Ravel. Scritti e interviste 8859246881, 9788859246886

A un giornalista di «Excelsior» Ravel dichiara nel 1931: «... io lavoro troppo e dormo solo due ore per notte. Ora, la r

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Italian Pages 272 [276] Year 2018

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Ravel. Scritti e interviste
 8859246881, 9788859246886

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RAVEL SCRITTI E INTERVISTE a cura di Arbie Orenstein

Biblioteca di cultura musicale

Improvvisi 10

Titolo originale: A Ravel Reader. Correspondence, Articles, Interviews Pubblicato negli Stati Uniti da Columbia University Press, New York © 1990 Columbia University Press, New York

Traduzione di Paolo Martinaglia, con la collaborazione di Sergio Bescente (per Problemi della musica moderna), Lena Bonder (per L’influenza scandinava sui compositorifrancesi), Michela Finassi Pardo (per II glande musicista Maurice Ravel parla della sua arte e Maurice Ravel e il suo “Bolèro”), Silvia Tavella (per Dieci giudizi di Maurice Ravel su opere e compositori)

Redazione e impaginazione di Luisella Arzani, con la collaborazione di Sergio Bonino Grafica di copertina di Marco Rostagno

In copertina: Maurice Ravel (1909), ritratto di Achille Ouvrè su cliché di Roger-Viollet Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, non è consentita senza la preventiva autorizzazione scritta dell’editore

© 1995 per l’edizione italiana E.D. T Edizioni di Torino 19, via Alfieri - 10121 Torino ISBN 88-7063-197-4

RAVEL SCRITTI E INTERVISTE a cura di Arbie Orenstein

Edizione italiana a cura di Enzo Restagno

Indice

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XXVI XXVII

Prefazione alledizione italiana (Enzo Restagno) Premessa Ringraziamenti Introduzione

Parte 3 8 9 19 20 22 24 27 31 34 38 42 46 49 52 55 58

prima:

Scritti e articoli

Uno schizzo autobiografico di Maurice Ravel Alcune riflessioni sulla musica La musica contemporanea Wagner e i musicisti d’oggi. Opinioni di Florent Schmitt e di Maurice Ravel - Conclusioni Le Polonaises, i Nocturnes, gli Impromptus, la Barcarolle - Impressioni Cosa mettere sotto alla musica? Versi belli, versi brutti, versi liberi o prosa? Concerts Lamoureux Concerts Lamoureux I Tableaux symphoniques di Fanelli La sorcière all’Opéra-Comique Fervaal

Al Theatre des Arts A proposito delle Images di Claude Debussy Boris Godunov

All’Opéra-Comique: Francesca da Rimini e La vida breve Parsifal

I nuovi spettacoli della Saison Russe: Le rossignol

Ravel — Scritti e interviste

61 66

67 70 73 75 78

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Le mélodies di Gabriel Fauré A proposito dell’ispirazione Il jazz va preso sul serio! Ricordi di un ragazzo pigro Concerto pour la main gauche

Trovare motivi musicali nelle fabbriche Le aspirazioni di chi ha meno di venticinque anni: la giovane musica Nijinsky, maestro coreografo

Parte 85 87 89 91 94 96 98 101 103 105 109 111 113 115 119 125 127 133 137 139 142 144 148 151 156 158 161

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seconda:

Interviste

Le opinioni di Maurice Ravel sulla musica francese moderna L’heure espagnole

Ma mère l’oye

“La lince”: Maurice Ravel in campagna Impressioni viennesi di un artista francese Ravel e la musica moderna Il festival di musica francese Maurice Ravel a Londra Un celebre compositore francese a Londra Il grande musicista Maurice Ravel parla della sua arte Anteprima L’arrivo di Maurice Ravel L’influenza scandinava sui compositori francesi Maurice Ravel e la giovane musica francese Maurice Ravel, l’uomo e il musicista Ravel parla degli stimoli offertigli da Poe nell’arte della composizione Il ritorno di Maurice Ravel Maurice Ravel parla di Berlioz Problemi della musica moderna Maurice Ravel e il suo Bolèro Intervista con Ravel A casa di Maurice Ravel Maurice Ravel parla della propria opera Un’intervista con... Maurice Ravel Qualche confidenza del grande compositore Maurice Ravel Un pomeriggio con Maurice Ravel Le fabbriche offrono ispirazione al compositore Dieci giudizi di Maurice Ravel su opere e compositori Maurice Ravel tra un treno e l’altro Maurice Ravel scriverà presto una Jeanne d'Arc

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Indice

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Appendice: I testi di Maurice Ravel per i balletti

176 207 212 215

Note al testo Bibliografia essenziale Indice delle opere citate Indice dei nomi

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Prefazione all’edizione italiana

Impenetrabile, gentilissimo Ravel

Nel novembre 1937 Désiré-Emile Inghelbrecht diresse l’Orchestre National in Daphnis et Chloé. Incredibilmente sciupato, stanco e triste Ravel assistette a quel concerto senza sapere che sarebbe stato il suo ultimo appuntamento con la musica. Al termine dell’esecuzione, dietro le quinte, si rivolse singhiozzando a Hélène Jourdan-Morhange: «J’ai encore tant de musique dans ma tete, je n’ai encore rien dit, j’ai encore tellement à dire...». Non c’è nessuna ragione per dubitare della testimo­ nianza di quella gentile signora che fu tanto affettuosamente vicina a Ravel, ma, data la ben nota riluttanza dell’uomo e dell’artista a espressio­ ni così dirette, si è indotti a credere che solo lo stato di estrema fragilità a cui la malattia lo aveva ridotto abbia portato il Nostro a quella dispe­ rata confessione. Un mese dopo Ravel si sottopose nella.clinica del pro­ fessor Clovis Vincent a un difficile e vano intervento di chirurgia cerebrale. A norma di legge le cartelle cliniche dei pazienti divengono pubblicamente consultabili cinquantanni dopo la morte e ricordo benissimo che nel 1987 (Ravel morì il 28 dicembre 1937) c’era tra gli studiosi di Ravel parecchia curiosità poiché sulla patologia del compositore aveva sempre aleggiato un certo mistero. Non ci furono rivelazioni di nessun tipo, perché cinquantanni dopo le cartelle cliniche del paziente Ravel erano scomparse: durante la guerra la clinica si era trasferita in altra sede e probabilmente nel trasloco una parte dell’archivio era andata perduta. Non che ci si aspettassero rivelazioni sensazionali, ma anche in questo caso parve di cogliere il segno di uno speciale destino: su Ravel, che in vita era stato sempre così riservato nell’esternare i suoi sentimenti e i suoi giudizi, doveva continuare a incombere un sostanziale riserbo, perfino sulla malattia e sulla morte! Gli amici, solo quelli che potevano vantare una confidenza di lunga data, furono per lungo tempo i depositari dei pensieri più intimi dell’uo­ mo e del musicista Ravel, il quale era solito comunicarglieli indiretta­ mente. Che fosse contento del modo in cui un pianista, un violinista, un

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Ravel — Scritti e interviste

direttore o una cantante avevano eseguito qualche suo lavoro non c’era verso di venirlo a sapere direttamente: una invincibile timidezza amman­ tata di maniere raffinate fino allo snobismo induceva il maestro a sorvo­ lare, a cambiare repentinamente discorso, portando magari l’attenzione su qualche dettaglio all’apparenza futile. Non faceva complimenti e non amava riceverne, Ravel, e quanto profonda potesse essere la stima che rivolgeva a chicchessia si poteva venirlo a sapere solo per interposta persona. Probabilmente c’era in quella ritrosia qualcosa di simile alla diffidenza verso l’espressione verbale che induce un personaggio di una commedia di Hofmannsthal a definire «indecente» qualsiasi forma di esternazione del sentimento. Va precisato però che l’indecenza più che con il pudore violato ha in questi casi a che vedere con il problema della conoscenza. L’invito hofmannsthaliano al silenzio nasce infatti dal con­ statare l’inettitudine delle parole a cogliere il senso della realtà: troppo complesso e contradditorio è l’orizzonte dei molteplici significati che si irradiano dalla realtà, e a volerlo esprimere con le parole questo signifi­ cato si frantuma, si trasforma in vane chiacchere. Ravel aveva il privilegio di esprimersi con la musica, che è un linguaggio meno esposto alle trappole semantiche, ma la sua musica, che sempre nasce dal travaglio della più ricercata perfezione, allude spesso al tormentoso fascino delle cose non dette, delle cose che avrebbero potuto essere ma che non sono accadute. Con L’indifférent. ultima delle tre liriche che compongono il trittico di Shéhérazade, Ravel ci consegna il suo primo autoritratto. “In­ differente” è colui che osserva avvicinarsi e poi dileguarsi la misteriosa creatura che procede con il passo lieve dei sogni e della voluttà: non un gesto, neppure il più piccolo cenno, ma il passaggio della misteriosa creatura solleva una scia ardente di passione e di nostalgia. I silenzi di Ravel e le sue parole sobrie e misurate sollevano quelle scie vibranti a cogliere le quali dobbiamo forgiarci una speciale e sensibilissima atten­ zione. Con una simile disposizione d’animo, che è spesso propria della condizione del musicista, Ravel doveva sentirsi più che mai assillato dall’inettitudine delle parole, e bisogna convenire che anche nell’eserci­ zio della sua arte dava prova di una sobrietà il cui modello ideale aveva individuato nell’opera di Mozart: «Non ho mai avvertito la necessità di formulare, per me stesso o per altri che sia, i principi della mia estetica. Se dovessi farlo, chiederei di potermi attribuire le semplici dichiarazioni espresse a questo proposito da Mozart. Egli si limitava a dire che la musica può prendere qualsiasi strada, può osare e descrivere ogni cosa, a patto che sappia affascinare e che resti, alla fin fine e per sempre, musica». Gli amici che venivano a sapere indirettamente della stima e dell’af­ fetto che a loro rivolgeva Ravel avevano il privilegio di essere sovente destinatari delle sue lettere, concise sì ma anche infinitamente delicate ed elegantemente allusive. Si venne così a costituire un club degli amici di

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Prefazione all'edizione italiana

Ravel e un’eco dell’intima discrezione che vi regnava si può cogliere nel delizioso volumetto che Hélène Jourdan-Morhange pubblicò nel 1945 con il titolo Ravel et nous. In quel club una posizione preminente spetta al compositore e musicologo Roland-Manuel, che dell’autore del Bolèro fu allievo, amico e confidente. Di questa sua condizione privilegiata Roland-Manuel fece buon uso scrivendo pagine di rara perspicacia criti­ ca sull’opera del maestro. A lui Ravel aveva dettato nel 1928 quella Esquisse autobiographique destinata a restare per molto tempo il principa­ le punto di riferimento per ogni ricognizione biografica, e fu ancora lui a pubblicare nel 1948 da Gallimard una minuscola ma preziosa mono­ grafia. Un primo tentativo di tracciare un profilo del personaggio era stato consegnato a un articolo che, con il titolo Maurice Ravel à travers sa correspondence, Roland-Manuel aveva pubblicato nel 1939 su «La Revue Musicale». Da allora in poi i tentativi di fornire ulteriori docu­ menti si susseguono con una certa frequenza: Roland Manuel con Lettres de Maurice Ravel et documents inédits sulla «Revue de Musicologie» nel 1956 e nello stesso anno René Chalupt e Marcelle Gerar con un raffina­ to Ravel au miroir de ses lettres, in cui ancora domina quell’inconfondibile tono intimo del club destinato a lunga sopravvivenza, come dimo­ strano nel 1971 Marguerite Long con il suo Tlzzpiano avec Maurice Ravel e nel 1989 Vlado Perlemuter e Hélène Jourdan Morhange con Ravel d’après Ravel. La lista dei contributi che sono venuti di volta in volta ad arricchire le nostre conoscenze biografiche su Ravel è lunghissima e non intendiamo certo riproporla in questa sede. Sia concessa tuttavia un’uni­ ca eccezione: quella costituita dai «Cahiers Maurice Ravel», editi tra il 1985 e il 1986 dalla omonima Fondazione, e dal volume delle edizioni Calligrammes, che pubblicò nel 1986 le Lettres à Roland-Manuel et a sa famille. Le lettere ad Alfredo e Hélène Casella e quelle ai Roland-Manuel ci informano su tante cose grandi e piccole, legate per lo più alla sfera del quotidiano, ma il valore di questi scritti non sta nelle notizie in sé bensì nel modo in cui esse vengono comunicate. Una questione di forma, di galateo, in ultima analisi? Il modo che Ravel aveva di porgere la notizia aveva in sé qualcosa di sublime e di misterioso al tempo stesso, poiché implicava una quantità di intese spirituali sulle quali si fondava il legame con gli amici. Si obietterà che un patrimonio comune di conoscenze e di affinità continua a essere sottinteso in ogni forma di comunicazione tra persone tra le quali esista^no dei vincoli affettivi, ma in questa prospettiva Ravel ci appare davvero un uomo d’altri tempi, quando le parole possedevano la ricchezza e la profondità di uno stile di vita in cui c’era molto più tempo per riflettere sui più piccoli dettagli e volendo si potevano comporre i gesti e le parole della propria esistenza seguendo codici profondi e raffinati. L’esercizio dell’ironia è in quegli scritti impiegato come la più aristocratica delle arti

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Ravel — Scritti e interviste

e non meno ricercata è la cura posta nella definizione del più piccolo dettaglio. In nome di quella sublime ritrosia alla quale già abbiamo fatto cenno, nel discorrere con gli amici o nello stendere una nota critica si infiltra nelle parole di Ravel uno stile di vita caratterizzato da un superiore controllo dell’emozione; ma non è solo questione di riserbo e di finezza; il gioco delle allusioni e degli accenni arriva a quel grado di perfezione che coincide con la spontaneità assoluta. Non essendo sicuro di riuscire a spiegare un concetto tanto sofisticato senza scivolare su troppi sostantivi astratti, mi affiderò a un esempio. In una lettera indirizzata il 18 aprile 1937 a Hélène Casella, Ravel comunica la sua partecipazione al dolore per la scomparsa di Karol Szyma­ nowski osservando come «a questo punto di perfezione l’amicizia finisce con il rassomigliare a una lingua straniera che si è imparata insieme e che si è rimasti soli a parlare». Attraverso questi frammentati richiami al club degli amici di Ravel e ai più svariati contributi biografici spero possa tralucere il fascino di quei documenti che a mio parere costituiscono un ampliamento dell’emozio­ ne procurata dalla musica alla quale sono collegati. La musica, i libri e le opere che amiamo suscitano in noi una sete di conoscenza che non si appaga soltanto in una contemplazione sempre rinnovata. Le opere d’ar­ te che abbiamo scelto, o che forse ci hanno scelti per continuare a vivere la propria vita, ci chiedono di andare oltre l’opera, di esplorarne i con­ torni e le propaggini più lontane per tornare quindi all’opera stessa con conoscenze accresciute, con nuovi dilemmi dal disvelamento dei quali ci possiamo aspettare una conoscenza più sicura di certe zone dell’opera che prima ci sfuggivano. Nel caso di Ravel tutti quei documenti così rivelatori della personalità dell’uomo e dell’artista e venuti a poco a poco alla luce erano sparpagliati fino a poco tempo fa in un numero impres­ sionante di pubblicazioni di diffìcile accesso, in alcuni casi introvabili (sicché a me sono occorsi parecchi anni per metterli insieme). A questo stato di cose si aggiunga che il lettore italiano, ormai sempre più rara­ mente francofono, di tutti quei documenti non aveva praticamente nulla a disposizione. Questa condizione di subalternità culturale per tutti co­ loro che in Italia amano Ravel e la civiltà di cui la sua musica è espres­ sione ha termine con la pubblicazione di questo libro, che ci offre in traduzione italiana la quasi totalità degli scritti di Ravel a eccezione delle lettere, destinate a un prossimo volume. L’avvenimento è così importan­ te che vale la pena di raccontarne brevemente la storia chiamando in causa il principale artefice. È a questo punto che entra in scena il musi­ cologo americano Arbie Orenstein, al quale dobbiamo la raccolta, la presentazione e l’eruditissimo commento degli scritti di Ravel che com­ paiono nel nostro volume. Nel 1989 uscì dall’editore parigino Flammarion Maurice Ravel. Lettres, écrits, entretiens -presentés et annotéspar Arbie Orenstein, a cui fece seguito l’anno dopo per i tipi della Columbia Uni­

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Prefazione alPedizione italiana

versity Press di New York la versione inglese con il titolo A Ravel Reader. Entrambe le edizioni, pressoché identiche (ma quella in inglese con qualche reperto in più), contengono, oltre all’epistolario, gli scritti di Ravel sulla musica, le interviste da lui rilasciate a vari giornali e le risposte fornite ad alcuni questionari. Gli scritti veri e propri sono preceduti da tre testi sulla cui origine sarà opportuno spendere qualche parola. Il primo è la già menzionata Esquis­ se autobiographique che Roland-Manuel raccolse in forma di intervista e pubblicò solo molto più tardi come un documento firmato da Ravel. All’origine di questo scritto stava la richiesta di una nota autobiografica che la ditta Aeolian, produttrice di rulli perforati per pianoforti mecca­ nici, aveva commissionato a Ravel. Il testo redatto in forma di intervista non venne accettato dalla Aeolian e allora Roland-Manuel dovette sob­ barcarsi quel ruolo di Ghost Writer che gli sarebbe toccato interpretare anche con Stravinsky. Il secondo testo si intitola Alcune riflessioni sulla musica e, stando alla testimonianza dell’onnipresente Roland-Manuel, sarebbe stato la parte conclusiva dell’intervista Esquisse. Decisamen­ te più complicata è l’origine del terzo testo: si tratta di un singolare documento che consiste nella trascrizione stenografica in lingua inglese di una conferenza che Ravel pronunciò il 7 aprile 1928 al Rice Institute di Houston. E, per quanto si sappia, l’unica conferenza che Ravel abbia mai tenuto e nella sua notevole estensione tocca argomenti di stile e di storia musicale in modo così ampio e profondo da venire a costituire quasi un compendio delle convinzioni estetiche del suo autore. Non sappiamo come siano state prese le note né chi sia l’autore della traduzio­ ne in inglese, ed è davvero strano che un documento di questa importan­ za sia venuto alla luce solo recentemente. Quelli che restano sono scritti veri e propri e interviste. I primi risal­ gono all’attività di critico musicale che Ravel esercitò per un certo tempo per la «Revue Musicale» della Société Musicale Indépendente e per «Comoedia illustré», le seconde sono interviste che il compositore ormai celebre rilasciava a giornali di tutto il mondo in occasione delle sue tournée. La scelta effettuata da Arbie Orenstein ci propone interviste pubblicate da giornali francesi, americani, austriaci, inglesi, danesi e olandesi e si tratta, bisogna convenirne, di articoli eccellenti, capaci di mettere in luce il pensiero compositivo di Ravel, le sue convinzioni estetiche e morali non disgiunte da quel tocco brillante proprio di chi si concede per qualche minuto, con aria apparentemente svagata, al fascino della profondità. Eleganza e profondità coesistono in queste dichiarazioni estemporanee del musicista, al quale capita di confidare a una battuta principi di importanza capitale, veri e propri precetti di vita e di arte. A un giornalista di «Excelsior» Ravel dichiara nel 1931 «[...] io lavoro troppo e dormo solo due ore per

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Ravel — Scritti e interviste

notte. Ora, la resistenza umana non è senza limiti. Ma tutto il piacere dell’esi­ stenza consiste nell’incalzare la perfezione sempre un poco più da vicino, nel rendere un po’ meglio il fremito segreto della vita». Non è diffìcile riconosce­ re in frasi del genere quel tono di dandysmo che aveva caratterizzato la gioventù di Ravel, ma tanti anni sono passati dall’epoca delle prime illumi­ nazioni e in quello sforzo per «rendere un po’ meglio il fremito segreto della vita» l’estetica ha dovuto misurarsi con i tormenti del quotidiano, con le solitudini, con le delusioni, con le ondate non certo generose delle mode culturali, alle quali si può opporre soltanto la ricerca delle proprie ragioni più intime, ed ecco allora profilarsi dietro l’immagine dell’uomo elegante e del conversatore raffinato la sagoma del lavoratore insonne, instancabile nell’inseguire il miraggio di quella perfezione che sola è capace di fondare e garantire l’esistenza. L’esercizio dell’arte richiede «longue patience» e una fondamentale umiltà, atteggiamenti che Ravel non disdegna affatto: «Non bisogna mai aver paura di imitare. Io sono divenuto allievo di Schoenberg per scrivere i miei Poèmes de Mallarmé e soprattutto per le Chansons madécassesy dove alla base dell’atmosfera, come nel Pierrot lunaire, c’è un contrappunto molto stretto. Se ciò non si è trasformato in Schoenberg allo stato puro, è perché io ho meno paura, in musica, della suggestione emotiva, un elemento che lui evita fino all’ascetismo, fino al martirio». Nelle dichiarazioni di Ravel ricorre con frequenza quasi ossessiva il principio del carattere nazionale della musica. Se si pensa a Debussy che negli ultimi anni della sua vita sempre più spesso veniva chiamato «Clau­ de de France», se si tiene presente che durante la guerra, alla quale partecipò dopo essersi arruolato come volontario, Ravel fu invitato a cofirmare una lettera aperta nella quale i musicisti francesi a difesa della propria arte bandivano una specie di crociata contro la musica tedesca, si comprenderà come quell’insistita affermazione del carattere nazionale della musica possa destare qualche sospetto. Ravel rifiutò di firmare, ritenendola una vergogna, la lettera che proponeva di bandire la musica tedesca: non solo, ma presa carta e penna inviò al comitato promotore una risposta nella quale dichiarava che i musicisti francesi avevano una quantità di cose preziose da imparare dall’arte di Schoenberg, di Strauss e di Bartók e che se quel fecondo rapporto si fosse interrotto sarebbero stati condannati al provincialismo e al declino. In una Francia avvelenata dai miasmi di tensioni ideologiche che tendevano a trasformare la guerra in una lotta per la sopravvivenza della civiltà aggredita dalla barbarie, quella lettera proveniente da Verdun era un atto di coraggio e di civiltà. Nessun sospetto di sciovinismo dunque sul musicista Ravel, che però continuava a ribadire in ogni occasione non solo il carattere francese della propria musica ma la necessità per ogni musicista di tenersi ben saldo alle proprie radici nazionali.

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Prefazione all’edizione italiana

La difesa del carattere nazionale della musica è una vecchia questione e con un paradosso certo non infecondo si potrebbe immaginare di scrivere una storia della musica francese o tedesca in chiave anti-italiana o della musica francese in chiave antitedesca. All’epoca di Ravel quelle tensioni avevano perso il carattere bellicoso e un po’ ingenuo di netta contrapposizione che era stato proprio dei secoli precedenti. Non erano più concepibili anatemi contro l’arte latina come quello che chiude i Maestri cantori, ma la guerra, si è visto, aveva rinfocolato le vecchie tensioni. Il principio di una specifica vocazione musicale dei popoli era ancora una convinzione alquanto diffusa e poteva assumere in certi casi il carattere di formulazioni pseudoscientifiche: si pensi a Darius Milhaud, che non esitava ad attribuire alla musica francese e a quella tedesca una vocazione rispettivamente diatonica e cromatica, destinate a culminare con la loro evoluzione nel politonalismo e nella dodecafonia! Il nazionalismo di Ravel si fonda, a mio avviso, su ragioni più complesse nelle quali, oltre al culto della propria civiltà, deve aver svolto un ruolo, non saprei dire fino a che punto cosciente, la sensazione della crisi dei linguaggi. Tutta l’opera di Ravel è caratterizzata da un moto alterno di progresso e di regresso, e perfino nelle partiture più innovative il gesto audace tende, dopo esser stato formulato, a riassorbirsi nell’alveo della tradizione. Come si è visto Ravel dichiarava disinvoltamente di essere andato a scuola da Schoenberg per scrivere i suoi Poèmes de Mallarmé e non esitava a esprimere la sua predilezione per quella che risulta probabilmente la sua partitura più sperimentale: «Di tutto ciò che ho composto fino ad ora, ciò che mi soddisfa di più sono senza dubbio le Chansons Madecasses». E del Bolèro, l’opera ambigua per eccellenza, destinata da un lato a una popolarità senza confronti e dall’altro a interpretazioni filosofiche del tipo di quelle formulate da Lévi-Strauss, Ravel si limitava a dire: «[...] rappresenta un esperimento in una direzione particolarissima e limitata, e non bisogna sospettare che ambisca ad altri risultati oltre a quelli effettivamente conseguiti». Innovare senza prendere per il collo il linguaggio e le buone maniere della scrittura musicale, provando anzi un certo sgomento davanti all’abisso in cui potrebbe precipitare la musica dell’avvenire: tale sembra essere stato l’atteggiamento di Ravel. Genio e sregolatezza mai avrebbero potuto essere la sua divisa, come risulta da un giudizio lapidario espresso sul genio più inquieto della musica francese: «Berlioz è stato il genio che sapeva ogni cosa d’istinto, salvo ciò che ogni allievo di Conservatorio riesce a fare ad occhi chiusi: mettere un buon basso sotto un valzer». Ravel amava il jazz di cui seppe fare nella sua musica un uso origina­ lissimo, era deliziato dal modo di suonare di Gershwin e dalle improv­ visazioni violinistiche in stile tzigano, subiva il fascino del tono naif della musica di Satie. I Concerti per pianoforte, la Sonata per violino con il suo Blues, la danza della poltrona e delle teiera néééEnfant et les sortilèges,

XVII

Ravel — Scritti e interviste

Tzigane, gli Entretiens de la Belle et de la Bète dei quali Ravel ebbe a dire che costituivano la quarta Gymnopédie, stanno da una parte: dall’altra si allineano le immagini suscitatrici delle emozioni dalle quali quelle cele­ bri pagine hanno tratto l’impulso a esistere. Ravel ascoltava con grande curiosità, si concedeva alle suggestioni e abilmente le trasformava crean­ do qualcosa di inconfondibilmente suo che si sentiva in dovere di defi­ nire tipicamente “francese”. Talvolta quella specie di metabolismo mu­ sicale si manifestava in maniera felice e disinvolta, tal’altra era capace di scatenare crisi e turbamenti di rara intensità. Trasformare i brividi delle improvvisazioni tzigane coniugandole con la virtuosità dei Capricci di Paganini poteva essere un’operazione felice e relativamente semplice, ma fare i conti con l’uso degli “objets trouvés” proposto da Stravinsky in Petruska era ben altra cosa. L’immissione di materiali estranei nella pro­ pria musica, che si trattasse di canti popolari o di temi prelevati dal serbatoio della storia, non era un’operazione per la quale Ravel si sentiva portato. Accogliere e trasformare i materiali altrui vuol dire avere una diversa concezione del contesto, più moderna e flessibile, e in questo Ravel non assomiglia per niente al pur ammirato Stravinsky. Qualsiasi concezione autenticamente “neoclassica” resterà, ad onta delle inganne­ voli apparenze del Tombeau de Couperin, costituzionalmente estranea alla sua musica. Davanti a quelle poetiche che si profilavano all’orizzonte in maniera così perentoria Ravel si sentiva indotto a rifugiarsi nella propria intimità come il sagace Grillon delle Histoires naturelles, e questo voleva dire riaffermare le radici nazionali della propria arte contrappo­ nendo agli strabilianti exploit di Petruska la delicata féerie di Ma mère Boye. Eppure c’era l’esigenza di guardare avanti, magari soltanto per sognare nuove ipotesi: «[...] durante la mia infanzia m’interessavo molto alla meccanica! Le macchine mi affascinavano. Quand’ero ragazzino vi­ sitavo spesso, molto spesso, delle officine con mio padre. Sono state queste macchine, con i loro ticchettii e i loro ruggiti, a costituire la mia prima educazione musicale, accanto alle canzoni spagnole che mia ma­ dre mi cantava la sera per cullarmi!». La piena disponibilità nei confronti della moderna civiltà industriale arriva al punto di suggerire a Ravel dichiarazioni che potrebbero essere inscritte nei capitoli delle poetiche del futurismo: «I musicisti, gli storici e gli scrittori devono tramandare la leggenda meccanica del nostro tempo ai nostri figli e nipoti. Abbiamo messo in musica la natura, la guerra e cento altri temi, e mi stupisco che i musicisti non abbiano ancora colto le meraviglie del progresso industriale [...] Quanto al mio Bolèro deve la sua idea a un’officina. Un giorno, mi piacerebbe rappre­ sentarlo sullo sfondo di un vasto stabilimento industriale». Questa enorme varietà di interessi e suggestioni entra nell’opera pas­ sando attraverso il filtro critico che Ravel identifica nell’elemento nazio­ nale: gli scritti che contengono tutte quelle dichiarazioni costituiscono la

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Prefazione all'edizione italiana

materia con la quale è tessuto quel filtro, ed è essenziale conoscerli; ma nel concedersi alla suggestione, nel progettare per poi modificare e in qualche caso ritrattare, interviene una cautela critica che è anche espres­ sione del timore di addentrarsi su un terreno inesplorato e insidioso, ove potrebbe dileguarsi la memoria di ciò che fu la musica, ed ecco allora che il tenace radicarsi all’elemento nazionale mostra di essere una difesa della propria memoria storica. I rapporti di Ravel con la critica non furono sempre eccellenti: non che la sua musica turbasse o aggredisse concezioni consolidate; si è visto anzi quanto profondo ma abilmente defilato fosse il suo lato innovativo. I critici benpensanti avevano compiuto un grande sforzo per compren­ dere la modernità di Debussy, e dopo aver riconosciuto in lui il campio­ ne della moderna musica francese erano esausti. Non erano disposti ad ammettere l’esistenza di un secondo campione. Riconoscere la grandezza e l’originalità di Ravel avrebbe richiesto un enorme sforzo interpretativo, che avrebbe finito con lo spiazzarli un’altra volta. In fondo tra Debussy e Ravel c’erano pure delle somiglianze, e allora era più comodo trattare il secondo come un epigono del primo, aspettandosi eventuali altre rive­ lazioni dalla genialità aggressiva di Stravinsky o magari perfino da quei Sei giovani che idolatravano il vecchio Satie. Naturalmente i critici pos­ sono sbagliare e non bisogna volergliene per questo: l’essere più o meno perspicaci è una faccenda che non ha nessun rapporto con la moralità. Il conformismo e l’ignoranza, invece, con la morale hanno a che vedere e come! Quando ebbe l’occasione di esprimere un giudizio nei confronti di questa categoria Ravel mise da parte il suo abituale riserbo per definire i critici «una folla di dilettanti incompetenti, improvvisatisi musicografi» e, concentrando il fuoco sul difetto capitale della critica, ovvero sulla saccenza, lo sentiamo esclamare: «Quanto mi compiaccio di non assomi­ gliare a colui che, già sazio d’un’arte che non ha mai gustato, c’informa che [...] “nulla si logora più rapidamente delle audacie che vengono ripetute troppe volte senza rinnovarsi”». Nell’esercizio della critica musicale Ravel seppe impugnare la penna con decisione: ne sono prova le stroncature del Fervaal di Vincent d’Indy, al quale trova modo di contrapporre Chabrier, definendolo «il più profondamente personale, il più francese dei nostri compositori», e della Francesca da Rimini del modesto Francesco Leoni, a proposito della quale veniamo a sapere: «In quest’opera si possono riscontrare tutta la banalità, tutti gli ingenui espedienti che caratterizzano l’arte dei veristi italiani.Gli accenti vigorosi che questa fiacca scuola di dilettanti pretende di derivare dai suoi geniali predecessori vi sono prodigati con la medesi­ ma incoscienza». Naturalmente si può discutere sui giudizi critici di Ravel, ma ci sono nei suoi articoli alcune zone che possono essere defi­ nite autentiche illuminazioni poiché a dettarle è l’istinto del grande

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Ravel — Scritti e interviste

compositore. In un bellissimo articolo sulle melodie di Fauré, redatto in forma di intervista da Roland-Manuel, Ravel si sofferma su un’infinità di dettagli, esegue dei passi al pianoforte, osserva che il Lied tedesco ha nella sua melodia radici popolari ben ravvisabili, mentre in Francia non è successo niente di simile poiché «il vero fondatore della mélodie in Francia è stato Charles Gounod». E a proposito della lingua assesta una sensibilissima e magistrale definizione: «La fugace musicalità della lingua francese, meno appariscente di quella, per esempio, della lingua italiana, ma quanto più delicata e pertanto più preziosa!». Andare alla ricerca di quella «fugace musicalità» è quello che capita a chi si mette ad ascoltare le liriche di Ravel. I versi arcaici degli epigrammi di Marot, quelli assai più torniti e misteriosi di Mallarmé, le immagini un po’ oleografiche di Tristan Klingsor, la spoglia perfezione delle prose di Renard, la ricerca­ tezza naive di Colette: ogni volta Ravel interviene su quella «fugace musicalità» per catturarne le inflessioni più intime poiché — lui ne è assolutamente persuaso — l’arte lirica francese si gioca tutta sulle infles­ sioni e le finali mute, così esiziali per tanti altri compositori, trovano nelle sue partiture splendido riscatto. La musicalità della lingua francese, più delicata e preziosa di quella della lingua italiana, corrisponde alla visione della luce che Ravel aveva espresso allorché si accingeva a evocare lo scenario mediterraneo di Daphnis et Chloé. In quell’occasione, pensando al proprio orizzonte basco, Ravel lo aveva confrontato con un cielo mediterraneo soffocato dallo splendore solare, per dichiararlo a lui estraneo: «Non è il sole implacabile dell’altro sud. Qui esso possiede uno splendore più fine. La gente ne sente il benefìcio: essa è agile, elegante e la sua gioia non è volgare. Le danze qui sono leggere ed esprimono una voluttà senza eccessi». La clarté non deve essere soffocante, per manifestarsi ha bisogno di luce e di trasparenza, e questo è probabilmente il lato più intimamente francese dell’arte di Ravel. Quella nettezza del disegno che una luce accecante impedisce di raggiungere, e che della musica di Ravel è uno dei tratti più peculiari, presuppone una simile visione delle cose. Per com­ prendere e apprezzare adeguatamente i sortilegi orchestrali di Daphnis o le filigrane acuminate dei Trois Poèmes de Mallarmé bisogna fare i conti con quella precisa visione, il che vuol dire andare a rovistare con pazienza tra le sparpagliate carte di uno dei rappresentanti più affascinanti ed ermetici dell’arte musicale, quelle carte che son confluite in questo libro.

Enzo Restagno

Settembre 1995

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A mia moglie Mina e ai miei figli Michelle e Adam

Premessa

Questo libro è la naturale prosecuzione del mio primo studio, Ravel, Man and Musician, pubblicato dalla Columbia University Press nel 1975. A mano a mano che procedeva il mio lavoro un fatto s’imponeva sempre più all’evidenza: tra i commenti più accorti ed equilibrati sulla vita e l’opera di Ravel vi erano quelli del compositore. Gli scritti più importan­ ti di mano di Ravel sono beninteso i manoscritti musicali, che costitu­ iscono il suo lascito definitivo. I documenti qui riuniti fanno luce su questo lascito e su parecchi problemi ad esso connessi. I testi scritti dal compositore sono di due tipi — lettere e articoli; questi ultimi raccolgo­ no anche le risposte ad alcuni questionari; per quel che riguarda i testi raccolti a voce, si tratta naturalmente di interviste concesse alla stampa. Ho scelto inoltre tre documenti che rappresentano un colpo d’occhio complessivo sulla carriera e sul pensiero musicale di Ravel: uno schizzo autobiografico redatto dal suo collega e biografo Roland-Manuel, una breve dichiarazione sull’estetica intitolata Qualche riflessione sulla musica e la conferenza tenuta dal compositore a Houston, nel Texas, il 7 aprile 1928, La musica contemporanea. Sono pubblicati qui tutti gli articoli di Ravel che è stato possibile ritrovare — e cioè un totale di diciannove articoli (oltre a due risposte a questionari e un inedito) comparsi tra il 1909 e il 1933. Dieci tra essi sono recensioni di concerti scritte da Ravel nelle vesti di critico musicale della «Revue Musicale de la S.I.M.» (tre articoli dal febbraio all’aprile del 1912) e di «Comoedia illustré» (sette articoli dal gennaio 1913 al giugno 1914). Le sue osservazioni critiche riflettono un forte desiderio d’impar­ zialità, priorità estetiche ben definite e una raffinata intuizione artistica. Inoltre, quando ad esempio recensisce opere di de Falla, di Fauré o di Stravinsky, Ravel non si esprime solamente come critico, ma anche come intimo amico del compositore in causa. Non mancano osservazio­ ni che faranno alzare le sopracciglia a qualcuno: ad esempio il brutale

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Ravel — Scritti e interviste

giudizio sulla Missa solemnis di Beethoven, bollata come opera «inferio­ re», o le critiche piuttosto dure alla Seconda Sinfonia di Brahms. Non è certo indispensabile essere d’accordo con tutte le idee di Ravel per am­ mirare la sua brillante perspicacia, la sua incisiva chiarezza, la sua onestà congiunta a una delicata ironia, oltre a certe vivaci descrizioni di produ­ zioni teatrali che danno al lettore l’impressione di trovarsi seduto tra il pubblico. Altri articoli sono distribuiti tra pubblicazioni diverse e tratta­ no soggetti come le Images di Debussy, le Mélodies di Fauré, le coreogra­ fìe di Nijnskij o l’importanza del jazz. L’ultimo articolo di Ravel, pub­ blicato nel novembre del 1933, esamina con molta simpatia le difficoltà che la giovane generazione di compositori si trovava ad affrontare. La scelta di interviste è selettiva: diciotto di esse, originariamente comparse tra il 1911 e il 1933 su pubblicazioni americane, austriache, britanniche, danesi, francesi e olandesi, sono presentate quasi integral­ mente. Nessun dubbio che vi siano altre importanti interviste ancora da scoprire. In una lettera a Cipa Godebski, Ravel confessò di non avere scritto «altro che sciocchezze» rispondendo alle domande di un intervi­ statore, e in un’altra occasione si lamentò con un giornalista olandese di certe frasi mal riportate. A parte qualche problema del genere, le inter­ viste sono generalmente schiette e rivelatrici. Non si limitano a comple­ tare gli articoli, bensì affrontano importanti questioni altrove ignorate. Nel 1975, le celebrazioni del centenario della nascita di Ravel furono occasione di numerosi concerti speciali, registrazioni e mostre al di qua e al di là dell’Atlantico. Nel 1985 il primo numero di una nuova rivista, i «Cahiers Maurice Ravel», giunse a conferma del posto ormai acquisito da Ravel nel Pantheon dei compositori del XX secolo. In un breve necrologio pubblicato su «Modern Music» (gennaio-febbraio 1938), Homage to Ravels 1875-1937, un giovane compositore americano, El­ liott Carter, riassumeva con precisione l’importanza dell’arte di Ravel: Maurice Ravel coltivava quella specie di eleganza, grazia, precisione e accuratezza di fattura che ammirava tanto nella musica di Mozart, di cui era degno erede. È una specie che sembra farsi sempre più rara, a mano a mano che si procede innanzi in questo secolo inquieto. La sua opera era tuttavia un monumento a quella grandezza ed eleganza che costituiscono la meta d’ogni musicista degno di questo nome, e che sempre la miglior musica francese ha saputo esprimere. Il suo straordinario senso dello stile e il suo infallibile orecchio si univano a una raffinatezza di gusto e a un’ispirazione senza uguali, così da rendere ogni opera da lui scritta qualcosa di perfetto e definitivo nella propria categoria. Ha saputo per tutta la vita evitare la meschinità e la faciloneria, eppure il suo stile e la sua scrittura orchestrale hanno già lasciato il segno su tutta la musica, dal jazz più semplice alle più elaborate opere di Stravinsky. La sua musica rappresenterà per sempre una delle grandi glorie di quel­ l’arte che egli ha praticato tanto a lungo e tanto bene.

Non bisogna idolatrare l’uomo né la sua epoca straordinaria, in cui la musica, la letteratura e la pittura francesi erano in primo piano nella vita

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Premessa

culturale europea. Rammentiamoci piuttosto della massima di Kierkegaard: «La vita non può essere compresa che a ritroso, là dove occorre invece viverla in avanti». La vita e l’opera di Ravel s’iscrivono già fin d’ora nella storia, e il mezzo migliore che abbiamo per comprenderle è forse quello di vederle svilupparsi sotto la penna del compositore stesso. Arbie Orenstein

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Ringraziamenti

Sono lieto di ringraziare le istituzioni e le numerose persone che mi hanno assistito nella preparazione di questo libro . * Devo ai contributi dell’Institute of International Education, del National Endowment for the Humanities, del Faculty Research Award Program dell’università di New York l’aver potuto attuare in Europa ricerche a tempo pieno per tre anni. A queste istituzioni voglio esprimere la mia profonda gratitudine. Non sarebbe stato possibile portare compiutamente a termine questo libro senza la cortese collaborazione di Alexandre Taverne e della moglie, attualmente depositaria dell’eredità di Maurice Ravel. Voglio ringraziare coloro che hanno tradotto il libro in lingua italiana: in primo luogo Paolo Martinaglia, e Sergio Bestente, Lena Bomler, Michela Finassi Parole, Silvia Tavella. Piero Weiss, infine, mi ha fornito utili suggerimenti.

Arbie Orenstein

* Un elenco completo di ringraziamenti è reperibile in Arbie Orenstein, A Ravel Reader, New York, Columbia University Press 1990 e Ravel: Man and Musician, New York, Dover 1991.

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Introduzione

«Beauty is truth, truth beauty» —- that is all Ye know on earth, and all ye need to known

[«Bellezza è verità, verità bellezza» — questo è tutto Ciò che sai sulla terra, tutto ciò che t’occorre sapere] John Keats, Ode on a Grecian Urn Tout le plaisir de la vie consiste a serrer d’un peu plus près la perfection, à rendre un peu mieux le frisson secret de la vie.

[Tutto il piacere della vita consiste nell’incalzare la perfe­ zione sempre un poco più da vicino, nel rendere un po’ meglio il fremito segreto della vita] Maurice Ravel

Joseph Maurice Ravel venne alla luce a Ciboure, piccolo porto di pescatori sulla costa basca, accanto alla frontiera con la Spagna, il 7 marzo 1875. Alla sua nascita la madre Marie Delouart, d’origine basca, aveva trentacinque anni e il padre Pierre Joseph, ingegnere civile svizze­ ro, quarantatre. Nato da genitori cattolici, il bimbo fu battezzato nella chiesa parrocchiale di Saint-Vincent. Qualche mese dopo la nascita del loro figlio i Ravel si stabilirono a Parigi, dove s’erano sposati il 3 aprile 1873. Tre anni dopo nacque un secondo figlio, Edouard, futuro inge­ gnere sulle orme del padre. La famiglia Ravel era originaria di Collonges-sous-Salève, nell’Alta Savoia, in cui viveva nella seconda metà del XVIII secolo un certo Francois Ravex o Ravet (apparentemente il nome si scriveva nei due modi, e sembra che la grafia Ravel sia il risultato di una lettura errata del t finale dei Ravet). Suo figlio, Aimé Ravel, nacque nel 1800 a Collongessous-Salève, ma si stabilì a Versoix, nel cantone di Ginevra, e prese successivamente la nazionalità svizzera. Pierre Joseph Ravel, uno dei suoi cinque bambini, nacque a Versoix nel 1832; destinato a seguire la car­

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Ravel — Scritti e interviste

riera d’ingegnere, il padre di Maurice Ravel tuttavia s’interessò vivamen­ te alla musica. Era dotato di spirito inventivo e curioso, e nello sviluppo dell’industria automobilistica il suo ruolo fu quello d’un pioniere. Pierre Joseph portava spesso i figli a visitare officine d’ogni sorta, e i due ragazzi erano affascinati dalle macchine che scoprivano e dai suoni che sentiva­ no. Dal padre, Ravel sembra dunque avere ereditato una sana curiosità e uno spirito particolarmente aperto su tutti gli aspetti della vita, così come un particolare interesse per l’artigianato di precisione. L’attaccamento che univa Ravel e la madre fu incontestabilmente il legame affettivo più profondo di tutta la sua vita. In una lettera che stupisce per il suo candore, indirizzata a Ida Godebska il 27 dicembre 1919, la evocava in questi termini: Penso che presto saranno passati tre anni da che è partita, da che la mia dispe­ razione aumenta ogni giorno. Ci penso ancor di più da quando mi sono rimesso al lavoro, da quando non ho più questa cara presenza silenziosa che mi avvolgeva con la sua tenerezza infinita, e che era, lo vedo ora più che mai, la mia sola ragione di vivere.

Le melodie popolari spagnole che la madre gli cantava sono tra i primi ricordi del compositore, che da lei ereditò l’amore per i Paesi Baschi, il loro popolo e il loro folclore, così come una profonda simpatia per la musica spagnola. La sola lettera che si conosca della signora Ravel sem­ bra testimoniare che parlava abbastanza bene il francese, pur non avendo mai imparato a scriverlo. Aveva un ricco senso dell’umorismo ed era, in certo qual modo, una donna di libero pensiero — due tratti tra i nume­ rosi che avrebbe lasciato in eredità al figlio primogenito. I coniugi Ravel non erano sprovvisti di generosità, sensibilità e dedi­ zione, e se Maurice era il preferito della madre, Pierre Joseph rivolse un affetto particolare al figlio cadetto Edouard. La famiglia disponeva di entrate modeste ma sufficienti, e quando fu evidente che il primogenito avrebbe seguito una carriera musicale, i suoi genitori non risparmiarono né i loro incoraggiamenti né il loro sostegno. Maurice Ravel ebbe dun­ que la fortuna di un’infanzia felice, e la scelta della sua strada non comportò alcuna crisi: essa era votata alla musica fin dall’inizio, e l’unico dubbio era se sarebbe stata una strada di pianista o di compositore. L’educazione ufficiale ricevuta da Ravel si limitò alle lezioni di piano della propria infanzia e poi agli studi musicali in Conservatorio, che occuparono in modo non regolare gli anni tra il quattordicesimo e il ventottesimo. Così, le sue conoscenze di letteratura francese, storia, scienze, eccetera, furono quasi per intero frutto dei suoi sforzi personali. Dotato d’un talento naturale per la composizione, spesso lavorava di malavoglia al suo strumento, e i suoi genitori dovevano talvolta costringerlo a restare

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Introduzione

al pianoforte quando avrebbe preferito andare a giocare per le strade di Montmartre. Ciononostante, il 4 novembre 1889 il giovane pianista riuscì a passare l’esame d’accesso al Conservatorio per la classe di piano­ forte. Il suo lungo apprendistato si risolse per buona parte in una serie di fallimenti accademici. Per contro, i suoi anni di studente furono contras­ segnati da grandi progressi, e fu al Conservatorio che Ravel passò dal­ l’adolescenza alla maturità. Lì incontrò una folla di musicisti e intrecciò un gran numero di amicizie durevoli, tanto fra gli allievi quanto fra i professori. Al Conservatorio analizzò con metodo i tradizionali capola­ vori dei periodi barocco, classico e romantico, e suonò un vasto reperto­ rio di musica per pianoforte del XIX secolo. Si può aggiungere che, se pure Ravel ebbe una conoscenza relativamente limitata della musica europea dal gregoriano al XVII secolo, scoprì nondimeno un’enorme quantità di musica a lui contemporanea, musica oggi in gran parte cadu­ ta nell’oblio. Quanto alla vita privata di Ravel durante i suoi anni di studente, è l’eccezionale diario di Ricardo Vines a descriverla nel modo migliore. I due giovani musicisti erano mossi da una curiosità insaziabile, e, mentre le rispettive madri chiacchieravano tra loro in spagnolo, essi leggevano i brani più svariati per pianoforte a quattro mani, fossero opere originali o trascrizioni, da Mozart a Satie passando attraverso Mendelssohn, Franck, Rimskij-Korsakov, Balakirev, Borodin, Glazunov e Chabrier. Dopo le lezioni i ragazzi passeggiavano a lungo, si dedicavano a giochi d’ogni sorta, recitavano poesie, disegnavano, assistevano a concerti o visitavano mostre. Il 15 agosto 1892, i giovani pianisti passarono praticamente tutta la giornata al pianoforte, «provando nuovi accordi». I risultati di tutte queste scoperte sfociarono nella Habanera per due pianoforti, terminata nel 1895, in cui Ravel affermava con audacia il proprio gusto per le armonie raffinate, la sensualità e i ritmi di danza ispanica. Fu più o meno in quel periodo che prese la decisione cruciale di consacrarsi alla composizione. Ancorché incontrasse qualche difficoltà nell’acquisizione di una vera maturità in questo campo, ogni speranza ch’egli avesse potuto nutrire verso una carriera di pianista era peraltro completamente frustrata non solo dalla presenza di Ricardo Vines, ma anche da quella di altri pianisti eccezionalmente dotati del Conservatorio. Intorno al 1900 si costituì il nucleo d’un gruppo che riuniva giovani appassionati d’arte, e che avrebbe preso il nome di Apaches, nome immaginato da Ricardo Vines e che designava curiosamente ciò che oggi chiameremmo delle “canaglie”. In una certa qual misura, questi giovanotti si consideravano come “artisti al margine” — sempre pronti a prendere le difese di ciò che sembrava loro importante, che il pubblico fosse d’accordo o no. Gli Apaches erano ardenti difensori del Pelléas etMélisande di Debussy all’epoca dei suoi esordi tempestosi, e assistevano fedelmente

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Ravel - Scritti e interviste

a innumerevoli concerti di musica contemporanea. L’elemento femminile ne era rigorosamente escluso, il gruppo si riuniva tardi la notte per discutere di pittura, declamare poesia e suonare musica nuova. Le riunioni della consorteria furono abbastanza regolari fino all’inizio della guerra, ed esercitarono su Ravel una considerevole influenza. Non solamente i suoi orizzonti intellettuali ne fùrono ampliati, ma per diretta conseguenza delle riunioni degli Apaches egli conobbe buona parte dei suoi futuri collaboratori e amici intimi. Tra i membri del gruppo figuravano i poeti Tristan Klingsor e Léon-Paul Fargue, il pittore Paul Sordes, l’Abate Léonce Petit, il direttore d’orchestra Désiré-Emile Inghelbrecht, il pittore di scenografie Georges Mouveau, i pianisti Marcel Chadeigne e Ricardo Vines, i compositori André Caplet, Maurice Delage, Manuel de Falla, Paul Ladmirault, Florent Schmitt e Déodat de Séverac, i critici Michel D. Calvocoressi ed Emile Vuillermoz, e, tra gli amici intimi di Ravel, Pierre Haour e Lucien Garban. Il gruppo generalmente si riuniva il sabato sera, nello studio di Paul Sordes in rue Dulong, a casa di Tristan Klingsor in avenue du Parc-Montsouris, oppure nell’appartamento di Maurice Delage in rue de Civry. Gli Apache avevano un loro inno segreto (l’inizio della Seconda Sinfonia di Borodin), un loro soprannome (Ravel si chiamava «Rarà») e persino un membro fantasma, «Gomez de Riquet», personaggio inventato da Ravel come pretesto per interrompere una conversazione noiosa o una serata che languiva. Sarebbe difficile far rinascere quell’eccitazione, e l’entusiasmo senza freni di quelle riunioni di Apaches. «Ravel — scrive Léon-Paul Fargue — partecipava delle nostre predilezioni, inclinazioni, manie per l’arte cinese, per Mallarmé e Verlaine, Rimbaud e Corbière, Cézanne e Van Gogh, Rameau e Chopin, Whistler e Valéry, i Russi e Debussy». Fu in quest’atmosfera calorosa di reciproco incoraggiamento che Ravel suonò per la prima volta Jeux d’eau, Oiseaux tristes e la Sonatine. All’arrivo a tarda ora di Fargue, generalmente verso l’una del mattino, il coperchio del pianoforte veniva chiuso, ma le discussioni continuavano con rinnovato vigore. Oltre alle riunioni degli Apaches, Ravel assisteva talvolta ai martedì del «Mercure de France», e l’amicizia con Misia Godebska gli permise di legarsi alla cerchia letteraria della «Revue bianche». Qui fece la conoscen­ za di Henri de Regnier, di Thadée e Alexandre Natanson, di Jules Re­ nard, Paul Valéry, Léon Blum, Claude Terrasse e Franc-Nohain. I salotti dell’aristocrazia e della borghesia avevano anch’essi le loro serate musica­ li, e Ravel era fedele a quelle di Madame René de Saint-Marceaux e della principessa Edmond de Polignac, che gli commissionò la Pavane pour une infante défunte. Da Madame de Saint-Marceaux, in un’atmosfera simpatica in cui i musicisti si mescolavano agli artisti che ne facevano la caricatura mentre suonavano, sovente Fauré dirigeva al pianoforte, e tra gl’invitati si potevano incontrare Pierre de Bréville, Colette, Debussy,

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Introduzione

Vincent d’Indy o André Messager. Ravel prendeva parte a queste esecu­ zioni informali di musica contemporanea, e si trovò così una sera a improvvisare al pianoforte mentre la giovane americana Isadora Duncan danzava. La rivalità che opponeva due distinte scuole testimonia tutta la ricchezza della vita musicale francese agli inizi del XX secolo. La vecchia scuola era costituita dai discepoli di Cesar Franck, con a capo Vincent d’Indy, mentre il capofila della nuova fazione progressista altri non era che Claude Debussy. Senza dimenticare la sublime eleganza d’un Gabriel Fauré, l’arte neoclassica del suo maestro Camille Saint-Saèns, e le nuove esperienze di Erik Satie. Non c’è probabilmente da stupirsi che Ravel, che aveva tredici anni meno di Debussy, fosse subito classificato tra i suoi partigiani. A parte le accalorate dispute tra critici, era il pubblico francese stesso che non esitava a contestare rumorosamente o ad applaudire durante i concerti di musica contemporanea, sicché nelle sale da concerto regnava un vero spirito militante. Mentre la Société Nationale de Musique, fondata nel 1871, presentava una vasta scelta di musiche francesi contemporanee, la Société des Concerts du Conservatoire, fondata già nel 1828, offriva generalmente opere che andavano da Bach a Wagner. Grazie ai considerevoli progressi della musicologia, si cpminciava ad accedere ai vasti tesori del canto gregoriano, del rinascimento, del barocco, presentati in occasione degli importanti concerti della Schola Cantorum, diretta da Vincent d’Indy. All’Opéra e nelle sale da concerto Wagner regnava incontrastato maestro, e praticamente tutti gli aspetti della vita culturale francese risentivano dell’impatto del compositore di Bayreuth. Oltre alle operette francesi, sempre popolari, si ascoltavano spesso le opere di Massenet, di Meyerbeer, di Mozart, di Puccini e della scuola italiana del XIX secolo; nel 1904 all’Opéra ebbe luogo la millesima replica di Carmen. Le orchestre Colonne e Lamoureux programmavano spesso musiche di Beethoven e di Wagner, e conservavano una certa predilezione per la musica dei classici viennesi e dell’epoca romantica. Tra i numerosi, eccellenti concertisti, si potevano ascoltare Pablo Casals, Alfred Cortot, Arthur Rubinstein e Jacques Thibaud. Degli anni di studio di Ravel non ci restano che poche testimonianze epistolari. Oltre a frequentare i corsi di pianoforte, di armonia, di com­ posizione e di orchestrazione, scrisse le sue prime opere, che suscitarono vive controversie, mentre concorreva senza successo al Prix de Rome e dava lezioni private per potersi mantenere. Opere come Jeuxd’eau (1901), il Quatuor à cordes (1903) o il ciclo di liriche Shéhérazade (1903) erano in effetti considerate “pericolose” dagli insegnanti più conservatori ed ebbero un ruolo incontestabile nei suoi successivi fallimenti al Grand Prix. La sua eliminazione, poi, dal concorso del Prix de Rome del 1905 fin dalla prima sessione finì per scatenare un autentico scandalo. In

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Ravel - Scritti e interviste

questo clima tempestoso egli accettò un provvidenziale invito di Alfred e Misia Edwards e li raggiunse a bordo del loro lussuoso yacht Aimée per una lunga vacanza in Belgio, Olanda e Germania; nel corso dell’estate del 1905 scrisse a Madame de Saint-Marceaux: In tutto questo tempo non ho scritto una sola battuta, ma ho immagazzinato una folla d’impressioni e spero che quest’inverno si preannunci straordinariamente pro­ duttivo. Non sono mai stato così felice di vivere, e credo fermamente che la gioia sia ben più fertile che la sofferenza.

