporto alle tenebre, e lo hanno fatto in vario modo: sotto forma di due metà, di striature, di chiaroscuro. Cionondimeno, questi modi avevano una certa unità, che si è legittimamente chiamata «espressioni­ smo» nel cinema. E da notare che questo tipo di immagine luce-tenebre rimandava a un concetto filosofico, a un’imma­ gine del pensiero: quella di una lotta o di un conflitto tra il Be­ ne e il Male.

Ritratto del filosofo da spettatore

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Va da sé che il problema cambia completamente se lei guarda e pensa la luce in rapporto al bianco e non più alle tenebre. Da questo punto di vista, l’ombra non sarà che una conseguenza, sarà tutto un altro mondo, che non avrà minore durezza, o a vol­ te crudeltà, ma in esso tutto sarà luce. Semplicemente ci saran­ no due luci, quella del sole e quella della luna. E concettualmen­ te il tema dell’alternanza e dell’alternativa sostituirà quello del­ la lotta o del conflitto. Sarà un «nuovo» modo di trattare la luce, ma innanzitutto perché sarà cambiata la natura del problema. Si segue una via creatrice, poi sopraggiunge un autore o un movi­ mento che traccia un’altra via, a volte quando la prima è in qual­ che modo esaurita, a volte prima che si esaurisca. È andato spesso al cinema? Quando ha deciso di scrivere sul cinema? Come si è costruito questo libro? G. deleuze Prima della guerra, ero un bambino, ma verso i die­ ci anni andavo molto spesso al cinema, più dei miei coetanei. Mi ricordo ancora alcuni film e attori dell’epoca. Amavo Da­ nielle Darrieux e mi piaceva molto Saturnin Fabre perché mi faceva paura e ridere insieme, aveva inventato un modo di re­ citare. Ma, dopo la guerra, ho riscoperto il cinema in ritardo sugli altri. Ho avuto tardi la consapevolezza del cinema come arte e creazione. In fondo mi sentivo soltanto filosofo. Ciò che mi ha spinto a scrivere sul cinema è il fatto che per molto tem­ po mi sono portato dietro un problema di segni. La linguistica mi sembrava inadatta a trattarlo. Mi sono imbattuto nel cine­ ma perché, essendo fatto di immagini-movimento, fa prolife­ rare ogni sorta di strani segni. Mi è parso che esso stesso richie­ desse una classificazione di segni che eccedeva la linguistica da ogni parte. E tuttavia il cinema per me non era un pretesto o un campo di applicazione. La filosofia non si pone in una condizio­ ne di riflessione esterna sugli altri campi, ma di alleanza attiva e interna con essi, e non è né più astratta né più difficile. Non ho voluto fare una filosofia sul cinema, ma considerare il cinema per se stesso attraverso una classificazione dei segni. Si tratta di una classificazione mobile, ^he può essere cambiata e che vale solo per ciò che fa vedere. E vero che la composizio­ ne di questo libro è complicata, ma lo è perché il soggetto stes­ so è difficile. Avrei voluto che le mie frasi funzionassero come delle immagini, e che «mostrassero» grandi opere del cinema. Dico una cosa semplice: c’è un pensiero nei grandi autori e fa­ re un film comporta un pensiero vivente, creatore.

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I nomi dei film o dei cineasti non sono indicizzati in fondo al libro... A che punto è nella stesura del secondo volume? E quali nuovi no­ mi vedremo? g. deleuze Bisognerebbe che questo primo volume, Uimmagi­ ne-movimento avesse davvero una sua completezza, ma che si sentisse anche l’esigenza di un seguito. Il seguito è Fimmagine-tempo: non perché essa si opponga all’immagine-movimento, ma perché l’immagine-movimento implica in sé soltanto un’immagine indiretta del tempo, prodotta con il montaggio. Il secondo volume deve dunque prendere in considerazione ti­ pi di immagine che vertono direttamente sul tempo, o che ro­ vesciano il rapporto movimento-tempo. E il caso di Welles, di Resnais. Nel primo volume non c’è una riga su questi autori, né su Renoir né su Ophiils né su molti altri. Non una parola sull’immagine video, e appena un cenno al neorealismo e alla nouvelle vague, Godard, Rivette. Un indice dei nomi e delle opere è certamente necessario, ma quando avrò finito. La sua percezione del cinema è cambiata da quando ha cominciato a scrivere questo libro? g. deleuze Certo, vado al cinema con lo stesso piacere di prima e non molto di frequente. Ma ci vado in altre condizioni, che a volte mi sembrano più pure, a volte meno. In effetti, mi ca­ pita di avere «assolutamente bisogno» di vedere un certo film, ho l’impressione che, se non lo vedo, non riesco ad andare avan­ ti. E poi mi rassegno, sono costretto a farne a meno; oppure riappare, torna in circolazione. Mi succede anche di andare a vedere un film sapendo che, se mi sembrerà bello, avrò voglia di scrivere: questo cambia le condizioni stesse della visione, il che non è sempre auspicabile. Una volta finito il libro, mentre era in stampa, e lei non poteva più modificarlo, proprio prima della sua uscita, ha visto qualcosa que­ st'estate o in questa nuova stagione cinematografica che le ha fat­ to venire voglia di riprenderlo in mano? g. deleuze Che cosa ho visto di bello recentemente, oltre a ope­ re come Ludwig, Passion o L’argent? Ho visto un film molto bello di Caroline Roboh, Clementine tango, e alla televisione una produzione Ina di Michèle Rosier, Le 31 Julliet, che si svol­ ge in una stazione, al momento della partenza per le vacanze, e un telefilm stupefacente, perfetto, un pezzo di America di Kafka, di Benoit Jacquot. Ma mi sono certamente sfuggite mol­ te cose. Vorrei vedere il film di Chéreau, quello di Woody Al-

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len... Il cinema vive su un tempo precipitato, è velocità, è una delle sue potenze, bisogna essere disponibili. Che cosa c’è di piu triste al cinema? Non le lunghe code per bruttissimi film, ma quando un Bresson, un Rivette, richiamano in sala soltan­ to poche dozzine di persone. E inquietante di per sé, ma anche per il futuro, per gli autori più giovani.

Ji­

ll pacifismo oggi *

Si parla di rischi di guerra mondiale. L’installazione dei Pershing se­ condo voi potrebbe avere ulteriori conseguenze? Gilles deleuze E jean-pierre bamberger I rischi di guerra mon­ diale ovviamente aumentano. Ma da oggi è un atto importan­ te della guerra fredda, è un nuovo salto nella corsa agli arma­ menti. Si sa che non c’è equilibrio possibile in questo ambito: i fattori che caratterizzano i missili sono la velocità, la gittata, la precisione e la molteplicità delle cariche che non smettono di crescere. Questo nuovo episodio nella corsa agli armamenti è disastroso da piu punti di vista. Disastroso per un’Europa in crisi: le pressioni si moltiplicheranno affinché l’Europa si assu­ ma almeno una parte dei costi della «propria difesa»; gli Stati Uniti non hanno tenuto nascosto quale sarà il prezzo della du­ plice decisione1, quanto potrebbe costare la doppia chiave a ogni paese europeo. Anche la Francia sarà obbligata a precipi­ * Con Jean-Pierre Bamberger. Intervista raccolta da Claire Parnet, in «Les Nouvelles littéraires», 15-21 dicembre 1983. Jean-Pierre Bamberger, intimo amico di Deleuze, dopo una formazione filosofica, ha iniziato a interessarsi ai problemi finanziari ed economici, sia dal punto di vista pratico che teorico: i problemi del Terzo Mondo, e in particolare le re­ lazioni commerciali reciproche tra alcuni di questi paesi, come il Mozambico e il Brasile. Questa intervista ha luogo poco dopo l’installazione dei primi missili Pershing in Gran Bretagna e nella Repubblica federale tedesca alla fine del novembre 1982. L’installazione di questi missili nucleari a lunga gittata - che puntavano direttamente su bersagli strategi­ ci sovietici - risultava da decisioni prese dalla Nato nel dicembre 1979 allo scopo di mo­ dernizzare e di rinforzare i suoi insediamenti militari in Europa in vista di un eventuale at­ tacco sovietico. Queste decisioni erano presentate come una risposta strategica allo spie­ gamento dei missili nucleari sovietici ss-20, incominciato nel 1977. Parallelamente, dalla fine del 1981, nella maggior parte delle grandi città europee (Bonn, Londra, Roma, Madrid, Amsterdam, Parigi), ma anche a New York, si svolgono manifestazioni pacifiste contro la ripresa della corsa agli armamenti.

1 La «duplice decisione» è la modernizzazione e il rafforzamento degli insediamenti Nato in Europa (che comprende, in particolare, l’installazione dei missili Pershing e dei missili da crociera). Questa misura - applicabile a partire da aprile 1983, se le negoziazio­ ni con rilnione sovietica si fossero arenate - fu adottata durante la riunione dei paesi mem­ bri della Nato, nel dicembre 1979 [NZC.].

Il pacifismo oggi

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tare la modernizzazione del suo arsenale «dissuasivo». Sotto un altro aspetto è disastroso anche per il Terzo Mondo: il superarmamento implica il massimo sfruttamento delle materie prime e dei minerali strategici, da cui deriverà la persistenza di governi duri e sicuri, e rinvia a un futuro incerto l’elaborazio­ ne di una nuova politica che affronti i problemi di oppressione o di carestia. Il Sudafrica ha davanti a sé un futuro splendido. E nell’intervista a Mitterrand già non si parla più di una poli­ tica terzomondista2. Infine, è disastroso per l’Unione sovietica: ogni accelerazione nella corsa agli armamenti destabilizza anco­ ra di più l’economia sovietica. E probabile che sia questa una delle principali ragioni attuali dell’installazione dei Pershing per Reagan e i suoi nuovi consiglieri: provocare delle reazioni sovietiche che la sua economia avrà sempre maggiore difficoltà a sopportare. Soltanto gli Stati Uniti possono sopportare sen­ za ulteriori danni il peso di un nuovo super armamento. Non è giusto «destabilizzare» un paese che, come si denuncia, ha i gulag? G. deleuze e j.-p. bamberger La questione è semmai: non ci so­ no mezzi migliori ? E facile fare un ritratto particolarmente grottesco dei pacifisti: vorrebbero un disarmo unilaterale, e sa­ rebbero alquanto stupidi se credessero che basterebbe questo «esempio» per persuadere l’Unione sovietica a fare altrettan­ to. Il pacifismo è una politica. Richiede dei negoziati parziali o globali, tra Stati Uniti, Unione sovietica ed Europa. Ma non si accontenta di negoziati puramente tecnici. Per esempio, quando Mitterrand all’inizio della sua intervista dice: «Nessu­ no vuole la guerra, né all’Est né all’Ovest, ma la questione è quella di sapere se la situazione, che si aggrava di giorno in gior­ no, non sfuggirà alla decisione dei veri responsabili», e che quindi è necessario un «equilibrio delle forze in presenza affin­ ché la guerra non scoppi», è facile capire che in questo modo tutti i problemi politici sono messi tra parentesi. Il pacifismo vuole che i negoziati tecnici siano in qualche modo indicizzati su problemi politici: per esempio progressive zone di neutraliz­ zazione in Europa. Il pacifismo favorisce le correnti che van­ no in direzione di una riunificazione della Germania, all’Est come all’Ovest: ma questa riunificazione può avvenire soltan1 Si tratta dell’intervista accordata ad Antenne 2 nell'ambito della trasmissione «L’o­ ra della verità» il 16 novembre 1983 [NzLC.J.

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to per neutralizzazione. Si appoggia su tutti gli elementi attua­ li che possono accrescere l’autonomia dei paesi dell’Est. La re­ cente dichiarazione della Romania, che si smarca dall’Unione sovietica cosi come dagli Stati Uniti, è importante da questo punto di vista5. Il pacifismo ha basi e manifesti politici perfet­ tamente enunciati: il piano delTOnu del 1961, in cui si era fat­ to un accordo Usa-Urss4; il piano Palme; iniziative locali recen­ ti come i negoziati di Grecia-Romania-Bulgaria-Jugoslavia5. Di­ re che alTEst ci sono i missili e alTOvest il pacifismo è insensato. La politica pacifista si esercita Sull’Est cosi come Sull’Ovest. Co­ me dice Seàn MacBride, è un contropotere («Les Nouvelles», 2 novembre). Perché anche il pacifismo non dovrebbe avere un giorno degli osservatori nei negoziati internazionali ? Come mo­ vimento popolare il pacifismo non può né vuole separare i pro­ blemi tecnici (quantitativi) dalle modificazioni politiche. A rischio di «destabilizzare» l’Unione sovietica, costituisce un mezzo migliore del super armamento. Si sa già che una delle ri­ sposte dell’Unione sovietica sarà un’estensione dei missili nei paesi dell’Est. Va da sé che il gulag sarà esteso e indurito. Edward Thompson6 lo ha recentemente ricordato su «Le Monde» (27 novembre): «Ogni nuovo missile all’Ovest chiude una cella all’Est, rinforza il sistema di sicurezza e i falchi». Non c’è dub­ bio che l’Unione sovietica non lascerà sussistere il benché mi­ nimo elemento di autonomia nei paesi che sono sotto la sua sfe­ ra. Significa la condanna a morte, a breve termine, della Polonia. Significa soffocare tutto ciò che si sta muovendo nella Ddr e in Ungheria. Significa silurare l’iniziativa greca. La corsa agli ar­ mamenti non può proprio presentarsi come una lotta contro il gulag. Genera l’effetto opposto. Anche in Europa occidentale comporterà un’organizzazione militare e poliziesca rafforzata. Soltanto il pacifismo, con le sue esigenze, può provocare un al­ lentamento del gulag. 5 II governo romeno, preoccupato della propria indipendenza in materia di politica estera, incoraggia al suo interno grandi manifestazioni che mettono in causa lo staziona­ mento in Europa dei missili nucleari americani a mezza gittata, ma anche degli ss-20 so­ vietici [N d.C ]. 4 Allusione alla risoluzione del 24 novembre 1961 dell’Assemblea generale dell’Onu sull’«interdizione delle armi nucleari e termonucleari» [Nx/.C.]. 5 Si tratta dell’iniziativa intrapresa dal presidente greco Papandreou che aveva avvia­ to dei colloqui «incoraggianti» con la Turchia, la Bulgaria, la Jugoslavia e la Romania per denuclearizzare i Balcani [Nz/.CJ. 6 Storico inglese [N J.C.].

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Quindi eravate a favore di unEuropa disarmata di fronte ai missili so­ vietici? G. deleuze e j.-p. bamberger Non è questo il punto. Il pacifi­ smo vuole negoziati tecnici politici, e controllati, tra i governi. Un equilibrio puramente tecnologico è immaginario. Vogliamo negoziati sulle armi intercontinentali, dove gli Stati Uniti han­ no un grande vantaggio (nell’essenziale campo dei missili bali­ stici acqua-terra): non crediamo che FUnione sovietica debba subito colmare il suo ritardo. Vogliamo negoziati sulle armi con­ tinentali, dove si suppone sia FUnione sovietica in vantaggio: perché bisognerebbe che gli Stati Uniti colmino subito il loro ritardo ? Tanto più che l’Europa occidentale non era affatto di­ sarmata: la Nato disponeva di sottomarini nucleari, che posso­ no giocare a scelta un ruolo continentale o intercontinentale. Antoine Sanguinetti7 lo ricorda in una recente intervista: «Quando gli americani hanno ritirato i loro missili terrestri al­ l’inizio degli anni Sessanta, non hanno lasciato l’Europa senza niente, hanno messo nel Mediterraneo, agli ordini della Nato, sottomarini nucleari provvisti di testate nucleari dello stesso ordine degli ss-20, con una portata leggermente superiore e la stessa precisione. Sono li fin dal 1965, ma non se ne parla mai» («Lui», giugno 1983). I missili continentali in Europa: è una lunga storia. Gli Stati Uniti li avevano, proprio come i sovietici. E stato Kennedy a ri­ tirarli, per due ragioni principali: per compensare FUnione so­ vietica, i cui alleati non dovevano essere minacciati da missili continentali americani, visto che gli Stati Uniti si rifiutavano di essere minacciati da missili sovietici in un paese alleato delFUnione sovietica; e anche perché Kennedy pensava che il van­ taggio che avevano gli Stati Uniti con i missili intercontinen­ tali era già sufficiente. Fu un momento importante per la fine della guerra fredda. E stato il cancelliere Schmidt a reclamare la reinstallazione dei missili americani fin dal 1977, facendo appello al progresso tecnologico (sempre l’argomentazione tec­ nica...) dei nuovi missili sovietici. La Nato ha evidentemente accolto la richiesta. Reagan, quindi, ha Faria di attenersi a un programma previsto già da molto tempo. Ma si dà il caso che, all’epoca, i previsti missili non dovevano colpire FUnione so­ vietica, e quindi la loro funzione ora è completamente «cam1 Ammiraglio della marina francese [N A T.].

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biata», come osserva l’ex ministro inglese David Owen («Le Monde», 22 novembre). Come possono alcuni commentatori parlare di una decisione presa «in tutta chiarezza»? L’Unione sovietica può vedervi non solo una rottura del patto implicito con Kennedy, ma un aggravarsi del progetto del 1979 * e un acuirsi del carattere aggressivo della Nato. Reagan cerca il momento favorevole per lo sviluppo di una nuo­ va guerra fredda, dato che l’Unione sovietica si trova in una si­ tuazione di debolezza politica ed economica. Imporre all’Unione sovietica una nuova corsa al superarmamento gli sembra per­ fetto. Non soltanto sarà una prova di forza per l’economia sovietica, ma anche un modo per imporle la dispersione dei suoi mezzi: più aumenterà le sue forze in Europa, più gli Stati Uni­ ti avranno le mani libere nel Pacifico. Per questo la risposta di Andropov non stupisce: l’Unione sovietica estenderà certamen­ te i suoi missili continentali in Europa orientale (con tutte le conseguenze che ciò comporta), ma si occuperà soprattutto del­ l’altro aspetto della questione, sviluppare cioè la sua potenza intercontinentale «nelle regioni oceaniche e marittime». La ma­ lafede occidentale è cosi grande che ci si dice al tempo stesso che bisognava aspettarselo, e tuttavia che il presidente Reagan è particolarmente «sconfortato» da un simile atteggiamento dell’Unione sovietica. Ma allora perché l’Unione sovietica ha continuato a perfezionare i suoi missili, dopo che gli Stati Uniti avevano ritirato i loro? Come potrebbe l’Europa occidentale non sentirsi una preda disarmata di fronte all’ Unione sovietica? g. deleuze e j.-p. bamberger Nessuno crede che l’Unione so­ vietica vogliavdistruggere, né tanto meno conquistare l’Europa occidentale. E una regione senza materie prime importanti per il presente, con popolazioni profondamente ostili al regime so­ vietico. Non si capisce perché l’Unione sovietica dovrebbe ca­ ricarsi sulle spalle una dozzina di Polonie, o situazioni persino più problematiche. Senza contare la presenza di trecentomila sol­ dati americani in Europa, ritrovandosi cosi faccia a faccia con gli Stati Uniti in una guerra intercontinentale. Bisogna essere il can­ celliere Kohl per parlare, senza ridere, della necessità di evitare una nuova Monaco. Ogni paragone tra l’espansionismo nazista e l’imperialismo sovietico è scorretto. L’imperialismo russo-so1 Sul progetto del 1979, si veda la nota di presentazione del testo [NJ.C.l.

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vietico non ha mai nascosto i suoi obiettivi: verso l’Est asiati­ co da una parte, verso i Balcani e verso l’Oceano Indiano dal­ l’altra. L’avanzata sovietica alla fine della guerra non smenti­ sce questa evidenza: aveva una portata essenzialmente strategi­ ca, che purtroppo non ha smesso di essere attuale e di rinnovarsi, a detrimento dei paesi dell’Europa orientale (bisogna comun­ que ricordare che la Jugoslavia e l’Albania sono riuscite a sottrarvisi). Sicuramente l’Europa occidentale è ricca, e forma un grande gruppo di industrie di trasformazione. Al momento attuale è controllata molto strettamente dagli Stati Uniti (per esempio, in Germania occidentale ci sono più di mille società america­ ne). Dall’ultima guerra l’Unione sovietica ha conservato una paura viscerale della Germania, ma questa paura ha una forma confacente alle nuove condizioni: /’Unione sovietica teme che gli Stati Uniti un giorno concilino il loro isolazionismo e il loro imperialismo spingendo avanti l’Europa, e incaricando la Ger­ mania di una guerra preliminare limitata al continente. Era un’ipotesi che Schlesinger sviluppava ufficialmente già ai tem­ pi di Nixon’. Noi europei possiamo trovare assurda questa ipo­ tesi. Ma per l’Unione sovietica non è più assurda di quanto lo sia la nostra ipotesi di una guerra dei sovietici contro l’Euro­ pa. I missili sovietici non pretendono di essere meno «difensi­ vi» di quanto l’arsenale francese sia «dissuasivo». E anche per questo che la riunificazione delle Germanie neutralizzate è co­ si importante per il pacifismo, perché sarebbe un elemento che attenua le paure reciproche. E uno degli obiettivi del pacifismo, ma non è un obiettivo dell’Unione sovietica (si vedano, per esempio, le dichiarazioni di Proektor, «Liberation», 3 novembre 1981)10. Ci viene nasco­ sto il fondo del dibattito. Il problema dell’Unione sovietica è l’influenza degli Stati Uniti sull’Europa occidentale. La sua in­ fluenza sull’Europa dell’Est è molto più dura politicamente, ma molto meno efficace economicamente. La corsa agli arma­ menti, il superarmamento sono generatori di guerra. Ma han­ no anche un significato completamente diverso. Per gli Stati Uniti è il marchio da cui discende che l’Europa oc­ cidentale gli appartiene, e non ha né avrà una vera e propria ’ Schlesinger era segretario della Difesa durante l’amministrazione Nixon [N J.C.], ’• Proektor è un esperto militare sovietico [N J.C.],

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economia autonoma. Da questo punto di vista l’installazione dei Pershing è una decisione molto importante per PEuropa occiden­ tale, perché in questo modo decide di restare non soltanto sotto la protezione militare degli Stati Uniti, ma nella loro circoscritta or­ bita economica. E una scelta politica che, con il pretesto di non voler farsi «satellizzare» militarmente dall’Unione sovietica, sancisce la satellizzazione economica da parte degli Stati Uni­ ti. L’Unione sovietica ha bisogno di un’Europa economicamen­ te libera, anche se non dovesse uscire dalla Nato o dalI’Alleanza atlantica (Papandreou e tutta una parte della sinistra euro­ pea si spingono più avanti). Uno degli sforzi principali dell’Unione sovietica, attualmente, è di ristabilire l’equilibrio del­ la bilancia dei pagamenti, non solo nei paesi dell’Est ma anche al suo interno. A differenza di quanto avviene nel superarmamento, la nozione di equilibrio qui ha un senso: il debito dei paesi dell’Est non smette di diminuire, e fornisce condizioni favorevoli all’espansione degli scambi con l’Ovest. L’Unione sovietica, da questo punto di vista, procede in maniera violen­ ta, attraverso una grande diminuzione del potere di acquisto interno; è stato questo uno dei punti di partenza del movimen­ to polacco. Ma l’Europa occidentale, anche dove ci sono go­ verni socialisti, si trova davanti a un problema analogo e pro­ cederà alla stessa maniera, prendendo solo qualche precauzio­ ne in più. Eviterà la situazione polacca, anche se non è del tutto sicuro. Sono le due Europe che rischiano di morire, o di scon­ trarsi, a causa della dominazione economica americana. La corsa agli armamenti e il super armamento, quindi, hanno una dimensione che va ad aggiungersi alle esplicite dimensioni belliche e politiche. Per gli Stati Uniti si tratta di mantenere indirettamente l’Europa occidentale sotto la sua accresciuta di­ pendenza economica. Per l’Unione sovietica si tratta di man­ tenere l’Europa dell’Est nella sua sfera (perché, come dice Edward Thompson, «i missili ss-20 sono anche puntati contro la dissidenza interna dell’Europa orientale»), e di reagire a un’Europa occidentale americanizzata. Tutto ciò che va nel senso di una politica economica indipendente nell’Europa oc­ cidentale va anche nel senso della pace, perché l’Unione sovie­ tica e i suoi paesi-satellite hanno gli stessi problemi dei paesi occidentali, la stessa crisi in due forme diverse, che possono af­ frontare insieme soltanto andando verso il disarmo. Tutto ciò che ultimamente ci raccontano, tutte le discussioni

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sulle armi tralasciano ciò che c’è di capitale, in tutti i sensi del termine: certo, ci conducono alla guerra ma ci nascondono i problemi economici sottostanti. Sebbene non sia nemmeno tan­ to sottostante. Che cosa c’è di insensato attualmente? Qual è l’altra faccia del superarmamento ? Il regno del dollaro, il mo­ do in cui gli americani se ne servono per asservire il mondo, e per rendere impossibile ogni progresso nei rapporti tra le due Eu­ rope. Tutti lo sanno, tutti lo riconoscono, ma soltanto il paci­ fismo ne trae le conseguenze. Può essere, tuttavia, che la crisi del summit di Atene spinga alcuni paesi, tra cui la Francia, a una nuova politica europea11. L'opinione francese sembra indifferente al pacifismo, e i giornali cosi come i libri ne fanno una critica molto forte... G. deleuze e j.-p. bamberger Si, è vero che in Francia non ci sono stati terroristi dopo il 1968, ma abbiamo i nostri pentiti e i nostri integralisti. Si arriva ad accusare il pacifismo di esse­ re la via attuale dell’antisemitismo. E scritto testualmente. Il ragionamento è tortuoso: 1) Auschwitz è il male assoluto; 2) il gulag è il male assoluto; 3) sono già troppi come «mali assoluti», il gulag e Auschwitz sono la stessa cosa; 4) il rischio di una guerra nucleare è il nuovo pensiero ver­ tiginoso, la possibilità di una Hiroshima planetaria è il prezzo da pagare perché non ci sia piu una Auschwitz e per evitare il gulag. E la conclusione della «nuova filosofia», una scommes­ sa di Pascal a uso dei militari, dove Reagan è la reincarnazione di Pascal. Questo pensiero vertiginoso è inquietante, ma un po’ piatto11 12. Il cancelliere Kohl parla più modestamente di una gran­ de «svolta intellettuale». L’idea di male assoluto è un’idea re­ ligiosa e non storica. L’orrore di Auschwitz, l’orrore del gulag derivano invece dal fatto che non si confondono, e occupano un posto tutto loro in una serie in cui c’è anche Hiroshima, le condizioni del Terzo Mondo, il futuro che si prepara per noi... Era già penoso che Auschwitz servisse a giustificare Sabra e 11 Allusione alla riunione del Consiglio europeo che si tenne ad Atene il 4 e il 5 dicem­ bre 1983 senza trovare un accordo sulle questioni di budget e su una politica agricola co­ mune [Nz/.C.]. 12 Allusione al libro di André Glucksmann, La force du vertige, Grasset, Paris 1983 (trad. it. La forza della vertìgine, Longanesi, Milano 1984), uscito poche settimane prima e che trattava questi temi [N//.C.J.

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Chatila, adesso santifica pure la politica reaganiana. Nella sua intervista Edward Thompson spiega chiaramente perché alcu­ ni intellettuali francesi vogliono far credere a un’opposizione tra il pacifismo e i diritti umani. Afferma che essi, avendo sco­ perto il gulag molto in ritardo, diventano a maggior ragione bel­ licisti e fanno appello a una nuova guerra fredda. Non ammet­ tono l’evidenza che il superarmamento è la condizione attuale migliore perché il gulag continui a esistere. Aggiungeteci il fat­ to che non c’è più Sartre per impedire loro, anche solo attra­ verso la sua esistenza, di dire cose a vanvera. La questione dell’opinione francese è diversa, e non richiede­ va un simile sostegno metafisico. Non si sente subito chiama­ ta in causa dai Pershing, perché non sono «a casa nostra». La posizione di Mitterrand sembra corrispondere bene allo stato dell’opinione francese, purtroppo dentro un consenso a favore della destra. Ma non crediamo che i francesi resteranno indif­ ferenti ancora a lungo allo sviluppo del pacifismo come movi­ mento popolare. E probabile che diventerà sempre più lo spar­ tiacque tra le persone. Ma secondo voi come si spiega la politica francese? G. deleuze e j.-p. bamberger Forse ci sono due aspetti che co­ stituiscono un’eredità del gollismo. Mitterrand non solo ha spinto gli altri europei ad accettare i Pershing, a costo di rom­ pere con la socialdemocrazia e di passare con i conservatori, ma ha anche detto e dimostrato che i negoziati sulle armi conti­ nentali non lo interessavano. Ciò che gli interessa è il fatto di essere un partner mondiale che partecipa al negoziato sulle ar­ mi intercontinentali. Tuttavia non si capisce bene quale possa essere il peso della Francia in un simile negoziato, soprattutto nel momento in cui dovesse tagliarsi fuori dall’Europa, oppor­ si al movimento pacifista e rinunciare a ogni nuova politica ter­ zomondista. Cosi, approfittando della sua situazione molto par­ ticolare in Europa (dentro l’Alleanza atlantica ma fuori dalla Nato), la Francia accresce la sua dipendenza nei confronti de­ gli Stati Uniti nel contesto di un eventuale negoziato. L’altro aspetto è che Mitterrand si è fatto pienamente carico di una «vocazione» eurafricana della Francia, che però non riguarda gli altri popoli europei: l’idea egemonica di un’Europa mediterranea e africana si concilia poco con una neutralizzazione e una riunificazione delle Germanie ecc. E una nuova politica africana doveva certamente essere uno dei punti forti del nuo­

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vo regime socialista in Francia. Ma appunto una nuova politi­ ca... Anche in questo caso, come per il Terzo Mondo, sembra che attualmente la Francia si ritrovi nella stessa situazione dei governi precedenti. Ci viene spiegato che l’armamento dissua­ sivo della Francia agli occhi dell’Unione sovietica è credibile soltanto se tutti percepiscono che il presidente è in grado di premere un bottone in caso di emergenza. Ma Punico modo di convincere il resto del mondo è effettuare operazioni limitate che si suppone rivelino la nostra determinazione e che hanno di mira il Terzo Mondo, quindi alienandolo ulteriormente nei nostri confronti (da cui l’appoggio incondizionato alla guerra delle Falkland, la nostra situazione equivoca in Libano, la ri­ sposta di Baalbek, il sostegno militare a Hissène Habré, l’arma­ mento dell’Iraq...) Ritroviamo sempre i due aspetti del superarmamento, il quale ha una faccia rivolta contro l’Est e una verso il Sud. Esso au­ menta evidentemente i rischi della guerra con l’Unione sovie­ tica, ma accresce necessariamente anche l’ingerenza sul Terzo Mondo. Antoine Sanguinetti osserva, per esempio, come i mis­ sili americani che saranno installati in Sicilia non possono rag­ giungere l’Unione sovietica, mentre possono essere facilmente rivolti verso l’Egitto, l’Algeria, il Marocco. Dall’altra parte, la nostra forza dissuasiva fa in Africa le sue prove non necessa­ rie, ed è l’Africa che deve testare la nostra determinazione. La Francia è certamente favorevole ai negoziati, ma prendendo di­ stanza dal movimento pacifista in Europa e dai movimenti ter­ zomondisti altrove si condanna a una forma strettamente tec­ nica di negoziato, svuotato dai suoi contenuti politici e dai suoi obiettivi di autentico cambiamento. Tuttavia, ancora una vol­ ta, la crisi europea può trasformare i dati della politica francese.

32. Maggio ’68 non c’è stato *

Nei fenomeni storici come la Rivoluzione del 1789, la Comu­ ne, la Rivoluzione del 1917, c’è sempre una parte di evento irridu­ cibile ai determinismi sociali, alle serie causali. Gli storici non ama­ no affatto questo aspetto, e restaurano delle causalità a posterio­ ri. Ma l’evento stesso si sgancia dalle causalità o rompe con esse: è una biforcazione, una deviazione rispetto alle leggi, una condi­ zione instabile che apre un nuovo campo di possibilità. Prigozin ha parlato di questi stati in cui, anche in fisica, le piccole differen­ ze si propagano invece di annullarsi, e in cui fenomeni del tutto indipendenti entrano in risonanza, in congiunzione. In questo sen­ so, un evento può essere contrastato, represso, recuperato, tradi­ to, e malgrado ciò comporta qualcosa di insuperabile. Sono i rin­ negati quelli che dicono: è superato. Ma l’evento stesso, per quan­ to vecchio sia, non si lascia superare: è un’apertura di possibile. Passa all’interno degli individui cosi come nello spessore di una so­ cietà. I fenomeni storici che abbiamo citato si accompagnavano an­ cora a determinismi e causalità, benché fossero di altra natura. Il maggio ’68 è piuttosto dell’ordine di un evento puro, libero da ogni causalità normale o normativa. La sua storia è una «succes­ sione di instabilità e di fluttuazioni amplificate». Nel ’68 ci sono state molte agitazioni, gesticolazioni, parole, sciocchezze, illusio­ ni, ma non è questo che conta. Ciò che conta è che è stato un fe­ nomeno di veggenza, come se tutt’a un tratto una società vedesse quel che contiene di intollerabile e vedesse inoltre la possibilità di qualcosa d’altro. E un fenomeno collettivo sotto forma di: «Un po’ di possibile, altrimenti soffoco... » Il possibile non preesiste, è creato dall’evento. E una questione di vita. L’evento crea una nuo­ va esistenza, produce una nuova soggettività (nuovi rapporti con Con Felix Guattari, in «Les Nouvelles littéraires», 3-9 maggio 1984, pp. 75-76.

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il corpo, il tempo, la sessualità, l’ambiente sociale, la cultura, il la­ voro...) Quando compare una mutazione sociale, non basta trarne le conseguenze o gli effetti seguendo le linee di causalità economiche e politiche. Bisogna che la società sia capace di formare dei conca­ tenamenti collettivi corrispondenti alla nuova soggettività in mo­ do da volere la mutazione. E una vera e propria «riconversione». Il New Deal americano, il progresso giapponese sono stati esempi molto diversi di riconversione soggettiva, con ogni sorta di ambi­ guità e anche di strutture reazionarie, ma pure con una parte di iniziativa e di creazione che costituiva un nuovo stato sociale in grado di rispondere alle esigenze dell’evento. In Francia, invece, dopo il ’68, i poteri non hanno smesso di vivere con l’idea che pri­ ma o poi «tutto si assesterà». E in effetti si è assestato ma in con­ dizioni catastrofiche. Il maggio ’68 non fu la conseguenza di una crisi né la reazione a una crisi. Semmai l’opposto. E la crisi attua­ le, sono le impasse della crisi attuale in Francia che derivano di­ rettamente dall’incapacità della società francese di assimilare il maggio ’68. La società francese ha mostrato una radicale impoten­ za di effettuare una riconversione soggettiva a livello collettivo, come esigeva il ’68: di conseguenza come potrebbe effettuare ora una riconversione economica in condizioni di «sinistra» ? Non ha saputo proporre nulla alle persone: né nell’ambito della scuola, né nell’ambito del lavoro. Tutto ciò che era nuovo è stato marginalizzato o caricaturato. Oggi si vedono quelli di Longwry aggrap­ parsi al loro acciaio, i produttori del latte alle loro vacche ecc.: che cos’altro potrebbero fare, dal momento che ogni concatenamento con una nuova esistenza, con una nuova soggettività collettiva, è stato schiacciato a priori dalla reazione contro il ’68, a sinistra qua­ si come a destra? Persino le radio libere. Ogni volta il possibile è stato richiuso. I figli del maggio ’68 si ritrovano un po’ ovunque, non lo san­ no nemmeno loro, e ogni paese a suo modo li produce. La loro si­ tuazione non è brillante. Non sono dei giovani quadri. Sono biz­ zarramente indifferenti, e tuttavia molto informati. Hanno smes­ so di essere esigenti o narcisisti, ma sanno bene che oggi nulla risponde alla loro soggettività, alla loro capacità di energia. Sanno anche che tutte le riforme attuali vanno piuttosto contro di loro. Sono decisi a farsi gli affari propri fino a quando possono. Man­ tengono un’apertura, un possibile. Il loro ritratto idealizzato è quello fatto da Coppola in Rusty il selvaggio} l’attore Mickey

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Rourke spiega: «E un personaggio un po’ esaurito, in bilico. Non è del genere Hell’s Angel. Ha un po’ di cervello e anche di buon­ senso. Un misto di cultura che proviene dalla strada e dall’univer­ sità. Ed è stato questo miscuglio a renderlo pazzo. Non vede nien­ te. Sa che non c’è lavoro per lui, perché è più furbo di qualsiasi ti­ zio disposto ad assumerlo...» («Libération», 15 febbraio 1984). Lo stesso vale per il mondo intero. Ciò che viene istituziona­ lizzato, nella disoccupazione, nel pensionamento o nella scuola, sono «situazioni di abbandono» controllate, prendendo i disabili come modello. Oggi, le uniche riconversioni soggettive, a livello collettivo, sono quelle di un capitalismo selvaggio all’americana, oppure quelle di un fondamentalismo musulmano come in Iran, o di religioni afroamericane come in Brasile: sono le figure oppo­ ste di un nuovo integralismo (a cui bisognerebbe aggiungere il neo­ papismo europeo). L’Europa non ha nulla da proporre, e la Francia non sembra avere altra ambizione che quella di mettersi a capo di un’Europa americanizzata e superarmata che possa operare dall’al­ to la riconversione economica necessaria. Il campo dei possibili tuttavia è altrove: sull’asse Ovest-Est, il pacifismo, nella misura in cui si propone di mettere in crisi i rapporti di conflitto, di superarmamento, ma anche di complicità e spartizione tra Stati Uniti e Unione sovietica. Sull’asse Nord-Sud, un nuovo internazionalismo, che non si fonda più soltanto su un’alleanza con il Terzo Mondo, ma sui fenomeni di terzomondializzazione negli stessi paesi ricchi (per esempio l’evoluzione delle metropoli, il degrado dei centri ur­ bani, l’avanzamento di un Terzo Mondo europeo, analizzati da Paul Virilio). La soluzione non può che essere creatrice. Soltanto queste riconversioni creatrici potrebbero contribuire a risolvere la crisi attuale e potrebbero avere il carattere di un maggio ’68 gene­ ralizzato, di una biforcazione o di una fluttuazione amplificate.

53Lettera a Uno: come abbiamo lavorato in due *

Caro Kuniichi Uno,

tu mi chiedi come Félix Guattari e io ci siamo incontrati e co­ me abbiamo lavorato insieme. Non posso che darti il mio punto di vista, quello di Félix sarebbe forse diverso. L’unica cosa certa è che non esiste una ricetta o una formula generale per lavorare insieme. E stato subito dopo il 1968 in Francia. Non ci conoscevamo ma un amico comune ha voluto farci conoscere. Tuttavia, a prima vista, non c’era niente su cui intenderci. Félix ha sempre avuto più dimensioni, attività diverse che riguardavano la psichiatria, la po­ litica, il lavoro di gruppo. E una «stella» del gruppo. O piuttosto bisognerebbe compararlo a un mare: all’apparenza sempre in mo­ vimento, con incessanti lampi di luce. Può saltare da un’attività all’altra, dorme poco, viaggia, non si ferma mai. Non stacca mai. Ha velocità straordinarie. Io sono più simile a una collina: mi muo­ vo pochissimo, sono incapace di svolgere due attività insieme, le mie idee sono idee fisse, e gli sporadici movimenti che ho sono in­ teriori. Mi piace scrivere da solo, e non amo molto parlare, tran­ ne che a lezione, quando la parola è sottomessa ad altro. Insieme, Félix e io potevamo diventare un buon lottatore giapponese. Ma osservando Félix più da vicino ci si rende conto che è mol­ to solo. Tra un’attività e l’altra, o in mezzo a tanta gente, può piombare in una grande solitudine. Scompare, per suonare il pia­ no, per leggere, per scrivere. Raramente ho incontrato un uomo cosi creatore e capace di produrre tante idee. E le sue idee non smette di modificarle, di rovesciarle, di scambiare di posto le fi­ gure. Allo stesso modo è anche capace di disinteressarsene, addi­ rittura di dimenticarle, per rimaneggiarle meglio, per ridistribuir­ * Lettera datata 25 luglio 1984 e pubblicata in giapponese su «Gendai shiso» (La ri­ vista del pensiero di oggi), 1984, n. 9, Tokyo, pp. 8-11 ; traduzione giapponese di Kunii­ chi Uno.

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le. Le sue idee sono dei disegni, o anche dei diagrammi. Ciò che a me interessa sono i concetti. Mi sembra che i concetti abbiano un’esistenza propria, siano animati, delle creature invisibili. Ma ovviamente hanno bisogno di essere creati. E mi sembra che la fi­ losofia sia un’arte della creazione, tanto quanto la pittura e la mu­ sica: essa crea dei concetti. Non sono discorsi generici, né verità. E piuttosto dell’ordine del Singolare, dell’importante, del Nuo­ vo. I concetti sono inseparabili dagli affetti, cioè dai potenti effet­ ti che hanno sulla nostra vita, e dai pereetti, cioè da nuovi modi di vedere o di percepire da cui traiamo ispirazione. Tra i diagrammi di Félix e i miei concetti articolati, ci è venu­ ta voglia di lavorare insieme, anche se non sapevamo bene come. Leggevamo molto, di etnologia, di economia, di linguistica. Era­ no dei materiali, io ero affascinato da ciò che Félix ne ricavava, e lui era attirato dalle iniezioni di filosofia che io cercavo di immet­ tervi. Per L'anti-Edipo è avvenuto molto rapidamente, sapevamo che cosa volevamo dire: una nuova presentazione dell’inconscio come macchina, come fabbrica, una nuova concezione del delirio indicizzato sul mondo storico, politico e sociale. Ma come fare? Abbiamo iniziato con lunghe lettere disordinate, interminabili. Poi delle riunioni tra noi due, che duravano diversi giorni o setti­ mane. Devi renderti conto che è stato un lavoro molto faticoso, e al tempo stesso ridevamo di continuo. E sviluppavamo questo o quel punto, ognuno per conto proprio, andando in direzioni diver­ se, mescolavamo le scritture, abbiamo creato delle parole ogni qual­ volta che ne abbiamo avuto bisogno. Il libro acquisiva a volte una forte coerenza che non era più merito di uno o dell’altro. Se da una parte le nostre differenze ci danneggiavano, dall’al­ tra a maggior ragione ci servivano. Non abbiamo mai avuto lo stes­ so ritmo. Félix mi accusava di non reagire alle lettere che mi man­ dava, ma sul momento non ne ero all’altezza. Riuscivo a utilizzar­ le solo più tardi, uno o due mesi dopo, quando Félix era già passato ad altro. E nelle nostre riunioni non parlavamo mai insieme: uno parlava, l’altro ascoltava. Non mollavo Félix anche quando ne ave­ va abbastanza, ma d’altra parte Félix mi perseguitava anche quan­ do non ne potevo più. A poco a poco un concetto prendeva un’e­ sistenza autonoma, anche se a volte continuavamo a comprender­ lo in maniera diversa (per esempio, non abbiamo mai inteso allo stesso modo il «corpo senza organi»). Il lavoro a due non è mai stato una uniformazione, semmai una proliferazione, un’accumu­ lazione di biforcazioni, un rizoma. Sarei in grado di dire a chi è

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attribuibile l’origine di un certo tema o di una certa nozione: se­ condo me, Félix aveva dei veri e propri lampi, e io ero una specie di parafulmine, infossato in terra, per cui una cosa rinasceva in un altro modo, ma Félix la riprendeva ecc., e cosi avanzavamo. Per Mille piani le cose sono andate ancora diversamente. La composizione di questo libro è molto più complessa, gli ambiti trat­ tati molto più vari, ma avevamo acquisito una tale abitudine per cui uno poteva indovinare dove l’altro stava andando a parare. Le nostre conversazioni comportavano ellissi sempre più numerose, e potevamo stabilire ogni sorta di risonanza, non più tra di noi, ma tra gli ambiti che attraversavamo. I momenti migliori di que­ sto libro, in corso d’opera, sono stati: il ritornello e la musica; la macchina da guerra e i nomadi; il divenire-animale. In questi casi, sotto l’impulso di Félix avevo l’impressione di territori sconosciuti in cui vivevano strani concetti. E un libro che mi ha reso felice e che, per quanto mi riguarda, non sono ancora riuscito a esaurire. Non vi vedo alcuna vanità, parlo per me, non per il lettore. In se­ guito, Félix e io abbiamo avuto bisogno di ricominciare a lavora­ re da soli, per riprendere respiro. Ma sono convinto di una cosa, che torneremo a lavorare insieme. Ecco, caro Uno, spero di aver risposto a una parte delle tue do­ mande. Ogni bene.

34Grandezza di Yasser Arafat*

La causa palestinese è innanzitutto l’insieme delle ingiustizie che questo popolo ha subito e non smette di subire. Queste ingiu­ stizie sono gli atti di violenza, ma anche le illogicità, i falsi ragio­ namenti e le false garanzie che pretendono di compensarli o di giustificarli. Arafat aveva soltanto una parola per parlare delle pro­ messe non mantenute, degli impegni violati al momento dei mas­ sacri di Sabra e Chatila1: «shame, shame». Si dice che non è un genocidio. E tuttavia è una storia che si porta dietro molti Oradour, fin dal principio. Il terrorismo sioni­ sta non colpiva solo gli inglesi, ma anche i villaggi arabi che dove­ vano sparire; da questo punto di vista l’Irgun è stato molto attivo (Deir Yassin)2. Da tutte le parti, bisognava fare come se il popolo palestinese non solo non dovesse più essere, ma non fosse mai stato. I conquistatori erano proprio coloro che avevano subito il più grande genocidio della storia. E di questo genocidio i sionisti ave­ vano fatto un male assoluto. Ma trasformare il più grande genoci­ dio della storia in male assoluto è una visione religiosa e mistica, non una visione storica. Non ferma il male; semmai lo propaga, lo fa ricadere su altri innocenti, esige un risarcimento che fa subire a questi altri una parte di ciò che hanno subito gli ebrei (l’espul­ sione, la ghettizzazione, la scomparsa in quanto popolo). Con mez­ zi più «freddi» del genocidio si vuole giungere allo stesso risultato. * In «Revue d’études palestiniennes», inverno 1984, n. io, pp. 41-43. Il testo è da­ tato settembre 1983. 1 Sabra e Chatila erano due campi profughi palestinesi alla periferia di Beirut, in cui nel settembre 1982 si compì una strage per mano delle milizie cristiane libanesi [Nx/.T.]. 2 Braccio armato del movimento estremista fondato da Vladimir Jabotinsky (anche fondatore del Likud). L’Irgun, diretto all’epoca da Menachem Begin, conduceva le sue azioni sia contro il movimento nazionale arabo palestinese, sia contro l’amministrazione britannica. In particolare, fu responsabile del massacro di un villaggio palestinese nella pe riferia di Gerusalemme (Deir Yassin) nel 1948 e dell’attentato contro l’hotel King David, sede del Mandato britannico a Gerusalemme [NJ.CJ.

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Gli Stati Uniti e l’Europa dovevano risarcire gli ebrei. E que­ sto risarcimento l’hanno fatto pagare a un popolo, di cui il mini­ mo che si possa dire è che non c’entrava affatto, che era partico­ larmente innocente rispetto a ogni olocausto, di cui non aveva nemmeno sentito parlare. E a questo punto che inizia il grottesco, cosi come la violenza. Il sionismo, e poi lo stato d’Israele esigeran­ no che i palestinesi li riconoscano di diritto, benché lo stato d’I­ sraele continuerà a negare il fatto stesso di un popolo palestinese. Non si parla mai di palestinesi, ma di arabi di Palestina, come se si fossero trovati li per caso o per errore. E successivamente si farà come se i palestinesi espulsi venissero da fuori, si eviterà di parla­ re della prima guerra di resistenza che hanno combattuto da soli. Li si trasformerà in discendenti di Hitler perché non riconoscono il diritto d’Israele. Ma Israele si riserva il diritto di negare la loro effettiva esistenza. Qui comincia una finzione che si sarebbe este­ sa sempre di più e sarebbe gravata su tutti coloro che difendeva­ no la causa palestinese. Questa finzione, questa scommessa di Israele, era quella di far passare per antisemiti tutti coloro che avrebbero contestato le condizioni effettive e le azioni dello stato sionista. E un’operazione che ha origine nella fredda politica di Israele nei confronti dei palestinesi. Israele non ha mai nascosto il suo obiettivo, fin dall’inizio: fa­ re il vuoto nel territorio palestinese. O meglio, fare come se il ter­ ritorio palestinese fosse vuoto, destinato da sempre ai sionisti. Si trattava ancora di colonizzazione, ma non nel senso europeo del xix secolo: invece di sfruttare gli abitanti del luogo, li si sarebbe fatti andare via. Coloro che restavano non sarebbero diventati ma­ nodopera collegata al territorio, ma piuttosto una manodopera mo­ bile e separata, come se fossero immigrati messi in un ghetto. Fin dall’inizio la condizione per l’acquisto delle terre era che fossero vuote, senza occupanti, o che potessero diventarlo. E un genoci­ dio, ma in cui lo sterminio fisico resta subordinato all’evacuazio­ ne geografica: dal momento che sono arabi in generale, i palesti­ nesi sopravvissuti devono andare a fondersi con gli altri arabi. Lo sterminio fisico, affidato o meno a mercenari, è presente in tutto e per tutto. Eppure si dice che non è un genocidio, dato che lo «scopo finale» non è lo sterminio: in effetti è solo uno dei tanti mezzi. La complicità degli Stati Uniti con Israele non deriva soltanto dal potere di una lobby sionista. Elias Sanbar ha mostrato chiara­ mente come gli Stati Uniti ritrovino in Israele un aspetto della lo­

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ro storia: lo sterminio degli indiani, che anche in quel caso fu so­ lo in parte direttamente fisico5. Bisognava fare il vuoto, e agire co­ me se gli indiani non ci fossero mai stati, tranne che nei ghetti dove si trasformano in immigrati interni. Da molti punti di vista i palestinesi sono i nuovi indiani, gli indiani di Israele. L’analisi marxista mostra i due movimenti complementari del capitalismo: imporsi continuamente dei limiti, all’interno dei quali gestire e sfruttare il proprio sistema; spingere questi limiti sempre più lon­ tano, superarli per ricominciare la propria fondazione su scala più grande o con più intensità. Spingere i limiti era l’atto del capitali­ smo americano, del sogno americano ripreso da Israele, e il sogno di un Grande Israele in territorio arabo, sulle spalle degli arabi. Come il popolo palestinese abbia saputo resistere e resista. Co­ me, da popolo con uno stesso lignaggio, sia diventato nazione armata. Come si sia dato un organismo che non si limita semplicemente a rappresentarlo, ma Io incarna al di fuori del territorio e senza uno stato. C’era bisogno di un grande personaggio storico che, da una prospettiva occidentale, si direbbe quasi uscito da Shakespeare: Arafat. Non era la prima volta nella storia (i france­ si pensino a «France libre», con la differenza che all’inizio essa aveva una base popolare più piccola). Inedite nella storia non so­ no neppure tutte le occasioni in cui era possibile una soluzione o un elemento di soluzione, e che gli israeliani hanno deliberatamen­ te e consapevolmente demolito. Si attenevano alla loro posizione religiosa per negare non soltanto il diritto, ma il fatto palestinese. Si scagionavano dal proprio terrorismo trattando i palestinesi co­ me terroristi venuti da fuori. E proprio perché i palestinesi non lo erano, ma erano un popolo specifico, tanto differente dagli altri arabi quanto gli europei tra di loro, dagli stati arabi non potevano aspettarsi che un aiuto ambiguo, che si trasformava a volte in osti­ lità e in sterminio, quando il modello palestinese diventava per lo­ ro pericoloso. I palestinesi hanno percorso tutti i gironi infernali della storia: il fallimento delle soluzioni ogni volta che erano pos­ sibili, i peggiori rovesciamenti di alleanze di cui pagavano il prez­ zo, le più solenni promesse non mantenute. La loro resistenza ha dovuto alimentarsi di tutto questo. E possibile che uno degli obiettivi dei massacri di Sabra e Chatila sia stato quello di screditare Arafat, il quale aveva acconsen’ Cfr. E. Sanbar, Palestine 1948, [‘expulsion, Les livres de la Revue d’études palestiniennes, Paris 1983 [NJ.C.].

Grandezza di Yasser Arafat

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tito alla partenza dei combattenti palestinesi, la cui forza restava intatta, solo a condizione che la sicurezza delle loro famiglie fos­ se assolutamente garantita, dagli Stati Uniti e anche da Israele. Dopo i massacri, non c’era altra parola che «shame». Se la crisi dell’Olp che ne è seguita avesse come risultato, a più o meno lun­ go termine, l’integrazione in uno stato arabo e, insieme, il dissol­ versi nell’integralismo musulmano, allora si potrebbe dire che il popolo palestinese è effettivamente scomparso. Ma avverrebbe in condizioni tali che il mondo, gli Stati Uniti e persino Israele non finirebbero di rimpiangere le occasioni perdute, comprese quelle che restano ancora possibili oggi. All’orgogliosa formula di Israe­ le, «Noi non siamo un popolo come gli altri», ha sempre risposto il grido dei palestinesi, richiamato dal primo numero della « Revue d’études palestiniennes»: noi siamo un popolo come gli altri, vo­ gliamo essere solo questo... Guidando la guerra terrorista libanese, Israele ha creduto di sopprimere l’Olp e di togliere il suo appoggio al popolo palestine­ se, già privato della sua terra. E forse ci è riuscito, perché nella Tripoli accerchiata c’è soltanto la presenza fisica di Arafat tra i suoi, tutti in una sorta di grandezza solitaria. Ma il popolo pale­ stinese non perderà la propria identità senza innescare al suo po­ sto un duplice terrorismo, di stato e di religione, che approfitterà della sua scomparsa e renderà impossibile ogni composizione pa­ cifica con Israele. Dalla guerra del Libano lo stesso Israele uscirà non soltanto moralmente diviso ed economicamente disorganiz­ zato, ma si troverà di fronte l’immagine rovesciata della propria intolleranza. Una soluzione politica, una composizione pacifica so­ no possibili solo con un’Olp indipendente, che non sia né scom­ parsa in uno stato già esistente, né perduta nei vari movimenti isla­ mici. Una scomparsa dell’Olp sarebbe solo la vittoria delle cieche forze della guerra, indifferenti alla sopravvivenza del popolo pa­ lestinese.

35Sui principali concetti di Michel Foucault*

A Daniel Deferì

Foucault dice che fa degli «studi di storia», e non un «lavoro di storico». Fa un lavoro di filosofo, che però non è una filosofia della storia. Cosa significa pensare ? Foucault non si è mai posto altro problema (da cui il suo omaggio a Heidegger). Storiche sono tutte le formazioni stratificate, fatte di strati. Ma pensare vuol di­ re raggiungere una materia non stratificata, tra i listelli o negli in­ terstizi. Pensare sta in un rapporto essenziale con la storia, ma non è più storico di quanto non sia eterno. E più simile a ciò che Nietz­ sche chiama l’inattuale: pensare il passato contro il presente - ma sarebbe un luogo comune, una nostalgia, un ritorno se non aggiun­ gessimo: «a favore, spero, di un tempo a venire». C’è un divenire del pensiero che raddoppia le formazioni storiche e passa attraver­ so di esse ma che non assomiglia a esse. Pensare deve giungere al pensiero dal di fuori, e allo stesso tempo deve generarsi dal di dentro, sotto gli strati e al di là di essi. «In quale misura il lavoro di pensare la propria storia può liberare il pensiero da ciò che esso pensa silenziosamente e permettergli di pensare in modo diver­ so»1. Il «pensare in modo diverso» anima l’opera di Foucault se­ condo tre assi distinti, scoperti in momenti successivi: gli strati co­ me formazioni storiche (archeologia), il fuori come al di là (strate­ gia), il dentro come sostrato (genealogia). Spesso Foucault ha voluto sottolineare le svolte e le rotture nella sua opera. Ma nella * Questo testo, scritto dopo la morte di Foucault nel 1984, è verosimilmente una pri­ ma versione di ciò che poi avrebbe dato luogo alla redazione del Foucault (Minuit, Paris 1986; trad. it. Feltrinelli, Milano 1987). Il testo dattilografato contiene alcune correzioni editoriali che testimoniano la volontà di Deleuze di pubblicarlo. Il corso dedicato a Fou­ cault all’Università di Saint-Denis nel 1985-86, cosi come il libro che stava redigendo nel­ lo stesso periodo, lo dissuasero dal pubblicare l’articolo. I primi paragrafi sono ripresi, e sostanzialmente aumentati, nel libro (capitolo sugli strati, pp. 55-74). La seconda parte del­ l’articolo non è stata ripresa, a eccezione di alcuni passaggi disseminati in tutto il libro. 1 L’usage des piaisirs, Gallimard, Paris 1984, p. 15; trad. it. L'uso dei piaceri, Feltrinel li, Milano 1991, p. 14 [Nd.C ].

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costruzione dei tre assi i cambiamenti di direzione rientrano inte­ ramente nello spazio dell’opera, le rotture appartengono al meto­ do: creazione di nuove coordinate.

1. Gli strati o formazioni storiche : il visibile e l’enunciabile (Sapere). Gli strati sono formazioni storiche, positività o empiricità. So­ no fatti di cose e di parole, di vedere e di parlare, di visibile e di dicibile, di superfici di visibilità e di campi di leggibilità, di con­ tenuti e di espressioni. Questi ultimi termini si possono prendere in prestito da Hjelmslev, a patto di non confondere il contenuto con un significato, né l’espressione con un significante. Il conte­ nuto ha una forma e una sostanza: per esempio la prigione e colo­ ro che vi sono rinchiusi. Anche l’espressione ha una forma e una sostanza: per esempio il diritto penale e la «delinquenza». Allo stesso modo, il diritto penale in quanto forma di espressione defi­ nisce un campo di dicibilità (gli enunciati di delinquenza), la pri­ gione in quanto forma di contenuto definisce un luogo di visibi­ lità (il «panoptismo», vedere tutto in ogni istante senza essere vi­ sti). Questo esempio rinvia all’ultima grande analisi dello strato che Foucault compie in Sorvegliare e punire. Ma era cosi già in Sto­ ria della follia: il manicomio come luogo di visibilità e la medicina mentale come campo di enunciati. Tra questi due libri ci sono Ray­ mond Roussel e Nascita della clinica^ scritti simultaneamente: uno fa vedere come l’opera di Roussel si divida in due parti, invenzio­ ni di visibilità in base alle macchine, produzioni di enunciati in ba­ se a un «procedimento»; l’altro mostra come la clinica e poi l’ana­ tomia patologica producano delle distribuzioni variabili tra il visi­ bile e l’enunciabile. L "archeologia del sapere ne trarrà le conclusioni e farà la teoria generalizzata dei due elementi di stratificazione: le forme di contenuto o formazioni non discorsive, e le forme d’e­ spressione o formazioni discorsive. In questo senso, ciò che è stra­ tificato costituisce un Sapere, la lezione delle cose e la lezione del­ la grammatica, ed è giustificabile da un’archeologia. L’archeolo­ gia non rinvia necessariamente al passato ma agli strati, per cui c’è un’archeologia dell’oggi. Presente o passato, il visibile è come l’enunciabile: è l’oggetto non solo di una fenomenologia ma di un’e­ pistemologia. Certo, cose e parole sono termini molto vaghi per designare i due poli del sapere, e Foucault dirà che il titolo Le parole e le cose

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va inteso in senso ironico. Il compito dell’archeologia è quello di scoprire una vera e propria forma d’espressione che non possa confondersi con delle unità linguistiche, qualunque esse siano: pa­ role, frasi, proposizioni o atti linguistici. Sappiamo che Foucault scoprirà questa forma all’interno di una concezione molto origina­ le dell’«enunciato», in quanto funzione in cui si incontrano le di­ verse unità. Ma un’operazione analoga si fa anche per la forma del contenuto: le visibilità non si confondono affatto con gli elemen­ ti visivi, qualità, cose, oggetti, composti di azione e reazione, e a questo proposito Foucault costruisce una funzione non meno ori­ ginale di quella dell’enunciato. Le visibilità non sono forme di og­ getti, e nemmeno forme che si rivelerebbero nel contatto tra la lu­ ce e la cosa, ma forme di luminosità, create dalla luce stessa, che lasciano sussistere le cose o gli oggetti soltanto come bagliori, luc­ cichi!, scintillìi {Raymond Roussel, ma forse anche Manet). Il com­ pito dell’archeologia è quindi duplice: «estrarre» dalle parole e dal­ la lingua gli enunciati corrispondenti a ogni strato, ma anche «estrarre» dalle cose e dalla vista le visibilità. Va detto che fin dal principio Foucault sottolinea il primato degli enunciati - vedremo perché. E L’archeologia del sapere designerà le superfici di visibi­ lità soltanto in maniera negativa, «formazioni non discorsive», si­ tuate in uno spazio che è solo complementare a un campo di enun­ ciati. Resta il fatto che, malgrado il primato degli enunciati, le visibilità se ne distinguono in maniera irriducibile. C’è un’«archeo­ logia dello sguardo» cosi come c’è un’archeologia dell’enunciato, e anche il sapere ha due poli irriducibili. Il primato non implica al­ cuna riduzione. Dimenticando la teoria delle visibilità si mutila l’i­ dea che Foucault si fa della storia, ma si mutila anche il suo pen­ siero, l’idea che si fa del pensiero. Foucault non ha mai smesso di restare affascinato da ciò che vedeva, come anche da ciò che sen­ tiva o leggeva, e l’archeologia, per come la concepisce lui, è un ar­ chivio audiovisivo (a partire dalla storia delle scienze). Oggi Fou­ cault prova una felicità segreta nell’enunciare solo perché ha an­ che una passione per il vedere: gli occhi, la voce. Tuttavia gli enunciati non sono mai direttamente leggibili op­ pure dicibili, per quanto non siano nascosti. Diventano leggibili o dicibili solo in relazione alle condizioni che li rendono tali, e che ne costituiscono l’iscrizione su uno «zoccolo enunciativo». La con­ dizione è che «ci sia del linguaggio», vale a dire un modo di esse­ re del linguaggio in ogni strato, una diversa maniera in cui il lin­ guaggio è, è pieno e si raccoglie {Le parole e le cose). Bisogna quin­

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di fendere, aprire le parole, le frasi o le proposizioni, per compren­ dere il modo in cui il linguaggio appare in quello strato, la dimen­ sione che dà del linguaggio e condiziona gli enunciati. Se non ci si eleva a questa condizione, non si troveranno gli enunciati, si in­ ciamperà sempre su alcune parole, frasi e proposizioni che sembra­ no nasconderceli (come avviene per la sessualità, secondo La vo­ lontà di sapere). Al contrario, se ci si eleva a questa condizione, si comprende che ogni epoca dice tutto ciò che può dire, non cela nulla, non tace niente in funzione del linguaggio di cui dispone: anche e soprattutto in politica, anche e soprattutto nella sessua­ lità, anche quanto c’è di più cinico e crudo. Lo stesso vale per le visibilità. Nemmeno esse sono nascoste, ma hanno certe condizio­ ni senza le quali non sarebbero visibili, per quanto nemmeno na­ scoste. Da cui il tema foucaultiano del visibile invisibile. Questa volta la condizione è la luce, un «c’è» della luce, che varia a secon­ da di ogni strato o formazione storica: un modo di essere della lu­ ce che fa sorgere le visibilità come lampi e scintillìi, come «luce se­ conda» (Raymond Roussel, ma anche Nascita della clinica). Anche in questo caso, allora, bisogna aprire le cose e gli oggetti per co­ gliere il modo in cui la luce appare in un certo strato e condiziona il visibile: secondo aspetto dell’opera di Raymond Roussel, e più in generale secondo polo dell’epistemologia. Un’epoca vede sol­ tanto ciò che può vedere, ma vede tutto ciò che può, indipendente­ mente da ogni censura e repressione, in funzione delle condizioni di visibilità, cosi come enuncia l’insieme di ciò che può enunciare. Non ci sono mai segreti, sebbene non ci sia nulla di immediatamente vi­ sibile o di direttamente leggibile. Questa ricerca delle condizioni costituisce una sorta di neokan­ tismo in Foucault. Con due differenze, che Foucault formula in Le parole e le cose: le condizioni sono quelle dell’esperienza reale e non quelle dell’esperienza possibile, quindi stanno dalla parte dell’«oggetto» e non di un «soggetto» universale; riguardano le formazioni storiche o le sintesi a posteriori in quanto strati, e non la sintesi a priori di ogni esperienza possibile. Ma se c’è davvero neokantismo, c’è in quanto le visibilità formano con le loro con­ dizioni una Ricettività, e gli enunciabili, con le proprie, una Spon­ taneità. Spontaneità del linguaggio e ricettività della luce. Ricet­ tivo non significa passivo, dal momento che c’è azione e passione in ciò che la luce fa vedere. Spontaneità non significa attivo, ma significa piuttosto l’attività di un «Altro» che si esercita sulla for­ ma ricettiva (come in Kant, per il quale la spontaneità dell’«Io pen-

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so» si esercita su esseri ricettivi che se la rappresentano necessaria­ mente come altro). In Foucault, la spontaneità dell’intelletto, co­ gito, lascia il posto alla spontaneità del linguaggio (il «c’è» del lin­ guaggio), mentre la ricettività dell’intuizione lascia il posto alla ri­ cettività della luce (spazio-tempo). Di conseguenza, il fatto che ci sia un primato dell’enunciato rispetto al visibile si spiega facilmen­ te: L'archeologia del sapere può rivendicare un ruolo «determinan­ te» degli enunciati come formazioni discorsive. Ma le visibilità non sono meno irriducibili, perché rinviano a una forma del « determi­ nabile »sche non si lascia ridurre affatto alla forma della determina­ zione. E stato il grande problema di Kant, il coadattamento delle due forme, o dei due tipi di condizioni, che differiscono in natura. Nella rielaborazione foucaultiana del kantismo, infatti, una del­ le tesi essenziali ci sembra questa: fin da subito, differenza di natu­ ra tra il visibile e l’enunciabile, sebbene si inseriscano l’uno nel­ l’altro, e non cessino di compenetrarsi per comporre ogni strato o sapere. Forse si tratta dell’aspetto, del primo aspetto in cui Fou­ cault incontra Blanchot: «parlare non è vedere». Ma mentre Blan­ chot insisteva sul primato del parlare come determinante, Foucault (malgrado quel che può sembrare a prima vista) mantiene la spe­ cificità del vedere, l’irriducibilità del vedere come determinabile. Tra il parlare e il vedere non c’è isomorfismo né conformità, ben­ ché ci sia presupposizione reciproca, e primato dell’enunciato sul visibile. Anche L’archeologia del sapere, che insiste su questo pri­ mato, affermerà: non c’è né causalità da uno all’altro, né simbo­ lizzazione tra i due. «Vanamente si cercherà di dire ciò che si ve­ de: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vana­ mente si cercherà di far vedere, a mezzo di immagini, metafore, paragoni, ciò che si sta dicendo: il luogo in cui queste figure splen­ dono non è quello dispiegato dagli occhi, ma è quello definito dal­ le successioni della sintassi»2. Le due forme non hanno la stessa formazione, la stessa «genealogia» nel senso archeologico di Gestaltung. Sorvegliare e punire offrirà l’ultima grande dimostrazione a questo riguardo: qui c’è l’incontro tra enunciati di «delinquen­ za», che dipendono da un nuovo regime di enunciato penale, e la prigione come forma di contenuto, che dipende da un nuovo regi­ me di visibilità; tuttavia i due differiscono in natura e non hanno affatto la stessa genesi, la stessa storia, sebbene si incontrino in 3 Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966, p. 25; trad. it. Le parole e le cose, Riz­ zoli, Milano, p. 23 (corsivo di Deleuze) [Ni/.C.].

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uno stesso strato, e si servano uno dell’altro, si rinforzino a vicen­ da, per quanto in certi momenti^ possano anche nuocersi a vicenda e sciogliere la propria alleanza. E qui che il metodo di Foucault as­ sume tutto il proprio senso e sviluppo storico: i «giochi di verità» tra ciò che si vede e ciò che si dice, la delinquenza come enuncia­ to, la prigione come visibilità. Ma già all’inizio della sua opera Fou­ cault ì’aveva analizzato in un altro caso {Storia della follia)', il ma­ nicomio come luogo di visibilità e la malattia mentale come og­ getto di enunciato hanno genesi diverse, un’eterogeneità radicale, tuttavia entrano in presupposizione reciproca in uno strato, a ri­ schio di sciogliere le loro alleanze in un altro. In ogni strato o formazione storica, ci sono dei fenomeni di stretta e di cattura: le serie di enunciati e i segmenti di visibilità si inseriscono le une negli altri, non senza violenze o forzature. Forme di contenuto come la prigione o il manicomio generano de­ gli enunciati secondi che producono o riproducono delinquenza e malattia mentale; ma forme d’espressione come la delinquenza ge­ nerano dei contenuti secondi che riconducono alla prigione {Sor­ vegliare e punire). Tra il visibile e la sua condizione di luminosità si inseriscono degli enunciati; tra l’enunciabile e la sua condizio­ ne di linguaggio si insinuano delle visibilità {Raymond Roussel). Le due condizioni hanno quanto meno in comune la costruzione di uno spazio di «rarità», di «disseminazione», cosparso di inter­ stizi. Infatti, il modo particolare in cui il linguaggio si raccoglie in uno strato (il «c’è»...) è al tempo stesso uno spazio di dispersione per gli enunciati cosi stratificati nel linguaggio. E, analogamente, il modo particolare in cui la luce si raccoglie è uno spazio di disper­ sione per le visibilità, i «bagliori», i «colpi d’occhio» della luce se­ conda. E un errore credere che Foucault si interessi soprattutto ai luoghi di internamento: i luoghi di internamento rendono sempli­ cemente effettive le condizioni di visibilità in una certa formazio­ ne storica. Non esistevano prima di allora e non esisteranno in se­ guito. Ma che ci sia internamento o meno, sono degli spazi o del­ le forme di esteriorità, linguaggio o luce, jn cui gli enunciati si disseminano e le visibilità si disperdono. E questo il motivo per cui gli enunciati possono inserirsi negli interstizi del vedere, e le visibilità negli interstizi del parlare. Si parla e si vede o si fa vede­ re allo stesso tempo, sebbene non siano la stessa cosa e differisca­ no in natura {Raymond Roussel). E da uno strato all’altro, le visi­ bilità e gli enunciabili contemporaneamente si trasformano, seb­ bene non secondo le stesse regole {Nascita della clinica). In breve,

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ogni strato, formazione storica o positività è costituita dall’intrec­ cio fra enunciati determinanti e visibilità determinabili, per quan­ to siano eterogenei, ma questa eterogeneità non impedisce la loro reciproca compenetrazione.

2. Le strategie o il non-stratificato (Potere) : il pensiero del di fuori.

Tuttavia non basta che il coadattamento delle due forme non venga impedito, bisogna che sia positivamente generato da una nuova istanza comparabile a ciò che Kant chiamava «schemati­ smo». Ci troviamo su un nuovo asse che riguarda il potere e non più il sapere. E su questo nuovo asse ritroviamo le determinazio­ ni precedenti: presupposizione reciproca tra potere e sapere, dif­ ferenza di natura e un certo primato del potere. Ma ora si tratta di un rapporto di forze, e non più di un rapporto tra due forme, co­ me accadeva nel sapere. Infatti, la forza è per essenza in rapporto con altre forze: è proprio della forma di produrre affezioni su al­ tre forme e di subire la loro affezione. Per cui «il» potere non è l’espressione di una classe dominante, né tanto meno dipende da un apparato di stato, ma «si produce in ogni istante, in ogni pun­ to, o piuttosto in ogni relazione fra un punto e un altro»3, passan­ do per i dominati come per i dominanti, in maniera tale che le clas­ si ne sono il risultato e non l’opposto, e che lo stato o la legge ne effettuano soltanto l’integrazione. Le classi e lo stato non sono for­ ze, ma soggetti che le allineano, le integrano globalmente e ne at­ tuano i rapporti, sui e nei vari strati. Sono degli agenti di stratifi­ cazione, che presuppongono i rapporti di forze prima di ogni sog­ getto e oggetto. Ecco perché il potere si esercita prima che sia posseduto: problema di strategia, «strategie anonime quasi mute» e cieche. Non si dirà che un campo sociale si struttura, e nemme­ no che si contraddice: esso ha una strategia (da cui una sociologia delle strategie come quella di Pierre Bourdieu). Per questo moti­ vo, inoltre, il potere ci fa entrare in una «microfisica» o si presen­ ta come un insieme di micropoteri. Dobbiamo quindi distinguere la strategia delle forze dalla stratificazione delle forme che ne con­ segue soltanto: dall’una all’altra non vi è ingrandimento, o all’op­ posto miniaturizzazione, ma eterogeneità. ’ La volontàdesavoir, Gallimard, Paris 1976, p. 122; trad. it. La volontà di sapere, Fel­ trinelli, Milano 1978, p. 82 [NJ.C.l.

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In questa famosa tesi di Foucault non c’è una sorta di ritorno al diritto naturale? Con una differenza: che non si tratta di dirit­ to, nozione ancora globale, né di Natura, termine ancora globale di un’alternativa troppo ampia. Si tratta piuttosto di un’ispirazio­ ne nietzschiana, come appunto conferma l’articolo su Nietzsche. E se successivamente Foucault si oppone a ogni concezione repres­ siva del potere, giudicata facile e affrettata, è perché il rapporto di forze non si lascia determinare come una semplice violenza. Il rapporto tra una forza e l’altra consiste nel modo in cui una forza produce affezioni su altre e subisce le affezioni di altre; a questo proposito si possono fare delle liste di «funzioni»: prelevare e sot­ trarre, contare e controllare, comporre e far crescere ecc. La for­ za stessa si definisce attraverso un doppio potere, di produrre e di subire affezioni, e per questo stesso motivo non è separabile dal rapporto con altre forze, il quale di volta in volta determina o riem­ pie questi poteri. C’è dunque una sorta di ricettività della forza (potere di subire affezioni) e una spontaneità (potere di produrre affezioni). Ma, per l’appunto, spontaneità e ricettività non hanno più lo stesso senso che avevano invece negli strati. Negli strati era il vedere e il parlare che comportavano ognuno delle sostanze for­ mate e delle funzioni formalizzate: prigionieri, scolari, soldati, ope­ rai non erano la stessa «sostanza», cosi come punire, istruire, ad­ destrare, elaborare non erano la stessa funzione. I rapporti di for­ ze, invece, maneggiano materie non formate e funzioni non formalizzate: per esempio, un corpo qualunque, una popolazione qualunque, su cui si esercita una funzione generale di controllo o di incasellamento (indipendentemente dalle forme concrete che gli daranno gli strati). E in questo senso che una volta Foucault può dire, in un passaggio essenziale di Sorvegliare e punire, che un «dia­ gramma» esprime un rapporto di forze o di potere: «Funziona­ mento, astratto da ogni ostacolo, resistenza o attrito [...] che si può e si deve distaccare da ogni uso specifico»4. Per esempio, le società moderne sono definite da un diagramma disciplinare. Ma in società stratificate in maniera diversa agiscono altri diagrammi: il diagramma della sovranità, che procede per prelevamento piut­ tosto che per incasellamento; oppure il diagramma pastorale, che riguarda un gregge e ha come funzione il «pascolare»... Una del­ le originalità del diagramma, infatti, è di essere un luogo di muta­ 4 Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975, p. 207; trad. it. Sorvegliare e punire, Einau­ di, Torino p. 224 [NJ.C.].

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zioni. Non è davvero al di fuori degli strati, ne è l'interno. Sta fra due strati in quanto luogo di mutazioni che ci fa passare da uno al­ l’altro. I rapporti di forza costituiscono quindi il potere in un dia­ gramma, mentre le relazioni di forme definivano il sapere in un ar­ chivio. La genealogia smette di essere una semplice archeologia del­ le forme che appaiono in uno strato per divenire una strategia delle forze da cui dipende lo strato stesso. Lo studio delle relazioni stratificate di sapere culminava nelY Archeologia. Lo studio dei rapporti strategici di forze o di pote­ re inizia invece in Sorvegliare e punire e si sviluppa nella Volontà di sapere. Tra i due c’è insieme irriducibilità, presupposizione reci­ proca e un certo primato dei secondi. Il «diagrammatismo» gio­ cherà un ruolo analogo a quello dello schematismo kantiano, ma in tutt’altra maniera: la spontaneità ricettiva delle forze renderà conto della ricettività delle forme visibili, della spontaneità degli enunciati dicibili e della loro correlazione. I rapporti di forze si ef­ fettuano negli strati, che senza di essi non avrebbero nulla da in­ carnare o da attualizzare; ma, inversamente, senza gli strati che li attualizzano, i rapporti di forze resterebbero transitivi, instabili, evanescenti, quasi virtuali, e non prenderebbero forma. Lo si com­ prende se si tiene presente L'archeologia del sapere, che invocava già una «regolarità» come proprietà dell’enunciato. Ma la regola­ rità secondo Foucault non indica affatto una frequenza o una pro­ babilità, bensì una curva che unisce i singoli punti. Per la precisio­ ne, i rapporti di forza determinano dei singoli punti, delle singo­ larità come affezioni, per cui un diagramma è sempre un’emissione di singolarità. Come nella matematica, in cui la determinazione delle singolarità (nodi di forze, fuochi, selle ecc.) si distingue dal­ l’andamento della curva che vi passa accanto. La curva effettua i rapporti di forza regolarizzandoli, allineandoli, facendo converge­ re le serie, tracciando una «linea di forza generale» che collega i singoli punti. Quando definisce l’enunciato attraverso una regola­ rità, Foucault sottolinea che le curve o i grafici sono degli enuncia­ ti, e gli enunciati gli equivalenti di curve e grafici. Anche l’enun­ ciato si rapporta essenzialmente a un’«altra cosa», di altra natura, che non si riduce né al senso della frase né al referente della propo­ sizione: sono i punti singolari del diagramma vicino a cui la curvaenunciato si traccia nel linguaggio, e diventa regolare o leggibile. E forse bisogna dire lo stesso delle visibilità: in quel caso sono dei quadri che organizzano le singolarità dal punto di vista della ricet­ tività, tracciando delle linee di luce che le rendono visibili. Non è

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soltanto il pensiero di Foucault, ma il suo stile stesso che procede cosi per curve-enunciati e per quadri-descrizioni (Las menìnas, o la descrizione del Panopticon: tutte le grandi descrizioni che Foucault introduce nei suoi testi). Perciò una teoria delle descrizioni gli è tanto indispensabile quanto quella degli enunciati. E i due elemen­ ti derivano dal diagramma delle forze che si attualizza in essi. Si potrebbero presentare le cose in questo modo: se la forza è sempre in rapporto con altre forze, le forze rinviano necessariamen­ te a un Fuori irriducibile, fatto di distanze non-scomponibili, at­ traverso cui una forza agisce su un’altra o è agita da un’altra. E sempre dal di fuori che una forza conferisce ad altre, o riceve dal­ le altre, l’affezione variabile che esiste solo a quella distanza o in quel rapporto. C’è quindi un continuo divenire delle forze, che raddoppia la storia o piuttosto la avvolge, secondo una concezio­ ne nietzschiana: «L’emergenza designa un luogo di scontro», di­ ceva l’articolo su Nietzsche, non «un campo chiuso, dove si svol­ gerebbe una lotta», ma piuttosto «un “non luogo”, una pura di­ stanza» che agisce soltanto negli interstizi5. Un fuori più lontano di ogni mondo esterno, e anche di ogni forma di esteriorità. Il dia­ gramma è un non-luogo simile, costantemente agitato dai cambia­ menti di distanza o dalla variazione delle forze in rapporto tra lo­ ro. E soltanto un luogo per le mutazioni. Se vedere e parlare sono forme di esteriorità, a loro volta esterne l’una all’altra, pensare si rivolge a un fuori che non ha nemmeno più una forma. Pensare vuol dire arrivare al non-stratificato. Vedere è pensare, parlare è pensare, ma si pensa negli interstizi, nella disgiunzione tra vede­ re e parlare. E il secondo punto di incontro tra Foucault e Blan­ chot: pensare appartiene al Fuori, per quanto esso, «tempesta astratta», si riversi nell’interstizio tra vedere e parlare. L’articolo di Blanchot segue l’articolo su Nietzsche. Il richiamo al fuori è un tema costante di Foucault, e significa che pensare non è l’eserci­ zio innato di una facoltà, ma deve giungere al pensiero. Pensare non dipende da un’interiorità che congiungerebbe il visibile e l’enunciabile, ma si produce con l’intrusione di un fuori che scava l’intervallo: «il pensiero del di fuori» come colpo di dadi, come emissione di singolarità6. Tra due diagrammi, tra due stati del dia’ Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. II, p. 144; trad. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in II discorso, la storia, la verità, Einaudi, To­ rino 2001, pp. 51-52 [NJ.C.]. 6 La pensée du dehors, in Dits et écrits cit., vol. I, pp. 518-39; trad. it. Il pensiero del di fuori, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1984, pp. n 1-34 [N J C.].

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gramma, vi è mutazione, ricomposizione dei rapporti di forze. Non perché qualsiasi cosa si colleghi a qualsiasi altra. Sono piuttosto come dei lanci successivi, ciascuno dei quali si effettua a caso, ma nelle condizioni estrinseche determinate dal lancio precedente. E un misto di aleatorio e di dipendente, come in una catena di Markov. Non è il composto che si trasforma, ma le forze che lo compongono quando entrano in rapporto con forze nuove. Non c’è quindi concatenamento per continuità né interiorizzazione, ma riconcatenamento al di sopra dei tagli e delle discontinuità. La for­ mula del fuori è quella di Nietzsche citata da Foucault: «Le mani di acciaio della necessità che scuotono il bossolo dei casi»7. Il tema della «morte dell’uomo», in Le parole e le cose, si spie­ ga cosi. A sparire non è soltanto il concetto di uomo, e nemmeno Tuomo che «si» supera, ma le forze che compongono Tuomo e che entrano in nuove combinazioni. Esse non avevano composto da sempre Tuomo: per molto tempo, durante l’età classica, erano sta­ te in rapporto con altre forze in modo da comporre Dio invece che l’uomo, cosicché l’infinito veniva prima rispetto al finito, e il pen­ siero diventava pensiero dell’infinito. Poi avevano composto l’uo­ mo, ma nella misura in cui erano entrate in rapporto con un ulte­ riore tipo di forze, forze oscure di organizzazione della «vita», di «produzione» di ricchezze, di «filiazione» della lingua, capaci di ricondurre l’uomo alla propria finitezza e di comunicargli una Sto­ ria che egli avrebbe fatto sua. Quando però appaiono nuove for­ ze in un terzo lancio, emergono nuove composizioni, e la morte dell’uomo si concatena con quella di Dio per fare posto ad altri lampi, ad altri enunciati. Insomma, l’uomo esiste soltanto su uno strato, in funzione dei rapporti di forze che vi sono in atto. E co­ si che il fuori è sempre apertura verso un futuro, con cui nulla ha termine perché nulla ha avuto inizio, ma tutto passa attraverso una metamorfosi. In quanto determinazione di un insieme di rapporti di forza il diagramma non esaurisce la forza, la quale può entrare in altri rapporti e in altre composizioni. Il diagramma proviene dal fuori, ma il fuori non si confonde con alcun diagramma, e conti­ nua a fare sempre nuovi «lanci». In questo senso, rispetto al dia­ gramma in cui è presa, la forza dispone di un potenziale, o di un terzo potere, che non si confonde con il suo potere di produrre af­ fezioni o di subire affezioni. E la resistenza. Infatti, accanto alle 7 Nietzsche. la genealogie, /’histoire cit., p. 1016; trad. it. p. 56. La citazione di Nietz sche si trova in Aurora, § 130 [NJ.C.].

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singolarità di potere che corrispondono ai suoi rapporti, un dia­ gramma di forze presenta delle singolarità di resistenza, «punti, nodi, fuochi» che si attuano a loro volta sugli strati in modo da renderne possibile il cambiamento. Ancora di più, l’ultima parola della teoria del potere è che la resistenza è prima, essendo in rap­ porto diretto con il fuori. Di conseguenza un campo sociale resi­ ste, prima ancora di agire strategicamente, e il pensiero del fuori è un pensiero della resistenza (La volontà di sapere). y I piegamenti o il dentro del pensiero (Desiderio). Bisognerebbe quindi distinguere le relazioni formalizzate ne­ gli strati (Sapere), i rapporti di forze al livello del diagramma (Po­ tere) e il rapporto con il Fuori, questo rapporto assoluto, come dice Blanchot, che è anche un non-rapporto (Pensiero). Questo equiva­ le forse a dire che non c’è un dentro? Foucault sottopone costan­ temente l’interiorità a una critica radicale. Ma un dentro che sa­ rebbe più profondo di ogni mondo interiore, cosi come il fuori è più lontano di ogni mondo esteriore. Foucault ritorna spesso sul tema del doppio. Ma per lui il doppio non è una proiezione dell’in­ terno, al contrario è un piegamento del fuori, un po’ come l’inva­ ginazione di un tessuto in embriologia. In Foucault come in Ray­ mond Roussel, il doppio è sempre una «fodera», in tutti i sensi della parola8. Se il pensiero «dipende» sempre dal fuori, com’è pos­ sibile che quest’ultimo non sorga dal dentro come ciò che esso non pensa e non può pensare: un impensato nel pensiero, diceva Le pa­ role e le cose. Questo impensato è l’infinito per l’età classica, ma a partire dal xix secolo sono le dimensioni della finitezza che comin­ ciano a piegare il fuori e a costituire una «profondità», uno «spes­ sore ritirato in sé», un dentro della vita, del lavoro e del linguag­ gio. Foucault riprende a suo modo il tema heideggeriano della Pie­ ga, del Piegamento. Lo orienta verso una direzione del tutto diversa: un piegamento del fuori, talvolta la piega dell’infinito, talvolta i ripiegamenti della finitezza, impone una curvatura agli strati e ne costituisce il dentro. Essere la fodera del fuori o, come diceva già la Storia della follia, essere «all’interno dell’esterno»9. ’ Doublure in francese significa appunto fodera, ma anche sostituto (nel teatro) e con­ trofigura (nel cinema) [Nz/.T.]. ’ Histoire de la folle à l’àge classique, Gallimard, Paris 1972, p. 22; trad. it. Storia del­ la follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1992, p. 19 [N J.C.J.