L’ultima frase la dice lunga sulla personalità e sull’arte di Ravel. L’in­ verno del 1905 fu poi ricco di realizzazioni, e gli anni che precedettero la prima guerra mondiale si rivelarono come i più produttivi di tutta la sua carriera. Lo smacco del 1905 al Prix de Rome segnò una svolta importante nella vita di Ravel. Aveva definitivamente chiuso con le fughe scolasti­ che, le cantate insipide e le sterili lotte con giurie di conservatori e reazionari. Ripensando alla propria carriera, Ravel doveva senza dubbio considerarne con umorismo gli aspetti paradossali. Al Conservatorio aveva ricevuto una medaglia di primo premio nella classe preparatoria di pianoforte (Alfred Cortot aveva ottenuto un secondo premio al concorso del luglio 1891!), ma nessun riconoscimento come compositore. Inoltre, alcuni componenti della giuria del Prix de Rome suoi avversari dichiarati avevano a conti fatti contribuito a renderlo celebre, provocando nel contempo il crollo del bastione reazionario del Conservatorio. Nell’au­ tunno del 1905, infatti, Gabriel Paure assunse la direzione dell’istituto e, grazie a un audace programma di riforme, introdusse nell’insegnamento interesse ed entusiamo rinnovati. Fu a quell’epoca che Ravel firmò con l’editore Durand un contratto in esclusiva, che prevedeva il versamento di un compenso annuale. Vi resterà legato per tutta la vita. Portò a compimento allora la Sonatine e Miroirs (1905), le Histoires naturelles (1906), L’heure espagnole e la Rhapsodie espagnole (1907), Gaspard de la nuit (1908), Ma mère l’oye (1908-10), Vaises nobles et sentimentales (1911), Daphnis et Chloé (1909-12), Trois Poèmes de Stéphane Mallarmé (1913) e il Trio (1914). Compose inoltre diverse opere minori, qualche atto di un’opera incompiuta, La cloche engloutie, e realizzò alcune trascrizioni. In questo periodo la musica di Ravel cominciò a venire ascoltata ben al di là dei confini della Société Nationale de Musique: la Sonatine fu eseguita a Lione, la Rhapsodie espagnole presentata ai Concerts Colonne, e diverse opere furono eseguite in tutta Europa, negli Stati Uniti e nell’Africa del Nord. Con l’esecuzione della Rhapsodie espagnole in occasione di un importante festival di musica francese a Monaco di Baviera (1910), la prima delVHeure espagnole all’Opéra-Comique (1911)ela realizzazione di Daphnis

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Introduzione

et Chloé da parte dei Ballets Russes di Diaghilev (1912), la reputazione di Ravel come uno tra i principali compositori francesi era solidamente sancita. A quell’epoca, in compagnia di Nelly e di Maurice Delage, fece un discreto numero di piccoli viaggi in Francia — sulla Costa Azzurra, al Mont Saint-Michel, in Alsazia-Lorena, nei Paesi Baschi. Visitò anche la Spagna, l’Italia e la Svizzera, e diede in tre riprese concerti a Londra (1909, 1911 e 1913). Benché le grandi opere qui citate siano ora considerate come importanti punti fermi della musica del XX secolo, due recensioni sui Poèmes de Mallarmé pubblicate il medesimo giorno sono ben rappresentative del­ l’ampio spettro di opinioni critiche che salutavano le nuove opere di Ravel. Il critico del «Daily Mail» di Londra osservava che i brani «si collocavano tra gli esempi più recenti e più interessanti di melodie moderne. La minuscola orchestra è trattata con estrema delicatezza e intimità espressiva [...] Thomas Beecham dirigeva e Jane Bathori-Engel cantava la difficilissima parte vocale con molta intuizione ed espressione». Per contro, il critico della «Westmin­ ster Gazette» sottolineava quanto l’auditorio fosse sorpreso, eppure attento (il pubblico inglese era assai più cortese del pubblico francese dell’epoca). «Un attento auditorio ascoltò assolutamente stupefatto alcuni tra i più strani esercizi di moderna cacofonia che sia possibile immaginare [...] A tratti la divergenza tra la parte vocale e l’accompagnamento sembrava tanto pronun­ ciata che si sarebbe creduto che Madame Bathori-Engel stesse cantando un pezzo mentre gli strumentisti ne suonavano un altro» («Daily Mail» e «We­ stminster Gazette», 18 marzo 1915). Come spesso aveva fatto in precedenza, Ravel trascorse i mesi estivi del 1914 in terra basca, a far passeggiate, bagni, gite in barca e vedere amici. Lavorava a un trio quando, nel mese di agosto, il rombo dei cannoni annunciò la fine di un’epoca. A vent’anni, Ravel era stato eso­ nerato dal servizio militare per via di un’ernia e della sua debole costitu­ zione; ma ora, all’età di trentanove anni, era risoluto a servire il suo paese, incoraggiato tra l’altro dall’esempio del fratello e di una buona parte dei suoi amici che s’erano arruolati. D’altra parte scrisse significa­ tivamente a Cipa Godebski: «Ed ora, se volete: Viva la Francia! ma soprattutto: abbasso la Germania e l’Austria! o almeno ciò che queste due nazioni rappresentano nell’ora attuale. E di tutto cuore: viva l’Interna­ zionale e la Pace!». Ravel era diviso tra il patriottismo e la sete d’av­ ventura da una parte, e l’angosciante prospettiva di dover abbandonare l’anziana madre dall’altra: «Se sapeste come soffro! — scrive a Maurice Delage il 4 agosto — Lasciare la mia povera mamma, vorrebbe dire certo ucciderla... Sì, lavoro; e con la sicurezza, la lucidità d’un folle. Ma nel frattempo lavora anche il tarlo della malinconia, ed eccomi all’improvvi­ so singhiozzare sui bemolle!... Sono quattro giorni che va avanti così, da quando le campane han suonato a raccolta». Dopo diversi tentativi falliti d’arruolarsi, Ravel finì per raggiungere il 13° reggimento d’artiglieria, in

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Ravel — Scrìtti e interviste

qualità di conduttore di autocarri, nel marzo 1915. Alcune sue missioni erano estremamente rischiose, in particolare il trasporto di materiale da guerra, la notte^ sotto pesanti bombardamenti nemici; in diverse occasio­ ni, vicino al fronte di Verdun, Ravel fù letteralmente a un passo dalla morte. Ma erano soprattutto la salute declinante della madre e l’assenza di notizie degli amici a tormentarlo. La sua salute s’era gravemente deteriorata: oltre a frequenti insonnie e a mancanza d’appetito, soffriva di dissenteria e fù operato nel settembre 1916. Dopo una convalescenza soddisfacente, che trascorse essenzialmente a divorare libri su libri, Ravel conobbe il dolore più profondo della sua vita: il 5 gennaio 1917, Marie Delouart scompariva all’età di settantasei anni. L’effetto immediato di questa tragedia furono circa tre anni di silenzio pressoché assoluto come compositore; in seguito, dal 1920 sino al suo canto del cigno, Don Quichotte à Dulcinèe (1932-33), Ravel non avrebbe condotto a termine, in media, più di un’opera sola ogni anno. Dopo un diffìcile periodo d’adattamento, all’indomani della guerra, la vita musicale parigina ritrovò a poco a poco il vigore e la varietà di prima. Mentre le orchestre Colonne, Pasdeloup e Lamoureux offrivano opere di Wagner, Beethoven, Saint-Saèns, Franck, Rimskij-Korsakov, Mozart, Berlioz, Mendelssohn e Debussy, la Société Musicale Indépendante presentava le opere di un discreto numero di giovani compositori, tra cui Louis Durey, Paul Hindemith, Jacques Ibert, Marcel Mihalovici, Darius Milhaud, Roland-Manuel, Manuel Rosenthal, Alexandre Tansman, e Joaquin Turina. Oltre ai Concerts du Conservatoire e della Société Nationale, vi erano Vladimir Golschmann, Serge Koussevitzky, Walter Straram, e Robert Siohan a dirigere concerti in abbonamento, mentre il musicologo Henry Prunières organizzava esecuzioni di musica da camera contemporanea. La compagnia di Ida Rubinstein, i Ballets Russes e i Ballets Suédois erano tra le principali compagnie di balletto. All’Opéra, le opere di Wagner e di Meyerbeer conservavano la loro popolarità, e nel 1925 fù data la 1500esima rappresentazione del Faust di Gounod. Negli anni Venti e Trenta, Ravel divideva il suo tempo tra Parigi, i Paesi Baschi, le sue tournée di concerti sempre più numerose e la sua nuova villa di Montfort-1’Amaury — sonnolento villaggio a una cinquantina di chilo­ metri a ovest della capitale. Il Belvédère gli offriva una pacifica atmosfera di campagna, propizia al lavoro, mentre Parigi restava di facile accesso in auto­ bus e in treno. La villa, situata oggi al numero 5 di rue Maurice-Ravel, ospita un museo nazionale aperto al pubblico. La casa è conservata nelle medesime condizioni in cui Ravel la lasciò e abbonda di indicazioni sulla singolare personalità del compositore. Vi si possono vedere in particolare un giardino giapponese, un buon numero di stampe giapponesi, un servizio da caffè arabo — testimonianza del suo gusto per l’esotismo — e soprammobili finemente cesellati, uccelli meccanici, carillon, statuette intagliate — che

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Introduzione

rivelano la sua inclinazione per gli oggetti minuti (fogni sorta e per la perfe­ zione artigianale. Nello studio, a fianco del piano Erard e del tavolo da lavoro del compositore, si trovano un bel ritratto della signora Ravel dipinto dal cognato Edouard e un ritratto di Pierre Joseph Ravel dipinto da Marcelin Desboutin. Quelle stanzette, curate in modo impeccabile dalla fedele gover­ nante, la signora Reveleau, che da molti anni era al servizio della famiglia Ravel, accoglievano anche i gatti siamesi del compositore, di cui egli si occu­ pava amorevolmente. Ravel si divertiva spesso a prendere in giro gli amici, quando faceva visitar loro la villa: quando, ad esempio, gli ospiti si fermavano ad ammirare un «raro» Monticelli, si dilettava a spiegare loro che si trattava di una copia. E infatti in tutta la villa vi è una curiosa mescolanza d’autenti­ cità e di evidente pastiche, e nello stesso tempo una sorta d’incantesimo fittizio, che non manca di ricordare l’esotismo di Shéhérazade o gli umori infantili Enfant et les sortileges. La biblioteca comprende un migliaio di volumi e rispecchia le esigenze bibliofile del compositore. Essa ospita un discreto numero di edizioni rare, superbamente rilegate, tra cui le opere complete di Balzac, Hugo, La Fontaine, Molière, Proust, Racine e Voltaire. Gran parte della biblioteca è riservata alle memorie di autori come Alexandre Dumas, Casanova, la contessa de Boigne, e una quantità di libri mostra l’interesse rivolto da Ravel al giardinaggio, ai viaggi, alla storia, all’arredamen­ to, agli animali, alla moda. Molti libri portano la dedica di colleghi o ammi­ ratori tra cui Joseph Conrad, Franc-Nohain, Paul Painlevé e Jules Supervielle. Se vasta è la collezione di partiture — da Bach a Schoenberg — i libri sulla musica sono al contrario poco numerosi. Le raccolte di musica basca, di danze spagnole, di melodie popolari provenienti dal mondo intero, di spiri­ tual e di operette francesi sono particolarmente interessanti, con le numerose partiture con la dedica dei colleghi, tra cui Louis Durey, Francis Poulenc e Alexandre Tansman. Dal balcone della villa Belvedére la veduta sulla campa­ gna dell’Ile-de-France è davvero splendida. Qui si riunivano talvolta amici e colleghi, la domenica, per pranzare nel giardino, prima di terminare la gior­ nata con una lunga passeggiata nella foresta di Rambouillet di cui Ravel conosceva ogni sentiero e ogni canto d’uccello. Tra gli invitati figuravano i suoi interpreti preferiti, i pianisti Robert Casadesus, Jacques Février ed Henri Gil-Marchex, le cantanti Jane Bathori, Marcelle Gérar e Madeleine Grey, i violinisti Hélène Jourdan-Morhange e Jacques Thibaud. Vi s’incontravano anche i suoi vecchi amici come Maurice e Nelly Delage, Cipa e Ida Godebski, Roland-Manuel e sua moglie, e musicisti più giovani come Vladimir Golschmann, Arthur Honegger, Jacques Ibert, Manuel Rosenthal, Germai­ ne Tailleferre e Alexandre Tansman. Qui il compositore riceveva anche lo scul­ tore Leon Leyritz, il cui bel busto che ritrae Ravel si trova all’Opéra di Parigi, e il pittore Luc-Albert Moreau, che fece un buon numero di schizzi del compositore. L’isolamento e la tranquillità che Ravel assaporava al Belvedére o nei Paesi Baschi erano controbilanciati da innumerevoli obblighi sociali e professionali

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a Parigi. Negli anni del dopoguerra fu costretto ad adattarsi a una nuova situazione poco confortevole, non essendo più considerato come un membro dell’avanguardia, ma piuttosto come un seguace delle correnti delineate tra gli altri da Schoenberg, dai Sei o da Prokof ev. Nuove sonorità fluttuavano nell’aria — quelle del jazz, della politonalità, dell’atonalità —, mentre il velluto dell’impressionismo cedeva il passo all’acciaio di opere come Le sacre du printemps. Inoltre, un discreto numero di compositori ricorreva a una scrittura più asciutta, come reazione alle gigantesche orchestre di Wagner, Mahler e Strauss. All’indomani della guerra i compositori avevano dunque nuove sfide da raccogliere, e Ravel ascoltava molta musica, assimilava e com­ poneva con difficoltà, come appare dalla seguente cronologia: Sonate pour violon et violoncelle (1920-22); L’enfant et les sortileges (1920-25); Chansons madécasses (1925-26); Sonate pour violon et piano (1923-27); i due concerti per pianoforte (1929-31). (Il Bolero fo composto tra luglio e ottobre del 1928, ma il compositore ammetteva che si era trattato «di un’esperienza in una direzione molto particolare e limitata».) Ravel, che pure non era né un pianista né un direttore d’orchestra eccezio­ nale, sentiva sempre di più lo stimolo a interpretare la propria musica. Diede a più riprese concerti in Austria, Olanda, Italia, Spagna e in Svizzera, e allo stesso modo si produsse in Germania, nell’Europa centrale e dell’Est, in Scandinavia, in Scozia e nel Nordamerica. Parigi a parte, la città in cui si fece ascoltare più spesso fù Londra, dove la sua musica era particolarmente bene accolta sia dal pubblico sia dalla critica. La reputazione internazionale di Ravel toccò il suo apice nel 1928, al termine di una tournée di concerti nel Nordamerica durata quattro mesi. I critici non lesinavano gli elogi e il pubblico era entusiasta. In occasione di un programma che gli era stato interamente dedicato dal direttore Koussevitzky e dalla Boston Symphony Orchestra alla Carne­ gie Hall, tutta la sala si alzò ad applaudire quando il compositore venne a prendere posto. Profondamente commosso da questo gesto spontaneo, Ravel si girò verso Alexandre Tansman e gli confidò: «Sapete, questo a Parigi non mi succede». L’itinerario era sfibrante, ma il compositore riusciva a riposarsi durante i lunghi viaggi in treno che lo condussero in circa venticinque città, da New York alla California e dal Canada al Texas. Questo viaggio gli permise anche di visitare la casa di Edgar Allan Poe nel Bronx e di vedere le cascate del Niagara e il Gran Canyon, che gli parve tanto bello e maestoso da lasciarlo ammutolito. Si lasciò affascinare dal dinamismo della vita americana, con le sue immense città, i suoi grattacieli e la sua tecnologia avanzata, e fu impres­ sionato dal jazz, dallo spiritual e dall’eccellenza delle orchestre america­ ne. Non così per la cucina americana: «Vedo città magnifiche, paesaggi d’incanto, ma i trionfi sono faticosi. A Los Angeles ho piantato tutti in asso: morivo di fame», scrisse a Hélène Jourdan-Morhange.

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Al suo ritorno a Le Havre, il T! aprile, Ravel fu accolto da Edouard, i Delage, Marcelle Ge'rar, Hélène Jourdan-Morhange e parecchi altri intimi amici. In giugno, la Société Musicale Indépendante organizzò un Festival Ravel con la presentazione del compositore e di numerosi suoi colleghi più giovani, la mezzosoprano Madeleine Grey, il violinista Claude Lévy, il violoncellista Maurice Maréchal e il pianista americano Beveridge Webster. Poco dopo, su iniziativa di Marcelle Gerar, una quarantina di amici si riunirono al Belvédère una domenica pomeriggio per celebrare con un pranzo la trionfale tournée del compositore; i festeggiamenti ebbero termine in un cabaret verso le quattro del mattino. In quel periodo gli inviti giungevano a Ravel da ogni parte: una tournée di concerti in Spagna, una serie di concerti nei Paesi Bassi, una serata di musica da camera a Bordeaux. Inoltre, prima di partire per gli Stati Uniti, Ravel aveva promesso di scrivere la musica di un balletto per Ida Rubinstein. Durante le brevi vacanze a Saint-Jean-de-Luz, prima di un bagno mattutino, suonò con un dito una melodia al pianoforte. «Non trovate che questo tema abbia qualcosa d’ostinato? — chiese a Gustave Samazeuilh — Voglio provare a riprenderlo parecchie volte senza sviluppo, solo cercando di graduare il più possibile l’ingresso degli strumenti». Il Bolero conobbe presto un incredibile trionfo, con grande sorpresa del compositore. Poco dopo averlo terminato, Ravel indossò la toga accademica per ricevere il titolo di dottore in musica honoris causa conferitogli dall’università di Oxford. Una tournée di concerti in Spagna con Madeleine Grey e Claude Lévy e brevi visite a Ginevra e a Bordeaux conclusero un anno estremamente attivo. Nei primi mesi del 1929 Ravel partecipò a diversi festival consacrati alla sua musica in Inghilterra, Svizzera e Austria, e dopo tutti questi viaggi sfibranti volle prendersi lunghe vacanze. Dopo numerosi anni di insonnia periodica e occasionali crisi nevrasteniche trovava difficoltà sempre maggiori a intraprendere nuovi progetti. Dal 1928 aveva in mente un concerto per pianoforte, così come un’opera, Jeanne d'Arc, tratta da un romanzo di Joseph Delteil. Il lavoro sul concerto fu interrot­ to da un’opera commissionata dal pianista austriaco Paul Wittgenstein, che aveva perduto il braccio destro in guerra. Spronato dalla sfida rap­ presentata dallo scrivere un concerto per la mano sinistra, Ravel comple­ tò l’opera più o meno in un anno. Quanto al Concerto in sol maggiore, fu dato finalmente a Parigi il 14 gennaio 1932 con Marguerite Long al pianoforte e il compositore sul podio. Qualche giorno più tardi, contro il parere del medico, Ravel intraprese una logorante tournée di tre mesi con Marguerite Long, per presentare il Concerto in una ventina di città europee da Londra a Bucarest. A Londra divise il podio con Malcolm Sargent, e a Berlino con Wilhelm Furtwangler; a Bucarest, fu ricevuto in udienza privata dalla famiglia reale e decorato dal re Carol IL

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Dopo questa trionfale tournée, Ravel ritornò nei Paesi Baschi per un lungo riposo. Due recenti commissioni occupavano la sua mente — un balletto per Ida Rubinstein, Morgiane tratto dalla novella Ah Babà e i quaran­ ta ladroni, e la musica per un film, Don QuichottC) con Fèdor Saljapin nel ruolo del protagonista. Di Morgiane videro la luce soltanto pochi schizzi frammentari, e la musica per Don Quichotte si rivelò il canto del cigno del compositore. L’ultima melodia, basata sul ritmo della jota spagnola, termina sulle parole «Je bois à la joie». Così Ravel si accomiatava dalla propria arte con un omaggio alla Spagna dei suoi sogni, con un esube­ rante brindisi finale alla gioia di vivere. Se l’arte aveva termine per lui in un clima di gioia spensierata, gli ultimi anni di vita furono al contrario quanto mai tragici e strazianti. In vacanza a Saint-Jean-de-Luz, nell’estate del 1933, si accorse di non essere capace di coordinare i propri movimenti per nuotare e incontrò insolite difficoltà nello scrivere. I medici parlarono di anemia cerebrale, di fatica mentale, di aprassia — incapacità di eseguire movimenti volontari — e di afasia, con conseguenti difficoltà di parola e di memoria. Ravel sem­ brava affaticato, estenuato, e ovviamente spaventato da questa sinistra evoluzione. Dopo qualche mese di completo riposo il suo stato di salute migliorò e nel novembre del 1933 potè dirigere l’orchestra Pasdeloup nel Bolèro e il Concerto in sol con Marguerite Long al pianoforte. Fu questa la sua ultima esibizione in pubblico. Una delle ultime lettere che Ravel potè scrivere fù indirizzata a Marie Gaudin il 2 marzo 1934. La conclusione è sconvolgente: «Scrivetemi, qualche volta: cercherò di rispondervi benché mi ci vogliano giornate intere di tortura: ho cominciato questa lettera più di una settimana fa». Non si può fare a meno di ammirare l’immenso coraggio del composi­ tore che si sottoponeva a uno sforzo immane — imparare da capo tutte le lettere dell’alfabeto. I suoi sforzi restarono vani, e le poche lettere scritte negli ultimi anni vennero senza eccezioni dettate. Se Ravel si esprimeva con grande difficoltà e sembrava talora perdere la memoria, in altri momenti aveva la dolorosa coscienza della propria impotenza. «Lo vedo ancora, a Montfort-1’Amaury — racconta Hélène Jourdan-Morhange — seduto in poltrona, sul famoso balcone di cui amava tanto il panorama, lo sguardo lontano, perduto... E poiché mi premurai di chiedergli: “Che fate lì, caro Ravel?”, mi rispose semplicemente: “Aspetto”». Aspettava un miracolo, e nient’altro; un miracolo che sfortunatamente non avvenne mai. Ravel continuava a trovare piacere nei viaggi, e nel febbraio del 1935, in compagnia di Léon Leyritz, partì per la Spagna e l’Africa del Nord. In occasione di questo viaggio si tennero numerose feste di colore locale in suo onore e il compositore colse ogni occasione gli venisse offerta di ascoltare musica araba e moresca. In Marocco, tra scale esotiche, quarti

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di tono e lamenti del muezzin che chiamava i fedeli alla preghiera, Ravel ebbe la lieta sorpresa di sentire fischiettare il Bolèro da un giovanotto. Dopo questo meraviglioso viaggio, che sembrava scaturito da una pagina delle Mille e una notte, l’itinerario di ritorno toccò Siviglia e Cordova. In agosto i due compagni lasciarono Saint-Jean-de-Luz per la Spagna, visi­ tando questa volta la costa cantabrica. Per il compositore fu l’addio a questo paese, che aveva sovente considerato come una seconda patria musicale. Malgrado il diversivo apportato da questi viaggi, il suo stato continuò a peggiorare. Gli amici vegliavano su di lui, lo portavano ai concerti e facevano del loro meglio per tenerlo occupato. Spesso si fer­ mava in casa di Edouard a Levallois-Perret o presso i Delage, e al Bel­ vedére la governante, signora Reveleau, lo assecondava in ogni minimo desiderio. Malgrado l’inesorabile avanzare di un’afasia debilitante, Ravel continuò a porsi al servizio della propria arte fino all’ultimo anno di vita. Fece studiare a Jacques Février il Concerto pour la main gauche e nel giugno 1937 offrì i propri consigli a Madeleine Grey e a Francis Poulenc che dovevano di lì a poco interpretare Don Quichotte à Dulcinèe. Uno degli ultimi concerti ai quali assistette era diretto da Désiré-Emile Inghelbrecht, a capo dell’Orchestre Nationale. Al termine di un’esecuzione di Daphnis et Chloèprese a lamentarsi: «Ho ancora tanta musica in testa — disse a Hélène Jourdan-Morhange — Non ho detto nulla, ho ancora tutto da dire». Nel corso dell’autunno del 1937 la salute del compositore si deteriorò gravemente e il 17 dicembre fu ricoverato nella clinica di rue Boileau. Al termine d’un lunghissimo consulto, Edouard Ravel e gli amici più intimi decisero di rischiare un delicato intervento al cervello, che venne esegui­ to dal celebre chirurgo Clovis Vincent. Costui non trovò alcun tumore e riuscì a egualizzare il livello dei due emisferi, uno dei quali appariva atrofizzato. Due giorni dopo l’operazione si chiese a Ravel se desiderasse vedere il fratello. «Ah, certo che voglio!» rispose subito. Furono, pare, le sue ultime parole prima di sprofondare nel coma. La crudele agonia che durava da quattro anni ebbe termine nelle prime ore del mattino del 28 dicembre 1937. Numerosi furono coloro che manifestarono il loro dolore alla scom­ parsa di Maurice Ravel, particolarmente in Europa e nell’America del Nord. Tra molti altri Milhaud, Stravinsky e Prokof ev riconobbero in lui un maestro. Le esequie, molto semplici, ebbero luogo il 30 dicembre davanti a Edouard Ravel e a un’ampia folla di amici e colleghi, tra cui Georges Auric, Jane Bathori, Robert Casadesus, Arthur Honegger, Da­ rius Milhaud, Francis Poulenc, Igor Stravinsky e Ricardo Vines. Nel corso di una breve cerimonia ufficiale, Jean Zay, ministro dell’istruzione pubblica, pronunciò l’elogio funebre in nome del governo, poi il corpo fu inumato nel cimitero di Levallois-Perret.

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Durante la vita di Ravel la sua musica era stata eseguita in tutta Europa, nell’America del Nord e del Sud, dall’Africa del Nord all’Oriente. La sua carriera aveva incrociato i passi con quella di un gran numero di eccezionali personalità dell’epoca: Ansermet, Bartók, Casals, Debussy, Heifetz, Monteux, Nijinsky, Prokof ev, Stravinsky, Vaughan Williams, e sarebbe agevole prolungare la lista. Gratificato da titoli onorifici e da riconoscimenti conferitigli da università, ministri e regnanti, Ravel aveva avuto una carriera brillante e ricca di risultati, dietro la quale si nascon­ deva tutta la sottile complessità dell’uomo. Il suo aspetto fisico colpiva. Per Roland-Manuel, era simile a un fantino, per Colette, a uno scoiatto­ lo. Era molto piccolo (un metro e sessantuno centimetri), di costituzione leggera (circa quarantanove chili), con tratti ossuti e marcati, occhi casta­ ni dolci e maliziosi. Dopo avere sperimentato i baffi, i favoriti, la barba, rinunciò a tutto questo intorno ai trentacinque anni, mentre la sua capigliatura castano scuro cominciò a poco a poco a prendere riflessi bianchi argentati. La moglie di Nijinsky lo descrive, all’epoca di Daphnis et Chloé, come «un giovane uomo affascinante, sempre abbigliato in modo vagamente stravagante, ma molto elegante». Il dandismo di Ravel lo spingeva a seguire l’ultima moda in fatto di abbigliamento. In Francia fu tra i primi a portare camicie color pastello, e un giovane compositore venuto un giorno a chiedergli consiglio fu sorpreso di trovarlo vestito completamente di bianco — pullover, calzoni, calze e scarpe. Beveridge Webster, che incontrò il compositore negli anni Venti, ricorda «un uomo minuscolo, un’enorme testa, un naso immenso e una gigantesca intelli­ genza». Un giornalista francese descrive così la fisionomia interiore del compositore nel 1932: Chi si aspetta d’incontrare il Ravel di cui si favoleggia, aspro e impietoso, trova un ometto elegante e sorridente, gli occhi brillanti di vivacità e perspicacia, che parla con voce un poco sorda. La fotografìa ha reso popolari i tratti squadrati del suo viso dai capelli argentei e dalle sopracciglia nere, viso che si direbbe disegnato da un geometra, e che è tutto forza di volontà; nella realtà, non so quale affettuosa bono­ mia, un insolito aspetto giovanile, una lunga fiamma d’intelligenza lo illuminano e ne umanizzano i tratti. Secco e scarno come uno Spagnolo, Ravel si esprime senza alcuna petulanza, con una sconcertante mescolanza di pudore e di timidezza.

I tratti predominanti della personalità colorita e in qualche modo sfuggen­ te di Ravel trovarono definizione già a partire dagli anni di studio. Alfred Cortot vedeva nel suo condiscepolo di vent’anni un «giovanotto volentieri sarcastico, amante del raziocinio, vagamente distante, che leggeva Mallarmé e frequentava Erik Satie». «Vagamente distante» lo era incontestabilmente, perché, salvo che nei riguardi di qualche buon compagno di Conservatorio, rimaneva generalmente freddo e distaccato. Una sorta di umorismo pungen­ te, così come una deliberata volontà di sconcertare gli interlocutori, lo aiuta­

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vano a mantenere una certa distanza tra sé e gli altri, e quest’aspetto della sua personalità sembra tradire l’influenza di Satie. Tuttavia, più che dallo stile zingaresco di Satie, era attratto dal modello del dandy baudelairiano, che si supponeva conducesse una nobile ricerca della bellezza adornandosi di abiti a un tempo semplici ed eleganti. Ravel aveva dunque grande cura del proprio modo di vestire e del proprio guardaroba, e sceglieva il colore di camicie e cravatte con la più gran serietà. Dietro questa maschera, tuttavia, era attratto da tutto ciò che è complesso e persino contraddittorio, e si volgeva verso la «poesia, la fantasia, tutto ciò che era prezioso e raro, paradossale e raffinato». Queste parole di Ricardo Vines permettono di comprendere bene l’eleganza, il raffinato preziosismo che sottende a molte tra le prime opere di Ravel. Il diario di Vines, alla data del 1° novembre 1896, contiene altre osservazioni rivelatrici. Quella domenica mattina i due giovani musicisti si recarono infatti nella chiesa di Saint-Gervais per ascoltarvi una messa del compo­ sitore italiano Francesco Soriano (1549-1621). Nel pomeriggio assistet­ tero a un’esecuzione del Preludio di Tristan und Isolde. «Lui che sembra­ va così freddo e cinico — scrive Vines — lui, Ravel, il decadente eccentrico fino all’esagerazione, Ravel tremava convulsamente e piange­ va come un bambino». «Sebbene la maggior parte delle persone lo con­ siderino come un fallito — prosegue Vines — è in realtà un artista supe­ riore [... ] È anche assai complicato: c’è in lui una mescolanza di cattolico del medioevo e di empio satanista, unita all’amore per l’arte e per il bello che lo guida e che lo fa vibrare con sincero candore». Quest’ultima frase non fa riferimento alla religione, ma piuttosto alla franca adesione di Ravel alla tradizione in campo artistico, unita a una sete di eplorazione e di inno­ vazioni personali. Soprattutto, egli era sensibile, addirittura ipersensibi­ le, al bello artistico e si lasciò costantemente guidare da questo ideale. Così, quando aveva poco più di vent’anni, la personalità di Ravel era solidamente definita, fin nei suoi aspetti paradossali. Corretto e distacca­ to di fronte a persone che non conosceva, era piacevole e divertente con i suoi amici, ottimista, indipendente, ostinato e idealista. Con la matu­ rità, queste qualità restarono fondamentalmente inalterate. Tuttavia cer­ ti altri tratti giovanili, come il suo gusto per il sarcasmo, la volontà di mistificazione e certe affettazioni, disparvero con l’età. Sir Lennox Be­ rkeley evoca così le numerose contraddizioni della personalità di Ravel:

[Era] un uomo molto riservato e affabile al tempo stesso, in quanto amava essere attorniato di amici; profondamente leale ancorché apparentemente indifferente ai grandi problemi dell’esistenza, con certi sguardi di infantile semplicità, cercava mal­ grado tutto di sembrare un raffinato uomo di mondo. Era di corporatura molto piccola con una testa che sembrava troppo grande per il suo corpo. In ogni cosa era fuori dell’ordinario... Come molti grandi uomini, più crescevano il suo successo e la sua fama, meno lasciava trasparire la più piccola traccia di supponenza. Lo incontra­

Ravel — Scritti e interviste

vo talvolta dopo un concerto e mi conduceva, in genere con qualche altro studente o giovane compositore, in uno dei grandi caffè del quartiere Saint-Lazare, nel quale discuteva con noi della musica appena ascoltata. Mi rendo conto oggi — all’epoca non ci avevo pensato — che avrebbe potuto con grande facilità passare la serata in compagnia migliore, dal punto di vista sia sociale sia intellettuale, ma credo che si annoiasse nel mondo che aveva appena conquistato e che preferisse rimanere con dei giovani musicisti, per quanto umili fossero. Poteva prolungare la serata invitandoci ad accompagnarlo in un cabaret. Fu in questi locali che si ascoltò per la prima volta quell’autentico virtuosismo che da allora caratterizza il buon jazz. Ravel l’amava molto e rimaneva fino alle ore piccole del mattino, prima di ritornare con passo tranquillo al suo albergo. Soffriva d’insonnia, e secondo me quelle scorribande notturne erano un pretesto per non andarsi a coricare... Certamente, esisteva in lui una barriera che non si doveva atttraversare; malgrado l’indole affettuosa, detestava si fosse troppo calorosi nei suoi confronti e rimaneva sempre in qualche misura distante.

Coloro che l’hanno conosciuto bene hanno spesso descritto le abitu­ dini personali di Ravel. Sebbene vivesse come un vero eremita quando componeva, amava la vita notturna parigina, le conversazioni, le luci, il jazz e la folla. «Lo vedo ancora — dice Léon-Paul Fargue — simile a un bonario stregone, rannicchiato nel suo angolo del Grand Ecart o del Boeuf sur le Toit, raccontarmi storielle interminabili che avevano la ricchezza, l’eleganza e la chiarezza delle sue composizioni. Azzeccava l’aneddoto come azzeccava una pagina musicale, un valzer, un adagio». Gran fumatore di sigarette, Ravel amava allo stesso modo le spezie pic­ canti, i piatti esotici, i cocktail e i vini raffinati. Era un eccellente nuo­ tatore e un camminatore infaticabile. Anche nella fase conclusiva della malattia, conservò una certa giovanile agilità nell’andatura, e la foresta di Rambouillet, le strade di Parigi come le grandi distese dei Paesi Baschi avevano per lui ben pochi segreti. La meticolosa cura per la persona era compensata da un disordine curioso nei propri affari. Era piuttosto di­ stratto e perdeva sovente la nozione del tempo, in particolare nelle libre­ rie, mentre acquistava regali o esaminava le edizioni rare destinate alla sua biblioteca. Quando Léon Leyritz terminò il suo busto, volle control­ lare qualche dettaglio. «Verrò domani tra le dieci di sera e le tre del mattino», fu la risposta del compositore. Detestava in effetti orari e scadenze. Negli anni del dopoguerra, quando si trovava in una fase di stasi creativa, la soluzione consisteva per lui nel viaggiare. Se la nuova cornice in cui si trovava lo aiutava, rimaneva, se no ripartiva. Questo marcato senso d’indipendenza, sia come artista sia come uomo, è alla base della personalità del compositore. «A me piace lavorare liberamente e senza a priori — confidò a un giornalista danese — Ho sempre fatto così. Non appartengo dunque ad alcuna scuola né ad alcun gruppo in particolare. Sono sempre stato libero». In una lettera a Florent Schmitt, scritta nel 1921, allude al suo rifiuto di accettare la Légion d’honneur,

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rifiuto che aveva suscitato grande clamore: «La mia logica? Non ha niente di straordinario: si tratta di fare soltanto ciò di cui ho voglia, seguendo l’ispirazione del momento. Poi si ricevono le sfuriate, ma chi se ne f..., non è così?». L’estremo riserbo di Ravel non permette di dire che pochissime cose sul modo in cui affrontava le grandi questioni dell’esistenza, «...si parla della mia aridità — disse a Jacques de Zogheb, un vicino di Montfortl’Amaury — E falso. E voi lo sapete. Ma io sono basco. I Baschi sentono fortemente, ma si aprono poco, e solamente a qualcuno». Malgrado il suo ascendente svizzero e basco, Ravel era prima di tutto francese. In un’intervista concessa a un giornalista viennese, vedeva così i suoi con­ cittadini (e in certo modo se stesso): E espansivo come l’Austriaco, ma senza offrire il suo cuore sul palmo delia mano. Non lascia mai che uno sconosciuto sì avvicini troppo, non vuole a nessun costo che si legga in fondo ai suoi pensieri e non fa mai il passo più lungo della gamba. Ciò gli dà forse una visione ridotta e limitata. Però, è sicuramente chiaro e preciso, come i luminosi paesaggi della “douce France”, con il suo cielo eternamente azzurro e chiaro.

Ravel non si sposò mai, e ciò non ha mancato di suscitare varie ipotesi. Non si conosce alcuna lettera d’amore di suo pugno, probabil­ mente perché non ne ha mai scritte. Non era insensibile al fascino e alla bellezza femminili, ma appare evidente che la donna che dominò la sua vita fu la madre; in uno dei suoi rari commenti sul matrimonio, scriveva alla moglie di Alfredo Casella: «La morale... è quella che metto in pratica e in cui sono deciso a perseverare. Noialtri artisti non siamo fatti per sposarci. Di rado siamo normali, e la nostra vita lo è ancor meno». A Manuel Rosenthal dava queste giustificazioni: Vedete, un artista dovrebbe fare molta attenzione quando gli vien voglia di sposare qualcuno, perché un artista non sa mai fino a che punto può rendere infelice la propria compagna. E ossessionato dal suo lavoro di creazione, dai problemi che questo gli pone. Vive un po’ come se sognasse a occhi aperti e per la donna che vive con lui questo non è divertente. Bisogna pensarci sempre quando si desidera prender moglie.

In altre circostanze, Ravel avrebbe potuto sposare Hélène JourdanMorhange. Ma si erano incontrati nel 1917 (lei aveva ventinove anni e lui quarantadue), poco dopo che il suo primo marito, il pittore Jacques Jourdan, era stato ucciso in guerra. Alcuni amici del musicista mi hanno detto che lui avrebbe voluto sposarla, ma lei lo avrebbe rifiutato; altri assicurano che lei voleva sposarlo e che sarebbe stato lui a rifiutarla. E significativo comunque che lei, pur vivendo da molti anni con Luc-

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Albert Moreau, soltanto dopo la morte di Ravel si sia decisa a sposarlo. Quale che sia l’esatta verità, la loro relazione si fondava su un affetto e una comprensione eccezionali. Ravel dichiarò spesso che la sua sola amante era la musica. Gli incontri discreti con prostitute (se si deve credere alla testimonianza di Désiré-Emile Inghelbrecht, così com’è ri­ portata nella biografia di Stuckenschmidt) non ebbero conseguenze. Se non era destinato a divenire padre, Ravel aveva nondimeno un rapporto straordinario con i bambini dei suoi amici. Si divertiva con i loro giocat­ toli, pare, tanto quanto loro stessi. La sua estrema raffinatezza si mesco­ lava curiosamente a un infantile entusiasmo e capacità di meravigliarsi. In una commovente lettera indirizzata a Maurice e a Nelly Delage, Mimie Godebska racconta che alla notizia della morte di Ravel aveva avuto l’impressione di perdere il proprio padre per la seconda volta. Benché nato da genitori cattolici e battezzato da bambino, Ravel non era praticante e rifiutò gli ultimi conforti della Chiesa. Pare che fosse agnostico, e che confidasse nella propria coscienza interiore e nella pro­ pria sensibilità morale. (La biblioteca di Montfort-l’Amaury contiene una traduzione francese dell’Antico e del Nuovo Testamento, così come una traduzione dei Fioretti di San Francesco d’Assisi, che egli ammirava particolarmente.) Ravel partecipò a diversi concerti a benefìcio di opere di carità. Il 23 agosto 1925 uno di questi concerti fu dato nella sala parrocchiale della chiesa di Montfort-l’Amaury, a due passi dal Bel­ vedére. Il curato si recava talvolta in visita dal suo illustre vicino e un giorno gli disse: «Monsieur Ravel, voi siete il più cristiano tra i miei parrocchiani». Negli anni Trenta, alcuni musicisti che erano fuggiti dalla Germania nazista si rifugiarono al Belvedére, dove Ravel diede loro il proprio incoraggiamento e sostegno finanziario. Fu un gesto in pieno accordo con il carattere del compositore, che donava sempre con gene­ rosità e aborriva ogni forma di razzismo. Ammiratore di Léon Blum e di Paul Painlevé, le sue opinioni politiche si avvicinavano al socialismo. Il solo giornale a cui fosse abbonato, «Le Populaire de Paris», era un organo socialista riconosciuto. Sotto l’aspetto economico, Ravel passò progres­ sivamente dalla piccola alla grande borghesia, e alla fine della sua carriera viveva agiatamente. Oltre al compenso fisso versato annualmente da Durand e alle retribuzioni speciali ricavate da ciascun componimento, i mecenati che gli commissionavano opere le retribuivano generosamente. Nel 1928 la tournée americana gli fruttò più di 11 000 dollari, in un’epoca in cui una lussuosa vettura a sette posti costava appena più di 2000 dollari. Ravel, come ogni uomo, aveva i suoi sbalzi d’umore e le sue stravaganze. La taglia minuta, così come il suo modesto talento di pianista e direttore d’orchestra, lo rendevano molto suscettibile. Se doveva fare un complimen­ to, in genere lo indirizzava a una terza persona. Fu così che quando

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Marcelle Gérar si recò al Belvédère per un’audizione, la ricevette con correttezza ma freddamente. Solo più tardi da un amico comune venne a sapere che Ravel era stato impressionato dal suo talento e poco dopo egli le chiese di dare concerti con lui. Per contro, faceva direttamente le sue critiche alla persona interessata. «Il vostro balletto è molto brutto», disse a un giovane compositore, prima di aggiungere con un amabile sorrisetto: «Ve lo dico perché so che potete fare molto meglio». Anche il Belvédère illustra il gusto del paradossale coltivato dal padrone di casa, ideatore e pittore egli stesso dei pannelli murali del salotto e della camera da letto. Nell’intimità della propria camera, Ravel disegnò in effetti una serie di colonne — tutte al contrario! Questa dimensione paradossale è stata notata nelle sue due opere teatrali: neWHeure espagnole i personaggi divengono quasi degli automi, mentre gli automi appaiono animati dalla calorosa tenerezza della vita; Enfant et les sortileges il bambino è crudele, mentre gli animali sono quasi umani. Il giovane Ravel era attrat­ to dai paradossi d’ogni sorta, e più tardi si diletterà a esplorare con i suoi colleghi l’aspetto paradossale dell’arte. Se affermava che l’arte era «falsa» e una «meravigliosa impostura», occorre collocare questa dichiarazione in una giusta prospettiva — e cioè comprendere ch’egli vedeva nell’arte una ricerca di bellezza piuttosto che di verità — idea che aveva tratto dagli scritti di Poe. Dietro tutti i capricci, le sorprese, i paradossi dell’uomo, stanno un’in­ crollabile onestà e integrità artistiche. Ravel credeva nella propria arte e si batteva per lei, non al modo magniloquente di un Berlioz, che repu­ tava grottesco, ma con modestia e dignità. Sottoponeva la propria mu­ sica al pubblico e seguiva da vicino le esecuzioni delle sue opere tanto in Francia quanto all’estero. Tenne testa a Diaghilev, a Toscanini, o a chiunque riteneva che interpretasse male la sua arte, e difendeva la mu­ sica di Debussy e Stravinsky dagli attacchi dei critici. Nessun dubbio che Ravel avrebbe desiderato comporre di più, soprattutto negli anni del dopoguerra, ma preferiva accettare lunghi periodi di silenzio piuttosto che venire a patti con i propri ideali. Se per «senso della vita» s’intende il modo in cui trascorrere il proprio tempo tra due eternità, per Ravel questo senso consisteva nel creare una musica quanto più poteva perfet­ ta, raffinata e bella. Questa era la sua passione, e anche la sua ossessione. Le opinioni di Ravel circa la natura e il significato dell’arte nascevano dagli studi in Conservatorio, dalla lettura di Baudelaire e di Poe, ma anche da una personale riflessione su questi e altri elementi. Egli dichiarò che il suo obiettivo in quanto compositore era «la perfezione tecnica. Posso aspirarvi senza limite, poiché sono certissimo di non raggiungerla mai. L’importante è awicinarvisi ogni giorno un poco di più». Come avvicinarsi a quest’obiettivo di perfezione tecnica? Egli riteneva che ci si dovesse sottomettere a una formazione accademica approfondita e rigo­

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Ravel — Scritti e interviste

rosa. Oltre all’analisi di partiture e allo studio dei tradizionali precetti dell’armonia, del contrappunto e dell’orchestrazione, con i suoi condi­ scepoli di Conservatorio scriveva fughe a quattro voci, utilizzando le chiavi di soprano, contralto, tenore e basso. Ai suoi occhi questo tipo di formazione era fondamentale, perché sviluppava le capacità tecniche necessarie a risolvere i problemi della composizione. Così che gli schizzi iniziali di Morgiane — ultime note uscite dalla sua penna — consistono soltanto in una melodia e un basso numerato, notazione identica a quella che utilizzava quando era studente per analizzare le opere. Più tardi, diede ai giovani compositori questo consiglio: «Se non avete nulla da dire, non c’è niente di meglio, in attesa di tacere del tutto, che ridire ciò che è stato già detto bene. Se avete qualcosa da dire, questo qualcosa non apparirà mai più chiaramente che nella vostra involontaria infedeltà al modello». Ravel era convinto che i compositori dovessero apprendere il loro mestiere come i pittori — imitando buoni modelli. Pure, come dice Jean Cocteau ne Le Coq et lArlequin : «Un artista originale non può copiare. Egli non ha dunque che da copiare per essere originale». Questa osservazione si applica perfettamente alla musica di Ravel, nella quale il modello iniziale finisce spesso per venire eclissato. Nell’illustrare ciò che ricercava in una composizione, Ravel sottoline­ ava l’importanza della «sensibilità musicale»; occorreva per lui che «un musicista avesse qualcosa da dire». Calvocoressi fece osservare che era molto interessato in particolare dagli elementi di originalità nel linguaggio e nella scrittura. Quando attirava l’attenzione su qualcosa di bello, spesso concludeva dicendo: «E poi, sapete, non era mai stato fatto!». Le questioni di forma sembravano preoccuparlo assai meno. La sola e unica prova di una buona forma, aveva l’abitudine di dire, è la continuità dell’interesse. Non ricordo che abbia mai lodato un’opera per la sua forma. Per contro, era estre­ mamente sensibile a ciò che considerava come una forma carente.

Oltre a questo principio d’imitazione, che ai suoi occhi gli consentiva di accedere alla maestria nella propria arte, e all’obiettivo della perfezione tecnica, Ravel era persuaso che l’opera d’arte fosse il prodotto della coscienza individuale di un compositore, indissolubilmente legato alla sua eredità nazionale: «Le manifestazioni di questi due tipi di coscienza in musica possono infrangere o soddisfare tutte le regole accademiche, ma ciò è d’importanza trascurabile in confronto al vero obiettivo, e cioè la pienezza e la sincerità dell’espressione». È chiaro che «la pienezza e la sincerità dell’espressione» di Ravel sono solidamente radicate nella tradi­ zione francese. Calvocoressi osserva che la sua preferenza per le opere brevi era il frutto di una «scelta estetica deliberata e maturata rifletten­ do», e questa concisione logica è caratteristica dell’arte francese. Se ne

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osserveranno ugualmente il riserbo emotivo, piuttosto che l’esuberanza, così come l’eleganza e lo stile prezioso, l’umorismo e la tenerezza, tutto ciò nel segno di una marcata sensualità. Vi s’incontra anche un evidente filo drammatico, sebbene presente meno spesso, che si stende da Un gran sommeil noir, Si morne! e Gaspard de la nuit fino a La Valse, le Chansons madécasses e il Concerto pour la main gauche. Le opinioni critiche di Ravel, che esamineremo in dettaglio più avan­ ti, sono il riflesso di valori estetici che egli aveva fatto propri. Benché dia l’impressione di aver sopravvalutato alcuni suoi contemporanei, rico­ nobbe subito l’importanza di Debussy e Milhaud, di Bartók e Kodàly, Richard Strauss, de Falla, Vaughan Williams, Stravinsky e Schoenberg, in un’epoca in cui la maggior parte di questi compositori erano oggetto di rozzi attacchi dai critici più virulenti. Formulò severe riserve su Be­ ethoven, Berlioz, Brahms, Wagner, Franck e d’Indy, la cui architettura esuberante o le aspirazioni metafisiche erano molto distanti dalle proprie priorità artistiche. Se questa corrente che univa Beethoven a d’Indy gli poneva dei problemi, la linea che andava da Mozart a Schubert, Men­ delssohn, Chopin, Bizet, Massenet, Gounod, Chabrier, Saint-Saens, Satie e Fauré era più vicina ai suoi orientamenti estetici. Enorme era la sua ammirazione per la scuola russa, in particolare per Borodin, Musorgskij, e Rimskij-Korsakov. Se aveva piena coscienza dei difetti di alcune loro opere, per contro la loro diretta spontaneità, i loro colori orchestrali, il loro esotismo, il loro uso della modalità gli sembravano una nuova via degna di essere seguita, tanto più che essa costituiva un antidoto potente al dominio wagneriano. Nonostante l’influenza esercitata da Schoen­ berg, Ravel era convinto che la principale corrente della musica francese non avrebbe seguito quella via, e neppure avrebbe adottato l’amalgama di elementi francesi e germanici preconizzato dagli insegnamenti di Vin­ cent d’Indy. La posterità ha creduto bene di associare i nomi di Debussy e di Ravel, ed è vero che un paragone tra le loro opere è forse il miglior modo di comprendere il personale cammino artistico di Ravel. I due composi­ tori erano pianisti formati al Conservatorio, la cui eredità musicale rac­ coglieva un millennio di musica. Il loro consenso a Mozart, Chopin, Chabrier e Musorgskij, e le loro riserve su Beethoven, Wagner e d’Indy sono assai simili. Comune a entrambi era l’amicizia per Satie, de Falla e Stravinsky, ed erano molto attratti da Baudelaire, Mallarmé e Poe. Mal­ grado questa eredità comune e numerosi punti d’incontro, Ravel asseriva di aver seguito «una direzione opposta a quella del simbolismo di Debus­ sy» e, subendo l’influenza di Poe, di aver abbandonato «il vago e l’infor­ male dei primi impressionisti francesi in vantaggio di un ritorno ai valori classici». Laddove la melodia di Debussy è sovente ellittica, l’arte di Ravel si caratterizza per una melodia pura e onnipresente. I due compo­

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sitori ampliarono audacemente il vocabolario armonico rimanendo nel­ l’ambito della tonalità, e benché Debussy si sia generalmente mostrato più avventuroso su questo terreno, la conclusione unica di Surgi de la croupe et du bond è forse l’esempio più vicino a una sospensione com­ pleta della tonalità tra quelli riscontrabili nell’opera di entrambi i com­ positori. Se nell’arte di Debussy la struttura è sorprendentemente aperta, il suo più giovane collega preferisce sfumare i contorni fonda­ mentalmente classici delle proprie opere. Malgrado la dichiarazione sen­ za equivoci di Ravel, che vedeva in Debussy «il genio più straordinario nella storia della musica francese», del suo predecessore egli criticava la «mancanza di forza architettonica» nelle grandi forme, e confidò a Henri Saguet che l’orchestrazione della Mer gli pareva mediocre. La perfezione nei dettagli era una preoccupazione prioritaria di Ravel, che riteneva generalmente troppo debole il modo che aveva Debussy di trattare le percussioni. Inoltre rimproverava all’Ile joyeuse il fatto di essere mal scrit­ ta per il piano, e la definiva una riduzione dall’orchestra. Per noi è evidente che ciascuno dei due compositori influenzò in qualche modo l’altro, fatto salvo il principio che, una volta che l’artista abbia trovato la propria personalità, le influenze esteriori sono d’impor­ tanza secondaria. Se Shéhérazade e Miroirs rimandano allo spirito debussyano, le Estampes devono molto all’opera di Ravel. Se da un lato è possibile che le strutture e i contorni più chiari riscontrabili nelle tarde opere di Debussy siano frutto dell’influenza di Ravel, dall’altro l’appello di Debussy in favore d’un’arte più ariosa; meno sovraccarica, fu raccolto da Ravel, dai Sei e da buona parte della generazione del dopoguerra. Ernest Ansermet rievoca un incontro con Debussy nel corso del quale il compositore gli diede una partitura dei Nocturnes fìtta di correzioni d’ogni sorta. Quando Ansermet gli chiese quali fossero quelle giuste, Debussy rispose: «Non lo so più con certezza. Si tratta di possibilità. Quindi, tenete questo spartito e prendetene quel che vi parrà buono». Proprio non ci riesce d’immaginare Ravel in atto di fare una simile dichiarazione. Per lui esisteva un unico prodotto finale — quello che era più prossimo alla perfezione. In ultima analisi, le personalità creatrici dei due musicisti divergevano sensibilmente. La produzione di Debussy era brillante, senza inibizioni, apriva vie nuove, mentre l’opera succinta di Ravel, la sua reticenza nel mostrare le emozioni, le sue innovazioni nel solco della tradizione si univano a una maestria tecnica che non aveva l’uguale nella propria arte. Non è possibile parlare dell’arte di Ravel senza sottolineare l’impor­ tanza per lui decisiva degli scritti di Edgar Allan Poe. Si è spesso osservata l’importante influenza di Poe sulla letteratura francese; Baudelaire e Mallarmé, tra gli altri, tradussero le sue opere, che furono per Ravel una vera rivelazione. Nell’agosto 1892, Maurice mostrò a Ricardo Vines due

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tenebrosi disegni che aveva fatto ispirandosi ai racconti di Poe Manuscript Found in a Bottle e A Descent into the Maelstrom. Poco tempo dopo compose la Ballade de la reine morte d’aimer (voce e pianoforte) e Entre cloches (due pianoforti), in cui il tintinnio delle campane riflette l’in­ fluenza di Poe. Questo fascino esercitato su Ravel da campane, orologi e carillon l’avrebbe accompagnato per tutta la carriera, e l’ossessivo e ipno­ tico pedale dello Gibet richiama la tensione e il terrore che impregnano gli scritti di Poe. È soprattutto in The Poetic Principle che si può trovare la migliore approssimazione dell’estetica di Ravel: Il piacere a un tempo più intenso, più elevato e più puro, questo piacere non si trova, io credo, che nella contemplazione del Bello. Quando gli uomini parlano di Bellezza, essi intendono non precisamente una qualità, come si suppone, ma un’im­ pressione: insomma, hanno davanti agli occhi questa violenta e pura elevazione dell’anima — non dell’intelletto e nemmeno del cuore — che ho già descritta, e che costituisce il risultato della contemplazione del Bello.

L’arte di Ravel non aspirava né alla passione né alla verità, ma piutto­ sto alla «contemplazione del Bello», grazie alla soddisfazione dello spirito per mezzo del piacere dell’orecchio. Di qui quel paradosso finale già perfettamente formulato da Keats, secondo il quale Ravel, creando la propria bellezza, avrebbe creato la propria verità. Inoltre, nella sua ricer­ ca di chiarezza, equilibrio e buon gusto, l’autore di Daphnis et Chloé produceva un’arte che incarnava i valori eterni della nazione francese. Uno sguardo d’insieme all’opera di Ravel mostra una produzione artistica limitata distribuita lungo un arco creativo di quarant’anni, dal­ l’inizio dell’ultimo decennio del XIX secolo all’inizio degli anni Trenta. Più o meno vi si possono contare una sessantina di pezzi, un po’ più della metà dei quali sono strumentali: quindici brani e suite per pianoforte, otto opere di musica da camera, sei opere orchestrali, diversi balletti e due concerti per pianoforte. La produzione vocale consiste in diciotto mélodies e cicli di mélodies accompagnate dal pianoforte, da complessi cameristici o dall’orchestra, diversi arrangiamenti di melodie popolari, un brano per coro misto a cappella e due opere. Sarebbe ingannevole dividere questa musica in periodi distinti di apprendistato e di maturità, perché le prime composizioni erano nel complesso già pienamente carat­ terizzate. La Habanera e il Menuet antique furono scritti da uno studente di vent’anni, e con i Jeux d’eau, completati quando aveva ventisei anni, lo stile del compositore era già solidamente definito. Queste prime opere mettono bene in evidenza linee di tendenza che egli doveva continuare a seguire: il gusto per i ritmi di danza e la musica spagnola, il pastiche arcaicizzante e le tecniche impressioniste contemporanee. Così, di primo acchito, si potrebbe dire che il concetto di composizione è in Ravel

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metamorfico — nel senso che con ogni opera nuova egli intraprende la conquista di nuovi orizzonti, ponendo il suo personale sigillo su tecniche e linguaggi di grande diversità. Ravel ricordò che, bambino, era sensibile «a ogni sorta di musica», cosa che spiega questa stupefacente varietà delle sue forme artistiche. Parlando a un giornalista francese, egli così definì questa concezione innovatrice dello stile musicale: La vera personalità d’un musicista [...] consiste nel non cercare di averne una riconoscibile di primo acchito e cristallizzata in formule invariabili. È questo il lato debole di Richard Strauss, per altri aspetti musicista di genio, mentre l’esempio di Stravinsky, che cerca costantemente di rinnovarsi e di esplorare senza sosta i campi più diversi, mi pare infinitamente preferibile.

La costante necessità di rimodellare la propria musica è un altro aspet­ to importante del credo artistico di Ravel. Una volta terminata una composizione, tentava di sfruttarne tutte le possibilità implicite. Fu così che rimodellò, in una forma o nell’altra, quasi metà delle proprie opere: orchestrò un numero considerevole di brani per pianoforte e di accom­ pagnamenti a mélodies, e trascrisse strumentandoli diversi brani original­ mente composti per pianoforte, poi presentati come balletti. Curiosa­ mente, le uniche opere autenticamente orchestrali sono l’Ouverture di Shéhérazade, la Rhapsodie espagnole, Daphnis et Chloé, La Valse, una “fanfare” per il balletto L’éventail de Jeanne, il Bolèro e i Concertos pour piano. A influire sulla sua tecnica orchestrale furono principalmente le par­ titure di Rimskij-Korsakov (in particolare Sheherazada, Mlada e il Ca­ priccio spagnolo) e di Richard Strauss (essenzialmente Don Juan e Till Eulenspiegel). Aveva perfettamente assimilato i trattati di Berlioz e di Rimskij-Korsakov, e per questioni tecniche consultava spesso la Techni­ que de ^orchestre moderne di Widor. La sua scrittura orchestrale era il frutto di lunghi anni di studi, d’incessanti quesiti posti agli esecutori, di molte sperimentazioni e innumerevoli prove. Le risorse apparentemente illimitate dell’orchestra moderna lo stimolavano, e le sue partiture am­ pliavano naturalmente le possibilità tecniche e l’estensione di ogni stru­ mento, pur testimoniando una grande attenzione alla linearità della con­ duzione di ciascuna parte e una ricerca di nuove combinazioni timbri­ che. Ravel era particolarmente sensibile alle sottigliezze di colore e di timbro delle percussioni e scriveva con grande abilità per l’arpa. Gli ottoni sono invece trattati generalmente in modo assai tradizionale. Sem­ brerebbe che, entro i limiti consentiti dalle umane possibilità e dalle esigenze di una scrittura efficace, ogni strumento possa assumere qualsi­ asi ruolo, permettendo a Ravel di sfogare liberamente il suo gusto della sorpresa e del paradosso. Il sassofono in mi bemolle riesce a evocare un vecchio castello nei Tableaux dune exposition, mentre in Ma mère Toye

Introduzione

un passaggio melodico viene affidato al registro grave, poco potente, della celesta. In Daphnis et Chloé, nella scena dell’alba, i legni e gli archi eseguono lunghi passaggi in agilità che ricordano l’arpa, mentre nelle Chansons madécasses il flauto evoca la sonorità della tromba e il pianofor­ te quella del gong. L’eterogeneità della musica strumentale di Ravel non ha eguali se non nella stupefacente varietà delle sue opere vocali. Dalla ricercatezza di Pierre Ronsard al complesso simbolismo di Mallarmé, dall’esotismo di Evariste de Parny all’universo infantile di Colette, Ravel si è raramente ripetuto, mettendo in musica versi alessandrini e poemi in prosa che vanno dal rinascimento al XX secolo. Nella maggior parte dei casi, le sue preferenze andavano ai versi liberi e ai poemi in prosa. A differenza del suo stile strumentale, più audace, la scrittura vocale resta nei confini della tessitura tradizionale, senza interessarsi affatto al virtuosismo. Al di là di questa varietà, il compositore cercava di preservare la chiarezza del testo, di rispettare la prosodia e di imporre i propri gusti letterari, perso­ nali e raffinati. Come artista creatore, Ravel era pienamente cosciente sia dei propri punti di forza sia di quelli deboli. «La mia genialità; sì, è vero, ne ho — disse a Manuel Rosenthal — Ma di che cosa si tratta? Bene, se tutti sapessero lavorare come so lavorare io, tutti scriverebbero opere geniali quanto le mie. Solamente, non tutti sanno lavorare come io so fare — ecco la genialità. La genialità è soprattutto l’intelligenza del metodo di lavoro, il modo di organizzare le idee». Nella recensione a un concerto, esprimeva un’idea differente: «Il principio del genio, cioè dell’invenzione artistica, non può essere costituito se non attraverso l’istinto, o sensibi­ lità». Ravel stesso riassunse perfettamente questa problematica dualità tra mestiere e ispirazione sottolineando che sapeva esattamente come aveva composto il Bolèro, ma lo stesso non poteva dire di Daphnis et Chloé. Se il lato infantile della sua personalità esigeva che ai visitatori fosse preclusa la vista di matite, gomma o carta da musica sul suo piano­ forte, resta il fatto che ogni più piccolo atto creativo gli costava una fatica immensa, cosa che spiega assai bene sia il ristretto numero delle sue opere sia la quantità di progetti incompiuti. In questo campo, Ravel era più simile a Beethoven che a Mozart. Per lunghi anni tentò di scrivere una sinfonia, ma finì per rinunciarvi. Non scrisse mai un tema con variazioni, e non compose musica per organo né musica sacra. L’inven­ tario completo delle componenti dell’arte di Ravel potrebbe andare dal canto gregoriano a Gershwin, passando attraverso il rinascimento, il barocco, il classicismo e il romanticismo. Riusciva a conservare la pro­ pria personale impronta scrivendo in uno stile che variava dalla sempli­ cità classica di Ma mère Voye al romantico virtuosismo trascendentale di Gaspard de la nuit, dalle lussureggianti e carezzevoli sonorità di Daphnis

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et Chloé all’austera violenza delle Chansons madécasses, dal pastiche rina­ scimentale agli adattamenti jazzistici. La sua opera non è eclettica, ma non può neppure venire compresa sotto un’unica etichetta. Essa è pro­ fondamente francese nel proprio orientamento e solidamente fondata sulla pratica tradizionale. In ultima analisi, Ravel, come ogni significati­ vo artista, s’è dato le proprie leggi e ha creato il proprio universo: gli ascendenti svizzero e basco, la raffinatezza parigina, l’umorismo sottile, il gusto per i viaggi e l’esotismo, l’interesse per animali e bambini, il modo intelligente di osservare la natura, tutto si riflette nella sua arte, così come gli sconvolgenti drammi della prima guerra mondiale. Dietro queste molteplici sfaccettature resta la sovrana coscienza del compositore e, secondo le parole di Tristan Klingsor, «l’ironico e tenero cuore che batte sotto il gilé di velluto di Maurice Ravel».