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Due regimi di folli

Forse negli ultimi libri di Foucault non c’è la rottura con i pre­ cedenti che crediamo di vedervi, e che lui stesso suggerisce. C’è piuttosto una rivalutazione dell’insieme secondo questo asse o que­ sta dimensione, il dentro. Già Le parole e le cose poneva la questio­ ne dell’impensato e insieme quella del soggetto: «Cosa devo esse­ re, io che penso e sono il mio pensiero, per essere ciò che non pen­ so, e perché il mio pensiero sia ciò che non sono?»1011 . Il dentro è un’operazione del fuori, è una soggettivazione (il che non vuole ne­ cessariamente dire una interiorizzazione). Se il fuori è un rappor­ to, l’assoluto del rapporto, anche il dentro è un rapporto, il rap­ porto divenuto soggetto. L'uso dei piaceri gli dà un nome, è il «rapporto di sé con sé». Se la forza ricava dal fuori un doppio po­ tere, quello di produrre affezione (in altre forze) e di subire affe­ zione (da parte di altre forze), come potrebbe non derivare da ciò un rapporto della forza con se stessa ? Forse è l’elemento della «re­ sistenza». A questo punto, Foucault ritrova l’affezione di sé attra­ verso sé come il più grande paradosso del pensiero: il rapporto con sé costituisce un dentro che non cessa di derivare dal fuori. Anche qui bisogna far vedere come il rapporto con il fuori ab­ bia il primato, e tuttavia come il rapporto con sé sia irriducibile e si produca secondo un asse specifico. Il soggetto è sempre costi­ tuito, prodotto da una soggettivazione, ma appare in una dimen­ sione che si oppone a ogni stratificazione o codificazione. Consi­ deriamo la formazione storica dei greci: sotto la luce che gli è pro­ pria e attraverso gli enunciati che inventano, essi attualizzano i rapporti di forze del loro diagramma, ed ecco cosi la città, la fami­ glia, ma anche l’eloquenza, i giochi, ovunque possa effettuarsi in quel momento il dominio dell’uno sull’altro. Ora, a prima vista, l’autodominio di sé, vale a dire la Virtù come morale, non è che un altro caso: «Assicurare la direzione di se stessi, assumere il go­ verno della propria casa e partecipare a quello della città, sono tre pratiche dello stesso tipo»11. E tuttavia il rapporto con sé non si la­ scia allineare sulle forme concrete di potere, né sussumere da una funzione diagrammatica astratta. Si direbbe che si sviluppa soltan­ to staccandosi dai rapporti con gli altri, «sganciandosi» sia dalle forme di potere sia dalle funzioni di virtù. E come se i rapporti del fuori si piegassero, per formare una fodera, e lasciar emergere un rapporto con sé che si sviluppa secondo una nuova dimensione: 10 Les mots et les choses cit., pp. 335-36; trad. it. p. 349 [N d.C.]. 11 L'usage des plaisirs cit., p. 88; trad. it. p. 81 [N J.C.].

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Venkrateia è «un potere che si esercita su se stessi nel potere che si esercita sugli altri»12 (come si potrebbe pretendere di governare gli altri se non si governasse se stessi?), al punto che il rapporto con sé diventa il principio regolatore interno, in relazione ai pote­ ri che costituiscono la politica, la famiglia, l’eloquenza o i giochi, e la virtù stessa. Il governo degli altri si riflette, si raddoppia o si piega in un governo di sé che mette in rapporto la forza con se stes­ sa, e non più con un’altra forza: forse sono stati i greci a inventa­ re questa dimensione, almeno come dimensione parzialmente au­ tonoma (una concezione estetica dell’esistenza). La tesi di Foucault sembra essere questa: è nella sessualità, con i greci, che il rapporto con sé trova l’occasione di attuarsi. Il rap­ porto o l’affezione sessuale non è separabile dai due poli che ne costituiscono i termini, spontaneità-ricettività, determinante-de­ terminabile, attivo-passivo, ruolo maschile - ruolo femminile. Ma a causa della sua violenza e del suo dispendio l’attività sessuale eserciterà il suo ruolo determinante solo se diverrà capace di rego­ larsi, di produrre affezione su se stessa. Da cui la sessualità come materia e prova del rapporto con se stessi. Da questo punto di vi­ sta il rapporto con sé assume tre forme: un rapporto semplice, con il corpo, come Dietetica dei piaceri o degli affetti (governarsi ses­ sualmente per essere in grado di governare gli altri); un rapporto sviluppato, con la propria moglie, come Economia della casa (go­ vernarsi per essere in grado di governare la propria moglie, e per fare in modo che lei pervenga a una buona ricettività); infine un rapporto a sua volta sdoppiato, con il giovane ragazzo, come Ero­ tica dell’omosessualità o pederastia (non soltanto governarsi, ma fare in modo che il ragazzo governi se stesso resistendo al potere degli altri). Ciò che ci pare essenziale, in questa presentazione dei greci, è che non ci sia un legame necessario, ma soltanto un incon­ tro storico tra il rapporto con sé, che si riferisce piuttosto a un mo­ dello alimentare, e il rapporto sessuale, che fornisce i termini e la materia. Da ciò deriva la difficoltà che Foucault ha dovuto supe­ rare: aveva iniziato, dice, scrivendo un libro sulla sessualità, La volontà di sapere, ma senza arrivare al Sé; poi ha scritto un libro sul rapporto con sé, che però non si ricongiungeva con la sessua­ lità. In realtà occorreva arrivare al punto o al momento in cui le due nozioni raggiungono un equilibrio, con i greci. A partire da qui si svilupperebbe tutta la storia del Dentro: in che modo il le­ 12 Ibid., p. 93; trad. it. p. 85 (corsivo di Deleuze) [Nz/.C.].

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game tra il rapporto con sé e il rapporto sessuale tende a diventa­ re sempre più «necessario», a patto che cambino il valore del rap­ porto con sé, i termini del rapporto sessuale, la natura della prova e la qualità della materia. Sarà il cristianesimo, la sostituzione del corpo con la carne, dei piaceri con il desiderio... I greci non man­ cavano certo né di individualità né di interiorità. Ma è una lunga storia quella dei modi di soggettivazione, nella misura in cui costi­ tuiscono la genealogia sempre ripresa di un soggetto desiderante. Il dentro assume molte figure o modalità, a seconda di come avviene la piega. Il desiderio non è forse il dentro in generale, o piuttosto il legame mobile del dentro con le altre due istanze, fuo­ ri e strati ? Se è vero che il dentro si costituisce per un piegamen­ to del fuori, c’è tra di essi una relazione topologica, il rapporto con sé è omologo al rapporto con il fuori, e tutto il contenuto del den­ tro è in rapporto con il fuori. «L’interno dell’esterno, e vicever­ sa», diceva la Storia della follia. E L'uso dei piaceri parlerà a que­ sto proposito di isomorfismo. Tutto avviene con l’intermediazio­ ne degli strati, che sono ambienti relativamente esterni e quindi relativamente interni: sono le formazioni stratificate che mettono in contatto il fuori assoluto e il dentro che ne deriva, o inversa­ mente che dispiegano il dentro sul fuori. Tutto il dentro si trova attivamente presente al di fuori sul limite degli strati. Pensare riu­ nisce i tre assi, è un’unità che non smette di differenziarsi. Ci so­ no qui tre tipi di problemi, o tre figure del tempo. Gli strati, per quanto si tuffino nel passato, ne estraggono dei presenti successi­ vi, sono al presente (che cosa si vede, che cosa si dice in quel pre­ ciso momento ?) Ma il rapporto con il fuori è il futuro, la possibi­ lità del futuro secondo delle chance di mutamento. Quanto al den­ tro, esso condensa il passato in base a dei modi che non sono necessariamente continui (per esempio la soggettività greca, la sog­ gettività cristiana...) L'archeologia del sapere poneva già il proble­ ma delle durate brevi o lunghe, ma Foucault sembrava considera­ re soprattutto durate relativamente brevi nell’ambito del sapere e del potere. E con L'uso dei piaceri che scopre le durate lunghe, a partire dai greci e dai Padri della Chiesa. La ragione è semplice: sebbene non conserviamo le conoscenze che non ci servono più, né i poteri che non si esercitano più, continuiamo tuttavia a ser­ vire morali alle quali non crediamo più. In ogni momento il passa­ to si ammassa nel rapporto con sé, mentre gli strati portano il pre­ sente in trasformazione e il futuro si gioca nel rapporto con il fuo­ ri. Pensare è sistemarsi nello strato al presente che funge da limite.

Sui principali concetti di Michel Foucault

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Ma è pensare il passato quale è condensato nel dentro, nel rappor­ to con sé. Pensare il passato contro il presente, resistere al presen­ te, non per un ritorno, il ritorno ai greci per esempio, ma «a favo­ re, spero, di un tempo a venire». Tutta l’opera di Foucault si crea creando una topologia che mette attivamente in contatto il den­ tro e il fuori nelle formazioni stratificate della storia. Quindi è pro­ prio degli strati produrre delle falde che fanno vedere e dire cose nuove, ma è anche proprio del rapporto con il fuori rimettere in questione i poteri stabiliti, e infine è proprio del rapporto con sé ispi­ rare nuovi modi di soggettivazione. E su quest’ultimo punto che l’opera di Foucault si interrompe brutalmente. Se le interviste di Foucault fanno pienamente parte della sua opera, è perché ogni volta esse attuano l’operazione topologica che ci mette in rappor­ to con i nostri problemi attuali. Quest’opera avrà fatto scoprire al pensiero tutto un sistema di coordinate prima sconosciute. Essa dipinge nella filosofia i più bei quadri di luce e traccia inaudite cur­ ve di enunciati. Si riconcatena con le grandi opere che hanno cam­ biato ciò che per noi significa pensare. Non ha finito di segnare una mutazione della filosofia.

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Le superfici d’immanenza *

È stato spesso descritto l’«universo in scala» che corrisponde a tutta una tradizione platonica, neoplatonica e medievale. E un universo sospeso all’Uno in quanto principio trascendente, e che procede per una serie di emanazioni e di conversioni gerarchiche. Qui l’Essere è equivoco o analogico. Gli esseri hanno infatti più o meno essere, più o meno realtà, a seconda della loro distanza o prossimità con il principio. Ma allo stesso tempo questo cosmo è attraversato da un’ispirazione del tutto diversa. E come se delle su­ perfici [plages] d’immanenza facessero pressione sui piani o sugli scalini, e tendessero a ricongiungersi tra un livello e l’altro. Li l’Es­ sere è univoco, uguale: vale a dire che gli esseri sono tutti allo stes­ so modo essere, nel senso che ognuno mette in atto la propria po­ tenza in una vicinanza immediata con la causa prima. Non c’è più una causa lontana: la roccia, il giglio, la bestia e l’uomo cantano allo stesso modo la gloria di Dio in una sorta di coronata anarchia. Alle emanazioni-conversioni dei livelli successivi, si sostituisce la coesistenza di due movimenti nell’immanenza, la complicazione e la spiegazione, in cui Dio «complica ogni cosa» e al contempo «ogni cosa spiega Dio». Il multiplo è nell’uno che lo complica, così co­ me l’uno è nel multiplo che lo spiega. Senza dubbio la teoria continuerà a conciliare questi due aspet­ ti o questi due universi, e soprattutto a subordinare l’immanenza alla trascendenza, a misurare l’Essere d’immanenza alI’Unità di trascendenza. Ma qualunque siano i compromessi teorici, nelle spinte d’immanenza c’è qualcosa che tende a valicare il mondo ver­ ticale, a prenderlo alle spalle, come se la gerarchia generasse un’a­ * In A. Cazenave, J.-F. Lyotard (a cura di), L’artdes confini. Mélangei offerti à Mau­ rice de Gandillac, PUF, Paris 1985, pp. 79-81. Maurice de Gandillac, nato nel 1906, filo­ sofo, specialista del pensiero medievale, traduttore dal latino e dal tedesco, professore al­ la Sorbona dal 1946 al 1977, responsabile del Centro culturale internazionale di Cerisy-laSalle, fu professore di Deleuze e poi il suo direttore di tesi per Differenza e ripetizione.

Le superaci d’immanenza

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narchia particolare, o l’amore di Dio un ateismo interno che gli era proprio: ogni volta si sfiora l’eresia. E il Rinascimento non smet­ terà di sviluppare, di estendere questo mondo immanente, che non si concilia con la trascendenza senza minacciarla con un nuovo di­ luvio. E questo che ci sembra tanto importante nell’opera storica di Maurice de Gandillac: la maniera in cui ha valorizzato questo gio­ co tra l’immanenza e la trascendenza, queste spinte d’immanenza della Terra attraverso le gerarchie celesti. La philosophic de Nico­ las de Cues è un grande libro, e stupisce che sia introvabile e non riedito1. Si assiste al fiorire di un insieme di concetti, logici e on­ tologici, che caratterizzeranno la filosofia cosiddetta moderna at­ traverso Leibniz e i romantici tedeschi. Come la nozione di possest, che esprime l’identità immanente dell’atto e della potenza. E que­ st’avventura dell’immanenza, questa rivalità tra l’immanenza e la trascendenza attraversa già l’opera di Eckhart, quella dei mistici renani, o in altro modo quella di Petrarca. Ma ancora di più, fin dall’inizio del neoplatonismo, Gandillac insiste su questi germi e su questi specchi d’immanenza. Nel suo libro su Plotino, tra i più belli scritti su di lui, mostra come l’Essere proceda dall’Uno, com­ plicandone, nondimeno, tutti gli esseri in se stesso, pur spiegan­ dosi in ognuno12. Immanenza dell’immagine nello specchio, e del­ l’albero nel germe: sono le due basi di una filosofia dell’espressio­ ne. E anche nello pseudo-Dionigi, il rigore delle gerarchie lascia un posto virtuale a superfici di uguaglianza, di univocità e di anar­ chia. Per colui che li inventa o li fa emergere, i concetti filosofici so­ no anche dei modi di vita e di attività. Riconoscere il mondo del­ le gerarchie, ma al tempo stesso farvi passare queste superfici d’im­ manenza che lo fanno vacillare, invece di metterlo direttamente in causa, è proprio un’immagine di vita inseparabile da Maurice de Gandillac. In lui c’è come un uomo del Rinascimento. In lui c’è uno humour vivace, che si confonde proprio con la tessitura di un’immanenza: complicare le cose o le persone più diverse in una sola e medesima tela, dove contemporaneamente ogni cosa, ogni persona spiega il tutto. Tolstoj diceva che, per raggiungere la feli­ cità, bisognava catturare, come in una ragnatela e senza alcuna leg­ ge, «una vecchia, un bambino, una donna, un commissario di po1 La philosophic de Nicolas de Cues, Aubier, Paris 1942 [Nz/.C.]. 2 La sagesse de Piotin, Hachette, Paris 1952 [NJ.C.].

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Due regimi di folli

lizia». E un’arte di vivere e di pensare che Gandillac ha sempre esercitato e reinventato. Ed è il suo senso concreto dell’amicizia5. Lo si ritrova anche in un’altra attività di Gandillac, nella sua abi­ lità a coordinare le discussioni: se, assieme a Geneviève de Gan­ dillac, ha infuso nuova vita ai colloqui di Cerisy, l’ha fatto attra­ verso la disposizione delle conferenze su piani successivi, ispirando un tipo di dibattiti che tracciano proprio delle superfici d’immanen­ za o sono le parti di una sola e medesima tela. Gli interventi espli­ citi di Gandillac possono essere brevi, hanno uno strano tenore e ricchezza che fanno si che dovrebbero essere riuniti come dei pez­ zi scelti. Questo tenore deriva dal fatto che molto spesso sono in­ terventi filologici, e lo si percepisce anche in un’altra attività di Gandillac: se è un profondo filologo, e quindi anche germanista e traduttore, lo è perché il pensiero originario di un autore deve com­ prendere in qualche modo sia il testo originale sia il testo deriva­ to, e contemporaneamente il testo derivato deve a suo modo spie­ gare l’originale (seppure senza alcuno sviluppo supplementare). Le traduzioni di Gandillac - specialmente il suo Zarathustra - hanno potuto suscitare delle controversie proprio per la loro forza4: im­ plicano, infatti, tutta una nuova teoria e una nuova concezione della traduzione, sulle quali Gandillac ha dato finora soltanto po­ che e troppo rare indicazioni. Ma quella di Gandillac è una sola e unica impresa che ha intrapreso come filosofo, come storico della filosofia, come professore, come traduttore e come uomo.

’ Cfr. Approchesde l'amitié, in L'existence, Gallimard, Paris 1946. 4 Cfr. la traduzione francese di Maurice de Gandillac di Cosi parlò Zarathustra, in F. Nietzsche, (Euvres completes, Gallimard, Paris 1971, vol. VI [NJ.CJ.

37Era una stella del gruppo *

Mi soffermo su una sua parola, pronunciata proprio alla fine, prima di andare all’ospedale, perché è rivelatrice. Mi ha detto: «La mia malattia sta diventando troppo difficile da gestire». E molto bello, è una morte molto bella. Effettivamente, da uno o due me­ si, stava diventando troppo difficile da gestire, e gestire la propria malattia significa qualcosa. E una malattia minuziosa e quotidia­ na. In un certo modo, lui non ha mai smesso di saper gestire. I miei primi ricordi vedono Francois come una sorta di centro d’attrazio­ ne. Da studente (eravamo studenti insieme al momento^della Li­ berazione), Francois è una specie di stella del gruppo. E sempre una stella, non nel senso di «star», ma nel senso di costellazione. C’erano moltissime persone, tanti studenti fantastici all’epoca e tanti professori che gravitavano intorno a lui. La vita di Francois era ottenebrata da alcuni misteri, dovuti al fatto che era estremamente discreto: erano come delle piccole rot­ ture di cui ci si rendeva conto solo anni dopo. Per esempio, pen­ so a come gran parte del suo prestigio, da studente, derivava da una conoscenza straordinaria della logica formale. Era considera­ to, anche da alcuni professori, come un futuro logico con un gran­ de avvenire, come qualcuno che avrebbe rimpiazzato l’assenza di un Cavaillès o di un Lautman. Ma poi tutto è svanito nel nulla. Una prima rottura: la sua conversione alla filosofia della storia. Credo che l’abbia compiuta influenzato da una persona che per lui * In «Liberation», 27 dicembre 1985, pp. 21-22. La grande amicizia che lega Deleu­ ze e Chàtelet risale ai tempi dei loro studi alla Sorbona; formano un gruppo che compren­ de, tra gli altri, Jean-Pierre Bamberger, Michel Butor, Armand Gatti, Jacques Lanzmann, Michel Tournier, Olivier Revault d’Allones. Su questo periodo, si vedano le testimonian­ ze di Michel Tournier, Le vent Paraclet, Gallimard, Paris 1977 (trad. it. // vento Paracleto, Garzanti, Milano 1992), e di Francois Chàtelet, Cbroniques des idées perdues, Stock, Paris 1977. Nel 1969 Deleuze e Chàtelet si ritrovano assieme nel polo sperimentale dell’Università di Vincennes dove Chàtelet dirige il dipartimento di filosofia.

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Due regimi di folli

ha avuto molta importanza: Eric Weil, con tutto ciò che rappre­ sentava come prolungamento di Kojève. Eric Weil era l’introdu­ zione a Hegel o il ritorno a una sorta di neohegelismo di cui non è scorretto dire che era un neohegelismo di destra. Mentre Francois, pur riconoscendo assolutamente l’influenza di Eric Weil, faceva un neohegelismo di sinistra. Questo ha avuto molta importanza e ha portato a due conse­ guenze: da una parte, il suo grande libro su La nascita della storia1 e, dall’altra, la sua adesione al Partito comunista. Ma questa ade­ sione non si è mai compiuta sulla scia dell’entusiasmo, della de­ lusione o dell’uscita-delusione. E stato piuttosto un segmento, e mille fattori hanno determinato la sua fuoriuscita. L’ultimo periodo della sua opera è molto più orientato verso una messa in questione del logos, cioè su una nuova filosofia poli­ tica che, lungi dall’essere un ritorno a Hegel, un ritorno al logos, è un nuovo tipo di critica del logos e della razionalità storica o po­ litica. Quando dico che ci sono dei misteri è perché l’altro aspet­ to (in un uomo l’opera e la vita procedono sempre insieme) si ac­ compagna anche a un grande romanzo, che sul momento non è sta­ to affatto notato. Forse ora saremo esortati a rileggere Les années de demolition1 2. Io lo farò pensando a lui. E un grandissimo romanzo che ha un equivalente solo in Fitzgerald. In Francois c’è tutto un lato fitzgeraldiano; posso dirlo tanto più che per me Fitzgerald è uno dei più grandi autori di sempre e Les années de démolition è un gran­ de romanzo intorno all’idea che ogni vita creatrice è allo stesso tempo un processo di autodistruzione, il tema della fatica come processo vitale. Devo dire che si ricongiungeva ai temi di Blanchot sul pensiero e la fatica, e il romanzo è un vero e proprio commen­ to ai rapporti tra la vita e l’autodistruzione. E un libro estremamente bello e commovente. La sua opera, mi sembra, è davvero un’opera considerevole: e se essa si vede o si è vista meno, o non si è ancora vista bene, è perché lui ha fatto ciò che noi tutti diciamo di voler fare ma non abbiamo fatto. A cominciare da Foucault, tutti noi abbiamo det­ to che «autore» indicava una funzione; non era un nome e in fon­ do non era l’unica funzione, e nell’ambito della creazione c’erano 1 La naissance de l’histoire, Minuit, Paris 1961, riedito da 10/18 nel 1974; trad. it. La nascita della storia, Dedalo, Bari 1974 [NJ.C.]. 2 Les années de démolition, Hallier, Paris 1975 [NJ.CJ.

Era una stella del gruppo

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tante altre cose oltre alla funzione autore, come emerge un po’ dal cinema: ci sono la funzione produttore, la funzione regista e tan­ te altre. Nelle ultime parole di Francois, «questa malattia diventa difficile da gestire», gestire è veramente una funzione. Cosi co­ me dirigere è una funzione. Per me Francois è un grandissimo pro­ duttore, nel senso che questo termine ha assunto nelxcinema. Non si tratta di coloro che finanziano, ma di tutt’altro. E una funzio­ ne distinta. E stato anche un grande negoziatore, il che faceva tutt’uno con il suo senso politico. La negoziazione era, in lui, tutto ciò che si voleva tranne che un’arte del compromesso. Che io sappia, è un uomo che non ha mai fatto il minimo compromesso, sebbene sa­ pesse condurre una negoziazione. Lo si vedeva anche a livelli più piccoli. Il ^dipartimento di filosofia a Parigi Vili ha resistito gra­ zie a lui. E stato proprio lui a gestire questo difficile dipartimen­ to e il suo senso della politica passava sempre da un senso della ne­ goziazione dura, e cioè assolutamente non dal compromesso. Benché fosse all’incrocio di ogni tipo di funzione (autore, per­ ché era veramente un autore, negoziatore, produttore, gestore ecc.), cred©'che prima di tutto fosse fondamentalmente produtto­ re-autore. E stato un grandissimo direttore dei lavori e alla fine l’attività di creazione, per lui, passava meno dal fatto di fare un libro personale che di orientare un lavoro collettivo verso nuove direzioni. Di lui si è detto che è stato un grande pedagogo. Ma notevoli non sono soltanto la sua cura e il suo gusto peda­ gogici. Che sia stato un grandissimo professore è sicuro, ma im­ portante era anche il coordinamento del lavoro collettivo che gli permetteva di tracciare nuove strade. Non faceva della storia, sta­ biliva davvero nuovi tracciati. A questo riguardo, credo che pos­ siamo valutare la sua opera recente solo rapportandola a un rinno­ vamento della filosofia politica. In che cosa consisterebbe questo rinnovamento ? Credo che bisognerebbe tenere assieme i due capi. Il punto di partenza di Francois è stato un grande libro di filo­ sofia della storia, cioè La nascita della storia in Grecia, un libro bel­ lissimo che fu anche il primo. In seguito è diventato un soggetto classico, ma inizialmente è stato Francois a inaugurare questa di­ rezione, di una riflessione sulla storia come veniva concepita dai greci, e che successivamente ha avuto alcuni epigoni. In seguito non si è più fatto riferimento a questo libro maggiore, ma è un li­ bro maggiore. E se si salta al capo opposto (parlo di ogni volta che Francois è intervenuto), qual è per esempio il testo migliore sul­

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l’ateismo marxista e Marx: l’articolo di Francois5. Se facciamo ri­ ferimento ai suoi ultimi lavori, credo che, per riprendere il titolo di Debray, si trattava di fare una Critica della ragione politica, in senso kantiano. Vale a dire, come se Francois fosse tornato indie­ tro, alla sua adesione al logos, e ora bisognasse fare una critica del logos politico, una critica della razionalità politica, una critica del­ la razionalità storica. Questo tentativo di una nuova critica dove­ va accompagnarsi - ecco la parte del coordinamento del lavoro col­ lettivo - a un grande lavoro che ha un po’ il suo modello nei lin­ guisti: un grande vocabolario politico. Per questo dico che è un produttore creatore. Era in grado di fare una critica della ragione politica, che però era inseparabile dal lavoro collettivo di un vasto vocabolario politico, un vocabolario delle istituzioni politiche. L’importanza del suo pensiero, del suo lavoro è assolutamente fon­ damentale ed è quella di un creatore: non soltanto un grande pro­ fessore, ma un creatore che passa attraverso la produzione e la ge­ stione. J In Questions, objections, Denoèl-Gonthier, Paris 1979 [NJ.C.].

38Prefazione all’edizione americana di immagine-movimento *

Questo libro non si propone di costituire una storia del cine­ ma, ma di far emergere alcuni concetti cinematografici. Non sono concetti tecnici (come i vari piani o i diversi movimenti di macchi­ na), né critici (per esempio i grandi generi, western, poliziesco, film storico ecc.). Non sono nemmeno linguistici, nel senso in cui si diceva che il cinema era la lingua universale, o nel senso in cui si dice tuttora che il cinema è un linguaggio. Il cinema ci sembra essere una composizione di immagini e di segni, cioè una materia intelligibile preverbale (semiotica pura), mentre la semiologia d’i­ spirazione linguistica abolisce l’immagine e tende a fare a meno del segno. Ciò che chiamiamo concetti cinematografici sono dun­ que i tipi di immagini e i segni che corrispondono a ciascuno di que­ sti tipi. Cosi abbiamo cercato le condizioni in base alle quali l’im­ magine cinematografica si specificava nei diversi tipi, considerato che essa è «automatica» e che si presenta subito come immaginemovimento. Questi tipi sono principalmente l’immagine-percezione, l’immagine-affezione e l’immagine-azione. La loro distribuzione determina certamente una rappresentazione del tempo, ma bisogna sottolineare che il tempo resta l’oggetto di una rappresentazione indiretta finché dipende dal montaggio e deriva dalle immagini-mo­ vimento. Può essere che, dopo la guerra, si sia formata un’immagine-tempo diretta e che essa si sia imposta al cinema. Non vogliamo dire che non ci sarebbe più movimento, ma che, cosi come è accaduto molto tempo fa in filosofia, si sia prodotto un capovolgimento nel rapporto movimento-tempo: non è più il tempo che si riferisce al movimento, ma sono le anomalie del movimento che dipendono * Titolo del curatore. Preface to the English edition, in G. Deleuze, CAnema i : The Movement-Image, University of Minnesota Press, Minneapolis 1986, pp. ix-x; trad, ingle­ se di H. Tomlinson e B. Habberjam.

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dal tempo. Invece di una rappresentazione indiretta del tempo che deriva dal movimento, è l’immagine-tempo diretta del tem­ po che deriva dal movimento, è l’immagine-tempo diretta che co­ manda il falso-movimento. Perché la guerra ha reso possibile tale capovolgimento, l’emergere di un cinema del tempo, con Welles, il neorealismo, la nouvelle vague... ? Anche in questo caso biso­ gnerà cercare quali tipi di immagini corrispondono alla nuova im­ magine-tempo, e quali segni si combinano con questi tipi. Forse tutto nasce da un’esplosione dello schema senso-motorio: questo schema, che aveva concatenato le percezioni, le affezioni e le azio­ ni, non entra in una crisi profonda senza che il regime generale dell’immagine non ne venga cambiato. A ogni modo, il cinema ha subito qui una mutazione molto più importante di quella che ave­ va conosciuto con il sonoro. Non si tratta di dire che il cinema moderno dell’immagine-tempo abbia «più valore» del cinema classico dell’immagine-movimento. Stiamo parlando di capolavori ai quali non si applica alcuna ge­ rarchia di valore. Il cinema è sempre al massimo grado di perfezio­ ne possibile, tenuto conto delle immagini e dei segni che inventa e di cui dispone in un preciso momento. Per questo motivo il pre­ sente studio deve intrecciare le analisi concrete delle immagini e dei segni con monografie di grandi autori che li hanno creati o rin­ novati. Il primo volume riguarda l’immagine-movimento, il secondo ri­ guarderà l’immagine-tempo. Se, alla fine di questo primo volume, cerchiamo di comprendere tutta l’importanza di Hitchcock, uno dei più grandi cineasti inglesi, è perché ci sembra che abbia inven­ tato un tipo di immagine straordinaria: l’immagine delle relazio­ ni mentali. Le relazioni, in quanto esterne ai loro termini, sono sempre state l’oggetto del pensiero filosofico inglese. Quando una relazione crolla, o cambia, cosa succede ai suoi termini? Cosi Hitchcock, in una commedia minore, Il signore e la signora Smith, chiede: cosa succede a un uomo e a una donna quando vengono a sapere all’improvviso che, siccome il loro matrimonio non è lega­ le, non sono mai stati sposati? Hitchcock fa un cinema della re­ lazione, cosi come la filosofia inglese faceva una filosofia della rela­ zione. Forse, in questo senso, sta a cavallo tra i due cinema, quel­ lo classico che lui perfeziona e quello moderno che prepara. Da tutti questi punti di vista, non basta paragonare i grandi autori di cinema a pittori, architetti o perfino musicisti, ma anche a pensa­ tori. Si parla spesso di una crisi del cinema, sotto la pressione del­

Prefazione all’edizione americana di immagine-movimento

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la televisione e dell’immagine elettronica. Ma le capacità creatri­ ci dell’una e dell’altra sono già inseparabili da ciò che i grandi au­ tori cinematografici hanno apportato loro. Un po’ come Varèse in musica, essi reclamano i nuovi materiali e i nuovi mezzi che il fu­ turo rende possibili.

39Foucault e le prigioni *

Prima di affrontare questioni più generali sugli intellettuali e Vam­ bito politico, potrebbe spiegarci i suoi rapporti con Poucault e il Gip1? Gilles deleuze Dunque, cominciamo dal Gip. Ma dovrete cor­ reggere tutto ciò che dirò, perché ho poca memoria ed è come se vi raccontassi una specie di sogno, in cui tutto è molto sfo­ cato. Dopo il ’68 c’erano molti gruppi, di natura alquanto di­ versa, ma tutti inevitabilmente ristretti. Era il dopo ’68. So­ pravvivevano, avevano tutti una storia. Foucault insisteva sul fatto che il ’68 per lui non aveva avuto molta importanza. Ave­ va già un passato di grande filosofo, ma non si portava dietro un passato da sessantottino. Senza dubbio è questo che gli ha aperto la possibilità di fare un tipo di gruppo tanto nuovo. E questo gruppo gli ha fornito una specie di uguaglianza con gli altri gruppi. Non si sarebbe fatto catturare dagli altri, mentre il Gip gli ha permesso di conservare la propria indipendenza di fronte agli altri gruppi come la Sinistra proletaria. C’erano con­ tinue riunioni, scambi, ma lui ha assolutamente mantenuto l’in­ dipendenza totale del Gip. A mio avviso, Foucault è stato il so­ lo non a sopravvivere a un passato, ma a inventare qualcosa di nuovo, a tutti i livelli. Il Gip era molto preciso, proprio come Foucault. E un’immagine di Foucault, un’invenzione Foucault* Titolo del curatore. Il testo è inizialmente apparso con il titolo: The Intellectual and Politics: Poucault and the Prison, intervista raccolta da Paul Rabinow e Keith Gandal in «History of the Present», primavera 1986, n. 2, pp. 1-2 e 20-21. Traduzione inglese di P. Rabinow. La versione qui presentata è stata stabilita in base alla ritrascrizione del docu­ mento sonoro originale e diverge in alcuni punti dalla versione americana. 1 II Gip (Gruppo informazione prigione) viene creato nel febbraio 1971 su iniziativa di Daniel Defert e Michel Foucault. Si danno come scopo quello di condurre delle inchie­ ste sull’«intolleranza» (introdotte clandestinamente nelle prigioni con l’intermediazione delle famiglie) per raccogliere e rendere note le condizioni di vita dei detenuti. A partire dal mese di maggio, escono degli opuscoli anonimi con le testimonianze raccolte. Sulla sto­ ria del Gip ci si può riferire all’opera dzi consultazione, Le Groupe d’information sur les Pri­ sons, Archives d’une lutte 1970-1972, Editions de l’Imec, Paris 2003 [NJ.C.].

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Defert. E un caso in cui la loro collaborazione si è rivelata in­ tima e fantastica. In Francia, era la prima volta che si creava un gruppo del genere, che non aveva assolutamente niente in comune con un partito (c’erano dei partiti terribili, come la Si­ nistra proletaria), né con un’iniziativa (per esempio, le inizia­ tive per rinnovare la psichiatria). Si trattava di fare un «Gruppo informazione prigione», che era evidentemente qualcosa di diverso dall’informazione. Era una specie di pensiero-sperimentazione. C’è tutto un aspetto per cui Foucault non ha smesso di considerare il processo del pen­ siero come una sperimentazione. E la sua discendenza da Nietz­ sche. Non si trattava affatto di sperimentare sulla prigione, ma di cogliere la prigione come luogo in cui i prigionieri vivevano una certa esperienza che doveva essere pensata anche dagli in­ tellettuali, per come li concepiva Foucault. Il Gip è bello qua­ si quanto un libro di Foucault. L’ho seguito con tutto me stes­ so, perché ne ero affascinato. Quando hanno incominciato insieme, sono partiti in una specie di buio. Avevano visto qual­ cosa, ma quel che si vede è sempre nell’oscurità. Come fare? Credo che sia cominciato cosi: Defert ha iniziato a distribuire volantini tra le famiglie in fila in attesa delle visite. Erano in tanti, e a volte anche Foucault si univa a loro. Si sono fatti su­ bito individuare come «agitatori». Ma non volevano affatto creare agitazione, volevano invece realizzare un questionario a cui avrebbero dovuto rispondere le famiglie e gli stessi detenu­ ti. Mi ricordo che i primi questionari riguardavano l’alimenta­ zione, le cure mediche. Probabilmente Foucault era al tempo stesso confortato, elettrizzato ma anche sorpreso dalle risposte. Vi si trovavano aspetti ben più tremendi, per esempio le umi­ liazioni costanti. Di conseguenza il Foucault vedente dava il cambio al Foucault pensante. Credo che il Gip sia stato un terreno di sperimentazione fino a Sorvegliare e punire. Ciò a cui è stato immediatamente sensi­ bile era la differenza enorme tra lo statuto teorico e giuridico della prigione, la prigione come privazione della libertà e la pra­ tica della prigione, che è tutta un’altra cosa, poiché non ci si accontenta di privare qualcuno della libertà, il che è già tanto, ma a questo si aggiunge tutto il sistema delle umiliazioni, fat­ to per stroncare le persone e che non rientra nella privazione della libertà. Si è scoperto ciò che tutti sapevano, e cioè che in prigione veniva messa in atto una giustizia senza controllo, per­

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ché c’era una prigione nella prigione, una prigione dietro la pri­ gione che si chiamava isolamento. Non c’erano ancora i Qhs2. Il prigioniero poteva essere condannato a scontare delle pene senza avere la possibilità di difendersi. Si venivano a sapere molte cose. Il Gip lavorava assieme alle famiglie dei detenuti e agli ex detenuti. Come ogni cosa bella, c’erano momenti mol­ to divertenti, per esempio quando, nei primi contatti con gli ex detenuti, ognuno voleva essere più prigioniero degli altri. C’era sempre un altro che aveva avuto esperienze peggiori. Che rapporto c era con la politica? G. deleuze Foucault aveva un’intuizione politica che per me è stata qualcosa di molto importante. Chiamo intuizione politi­ ca avere la sensazione che succederà qualcosa e che succederà proprio qui e non altrove. L’intuizione politica è molto rara. Foucault ha sentito che c’erano piccoli movimenti, piccoli fer­ menti nelle prigioni. Non cercava di approfittarne o di accele­ rarli. Ha visto qualcosa. Per lui il pensiero non ha mai smesso di essere un processo di sperimentazione che arriva fino alla morte. In un certo modo era un po’ veggente. Ciò che vedeva gli era davvero intollerabile. Era un veggente straordinario; il modo in cui vedeva le persone, in cui vedeva tutto, nel comi­ co o nel terrificante. Aveva una potenza nel vedere che era in rapporto con la sua potenza nello scrivere. Quando si vede qual­ cosa e lo si vede molto profondamente, ciò che si vede risulta intollerabile. Non era una parola che lui usava nei suoi discor­ si, ma è presente nella sua riflessione. In fondo pensare, per lui, era reagire all’intollerabile, all’intollerabile che si è vissu­ to. Non era mai qualcosa di visibile. Faceva parte del genio di Foucault. E questo completa l’altro aspetto. Il pensiero come sperimentazione, ma anche il pensiero come visione, come ciò che coglie un intollerabile. Ha a che fare con l'etica? G. deleuze Penso che gli servisse da etica. Ma questo intollera­ bile non era qualcosa di etico. La sua etica consisteva nel ve­ dere o nel cogliere qualcosa in quanto intollerabile. Non era in nome della morale. Era il suo modo di pensare. Se il pensiero non andasse fino all’intollerabile, non varrebbe la pena di pen­ sarlo. Pensare era sempre pensare al limite di qualcosa. 2 Quartier haute sécurité, destinato a isolare il prigioniero in una cella in condizioni par­ ticolarmente penose [N J.C.].

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Di solito si dice che qualcosa è intollerabile perché è ingiusto. G. deleuze Foucault non diceva questo. Se qualcosa era intolle­ rabile, non lo era perché fosse ingiusto, ma perché nessuno lo vedeva, era impercettibile. Anche se lo sapevano tutti. Non era un segreto. Che ci fosse una prigione nella prigione lo sapeva­ no tutti, ma nessuno la vedeva. Invece lui la vedeva. Viveva co­ si. Questo però non gli impediva di capovolgere l’intollerabile in un grande humour. Lo ripeto, abbiamo riso molto. Non era in­ dignazione. Non ci indignavamo. Si trattava di due cose: ve­ dere qualcosa di non visibile e pensare qualcosa che fosse qua­ si al limite. Come è entrato nel Gip? G. deleuze Ero assolutamente convinto fin dall’inizio che aves­ se ragione e che avesse trovato effettivamente l’unico gruppo di tipo nuovo. Era nuovo perché estremamente localizzato. E come tutto ciò che ha fatto Foucault, più qualcosa è localizza­ to, maggiore è la sua portata. Era come un’occasione che Fou­ cault aveva saputo non farsi scappare. C’erano persone del tut­ to inaspettate che non c’entravano niente con la prigione. Ri­ penso per esempio alla vedova di Paul Eluard, che a un certo punto ci ha molto aiutati, senza una ragione speciale. C’erano delle persone assidue, come Claude Mauriac che era molto vi­ cino a Foucault. Quando abbiamo fatto dei confronti, all’epo­ ca del caso Jackson3, con i problemi delle prigioni in America, è spuntato Genet. Era formidabile. Pieno di iniziative. Si svi­ luppò un movimento all’interno delle prigioni. Nacquero del­ le rivolte. All’esterno, avevano origine da tutte le direzioni, da­ gli psichiatri e dai medici che lavoravano nelle prigioni, dalle famiglie dei detenuti. Bisognava fare degli opuscoli. C’erano infinite incombenze di cui Foucault e Defert si facevano cari­ co. Erano loro che avevano le idee. Noi seguivamo. Seguiva­ mo con passione. Mi ricordo di una giornata folle, tipica del Gip, in cui si alternavano momenti positivi e momenti tragici. Eravamo andati a Nancy, mi pare, dove eravamo occupati dal­ la mattina alla sera. La mattina si iniziava con una delegazione in prefettura, poi bisognava andare in prigione, e dopo fare una ’ George Jackson era un militante afroamericano detenuto nella prigione di San Quen­ tin e poi di Soledad, dove venne assassinato nell’agosto 1971. Deleuze collaborò a stret­ to contatto con i membri del Gip a un fascicolo speciale, L’assassinai de George Jackson, Gallimard, Paris 1971; trad. it. L'assassinio di George Jackson, Feltrinelli, Milano 1971 [NJ.C.].

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conferenza stampa. In prigione succedevano delle cose e poi, per finire la giornata, una manifestazione. Il giorno dopo si ri­ cominciava. Mi sono detto che non avrei mai retto quel ritmo. Non ho mai avuto l’energia di Foucault, né la sua forza. Fou­ cault aveva un’enorme forza vitale. Come è avvenuta la scomparsa del Gip? g. deleuze Foucault ha fatto quello che gli altri si limitavano a sognare: nel giro di poco tempo ha dissolto il Gip. Mi ricordo che Foucault vedeva spesso i Livrozet. Livrozet era un ex pri­ gioniero. Ha scritto un libro per il quale Foucault ha fatto una bellissima prefazione4. Anche la signora Livrozet si dava mol­ to da fare. Quando il Gip si è dissolto, loro hanno proseguito creando il Cap, il «Comitato di azione dei prigionieri», che do­ veva essere coordinato dagli ex prigionieri. Credo che Foucault si sia soffermato soltanto sul fatto di aver perso, senza consi­ derare in cosa avesse vinto. Da un certo punto di vista è sem­ pre stato estremamente modesto. Ha pensato di aver perso per­ ché tutto si era richiuso. Aveva avuto l’impressione che non fosse servito a nulla. Foucault diceva che non si trattava di re­ pressione, ma di qualcosa di peggio: qualcuno parla ma è come se non stesse dicendo nulla. Tre o quattro anni dopo era ritor­ nato tutto come prima. Ma allo stesso tempo doveva rendersi conto che era enorme­ mente servito. Il Gip era riuscito a fare molte cose, si era svi­ luppato il movimento dei prigionieri. Foucault aveva il diritto di pensare che qualcosa era cambiato, anche se non era qualco­ sa di fondamentale. Lo dico molto semplicemente: lo scopo del Gip era fare in modo che i prigionieri stessi e le loro famiglie potessero parlare, parlare per proprio conto. Prima non succe­ deva. Quando c’era una trasmissione sulle prigioni, si vedeva­ no tutti i rappresentanti di ciò che da lontano o da vicino ri­ guardava le prigioni, giudici, avvocati, guardie, visitatori, fi­ lantropi, persone di tutti i tipi, ma non c’erano i prigionieri, nemmeno ex prigionieri, proprio come quando si fa un dibat­ tito sulla scuola materna, c’è tutto tranne che i bambini, anche se avrebbero qualcosa da dire. Lo scopo del Gip non era tanto quello di farli parlare quanto di tracciare un posto in cui si era obbligati ad ascoltarli, un posto che non consistesse semplice­ 4 In S. Livrozet, De la prison à la révolte, Mercure de France, Paris 1973, pp. 7-14 (ora in M. Foucault, Dits etécrits, Gallimard, Paris 2001, vol. I, n. 116, pp. 1262-67) [N j.C.].

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mente nel fare una sommossa sul tetto di una prigione, ma di fare in modo che ciò che avessero da dire passasse. Ciò che ave­ vano da dire è esattamente ciò che Foucault aveva fatto venir fuori, vale a dire: essere privati della libertà è una cosa, ma su­ bire ciò che subiamo è tutta un’altra cosa. Siamo in balia. Lo sanno tutti ma tutti fanno finta di niente. Una delle funzioni dell’intellettuale, secondo Foucault, non era apri­ re uno spazio in cui altri potessero parlare? G. deleuze Per la Francia, si trattava di qualcosa di estremamen­ te nuovo. Era questa la grande differenza fra Sartre e Foucault. Foucault aveva una concezione, una maniera di vivere la posi­ zione politica dell’intellettuale molto diversa da quella di Sartre, per nulla teorica. Sartre, qualunque fosse la sua forza e il suo genio, aveva una concezione classica dell’intellettuale. Interve­ niva in nome di valori superiori, il Bene, il Giusto, il Vero. Tra Voltaire, Zola e Sartre vedo una grande linea comune che rag­ giunge il suo compimento con Sartre. E l’intellettuale che in­ terviene in nome dei valori di verità e di giustizia. Foucault era molto più funzionale, è sempre stato funzionalista. Semplicemente inventava un funzionalismo tutto suo. E questo funzio­ nalismo era vedere e dire. Che cosa c’è da vedere, li? Che co­ sa c’è da dire o da pensare? Non era l’intellettuale in quanto garante di certi valori. So che, successivamente, si è espresso in nome della sua con­ cezione della verità, ma era un’altra cosa. «Informazione» in fondo non era la parola migliore. Non si trattava di trovare la verità sulla prigione, ma di produrre degli enunciati sulla pri­ gione, considerato che né i prigionieri né le persone all’ester­ no della prigione erano riusciti a produrli. Qualcuno aveva sa­ puto fare dei discorsi sulla prigione ecc., ma non produrli. An­ che qui, se c’è comunicazione tra la sua azione e la sua opera filosofica, sta nel fatto che viveva cosi. Che cosa c’era di pro­ digioso nelle frasi di Foucault quando parlava ? Ho sentito par­ lare cosi soltanto un uomo al mondo. Tutto ciò che diceva era decisivo, ma non in senso autoritario. Quando entrava in una stanza, era già decisivo, l’atmosfera cambiava. E quando par­ lava, ciò che diceva era decisivo. Foucault considerava un enun­ ciato qualcosa di molto particolare. Non è un discorso qualsia­ si, una frase qualsiasi che fa un enunciato. Erano necessarie le due dimensioni, vedere e parlare. In generale sono le parole e le cose. Le parole, ovvero la produzione degli enunciati; le co­

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se, ovvero il vedere, le formazioni visibili. Si tratta di vedere qualcosa di impercettibile in ciò che è visibile. Produrre degli enunciati significa dare la parola a qualcuno? G. deleuze In parte, ma non è sufficiente. Era un tema costan­ te, e come tanti altri dicevamo: bisogna dare la parola agli al­ tri, ma non era questo il punto. Faccio un esempio politico. Per me, uno degli aspetti fondamentali e più importanti di Lenin è l’aver prodotto nuovi enunciati prima e dopo la rivoluzione rus­ sa, un tipo di enunciati che sono come contraddistinti, sono enunciati leninisti. Si può parlare di un nuovo tipo di enun­ ciati o che si produce in un certo spazio, in una certa circo­ stanza, e che sono enunciati leninisti ? E un nuovo tipo di enun­ ciazione. Non si tratta di cercare la verità, alla Sartre, ma di pro­ durre nuove condizioni di enunciazione. Il ’68 aveva prodotto nuovi enunciati. C’era un tipo di enunciati che prima di allora nessuno aveva prodotto. I nuovi enunciati possono essere enun­ ciati diabolici e insopportabili, contro i quali siamo tutti esor­ tati a lottare. Hitler è stato un grande produttore di enunciati nuovi. Dal punto di vista politico, le era sembrato sufficiente all’epoca? g. deleuze Se era sufficiente a tenerci occupati ? Certamente. Le nostre giornate erano pienissime. Foucault introduceva una spe­ cie di pratica che comportava due aspetti fondamentalmente nuovi. Come poteva non essere sufficiente? Questa domanda in un certo senso è terribile. Foucault avrebbe detto: non è sta­ to sufficiente visto che da un certo punto di vista ha fallito. Non ha cambiato lo statuto delle prigioni. Ma io darei la risposta in­ versa: è stato doppiamente sufficiente. Ha avuto molti echi. L’e­ co principale è stato il movimento nelle prigioni, che non è sta­ to ispirato né da Foucault né da Defert. Il Gip gli ha dato riso­ nanza perché scrivevamo anche degli articoli, passavamo il tempo a sputtanare i membri del ministero della Giustizia e de­ gli Interni. Oggi c’è un tipo di enunciato sulla prigione che nor­ malmente è prodotto dai prigionieri o dai non-prigionieri e che prima era inimmaginabile. In questo senso, ha avuto successo. Rispetto a Foucault, lei ha una visione molto più fluida del mondo so­ ciale. Penso a Mille piani. In Foucault si trovano molte metafore architettoniche. E d’accordo con questa descrizione? G. deleuze Si, completamente. Purtroppo negli ultimi anni del­ la sua vita non l’ho visto, ora ovviamente sento un rimpianto molto forte, molto duro, perché è uno degli uomini che amo e

Foucault e le prigioni

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ammiro più profondamente. Mi ricordo che ne abbiamo parla­ to al momento della pubblicazione di La volontà di sapere. Non avevamo la stessa concezione della società. Per me una società è qualcosa che non smette di fuggire da tutte le parti. Quando lei dice che sono più fluido, si, ha perfettamente ragione. La società fugge monetariamente, fugge ideologicamente. E vera­ mente composta da linee di fuga. Per cui il problema di una so­ cietà è questo: come impedire le fughe ? Per me i poteri vengo­ no dopo. Ciò che stupisce Foucault è un’altra cosa: eppure, no­ nostante tutti questi poteri, tutti i loro sotterfugi, tutta la loro ipocrisia, si riesce comunque a resistere. Io mi stupisco invece del contrario. Ci sono fughe dappertutto e malgrado ciò i go­ verni riescono a metterci un tappo. Affrontavamo il problema in due sensi opposti. Lei ha ragione nel dire che la società è un fluido, o ancora peggio, un gas. Per Foucault è un’architettura. Ne avete parlato insieme? G. deleuze Mi ricordo che all’uscita di La volontà di sapere - che secondo me è stata il punto di partenza di una sorta di crisi in­ tellettuale - Foucault si poneva molte domande. Era preso da una specie di malinconia e, in quel periodo, abbiamo parlato a lungo di questo modo di vedere la società. A quali conclusioni siete arrivati? Vi siete allontanati uno dall’altro... G. deleuze Ho sempre avuto un’enorme ammirazione e affetto per Foucault. Non soltanto lo ammiravo, mi faceva anche ri­ dere. Era molto divertente. Gli assomiglio solo in una cosa: o lavoro o dico cose insignificanti. Ci sono pochissime persone al mondo con cui si possono dire cose insignificanti. Passare due ore con qualcuno senza dire nulla è il massimo dell’amici­ zia. Solo tra grandi amici si può parlare di cose insignificanti. Con Foucault succedeva che una frase andava di qua, una fra­ se andava di là. Un giorno, nel corso di una conversazione, ha detto: a me piace moltissimo Péguy perché è matto. Ho chie­ sto: perché matto? Mi ha detto: basta guardare come scrive. Anche questo è molto interessante rispetto a Foucault. Ciò si­ gnificava che chi sa inventare un nuovo stile, produrre nuovi enunciati, è un matto. Lavoravamo separati, ognuno dalla sua parte. Sono sicuro che leggeva ciò che facevo io, cosi come io leggevo con passione ciò che faceva lui, ma non ne parlavamo molto. E ho avuto la sensazione, ma Io dico senza tristezza, che in fondo io avessi bisogno di lui ma lui non avesse bisogno di me. Foucault era un uomo alquanto misterioso.

40. Il cervello è lo schermo *

In che modo il cinema è entrato nella sua vita, sia di spettatore che di filosofo? Quando ha cominciato ad amarlo e a pensare che fosse un campo degno della filosofia? Gilles deleuze La mia è stata un’esperienza privilegiata perché ho avuto due periodi ben distinti. Prima della guerra, da bam­ bino, andavo piuttosto spesso al cinema: credo che ci fosse una struttura familiare del cinema, delle sale ad abbonamento co­ me la sala Pleyel, dove si potevano mandare i bambini da soli, e quindi non ero io a scegliere il programma. A volte c’era Har­ old Lloyd o Buster Keaton, a volte Les croix de boisy che mi an­ gosciava, ridavano anche Fantomas, che mi metteva molta pau­ ra. Sarebbe interessante vedere quali sale sono scomparse do­ po la guerra in un determinato quartiere: nuove sale hanno aperto, ma molte altre sono scomparse. In seguito, dopo la guerra, sono ritornato al cinema, ma in mo­ do diverso. Ero uno studente di filosofia, e non cosi stupido da voler fare una filosofia del cinema, ma ero impressionato da un incontro: mi piacevano gli autori che esigevano che si introdu­ cesse il movimento nel pensiero, il «vero» movimento (denun­ ciavano la dialettica hegeliana in quanto movimento astratto). Come potevo non incontrare il cinema che introduceva il «ve­ ro» movimento nell’immagine? Non si trattava di applicare la filosofia al cinema, ma di andare direttamente dalla filosofia al cinema. E anche viceversa, dal cinema direttamente alla filo­ sofia. Qualcosa di bizzarro mi ha colpito del cinema: la sua at­ * «Cahiers du cinéma», febbraio 1986, n. 380, pp. 25-32; trad. it. di Gianfranco Morosato, in Divenire molteplice, ombre corte, Verona 2002, pp. 119-28. Questo testo, rivi­ sto da Deleuze, nasce da una tavola rotonda con Alain Bergala, Pascal Bonitzer, Marc Chevrie, Jean Narboni, Charles Tesson, Serge Toubiana in occasione della pubblicazione di Cinéma 2 L’image-temps, Minuit, Paris 1985; trad. it. Cinema 2. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1995.

Il cervello è lo schermo

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titudine inaspettata a manifestare non il comportamento, ma la vita spirituale (e insieme i comportamenti aberranti). La vi­ ta spirituale non è il sogno o il fantasma, che hanno sempre co­ stituito delle impasse per il cinema, è piuttosto il campo della fredda decisione, dell’ostinazione assoluta, della scelta dell’e­ sistenza. Cos’è che rende il cinema cosi adatto a scavare nella vita spirituale ? Questo può portare al peggio, a un cattolicismo, a una vocazione da san Sulpizio tipica del cinema, ma anche al meglio, Dreyer, Sternberg, Bresson, Rossellini e oggi Rohmer. E curioso come Rohmer affidi al cinema lo studio delle sfere di esistenza, l’esistenza estetica in La collezionista, l’esistenza eti­ ca in II bel matrimonio, l’esistenza religiosa in La mia notte con Maud\ è vicino a Kierkegaard che, ben prima del cinema, già sentiva il bisogno di scrivere strane sinossi. In breve, il cinema non mette il movimento solo nell’immagine, ma anche nello spirito. La vita spirituale è il movimento dello spirito. Si pas­ sa in modo naturale dalla filosofia al cinema, ma anche dal ci­ nema alla filosofia. Il cervello è l’unità. Il cervello è lo schermo. Non credo che la linguistica e la psicoanalisi siano di grande aiuto per il cinema. Lo è invece la biologia del cervello, la biologia molecolare. Il pensiero è molecolare, le velocità molecolari compongono gli esseri lenti che noi siamo. Michaux dice: «L’uomo è un essere lento che è possibile solo grazie a velocità fantastiche»1. I cir­ cuiti e le concatenazioni cerebrali non preesistono agli stimoli, ai corpuscoli o alle particelle che li tracciano. Il cinema non è il teatro, compone i corpi con delle particelle. Le concatenazio­ ni sono spesso paradossali e debordano da ogni parte le sempli­ ci associazioni di immagini. Il cinema, proprio perché mette in movimento l’immagine, o meglio, dota l’immagine di un au­ tomovimento, traccia e ri traccia continuamente dei circuiti ce­ rebrali. Anche in questo caso può essere a favore del peggio o del meglio. Lo schermo, cioè noi stessi, può essere un cervel­ letto deficiente di idiota cosi come un cervello creativo. Pren­ dete i videoclip: la loro potenza stava in nuove velocità, in nuo­ ve concatenazioni e riconcatenazioni, ma ancora prima di svi­ luppare la loro potenza sono già sprofondati in pietosi tic e smorfie, e in tagli distribuiti a caso. Il cattivo cinema passa sem1 H. Michaux, Les grandes épreuves de /’esprit et les innombrables petites, Gallimard, Pa­ ris 1966, p. 33 [Nx/.C.].

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pre da circuiti prodotti da un cervello inferiore, violenza e ses­ sualità in ciò che è rappresentato, un miscuglio di crudeltà gra­ tuita e di demenza organizzata. Il vero cinema perviene a un’al­ tra violenza, a un’altra sessualità, che sono molecolari e non localizzabili: i personaggi di Losey, per esempio, sono delle compresse di violenza statica, tanto più violenti quanto più im­ mobili. Queste storie di velocità del pensiero, precipitazioni o pietrificazioni, sono inseparabili dall’immagine-movimento: no­ tate la velocità in Lubitsch, come egli metta degli autentici ra­ gionamenti nell’immagine, dei lampi, la vita dello spirito. L’incontro tra due discipline non avviene quando una si met­ te a riflettere sull’altra, ma quando una si accorge di dover ri­ solvere per conto proprio e con i propri mezzi un problema si­ mile a quello che si pone anche in un’altra. Si può immaginare che problemi simili, in momenti diversi, in occasioni e in con­ dizioni differenti, scuotano diverse scienze, la pittura, la mu­ sica, la filosofia, la letteratura, il cinema. Si tratta delle medesi­ me scosse in ambiti del tutto diversi. La critica è sempre com­ parata (e la critica del cinema diventa cattiva quando si richiude sul cinema come in un ghetto), in quanto ogni opera in un da­ to ambito è essa stessa autocomparativa. Godard affronta la pittura in Passion e la musica in Prénom Carmen, e fa un cine­ ma seriale, ma anche un cinema della catastrofe, in un senso che corrisponde alla concezione matematica di René Thom. Non c’è opera che non abbia la sua continuazione o il suo ini­ zio in altre arti. Ho potuto scrivere sul cinema non per diritto di riflessione, ma quando alcuni problemi di filosofia mi han­ no spinto a cercare le risposte nel cinema, anche se queste ri­ sposte rischiavano di rilanciare altri problemi. Ogni lavoro si inserisce in un sistema di connessioni. Ciò che ci colpisce nei suoi due libri sul cinema è qualcosa che si tro­ va già in altri suoi libri, ma mai in maniera cosi evidente : mi rife­ risco alla tassonomia, all'amore per la classificazione. E una dispo­ sizione che ha sempre avuto o le è venuta nel corso dell'esistenza? La classificazione ha un legame particolare con il cinema? G. deleuze Non c’è niente di più divertente delle classificazio­ ni, delle tabelle. E come lo scheletro di un libro, o il suo voca­ bolario, il suo dizionario. Non è l’essenziale, che viene dopo, ma un lavoro preparatorio indispensabile. Niente è più bello delle classificazioni di storia naturale. L’opera di Balzac si co­ struisce su classificazioni stupefacenti. Borges proponeva una

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classificazione cinese degli animali che faceva divertire Fou­ cault: appartenenti all’imperatore, imbalsamati, ammaestrati, maialini da latte, sirene ecc. Tutte le classificazioni sono di que­ sto genere: sono mobili, variano i loro criteri a seconda dei ca­ si, sono retroattive e rimaneggiabili, illimitate. Alcune caselle sono estremamente affollate, altre sono vuote. In una classifi­ cazione si tratta sempre di avvicinare cose all’apparenza mol­ to diverse e di separarne altre molto vicine. Cosi si formano i concetti. A volte si dice che «classico», «romantico», oppure «nouveau roman», «neorealismo», siano delle astrazioni insuf­ ficienti. Io credo invece che siano categorie ben fondate, a pat­ to che vengano riferite non a forme generali, ma a segni o a sin­ tomi singolari. Una classificazione è sempre una sintomatolo­ gia, si classificano dei segni per tirarne fuori un concetto che si presenta come evento, non come essenza astratta. A questo riguardo, le varie discipline sono davvero materie segnaletiche. Le classificazioni varieranno a seconda della materia, ma an­ che si intersecheranno a seconda delle affinità variabili tra le materie. Dato che muove e temporalizza l’immagine, il cinema è una materia molto particolare, ma al tempo stesso possiede un alto grado di affinità con le altre materie - pittorica, musi­ cale, letteraria... Il cinema va compreso non come linguaggio, ma come materia segnaletica. Per esempio, tento una classificazione delle luci nel cinema. C’è la luce come mezzo fisico composto, la cui composizione dà il bianco, una sorta di luce newtoniana che si trova nel cinema americano e forse anche, in modo diverso, in Antonioni. E poi c’è la luce goethiana come forza non scomponibile che si oppo­ ne alle tenebre e ne trae le cose (espressionismo, ma Ford e Welles non sono anch’essi da questa parte ?) C’è inoltre una lu­ ce che si definisce non più attraverso il suo conflitto con le te­ nebre, ma con il bianco, il bianco come prima opacità (è un al­ tro aspetto di Goethe, come in Sternberg). C’è anche una luce che non si definisce più né attraverso la composizione né attra­ verso l’opposizione, ma attraverso l’alternanza, e la produzio­ ne di figure lunari (la luce della scuola francese d’anteguerra, in particolare Epstein e Grémillon, e forse oggi anche Rivette: vicina alle idee e alla pratica di Delaunay). E l’elenco non de­ ve fermarsi, in quanto si possono sempre creare nuovi eventi di luce, come per esempio fa Godard in Passion. Lo stesso va­ le per una classificazione aperta degli spazi del cinema: si pos­

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sono distinguere gli spazi organici o inglobanti (il western, ma anche Kurosawa, che dà allo spazio inglobante un’immensa am­ piezza); le linee dell’universo, funzionali (il nuovo western, ma soprattutto Mizoguchi); gli spazi piani di Losey, terrazze, sco­ gliere o altopiani, che negli ultimi due film gli fanno scoprire lo spazio giapponese; gli spazi sconnessi, con collegamenti in­ determinati, alla Bresson; gli spazi vuoti, in stile Ozu o Anto­ nioni; gli spazi stratigrafici, importanti per ciò che ricoprono, al punto che lo spazio si può «leggere», come nei due Straub; gli spazi topologici di Resnais ecc. Anche qui ci sono tanti spa­ zi quanti sono gli inventori. E le luci e gli spazi si combinano in maniere molto diverse. In tutti i casi si vede come queste classificazioni di segni luminosi o spaziali appartengano al ci­ nema, e tuttavia rimandino ad altri campi, scienze o arti, New­ ton o Delaunay, che li prendono secondo un altro ordine, in al­ tri contesti e relazioni, secondo altre divisioni. C'è una «crisi» della nozione di autore cinematografico. Il discorso attuale nel cinema potrebbe essere questo : «Non ci sono più auto­ ri, tutti sono autori e coloro che lo sono ci irritano». g. deleuze Oggi ci sono molte forze che si propongono di nega­ re ogni distinzione tra il commerciale e il creativo. Più si nega questa distinzione e più si pensa di essere divertenti, compren­ sivi ed esperti. Di fatto si traduce soltanto un’esigenza del ca­ pitalismo, la rotazione rapida. Quando i pubblicitari spiegano che la pubblicità è la poesia del mondo moderno, quest’affer­ mazione spudorata dimentica che l’arte non si propone di com­ porre o di esporre un prodotto rispondente all’attesa del pub­ blico. La pubblicità può scioccare o voler scioccare, ma rispon­ de comunque a una presunta attesa. Al contrario, l’arte produce necessariamente qualcosa di inatteso, di non riconosciuto, di non riconoscibile. Non esiste arte commerciale, è un non-senso. Ci sono arti popolari, certamente. Ci sono anche arti che ne­ cessitano di maggiori o minori investimenti finanziari, c’è un commercio delle arti, ma non arti commerciali. A complicare le cose, all’apparenza, è che la stessa forma serve al creativo e al commerciale. Lo si nota già a livello della forma-libro: è la stes­ sa sia per la collana Harlequin2 che per un romanzo di Tolstoj. Si possono sempre mettere in concorrenza i libri d’evasione con un grande romanzo, ma saranno inevitabilmente i libri d’eva­ 2 Collana francese di romanzi rosa molto simile alla Harmony italiana [N J.T.],

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sione o i bestseller a vincere in un mercato unico a rotazione ra­ pida o, peggio ancora, saranno loro che pretenderanno di avere le qualità dell’altro e lo prenderanno in ostaggio. E quel che suc­ cede alla televisione, dove il giudizio estetico diventa «è stuzzi­ cante», come una pietanza, o «è impareggiabile», come per una partita di calcio. E una promozione verso il basso, un allineamen­ to di tutta la letteratura sul grande consumo. «Autore» è una funzione che rimanda all’opera d’arte (e in altre condizioni al cri­ mine). Per gli altri prodotti ci sono nomi diversi, altrettanto ri­ spettabili: redattore, programmatore, realizzatore, produttore... Coloro che dicono «oggi non ci sono più autori» presuppongo­ no che sarebbero stati in grado di riconoscere quelli di ieri, quan­ do non erano ancora conosciuti. E molto vanitoso. Non c’è arte che possa vivere senza la condizione di un doppio settore, senza la distinzione sempre attuale fra il commerciale e il creativo. I «Cahiers» hanno lavorato molto per far passare questa distin­ zione anche nel cinema e per mostrare che cosa sia un autore di film (anche se è un campo in cui ci sono anche produttori, redattori, agenti commerciali ecc.). Paini di recente ha detto cose molto interessanti su tutti questi punti3. Oggi, se ci si cre­ de furbi nel negare la distinzione tra commerciale e creativo, è perché vi è un interesse. E difficile fare un’opera, ma è facile trovare i criteri. Non c’è opera, ancorché piccola, che non ri­ chieda una grande impresa o una lunga durata interna (per esempio, raccontare i propri ricordi familiari non è una grande impresa). Un’opera è sempre la creazione di nuovi spazi-tempi (non si tratta di raccontare una storia in uno spazio e in un tem­ po determinati, occorre che i ritmi, le luci, gli spazi-tempi di­ ventino essi stessi i veri personaggi). Un’opera deve far sorge­ re problemi e domande in cui siamo presi, piuttosto che dare delle risposte. Un’opera è una nuova sintassi, il che è molto più importante del vocabolario, e scava una lingua straniera nella lingua. La sintassi, nel cinema, è costituita da concatenazioni e da riconcatenazioni di immagini, ma anche dai rapporti suo­ no - immagine visiva (c’è uno stretto legame tra questi due aspetti). Se si dovesse definire la cultura, si potrebbe dire che essa non è assolutamente la conquista di un campo difficile o astratto, bensì la consapevolezza che le opere d’arte sono mol­ to più concrete, divertenti, commoventi dei prodotti commer1 In un’intervista ai «Cahiers du cinema», marzo 1984, n. 357.

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ciali: nelle opere creative c’è una moltiplicazione dell’emozio­ ne, uno sprigionamento dell’emozione, l’invenzione di nuove emozioni, che si distinguono dai modelli emotivi prefabbrica­ ti del commercio. Lo si vede in modo particolare in Bresson, in Dreyer: sono anche i maestri di una nuova comicità. La que­ stione del cinema d’autore è certamente quella di assicurare la distribuzione dei film che esistono e che non possono reggere la concorrenza con il commerciale, perché richiedono un’altra durata, ma è anche quella di rendere possibile la creazione di film che ancora non esistono. Forse il cinema non è ancora ab­ bastanza capitalista. Ci sono circuiti di denaro di durata mol­ to diversa: sarebbe necessario che la lunga, la media e la breve durata arrivassero a distinguersi nell’investimento cinemato­ grafico. Di tanto in tanto nella scienza il capitalismo viene a ri­ scoprire l’interesse della ricerca fondamentale. Nel suo libro c'è una tesi, apparentemente «scandalosa», che si oppo­ ne a tutto ciò che è stato scritto sul cinema e che riguarda precisamente l'immagine-tempo. L'analisi filmologica ha sempre soste­ nuto che in un film, malgrado la presenza di flashback, di sogni, di ricordi o di scene anticipatone, qualunque sia il tempo evocato, il movimento si compie davanti allo spettatore al presente. Lei inve­ ce afferma che l'immagine cinematografica non è al presente. G. deleuze In effetti è curioso, perché mi sembra evidente che l’immagine non sia al presente. Ciò che è al presente è quello che l’immagine «rappresenta», ma non l’immagine in sé. L’im­ magine è un insieme di rapporti di tempo da cui il presente sca­ turisce, sia come comune multiplo sia come minimo divisore. I rapporti di tempo non sono mai visti nella percezione ordina­ ria, ma lo sono nell’immagine, non appena essa sia creatrice. L’immagine rende sensibili, visibili i rapporti di tempo irridu­ cibili al presente. Per esempio, un’immagine mostra un uomo mentre cammina lungo un corso d’acqua in un paesaggio di montagna: ci sono almeno tre «durate» coesistenti, tre ritmi, e il rapporto di tempo è la coesistenza delle durate nell’imma­ gine, che non si confonde affatto con il presente in ciò che l’im­ magine rappresenta. E in questo senso che Tarkovskij rifiuta la distinzione tra montaggio e piano, perché definisce il cine­ ma come la «pressione del tempo» nel piano4. Diventa eviden­ 4 A. Tarkovskij, De la figure cinématographique, in «Positif», dicembre 1981, n. 249. [NJ.C.].

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te se ci riferiamo ad alcuni esempi: una natura morta di Ozu, una carrellata di Visconti, una profondità di campo di Welles. Se si resta nell’ambito di ciò che viene rappresentato, è una bi­ cicletta immobile o una montagna, è una macchina o un uomo che percorre uno spazio. Ma, dal punto di vista dell’immagine, la natura morta di Ozu è la forma del tempo che non cambia, sebbene in essa tutto cambi (rapporto tra ciò che è nel tempo e il tempo). Anche la macchina di Sandra, nel film di Viscon­ ti5, sprofonda nel passato e lo si vede, mentre allo stesso tem­ po percorre uno spazio al presente. Questo non ha niente a che fare con il flashback né con il ricordo, in quanto il ricordo è soltanto un vecchio presente, mentre il personaggio nell’imma­ gine sprofonda letteralmente nel passato o emerge dal passato. In linea di massima, non appena uno spazio cessa di essere «eu­ clideo», non appena c’è creazione di spazi, alla maniera di Ozu, di Antonioni, di Bresson, lo spazio non rende più conto dei pro­ pri caratteri, che fanno appello a rapporti di tempo. Resnais è sicuramente uno degli autori in cui l’immagine è quella meno al presente, perché essa si fonda interamente sulla coesistenza di durate eterogenee. La variazione dei rapporti di tempo è an­ che il soggetto di Je faime, je faime, indipendentemente da ogni flashback. Che cosa sono un falso raccordo o una disgiun­ zione vedere-parlare, come negli Straub o in Marguerite Duras, oppure lo schermo cosparso di piume di Resnais, le inter­ ruzioni nere o bianche di Garrel ? Ogni volta è «un po’ di tem­ po allo stato puro», e non un presente. Il cinema non riproduce corpi, li riproduce con delle particelle che sono particelle di tempo. Dire che il cinema è morto è una cosa particolarmen­ te stupida, perché il cinema è appena all’inizio di un’esplora­ zione dei rapporti sonoro-visivi, che sono rapporti di tempo, e rinnova completamente il suo rapporto con la musica. La grande inferiorità della televisione consiste nel fatto che essa si ferma a immagini al presente, presentifica tutto, tranne quan­ do è diretta da grandi cineasti. L’idea dell’immagine al presente qualifica solo le opere mediocri o commerciali. E un’idea pre­ concetta e falsa, il prototipo stesso di una falsa evidenza. Per quanto ne so, soltanto Robbe-Grillet la riprende. Ma la ripren­ de appunto con una malizia diabolica. E uno dei pochi autori che produce effettivamente immagini al presente, ma grazie a ’ Cfr. Vaghe stelle dell'Orsa (1965) di Luchino Visconti [Nz/.T.].

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rapporti di tempo molto complessi e che sono tipicamente suoi. E la prova vivente che immagini di questo tipo sono molto dif­ ficili da creare, se non ci si accontenta di rappresentare, e non sono affatto un dato naturale dell’immagine.

41Occupare senza contare: Boulez, Proust e il tempo *

Spesso Boulez ha posto il problema dei suoi rapporti con scrit­ tori e poeti: Michaux, Char, Mallarmé... Se è vero che la rottura non è il contrario della continuità, se il continuo si definisce attra­ verso la rottura, si può dire che lo stesso gesto costruisce la conti­ nuità fra il testo letterario e il testo musicale, e fa passare le rot­ ture fra di essi. Non c’è soluzione generale: ogni volta bisogna mi­ surare i rapporti, secondo misure variabili e spesso irregolari. Ma ecco che Boulez ha un rapporto del tutto diverso con Proust. Non un rapporto più profondo ma di altra natura, tacito, implicito (seb­ bene citi spesso Proust nei suoi scritti). E come se lo conoscesse «a memoria», per volontà e per caso1. Boulez ha definito una gran­ de alternativa: contare per occupare lo spazio-tempo oppure occu­ pare senza contare2. Misurare per mettere in atto i rapporti, op­ pure riempire i rapporti senza misura. In particolare, il suo lega­ me con Proust non sarebbe di questo secondo tipo ? Ossessionare o essere ossessionato («que me veux-tu?»5), occupare o essere oc­ cupato senza contare, senza misura. La prima cosa che Boulez coglie in Proust è il modo in cui ru­ mori e suoni si staccano dai personaggi, dai luoghi e dai nomi ai quali inizialmente sono uniti, per formare dei «motivi» autonomi che non smettono di trasformarsi nel tempo, per riduzione o ac­ crescimento, per aggiunta o sottrazione, variando la loro velocità * In C. Samuel (a cura di), Eclats/Boulez, Centre Georges Pompidou, Paris 1986, pp. 98-100. 1 II riferimento è al titolo di una raccolta di conversazioni che Boulez fa con Célestin Deliège, cfr. Par volontà et par hasard, Seuil, Paris 1975; trad. it. Per volontà e per caso, Ei­ naudi, Torino 1977 [N//.T.]. 2 Penser la musique aujourd’bui, Gonthier, Paris 1963, p. 107; trad. it. Pensare la musica oggi, Einaudi, Torino 1979, p. 94, d’ora in poi abbreviato con PM. ’ E il titolo di una sonata di Boulez, cfr. il suo scritto Sonate «Que me veux-tu», in Points de repère, Seuil-Bourgois, Paris 1981; trad. it. Sonata «Que me veux-tu», in Punti di riferimento, Einaudi, Torino 1984, d’ora in poi abbreviato con PR [N.J.T.].

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e la loro lentezza. All’inizio il motivo era associato a un paesaggio o a una persona, un po’ come un cartello, ma ora il motivo diven­ ta l’unico paesaggio, variato, l’unico personaggio, mutevole. Sa­ rebbe forzato dire che Proust invochi la piccola frase e la musica di Vinteuil per rendere conto di questa alchimia, presente ovun­ que nella Recherche, e che ne faccia omaggio a Wagner (per quan­ to Vinteuil si supponga sia molto diverso da Wagner). Boulez a sua volta rende omaggio a Proust per aver profondamente com­ preso la vita autonoma del motivo wagneriano, in quanto passa da velocità variabili, attraversa alterazioni libere, entra in una varia­ zione continua che presuppone una nuova forma del tempo per «gli esseri musicali»4. Tutta l’opera di Proust è fatta cosi: gli amo­ ri che si succedono, le gelosie, i sonni ecc. si distaccano cosi bene dai personaggi che diventano essi stessi personaggi infinitamente mutevoli, individuazioni senza identità, Gelosia I, Gelosia II, Ge­ losia III... Una variabile di questo tipo, che si sviluppa nella di­ mensione autonoma del tempo, si chiamerà «blocco di durata», «blocco sonoro continuamente variante». E la dimensione auto­ noma, non preesistente, che si traccia nel momento stesso in cui il blocco varia, si chiama diagonale, per sottolineare come non si riduca né alla verticale armonica né all’orizzontale melodica come coordinate preesistenti5. L’atto musicale per eccellenza, secondo Boulez, consiste nell’attraversare la diagonale, ogni volta in con­ dizioni diverse, dopo le combinazioni polifoniche, passando per le risoluzioni di Beethoven, le fusioni tra l’armonia e la melodia in Wagner, fino a Webern che abolisce ogni confine tra l’orizzonta­ le e la verticale, e produce blocchi sonori attraverso la serie, muo­ vendoli su una diagonale in quanto funzione temporale unica che distribuisce l’intera opera6. Ogni volta la diagonale è come un vet­ tore-blocco di armonia e melodia, una funzione di temporalizzazione. E la composizione musicale della Recherche, secondo Proust, appare in questo modo: blocchi di durata sempre mutevoli, a ve­ locità variabile e alterazione libera, su una diagonale che costitui-

4 PR, Le temps re-cherché, pp. 236-57; trad. it. Il tempo ri-cercato, pp. 204-24. ’ Sulla diagonale e il blocco, Relevés d’apprenti, Seuil, Paris 1966; trad. it. Note di ap­ prendistato, Einaudi, Torino 1968, articoli Contrappunto e Anton von Webem (d’ora in poi abbreviato con RA). E PM, pp. 137 e 59; trad. it. pp. 119 e 51 («avrò cosi costituito un blocco di durata, e introdotto una dimensione diagonale che non si può più confondere con quella verticale né con quella orizzontale»); PR, p. 159; trad. it. pp. 134-35. ‘ Su Wagner, PR, pp. 243-46; trad. it. pp. 210-13. Su Webern, RA, pp. 372 e 376377; trad. it. pp. 322 e 325-26.

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see la sola unità dell’opera, la trasversale di tutte le parti. L’unità del viaggio non sarà né nelle vie verticali del paesaggio, che sono come dei tagli armonici, né nella linea melodica del percorso, ma nella diagonale, «da un finestrino all’altro», che permette di fon­ dere in un blocco di trasformazione o di durata la successione dei punti visti e il movimento del punto di vista7. Tuttavia, i blocchi di durata, dal momento che passano per ve­ locità e lentezze, accrescimenti e diminuzioni, aggiunte e riduzio­ ni, sono inseparabili dai rapporti metrici e cronometrici che defi­ niscono le divisibilità, le commensurabilità, le proporzionalità: la «pulsazione» è un comune multiplo più piccolo (o un multiplo sem­ plice), e il «tempo»8* , l’iscrizione di un certo numero di unità in un tempo determinato. E uno spazio-tempo striato, un tempo pulsa­ to, per quanto le rotture al suo interno sono determinabili, cioè di tipo razionale (primo aspetto del continuo), e le misure, regolari o no, determinate in quanto grandezze tra le rotture. I blocchi di durata seguono dunque uno spazio-tempo striato in cui tracciano le loro diagonali, a seconda della velocità delle loro pulsazioni e della variazione delle loro misure. Ma dallo striato si stacca a sua volta uno spazio-tempo liscio o non pulsato, che si riferisce alla cronometria solo in maniera generale: qui le interruzioni sono in­ determinate, di tipo irrazionale, e le misure sono sostituite da di­ stanze e vicinanze non scomponibili che esprimono la densità o la rarità di ciò che vi appare (ripartizione statistica di eventi). All’in­ dice di velocità si sostituisce un indice di occupazione’. E qui che si occupa senza contare, invece di contare per occupare. Non pos­ siamo riservare l’espressione di Boulez, «bolle di tempo», per que­ sta nuova figura distinta dai blocchi di durata ? Il numero non è scomparso, ma è diventato indipendente dai rapporti metrici e cro­ nometrici, è diventato cifra, numero che conta, numero nomade o mallarmeano, Nomos musicale e non più misura, e invece di sud­ dividere uno spazio-tempo chiuso tenendo conto degli elementi che fanno blocco, distribuisce in uno spazio-tempo aperto gli elemen­ 7 Cfr. M. Proust, A la recherche du temps perdu, Gallimard (Plèiade), Paris 1966, voi. I, p. 655; trad. it. Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori (Meridiani), Milano 1983, voi. I, p. 793 (l’unità della Recherche è sempre presentata come una diagonale). ’ In italiano nel testo [N J.T.]. ’ Sui tagli, lo striato e il liscio, PM, pp. 95-108; trad. it. pp. 83-96. Ci sembra che, da una parte, la distinzione fra tagli irrazionali e razionali secondo Dedekind, e dall’altra, la distinzione tra distanze e grandezze secondo Russell, si accordino con la differenza tra il liscio e lo striato secondo Boulez.

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ti circoscritti in una bolla. È come il passaggio da una temporalizzazione a un’altra: non più una Serie del tempo, ma un Ordine del tempo. Questa grande distinzione di Boulez, lo striato e il liscio, vale non tanto come separazione ma come comunicazione perpe­ tua: c’è alternanza e sovrapposizione di due spazi-tempi, scambio tra le due funzioni della temporalizzazione, perlomeno nel senso che una ripartizione omogenea in un tempo striato dà l’impressio­ ne di un tempo liscio, mentre una distribuzione ineguale nel tem­ po liscio introduce delle direzioni che evocano un tempo striato, per condensazione o accumulazione di vicinanze. Se ricapitoliamo l’insieme delle differenze enunciate da Proust tra la sonata e il settimino di Vinteuil, ci sono tutte quelle che distinguono un piano chiuso da uno spazio aperto, un blocco da una bolla (il settimino è immerso in una nebbia viola che fa vedere una danza come «in un opale»)10, e anche quelle che collegano la piccola frase della so­ nata a un indice di velocità, mentre le frasi del settimino rinviano a indici di occupazione. Ma più in generale, ogni tema, ogni per­ sonaggio della Recherche è sistematicamente soggetto a una dop­ pia esposizione: in quanto «scatola» da cui si tira fuori ogni sorta di variazione di velocità e di alterazione di qualità, a seconda del­ le epoche e dei momenti (cronometria); e in quanto nebulosa o mol­ teplicità, che ha soltanto gradi di densità e di rarefazione secondo una distribuzione statistica (anche le due «parti», di Méséglise e di Guermantes, sono presentate quindi come due direzioni stati­ stiche). Albertine è entrambe insieme, ora striata ora liscia, ora blocco di trasformazione, ora nebulosa di diffusione, ma secondo due temporalizzazioni distinte. E tutta la Recherche va letta in quanto liscia e striata, doppia lettura che segue la distinzione di Boulez. Quanto appare secondario il tema della memoria rispetto a que­ sti motivi più profondi. Boulez può riprendere «l’elogio dell’am­ nesia» di Stravinsky, o le parole di Désormière, «il ricordo mi fa orrore», senza smettere di essere a suo modo proustiano. Secon­ do Proust, la memoria, anche quella involontaria, occupa una zo­ na molto circoscritta, che l’arte eccede da ogni parte, e che ha so­ lo un ruolo di conduzione. Ma il problema dell’arte, il problema correlativo alla creazione è quello della percezione e non della me­ moria: la musica è pura presenza e reclama un allargamento della percezione fino ai limiti dell’universo. Una percezione allargata, è 10 M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto cit., vol. Ili, p. 668 [Nd.T.].

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questa la finalità dell’arte (o della filosofia, secondo Bergson). Ma un tale scopo può essere raggiunto solo se la percezione rompe con l’identità a cui la memoria la inchioda. La musica ha sempre avu­ to questo oggetto: individuazioni senza identità che costituiscono gli «esseri musicali». E probabilmente il linguaggio tonale restau­ rava un principio di identità specifico, con l’ottava o con l’accor­ do del primo grado. Ma il sistema dei blocchi e delle bolle deter­ mina un rifiuto generalizzato di ogni principio di identità nelle va­ riazioni e nelle distribuzioni che li definiscono11. Il problema della percezione quindi raddoppia: come percepire questi individui la cui variazione è incessante e la cui velocità non è analizzabile o, meglio ancora, che sfuggono a ogni riferimento in ambiente li­ scio11 12 ? Le cifre, o numeri che contano, sfuggendo alla pulsazione cosi come ai rapporti metrici, non appaiono come tali nel fenome­ no sonoro, sebbene generino dei fenomeni reali, ma appunto sen­ za identità. Può essere che questo impercettibile, questi buchi nel­ la percezione siano colmati dalla scrittura, e che all’orecchio suben­ tri un occhio che legge e che funge da «memoria» ? Ma il problema riemerge: infatti come percepire la scrittura «senza essere obbliga­ ti a comprenderla»? Boulez troverà la risposta definendo un ter­ zo ambiente, un terzo spazio-tempo adiacente al liscio e allo stria­ to, e incaricato di far percepire la scrittura: è l’universo dei Fissi, che opera a volte per stupefacente semplificazione, come in Wa­ gner o nella figura a tre suoni di Webern, a volte per sospensione, come i dodici colpi di Berg, a volte per accentuazione insolita, co­ me in Beethoven o ancora in Webern, e che si presenta come un gesto che fa affiorare la struttura formale, o come un involucro che isola un gruppo di elementi costitutivi. Rapporto reciproco degli involucri che crea la ricchezza della percezione e mantiene all’er­ ta la sensibilità e la memoria13. Nella piccola frase di Vinteuil la nota alta tenuta per due battute, e «tesa come un sipario sonoro a 11 PM, p. 48; trad. it. pp. 41-42: «Nel sistema seriale, invece, non si manifesta alcu­ na funzione cosi identica da una serie all’altra [...1; un oggetto composto dagli stessi ele­ menti assoluti può assumere, con l’evoluzione della loro messa in opera, funzioni diver­ genti». 12 PM, pp. 44 e 96; trad. it. pp. 37 e 84: «Quando il taglio sarà libero di compiersi do­ ve si vuole, l’orecchio perderà ogni punto di riferimento e qualsiasi conoscenza assoluta de­ gli intervalli, paragonabile all’occhio che deve valutare delle distanze su una superficie ideal­ mente liscia». B Cfr. il fondamentale articolo L’écriture du musicien: le regard du sourd?, in «Criti­ que», maggio 1981, n. 408. E sui punti di riferimento in Wagner, PR, p. 249; trad. it. p. 216 («elementi di fissità»).