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Parte prima Scritti e articoli

Le Belvedére & 89 Montfort l'Ahaury

2$ /"/

(S.&O.)

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Lettera autografa di Maurice Ravel al compositore e direttore d’orchestra Henri Rabaud, direttore del Conservatorio di Parigi dal 1920 al 1941 (collezione privata)

Uno schizzo autobiografico di Maurice Ravel1

Roland-Manuel2 spiega qui la genesi di questo Schizzo autobiografico. Nel 1928, la ditta Aeolian, specializzata in pianoforti meccanici, inaugurò una serie di registra­ zioni su rulli perforati che dovevano venire accompagnati da un sunto autobiogra­ fico redatto dal compositore; Henri Dubois, direttore artistico della ditta, insistette perché Ravel partecipasse al progetto; il compositore, piuttosto di scrivere egli stesso questa breve autobiografìa, chiese a Roland-Manuel di realizzarla sotto forma d’in­ tervista. Dubois non accettò l’intervista e si concordò che Ravel l’avrebbe dettata per poi correggerla in seguito. Egli poi non corresse mai il testo scritto dal collega e abbandonò il progetto; Roland-Manuel pubblicò dunque l’articolo che segue fon­ dandosi esclusivamente sulle proprie annotazioni non riviste da Ravel3.

Sono nato a Ciboure, un comune dei Bassi Pirenei vicino a SaintJean-de-Luz, il 7 marzo 18754. Mio padre, originario di Versoix, sul Lago Lemano, era ingegnere civile. Mia madre apparteneva a un’antica famiglia basca. A tre mesi lasciai Ciboure per Parigi, dove ho sempre abitato d’allora in poi. Fin da bambino ero sensibile alla musica — ogni specie di musica. Mio padre, molto più istruito in quest’arte di quanto sia la maggior parte dei dilettanti, seppe sviluppare i miei gusti e stimolare presto il mio zelo. Senza conoscere il solfeggio, la cui teoria non ho mai imparato, co­ minciai a studiare il pianoforte all’età di sei anni circa. Ebbi per maestri Henry Ghys5, poi Charles René6, che mi diede le prime lezioni di armo­ nia, contrappunto e composizione. Nel 1889 fui ammesso al Conservatorio di Parigi, nel corso prepara­ torio di pianoforte tenuto da Anthiòme7, poi, due anni dopo, in quello di Charles de Bériot8.

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Prime composizioni

Le mie prime composizioni, rimaste inedite, risalgono più o meno al 18939. All’epoca frequentavo il corso di armonia di Pessard10. L’influen­ za di Emmanuel Chabrier11 era visibile nella Sérénade grotesque per pia­ noforte, quella di Satie12 nella Ballade de la reine morte d’aimer. Scrissi nel 1895 le mie prime opere pubblicate: il Menuet antique e la Habanera per pianoforte. Ritengo che quest’opera contenga in embrione diversi elementi che sarebbero apparsi predominanti nelle mie composizioni successive13.

*** Nel 1897, ancora allievo di André Gédalge14 per il contrappunto e la fuga, entrai nel corso di composizione di Gabriel Fauré15. Sono lieto di affermare che debbo gli elementi più preziosi del mio mestiere ad André Gédalge. Quanto a Fauré, trassi non meno profitto dall’incoraggiamento dei suoi consigli d’artista. Risale a quell’epoca la mia opera incompiuta e inedita Shéhérazade, soggetta piuttosto pesantemente all’influenza della musica russa. Parteci­ pai al concorso per il Prix de Rome nel 1901 (ottenni un secondo premio assoluto), nel 1902 e nel 190316. Nel 1905 la giuria mi escluse dalle prove finali. I Jeux d’eau, editi nel 1901, sono all’origine di tutte le novità pianistiche che si sono poi volute rilevare nella mia opera. Questo brano, ispirato al fruscio dell’acqua e ai suoni musicali echeggiami negli zampilli, nelle cascate e nei ruscelli, si basa su due temi, in guisa di un primo movimento di sonata, pur senza assoggettarsi alla dialettica tonale classica.

*** Il mio Quatuor en fa (1902-1903) risponde a una volontà di costru­ zione musicale senza dubbio realizzata imperfettamente, ma che si deli­ nea molto più nitidamente rispetto alle mie composizioni precedenti. Shéhérazade, in cui è ben visibile l’influenza — se non altro spirituale — di Debussy, risale al 1903. In essa, ancora una volta, cedo al profondo fascino che l’Oriente ha esercitato su di me fin dall’infanzia. I Miroirs (1905) costituiscono una raccolta di brani per pianoforte che segna nella mia evoluzione armonica un punto di svolta tanto con­ siderevole da sconcertare i musicisti fino ad allora più assuefatti alla mia maniera17. Il brano composto per primo — e il più tipico di tutti — è secondo me il secondo della raccolta: Oiseaux tristes. [Vi evoco] uccelli perduti nel torpore di un’oscura foresta, nelle ore più calde dell’estate.

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*** Dopo la raccolta dei Miroirs, composi una Sonatine per pianoforte e le Histoires naturelles. Già da tempo il linguaggio diretto e chiaro, la poesia intima e profonda dei brani di Jules Renard stimolavano la mia immaginazione. Il testo stesso, poi, m’imponeva una declamazione lega­ ta in modo particolarmente stretto alle inflessioni della parlata francese. La prima esecuzione delle Histoires naturelles alla Societé Nationale de Musique di Parigi provocò un autentico scandalo, seguito da vivaci polemiche nella stampa musicale del tempo18. Le Histoires naturelles mi hanno preparato alla composizione delVHeure espagnole, una commedia lirica di cui Franc-Nohain19 scrisse il libretto, anch’essa una sorta di conversazione in musica. Vi si afferma l’intenzione di ricollegarmi con la tradizione dell’opera buffa. Ma mère Voye, pezzi infantili per pianoforte a quattro mani, risale al 190820. Seguendo il disegno di evocare in questi brani la poesia dell’infan­ zia, sono stato naturalmente condotto a semplificare la mia maniera e a scarnificare la mia scrittura. Ho tratto da quest’opera un balletto che fu messo in scena dal Theatre des Arts: l’opera fu scritta a Valvins per i miei giovani amici Mimie e Jean Godebski. Gaspard de la nuit, brani per pianoforte tratti da Aloysius Bertrand21, sono tre poemi romantici di virtuosismo trascendentale.

*** Il titolo Vaises nobles et sentimentales esprime a sufficienza la mia in­ tenzione di comporre una sequenza di valzer sul modello di Schubert. Al virtuosismo su cui si fondava Gaspard de la nuit segue una scrittura nettamente più tratteggiata, che indurisce le armonie e mette in luce i rilievi della musica. Le Vaises nobles et sentimentales furono eseguite per la prima volta, tra chiassose proteste, al concerto anonimo della S.M.I. Gli ascoltatori votavano per l’attribuzione di ogni pezzo. La paternità delle Valses mi fu riconosciuta — con una piccola maggioranza. Il setti­ mo brano mi pare il più caratteristico.

*** Daphnis et Chloé, sinfonia coreografica in tre parti, mi fu commissio­ nata dal direttore della compagnia dei Ballets Russes: Sergej Diaghilev. Il soggetto è di Michel Fokine, a quel tempo coreografo della celebre troupe. La mia intenzione, scrivendolo, era quella di comporre un vasto affresco musicale, segnato non tanto da scrupoli d’arcaismo, quanto dalla fedeltà alla Grecia dei miei sogni, che si accosta volentieri a quella

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immaginata e descritta dagli artisti francesi della fine del XVIII secolo. L’opera è costruita sinfonicamente su di un piano tonale molto rigoroso, e utilizza un ristretto numero di temi il cui sviluppo assicura l’omogenei­ tà sinfonica dell’opera. Abbozzata nel 190722, Daphnis fu più volte rielaborata, segnatamente nel finale. L’opera è stata rappresentata la prima volta ai Ballets Russes. Oggi appartiene al repertorio dell’Opéra. Trois Poèmes de Mallarmé : ho voluto trasporre in musica la poesia di Mallarmé. E in particolare quella ricercatezza ricca di profondità così tipica di questo poeta. Surgi de la croupe et du bond : il più strano, se non il più ermetico dei sonetti. Per strumentare quest’opera ho fatto uso d’un organico pressoché identico a quello del Pierrot lunaire di Schoenberg. Il Trio, il cui primo movimento ha un colore basco, fu composto per intero nel 1914, a Saint-Jean-de-Luz. All’inizio del 1915 mi arruolai nell’esercito; in conseguenza di ciò la mia attività musicale s’interruppe fino all’autunno del 1917, quando fui riformato. Terminai allora Le tombeau de Couperin. A dire il vero l’omaggio è rivolto non tanto al solo Couperin quanto all’intera musica francese del XVIII secolo23. Dopo Le tombeau de Couperin, le mie condizioni di salute m’impedirono per qualche tempo di scrivere. Mi rimisi a comporre solo per scrivere La Valse, poema coreografico la cui primitiva idea era antecedente alla Rhapsodic espagnole. Ho concepito quest’opera come una sorta di apoteosi del valzer viennese a cui si mescola, nella mia mente, la sensazione d’un turbinio fanta­ stico e fatale. Vedo questo valzer ambientato nella cornice di un palazzo imperiale, intorno al 1855. Quest’opera, che nella mia intenzione è essenzial­ mente coreografica, finora è stata messa in scena solo al teatro di Anversa, dalla compagnia di ballo di Ida Rubinstein24. La Sonate pour violon et violoncelle risale al 1920, epoca in cui presi dimora a Montfort-l’Amaury. Credo che questa sonata segni un punto di svolta nell’evoluzione della mia carriera. La scarnificazione è spinta qui all’estremo. Rinuncia alla fascinazione armonica; reazione per contro sempre più marcata nel segno della melodia. A cure analoghe, pur su di un piano completamente diverso, obbedi­ sce L'enfant et Ics sortilèges, fantasia lirica in due atti. L’attenzione qui predominante per la melodia trova riscontro in un soggetto che mi sono divertito a trattare nello spirito dell’operetta americana. Il libretto di Colette25 nel suo incanto fiabesco autorizzava questa libertà. Qui a im­ porsi è il canto. L’orchestra, pur senza disdegnare tratti di virtuosismo strumentale, resta in secondo piano. Tzigane, brano virtuosistico nel gusto di una rapsodia ungherese. Le Chansons madécasses mi paiono apportare un elemento nuovo, drammatico — erotico persino, introdottovi dallo stesso soggetto delle

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canzoni di Parny26. È una sorta di quartetto in cui la voce riveste il ruolo di strumento principale. Vi domina la semplicità. [Vi si afferma] un’in­ dipendenza delle parti che sarà riscontrata in modo più marcato nella Sonate [per pianoforte e violino]. Mi sono imposto quest’indipendenza scrivendo una Sonate pour pia­ no et violon, strumenti essenzialmente incompatibili, e che, lungi dall’equilibrare i loro contrasti, mettono qui in evidenza proprio questa incompatibilità. Nel 1928, su richiesta di Ida Rubinstein, ho composto un Bolèro per orchestra. Si tratta di una danza condotta in tempo assai moderato e costantemente uniforme, tanto nell’armonia quanto nel ritmo, quest’ul­ timo sottolineato senza sosta dal tamburo. L’unico elemento di diversità è apportato da un crescendo orchestrale. Tale è nei suoi tratti principali la mia opera attuale; in un futuro che non mi è possibile prevedere, intendo far ascoltare un Concerto per pianoforte e orchestra27 e una grande opera tratta dalla Jeanne d’Arc di Joseph Delteil28.

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Alcune riflessioni sulla musica

Non ho mai avvertito la necessità di formulare, per me stesso o per altri che sia, i principi della mia estetica. Se dovessi farlo, chiederei di potermi attribuire le semplici dichiarazioni espresse a questo proposito da Mozart. Egli si limitava a dire che la musica può prendere qualsiasi strada, può osare e descrivere ogni cosa, a patto che sappia affascinare e che resti, alla fin fine e per sempre, musica2. Talvolta mi si è fatto l’onore di attribuirmi opinioni, in apparenza ben paradossali, sulla falsità dell’arte e i rischi della sincerità. Sta di fatto che io mi rifiuto, semplicemente ma recisamente, di confondere la co­ scienza dell’artista, che è una cosa, con la sua sincerità, che è tutt’altro. La seconda vai meno di nulla se la prima non l’aiuta a manifestarsi. Questa coscienza esige che sviluppiamo in noi stessi il buon artigiano. Il mio obiettivo è dunque la perfezione tecnica. Posso aspirarvi senza limite, poiché sono certissimo di non raggiungerla mai. L’importante è awicinarvisi ogni giorno un poco di più. Senza dubbio l’arte può avere altri effetti, ma l’artista — mi piace pensare — non deve avere altro scopo.

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La musica contemporanea 1

Il 6 e il 7 aprile 1928, su invito del Rice Institute (oggi Rice University) di Houston, Texas, Ravel partecipò a due concerti dedicati alla sua musica2. Come aveva fatto in precedenza all’epoca della tournée di quattro mesi nel Nordamerica, il compositore suonò diverse sue musiche per pianoforte (tra cui la Sonatine^ La vallèe des cloches tratta dai Miroirs e il Rigaudon dal Tombeau de Couperin} e accom­ pagnò alcuni brani cameristici e vocali (Shéhérazade e la Sonate pour violon et piano appena terminata). Il concerto del 7 aprile Ri preceduto da una conferenza intitolata «La musica contemporanea». Fatto curioso, questa conferenza — la sola, pare, che Ravel abbia mai tenuto — ci è giunta nella sua traduzione inglese. Si ignora il nome del traduttore, e il testo francese non è ancora stato ritrovato3. I contenuti della conferenza sono comunque di straordinario interesse. Ravel, sottolineando l’im­ portanza della coscienza individuale e nazionale nella creazione di un’opera d’arte, delinea un quadro della musica contemporanea europea, esprimendo giudizi sulle composizioni di un certo numero di colleghi, tra cui Debussy, Satie e i Sei, frammi­ sti a osservazioni rivelatrici sulle proprie opere e procedimenti creativi. Evoca la relazione musicale tra Liszt e Wagner, l’opera di Bartók e Kodàly, l’influenza di Schoenberg, la poesia di Mallarmé, e conclude incitando i suoi ospiti a ritornare alle proprie radici — il jazz, il blues, lo spiritual — al fine di creare un’autentica scuola americana. Ravel propone un ottimistico sguardo d’insieme sullo scenario contemporaneo utilizzando un linguaggio elevato e lapidario. In questa conferenza, degna del mas­ simo interesse, si rivela una personale impronta di imparzialità, candore e modestia.

E evidentemente impossibile presentare un quadro generale comple­ to della musica contemporanea, o anche solamente di una delle sue tappe, nei limiti di un’unica conferenza. Mi faccio premura di confessare che una cosa soltanto mi pare ancor più difficile: spiegare o commentare la mia musica; perché, se fossi in grado di farlo, sarei portato a dubitare del suo pregio e della sua validità. Le ragioni che mi spingono a queste conclusioni sono forse diverse da quelle generalmente addotte da chi tiene conferenze sull’arte. Per esempio, si asserisce sovente che la musica sfugge all’analisi, mentre altre arti, come la pittura, la scultura, l’architet­

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tura, non possiedono mezzi d’espressione tanto impalpabili, tanto fugge­ vole tanto evanescenti quanto la vibrazione sonora. Su questo punto non sono d’accordo. Ho l’impressione che i recenti progressi, in acusti­ ca, permettano di applicare ai suoni misurazioni tanto numerose e varie quanto quelle utilizzate da altri mezzi di espressione artistica, come l’ar­ chitettura. Dirò inoltre che da quando il giovane scienziato russo Lev Teremin ha perfezionato i suoi primi strumenti e può, ora, trasformare le vibrazioni dell’etere in vibrazioni musicali di qualsivoglia altezza, in­ tensità e qualità, la componente sonora della musica sembra essere giun­ ta a portata dell’analisi. Non è dunque la natura impercettibile delle vibrazioni sonore a impedirmi di spiegare o di giudicare un’opera musi­ cale; a dire il vero, provo la medesima impressione per altre opere d’arte: pittura, scultura o architettura. Vuol forse dire che non accetto le leggi cosiddette classiche dell’armonia, del contrappunto e di tutto il resto? Il fatto che io riconosca o no il loro valore influenza poco il mio giudizio sulle composizioni attuali, poiché quelle leggi classiche si sono generate a partire da opere del passato. Esse sono state formulate e adottate da maestri che si sforzavano di trovare una base permanente, solida e con­ veniente ai loro insegnamenti, e quest’insieme di regole ha subito un mutamento dopo l’altro, adattandosi agli elementi nuovi introdotti via via da composizioni più recenti. Tuttavia, tra i tentativi accademici di stabilire leggi permanenti non ve n’è mai stato uno che abbia saputo aiutare od ostacolare il progresso dell’attività artistica. Si potrebbe riassumere la questione dicendo che nei trattati musicali non esistono leggi capaci di aiutare in un modo qualsiasi a formulare giudizi su di una composizione musicale contemporanea. L’apparente inutilità di tutti gli argomenti di tal genere deve discendere dal fatto che tali pretese leggi riguardano soltanto l’elemento superficiale e appari­ scente dell’opera d’arte, senza mai arrivare alle radici infinitamente sottili della sensibilità e dei moti personali dell’artista. Ci si accorge spesso che queste radici o queste sfuggenti origini si presentano in due forme diverse: una potrebbe chiamarsi coscienza na­ zionale, dal dominio piuttosto vasto, mentre l’altra, la coscienza indivi­ duale, sembra il prodotto di un processo egocentrico. Entrambe sfuggo­ no tanto alla classificazione quanto all’analisi, ma ogni artista sensibile percepisce tuttavia il valore della loro influenza nella creazione di una vera opera d’arte. Le manifestazioni di questi due tipi di coscienza in musica possono infrangere o soddisfare ogni regola accademica, ma ciò non ha che mediocre importanza se confrontato con lo scopo reale, e cioè la pienezza e la sincerità dell’espressione. Possiamo trovarci qui di fronte a quel movimento interiore che, deliberatamente, regola la nostra intelligenza e la nostra sensibilità per cercare di realizzarsi nel proprio ambiente e nelle proprie tradizioni; non le tradizioni storiche ma quelle

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che un comune patrimonio ereditario ci fa sentire conformi alla nostra natura. Una ricerca di tal genere può essere intensamente selettiva, e diviene allora un processo di chiarimento applicato al nostro talento naturale e diretto dalla nostra coscienza individuale. Qui, ancora, insisto sul fatto che non si possono stabilire leggi formali per giudicare il grado di perfezione raggiunto individualmente in questo processo, tanto più che ciò che noi tentiamo di scoprire è soltanto una sensazione, fin qui sconosciuta. Se io dunque potessi spiegare e mostrare il valore delle mie opere, ciò proverebbe, almeno secondo il mio punto di vista, che esse sono interamente costituite di elementi appariscenti, superficiali, tangi­ bili, alla portata delfanalisi formale, e che non sono dunque perfette opere d’arte. La difficoltà persiste quando si tenta di classificare o di definire con valutazioni precise musicisti contemporanei, ivi compresi i propri compatrioti. In effetti, sotto quest’aspetto, ogni tentativo di giu­ dizio definito su di un’opera d’arte mi pare una follia. Alla prima esecuzione di una nuova composizione musicale , l’im­ pressione iniziale del pubblico è dovuta, in generale, agli elementi più superficiali della musica, e cioè alle sue manifestazioni esteriori piuttosto che al suo contenuto intimo. L’ascoltatore viene colpito da qualche particolare senza importanza inerente al mezzo d’espressione, allorché invece il vocabolario espressivo, sia pure considerato nel suo complesso, si limita ad essere un mezzo, e non un fine in se stesso; spesso occorre attendere anni perché la reale emozione interiore della musica si mani­ festi all’ascoltatore, una volta che i mezzi d’espressione abbiano rivelato finalmente ogni loro segreto. Così, per esempio, se consideriamo le critiche attuali rivolte alle com­ posizioni di Arnold Schoenberg e di Darius Milhaud, abbiamo sovente l’impressione che cromatismo e atonalità da una parte, diatonismo e politonalità dall’altra, siano gli unici tratti significativi di questi due artisti; in entrambi i casi un simile giudizio pare limitarsi a rivelare l’abito che fa da ornamento o da velo alla loro capacità di sentire, e noi dovremmo sempre ricordarci che il vero contenuto di un’opera d’arte è rappresentato dalla sensibilità e dall’emozione. Inoltre, le acute e sottili percezioni che guidano l’artista nel suo lavoro di creazione sono esse stesse in evoluzione continua poiché, come ciascuno dei nostri cinque sensi può venire esercitato e condotto a percepire oggi meglio di ieri, così questa facoltà di percezione all’interno di un patrimonio persona­ le e nazionale d’ambiente e di tradizione può affinarsi sempre più nel corso degli anni, togliendo di mezzo ogni classificazione permanente e definitiva. Potrò precisare il mio pensiero analizzando brevemente i concetti di naziona­ lismo e individualismo nei loro rapporti con la musica. Insisterò sul mio personale modo di vedere le caratteristiche peculiari della musica contempo­ ranea osservando come esse si presentino nelle opere di qualche mio amico.

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Per esempio, nelle opere di Darius Milhaud, probabilmente il più importante tra i nostri compositori francesi più giovani, si è frequente­ mente colpiti dalla vastità della concezione; tale qualità è una personale caratteristica della musica di Milhaud assai più dell’uso, tanto fre­ quentemente commentato e spesso criticato, della politonalità (di quest’utilizzo simultaneo di diverse tonalità si possono trovare esempi allo stato embrionale già fin nei corali di Johann Sebastian Bach, in certi passaggi di Beethoven e nelle applicazioni che ne fa Richard Strauss). Se consideriamo nel suo complesso una delle sue composizioni più ampie, Les Choéphoresy ci accorgiamo ben presto che Milhaud, pur ottenendo una forte e crescente tensione espressiva attraverso l’articolazione di se­ quenze di carattere tragico — processo questo in cui sfrutta a fondo tutte le risorse della scrittura musicale, compresa quella politonale — penetra nondimeno ancora più intimamente nella propria coscienza artistica in una scena in cui una salmodia vigorosa e patetica viene accompagnata dalla sola percussione. Non è più con la politonalità che Milhaud si esprime qui, eppure questa è una delle pagine in cui egli più profon­ damente si rivela. Nei Malheurs d’Orphée, una delle sue ultime opere, presentata recentemente in un concerto Pro-Musica a New York, è si­ gnificativo osservare come la politonalità di cui Milhaud fa occa­ sionalmente uso sia così intimamente intrecciata agli elementi lirici e poetici da essere appena riconoscibile, mentre la sua personalità artistica, ben riconoscibile invece, riappare ammantata di un’evidente linearità melodica di carattere interamente francese. Potremmo ancora sottolineare le qualità singolarmente drammatiche di Delannoy, il contenuto facile e i temi popolari delle opere di Poulenc, la nettezza formale e l’elegante orchestrazione di Roland-Manuel, la vocazione di Georges Auric a incidere al bulino la propria musica, impri­ mendo spesso alla sua opera un accento caustico e satirico. Tratti tanto caratteristici e tanto largamente divergenti appartengono a individui differenti piuttosto che a un’unica scuola; e altrettanto si potrebbe dire dell’affascinante musica di Germaine Tailleferre. In Arthur Honegger, un altro membro di quello che un critico francese ha etichettato come gruppo dei Sei, troviamo non soltanto tratti individuali, ma caratteristi­ che ereditarie e razziali del tutto diverse da quelle dei quattro composi­ tori precedentemente citati, e Honegger la sua coscienza razziale la espri­ me senza riserve. Della propria educazione musicale, ricevuta in suolo francese dalle mani di maestri francesi, Honegger sembra aver conserva­ to una facilità di scrittura che applica alle linee dell’espansività germani­ ca. La sua musica resta infatti fedele alla propria coscienza razziale, cioè germanica, poiché egli proviene da una famiglia svizzera-tedesca. Il senso di quest’ultima affermazione non è né peggiorativo né elogiativo; nel momento in cui possiamo accomunare le varie tendenze espresse da

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Milhaud, Poulenc e Auric come ugualmente radicate nella coscienza nazionale francese, affermiamo che è dalla coscienza nazionale tedesca che sgorga l’arte di Honegger. Se dovessimo considerare altri giovani musicisti francesi, vedremmo ancora in evidenza quest’aspetto della co­ scienza razziale; poiché non sapremmo trovare caratteri germanici tra le qualità curiosamente drammatiche di Delannoy, né nella musica intima e raffinata di Roland-Manuel. La coscienza nazionale dei musicisti tede­ schi è espansiva, laddove la nostra coscienza francese è nutrita di riserbo. In virtù degli indissolubili vincoli che legano ognuno di loro alla propria coscienza nazionale, è inconcepibile che uno di essi possa esprimersi in modo adeguato nel linguaggio dell’altro. La nazionalità non priva il compositore né della propria anima né della propria espressione, perché ogni artista creativo possiede, dentro di sé, leggi che sono particolari del suo essere. Queste leggi sono forse gli elementi che maggiormente inci­ dono sull’intero processo della creazione musicale. Esse paiono derivare da un effetto combinato di coscienza individuale e di coscienza naziona­ le, e non possono venire comunicate all’artista da alcun maestro, poiché sgorgano dal suo personale patrimonio e non sono percepite in un primo tempo che da lui solo. Da tali leggi, nel corso degli anni, possono pro­ cedere quelle di una scuola, di allievi, di imitatori o di epigoni, ma ogni volta che un vero artista fa la sua comparsa, sviluppa a partire dalla propria coscienza nuove leggi che gli sono peculiari. Per inciso, vorrei far notare come musicisti fedeli sia alla propria coscienza nazionale sia alla propria individualità apprezzino sovente composizioni totalmente di­ verse dalle loro, ma un musicista francese germanizzato o un musicista tedesco francesizzato facilmente si inganneranno nella comprensione di opere musicali altrui, poiché gli ibridi non riescono a riconoscere la personalità degli altri, in seguito alla perdita della propria individualità. Se occorresse valutare ciò che è legittimo ereditare da altri musicisti, il valore evidente di una tale eredità e l’eventuale rischio di un plagio, io collocherei sul versante legittimo il confronto tra le varie modalità espres­ sive, l’influsso esercitato da composizioni sperimentali o incomplete e tutte quelle cose che possono venire assorbite o assimilate senza perdere la propria coscienza nazionale e individuale, mentre sul versante opposto porrei tutti quegli sforzi che, attraverso l’imitazione e il plagio, cercano di nascondere una mancanza o una debolezza di personalità. Può essere alle volte estremamente difficile decidere su tali questioni per ciò che concerne un’opera particolare; ma anche in questo caso l’acuta capacità percettiva dell’artista è la sola guida degna di fiducia. Uno dei casi più curiosi di scambio d’influenza è forse quello di Hérold, Weber e Rossini. Questi tre compositori furono fortemente influenzati, ciascuno per parte sua, da un tratto comune delle loro rispet­ tive opere, vale a dire il romanticismo. Ma ciascuno mise questi scambi

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d’influenza in secondo piano rispetto alla propria coscienza nazionale. Fu musica romantica francese quella che scrisse Hérold; il romanticismo di Rossini fu chiaramente italiano, mentre Weber restò un romantico tedesco fino in fondo. Influenze di tal sorta ampliano l’orizzonte di un artista che nutra delle ambizioni senza sminuirne la personalità o il patrimonio personale. Più avanti nel corso di questa conferenza metterò in evidenza simili relazioni nelle opere di alcuni miei predecessori o contemporanei. E molto importante che questi influssi vengano considerati con attenzio­ ne, tanto più che possono avere un effetto buono o cattivo, a seconda della qualità dell’influsso e più ancora della forza della personalità che lo subisce. Per esempio, l’influenza di Liszt su Wagner fu considerevole, eppure la personalità del secondo non ne fu per nulla indebolita, a dispetto del generoso uso che egli fece dell’eredità artistica del suocero. L’influenza tematica di Liszt su Wagner è certo più che evidente, ma l’estetica di Wagner, benché vasta, è essenzialmente individuale. Un’altra influenza significativa, per un certo verso unica e proveniente, almeno in parte, da Chabrier, è quella di Erik Satie, che ha avuto un effetto notevole su Debussy, su me stesso, e a dire il vero sulla maggior parte dei composi­ tori francesi moderni. Satie possedeva un’intelligenza estremamente viva, fornita di una straordinaria capacità inventiva. Fu un grande sperimen­ tatore; i suoi esperimenti non hanno forse mai raggiunto il grado di sviluppo o di realizzazione ottenuto da Liszt, ma, sia per numero sia per importanza, sono stati di inestimabile valore. Con semplicità e ingenui­ tà, Satie mostrava la via, ma non appena un altro musicista s’inoltrava sul sentiero da lui scoperto, Satie mutava immediatamente il proprio per­ corso e, senza esitare, apriva una strada verso nuovi spazi di sperimenta­ zione. Divenne così l’ispiratore di innumerevoli tendenze e progressi. E mentre personalmente non ha forse mai elaborato una sola opera d’arte completa a partire dalle proprie scoperte, pure noi oggi possediamo numerose opere che non sarebbero mai state scritte se Satie non fosse vissuto. La sua influenza non era per nulla dogmatica e si mostrava perciò d’estremo interesse per gli altri musicisti. Debussy aveva per lui la massima stima. Influenze come la sua sono simili a un suolo fertile propizio alla crescita di fiori rari; in esso la coscienza individuale, seme indispensabile, nutrita in un ambiente dalle speciali caratteristiche può sbocciare sempre secondo la propria natura nazionale, razziale o indivi­ duale. Nella maggior parte dei casi, la coscienza nazionale è per un artista creativo la prima fonte d’ispirazione. Per esempio, l’oggettività e chiarez­ za di linee mostrata dai nostri compositori più antichi ha fornito una ricca eredità al nostro incomparabile Debussy, il genio più straordinario della musica francese. Ciò porta a concludere che Debussy fu solamente

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un imitatore? Certamente no! Allo stesso modo il simbolismo di Debus­ sy, il suo cosiddetto impressionismo, sono forse in contrasto con lo spirito francese? E ben vero il contrario, poiché sotto trine fini e delicate, d’apparenza eterea, è possibile scoprire agevolmente una raffinata chia­ rezza di disegno prettamente francese. Il suo genio creativo era palese­ mente dotato di spiccata individualità, capace di creare da sé le proprie leggi, in grado di evolversi costantemente e di esprimersi con libertà, restando pur sempre fedele alla tradizione francese. Per Debussy, come musicista e come uomo, ho concepito una profonda ammirazione, ma sono per natura diverso da lui. Anche se non è stato del tutto estraneo alla formazione del mio patrimonio personale, io accosterei piuttosto alle prime fasi della mia evoluzione Gabriel Fauré, Emmanuel Chabrier ed Erik Satie. L’estetica di Edgar Allan Poe, il vostro grande connazionale, è stata per me di singolare importanza, così come l’immateriale poesia di Mallarmé — visioni sconfinate ma dal disegno preciso, racchiuse in un mistero di enigmatica astrazione, un’arte in cui tutti gli elementi sono legati tra loro così intimamente che non è possibile analizzarne gli effetti, ma soltanto percepirli. Penso tuttavia di aver sempre seguito personalmente una direzione opposta rispetto a quella del simbolismo di Debussy. Volgiamoci ora verso un altro aspetto della mia opera che può avere per voi un interesse più immediato. A mio avviso, il “blues” è uno dei più grandi tesori della vostra musica autenticamente americana, malgra­ do l’influenza dei precedenti contributi africani e spagnoli. Alcuni mu­ sicisti mi hanno chiesto perché mai mi sia convinto a scrivere dei blues, come il secondo movimento della mia sonata per violino e pianoforte, da poco terminata. Anche qui si mostra in evidenza il medesimo processo al quale ho già alluso, perché, sia pure adottando questa forma popolare della vostra musica, oso dire che nonostante ciò la musica da me scritta è musica francese, musica di Ravel. Sì! Queste forme popolari non sono che materiali di costruzione, e l’opera d’arte appare solamente nella con­ cezione complessiva che ne è maturata, e dove nessun dettaglio è stato lasciato al caso. Inoltre, nel manipolare questi materiali è assolutamente essenziale dar loro un’accurata impronta stilistica. Per comprendere pienamente il significato del processo al quale faccio riferimento, basterà osservare quegli stessi blues nell’elaborazione di qualcuno dei vostri musicisti e in quella di musicisti provenienti da paesi europei che non siano la Francia; trovereste allora certamente queste composizioni deci­ samente discordanti, la maggior parte di esse con l’impronta del marchio nazionale caratteristico dei rispettivi compositori, malgrado la naziona­ lità unica del materiale d’origine, il “blues” americano. Pensate alle sorprendenti e fondamentali differenze, tra il “jazz” e i “rag” di Milhaud, Stravinsky, Casella, Hindemith e gli altri. Le indivi­ dualità dei compositori sono più forti dei materiali di cui essi si sono

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appropriati. Essi plasmano forme popolari per soddisfare le esigenze dell’arte propria della loro individualità; ancora una volta senza lasciar nulla al caso, ancora una volta dando una precisa unità stilistica ai ma­ teriali utilizzati, mentre gli stili divengono tanto numerosi quanto i com­ positori stessi. Nel mio personale lavoro di composizione, ritengo neces­ sario un lungo periodo di cosciente gestazione; durante quest’intervallo giungo a vedere progressivamente e con precisione crescente la forma e l’evoluzione che l’opera assumerà in seguito nel suo insieme. Posso tro­ varmi così impegnato per anni senza scrivere una sola nota dell’opera, dopo di che la stesura procede relativamente in fretta. Ma occorre ancora parecchio tempo per eliminare tutto ciò che potrebbe venire considerato superfluo, per realizzare con tutta la completezza possibile quella defini­ tiva e tanto desiderata chiarezza. Giunge allora l’istante in cui per ulte­ riori composizioni occorre formulare concezioni nuove, ma è impossibi­ le forzare artificiosamente queste ultime, poiché esse giungono solamen­ te di loro iniziativa e traggono spesso origine da qualche lontanissima percezione, non manifestandosi che dopo lunghi anni. Da quindici o vent’anni musicisti e critici s’interessano vivamente alle due opposte tendenze già menzionate: l’atonalità e la politonalità. E nelle discussioni appassionate tra gente di parte abbiamo spesso ascoltato o letto che l’atonalità costituisce un vicolo cieco; io non ritengo valida quest’opinione, perché, se ciò può risultare vero in quanto sistema, non lo è più sul piano delle sue influenze. Infatti, l’influsso esercitato da Schoenberg può essere schiacciante sui suoi adepti, ma il significato della sua arte deve identificarsi con influenze di natura più sottile che ne costituiscono l’estetica e non il sistema artistico. Io sono perfettamente consapevole del fatto che le mie Chansons madécasses non sono per nulla schoenberghiane, ma non so se sarei stato capace di scriverle qualora Schoenberg non avesse composto nulla. D’altra parte, si è detto spesso che la mia musica ha esercitato un influsso su molti musicisti contempo­ ranei. In particolare s’è voluto con insistenza che l’antico spartito dei miei Jeux d'eau abbia influito sul Debussy autore di Jardins sous la pluie, mentre una similitudine ben più sorprendente ancora è stata rilevata nel caso della mia Habanera ; ma commenti di questo genere li devo lasciare ad altri. Potrebbe certamente accadere, tuttavia, che concetti e caratteri apparentemente simili possano maturare nella- coscienza di due distinti compositori quasi nella medesima epoca, senza che ciò implichi un’in­ fluenza reciproca. In tal caso, le composizioni possono avere numerose analogie esteriori, ma noi possiamo avvertire la differenza nella persona­ lità dei due compositori dal momento che due esseri umani non sono mai strettamente identici; naturalmente dobbiamo limitarci a considera­ re soltanto i compositori che hanno effettivamente cercato e svelato la propria personalità. Per contro se, in forme d’espressione dall’apparenza

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simile, non riusciamo a trovare manifestazioni interne differenti, diviene verosimile che uno dei due compositori abbia copiato l’altro. Ma ci siamo un poco allontanati dal soggetto della nostra conferenza, forse per la buona ragione che io sono incapace di parlare più diffusa­ mente delle mie opere e dei metodi che le hanno portate alla luce. Una volta scritto il primo abbozzo di un lavoro e iniziato il processo di eliminazione, lo sforzo rigoroso verso la perfezione avanza con mezzi quasi impercettibili, apparentemente diretti da forze interiori dal carat­ tere sufficientemente intimo e complesso da eludere ogni analisi. La vera arte, lo ripeto, non si riconosce nelle definizioni né si rivela attraverso l’analisi; ne cogliamo le manifestazioni e sentiamo la sua presenza; non v’è altro modo di percepirla. Prima di terminare questa breve allocuzione, desidero dirvi ancora una volta quanto sia felice di visitare il vostro paese, tanto più che il mio viaggio mi permette di familiarizzarmi ancor più con gli elementi che contribuiscono alla formazione progressiva di una vera scuola musicale americana. Sul fatto che questa scuola sia destinata ad acquistare notevole importanza nella sua evoluzione finale, non nutro il minimo dubbio; sono allo stesso modo con­ vinto che essa realizzerà una forma di espressione nazionale tanto diversa dalla musica degli Europei quanto voi stessi siete diversi da loro. Anche qui, per lo sviluppo dei giovani compositori più sensibili e ricchi d’immaginazione do­ vremmo valutare l’eredità nazionale nel suo complesso. I patrocinatori del nazionalismo — attribuzione questa che si son data da soli — abbondano sempre; professano una vindice fede ma di rado si accordano sui mezzi da utilizzare. Presso questi nazionalisti in campo musicale possiamo sempre distinguere due fazioni distinte che si dedicano con costanza alle tenzoni critiche. Ora, la critica è facile ma l’arte difficile. La maggior parte di questi nazionalisti critica con discreta applicazione, ma pochi di loro esaminano con altrettanta cura se stessi. Una fazione ritiene che il folclore sia l’unico requisito della musica nazionale, l’altra preconizza la nascita di una musica nazionale a partire dal singolo individuo odierno. Nel frattempo all’interno del primo partito continua il disordine. Folclore? Ma da che cosa è rappresentato a buon titolo il nostro folclore? Da motivi indiani forse? Ma sono americani? Da spiritual negri? Blues? Ma sono americani? e così via, finché del patrimo­ nio nazionale di fondo non resta più nulla; e si finisce per cedere largamente terreno a quei musicisti terrorizzati più dal rischio di essere misteriosamente spinti a rompere le regole accademiche, che da quello di tradire la propria coscienza personale. Così questi musicisti, da veri buoni borghesi, compon­ gono la loro musica in accordo con le regole classiche della cultura europea, mentre i folcloristi, apostoli delle arie popolari, gridano nel loro purismo: «Può dirsi americana una musica ispirata dall’Europa?». Ci troviamo allora presi in un circolo vizioso e sterile, a meno di rivolgerci una volta ancora verso il passato, e considerare come fùrono prodotte certe opere, le cui caratteristi­

Ravel — Scritti e interviste

che sono considerate essenzialmente nazionali. Wagner è generalmente repu­ tato tedesco in ogni tratto eppure, come abbiamo già sottolineato, una gran parte del suo materiale tematico proviene dall’alta immaginazione di Franz Liszt, musicista ungherese le cui opere, sovente e indubitabilmente, offrono il ricco sapore del folclore ungherese. E certo che la rilevante riuscita di Wagner è dipesa dalla sua capacità nel formulare un proprio stile, ma è lecito dubitare che egli avrebbe mai scritto come ha saputo fare se la ricchezza di materiali accumulati da Liszt non fosse stata, in misura più o meno ampia, a sua disposizione. Tutto questo ha contribuito a perfezionare un’opera come Tristan und Isolde : la straordinaria abilità costruttiva di Wagner, la geniale invenzione tematica così come il materiale folcloristico di Liszt. Folclore e coscienza individuale sono entrambi necessari; e nelle nazioni ancora giovani sul piano musicale quello che manca maggiormente ai compositori è proprio un’ostinata fedeltà alla ricerca in queste due direzioni. Quanto alla nostra coscienza individuale, essa non ci deve trarre in inganno; la sua scoperta e il suo sviluppo occupano nella maggior parte dei casi una vita intera. E l’indi­ vidualità non va mai confusa con l’eccentricità. Ora, per illustrare questa raccolta di canti popolari di cui si compone il folclore nazionale non potrei fare cosa migliore che citare le preziose registrazioni effettuate da due musicisti ungheresi: Béla Bartók e Zoltàn Kodàly, di personalità totalmente differente, ma ugualmente interessati al folclore. Costoro, dal 1905 al 1918, hanno raccolto più di dodicimila canti dell’Ungheria e dei paesi confinanti. Tra questi, almeno seimila sono ungheresi e Bartók dice che gli sarebbe facile aggiungerne un migliaio ogni anno. Inoltre, mentre concretamente raccoglievano quest’incomparabile eredità nazio­ nale dei musicisti ungheresi, Bartók e Kodàly, applicando la medesima attenzione, hanno conservato la qualità di questo materiale in forma scrupolosamente documentaria, registrando i canti su dischi capaci di captare e di conservare definitivamente le caratteristiche più inafferrabili del folclore, ivi comprese le minime variazioni di altezza, d’intensità e di timbro per le quali i mezzi più elementari della nostra notazione musi­ cale sono totalmente inadeguati. Per concludere, aggiungerò che, anche se la musica negra non è di pura origine americana, penso nondimeno che si rivelerà come un ele­ mento efficace per la formazione di una scuola musicale americana. Qualunque cosa accada, possa la vostra musica nazionale americana ar­ ricchirsi di una buona parte del ritmo ricco e piacevole del vostro jazz, così come dell’espressività emotiva dei vostri blues, e del sentimento e spirito caratteristici delle vostre melodie e canti popolari, che sono a pieno diritto eredi del vostro patrimonio musicale, e contribuiscono a loro volta alla sua formazione4.

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Wagner e i musicisti d'oggi Opinioni di Florent Schmitt e di Maurice Ravel Conclusioni 1

Louis Laloy: «Maurice Ravel è certamente disposto a rendere giustizia a Wagner, ma non vorrebbe che in suo nome si volesse fermare il progresso della musica: in effetti è noto che la tattica usuale del partito conservatore, qui come in ogni cosa, è quella di maledire le istituzioni nuove, per abbarbicarvisi poi con disperata energia quando sono invecchiate». Maurice Ravel: «Veramente, su quest’argomento ci sarebbe troppo da dire. In Wa­ gner si veda innanzitutto ciò che egli fu principalmente, un magnifico musicista. E troppo tardi. Dopo Nietzsche2, Catulle Mendès e Joséphin Péladan3, si darebbe l’impressione di enunciare un paradosso. ... Singolare speranza4? Mica tanto! La ritrovo in un vecchio articolo. C’è scritto «Wagner» al posto di «Debussy», «Rossini» al posto di «Wa­ gner». E firmato: Scudo5».

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Le Polonaises, i Nocturnes, gli Impromptus, la Barcarolle Impressioni1

Nulla di più odioso d’una musica che non celi un pensie­ ro latente. Frédéric Chopin

Concetto profondo, ben poco conosciuto. E pur vero che Chopin l’ha proclamato costantemente nella propria opera. E stato capito? A posteriori. Quanti ne sono stati svelati, poi, di «pensieri latenti»! Fino ad allora, la musica si rivolgeva alla sensibilità. È stata collocata nel campo dell’intelligenza. E a chi poteva interessare? La musica ai musicisti. Interpretazione veritiera dell’idea di Chopin. Mica ai professionisti, che diavolo! Musicista: creatore o dilettante; essere sensibile al ritmo, alla melodia, all’armonia, all’atmosfera creata dai suo­ ni. Fremere alla concatenazione di due accordi, come al rapporto tra due colori. La materia: questa è la prima cosa ad avere valore, in tutte le arti. Il resto viene di lì. Architettura! Inanità dei paragoni. Ci sono regole per “far stare in piedi” un edificio. Non ce ne sono per allineare modulazioni. Sì, una sola: l’ispirazione. Lo so: troppo poche regole nella musica attuale. Si parte da uno spunto qualunque, senza necessità. Ci si sbriga a modulare, per sembrare audaci. Qualche accordo ritenuto moderno qui, una scala cosiddetta cinese là. Come fabbricare un cappello, ma con meno arte. Si finisce a casaccio. Ma era il caso di cominciare? Architetti: si delineano ampi progetti. Si stabiliscono in anticipo tutte le modulazioni. Meno audaci di quelle descritte in precedenza. Altret­ tanto inutili. Temi rovesciati. Canoni retrogradi. Modulazioni chiare, oscure. Non vi dice nulla? Neppure a me, del resto. Malgrado tutto questo gran lavoro, avete l’impressione che manchi talvolta la coerenza. Vuol dire che non siete del mestiere. Aver qualcosa da dire, ecco quel che manca in tutto questo: il «pensiero latente» di Chopin.

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Esempi: la danza, prima di lui: grazia, gaiezza, talora un poco di sentimento. Tutto ciò con un certo gusto dell’ostentazione. Anche nei Landler di Schubert, pure musiche deliziose. Sfolgorante l’apporto nelle Polonaises ; prima di lui: marcia festosa, solenne, brillante, tutta esteriore. Vedere Weber2, Moniuszko3, eccetera. Di Chopin una sola (la maggiore, op. 40) nello stile tradizionale. Ma quanto superiore, per ispirazione, ricchezza armonica, a tutte quelle dei contemporanei. Già la Grande Polonaise in re bemolle^ di un’altra por­ tata, con la sua eroica veemenza e la splendida cavalcata centrale. Spesso egli introduce in queste danze un elemento doloroso, straziante, fino ad allora sconosciuto (do diesis minore op. 26 n.l5). Talvolta, questo ele­ mento tragico s’innalza fino al sublime (Polonaise-Fantaisie in la bemolle, op. 61). A tal punto che s’è potuta leggervi un’intera epopea. La sincerità della impressioni, dolore o eroismo, evita l’enfasi... La sagacia dei commentatori s’è esercitata fin sui Nocturnes e gli Im­ promptus. E il tratto caratteristico della vera musica l’evocare, sia pure indirettamente, sentimenti, paesaggi, esistenze. Chopin non s’accontentava di rivoluzionare la tecnica pianistica. I tratti sono ispirati. Attraverso questi passaggi brillanti è possibile cogliere adorabili, profonde armonie. È sempre il «pensiero latente», sovente tradotto in un poema intenso e disperato. La materia è ancora più condensata nei Nocturnes. La sensibilità del­ l’ascoltatore è risvegliata, spesso appagata... Tanto meglio: cosa far ascol­ tare dopo di ciò? Indicazione per un artista di genio: brani da eseguire dopo le opere di Chopin. Frequente rimprovero: Chopin non s’è evolu­ to. Sia pure. Se non evoluzione, troviamo in lui una stupenda pienezza: Polonaise-Fantaisie, Prélude postumo (op. 456), Barcarolle (op. 60). La Barcarolle sintetizza l’arte espressiva e sontuosa di questo grande slavo dall’educazione italiana. Quell’affascinante scuola latina, gioiosa­ mente viva, a pena malinconica e sensuale, ma d’una lamentevole felici­ tà, volentieri abbandona — se non l’anima, come Molina7 — almeno, nei casi peggiori, l’ispirazione, per raggiungere più presto la divinità. Chopin ha realizzato tutto quel che i suoi maestri, per negligenza, non hanno espresso che imperfettamente. Nella Barcarolle, quel tema per terze, delicato e leggero, è costantemente rivestito di affascinanti armonie. La linea melodica è continua. Per un istante una melodia prende il volo, resta sospesa, e ricade mollemente attratta da magici accordi. L’intensità aumenta. Brilla un nuovo tema, di un lirismo magnifico, pienamente italiano. Tutto si placa. Dal grave della tastiera si alza un tratto rapido, fremente, che va a posarsi su preziose e tenere armonie. Il pensiero corre a un’apoteosi misteriosa...

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Cosa mettere sotto alla musica? Versi belli, versi brutti, versi liberi o prosa?1 Pareri raccolti da Fernand Divoire

Il parere di Maurice Ravel: Ritengo che, per comporre qualcosa di veramente sentito e vissuto, il verso libero sia preferibile al verso misurato. Quest’ultimo può permet­ tere cose splendide, a condizione tuttavia che il compositore voglia an­ nullarsi completamente dietro il poeta e consenta a seguire i suoi ritmi passo dopo passo, cadenza dopo cadenza, senza mai mutare un accento né un’inflessione. In una parola, se il musicista vuol lavorare su versi misurati, la sua musica dovrà semplicemente sottolineare la poesia, soste­ nerla, ma non potrà tradurne o aggiungervi nulla. Credo che sia meglio, per poco sentimento e fantasia che si posseggano, utilizzare versi liberi. In effetti mi sembra delittuoso “sciupare” versi classici. Ecco, ci sono nel Faust, ad esempio, versi completamente martirizzati: Ah! je ris de me voir Si belle en ce miroir1

[Ah! io rido al vedermi Sì bella in questo specchio]

Il compositore voleva un valzer. Ha contato il numero di sillabe contenute in questi versi, ne ha trovate dodici. A questo punto, non s’è più preoccupato d’altro, né della rima, né di qualsiasi dettaglio di forma: voleva il suo valzer; il librettista voleva le sue dodici sillabe: il risultato lo conoscete: Ah! je ris De me voir si belle En ce miroir

E sapete come cadono gli accenti forti. Sarebbe stato davvero meglio in quel caso utilizzare versi liberi o prosa. Lo stesso accade quando il

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compositore inframmezza il testo con vocalizzi. L’effetto è grazioso, fre­ sco, dà un che di brioso, di cristallino alla melodia. Ma degli Ah! Ah! Ah! Ah!Ah!... collocati nel bel mezzo di un alessandrino gli danno una lun­ ghezza variabile tra le diciassette e le venticinque sillabe, cosa di scarsa utilità. La prosa è talvolta molto facile da mettere in musica e ci sono circo­ stanze in cui è meravigliosamente appropriata al soggetto. Così, ho uti­ lizzato parecchie tra le Histoires naturelies di Jules Renard; è delicato, ritmato, ma ritmato in tutt’altro modo rispetto ai versi classici. Pelléas et Mélisande non avrebbe potuto esistere altrimenti che in prosa. Niente avrebbe permesso a Debussy di rendere con altrettanta delicatezza la stilizzata ingenuità, la candida grazia infantile di quei per­ sonaggi che paiono usciti da un arazzo o da un messale.

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Pare strano che la critica musicale sia così di rado affidata a coloro che praticano quest’arte. Senza dubbio si ritiene che costoro abbiano di meglio da fare e che, a parte poche brillanti eccezioni che costituiscono esse stesse opere d’arte, una critica, pur se perspicace, sia meno necessaria di una produzione, pur se mediocre. Peraltro si può credere che i profes­ sionisti, mossi da sentimenti spesso onorevoli, non sempre possano giu­ dicare con assoluta indipendenza, e che le loro opinioni siano contami­ nate dalla passione, per non dir di peggio2. Bisogna riconoscere tuttavia che i giudizi dei critici non compositori non sempre sono immuni da questa passione. Spesso anzi un veemente e aggressivo ardore maschera abilmente queU’incompetenza che un parere più moderato lascerebbe sospettare. Gli ultimi quattro Concerts Lamoureux offrivano, questo mese, un programma tra i più vari. A dire il vero, nessuna prima assoluta, se si esclude una scena importante di Eros vanqueur, quest’opera francese d’alto valore musicale che all’estero hanno potuto gustare nella sua inte­ rezza, mentre noi siamo condannati a degustarla a frammenti3. Ma le altre opere erano in gran parte così poco conosciute che era interessante farcele ascoltare di nuovo. Per ironia della sorte, la prima di cui devo dar conto è la mia Pavane pour une infante défunte4. Non provo alcun imbarazzo a parlarne: è abbastanza vecchia perché il distacco che provo la sottragga al giudizio del compositore per consegnarla a quello del critico. Non ne vedo più le qualità, da così lontano. Ma, ahimè! Ne colgo fin troppo bene i difetti: l’evidentissima influenza di Chabrier e la forma assai povera. L’eccellente interpretazione di quest’opera incompleta e senz’audacia ha contribuito parecchio, penso, al suo successo. Una gran parte del pubblico che l’ha applaudita non ha perso occasio­ ne di contestare lo splendido poema di Liszt, Die Ideale5. Senza dubbio

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questa pagina geniale può sembrare un poco lunga, al primo ascolto. Ma lo è davvero più della scena conclusiva del Gotterdàmmerung, il cui successo nello stesso concerto è stato unanime? So bene che questo finale è stato cantato da Lucienne B révai6 in modo tale da far dimenticare le più note cantanti wagneriane; quelle per lo meno che abbiamo finora ascoltato nei nostri concerti. E ciò malgrado lo sconcertante, farsesco francese della traduzione di Ernst7, nel quale la grande artista era costretta ad esprimersi. Riconosco inoltre che, davanti a questa pagina formidabile, i trasporti della folla sono più che legittimi. Ma tutti noi sappiamo bene che questo finale, così come il resto dell’opera, non fu accolto con lo stesso calore quando venne eseguito per la prima volta. E dovette sembrare ancor più lungo che Die Ideale. E poi, che importa dei difetti di quest’opera, dell’intera opera di Liszt? Non ci sono qualità a sufficienza in questo tumultuoso ribollire, in questo vasto e magnifico caos di materia musicale a cui hanno attinto generazioni e generazioni d’illustri compositori? E pur vero che a questi difetti vanno parzialmente attribuite la vee­ menza eccessivamente declamatoria di Wagner, il grossolano entusiasmo di Strauss, la pesantezza di Franck nella ricerca di uno stile elevato, i lati pittoreschi talora chiassosi della scuola russa, la grazia armonica civettuo­ la all’estremo dell’attuale scuola francese. Ma questi autori così diversi tra loro non devono forse il meglio delle loro qualità alla generosità musicale, veramente prodigiosa, di questo grande precursore? In questa forma, spesso goffa, sempre generosa, non si riconosce forse l’embrione dello sviluppo ingegnoso, limpido e scorrevole di Saint-Saèns? E questa orchestra affascinante, dalla sonorità a un tempo potente e leggera, quale determinante influenza non ha esercitato su coloro che si dichiarano i più aperti avversari di Liszt? Non ci si può impedire qualche ironia se si considera che costoro sono per la maggior parte allievi di Franck, il principale debitore di Liszt tra i suoi contemporanei. Quei discepoli non hanno avuto scrupolo di seguire l’esempio del loro maestro, che spesso guasta con un’orchestra­ zione pesante e incolore la bellezza del tema. A questa critica, nessuno dei tre compositori di scuola franchista che figuravano nei programmi degli ultimi concerti saprebbe sottrarsi. Witkowski, nella sua Seconda Sinfonia, usa con abilità una tavolozza brillante. Ma i colori sembrano artificiali8. Ciò deriva dal fatto che in quest’opera pare sia la sola volontà a guidare il compositore. Qualche breve sequenza di note, trattata secondo procedimenti scolastici, aumen­ tazioni, inversioni; ecco la base della melodia. L’armonia è quasi sempre il risultato di accostamenti contrappuntistici. Il ritmo, di alterazioni industriose. Di conseguenza questi tre elementi della musica, la cui conce­ zione dovrebbe essere simultanea e prima di tutto istintiva, sono qui

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elaborati separatamente e uniti da un lavoro, si direbbe, puramente intellettuale. Gli espedienti scolastici, che abbondano nelle tre parti di questa sin­ fonia, lasciano scorgere fin troppo chiaramente che Fautore s’è imposto il compito di sviluppare una certa idea, costi quel che costi, e di condurla verso una certa tonalità. Quanto è lontana questa sgradevole logica della ragione da quella della sensibilità! Eppure, dietro a questa tetra masche­ ra, s’intravede a ogni istante un musicista profondo, vibrante, che non senza ribellione ha dovuto accettare la disciplina e le macerazioni impo­ stegli in nome di non so quali assurdi dogmi. Tutt’altra cosa è il Poème de Pamour et de la mer, di Ernest Chausson9: fin dall’esposizione dei primi temi, melodia e armonia formano un corpo unico. Ne emana un fascino dolcissimo. Fortunatamente se ne conserva il ricordo nel corso dell’inutile e maldestro guazzabuglio degli sviluppi, che illanguidiscono quest’opera così musicale. Un’orchestrazione talora un poco pesante, ma sempre seducente, interpreta con felicissima intel­ ligenza i paesaggi evocati dal poeta. Anche Pierre de Bréville mosta un talento orchestrale superiore a quello del suo maestro. L’eleganza dell’armonia, la distinzione del colore melodico sono rivelate da sonorità cangianti, da un pittoresco senza forzature10. Forse l’ispirazione non è sempre immune da mollezza. A tratti, mi piacerebbe attendermi uno di quegli accenti drammatici, un poco volgari, che fanno fremere gli ascoltatori più delicati. Ma è il caso di rimproverare all’artista un eccesso di pudore e il disprezzo di questi facili trucchi, per mezzo dei quali certi suoi colleghi si conquistano una facile notorietà? Cado nell’errore che pretendevo di rimproverare ai miei contempora­ nei. A quale scopo cercare le imperfezioni di un’opera che mi ha profon­ damente affascinato? Ma perché devo sempre fare la parte di quello del mestiere ?