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nascondere il mistero della sua incubazione»14, è un esempio pri­ vilegiato di Fisso. Quanto al Settimino, l’amica di Mademoiselle Vinteuil ha avuto bisogno dei riferimenti fissi per scrivere l’opera. Costituire degli involucri per i fissi in Proust è appunto il ruolo della memoria involontaria. Non si creda che la memoria involontaria o i fissi ristabilisca­ no un principio di identità. Proust, cosi come Joyce o Faulkner, è tra coloro che destituiranno ogni principio di identità in lettera­ tura. Anche nella ripetizione il fisso non si definisce attraverso l’i­ dentità di un elemento che si ripete, ma attraverso una qualità co­ mune agli elementi che non si ripeterebbero senza di essa (per esem­ pio il famoso sapore comune ai due momenti, oppure in musica un’altezza comune...) Il fisso non è il Medesimo e non scopre un’i­ dentità sotto la variazione, è tutto il contrario. Permetterà di iden­ tificare la variazione, cioè l’individuazione senza identità. E cosi che allarga la percezione: rende percettibili le variazioni in am­ biente striato e le distribuzioni in ambiente liscio. Lungi dal ricon­ durre il diverso al Medesimo, permette di identificare il diverso come tale: cosi, in Proust, il sapore come qualità comune a due mo­ menti identifica Combray come sempre diversa da se stessa. Nel­ la musica cosi come nella letteratura, il gioco funzionale tra la ri­ petizione e la differenza ha sostituito il gioco organico tra l’iden­ tico e il variato. Per questo motivo i fissi non implicano alcuna permanenza, ma piuttosto istantaneizzano la variazione o la disse­ minazione che costringono a percepire. E gli involucri stessi non smettono di avere tra loro un «rapporto mobile», in una stessa ope­ ra, o in uno stesso blocco, in una stessa bolla. Allargare la percezione vuol dire rendere sensibili, sonore (o vi­ sibili) delle forze solitamente impercettibili. E probabile che que­ ste forze non siano necessariamente il tempo, anche se si intrec­ ciano e si uniscono a quelle del tempo. «Il tempo che di solito non è visibile... »15. Noi percepiamo facilmente e a volte dolorosamen­ te ciò che è nel tempo, percepiamo anche la forma, le unità e i rap­ porti della cronometria, ma non il tempo come forza, il tempo in sé, «un po’ di tempo allo stato puro»16. Fare del suono il tramite che rende sensibile il tempo, percettibili i Numeri del tempo, or­ ganizzare il materiale per captare le forze del tempo e renderlo so­ 14 M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto cit., vol. I, p. 257 [Nd.T.]. ” Ibid., vol. IV, p. 612 [NZT.]. 16 Ibid., p. 550 [Nz/.T],

Occupare senza contare: Boulez, Proust e il tempo

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noro: è il progetto di Messiaen, ripreso da Boulez in base a nuove condizioni (che sono quelle seriali). Ma per alcuni punti di vista le condizioni musicali di Boulez echeggiano le condizioni lettera­ rie di Proust: rendere sonora la forza muta del tempo. Il musici­ sta cattura e rende sensibili le forze del tempo sviluppando fun­ zioni di temporalizzazione che si esercitano sul materiale sonoro. Le forze del tempo e le funzioni di temporalizzazione si uniscono per costituire gli Aspetti del tempo implicato. In Boulez cosi come in Proust, questi aspetti sono molteplici e non si riducono sempli­ cemente a «perduto-ritrovato». C’è il tempo perduto, che non è una negazione, ma una> piena funzione del tempo: in Boulez sarà la polverizzazione del suono, ovvero l’estinzione, che è una que­ stione di timbro, V estinzione dei timbri, nel senso che il timbro è come l’amore e ripete la sua fine piuttosto che la sua origine. E poi c’è «il tempo ri-cercato», la costituzione di blocchi di durate, il lo­ ro andamento diagonale: non sono degli accordi (armoniche), ma veri e propri corpo a corpo, spesso ritmici, strette sonore e vocali in cui, di volta in volta, uno dei lottatori vince sull’altro, come nel­ la musica di Vinteuil; è la forza striata del tempo. E poi c’è il tem­ po ri-trovato, identificato, ma nell’istante, è il «gesto» del tempo o {'involucro dei fissi. Infine, «il tempo dell’utopia», dice Boulez in omaggio a Messiaen: ritrovare se stessi dopo aver penetrato il segreto delle Cifrò, dopo aver ossessionato le giganti bolle di tem­ po, affrontato il liscio - scoprendo, secondo l’analisi di Proust, che gli uomini occupano nel tempo «un posto cosi considerevole ac­ canto a quello cosi angusto che è riservato loro nello spazio», o piuttosto che quando contano gli spetta «un posto, al contrario, prolungato a dismisura»17... Nel suo incontro con Proust, Boulez crea un insieme di concetti filosofici fondamentali che scaturisco­ no dalla sua opera musicale. 17 M. Proust, À la recherche du temps perdu cit., vol. Ili, p. 1048; trad. it. vol. IV, p. 761: Proust stabilisce una distinzione esplicita tra questo aspetto del tempo e il tempo ri­ trovato, che è un altro aspetto. (SuU’«utopia», Messiaen e Boulez, cfr. PR, pp. 331-38; trad. it. pp. 293-300).

42. Prefazione all’edizione americana di Differenza e ripetizione*

i) C’è una grande differenza tra scrivere in storia della filoso­ fia e in filosofia. Nel primo caso si studiano la freccia o gli attrez­ zi di un grande pensatore, le sue prede e i suoi trofei, i continen­ ti che ha scoperto. Nell’altro si intaglia la propria freccia, oppure si raccolgono quelle che sembrano le più belle, ma per cercare di lanciarle verso altre direzioni, anche se la distanza coperta sarà re­ lativamente piccola invece di essere stellare. Si tenterà di parlare a proprio nome, e si apprenderà che il nome proprio può designa­ re soltanto il risultato di un lavoro, vale a dire i concetti che si so­ no scoperti, a condizione di aver saputo farli vivere e di aver sa­ puto esprimerli attraverso tutte le possibilità del linguaggio.

2) Dopo aver studiato Hume, Spinoza, Nietzsche e Proust, che mi entusiasmavano, Differenza e ripetizione era il primo libro in cui cercavo di «fare filosofia». Tutto ciò che ho fatto in seguito si con­ catenava con questo libro, anche ciò che abbiamo scritto con Guat­ tari (parlo ovviamente dal mio punto di vista). E molto difficile dire ciò che unisce qualcuno a un certo problema: perché la diffe­ renza e la ripetizione mi assillavano più di altre cose, e non prese separatamente ma nella loro congiunzione ? Non erano affatto dei problemi nuovi, poiché la storia della filosofia e soprattutto la fi­ losofia contemporanea se ne occupavano costantemente. Ma for­ se la maggior parte dei filosofi avevano subordinato la differenza all’identità o al medesimo, al Simile, all’Opposto, o all’Analogo: avevano introdotto la differenza nell’identità del concetto, aveva­ no messo la differenza nel concetto, erano arrivati a una differen­ za concettuale, ma non a un concetto di differenza. * Titolo del curatore. Questo testo è stato pubblicato con il titolo Preface to the Eng­ lish edition, in Difference and Repetition, Columbia University Press, New York 1994, pp xv-xvn. Traduzione inglese di P. Patton. Il testo dattilografato è datato 1986.

Prefazione all’edizione americana di Differenza e ripetizione

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3) Per pensare la differenza, tendiamo a subordinarla all’iden­ tità (dal punto di vista del concetto o del soggetto: per esempio la differenza specifica presuppone un genere come concetto identi­ co). Tendiamo anche a subordinarla alla somiglianza (dal punto di vista della percezione), all’opposizione (dal punto di vista dei pre­ dicati), all’analogo (dal punto di vista del giudizio). Come dire che non pensiamo la differenza in se stessa. La filosofia ha potuto far­ si una rappresentazione organica della differenza con Aristotele, oppure una rappresentazione orgiastica, infinita, con Leibniz e He­ gel: ma non per questo è giunta alla differenza in se stessa. E forse la situazione non era migliore nemmeno per la ripetizio­ ne, in altro modo, perché la pensiamo come l’identico, il simile, l’u­ guale o l’opposto. Questa volta ne facciamo una differenza senza concetto: due cose si ripetono quando differiscono pur avendo esat­ tamente lo stesso concetto. Di conseguenza, tutto ciò che varia la ripetizione ci sembra allo stesso tempo che la ricopra o la nascon­ da. Anche in questo caso non giungiamo a un concetto della ripe­ tizione. E possibile, invece, che lo formiamo quando ci accorgiamo che la variazione non si aggiunge alla ripetizione per nasconderla, ma ne è la condizione o l’elemento costitutivo, l’interiorità per ec­ cellenza ? Il mascheramento non appartiene alla ripetizione tanto quanto lo spostamento non appartiene alla differenza: è un traspor­ to comune, diaphora. Al limite, ci potrebbe essere una sola e stes­ sa potenza, di differenza o di ripetizione, che si eserciterebbe però soltanto nel molteplice e determinerebbe le molteplicità ?

4) Ogni filosofia deve conquistare il suo modo di parlare delle scienze e delle arti, e di stabilire alleanze con esse. E molto diffi­ cile, perché ovviamente la filosofia non può ambire alla benché mi­ nima superiorità, e tuttavia crea ed espone i propri concetti solo in relazione a ciò che essi possono cogliere delle funzioni scienti­ fiche e delle costruzioni artistiche. Un concetto filosofico non si confonde mai con una funzione scientifica o con una costruzione artistica, ma è affine a esse, in un certo ambito scientifico e stile ar­ tistico. Il contenuto scientifico o artistico di una filosofia può es­ sere molto elementare, dal momento che non deve far progredire l’arte o la scienza, ma essa stessa può progredire solo formando i concetti propriamente filosofici di tale funzione o di tale costru­ zione, anche elementari. La filosofia non si può rendere indipen­ dente dalla scienza o dall’arte. E in questo senso che abbiamo cer­

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Due regimi di folli

cato di costituire un concetto filosofico della differenziazione co­ me funzione matematica e della differenziazione come funzione biologica, cercando se non ci fosse tra i due concetti un rapporto enunciabile che potesse apparire al livello del loro rispettivo og­ getto. Ci sembra che l’arte, la scienza e la filosofia siano in rap­ porti mobili tra loro, in cui ognuna deve rispondere all’altra, ma con i propri mezzi.

5) In definitiva, in questo libro mi sembrava che non si potes­ se giungere alle potenze della differenza e della ripetizione senza mettere in questione l’immagine che ci si faceva del pensiero. Vo­ glio dire che noi non pensiamo soltanto secondo un metodo, men­ tre c’è un’immagine del pensiero, più o meno implicita, tacita e presupposta, che determina i nostri scopi e i nostri mezzi quando ci sforziamo di pensare. Per esempio, presupponiamo che il pen­ siero abbia una natura buona, e che il pensatore abbia una buona volontà (volere «naturalmente» il vero); ci diamo come modello il riconoscimento, vale a dire il senso comune, l’uso di tutte le fa­ coltà intorno a un oggetto che supponiamo uguale a se stesso; de­ signiamo il nemico da combattere: l’errore, nient’altro che l’erro­ re; e presumiamo che il vero riguardi le soluzioni, cioè proposizio­ ni in grado di servire da risposte. E questa l’immagine classica del pensiero, e finché non abbiamo portato la critica al cuore di que­ sta immagine, è difficile condurre il pensiero fino a problemi che debordano il modo proposizionale, fargli effettuare degli incontri che si sottraggono a ogni riconoscimento, fargli affrontare i suoi veri nemici, che sono ben altri che l’errore, e giungere a ciò che costringe a pensare, o che strappa il pensiero al suo torpore natu­ rale, alla sua notoria cattiva volontà. Una nuova immagine del pen­ siero, o piuttosto una liberazione del pensiero rispetto alle imma­ gini che lo imprigionano è ciò che avevo già cercato con Proust1. Ma qui, in Differenza e ripetizione, questa ricerca diventa autono­ ma e diventa la condizione per la scoperta dei due concetti. Inol­ tre, ora il terzo capitolo è quello che mi sembra più necessario e concreto, che introduce i libri successivi, fino alle ricerche con Guattari, quando invochiamo un modello vegetale di rizoma per il pensiero in opposizione al modello dell’albero, un pensiero-rizo­ ma invece che arborescente. 1 Proust et les signes, PUF, Paris 1970; trad. it. Proust e i segni, Einaudi, Torino 1986 [NZC.].

43Prefazione all’edizione americana di Conversazioni*

Mi sono sempre sentito un empirista, e cioè un pluralista. Ma che cosa significa l’equivalenza empirismo-pluralismo? Essa deri­ va da due caratteri con cui Whitehead definiva l’empirismo: l’a­ stratto non spiega, ma esso stesso deve essere spiegato; non cer­ chiamo di ritrovare l’eterno o l’universale, ma di trovare le condi­ zioni con cui si produce qualcosa di nuovo (creativeness). E assodato che nelle cosiddette filosofie razionaliste è l’astratto che viene in­ caricato a spiegare, ed è l’astratto che si realizza nel concreto. Si parla di astrazioni come l’Uno, il Tutto, il Soggetto, e si cerca at­ traverso quale processo esse si incarnino in un mondo che hanno reso conforme alle loro esigenze (questo processo può essere la co­ noscenza, o la Virtù, o la storia...) A rischio di attraversare una terribile crisi ogni volta che ci si accorge che l’unità o la totalità razionali si trasformano nel loro opposto, o che il soggetto genera dei mostri. L’empirismo parte da una valutazione completamente diversa: analizzare gli stati di cose in maniera tale da poter far emergere concetti che prima non esistevano. Gli stati di cose non sono né unità né totalità, sono delle molteplicità. Questo non vuol dire semplicemente che ci sono numerosi stati di cose (ognuno dei qua­ li resta uno); né che ogni stato di cose è a sua volta molteplice (il che evidenzierebbe soltanto la sua resistenza rispetto all’unifica­ zione). L’essenziale, dal punto di vista dell’empirismo, è il sostan­ tivo «molteplicità», che designa un insieme di linee o di dimen­ sioni irriducibili le une alle altre. Ogni «cosa» è fatta cosi. Una molteplicità comporta certamente dei fuochi di unificazione, dei centri di totalizzazione, dei punti di soggettivazione, ma in quan* Titolo del curatore. Preface to the English-language edition, in G. Deleuze e C. Parnet, Dialogues, Columbia University Press, New York 1987, pp. vn-x. Traduzione inglese di H. Tomlinson e B. Habberjam.

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to fattori che possono impedire la sua crescita e fermare le sue li­ nee. Fattori del genere sono dentro la molteplicità a cui apparten­ gono, e non viceversa. Ciò che conta in una molteplicità non so­ no i termini o gli elementi, ma ciò che c’è «tra», il between, un insieme di relazioni non separabili le une dalle altre. Ogni molte­ plicità cresce grazie all’ambiente, come il filo d’erba o il rizoma. Non finiamo mai di opporre il rizoma all’albero, come due conce­ zioni e anche due esercizi del pensiero molto diversi tra loro. Una linea non va da un punto all’altro, ma passa tra i punti, senza smet­ tere di biforcarsi e di divergere, come una linea di Pollock. Far emergere ^concetti che corrispondono a una molteplicità vuol dire precisamente tracciare le linee che la compongono, de­ terminare la natura di queste linee, vedere come si aggrovigliano, si connettono, si biforcano, evitano o non evitano i fuochi. Que­ ste linee sono veri e propri divenire, che non si distinguono solo dalle unità, ma dalla storia in cui esse si sviluppano. Le moltepli­ cità sono composte da divenire senza storia, da individuazioni sen­ za soggetto (il modo in cui si individualizza un fiume, un clima, un evento, una giornata, un’ora del giorno...) Come dire che il concetto non ha minore esistenza nell’empirismo rispetto al razio­ nalismo, ma ha tutto un altro uso e un’altra natura: è un essere­ molteplice, al posto di un essere-uno, al posto di un essere-tutto o dell’essere come soggetto. L’empirismo è fondamentalmente lega­ to a una logica, che è una logica delle molteplicità (di cui le rela­ zioni non sono che un aspetto). Questo libro (1977) si proponeva di mostrare l’esistenza e l’a­ zione delle molteplicità in ambiti molto diversi. Un giorno a Freud capitò di intuire che lo psicopatico prova e pensa delle moltepli­ cità: la pelle è un insieme di pori, la calza un campo di maglie, l’os­ so è estratto da un ossario... Ma si ripiegò sempre sulla visione più tranquilla di un inconscio nevrotico che giocava con eterne astra­ zioni (e anche gli oggetti parziali di Melanie Klein rinviano anco­ ra a un’unità seppure perduta, a una totalità seppure a venire, a un soggetto sfaldato). E molto difficile giungere a un pensiero del mol­ teplice come tale, a un molteplice divenuto sostantivo, che non ha bisogno di riferirsi a qualcosa di diverso da Sé: l’articolo indefini­ to come particella, il nome proprio come individuazione senza sog­ getto, il verbo all’infinito come puro divenire, «un Hans divenire cavallo»... Ci è sembrato che la letteratura inglese e americana avesse una grande vocazione ad avvicinarsi a tali molteplicità: pro­ babilmente è in questa letteratura che la domanda «che cos’è seri­

Prefazione all’edizione americana di Conversazioni

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vere ?» ha ricevuto la risposta più vicina alla Vita stessa, alla vita ve­ getale e animale. Ci è sembrato anche che la scienza, la matema­ tica e la fisica non avessero un oggetto più elevato, e che la teoria degli insiemi fosse ancora ai suoi inizi, cosi come la teoria degli spazi. Ci è sembrato che fosse in gioco anche la politica, e che in un campo sociale i rizomi si estendessero ovunque sotto gli appa­ rati arborescenti. Il libro è fatto da tutto questo insieme di reve­ ries sulle formazioni dell’inconscio, sulle formazioni letterarie, scientifiche, politiche. Questo stesso libro stava «tra», in tanti modi. Stava tra due li­ bri, tra L'anti-Edipo, che Guattari e io avevamo terminato, e Mil­ le piani, che avevamo cominciato e che fu il nostro lavoro più am­ bizioso, il più smisurato, e anche quello accolto peggio. Ma non stava soltanto tra due libri, capitava tra Félix Guattari e me. E sic­ come lo scrivevo con Claire Parnet, ecco che questo nuovo punto permetteva una nuova linea-tra. Ciò che contava non erano i pun­ ti, Félix, Claire Parnet, io e altri ancora, che funzionavano soltan­ to come punti di soggettivazione temporanei, transitori, evane­ scenti, ma l’insieme delle linee biforcate, divergenti, aggroviglia­ te, che costituivano questo libro come una molteplicità, e che passava tra i punti, li travolgeva senza mai andare da uno all’altro. Di conseguenza il progetto iniziale di un colloquio tra due perso­ ne, una che fa le domande e l’altra che risponde, non valeva più. Bisognava che le ripartizioni riguardassero le dimensioni crescen­ ti della molteplicità, secondo dei divenire non attribuibili alle per­ sone, perché esse non vi si potevano immergere senza cambiare natura. Sapremmo meglio che cos’è scrivere e sapremmo meno che cosa appartiene a uno o all’altro o all’altro ancora. Sarebbero le li­ nee a rispondersi a vicenda, come le radici sotterranee di un rizo­ ma, in opposizione all’unità dell’albero e alla sua logica binaria. Questo fu veramente un libro senza soggetto, senza inizio né fi­ ne, ma non senza un mezzo (middle), corrispondente alla formula di Miller: «Le erbacce crescono in mezzo [...], è un oltrepassamento, indica una morale [..J»1. 1 H. Miller e M. Fraenkel, Hamlet, Carrefour, New York - Paris 1939-41; trad. it. Lettere su Amleto, in Opere, Mondadori, Milano 1992, p. 1183 [NJ.C.]. [Traduzione leg­ germente modificata, N J.T.].

44Prefazione all’edizione italiana di brille piani*

a Giorgio Passerone

Passano gli anni, i libri invecchiano o ricevono al contrario una seconda giovinezza. A volte si appesantiscono e ridondano, altre volte modificano i loro tratti, accusano le loro spigolosità, fanno salire in superficie nuovi piani. Non spetta agli autori determina­ re un tale destino oggettivo. Ma spetta loro riflettere sul posto che tale libro ha preso, col tempo, nell’insieme del loro progetto (de­ stino soggettivo) mentre occupava tutto il progetto nel momento in cui era scritto. Mille piani (1980) segue L’anti-Edipo (1972). Ma hanno avuto oggettivamente destini molto diversi. Probabilmente in ragione del contesto: l’epoca agitata dell’uno, che fa ancora parte del ’68, e la calma già piatta, l’indifferenza in cui è apparso l’altro. Mille piani, fra i nostri libri, è stato quello accolto peggio. Eppure, se lo preferiamo, non è nel modo in cui una madre può preferire un fi­ glio disgraziato. L’anti-Edipo aveva avuto molto successo, ma que­ sto successo si sdoppiava in uno scacco piu profondo. Pretendeva di denunciare i danni di Edipo, del «papà-mamma», nella psicoa­ nalisi, nella psichiatria e anche nell’antipsichiatria, nella critica let­ teraria e nell’immagine generale che ci si fa del pensiero. Sogna­ vamo di finirla con Edipo. Ma era un compito troppo grande per noi. La reazione contro il ’68 doveva dimostrare a qual punto l’Edipo familiare stesse bene e continuasse a imporre il suo regime di piagnucolio puerile in psicoanalisi, in letteratura e ovunque nel pensiero. Sicché l’Edipo restava la nostra palla al piede. Mentre Mille piani, malgrado il suo scacco apparente, ci faceva fare un pas­ so in avanti, almeno a nostro avviso, e abbordare terre sconosciu­ te, vergini di Edipo, che L’anti-Edipo aveva solamente visto da lontano senza penetrarvi. * Con Félix Guattari. In G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizo­ frenia, Bibliotheca biographica, Roma 1987, 2 voli., pp. xi-xiv (riedito da Cooper & Castelvecchi, Roma 2003). Traduzione di Giorgio Passerone.

Prefazione all’edizione italiana di Mille piani

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I tre temi deW Anti-Edipo erano i seguenti: 1) Finconscio funziona come una fabbrica e non come un tea­ tro (problema di produzione e non di rappresentazione); 2) il delirio, o il romanzo, è storico-mondiale e non familiare (si delirano le razze, le tribù, i continenti, le culture, le posizioni sociali...); 3) certamente c’è una storia universale ma è quella della contin­ genza (come i flussi - oggetto della storia - passano per codici pri­ mitivi, surcodificazioni dispotiche e decodificazioni capitalistiche che rendono possibile una congiunzione di flussi indipendenti). L’anti-Edipo aveva un’ambizione kantiana, bisognava tentare una specie di Critica della ragion pura al livello dell’inconscio. Don­ de la determinazione di sintesi proprie dell’inconscio; lo svolgi­ mento della storia come effettuazione di queste sintesi; la denun­ cia dell’Edipo come «illusione inevitabile» che falsifica ogni pro­ duzione storica. Mille piani rivendica invece un’ambizione post-kantiana (ben­ ché risolutamente anti-hegeliana). Il progetto è «costruttivista». E una teoria delle molteplicità per se stesse, là dove il molteplice passa allo stadio di sostantivo, mentre L’anti-Edipo lo considera­ va ancora in sintesi e sotto le condizioni dell’inconscio. In Mille piani il commento Sull’Uomo dei lupi («uno solo o molti lupi?») costituisce il nostro addio alla psicoanalisi e cerca di mostrare co­ me le molteplicità superino la distinzione tra coscienza e incon­ scio, tra natura e storia, tra corpo e anima. Le molteplicità sono la realtà stessa e non presuppongono alcuna unità, non entrano in al­ cuna totalità piu di quanto non rinviino a un soggetto. Le sogget­ tivazioni, le totalizzazioni, le unificazioni sono al contrario pro­ cessi che si producono e appaiono nelle molteplicità. Le principa­ li caratteristiche delle molteplicità concernono i loro elementi, che sono singolarità} le loro relazioni, che sono dei divenire} i loro even­ ti, che sono ecceità (cioè individuazioni senza soggetto); i loro spa­ zi-tempi, che sono spazi e tempi lisci} il loro modello di realizza­ zione, che è il rizoma (per opposizione al modello dell’albero); il loro piano di composizione, che costituisce dei plateaux1 (zone di intensità continua); i vettori che li traversano e che costituiscono territori e gradi di deterritorializzazione. 1 Di qui il titolo francese dell’opera. Nella versione italiana, e d’accordo con gli auto­ ri, plateau viene tradotto con il termine piano, che viene utilizzato anche per la traduzio­ ne di pian nella sua accezione geometrica [NJ.T.].

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Due regimi di folli

La storia universale della contingenza vi guadagna una più gran­ de varietà. In ogni caso la domanda sarà: dove e come si fa tale in­ contro ? Invece di seguire, come neW Anti-Edipo, la successione tra­ dizionale Selvaggi-Barbari-Civilizzati, ci troviamo adesso di fron­ te a ogni sorta di formazioni coesistenti: i gruppi primitivi, che operano per serie, e per valutazione delT«ultimo» termine, in uno strano marginalismo; le comunità dispotiche, che costituiscono al contrario insiemi sottomessi a processi di centralizzazione (appara­ ti di stato); le macchine da guerra nomadi, che non si approprie­ ranno degli stati senza che questi si approprino della macchina da guerra che prima non comportavano; i processi di soggettivazio­ ne, che si esercitano negli apparati di stato e in quelli guerrieri; la messa in convergenza di questi processi, nel capitalismo e attra­ verso gli stati corrispondenti; le modalità di un’azione rivoluzio­ naria; i fattori comparati, in ogni caso, del territorio, della terra e della deterritorializzazione. Questi tre fattori possiamo vederli qui giocare liberamente, cioè esteticamente, nel ritornello. Le canzoncine territoriali o il canto degli uccelli; il grande canto della terra, quando la terra urlò; la po­ tente armonia delle sfere o la voce del cosmo ? Proprio ciò che que­ sto libro avrebbe voluto: concatenare dei ritornelli, dei Lieder cor­ rispondenti a ogni piano. Perché anche la filosofia, dalla canzonet­ ta al più potente dei canti, non è altro che una specie di Sprechgesang cosmico. L’uccello di Minerva (per parlare come Hegel) ha i suoi gridi e i suoi canti: i principi in filosofia sono gridi attorno ai qua­ li i concetti compongono veri e propri canti.

45Che cos’è l’atto di creazione? *

Anch’io vorrei porre delle domande. Porle a voi e a me stesso. Domande di questo tipo: che cosa fate di preciso voi che fate ci­ nema ? E io che cosa faccio di preciso quando faccio o spero di fa­ re filosofia ? Potrei porre la domanda in altri termini: che cos’è avere un’i­ dea nel cinema? Se si fa o se si vuole fare cinema, che cosa signi­ fica avere un’idea? Cosa succede quando diciamo: «Ecco, ho un’i­ dea»? Da una parte, infatti, tutti sanno che avere un’idea è un evento che capita raramente, è una specie di festa, poco frequen­ te. E, dall’altra, avere un’idea non è qualcosa di generale. Non si ha un’idea in generale. Un’idea - proprio come colui che ha l’idea è già destinata a un certo ambito. Può essere un’idea in pittura, in narrativa, in filosofia oppure nella scienza. Ed evidentemente tut­ te queste idee non possono venire alla stessa persona. Bisogna trat­ tare le idee come potenziali già impegnati in una certa modalità di espressione e inseparabili da essa, per cui non posso dire che ho un’idea in generale. In funzione delle tecniche che conosco posso avere un’idea in un certo ambito, un’idea nel cinema oppure un’i­ dea in filosofia. Riparto quindi dal principio che io faccio filosofia e voi fate ci­ nema. Una volta ammesso questo, sarebbe troppo facile dire: per­ ché la filosofia, che è pronta a riflettere su qualunque cosa, non potrebbe riflettere anche sul cinema? E stupido. La filosofia non è fatta per riflettere su qualunque cosa. Trattando la filosofia co­ * Questo testo è la ritrascrizione della conferenza filmata, pronunciata alla Femis (Ecole nationale supérieure des métiers de l’image et du son) il 17 marzo 1987, su invito di Jean Narboni e trasmessa su FR3 nella trasmissione «Océaniques» il 18 maggio 1989. Charles Tesson, in accordo con Deleuze, ha effettuato la trascrizione parziale del testo, pubblica­ ta con il titolo Avoir une idee en cinema, all’interno di un omaggio al cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (Jean-Marie Straub, Danièle Huillet, Editions Antigone, Aigremont 1990, pp. 63-77). La versione integrale della conferenza è stata pubblicata per la pri­ ma volta in «Trafic», autunno 1998, n. 27.

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me una potenza di «riflettere-su», abbiamo Faria di concederle molto, ma di fatto le togliamo tutto. Perché nessuno ha bisogno della filosofia per riflettere. Le sole persone capaci di riflettere ef­ fettivamente sul cinema sono i cineasti o i critici cinematografici, oppure coloro che amano il cinema. E nessuno di loro ha bisogno della filosofia per riflettere sul cinema. L’idea che i matematici avrebbero bisogno della filosofia per riflettere sulla matematica fa ridere. Se la filosofia dovesse servire a riflettere su qualcosa, non avrebbe alcuna ragione di esistere. Se la filosofia esiste, è perché ha un suo contenuto proprio. E molto semplice: la filosofia è una disciplina che-crea e inven­ ta come ogni altra disciplina e consiste nel creare o nell’inventare concetti. I concetti non esistono già fatti in una specie di cielo in cui aspetterebbero che un filosofo li afferri. Bisogna fabbricarli, i concetti. E non si fabbricano tanto facilmente. Non ci si dice, un bel giorno, «ecco, adesso invento questo concetto», cosi come un pittore non si dice, di punto in bianco, «ecco, adesso faccio un quadro cosi», o un cineasta, «ecco, adesso faccio un film cosi! » Occorre che ci sia una necessità, in filosofia come in altri ambiti, in caso contrario non c’è assolutamente nulla. Un creatore non è un prete che lavora per il suo piacere. Un creatore fa solo ciò di cui ha assolutamente bisogno. Resta il fatto che questa necessità - che è una cosa molto complessa, se esiste - fa si che un filosofo (che almeno so di cosa si occupa) si proponga di inventare, di crea­ re dei concetti e non di mettersi a riflettere, nemmeno sul cinema. Dico che faccio filosofia, cioè che cerco di inventare dei concet­ ti. Se dico: voi che fate del cinema, che cosa fate? Voi non inven­ tate concetti - non è affar vostro - ma blocchi di movimenti/durata. Se si fabbrica un blocco di movimenti/durata forse si sta fa­ cendo del cinema. Non si tratta di fare appello a una storia né di respingerla. Tutto ha una storia. Anche la filosofia racconta sto­ rie. Storie con dei concetti. Il cinema racconta storie con blocchi di movimenti/durata. La pittura inventa un tipo di blocchi com­ pletamente diverso. Non sono né blocchi di concetti, né blocchi di movimenti/durata, ma blocchi linee/colori. La musica inventa un altro tipo di blocchi, altrettanto particolari. Rispetto a ciò, la scienza non è meno creatrice. Non vedo tante contrapposizioni tra le scienze e le arti. Se chiedo a uno scienziato che cosa fa, anche lui inventa. Non scopre - la scoperta esiste ma non è attraverso di essa che si defi­ nisce un’attività scientifica in quanto tale - bensì crea, come fa un

Che cos’è l’atto di creazione?

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artista. Uno scienziato - non è tanto complicato - è qualcuno che inventa o crea delle funzioni. Ed è l’unico che lo fa. Uno scienzia­ to in quanto tale non ha niente a che fare con i concetti. E anche per questa ragione - fortunatamente - che c’è la filosofia. In com­ penso, c’è una cosa che sa fare soltanto uno scienziato: inventare e creare funzioni. Che cos’è una funzione ? Una funzione si dà non appena vi sia una messa in corrispondenza regolata tra due o piu insiemi. La nozione di base della scienza - e non solo da ieri ma da molto tempo - è la nozione di insieme. Un insieme non ha nien­ te a che vedere con un concetto. Non appena mettete in correla­ zione regolata degli insiemi, ottenete delle funzioni e potete dire «sto facendo della scienza». Se chiunque può parlare a chiunque, se un cineasta può parla­ re a un uomo di scienza, se un uomo di scienza può avere qualco­ sa da dire a un filosofo e viceversa, è nella misura e in funzione dell’attività creatrice di ciascuno. Non che si debba necessaria­ mente parlare della creazione - la creazione è piuttosto qualcosa di molto solitario -, ma è in nome della mia creazione che ho qual­ cosa da dire a qualcuno. Se allineassi tutte queste discipline che si definiscono per la loro attività creatrice, direi che c’è un limite co­ mune a tutte. Il limite comune a tutte queste serie di invenzioni, invenzioni di funzioni, invenzioni di blocchi durata/movimenti, invenzioni di concetti, è lo spazio-tempo. Se tutte le discipline comunicano tra loro è al livello di ciò che non emerge mai per se stesso, ma che è come impegnato in ogni disciplina creatrice, e cioè la costituzione degli spazi-tempi. In Bresson - come è noto - ci sono raramente spazi interi. So­ no spazi che potremmo definire sconnessi. Per esempio, c’è un an­ golo, l’angolo di una cella. Poi si vede un altro angolo oppure un punto della parete. Tutto avviene come se lo spazio bressoniano si presentasse come una serie di piccoli pezzi la cui connessione non è predeterminata. Esistono grandissimi cineasti che invece impie­ gano spazi d’insieme. Non dico che sia più facile maneggiare uno spazio d’insieme, ma lo spazio di Bresson costituisce un tipo di spa­ zio particolare. In seguito è stato probabilmente ripreso ed è stato usato da altri, che l’hanno rinnovato, in maniera molto creatrice. Ma Bresson è stato uno dei primi a fare uno spazio con piccoli pez­ zi sconnessi, cioè piccoli pezzi la cui connessione non è predeter­ minata. E direi che al limite di tutti i tentativi di creazione ci sono degli spazi-tempi. Non c’è altro. I blocchi di durata/movimento di Bresson tenderanno verso questo tipo di spazio, tra gli altri.

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La questione è dunque questa: che cosa connette questi piccoli pezzi di spazio visivo la cui connessione non è data in anticipo ? Li connette la mano. Non si tratta di teoria né di filosofia. Non è una deduzione immediata. Voglio dire questo: il tipo di spazio di Bresson è la valorizzazione cinematografica della mano nell’immagine. Il raccordo dei piccoli frammenti di spazio bressoniano - per il fatto stesso che sono dei frammenti, pezzi sconnessi di spazio non può che essere un raccordo manuale. Da ciò deriva Fuso esau­ stivo della mano in tutto il suo cinema. Il blocco di estensione/movimento di Bresson riceve quindi come carattere proprio di que­ sto creatore, di questo spazio, il ruolo della mano che ne deriva in maniera diretta. Soltanto la mano può effettivamente operare del­ le connessioni da una parte all’altra dello spazio. E Bresson è pro­ babilmente il più grande cineasta ad avere reintrodotto nel cine­ ma i valori tattili. Non soltanto perché sa catturare in modo am­ mirevole le mani nelle immagini. Se lo sa fare, è perché ha bisogno delle mani. Un creatore non è un essere che lavora per il proprio piacere. Un creatore fa soltanto ciò di cui ha assolutamente bisogno. Ancora una volta avere un’idea nel cinema non è la stessa co­ sa che avere un’idea in un altro campo. Tuttavia, ci sono delle idee nel cinema che potrebbero valere anche in altre discipline, per esempio potrebbero essere eccellenti in narrativa. Ma non avreb­ bero affatto le stesse sembianze. E poi ci sono delle idee nel cine­ ma che non possono essere altro che cinematografiche. Tuttavia, anche quando si tratta di idee nel cinema che potrebbero valere in narrativa, sono ormai impegnate in un processo cinematografico che fa si che esse siano già destinate in partenza. E un modo per porre una domanda che mi interessa: che cosa fa venire davvero voglia a un cineasta di adattare un romanzo, per esempio ? Mi sem­ bra evidente che lo fa perché ha delle idee nel cinema che entra­ no in risonanza con ciò che il romanzo presenta come idee in nar­ rativa. E cosi avvengono spesso grandi incontri. Non mi riferisco al problema del cineasta che adatta un romanzo notoriamente me­ diocre. Può avere bisogno del romanzo mediocre e questo non esclude che il film sia geniale; sarebbe interessante affrontare que­ sto problema. Ma la mia domanda è un’altra: che cosa succede quando il romanzo è un grande romanzo e si rivela questa affinità per cui qualcuno nel cinema ha un’idea che corrisponde a quella che era anche l’idea nel romanzo ? Uno dei casi più belli è quello di Kurosawa. Perché c’è una cer­ ta familiarità tra Kurosawa e Shakespeare o Dostoevskij ? Perché

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c’è bisogno di un giapponese per entrare in familiarità con Shake­ speare e Dostoevskij ? Proporrei una risposta che secondo me toc­ ca un po’ anche la filosofia. Nei personaggi di Dostoevskij succe­ de molto spesso una cosa piuttosto curiosa, che può dipendere da un piccolo dettaglio. Generalmente sono molto agitati. Un perso­ naggio esce di casa, scende in strada e dice: «Tania, la donna che amo, mi chiama in suo aiuto. Corro, perché morirà se non vado da lei». Scende le scale e incontra un amico, oppure vede un cane in­ vestito, in agonia, e dimentica, dimentica completamente che Ta­ nia lo attende. Dimentica. Si mette a parlare, incontra un altro compagno, va a prendere il tè da lui e all’improvviso dice di nuo­ vo: «Tania mi aspetta, devo andare». Che cosa vuol dire? In Do­ stoevskij i personaggi sono eternamente presi in qualche urgenza, e mentre sono presi da queste urgenze, in questioni di vita o di morte, sanno che c’è una questione ancora più urgente - e non san­ no quale sia. Ed è questo che li ferma. Tutto avviene come se nel­ l’emergenza più grave - «C’è un incendio, devo andarmene» - si dicessero: «No, c’è qualcosa di più urgente. Non mi muoverò fin­ ché non saprò cos’è». E l’idiota. E la formula dell’idiota: «Sape­ te, c’è un problema più profondo. Però non so quale sia. Ma la­ sciatemi. Tutto può andare a fuoco... bisogna trovare questo pro­ blema più urgente». E qualcosa che Kurosawa non apprende da Dostoevskij. Tutti i personaggi di Kurosawa sono cosi. Ecco un bell’incontro. Se Kurosawa riesce ad adattare Dostoevskij, è per­ ché può almeno dire: «Ho qualcosa in comune con lui, un proble­ ma comune, proprio questo». I personaggi di Kurosawa sono in si­ tuazioni impossibili, ma attenzione, c’è un problema più urgente. E devono sapere quale sia questo problema. Vivere è forse uno dei film di Kurosawa che si spinge più lontano in questo senso. Ma tutti i suoi film vanno in questa direzione. I sette samurai per esem­ pio: tutto lo spazio di Kurosawa ne dipende, è necessariamente uno spazio ovale, battuto dalla pioggia. Nei Sette samurai i perso­ naggi sono presi in una situazione di urgenza - hanno accettato di difendere il villaggio - e per tutto il film sono travagliati da una questione più profonda, che sarà espressa alla fine, dal capo dei sa­ murai, quando stanno per andarsene: «Che cos’è un samurai? Che cos’è un samurai non in generale ma in questa precisa epoca ?» Un buono a niente. I signori non ne hanno più bisogno e i contadini sapranno presto difendersi da soli. Per tutto il film, malgrado l’ur­ genza della situazione, i samurai sono incalzati da questo proble­ ma degno dell’idiota: noi samurai, che cosa siamo?