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Quella lunga pazienza, o volontà, nella quale tanto a sproposito Buf­ fon2 credette di scoprire l’essenza stessa del genio, non ne costituisce in realtà che un utile coadiuvante. Il principio del genio, e cioè dell’inven­ zione artistica, non può fondarsi che sull’istinto, o sensibilità. Ciò che forse nelle intenzioni del naturalista era una semplice battuta di spirito, ha generato un errore più funesto, relativamente moderno. L’errore che vuole l’istinto artistico diretto dalla volontà. Quest’ultima deve limitarsi a essere la solerte ancella del primo. An­ cella robusta, lucida, che deve intelligentemente obbedire agli ordini del proprio sovrano, piegarsi ai suoi minimi capricci; aiutarlo a perseverare sulla sua strada, mai tentare di distoglierlo da essa; aiutarlo ad abbigliarsi con magnificenza, ma non scegliere mai tra i propri abiti logori alcun vestito, fosse pure sontuoso. Pure, talvolta, il maestro è tanto debole che il servo è obbligato a sostenerlo, a guidarlo persino. I prodotti di questa zoppicante alleanza sono assai miseri, almeno in campo musicale. Certi ascoltatori, per parte loro assai poco sensibili, non mancano di mostrar­ sene soddisfatti. In queste opere uggiose si è portati ad apprezzare in particolar modo quel che viene chiamato «mestiere». Ora, in arte, il mestiere nel senso rigoroso della parola non può esistere. Nelle proporzioni armoniose di un’opera, nell’eleganza con cui si procede alla sua conduzione, il ruolo dell’ispirazione è quasi senza confini. La volontà di sviluppo non può essere che sterile. E quel che si manifesta con estrema chiarezza nella maggior parte delle opere di Brahms. Lo si è potuto constatare nella Sinfonia in re maggiore, che l’Associazione dei Concerts Lamoureux ci ha proposto ultimamente. I temi hanno una musicalità intima e dolce; benché il loro contorno melodico e il ritmo siano assai personali, s’imparentano diret­ tamente a quelli di Schubert e di Schumann. Subito dopo l’esposizione

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il loro cammino diviene faticoso e pesante. Sembra che il compositore sia stato assillato dal desiderio di eguagliare Beethoven. Ora, il carattere fascinoso dell’ispirazione era incompatibile con quel­ lo degli sviluppi vasti, focosi, disordinati quasi, che sono la diretta con­ seguenza dei temi beethoveniani o che, piuttosto, sgorgano dall’ispirazione stessa. Quel mestiere, di cui il suo progenitore Schubert fu natural­ mente privo, Brahms l’ha acquisito con lo studio. Non l’ha scoperto dentro di sé. E necessario attribuire a cause analoghe la disillusione che ci coglie a ogni nuovo ascolto della sinfonia di César Franck? Senza dubbio sì, benché queste due sinfonie, tanto per il valore dei loro temi che per la capacità di svilupparli, siano molto diverse tra loro3. Comunque, i loro difetti hanno la stessa origine: la medesima sproporzione tra le idee e lo sviluppo. In Brahms, un’ispirazione chiara e semplice, talora briosa, ta­ lora malinconica; sviluppi sapienti, magniloquenti, ingarbugliati e grevi. In Franck, una melodia dal carattere nobile e sereno, armonie ardite di singolare ricchezza; ma una desolante povertà di forma. La costruzione del maestro tedesco è abile, ma c’è in essa un eccessivo sentore di artifi­ ciosità. Nel maestro di Liegi c’è tutt’al più un tentativo di costruzione: le ripetizioni testuali riguardano singoli gruppi di battute come pagine intere; egli abusa maldestramente di annose formule scolastiche. In un punto si manifesta la superiorità di Brahms: la sua tecnica orchestrale, che è tra le più brillanti. In Franck, al contrario, gli errori di strumenta­ zione si accumulano. Qui i contrabbassi si trascinano goffamente, appe­ santendo un quartetto già incolore. Là trombe strepitanti vanno al rad­ doppio dei violini. Nell’istante in cui l’ispirazione è più nobile, si è sconcertati da sonorità da baraccone. Non c’è da stupirsi che, in Germania come in Francia, questi due musicisti siano stati utilizzati per combattere l’influenza di Wagner; le loro imperfezioni provocano spesso un’impressione di freddezza e di noia. Proprio questa caratteristica della loro natura li rendeva adatti a far coagulare intorno a sé un fatale movimento di reazione. La formidabile spontaneità di colui nel quale trovava sintesi tutta la sensibilità del XIX secolo doveva turbare persino coloro che, per primi, ne avevano subito il potente fascino. Ancor oggi, al risonare del Venusberg, una delle opere più rappresentative dell’arte wagneriana, si comprende come dopo quest’esplosione di gioia e d’appassionata sofferenza, dopo questo erompere urlante di gioia pagana, si dovesse sentire la necessità di un pacifico, persino austero tempo di riposo. Nel nostro paese, questa pausa di meditazione ha prodotto differenti risultati: dapprima dal chiostro franchista è uscita una solenne processio­ ne di artisti animati dal fervore della volontà, la cui fede non ha cessato di rinsaldarsi. Poi una truppa meno ordinata di giovani dall’animo inte­

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ramente rinnovato, che lasciavano liberamente cantare il proprio istinto e la cui sensibilità era impegnata a percepire, con profondità e con enfasi minore dei loro predecessori, fin le più piccole manifestazioni esteriori. Di Vincent d’Indy, il capo del primo gruppo, Chevillard4 ci ha recen­ temente fatto riascoltare Saugefleurie. In questo poema sinfonico già si manifesta il principio che ha poi guidato la condotta artistica del com­ positore. L’orchestrazione è ricca e colorita, la forma chiara. Ma in esso si rivela il disprezzo dell’armonia naturale, del ritmo spontaneo, della libera melodia, in una parola di tutto ciò che non appartiene al dominio della pura volontà. Questo principio, spinto a estreme conseguenze, doveva dare come risultato finale quell’astrazione musicale rappresentata dalla sonata per pianoforte dello stesso autore. Al secondo gruppo va giustamente collegata la scuola russa, che ha in buona parte contribuito al fiorire della sensibilità musicale della nostra generazione. Due tra le opere più caratteristiche di questa scuola figura­ vano negli ultimi programmi: {’Esquisse sur les steppes de l’Asie centrale di Borodin, opera ingenua, dalla musicalità, impressionismo tanto pro­ fondo; e Islamey di Balakirev5, orchestrata da Alfredo Casella. Poiché la primitiva concezione di quest’opera, oserei dire di questo capo­ lavoro, è puramente pianistica, il fatto di averla trasposta per orchestra è parso strano a qualcuno. C’è chi ha persino gridato al sacrilegio: sono gli stessi che accettano senza fiatare la trascrizione per pianoforte, la parafrasi persino, di un’opera orchestrale. Per conto mio, confesso d’aver provato un gran piacere ad ascoltare quel brano nella sua nuova forma. Era pressoché impossibile, e senz’altro inutile, rendere con l’orchestra effetti pianistici. Pur rispettando scrupolosamente la materia musicale dell’opera, Casella ha scelto con decisio­ ne d’interpretare e non di trascrivere. Una strumentazione complessa, molto fitta e nondimeno leggera, ha trasformato una brillante fantasia per pianofor­ te in un brano sinfonico non meno straordinario. Nello stesso concerto, veniva eseguito il balletto del Miracle, il dramma lirico di Georges Hiie, che avevo già ascoltato all’Opéra6. Sono stato lieto di ritrovare, viva come al primo ascolto, l’impressione di schiettezza che mi avevano dato queste danze dal piglio gaiamente popolare, dal ritmo vario e ingegnoso. Ho di nuovo gustato con trasporto una delle più graziose sonorità orchestrali che siano state immaginate. Credo che questa sonorità si trovi nella II variazione della danza dell’orso 7. Il 25 febbraio da Colonne s’è potuto ascoltare PsaumeXLVII di Florent Schmitt, opera considerevole, di grandissimo valore, in prima esecuzione assoluta8. Quel giorno il pubblico più raffinato, più curioso e più artistico del mondo non ha mancato di precipitarsi ai Concerts Lamoureux per acclamarvi Emil Sauer9. Questo pianista, che spesso abbiamo avuto occasione di applaudire, e che è un eccellente virtuoso, eseguì perfettamente il Concerto in mi bemolle di Liszt, opera tanto bella quanto ben conosciuta.

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Non è consuetudine concedere ai creatori lo stesso favore che si con­ cede agli interpreti. Per questo motivo l’accoglienza fatta ai brani del Children’s Corner di Claude Debussy, orchestrati con delicatezza piena di spirito da André Caplet, è stata meno entusiastica. È evidente che queste paginette rappresentano semplicemente il divertimento di un gran­ de artista. Ma c’è più musica in una sola loro battuta che in tutta quell’interminabile suite delle Impressions d’Italie, riconoscente envoi da Roma che già ha fruttato al suo avveduto autore l’affettuosa stima dei più venerabili membri dell’istituto10.

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I “Tableaux symphoniques”di Fanelli1

«Un genio misconosciuto». «Un Wagner francese». «Sublime e in­ comparabile». «Tutti ai Concerts Colonne, domenica prossima». A dir la verità, la stampa quotidiana abusa della propria onnipotenza! Che si occupi di lanciare un farmaco sensazionale, passi. Che si applichi a provocare conflitti internazionali in campo economico o a risollevare un’industria vacillante servendosi di sottoscrizioni gabellate per patriot­ tiche, è suo diritto, se non suo dovere. Le lasciamo la politica, le inizia­ tive commerciali, persino il teatro. Ma che almeno essa lasci a noi l’arte! Per più di una settimana, i quotidiani non hanno fatto altro che intrattenerci su questo compositore2, finora troppo ignorato. Abbiamo appreso ogni giorno che si guadagnava faticosamente da vivere facendo il copista; che non aveva di che mangiare a sufficienza; che sua figlia lavorava per ottenere un diploma d’istitutrice. Ci sono state rivelate le laceranti emozioni che la sua partitura ha suscitato nel signor Gabriel Pierné, nei membri dell’orchestra Colonne, nella signora Judith Gau­ tier3, nel signor Benedictus4. Questo metodo da ottava pagina e da romanzo d’appendice ci sono valsi una manifestazione tra le più ridicole e incresciose: per un quarto d’ora, una folla da carnevale ha urlato, sul motivo dei lampioni5, il nome dell’autore, fino a che quest’ultimo è stato penosamente trascinato sulla scena. Quest’ovazione consolatrice non ha operato alcuna riparazione. Fanelli merita più di questo. Una simile pubblicità all’americana doveva sicuramente far presa sugli appassionati di Nick Carter 6. Per contro faceva nascere la diffidenza dei critici e quella dei musicisti, che alla prudenza sono costretti dalla professione. Tra costoro, alcuni hanno avuto la forza di non abbandonare le loro preven­ zioni. Eppure è singolare il caso di quest’artista, che nel 1883 era compietamente isolato, impegnato in ricerche che sono state definite impressioniste in un momento in cui nessuno, in Francia, si preoccupava && impressionismo.

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Certo, è un impressionismo molto diverso da quello dei musicisti d’oggi. Probabilmente Fanelli all’epoca ignorava certe opere di Liszt, e senza dubbio non conosceva quelle di Rimskij-Korsakov, di Balakirev, di Musorgskij e di Borodin, che hanno ispirato la giovane scuola francese. L’impressionismo di Fanelli procede più direttamente da quello di Berlioz: la percezione dei suoni della natura è appena stilizzata. L’interesse melodico e armonico non è sod­ disfatto più di quanto non lo sia in certi passaggi di Romèo et Juliette o del Camaval romain7. Così com’è, e soprattutto in rapporto all’epoca in cui è stata scritta, l’opera è del massimo interesse. L’atmosfera soffocante dell’inizio della prima parte, il pigolio stridente dei gipeti, la remota melopea dello schiavo, malgrado il suo carattere orientale un po’ di maniera, nella seconda parte, le navate stupendamente formicolanti e variopinte; nel terzo l’incessante rotolio dei carri rumoreggiami sotto gli squilli delle fanfare; tutto ciò espresso — almeno questa è l’impressione al primo ascolto — con i soli mezzi di un’orchestrazio­ ne tra le più pittoresche, avrebbe fortemente sorpreso gli ascoltatori, se i concerti domenicali avessero visto l’esecuzione di questo poema sinfonico a tempo debito. Senza dubbio, l’accoglienza non sarebbe stata così unani­ me; gli esecutori, ben lungi dal piangere, avrebbero almeno sorriso. Questo stesso pubblico non avrebbe manifestato più calore che per lo scintillante Feu d'artifice di Igor Stravinsky. Fors’anche avrebbe semplicemente zit­ tito, come alla prima esecuzione AAYAprès-midi dunfaune , * di cui oggi chiede il bis. E soprattutto le ricerche del giovane compositore non sarebbero ser­ vite a sminuire l’importanza di quelle dei suoi compagni. E singolare che queste ricerche, da qualcuno sinora reputate trascurabili, assumano di colpo un interesse straordinario perché se ne scopre l’embrione in un’opera scritta trent’anni fa. Questo bel coraggio, che consiste nello schiacciare l’audacia dei contemporanei che sconcertano sotto l’audacia di qualche loro predecessore, ha fatto scoprire in quest’opera l’origine dell’impres­ sionismo di Claude Debussy. Un critico, trascinato dal proprio zelo, ha addirittura creduto bene di asserire, senza esitazioni, che in questo poema «la concezione e la scrit­ tura armonica sono palesemente debussyste, o piuttosto pre-debussyste», senza dubbio perché « Fanelli abusa di successioni di terze maggiori, fatto che, nel 1883, costituiva una trovata ingegnosa, e una novità». Con ciò l’onorevole critico intende riferirsi agli accordi costruiti sulla scala a toni interi. Ora, egli sembra ignorare che, verso la metà del secolo scorso, questo procedimento era già stato utilizzato, prima di tutto da Liszt9, poi da Dargomyzskij, il quale fece ben più che abusarne: un intero atto del Convitato di pietra è composto su questa scala10. E consuetudine che Debussy subisca ogni anno un attacco di questo genere. Già sapevamo che la scoperta del suo sistema armonico era inte­

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ramente dovuta a Erik Satie, quella del suo teatro a Musorgskij e la sua orchestrazione a Rimskij-Korsakov. Ora sappiamo da dove proviene il suo impressionismo. Non gli resta ormai più nulla se non il fatto di essere, malgrado questa povertà d’immaginazione, il più considerevole, il più profondamente musicale tra i compositori contemporanei. Quanto a Fanelli, non vedo molti musicisti francesi della sua genera­ zione che, sia per l’audacia della strumentazione sia per la potenza del­ l’ispirazione potessero, nel 1883, reggere il suo confronto11.

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“La torcière” airOpéra-Comique 1

I sotterranei dell’inquisizione. Appeso al muro, un Cristo impressio­ nante, infagottato alla spagnola in un perizoma di velluto nero. Cavallet­ ti, ceppi. Il carnefice e gli aiutanti rivestiti di grembiali di cuoio che, per inesplicabile pudore, ci vengono presentati mondi da sozzure sanguino­ se. Una folle strega riempie la scena di isteriche risate, di grida spavente­ voli. Il cardinale Jimenez2 non ha paura di metter le mani in pasta e torcere lui stesso i polsi agli accusati per sollecitarne le confessioni. L’alta portata filosofica dell’opera ci viene allora svelata: Zoraya, la nutrice moresca, si profonde in una tirata volterriana sull’incompatibilità tra Vangelo e tortura. Il programma di sala ha avuto cura di erudirci sul fatto che «i personali convincimenti di Victorien Sardou3, frutto di mi­ nuziosa applicazione, di riflessioni e di ricerche scientifiche» l’hanno condotto alla scoperta che ci sono solo due tipi di streghe: quelle nevro­ tiche e quelle idiote. Conclusione la cui audacia doveva risultare sorpren­ dente agli inizi del XX secolo. Malgrado tutti gli elementi avvincenti prodigati in questa quarta sce­ na, al calare del sipario il pubblico sembra in gran parte deluso: gli strumenti di tortura sono rimasti inutilizzati. Qualche anno fa, il teatro della Gaìté-Lyrique dava una grandiosa rappresentazione il cui difetto minore era l’assenza di lirismo. Périer4 sputava la lingua in un fiotto di sangue. Il compositore Noguès, forse a proposito, aveva particolarmente trascurato la musica in quella delicata scena5. Ma Erlanger6 è musicista, e in nessun istante può giungere a dissimu­ larlo. Detto questo, a meno che avesse deciso fin dal principio di sacri­ ficare le proprie doti naturali ai facili effetti dell’orrore verista, non si riesce a capire per quale motivo l’autore di Saint-Julien Lhospitalier abbia scelto di trasformare in opera lirica un drammone che, a rigor di logica, poteva servire di pretesto per le formule obsolete dell’opera vecchio stile.

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Senza dubbio, i primi tre atti offrivano al compositore qualche situa­ zione senza imprevisti, ma non senza attrattive: nel primo quadro, l’ap­ parizione di Zoraya al chiaro di luna e la scena che segue; il preludio e l’inizio del secondo quadro, dal seducente colore musicale, in cui la voce viene a fondersi armoniosamente con il suono delle campane; l’atmosfe­ ra spagnola e orientale da cui, secondo me, Erlanger avrebbe potuto tirar fuori qualcosa di peggio. Questi elementi poetici e pittoreschi sono trat­ tati per lo più felicemente. Ma si ha la sensazione che il pubblico, impaziente, accetti questi tre atti di musica come una preparazione troppo lenta alle torture promesse. Allettate dalle scene dell’inquisizione riprodotte sul programma, le fan­ ciulle che hanno preso l’abitudine di farsi condurre all’Opéra-Comique sperano in un assaggio del Grand-Guignol, dove potranno recarsi senza timori una volta maritate. A partire da quella quarta scena tanto attesa e fino alla conclusione del dramma, in cui ci sono riservate le emozioni del rogo, l’attenzione è sollecitata unicamente da uno spettacolo con il quale la musica non può aver nulla da spartire. In generale, questa musica è parsa meno forzata che nelle altre opere di Erlanger. I ritmi sono più disinvolti, la condotta delle idee più chiara. La scrittura vocale è tra le più scabrose. A dire il vero, non si tratta di un difetto esclusivo di quest’opera, e neppure delle altre opere dell’autore. Lo s’incontra in quasi tutta la musica vocale del nostro tempo. Il temi­ bile esempio di Wagner è responsabile di questa sorta di disprezzo per il più espressivo degli strumenti, che infetta la maggior parte dei compo­ sitori moderni. Disprezzo che Erlanger spinge all’estremo. Soltanto il potente, squil­ lante organo vocale della signorina Chenal può dominare un’orchestra spesso pittoresca, ma troppo uniformemente appesantita e refrattaria a ogni mezza tinta. Senza requie, senza sforzo apparente, questa voce stra­ biliante esegue i salti più rischiosi imposti dal compositore. Questa movimentata declamazione, soltanto gli accenti vigorosi della lingua tedesca, e in particolare del linguaggio di Wagner, possono giusti­ ficarla. Applicata al francese, diventa paradossale. La comprensibilità del testo, pur necessaria in teatro, non può non soffrirne. Lo stesso Périer, con la sua eccezionale chiarezza di dizione, non sempre arriva a farci cogliere il senso d’un’intera frase. Quanto al signor Beyle, di cui cono­ sciamo la voce calda e musicale, alla signorina Vallin, che crea emozione con mezzi d’una gran semplicità, e agli altri artisti, che ricoprono perfet­ tamente ruoli di secondo piano, ci si può dire soddisfatti se, talvolta e per caso, si riesce a discernere qualche parola pronunciata correttamente. Per quel che riguarda il ruolo di Afrida, la strega isterica, non è indispensabile coglierne le finezze di espressione. La signorina Espinasse, che interpretava il personaggio alla prova generale, ha riso, urlato, si è

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dimenata con tanto accanimento da meritarsi a buon titolo le ovazioni di un pubblico inorridito e incantato. L’ammirevole orchestra dell’Opéra-Comique, diretta con intelligente autorità dal maestro Ruhlmann7, ha brillantemente svolto il suo compi­ to, che in questa partitura è tra i più importanti. Eccomi davvero in imbarazzo: forse che non devo parlare della sceno­ grafia e della messa in scena? Ora, si dà il caso che questi due importanti elementi dell’arte teatrale vadano contro tutte le mie aspirazioni esteti­ che. Senza dubbio, in queste scene l’ingegnosità e il pittoresco sono sparsi a piene mani. Allo stesso modo nel primo quadro vengono minu­ ziosamente rappresentati tutti gli elementi della natura e i prodotti del­ l’operosità umana: alberi, colline, rocce, fiumi, ponti, città illuminate, e che altro? Ma in questo microcosmo, che sul palcoscenico dell’OpcraComique si trova troppo allo stretto, e lo sarebbe ancora in una cornice più ampia, si cerca invano la qualità più essenziale dell’arte scenografica: lo stile. Questo stile, i grandi scenografi del secolo scorso lo possedevano e, inoltre, lo modificavano a seconda delle opere che si chiedeva loro di ambientare (il II atto degli Huguenots, la cattedrale del Faust3, eccetera). Sviliti, resi macchinosi, i procedimenti oggi desueti di questi maestri sono ancora utilizzati dai loro discendenti degeneri, che li applicano indifferentemente a ogni opera, antica o moderna, qualunque sia la nazionalità e la scuola di appartenenza degli autori. Questo sistema decorativo, bisogna riconoscerlo, non manca di solle­ ticare i gusti di parecchi ammiratori che in altre circostanze paiono avere inclinazioni artistiche più elevate. Tra gli spettatori che si sono lasciati sfuggire un sospiro d’ammirazione quando il sipario s’è alzato su di un giardino moresco con i colori di un’efemeride, quanti sarebbero stati contenti di vedere una tela del genere appesa nel loro salotto?

Théàtre des Arts: III atto dell’ “Idomeneo” e "La Source lointaine” Non potevo impedirmi di paragonare mentalmente queste fiacche scenografie a quelle ben riuscite di Piot9, realizzate da Mouveau per le rappresentazioni del terzo atto Idomeneo di Mozart, al Théàtre des Arts. La costruzione ampia e semplice di questo paesaggio aumenta singolarmente le proporzioni del minuscolo palcoscenico. La tonalità c ardita e seducente, senza inutili accozzaglie di colori. È una delle sceno­ grafìe migliori che ci siano state presentate al Théàtre des Arts, e la mi­ gliore vista da tempo sulle scene parigine. Dobbiamo d’altronde ringraziare Rouché di aver allestito questo splen­ dido brano d’una nobiltà senza eguali nell’arte musicale, nel quale la

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tragicità è ottenuta con i soli mezzi dell’espressione musicale. Nessuno di quei “trucchi” introdotti da Gluck nel teatro lirico, e di cui i successori ci hanno mostrato troppo spesso la futilità10. Malgrado la voce fresca e l’arte delicata di Lucy Vautrin, la potenza e la nobiltà di Ghasne c le reali qualità degli altri interpreti, la perfezione non è stata ottenuta. Da molto tempo ormai, qui come altrove, non potrà esserlo. Finché queste smorfie, questi gesti realistici, così lontani dalla bellezza tragica, daranno impaccio alla pura emissione vocale; fin­ tantoché questi piccoli movimenti superflui in ogni angolo della scena spezzeranno la linea dell’azione, l’arte lirica, oggi avvilita al rango di un divertimento pretenzioso, non potrà ritrovare la sua sublime strada. Poeti, musicisti e pittori, tutti devono contribuire a restituirci la gran­ dezza e la pienezza dell’emozione scenica. Ma per questo dobbiamo ottenere un aiuto dai direttori dei teatri. In Francia, quest’aiuto ci è stato offerto finora soltanto da Rouché. Contemporaneamente d\' Idomeneo, il Theatre des Arts mette in sce­ na un balletto ispirato a de Goloubcff da una leggenda persiana, La Source lointaine. La musica è di Armande de Polignac11. la forma di questa composizione è talvolta un poco vaga. In compenso, vi s’incon­ trano spesso ricerche e soprattutto invenzioni armoniche la cui audacia non esclude la gradevolezza. Sarebbe assurdo rimproverare alla signora de Polignac questa bella inquietudine che è la forma più nobile di talento che a un artista sincero sia dato possedere. L’orchestra, seppure ben diretta da Gabriel Grovlez12, artista delicato, non sempre appare equilibrata. L’errore va addebitato alle dimensioni ridotte della sala e al compositore, che s’è lasciato cogliere alla sprovvista da queste insolite proporzioni. L’interprete principale è la signorina Napierkowska, di cui nessuno ignora l’agile grazia e un’eleganza di movimento delle braccia che non si osserva frequentemente, neppure presso i migliori danzatori. Le scene e i costumi di Doucet13 rivelano una sensibilità rarissima per il colore. Non sono altro, se vogliamo, che ingrandimenti di miniature persiane; ma l’interpretazione non fa difetto. Questa qualità è indispen­ sabile, tanto alla scenografia teatrale che a ogni opera d’arte.

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“Fervaal” 1

Quando Fervaaliw rappresentato al Theatre de la Monnaie nel 1897, a quest’opera si rivolse generalmente il rimprovero d’essere «wagneria­ na». Gli ammiratori di d’Indy non si fecero turbare oltremisura da que­ st’accusa. E vero che a quell’epoca nessuna opera poteva essere presentata senza che l’autore fosse accusato di essere wagneriano. Dopo avere per lungo tempo misconosciuto il genio di Wagner, l’astiosa impotenza della critica, nel constatare l’inutilità dei propri sforzi, utilizzò quel nome glorioso per tentare di schiacciare ogni nuova produzione. Bastava un esame superficiale per rivelare tutto ciò che un’opera sor­ prendente e sconosciuta poteva contenere di conosciuto. Bastava che una sola battuta offrisse l’esempio di una certa formula e tutti, dilettanti e musicografi, si ergevano, animati da cavalleresco ardore, a denunciare il plagio e a prendere le difese di un artista pur protetto a sufficienza dal proprio genio. Bizet, Lalo, Massenet, diretti seguaci di Gounod; Chabrier, il più profondamente personale, il più francese dei nostri compo­ sitori, nessuno sfuggì a questi attacchi assurdi. La comparsa di Claude Debussy ha rinnovato queste sterili lotte. Senza dubbio, qualche innovatore uscitone indenne non tarderà ad esse­ re utilizzato come pretesto per nuove dispute. E vero nondimeno che in ogni tempo artisti di valore sono stati influenzati da talune forti personalità al punto di rinunciare involonta­ riamente alla loro propria personalità. Noi abbiamo e avremo ancora opere “debussyste”. Gli anni di distacco ci permettono di constatare che esistono opere in tutto e per tutto wagneriane. Tra queste, Fervaal è la più considerevole. Wagneriana, questa “azione musicale” lo è per l’essenza stessa della musica, per il meccanismo teatrale, per la filosofia, l’attuazione di questa filosofia, il ruolo simbolico dei personaggi, il loro linguaggio nebuloso. Fin lo stile prosodico dei dialoghi ricorda, talvolta in modo sgradevole,

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quello che si sono creduti in obbligo di adottare i traduttori francesi di Wagner. In effetti l’accento tonico, piuttosto debole nella nostra lingua, è sottolineato qui con un vigore tanto più fastidioso quanto più cade frequentemente sulla sillaba sbagliata. Senza ragione, le frasi sono inter­ rotte da silenzi, assai brevi ma sufficienti ad evocare la bolsa declamazio­ ne degli eroi di Tristan, della Tetralogia e di Parsifal negli adattamenti di Wilder o di Ernst2. E un difetto puramente esteriore: non per questo colpisce meno Forecchio di chi ascolta. La filosofia sottesa a quest’opera ci presenta un’analogia ancora più profonda. S’è cercato di dimostrare che, lungi dal procedere dalla filoso­ fìa di Wagner, essa tendeva al contrario a demolirla. Pure, la storia ha provato che l’ideale monastico del Parsifal non è troppo lontano dal principio cristiano dell’amore, sviluppato nel Fervaal. D’altra parte, dal momento che il sistema filosofico di Wagner non è più originale di quello di d’Indy, non sarebbe un gran male se la somi­ glianza fosse più completa. Ciò che si deve rimpiangere è il fatto che, per presentare questa filosofia, i personaggi del dramma francese usino gli stessi mezzi di quelli dell’opera essenzialmente tedesca di Wagner. Gli uni come gli altri manifestano la propria esistenza più spesso con le parole che con le azioni. Medesime le situazioni, il cui simbolismo è affermato con un’insistenza tutta tedesca. Medesimi i caratteri, medesi­ mo il dialogo tenebroso e puerile. Ad ogni istante s’impongono alla memoria Mime e Sigfried, Parsifal e Kundry, Wotan e Erda. Ben superiore al libretto, la musica di Fervaal subisce in misura non minore l’influenza di Wagner. Innanzitutto viene liberamente adottato il principio della forma wagneriana. Senza dubbio, in accordo con l’os­ servazione di Ernest Chausson, «Wagner non ha soltanto trovato la forma che meglio s’adattava al carattere del suo genio; è stato un precur­ sore, ha indicato un nuovo orientamento al teatro. La rivoluzione da lui realizzata nell’arte drammatica è di carattere troppo generale per rimane­ re isolata, senza portata e senza conseguenze per l’avvenire». Ma era necessario applicare questi principi con tanto rigore? Non soltanto i Leitmotiv vengono sviluppati, modificati esattamente seguen­ do il metodo wagneriano, ma il carattere stesso di questi Leitmotiv, la loro tessitura melodica e ritmica, il colore generale dell’armonia, benché con minore ricchezza, derivano visibilmente da questo sistema o piutto­ sto da quest’ispirazione. Non ci si deve attendere che le produzioni di un artista siano di creazione interamente personale, che non presentino qualche analogia con quelle dei suoi predecessori. Queste analogie sono persino inevitabi­ li, un’opera che ne faccia a meno costituirebbe una eccezione mostruosa. Ma si prova un certo imbarazzo nel vederne in così gran copia, prove­ nienti tutte dalla stessa origine e riunite nel medesimo lavoro.

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È l’opera stessa di Wagner, del resto, a offrirci l’esempio più completo di un’amplissima capacità di assimilazione. Raccogliendo i materiali più diversi, il gigante s’era costruito un palazzo splendido ed originale, dalle proporzioni commisurate alla propria corporatura. D’Indy ha preso al­ loggio in quest’edificio grandioso, ne ha sbarrato con cura le porte e le finestre. Il sole ardente a cui l’architetto aveva permesso di entrare viene sostituito da lampade eccezionalmente luminose, ma dal ridottissimo calore. Sotto questa luce fittizia gli oggetti scoloriscono, prendono un’ap­ parenza di morte. Più simbolicamente significativo di quanto l’autore di Fervaal non avesse voluto, è quell’eroe che afferma la vittoria della vita e dell’amore portando verso le cime delle montagne il cadavere di una donna. Ciononostante, sebbene questo dramma non abbia e non possa avere il lampo di genialità dei suoi modelli, pure ha il diritto di prender posto tra le produzioni più dignitosamente onorevoli del teatro musicale fran­ cese. Se non presenta le audacie di certe opere contemporanee o anterio­ ri, come Gwendoline di Chabrier, o Le rève di Bruneau3, è almeno immu­ ne dalle goffaggini che accompagnano in arte ogni sperimentazione ar­ tistica; la scrittura è curata, d’una musicalità nobilmente sostenuta. In un’epoca in cui persino i teatri sovvenzionati sono invasi da dilettanti senza talento, da professionisti senza scrupoli, dobbiamo ammirare pro­ fondamente un tale esempio di probità. Sotto la direzione di André Messager4, l’orchestra ha eseguito perfet­ tamente questa partitura ricca e sonora, complessa ma sempre chiara, la cui strumentazione non deve nulla a Wagner, e gli è persino superiore quanto a leggerezza. I difetti di Delmas e Muratore sono quelli presenti in quasi tutti gli artisti lirici del nostro tempo. Limitiamoci dunque a vederne le qualità: la voce potente, la dizione limpida del primo, il timbro caldo del secon­ do, hanno vittoriosamente lottato contro l’acustica della sala. Dopo un annuncio la signorina Bréval, fortemente indisposta, ha tuttavia voluto testimoniare la propria ammirazione per l’autore non esitando ad affrontare l’ingrato e feroce pubblico delle prove generali. Malgrado fosse visibilmente sofferente, la grande artista ha saputo supe­ rare con onore questa prova, temibile per chiunque altro. La parte corale, trattata brillantemente, è di primaria importanza in quest’opera. Eccellente l’esecuzione, che non è senza difficoltà. Ma l’ar­ dore scenico dei coristi non sempre corrisponde all’animazione della musica. Negli scenari si nota un visibile sforzo. Certo, la perfezione è ben lungi dall’essere raggiunta; ma si può constatare che è stata intrapresa la strada di uno stile più ampio. I “trucchi” che accompagnano, nel corso del secondo atto, le incarnazioni di Alfgard sono per quanto possibile

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riusciti. Essi non servono che a sottolineare ancor più la misera efficacia della resa teatrale. Nel mio prossimo articolo parlerò del nuovo spettacolo musicale del Théàtre des Arts, che ha appena riscosso un trionfale successo alla prova generale.

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Al Théàtre des Arts1

La seconda serie delle rappresentazioni musicali del Théàtre des Arts è pienamente riuscita. Alla prova generale il successo è stato così grande che il pubblico manifestava il desiderio di riascoltare l’ultima opera. Lo spettacolo si compone di tre opere: un’operetta moderna, un dramma lirico antico, un balletto moderno. La realizzazione scenica di questi lavori, di epoche e caratteri tanto diversi, è ottenuta con procedimenti che sono altrettanto differenti tra loro quanto le opere stesse, e che vi si adattano perfettamente. Pertanto, da quest’insieme scaturisce un’unità: quella del gusto. In molti teatri più importanti saremmo lieti di riscon­ trare questa sola qualità. L’education manquée, di Emmanuel Chabrier, è solamente un’operet­ ta: ha il gran merito di non mirare a più alti risultati. Nondimeno, c’è più vera musica in quest’operina che in molte grandi opere liriche. Nella più piccola strofa, nella più breve romanza, si riconosce l’autore così personale di Gwendoline, del Roi malgré lui, della Sulamite. E la stessa materia musicale, meno condensata ma altrettanto gustosa. Quante ope­ re leggere, anche tra le più recenti, non parrebbero obsolete a confronto di questa, pur vecchia di trentaquattr’anni? Sfortunatamente il libretto non ha conservato la stessa freschezza2 e la povertà del testo contrasta penosamente con l’originalità, il carattere e la delicata orchestrazione di questa incantevole partitura. L’esecuzione vocale, talvolta rischiosa, è resa come meglio non sarebbe possibile grazie al vigore di Rachel Raunay, al fascino di Marcelle Coulomb e all’efficace comicità di Bourgeois. Certe parti trarrebbero vantaggio dall’es­ sere condotte a termine più speditamente, per esempio il duetto tra Pausanias e Gontran, nel quale il precettore enumera impietoso la varietà di conoscenze inculcate nell’allievo, mentre costui ne lamenta l’insufficienza. Lo scenario e i costumi di Farge si adattano a quest’azione sempliciot­ ta con sobrietà e gusto lodevoli, senza stuzzicare l’attenzione con dettagli

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da rigattiere. Il rumorista incaricato di produrre il tuono adempie a questa bisogna con un’esuberanza che Chabrier, senz’altro, si sarebbe augurata più discreta. Il prologo di Thésée, tutti lo sanno, è un fastoso brano di circostanza destinato a celebrare la campagna di Fiandra3. Gli dei d’Olimpo scendo­ no rispettosamente sul palcoscenico per conversare del valore del re, complimentarsi con lui per i suoi successi militari, l’abbondanza dei benefici da lui concessi e persino la scelta delle sue amanti. La maestosa ispirazione di Lully si ammorbidisce nelle cantilene di Venere e di Cere­ re. Di fronte a momenti del genere, lo confesso, sono più sensibile al fascino di questa musicalità che all’inventiva ordinata e un poco asciutta di Rameau. Si potrebbe pensare che il palcoscenico del Theatre des Arts sia un po’ ristretto per far da cornice a una manifestazione tanto grandiosa. Tutta­ via, l’architettura elegante delle scenografie, la ricchezza dei costumi, sono una tal gioia per l’occhio che non si pensa più a questa sproporzione4. In un giardino alla francese, illuminato da lampioni e da un bel lampadario di bronzo, sfilano in abito di corte le divinità e gli eroi. Il felice accostamento dei più ricchi tessuti, la varietà ardita e pure delicata dei colori, la nobiltà delle linee si accordano perfettamente con la musica di questo prologo. Tutto dà l’impressione di una rara e sontuosa armonia. Ci si ricorda la tragica nudità delle scene che Dethomas preparò per l’allucinante dramma di Dostoevskij, Ifratelli Karamazov. Questo per­ fetto artista ci ha dato or ora la prova, più ancora che con Les Dominos5 o la Salomé di Florent Schmitt, di saper intelligentemente adattare le risorse della propria arte alle forme teatrali più dissimili. L’interpretazione è curatissima: un coro di voci fresche accompagna solisti di valore, le signore Lucy Vauthrin e Vuillemin, i signori Ghasne e Moisson. Dolly, di Gabriel Fauré, ha rimesso in questione l’opportunità di portare sulla scena opere di musica pura. Tutti conoscono questa suite a quattro mani in cui un grande artista ha riposto, in omaggio all’infanzia, tutto il toccante fascino, tutta la grazia armonica della sua eccezionale musicalità. Laloy ha avuto la felice idea di illustrare scenicamente questi piccoli brani6, e Henri Rabaud7 li ha orchestrati con tatto e leggerezza ingegnosissimi. A questo proposito, certi critici e dilettanti, che si sono consacrati guardiani del tempio della musica, hanno una volta di più gridato al sacrilegio. Forse che la dea è meno rispettata sull’altare che in sagrestia? Accade sempre che i compositori non siano mai scossi quanto i dilettanti da queste interpretazioni di cui ogni opera musicale è suscet­ tibile, a condizione che vi sovrintenda il gusto. Certuni, e io fra loro, si sono persino abbandonati a questa profanazione con la propria musica. E, che io sappia, questa nuova scelleratezza non è stata commessa all’in­

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saputa dell’autore di Dolly. D’altra parte, a quelli che soffrono troppo per l’enormità di questa contaminazione, resterà pur sempre la scappa­ toia di purificare l’opera eseguendola a casa propria nella sua forma originale. Nel caso particolare di Dolly, mi permetterò una riserva per ciò che riguarda la Berceuse dell’esordio: c’è un contrasto troppo evidente tra questa melodia graziosa, lenta, ovattata, e i rabbiosi scalpiceli d’una bimbetta, le piroette e gli schiaffi di due Pierrot, i fratelli Foottit8, che tra una capriola e l’altra stuzzicano la signora Varaille, singolare nurse. Ma a parte questo dettaglio, l’azione è adattata così abilmente alla musica che quest’ultima sembra essere stata composta per illustrare la prima. Èva Reid, che trabocca d’infantile fascino nelle vesti di Dolly, il leggero Ballerino tratteggiato con virtuosismo da Aveline, e Pieri Sandrini, dan­ zano con trasporto il valzer in un brano il cui ritmo non pare opporsi a questa destinazione9. Lo stesso vale per il Pas espagnol, il cui carattere è ben lungi dall’essere alterato dalla foga del signor Miralès. E come sot­ trarsi alla lieta commozione che vi coglie quando il sipario si alza sul curioso paesaggio tratteggiato da Miss Lloyd, in cui si scorgono begli uccelli multicolori arrampicati su inverosimili fiori; quando la scena è attraversata da un grosso coniglio di peluche, Marcel Héronville, che spinge una carrozzella piena di palloncini rossi? Grovlez, seguito dalla sua orchestra, salta da un genere all’altro, e scavalca epoche diverse con la più tranquilla sicurezza, non è davvero l’acrobata cui si richieda minore impegno nel corso della serata. E questo spettacolo, tanto piacevolmente vario, tanto calorosamente accolto, avrà soltanto otto repliche. È un esempio paradossale che ci viene offerto da Rouché, il direttore del Theatre des Arts. Mentre in tutti i paesi, particolarmente in Germania e in Russia, si lavora a ricerche del più grande interesse artistico, che mirano nientedimeno che a rinno­ vare il principio della decorazione teatrale; mentre, da noi, tutte le atten­ zioni dei direttori sono rivolte a perfezionare la stereoscopia a colori, a perdersi in sottigliezze su allestimenti desueti, qui si tenta uno sforzo gigantesco su di una sola minuscola scena. In questo spazio troppo stret­ to si trovano riuniti i talenti drammatici e lirici più diversi, quelli con ragione maggiormente apprezzati. I pittori più brillanti della giovane scuola francese forniscono gli schizzi dei costumi, degli scenari. La rea­ lizzazione di questi ultimi è affidata a maestri di grande valore come Mouveau. Le scene, i costumi sono sempre opere d’arte. Se talvolta la loro realizzazione non è perfetta, non mancano mai di attirare l’attenzio­ ne con ricerche di colore o di stile. Talora di complessa ricchezza, talora d’una tragica o delicata semplicità, si sforzano di adattarsi al carattere dell’azione. E quali che siano le spese necessarie alla messa in opera, quale che ne sia il successo, lo spettacolo è senza sosta rinnovato. Questo

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comportamento disinteressato di un direttore mecenate, unico nella nostra epoca, è il punto debole di questa nobile impresa. Contribuisce in gran parte a dare a questo lavoro un carattere troppo accentuato di ecceziona­ lità, a restringerne la portata. Un’importante serie di rappresentazioni della stessa opera — occasione che si è offerta a Rouché più d’una volta — farebbe di più, per la celebrità del Théàtre des Arts, che tutte le spese per allestire tante opere diverse. L’opinione pubblica, indifferente per ignoranza a questo tentativo, sarebbe infine costretta a riconoscerne tut­ to l’interesse. E forse, stanco degli immensi miseri scenari, delle banalità incolori che non si finisce d’imporgli, il gusto francese, da così gran tempo assopito per ciò che riguarda il teatro, finirebbe per risvegliarsi e per obbligare i direttori dei nostri grandi teatri a soddisfarlo.

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A proposito delle “Images” di Claude Debussy 1

[...] l’uomo è una specie animale segnata dall’invidia e dalla gelosia, soprattutto l’uomo di lettere, o quello che eccelle in una di quelle ingegnose conoscenze che chiamiamo arti belle; ci par sempre che la reputazione di coloro che prati­ cano la nostra stessa professione, principalmente se han vis­ suto nel medesimo tempo che noi, o vi si sono approssima­ ti, offuschi il lustro della nostra, [...] Così l’invidia per i moderni alimenta sovente la parte migliore dell’ammirazio­ ne che viene testimoniata agli antichi

Antoine Bauderon de Sénecé, 1687

In questi ultimi tempi, ai processi della critica musicale sono state apportate notevoli migliorie. Lo scopo che i rappresentanti ufficiali si propongono è sempre stato, si sa, quello d’indebolire le nuove generazio­ ni, le cui tendenze paiono loro pericolose. La rapidità con cui le scuole, da un mezzo secolo a questa parte, si sono susseguite, rende necessari mezzi più sbrigativi. Non è più sufficiente rimpiangere l’estetica dei vecchi maestri, simulare incomprensione, furore o ilarità davanti alle ricerche dei giovani: vecchi e giovani sono contemporanei. Si tratta di far credere che i primi sono ancora in forze, mentre la vigoria degli ultimi è già in declino. Attualmente, due scuole si fronteggiano: quella antica è costituita dai discepoli di Cesar Franck. Claude Debussy è considerato a buon titolo il principale iniziatore di quella nuova. L’opinione dei compositori, generalmente, è abbastanza moderata, almeno nei loro scritti. Così il capo del gruppo franchista, Vincent d’In­ dy, riconosce prudentemente il valore di certi giovani colleghi («Revue musicale de la S.I.M.», nov. 1912) e si limita a temere che le generazioni future, anziché ritornare al passato, procedano direttamente da costoro.

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Il lavoro sporco è affidato a una piccola armata di musicografi, alla testa dei quali si trovano i signori Pierre Lalo e Gaston Carraud. E proprio a queste due personalità che dobbiamo gli ultimi perfezio­ namenti della critica musicale. AH’apparire del Pelléas et Mélisande si sono posti a capo dei partigiani di Debussy: fin da allora, avevano deciso la sua rovina. L’opera era inquietante: loro la dichiararono sublime, ma eccezionale. Fu pronun­ ciata la parola vicolo cieco ; poi si misero ad aspettare. A questo punto una gran quantità di giovani si provò a verificare le affermazioni dei critici; in fondo al vicolo cieco essi scoprirono una porta spalancata su di una splendida campagna, totalmente nuova. Qui si misero allegramente a giocare, senza preoccuparsi delle minacce di Lalo, che, dalla soglia, brandiva una ferula presa in prestito dal signor Faguet, il suo collega del Temps. Inutilmente, per punirli, il crudele pedagogo volle obbligarli a ricopiare Wagner («Le Temps», sett. 1908). Si rifiuta­ rono. Allora Lalo si rese conto che erano cresciuti, e ch’era tempo di usare contro di loro mezzi, se non più nobili, almeno più accorti. Furono invocati in soccorso Carraud e i suoi confratelli, che si premurarono di accorrere. Si cercò di seminare la discordia tra questi giovani artisti. Si tentò di scagliarli contro un maestro adorato, e di spingere lui contro di loro. Questa bella manovra fallì completamente2. Non era più consenti­ to esitare: occorreva abbattere il fautore medesimo di questo disordine. Fu allora che apparvero le Images. Il 15 aprile 1910, nella «Revue musicale de la S.I.M.», Gaston Car­ raud, con la morte nel cuore, dichiarò che «allo Chàtelet, l’accoglienza fatta a Ibéria è stata eterogenea quanto lo era il pubblico» e alla «sala Gaveau, ove s’era tra musicisti, si è potuto avvertire nel successo delle Ronde deprintemps qualcosa di forzato3, e che gli applausi s’indirizzavano più all’autore che all’opera in sé»4. «Certo bisogna ammetterlo — conti­ nuava Carraud — tutto ciò che Debussy ha scritto dopo Pelléas et Méli­ sande delude gran parte dei suoi primi ammiratori. Un’altra parte, a dire il vero, gli testimonia entusiasmo crescente e arriva a sostenere che ora soltanto è cominciato per lui il periodo di consapevole maturità... Ma queste opinioni divergenti possono venire spiegate distinguendo, tra coloro che amano Debussy, i musicisti e gli animi sensibili da una parte, gli imbrattatele e gli scribacchini dall’altra (parlo beninteso non soltanto dei professionisti, ma di coloro che sentono come musicisti, imbrattatele o scribacchini). Sono i primi a ritrarsi da un autore a cui avevano concesso il proprio favore...». Avete capito, voi che ottusamente vi lasciate andare al fascino stupen­ do, alla squisita freschezza delle Rondes de printemps ; voi che vi sentite stringere il cuore sino alle lacrime da quella sfavillante Ibéria> da quei Parfums de la nuit, tanto pro fondamente commoventi; da questa magni-

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licenza armonica tanto nuova, tanto delicata; da tutta quest’intensa musicalità; voi non siete che scribacchini o imbrattatele. E capite bene quanto disprezzo ci sia in questi termini. Anch’io, non sono che un imbrattatele o uno scribacchino; e, con me, I signori Igor Stravinsky, Florent Schmitt, Roger-Ducasse, Albert Roussel e una folla di giovani compositori la cui produzione non può essere trascurata. Musicisti e anime sensibili sono soltanto i signori Gaston Carraud, a cui dobbiamo tre melodie e un piccolo poema sinfonico, Camille Mauclair, che s’è per l’appunto fatto conoscere con opere letterarie e pittoriche, e Pierre Lato, che non ha prodotto niente del tutto. Press’a poco, è nei medesimi termini che quest’ultimo apprezzava la nuova opera di Debussy: «Sensazioni pittoresche, descrizioni o sugge­ stioni paesaggistiche; è curioso che una così gran parte dei nostri musi­ cisti non sembri concepire per la musica altra ragion d’essere che quella che è ben accessoria , ben superficiale e ben effimera. Viene il giorno in cui questi trastulli finiscono di trastullare» («Le Temps», 26 febbraio 1910). Trastullare chi? Gli imbronciati impotenti che non hanno mai prova­ to l’ardente passione ispirata da questi paesaggi, da questo senso del pittoresco; quelli che, nell’opera, non sanno scoprire l’espressione musi­ cale di questa passione. «Questa musica è a tal punto raffinata che giunge a far perdere il gusto di tutte le altre... Fin tanto che dura questo sortilegio, non è che un malanno a metà. Ma se un giorno arriveremo a perdere il gusto di Debussy stesso, che cosa ci resterà?» (ibid\ Poco, in effetti. Al signor Camille Mauclair5 resterà il piacere di pro­ clamare il genio di Isidore de Lara6, e ai signori Carraud e Lalo quello di circondare Albéric Magnard7 delle loro affettuose attenzioni. Resterà inoltre, a queste anime sensibili, l’inoffensiva mania di chiude­ re pian piano le palpebre davanti al sole che sorge, e gridare intanto con voce altissima che sta scendendo la notte.

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“Boris Godunov” 1

Questa brillante ripresa del Boris Godunov2 mi ha fatto rivivere — pur se nel ricordo soltanto — i febbrili e combattivi momenti del 1908. Fu con quest’opera che l’impresa degli spettacoli russi affrontò il pubbli­ co parigino. Meno di tre settimane prima, si temeva un fallimento; Sergej Diaghi­ lev ricalcitrava davanti alla scena nella neve. Grazie all’insistenza dell’or­ ganizzatore, Michel Dimitri Calvocoressi, questa scena fu conservata, e si spinse l’ardire fino a chiedere a Rimskij-Korsakov di aver la bontà di ripristinare certi passaggi soppressi dal grande musicista a causa di «scor­ rettezze musicali»3. A un certo punto l’arrivo delle scene rischiò di man­ dare tutto a catafascio: l’insolito splendore di queste tele arditamente abbozzate precipitò nello stupore l’amministrazione dell’opera, che finì poi per abituarcisi. La fiducia prima, poi l’entusiasmo, conquistarono a poco a poco anche i più umili collaboratori. E fu un trionfo. Il pubblico ammirò ogni cosa: scorrettezze musicali, scene, interpreti, coristi, figuranti. Nella stessa occasione, apparve chiaro ai dilettanti che Claude Debussy non aveva mai inventato nulla, e che Rimskij-Korsakov non era altro che un folle incapace... La settimana seguente, queste due vittime d’un legittimo entusiasmo riprendevano il loro posto nella stima dei contemporanei. Siamo già lontani da quei tempi eroici. L’opera di Musorgskij non ha perduto nulla del proprio splendore. Ma non ci appartiene più: ancor prima che se ne conosca la versione originale, è classificata tra i capolavori. Le mancava una lusinghiera consacrazione: la bacchettata del «Temps». L’ha appena ottenuta. Ed ecco che anche la temibile “tradizione” se ne impadronisce: Fèdor Saljapin è pur sempre il più grande artista lirico della nostra epoca, e ho qualche buona ragione per ammirare, tra le altre qualità, il suo modo di interpretare il recitativo, di parlare quasi, pur seguendo la struttura me-

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Iodica. Ma comincia ad abusare di questo mezzo. Nel Boris Godunov ci sono passaggi puramente lirici in cui il canto sarebbe indispensabile, in cui i tempi dell’autore richiederebbero di essere rispettati. E tra questi non ve n’è alcuno che necessiti dell’aggiunta di questi sinistri sogghigni, di questi gemiti cavernosi il cui effetto è tanto grossolano e tanto poco musicale. Anche la signora Nicolaeva, che, nel ruolo di Marina, m’è parsa superiore per presenza scenica all’interprete della prima, ha i suoi piccoli difetti. La quarta scena, l’azione della quale si svolge in Polonia, trae il suo carattere principalmente dai ritmi nazionali sui quali sono costruite le risposte di Marina. Ora, sono precisamente questi ritmi che Nicolaeva dà l’impressione di trascurare completamente. La brillante prestazione di Damaev non ci ha fatto dimenticare il fascino più fragile ma più toccante di Smirnov4. Ai nobili monaci, ai circospetti traditori dei nostri teatri lirici, augurerei sovente il tatto, l’intelligenza e la sempli­ cità drammatica di Semènov, Strobinder e Nicolas Andreev. Con l’eccezione del quadro polacco, in cui si rivela il sontuoso orien­ talismo di Bakst, le scene e i costumi sono dovuti a un giovane pittore, Juon. Essi sono di un’abbagliante ricchezza e di una bella armonia. Ciononostante, rimpiango la grandezza barbara e l’audace sobrietà della prima rappresentazione. Allo stesso modo rimpiango quell’ammirevole convinzione di coristi e figuranti che nel 1908 entusiasmò il pubblico, e la cui lezione non è ancora stata compresa dai loro colleghi francesi. Fatte queste riserve, bisogna riconoscere che tra le nostre grandi messe in scena non ve n’è alcuna che abbia offerto finora uno spettacolo di così grande valore artistico, così vicino alla perfezione. E, senza dubbio, quella che ci è stata presentata non è la vera opera di Musorgskij. Sarebbe una pretesa eccessiva desiderare una parziale restituzione del vero Boris Godunovì Diaghilev sta per offrirci la scena dell’albergo, che non è mai stata rappresentata in Francia. Perché non osare un poco di più? Perché non ripristinare, nel quinto quadro, l’episodio del pappagallo fuggito e la terrificante apparizione dell’automa, senza la quale la musica eseguita in quel momento, che si limita a commentarla, diviene incomprensibile? Perché sopprimere il ruolo minimo eppure importante del gesuita Rangoni? Perché, infine, continuare a distruggere il significato teatrale del­ l’opera — la folla come personaggio principale — invertendo l’ordine degli ultimi quadri? So bene che, seguendo i buoni principi del teatro così come li inten­ dono i nostri impresari, bisogna far scendere il sipario sulle ultime parole del celebre interprete. Ma la portata dell’iniziativa artistica di Diaghilev è più alta, come egli ci ha sovente provato. Quando vedremo infine quest’opera geniale e sfortunata rappresenta­ ta in una forma più vicina alla sua primitiva versione5? Ci occorrerà attendere per questo che sia divenuta di dominio pubblico? Che un

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editore venale e maldestro perda infine i diritti su tutti questi capolavori di cui, con un macabro scippo, si è attribuito l’esclusiva proprietà6?

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AlLOpéra-Comique: “Francesca da Rimini” e “La vida breve”1

In questi ultimi anni, due opere importanti sono state rifiutate, tra le altre, dalfOpéra-Cornique: Eros vainqueur, di Pierre de Bréville2, e La forèt bleue, di Louis Aubert3. Ai nostri concerti ne sono stati eseguiti alcuni brani sinfonici, accolti con successo. Scartati da un teatro nazio­ nale a cui lo stato accorda una sovvenzione destinata a favorire partico­ larmente la rappresentazione di autori francesi, queste opere sono state ospitate funa a Bruxelles, l’altra a Boston, poi a Ginevra. Quali che potessero esserne i difetti, queste creazioni erano il prodotto di musicisti giustamente apprezzati, in possesso del loro mestiere. Certamente, è più o meno nella stessa epoca che è stata accolta la Francesca da Rimini di Leoni4. L’autore, italiano che risiede a Londra, era perfettamente ignorato, non solo dal pubblico, ma anche dai suoi colleghi francesi. Potevamo dunque sperare che Carré avesse fatto la bella scoperta di un genio, o almeno di un talento sconosciuto: grande è stata la nostra disillusione. In quest’opera si possono riscontrare tutta la banalità, tutti gli ingenui espedienti che caratterizzano l’arte dei veristi italiani. Gli accenti vigorosi che questa fiacca scuola di dilettanti pretende di derivare dai suoi geniali predecessori vi sono prodigati con la medesima incoscienza. Tuttavia, vi possiamo osservare un po’ meno goffaggine, qualche attenzione in più nella scrittura, armonie meglio collocate. Potrebbe darsi che, come avviene in Puccini, certi procedimenti moderni, sequenze di quinte eccedenti, glissando di arpe, abuso della celesta, sappiano mascherare bene o male i vuoti dell’ispirazione o dell’orchestrazione5. Ahimè, niente di tutto ciò ha effetto. Forse a quest’opera è mancata la preziosa collaborazione di un editore scaltro: una pubblicità cinematografica aggiunge molto al valore di un dramma lirico. Geneviève Vix, una tra le nostre artiste liriche più fini e musicali, Francell, elegante e caloroso, Boulogne, tanto tragicamente sobrio quan­

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to è possibile esserlo, le voci affascinanti della signora Billa-Azéma e di de Creus fanno del loro meglio per difendere questa triste eredità della precedente direzione.