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Un’idea nel cinema è di questo tipo, una volta che sia già im­ pegnata in un processo cinematografico. Allora potete dire: «Ho un’idea», anche se la mutuate da Dostoevskij. Un’idea è molto semplice. Non è un concetto, non è filosofia. Anche se da ogni idea forse si può ricavare un concetto. Penso a Minnelli, che ha un’idea straordinaria riguardo il sogno. E molto semplice - la si può dire - ed è impegnata in un processo cinema­ tografico che è l’opera di Minnelli. La grande idea di Minnelli rispetto al sogno è che esso riguarda innanzitutto coloro che non sognano. Il sogno di coloro che sognano riguarda coloro che non so­ gnano. E perché li riguarda? Perché nel momento in cui c’è sogno dell’altro, c’è pericolo. Il sogno delfepersone è sempre un sogno di­ vorante che rischia di inghiottirci. E molto pericoloso che gli altri sognino. Il sogno è una terribile volontà di potenza. Ognuno di noi è più o meno vittima dei sogni altrui. Anche la ragazzina più graziosa è una terribile divoratrice, non a causa della sua anima, ma dei suoi sogni. Diffidate del sogno dell’altro, perché se vi ca­ pita di essere presi nel sogno dell’altro siete spacciati. Un’idea cinematografica è, per esempio, la famosa dissociazio­ ne vedere-parlare in un cinema relativamente recente, sia che si tratti - prendo i casi più noti - di Syberberg, degli Straub o di Marguerite Duras. Che cosa c’è di comune e in che modo fare una disgiunzione tra il visivo e il sonoro è un’idea propriamente cine­ matografica ? Perché non si può fare lo stesso a teatro ? Lo si può anche fare, ma allora, se si fa a teatro - tranne eccezioni e se il tea­ tro trova i mezzi - si potrà dire che il teatro l’ha mutuato dal ci­ nema. Il che non è per forza un male, ma assicurare la disgiunzio­ ne tra vedere e parlare, tra visivo e sonoro è un’idea talmente ci­ nematografica che potrebbe rispondere alla questione di sapere che cos’è, per esempio, un’idea nel cinema. Una voce parla di qualcosa. Si parla di qualcosa. Allo stesso tempo ci viene fatta vedere un’altra cosa. E infine ciò che ci vie­ ne detto è sotto a ciò che ci viene fatto vedere. Questo terzo pun­ to è molto importante. Capite bene che il teatro non potrebbe fa­ re lo stesso. Il teatro potrebbe adottare le prime due proposizio­ ni: ci viene detta una cosa e ci viene fatta vedere un’altra cosa. Ma che ciò che ci viene detto si metta allo stesso tempo sotto a. ciò che ci viene fatto vedere - ed è necessario, altrimenti le prime due ope­ razioni non avrebbero alcun senso e non susciterebbero più inte­ resse - lo possiamo dire in un altro modo: la parola si alza nell’a­ ria, mentre la terra che vediamo sprofonda sempre più. O, piutto­

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sto, mentre questa parola si alza nell’aria, ciò di cui essa ci parla­ va sprofonda sotto terra. Che cos’è, allora, se può farlo soltanto il cinema ? Non dico che debba farlo, ma che il cinema l’abbia fatto due o tre volte, e pos­ so semplicemente dire che sono stati dei grandi cineasti ad avere questa idea. Ecco un’idea cinematografica. E straordinario perché assicura a livello cinematografico una vera e propria trasformazio­ ne degli elementi, un ciclo che all’improvviso fa si che il cinema entri in risonanza con una fisica qualitativa degli elementi. Que­ sto produce una specie di trasformazione, una grande circolazio­ ne degli elementi nel cinema a partire dall’aria, la terra, l’acqua e il fuoco. Tutto ciò che sto dicendo non abolisce una storia. La sto­ ria continua a esserci, ma ci colpisce che la storia risulti cosi inte­ ressante proprio perché c’è tutto questo dietro e insieme a essa. In questo ciclo che ho appena definito rapidamente - la voce si alza mentre ciò di cui essa parla si infossa sotto terra - avrete ricono­ sciuto la maggior parte dei film degli Straub, il grande ciclo degli elementi negli Straub. Si vede soltanto la terra deserta, ma questa terra deserta è come appesantita da quel che c’è sotto. Mi direte: ma cosa ne sappiamo di quel che c’è sotto ? E proprio ciò di cui la voce ci parla. Come se la terra si piegasse a causa di quel che la vo­ ce ci dice, di ciò che si colloca sotto terra al momento e nel punto appropriato. E se la voce ci parla di cadaveri, di tutta la stirpe di cadaveri che prendono posto sotto terra, in quel momento tutto - il più debole fremito di vento sulla terra deserta, nello spazio vuoto che avete davanti agli occhi, il più piccolo incavo in questa terra acquista un senso. Mi dico che avere un’idea in ogni caso non è dell’ordine della comunicazione. E a questo che vorrei arrivare. Tutto ciò di cui si parla è irriducibile a ogni comunicazione. Non è grave. Che cosa vuol dire ? In un primo senso, la comunicazione è la trasmissione e la propagazione di un’informazione. E un’informazione che co­ s’è ? Non è molto complicato, lo sanno tutti, un’informazione è un insieme di parole d’ordine. Quando venite informati, vi dicono ciò che si presume che voi dobbiate credere. In altri termini, infor­ mare vuol dire far circolare una parola d’ordine. Le dichiarazioni di polizia sono chiamate a giusto titolo comunicati. Ci vengono co­ municate delle informazioni, ci dicono ciò che si presume che pos­ siamo, dobbiamo o siamo tenuti a credere. Nemmeno a credere ma a fare come se credessimo. Non ci viene chiesto di credere ma di comportarci come se credessimo. E questa l’informazione, la co­

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municazione e, senza queste parole d’ordine e la loro trasmissio­ ne, non ci sarebbe informazione, né comunicazione. Il che equi­ vale a dire che l’informazione è proprio il sistema del controllo. E evidente e oggi ci riguarda particolarmente. E vero che stiamo entrando in una società che si può chiama­ re società di controllo. Un pensatore come Michel Foucault aveva analizzato due tipi di società molto vicine a noi. Le chiamava so­ cietà di sovranità e società disciplinari. II passaggio tipico da una società di sovranità a una società disciplinare lo faceva coincidere con Napoleone. La società disciplinare si definiva - le analisi di Foucault sono restate giustamente famose - attraverso la costitu­ zione di luoghi di internamento: prigioni, scuole, officine, ospe­ dali. Le società disciplinari ne avevano bisogno. Quest’analisi ha generato delle ambiguità in alcuni lettori di Foucault perché han­ no creduto che fosse il suo pensiero ultimo. Invece no. Foucault non ha mai creduto, e l’ha detto molto chiaramente, che queste società disciplinari fossero eterne. Anzi, pensava in effetti che stes­ simo entrando in un nuovo tipo di società. Per anni e anni, conti­ nuerà a esserci ogni tipo di resti delle società disciplinari, ma sap­ piamo già che siamo in un altro tipo di società che bisognerebbe chiamare, secondo il termine proposto da Burroughs - per il qua­ le Foucault aveva una grande ammirazione - società di controllo. Stiamo entrando in società di controllo che si definiscono in ma­ niera molto diversa dalle società disciplinari. Coloro che badano al nostro bene non hanno o non avranno più bisogno di luoghi di internamento. Le prigioni, le scuole, gli ospedali sono già oggetto di discussioni continue. Non è meglio dispensare le cure a domi­ cilio? Probabilmente è questo il futuro. Le officine, le fabbriche scricchiolano in ogni punto. Non sarebbero meglio i regimi in subappalto e il lavoro a domicilio? Non ci sono altri mezzi per punire la gente al posto della prigione ? Le società di controllo non passeranno più per i luoghi di internamento. Nemmeno per la scuola. Bisogna stare attenti ai temi che stanno nascendo, che si svilupperanno nei prossimi quaranta o cinquantanni e che ci spie­ gano quanto sarebbe straordinario mettere insieme scuola e pro­ fessione. Sarà interessante sapere come cambierà l’identità della scuola e della professione con la formazione permanente, che è il nostro avvenire e che non comporterà più necessariamente la con­ centrazione degli scolari in un luogo di internamento. Un control­ lo non è una disciplina. Con un’autostrada non si rinchiude nes­ suno ma costruendo autostrade si moltiplicano i mezzi di control­

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lo. Non dico che sia questo l’unico scopo dell’autostrada ma la gen­ te può girare all’infinito e «liberamente» senza essere affatto rin­ chiusa, pur essendo perfettamente controllata. E questo il nostro futuro. Poniamo che l’informazione sia questa, cioè il sistema control­ lato delle parole d’ordine diffuse in una data società. Che cosa può avere a che fare con questo l’opera d’arte? Non parliamo di ope­ re d’arte, ma diciamo almeno che esiste una controinformazione. Ci sono paesi sotto la dittatura in cui, in condizioni anche parti­ colarmente dure e crudeli, esiste una controinformazione. Ai tem­ pi di Hitler gli ebrei che arrivavano dalla Germania e che erano i primi a dirci che c’erano dei campi di sterminio facevano con­ troinformazione. Bisogna ammettere che la controinformazione non è mai stata sufficiente per riuscire a fare qualcosa. Hitler non è mai stato disturbatola alcuna controinformazione. Tranne in un caso. In che caso? E questo l’importante. L’unica risposta sa­ rebbe che la controinformazione diventa davvero efficace solo quando è - e lo è per natura - o diventa un atto di resistenza. L’at­ to di resistenza non è né informazione né controinformazione. La controinformazione è effettiva solo quando diventa un atto di re­ sistenza. Che rapporto c’è tra l’opera d’arte e la comunicazione? Nes­ suno. L’opera d’arte non è uno strumento di comunicazione. Non ha niente a che fare con la comunicazione. Non contiene in senso stretto la benché minima informazione. In compenso, c’è una fon­ damentale affinità tra l’opera d’arte e Fatto di resistenza. Questo si. Essa ha qualcosa a che fare con l’informazione e con la comu­ nicazione solo in quanto atto di resistenza. Qual è il rapporto mi­ sterioso tra un’opera d’arte e un atto di resistenza, quando gli uo­ mini che resistono non hanno né il tempo né talvolta la cultura ne­ cessari per avere anche il minimo rapporto con l’arte? Non lo so. Malraux sviluppa un bel concetto filosofico, dice una cosa molto semplice sull’arte, dice che è l’unicacosa.chere^tejLUa morte. Ri­ torniamo all’inizio: che cosa si fa quando si fa filosofia? Si inven­ tano concetti. Trovo che questa sia la base di un bel concetto fi­ losofico. Riflettete... che cosa resiste alla morte? Basta guardare una statuetta di tremila anni avanti Cristo per ritenere la risposta di Malraux una risposta piuttosto buona. Si potrebbe allora dire, meno bene, dal punto di vista qui considerato, che l’arte è ciò che resiste, anche se non è l’unica cosa a resistere. Da cui il rapporto cosi stretto tra l’atto di resistenza e l’opera d’arte. Non ogni atto

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di resistenza è un’opera d’arte, sebbene in un certo senso essa lo sia. Non ogni opera d’arte è un atto di resistenza e tuttavia, in un certo senso, lo è. Prendete il caso degli Straub, per esempio, quando operano questa disgiunzione tra voce sonora e immagine visiva, che avvie­ ne nel seguente modo: la voce si alza, si alza, si alza e ciò di cui es­ sa ci parla passa sotto la terra nuda, deserta, che l’immagine visi­ va ci stava mostrando, un’immagine visiva che non aveva alcun rapporto diretto con l’immagine sonora. Ora, qual è quell’atto che si alza nell’aria mentre il suo oggetto passa sotto terra? Resisten­ za. Atto di resistenza. E in tutta l’opera degli Straub, l’atto di pa­ rola è un atto di resistenza. Da Mosè e Aronne all’ultimo Kafka1 passando per - li cito in ordine sparso - Nicht versòhnt o Bach12. L’atto di parola di Bach è la sua musica, l’atto di resistenza, lotta attiva contro la ripartizione tra profano e sacro. Questo atto di re­ sistenza nella musica culmina in un grido. Cosi come c’è un grido nel Wozzeck, c’è un grido anche in Bach: «Fuori! Fuori! Andatevene, non voglio vedervi! » Quando gli Straub valorizzano questo grido, quello di Bach o quello della vecchia schizofrenica in Nicht versòhnt, tutto ciò deve rendere conto di un duplice aspetto. L’at­ to di resistenza ha due facce. E umano ed è anche l’atto dell’arte. Soltanto l’atto di resistenza resiste alla morte, sia sotto forma di opera d’arte, sia sotto forma di una lotta degli uomini. Che rapporto c’è tra la lotta degli uomini e l’opera d’arte? Il rapporto più stretto e secondo me più misterioso. Esattamente ciò che Paul Klee intendeva quando diceva: «Sapete, manca il popo­ lo». Il popolo manca e allo stesso tempo non manca. Il popolo man­ ca, il che vuol dire che questa affinità fondamentale tra l’opera d’arte e un popolo che non esiste non è ancora chiara e non lo sarà mai. Non c’è opera d’arte che non faccia appello a un popolo che non esiste ancora. 1 Cfr. Rapporti di classe (1984) [Ni/.T.]. 2 Cfr. Cronaca di Anna Magdalena Bach (1967) [NJ.T.].

46. Ciò che la voce apporta al testo... *

Che cosa si aspetta un testo, soprattutto quando è filosofico, dalla voce dell’attore ? Un testo filosofico può certamente presen­ tarsi in forma di dialogo: i concetti allora rinviano ai personaggi che li sostengono. Ma a un livello più profondo la filosofia è l’ar­ te di inventare i concetti stessi, di creare nuovi concetti di cui ab­ biamo bisogno per pensare il nostro mondo e la nostra vita. Da questo punto di vista, i concetti hanno velocità e lentezze, movi­ menti, dinamiche che si estendono o si contraggono attraverso il testo: non rinviano più a personaggi, ma sono personaggi essi stes­ si, personaggi ritmici. Si completano o si separano, si affrontano, si abbracciano come dei lottatori o degli amanti. E la voce dell’at­ tore che traccia questi ritmi, questi movimenti dello spirito nello spazio e nel tempo. L’attore è l’operatore del testo: egli opera una drammatizzazione del concetto, che è la più precisa, la più sobria e anche la più lineare. Quasi delle linee cinesi, delle linee vocali. La voce rivela che i concetti non sono astrazioni. Essi tagliano e ritagliano le cose che corrispondono loro in modi diversi, sem­ pre in un modo nuovo. Inoltre i concetti non sono separabili da una modalità di percepire le cose: un concetto ci impone di perce­ pire le cose in maniera diversa. Un concetto filosofico di spazio non sarebbe nulla se non ci fornisse una nuova percezione dello spazio. E, ancora, i concetti sono inseparabili da affezioni che ci fanno sentire in modo nuovo, tutto un «pathos», felicità e rabbia, che costituisce i sentimenti del pensiero come tale. E questa tri­ nità filosofica, concetto-percetto-affezione, ad animare il testo. Spetta alla voce dell’attore far sorgere le nuove percezioni e le nuo­ ve affezioni che circondano il concetto letto e detto. * In Theatre National Populaire: Alain Cuny «Lire», Théàtre National Populaire, no­ vembre 1987.

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Quando la voce dell’attore è quella di Alain Cuny... è forse il più bel contributo a un teatro di lettura. Sogniamo V Etica di Spinoza letta da Alain Cuny. La voce è co­ me trascinata da un vento che spinge le onde delle dimostrazioni. La potente lentezza del ritmo lascia il posto qui e là a precipitazio­ ni inaudite. Flutti, ma anche frecce infuocate. Emergono allora tutte le percezioni attraverso le quali Spinoza ci fa cogliere il mon­ do, e tutte le affezioni attraverso le quali cogliere l’anima. Un im­ menso ralenti capace di misurare tutte le velocità del pensare.

47Corrispondenza con Dionys Mascolo *

Parigi, 23 aprile 1988

Caro Dionys Mascolo, un profondo ringraziamento per avermi inviato Autour d’un effort de mémoire. L’ho letto e riletto. Da quando ho letto Le communìsme\ credo che lei sia uno degli autori che hanno rinnovato più intensamente i rapporti tra il pensiero e la vita. Lei riesce a de­ finire le situazioni-limite attraverso le loro conseguenze interiori. Tutto ciò che lei scrive mi sembra abbia la massima importanza, la massima esigenza, e una frase come questa: «un simile sconvol­ gimento della sensibilità generale non può fare a meno di condur­ re a nuove disposizioni di pensiero... »2, mi sembra contenere, nel­ la sua purezza, una sorta di segreto. Le rivelo la mia ammirazione e, se me lo concede, la mia amicizia. Gilles Deleuze

30 aprile 1988

Caro Gilles Deleuze, la sua lettera mi è stata recapitata ieri. Al di là dell’elogio contenuto in essa, che non oso credere me­ ritato, e senza trattenermi dal ringraziarla per la generosità che mi dimostra, sento il bisogno di dirle quanto mi abbiano toccato le sue parole. Momento davvero felice, e allo stesso tempo lieta sor­ presa, nel vedersi non soltanto approvato, preso in parola, ma in * Correspondance D.Mascolo-G. Deleuze, in «Lignes», marzo 1998, n. 33, pp. 222-26. Questo breve scambio di lettere avviene in seguito alla pubblicazione del libro di Dionys Mascolo (1916-97), Autour d’un effort de mémoire, Maurice Nadeau, Paris 1987. Il libro si apre con una lettera di Robert Anteime indirizzata a Mascolo: fu il primo testo che Anteime ebbe la forza di scrivere dopo il suo ritorno dai campi nazisti.

1 D. Mascolo, Le communisme, Gallimard, Paris 1953 [NJ.C.]. 2 Id., Autour d’un effort de mémoire cit., p. 20 [N.J.C.].

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qualche modo indovinato, o appunto sorpreso. Mi riferisco a una frase che lei cita (in cui si parlava di «sconvolgimento della sensi­ bilità generale»), e che conterrebbe, secondo lei, un segreto. Il che (beninteso!) mi ha spinto subito a chiedermi: che segreto potreb­ be mai essere? E le voglio dire in poche parole l’abbozzo di rispo­ sta che mi è venuto. Mi sembra che questo apparente segreto, al suo fondo (ma c’è sempre un rischio quando si vuole uscire dalla penombra), forse non sia altro che il segreto di un pensiero che diffida del pensie­ ro. Il che non accade senza smarrimento. Segreto dunque - se que­ sto smarrimento non cerca rifugio nell’atteggiamento della vergo­ gna o nell’affettazione deH’umorismo, appena si fa sentire - sem­ pre giustificabile in linea di principio; segreto senza segreto, o in ogni caso senza volontà di essere segreto. E infine tale che, se si riconosce (e si indovina di nuovo in un altro), è sufficiente a fon­ dare ogni amicizia possibile. Ipotesi non riduttiva, spero, in rispo­ sta a ciò che ho percepito essere in questione. La saluto con amicizia di pensiero e immensa gratitudine. Dionys

6 agosto 1988

Caro Dionys Mascolo, alcuni mesi fa le ho scritto perché ammiravo Autourd’un effort de mémoire e avevo la sensazione che contenesse un «segreto» co­ me raramente un testo rivela. Lei mi ha risposto con molta genti­ lezza e attenzione: se vi è segreto, è il segreto di un pensiero che diffida del pensiero, quindi uno «smarrimento» che, se si ricono­ sce in un altro, costituisce l’amicizia. Ed ecco che le scrivo di nuo­ vo, non per importunarla o per sollecitare un’ulteriore risposta, ma piuttosto [per continuare]3 come in sordina una conversazione latente che le lettere non interrompono, o piuttosto come un mo­ nologo interiore intorno a questo libro a cui non riesco a smette­ re di pensare. Si potrebbe invertire l’ordine? Per lei verrebbe pri­ ma l’amicizia. Evidentemente l’amicizia non sarebbe una circo­ stanza esterna più o meno propizia, ma pur restando estremamente concreta sarebbe una condizione interna al pensiero in quanto ta­ le. Non perché con l’amico si parli, si ricordi insieme ecc., ma al con1 Testo mancante [NJ.C.].

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trario perché è con lui che si attraversano prove come l’amnesia, l’a­ fasia, necessarie a ogni pensiero. Non sono più sicuro di chi sia il poeta tedesco che parla del momento in cui, tra cane e lupo, biso­ gna diffidare «anche dell’amico»4. Si arriverebbe fino a qui, fino al­ la diffidenza verso l’amico, ed è questo che attraverso l’amicizia met­ terebbe lo «smarrimento» dentro il pensiero in maniera essenziale. Mi dico che, negli autori che ammiro, ci sono tante maniere di introdurre categorie e situazioni concrete come condizioni del pu­ ro pensiero. In Kierkegaard è la fidanzata, i fidanzamenti; in Klos­ sowski (e forse in maniera diversa anche in Sartre) è la coppia; in Proust è l’amore geloso, perché è costitutivo del pensiero e legato al segno. Per lei, e anche per Blanchot, è l’amicizia. Questo impli­ ca una rivalutazione completa della «filosofia», perché siete gli unici a riprendere alla lettera la parola philos. Ma non perché lei ritorni a Platone. Già il senso platonico era estremamente com­ plesso, e non è mai stato chiarito, ma si indovina facilmente che il senso che gli dà lei è completamente diverso. Il philos forse si è spostato da Atene a Gerusalemme, ma si è anche arricchito con la Resistenza, con la rete partigiana, che sono affezioni del pensiero non meno che situazioni storiche e politiche. In «filosofia» ci sa­ rebbe una straordinaria storia del philos, di cui lei fa già parte o di cui lei è, attraverso ogni sorta di biforcazioni, la figura moderna. E ciò che sta al cuore della filosofia, ne è il presupposto concreto (in cui si legano una storia personale e un pensiero singolare). Ec­ co tutti i motivi che mi spingono a ritornare al suo testo e a dichia­ rarle nuovamente la mia ammirazione, con la speranza di non im­ portunarla nella ricerca che sta svolgendo. Mi pensi profondamen­ te suo e perdoni questa lettera cosi lunga. Gilles Deleuze

Paris, 28 settembre 1988

Caro Gilles Deleuze,

ho trovato la sua lettera e il suo libro al mio ritorno. Grazie. La sua attenzione mi tocca profondamente. Malgrado tutta la 4 Si tratta probabilmente della poesia di Eichendorff, ripresa nel Lied di Schumann Zwielicht (op. 39): «Se hai un amico quaggiù, diffida oggi di lui, seppure è gentile di paro­ la e di sguardo, sogna di guerra in una subdola pace», che Deleuze e Guattari citano in Mil­ le plateaux, Minuit, Paris 1980, capitolo 11, p. 420; trad. it. Mille piani, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003, pp. 491-92, nota 41 [Nz/.CJ.

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fiducia che ho nel suo giudizio, le confesso, ma senza alcuna lezio­ sità, che ciò mi rende anche molto confuso. Forse una vergogna un po’ falsa mi avrebbe trattenuto dal risponderle se lei non mi avesse liberato un po’ - parlando lei stesso di monologo. Quel che cercavo di dire, in reazione alla sua prima lettera (so­ no le sue osservazioni che hanno condotto a questa situazione), è che, se in un pensiero vi è diffidenza nei confronti del pensiero stesso, un inizio di fiducia (ma sarebbe troppo, diciamo almeno la tentazione di abbassare la guardia) diventa possibile solo nella con­ divisione di pensiero. Inoltre bisogna che questa condivisione di pensiero si dichiari sullo sfondo della diffidenza stessa, o di uno «smarrimento» analogo per costituire l’amicizia. (Infatti, che im­ porta trovarsi puntualmente «d’accordo» con un altro se egli ha una tale sicurezza intellettuale da restare a infinite distanze di sen­ sibilità? come gli accordi cosi facilmente ottenuti, cosi nulli, nei dialoghi in cui soltanto Socrate amministra il vero). Lei suggerisce di invertire la proposizione e mettere per prima l’amicizia. Sarebbe l’amicizia a introdurre lo «smarrimento» nel pensiero. In ragione di un’ulteriore diffidenza, ma questa volta nei confronti dell’amico. Però allora da dove verrebbe l’amicizia stes­ sa? Questo per me è un mistero. E non riesco a concepire quale diffidenza (il disaccordo occasionale si, certamente, al contrario - tuttavia in un senso completamente diverso, allora, che esclude il malefico) sarebbe possibile verso l’amico, una volta che sia sta­ to ricevuto in amicizia. Mi è capitato di chiamarlo comuniSmo di pensiero. E di porlo sotto il segno di Holderlin, che forse è fuggito via dal pensiero sol­ tanto per non essere riuscito a viverlo: «La vita dello spirito tra amici, il pensiero che si forma nello scambio di parola, scritto o a viva voce, sono necessari a coloro che cercano. Al di fuori di que­ sto, noi siamo per noi stessi fuori dal pensiero». (Questa traduzio­ ne, tengo a dirglielo, è di Blanchot ed è stata pubblicata anonima in «Comité» nell’ottobre 1968). A lei, in tutta e riconoscente amicizia. E perdoni quanto c’è di elementare in questa risposta. Dionys Mascolo In fondo avrei dovuto limitarmi a dirle: e se l’amicizia fosse proprio la possibilità della condivisione di pensiero, a partire da e fino ad arrivare a una comune diffidenza nei riguardi del pensie­ ro ? E se il pensiero che diffida di se stesso fosse la ricerca di que­

Corrispondenza con Dionys Mascolo

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sta condivisione di pensiero tra amici ? Ciò che è già felice tende probabilmente a un’altra cosa ancora, appena nominabile. Se si osasse enunciarla, sarebbe la volontà oscura, il bisogno di avvici­ narsi a un’innocenza del pensiero. Insomma, di perseguire questa «cancellazione delle tracce del peccato originale», il solo progres­ so possibile secondo Baudelaire. Lo dico un po’ ridendo, ma le sue domande mi spingono a con­ fessare simili pensieri abbozzati - allo stesso modo in cui a volte ci capita di riprendere degli atti compiuti nel sogno. Mi scusi.

6 ottobre 1988

Caro Dionys Mascolo,

grazie per la sua lettera cosi preziosa. La mia domanda era que­ sta: come può l’amico, senza perdere nulla della propria singola­ rità, inscriversi come condizione del pensiero ? La sua risposta è molto bella. E ne va di ciò che si chiama e si vive come filosofia. Porre nuove domande significherebbe soltanto rallentarla, quan­ do mi ha appena dato cosi tanto. Ha la mia riconoscenza e amicizia. Gilles Deleuze

48. Le pietre *

Il debito infinito che l’Europa aveva nei confronti degli ebrei non ha nemmeno iniziato a pagarlo, in compenso l’ha fatto paga­ re a un popolo innocente, i palestinesi. Lo stato di Israele è stato costruito dai sionisti con il recente passato del loro supplizio, l’incancellabile orrore europeo - ma an­ che sulla sofferenza di quest’altro popolo, con le pietre di quest’altro popolo. L’Irgun1 fu dichiarato terrorista non soltanto perché ha fatto saltare in aria il quartier generale inglese, ma perché di­ struggeva villaggi, annientava [popolazioni]2. Gli americani ne hanno fatto una superproduzione di Holly­ wood, senza badare a spese. Si riteneva che lo stato di Israele si fosse installato su una terra vuota che attendeva da tanto tempo l’antico popolo ebraico, con qualche fantasma di arabo venuto da altrove, guardiano di pietre addormentate. I palestinesi venivano sospinti nell’oblio. Si intimava loro di riconoscere lo stato d’Israe­ le di diritto, ma gli israeliani continuavano a negare il fatto con­ creto di un popolo palestinese. Ha sostenuto da solo, fin dall’inizio, una guerra che non è fi­ nita per difendere la propria terra, le proprie pietre, la propria vi­ ta: di questa prima guerra non si parla, dal momento che bisogna far credere che i palestinesi siano arabi venuti da altrove e quindi possano ritornarvi. Chi scioglierà tutte queste Giordanie ? Chi dirà che tra un palestinese e un altro arabo U legame potrà anche esse­ re forte, ma non più di quello esistente tra due paesi europei ? E che palestinese può dimenticare ciò che gli altri arabi gli hanno fat* Il testo manoscritto è datato giugno 1988. Fu pubblicato in arabo nella rivista «AlKarmel», 1988, n. 29, pp. 27-28, con il titolo Da dove possono ancora vederla. Deleuze ha scritto questo testo, su richiesta dei direttori della rivista, poco dopo l’inizio della prima Intifada nel dicembre 1987.

1 Vedi la nota 2 del testo n. 34 [Nz/.C.]. 2 Testo mancante [NJ.CJ.

Le pietre

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to subire, in aggiunta agli israeliani? Qual è l’intreccio di questo nuovo debito ? Scacciati dalla loro terra, i palestinesi si sono inse­ diati dove potevano almeno vederla ancora, conservarne la vista come un ultimo contatto con il loro essere allucinato. Gli israelia­ ni non potrebbero mai risospingerli abbastanza lontano, farli sprofondare nella notte, nell’oblio. Distruzione dei villaggi, demolizione di case, espulsioni, assas­ sini di persone, una storia orribile ricominciava sulle spalle di nuo­ vi innocenti. I servizi segreti israeliani riscuotono l’ammirazione del mondo, si dice. Ma che democrazia è quella la cui politica si confonde cosi bene con l’azione dei suoi servizi segreti? Si chia­ mano tutti Abu, dichiara un ufficiale israeliano dopo l’assassinio di Abu Jihad3. Chissà se si ricorda quanto fosse spaventosa la vo­ ce di coloro che dicevano: tutti quelli che si chiamano Levi... ? In che modo Israele riuscirà a venire a capo e dei territori an­ nessi, e dei territori occupati, e dei suoi coloni e delle sue colonie, e dei suoi folli rabbini ? Occupazione, occupazione infinita: le pie­ tre lanciate vengono dall’interno, vengono dal popolo palestinese per ricordare che, per quanto piccolo sia il luogo del mondo, il de­ bito si è rovesciato. Quelle che i palestinesi lanciano sono le loro stesse pietre, le pietre vive del loro paese. Nessuno può pagare un debito con degli omicidi, uno, due, tre, sette, dieci al giorno, né mettendosi d’accordo con dei soggetti terzi. I terzi si sottraggono, ogni morto chiama i vivi, e i palestinesi sono passati nell’anima di Israele, lavorano quest’anima come ciò che ogni giorno la sonda e la lacera. * Molto vicino ad Arafat, Abu Jihad era uno dei fondatori di al-Fatah, uno dei prin­ cipali collaboratori dell’Olp e uno dei capi storici della resistenza palestinese. Svolse un ruolo importante come dirigente politico durante l’Intifada. Fu assassinato a Tunisi da un commando israeliano il 16 aprile 1988 [NJ.C.].

49Postfazione all’edizione americana: Un ritomo a Bergson *

Un «ritorno a Bergson» non significa solo una rinnovata am­ mirazione per un grande filosofo ma una ripresa o una prosecuzio­ ne del suo progetto oggi, in rapporto alle trasformazioni della vi­ ta e della società, e in parallelo con le trasformazioni della scien­ za. Bergson stesso comprese che aveva fatto della metafisica una disciplina rigorosa, che può essere continuata lungo nuovi sentieri che si manifestano costantemente nel mondo. Ci sembra che il ri­ torno a Bergson, inteso in questo modo, si appoggi su tre assunti principali. i. L’intuizione-. Bergson concepisce l’intuizione non come un richiamo ineffabile, il prendere parte a un sentimento o a un’iden­ tificazione vissuta, ma come un vero e proprio metodo. Questo metodo si propone in primo luogo di determinare le condizioni dei problemi, cioè di denunciare i falsi problemi o le questioni mal po­ ste, e di scoprire le variabili secondo cui un certo problema deve essere enunciato come tale. I mezzi usati dall’intuizione sono, da una parte, un ritaglio o una suddivisione della realtà in un dato ambito, secondo linee di natura diversa e, dall’altra, un’interse­ zione di linee prese da vari ambiti, e che convergono. Questa com­ plessa operazione lineare, che consiste nel tagliare secondo le ar­ ticolazioni e nell’intersecare secondo le convergenze, porta alla corretta posizione di un problema, in modo che la soluzione stes­ sa dipenda da essa. * Titolo del curatore. Questo testo è stato pubblicato con il titolo A return to Bergson, in G. Deleuze, Bergsonism, trad, inglese di H. Tomlinson, Zone Books, New York 1991, pp. 115-118; trad. it. di D. Borea, Un ritorno a Bergson, in // bergsonismo e altri saggi, Ei­ naudi, Torino 2001, pp. 160-63. Il testo dattilografato, datato luglio 1988, è intitolato Postfazione per «Il bergsonismo».

Postfazione all’edizione americana: Un ritorno a Bergson

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2. La scienza e la metafisica', Bergson non si è limitato a criti­ care la scienza semplicemente perché non andava oltre lo spazio, il solido, l’immobile. Pensava piuttosto che l’Assoluto avesse due «metà», alle quali corrispondevano la scienza e la metafisica. Con uno stesso slancio il pensiero si divide in due direzioni, una verso la materia, i corpi e i movimenti, l’altra verso lo spirito, le qualità e i cambiamenti. Cosi, fin dall’antichità, se la fisica metteva in cor­ relazione il movimento con posizioni e momenti privilegiati, la me­ tafisica ha costituito forme trascendenti eterne da cui queste po­ sizioni derivavano. La cosiddetta scienza moderna, invece, inizia quando il movimento è correlato a «un istante qualunque»: essa esige una nuova metafisica che prenda in considerazione soltanto durate immanenti e costantemente variabili. Per Bergson, la du­ rata diventa il correlato metafisico della scienza moderna. Sappia­ mo che nel suo libro Durata e simultaneità Bergson si confrontava con la relatività di Einstein. Questo libro ha causato tanti frain­ tendimenti perché si pensava che Bergson volesse confutare o cor­ reggere Einstein, mentre ciò che effettivamente voleva era dare alla teoria della relatività la metafisica di cui mancava, attraverso la nuova concezione della durata. E in quel capolavoro che è Ma­ teria e memoria, Bergson delinea i requisiti di una nuova metafisi­ ca della memoria a partire da una concezione scientifica del cer­ vello a cui lui stesso diede un importante contributo. Per Bergson, la scienza non è mai «riduzionista», ma al contrario richiede la me­ tafisica, senza cui rimarrebbe astratta, privata di significato o di intuizione. Continuare il progetto di Bergson oggi vuol dire, per esempio, costituire un’immagine metafisica del pensiero che cor­ risponda alle nuove tracce, varchi, salti, dinamismi scoperti dalla biologia molecolare del cervello: nuove concatenazioni e riconca­ tenazioni nel pensiero. 3. Le molteplicità', dal Saggio sui dati immediati della coscienza in poi, Bergson definisce la durata come una molteplicità, un tipo di molteplicità. Questa è una strana parola, perché fa del molte­ plice non più un aggettivo ma un vero e proprio sostantivo: cosi Bergson denuncia il tradizionale tema dell’uno e del molteplice co­ me un falso problema. L’origine della parola, Molteplicità o Va­ rietà, è fisico-matematica (deriva da Riemann). E difficile credere che Bergson ignorasse sia l’origine scientifica di questo termine sia la novità del suo uso metafisico. Bergson va verso una distinzione

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fra due grandi tipi di molteplicità: alcune discrete o discontinue, altre continue, alcune spaziali e altre temporali, alcune attuali, al­ tre virtuali. Questo è un tema fondamentale nel confronto con Einstein. Ancora una volta Bergson intende dare alle molteplicità la metafisica che il loro approccio scientifico esige. Qui sta forse uno degli aspetti meno apprezzati del suo pensiero, la costituzio­ ne di una logica delle molteplicità. Per riscoprire Bergson bisogna seguire e continuare il suo mo­ do di procedere in queste tre direzioni. C’è da notare che questi tre temi si trovano anche nella fenomenologia - l’intuizione come metodo, la filosofia comevscienza rigorosa e la nuova logica come teoria delle molteplicità. E vero che queste nozioni sono concepi­ te in modi molto diversi nei due casi. C’è comunque una possibi­ le convergenza, come si può vedere in psichiatria dove il bergsonismo ha ispirato i lavori di Minkowski (Il tempo vissuto)1 e la fe­ nomenologia quelli di Binswanger (Il caso di Suzanne Urban)12*, nell’esplorazione degli spazi-tempi nelle psicosi. Il bergsonismo rende possibile un’intera patologia della durata. In un esemplare articolo sulla «paramnesia» (falso riconoscimento), Bergson invo­ ca la metafisica per mostrare come il ricordo non si costituisca do­ po la percezione presente, ma sia strettamente contemporaneo a essa, perché in ogni istante la durata si divide in due tendenze si­ multanee, di cui una va verso il futuro e l’altra ricade nel passato5. Bergson invoca anche la psicologia, per far vedere come un adat­ tamento mancato può far si che il ricordo investa il presente in quanto tale. In Bergson, l’ipotesi scientifica e la tesi metafisica si combinano costantemente per ricostituire un’esperienza integrale.

1 E. Minkowski, Le temps ve'cu, Delachaux & Niestlé, Neuchatel 1968 (ried. PUF, Pa­ ris 1995); trad. it. Il tempo vissuto, Einaudi, Torino 1968 [NJ.C.]. 2 L. Binswanger, Schizophrenic, Neske, Pfullingen 1957; trad. it. Il caso di Suzanne Ur­ ban. Storia di una schizofrenia, Marsilio, Venezia 1994 [Nz/.C.]. ’ In H. Bergson, L’energiespirituelle, PUF, Paris, pp. 110-52; trad. it. L'energia spiri­ tuale, Raffaello Cortina, Milano 2008, pp. 83-114 [Nz/.C.].

50. Che cos’è un dispositivo? *

La filosofia di Foucault si presenta spesso come un’analisi dei «dispositivi» concreti. Ma che cos’è un dispositivo ? E innanzitut­ to un groviglio, un insieme multilineare. E composto da linee di na­ tura diversa. E queste linee nel dispositivo non racchiudono né cir­ condano dei sistemi, ognuno dei quali omogeneo al suo interno, l’oggetto, il soggetto, il linguaggio ecc., ma seguono delle direzio­ ni, tracciano dei processi sempre in squilibrio, e a volte si avvici­ nano, a volte si allontanano le une dalle altre. Ogni linea è spez­ zata, sottoposta a variazioni di direzione, biforcante e biforcuta, sottoposta a derivazioni. Gli oggetti visibili, gli enunciati formulabili, le forze in atto, i soggetti in posizione sono come vettori o tensori. Cosi le tre grandi istanze che Foucault distinguerà succes­ sivamente, Sapere, Potere e Soggettività, non hanno affatto con­ torni definitivi, ma sono catene di variabili che si staccano le une dalle altre. E sempre in una crisi che Foucault scopre una nuova dimensione, una nuova linea. I grandi pensatori sono un po’ sismi­ ci, non evolvono, ma procedono per crisi, per scosse. Pensare in termini di linee mobili è quel che ha fatto Herman Melville, e c’e­ rano linee di pesca, linee di immersione, pericolose, perfino mor­ tali. Ci sono linee di sedimentazione, dice Foucault, ma anche li­ nee di «fenditura», di «frattura». Districare le linee di un dispo­ sitivo vuol dire ogni volta tracciare una mappa, cartografare, misurare terre sconosciute, ed è ciò che Foucault chiama «lavoro sul campo». Bisogna piazzarsi sulle linee stesse, che non si limita* In AA. VVMichel Foucault philosophe. Rencontre Internationale, Paris, 9, io, 11 janvier 1988, Seuil, Paris 1989, pp. 185-95;trac^- it- di Andrea Grillo, in A. Grillo (a cura di), A partire da Foucault. Studi su potere e soggettività, La Zisa, Palermo 1994. Una versio­ ne parziale di questo testo era apparsa inizialmente in «Le Magazine Littéraire», settem­ bre 1988, n. 257, pp. 51-52. La partecipazione di Deleuze, in pensione dal 1987, a questo convegno è stato il suo ultimo intervento pubblico. Il resoconto della discussione - di cui nel libro si dà solo un riassunto - non è stato conservato.

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no a comporre un dispositivo, ma lo attraversano e lo trascinano da nord a sud, da est a ovest o in diagonale. Le prime due dimensioni di un dispositivo, o quelle che Fou­ cault fa emergere per prime, sono curve di visibilità e curve di enunciazione. I dispositivi sono simili alle macchine di Raymond Roussel, come Foucault le analizza, sono macchine per far vedere e per far parlare. La visibilità non rinvia a una luce in generale che illuminerebbe oggetti preesistenti, è fatta di linee di luce che for­ mano figure variabili e inseparabili da questo o da quel dispositi­ vo. Ogni dispositivo ha un suo regime di luce, il modo in cui essa cade, si smorza e si diffonde, distribuendo il visibile e Finvisibile, facendo nascere o scomparire l’oggetto che senza di lei non esiste. Ciò non riguarda solo la pittura, ma anche l’architettura: per esem­ pio il «dispositivo prigione» come macchina ottica, per vedere sen­ za essere visti. Se c’è una storicità dei dispositivi, è quella dei re­ gimi di luce, ma anche quella dei regimi di enunciato. Infatti gli enunciati rinviano a loro volta a linee di enunciazione sulle quali si distribuiscono le posizioni differenziali dei loro elementi; e se le curve stesse sono enunciati è perché le enunciazioni sono curve che distribuiscono variabili, per cui in un dato momento una scien­ za, un genere letterario, uno stato di diritto o un movimento so­ ciale si definiscono proprio attraverso i regimi di enunciati che fan­ no nascere. Non sono né soggetti né oggetti, ma regimi che bisogna definire per il visibile e per l’enunciabile, con le loro derivazioni, trasformazioni, mutazioni. E in ogni dispositivo le linee oltrepas­ sano delle soglie, in funzione delle quali esse sono estetiche, scien­ tifiche, politiche ecc. In terzo luogo, un dispositivo comporta linee di forze. Si di­ rebbe che esse vadano da un singolo punto a un altro delle linee precedenti; in un certo senso «rettificano» le curve precedenti, tracciano tangenti, circondano le traiettorie da una linea all’altra, compiono degli andirivieni dal vedere al dire e viceversa, agendo come frecce che intrecciano continuamente le cose e le parole e ne guidano la lotta. La linea di forze si produce «in ogni relazione da un punto a un altro», e passa per tutti i luoghi di un dispositivo. Invisibile e indicibile, è strettamente intrecciata alle altre e tutta­ via districabile. E questa linea che Foucault traccia, e di cui ritro­ va la traiettoria anche in Roussel, in Brisset, in pittori come Ma­ gritte o Rebeyrolle. E la «dimensione del potere» e il potere è la terza dimensione dello spazio, interna al dispositivo, variabile con i dispositivi. Come il potere, essa si compone con il sapere.

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Infine Foucault scopre le linee di soggettivazione. Questa nuo­ va dimensione ha già suscitato tanti malintesi che è difficile pre­ cisarne le condizioni. Più di ogni altra, la sua scoperta nasce da una crisi nel pensiero di Foucault, come se avesse avuto bisogno di rielaborare la mappa dei dispositivi, trovare loro un nuovo orien­ tamento possibile, per non lasciare semplicemente che si richiu­ dessero su linee di forze invalicabili, imponendo contorni defini­ tivi. Leibniz esprimeva in modo esemplare questo stato di crisi che rilancia il pensiero quando si crede che tutto sia quasi risolto: ci si credeva in porto, ma si è respinti in mare aperto. E Foucault da parte sua avverte come i dispositivi che analizza non possano es­ sere circoscritti da una linea inglobante senza che altri vettori pas­ sino al di sotto o al di sopra: «oltrepassare la linea», dice Foucault, come «passare dall’altra parte»1? Questo superamento della linea di forze è ciò che si produce quando essa si incurva, forma dei mean­ dri, sprofonda e diventa sotterranea, o piuttosto quando la forza, anziché entrare in rapporto lineare con un’altra forza, ritorna su di sé, agisce su se stessa o determina un’affezione su se stessa. Que­ sta dimensione del Sé non è affatto una determinazione preesisten­ te che si troverebbe bell’e fatta. Anche qui una linea di soggettiva­ zione è un processo, una produzione di soggettività dentro un di­ spositivo: essa deve prodursi, nella misura in cui il dispositivo lo permetta o lo renda possibile. E una linea di fuga. Sfugge alle linee precedenti, se ne fugge. Il Sé non è né un sapere né un potere. E un processo di individuazione che riguarda gruppi o persone, e si sot­ trae ai rapporti di forze stabiliti cosi come ai saperi costituiti: una sorta di plusvalore. Non è detto che sia presente in ogni dispositivo. Foucault caratterizza il dispositivo della città ateniese come il primo luogo di invenzione di una soggettivazione: infatti, secon­ do la definizione originale che egli ne dà, la città inventa una li­ nea di forze che passa per la rivalità degli uomini liberi. Ora, da questa linea lungo la quale un uomo libero può comandare sugli al­ tri, se ne distacca una molto diversa, secondo la quale colui che co­ manda sugli uomini liberi deve essere a sua volta padrone di sé. Sono queste regole facoltative della padronanza di sé che costitui­ scono una soggettivazione, autonoma, anche se in seguito è chia­ mata a fornire nuovi saperi e a ispirare nuovi poteri. Ci si chiederà * M. Foucault, La vie des hommes infdmes, in Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, voi. Ili, p. 241; trad. it. La vita degli uomini infami, in Archivio Foucault 2. 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, Feltrinelli, Milano 1997, p. 249 [NJ.C.].