*** Otto anni fa, a Madrid, si tenne un grande concorso musicale. A conseguire il primo premio, con La vida breve, fu un giovanissimo com­ positore: Manuel de Falla. L’opera premiata sembrava indicatissima per essere subito rappresentata al Teatro Reale di Madrid. Ma non avrebbe potuto ottenere questo favore se non a condizione di essere tradotta in italiano... e, senza dubbio, a patto che il suo autore non fosse spagnolo. Ecco perché, proprio come i suoi colleghi francesi menzionati in precedenza, de Falla dovette andare a fare il profeta in terra straniera: Nizza dapprima, Parigi poi, ebbero l’onore di rappresentare per la prima volta l’opera di un compositore che, parecchi anni prima, era stato inco­ ronato dai propri compatrioti. D’altra parte, non sembra che de Falla sia trascurato dal suo paese soltanto sulle scene. Quando l’orchestra sinfonica di Madrid si è esibita a Parigi, il novembre scorso, ci siamo stupiti di non vedere il suo nome e quello di Granados6 comparire sul programma accanto al nome dei colleghi. Eppure, al momento attuale, sono questi i due compositori che paiono affermare con maggiore profondità ed eleganza il carattere schiet­ tamente nazionale della scuola spagnola moderna. Con Turina, giunto un poco più tardi, sono essi i discepoli più bril­ lanti di Isaac Albéniz7. Immuni dalle goffaggini, dalla frequente mono­ tonia, dalle faticose elaborazioni che impacciano spesso l’opera del loro caposcuola, essi hanno, a dire il vero, qualcosa della sua sensibilità per il ritmo, l’armonia e il colore. Tra i suoi compatrioti, de Falla è colui che presenta le maggiori affi­ nità con i musicisti francesi di oggi. Eppure la sua origine si manifesta in ogni pur breve frammento, al punto che certuni in questa qualità hanno creduto di vedere un difetto: a La vida breve è stato rimproverato il frequente ricorrere di certi gruppetti, caratteristici del canto andaluso. Mi parrebbe egualmente inutile deplorare che le interpreti vi compaiano rivestite di scialli ricamati o con il capo coperto di una mantiglia. Si è mai fatta una colpa a Massenet di aver prodigato, in Manon, certe for­ mule troppo francesi? Non si deve credere, d’altra parte, che il colore locale fosse ottenuto con questi gruppetti soltanto, né che il solo colore locale costituisca l’intero valore dell’opera. Senza dubbio il musicista ha tratto il partito migliore da episodi pittoreschi di cui la povertà dell’intreccio si giova con ottimi risultati: sfilate di fruttivendoli, nozze popolari, danze gitane.

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Ma nelle scene che richiedono altre qualità, s’incontrano una sincerità di accenti, un’abbondanza e una freschezza di ispirazione che sono piene di fascino. La passione, pur se espressa con meno rumore e più musicalità che nelle opere dei veristi, non è meno viva. I frenetici ancheggiamenti di Marguerite Carré possono, se necessario, dare un’idea dell’ardore andaluso. Il fascino vocale e scenico di Francell è qui più efficace che nell’opera precedente. Il signor Vieuille e la signorina Brohly sono ad un tempo drammatici e melodiosi. Vigneau gorgheggia poeticamente una malaguena. L’esecuzione orchestrale è perfetta. Le scene del primo quadro, molto ingegnose, ci mostrano a un tempo Granada rischiarata dal sole, poi da mille luci, l’officina di un fabbro, abitazioni, biancheria stesa ad asciugare, cipolle appese, una miriade di accessori locali: non manca nulla, se non il colore. Quelle del secondo quadro, più sobrie, potrebbero sortire un buon effetto, se un esecrabile gusto non avesse fatto collocare in primo piano penose piante artificiali8. I costumi sono tra i più pittoreschi, la regia perfettamente scorrevole.

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La letteratura ha ricoperto un ruolo di primo piano, se non nell’opera, almeno nella storia dell’opera di due compositori illustri: Beethoven e Wagner. Forse la colpa è loro2. Per il secondo potremmo affermarlo quasi con certezza. Eppure credo che lui stesso sarebbe sorpreso e coster­ nato, nel constatare le vittorie — e le disfatte — dell’armata dei suoi commentatori. Dalla filosofia alle cronache giornalistiche, dall’alta poe­ sia lirica all’estetica da salotto, da Nietzsche a Pierre Lalo, passando per Catulle Mendès, s’è discusso delle sue intenzioni con tanta dottrina che ai musicisti non è rimasto più nulla da fare. Bisogna riconoscere che se si fosse attesa l’approvazione di costoro, il genio del grande artista sarebbe rimasto a lungo misconosciuto. Fortunatamente, ahimè! c’era nell’arte di Wagner, potrei dire una tara? in ogni caso una componente extra-musicale che ha subito saputo sedurre tutti coloro che sarebbe stato impossibile sod­ disfare con il fascino, con la ricchezza della sola materia sonora. I primi neofiti sono dunque stati reclutati tra gli scrittori. Ed è sempre tra loro che troviamo ugualmente i primi iconoclasti. Le opere di Nietzsche su Wagner sembrano provare che egli è stato di volta in volta a capo delle due sette3. Ma, come è accaduto per il wagnerismo passeggero, l’antiwagnerismo è degenerato. I peripatetici hanno invaso i salotti, i caffè frequentati dagli artisti, le redazioni dei nostri quotidiani: poco manca a che Siegfried sia messo alla pari con Robert le diable4. Mi si potrebbe obiettare che una ventina di anni fa tra i giovani musicisti s’è nettamente delineato un movimento antiwagneriano. Pre­ go! ne avevamo il diritto, noi. Ne avevamo anche il dovere. Musicalmen­ te, l’influenza del maestro tedesco avrebbe potuto divenire nefasta per il nostro paese. Si sottopongano a un esame le opere importanti di que­ st’epoca: Fervaal Le RoiArthus5, la stessa Gwendoline, a tratti contrasse­ gnate dall’impronta wagneriana. Si provi soprattutto a ricordare la peno­ sa miriade di opere teatrali, di musica da camera, di mélodies alle quali la

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sproporzione, la pesantezza, il grigiore noi) vivificato dal genio, non hanno consentito di attraversare quattro lustri: si comprenderà il nostro partito preso. Pure, nessuno di noi ha mai pensato di negare la prodigiosa capacità inventiva, la profonda musicalità di Wagner. Se gli scopriamo dei difetti, se in lui troviamo delle lungaggini, riconosciamo che questi difetti, che sono forse qualità, sono inerenti alla sua razza, che queste lungaggini non inducono mai alla totale indifferenza. E non sono certo le nostre riserve ad autorizzare le amabili dame del nostro bel mondo, i nostri diligenti giornalisti, a sbadigliare ostentatamente parlando dei Ballets Russes, di cui abbiamo intuito la bellezza prima di loro. Senza dubbio Parsifal è meno divertente della Vieparisienne6. E an­ che meno noioso della Messa in re, quest’opera inferiore di Beethoven di cui pure s’è parlato tanto bene nei thé-tango. S’è fatto bene a non rispettare le ultime volontà di un defunto? Sul risultato non mi posso pronunciare, dato che non sono mai stato a Bayreuth. Pare che là quest’opera sia considerata alla stregua dei misteri di Eieusi7. Qui da noi essa prende l’importanza di una prima parigina, cosa assai diversa. E mi permetto di credere che non sia possibile imma­ ginare, a Bayreuth come in qualsiasi altro luogo, una realizzazione mu­ sicale superiore a quella dell’Opéra. Non solo gli interpreti principali sono eccellenti: la signorina Bréval (Kundry), i signori Franz (Parsifal), Delmas (Gurnemanz), Lestelly (Amfortas), Journet (Klingsor), A. Gresse (Titurel), ma i cori hanno una sonorità, una coesione, una precisione e uno stile al quale non ci hanno sempre abituati. Ci si trova rapiti ad ascoltare la scena delle fanciulle-fiore cantata così. Bisogna dire che que­ sti fiori tanto brutti — mi riferisco alle loro corolle — sono scelti tra le voci più graziose dell’Opéra. E che una delle prime orchestre al mondo, sotto l’eminente direzione di André Messager, ha suonato come sa, e cioè alla perfezione. Si potrebbe avere la tentazione di fare qualche riserva sulla durezza e la pesantezza che hanno talvolta gli ottoni. Ma è un errore imputabile prima di tutto a Wagner, la cui splendida strumentazione non è indenne da imperfezioni, e poi, soprattutto, alla collocazione del­ l’orchestra, che a Bayreuth, come si sa, è invisibile8. Mi hanno assicurato che l’allestimento scenico di Bayreuth era infe­ riore a quello dell’Opéra, pure non buono. Lo stesso discorso vale per le scenografie, si dice9. Non ne sono sorpreso: ancor meno della Tetralogia^ Parsifal non può venire realizzato con i procedimenti scenici finora im­ piegati. (Tenterà un giorno qualcuno di realizzare i progetti che Adolphe Appia ha esposto nel suo volume: Die Musik und die Inscenierungì™) Qual è la magia di quest’opera per farci accettare, malgrado tutto, il gioco convenzionale, gli atteggiamenti di pretesa nobiltà di questi artisti, peraltro pieni di talento? Come può non urtarci oltre misura il gusto

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grossolano e vetusto di queste scene mobili troppo precise; di queste fanciulle-fiore modem style, dai brutti colori, che compiono le loro evo­ luzioni in un palazzo carnevalesco; di questo signore vestito d’un camicione che si fa il pediluvio al centro di un paesaggio oleografico, mentre dall’orchestra s’innalza il meraviglioso «Incantesimo del venerdì santo»; di questo piccione imbalsamato, appeso a fili troppo visibili, che scende sul ciborio nel momento musicale più sublime? Dovremmo forse vedere in tutto questo la riabilitazione del teatro; esso mostra qui di non essere un genere poi così inferiore, dal momento che ci permette, anche in queste condizioni, di sopportare quattro ore di musica meravigliosa senza troppa fatica.

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I nuovi spettacoli della Saison Russe: “Le rossignol”1

È penoso constatare come, nel momento in cui i compositori francesi hanno liberato la musica da un gran numero di pregiudizi, in questo paese in cui la logica, il lucido entusiasmo potevano elevare la critica al rango di un’arte nobilmente utile, una folla di dilettanti incompetenti, improvvisatisi musicografi, si sforzi di esaltare glorie consacrate per lo più nel momento del loro declino, e di lottare ciecamente contro ogni sorta di esperimento. Tutta la loro sottigliezza si applica nel trovare nuovi strumenti di attacco. Tanta ingegnosità resta sterile: per la gran gioia dei loro lettori, questi valenti soldati si trasformano in acrobati per eseguire tutti insieme un’impressionante piroetta2. E quel ch’è accaduto per Le sacre du printemps. Accadrà presto di nuovo per Le rossignol. Per ridimensionare la portata di quest’ultima opera — oserei dire, con Emile Vuillermoz, che si tratta di un capolavoro — i critici hanno abbandonato la pratica del pugilato utilizzata con esiti scarsi contro Le sacre. Sono ritornati al loro furtivo jiu-jitsu, la cui malizia comincia a logorarsi, ma nel quale sembrano avere ancora confidenza. Mentre contro il Sacre erano stati scagliati gli epiteti più violenti: barbarie, mistificazione, isteria, antimusicalità — che ne sanno loro? — qui non vi sono che minutaglie, sottigliezze, frecciatine. In effetti Le rossignol non fa troppo baccano; e si sa che per una gran parte del pubblico e per la maggioranza dei critici, il baccano unito a qualche formula ben collaudata è necessario alla grandezza. «Non tocca né lo spirito né il cuore!» dice uno. «Gli effetti di questa discordanza voluta, in parecchi divertenti passaggi, sono parsi molto più superficiali che nel Sacre» dice l’altro. Senza dubbio, non si può essere toccati dagli accenti di una lingua che non si comprende, e ciò che non colpisce l’animo non può essere che superficiale. Potrei citare ben poche opere teatrali capaci di offrire passaggi più emozionanti dell’intera ultima scena del Rossignol. Quanto mi compiaccio di non assomigliare a colui che, già sazio

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d’un’arte che non ha mai gustato, c’informa che «quest’avvenimento è rimasto al disotto delle attese», che «nulla si logora più rapidamente delle audacie che vengono ripetute troppe volte senza rinnovarsi», e che, «dopo Le sacre, la poetica di Stravinsky, nel Rossignol, è parsa, non ancora rea­ zionaria, ma già stazionaria», constatazione che lascerà di stucco tutti i musicisti3. In effetti, ciò che ha colpito costoro sono proprio le nuove audacie dell’autore del Sacre, questa concezione musicale di cui nell’opera precedente s’intravede soltanto l’embrione. Mi riferisco a quest’assoluta libertà contrap­ puntistica, quest’audace indipendenza dei temi, dei ritmi, delle armonie, la cui combinazione, grazie a una sensibilità musicale fra le più rare, ci offre un insieme tanto seducente. Questa nuova concezione di Stravinsky si ricollega soprattutto all’ultima maniera di Arnold Schoenberg. Ma quest’ultima è più aspra, più austera, insomma diciamolo: più cerebrale. Quest’evoluzione ha colpito vivamente un altro critico che ci dichiara, senza tanti giri di parole, che «Le sacre du printemps sembra scritta da Meyer­ beer se paragonata ai due ultimi quadri del Rossignol». Bisogna dire che questo critico è anche compositore, il che sembra dargli più autorità per apprezzare i suoi colleghi. Bisogna dire anche, ahimè! che il suo spirito di fratellanza si manifesta per lo più attraverso parole biliose. Così è stato il solo, finora, a rimproverare a Stravinsky di non avere riscritto il primo quadro composto nel 1909. Egli non ha troppa paura di abbandonarsi al gioco preferito dei dilettanti: la scoperta delle reminiscenze4. Certamente, Stravinsky ha dovuto accorgersi da solo che uno dei suoi temi aveva qualche parentela non tanto con le Nuages di Debussy quanto con una melodia di Musorgskij5. Io penso che abbia ritenuto inutile cambiare una o due note al suo tema per dissimulare questa coincidenza. Se ne trovano di più profonde e di più frequenti nei classici. E se non ha riscritto la musica di questo primo quadro, è perché ha visto la difficoltà, l’impossibilità stessa, per «un artista che sia veramente un artista», di comporre musica interamente nuova su di uno stesso testo, e ha capito che sarebbe stato più facile per lui, ma più spregevole, ritoccare, ringio­ vanire la musica vecchia con qualche artificio del mestiere. Ho parlato in precedenza della penetrante efficacia, della toccante nobiltà dell’ultimo quadro. Meno sobrio, più brillante, il secondo non gli è da meno. Non vi sono parole o immagini che possano rendere l’agitazione urlante, frenetica, ma sempre musicale dell’inizio di questo quadro, la fantasmagoria orchestrale di questa marcia strana e potente che con il suo carattere orientaleggiante all’estremo ci fa provare un sentimento davvero più profondo della semplice curiosità, e l’insolito fascino dei timbri misteriosi che descrivono l’usignolo meccanico. Il contrasto, che sembra aver tanto sconvolto certi ascoltatori, li avrebbe forse colpiti di meno se si fosse evitato di avvertirli che il primo quadro

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era stato composto cinque anni prima degli altri. Confesso di non trova­ re la differenza così enorme. Solamente la tecnica del musicista s’è tra­ sformata6. L’ispirazione e l’orchestrazione di questo primo quadro sono degni dell’autore dell’ Oiseau de feu, la cui personalità è strettamente legata a Musorgskij così come lo sarà dopo la sua evoluzione. E se è vero che Le rossignol non ha fatto scandalo, credo purtuttavia di dover rassi­ curare il nostro collega critico che sembrava nutrire inquietudini tanto vive sulla sorte di questa musica. E occorso il prodigioso sforzo dell’orchestra dell’Opéra e l’inconsueta abilità di Pierre Monteux7 per dare un’esecuzione onorevole di que­ st’opera alla quale erano state accordate solamente cinque prove. Per *, Joseph la cui difficoltà era ben minore, Richard Strauss ne aveva otte­ nute il triplo. Credo di non avere mai visto scene e costumi più perfettamente armoniosi. Allo splendore asiatico dei suoi compatrioti, Alexandre Benois9 unisce un gusto delicato, un senso della misura dovuto forse alla sua origine francese.

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Le “mèlodies” di Gabriel Fauré1

Poiché impegni urgenti e irrinunciabili non hanno lasciato a Maurice Ravel il tempo necessario a scrivere l’articolo che si proponeva di offrire alla «Revue musicale», siamo andati a intervistarlo a Montfort-l’Amaury. Suonando al pianoforte le melodie del suo maestro, Ravel le ha commentate a braccio davanti a noi. Ci siamo sforzati di riprodurre qui, fedelmente, questa chiacchierata tra amici. Roland-Manuel

«Benché Villiers sia già ricco di gloria, e il suo nome si muova verso un avvenire di eterna fama, ciononostante lo classifichiamo tra i poeti maledetti, perché non gli è data gloria a sufficienza, in quest’epoca che dovrebbe stare ai suoi piedi...»2. Queste righe, consacrate da Verlaine a Villiers de L’Isle-Adam, po­ trebbero adattarsi assai bene al musicista della Bonne Chanson, la cui fama, per quanto grande, è lungi dall’essere proporzionata al merito di uno dei più grandi compositori francesi. Non esiste modo migliore per misurare l’importanza di Gabriel Fauré che studiare le sue mélodies, che hanno consentito alla musica francese di ottenere l’egemonia in campo liederistico. L’essenza del Lied austro-tedesco è popolare; le origini di alcune am­ mirevoli melodie di Schubert possono venire scoperte nei ritornelli di canzoni studentesche. Presso di noi si può dire che la canzone popolare non abbia subito alcuna evoluzione a partire dalle sue lontane origini, e che solo con una buona dose di artificio abbia potuto essere trapiantata nella letteratura musicale. In ogni caso, non sembra aver affatto contri­ buito al genere del Lied. Il vero fondatore della melodie in Francia è stato Charles Gounod. Il musicista di Venise, Philémon et Baucis, e della canzone del pastore di Saphò ha saputo ritrovare il segreto di una sensualità armonica perduta fin dal tempo dei claviccmbalisti francesi del XVII e XVIII secolo. Infatti, la rinascita musicale che s’è prodotta da noi intorno al 1880 non ha precursori che

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valgano più. di Gounod. Fauré e Chabrier, veri padrini della generazione del 1895, si sono fatti avanti nel solco di questo maestro. Al loro fianco, Bizet, Lalo, Saint-Saèns, Massenet, seguiti da Claude Debussy, sono tutti più o meno partecipi della salutare influenza del compositore di Mireille. Fauré, per qualche tempo allievo di Saint-Saèns, sembra essere stato maggiormente sollecitato dall’innegabile colore alla Gounod di certe ispirazioni del suo giovane professore piuttosto che dalle ricerche formali che per l’autore del Trio in fa furono una preoccupazione costante. Nelle mélodies di Fauré non si riscontra quell’impronta della volontà architet­ tonica individuabile in ogni pur minima composizione di Saint-Saèns. Saint-Saèns ha veramente creato nuovi procedimenti di sviluppo. Nel suo allievo, la costruzione non è mai volontaria, ma spontanea; essa non costituisce lo scopo, ma il docile mezzo. Può darsi che i neologismi di Chabrier abbiano in qualche modo influenzato lo stile di Fauré. Quest’influenza è d’altronde assai vaga, e più dello spirito che della lettera. Quanto a Duparc3, che qui è impossi­ bile passare sotto silenzio, le sue melodie imperfette ma geniali hanno talvolta come un’aura di parentela con quelle di Fauré. Sembra d’altra parte difficile stabilire quale dei due abbia influenzato l’altro. La personalità di Fauré si delinea fin dalle sue prime melodie; non senza stupore si osserva la data di composizione della sua op.7: Après un rève, scritta nel 1865. Poi, ecco Nell, in cui fa deliziosamente capolino l’influenza di Gounod, e Atttomne che prelude ai Berceaux. Il successo li ha contaminati non poco, quei famosi Berceaux; essi restano ciononostante qualcosa di profondo e commovente. Il Secret è uno dei più bei Lieder di Fauré. La seduzione del contorno melodico non cede il passo, in questo brano, alla raffinatezza delle armo­ nie. Risoluzioni eccezionali, equivoche, modulazioni ai toni lontani che ci riportano alla tonalità principale per vie ignote, sono altrettanti giochi insidiosi che Fauré pratica fin dal principio come un maestro. Chabrier vi si è dedicato parallelamente, ma ciascuno li ha condotti a suo modo: quest’ultimo con maggior raffinata brutalità, quello con maggiore aristo­ cratica riservatezza. Là dove Chabrier trascina impetuosamente il brano, Fauré ne smussa gli angoli e, talvolta, va più avanti. Il Clair de lune (composto nel 1887) è uno dei canti più belli della musica francese. Molti musicisti sono stati sollecitati dalla celebre poesia di Verlaine. Fauré soltanto ha saputo restituirle la sua musica. Questo capolavoro sembra uscito di getto, pare che non vi sia lavoro di ricerca. Trascurando di commentare l’una dopo l’altra le differenti immagini suggerite dal poema, la linea musicale s’ispira soprattutto, si direbbe, ad un solo verso, che potrebbe venire iscritto in epigrafe: Et sangloter d’extase les jets d'eau

[E gli zampilli singhiozzare d’estasi]

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Essa prosegue il suo cammino senza lasciarsi distogliere al passaggio dalle vicende della commedia bergamasca. Esemplare è la sua serena continuità. Si ritroverà quella stessa serenità di atmosfera in un’ammire­ vole scena di Pénélopex «Ulysse fìer époux...». Avete osservato che le parole «sur le mode mineur... » portano a un arpeggio che delinea para­ dossalmente l’accordo di do maggiore, aggiungendo una vaga malinco­ nia al paesaggio lunare? Au cimetière presenta un carattere singolarissimo. In esso viene alla luce un sentimento patetico estremamente raro in Fauré. Osservate come l’ispirazione tragica del musicista s’innalzi bene al disopra del mero gioco poetico, per la verità piuttosto banale, al quale si limita il testo ispirato­ re4. Si potrebbe paragonare Au cimetière a Ich grolle nicht in cui simil­ mente Schumann oltrepassa le frontiere del suo lirismo intimo. Benché il contrasto voluto dal poeta sia più grande qui che nel Lied schumanniano, la linea di tensione di questo brano cupo e movimentato non si allenta un solo istante. Si può cogliere alla sua origine, nella Bonne chanson, una nuova ma­ niera dello stile di Fauré. Questa nuova maniera è nettamente caratteriz­ zata dall’importanza che prende ormai l’elemento armonico nel linguag­ gio musicale. Ben lungi dal soffrire di quest’ingrandirsi del campo armo­ nico, la melodia ne trae maggiore scorrevolezza e libertà. Tutto è ammi­ revole nella Bonne chanson, incomparabile insieme armonioso le cui nove parti si ordinano e si equilibrano al punto di non formare più che un vasto poema lirico commovente e perfetto. Sempre dall’atmosfera armonica trae vita Leparfum impérissable5. Al verso: Sur le sable qui brùle on peut l’épandre toute

[Tutta la si può spandere sulla sabbia bruciante]

il musicista s’allontana deliberatamente dalla tonalità principale, lascian­ doci credere che l’abbandona veramente, e all’improvviso lo troviamo nuovamente lì, giuntovi attraverso un’imprevedibile via di ritorno. Ciò che, in ogni altro luogo, sembrerebbe a ragione un simpatico gioco di bravura risponde qui a una sorta di necessità intima e profonda. Fauré non ha mai coltivato la ricerca per la ricerca: Yécriture artiste non è proprio affar suo 6. Leparfum impérissable, Prison, Soir, partecipano della stessa estetica che si trova in germe in Philémon et Baucis, ma che in Fauré si è evoluta in modo del tutto personale. Questa sovrana purezza, questa delicata sensualità hanno continuato a esprimersi, nel corso degli anni, con un’arte che conserva non soltanto tutta la sua raffinatezza, ma anche tutta la sua freschezza: la Chanson d’Eve, i Mirages e i recenti Horizons chimériques ce ne danno la preziosa e fortemente toccante testimonianza.

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In un’epoca in cui non ci si preoccupa più granché delle esigenze del canto, le melodie di Fauré hanno il merito quasi unico di essere vera­ mente scritte per la voce. I suoi vocalizzi, sempre giustificati, sono per­ fettamente al loro posto. La sua declamazione, ad un tempo composta e di grazia squisita, si mostra molto più precisa che nei musicisti della stessa generazione; non per questo essa si trasforma in recitativo, e disde­ gna il troppo facile processo che consiste nel passare bruscamente dalla salmodia allo slancio lirico, artificio che non è caro soltanto a Massenet7. La declamazione di Fauré, sempre melodica, arriva al punto di cattu­ rare la fugace musicalità della lingua francese, meno appariscente di quella, per esempio, della lingua italiana, ma quanto più delicata e per­ tanto più preziosa! Così come la limpida grazia delle melodie di Fauré evoca il ricordo delle più belle arie di Mozart, il loro lirismo le ha fatte paragonare spesso ai Lieder di Schumann. Certo, l’In paradisum del Requiem — per fare un esempio che sia fuori del nostro campo — si accosta con naturalezza al terzo atto &&ldomeneo\ pure la sensualità di Fauré è più meridionale di quella del maestro salisburghese, e il compositore del Parfum impérissable, musicista attico senza dubbio, è tutto sommato meno greco di Mozart. La musica di Schumann rispecchia la vita della borghesia tedesca del secolo scorso. Fauré di certo non si spinge avanti quanto Schumann nella via delle confidenze e delle veementi effusioni. Ciononostante, per quanto ad occhi germanici non sia probabilmente un grande lirico, Fauré è un grande lirico francese: di un lirismo nostalgico e tenero, esente da cedimenti del pudore e da grida superflue, ma che sa consegui­ re — nel Secret in particolare — forti e penetranti emozioni. I procedimenti di Gabriel Fauré sono tanto personali quanto poco appariscenti. Egli non ha affatto proposto formule ai suoi discepoli, impegnandosi al contrario a metterli in guardia contro gli stereotipi buoni a tutti gli usi. La sua profonda individualità, ricca più di sottigliez­ za che di trovate ingegnose, ebbe sempre in ripugnanza i comodi artifici; essa non offre presa alcuna agli epigoni. I materiali della sua opera non valgono che per quest’opera stessa e resterebbero inutilizzati nelle mani degli imitatori o dei plagiari. Invero, i misteriosi procedimenti di Fauré ci seducono tanto più e ci stancano tanto meno proprio nella misura in cui sono poco evidenti, si fanno notare poco di per sé. La loro discrezio­ ne ne costituisce l’efficacia. E nelle melodies che Fauré ci ha veramente offerto il fior fiore del suo genio. Al Lied, musica dell’intimità, è consentito l’accesso alle case più umili. Senza fare violenza e senza infastidire, le mélodies di Fauré hanno soppiantato a poco a poco le romanze da salotto. La loro importanza, nel trasformare in meglio il gusto del pubblico d’oggi, non è stata poca cosa. Troppo essenzialmente aristocratica per piegarsi alla mansione di di-

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vulgatrice, l’arte di Fauré è piuttosto un’iniziatrice insinuante e delicata, e non è senza emozione che notiamo la profonda influenza di queste melodie che hanno indicato «le plus doux chemin»8 ai giovani composi­ tori del 1895 e che restano ancor oggi ambasciatrici eloquenti e discrete di quella tradizione francese di sensualità che non poco Hanno contribu­ ito a restaurare.

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A proposito deirispirazione 1

Tutto quel che vi posso confermare, è che nel 1924, nel momento d’intraprendere la Sonate pour piano et violon che ho appena terminato2, già avevo in mente la forma assai singolare, la scrittura strumentale e persino il carattere dei temi di ciascuna delle tre parti ancor prima che ^«ispirazione» m’avesse suggerito uno solo di questi temi. E non penso di aver preso la strada più breve3.

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Iljazz va preso sul serio!1

Voi Americani prendete il jazz troppo alla leggera. Sembra che lo consideriate musica di poco valore, volgare, effimera. Secondo me invece sarà il jazz a far nascere la musica nazionale degli Stati Uniti. Voi non possedete ancora un linguaggio autentico diverso da questo. La maggior parte delle vostre composizioni tradiscono influenze europee — spagno­ le, russe, francesi o tedesche — piuttosto che una personalità americana. Nondimeno non credo a coloro che pretendono che ciò sia dovuto alla mescolanza di popoli stranieri che compongono l’America. Pas du tout. CIest ridicule, ga. Fate caso alla mescolanza che abbiamo in Francia. In una certa regio­ ne vedrete Francesi che sembrano Tedeschi, in un’altra uomini che ri­ cordano gli Italiani più che i Francesi. Inoltre abbiamo Arabi, Algerini, Americani, espatriati o sposati a donne francesi. Eppure chi oserebbe negare che la nostra musica sia tipicamente francese? Mais non. Le due influenze più importanti sull’arte sono il clima e la lingua. La prima è forse più facile a cogliersi della seconda, che io credo tuttavia di poter spiegare. Osservate gli autori inglesi. Par example, Joseph Conrad2 e Michael Alien3, l’uno polacco e l’altro armeno, eppure sono entrambi grandi nomi delle belles-lettres inglesi. Etpourquoiì Perché il loro mezzo d’espressione era la lingua inglese. Potrei sedermi al piano e suonarvi musica francese scritta intorno al 1849 che voi prendereste per jazz; per quanto sia così caratteristica, così sincopata nei suoi ritmi, essa conserva néanmoins un sapore francese. E, quel ch’è più significativo, è considerata classica4. All’estero, noi prendiamo sul serio il jazz. Esso esercita un’influenza sulla nostra opera. Il “blues” della mia Sonate, par exemple, è jazz stiliz­ zato, dal carattere forse più francese che americano, ma tuttavia forte­ mente influenzato dalla vostra musica cosiddetta “popolare”.

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Personalmente, trovo il jazz estremamente interessante: i ritmi, il tratta­ mento della melodie, le melodie stesse. Ho ascoltato certe opere di George Gershwin che mi hanno costretto a riflettere. Malheureusement, non conosco le composizioni del vostro ultramoderno enfant terrible George Antheil. Ha stuzzicato la mia curiosità, perché o lo portano alle stelle o lo mettono alla gogna. Non c’è mai una via di mezzo. Un compositore tanto schiettamente amato o detestato non può essere senza qualità5. Anche noi abbiamo qualche compositore ultramoderno tra i nostri giovani musicisti. Non so ancora quel che ne uscirà. Se però mi chiedete se abbiamo una scuola impressionista in musica, devo dire che non ho mai associato questo termine alla musica. La pittura, ah, ga c'est autre chose\ Monet e la sua scuola erano impressionisti. Ma nell’arte che le è sorella non v’è l’equivalente di ciò. Oggi la musica in Francia è tutto il contrario dell’impressionismo. I compositori sanno dove vanno. Mentre gli Italiani cercano nuovi mezzi d’espressione e i Tedeschi reagiscono contro Wagner e la musica senti­ mentale di Schumann, noi abbiamo un preciso obiettivo: seguire la linea di condotta fissata da Gounod. Fauré è amatissimo dai nostri giovani musicisti per la sua préciosité armonica e l’ambiguità della sua melodia. Come senza dubbio sapete, ho avvertito fortemente l’impronta di Debussy. Tuttavia ho avviato la rea­ zione contro di lui, perché cercavo una maggiore volontà e chiarezza di quanto la sua musica non contenesse. Paul Dukas appartiene a un grup­ po di compositori più anziani. E stato chiarezza da Liszt e Saint-Saèns. Le sue composizioni non mi hanno condizionato. Chabrier ha lasciato su di me un’impronta più marcata di Debussy, ed Erik Satie è stato l’ultimo a scuotermi profondamente.Voilà un vrai musicienX Quando si tratta delle mie opere, la mia predilezione va sempre alla più recente. Attualmente sono le Chansons madécasses che preferisco. Mais in questo momento i miei progetti si orientano verso un concerto, verso un’operetta su di un libretto di Bousquet dallo stile assai pirandel­ liano6, e ho anche intenzione di scrivere un’opera. Quando ciò sarà finito, qui saitì L’opera in Francia, oggi, è Vopéra romantique. I compositori non cercano niente di nuovo. Si accontentano dei prodotti di Lalo7, di un’opera come Le prophète di Meyerbeer e anche di Wagner. L’epoca in cui viviamo è di buon augurio per i compositori. Stiamo assistendo a uno sconvolgimento economico, a una rivoluzione dolce. L’in­ ternazionalismo si sviluppa a fianco del nazionalismo, provvedimenti costrut­ tivi vengono adottati accanto ad altri distruttivi. Facciamo innovazioni nel campo dell’igiene e nello stesso tempo concepiamo strumenti di guerra. Una parte del mondo non è mai stata tanto civilizzata, altre paiono più incivili che mai. Il mondo cambia e si contraddice come non mai.

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Sono felice di vivere tutto questo e di avere la fortuna d’essere com­ positore. Sono egualmente felice d’essere infine giunto in America e, benché non abbia quasi messo il naso fuori dell’albergo, posso attestare che Broadway After Dark è ravissant.

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Ricordi di un ragazzo pigro1

Per conto mio, non esistono arti differenti, ma una soltanto: musica, pittura e letteratura divergono solamente nei loro mezzi d’espressione. Di conseguenza non vi sono diverse categorie di artisti, ma solo diverse categorie di specialisti. Tale specializzazione diviene sempre più necessa­ ria, con l’aumentare della conoscenza tecnica, perché anche nell’arte non si può ottenere nulla senza applicazione. E poi, è divenuto impossibile seguire l’esempio di Leonardo da Vinci, che ha saputo mantenere uno spirito di dilettante in ogni campo... anche quello della pittura! Per quel che mi riguarda, certamente sono nato musicista; eppure, se io non scrivo è solo per mancanza d’esercizio: mi accorgo ad esempio di leggere in modo del tutto professionale, come se fossi uno scrittore. Lo stesso vale per la pittura: non riesco a guardare un quadro come un dilettante, ma piuttosto come un pittore. E possibile che ciò derivi dal fatto di avere avuto, da ragazzo, talento in campi diversi — fatto che ovviamente preoccupava molto i miei genitori. Li preoccupava partico­ larmente perché, in aggiunta alle mie numerose propensioni, ero anche estremamente pigro. Lavoravo soltanto come i taxi; dovevo essere cioè ricompensato per ogni pur minimo sforzo. L’unica materia che mi atti­ rava un poco era la matematica, con grande gioia di mio padre, ingegne­ re. Mia madre, che era basca e musicista come tutti i suoi compatrioti, avrebbe voluto vedermi più disciplinato al pianoforte; ma a dir la verità io trovavo ciò eccessivamente noioso. Appresi inoltre che l’esecuzione di un brano, in particolare se è di ritmo lento, come la Marche fimèbre di Chopin, ad esempio, richiede un impiego di forza fisica quantificabile in un buon numero di chilogrammi. Ciò sembra in qualche modo rendere retrospettivamente legittima la mia scarsità di entusiasmo per il lavoro. Comunque, appena cominciai a comporre ciascuno si rese conto che avevo imboccato la strada giusta. Mi piaceva persino!... il fatto dopo tutto non era così strano, visto che certamente la mia inclinazione per la

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matematica mi aiutava un poco verso quella direzione, a tal punto che io, persona fino ad allora pigra, cominciai a lavorare persino di notte — abitudine che, sfortunatamente per la mia salute, ho sempre mantenuto. Il mio insegnante, Charles René, mi fece scrivere esercizi di composizio­ ne quando avevo appena sedici o diciassette anni, ma solo tre o quattro anni più tardi mi consacrai alle mie prime autentiche composizioni, che peraltro tenni attentamente nascoste. Fui così iscritto al Conservatorio come pianista, nella classe di Charles de Bériot, che non mancò di riconoscere la mia natura «artistica», ma osservò anche quanto fosse scarso il mio zelo come esecutore. Mi applicai comunque con entusiasmo allo studio della fuga, del contrappunto e dell’armonia; e sebbene avessi composto poco o nulla, avvertivo già un forte stimolo in quella direzione. Fu allora che comin­ ciai a fare scoperte incessanti nelle opere dei miei compositori favoriti, avvertendo nello stesso tempo la sensazione che vi fossero altre cose da dire. Le influenze che attraversai all’epoca confermarono la mia opinione che non esistessero differenti forme d’arte: naturalmente, a condizionar­ mi fu prima di tutto un musicista: Chabrier, che ancor oggi attende il meritato riconoscimento per tutta la musica francese contemporanea germogliata dalla sua opera. Il suo ruolo è stato importante quanto quello di Manet in pittura. Per inciso, Chabrier possedette alcuni tra i più bei Manet, come Le Bar des Folies-Bergèresy per esempio. La rivelazione debussysta non mi segnò a fondo, perché ero già stato conquistato da Chabrier; subii nondimeno l’influenza di Debussy, ma per mia scelta, ed ebbi sempre un’istintiva reazione a certi passaggi della sua musica. In ogni caso, non accettai mai i principi debussysti; ritengo che nessuno possa dubitarne, tanto la cosa è ovvia. Per ritornare al legame esistente, secondo me, tra Chabrier e Manet, questo non si limita all’influenza esercitata da essi sulle rispettive arti. È una connessione che mi sembra più radicale: la stessa sensazione prodot­ ta dalla musica di Chabrier l’ho riscontrata n&W Olympia di Manet, a cui devo una delle emozioni più belle della mia adolescenza, e che ancora considero un dipinto meraviglioso. In Olympia ho sempre avuto la sen­ sazione di ritrovare l’essenza della Mélancolie di Chabrier, semplicemen­ te trasferita ad altro mezzo d’espressione. Per quel che riguarda la tecnica, il mio maestro è stato certamente Edgar Allan Poe. Ritengo la sua Philosophy of Composition il miglior trattato di composizione che esista; in ogni caso quello che ha esercitato su di me l’influsso più profondo. Per quanto Mallarmé abbia proclamato che non si trattava d’altro che di una mistificazione, sono convinto che Poe abbia veramente scritto il suo poema The Raven nel modo indicato. Naturalmente, mi rendo pienamente conto che le influenze attraverso le quali sono passato sono dovute in parte all’epoca in cui sono cresciuto.

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Sono ben consapevole che le opere che amo di più soffrono talvolta del passare del tempo. Ciò vale per A rebours: non posso fare a meno di considerarla un’opera di estrema importanza, anche se so che, con ragio­ ne, quell’importanza ha cessato di possederla. Eppure questo giudizio ha ancora per me un sapore di verità. Credo che tutta la mia generazione si sia riconosciuta in A rebours1, anche coloro che, come me, non hanno amato particolarmente le altre opere di Huysmans. Devo inoltre dire che ho letto quel libro quando ero davvero giovanissimo. E quale gioia per un giovane scoprire autori a quel tempo ancora sconosciuti, come accad­ de a me, per esempio, con Rimbaud! Questa necessità di scoperte non si limita alla mia giovinezza — la possie­ do ancora. L’ho anche coltivata. A lei devo quel mio perpetuo desiderio di rinnovamento. Io congedo un’opera solo quando ho la certezza che non posso in alcun modo migliorarla ancora. E quello è un momento davvero magico. Ma a quel punto l’abbandono definitivamente. Non mi sono mai limitato a uno “stile Ravel”. Quando creo un nuovo modo di esprimermi, lo affido agli altri. Essi possono rinfacciarmi le opere precedenti, ma io so che un artista consapevole ha sempre ragio­ ne. Dico consapevole e non sincero^ perché in quest’ultima parola vi è un che di umiliante. Un artista non può essere sincero. La menzogna, intesa come potere dell’illusione, è l’unica forma di superiorità che l’uomo abbia sugli animali; e quando rivendica a sé il titolo di arte, è l’unica forma di superiorità che l’artista abbia sugli altri uomini. Chi si concede d’impulso, non fa altro che balbettare. In arte, ogni cosa va meditata a fondo. Massenet, pure così dotato, sperperò il suo talento per un eccessiva sincerità. Egli davvero scrisse tutto quel che gli passava per il capo, con il risultato di ripetere sempre la medesima cosa: quel ch’egli pensava fossero novità erano nient’altro che reminiscenze. La verità è che non si riesce mai ad avere abbastanza controllo. Per di più, visto che non possiamo esprimerci senza sfruttare e quindi trasfor­ mare le nostre emozioni, non è forse meglio acquisire piena consapevo­ lezza e ammettere che l’arte è l’impostura suprema? Ciò che viene talvol­ ta chiamato la mia insensibilità è semplicemente uno scrupolo di non scrivere qualsiasi cosa. Per quanto riguarda l’accusa che ricevo di comporre soltanto “capi d’opera”, e cioè opere dopo le quali non mi è più concesso dire nulla, posso semplicemente replicare che, se ciò fosse vero, ne sarei certamente stato consapevole, e non mi sarebbe rimasto nulla da fare se non smet­ terla e morire... nonostante l’esempio di Dio, che si è riposato dopo aver creato il mondo, e ha fatto male!

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'Concertopour la main gauche"1

L’orchestra sinfonica di Parigi presenterà in prima esecuzione, martedì prossimo, un concerto di Maurice Ravelper pianoforte e orchestra. Questo concerto, dalle caratteristi­ che del tutto particolari, è stato ideato per la sola mano sinistra. Prima di dirigerlo personalmente, martedì, Maurice Ravel ha gentilmente accettato di presentare fin da oggi sua opera ai nostri lettori1.

La prima idea del Concerto pour la main gauche, di cui devo dirigere la prima esecuzione nei prossimi giorni all’Orchestra sinfonica di Parigi, risale a un viaggio che feci a Vienna tre anni or sono. Durante il mio soggiorno in questa città, soggiorno peraltro impegna­ to dalle prove alPOpéra Enfant et les sortilèges e dagli spettacoli di Ida Rubinstein nei quali dirigevo La Valse e il Bolèro, ebbi l’occasione di ascoltare il pianista austriaco Wittgenstein — che aveva avuto la mano destra amputata in seguito a una ferita di guerra — interpretare un Concerto di Richard Strauss per sola mano sinistra. Il problema che una scelta di questo genere pone a un compositore è di ardua soluzione. I tentativi fatti per risolverlo restano d’altra parte assai rari, e il più conosciuto tra questi, i Six Etudes pour la main gauche di Saint-Saèns, evita, con la sua brevità e frammentazione, il lato più problematico della questione, quello di mantenere desta l’attenzione, in un’opera di ampio respiro, con mezzi tanto limitati. Ma il timore delle difficoltà non è mai tanto vivo quanto il piacere di misurarsi con loro e, se possibile, vincerle. Ecco perché mi sono lasciato tentare dalla richiesta fattami da Wittgenstein di scrivergli un concerto, e ho portato a termine il mio compito assai speditamente, dal momento che in capo a un anno era compiuto, e questo rappresenta un intervallo di tempo minimo, per me. Al contrario del Concerto de piano eseguito per la prima volta l’anno scorso da Marguerite Long, e la cui strumentazione si limitava a un

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organico ridotto, questo utilizza l’orchestra sinfonica al gran completo; Si divide in due movimenti che sfociano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. Un esordio lento serve da introduzione all’opera e prepara, per con­ trasto, l’ingresso in forze di un primo tema al quale s’opporrà in seguito una seconda idea, espressiva e trattata al pianoforte come se fosse scritta per due mani: un disegno sinuoso d’accompagnamento che avvolge la linea melodica. Il secondo movimento è uno scherzo basato su due temi, entrambi ritmici. A metà interviene un nuovo elemento, una sorta di ostinata melopea, che si svolge su di un gruppo di battute ripetute all’infinito ma costantemente variate nelle sottostanti armonie, e sulla quale s’innestano innumerevoli disegni ritmici sempre più serrati. Questa pulsazione, che cresce di frequenza e d’intensità, conduce, dopo un breve richiamo dello scherzo, a una ripresa ampliata dell’idea iniziale dell’opera, e infine a una lunga cadenza in cui, attorno al tema dell’esordio, i diversi elementi evidenziati sin dall’inizio lottano fino a frantumarsi in una brutale pero­ razione.

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Trovare motivi musicali nelle fabbriche 1

Per secoli l’uomo ha cercato la propria ispirazione musicale nelle opere della natura. Il mormorio del ruscello, il fruscio delle foglie, i canti degli uccelli, le grida delle bestie — niente che non sia già stato tradotto in musica dalla durevole bellezza. Ma tutto ciò è ormai un fatto acquisito. Non possiamo continuare ad attingervi l’ispirazione per nuove opere, perché giungerebbe l’ineluttabi­ le momento in cui il mondo ne avrebbe abbastanza di ascoltare temi nuovi fondati su vecchie fonti d’ispirazione, e tutta la musica verrebbe eclissata.

Ispirarsi al rumore Nella nostra esplorazione in cerca di nuove ispirazioni non potremmo trascurare i diversi aspetti della vita moderna. Si dice che nelle nostre città il traffico “ronza”, che le macchine “rombano”, e per quanto grade­ voli o sgradevoli questi suoni possano apparire, non c’è alcuna ragione perché non siano tradotti in grande musica. La nostra epoca meccanizzata lascerà incontestabilmente la sua im­ pronta su di una musica che sarà in seguito trasmessa di generazione in generazione, e i nostri compositori troveranno sempre più spesso la loro ispirazione in ciò che alcuni ora considerano semplici rumori. È accadu­ to in passato che alcune battaglie siano state trasformate in temi sinfonici celebri in tutto il mondo, e il suono di una battaglia non è certo più stimolante dej ronzio d’una grossa macchina. 1812, di Cajkovskij, e Leichte Kavallerie di von Suppé traggono en­ trambe ispirazione non dai suoni ordinati delle parate, ma dal caos delle armi che si affrontano, e dal rombo irregolare dei cannoni2. Beethoven ha composto una sinfonia sulla vita di Napoleone; perché un composi-

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tore moderno non dovrebbe scrivere un’opera analoga sulla vita di uno dei grandi capitani d’industria?

L "uomo d’affari come eroe

La nostra epoca ha la tendenza a rivolgersi ai suoi industriali di spicco, piuttosto che ai suoi uomini politici o soldati, per guardare al futuro. Naturalmente è possibile interpretare ciò in musica, si deve anzi farlo se si vuole che la musica della nostra epoca sia il riflesso fedele della vita dei nostri popoli. I suoni strani e disordinati di un grosso veicolo a motore che si arrampica su per un pendio non sono forse di sconvolgente bellezza; ma tradotti in musica avrebbero tutt’altra seduzione. Il canto dell’usignolo nel bosco è ben diverso dalle interpretazioni musicali che lo rappresen­ tano nelle nostre partiture; allo stesso modo, il movimento di un grosso motore, messo in musica, non assomiglierebbe affatto ai suoni autentici che produce. E vera arte, quella di mettere in musica tali sonorità. Beninteso, la musica non suggerisce necessariamente i rumori, ma può raccontare la storia della macchina, e della macchina interpretare le opere.

La bellezza nell’industria Osserviamo con attenzione la fabbrica: al centro di una gran pianura, o nel cuore di una popolosa città industriale, rappresenta la vita, la casa, l’esistenza stessa di migliaia di operai. Le sue potenti macchine lavorano per tutto il corso della giornata. Squilli di campanelli scandiscono l’ordinato svolgersi della sua attività, cataste di prodotti finiti rendono omaggio all’efficacia dei meccanismi e alla grandezza della mente che li ha concepiti. Al crepuscolo, il rumore, il frastuono e il rombo del lavoro s’acqueta­ no. I grandi cancelli si aprono e l’aria rimbomba delle voci di migliaia di operai che si riversano fuori della soglia per tornare a casa propria. Un poco più tardi le luci si spengono; dove poche ore prima regnavano il rumore e il lavoro è un desolante silenzio.

La musica delle macchine

Quanta storia musicale in questa fabbrica3! I musicisti, gli storici e gli scrittori devono tramandare la leggenda meccanica del nostro tempo ai nostri figli e nipoti.

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Abbiamo messo in musica la natura, la guerra e cento altri temi, e mi stupisco che i musicisti non abbiano ancora colto le meraviglie del pro­ gresso industriale. Honegger, Mosolov, Schoenberg e altri hanno attinto buona parte della loro ispirazione dalle macchine4. Quanto al mio Bolèro devo la sua idea a un’officina. Un giorno, mi piacerebbe rappresentarlo sullo sfondo di un vasto stabilimento industriale.

Una sinfonia delBaeroplano L’aeroplano, che ha reso la vita tanto più comoda, che permette di viaggiare più rapidamente e che facilita ai nostri giorni le scoperte — quale tema per una sinfonia5! Quei grandi voli che ci mostrano il corag­ gio epico dei nostri aviatori, i pericoli della terra, del mare e del cielo potrebbero venire tradotti in una musica che costituirebbe un monu­ mento agli eroi dell’aria. Un moderno piroscafo che salpa con molte centinaia di anime a bordo, ravvicinarsi di una tempesta, la conquista da parte dell’uomo degli elementi — tutto ciò potrebbe venire trasformato in dramma musicale. I suoni ordinari e quotidiani delle nostre strade ferrate potrebbero diventare opere che ci racconterebbero i nostri pro­ gressi, che ci mostrerebbero come abbiamo superato gli ostacoli naturali e permesso all’umana ingegnosità di trionfare. Ma soprattutto, sarebbe il trionfo della macchina, questo gran mostro che l’uomo ha creato perché eseguisse i suoi ordini. Quale nobile ispira­ zione! Negli anni futuri sarà certamente avvertita da centinaia di nostri compositori, che daranno nascita a una musica che rifletta fedelmente e lietamente lo spirito di un’epoca in cui la macchina s’è sforzata di alleg­ gerire l’uomo del suo fardello.

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Le aspirazioni di chi ha meno di venticinque anni: la giovane musica1

È ancora prematuro, a mio parere, tentare di definire le tendenze della giovane musica di oggi. Non è forse d’altra parte un po’ indiscreto voler fare della sintesi prima di dedicarsi ad analisi lente e pazienti? E il grande difetto di quel che si potrebbe chiamare la critica musicale stile “primi della classe”; parlo di quelle ingegnose prospettive intellettuali che han­ no introdotto presso di noi tante seducenti teorie molto chiare, molto logiche, ma che non sanno tener conto a sufficienza del fatto musicale propriamente detto. In estetica, si è sempre portati a delineare cornici troppo rigide e a preci­ sare fino all’eccesso le caratteristiche di una scuola nella quale si fanno entrare, bene o male, per il bene della causa, artisti per nulla predestinati a questa specializzazione. A noi manca il distacco necessario per abbracciare nel suo insieme il panorama della Francia musicale attuale. Tuttavia l’osservatore attento può raccogliere, qua e là, qualche indi­ cazione istruttiva. E indispensabile, quando si parla dei “giovani” d’oggi, distinguere due generazioni le cui strade cominciano a prendere differen­ ti direzioni. Ci sono i “giovani” del dopoguerra, e cioè gli adolescenti inquieti, scontrosi e un poco aggressivi che dovettero ricominciare, su di un pianeta interamente sconvolto, i lavori della civilizzazione musicale. Il loro compito era difficile e ingrato. Essi sentivano l’istintivo bisogno di rom­ pere brutalmente con le tradizioni dei loro padri. Si trovavano in condizioni sociali e intellettuali tanto differenti da quelle che esistevano prima del 1914 che furono portati, quasi automaticamente, ad adottare attitudini, metodi e uno stile da iconoclasti. In ogni rivoluzione vi è un periodo sacrificato alla distruzione. Per qualche tempo vi furono, in musica, squadre di demolitori. E il successo arrise loro immediatamente. Certuni avevano doni eccezionali. Ma la violenza dei loro gesti era troppo sovente calcolata. Dopo un periodo in cui la loro azione fu insistentemente messa in luce, i principali rappresentanti di questa generazione si sono dispersi e

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hanno cessato di perseguire i medesimi obiettivi. Il loro compito era terminato. Avevano pubblicamente rotto con l’arte di lusso che costitu­ iva l’impressionismo d’anteguerra e avevano tentato di orientare la sen­ sibilità contemporanea verso un ideale più amaro, più aspro e più forte. Ripudiavano apertamente la sensibilità e l’intenerimento. Facevano, per loro propria confessione, della musica «crudele». Non dimentichiamoci che persino un Sergej Diaghilev andava in cerca di ciò che chiamava partiture «méchantes». E ora, ecco arrivare la generazione che, su questo terreno reso in tal modo sgombro, si appresta a costruire2. Essa presenta per l’osservatore il più vivo interesse. È poco conosciuta. Si compone di studenti di musica, allievi di composizione che non hanno ancora superato i vent’anni. Ecco i veri “giovani” di cui occorre seguire da vicino le prime opere. I loro maestri scoprono in essi parecchie tendenze comuni. Si separa­ no nettamente dalla truppa dei pionieri e dei “guastatori” che li ha preceduti. Si preoccupano assai più di questi ultimi di apprendere soli­ damente il loro mestiere e di curare la scrittura. Non fanno più musica con i pugni. Lavorano più dei loro recenti progenitori, producono meno e si orientano sempre di più verso una sorta di neo-classicismo assai curioso. Questi giovanissimi non hanno più la stessa ripugnanza dei loro predecessori per le ricerche espressive e per le manifestazioni di una sensibilità lealmente dichiarata. E ancora difficile prevedere verso quali oggetti misteriosi il loro istinto li diriga. Si può tuttavia riconoscere nelle loro opere uno scrupolo di chiarezza, di pulizia, di franchezza, un amore per la vita e per la luce, una sorta di allegrezza interiore la cui generosità ha del merito. Non esiste presso di loro il partito preso della scrittura3. Che cosa faranno questi giovani? La loro situazione è singolarmente angosciante. La maggior parte delle grandi forme d’espressione musicale è vietata loro dalle circostanze. Il teatro lirico, nella sua forma tradizio­ nale, sta morendo. In tutto il mondo, la folla s’allontana da questa formula di spettacolo che a ogni costo bisogna rinnovare. Le attuali condizioni economiche non permettono loro di orientarsi verso le gran­ di opere sinfoniche e ancor meno verso quelle che richiedono la collaborazione di masse corali. Tutto ciò costa oggi troppo caro. La musica da camera non raccoglie più che pochi fedelissimi dispersi. E un momento duro per i compositori. Oramai non resta loro, per raggiungere il cuore della folla, che la voce di mille altoparlanti. Soltanto il disco, il nastro magnetico e l’antenna della T.S.F.4 possono salvare oggi la musica in pericolo. Sfortunatamente, gli editori di musica registrata hanno altre preoccupazioni. Il disco, invece di lanciare opere nuove, scritte con l’in­ tenzione rivolta particolarmente ad esso, non fa che consacrare successi commerciali. Il cinema sonoro, che potrebbe oggi rappresentare la gran­ de espressione lirica dell’arte, respinge con orrore la collaborazione dei

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veri musicisti e li lascia a malapena affacciarsi negli studi di posa. Resta la radio, che finora s’è disinteressata anch’essa del problema ma che non potrà più, ormai, restarvi a lungo indifferente. Riassumendo, ammiro l’ottimismo e il bell’equilibrio con il quale i miei fratelli minori affrontano la lotta contro la generale indifferenza. Il loro attuale stato di spirito ci permette di riporre in loro tutta la nostra fiducia. E ci piace immaginare che la necessità di vincere i terribili osta­ coli ammucchiati sulla loro strada li porterà a risolvere questo temibile problema con soluzioni ardite e nuove che a noi non è attualmente dato d’immaginare.

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Nijinsky, maestro coreografo1

Da mezzo secolo, l’arte coreografica aveva cessato di evolversi. Gli stessi raggruppamenti, gli stessi passi, le stesse attitudini che l’arte ro­ mantica aveva ispirato accompagnavano bene o male produzioni il cui stile se ne allontanava ogni giorno di più. Presto gli artisti, scrittori, scenografi e musicisti avrebbero cominciato a disinteressarsi di questo noioso coacervo di luoghi comuni al quale soltanto pochi virtuosi ecce­ zionali, sempre più rari, riuscivano ancora a dare un poco di luce. In Russia queste tradizioni desuete sembravano aver conservato qualche freschezza, grazie alla solida tecnica dei maestri coreografi. Dai teatri imperiali di Mosca e Pietroburgo sono usciti coloro che avrebbero rinnovato l’arte della danza, compito per il quale non bastava qualche tentativo isolato. E impossibile dimenticare Seherazada, le danze del Principe Igor’, Daphnis et Chloé, in cui Michail Fokine ordinò il tumulto e la furia delle danze asiatiche, animò meravigliosamente i fregi dei templi greci, men­ tre con Les sylphides ci restituiva tutta la bellezza piena di grazia del balletto romantico. Costui riunì tutte le caratteristiche della propria epoca: Delacroix, Devéria2, l’Ingres di gusto troubadour0 ne avevano ispirato il senso plasti­ co. Nelle realizzazioni di Fokine, nello stesso Petruska, non si vedevano ancora rappresentate le principali tendenze dell’inizio del XX secolo4, quelle di Cézanne, di Gauguin5, di Bourdelle6. Arrivò L’après-midi dun faune: fin dalla sua prima prova, Nijinskij aveva realizzato il balletto moderno. A dire il vero questa realizzazione, in sé perfetta, non lo era affatto in rapporto alla perfezione dell’opera che le era servita di pretesto. Morbido, sinuoso, avvolto in soffici tinte, di una fluidità senza prece­ denti, il poema sinfonico di Debussy contrastava singolarmente con la precisione, la rigidità, l’arcaismo spigoloso dell’interpretazione plastica. Mancava all’insieme quella coesione necessaria che si sarebbe rivelata qualche giorno più tardi nel Sacre du printemps.

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Qui l’intima collaborazione tra musicista e coreografo era evidentissi­ ma: la costruzione monumentale delle masse sonore e dei gruppi com­ patti; l’ossessione dei ritmi e quella dei movimenti; la violenza tragica dei timbri, degli atteggiamenti, l’implacabilità delle maschere, della linea plastica, della linea musicale; tutti questi elementi concentrati catturava­ no fin dall’inizio lo spettatore, lo trascinavano senza sosta in regioni splendide e terribili da cui bruscamente veniva precipitato, ansimante di mistica angoscia. Tutte le realizzazioni plastiche di qualche interesse venute dopo que­ sta le sono più o meno debitrici7. Come sovente accade, le più riuscite tra esse hanno fatto comprendere ai detrattori del Nijinskij coreografo che la sua opera fondamentale era un capolavoro.

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Parte seconda

Interviste

Le opinioni di Maurice Ravel sulla musica francese moderna1

È stato un gran piacere intervistare Maurice Ravel nella sua casa. La sua affascinante amabilità, la semplicità di modi, la personalità raffinata, ne fanno uno dei migliori gentleman di oggigiorno. Ho visto sul piano­ forte il suo balletto intitolato Daphnis et Chloé. Era stato iniziato in vista dell’ultima stagione dei Ballets Russes, ma non essendo stato terminato in tempo verrà rappresentato nel 1912, quando i Ballets Russes torne­ ranno a Parigi. Il 19 marzo, frammenti tratti da questo balletto — un Notturno, un Interludio e una Danza Guerriera — saranno presentati al Concert Colonne. Gli artisti dell’Opéra-Comique stanno allestendo ora un’opera buffa, L’heure espugnale, che vedrà probabilmente la sua prima rappresentazione in maggio. Ravel vuole che la musica di quest’opera accentui gli elementi buffoneschi indicati dal librettista Franc-Nohain. Dal momento che Ravel è uno dei capifila della moderna scuola musicale francese, ho raccolto alcune sue opinioni a questo proposito: la scuola odierna rappresenta l’evoluzione di quella slava e scandinava, così come è stata preceduta da quella tedesca, e la tedesca dall’italiana. La parola maladif (malata-nevrastenica) che si ode sovente pronunciare a proposito della musica moderna, è in ogni arte l’espressione favorita di coloro che hanno sviluppato le proprie idee sulla musica della generazio­ ne passata, e poi si sono fermati. Per costoro le idee nuove sono una grande sorpresa, uno choc; così essi non provano per le composizioni moderne la stessa sensazione appagante che segue l’ascolto di un brano ben conosciuto di Mozart o Beethoven. La musica di oggi non è deca­ dente, ma segna l’inizio di una nuova vita. Beethoven può essere consi­ derato un Mozart decadente, se lo si vede come colui che ha portato all’apice e alla estenuazione la vita espressa dalla musica di Mozart, così come l’arte bizantina può venir detta un’arte greca decadente in quanto porta al suo compimento l’arte greca. Mozart in musica, così come Raffaello in pittura, possedevano un certo grado di perfezione accompa­

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gnato, tuttavia, da una qualche aridità. Beethoven, che era meno perfet­ to, era anche meno arido. Forse che la nuova scuola manca di spontanei­ tà e di semplicità? Nessuno può essere così spontaneo da scrivere subito qualunque cosa gli capiti. Ogni opera artistica passa attraverso un impo­ nente lavoro di rifinitura. Quel che si realizza in Francia oggi è di gran lunga più semplice della musica composta da Wagner, dai suoi seguaci, dal suo più grande discepolo, Richard Strauss. Non possiede il giganti­ smo formale di Beethoven e Wagner, ma è dotato di una sensibilità che manca alle altre scuole. Le sue grandi qualità sono il nitore e l’ordine. Ciò costituisce una ricchezza immensa in campo musicale. C’è più con­ tenuto musicale Après-midi dun faune di Debussy (Ravel considera quest’opera un capolavoro) che nella stupefacente grandiosità della Nona Sinfonia di Beethoven. I compositori francesi di oggi lavorano su trame leggere, ma ogni tocco di pennello è d’importanza vitale. A proposito del termine “genio”, inteso come forza che coinvolge ogni popolo, ogni classe sociale, e appartiene al mondo intero, Ravel dice che «genio è ciò che porta qualcosa di nuovo». La musica francese d’oggigiorno è strettamente nazionale e personale. Questa è probabilmente la sua grande forza. Erik Satie è il capostipite della presente forma d’espres­ sione. Ravel ritiene Pelléas etMélisande un capolavoro. Comunque la sua lettura di questo dramma di Maeterlinck è diversa da quella di Debussy. Con estrema gioia Ravel ha detto: «Sono felice di vivere oggigiorno. Non mi sarebbe piaciuto vivere in nessun altro periodo della storia. Amo la nostra vita moderna; la vita della città, delle fabbriche, tanto quanto la vita tra le montagne e sulla riva del mare. Incontro la bellezza in ogni cosa; grande e piccola, umile e possente. La bellezza è ciò che ogni moderno artista deve sforzarsi di sviluppare fino al punto estremo».

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“L ’heure espagnole ”1 «É un ’opera, buffa», ci dice Maurice Ravel, l’autore dell’opera che sarà eseguita domani

Poiché so ch’egli appartiene all’avanguardia del nostro movimento musicale francese e ho ascoltato tempo fa gli accordi dolenti della Pavane pour une infante défunte, immaginavo Maurice Ravel, del quale si rappre­ senterà domani all’Opéra-Comique L’heure espagnole, come un giovane maestro serio e grave. Ho capito che m’ero sbagliato quando il compositore, rispondendo alla mia prima domanda sulla sua opera, ha affermato: «Quella che ho appena finito di scrivere è una specie di opera buffa». Ravel mi ha spiegato allora le sue intenzioni con una voce penetrante che non stupi­ sce affatto, tanto il suo viso mobile e nervoso, la sua figura minuta, i suoi gesti rapidi lo imparentano con i più impetuosi castigliani: «Ho scritto un’opera buffa che, mi piace pensarlo, sembrerà di ispirazione nuova. Notate che in Francia questo genere musicale non esiste. Offenbach ha fatto la parodia dell’opera, Tettasse2 al momento, con prodigiosa inven­ tiva, deforma ritmi, diverte con l’imprevedibilità della sua orchestrazio­ ne, ma non è musica che faccia ridere. Io ho voluto che certi accordi, per esempio, sembrino buffi come calembour stilistici. Ho “pensato buffo”, se così posso dire. «La storia di Franc-Nohain era deliziosa. In certo qual modo non ho cambiato nulla. La moglie dell’orologiaio Torquemada a Toledo aspetta uno studente suo amante, e alla fine, per farla breve, si concede a un mulattiere. Ecco la trama del breve atto unico. A parte lo studente che canterà serenate e cavatine di una melodicità volutamente esagerata, gli altri ruoli daranno, suppongo, l’impressione di essere parlati. «E quel che Musorgskij aveva voluto fare nel Matrimonio tratto da Gogol’, che però è rimasto incompiuto. «Vedrete, ho fatto il possibile perché la mia opera parli della Spagna, e la cadenza delle mie frasi musicali sarà data da numerosi ritmi di jota, di habanera, di malaguena. D’altra parte nutro per la musica spagnola la

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più grande ammirazione, e la mia giovinezza è stata cullata da habanera che non ho mai dimenticato. La scena, molto curata, evocherà una bottega di orologiaio a Toledo, e i costumi sono copiati da modelli di Goya. Ma, chiediamo noi, nel complesso delle vostre opere, quale importan­ za date ÀVHeure espagnole ? «Per me questo tentativo è davvero importante. Domani, oltre a de­ buttare in campo teatrale, io introduco nel teatro una concezione che mi pare personale, e che rappresenta la realizzazione scenica di quel che avevo già tentato con le Histoires naturellesy che sono state come studi per quest’opera buffa. Che dirà il pubblico? Credo che sarà un poco sconcer­ tato, dapprima. Ma me lo aspetto. Continuerò a lavorare secondo le mie idee. Preparo un’opera seria, La cloche engloutiey tratta da Hauptmann, e un altro grande lavoro buffo. Soprattutto, mi sforzo di fare cose molto diverse tra loro. Niente principi, niente principi che impongano proce­ dimenti. Ecco l’idea che ho sempre portato dentro di me, e con la quale, o con l’assenza della quale, ho scritto la mia musica»3. E una conclusione appropriata, mi pare, questa dichiarazione corag­ giosa degna di un giovane dalle idee audaci ma dal mestiere sicuro, di un musicista che al momento rappresenta una delle più belle speranze della scuola francese e il cui talento, ogni giorno di più, vuole esprimere la schiettezza, la naturalezza e la vivacità caratteristiche della nostra razza. E non è questa una misera ambizione, né un merito da poco. R. Bizet *

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“Ma mère l’oye”1 Un piccolo, originalissimo balletto di Maurice Ravel

Bisognerebbe cominciare quest’articolo con un «C’era una volta...», formula un po’ vecchiotta forse, ma sempre evocatrice di favole suggesti­ ve. Maurice Ravel me ne serberebbe senza dubbio rancore, poiché si ribella all’idea di aver scritto un pastiche nello stile del balletto vecchia maniera; la sua è opera di un musicista moderno, e si sa che la sensibilità dell’autore àeWHeure espagnole è tra quelle che più fanno onore alla giovane scuola. Ma mère Loye, che sarà rappresentata domani al Théàtre des Arts, ce lo proverà una volta di più. «Tempo fa ho pubblicato — ci ha detto — una raccolta di minuscoli brani per pianoforte con il titolo di Ma mère Loye. Erano stati concepiti per bambini. C’erano la Pavane de la Belle au bois dormant, Petit Poucet, Laideromette, impératrice des pagodes, Les entretiens de la Belle et de la Bète, Le jardin féerique. Ho dunque trascritto per lina piccola orchestra di 32 musicisti queste piccole fantasie musicali. Ho aggiunto qualche danza, e al tutto è stata data coesione grazie a una traccia fragile senza dubbio, ma sufficiente a far comprendere le mie intenzioni2. La princi­ pessa Fiorine danza, si punge e s’addormenta, una fata rende il suo sonno più gradevole suscitando in lei sogni graziosi. L’affascinante prin­ cipe viene a svegliarla e la conduce nel giardino incantato. Cala il sipario. «Ho voluto che tutto, per quanto possibile, fosse danzato. La danza è un’arte meravigliosa, e vedendo la signora Hugard mettere a punto i suoi passi me ne sono reso conto come mai m’era accaduto in precedenza. La signorina Hugon, che interpreterà la principessa, ha trovato anche lei qualche figura tra le più graziose, tra l’altro un’interpretazione danzata del “Réveil de la Belle au bois dormant” veramente squisita. «E non renderò mai giustizia a sufficienza al direttore Rouché, allo scenografo Drésa, a tutti coloro che valorizzeranno la mia opera». Maurice Ravel non mi avrebbe consentito di aggiungere gli auguri per il buon successo della sua realizzazione. È uno di quegli artisti sinceri che

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scrivono opere originali, con un tocco di fiera nobiltà, piene di colore e di vita. E anche questa sembra una favola. «C’era una volta un musicista...».

R. Bizet

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“La lince”: Maurice Ravel in campagna^

A Montfort-l’Amaury, in una casa con il terrazzo e il belvedere che domina la vallata, una casa alla cui porta occorre battere con forza, vengo accompagnato presso il musicista che sta lavorando. Piccolo, il viso glabro, lo sguardo sorprendentemente giovane sotto i capelli brizzolati, Ravel viene verso di me con un sorriso malizioso. — Far tanta strada solo per dirmi buongiorno? — Per dirvi buonasera! piuttosto. Bonsoir, che vuol conoscere i vostri progetti per l’inverno, le vostre idee sulPattuale crisi della musica operi­ stica, Bonsoiry che cerca di risolvere un grave problema e che, in nome dei Parigini... — Permettete..., mi risponde, i Parigini non hanno forse una gran musicalità. E li che va cercata la causa del guaio. Se negli altri campi dell’arte hanno una capacità di giudizio innata, perspicace, persino raf­ finata, dovete ammettere che manca loro in musica quella fede profon­ da, quell’amore un poco geloso e quasi religioso che muove l’affezionato pubblico di Bayreuth, o quella passione profana ma vivace che riecheggia in fondo al cuore di tutti i Viennesi. I Francesi, loro, sono dei dilettanti. «Così, quando mi vengono a dire che il bilancio della nostra Académie Nationale de Musique è deficitario, che la sovvenzione è insufficien­ te, che le esigenze sindacali sono eccessive, io ripenso al mio soggiorno a Vienna, da cui sono tornato qualche mese fa, quando si sono tenuti laggiù due concerti con opere mie. «Ricordo di aver visto drammi lirici allestiti con una sicurezza e un gusto perfetti entro scene molto semplici e sobrie; ricordo di aver sentito cantare in modo impeccabile, con un’incomparabile orchestra. «Ricordo inoltre che una sera, dopo la rappresentazione, la commis­ sione dei risarcimenti, di cui qualche membro era presente, ha concesso ai musicisti due chili di farina a testa per manifestare la propria soddisfa­ zione, e ne ho concluso che si può essere buoni musicisti e darne testi­

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monianza pur morendo di fame. Soltanto, bisogna essere artisti e non mestieranti. Ecco il mio parere. «Quando hanno eseguito le mie opere, ho scoperto che i musicisti avevano familiarità con la mia scrittura orchestrale, con le mie consuetu­ dini e la mia tecnica, e tutto è filato liscio; d’altronde non poteva andare diversamente». Ravel aggiunge, con il mento appoggiato sul palmo della mano: — E le prove, mio caro signore, costavano duecentomila corone! «Io non credo che la Francia sia capace di un tale sforzo, benché a mio parere il pubblico che s’interessa all’arte di un certo livello divenga ogni giorno più numeroso. A Vienna, l’Opera dà spettacoli ogni sera e fa il tutto esaurito; qui, con tre spettacoli a settimana, non ci si ripaga delle spese. Si faccia del cinema, gli altri giorni. Perché no? Perché non danno almeno dei concerti? Possiamo dire di avere una sala da concerti a Parigi? La Salle Gaveau, che tutti sono d’accordo a ritenere troppo piccola2. Quanto alla Salle Pleyel3, alla Salle Erard4, sono tetre e antiquate: la Salle des Agriculteurs5 non è una sala da concerto più di quanto lo siano il Velodromo o il Trocadéro»6. In quel momento, nei campi, s’ode il lamento di una tromba. — I miei progetti? Esclama Maurice Ravel. Sto lavorando a un’opera, una fantasia scritta su libretto di Colette, ma non è ancora a buon punto. Al momento sto terminando un brano per piano e violoncello7 che mi dà parecchio da fare, ma io amo le difficoltà. Venite a vedere...». Credo che stia per aprire il pianoforte, ma no. Mi accompagna attra­ verso un dedalo di corridoi, aprendo porte, incitandomi a seguirlo. Vedo un salotto cinese, una sala da pranzo con la piastrellatura ocra e seppia e con sedie stile Direttorio; vedo uno stanzino da lavoro con il piano a coda, accanto alla tavola, carico di soprammobili in stile neogo­ tico 1830, per cui il maestro confessa di perdere la testa; vedo un altro salotto, una piccola biblioteca ancora da terminare, poi scendiamo nel giardino; attraverso la stanza da letto d’estate, la stanza da letto d’inver­ no, risalgo tre scalini e mi ritrovo senza sapere bene come sul balcone. — Non male, vero? La mia “home”, mi ha chiesto. Sono stato io a disegnare tutti i progetti. Sono stato io a... Adoro il bricolage... Ora, i gomiti appoggiati alla ringhiera di legno, guardiamo ai nostri piedi la vecchia chiesa affollata e ronzante nell’ora dei vespri, e la campa­ gna che si stende fino all’orizzonte boscoso, in un chiarore dorato addol­ cito di vapori leggeri. — Che calma! dico. Come si deve lavorar bene in questa solitudine. — Sì, sospira lui, ma rimpiango un poco Parigi, i miei amici, la mia vita più attiva. Solo che, a Parigi, non riesco a scrivere nulla. — Mentre qui, replico io, tra questi alberi... Oh! Sentite... le campa­ ne...

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Interviste

— Le campane? Si vede che non ci siete abituato. — Vanno d’accordo con il paesaggio. — Sì, ma esagerano, soprattutto la domenica! — Eppure, riprendo io, sono malinconiche, serene, musicali... — Può darsi. E richiude un poco bruscamente la finestra. — Ma, cosa volete, ci son delle volte che mi rompono i c.....

Georges Le Fèvre

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Impressioni viennesi di un artista francese1 Maurice Ravel, capofila della più giovane generazione di compositori francesi, lascia la nostra città questo sabato come un apostolo della città musicale di Vienna e del suo illuminato pubblico. Egli si è entusiasmato della città e di tutto ciò che vi ha vissuto; è grato al pubblico di aver compreso perfettamente e generosamente accolto le sue opere, le quali — egli ne è ben consapevole — non sono concepite per incontrare ilfavore di ogni orecchio musicale

A Vienna ho vissuto autentici giorni di festa, ha confidato oggi Ravel a uno dei nostri giornalisti. Si sente che l’atmosfera della città è impre­ gnata di musica, che la città, riscaldata da uno splendente sole autunnale, “respira” musica. Inoltre, per i Francesi, Vienna ha sempre incarnato una concezione positiva della vita, una gioiosità spirituale e fascinosa. E tanto più triste conoscere le sofferenze provate da questa magnifica città per la quale — credetemi — i Francesi hanno la più grande e sincera simpatia. Quale rispetto bisogna avere per una popolazione che, malgrado tante difficoltà, ha conservato il suo gusto per le arti, e per la musica in particolare. E precisamente questa antica cultura che rende Vienna di­ versa dalle altre città. Ho avuto a che fare con parecchi musicisti, qui; ciascuno di loro era un grande artista. Alle prove, la comprensione è stata istantanea. I rapporti personali immediatamente intrecciati. E stata per me una gioia rara sentire le mie opere suonate in tal modo. Sono andato all’Opera, dove ho visto le tre opere in un atto di Puc­ cini2 e Die Frau ohne Schatten di Richard Strauss3. Mi sono entusiasmato per le prestazioni di quest’orchestra meravigliosa, per quest’eccellente insieme di cantori, per la grande arte scenica, in breve, per tutto ciò che si vede e si ascolta qui. Ogni artista creativo dovrebbe reputarsi felice di vedere le sue opere rappresentate in una tale istituzione, la cui eccellenza artistica è incomparabile. Sfortunatamente non ho potuto ascoltare l’opera di Mozart. Mozart! Per noi, membri della giovane scuola moderna, è il più grande dei mu­ sicisti, il musicista per eccellenza, il nostro dio! La generazione preceden­ te proclamava la propria fede in Beethoven e Wagner. Il nostro personale credo artistico è Mozart. Sulla via di ritorno verso Parigi, ho intenzione di trascorrere un giorno a Salisburgo, camminare sulle orme di Mozart, visitare la sua casa e i luoghi dove sono nate le sue opere immortali.

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Tra i compositori viennesi, Johann Strauss è e rimane in Francia il più popolare. Io ammiro e amo i suoi valzer, che tutti nel nostro paese conoscono. Sfortunatamente, le sinfonie e i Lieder di Gustav Mahler non sono penetrati nei nostri grandi centri musicali4. In compenso ven­ gono eseguite le opere di Arnold Schoenberg. Tra i giovani compositori, sono molto apprezzati gli autori di operet­ te. Ho ascoltato Blaue Mazur di Léhar5, una musica leggera ma genuina. Sono lieto che ci si prepari a rappresentarla a Parigi, e sono persuaso che sarà un grande successo. Tra i compositori di operette viennesi, anche Oscar Straus è conosciuto in Francia — in particolare grazie a Walzertraum 6; si può dire lo stesso di Leo Fall7. Non saprei come esprimere la mia ammirazione per il pubblico dei concerti viennesi, che sembra avere un’innata sensibilità per la musica. E vero che ogni musica ha la sua patria, ma il suo destino naturale è quello di essere internazionale e di unire le nazioni tra loro con i lacci dell’armonia. Possa la musica influenzare così lo spirito di riconciliazione in tutti i cuori! Una volta ancora, lasciate che vi confermi che la Francia guarda sempre a Vienna con sincera simpatia, e crede fermamente che la sorte dei Viennesi e degli Austriaci migliorerà presto. Quando si parlava, o si parla, di “correnti germanofobe”, l’espressione non include mai Vienna e l’Austria.

Vienna, 28 ottobre [1920]

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Ravel e la musica moderna1

«Sì, le cose riprendono vita, ora. On commence à se battre». Così si esprime Ravel a proposito della musica parigina odierna, utilizzando l’asciutta, aforistica espressione francese che perde nella traduzione il suo vigore. Un uomo piccolo, magro, con occhi vivaci e lineamenti regolari, una personalità segnata dagli stessi tratti intellettuali che rendono carat­ teristica la sua arte. Tuttavia egli non ammetterà mai che la sua musica è intellettuale, e trae conforto dall’esempio di Poe nell’affermare che l’arte si colloca a eguale distanza dall’intelletto come dalla sensibilità. Appena il suo sguardo comincia a spaziare sui vasti campi della musica europea, si vorrebbe trascrivere la sua conversazione parola per parola. Ravel si definisce antidebussysta, pur collocando Debussy al posto d’onore per la grande influenza creativa esercitata sulla moderna musica francese. Gounod e Chabrier, insieme a Liszt, sono state le fonti da cui è derivata la maggior parte della musica francese. Non definirebbe De­ bussy impressionista, dal momento che impressionismo è un termine preso a prestito da un’arte affine, con pochissime applicazioni in musica. Debussy ha mostrato una négligence de la former ha compiuto per mezzo di percezione intellettuale ciò che Chopin aveva fatto secondo ispirazio­ ne o intuizione. Così, nelle forme più ampie ha mostrato una carenza di capacità architettonica. In un capolavoro come L'après-midi dun faune, dove ha raggiunto la perfezione, è impossibile dire in che misura quest’ultima sia stata costruita.

Ravel e Debussy Ravel sostiene di aver seguito Debussy nell’ideale dell’economia di materiali sonori, ma di averlo combattuto nel suo modo di pensare le forme. A dire il vero, nella sua concezione della melodia, della linea

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Interviste

melodica, intesa come qualcosa di diverso dal thème développé2 egli si considera un mozartiano. E ora impegnato a scrivere una Fantaisie lyriqueòc\\e dovrebbe essere una mescolanza di tutti gli stili, dal music-hall al lirismo puro. Egli ritiene che l’opera nel vecchio senso del termine sia morta, e che la sfida del futuro muova nella direzione indicata dal Coq d’Orl

Il nazionalismo in musica

Prima di lasciarsi indurre a parlare in modo più personale, Ravel ha fatto alcune interessanti osservazioni sul futuro della musica. Mentre noi ci stiamo probabilmente muovendo verso una forma di internazionali­ smo sociale, la musica sta diventando sempre più nazionalista. Vaughan Williams, ad esempio, è un compositore mille miglia lontano dalle in­ fluenze della scuola francese, e Schoenberg, «una delle figure più grandi di questo tempo», in quanto tedesco ha seguito una linea di sviluppo sfiorata solo a malapena dalla musica francese, di natura essenzialmente latina. La scuola francese ha percepito questa nuova forza solo di riflesso, attraverso Stravinsky. Ravel non ritiene inoltre che esista in Francia qualcosa di analogo al movimento inglese che trae ispirazione dalla musica popolare. La musica francese ha subito sempre più l’influenza della let­ teratura; la musica in Francia non è mai stata un’arte popolare. Per quel che riguarda i parigini, essi sono guariti dall’apatia musicale in cui erano caduti dopo la guerra, quando applaudivano a caso sia Ambroise Thomas5 sia Schoenberg. «A quell’epoca», dice Ravel, «ero quasi disperato. Ora vi sono cose che piacciono e cose che non piaccio­ no, stiamo riprendendo a vivere. Enfm, on commence à se battre».

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Ilfestival di musica francese 1 Intervista a Ravel

Coloro che conoscono Ravel solamente attraverso i suoi ritratti (in particolare quelli che sono stati pubblicati nella breve monografia che Roland-Manuel gli ha dedicato), con il suo colletto alto come quello di un’uniforme, lo immaginano alto e sottile. Invece è piccolo, con un corpo dalle proporzioni eccessivamente minute e un viso che pare scol­ pito da un intagliatore. E un uomo semplice, amabile e vivace. Mi sono intrattenuto brevemente con lui, e mi ha parlato con semplicità, come se stessimo prendendo il caffè insieme, esprimendosi liberamente. Quando ha un’obiezione da muovere, lo fa con modestia assoluta; non è né aggressivo né polemico nei propri giudizi. Abbiamo parlato della Valse, che non ha ancora ascoltato nell’esecu­ zione della nostra orchestra, e a proposito della quale era molto curioso: «Non la suonano bene a Parigi. La fanno assomigliare troppo a un valzer viennese», dice. Gli dico che in Olanda si ha un’idea diversa della Valse, e che desidero conoscere la sua interpretazione. «Avete composto La Valse, gli chiesi, ispirandovi a impressioni ricevu­ te nel vostro ultimo soggiorno a Vienna?» (Ravel era venuto a Vienna due anni prima su invito di «Der Anbruch»2). «No, l’avevo già compiuta prima di allora. Essa non ha nulla a che vedere con la situazione presente a Vienna e neppure contiene qualche significato simbolico a questo riguardo. Componendo La Valse non pensavo né a una danza di morte né a una lotta tra la vita e la morte. (L’argomento del balletto si colloca nel 1855, cosa che impedisce una supposizione del genere.) Ho cambiato il titolo, Wien, sostituendolo con La Valse, che corrisponde meglio alla natura estetica della composizione. E un’estasi danzante, vorticosa, quasi delirante, un turbine sempre più appassionato, sino allo sfinimento, di dan­ zatrici che si lasciano sopraffare e trascinare unicamente dal valzer». «Avete intenzione di scrivere un’altra musica per il balletto? Credete nell’avvenire del balletto?».

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Interviste

«No, il balletto è oggi in declino, e i Ballets Russes non sono più buoni come un tempo. Rispondo invece di sì se ci si ricollega al XVIII secolo». «E il “concerto-spettacolo”3, che piace tanto ai giovani?». «E una forma artistica autonoma. Senza dubbio ha delle possibilità, ma io credo che l’avvenire più propizio sia riservato al cinema. La musica può unirvisi con reciproco vantaggio. Honegger ha intrapreso qualcosa del genere sincronizzando il movimento cinematografico e la musica». «Che cosa pensate dei giovani compositori, i Sei, per esempio?». «Dopo l’impressionismo, sono comparse nuove tendenze. I giovani cercano qualcosa di diverso dagli impressionisti, che avevano già trovato il loro maestro nella persona di Debussy. Milhaud e Poulenc sono incon­ testabilmente compositori di grande talento. La loro guida spirituale non è Debussy, ma Erik Satie». «Pensate che Satie sia un musicista di grande importanza?». «Satie esercita un’influenza spirituale, ma non è perfettamente since­ ro. La qualità più importante in un compositore è la sincerità4. L’in­ fluenza di Stravinsky, da un punto di vista tecnico, è stata assai più profonda sui nostri giovani compositori». «Vi siete recentemente espresso in termini molto favorevoli su Schoenberg. Lo considerate il più grande compositore moderno?». Dopo aver riflettuto, Ravel dice: «Sì, è un musicista sincero. Il suo Pierrot lunaire è superbo». «Il pubblico olandese non ama la sua musica», dico io. «Lo capisco. Succede la stessa cosa in Francia, benché i giovani ap­ prezzino e studino la sua musica. Ma questa non li influenzerà, perché ha troppo poche affinità con lo spirito francese». Gli ho parlato allora del Festival di musica francese, che si sta svolgen­ do in questo momento. «Vi sembra che i compositori presenti siano soddisfatti dell’interpretazione che la nostra orchestra diretta da Mengelberg ha dato delle loro opere?». «L’orchestra di Amsterdam suona meravigliosamente e Mengelberg è un grande musicista5. Tutti abbondano di elogi. Roussel è molto conten­ to dell’interpretazione di Pour unefète deprintemps data giovedì sera. Gli ottoni, però, avrebbero potuto essere un poco più discreti». (Certo, ho pensato io, è la vecchia critica sul peso eccessivo dato da Mengelberg agli ottoni.) «Non è un peccato che la giovane generazione non sia un poco più rappresentata, e i vecchi un po’ meno? Non sarebbe stato meglio inserire nel programma un’opera di Roland-Manuel o di Honegger?». «Eh, sì, forse», dice Ravel. «I giovani sono despetits oiseauxG». «E su che cosa lavorate, in questo momento?», gli ho chiesto alla fine. «A una fantasia per pianoforte e orchestra tratta da Le Grand Meaul-

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nes. È un breve romanzo che parla di un ragazzino che sogna grandi cose e finisce per diventare direttore di un piccolo museo».

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Maurice Ravel a Londra1

Si ritiene che la maggior parte dei Francesi degni di questo nome sappia star bene solo a Parigi. Maurice Ravel, il più grande fra i compo­ sitori francesi contemporanei, e uno degli esponenti più straordinari del mondo musicale, è un’eccezione. Dopo aver terminato il suo impegno di sabato ed essersi guadagnato il meritato guiderdone d’elogi, non è ritornato a Parigi. Al contrario, ha trascorso traquillamente il fine setti­ mana proprio come un buon inglese, benché io non creda che giochi a golf, ed è ancora occupato a svagarsi a Londra. Quando l’ho incontrato, ieri, m’è parso elegante e di ottimo umore come non mai. Ama Londra quasi quanto i londinesi (a giudicare dal ricevimento di sabato al Queen’s Hall) amano lui. E ha lodato senza riserve l’orchestra del Queen’s Hall2. «Assolutamente di prima classe», ha detto, «e rapidis­ sima nel cogliere un’idea. Non potrei desiderare un gruppo migliore di esecutori». Ho insinuato che i critici francesi hanno la tendenza a trovare i nostri archi un poco rozzi e aspri. Ma Ravel non è per nulla d’accordo. Ha aggiunto di essere stato particolarmente colpito dalla disposizione dell’orchestra del Queen’s Hall. Gli è piaciuto vedere i violini tutti insieme e le arpe ben di fronte a loro sulla sinistra. Sebbene non parli inglese, ha trovato un eccellente traduttore tra i violoncellisti.

Programmi e progetti Ravel parla di argomenti diversi; delle marionette, che ha trovato incantevoli — s’è parlato della possibilità di rappresentare con loro la suite Ma mère Loye, poi accantonata considerato che la storia era, una volta ancora, quella della Bella addormentata nel bosco — di un possi­ bile viaggio in America, di un altro qui da noi l’anno prossimo, quando potrebbero venire organizzati alcuni concerti di sue musiche da camera.

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Non è un direttore, comunque. Quando gli ho chiesto di parlare del suo lavoro, ha sorriso. Da un anno non scrive nulla. Il perché, non lo sa. «Je m'ennuie», accompagnato da un altro sorriso e un’alzata di spalle pieni di sottintesi per un artigiano così minuzioso e un artista così attento. Tuttavia, ha lavorato a qualche trascrizione orchestrale da Debussy3 — alcune di esse sono state eseguite da Koussevitzky nel concerto da lui diretto alla London Symphony Orchestra. I capolavori ancora nella sua penna, poiché non ha ancora compiuto cinquant’anni, mostra di considerarli con lo stesso obiettivo distacco della sigaretta che tiene tra le dita. E chiaro che Ravel, da persona sensa­ ta, crea solamente quando il desiderio di farlo diviene troppo imperioso per resistergli.

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Un celebre compositore francese a Londra1 Maurice Ravelparla deljazz. Scritto da musicisti di valore esso non va disprezzato. Qualche parola di apprezzamento sulla musica britannica. Ilprossimo lavoro del celebre compositore francese sarà un ’opera

È un ometto dal viso sottile e intelligente, con una capigliatura che sta cominciando a incanutirsi, pettinata all’indietro. E vestito di una cami­ cia azzurra con un gran colletto floscio, una giacca Norfolk marrone chiaro e scarpette bordò, e parla il francese con grande loquacità. Questa mattina ha disceso la scala e ha raggiunto un giornalista dello «Star» per la colazione in una casa di Holland Park. Si tratta di Maurice Ravel, il compositore venerato nel mondo musicale francese quanto lo sono Richard Strauss in Germania e Stravinsky a Vienna.

Due anni di riflessione Ravel, giunto qui grazie a R. Mayer, deve dirigere un’orchestra spe­ cialmente allestita al Queen’s Hall, giovedì pomeriggio, in occasione di un festival consacrato alla sua opera. «Se lavoro?» chiede. «Non ho scritto una nota da due anni a questa parte. «Quando compongo — sto pensando a una fantasia lirica che si allontanerà veramente dall’opera convenzionale e tradizionale, con la quale spero di realizzare l’opera più importante della mia vita — io vado a seppellirmi a Rambouillet2, perché a Parigi è impossibile creare». Una nuova tournée mondiale

«Perché?» chiede ingenuamente il giornalista. «Perché a Parigi non mi lasciano tranquillo. Autori, direttori, compo­ sitori, sembra che tutti mi vogliano perseguitare, allora mi rintano in una foresta per evitarli. L’anno prossimo me ne andrò ben lontano: sono invitato a dirigere le orchestre del Nuovo Mondo — New York, Phila­ delphia, Chicago, Boston, Pittsburg e Saint Louis».

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Ravel — Scritti e interviste

La Francia musicale

«Come vi sembra la vita musicale a Parigi e a Londra dalla fine della guerra?». «Oh!», dice Ravel, «dopo la guerra la Francia ha sviluppato molto interesse per la musica. E davvero una nazione musicale, ora. Durante la guerra essa ascoltava qualunque cosa, non importa se ispirata o no. «I nuovi ricchi si sono precipitati nelle sale da concerto perché pensa­ vano che si dovesse far così. Era una sorta di snobismo, se preferite; ma poiché sono francesi, hanno presto acquisito il gusto della musica, e ora, dice ridendo allegramente, sanno assimilare persino Schoenberg».

Le celebrità britanniche «Per quanto riguarda la musica in Inghilterra, state sviluppando una vostra scuola, cosa che non s’era più vista dai tempi di PurcelP. «Elgar4 è un musicista di caratura internazionale. Bax5, Holst6, Lord Berners7, Arthur Bliss8 e Vaughan Williams9 — in particolare Williams — conducono a termine ciascuno un lavoro personale e distinto, ma contribuiscono tutti a creare uno stile inglese ben definito, senza dubbio con influenze francesi, russe e italiane».

La “Banana Music” in Inghilterra Maurice Ravel rifiuta di lasciarsi trascinare sul terreno della Banana Music, limitandosi ad affermare che non bisogna volgere in ridicolo le melodie popolari. «Non bisogna disprezzare», dice, «il jazz americano nel suo complesso. «Il jazz migliore è scritto da buoni musicisti e contiene melodie molto interessanti. Esse vengono dai Neri, senza alcun dubbio. Ma non sono certo che la loro vera origine non sia in parte inglese e in parte scozzese. «State certi che quando una musica popolare diviene musica naziona­ le, almeno non ha niente di artificiale».

Ravel oggi

Ravel ha praticamente preso il posto di Debussy e di Saint-Saèns. La sua Rhapsodic espagnole è ormai un classico; lo stesso vale per Daphnis et Chloé, il balletto Ma mère Boye, le sue Vaises nobles et sentimentales e La Valse, che fanno parte del bagaglio di conoscenze di ogni musicista.

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Il grande musicista Maurice Ravel parla della sua arte1

Fisicamente, Ravel assomiglia molto a Stravinsky. La stessa figura piccola, snella, svelta, la stessa grande bocca, il naso prominente, e un volto interessante, dove si riflettono in modo identico cultura e intelli­ genza. Ravel ci riceve in una stanza dell’Hòtel de Paris; indossa un pigiama di seta nera. E seduto al tavolo, sta lavorando a una sua composizione. Sono le undici e mezzo del mattino; dalla finestra aperta entrano la luce del giorno e i rumori della Puerta del Sol2. — Com’è possibile, gli chiediamo, non approfittare di un tempo così splendido per godersi Madrid? E tanto urgente il vostro lavoro?

Ravel e la Spagna «In effetti è un lavoro urgente; il mio editore lo sta aspettando. E un pezzo di virtuosismo per violino3, nello stile dì Sarasate4». — E conoscete così bene Madrid che non vi interessa uscire a que­ st’ora? «No, non la conosco; è la prima volta che vengo in Spagna5. In realtà è una vera ingratitudine da parte mia, perché senza Madrid probabil­ mente io non esisterei. I miei genitori si sono conosciuti a Madrid. Mio padre era un ingegnere ferroviario, di nazionalità francese, e mia madre una basca di Saint-Jean-de-Luz; ma probabilmente di origine spagnola. Mia madre mi faceva addormentare cantandomi guajira6. Forse è per un sentimento atavico che mi sento così attratto dalla Spagna e dalla musica spagnola». — Che cosa avete visto finora? «Solo il Museo del Prado. Un’ora dopo essere arrivato a Madrid mi sono precipitato al Prado. Che pittore straordinario è Ribera! E com’è

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bella la sala di Velazquez! Devo ritornare al museo per conoscere meglio E1 Greco e Goya».

I compositori che preferisce

— Quali sono i musicisti contemporanei che preferite? «Forse Arnold Schoenberg. Esercita una grandissima influenza sui musicisti tedeschi e, attraverso Stravinsky, arriva perfino ai francesi. Schoenberg è viennese ed ebreo, e per questa ragione è meno freddo, meno cerebrale, meno astratto di un vero tedesco, per esempio di un Reger7. Il Pierrot lunaire, di Schoenberg, ha suscitato in me un’impressione splendida, insieme terribile e dolorosa. Strauss è un genio romantico, tipicamente tedesco, ben diverso da noi. Tra i russi, mi piacciono molto Stravinsky e Prokof ev8. In Francia abbiamo Darius Milhaud, non il Milhaud di La brebis égarée\ che è un’opera giovanile, ma quello di Protée™ e dei Cinq Etudes per pianoforte e orchestra11 ; poi ci sono Poulenc e Auric12; Germaine Tailleferre, la cui opera è impregnata del fascino femminile — una virtù niente affatto disprezzabile in musica — e, infine, Honegger, oriundo della Svizzera tedesca, ma nato e cresciuto in Francia, la cui arte deriva dalla Francia e dalla Germania, e che per una sorta di atavismo germanico predilige tutto quanto è colossale. E in Spagna avete Manuel de Falla, uno dei più grandi musicisti del mondo». — E nelle generazioni precedenti, quali sono i vostri preferiti? «Credo che Gounod abbia esercitato una grande e salutare influenza su tutta la musica francese. L’autore del Faust e di Philémon et Baucis è stato il maestro di Chabrier, di Bizet, di Lalo, di Fauré e di molti altri. Senza Gounod, forse non ci sarebbe la musica francese moderna. Provo un grande affetto per la Pénélope di Fauré, dagli effetti tutt’altro che teatrali, ma squisitamente musicali. Tra i classici francesi preferisco Cou­ perin a Rameau. Quest’ultimo ha vissuto in un’epoca troppo intellettua­ le; in lui si nota troppo l’aridità del suo secolo». — Come giudicate Wagner? «Oggi che siamo ormai liberi, che non siamo più infastiditi dalla terribile influenza di Wagner possiamo parlare di lui senza pregiudizi e affermare che è stato davvero un grande musicista, con insieme grandi pregi e grandi difetti. La sua maggiore deficienza è l’orchestrazione, che non gli deriva, come erroneamente si crede, da Berlioz o da Liszt, bensì da Meyerbeer, con la differenza che in questa sorta di musica militare Meyerbeer si è dimostrato più abile di Wagner». — E Verdi? «Di Verdi mi piace solo il primo periodo, l’autore della Forza del destino e di Un ballo in maschera10. Più tardi diventa troppo popolaresco,

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Interviste

e francamente mi pare pessimo quando, per seguire la moda, si mette a imitare Wagner. In ogni caso, Verdi mi sembra inferiore a Bellini». Parlando dei russi, gli traduco l’intervista che avevo fatto un mese prima a Stravinsky, e gli chiedo che cosa ne pensa dell’ammirazione che il suo grande collega prova per Cajkovskij e del disprezzo che manifesta per Rimskij-Korsakov. «Il fanatismo di Stravinsky per Cajkovskij», ci risponde Ravel, «è quasi paradossale. Lo schiaccianoci è un’operina graziosa, ma meno importante, ad esempio, di Coppélia e di Sylvia, di Delibes14. Cajkovskij è il meno russo dei russi, e per tale motivo è quello che c’interessa di meno. Musorgskij gli è di gran lunga superiore. Quanto a RimskijKorsakov, ritengo che Stravinsky si dimostri ingrato verso di lui, che è stato il suo maestro. La Pskovitana, di Rimskij, è stata scritta nello stesso periodo e allo stesso tavolo del Boris Godunov'5 di Musorgskij, e in alcune parti l’ispirazione è la medesima. Oggi sarebbe difficile dire quale dei due musicisti abbia influenzato l’altro. E non si dimentichi che è stato Rimskij a orchestrare buona parte delle opere del Gruppo dei Cinque16». — Chi è, secondo voi, il più grande dei musicisti? «Secondo me è Mozart. Mozart è la perfezione: è greco, mentre Beethoven è romano. Greco significa grande, romano colossale. Io preferisco la grandezza. Non v’è nulla di più sublime del terzo atto dell’/^m^^ di Mozart».

La sua autocritica __ «Contrariamente alla politica, in arte sono nazionalista. So di essere un musicista eminentemente francese; direi perfino che sono un classi­ cista. So anche di averci pregi e i difetti degli artisti francesi. Noi non sappiamo né vogliamo generare opere colossali, siamo sempre un po’ cerebrali; eppure, entro i nostri limiti, sovente arriviamo alla perfezione. Credo che nell’arte la sincerità sia il difetto peggiore, perché la sincerità esclude la scelta. L’arte deve correggere i difetti della natura. L’arte è una bella menzogna. L’aspetto più interessante dell’arte è superare le difficol­ tà. Il mio maestro di composizione è stato Edgar Allan Poe, per l’analisi che ha fatto alla sua meravigliosa poesia The Raven. Poe mi ha insegnato che la vera arte sta nel raggiungimento del perfetto equilibrio tra intel­ ligenza pura e sentimenti. Il mio primo periodo è stato di reazione contro Debussy, contro l’abbandono della forma, della composizione, dell’architettura. «Ecco qual è, in poche parole, la quintessenza della mia teoria. Se lo

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desiderate, ora vi parlerò delle mie opere. Ho una predilezione per i Trois Poèmes de Stéphane Mallarmé, un’opera che evidentemente non sarà mai popolare, in quanto vi traspongo i procedimenti letterari di Mallarmé; secondo il mio gusto personale, è il più grande poeta francese. Nella Sonata [per violino e violoncello], che è una vera e propria sinfonia per due strumenti, faccio sperimentazioni nuove e interessanti; nel finale imito un rondò di Mozart. La mia opera buffa in un atto, L ’heure espagnole, scritta con Franc-Nohain, è abbastanza nota. In questo momento sto lavorando con Colette a un’opera originale, una sorta di fantasia lirica, dove gli stili sono tutti mescolati, e vanno dalla grande lirica al musichall». — Come giudicate la vostra Valse e l’interpretazione che ne ha dato Koussevitzky? «Koussevitzky è un grande virtuoso che dà alle opere un’interpretazio­ ne personalissima, a volte ammirevole, ma talvolta errata. Credo che con l’interpretazione della mia Valse non abbia colto nel segno. Qualcuno ha visto nella Valse l’espressione di un evento tragico: c’è chi ha detto che rappresentava la fine del Secondo Impero; secondo altri, la Vienna del dopoguerra. E un errore. Certo, La Valse è tragica, ma nel senso greco: è il volteggiare fatale, è l’espressione della vertigine e della voluttuosità del ballo condotte fino al parossismo. La Valse è destinata al palcosceni­ co, però voglio serbare la prima rappresentazione per Vienna, la città del valzer romantico».

André Révész

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Anteprima1 Al Teatro dell’opera di Monte-Carlo: “L’enfant et les sortileges” Testo di Colette, musica di Maurice Ravel

Un’opera dovuta alla collaborazione di due artisti tanto personali quanto Colette e Maurice Ravel stuzzica in anticipo la curiosità, e si ha già la certezza che, per quanto profondamente nuova sia quest’opera, non potrà mancare di regalarci il fascino della più delicata fantasia. L’enfant et les sortilèges è un racconto fiabesco dal candore ingenuo, non privo di ironia, un sogno con sfumature di incubo, e se talvolta dà l’impressione di essere un piccolo dramma, si tratta sempre della più graziosa commedia; l’irreale non si congiunge in esso alla realtà se non per il fatto di costituirne la logica conseguenza: si direbbe una graziosis­ sima immagine di Epinal2 disegnata e colorata da miniaturisti geniali. Per quel che riguarda il testo, Colette non ha dovuto far altro che lasciar correre liberamente la sua immaginazione e sensibilità. Per quel che riguarda la musica: — Più che mai, ci dice Maurice Ravel, sono a favore della melodia; sì, la melodia, il bel canto, i vocalizzi, il virtuosismo vocale, sono per me una scelta precisa. Se nATHeure espugno le, l’azione teatrale in sé esigeva che la musica fosse solamente il commento di ogni parola e di ogni gesto, qui, al contrario, alla fantasia lirica era necessaria la melodia, nient’altro che la melodia. Peraltro, senza seguire come modello alcuna scuola. La partitura MAEnfant et les sortilèges è una mescolanza molto omogenea degli stili di ogni epoca, da Bach fino a... Ravel...3! Questo dall’opera all’operetta americana, passando per lo stile di jazz-band. La penultima scena, per non citare che un dettaglio, è una combinazione voluta di corale antico e di music-hall. La fantasia del testo non sarebbe servita a nulla se non fosse stata sostenuta, anzi accentuata, dalla fantasia della musica. Ma smettiamola di parlare di un’opera che, fino ai tre colpi4, resta puramente e semplicemente l’oggetto del nostro lavoro di scena. Non saprei come esprimere la mia profonda riconoscenza per Raoul Gunsbourg. Senza di lui questo lavoro, iniziato dal 1920, ma interrotto,

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non sarebbe stato terminato così presto. Ma, la scorsa primavera, è venu­ to a chiedermi un seguito dNHeure espagnole, mettendo a mia disposizio­ ne le risorse eccezionali del suo teatro; questo, in fede mia, m’ha fatto decidere5. Perché per allestire L’enfant et les sortilèges ci vuole un teatro come l’Opera di Monte-Carlo e un impresario come Gunsbourg. Infatti la nostra opera esige un allestimento scenico straordinario. I ruoli sono molto numerosi, la fantasmagoria costante. Secondo i principi dell’ope­ retta americana, la danza è continuamente e intimamente mescolata all’azione. Ora, l’Opera di Monte-Carlo possiede una straordinaria trou­ pe di danzatrici e danzatori russi, meravigliosamente diretti da un prodi­ gioso coreografo, Balanchine6. Il ruolo dell’Enfant ha trovato un’inter­ prete ideale nella signorina Gauley. E tutti i ruoli fiabeschi, il Gatto, lo Scoiattolo, la Poltrona, la Pendola, il Fuoco, L’Aritmetica, la Principes­ sa, eccetera, sono interpretati da artisti come di rado se ne vedono riuniti a lavorare: le signore Bilhon, Foliguet, Dubois-Lauger, Orsini, i signori Warnery, Lafont, Fabert, Dubois. E non dimentichiamo il ruolo essen­ ziale dell’orchestra, di rara perfezione, né il suo direttore, Victor de Sabata, che per fortuna dei musicisti è anch’egli musicista di vaglia e che, per le sedute di studio Enfant et les sortilèges^ mi ha portato la colla­ borazione non solo del suo gran talento, che ammiro, ma anche della sua assoluta devozione, di cui gli sono riconoscente7.

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L "arrivo di Maurice Ravel1 Un'intervista con il grande musicista e uomo di spirito

Maurice Ravel, il grande compositore francese, che ascolteremo per la prima volta questa sera a Copenaghen, è arrivato ieri sera da Amburgo, dove giovedì scorso ha ricevuto un’ovazione. E sceso dal treno delle 7 da Gedser2, in compagnia della cantante di origine svedese Louise Alvar, che interpreterà qui in concerto le sue melodie, accompagnata al piano­ forte dal compositore — onore di cui pochi cantanti possono godere. Tanto la signora Alvar è alta e bionda quanto Ravel è piccolo e bruno. Ravel, che è persona dai modi assai semplici, comincia appena sceso dal treno a manifestare la sua ammirazione per Louise Alvar. Non sa­ prebbe lodare a sufficienza la sua competenza, il suo vigore e il suo talento. Noi facciamo osservare che, se Ravel l’ha scelta, non ci dovreb­ bero essere dubbi sul talento di cantante della signora Alvar. «Non sto parlando della sua voce, ma del suo talento per le lingue. E straordinario viaggiare con qualcuno come lei; dovunque andiamo può comunicare con tutti. Conosce ogni lingua, oltre a quella musicale». Che cosa ascolteremo stasera? «Che cosa suoniamo?» chiede Ravel al musicologo Jean-Aubry e al­ l’agente Wilhelm Hansen, entrambi arrivati per ricevere il compositore alla stazione. «Il concerto», risponde amabilmente Jean-Aubry, «comincerà con il celebre Quatuor à cordes di Ravel, che gli amburghesi hanno osannato giovedì scorso. Ravel suonerà la sua Sonatina poi accompagne­ rà Louise Alvar al pianoforte nei quattro Chants populaires. La signora Alvar canterà anche Nicolette\ un altro brano di Ravel, e forse un’aria della sua ultima opera L’enfant et les sortilèges4». E l’opera programmata all’Opéra-Comique e al Theatre de la Monnaie a Bruxelles? «Sì», risponde Ravel. «Ho potuto assistere a una sola prova prima della mia partenza. L’opera era stata in precedenza allestita a Monte-Carlo». Di che genere d’opera si tratta?

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«Chiamatela come volete. Una fantasia linea, un'avventura. Sono le vicende di un bimbo cattivo che è stato messo in castigo. Colette ha scritto il libretto, e la musica va dallo stile dell’opera a quello del musichall. A me piace lavorare liberamente e senza a priori. Ho sempre fatto così. Non appartengo dunque ad alcuna scuola né ad alcun gruppo in particolare. Sono sempre stato libero. Certo, il mestiere l’ho imparato. Dall’età di diciassette anni, ho avuto professori come Gabriel Fauré, Charles de Bériot — il figlio della Malibran5— e André Gédalge, a cui devo la mia formazione tecnica. «Se devo comporre su richiesta — come quando ho partecipato al Prix de Rome — le cose non vanno bene. Ho scritto la peggiore delle musiche e ho ottenuto solamente un terzo premio. L’ultima volta che ho partecipato al concorso, sono stato eliminato per aver presentato una cantata parodistica intitolata Lèsclave favorite de Sardanapale, in un’epo­ ca in cui avevo già composto il mio Quatuor e ShéhérazadeG. Ma io sono sempre stato così». Ravel sospira — e ride. Quale ritenete sia la vostra composizione più grande? «Le mie opere più importanti sono Ma mère l’oye e Daphnis et Chloé, tutt’e due balletti. Ho scritto molta musica da camera, un’opera, Uheure espagnole e Adelaide. L heure espagnole è un opéra-comique che è stato messo in scena all’Opéra-Comique e all’Opéra. Anche la mia ultima opera sarà data all’Opéra-Comique. Dovreste ascoltare Uenfant et les sortilèges a Copenaghen. Dicono che sia nello stile di Hans Christian Andersen, cosa che non potrei certificare di persona. Io adoro Andersen, ma adoro anche tutte le avventure. Mi piace raccontare avventure in musica!».

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L "influenza scandinava sui compositori francesi1

In questi giorni abbiamo fatto la conoscenza di uno dei più famosi compositori contemporanei, quando Maurice Ravel, accompagnato dal­ la cantante svedese Louise Alvar, è arrivato a Stoccolma per visitare la Società della Musica da Camera e per dirigere il giovedì alcune sue opere alla Società del Concerto2. «E la prima volta che sono in Scandinavia», dice Ravel, durante una conversazione con un collaboratore del giornale «Svenska Dagbladet». «Il soggiorno però sarà breve, perché già fra una settimana continuerò la mia tournée in Inghilterra e Scozia. Poi, di nuovo a casa — al lavoro». Per lavoro Ravel intende, naturalmente, la composizione. «Da quando avevo dodici anni», continua, «e fino a ora che ne ho cinquanta non ho fatto nient’altro che comporre. Ho imparato a suona­ re il pianoforte da Bériot e la tecnica della composizione da Gabriel Fauré. Chi mi ha ispirato e influenzato...? Amavo Mozart e ammiravo Debussy. E lo faccio ancora! Che altro...?». La musica scandinava è stata apprezzata in Francia? «Mi dispiace dirlo, ma da parte del grande pubblico musicale vi è stato un certo disinteresse. Ciò che ho notato è che Grieg3 e Svendsen4 sembrano aver esercitato un’influenza maggiore sulla composizione fran­ cese che su quella scandinava in generale5. Tra i vostri modernisti qui in Svezia ne conosco di fatto uno solo, Viking Dahl, la cui Maison de Fou a suo tempo fu rappresentata dalla Compagnia del balletto svedese6. La sua musica mi sembrava particolarmente interessante e molto influenza­ ta da temperamento francese». Parlando di musica moderna in generale e di Arnold Schoenberg in particolare Ravel non nasconde che secondo lui il contestato professore viennese è al momento il più grande compo­ sitore fuori dalla Francia. «Anche Stravinsky», dice Ravel, «è influenzato da Schoenberg. Per quanto riguarda la Russia, non credo in nessun modo al dogma della rinascita musicale, per opera loro. L’Italia, invece,

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saprà certamente creare un nuovo e proprio stile musicale in un avvenire non troppo lontano. Colui su cui fondo le mie speranze in questo senso è Puzelli7». Per quanto riguarda la Francia, Ravel menziona Honegger, Milhaud e Georges Auric come i più promettenti tra i giovani moderni e con ciò il discorso passa sul suo lavoro e sulPultima sua opera L’enfant et les sortilèges, che solo alcuni giorni fa è stata presentata aU’Opéra-Comique di Parigi e il cui libretto è stato scritto dalla famosa scrittrice parigina Colette Willy. «E semplicemente la storia di un bambino indisciplinato rinchiuso per punizione», dice Ravel ridendo, «raccontato in stile d’av­ ventura con animali che parlano, giocattoli e mobili proprio come fa il danese Andersen. Sarà rappresentato a Bruxelles e la prima italiana sarà il 1° marzo alla Scala di Milano». Qualche nuova composizione dopo la storia fiabesca? «Nessuna8. Non ho composto neanche una nota in quest’ultimo anno. Ero solo occupato a correggere le bozze dell’opera, così sarebbe stata pronta per tempo. Le posso assicurare che non è stato un compito facile. Ma speriamo che ne valga la pena. Forse la mia opera verrà rappresentata anche qui una volta o l’altra e così potrete giudicare voi stessi».