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se le linee di soggettivazione non siano il bordo estremo di un di­ spositivo, e se non traccino il passaggio da un dispositivo all’altro: in questo senso esse preparerebbero le «linee di frattura». E, co­ si come le altre linee, le linee di soggettivazione non hanno una formula generale. Brutalmente interrotta, la ricerca di Foucault doveva mostrare che i processi di soggettivazione potevano assu­ mere eventualmente modalità del tutto diverse rispetto a quella greca, per esempio nei dispositivi cristiani, nelle società moderne ecc. Non si possono forse evocare dei dispositivi in cui la sogget­ tivazione non passa più per la vita aristocratica o per resistenza estetizzata dell’uomo libero, ma per l’esistenza marginalizzata dell’«escluso» ? Cosi il sinologo Ferenc Tokei spiega come lo schia­ vo liberato perdesse in qualche modo il suo statuto sociale, e si tro­ vasse a essere sospinto verso una soggettività abbandonata, lamen­ tosa, esistenza elegiaca, dalla quale avrebbe tratto nuove forme di potere e di sapere. Lo studio delle variazioni dei processi di sog­ gettivazione sembra costituire proprio uno dei compiti fondamen­ tali che Foucault ha lasciato a coloro che lo seguiranno. Crediamo all’estrema fecondità di questa ricerca, che gli attuali lavori con­ cernenti una storia della vita privata intersecano solo parzialmen­ te. Coloro che (si) soggettivano sono talvolta i nobili, quelli che secondo Nietzsche dicono «noi buoni...», ma in altre condizioni sono gli esclusi, i malvagi, i peccatori, oppure gli eremiti, le comu­ nità monastiche o anche gli eretici: tutta una tipologia di forma­ zioni soggettive all’interno di dispositivi mobili. E ovunque intrec­ ci da sciogliere: produzioni di soggettività sfuggono ai poteri e ai saperi di un dispositivo per reinvestirsi in quelli di un altro, sotto altre forme che devono ancora nascere. I dispositivi hanno dunque come componenti linee di visibi­ lità, di enunciazione, linee di forze, linee di soggettivazione, linee di incrinatura, di fessurazione, di frattura, che si incrociano e si intrecciano tra loro, e di cui le une ricostituiscono le altre o ne ori­ ginano altre, attraverso variazioni oppure mutazioni di concatena­ menti. Ne derivano due conseguenze importanti per una filosofia dei dispositivi. La prima è il ripudio degli universali. L’universa­ le infatti non spiega niente, è lui che deve essere spiegato. Tutte le linee sono linee di variazione, che non hanno neppure coordinate costanti. L’Uno, il Tutto, il Vero, l’oggetto, il soggetto non sono degli universali, ma singoli processi, di unificazione, di totalizza­ zione, di verifica, di oggettivazione, di soggettivazione, immanen­ ti a un certo dispositivo. Allo stesso modo ogni dispositivo è una

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molteplicità, nella quale agiscono processi in divenire, distinti da quelli che agiscono in un altro. E in questo senso che la filosofia di Foucault è un pragmatismo, un funzionalismo, un positivismo, un pluralismo. Forse è la Ragione a porre il maggiore problema, perché processi di razionalizzazione possono agire su segmenti o regioni di tutte le linee considerate. Foucault fa omaggio a Nietz­ sche di una storicità della ragione; e sottolinea tutta l’importanza di una ricerca epistemologica sulle diverse forme di razionalità nel sapere (Koyré, Bachelard, Canguilhem), di una ricerca socio-poli­ tica dei modi di razionalità nel potere (Max Weber). Forse riser­ va per sé la terza linea, lo studio dei tipi del «ragionevole» in even­ tuali soggetti. Ma ciò che essenzialmente rifiuta è l’identificazio­ ne di questi processi con una Ragione per eccellenza. Ricusa ogni restaurazione degli universali di riflessione, di comunicazione, di consenso. A questo proposito si può dire che i suoi rapporti con la scuola di Francoforte e con i successori di questa scuola siano una lunga serie di malintesi di cui non è responsabile. E cosi come non c’è universalità di un soggetto fondatore o di una Ragione per ec­ cellenza che permetterebbe di giudicare i dispositivi, non vi sono nemmeno universali della catastrofe dove la ragione si alienereb­ be e sprofonderebbe una volta per tutte. Come Foucault dice a Gérard Raulet, non c’è una biforcazione della ragione, perché es­ sa non cessa di biforcarsi, vi sono altrettante biforcazioni e dira­ mazioni che instaurazioni, altrettanti crolli che costruzioni, a se­ conda dei tagli effettuati dai dispositivi, e «non ha alcun senso l’af­ fermazione secondo cui la ragione sarebbe una lunga narrazione giunta oggi al termine»2. Da questo punto di vista la questione che si obietta a Foucault, cioè sapere come si possa stimare il valore relativo di un dispositivo se non si può fare ricorso a valori tra­ scendenti in quanto coordinate universali, rischia di riportarci in­ dietro e mancare essa stessa di senso. Si dirà che tutti i dispositi­ vi si equivalgono (nichilismo) ? Già molto tempo fa pensatori co­ me Spinoza o Nietzsche hanno mostrato come i modi di esistenza dovessero essere ponderati secondo criteri immanenti, secondo i loro livelli di «possibilità», di libertà, di creatività, senza alcun ap­ pello a valori trascendenti. Foucault farà anche allusione a criteri «estetici», intesi come criteri di vita, e che sostituiscono di volta 1 M. Foucault, Structuralisme et poststructuralisme, in Ditsetécrits cit., vol. IV, pp. 431458, in particolare p. 440 e 448; trad. it. Strutturalismo e post-strutturalismo, in II discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino 2001, pp. 301-32, in particolare pp. 311-126 320 [Nz/.C.].

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in volta una valutazione immanente alle pretese di un giudizio tra­ scendente. Quando leggiamo gli ultimi libri di Foucault, dobbia­ mo capire il meglio possibile il programma che propone ai suoi let­ tori. Un’estetica intrinseca dei modi di esistenza, come dimensio­ ne ultima dei dispositivi ? La seconda conseguenza di una filosofia dei dispositivi è un cambio di orientamento, che si distoglie dall’Eterno per concepi­ re il nuovo. Per nuovo non si intende la moda, ma al contrario la creatività variabile secondo i dispositivi, in conformità con la do­ manda che cominciò a formularsi con il xx secolo: com’è possibi­ le nel mondo la produzione di qualcosa di nuovo? E vero che, in tutta la sua teoria dell’enunciazione, Foucault rifiuta esplicitamen­ te l’«originalità» di un enunciato come criterio poco pertinente, poco interessante. Vuole considerare soltanto la «regolarità» de­ gli enunciati. Ma ciò che intende per regolarità è l’andamento del­ la curva che passa per i singoli punti o i valori differenziali dell’in­ sieme enunciativo (allo stesso modo definirà i rapporti di forze co­ me distribuzioni di singolarità in un campo sociale). Quando rifiuta l’originalità dell’enunciato, vuol dire che l’eventuale contraddizio­ ne di due enunciati non è sufficiente a distinguerli, né a dimostra­ re la novità dell’uno rispetto all’altro. Perché ciò che conta è la no­ vità del regime di enunciazione stesso, nella misura in cui può com­ prendere enunciati contraddittori. Per esempio ci si chiederà quale regime di enunciazione sia apparso con il dispositivo della Rivolu­ zione francese o della Rivoluzione bolscevica: è la novità del regi­ me che conta e non l’originalità dell’enunciato. Ogni dispositivo si definisce quindi attraverso il suo grado di novità e creatività, che denota allo stesso tempo la sua capacità di trasformarsi o di fessurarsi già a vantaggio di un dispositivo futuro, a meno che, al contrario, non si verifichi un ripiegamento della forza sulle sue li­ nee più dure, più rigide o solide. Poiché sfuggono alle dimensioni del sapere e del potere, le linee di soggettivazione sembrano par­ ticolarmente adatte a tracciare percorsi di creazione, che solita­ mente abortiscono ma che vengono anche ripresi, modificati, fino alla rottura del vecchio dispositivo. Gli studi ancora inediti di Fou­ cault sui diversi processi cristiani con ogni probabilità aprono nu­ merose strade a questo proposito. Tuttavia non bisogna credere che la produzione di soggettività sia devoluta alla religione: anche le lotte antireligiose sono creatrici, cosi come i regimi di luce, di enunciazione o di dominio passano attraverso gli ambiti più diver­ si. Le soggettivazioni moderne non assomigliano più a quelle dei

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greci né a quelle dei cristiani, e neppure la luce, gli enunciati e i poteri. Apparteniamo a certi dispositivi e agiamo in essi. La novità di un dispositivo rispetto ai precedenti la chiamiamo la sua attualità, la nostra attualità. Il nuovo è l’attuale. L’attuale non è ciò che sia­ mo, ma piuttosto ciò che diventiamo, ciò che stiamo diventando, cioè l’Altro, il nostro divenire-altro. In ogni dispositivo occorre distinguere ciò che siamo (ciò che non siamo già più) e ciò che stia­ mo diventando: la parte della storia e la parte dell’attuale. La storia è l’archivio, il disegno di ciò che siamo e cessiamo di essere, men­ tre l’attuale è l’abbozzo di ciò che diventiamo. Quindi la storia o l’archivio è ciò che ancora ci separa da noi stessi, mentre l’attua­ le è questo Altro con cui già coincidiamo. Si è creduto talvolta che Foucault tracciasse il quadro delle società moderne come altret­ tanti dispositivi disciplinari, in opposizione ai vecchi dispositivi di sovranità. Ma non è cosi: le discipline descritte da Foucault so­ no la storia di ciò che a poco a poco cessiamo di essere, e la nostra attualità si disegna in disposizioni di controllo aperto e continuo, molto diverse dalle recenti discipline chiuse. Foucault è d’accor­ do con Burroughs, che ci preannuncia un avvenire controllato piut­ tosto che disciplinato. La questione non è di sapere se è peggio. Perché anche noi facciamo appello a produzioni di soggettività ca­ paci di resistere a questo nuovo dominio e molto diverse da quel­ le che si esercitavano precedentemente contro le discipline. Una nuova luce, nuove enunciazioni, una nuova potenza, nuove forme di soggettivazione? In ogni dispositivo dobbiamo districare le li­ nee del passato recente e quelle dell’immediato futuro: la parte del­ l’archivio e quella dell’attuale, la parte della storia e quella del di­ venire, la parte dell’analitica e quella della diagnosi. Se Foucault è un grande filosofo è perché si è servito della storia a vantaggio di altre cose: come diceva Nietzsche, agire contro il tempo, e quindi sul tempo, in favore, spero, di un tempo a venire. Perché ciò che appare come l’attuale o il nuovo, secondo Foucault, è ciò che Nietz­ sche chiamava l’intempestivo, l’inattuale, questo divenire che si biforca con la storia, questa diagnosi che sostituisce l’analisi se­ guendo altre strade. Non predire, ma essere attenti all’ignoto che bussa alla porta. Niente lo mostra meglio di un passaggio fonda­ mentale di L’archeologia del sapere, che vale per tutta l’opera: L’analisi dell’archivio comporta dunque una regione privi­ legiata, che è al tempo stesso vicina a noi, ma differente dalla

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Due regimi di folli

nostra attualità ed è il bordo del tempo che circonda il nostro presente, che lo sovrasta e lo indica nella sua alterità; è ciò che sta fuori di noi e ci delimita. La descrizione dell’archivio svi­ luppa le sue possibilità (e la padronanza delle sue possibilità) a partire dai discorsi che hanno appena cessato di essere nostri; la sua soglia di esistenza è instaurata dalla frattura che ci sepa­ ra da ciò che non possiamo più dire, e da ciò che cade fuori del­ la nostra pratica discorsiva; incomincia con l’esterno del nostro linguaggio; il suo luogo è lo scarto delle nostre pratiche discor­ sive. In questo senso vale come nostra diagnosi. Non perché ci permetta di fare il quadro dei nostri tratti distintivi e di trac­ ciare in anticipo la figura che avremo in futuro. Ma ci distac­ ca dalle nostre continuità; dissipa quella identità temporale in cui amiamo contemplarci per scongiurare le fratture della sto­ ria; spezza il filo delle teleologie trascendentali; e laddove il pensiero antropologico interrogava l’essere dell’uomo o la sua soggettività, essa fa brillare l’altro e l’esterno. Cosi intesa, la diagnosi non stabilisce la costatazione della nostra identità me­ diante il meccanismo delle distinzioni. Stabilisce che noi sia­ mo differenza, che la nostra ragione è la differenza dei discor­ si, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io la diffe­ renza delle maschere3.

Le differenti linee di un dispositivo si ripartono in due gruppi, linee di stratificazione o di sedimentazione, linee di attualizzazione o di creatività. La conseguenza ultima di questo metodo con­ cerne tutta l’opera di Foucault. Nella maggior parte dei suoi libri egli determina un archivio preciso, con strumenti storici estremamente nuovi, sull’Hópital général nel xvn secolo, sulla clinica nel xvin, sulla prigione nel xix, sulla soggettività nella Grecia antica e poi nel cristianesimo. Ma è solo metà del suo lavoro. Per il suo rigore, per la volontà di non mischiare tutto, per fiducia nel letto­ re, non formula l’altra metà. La formula solo ed esplicitamente nel­ le interviste contemporanee a ciascuno dei grandi libri: che ne è oggi della follia, della prigione, della sessualità? Quali nuove mo­ dalità di soggettivazione vediamo apparire oggi, che certamente non sono né greche né cristiane ? Soprattutto quest’ultima doman­ da ossessiona Foucault sino alla fine (noi che non siamo più greci ’ M. Foucault, L’archeologie du savoir, Gallimard, Paris 1969, p. 172; trad. it. L archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 152 [NJ.C.].

Che cos’è un dispositivo ?

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e neppure cristiani...) Se Foucault sino alla fine della sua vita at­ tribuiva cosi tanta importanza alle sue interviste, in Francia e piu ancora all’estero, non è per il gusto dell’intervista, ma perché vi tracciava quelle linee di attualizzazione che esigevano un altro mo­ do di espressione rispetto alle linee che si possono cogliere nei gran­ di libri. Le interviste sono delle diagnosi. E come in Nietzsche, di cui è difficile leggere le opere senza collegare il Nachlass contem­ poraneo a ciascuna di esse. L’opera completa di Foucault, cosi co­ me la concepiscono Defert ed Ewald, non può separare i libri che hanno segnato tutti noi e le interviste che ci accompagnano verso un avvenire, verso un divenire: gli strati e le attualità.

Si-

Risposta a una domanda sul soggetto *

Un concetto filosofico assolve a una o più funzioni, in campi del pensiero che sono definiti essi stessi da variabili interiori. Ci so­ no poi variabili esteriori (stati di cose, momenti della storia) in un rapporto complesso con le variabili interne e le funzioni. Vale a dire che un concetto non nasce e non muore a piacere, ma nella misura in cui nuove funzioni in nuovi campi progressivamente Io destituiscono. Anche per questo motivo non è mai interessante cri­ ticare un concetto: è meglio costruire le nuove funzioni e scopri­ re i nuovi campi che lo rendono inutile o inadeguato. Il concetto di soggetto non sfugge a queste regole. Per molto tempo ha assolto a due funzioni: innanzitutto a una funzione di universalizzazione, in un campo in cui l’universale non era più rap­ presentato da essenze oggettive ma da atti noetici o linguistici. In questo senso, Hume segna un momento fondamentale in una filo­ sofia del soggetto perché si richiama ad atti che eccedono il dato (cosa succede quando dico «sempre» o «necessario»?) Il campo corrispondente, di conseguenza, non è assolutamente più quello della conoscenza, ma piuttosto quello della «credenza» come nuo­ va base della conoscenza: a quali condizioni una credenza, secon­ do la quale dico di più di quanto mi è dato, è legittima ? Inoltre, il soggetto assolve una funzione di individuazione in un campo in cui l’individuo non può più essere una cosa né un’anima, ma una persona, vivente e vissuta, parlante e parlata («io-tu»). Questi due aspetti del soggetto, l’io universale e l’io (moi) individuale sono necessariamente legati? E per quanto siano legati, non c’è alcun conflitto tra di loro, e come risolvere questo conflitto ? Tutti que­ sti problemi animano quella che si è potuta chiamare filosofia del * Il testo originale dattilografato è datato febbraio 1988. E apparso prima in inglese in una traduzione di Julien Deleuze per la rivista «Topoì», settembre 1988, pp. 111-12, con il titolo A Philosophical Concept... ed è stato poi ritradotto per una rivista francese (il testo originale era stato smarrito).

Risposta a una domanda sul soggetto

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soggetto, già in Hume, ma anche in Kant, il quale confronta un Io come determinazione del tempo e un Io (Moi) come ciò che è de­ terminabile nel tempo. In Husserl, inoltre, si porranno questioni analoghe nell’ultima delle Meditazioni cartesiane. E possibile assegnare nuove funzioni e variabili capaci di pro­ durre un cambiamento ? Sono funzioni di singolarizzazione che hanno invaso il campo della conoscenza a favore di nuove variabi­ li di spazio-tempo. Per singolarità non bisogna intendere qualco­ sa che si oppone all’universale, ma un elemento qualunque che può essere prolungato fin nelle vicinanze di un altro, in maniera da ot­ tenere un raccordo: è una singolarità in senso matematico. La co­ noscenza e anche la credenza tendono allora a essere rimpiazzate da nozioni come «concatenamento» o «dispositivo» che designa­ no un’emissione e una ripartizione di singolarità. Sono simili emis­ sioni, come «colpi di dadi», a costituire un campo trascendentale senza soggetto. Il molteplice diventa sostantivo, molteplicità, e la filosofia è la teoria delle molteplicità che non si rapportano ad al­ cun soggetto come unità presupposta. Non conta più il vero o il falso, ma il singolare e il regolare, il notevole e l’ordinario. La fun­ zione di singolarità sostituisce quella di universalità (in un nuovo campo in cui l’universale non ha più applicazione). Lo si vede an­ che nel diritto: la nozione giuridica di «caso» o di «giurispruden­ za» destituisce l’universale a vantaggio delle emissioni di singola­ rità e delle funzioni di prolungamento. Una concezione del dirit­ to fondata sulla giurisprudenza fa a meno di ogni «soggetto» dei diritti. Inversamente, una filosofia senza soggetto presenta una concezione del diritto fondata sulla giurisprudenza. Forse in correlazione a ciò, si sono imposti dei tipi di indivi­ duazione che non erano più personali. Ci si chiede che cosa costi­ tuisca l’individualità di un evento: una vita, una stagione, un ven­ to, una battaglia, le cinque della sera... Si possono chiamare ecceità1 queste individuazioni che non costituiscono più né persone né io. E la questione nasce dal sapere se noi non siamo forse ecceità del genere invece che tanti io. Sotto questo profilo la filoso­ fia e la letteratura angloamericana sono particolarmente interes­ santi, perché si sono spesso distinte per la loro incapacità di tro­ vare un senso assegnabile alla parola «io», al di là di una finzione 1 Deleuze scrive «heccéité ou eccéité», e con ciò fa riferimento al fatto che eccéitéde­ riverebbe erroneamente dalla parola ecce, «ecco», mentre Duns Scoto crea la parola e il concetto a partire da Haec, «questa cosa». Cfr. la nota 24 del traduttore al capitolo io di Mille piani (trad. it. di G. Passerone, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003, p. 429) [NJ.T.].

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grammaticale. Gli eventi pongono questioni molto complesse di composizione e scomposizione, di velocità e lentezza, di longitu­ dine e latitudine, di potenza e affezione. Contro ogni personali­ smo, psicologico o linguistico, comportano la promozione di una terza persona, e anche di una «quarta» persona del singolare, non­ persona o un esso in cui riconosciamo noi stessi e la nostra comu­ nità meglio che nei vani scambi tra un Io e un Tu. In breve, noi crediamo che la nozione di soggetto abbia perso molto del suo in­ teresse a vantaggio delle singolarità pre-individuali e delle individua­ zioni non-personali. Ma, appunto, non basta contrapporre dei con­ cetti per sapere quale sia il migliore, bisogna confrontare i campi dei problemi ai quali rispondono, per scoprire sotto quali forze i problemi si trasformano ed esigono essi stessi la costituzione di nuovi concetti. Niente di ciò che i grandi filosofi hanno scritto sul soggetto invecchia, ma è il motivo per cui, grazie a essi, abbiamo altri problemi da scoprire, invece di effettuare dei «ritorni» che mostrerebbero soltanto la nostra incapacità di seguirli. La situa­ zione della filosofia in questo caso non si distingue in modo fon­ damentale da quella delle scienze e delle arti.

52Prefazione all’edizione americana di Immagine-tempo *

In filosofia si è verificata una rivoluzione nell’arco di vari se­ coli, dai greci a Kant: la subordinazione del tempo al movimento si è invertita, il tempo cessa di essere la misura del movimento nor­ male, si manifesta sempre più per se stesso e crea movimenti pa­ radossali. Il tempo si scardina: le parole di Amleto significano che il tempo non è più subordinato al movimento - è il movimento a essere subordinato al tempo. E possibile che il cinema abbia rifat­ to per conto proprio la stessa esperienza, la stessa inversione, in condizioni più rapide. L’immagine-movimento del cinema cosid­ detto «classico», dopo la guerra, ha fatto posto a un’immaginetempo diretta. Naturalmente un’idea generale di questo tipo de­ ve essere sfumata, corretta, adattata ai casi concreti. Perché la guerra come rottura ? Perché il dopoguerra in Euro­ pa ha fatto proliferare situazioni alle quali non sapevamo più co­ me reagire, all’interno di spazi che non sapevamo più come quali­ ficare. Erano spazi «qualunque», deserti eppure popolati, depositi in disuso, aree abbandonate, città in macerie o in via di ricostruzio­ ne. E in questi spazi qualunque si agitava una nuova razza di per­ sonaggi un po’ mutanti: vedevano più di quanto non agissero, era­ no dei Veggenti. Come la grande trilogia di Rossellini, Europa ’51, Stromboli terra di Dio, Germania anno zero: un bambino nella città distrutta, uno straniero sull’isola, una donna borghese che inizia a «vedere» intorno a sé. Le situazioni potevano essere estreme, o al contrario quelle della banalità quotidiana, oppure le due cose in­ sieme: ciò che tende a crollare, o almeno a squalificarsi, è lo sche­ ma senso-motorio che aveva costituito l’immagine-azione del ci­ nema del passato. E approfittando di questo allentamento del le­ * Titolo del curatore. Il testo manoscritto è datato luglio 1988. Preface to the English edition, in G. Deleuze, Cinema 2: The Time-Image, University of Minnesota Press, Min­ neapolis 1989, pp. xi-xm. Traduzione inglese di H. Tomlinson e R. Galeta.

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game senso-motorio il Tempo, «un po’ di tempo allo stato puro», sale alla superficie dello schermo. Il tempo non deriva più dal mo­ vimento, si manifesta in se stesso e provoca esso stesso falsi-movi­ menti. Da cui l’importanza del falso-raccordo nel cinema moderno: le immagini non si concatenano più attraverso tagli e raccordi ra­ zionali, ma si riconcatenano su falsi-raccordi o tagli irrazionali. An­ che il corpo non è più davvero il mobile, soggetto di movimento e strumento dell’azione, e diventa piuttosto rivelatore del tempo, te­ stimonia il tempo con le sue stanchezze e le sue attese (Antonioni). Non è esatto dire che l’immagine cinematografica è al presen­ te. Al presente è solo ciò che l’immagine «rappresenta» ma non l’immagine in sé, che non si confonde mai con ciò che rappresen­ ta, al cinema cosi come in pittura. L’immagine stessa è il sistema dei rapporti tra i suoi elementi, cioè un insieme di rapporti di tem­ po da cui il presente variabile deriva soltanto. E in questo senso, secondo me, che Tarkovskij rifiuta la distinzione tra montaggio e piano, definendo il cinema come la «pressione del tempo» nel pia­ no1. Ciò che caratterizza l’immagine creatrice è proprio il fatto di rendere sensibili, visibili, rapporti di tempo che non si lasciano ve­ dere nell’oggetto rappresentato e che non si lasciano ridurre al pre­ sente. Una profondità di campo di Welles, una carrellata di Vi­ sconti affondano nel tempo più di quanto non percorrano uno spa­ zio. La macchina di Sandra, all’inizio del film di Visconti, si muove già nel tempo e i personaggi di Welles occupano nel tempo un po­ sto da giganti invece di cambiare luogo nello spazio. L’immagine-tempo, quindi, non ha niente a che fare con un flashback, né con un ricordo. Il ricordo è soltanto un presente già stato, mentre i personaggi del cinema moderno colpiti da amnesia affondano letteralmente nel passato, o ne emergono, per far vede­ re ciò che si sottrae anche al ricordo. Il flashback non è altro che un cartello e quando è utilizzato dai grandi autori serve solo a evi­ denziare strutture temporali molto più complesse (per esempio in Mankiewicz, il tempo che «si biforca»: riafferrare il momento in cui il tempo avrebbe potuto prendere un altro corso...) A ogni mo­ do, quella che noi chiamiamo struttura temporale, o immaginetempo diretta, eccede evidentemente la successione puramente em­ pirica del tempo, passato-presente-futuro. E una coesistenza di du­ rate distinte o di livelli di durata, per esempio, dove uno stesso 1 A. Tarkovskij, De la figure cinématographique, in «Positif», dicembre 1981, n. 249, [NJ.C.].

Prefazione all’edizione americana di Immagine-tempo

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evento può appartenere a più livelli: le falde di passato coesistono in un ordine non-cronologico, come si vede in Welles con la sua potente intuizione della Terra e in Resnais con i suoi personaggi che ritornano dal paese dei morti. Ci sono poi molte altre strutture temporali: tutto l’oggetto di questo libro è di far emergere quelle che l’immagine cinematogra­ fica ha saputo cogliere e rivelare, e che possono echeggiare ciò che la scienza ci insegna, ciò che le altre arti ci svelano, o ciò che la fi­ losofia ci fa capire, nella rispettiva indipendenza di questi ambiti. Parlare di una morte del cinema è un’idiozia, perché il cinema è appena all’inizio delle sue ricerche: rendere visibili questi rappor­ ti di tempo che possono apparire soltanto in una creazione dell’im­ magine. Il cinema non ha bisogno della televisione, in cui l’imma­ gine resta deplorevolmente al presente se non viene fecondata dal­ l’arte cinematografica. I rapporti e le disgiunzioni tra visivo e sonoro, tra ciò che si vede e ciò che viene detto, rilanciano di nuo­ vo il problema, e danno al cinema nuove potenze per catturare il tempo nell’immagine (in maniere molto diverse Pierre Perraut, Straub, Syberberg...) Se il cinema non muore di morte violenta, conserva la potenza di un inizio. Inversamente dobbiamo cercare già nel cinema d’anteguerra, e perfino nel muto, il lavoro di un’immagine-tempo molto pura che non ha smesso di bucare, di tratte­ nere o di inglobare l’immagine-movimento: una natura morta di Ozu, come forma immutabile del tempo? Ringrazio Robert Galeta per la cura con cui ha tradotto questa avventura del movimen­ to e del tempo.

53I tre cerchi di Rivette *

Appare un primo cerchio (o segmento di cerchio). Chiamiamo­ lo A, perché è il prinwad apparire, anche se poi continua a riap­ parire in tutto il film. E un vecchio teatro che funge da scuola, in cui alcune giovani ragazze ripetono dei ruoli, Marivaux, Racine, Corneille, sotto la direzione di Constance (Bulle Ogier). Il diffici­ le è fare in modo che le alunne riescano a esprimere il sentimento giusto, collera, amore, disperazione, ma con parole che non sono le proprie, bensì quelle di un autore. E il primo significato di re­ citare: I Ruoli, Una di loro, Cécile, ha lasciato a quattro ragazze una casetta di periferia: lei va a vivere da un’altra parte con l’uomo che ama. Le quattro ragazze coabitano in questa villetta, dove vivono le ri­ percussioni dei loro ruoli ma anche i loro umori e le posizioni per­ sonali di fine giornata, gli effetti dei loro amori privati, che cono­ sciamo solo per allusione, i loro atteggiamenti reciproci. E come se rimbalzassero sul muro del teatro per condurre in casa una vita vagamente comune; vi fanno entrare pezzi dei loro ruoli, ma inse­ riti nelle loro parole, distribuiti nelle loro vite, dove ognuna è pre­ sa dalle sue cose. Non è più una successione di ruoli secondo un programma, semmai una concatenazione rischiosa di atteggiamen­ ti e posizioni secondo diverse storie simultanee che però non si in­ tersecano. E il secondo significato di recitare: gli Atteggiamenti e le Posizioni nell’intreccio delle vite quotidiane. A ispirare Rivette per tutto il tempo è, insieme, il gruppo delle quattro ragazze e la loro individuazione: ci sono quelle comiche e quelle tragiche, le depresse e le toniche, le maldestre e le abili, e soprattutto le Sola­ ri e le Lunari. E un secondo cerchio B, interno al primo perché in parte dipende da esso e ne raccoglie alcuni effetti, che però ridi­ * In«Cahiers du cinéma», febbraio 1989, n. 416, pp. 18-19. A proposito del film Una recita a quattro di Jacques Rivette.

I tre cerchi di Rivette

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stribuisce a modo suo, e si allontana dal teatro per ritornarvi con­ tinuamente.

& Le quattro ragazze sono perseguitate da un uomo indetermina­ to, truffatore, spia, poliziotto, che cerca l’amante di Cécile (pro­ babilmente un criminale). E una questione di carte d’identità fal­ se, di quadri rubati, di traffico d’armi, di scandalo giudiziario? Cerca le chiavi di un baule. Tenta di sedurre una dopo l’altra tut­ te le ragazze, e fa innamorare una di loro. Le altre tre cercheran­ no di ucciderlo, una teatralmente, una freddamente, un’altra im­ pulsivamente. La terza ci riesce, a colpi di bastone. Bellezza delle tre scene, che sono grandi momenti di Rivette. E un terzo signi­ ficato di recitare: le Maschere, in un complotto politico-poliziesco che ci oltrepassa, e in cui tutti sono presi, una sorta di complot­ to mondiale. E un terzo cerchio, C, che sta in un rapporto com­ plesso con gli altri due: prolunga il secondo, vi si mescola intima­ mente, poiché polarizza sempre piu l’atteggiamento delle ragazze, dà loro una misura comune e le strega. Ma si estende anche su tut­ to il teatro, lo ricopre, riunisce forse tutte le pièces di un reperto­ rio infinito, e Constance, la direttrice, sembra essere fin dall’ini­ zio un elemento essenziale del complotto. (Nella sua vita non c’è un buco di vari anni? Non abita nel teatro, da cui non esce mai e dove dà rifugio al cattivo ragazzo di Céline, il quale forse è il suo stesso amante?) E anche le ragazze: una ha un amico americano con lo stesso nome del poliziotto, un’altra ha il nome di sua sorel­ la misteriosamente scomparsa, e Lucia, la portoghese, la Lunare per eccellenza, trova subito le chiavi e possiede un quadro che for­ se è autentico... Insomma i tre cerchi si mescolano, progredisco­ no uno grazie all’altro, reagiscono uno sull’altro e si organizzano senza mai perdere nulla del loro enigma.

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Due regimi di folli

Noi recitiamo delle pièces che non conosciamo ancora (i nostri ruoli). Scivoliamo dentro caratteri che non padroneggiamo (i no­ stri atteggiamenti e posizioni). Serviamo un complotto di cui igno­ riamo tutto (le nostre maschere). Rivette ha saputo allestire una visione del mondo. Ha bisogno del teatro perché il cinema esista: gli atteggiamenti e le posizioni delle giovani ragazze formano una teatralità del cinema che non smette di misurarsi con la teatralità del teatro, e la affronta per distinguersi da essa. E se tutti i com­ plotti politici, giudiziari, polizieschi che pesano su di noi sono suf­ ficienti per far vedere che il mondo reale si è messo a fare un ci­ nema scadente, allora tocca al cinema ridarci alla fine un po’ di reale, un po’ di mondo. Un cinema che oppone la sua teatralità a quella del teatro, la sua realtà a quella del mondo che è diventato irreale: Rivette ha mantenuto questo progetto, per salvare il cine­ ma dal teatro e dai complotti che lo stavano distruggendo. Se i tre cerchi comunicano, lo fanno in luoghi che sono quelli di Rivette: come il retro del teatro o la villetta delle ragazze. So­ no luoghi in cui la Natura non vive, ma sopravvive con una stra­ na grazia. La Natura sopravvive in alcune zone di periferia non ancora cementificate, o in centro città, in passaggi ancora agresti o in vicoli poco visibili dall’esterno. Da questi luoghi le riviste di moda sono riuscite a ricavare foto patinate e perfette, ma nessu­ no sapeva più che erano riconducibili a Rivette e che erano impre­ gnati del suo sogno. In questi luoghi si ordiscono complotti, gio­ vani ragazze coabitano, si installano scuole. Ma è qui che il sogna­ tore può ancora cogliere il giorno e la notte, il sole e la luna, come un grande Cerchio esterno che comanda tutti gli altri, e distribuisce le ombre e le luci.

In un certo modo, Rivette non ha filmato che una cosa, la luce e la sua trasformazione, ora lunare, ora solare, Lucia e Constance. Non sono persone, ma forze. Una non è il bene cosi come l’altra non è il male, ma Rivette va in questi luoghi di sopravvivenza, pe­ riferici o di attraversamento, a verificare lo stato in cui entrambe

I tre cerchi di Rivette

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sussistono ancora. Il cinema di Rivet te non ha smesso di essere vici­ no alla poesia di Gérard de Nerval, è come se Rivette fosse abitato da Nerval. Rivisita i resti di un’Ile-de-France allucinata, mette in scena nuove Figlie del fuoco, avverte l’arrivo del complotto di una follia indeterminabile. Non è un influsso, è ciò che fa di Rivette l’autore più ispirato del cinema, uno dei suoi poeti più grandi.

54L’ingranaggio *

È rimasto sorpreso dall’ampiezza che ha assunto la discussione sull’u­ so del velo islamico negli istituti scolastici? Gilles deleuze La questione del velo, la guerra nelle scuole sul capo coperto o scoperto delle ragazzine ha un aspetto umori­ stico irresistibile. Dopo Swift e il conflitto tra quelli convinti che le uova alla coque andassero aperte dall’estremità più lar­ ga e i loro avversari1, nessuno avrebbe immaginato un simile pretesto bellico. Come sempre il parere spontaneo delle ragaz­ zine sembra particolarmente sostenuto da pressanti genitori anti-laici. Non è sicuro che le ragazzine ci tengano cosi tanto. E qui che le cose diventano meno divertenti. Al di là dell’aneddoto, ritiene che la questione possa avere delle riper­ cussioni, che corrisponda a un vero e proprio dibattito nella società francese? G. deleuze Si tratta di sapere fino a dove vanno gli auspici o le rivendicazioni delle associazioni islamiche. Si arriverà a una se­ conda fase in cui si reclamerà un diritto alla preghiera islamica nelle classi stesse? E poi, a una terza fase, in cui si discuterà per esempio dell’insegnamento della letteratura rinfacciando a un testo di Racine o di Voltaire di essere offensivo per la di­ gnità musulmana? Insomma, l’importante sarebbe sapere fino a dove vogliono arrivare le associazioni islamiche, cosa accet­ tano o cosa rifiutano della scuola laica. Per saperlo bisogna chie­ derglielo, e fare in modo eventualmente che queste associazio­ ni prendano degli impegni in tal senso. Bisogna ricordare l’esi­ * Titolo del curatore. Gilles Deleuze craint Lengrenage, in «Libération», 26 ottobre 1989. Intervista raccolta da Francis Zamponi. Questo articolo interviene dopo i dibattiti sollevati, alla riapertura delle scuole, dall’esclusione temporanea di alcune ragazze che si erano rifiutate di togliersi il «velo islamico» durante le ore di lezione. 1 II riferimento è ai Viaggi di Gulliver e alla lunga guerra tra gli imperi di Lilliput e Blefuscu per stabilire da che parte andassero rotte le uova (cfr. capitolo iv) [NJ.T.].

L’ingranaggio

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stenza di un movimento laico tra gli stessi arabi ? Non è il ca­ so di pensare che gli arabi, o i francesi di origine araba, abbia­ no soltanto la religione per sapere quale sia la propria identità. Le religioni traggono da sempre tutto il loro valore soltanto dal­ la nobiltà e dal coraggio degli ateismi che ispirano. Sembra che lei inquadri la questione dentro un ’offensiva del religioso nei confronti della società civile. G. deleuze Per cui ci sarebbe un piano concertato, di cui il ve­ lo è soltanto la prima fase ? Alla fine ci spiegheranno che, sic­ come la scuola laica non è in grado di soddisfare i diritti dei musulmani, si devono istituire scuole coraniche finanziate dal­ lo stato laico, visto che esso già finanzia le scuole cristiane. Poi­ ché faccio parte di coloro che continuano a trovare inammissi­ bile il sostegno dello stato alle scuole confessionali cristiane e i pretesti invocati a difesa di ciò, mi sento libero di protestare contro un eventuale finanziamento delle scuole coraniche. Og­ gi non si può escludere un’alleanza tra le religioni per rimette­ re in causa una laicità ancora vacillante. A meno che questa, invece, non sia solo una faccenda di veli.

55Lettera-prefazione a Jean-Clet Martin *

Nel leggere ciò che scrive, sono contento che lei si occupi del mio lavoro, visto tutto il rigore e la comprensione che mostra. Cer­ co di rispondere ad alcune delle sue osservazioni, anche se spesso la differenza tra di noi è più una questione di parole. i. Credo alla filosofia come sistema. A non piacermi è la no­ zione di sistema quando la si rapporta alle coordinate dell’identi­ co, del Simile e dell’Analogo. Penso sia stato Leibniz a identifica­ re per primo sistema e filosofia, e io aderisco al senso che gli ha dato lui. Anche le questioni riguardanti il «superamento della fi­ losofia», la «morte della filosofia» non mi hanno mai toccato. Mi sento un filosofo molto classico. Per me il sistema non deve esse­ re soltanto in perpetua eterogeneità, ma deve essere una eteroge­ nesi, cosa che per quanto ne so non è mai stata tentata. 2. Da questo punto di vista, ciò che lei dice sulla metafora, o meglio contro di essa, mi sembra giusto e profondo. Aggiungo sol­ tanto qualcosa che non contraddice in nulla ciò che lei dice, ma va in un senso affine: la doppia deviazione, il tradimento mi sembra­ no operazioni che instaurano un’immanenza radicale, è un traccia­ to di immanenza - da cui il rapporto essenziale con la Terra. 3. Lei comprende bene quanto sia importante per me defini­ re la filosofia attraverso l’invenzione o la creazione dei concetti, vale a dire per il fatto di non essere né contemplativa né rifles­ siva, né comunicativa ecc., ma di essere un’attività creatrice. Cre­ do che la filosofia sia sempre stata cosi, ma non sono àncora sta* Titolo del curatore. Lettre-préface de Gilles Deleuze, in J.-C. Martin, Variations. La philosophic de Gilles Deleuze, Payot & Rivages, Paris 1993, pp. 7-9. La lettera è datata 13 giugno 1990.

Lettera-prefazione a Jean-Clet Martin

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to capace di spiegarmi su questo punto. Per questo vorrei tanto che il mio prossimo libro fosse un breve testo su Che cos’è la filo­ sofia? 4. Lei ha capito bene l’importanza che detiene per me la no­ zione di molteplicità: è essenziale. E, come lei dice, molteplicità e singolarità sono essenzialmente legate («singolarità» in quanto dif­ ferente sia da «universale» sia da «individuale»). «Rizoma» è il termine migliore per designare le molteplicità. Per contro, mi sem­ bra di avere abbandonato del tutto la nozione di simulacro, che non ha grande valore. In definitiva, ìAille piani è consacrato alle molteplicità per se stesse (divenire, linee ecc.).

5. Empirismo trascendentale, in effetti, non vuol dire nulla se non si precisano le condizioni. Il «campo» trascendentale non de­ ve essere un ricalco dell’empirico, come in Kant: dev’essere esplo­ rato per conto suo a questo titolo, e quindi «sperimentato» (ma attraverso un tipo di esperienza molto particolare). E questo tipo di esperienza che permette di scoprire le molteplicità, ma anche l’esercizio del pensiero al quale rinvia il terzo punto. Perché cre­ do che, oltre alle molteplicità, la cosa piu importante per me sia stata l’immagine del pensiero come ho cercato di analizzarla in Dif­ ferenza e ripetizione, poi in Proust e ovunque.

6. Mi permetta infine un consiglio di lavoro: nelle analisi del concetto c’è sempre interesse a partire da situazioni molto concre­ te, molto semplici, e non da antecedenti filosofici né da problemi in quanto tali (l’uno e il molteplice ecc.). Per esempio per le mol­ teplicità ciò da cui bisogna partire è: che cos’è una mutai (diver­ sa da un solo animale), che cos’è un ossario? O, come lei ha fatto cosi bene, che cos’è una reliquia? Per gli eventi: che cosa sono le cinque della sera ? La critica possibile della mimesis deve essere col­ ta, per esempio, nel rapporto concreto tra l’uomo e l’animale. Mi resta da dirle soltanto una cosa: non abbandoni il concreto, vi ri­ torni costantemente. Molteplicità, ritornello, sensazione ecc. si sviluppano in puri concetti, ma sono rigorosamente inseparabili dal passaggio da un concreto a un altro. Per questo bisogna evita­ re di dare a una qualsiasi nozione un primato sulle altre: ogni no­ zione deve comportare le altre, a sua volta e a suo tempo [...]. Cre­ do che più un filosofo sia dotato, più abbia la tendenza, all’inizio, di tralasciare il concreto. Deve trattenersi dal farlo, ma solo ogni

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tanto, giusto il tempo di ritornare alle percezioni, alle affezioni, che devono raddoppiare i concetti. Perdoni Fimmodestia di queste note. Era per arrivare subito al punto. Le faccio i miei auguri per il suo lavoro, e la prego di cre­ dermi sinceramente suo.

56. Prefazione all’edizione americana di Empirismo e soggettività *

A volte si sogna una storia della filosofia che si accontentasse di enumerare i nuovi concetti apportati da un grande filosofo, il suo apporto creatore più essenziale. Nel caso di Hume si potreb­ be dire: - Ha imposto il concetto di credenza, e l’ha messo al posto del­ la conoscenza. Ha laicizzato la credenza, facendo della conoscen­ za una credenza legittima. Ha chiesto: a quali condizioni è legitti­ ma una credenza?, e cosi ha abbozzato un’intera teoria delle pro­ babilità. La conseguenza è molto importante: se l’atto di pensiero è credenza, il pensiero deve difendersi non tanto dall’errore ma dall’illusione. Le credenze illegittime circondano il pensiero come una nuvola di illusioni forse inevitabili. Sotto questo aspetto, Hume annuncia Kant. E ci sarà bisogno di tutta un’arte, ogni sorta di re­ gole per liberare le credenze legittime dalle illusioni che le accom­ pagnano. - Ha dato all’associazione di idee il suo senso autentico, secon­ do cui non è affatto una teoria della mente umana, ma una prati­ ca delle formazioni culturali e convenzionali (convenzionali e non contrattuali). Cosi l’associazione di idee è per il Diritto, per l’Economia politica, per l’Estetica... Ci si chiede per esempio se basta lanciare una freccia verso un luogo per divenirne i proprietari, o se bisogna toccarlo con la mano: si tratta di sapere quale debba esse­ re l’associazione tra qualcuno e qualcosa, perché quel qualcuno di­ venti proprietario della cosa. - Ha fondato la prima grande logica delle relazioni, mostran­ do come ogni relazione (non solo i «matters of facts», ma le rela­ zioni di idee) fosse esterna ai suoi termini. Cosi costituisce un mon­ * Titolo del curatore. Preface to the English-language edition, in G. Deleuze, Empiricism and Subjectivity. An Essay on Hume's Theory of Human Nature, Columbia University Press, New York 1991, pp. ix-x. Traduzione inglese di C. V. Boundas.

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do dell’esperienza estremamente diverso, secondo un principio di esteriorità delle relazioni: parti atomiche ma con transizioni, pas­ saggi, «tendenze» che vanno dalle une alle altre. Queste tenden­ ze generano abitudini. Ma non è la risposta alla domanda: cosa sia­ mo? Siamo delle abitudini, nient’altro che abitudini, abitudine a dire Io... Forse non c’è una risposta più sorprendente al problema dell’io. Questo inventario che testimonia la genialità di Hume potreb­ be essere ulteriormente allungato.

57Prefazione: una nuova stilistica *

Questo libro nasce da una doppia riflessione sulla letteratura italiana e la letteratura francese. Ha la sua fonte alla frontiera di due paesi, benché si estenda più lontano. Giorgio Passerone non ci propone però un trattato generale dello stile, ma lo studio di al­ cuni processi in letteratura. Può darsi che tali processi si sviluppi­ no e passino in altre arti, trasformandosi. Questa trasformazione avverrà tanto più facilmente quanto più Fautore si sarà immerso nella letteratura soltanto. Ecco perché tutto il libro verte su due idee letterarie. In primo luogo, lo stile non è una figurazione reto­ rica, ma una produzione sintattica, una produzione della sintassi e tramite la sintassi. Ci si domanderà allora quale idea, diversa ad esempio da quella di Chomsky, si faccia Passerone della sintassi. In secondo luogo, lo stile è come una lingua straniera nella lingua, secondo una celebre formula di Proust. E ci si domanderà quale idea della lingua si faccia Passerone, affinché questa formula non sia una semplice metafora e debba invece essere compresa letteral­ mente. La linguistica considera una lingua a un dato momento come un sistema omogeneo, prossimo all’equilibrio. Passerone è più vi­ cino alla sociolinguistica; non perché invochi l’azione di fattori sociali esteriori, ma perché tratta ogni lingua come un insieme ete­ rogeneo, lontano dall’equilibrio e perpetuamente biforcante: una sorta di black english o di cbicano. Non si salta da una lingua a un’altra, come in un bilinguismo o in un plurilinguismo, piuttosto in ogni lingua c’è sempre un’altra lingua, all’infinito. Non un mi­ sto, ma un’eterogenesi. Sappiamo che il discorso indiretto libero (molto ricco in italiano, tedesco e russo) è una forma sintattica sin­ golare: consiste nell’insinuare in un enunciato che dipende da un * In G. Passerone, La linea astratta. Pragmatica dello stile, Guerini, Milano 1991, pp. 9-13.