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Maurice Ravel e la giovane musica francese1

Il signor Pierre Lalo, da una trentina d’anni, riveste presso di noi i panni del sempre insostituibile personaggio del critico influente. D’altra parte questi panni gli calzano così bene adddosso che, durante il suo periodo di interruzione dell’attività, si può dire che nessuno abbia saputo rimpiazzarlo nel gradimento dei melomani benpensanti. Questi dilet­ tanti, che l’han subito riconosciuto per uno dei loro, hanno una stima eccessiva dell’arte ch’egli usa per rivelare loro ciò che essi sentono, e che in seguito sa ben imporre alla massa credulona dei lettori di quotidiani. Perché il signor Lalo, che non è un prosatore pesante, è tuttavia un critico di peso. Erede di un nome che suona gradito a ogni orecchio musicale, il suddetto cronista del «Temps» è un giornalista di qualità. Il suo stile ha quella specie di lentezza che, simulando alla perfezione la maestà, conferisce a tutto ciò che esprime l’apparenza della nobiltà e il prestigio della dignità. Se Lalo non ha sempre la sensibile erudizione di un Louis Laloy, né quell’intima conoscenza della musica che sotto la penna di un Emile Vuillermoz si risolve in immagini felici, e neppure la lingua impeccabile e soavemente fiorita di un Camille Bellaigue2, possie­ de di suo quella specie di brutalità che costituisce la forma meno gentile di franchezza. Perché il signor Lalo odia i travestimenti, e se da venticin­ que anni ha scelto di recitare la parte di Cassandra3, lo fa nella versione maschile del personaggio. Poiché, insomma, non è certo il dono della profezia a distinguerlo tra i colleghi, e a stilare l’elenco delle disgrazie che, senza aspettare Milhaud, ha predetto a Orfeo4, si metterebbe insieme una bella raccolta di cantonate. Pierre Lalo pensa della musica di oggi quel che il poeta del Sanglot de la terre5 pensava della vita: la taccia di essere «quotidiana». Ci consenta di suggerirgli che la sua critica non lo è granché meno: il 13 giugno 1899, il signor Lalo sollecitava Maurice Ravel a «pensare più spesso a Beethoven»6. Vengono i brividi a pensare quale musica Ravel avrebbe

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composto se per avventura avesse seguito quel consiglio. Il 24 marzo 1908, Pierre Lalo chiede: «Ma quando toglieranno il tappo alle loro trombe, questi giovanotti?»7. Questi giovanotti, così come i negri del jazz, non hanno finora mostrato gran premura nell’ottemperare alla ri­ chiesta. Nel 1907, il critico del «Temps» percepisce «costantemente», nelle Histoires naturelles di Ravel «Feco particolare della musica di De­ bussy». Ventanni dopo, il critico di «Comoedia» rimprovera a Marcel Delannoy di riporre «nella propria opera, tutta la mercanzia in liquida­ zione del ravelismo». Qui il procedimento è evidente. Lo è sin troppo per non invitarci a mettere in dubbio il valore dei giudizi sommari a cui Pierre Lalo sottopone immancabilmente i migliori musicisti apparsi presso di noi dopo che egli ha impugnato la ferula. Dal 1902, in effetti, epoca nella quale, folgorato da un’improvvisa ispirazione, s’è giudiziosamente pronunciato in favore di Pelléas et Mélisande, coloro che Pierre Lalo ha ucciso con i suoi colpi godono di salute più che buona. Si chiamano Debussy: il Debussy della Mer, delle Images^ del Martyre de Saint-Sébastien. Si chiamano Ravel, opera omnia. Si chiamano infine Honegger, Darius Milhaud e Marcel Delannoy. Se si osserva che questi nomi riuniti rappresentano in sintesi, pur nella loro diversità, alcune tra le tendenze più valide e più feconde della musica di oggi, ebbene, non sono stato io a sceglierli. Mi viene in mente che esiste sempre un pregiudizio favorevole nei con­ fronti dell’autorità costituita, così ho ritenuto opportuno appellarmi a una superiore autorità. Poiché in questo campo non ne conosco una più alta di quella del musicista che agli occhi di tutta Europa incarna le virtù specifiche della musica francese, musica di cui è il più accreditato rappresentante dopo la morte di Gabriel Fauré, mi sono preso la libertà di interrogare Maurice Ravel. È stato Pierre Lalo in persona a spingermi a farlo, dal momento che non saprebbe ricusare la testimonianza di un uomo del quale scriveva, non molto tempo fa: «Così come conosce la sua arte, egli la rispetta e la sostiene; non lo vedremo certamente — aggiunge Pierre Lalo — come certi suoi contemporanei ed emuli, preoccuparsi di “dare garanzie” alle fazioni che si dicono progressiste e portare nella musica i costumi della politica...». Il compositore di Daphnis et Chloé ha cortesemente voluto farci le dichiarazioni che seguono, autorizzandoci espressamente a pubblicarle: «Non è la prima volta», ci dice Maurice Ravel, «che Pierre Lalo si atteggia a salvatore della musica: speriamo che, per questa volta ancora, faccia a meno di salvarla... Il signor Lalo, che è un dilettante assai bene (per modo di dire) attorniato, ha costantemente fatto gli interessi di una setta di cui non è mia intenzione parlar male, ma che si batte in nome di un ideale franchista e wagneriano naturalmente incompatibile con le virtù tradizionali della nostra musica. «La tattica di Lalo non è meno irremovibile della sua estetica, e dal

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Interviste

momento che la musica si muove, tale perseveranza ha effetti esilaranti. Per parte mia ho avuto occasione di studiare tale tattica, nel 1913, nei Cahiers d'aujourd'hiti'. “Non è più sufficiente — scrivevo allora — rim­ piangere l’estetica degli antichi maestri, fingere incomprensione, furore, ilarità di fronte alle ricerche dei giovani. Vecchi e giovani sono contem­ poranei. Si tratta di far credere che i primi sono ancora bene in forze, mentre il vigore degli ultimi è già in declino”. Vedete bene che per Pierre Lalo un giorno tien dietro alfaltro — e tutti sono uguali. Parlando delle meravigliose Images di Debussy, Lalo scriveva, nel 1910, che “viene il giorno in cui questi trastulli finiscono di trastullare”. Era l’epoca in cui Lalo tentava di far soccombere Debussy sotto il peso di Wagner, come avrebbe poi tentato di schiacciare me sotto Debussy e come tenta attual­ mente di gravare del mio debole peso quel delizioso musicista che è Marcel Delannoy. «Ho ascoltato Lepoirier de misere^ opera d’esordio di un compositore8 eccezionalmente dotato, dalla personalità straordinaria. Com’è possibile, in buona fede, trovare in una partitura certo non irreprensibile, per carità, ma che brilla di vivacità e d’ingenua freschezza, malgrado i difetti inerenti alla giovinezza dell’autore, una “farmacopea di sostanze sonore” e “una striminzita arte vetusta”? «Non meno inaccettabile è l’attitudine di Lalo nei riguardi di Arthur Honegger. Honegger è un grande musicista. Io non ho ascoltato Llmpératrice aux rochers\ ma vorrei sapere da dove un dilettante come Lalo, che ignora tante cose della musica, trae il diritto di maltrattare così alla leggera un compositore che serve la propria arte con tanta forza, pruden­ za, lealtà, come fa Honegger? E mi stupisce che un critico che ha già tentato, allora e ora10, di accreditare in Francia tendenze tedesche non abbia riscontrato alcun oggetto di simpatia nell’opera di un musicista che non ha mai disprezzato, per parte sua, l’eredità di Richard Wagner. «Ma il colmo della faccia tosta Lalo lo raggiunge a proposito di Darius Milhaud e dei suoi Malheurs d’Orphéen. Ecco un’opera toccante, magni­ fica, la migliore scritta da quest’autore, e una delle più perfette che la nostra giovane scuola abbia prodotto da molti anni. Lalo vi cerca invano “qualcosa di sentito e vivo”. Si lamenta che “il tempo sia quasi sempre lento”, mentre io ci trovo a ogni passo movimenti rapidi che testimonia­ no diun’invenzione ritmica straordinaria. L’orchestra dei Malheurs d’Orphée è sempre equilibrata con grande abilità. Lalo, che dice ch’è orrenda, le contrappone le combinazioni strumentali di Stravinsky nelle Nocesn. Vogliate notare che Les noces comparve in un periodo in cui Lalo aveva sospeso la propria attività. Adesso che l’opera è famosa e classificata, lui può approvarla senza rimorsi come senza rischi. Fa la sua puntata al tavolo con la pallina già ferma: è più sicuro... «In fondo, tutto ciò è più divertente che tragico: la critica vai quanto

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il critico, e, come dice qualcuno, non si può impedire a un fiume di scorrere... Che un Edgar Poe, un Baudelaire, un Delacroix, si occupino di musica, va benissimo: la loro ignoranza della nostra arte non ci dà nessun imbarazzo; essi ne colgono lo spirito, e talvolta assai meglio di noi. Pierre Lalo è certamente troppo modesto per tollerare che lo si confronti con questi maestri delParte e del genio... Per il resto, è davvero troppo fuori del gioco per poter fornire ai suoi lettori informazioni di grande valore oggettivo, e quando sento parlare, come fa, di “formule politonali” ossia di “fanfara armonizzata - o disarmonizzata - alla secon­ da” (sic), mi fa venir voglia di rispondergli quel che un musicista, con le parole di Racine, diceva a Filippo, re di Macedonia, che pretendeva di asserire che una canzone non fosse secondo le regole: “Piaccia a Dio, signore, che voi non siate mai tanto sventurato da conoscere queste cose meglio di me!”13».

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Maurice Ravel, l'uomo e il musicista1 La straordinaria personalità del compositore francese che giungerà in America la stagione prossima. Le sue opinioni sulla musica con temporanea

Qualcosa di molto più antico di lui guarda attraverso gli occhi di Maurice Ravel. È lo spirito di una razza ironica e sperimentata. È citta­ dino, parigino, molto pronto. E entrato nella stanza prima che ci si accorgesse della sua presenza, esaminando ogni cosa, i mobili, il soffitto, — ogni cosa tranne in apparenza le persone che vi erano raccolte, che avrebbe esaminato in modo molto più attento, parlando nel frattempo con grande rapidità. Il suo modo di vestire è semplice all’eccesso, meticoloso, esotico. Edora egli sta seduto in un affascinante giardino che pochi conoscono, innervosendosi con la colazione, degustando un liquore raveliano, dicen­ do le maggiori enormità con frasi che saettano tanto rapide da lasciare attoniti per lunghi istanti i cervelli più lenti del suo, prima che la reale portata delle parole venga compresa. Un vero parigino, un artista, fran­ cese fino in fondo all’anima, a casa sua, e nella forma migliore. Un colibrì parrebbe maldestro accanto a lui! Ravel nasconde dietro le labbra un sorriso che pare una smorfia, lancia occhiate veloci che sfiorano ogni cosa, si fa beffe del millennio che finisce e si prende gioco dell’universo. E un gran peccato che tanta parte della sua conversazione non possa venire riferita. Per colpa, purtroppo! di un francese storpiato che rende la comunicazione imperfetta. Soprattutto, purtroppo! per l’incapacità di piegare l’ottusità ponderosa delle strutture anglosassoni alla piacevolezza, all’eleganza, ai guizzi luminosi di Maurice Ravel. E una violenza, un crimine, soprattutto è un’impresa impossibile, poiché questo Ravel è incorreggibilmente se stesso come lo sono Parigi o la Francia, immutevoli nella sostanza qualunque sia la loro apparenza. Ciò che conoscono l’hanno appreso prima ancora che la nostra epoca fosse in fasce. Non daranno tutto ciò in cambio di una qualsiasi macchinosa novità borghe­ se. Provate un po’ con Ravel. Il suo ospite guarda e ascolta, trovando difficile distogliere gli occhi da un volto che offre, a tratti, un’assoluta

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somiglianza con certi antichi ritratti di Rameau o di Voltaire, trovando diffìcile trattenersi dall’esclamare di fronte alla sua gallica felicità d’espres­ sione, alla sua gallica ironia, educazione, acume e gusto. Questo è Ravel — nel suo genere, una creazione completa e insuperabile!

*** Ma siamo qui per parlare di musica, e quando l’argomento di conver­ sazione sono la musica e Ravel, è il momento di essere seri. Quanto solidamente è stato fermo, eppure quanto ha viaggiato negli ultimi de­ cenni. Con quanta deliberata volontà ha formato il proprio stile, e segui­ to il sentiero che si era prefìsso, costui, il più consapevole, il più natural­ mente artificiale tra i compositori! Ravel ha portato a compimento per gradi uno stile sempre più isolato dalle altrui influenze, eppure fedele a se stesso, sebbene abbia attinto a fonti diverse per i suoi materiali. Nulla ch’egli abbia cercato gli è sfuggito, nulla è uscito dalle sue mani senza aver ricevuto l’impronta di una mentalità nuova e di un fresco proposito artistico. Quel che si nasconde dietro questo proposito? E un’altra storia, e Ravel direbbe che ciò non ha nulla a che fare con il musicista. Avevamo fatto qualche osservazione a proposito della sincerità di un compositore, e qui lui ci ha rivolto uno sguardo stanco. «Non mi piace granché questa specie di “sincerità”. Io cerco di fare dell’arte». Ci raccon­ ta di aver lavorato alla Sonate pour violon et piano. che deve eseguire negli Stati Uniti la prossima stagione, per quattro anni — di cui tre impiegati a toglierne le note non indispensabili. «E ora passiamo ad altro». Ha in cantiere un concerto per pianoforte, ma Ravel non s’è mai dato premura in tutta la sua vita, e così non sarà pronto in tempo per gli Stati Uniti. Lo si ascolterà eseguire composizioni di carattere più intimo. «Certo», ha aggiunto, «se mai portassi a termine un’opera perfetta, smetterei subito di comporre. Ci si contenta di esplorare, e quando ho terminato una composizione, vuol dire che ho “esplorato” quanto ho potuto: è inutile tentare ancora qualcosa nella medesima direzione. Occorre cercare altre idee».

*** Il secondo movimento della Sonate pour violon et piano è un “blues”. «E non prendo affatto questo “blues” alla leggera», ci dice con espressione volu­ tamente candida. Poi, riprendendo la sua serietà: «Perché i compositori americani importanti non si sono volti in maggior numero verso questa tradizione del “blues” e verso le altre musiche di origine popolare che vi giungono da tante fonti diverse ?... Io non sono d’accordo con quelli che pretendono che tale o talaltra musica, originaria forse di un altro continente,

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non possa essere americana, o inglese o francese a seconda dei casi. Se si esamina la storia, si vede che le musiche nazionali sono spesso un amalgama di contributi eterogenei. Lo stesso vale per il vostro “jazz”, che non potrebbe venire da nessun paese se non dagli Stati Uniti, malgrado alcune influenze africane e spagnole che hanno contribuito alla sua nascita. «Qui avete tante correnti musicali. Avete influenze scozzesi, irlandesi, spagnole, ebraiche — un’immensa quantità d’influssi di vario genere sta operando nell’arte del vostro paese. Beninteso, un compositore serio utilizza la melodia popolare a proprio uso, la considera come punto di partenza della sua creazione. Non vedo perché non siate in maggior numero a farlo». «Come avete fatto voi con la musica popolare spagnola nella Rhapsodie espagnole\». «E un metodo come un altro». Ci lancia un’occhiata maliarda. «Co­ noscete le origini remote della mia formazione musicale? Sono state parecchie. Sapete bene che sono nato nei pressi di un confine, e che in me scorre sangue a un tempo spagnolo e francese... Ebbene, durante la mia infanzia io m’interessavo molto alla meccanica! Le macchine mi affascinavano. Quand’ero ragazzino visitavo spesso, molto spesso, delle officine con mio padre. Sono state queste macchine, con i loro ticchetti! e i loro ruggiti, a costituire la mia prima educazione musicale, accanto alle canzoni spagnole che mia madre mi cantava la sera per cullarmi! «E poi, il mio terzo maestro è stato un Americano che noialtri Fran­ cesi siamo stati più pronti di voi a comprendere. Voglio parlare del grande Edgar Poe, la cui estetica era in effetti estremamente prossima a quella dell’arte moderna francese, e in accordo con essa. The Raven è di spirito molto francese così come parecchi altri suoi poemi, e così anche il suo studio sui principi della poesia».

*** Ha iniziato allora a parlare dei poeti francesi, e noi gli abbiamo chie­ sto umilmente di spiegare gli strani versi che ha rivestito di suoni nei suoi Trois Poèmes de Stéphane Mallarmé. «Spiegare è impossibile», rispose. «La poesia, o vi parla o non vi parla. Essa è qualcosa di assai oscuro, e se un giorno s’impossessa di voi, è una sensazione meravigliosa! Io reputo Mallarmé non solo il più grande poeta francese, ma Y unico, poiché ha reso poetica la lingua francese, che non era destinata alla poesia. È stata un’impresa che lui solo ha saputo compiere. Gli altri, compreso quel cantore squisito che era Verlaine, hanno composto con i limiti e le regole di un genere molto preciso e formale. Mallarmé ha esorcizzato questa lingua, da vero mago qual era. Ha liberato i pensieri alati, i sogni incon­ sci, dalla loro prigione».

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S’è parlato poi di simbolismo e di impressionismo nella musica fran­ cese. Aveva forse la sensazione che l’impressionismo di Debussy fosse contrario allo spirito della musica francese? «Certamente no», ha risposto Ravel. «Non più di quanto lo sia il simbolismo di Mallarmé. Certuni, nell’interesse delle scuole, delle “ten­ denze”, del “nazionalismo” artistico, come dite voi — e a questo nazio­ nalismo, sia detto di sfuggita, io credo profondamente, poiché non pen­ so che esista un’arte che non abbia radici nella coscienza nazionale —, priverebbero il singolo compositore della sua anima personale, se una tal cosa fosse possibile, ciò che per fortuna non è. Ogni artista creatore, legato al proprio popolo da indissolubili legami, porta dentro di sé regole che gli sono proprie. Debussy fu un artista incomparabile, un individuo dal genio tra i più eccezionali, nella musica francese. Pensano forse co­ storo che la nostra ristrettezza di spirito sia tale da non farci essere altro che lui, e lui nient’altro che noi? Tutto il contrario. Non bisogna trala­ sciare di osservare che sotto la superfìcie Debussy era estremamente preciso, che scriveva musica con un forte orientamento stilistico e che verso la fine della propria vita si vedevano nella sua musica le tracce di un’evoluzione che avrebbe potuto condurre a opere molto diverse da Pelléas et Mélisande, se fosse vissuto abbastanza per scriverle. «L’impressionismo degli inizi del XX secolo era una fase dell’arte francese, che già aveva attraversato un periodo simile in pittura e che reagiva violentemente contro i parnassiani in letteratura. Forse oggi noi stiamo assistendo a un’altra reazione, ma questa reazione, che troverà da sé il suo equilibrio, va annoverata tra le nostre tradizioni più antiche, da cui non ci staccheremo mai. «Poco tempo fa è morto un uomo che voi ben conoscevate. Si tratta di Erik Satie — un innovatore, un pioniere, cioè un estremista piuttosto che un autore di sostanziali capolavori. Pure, egli era sensibile e dotato di una forma di intuizione d’impronta francese. Anticipò l’impressioni­ smo debussysta, lo attraversò, e fu tra i primi a prendere la direzione che se ne allontanava. Io pure, penso di poterlo dire, ho sempre seguito questa direzione. «Malgrado l’ammirazione più profonda per Debussy, non mi sono trovato, per la mia natura, completamente d’accordo con il suo percorso, e se pure egli è stato per me un uomo prezioso e un artista ispiratore, ho seguito una strada diversa. Lo stesso vale per i giovani compositori d’og­ gi. Eppure ciò non significa ch’essi volgano le spalle a Debussy, che è ormai parte della nostra immortale eredità. Ciò vuol semplicemente dire che sono gli artisti di una generazione che cresce e che noi siamo all’alba d’una nuova epoca».

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*** Ravel ammira l’ultimo Stravinsky: «Per fortuna non è mai soddisfatto della sua ultima realizzazione. Egli ricerca. Il suo neo-classicismo è forse una sorta di esperimento, ma io non credo che Stravinsky si sia fermato. La sua ultima opera, Oedipus rex, mostra che giocando con forme vec­ chie egli trova in realtà qualcosa di nuovo». Su Ernst Bloch: «Una natura appassionata e vigorosa; un vero musicista. Non dò troppa importanza al ruolo fondamentale ch’egli attribuisce al giu­ daismo; è il suo aspetto più superficiale in quanto compositore»2. Su Sibelius: «Un talento superbo — non dico un artista supremo, ma un compositore dai colori e dai sentimenti forti, ispirato dal suo vasto e oscuro Nord»3. Di Schoenberg, dice che questo musicista dotato ha operato in un complesso labirinto elaborato da lui stesso, e che per un artista francese un percorso simile sarebbe inconcepibile come fonte di progressi. Pensa­ va che i compositori francesi non avrebbero seguito neppure la direzione presa da Vincent d’Indy. Tra i giovani musicisti, il più promettente gli pare Milhaud; nell’osservazione si leggeva una sfumatura di cortesia. Sul compositore inglese Vaughan Williams, certamente uno dei capifila del­ la scuola britannica, che studiò per un certo periodo con Ravel, ha dichiarato: «Un vero artista, che soltanto imparando a essere inglese ha compreso la propria ricchezza!». Niente male, per un Francese in sospetto di sciovinismo!

*** I tempi cambiano. Appena qualche anno è trascorso dalle prime ese­ cuzioni in America di un certo brano per pianoforte, Jeux deau, del giovane Maurice Ravel-. Qualcuno guardava a questo brano con tolleran­ za, qualcun altro con sospetto e sfiducia. Oggi i giovani sono già altri, e Ravel si trova collocato in una posizione che qualcuno descrive come «classica». C’è di che sgranare gli occhi. Proprio Jeux d'eauX A sorprendere non è tanto il fatto che orecchie nauseate dalle dissonanze non immaginasse­ ro all’epoca di trovare nel brano un antiveleno, quanto che esso conservi per noi tanto della sua originaria iridescenza; un’ulteriore testimonianza della qualità di fattura e della singolarità dell’arte di Ravel. S’è lasciata quest’opera molto lontana alle sue spalle, per quel che riguarda l’evolu­ zione del suo stile, eppure non ha spezzato neanche per un’istante la linea di continuità. Quel ch’era vero per Jeux d’eau lo è oggi per Ondine, baluginante raffigurazione d’amore che rappresenta la compiuta realizza­ zione di un’idea giovanile e che pare a stento superabile nel suo genere,

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Ravel

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accanto alle più recenti innovazioni (anticipate tuttavia in alcuni Miroirs) de Le gibet e ai colori hoffmanniani4 di Scarbo, da Gaspard de la nuit. Fantastico a piacer vostro, ma sempre forma, forma, forma, presente nelle opere piccole e nelle più grandi e libere — nei macabri chiaroscuri dell’orchestrale Rhapsodie espagnole; nell’opera satirica L'heure espagnole, o nel grande trio per pianoforte, o nelle liriche ampie o brevi. E per quanto si possa o no essere d’accordo con queste opere, o trovare in tutte lo stesso grado d’ispirazione, siamo certi di scoprirvi un artista di sovrana coscienza c chiarezza di vedute, che non si è mai ripetuto, che non ha mai scritto una battuta sciatta o ridondante. Ed è già molto, poter dire così.

*** Per quel che riguarda il Ravel più recente, lo si potrà ascoltare e valutare quest’inverno. Varrà la pena, come dicono i frenologi, di esami­ nare i suoi bernoccoli! Quel che sarà di lui in Rituro è una questione che per fortuna toccherà ad altri decidere. Ravel ha nobilmente superato quelle brusche e febbrili fluttuazioni di gusto musicale e queste mode passeggere susseguitesi l’un l’altra a Parigi con la stessa rapidità e insen­ satezza dei mutamenti di cappellino, e nel periodo successivo a Debussy, come in quello che lo ha preceduto, si è fatto più sicuro e si è affinato nel mestiere. Una generazione emergente e bellicosa, dopo avergli scagliato qualche missile, moda tutta parigina, è ora incline a concedergli il pro­ prio rispetto. Le cose sarebbero andate ben diversamente se Ravel fosse stato un romantico o un impressionista, in quel caso tirerebbe brutta aria per lui, nell’Europa di oggi; ma romantico non lo è mai stato. Stando così le cose, non ci sono né ostilità né clima poco propizio intorno a lui. E possibile riscontrare qualcosa del genere nel rimprovero per un periodo di aridità e cerebralismo: è tutto da vedere. Ma è pur sempre qualcosa avere una tale fermezza, una tale imperturbabilità, una tale costanza nel seguire una direzione come quella che Ravel ha dato prova di possedere. Ha parlato poco, lavorato, seguito il proprio destino. Non ci sono molti artigiani come lui, artisti di coscienza e tradizione tanto solida. Tecnicamente stupisce; creativamente si manifesta attraver­ so forme completamente diverse le une dalle altre. Appartiene, per voca­ zione profonda, alla ristretta e orgogliosa schiera di quegli antenati che imparavano e non dimenticavano nulla. Olin Downes Parigi, 20 luglio [1927]

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Ravel parla degli stimoli offertigli da Poe nell'arte della composizione' Il musicista francese dichiara di essere stato influenzato dalla teoria formale del poeta

Maurice Ravel, primo compositore di Francia, qui presente per una tournee di tre mesi che lo vede nel ruolo di solista e direttore ospite di una mezza dozzina delle nostre più importanti orchestre, ha detto ieri che il suo «principale maestro di composizione è stato Edgar Allan Poe». Ravel ha dicharato che la Philosophy ofComposition2 del poeta americano, opera in cui riferisce dettagliatamente il processo metodico e quasi scien­ tifico da lui utilizzato nella concezione e nello sviluppo di The Raven, ha sollecitato in lui — più di ogni altra dottrina artistica — la decisione di abbandonare la vaghezza e fragilità formale dei primi impressionisti fran­ cesi a vantaggio di un ritorno ai moduli classici3. Nonostante le recenti dichiarazioni, in cui afferma di voler interrompere 1-attività di compositore per rinnovare l’ispirazione attraverso lo studio di Mozart e di altri maestri classici, Ravel ha annunciato di avere in proget­ to due lavori lirici destinati al palcoscenico, un’operetta basata su di un libretto di Fernand Bousquet4, autore di Le Mannequin, e un’opera di carattere più ambizioso ispirata a un altro autore francese il cui nome non vorrebbe divulgare. «A dire il vero», ha aggiunto, «l’autore stesso non conosce ancora la mia intenzione di utilizzare il suo libro»5. L’opera meno impegnativa, ha detto, dovrebbe essere qualcosa nello spirito del commediografo italiano Pirandello6. Come esempio del suo metodo di composizione, intenzionale e ricer­ cato, Ravel ha citato la sua sonata per violino e pianoforte, il cui secondo movimento è un “blues”. Ha detto che l’opera era chiaramente delineata nella sua mente prima che i temi del primo e terzo movimento prendes­ sero corpo. «Una notte», ha continuato, «mentre ero in un cabaret, qualcosa che ho sentito mi ha suggerito i temi che avrei usato più tardi». I compositori moderni devono seguire una rotta intermedia tra emo­ zione e intelletto se vogliono creare musica che abbia significato e durata. «Poe ha provato che l’arte deve operare una mediazione tra questi due

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estremi, il primo dei quali conduce alla fragilità della forma, il secondo un’astratta aridità». I compositori americani sono ancora poco conosciuti in Francia, dice Ravel. Il jazz è stato usato diffusamente dai musicisti di tutto il mondo, aggiunge, e dovrebbe offrire ai compositori americani materiale in ab­ bondanza per sviluppare una scuola nazionale. Maurice Ravel si produrrà a Boston come direttore ospite della Bo­ ston Symphony. La sua prima esibizione per il pubblico di New York sarà il 15 gennaio al Gallo Theatre.

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Il ritorno di Maurice Ravel1 Il compositore e pianista francese e i suoi contatti con l America: qualche contrasto

Quando un uomo piccolo e sagace con uno spadino ne incontra uno grande e grosso, dalla voce forte e con una mazza, l’ometto può soprav­ vivere allo scontro. E questa una riflessione che trae spunto dalla visita di Maurice Ravel in America, dalle conversazioni con lui, dall’averlo spiato mentre era sul podio. Ravel non è né giovane né robusto. Il suo modo di pensare, acuto e sviluppato in sommo grado, non è quello di un popolo esuberante e nel fiore della giovinezza, e neppure, forse, appartiene ad alcuna civiltà moderna. Così come la sua arte, egli è strutturato in modo raffinato e meticoloso. Vivere può non essere facile, per lui. Eppure le sue qualità lo sostengono. Lo spadino resiste ai furibondi attacchi della mazza. Altri visitatori europei, fisicamente più dotati di Ravel e apparentemente meglio attrezzati alle esigenze di una giovane civiltà, non hanno resistito così bene. Ma questa è la qualità di Ravel. Ha viaggiato attraverso l’America, da costa a costa, sotto gli auspici della Pro Musica Society. Un gran numero di Americani lo ha sottoposto ad esame. Un numero ancora maggiore lo farà questo pomeriggio. Ravel ha con curiosità e modi raffinati ricambiato l’esame — questo senza risentimento o malintesi, ma, al contrario, consapevole della ricchezza che si cela in un futuro che presenta straordinari contrasti con i limiti del presente e del passato. Il pensiero di ciò metterebbe a disagio parecchi artisti dell’età e della sensibilità di Ravel; ma egli è troppo sicuro e consapevole di se stesso per questo. Prodotto caratteristico di idee affinate e ri-affinate per secoli da una cultura aristocratica, egli ha osservato con curio­ sità e distacco la formazione di una società nuova e più grezza, e i suoi brancolanti tentativi nel campo di un’arte espressiva. Ha sicuramente avver­ tito gli stimoli, le potenzialità e le forze vorticose di un popolo giovane e impulsivo. Ma ha fatto fronte a ben altre ondate rispetto a quella che ora preme contro le sue difese e, almeno per ora, tiene duro. Se lui e la sua scuola dovessero venire sommersi, sarebbero lieti e spensierati durante il trapasso.

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Come le spade degli aristocratici si spezzarono un tempo contro le picche di una folla urlante, così l’estetica di Ravel e dei suoi compagni potrebbe venire oppressa da una nuova, stridula epoca. Ma l’aristocratico, travolto e sover­ chiato dal numero degli aggressori, metterà mano alla spada. Quando cadrà lascerà qualcosa dietro di sé, qualcosa di prezioso, qualcosa di radicato nella tradizione che cento rivoluzioni non riusciranno a soffocare.

Le sue difese Questo è ciò che viene in mente quando ci si trova a scrutare Ravel, o ad ascoltarlo, osservando un volto che potrebbe appartenere a Rameau o a La Fontaine — un volto cui manca solo la parrucca per creare una perfetta illusione — riflettendo sulla natura della sua musica. Essa è tutta d’un pezzo. L’uomo e la sua musica sono una cosa sola; e si congiungono strettamente nel proposito di autoconservazione. Esaminare le sue partiture — le sue difese — stupisce. Sono architetture di consumata logica e raffinatezza. Questi edifìci intangibili resistono fermamente all’azione degli elementi in virtù della qua­ lità di fattura e delle sfumature più delicate, e non in virtù della loro solidità o del loro peso. Dentro il cerchio sottile di cui s’è circondato, in un dominio che s’è creato e attribuito da sé solo, quest’uomo ha trovato un invisibile rifùgio dalla realtà. E un reame completamente arbitrario e artificiale, ma con i suoi ingressi segreti, le sue leggi, le sue magie e incantamenti. Forse è soltanto un dominio di cartapesta. Ma per il momento esiste, sebbene creato dal nulla. E forse quest’arte un risultato, oppure l’ultimo vestigio, oppure ancora il semplice miraggio di una cultura decaduta che va scomparendo? Non tocca a noi deciderlo, saranno i tempi futuri a toglierci questo fastidio. Ma Ravel, come pochi altri celebri artisti prima di lui, ci ha convinti, almeno momentaneamente, dell’esistenza di questo reame, e non ci ha lasciato alcun dubbio sul fatto ch’egli ne è sovrano assoluto. La sua vittoria è tanto imma­ teriale quanto una vittoria può esserlo mantenendo i contatti con l’esistenza umana. E il puro trionfo della mente e della volontà sull’ottusità della materia che le ostacola. Ciò è naturalmente vero per ogni arte, ma lo è particolarmen­ te qui e, in considerazione degli immensi e inevitabili ostacoli trovati sul suo sentiero, si presenta particolarmente eccitante poiché a farlo palese è un epigono che discende da un’antica società.

Il moderno classicista Perché Ravel è un autentico e orgoglioso artista francese. Sempre solidamente attento allo stile, è oggi, nonostante scriva con tecnica moderna, un classico. Lo mostrerebbe, in mancanza d’altro, la sua con­

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cezione della forma. Tre anni prima di comporre l’ultima sonata per violino e pianoforte ha descritto a un giornalista londinese la struttura formale dei suoi tre movimenti. I contenuti sono arrivati in seguito. La forma era già stabilita completamente e senza ripensamenti. L’estate scorsa, a Parigi, ci ha raccontato che aveva lavorato per anni a comporre la sonata, e un altro anno a toglierne tutte le note inessenziali! Segue un’innata esigenza di chiarezza, logica, proporzione, che è sempre stata caratteristica dei “migliori cervelli” del suo paese. La cosa più stupefacen­ te, e che più fa onore alla sua ampiezza di vedute, sono i commenti elogiativi che, mosso da un sincero interesse, rivolge all’arte americana, la quale contiene tutto fuorché economia, ordine o tradizioni classiche. Davvero lo sciovinismo sarebbe stato perdonabile in lui. E comunque troppo intelligente per questo. In ciò è eccezionale. Ha mai provato il lettore a discutere di musica in Francia e in America con un parigino? Ci sarebbe da rimanere deliziati e sorpresi se avesse la schiettezza e l’assenza di provincialismo di Ravel. E stato Ravel a suggerire al compositore inglese Vaughan Williams che la sua musica non era sufficientemente inglese. E questo diversi anni fa, prima che Williams raggiungesse la posizione attuale di capo della scuola di composizione inglese. Ravel, Francese tra i Francesi, applica agli altri il principio che applica a se stesso in quanto artista e insiste, prima di tutto, sull’espressione di una coscienza nazionale. Parlando della realtà musicale da lui scoperta negli Stati Uniti, ha fatto una giusta distinzione tra le nostre attività di inter­ pretazione e di creazione in questo campo. Ad esempio, per ciò che riguarda le orchestre americane.

Le orchestre americane

«Le vostre orchestre sono le migliori del mondo. Ciò è dovuto al fatto che i loro membri provengono da ogni paese e all’eccellente livello che si esige da ogni singolo musicista. Le vostre sezioni di ottoni hanno sonorità ricche e profonde che mancano alle nostre, grazie alla superiorità degli strumenti stessi e al fatto che la maggior parte di questi strumentisti sono tedeschi. Essi ottengono una nobiltà di suono di cui i musicisti delle altre nazioni raramen­ te sono capaci, e quando si ascolta una tromba, non è una cornetta a pistoni. Le vostre sezioni dei legni sono per la maggior parte francesi, e gli strumentisti francesi, per ciò che concerne i legni, sono i migliori del mondo. Lo stesso principio di selezione è applicato a tutte le orchestre americane rappresenta­ tive. In Europa, si comincia appena a dar credito alle recensioni che informa­ no il pubblico sull’alto livello delle vostre esecuzioni. «Ma nel campo della composizione, hanno trovato conferma le mie prime impressioni sulla musica americana. Penso che voi abbiate un’idea troppo

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riduttiva di voi stessi e che continuiate a guardare troppo lontano. Un artista deve essere internazionale nei propri giudizi e apprezzamenti estetici, e irridu­ cibilmente nazionalista non appena scende sul terreno della creazione. Voi sapete, credo, che io ammiro e stimo molto — più, credo, di quanto non faccia buona parte dei compositori americani — il jazz americano. Ho utiliz­ zato il linguaggio del jazz nella mia ultima opera, la Sonate pour violon et piano. Ma da quale punto di vista? Da quello, beninteso, di un Francese. Per quanto affascinato sia da questo linguaggio, non posso sentirlo in me come farei se fossi americano. Per me, sviluppare certe idee suggerite dalla musica popolare americana, è un’avventura pittoresca nel campo della composizio­ ne, ma il mio pensiero musicale è in tutto e per tutto nazionale — e tale m’immagino che appaia, in maniera incontestabile, anche al meno compe­ tente tra gli ascoltatori. Attendo la comparsa di un maggior numero di autori americani provvisti di un’onestà e una lucidità tali da permettere loro di comprendere la portata della loro tradizione, e dotati della tecnica e dell’im­ maginazione necessarie a fondare su di essa un’arte originale e creativa».

Gli scambi culturali

Quando il suo interlocutore gli ha fatto notare che si trattava di un’opinione sorprendente, da parte di un autore considerato ormai clas­ sico ed erede di un’antica cultura, Ravel ha sollevato le sopracciglia. «No, non è strano. Non c’è niente che non sia perfettamente logico. Certamente non sono le culture artistiche pienamente maturate quelle incapaci di comprendere il significato di una cultura e di una civiltà diverse dalle loro. Al contrario, una coscienza artistica ben sviluppata presuppone un simile genere di comprensione. Se noi ascoltiamo ad esempio musica tedesca, desideriamo che sia tedesca fino in fondo. Ciò che tendiamo a rifiutare, è la musica tedesca con un’inclinazione verso quella francese. Lo stesso vale per la buona critica tedesca. In quel paese la critica, quand’è libera da pregiudizi sciovinisti, riconosce subito ciò che è essenzialmente espressione dello spirito di un’altra nazione, e lo stima per il suo giusto valore. Si è più cortesi e più ricettivi verso le idee del proprio vicino allorquando si è ben sicuri della qualità e del valore delle proprie. Ci sono musicisti, sono lieto di poterlo dire, che la pensa­ no così sia in Germania sia in Francia. Non potrebbe — direi anzi non dovrebbe — esserci fraternità artistica internazionale senza l’affermazio­ ne, da parte dei creatori, della propria coscienza nazionale e razziale. E certamente venuta l’ora che gli Americani guardino finalmente intorno a sé e trovino le proprie tradizioni artistiche». Immaginate l’uomo che ha detto queste cose circondato da amici, agenti teatrali, bauli, facchini e rumori, a New York, mentre parla del­

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l’America e di varia cultura. Trasportatevi allora sul versante d’una col­ lina, a Montfort-l’Amaury, quaranta miglia fuori Parigi. Qui trovate il giardino di Ravel, dove egli presenta come specialità alcuni mostruosi fenomeni botanici, comprese certe varietà di enormi, ripugnanti, forun­ colosi zucchini. Qui conduce una vita ritirata; pressoché monastica. Lavora. Esamina con curiosità i prodotti del suo giardino. La sua vecchia governante lo strapazza; interrompe perentoriamente la conversazione. «Monsieur Ravel, volete aiutarmi con questo apriscatole?» e Monsieur Ravel, docilmente, obbedisce e accorre in aiuto. I piatti sono preparati in maniera speciale e con semplicità. La casa ha di fronte a sé, sul versante opposto della collina, un monastero e un chiostro del XIII secolo, con sontuose vetrate del più puro stile e fattura. Dentro la casa c’è una stanza ammobiliata in uno Stile Impero più rigoroso, con tutti i ninnoli di quel periodo. Ogni stanza ha un suo particolare, armonico stile. Vi sono muri blu cupo e oggetti di sfumature più tenui ma proiettate armoniosamente su quello sfondo. Vi sono pitture, alcune delle quali decisamente moder­ niste; libri, principalmente di autori moderni e soprattutto di Mallarmé, Poe, Pirandello e Joseph Conrad, che Ravel ammira con calore. Vi sono sei curiosi gatti siamesi, a cui il compositore è molto legato — creature esotiche, nessuno di loro eccessivamente affettuoso, tutti affettuosamen­ te accarezzati dal loro padrone. Egli ha le sue fantasie stravaganti, i suoi capricci. Probabilmente trova gli animali molto più onesti e tollerabili degli uomini. Accetta i casi della vita, con un sorrisetto gallico, e non vuole sprecare tempo in tentativi di conciliazione. Di fatto vive qui solo, contento di abitare troppo lontano da Parigi per essere infastidito da visitatori occasionali e ben protetto dalla ricercata semplicità di ciò che lo circonda. I suoi amici intimi sono pochissimi, ed è più facile trovarli tra pittori o scrittori che tra musicisti. L’atmosfera che lo circonda non è il risultato di eccentricità o affettazione. E il prodotto dei gusti esplo­ rati a fondo di uno degli uomini più schietti eppure più sofisticati che esistano. Sono gli avamposti delle sue difese. Immaginate quest’uomo trasferito a New York o in una di quelle vaste distese dette dal poeta «i grandi spazi aperti»! Pensate che ciò lo possa attirare lontano dal suo privilegiato punto d’osservazione? Per nulla! Neppure quando si è trova­ to stanco, sfinito dai viaggi o intimorito sul palcoscenico — la sorte non lo ha mai destinato al ruolo di virtuoso. No! Egli resta imperturbabil­ mente, silenziosamente, senza possibilità d’imitazione, Ravel: una mi­ niatura d’uomo, un’incrollabile torre come artista. Pian piano prende forma un’immensa ammirazione per il formalismo trionfante di que­ st’uomo e l’acuta sottigliezza delle sue armi intellettuali. Che cosa si proverà a essere nei suoi panni? Per lui dev’essere stata questione di vita o di morte. Ebbene, ha scoperto il segreto per difendersi con efficacia. Lo mette in pratica con cortese ironia, beffardo umorismo e invincibile

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coraggio, persino nella sua arte. «In arte», ha detto Ravel, «nulla è lascia­ to al caso». Lo stesso vale per la sua vita quotidiana, la sua padronanza di sé e l’ironico equilibrio e il senso d’umorismo che ha mostrato in Ame­ rica. Olin Downes

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Maurice Ravelparla di Berlioz1

In occasione della sua ultima visita a Londra, Ravel ha suscitato una certa sensazione descrivendo Berlioz come «un musicista di grande genia­ lità ma carente sotto l’aspetto tecnico». Poiché sulle ragioni di questo giudizio è nato in seguito un malinteso, ho approfittato della sua presen­ za qui per suggerirgli di chiarire appieno il suo punto di vista — e l’ho trovato immediatamente disponibile. «Naturalmente», ha detto, «parlando della qualità insoddisfacente delle armonie di Berlioz non pensavo alla loro “correttezza” secondo le regole scolastiche. Non riesco infatti a concepire che qualcuno possa immagina­ re armonie in termini di regole scolastiche: o le immagina in termini di musica pura e semplice, o è meglio che lasci perdere. Il mio appunto su Berlioz consisteva nel fatto che egli è stato l’unico compositore di genio a concepire le proprie melodie senza udirne l’armonizzazione, e a scopri­ re quest’ultima solo più tardi. E possibile osservare qualcosa del genere, occasionalmente, in Gluck; ma con Berlioz è la regola, non l’eccezione. Non si tratta di un punto che si possa spiegare o dimostrare. Occorre percepirlo, e questo solo un musicista lo può fare. Quando dico che i bassi di Berlioz sono generalmente “sbagliati” o le sue modulazioni “roz­ ze”, non faccio riferimento alla “correttezza” ed “eleganza” che i libri di testo hanno la pretesa d’insegnare. Chopin offre innumerevoli esempi di armonie inusuali, e forse teoricamente “sbagliate”; ma per l’orecchio musicale esse sono sempre appropriate, e collocate esattamente al loro posto. Ci sono alcune armonie sorprendenti nella musica di Berlioz, ma ogni volta che ne incontro una ho l’impressione che sia capitata lì come per caso, e non in vista di uno scopo ben definito. Nel Valse des Sylphes, per esempio, ci sono una o due cose deliziose — molto simili alle armo­ nie predilette e più efficaci di Glinka2; ma nutro seri dubbi sul fatto che Berlioz le abbia veramente “sentite”. Una di queste è il risultato di una nota di pedale che Berlioz sembra aver lasciato semplicemente perché

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non trovava assolutamente il modo di sbarazzarsene3. Ma non desidero esprimere il mio punto di vista su questioni tecniche. Voglio aggiungere una cosa soltanto: quando ho parlato della sua incapacità di armonizzare adeguatamente (non “correttamente”) anche un semplice valzer, ho usa­ to la parola “valzer”, secondo l’uso francese, per indicare “il tipo più semplice di melodia”. Non pensavo in particolare né al Valse des Sylphes né al valzer della Symphonie fantastique.

Le “correzioni” di Rimskij-Korsakov «Il problema di “correggere” le armonie di Berlioz non dovrebbe in ogni caso neppure esistere. Ha pienamente ragione Ernest Newman4 quando afferma che l’armonia di un compositore è parte integrante del suo stile, quindi della sua personalità. Non è possibile alterare le armonie di un com­ positore senza alterare il senso della sua musica. Rimskij-Korsakov, per esem­ pio, quando credeva di correggere le armonie di Musorgskij, sostituiva in realtà una musica coerente con la propria concezione a una musica coerente con la concezione di Musorgskij. Detto per inciso, il novantanove per cento delle presunte scorrettezze di Musorgskij sono puri guizzi di genio. C’è una gran differenza con gli strafalcioni di uno scrittore cui fa difetto la sensibilità linguistica o di un musicista cui manca la sensibilità armonica. Può darsi che in materia di sensibilità armonica un compositore sia carente: lo stesso può accadere per ogni sorta di musicista professionista, o insegnante, o critico musicale. E ovviamente non vi è alcuna spiegazione, alcuna forma d’insegna­ mento che possa rendere questa carenza un fatto positivo. Rifletto sul fatto che Berlioz, per quanta teoria avesse appreso della sua arte e per quanta pratica ne avesse, pure non acquisì mai la capacità di sentire le armonie — un punto che, lo ripeto, bisogna intuire e non può essere spiegato. «Si racconta che Chopin avesse detto a Delacroix — dotato di un’acu­ ta sensibilità musicale e quindi capace di comprendere questa frase se­ condo il suo giusto verso: “L’unica manchevolezza di Beethoven è l’aver ignorato, di tanto in tanto, precise leggi eterne della musica”. Lo stesso potrebbe dirsi, e con maggiore veridicità, di Berlioz». Ho poi chiesto a Ravel di comunicarmi alcune sue impressioni sulla musica contemporanea, più particolarmente sulle tendenze francesi.

Le tendenze francesi

«In Francia», ha detto, «come in tutto il mondo musicale, stiamo assistendo a un tentativo indirizzato verso un generale riassestamento dei valori — l’orribile parola “rivalorizzazione” è molto di moda ora. In

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Interviste

Francia e in Germania, come ognuno sa, si sta affermando una violenta reazione contro il romanticismo. Che qualcosa del genere avvenga in Francia è molto naturale; perché, dopo tutto, il romanticismo francese è stato sempre piuttosto artificioso e intenzionale, e non aveva radici pro­ fonde nella mentalità e nel modo francese di vedere le cose. Ma in Germania, al contrario, è la reazione ad essere intenzionale. Ci sono ampie giustificazioni alla tesi che la musica abbia avuto a soffrire dagli eccessi di emozione e sensazione. Tuttavia, oggi, un buon numero di compositori tedeschi si muove verso l’estremo opposto, e scrive musica puramente intellettuale, del tutto astratta. Oserei dire che, una volta deciso di seguire una certa strada, essi indossano deliberatamente i para­ occhi per non essere tentati di deviare a destra o sinistra. Esempio calzan­ te è quello d’una sinfonia scritta da un giovane compositore, un certo Butting, che ho letto recentemente in manoscritto5. E un’opera interes­ sante, una delle più astratte che conosca. «E curioso come questa tendenza antiromantica possa dar vita a opere tanto diverse l’una dall’altra quanto lo sono la suddetta sinfonia di But­ ting, le ultime composizioni di Stravinsky, e la mia Sonate per violino. Per quanto mi è dato di vedere, pare impossibile trovare una battuta comune in questi tre tipi di opere.

I Tedeschi della generazione più recente «L’astrattezza di Schoenberg è qualcosa di assai diverso. Sotto certi aspetti egli è stato innegabilmente il capofila d’un movimento, un ini­ ziatore. Ma la sua sensibilità è fondamentalmente orientale; e, faccia pur cosa vuole, rimane un romantico. Sono i compositori tedeschi dell’ul­ tima generazione a conseguire realmente quell’astrazione cui mirano. C’è un’altra curiosa caratteristica che mi colpisce nella musica tedesca più recente: la netta separazione tra musica che ambisce alla popolarità e musica puramente scientifica, riservata cioè agli iniziati. Non mi vengono in mente altri esempi di un contrasto così accentuato — per quanto riguarda, beninteso, la musica di un certo livello; chiariamo bene che io — non voglio che mi si attribuiscano di nuovo cose diverse da quelle che ho realmente detto — non sto alludendo a differenze come quelle che esistono tra una canzonetta e un quartetto d’archi! «In Francia vi è un certo rischio che la tendenza antiromantica con­ duca a un eccesso di semplicità — alla fragilità e alla carenza di sostanza. Tra i compositori francesi più giovani, è di notevole interesse (in Inghil­ terra non è ancora conosciuto) Manuel Rosenthal6, un allievo di Erik Satie. Satie di recente è stato sia lodato all’eccesso sia ottusamente deriso; ma bisogna riconoscere che ha esercitato un’importante influenza su più

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d’una generazione di compositori francesi: su Debussy, su di me, sul gruppo cosiddetto Les Six, e su parecchi compositori più giovani, tra i quali, accanto a Rosenthal, merita una citazione particolare Delannoy7». Infine Ravel ha confermato che sta lavorando a un concerto per pia­ noforte e a un’opera, Jeanne d'Arc, tratta dall’omonimo libro di Delteil.

M.D. Calvocoressi

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Problemi della musica moderna1 Da una conversazione con Maurice Ravel

Se vogliamo parlare della “nascita della musica del XIX secolo”, dob­ biamo prendere in considerazione due fattori: il trionfo dell’opera italia­ na e il dramma musicale di Wagner. Queste due generi musicali rispec­ chiano al meglio la temperie spirituale del tempo; dipende dagli artisti dell’epoca odierna la prospettiva sotto la quale possiamo vedere il futuro. Nel secolo passato era imperante quell’individualismo che al giorno d’oggi molti filosofi definirebbero «anarchia». Dalla grande liberazione politica derivò la libertà del pensiero e dell’individuo, il cui fine era quello di cambiare le forme fino ad allora esistenti di gerarchia, società e stato in forme adeguate allo spirito dei nuovi tempi. Liberandosi dalle forme artistiche e letterarie della tradizione, le generazioni più giovani lasciarono libero corso alla loro fantasia, e così nacque il romanticismo. Dopo la Guerra Mondiale ha avuto inizio un’epoca nella quale le idee del XIX secolo hanno perso gran parte del loro splendore. Questo non vuol dire che l’umanità oggi sia meno “nazionale” o abbia meno inclina­ zione al romantico, ma è certo che quelle idee hanno perso gran parte della loro forza attrattiva. Il solido edificio che la filosofìa e l’arte avevano costruito cominciava a vacillare, e aveva pertanto inizio quella che si suole definire «crisi dell’arte». Nella storia della cultura non vi è una linea divisoria tra i fatti che poggiano sulla vita reale e quegli avvenimenti che sono prima di tutto da ricercare nel regno dello spirito, ancorché spesso di significato diametral­ mente opposto. Si dice che solo l’arte abbia vissuto la sua crisi. Ma lo stesso discorso vale anche per il parlamentarismo, per gli assetti deliavita economica e per le singole nazioni nei loro reciproci rapporti; possiamo pertanto a buon diritto asserire che se si è veramente in presenza di una crisi, essa non abbia trascinato solo l’arte nel suo caos. Riconosciute autorità argomentano che una crisi di tale genere non esiste, ma d’altro canto autorità non meno riconosciute asseriscono esattamente il contra­

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rio: la verità si trova certamente nell’aureo mezzo. Le cosiddette «crisi» sono sempre esistite, e le loro cause profonde sono più facili da spiegare di quanto non si creda. I contemporanei non possono quasi mai giudicare con assoluta sicurezza i significati profondi dei movimenti artistici e letterari: il loro campo visivo è temporalmente limitato, e così parlano di crisi quando si sta solo consumando un cam­ biamento. E stato sempre così. E molto facile giudicare retrospettiva­ mente un lavoro quando sono passate centinaia di anni dalla sua com­ parsa, ma è molto più diffìcile predire se un’opera d’arte del presente avrà ancora nei secoli a venire i suoi ammiratori. Abbiamo poc’anzi abbozzato le ragioni di tutte le crisi del tempo, ma non dobbiamo dimenticare che nel frattempo la Guerra Mondiale ha provocato la più grande di tutte le rivoluzioni: la Guerra Mondiale ha cambiato la nostra visione del mondo e spesso anche le nostre vedute in materia artistica. Il nostro compito è pertanto doppiamente difficile, poiché la nostra visione del mondo è matura e definita, ma la maturità artistica è ancora in una fase di sviluppo. Si suole dire che nella nostra epoca domini il jazz come «visione filosofica del mondo», che esso rappresenti in musica lo spirito di tale epoca; nel ritmo del jazz, spesso si sente dire, pulserebbe la vita moderna. Viviamo nell’epoca delle macchine, della tecnica, e non vogliamo torna­ re al passato, sogliono dire questi sapienti. Penso che abbiano assolutamente ragione: si può anche interpretare la tecnica, le macchine, l’indu­ stria nelle loro odierne forme attraverso gli strumenti dell’arte, e per questo non ci è assolutamente necessario l’assordante rumore del jazz. Saremmo proprio mal messi se avessero ragione solo gli “ultramoderni”. Il jazz servirà a molti di noi come intrattenimento, ma non ha niente a che fare con Carte. L’umanità cercava, anche nella musica, mezzi per stordirsi o ubriacarsi, e ha accettato la prima cosa importata in Europa dal Nuovo Mondo. Nelle epoche culturalmente oscure si ripeterà sempre lo stesso processo. Viviamo un’epoca che cerca, sperimenta, ma non assolutamente in una crisi dalle mortali conseguenze. Ci siamo dimenticati dell’epoca del rinascimento, o di quella delle grandi rivoluzioni? È questione di tempo e di pazienza, e sono sicuro che geniali artisti del futuro riusciranno a regalare alla nuova umanità un’arte capace di esprimere, nella sua com­ piutezza, il suo sentire, vivere e desiderare: allora non ci sarà più alcuna crisi.

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Maurice Ravel e il suo “Bolèro ” 1

Le dieci del mattino. Il vecchio Bal Bullier2 in me de l’Observatoire ha l’aspetto smorto e affaticato dei nottambuli sorpresi dai primi raggi del sole. Tutta la sua paccottiglia di stucchi dorati e la vistosità dell’illu­ minazione notturna esibiscono, ora, una realtà sozza e miserevole che solo qualche ricordo consente di osservare con simpatia. Eppure, là den­ tro si trova una delle falangi più illustri di Parigi, fresca e piena d’entu­ siasmo, pronta a lavorare bene a un’opera d’arte. Si tratta dell’orchestra Lamoureux, con il suo eccellente direttore Albert Wolff3, che si è propo­ sta di incidere su disco l’ultima produzione di Maurice Ravel, il Bolèro, rappresentato per la prima volta l’anno scorso all’Opéra con Ida Rubin­ stein, quindi eseguito con grande successo durante i Concerti Lamou­ reux. L’autore ha annunciato che verrà a dirigere personalmente la sua opera. Puntuale ed elegante compare Ravel, quasi stupito di trovarsi così di buonora in un luogo del genere. «Comunque va benissimo per quello che dobbiamo fare», esclama. «Conoscevate già questa sala?» gli chiede qualcuno. «Non ci avevo mai messo piede prima. Dimenticate che ho sempre abitato sull’altra riva della Senna», aggiunge. E coloro che conoscono l’ironia sottile del suo spirito leggeranno in tale risposta un’allusione di ordine estetico. Piccolo e minuto, capelli completamente bianchi, carnagione rosea, sguardo inquieto e penetran­ te, tutto il suo aspetto emana una straordinaria vitalità interiore, che si traduce in un movimento costante del corpo e nella preoccupazione minuziosa per ogni dettaglio del lavoro che si sta preparando. Albert Wolff fa le presentazioni. «Ah, sì, l’Argentina, La Nación» dice, calcando sulla “c”, «un gran bel giornale, lo conosco. Ho in progetto di fare una lunga tournée, dall’America del Nord alle Antille per finire nelle repub­ bliche del Sudamerica. La data dipende da quando terminerò due lavori che sto realizzando: un’opera sinfonica, la descrizione di un volo4, e un

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concerto per pianoforte e orchestra, che eseguirò io stesso. Quanto al Bolèro, se pensate di parlarne, vorrei che diceste che nella realtà non esiste un bolero del genere, insomma, non ho dato al mio pezzo il carattere tipico di questa danza spagnola, e l’ho fatto intenzionalmente. Si tratta di un tema e di un ritmo ripetuti fino all’ossessione, senza nessuna intenzione pittoresca, in un tempo moderato assai. Il tema, che viene esposto dal flauto all’inizio del brano con l’accompagnamento costante del tamburo, passa successivamente a tutti gli strumenti dell’or­ chestra, quindi viene presentato dai diversi gruppi di strumenti in un crescendo continuo ed è sempre ripetuto in do maggiore per esplodere, verso il finale, in mi maggiore. Tanto il tema quanto l’accompagnamen ­ to sono di mia invenzione, benché abbiano entrambi un carattere spa­ gnoleggiarne. Ho sempre avuto un debole per tutto ciò che riguarda la Spagna. In effetti sono nato vicino al confine, e poi c’è un’altra ragione: i miei genitori si sono conosciuti a Madrid» dice ridendo. Albert Wolff interrompe la conversazione. L’incisione del Bolèro sta per cominciare. Ravel sale sul podio. L’orchestra gli dà un cordiale ben­ venuto. A un cenno del tecnico, Ravel attacca un tre quarti estremamen­ te rigido, con gesti brevi e netti, nervosi e precisi come la grafica della sua musica. Alla fine della prima parte, salta, con grande strepito, la corda di un contrabbasso. Il tecnico fulmina con lo sguardo il povero strumenti­ sta che balbetta ogni sorta di scuse. «È evidente che non l’ha fatto appo­ sta», dice Ravel, «era da tanto tempo che un contrabbasso non mi faceva uno scherzo del genere. Su, ricominciamo da capo». Questa volta va tutto bene, salvo il colpo involontario contro un leggio alla fine del pezzo, un dettaglio che viene subito corretto. Assistiamo immediata­ mente all’audizione su disco, che risulta essere ottima, secondo le dichia­ razioni di Emile Vuillermoz, anch’egli presente alla registrazione: ed è una grande autorità in materia, come tutti sanno. A mio avviso, non soltanto l’ottima qualità del disco, ma anche la musica che vi è contenuta gli assicureranno certamente una diffusione a livello mondiale. Questo Bolèro, con il suo tema ripetuto fino alla satu­ razione, uno di quei temi assillanti che il pubblico canta pur senza volerlo, e la persistenza del ritmo ossessivo costituiscono un’ammirevole dimostrazione di fin dove può spingersi la tecnica orchestrale. Impossi­ bile ritrovarvi alcuno dei soliti effetti di colore locale, nessun’aria spa­ gnoleggiarne di nacchere e tamburelli, nessuna delle formule conosciute per fare della musica iberica, eppure, ciononostante, ha un sapore pro­ fondamente spagnolo. Qualcosa del genere lo può creare solo il talento incomparabile di Maurice Ravel. E mezzogiorno e mezzo. Usciamo dal Bai Bullier, prendiamo un taxi e, lungo il percorso, approfitto dell’occasione per cogliere qualche im­ pressione dalla bocca del grande musicista. Non è difficile perché Ravel,

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Interviste

pur essendo un artista solitario quando crea, in società è un causeur squisito, e sa maneggiare i paradossi più straordinari con la stessa genia­ lità con cui manipola la timbrica di un’orchestra. Così, a una mia do­ manda sulla musica contemporanea, mi risponde: «In effetti, credo che la musica attuale stia cercando nuove strade. E per farlo occorre rendere sempre più intensi i nostri pensieri, al fine di liberarci dal pesante fardel­ lo del romanticismo che ci opprime. Sarà l’unico modo per trovare un’espressione che concordi esattamente con la sensibilità della nostra epoca. A noi francesi riesce più facile, perché nel nostro passato non abbiamo avuto Beethoven,'né Schubert, né Schumann, né Wagner. Ma vedo che in Germania i compositori attuali, malgrado i loro sforzi dispe­ rati per riuscire a liberarsene, stanno ancora combattendo contro la pe­ sante eredità romantica. Ne è un esempio lampante Hindemith, che pure è un musicista di valore5. Quindi non credo al ritorno al romanti­ cismo di cui si sta tanto parlando, per questi compositori. Semplicemen­ te non hanno ancora potuto liberarsene». Ora m’interroga a sua volta sui movimenti musicali in Argentina. «So che stanno facendo cose molto interessanti», mi dice. «E desidero davvero andare laggiù. Ma, come vi ho detto, tutto è subordinato alla conclusione delle mie opere perché, tra l’altro, sto scrivendo un concerto per pianoforte per la mano sinistra di un mutilato... e non è per niente facile, credetemi». Arriviamo a casa di Albert Wolff. Prendo congedo da Ravel, il quale, stringendomi la mano, mi dice: «Spero che ci rivedremo presto, per poter chiacchierare ancora di queste cose che interessano entrambi». Ma è difficile stanare Ravel. A Parigi è sempre solo di passaggio, per un paio di giorni, conteso dai suoi ammiratori. Vive a Montfort-l’Amaury, un paesino non lontano dalla capitale, dove in un rifugio incantevole pro­ duce con la meticolosità di un tecnico di laboratorio e la nobiltà di un grande artista le opere ammirevoli che di tanto in tanto compaiono sui programmi dei concerti per poi fare il giro del mondo. José André Parigi, gennaio 1930

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Intervista con Ravel 1

— Ho molta simpatia per la scuola di Schoenberg: si tratta di autori a un tempo romantici e rigorosi. Romantici perché vogliono sempre infrangere “vecchie tavole” della legge. Rigorosi per via delle nuove leggi che impongono a se stessi e perché sanno diffidare di quell’esecrabile sincerità che genera opere loquaci e imperfette. E un fatto curioso, e un peccato, che tra le loro tendenze e quelle dei nostri musicisti vi siano barriere per lo più impenetrabili. Anche laddove sembra di poter scoprire una parentela, si tratta piuttosto dell’influenza comune di Richard Strauss. — Amano Mahler, che è ardente, ingegnoso e maldestro, e ha qual­ cosa del dilettante di genio — un po’ come Berlioz. Detestano Strauss (che li ricambia di cuore), ma devono molto, se non all’artista Strauss, almeno allo Strauss musicista. L’audacia in materia di contrappunto è cosa vecchia come l’organo o il violino. La nota dissonante in funzione decorativa risale anch’essa ad antichi maestri (vedi Scarlatti)2. Ma Strauss è stato il primo a sovrapporre linee armonicamente incompatibili. Osser­ vate quest’accordo, in Salome,

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Interviste

refrattario a qualsiasi analisi cadenzale — giustificabile tutt’al più con l’impiego simultaneo di differenti impianti tonali. Proprio qui troviamo una delle radici della maniera detta atonale di Schoenberg.