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soggetto di enunciazione dato un altro soggetto di enunciazione. «Mi accorsi che lei stava per partire. Lei avrebbe preso tutte le precauzioni per non essere seguita...»: il secondo «lei» è un nuo­ vo soggetto di enunciazione emergente nell’enunciato che dipen­ de da un primo soggetto «io». Perché ogni soggetto di enunciazio­ ne ne contiene altri che parlano ciascuno una lingua diversa, l’una nell’altra. E il discorso indiretto libero che porta Bachtin alla sua concezione polifonica o contrappuntistica della lingua nel roman­ zo e che ispira a Pasolini la sua riflessione sulla poesia. Eppure non si tratta mai di teoria: è nei grandi autori, da Dante a Gadda, che Passerone coglie il processo pratico del discorso indiretto libero. Esso può restare nascosto in una lingua centralizzata e uniformizzata come il francese. Questo processo è però coestensivo a ogni lingua, elemento determinante della sintassi: scava nella lingua al­ trettante lingue che si biforcano e si rispondono. Anche in fran­ cese, Balzac spezza la lingua in tante lingue quanti sono i perso­ naggi, i tipi, gli ambienti. Al punto che diremmo: «Non ha stile», ma questo non-stile è proprio il grande stile, o la creazione di sti­ le allo stato puro. La linguistica obietterà che non ci si trova in presenza di lin­ gue, propriamente parlando. E siamo sempre ricondotti alla que­ stione preliminare: la lingua è un sistema omogeneo, o un conca­ tenamento eterogeneo in perpetuo squilibrio ? Se la seconda ipote­ si è giusta, una lingua non si scompone in elementi, si scompone in lingue all’infinito, che non sono lingue «altre», ma con le qua­ li lo stile (o il non-stile) comporrà una lingua straniera nella lingua. La stilistica, la pragmatica, considerate determinazioni secondarie dalla linguistica, diventano qui fattori primi della lingua. Lo stes­ so problema si ritrova a un altro livello: la linguistica considera co­ stanti o universali della lingua, elementi e rapporti; invece per Pas­ serone e i teorici a cui si appoggia, la lingua non ha costanti, ha so­ lo variabili e lo stile è la messa in variazione delle variabili. Ogni stile sarà una tale messa in variazione, da seguire e definire concre­ tamente. Lo strano, profondo linguista Gustave Guillaume sosti­ tuiva alle opposizioni distintive dei fonemi (costanti) l’idea di posizioni differenziali dei morfemi, variabili-punti che percorrono una linea o un movimento di pensiero determinabile. Per esempio, l’articolo indefinito «un» è una variabile che opera tagli o assume punti di vista su un movimento di particolarizzazione; cosi come l’articolo definito «il» su un movimento di generalizzazione. Anche per i verbi nel loro insieme, Guillaume rivelerà movimenti di inci­

Prefazione: una nuova stilistica

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denza e di decadenza (potremmo aggiungervi la «procadenza») ri­ spetto ai quali i tempi verbali sono tagli, punti di vista o posizioni differenziali. Per esempio l’imperfetto di Flaubert. E probabilmen­ te ogni verbo ingloba dinamismi o percorsi speciali sui quali i suoi tempi e i suoi modi assumono posizioni, operano tagli. Le variabili percorrono quindi zone di variazione finite o infinite, continue o di­ scontinue, che costituiscono lo stile come modulazione della lingua. La celebre formula di Buffon, «lo stile è l’uomo stesso», non significa che lo stile rinvìi alla personalità dell’autore. Buffon re­ sta aristotelico: lo stile è la forma che si attualizza in una materia linguistica; è uno stampo. Però, come dimostra la teoria dell’orga­ nismo in Buffon, lo stampo usufruisce di una proprietà parados­ sale: non si accontenta di formare la superficie, ma agisce in tutto lo spessore di ciò che forma («stampo interiore»). E più di uno stam­ po, è una modulazione, cioè una modellatura ad azione interna e trasformazione temporale. Passando dallo stampo alla modulazio­ ne, Passerone mostra lo sviluppo di una concezione melodica del­ lo stile: in Rousseau, che cerca di restaurare una pratica monofo­ nica della melodia pura; ma già nel mondo barocco, e poi romanti­ co, dove la polifonia e l’armonia, gli accordi consonanti e dissonanti formano una modulazione sempre più fine e autonoma, e ancora nel post-romanticismo di Nietzsche, il più grande filosofo-stilista. Sta qui forse il segreto della modulazione: il modo in cui essa trac­ cia una linea sempre biforcante e spezzata, ritmica, come una nuo­ va dimensione capace di fondere armonia e melodia. Sono proba­ bilmente tra le pagine più forti del libro di Passerone: certo, il lin­ guaggio fa vedere qualche cosa, e ciò che fa vedere sono le figure di retorica; eppure queste figure sono soltanto l’effetto superficia­ le di ciò che costituisce Io stile, vale a dire la polifonia dei sogget­ ti di enunciazione, la modulazione degli enunciati. Come dice Proust, le figure o metafore non sono che la cattura di oggetti di­ versi da parte e negli «anelli necessari di un bello stile». L’imma­ ginazione dipende sempre da una sintassi. Le variabili di una lingua sono in qualche modo posizioni o pun­ ti di vista su un movimento di pensiero, un dinamismo, una linea. Ogni variabile passa e ripassa da posizioni diverse su una linea di modulazione particolare: lo stile procede sempre per ripetizioneprogressione. Passerone analizza tre casi decisivi della letteratura francese: la linea-piega di Mallarmé, la linea dispiegata di Claudel, la linea vibratoria, vorticosa di Artaud. Più in generale, si direb­ be che lo stile tenda la lingua, vi faccia giocare veri e propri tenso­

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ri che sospingono verso un limite. Il fatto è che la linea o il movi­ mento di pensiero sono davvero e in ogni caso il limite di tutte le posizioni delle variabili considerate. Tale limite non è al di fuori della lingua, né del linguaggio, è il suo di fuori. Un di fuori del lin­ guaggio che non è fuori di esso. Cosi, quando si dice che lo stile è come una lingua straniera, non è una lingua altra da quella che par­ liamo, è una lingua straniera nella lingua che si parla. Tesa verso un limite interiore, o verso questo di fuori della lingua, essa si met­ te a balbettare, a farfugliare, a gridare, a bisbigliare. Qui ancora, e in una seconda maniera, Io stile appare in quanto non-stile, e co­ stituisce la follia della lingua, il suo delirio. MandeTstam dice: «Su di me, come su molti miei con temporanei, pesa la balbuzie della nascita. Abbiamo imparato non a parlare, ma a balbettare, e sol­ tanto prestando ascolto al crescente fragore del secolo e imbianca­ ti dalla spuma della sua cresta, abbiamo acquistato una lingua»1. Come nominare questa linea di cresta verso cui tutta la lingua è tesa, modulante ? Più la lingua se ne avvicina, più lo stile si fa so­ brio, «non-stile», come in Tolstoj o in Beckett. Ai grandi scritto­ ri non piacciono i complimenti sulla loro opera passata, e neppu­ re su quella presente: soltanto loro sanno a qual punto siano anco­ ra lontani da ciò che desiderano e cercano. Una «linea astratta», dice Celine, che non forma un contorno o una figura, ma che si può trovare in questa o in quella figura, a condizione di disfarla, di estrarla: «Questa famosa linea, alcuni la trovano nella natura, negli alberi, nei fiori, nel mistero giapponese... »1 2. Oppure in un’o­ ra della giornata (Lorca, Faulkner), o in un evento che sta per ac­ cadere, o che tarda tanto più che è già avvenuto, oppure in una postura del corpo, o in un movimento di danza: tensione di tutto il linguaggio verso la pittura, verso la musica, ma musica e pittura della lingua e appartenenti solo a essa. La lingua in quanto sistema eterogeneo; il discorso indiretto li­ bero come coestensivo alla lingua; le variabili e la loro messa in va­ riazione, modulazione; le tensioni che attraversano una lingua; la linea astratta in quanto di fuori o limite del linguaggio... Temia­ mo precisamente di aver reso astratto il libro di Passerone. Al let­ tore, adesso, di scoprire, attraverso le variazioni dei casi conside­ rati, quanto sia concreto e costituisca una delle più nuove, una del­ le più belle analisi di una nozione difficile, lo stile. 1 O. Mandelstam, il rumore del tempo (1925), Einaudi, Torino 1970, pp. 76-77 2 In M. Hanrez, Celine, Gallimard, Paris 1969, p. 219 [NJ.C.].

58. Prefazione: le andature del tempo *

Eric Alliez non si propone di esporre concezioni del tempo, né di analizzare strutture temporali. Parla di condotte del tempo: si direbbe che il pensiero possa cogliere il tempo solo attraverso va­ rie andature, le quali compongono appunto una condotta, come se si passasse da un’andatura a un’altra secondo occorrenze determi­ nabili. Inoltre, si passerà da una condotta a un’altra in ambienti ed epoche diversi che mettono in rapporto il tempo della storia con il pensiero del tempo. Insomma, condotte molteplici del tem­ po, ciascuna delle quali riunisce piu andature. In ogni condotta al­ cune andature si fanno strane, aberranti, quasi patologiche. Ma può essere che nella condotta seguente esse si normalizzino o tro­ vino un nuovo ritmo che prima non avevano. A ispirare il lavoro di Alliez è forse questa introduzione di ritmi profondi nel pensie­ ro, in rapporto alle cose e alle società: il riferimento, per esempio, sarà alle belle pagine che analizzano la differenza storica e noeti­ ca tra il Cosmos e il Mundus. Sia una condotta del tempo il numero del movimento estensi­ vo del mondo. E evidente che le andature cambiano a seconda del mobile considerato e della natura del movimento. Si avrà un inca­ stro dei tempi che va dall’originario al derivato, a seconda che il mobile sia più o meno perfetto, la sua materia più o meno legge­ ra, il suo movimento più o meno riducibile a composizioni circo­ lari. Ma si avrà anche una disarticolazione dei tempi a seconda che la pesante materia affronti la contingenza o l’accidente lineare. Al limite, un tempo aberrante si disferà per divenire sempre più ret­ tilineo, autonomo, astratto dalle altre andature e a volte cadente e vacillante. Con la meteorologia un tempo simile non si introdu­ * Titolo del curatore. Préface, in E. Alliez, Les temps capitaux. Récits de la consuete du temps, vol. I, Editionszdu Cerf, Paris 1991, pp. 7-9. Nato nel 1957, amico di Guattari e studente di Deleuze, Eric Alliez sostenne la sua tesi di dottorato all’Università di Paris Vili sotto la sua direzione. Les temps capitaux ne riprende gli aspetti essenziali.

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Due regimi di folli

ce nelle cose ? E con il denaro, con la «crematistica», un tempo del genere non si introduce nella comunità ? Probabilmente c’è un’anima del mondo, e l’anima stessa è mon­ do. Tuttavia è necessaria una mutazione del pensiero per definire il tempo come la cifra del movimento intensivo dell’anima: è una nuova condotta del tempo con altre andature. Il tempo originario rinvia a una sintesi operata dall’anima che distingue in ogni istan­ te presente, passato, futuro. Questa differenziazione del tempo implica il doppio movimento dell’anima che si sporge verso ciò che viene dopo (processione) e si gira verso ciò che viene prima (con­ versione). La condotta non è tanto il movimento di una sfera quan­ to la tensione di una spirale. Si dirà che il tempo cada, un po’ co­ me la luce, di una caduta ideale (quantità intensiva o distanza dal­ l’istante allo zero) che è continuamente ripresa in un ritorno alla fonte. Ma, inoltre, più ci si avvicina allo zero, più l’andamento cambia e più la caduta diventa reale: un nuovo tempo aberrante si disegna, in cui la spirale scompare nella schiuma, un tempo deri­ vato dalla distensione che non si lascia più convertire. Forse bisogna invertire l’ordine e partire dal derivato per mi­ rare meglio all’originario, secondo un’ulteriore condotta: l’inten­ sivo diventa una sorta di intenzionalità. Si reintegra l’aberrante, nella misura in cui il peccato ha fondato un tempo della disten­ sione, del divertimento, della deviazione. La possibilità di instau­ rare un’«intenzione» che restituisca l’originario dipende da nuove andature che mobilitano le facoltà dell’anima e ispirano loro altri ritmi: non soltanto la memoria, ma la percezione, l’immaginazio­ ne, l’intelletto. Quale nuova aberrazione ne scaturirà? La storia della filosofia è un viaggio spirituale, ma l’originalità di Alliez è di indicare a ogni tappa i cambiamenti di condotte e di andature. C’è un orizzonte provvisorio del viaggio: il tempo kan­ tiano, non come qualcosa di previsto, un fine, ma come una linea che si scopre alla fine e di cui inizialmente si era percepito solo questo o quel segmento furtivo. La pura linea del tempo divenu­ to autonomo... Il tempo si è scrollato di dosso la sua dipendenza nei confronti di ogni movimento estensivo, che non è più deter­ minazione di oggetto, ma descrizione di spazio, spazio di cui dob­ biamo appunto fare astrazione per scoprire il tempo come condi­ zione dell’atto. Il tempo non dipende più dal movimento intensi­ vo dell’anima ed è invece la produzione intensiva di un grado di coscienza nell’istante che dipende dal tempo. E con Kant che il tempo smette di essere originario o derivato, per divenire la pura

Prefazione: le andature del tempo

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forma di interiorità, che scava dentro di noi, che scinde noi stes­ si, al prezzo di una vertigine, di un’oscillazione che costituisce il tempo: la sintesi del tempo cambia senso mentre lo costituisce co­ me l’insuperabile aberrazione. «Il tempo esce dai suoi cardini»: bisogna vedere in questo il montaggio di un tempo lineare urbano che si rapporta solo all’istante qualunque? AHiez non separa mai i processi di pensiero dalle cose e dalle società (comunità rurali, centri del commercio, imperi, città, stati). O piuttosto le cose, le so­ cietà e i pensieri sono presi dentro dei processi, senza i quali le condotte e le andature del tempo resterebbero arbitrarie; la forza del libro di Alliez sta proprio nello scoprire e nell’analizzare que­ sti processi di estensione, intensificazione, capitalizzazione, sog­ gettivazione... che diventano quasi le condizioni di una storia del tempo.

59La guerra immonda *

Questa guerra è immonda. Gli stessi americani hanno creduto di poter fare una guerra chirurgica, rapida e senza vittime inno­ centi? Oppure si sono serviti dell’Onu come di un paravento, giu­ sto il tempo di abituare e di mobilitare l’opinione pubblica per una guerra di sterminio? Con il pretesto di liberare il Kuwait, e poi con il pretesto di abbattere Saddam Hussein, il suo regime e il suo esercito, si compie la distruzione di una nazione. Con il pretesto di obiettivi strategici, sono i civili che muoiono sotto i bombardamenti di massa, sono le vie di comunicazione, i ponti, le strade che vengono distrutte molto lontano dal fronte, un patrimonio stori­ co prestigioso viene minacciato e sconvolto. Oggi il Pentagono co­ manda, organo di un terrorismo di stato che sperimenta le sue ar­ mi. Il gas che infiamma l’aria e carbonizza gli uomini in fondo ai loro rifugi: è un’arma chimica già pronta. Il nostro governo continua a rinnegare le proprie dichiarazio­ ni e si getta sempre più in una guerra a cui aveva il potere di op­ porsi. Bush si congratula con noi come si fa con un domestico. Il nostro obiettivo supremo: fare bene la guerra per acquisire il diritto di partecipare alle conferenze di pace... Molti giornalisti si considerano soldati degli Stati Uniti e rivaleggiano in dichiara­ zioni entusiaste e ciniche che nessuno gli chiede. Si scopre un sac­ co di gente che non vuole essere privata della sua guerra e che con­ sidera una speranza di pace una catastrofe. Il silenzio della mag­ gior parte degli intellettuali è tanto più inquietante. Grazie all’Onu credono davvero alla legittimità di questa guerra? All’identifica­ zione tra Saddam Hussein e Hitler? Alla purezza ritrovata dello stato d’Israele, che scopre a sua volta tardivamente i meriti del­ l’Onu, pur equiparando una conferenza di pace che tenga conto * Con René Scherer. In «Libération», 4 marzo 1991, p. 11. Si tratta della guerra del Golfo, dichiarata dagli Stati Uniti contro l’Iraq il 16 gennaio 1991.

La guerra immonda

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dei palestinesi all’orrore di una «soluzione finale» nazista? Se que­ sta guerra non viene fermata, attraverso sforzi a cui la Francia resta particolarmente estranea, quel che si profila non è solo l’asservimento del Medio Oriente ma il rischio di un’egemonia ame­ ricana che non ha più una controparte, la complicità dell’Europa e, ancora una volta, tutta una logica di rinnegamento del sociali­ smo che peserà sul nostro stesso regime.

6o. Abbiamo inventato il ritornello *

La vostra definizione della filosofia è piuttosto offensiva. Non te­ mete che vi si possa rimproverare di voler conservare - o restaurare in questo modo il privilegio che sembra accordarle la tradizione? Della filosofia si possono dare molte definizioni inoffensive: conoscersi, stupirsi, riflettere, condurre rettamente il proprio pen­ siero... Sono inoffensive perché vaghe: non costituiscono quasi mai un’occupazione definita. Noi definiamo la filosofia attraver­ so la creazione di concetti. Sta a noi dimostrare che la scienza non procede per concetti ma per funzioni. La filosofia non ne trae al­ cun privilegio: un concetto non ha alcuna superiorità nei confron­ ti di una funzione. Vi ponevo questa domanda perché mettete la filosofia a confron­ to con rarte e con la scienza, ma non con le scienze umane. Nel vo­ stro libro, per esempio, non è menzionata quasi mai la storia. Parliamo molto della storia, soltanto che il divenire si distin­ gue dalla storia. Tra i due c’è ogni sorta di correlazione e di rife­ rimenti: il divenire nasce nella storia e vi ricade, ma non è la sto­ ria. Ciò che si oppone alla storia è il divenire, non l’eterno. La sto­ ria considera alcune funzioni in base a cui un evento si verifica, ma l’evento, in quanto eccede la propria attuazione, è il divenire come sostanza del concetto. Il divenire è sempre stato un affare della filosofia. Elaborando la vostra definizione della filosofia come creazione di concetti, attaccate in particolare Videa che la filosofia sarebbe o do­ vrebbe essere «comunicazione». Si ha l’impressione che uno dei vo­

* Con Félix Guattari. Intervista raccolta da Didier Eribon, in «Le Nouvel Observateur», 12-18 settembre 1991, pp. 109-10; trad. it. di Gianfranco Morosato, in Divenire molteplice, ombre corte, Verona 2002. In occasione della pubblicazione di Qu’est-ceque la philosophic?, Minuit, Paris 1991; trad. it. Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996.

Abbiamo inventato il ritornello

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stri bersagli principali siano gli ultimi libri di Jiirgen Habermas e la sua teoria dell’«agire comunicativo». No, non attacchiamo Habermas in modo particolare, né nes­ sun altro. Habermas non è il solo a voler ancorare la filosofia alla comunicazione. A una specie di morale della comunicazione. In un primo tempo, la filosofia si è posta come contemplazione, dan­ do luogo a opere splendide, per esempio con Plotino. Poi come ri­ flessione, con Kant. Ma prima, per l’appunto, era necessario nei due casi creare un concetto di contemplazione o di riflessione. Non siamo sicuri che la comunicazione abbia trovato a sua volta un buon concetto, ossia un concetto realmente critico. Né il «consen­ so» né le «regole di una conversazione democratica», alla manie­ ra di Rorty, sono sufficienti a formare un concetto. Contro questa idea della comunicazione, della filosofia come «dia­ logo», proponete 1’«immagine del pensiero» che inserite in un con­ testo molto più generale. Quella che voi chiamate una «geofilosofia». Questo capitolo è al centro del vostro libro. Si tratta nello stesso tem­ po di una filosofia politica e quasi di una filosofia della natura. Vi sono molte ragioni perché la filosofia nasca nelle città gre­ che e continui nelle società capitalistiche occidentali. Ma si tratta di ragioni contingenti, il principio di ragione è un principio di ra­ gione contingente e non necessaria. Il fatto è che queste formazio­ ni sono fuochi d’immanenza, si presentano come società di «ami­ ci» (competizione, rivalità) e determinano una promozione dell’o­ pinione. Tuttavia, questi tre tratti fondamentali definiscono soltanto le condizioni storiche della filosofia; la filosofia come divenire è in relazione con essi, ma non si riduce a essi, è di un’altra natura. Essa continua a mettere in questione le proprie condizioni. Se le questioni di geofilosofia sono molto importanti, è perché non si pensa nelle categorie di soggetto e di oggetto, ma in un rapporto variabile fra il territorio e la terra. In questa «geofilosofia» fate appello alfilosofo «rivoluzionario» e alla necessità delle «rivoluzioni». È quasi un manifesto politico quello che proponete. Può sembrare paradossale nel contesto attuale. La situazione attuale è molto ingarbugliata. Si tende a confon­ dere la conquista delle libertà con la conversione al capitalismo. E discutibile che le gioie del capitalismo siano sufficienti a liberare i popoli. Si celebra il fallimento sanguinoso del socialismo. Ma non sembra che si consideri fallimentare la condizione del mercato mondiale capitalista, con le sanguinose ineguaglianze che lo con­ dizionano, con le popolazioni estromesse dal mercato ecc. E da

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molto tempo che la «rivoluzione» americana è fallita, ben prima di quella sovietica. Le situazioni e i tentativi rivoluzionari sono ge­ nerati dal capitalismo stesso e non rischiano di sparire. Peccato. La filosofia resta legata a un divenire rivoluzionario che non si confonde con la storia delle rivoluzioni. Mi ha colpito un punto del vostro libro : la filosofia, voi dite, non discute. La sua attività creatrice può essere solo isolata. C'è una gran­ de frattura con tutte le rappresentazioni tradizionali. Pensate che essa non debba discutere nemmeno con i suoi lettori, con i suoi amici? E già difficile capire ciò che uno dice. Discutere è un esercizio narcisistico in cui ciascuno a turno si fa bello: dopo un po’ non si sa più di che cosa si stia parlando. La vera difficoltà consiste nel determinare il problema a cui risponde questa o quella proposizio­ ne. Ma se si comprende il problema posto da qualcuno, non si ha alcun desiderio di discutere con lui: o si pone lo stesso problema, o se ne pone un altro e si ha voglia, piuttosto, di procedere al suo fianco. Come discutere senza un fondo comune di problemi? E perché discutere quando se ne ha uno ? Si hanno sempre le solu­ zioni che ci si merita a seconda dei problemi posti. Le discussioni rappresentano un’enorme perdita di tempo per problemi indeter­ minati. Le conversazioni, invece, sono un’altra cosa. E necessario fare conversazione. Ma anche la più piccola conversazione è un esercizio altamente schizofrenico, che avviene tra individui con un fondo comune e un grande gusto per le ellissi e le scorciatoie. La conversazione è un riposo intervallato da lunghi silenzi, può fornire delle idee. Ma la discussione non fa in alcun modo parte del lavoro filosofico. Terrore della formula «discutiamo un po’». Quali sono, secondo voi, i concetti creati dai filosofi del xx se­ colo? Quando Bergson parla della «durata», impiega questa parola insolita perché non vuole che sia confusa con il divenire. Crea un nuovo concetto. La stessa cosa vale per la memoria, determinata come coesistenza di falde del passato. O lo slancio vitale come con­ cetto della differenziazione. Heidegger crea un nuovo concetto di Essere, sotto la doppia componente del velamento e dello svela­ mento. Un concetto a volte richiede una parola strana, con etimo­ logie quasi folli, a volte una parola comune, ma da cui si traggono armoniche lontanissime. Quando Derrida scrive différance con la a, lo fa evidentemente per proporre un nuovo concetto di diffe­ renza. NeWArcheologia del sapere Foucault crea un concetto di enunciato che non si confonde con quello di frase, di proposizio-

Abbiamo inventato il ritornello

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ne, di atto di parola ecc. La prima caratteristica del concetto è di operare un taglio inedito delle cose. E voi quali concetti pensate di aver creato? Il ritornello, per esempio. Abbiamo formato un concetto di ri­ tornello in filosofia.

6i. Per Félix *

Sino alla fine il mio lavoro con Félix è stato per me fonte di scoperte e di felicità. Tuttavia non voglio parlare dei libri che ab­ biamo fatto insieme, ma di quelli che ha scritto per conto suo. Per­ ché mi sembrano di un’inesauribile ricchezza. Attraversano tre ambiti, in cui aprono strade di creazione. In primo luogo, nell’ambito psichiatrico, Félix introduce due nozioni principali dal punto di vista dell’analisi istituzionale: i gruppi-soggetti e le relazioni trasversali (non gerarchiche). E da notare che queste nozioni sono politiche tanto quanto psichiatriche. Il delirio come realtà psicotica è una potenza che pervade im­ mediatamente il campo sociale e politico: invece di attenersi al papà-mamma della psicoanalisi, il delirio fa derivare i continenti, le razze e le tribù. E al tempo stesso un processo patologico da cura­ re, ma anche un fattore curante da determinare politicamente. In secondo luogo, e in generale, Félix forse sognava un siste­ ma in cui alcuni segmenti sarebbero stati scientifici, altri filosofi­ ci, altri vissuti o artistici ecc. Félix si alza a uno strano livello che conterrebbe la possibilità di funzioni scientifiche,sdi concetti filosofici, di esperienze vissu­ te, di creazione d’arte. E questa stessa possibilità a essere omoge­ nea, laddove i possibili sono eterogenei. Come il meraviglioso si­ stema a quattro teste in Cartographies1'. «I territori, i flussi, le mac­ chine e gli universi». Infine, in terzo luogo, come non essere sensibili proprio ad alcune analisi artistiche di Félix, su Balthus, su Fromanger, o alle analisi letterarie, come il testo essenziale sul ruolo dei ritornelli in Proust (dalle grida dei commercianti alla pic­ cola frase di Vinteuil), o il testo patetico su Genet e il Captifamoureux. * In «Chimères», inverno 1992-93, n. 18, pp. 209-10. Testo redatto dopo la morte di Félix Guattari, avvenuta il 29 agosto 1992. 1 F. Guattari, Cartographies schizoanalytiques, Galilee, Paris 1989 [NJ.C.].

Per Félix

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L’opera di Félix è da scoprire o da riscoprire. E uno dei modi più belli per continuare a far vivere Félix. Ciò che c’è di strazian­ te nel ricordo di un amico morto sono i gesti e gli sguardi che ci colpiscono ancora, che ci giungono anche dopo la sua scomparsa. L’opera di Félix dà a questi gesti e a questi sguardi una nuova so­ stanza e un nuovo oggetto capaci di trasmetterci le loro forze.

Ó2.

L’immanenza: una vita... *

Che cos’è un campo trascendentale? Un campo trascendenta­ le si distingue dall’esperienza in quanto non si riferisce a un og­ getto né appartiene a un soggetto (rappresentazione empirica). Inoltre, si presenta come pura corrente di coscienza a-soggettiva, coscienza pre-riflessiva impersonale, durata qualitativa della co­ scienza senza io. Può sembrare curioso che questi dati immediati possano definire il trascendentale: si parlerà di empirismo trascen­ dentale, in contrapposizione a tutto ciò che costituisce il mondo del soggetto e dell’oggetto. C’è qualcosa di selvaggio e di possen­ te in un simile empirismo trascendentale. Non è certo l’elemento della sensazione (empirismo semplice), poiché la sensazione è so­ lo un taglio nella corrente di coscienza assoluta. E piuttosto, per quanto due sensazioni possano essere vicine, il passaggio dall’una all’altra come divenire, come aumento o diminuzione di potenza (quantità virtuale). Bisogna allora definire il campo trascendenta­ le attraverso la pura coscienza immediata senza oggetto né io, in quanto movimento che non comincia né finisce ? (Anche la conce­ zione spinoziana del passaggio o della quantità di potenza si richia­ ma alla coscienza). Ma fra il campo trascendentale e la coscienza c’è solo un rappor­ to di diritto. La coscienza diventa un fatto solo se un soggetto si pro­ duce simultaneamente al suo oggetto, entrambi fuori campo e come fossero «trascendenti». Al contrario, finché la coscienza attraversa il campo trascendentale a una velocità infinita diffusa ovunque, non * In «Philosophic», settembre 1995, n. 47, pp. 3 e 7; trad. it. di Fabio Polidori, in «aut aut», 1996, n. 271-72, pp. 4-7. E l’ultimo testo pubblicato da Deleuze prima che si suici­ dasse il 4 novembre 1995. Il seguito di questo testo è stato pubblicato come annesso nel­ la riedizione tascabile di Dialogues (con Claire Parnet), Flammarion, Paris 1996; trad. it. L’attuale e il virtuale, in Conversazioni, ombre corte, Verona 1998, pp. 157-61. Questi te­ sti appartenevano a un progetto su Insiemi e molteplicità di cui non esistono altri testi. De­ leuze voleva approfondire il concetto di virtuale su cui riteneva di non essersi spiegato ab­ bastanza.

L’immanenza: una vita...

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c’è niente che la possa rivelare1. Essa di fatto si manifesta solo ri­ flettendosi su un soggetto che la rinvia a degli oggetti. Per questo il campo trascendentale non può essere definito dalla sua coscienza che, pur essendogli coestensiva, sfugge a qualsivoglia rivelazione. Il trascendente non è il trascendentale. In mancanza di coscien­ za, il campo trascendentale si caratterizza come un puro piano di immanenza, in quanto si sottrae a ogni trascendenza, tanto a quel­ la del soggetto che a quella dell’oggetto1 2. L’immanenza assoluta è in sé: non è in qualche cosa, a qualcosa, non dipende da un ogget­ to e non appartiene a un soggetto. In Spinoza l’immanenza non è alla sostanza, ma la sostanza e i modi sono nell’immanenza. Quan­ do il soggetto e l’oggetto, che sono esterni al piano di immanen­ za, vengono considerati come soggetto universale o oggetto qual­ siasi ai quali l’immanenza viene attribuita, siamo di fronte a un completo snaturamento del trascendentale, ridotto soltanto a du­ plicare l’empirico (cosi in Kant), e a una deformazione dell’imma­ nenza che si ritrova in tal modo contenuta nel trascendente. L’im­ manenza non si riferisce a un Qualcosa come unità superiore a ogni cosa, né a un Soggetto come atto che opera la sintesi delle cose: solo quando l’immanenza cessa di essere immanenza ad altra cosa e non è altro che immanenza a sé si può parlare di un piano di im­ manenza. Il piano di immanenza non è definito da un Soggetto o da un Oggetto capaci di contenerlo, non più di quanto il campo trascendentale sia definito dalla coscienza. Diciamo che la pura immanenza è una vita, e nient’altro. Non è immanenza alla vita, ma l’immanenza che non è in niente è una vita. Una vita è l’immanenza dell’immanenza, l’immanenza asso­ luta: è completa potenza, completa beatitudine. La filosofia più tarda di Fichte, nella misura in cui supera le aporie del soggetto e dell’oggetto, intende il campo trascendentale come una vita, che non dipende da un Essere e non è sottoposta a un Atto: coscien­ za immediata assoluta, la cui attività non rimanda più a un essere, 1 H. Bergson, Matière et mémoire, in (Euvres, PUF, Paris 1959, p. 186; trad. it. Mate­ ria e memoria, in Opere, Mondadori, Milano 1986, p. 166: «Come se riflettessimo sulle su­ perfici la luce che ne emana, la quale, in quanto non cessa di propagarsi, non sarebbe mai stata rivelata». 2 Cfr. J.-P. Sartre, La transcendance de l’Ego (1937), Vrin, Paris 1965; trad. it. La tra­ scendenza dell*Ego, Egea, Milano 1992. Sartre pone un campo trascendentale senza sog­ getto, che rimanda a una coscienza impersonale, assoluta, immanente: in rapporto a essa, il soggetto e l’oggetto sono dei «trascendenti» (pp. 74-87; trad. it. pp. 63-73). Su James, cfr. l’analisi di David Lapoujade, Le flux intensi/ de la conscience chez William James, in «Philosophic», giugno 1985, n. 46.

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Due regimi di folli

ma non cessa di porsi in una vita1*3. Il campo trascendentale diven­ ta allora un vero e proprio piano di immanenza che reintroduce lo spinozismo nel più profondo dell’operazione filosofica. Non ca­ pitò forse qualcosa di simile a Maine de Biran, nella sua «ultima filosofia» (quella che era troppo stanco per portare a buon fine), quando scopri sotto la trascendenza dello sforzo una vita imma­ nente assoluta ? Il campo trascendentale è definito da un piano di immanenza, e il piano di immanenza da una vita. Cos’è l’immanenza? Una vita... Nessuno meglio di Dickens ha raccontato cos’è una vita, dove l’articolo indeterminativo è indice del trascendentale. Una canaglia, un cattivo soggetto disprezzato da tutti, è ridotto in fin di vita; ed ecco che quelli che se ne prendono cura mostrano una sorta di sollecitudine, di rispetto, di amore per il minimo segno di vita del moribondo. Tutti si danno da fare per salvarlo, al punto che nel più profondo del suo coma il malvagio sen­ te qualcosa di dolce penetrare in lui. Ma via via che si riprende i suoi salvatori diventano sempre più freddi, e lui riacquista tutta la sua volgarità, la sua cattiveria. Tra la sua vita e la sua morte c’è un mo­ mento in cui una vita gioca con la morte, e nient’altro4. La vita del­ l’individuo ha lasciato il posto a una vita impersonale, e tuttavia sin­ golare, che esprime un puro evento affrancato dagli accidenti della vita interiore ed esteriore, ossia dalla soggettività e dall’oggettività di ciò che accade. «Homo tantum» di cui tutti hanno compassione e che conquista una sorta di beatitudine. E una ecceità, che non de­ riva più da una individuazione, ma da una singolarizzazione: vita di pura immanenza, neutra, al di là del bene e del male? poiché solo il soggetto che la incarnava in mezzo àUè’CòseTa rendeva buona o cat­ tiva. La vita di questa individualità scompare a vantaggio della vita singolare immanente a un uomo che non ha più nome, sebbene non si confonda con nessun altro. Essenza singolare, una vita,.. Non bisognerebbe limitaré una vita al semplice momento in cui la vita individuale affronta l’universale morte. Una vita è ovunque, 1 Già nella Seconda introduzione alla Dottrina della scienza: «L’intuizione dell’attività pura che non è niente di fisso, ma progresso, non un essere, ma una vita», Zweite Einleitung in die Wissenschafts lehre fur Leser die schon ein philosophisches System haben, in «Philosophischer Journal einer Gesellschaft teutscher Gelehrten», vol. VI, fase. I, 1797; trad, it. in Prima e seconda introduzione alla Dottrina della scienza, Laterza, Roma-Bari 1999. Sul­ la vita secondo Fichte, cfr. Die Anweisung zum seeligen Leben, oderauch die Religionslehre, Berlin 1806; trad. it. Introduzione alla vita beata, o Dottrina della religione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004; e il commento di Martial Gueroult alla traduzione francese, Initia­ tion à la vie bienheureuse, Aubier-Montaigne, Paris 1944, p. 9. 4 C. Dickens, Our Mutual Friend, Chapman and Hall, London 1866; trad. it. Il nostro amico comune, Einaudi, Torino 2006, parte III, capitolo 3.

L’immanenza: una vita...

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in tutti i momenti attraversati da questo o quel soggetto vivente e misurati da tali oggetti vissuti: la vita immanente porta in sé gli even­ ti o le singolarità, e questi non fanno che attualizzarsi nei soggetti e negli oggetti. Questa vita indefinita non ha momenti, per quanto vicini siano gli uni agli altri, ma soltanto frat-tempi, fra-momenti. Non sopraggiunge né succede, ma presenta l’immensità del tempo vuoto dove si vede l’evento ancora a venire e già arrivato, nell’asso­ luto di una coscienza immediata. L’opera narrativa di Lernet-Holenia mette l’evento in un frattempo che può inghiottire interi reggi­ menti. Le singolarità o gli eventi costitutivi di una vita coesistono con gli accidenti deli: vita corrispondente, ma non si raggruppano né si dividono allo stesso modo. Comunicano tra di loro in modo del tutto diverso dagli individui. E inoltre si vede come una vita singo­ lare possa fare a meno di ogni individualità, o di ogni altro conco­ mitante che la individualizzi. Per esempio i neonati si somigliano tutti e non possiedono affatto individualità; ma hanno singolarità, un sorriso, un gesto, una smorfia, eventi che non sono caratteri sog­ gettivi. I neonati sono attraversati da una vita immanente che è pu­ ra potenza, e anche beatitudine attraverso le sofferenze e le debo­ lezze. Gli indefiniti di una vita perdono ogni indeterminazione nel­ la misura in cui riempiono un piano di immanenza o - il che, a rigore, è la stessa cosa - costituiscono gli elementi di un campo trascenden­ tale (la vita individuale al contrario resta inseparabile dalle determi­ nazioni empiriche). L’indefinito come tale non denota una indeter­ minazione empirica, ma una determinazione di immanenza o una determinabilità trascendentale. L’articolo indeterminativo è l’inde­ terminazione della persona, ma è anche la determinazione del sin­ golare. L’Uno non è il trascendente che può contenere anche l’im­ manenza, ma l’immanente contenuto in un campo trascendentale. Uno è sempre l’indice di una molteplicità: un evento, una singola­ rità, una vita... Si può sempre sostenere che un trascendente è ester­ no al piano di immanenza, oppure se lo attribuisce; resta però il fat­ to che ogni trascendenza si costituisce unicamente nella corrente di coscienza immanente propria a questo piano5. La trascendenza è sempre un prodotto di immanenza. ’ Lo riconosce anche Husserl: «L’essere del mondo è necessariamente trascendente al­ la coscienza, anche nella evidenza originaria, e resta necessariamente trascendente. Ma que­ sto non modifica assolutamente il fatto che ogni trascendenza si costituisce unicamente nel­ la vita della coscienza, in quanto inseparabilmente legata a questa vita... », Cartesianische Meditationen, M. Nijhoff, Den Haag 1950; trad. it. Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1989, p. 88 (traduzione modificata). Sarà il punto di partenza del testo di Sartre.

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Due regimi di folli

Una vita Contiene solo virtuali. E fatta di virtualità, eventi, sin­ golarità. Il virtuale non è qualcosa che manchi di realtà, ma è ciò che si inserisce in un processo di attualizzazione seguendo il pia­ no che gli dà la sua realtà propria. L’evento immanente si attua­ lizza in uno stato di cose e in uno stato vissuto che lo fanno acca­ dere. Anche il piano di immanenza si attualizza in un Oggetto e in un Soggetto ai quali è attribuito. Ma, per poco che siano sepa­ rabili dalla loro attualizzazione, il piano di immanenza stesso è vir­ tuale, cosi come gli eventi che lo popolano sono virtualità. Gli eventi o singolarità danno al piano tutta la loro virtualità, e il pia­ no di immanenza dà agli eventi virtuali una piena realtà. L’even­ to considerato come non-attualizzato (indefinito) non manca di nulla. Basta metterlo in rapporto con i suoi concomitanti: un cam­ po trascendentale, un piano di immanenza, una vita, delle singo­ larità. Una ferita si incarna o si attualizza in uno stato di cose e in un vissuto; ma è un puro virtuale sul piano di immanenza che ci porta in una vita. La mia ferita esisteva prima di me6... Non una trascendenza della ferita come attualità superiore, ma la sua im­ manenza come virtualità sempre interna a un ambito (campo o pia­ no). C’è una grande differenza tra i virtuali che definiscono l’im­ manenza del campo trascendentale, e le forme possibili che li at­ tualizzano e che li trasformano in qualcosa di trascendente.

6 Cfr. J. Bousquet, Les Capitals, Le Cercle du livre, Paris 1955.

Questo libro raccoglie gli scritti brevi di Gilles Deleuze dal 1975 al 1995, concludendo l’operazione avviata con Lisola deserta. È uno strumento pre­

zioso perché permette di vedere la molteplicità dei piani su cui Deleuze la­ vora e interviene. Alcuni testi sono un commento a margine, una prefigu­ razione dei suoi libri pubblicati in quel periodo, altri consentono a Deleuze di ripensare la sua opera attraverso le prefazioni alle varie edizioni stranie­ re. Ma forse l'aspetto più interessante nasce dall’intersezione con l’attualità, dove il ritmo viene scandito dagli eventi politici: il terrorismo, la corsa agli armamenti, la guerra del Golfo e soprattutto il conflitto israeliano-palestinese. Infine, possiamo leggere i suoi interventi nel contesto del vivacissimo dibat­ tito intellettuale di quegli anni: il tagliente giudizio sui nouveaux philosophies, il costante colloquio con Foucault, la feroce critica della psicoanalisi... Introduzione. - Due regimi di folli. - Schizofrenia e società. - Su Proust. - Sul diparti­ mento di psicoanalisi... - Nota all’ed. italiana di «Logica del senso».- Futuro della lin­ guistica. - Su «Le misogyne». - Quattro proposizioni sulla psicoanalisi. - Linterpretazione degli enunciati. - Lascesa del sociale. - Desiderio e piacere. - Il ricco ebreo. - A proposito dei nuovi filosofi... - Il modo peggiore di fare l'Europa. - Due domande sulla droga. - Rendere udibili delle forze... -1 seccatori. - Il lamento e il corpo. - In che co­ sa la filosofia... - Lettera aperta... - Questo libro è una prova d'innocenza. - Otto anni dopo. - La pittura infiamma la scrittura. - «Manfred». - Prefazione a «^anomalia sel­ vaggia». - Gli indiani di Palestina. - Lettera a Uno. - Prefazione all'ed. americana di «Nietzsche e la filosofia». - «Cinema-1 », prima. - Ritratto del filosofo da spettatore. Il pacifismo oggi. - Maggio '68... - Lettera a Uno. - Grandezza di Arafat. - Sui princi­ pali concetti di Foucault. - Le superfici di immanenza. - Era una stella del gruppo. Prefazione all'ed. americana di «Immagine-movimento». - Foucault e le prigioni. - Il cervello è lo schermo. - Occupare senza contare... - Prefazione all'ed. americana di «Differenza e ripetizione». - Prefazione all'ed. americana di «Conversazioni». - Prefa­ zione all'ed. italiana di «Mille piani». - Che cos'è l'atto di creazione? - Ciò che la voce apporta al testo. - Corrispondenza con D. Mascolo. - Le pietre. - Postfazione all'ed. americana: «Un ritorno a Bergson». - Che cos'è un dispositivo? - Risposta a una do­ manda... - Prefazione all'ed. americana di «Immagine-tempo». -1 tre cerchi di Rivet­ te. -^ingranaggio. -Lettera-prefazione... - Prefazione all'ed. americana di «Empirismo e soggettività». - Prefazione: una nuova stilistica. - Prefazione: le andature del tempo. - La guerra immonda. - Abbiamo inventato il ritornello. - Per Félix. - Eimmanenza: una vita... - Bibliografia degli articoli pubblicati -1975-98. - Indice dei nomi.