— Non bisogna mai aver paura di imitare. Io sono divenuto allievo di Schoenberg per scrivere i miei Poèmes de Mallarmé e soprattutto per le Chansons madécassesy dove alla base dell’atmosfera, come nel Pierrot lunaire, c’è un contrappunto molto stretto. Se ciò non si è trasformato in Schoenberg allo stato puro, è perché io ho meno paura, in musica, della suggestione emotiva, un elemento che lui evita fino all’ascetismo, fino al martirio. — Forse fa bene a evitarlo, perché è viennese, per reazione contro la sensualità musicale del suo ambiente; d’altronde, le sue prime opere ne sono impregnate3.

— Vanno a fondo nei loro esperimenti. E sempre una buona cosa, in Arte, realizzare con precisione l’opera che si vuole costruire. E poi, han fatto piazza pulita di non pochi pregiudizi... Infine, li attenda il deserto o la Terra Promessa, Dio riconoscerà i suoi.

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A casa di Maurice Ravel1 La sua opinione sulla radio e sulfonografo L'eremita musicale diMontfortd'Amaury IL suo concerto per pianoforte e i suoi progetti per un 'opera

Scoprire il nascondiglio di Maurice Ravel non è facile. Nel tentativo di mettere in fuga i curiosi, il compositore si è ritirato in un angolo sperduto dell’Ile-de-France. A Montfort-l’Amaury, nome che evoca scontri di cavalieri e medievali amori cortesi, ci vien detto che il recluso vive in una villa chiamata il Belvedére, sulla collina. Suoniamo... Nessuna risposta. Ancora una volta... Sempre senza for­ tuna. Il portone è chiuso a chiave. Una governante di bell’aspetto e con i capelli grigi si sporge da una finestra al primo piano. Ci fa entrare in un’anticamera giapponese, poi passiamo davanti a una serie di stanze, ciascuna delle quali si affaccia su di una veduta magnifica. Abbiamo l’impressione di trovarci nella bottega di un mer­ cante di cineserie, che esponga un secolo di esotismo. Lo stile è mezzo Pompeiano, mezzo Impero. Tutto ha un aspetto impeccabile, costoso, civettuolo. Nell’ultima stanza, che pare un dado di carta, troviamo Maurice Ravel in mezzo ai suoi gatti siamesi: anche lui è piccolo, impec­ cabile, civettuolo. Immerso fino alle ginocchia tra lettere e manoscritti, è occupato a riordinare i suoi documenti. Ci scusiamo per la nostra visita, dopodiché Ravel ci dice il suo stupore per essere stato «scoperto». «Parto domani con il mio amico, il compositore Delage, che mi porterà a Monte-Carlo con la sua automobile. Sono stanco, molto stan­ co, e ho bisogno di qualche giorno di evasione. Ho appena finito il Concerto pour la main gauche, che ho scritto per Paul Wittgenstein, ferito durante la guerra, ma sfortunatamente ho dovuto interrompere il lavoro sul mio nuovo concerto per pianoforte». — Il mondo intero è curioso di conoscere questo concerto, e sono sicuro che non rifiuterete di dirci qualcosa al proposito. «E un divertimento nel quale due movimenti vivaci fanno da cornice a un movimento lento. Scrittura armonica e scrittura contrappuntistica

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si equilibrano, tanto che l’una non domina sull’altra. Noterete il titolo, “divertissement”. Non bisogna attribuire a questo concerto ipotetiche pretese che non saprebbe soddisfare. Ciò che Mozart ha scritto per il piacere dell’orecchio è perfetto, e secondo me anche Saint-Saéns ha raggiunto quest’obiettivo, benché a un livello inferiore. Beethoven per contro esagera, drammatizza e si glorifica da sé, così da non raggiungere il proprio obiettivo. «Spero di eseguire io stesso ovunque il nuovo concerto. Come Stra­ vinsky, mi riservo i diritti su ogni prima esecuzione. Le parti dell’orche­ stra non saranno subito pubblicate, e la partitura comparirà solamente in una versione per due pianoforti. Marguerite Long avrà il diritto di suo­ nare il concerto tra un anno e mezzo; ad Amsterdam lo ascolteranno in autunno, e poi sarà la volta persino di Giava2. Batavia3 non ha un’orche­ stra, ma il direttore Dirk Fock4 mi ha assicurato che sarà facile metterne insieme una». — Siete forse particolarmente attirato da Giava per via della vostra relazione musicale con l’Oriente? «Sì, sono impaziente di vedere il paese del gamelan5. Considero la musica giavanese come la più elaborata dell’Estremo Oriente, e sovente prendo a prestito dei temi: Laideronnette, di Ma mère Voye^ con le cam­ pane del tempio, viene da Giava, sia per l’armonia sia per la melodia. Come Debussy e altri contemporanei, sono sempre stato particolarmen­ te affascinato dall’orientalismo musicale». — Non siete stato allo stesso modo sedotto dal jazz? «Nessuno può respingere i ritmi di oggi. La mia musica recente è piena di influenze provenienti dal jazz. Il “fox-trot” e le “blue notes” della mia opera L’enfant et les sortilèges non ne sono gli unici esempi. Anche nel mio nuovo concerto per pianoforte, si riconoscono diverse sincopi, per quanto raffinate. Ma l’influenza del jazz è in declino. A Parigi è tornata la musica tzigana, così come il vorticare del valzer, al quale ho sovente reso omaggio». — Che ne pensate del neo-classicismo, che oggi divide in due schie­ ramenti il mondo musicale? «Dopo il nostro modernismo estremo, bisognava attendersi un ritor­ no del classicismo. Dopo il flusso arriva il riflusso, e dopo la rivoluzione si vede la reazione. Stravinsky è spesso considerato come il capofila del neo-classicismo, ma non scordatevi che il mio Quatuor à cordes era già concepito come contrappunto a quattro voci mentre il Quatuor di De­ bussy è di concezione puramente armonica». — Qual è il vostro giudizio sulle composizioni scritte da Stravinsky dopo la guerra, che tante controversie hanno suscitato? «Sono stato profondamente impressionato dalla Sinfonia di salmi'. l’espansione conclusiva grandiosa, quasi sovrannaturale. Nessun dubbio

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che la Sinfonia di salmi sia un Oedipus rex riuscito. Ma preferisco di gran lunga Oedipus rex ai numerosi aridi esercizi stilistici che il compositore russo ci offriva in precedenza!»6. — Come pensate che vada diretto il vostro Bolèro? E che cosa rispon­ dereste ai direttori e ai critici che non sono della vostra opinione? «Devo dire che raramente il Bolèro viene diretto come io penso che dovrebbe esserlo. Mengelberg accelera e rallenta in njodo eccessivo. Toscanini lo dirige due volte più veloce del dovuto e allarga il movimen­ to alla fine, cosa che non è indicata da nessuna parte. No: il Bolèro deve essere eseguito con un unico tempo dall’inizio alla fine, nello stile lamen­ toso e monotono delle melodie arabo-spagnole. Quando ho fatto notare a Toscanini che si prendeva troppe libertà, ha risposto: «Se non lo suono a modo mio, sarà senz’effetto». I virtuosi sono incorreggibili, sprofondati nelle loro chimere come se i compositori non esistessero». — In quest’angolo isolato, siete in contatto con il mondo musicale per mezzo della radio? «Per carità, risparmiatemi la radio! Mi è penoso ascoltare musica così deformata. No, preferisco il fonografo, che sta migliorando rapidamen­ te. Il mio Bolèro, registrato dal marchio Polydor, è davvero soddisfacen­ te. È più diffìcile registrare La Valse. WolfF, il direttore d’orchestra, ha esagerato appositamente ipianissimi dell’esordio, ma la registrazione non riesce ancora come dovrebbe, e così sto scrivendo un’orchestrazione par­ ticolare appositamente per il fonografo8. Ciò vuol semplicemente dire che, nonostante i progressi, le registrazioni microfoniche non hanno ancora raggiunto una qualità ideale». — Quali sono i vostri progetti per l’avvenire? «Penso a una Jeanne d'Arc. Il celebre romanzo di Delteil mi ha ispira­ to, e il progetto musicale è quasi compiuto. I diversi episodi della vita della santa si susseguiranno “cinematograficamente”, o se preferite come immagini di Epinal9. Quest’epopea su di una eroina francese m’ha com­ pletamente sedotto. La natura e l’umanità, strettamente legate, offrono innumerevoli possibilità d’interpretazione musicale». Chiediamo al compositore di poter visitare il suo santuario. Innume­ revoli veli di tende sottili lasciano entrare una tenue luce. Questo studio in stile Biedermeier somiglia un po’ a una grotta azzurro cupo. Dopo che i nostri occhi si sono abituati all’ambiente, riconosciamo centinaia di piccoli oggetti sopra e intorno al pianoforte: minuscole navi sotto vetro, orologi da tavolo neogotici, bamboline danzanti, eleganti fiori di vetro intagliato, figurini raffiguranti dame in crinolina, come quelle rese popo­ lari da La vie parisienne di Offenbach. Da ogni cosa spira una genuina atmosfera 1830, il medesimo periodo che Ravel ha interpretato così bene nelle sue poetiche e ricercate Vaises nobles et sentimentales. Di stanza in stanza, il compositore ci mostra i suoi raffinati tesori

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Interviste

d’arte. Quando apre l’ultima porta, per un istante restiamo ammutoliti. Dalla balconata, come da un ponte di nave, sospesi sulla natura, vediamo l’intera Ile-de-France. Quasi impercettibilmente campi e giardini, come se fluissero dai tetti muscosi di questa città cattedrale, scendono profondi e risalgono, fino a una collina boscosa, come se concludessero una qual­ che dolce melodia. Gli uccelli cantano e una luce soffusa gioca con il cielo velato di foschia come in un dipinto di Corot. Ravel si sporge dalla balaustra e ci mostra la sua ultima creazione: il giardino, digradante a terrazze, con una fontana di marmo e, in lonta­ nanza, un piccolo, delizioso laghetto roccioso. «Ricorda un po’ i giardini di Versailles, e anche un giardino giappo­ nese, non vi pare?» Non si riflette forse in questa frase tutta la sua personalità, permeata da un lato di ricordi del grandioso e felice secolo di Couperin e Rameau, abbinata dall’altro a una sensibilità raffinata e a un’abilità minuziosa che rievocano il Giappone?

Parigi, marzo [1931]

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Maurice Ravel parla della propria opera1 Chiarimenti sul “Bolèro ”

Qualche tempo fa gli ambienti musicali, venendo a sapere che Ravel s’era lanciato nella composizione di due concerti per pianoforte (uno per la sola mano sinistra, l’altro per le due mani), sono stati senza dubbio incuriositi, non foss’altro perché Ravel non è mai parso desideroso di scrivere più di un’opera per genere, se per genere intendiamo qualcosa di più definito della semplice mélodie, del brano per pianoforte o del brano orchestrale. La sua opera comprende, ad esempio, un solo Quatuor à cordes ; un Septuor per arpa e strumenti a corda; una Sonate pour violon etpiano-, una Sonate pour violon et violoncello', un Trio con pianoforte; un opéra-comique, L’heure espagnole-, un’opera fantastica, L’enfant et les sortilèges-, e un balletto: Daphnis et Chloé-, gli altri balletti, Ma mère Boye e Adélaide, ou Le langage des fleurs, sono adattamenti di opere scritte originariamente per pianoforte. La prossima opera destinata al teatro dovrebbe essere un dramma lirico, Jeanne dArc. Si poteva dunque immaginare che l’inizio simultaneo del lavoro a due concerti per piano presupponesse tra i due una differenza ben più grande di quella legata alla destinazione di uno di essi alla mano sinistra. Infatti Ravel, in un’intervista che mi ha appena concesso, conferma quest’ipotesi.

Perché la tournée non toccherà la Russia «Ho appena terminato», dice, «il concerto per il pianista mutilato Paul Wittgenstein. Ho lasciato da parte, per ora, la mia Jeanne dArc, e mi batto contro il tempo per completare l’altro mio concerto per piano­ forte, che deve essere pronto in novembre. Eseguirò la parte del solista dapprima a Parigi, poi partirò in tournée attraverso la Germania, il Belgio, i Paesi Bassi, le due Americhe, il Giappone e forse Giava, se —

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Interviste

come mi dice il direttore d’orchestra Dirk Fock — è possibile raccogliere laggiù un’orchestra per suonarlo. La tournée non passerà per la Russia perché i miei agenti mi dicono che gli artisti scritturati in quel paese sono costretti dalla legge a spendervi i compensi che ricevono, e dunque io sarei obbligato ad acquistare pellicce o icone di cui non saprei cosa fare».

Due concerti contrastanti «Concepire i due concerti simultaneamente è stata un’esperienza in­ teressante. Quello che interpreterò personalmente è un concerto nel senso più autentico del termine. Voglio dire con ciò che è stato scritto nello spirito di quelli di Mozart e di Saint-Saèns. La musica di un con­ certo, secondo me, dev’essere leggera e brillante, e non mirare alla pro­ fondità o agli effetti drammatici. Di alcuni grandi classici s’è detto che i loro concerti erano scritti non “per” ma “contro” il pianoforte. E un’os­ servazione che mi pare colga perfettamente nel segno2. In principio ave­ vo pensato di intitolare il mio concerto “divertissement”. Poi m’è parso che non sarebbe stato utile, perché il titolo stesso di “concerto” dovrebbe chiarire a sufficienza il carattere dell’opera. «Sotto certi aspetti questo concerto non è senza rapporti con la mia Sonate pour violon. Contiene qualche accenno di jazz, ma poca cosa. «Il Concerto pour la main gauche è in un solo movimento, e molto diverso. Contiene numerosi effetti jazzistici, e la scrittura non è così leggera. In un’opera di tal genere, è indispensabile che la tessitura sonora non dia l’impressione di essere più scarna di quella di una partitura scritta per le due mani. Per la stessa ragione, ho fatto ricorso a uno stile ben più vicino a quello dei concerti tradizionali più solenni. «Una delle caratteristiche dell’opera è che, dopo la prima parte scritta in questo stile tradizionale, si produce un improvviso mutamento, e comincia il jazz. Solo che, in seguito, appare evidente che questa musica di jazz è costruita in pratica sullo stesso tema della parte iniziale». Ho chiesto a Ravel se avesse da fare osservazioni particolari sul suo Bolèro, che era stato oggetto di accalorati dibattiti in Inghilterra come altrove. «Certamente sì», ha risposto. «Mi auguro vivamente che nei riguardi di quest’opera non ci siano malintesi. Essa rappresenta un’espe­ rimento in una direzione particolarissima e limitata, e non bisogna so­ spettare che ambisca ad altri risultati oltre a quelli effettivamente conse­ guiti. Dopo la prima esecuzione, ho fatto preparare un avviso in cui si avvertiva che il brano da me composto durava diciassette minuti, e consisteva interamente in “tessitura orchestrale senza musica” — attra­ verso un lungo crescendo molto graduale. Non ci sono contrasti e pra­

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ticamente non c’è invenzione, eccezion fatta per il progetto iniziale e il modo di metterlo in pratica. «I temi sono del tutto impersonali — melodie popolari del consueto tipo arabo-spagnolo. E (benché si sia potuto asserire il contrario) la scrittura orchestrale è semplice e lineare in tutto il suo percorso, senza il minimo tentativo di virtuosismo. Sotto questo aspetto non si potrebbe immaginare contrasto più grande di quello che contrappone il Bolèro all’Enfant et les sortileges, in cui ricorro liberamente a ogni sorta di virtuo­ sismo orchestrale. «E forse a causa di questi particolari che non c’è compositore che ami il Bolèro — e dal loro punto di vista hanno perfettamente ragione. Ho fatto esattamente ciò che volevo fare, e gli ascoltatori devono soltanto prendere o lasciare». Queste ultime frasi sono davvero tipiche di Ravel. Può darsi che presti attenzione a ciò che i suoi colleghi compositori (e soprattutto quelli di cui ama la musica) pensano delle sue realizzazioni; ma quel che i critici hanno da dire — sia un elogio o un rimprovero — lo lascia assolutamen­ te indifferente.

M. D. Calvocoressi

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Un'intervista con... Maurice Ravel 1

Maurice Ravel ha appena terminato di realizzare il suo secondo capo­ lavoro. Non venite subito a obiettarmi che ne conoscete una buona mezza dozzina. Anch’io. Ma non sono sicuro che lui non preferisca questo agli altri. Maurice Ravel sarà per i posteri il Maestro di Ciboure o quello di Montfort-l’Amaury? E certo risaputo che ha stabilito la sua dimora lag­ giù, una dimora senza vane esteriorità, ma che domina su di un vasto, sfumato paesaggio; coloro a cui ne ha socchiuso la porta ce la mostrano arredata di guéridon stile Luigi Filippo e di bonheur du jour Secondo Impero. Adelaide potrebbe oziarvi sognando il linguaggio dei fiori... Ora, poiché ieri al concerto ho incontrato quest’uomo che passa per inafferrabile, l’ho colto a bruciapelo con la richiesta di un appuntamento. «Domani», m’ha risposto lui all’istante, «domani, in via tale...». Quella via, non cercatela nell’elenco telefonico dell’alta società, dalle parti di Passy o del parco Monceau2. Maurice Ravel abita nella prima periferia, in un albergo la cui facciata è stretta tra i muri sgraziati di un’officina3: non dimenticatevi che il padre di Maurice Ravel era un distinto ingegnere, costruttore, inventore... E naturale che la professione rimanga in qualche modo legata alla famiglia. Comunque, lascio presto la hall e salgo una stretta scala, preceduto dal maestro. «Qui», mi dice, «verranno appese alcune belle foto di Man Ray, di quelle che sfiorano prestigiosamente il limite dell’assurdo»4. Un ovattato pianerottolo. Una porta silenziosa. Ecco lo studiolo, la cella o la stanza dei sogni, un cofanetto in compensato grigio scuro, fregiato di una bordura di preziose stampe giapponesi. «A questa finestra verranno applicati vetri di nuovo tipo, che rimpic­ cioliranno sino a farlo dimenticare quest’odioso paesaggio di sobborgo industriale». Un’altra porta silenziosa: eccoci nello studio. Riflessi luminosi lam­

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peggiano dai rivestimenti di legno chiaro, dal nickel dei braccioli, dagli specchi delle vetrine. Un’ampia biblioteca torreggia su di un divano senza schienale. «Non sarà grande abbastanza per contenere la mia collezione di me­ morialisti», mi dice il maestro. Poi mi mostra in dettaglio i suoi tesori: cristalli di Vienna, sopram­ mobili portati dall’Arizona («Non si direbbe un Picasso?»), un delizioso e minuscolo villaggio tratto da una scatola di giocattoli che pare fatta per il figlioccio di una fata. Accanto all’entrata, il suo busto modellato da Leyritz, una figura squadrata con tratti decisi, le sopracciglia spesse, il naso aerodinamico, le labbra dal taglio netto piegate in un sorriso ironico. In ogni fisionomia umana il pittore David cercava quella di un animale. Chi parlò di una piccola volpe a proposito di Ravel? In ogni caso fu Colette a ritrarlo come uno scoiattolo. D’altra parte, è stato disegnato venti volte da Favory5, da d’Espagnat6, da Ouvré7, da Luc-Albert Moreau8. «Ma il ritratto più somigliante è stato pur sempre Leyritz a farmelo — mi dice. Quanto a questo, firmato Natanson, è forse il più bel quadro surrealista che sia...». Come descriverlo? Sotto un globo si accavallano falde di vetro, una piccola lampadina le colora — luce fredda — di azzurro glauco o di verde smeraldo: grande fondale marino su cui strisciano la spirale diuna conchiglia e il merletto di un’alga. «E questo?...». Ma non è che un giocattolo meccanico. Ravel lo carica: un pupazzo prende una biglia, con un gesto la lancia verso un «cabinet numéroté» come canta Satie9 — e ricomincia. All’improvviso mi pare che il giocattolo meccanico e il quadro surre­ alista così accostati illuminino già tutta l’opera raveliana. Ariel10 e Vaucanson11: non è forse così che l’ha definito il suo biografo più acuto, Roland-Manuel? «Fermo il mio piccolo giocatore di pelota», mi dice Maurice Ravel. Ma è bastata questa parola per riportarmi con la mente a Ciboure, vicino a Saint-Jean-de-Luz, a Ciboure che un anno fa ha dato una festa in suo onore. Sua madre era basca. Suo padre era di Versoix, piccolo porto che Voltaire aveva fondato sull’azzurro Lemano. «Il più perfetto tra gli oro­ logiai svizzeri», s’è detto di Ravel — o il più maliardo tra gli stregoni di Spagna: pensate aWHeure espagnole, N&L’heure espagnole rappresenta il passato, e Ravel vuole mettersi a par­ lare dell’opera futura. Così comincia una conversazione a frammenti, con frasi incorniciate da brevi silenzi, e da un poco di cenere di sigaretta. Nervo­ samente, Ravel si alza e va a gettarla nel posacenere con un colpetto del dito.

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Interviste

L’avvenire? Il più prossimo, è il Concerto pour la main gauche seule. Il più lontano, è una Jeanne d'Arc. «Appunto, tratta da Delteil», mi dice. «Tutto sommato, a pensarci, perché no? Tutto il nostro teatro è rimasto fondamentalmente romanti­ co, dagli Huguenots al Christophe Colomb di Milhaud: perché non manca certo di romanticismo, Claudel12». — Né Delteil, immagino... «Perché c’è del cattivo gusto. Ma c’è anche lì dentro una nuova op­ portunità di evasione, per me. Non è stato ancora scritto nulla: cerco di stabilire un punto di riferimento, di ritagliare elementi da quest’opera sovrabbondante, perché come potete immaginare scrivo il mio libretto da me. Non si può chiedere a dei cori francesi di partecipare a un’azione. Non è come a Bruxelles. I miei animali àAVEnfant et les sortilèges entra­ vano così bene nelle loro rispettive pelli da procurarsi delle belle ammac­ cature. Così seguirò un’idea che ho già dato a Diaghilev, e di cui ha tratto partito nel Gallo d'oro-, i miei cori saranno schierati ai due lati della scena. In questo libro ci sono contrasti e accostamenti davvero stimolan­ ti, per esempio tra le due battaglie: quella di Jeanne d’Arc bambina e quella di Jeanne d’Arc nei panni di condottiero. Avrò dunque bisogno di due interpreti: due soltanto, ho rinunciato alla poppante! Evidentemen­ te un’opera del genere esigerà una forma nuova. Ma questa è una neces­ sità costante, assoluta: rinnovarsi. Così cerco contemporaneamente la forma dell’operetta progettata con Bousquet. Il soggetto è delizioso, con una punta di pirandellismo. Ma anche lì, occorrerà fare qualcosa che non sia né Messager (un’operetta di grande successo oggi deve ispirarvisi, mi dicono. Ma allora non ne vale la pena!), che non sia dunque né Messager13, né Offenbach, né Chabrier». L’influenza dei Trois valses romantiques di Chabrier sul giovane Ravel è stata innegabile: ciò non gli ha impedito di essere Ravel fin dalle sue prime note. La Habanera (1895) è un’opera degli esordi: egli potrà introdurla tredici anni più tardi, senza cambiarne una battuta, nella sua Rhapsodie espagnole^ una delle partiture che, tra lo scandalo e i tafferugli, ha posto le basi della sua fama. Così nulla impedirà alla sua opera di raccogliere come un riflesso sublime qualcosa di Chabrier {Pavane pour une infante défunte}, di Satie {Ma mère l'oye), oppure di Schoenberg: Les Poèmes de Mallarmé ; si tratta, potrebbe esser detto ed è stato detto, di uno Schoenberg neutralizzato. «Chabrier», riprende, «uno dei grandi musicisti del nostro paese, ma che continua a essere perseguitato da una tenace sfortuna. Debussy, che l’ammirava con qualche riserva, ha rischiato di non avere altro che il nome sulla targa d’un vicolo nei recessi di Batignolles14. Chabrier neppu­ re questo, che io sappia15. E la sua stessa opera continua a essere ignorata. Si parla sempre della sua volgarità. Strana tara, per un musicista che è

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facile identificare ascoltandone tre battute a caso. Ho visto per l’ultima volta quel povero grand’uomo alla rappresentazione di Gwendoline', era già indifferente a tutto, persino alla musica. Quanto a Briséis, partitura disuguale, mi hanno chiesto di terminarla. Ma a che scopo? Fare dello Chabrier? D’altra parte, questo genere di collaborazioni postume di rado ha successo. A malapena è possibile citare Les contes d’Hoffmann, dove appare l’eleganza di scrittura di Ernest Guiraud16. Offenbach, è un ma­ estro anche lui, di cui i giovani si fanno forti volentieri. Chiarezza fran­ cese, spirito francese: perché la musica non è mai stata tanto nazionale. Non si è mai parlato tanto di “musica francese” come dopo la guerra. Io sono il più internazionalista tra gli uomini, ma fortemente nazionalista in arte, in arte soltanto. Richard Strauss un giorno a Vienna mi diceva: “Tra tutti i musicisti tedeschi, non sono forse il più simile ai vostri?”. Dopo l’Alpensymphonie e la macchina del vento si può esserne stupiti17? Che si ammiri Salome, tanto perfettamente orchestrata — perché Strauss orchestra bene, molto meglio di Wagner! — passi: ma quanto fa difetto ad essa l’ironia di Wilde. Non importa, i giovani non mi amano...». — Suvvia, maestro... «Suvvia cosa? Hanno tutte le ragioni, perbacco! Bisogna avere qualche forma di malafede in arte. Il gran lavoratore che risponde al nome di Honegger; Milhaud, di cui Les malheurs d’Orphée è pur sempre una bella cosa, una bella cosa un poco ostica a cantarsi; Ibert che si libera del ravelismo, come si dice; Roland-Manuel dall’intelligenza tanto lucida; Delannoy di cui mi piaceva Le fou de la dame (un bel soggetto, questo lato tragico del gioco degli scacchi) e così via fino a quel giovane Manuel Rosenthal che mi ha chiesto certi consigli prima del suo Rayon des Soieries™. Ecco una coorte splendida. Altri, gli ultimi arrivati, hanno ancora da imparare: impareranno a dimenticare e a trovare se stessi». — E dunque questa la grande lezione che predicate, seguendo Nietz­ sche e imitando Stravinsky? «Ho amato molto lo Psaume e lo dissi a Igor. Les noces, è come Le sacre, senza averne le sbavature. Ciò non toglie che anche Stravinsky abbia fatto qualche buco nell’acqua: Mavra o lo stesso Apollon, che hanno rappresentato ai Ballets Russes contemporaneamente a una certa opprimente faccenda di Hàndel...». — Les Dieux mendiants^... «Proprio quella: era noiosa come un’opera classica. Solo Mozart riesce a non esserlo mai. Mozart è la bellezza assoluta, la perfetta purezza. La musica sarebbe morta con lui, morta di consunzione o di quella stessa purezza, se non avessimo avuto Beethoven che era sordo. E quel che ammiro di più, in lui, è l’ineseguibile Nona. Dopo di ciò, è arrivato Berlioz. Berlioz è stato il genio che sapeva ogni cosa d’istinto, salvo ciò che ogni allievo di Conservatorio riesce a fare a occhi chiusi: mettere un buon basso sotto un valzer».

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«E ora, che cosa farò? Ma mi riposerò, forse facendo il giro del mon­ do. Perché qui io lavoro troppo e dormo solo due ore per notte. Ora, la resistenza umana non è senza limiti. Ma tutto il piacere dell’esistenza consiste nell’incalzare la perfezione sempre un poco più da vicino, nel rendere un po’ meglio il fremito segreto della vita». E io penso al verso di Klingsor, di Tristan Klingsor di cui Ravel ha inghirlandato di adorabile musica Shéhérazade, e che dovrebbe davvero offrirci un libro sul “suo” musicista: Et le coeur ironique et tendre qui bat sous Le gilet de velours de Matirice Ravel1®...

[E l’ironico e tenero cuore che batte sotto il gilé di velluto di Maurice Ravel...]

José Bruyr

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Qualche confidenza del grande compositore Maurice Ravel1 Il maestro ci parla del suo nuovo concerto perpianoforte, la cui prima esecuzione seguirà di poco quella del “Concerto pour la main gauche” che egli ha scritto per il virtuoso mutilato Paul Wittgenstein. Un commovente omaggio a Debussy, di cui «il “Prélude à Paprès-midi dun faune” è un miracolo musicale senza confronti»

Il grande musicista francese Maurice Ravel — che all’estero è cono­ sciuto come il più grande musicista contemporaneo — ha trascorso l’estate a Montfort-l’Amaury, lavorando senza sosta per terminare un secondo concerto per pianoforte e orchestra. Su richiesta del pianista mutilato Paul Wittgenstein, ha composto un concerto per pianoforte per la sola mano sinistra; ma già all’epoca in cui quest’opera gli fu commissionata, Maurice Ravel aveva posto le basi per un più ampio concerto per le due mani. L’opera, che ha assorbito tutta la sua attività per lunghi mesi, è ora compiuta, e l’autore ha cortesemen­ te voluto lacerare per noi il velo con cui fino ad ora l’aveva accuratamen­ te avvolta. Il 15 gennaio prossimo, alla Salle Pleyel, nel corso di un festival dedicato alle sue opere, Maurice Ravel siederà al pianoforte per la prima esecuzione del suo concerto, accompagnato dall’Orchestra Lamoureux. Quest’opera farà poi il giro del mondo, e ovunque l’autore ne sarà anche l’esecutore. — Il mio solo desiderio, ci dice Maurice Ravel, è stato quello di scrivere un vero concerto, cioè un’opera brillante che mettesse piena­ mente in luce il virtuosismo dell’interprete, senza cercare di mettere in mostra significati reconditi. Per questo ho preso a modello due musicisti che, a mio parere, hanno illustrato nel modo migliore questo genere di composizione: Mozart e Saint-Saèns. E così questo concerto, che in un primo tempo avevo pensato di intitolare “divertissement”, comprende le tre parti abituali: a un Allegro iniziale, di struttura rigidamente classica, segue un Adagio con il quale ho voluto rendere un particolare omaggio allo stile scolastico e che mi sono sforzato di svolgere il meglio possibile; per finire, un movimento vivace in forma di rondò, ugualmente conce­ pito secondo le più immutabili tradizioni. Per non appesantire inutil­ mente il tessuto orchestrale ho fatto ricorso a un organico ridotto: al­

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Interviste

l’abituale quintetto degli archi s’aggiungono solamente un flauto, l’otta­ vino, un oboe, il corno inglese, due fagotti, due corni, una tromba, un trombone2. Come si può notare, Maurice Ravel non è tra coloro che custodiscono gelosamente il segreto sulle proprie opere non ancora rivelate al pubbli­ co. Egli si esprime allo stesso modo su quelle già scritte, come d’altra parte su quelle dei suoi colleghi, con una franchezza che testimonia il senso critico del suo discernimento, acuto e incisivo come il suo sguardo. — La vera personalità di un musicista, ci dice a questo riguardo, consiste nel non cercare di averne una riconoscibile di primo acchito e cristallizzata in formule invariabili. E questo il lato debole di Richard Strauss, per altri aspetti musicista di genio, mentre l’esempio di Stravin­ sky, che cerca costantemente di rinnovarsi e di esplorare senza sosta i campi più diversi, mi pare infinitamente preferibile. Un musicista deve potersi “isolare” completamente dalla propria produzione anteriore e “dimenticare” un’opera una volta che questa è terminata. Vi confesserò che provo talvolta un vivo piacere ad ascoltare il mio Quatuor à cordes, Shéhérazade o Daphnis, perdendo la cognizione che ne sono io l’autore. Quando gli chiediamo se, malgrado tutto, non conservi una predile­ zione particolare per qualcuna delle sue opere, Maurice Ravel non esita a dirci che il suo speciale favore va alle Chansons madécasses e al Bolèro, «opera ch’egli ha compiutamente realizzato e che gli ha permesso di raggiungere in pieno lo scopo che s’era proposto». Allo stesso modo, anche la Sonate pour piano et violon lo soddisfa pienamente. Questo stato di spirito così volitivo potrebbe forse essere il riflesso di un’attuale aridità del cuore? Forse lo stile si evolve, ma l’uomo resta il medesimo, e conserva intatti, in fondo al suo essere, tutti i tesori della propria sensibilità. Improvvisamente sognatore, lo sguardo perduto in una sorta di visio­ ne, Maurice Ravel ci dice in tutta semplicità che il suo più caro desiderio sarebbe quello di poter morire cullato dolcemente dai voluttuosi e teneri viluppi di quel «miracolo musicale senza confronti» che è il Prélude à Paprès-midi dun faune di Claude Debussy. Nulla di più toccante, nella sua semplicità e sincerità, di quest’omaggio reso dall’indiscusso maestro della musica francese di oggi a colui che, prima di lui, ha avuto l’onore di esserne il più glorioso rappresentante.

Pierre Leroi

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Un pomeriggio con Maurice Ravel1

Il minuscolo pied-à-terre di Maurice Ravel, il grande compositore, uomo — sia detto per inciso — sorprendentemente piccolo, canuto e rugoso, sebbene insolitamente agile e giovanile, non assomiglia in alcun modo a un comune appartamentino da scapoli. In quelle due stanzette si viene colpiti al primo istante da un busto del padrone di casa eseguito da Leyritz, il dotatissimo scultore viennese2 autore anche, in collaborazione con Ravel e per lui, deirarredamento interno. Il busto è stilizzato fino all’eccesso e pure straordinariamente fedele all’originale: nessun fotografo potrebbe riprodurre il personalissimo e inconfondibile volto di Ravel con altrettanta sorprendente spiritualità. Maurice Ravel è in tutta evidenza un ammiratore dell’arte austriaca. In una vetrinetta sotto il busto, accanto all’insolito caleidoscopio americano, l’uccello esotico del Madagascar, le conchiglie dell’Arizona, le tabacchiere di legno di Novgorod in forma di pesce o d’anatra, c’è anche una serie completa di familiari, vivaci statuette della Wiener Werkstàtte3. Sotto certi aspetti, peraltro, ogni cosa stuzzica la curiosità in questo interno raffinato. Un tavolino tondo di colore rosso fa le veci del bar, circondato da alti sgabelli da bar in pelle rossa, e porta incassato sotto di sé uno scaffaletto da libreria che nasconde uno stipo ben fornito di liquori. Il letto, comunque, è una semplice cuccetta a incasso da vagone letto, o meglio ancora quella della cabina d’un transatlantico di lusso. «Un po’ nello stile di Dekobra», ho osservato, quando ci siamo seduti sulle curiose ma confortevoli poltrone d’acciaio, costruite con autentiche parti d’aeroplano. «Dekobra è andato oltre», ha replicato Ravel, e la sua sorprendente voce ha riempito la stanza con la limpidezza dhin campa­ nello: «il suo salotto-bar è un bar per davvero, e i suoi vagoni letto non potrebbero essere più autentici. Non sono del tutto d’accordo con lui. Certo, si può entrare in un bar elegante una volta ogni tanto, o viaggiare su di una raffinata nave transoceanica, ma chi vorrebbe trascorrere tutta

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Interviste

la sua vita in un bar o su di un transatlantico? Dov’è la varietà? Solo nella varietà l’intelletto trova il suo nutrimento».

Razza e musica «Amo Vienna. Non solo come musicista, perché è una città musicale, ma semplicemente perché è Vienna; inimitabile nella sua personalità, affascinante, gemùtlich\ aristocratica per giunta, e sempre uguale a se stessa. Come noi Francesi, voi Austriaci non costituite una razza, bensì decisamente qualcosa di meglio: una comunità culturale definita attra­ verso parecchie razze differenti. E davvero strano, in generale, che la gente continui a chiacchierare sulle razze! Dove esistono ancora le razze? Noi Francesi siamo più teutonici dei Tedeschi, costituiti da miscuglio di razze celtiche e slave, e certamente più dei Viennesi, che a partire da sei o sette razze differenti sono confluiti in un unico popolo. Un clima, un governo e uno stile di vita comuni hanno determinato Punirà spirituale di Francia e Austria; è così che prende origine in ogni caso l’individualità delle nazioni, ed è così che si differenzia attraverso periodi di sviluppo radicalmente divergenti, sinché alla fine, purtroppo, le nazioni non si comprendono più in alcun modo. «Naturalmente, la mia musica così totalmente oggettiva e non-letteraria è necessariamente lirica fino a un certo segno. Ma questo lirismo è quello di un Francese, lontano anni luce da quello tedesco. Potrei dire, esagerando un poco: il lirismo francese è di un riserbo che lo spinge sino all’asciuttezza, mentre quello tedesco è sovente espansivo sino al limite dell’esibizionismo. Il Francese non si apre mai senza imbarazzo. E espansivo come l’Austriaco, ma senza offrire il cuore sul palmo della mano. Non lascia mai che uno sconosciuto si avvicini troppo, non vuole a nessun costo che si legga in fondo ai suoi pensieri e non fa mai il passo più lungo della gamba. Ciò gli dà forse una visione ridotta e limitata. Però, è sicuramente chiaro e preciso, come i luminosi paesaggi della “douce France”, con il suo cielo eternamente azzurro e chiaro. «La mia musica è inequivocabilmente francese. Tutto fuor che wa­ gneriana. Altrettanto dissimile da quella di Richard Strauss o dei Vien­ nesi moderni. Ecco perché spero che possa piacere ai Viennesi, dal mo­ mento che è così diversa dalla loro! I Francesi amano a loro volta la musica viennese. Personalmente, mi sento molto vicino a Mozart. I miei ammiratori esagerano quando mi confrontano con lui. Beethoven mi fa pensare a un Romano dell’età classica, Mozart a un Greco dell’età clas­ sica. Mi sento più vicino agli aperti, gioiosi Greci. «La vita intellettuale degli Americani è tedesca — anche se è basata su fondamenti anglo-sassoni. Ciononostante, gli Americani hanno le loro

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singolarità. Così, sono stato accolto da una folla di giornalisti, critici e autori come un “campione della musica ebraica”. Nessuno dei miei ante­ nati era in realtà ebreo. Sono stato ancor più sorpreso dall’origine di questo curioso assunto. “Perché il vostro nome è Maurice, come tutti gli Ebrei”. — “Naturalmente, ho replicato, come Saint-Maurice, il crocia­ to, ad esempio”. “No, è stata la risposta, in realtà stavamo pensando ai Moritz tedeschi”. — “Volete dire Moritz, il duca sassone, vero?”, non ho potuto fare a meno di osservare. Ben pochi crederebbero che mio padre ha ricevuto dalla sorte il nome di Joseph, e mia madre per giunta quello di Marie! Non è mai venuto in mente a nessuno che Joseph e Marie, a differenza di Maurice, sono realmente nomi ebrei! «Quanto al pubblico dei concerti, comunque, secondo me il più interessante è quello francese. Fino alla Grande Guerra i miei cari com­ patrioti non si occupavano di musica, né erano interessati ad essa. Ma dopo di allora, sono diventati evidentemente più musicali di giorno in giorno. Credo che di questo si debba ringraziare la radio. Il frugale borghese di Francia non è mai andato ai concerti, e di conseguenza non ha mai ascoltato buona musica: ora però quest’ultima è disponibile tra le sue quattro mura. In questo modo, ha potuto venire a conoscenza della musica, un poco alla volta comprenderla, e ha preso ad amarla così tanto che alla fine compra biglietti denaro alla mano, frequenta i concerti ed è diventato un musicofìlo entusiasta. «Voi, a Vienna, non avete avuto bisogno della radio per questo».

Parigi, gennaio [1932]

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Le fabbriche offrono ispirazione al compositoi Il sogno musicale delfuturo Quando le macchine da scrivere possono trovare posto in orchestra La teoria di Ravel Una fabbrica gli ha suggerito l’idea del Bolèro

Maurice Ravel, il compositore francese, giunto in Inghilterra per dirigere domani la prima esecuzione locale del suo nuovo concerto per pianoforte, ha confessato oggi di amare il jazz. Ha detto: «Ogni movimento della mia nuova opera2 contiene qualcosa di jazzi­ stico. Ammetto francamente di essere un ammiratore del jazz, e penso che esso sia destinato a influenzare la musica moderna. Non è semplicemente una fase passeggera, ma è destinata a restare. E elettrizzante e stimolante, e io trascorro parecchie ore ad ascoltarlo nei night-club o alla radio». Ravel ha detto di ritenere che la meccanica e le macchine del nostro tempo lasceranno la loro impronta sulla musica di oggi. Ha aggiunto: «Molto della mia ispirazione è dovuto alle macchine. «Mi piace entrare in una fabbrica e osservare grandi macchine al lavoro. E uno spettacolo impressionante e grandioso. E stata una fabbri­ ca a ispirarmi il Bolèro. Lo vedrei volentieri sempre eseguito con una grande officina sullo sfondo. «Mi si chiede se ritengo che, in futuro, potremo ascoltare in una sala da concerto rumori di macchine da scrivere, torni e seghe invece che di strumenti usuali? Non è improbabile; si è fatto un tentativo del genere in uno dei balletti russi, quando una macchina da scrivere ha preso posto tra gli strumenti ufficiali dell’orchestra3. «Ma, anche nel caso ciò accadesse, non penso che la si potrebbe chiamare veramente arte. Penso che sia arte fare in modo che violini, corni, tromboni e tutti gli altri strumenti dell’orchestra suonino come macchine. Al contrario, se le macchine entrassero nelle sale da concerto come strumenti musicali, si potrebbe parlare di arte soltanto qualora fossero fatte suonare in modo musicale. Al presente non vedo come ciò possa accadere».

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Un "altra idea A questo punto Ravel ha introdotto un’altra idea. E cioè che in questi tempi di cacofonia potrebbe essere una trovata assai originale per un’orche­ stra iniziare — per esempio — in do maggiore; gli strumenti poi, attra­ verso una serie di dissonanze, potrebbero dividersi, alcuni salendo di un semitono ogni tre o quattro battute, altri scendendo allo stesso modo, fino alla conclusione su di un accordo perfetto di do maggiore, a due ottave di distanza. «Non è che un’idea», ha proseguito, « ma potrebbe rivelarsi piuttosto divertente svilupparla, e certo sarebbe un modo nuovo di affrontare, in armonia, la risoluzione delle dissonanze». Ravel dice di essersi trovato per la prima volta in vita sua impegnato a scrivere due opere contemporaneamente — il concerto che ascoltere­ mo domani e un concerto per pianoforte per sola mano sinistra, scritto appositamente per Paul Wittgenstein, il pianista mutilato. Quest’ultimo concerto è stato eseguito da lui a Vienna e Berlino, e potrà essere ascol­ tato più tardi a Londra. Dopo l’esibizione di domani Ravel partirà immediatamente per la Polonia, dove dirigerà alcune sue opere. E per lui un dispiacere non interpretare personalmente la sua ultima creazione; ma ha lavorato gior­ no e notte ai due concerti, e la tensione è stata così forte che il suo medico non glielo avrebbe consentito; così come non glielo avrebbero consentito in occasione della recente presentazione a Parigi.

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Dieci giudizi di Maurice Ravel su opere e compositori1 Nel suo ultimo concerto per pianoforte Ravel riconosce di essere stato influenzato sia dai maestri della musica classica sia daljazz moderno Una bella composizione di Jacques Beers

Il Concertgebouw è molto grande e nella semioscurità del mattino, mentre è in corso una prova, sembra un labirinto. Maurice Ravel deve trovarsi da qualche parte in questo labirinto, e non è affatto semplice raggiungere quel punto particolare dell’edifìcio. Alla fine però ci riuscia­ mo, e lo troviamo in un angolo della sala vuota, infinitamente vuota — il famoso vuoto di cui i critici musicali parlano sempre — un vuoto, si noti bene, mentre Mengelberg dal podio sta dirigendo le Variations symphoniques di Franck per pianoforte e orchestra. Ravel è là seduto, minuto, magro, discreto, un vero Gallo, con qualcosa di raffinato nel modo di vestire e di muoversi; nello spazio vuoto che lo circonda sembra ancora più minuto e discreto di quello che è in realtà. No, non intende rilasciare interviste. «Qui mi hanno già intervista­ to una volta» dice «e su ventun cose hanno scritto l’esatto contrario di ciò che avevo affermato. Mi hanno fatto dire di Strauss le cose più infami. Merci\». Invece di tessere un ditirambo al cher maitre, l’intervistatore deve cominciare con un’apologià di se stesso e della sua dignità professionale. Beethoven è sempre stato interpretato in modo corretto? E allora am­ mettiamo che ci possa essere del perdono per una cattiva interpretazione di Maurice Ravel. A questo punto pare addolcirsi un po’. Un autentico francese non ama le situazioni imbarazzanti e la vera natura di un compositore è , fatta eccezione per l’autore della Marsigliese. Alla fine dunque la nostra conversazione continuò, accompagnati di lontano, come in una specie di melodramma moderno o di quodlibet bachiano, dalla musica ora grave ora gioiosa di Franck, che di tanto in tanto faceva esclamare a Ravel: «Che suono meraviglioso! Non è affascinante?».

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Ammirazione per Saint-Saèns — Vi piace così tanto Franck? «Non tutto, ma alcuni suoi brani sono ben orchestrati. Soltanto Saint-Saèns orchestrava ancora meglio di lui; il più delle volte era super­ bo». — Questa è una preferenza inattesa. Fra i giovani compositori francesi c’è qualcuno che stimate così tanto? «Certo. Con tutti i suoi difetti, io trovo che Milhaud sia uno dei più grandi talenti che abbiamo al momento. Anche Ibert2 è molto bravo, ha scritto alcune opere molto belle. Tra i più giovani ve ne sono alcuni da cui io mi aspetto molto, per esempio Delannoy e Rosenthal, che in un certo senso è un po’ mio allievo». — E che cosa pensate del neoclassicismo? «Innanzi tutto occorre che non sia sbagliato. Stravinsky a volte è molto bravo in questo nuovo stile, ad esempio nella sua Sinfonia di salmi, ma non apprezzo il suo concerto per pianoforte, in cui l’accompa­ gnamento dell’orchestra tende a fare da armonia. Il suono del pianoforte non si amalgama bene con il resto e alla fine l’opera diventa una sorta di esperimento. Ma fatemi piuttosto parlare di ciò che mi piace, che mi sembra più sensato. Tra i compositori fuori della Francia trovo molto bravo de Falla e fra i tedeschi considero Hindemith uno dei migliori; apprezzo anche la scuola viennese, anche se ritengo che si perda troppo in astrazioni. Secondo me, l’arte dovrebbe mantenere la giusta via di mezzo tra l’intelletto e i sensi, e sebbene Berg, ad esempio, abbia compo­ sto alcune cose belle, credo che la musica della scuola viennese sia perlo­ più troppo intellettuale». — E che cosa pensate degli Italiani? «Al momento stanno scrivendo tutti musica fascista, anche se per me rimane un mistero capire come la musica possa essere fascista o bolscevica. Forse stanno scrivendo musica alla Rossini, ma sarebbe me­ glio lasciassero stare, perché nessuno ha bisogno di un cattivo Rossini, mentre il Rossini buono è già stato creato dal maestro stesso, quindi non serve né l’uno né l’altro. Non bisogna dimenticare Bartók e Kodàly, che io considero estremamente importante, come anche Harsànyi3 e Obukhov4 in una delle sue ultime opere».

La tournée europea

— E il vostro lavoro degli ultimi anni? Avete scritto ancora qualco­ sa dopo il concertò per pianoforte che viene suonato qui? «No, il concerto per pianoforte è appena stato terminato. Ci ho

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lavorato praticamente per tre anni, giorno e notte, perché in quel periodo dormivo a mala pena sei ore per notte. Questo è il motivo per cui ora faccio questa tournée, per riposarmi un po’. E sta diventando un vero e proprio viaggio: è iniziata a Parigi, dove il concerto è stato eseguito due volte, ed è proseguita a Bruxelles, Liegi e Anversa, quindi a Vienna e poi a Bucarest. Qui il termometro segnava 21 gradi sotto zero, ma l’accoglienza riservata a quest’opera è stata ben più calda della temperatura esterna. Il concerto è stato poi eseguito anche a Londra dalla London Philharmonic Orchestra, quindi a Varsavia, Praga, Leopoli e Berlino, e ora è finalmente qui nei Paesi Bassi, dove sarà presentato in cinque città: Amsterdam, Haarlem, L’Aia, Rotterdam e Arnhem». — In questo concerto per pianoforte ci sono le stesse influenze jazzistiche che si possono rintracciare nella sonata per violino? «Che cosa viene scritto oggi senza influenze jazzistiche? Ma non c’è solo questo: nel Concerto si trovano anche accompagnamenti del basso tipici dell’età di Bach5 e una melodia che ricorda Mozart, il Mozart del Quintetto con clarinetto6, che è tra l’altro il più bel pezzo che egli abbia scritto. Ciò che ho voluto sottolineare nella sonata per violino è il con­ trasto fra il secco accompagnamento del pianoforte e la morbida melodia del violino; nel concerto ho cercato di realizzare la stessa cosa, ma in modo diverso7».

Concerti per pianoforte ben riusciti «Io sono partito dalla vecchia idea che una sonata deve essere un divertissement. Il principio di Brahms nei riguardi del “concerto sinfoni­ co” era sbagliato e il critico che ha detto che egli aveva scritto un “con­ certo contro il pianoforte” aveva ragione. Secondo me, sono assolutamente perfetti i concerti per pianoforte di Mozart e il concerto per violino di Mendelssohn. C’è anche un concerto scritto da un giovane olandese che io trovo molto bello, ed è un concerto jazz di Jacques Beers. Lo conoscete? E un’opera scritta per pianoforte, sassofono, voce femmi­ nile e orchestra. Dovrebbe davvero essere eseguita una volta8».

La nostra conversazione è proseguita in questo modo, passando da un argomento musicale all’altro: era impossibile uscire da questo terreno e parlare di qualcosa di estraneo alla musica. L’impressione che si riceve quando si incontra Maurice Ravel per la prima volta è che ogni sua espressione, ogni suo gesto, ogni suo pensiero rivelino la sua natura di compositore. D’altra parte è l’impressione che già da molto tempo potrebbe essersi formata in chi abbia ascoltato le sue belle, leggere ma squisite composizioni. La sua musica è affascinante

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Ravel — Scritti e interviste

quanto lui stesso, e quando lo si intervista vengono fuori esposizioni chiare e precise, come quelle che si trovano nella sua opera.

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Maurice Ravel tra un treno e [’altro 1

Maurice Ravel il sedentario, pacifico e appartato abitante di Montfort-l’Amaury, si è appena trasformato in viaggiatore infaticabile: il suc­ cesso del suo concerto lo trascina con sé ai quattro angoli dell’Europa, in compagnia di Marguerite Long, la sua interprete, e ci vuole l’intervento del caso per poterlo incontrare a Parigi, tra un treno e l’altro. Chi si aspetta di incontrare il Ravel di cui si favoleggia, aspro e impietoso, trova un ometto elegante e sorridente, gli occhi brillanti di vivacità e perspica­ cia, che parla con voce un poco sorda. La fotografia ha reso popolari i tratti squadrati del suo viso dai capelli argentei e dalle sopracciglia nere, viso che si direbbe disegnato da un geometra, e che è tutto forza di volontà; nella realtà, non so quale affettuosa bonomia, un insolito aspet­ to giovanile, una lunga fiamma d’intelligenza lo illuminano e ne uma­ nizzano i tratti. Secco e scarno come uno Spagnolo, Ravel si esprime senza alcuna petulanza, con una sconcertante mescolanza di pudore e di timidezza... — Mi sono trovato così sofferente, in campagna, che i medici hanno dovuto ordinarmi di cessare ogni attività per sei mesi. Pensate ai lunghi mesi di fatica che m’è costato questo concerto... Avevo esagerato. Così ora questi viaggi sono un riposo per me. Attraversiamo tutta l’Europa: l’Austria, la Cecoslovacchia, la Polonia e la Germania, l’Olanda (dove Mengelberg ci ha prestato il Concertgebouw), l’Inghilterra... Abbiamo avuto la fortuna di ricevere ovunque un’accoglienza straordinaria, di ottenere un grande successo. Non posso non essere incantato da questi viaggi continui, da questi contatti repentini con mondi diversi dal mio... D’altra parte, mi piace dirigere, la prove, tutta la preparazione, distolgo­ no il mio spirito dalla tentazione di lavorare. «E ora, il mio parere su questo concerto? Non è male... Ho l’impres­ sione di avere trovato ciò che cercavo. O piuttosto, no, non esageriamo: non si realizza mai con esattezza ciò che si vuole. Per fortuna, del resto...

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Il giorno in cui avrò l’impressione di esserci arrivato, sarò finito. Ma alla fin fine, questo concerto mi pare una delle opere in cui sono riuscito a incalzare più da vicino la materia e le forme che inseguo, in cui ho potuto meglio affermare il regno della mia volontà... Ma sono forse troppo parziale nei confronti di questo ultimogenito? Di tutto ciò che ho composto fino ad ora, ciò che mi soddisfa di più sono senza dubbio le Chansons madécasses. Aggiungo che una sola volta sono riuscito a realiz­ zare completamente le mie intenzioni: nel Bolèro^ ma è un genere troppo facile... In fondo, vedete, non ho ancora realizzato ciò che voglio: ho del tempo davanti a me...». — Sapete che, se pure a Montfort io passo tutte le mie giornate alla scrivania (e riesco a lavorare solo laggiù: a Parigi è impossibile), non sono tra coloro che compongono velocemente. Diffido della facilità. Metto un’ostinazione quasi scientifica a costruire con solidità, a cercare i mate­ riali più puri, a cementare bene. Il concerto m’è costato due anni di fatica... Sì, sono stato spesso tentato dal modello della sinfonia: e per lungo tempo, decine di anni, ne ho avuto una in corso d’elaborazione, mi ci sono accanito, perché è una forma affascinante; la lasciavo, la riprendevo... poi un bel giorno ho messo tutto da parte. Ma tutto questo non va perduto, e forse mi rimetterò al lavoro2... Per il momento, il teatro mi assilla: sono mesi che penso a una Jeanne d’Arcy dal libro di Joseph Delteil, la cui composizione e costruzione m’hanno sedotto. Ho io stesso indicato a Delteil gli episodi che si troveranno nel libretto... Ma sulla carta non è stato ancora messo nulla; tutto il mio lavoro è stato fino a questo momento mentale: mi piace sapere dove vado, prima di metter­ mi all’opera. «Il problema del teatro mi ha sempre appassionato: ho già fatto qual­ che tentativo, ma non ho ancora trovato la forma che cerco. Non trovate stupefacente il fatto che si sia rimasti a — che so? — a Meyerbeer, e che questo genere di spettacolo non si sia evoluto di un pollice? Il teatro di Wagner è assurdo, occorre escogitare qualcosa d’altro. Ma, vedete, i più giovani non possono impedirsi di tornare alle strutture di Gounod e compagni. La soluzione è forse in una commistione di canto e di danza, sullo sfondo di una serrata azione drammatica3... Il mio maestro prefe­ rito? Ne ho forse uno?... In ogni caso, penso ancora che Mozart sia il più perfetto di tutti. Senza dubbio è il padre della musica accademica, ma senza averne alcuna responsabilità. Egli era nient’altro che musica. Amo Beethoven, ma il mondo costituito dall’opera di Mozart è un’altra cosa. La sua grande lezione, oggi, è quella di aiutarci a sbarazzarci della musica^ a non ascoltare che noi stessi e l’eterno fondo da cui attingiamo, a dimenticare ciò che è avvenuto subito prima di noi: così l’attuale ritorno alle forme pure, questo neo-classicismo — chiamatelo come volete — in

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Interviste

un certo senso m’incanta. D’altra parte, la nostra epoca mi piace: queste inquietudini ammirevoli, queste sincere ricerche in ogni direzione, non sono forse il segno di un periodo fertile? Venite a parlarmi della mia influenza, ma essa mi pare davvero minima4! Ed è un gran bene che sia così... Volete dei nomi? Ebbene! c’è Milhaud, che ha certo del genio; e Poulenc, che scrive così poco5. Tra i più giovani, che so? Un Delannoy, che ha un bel senso drammatico... I Tedeschi? Cominciano ad attingere un po’ troppo dall’intellettualismo; ma Hindemit resta un vero musici­ sta, probabilmente troppo ricco. Ci sono ovunque giovani di grande talento: ecco, in Cecoslovacchia (non saprei farvi nessun nome: sono troppo diffìcili), ho ascoltato cose eccellenti». Prima di andarmene, chiedo a Ravel un’opinione sulla riproduzione discografica delle sue opere: si sa che il compositore delle Histoires naturelies, del Trio, dell’'Alborada delgracioso è, tra tutti i Francesi, quello che le nostre maggiori case discografiche preferiscono, con ottime ragioni, del resto: — Sì, il fonografo mi piace, in ogni caso più della T.S.F.6... Tra le diverse registrazioni di opere mie, quella che mi ha soddisfatto di più è stata il Bolèro, della Polydor, che io stesso ho diretto. Quanto a tutte queste edizioni delle Valses, quella che ha diretto Albert Wolf è la meglio riuscita, ma resta il fatto che tra esse non c’è n’è una che abbia potuto evitare gli scogli dell’inizio: un giorno o l’altro mi deciderò a fare io delle modifiche, dato che il microfono non ne vuole sapere; e dirigerò io stesso la nuova versione7. Badate che le Chansons madécasses saranno presto pubblicate da Polydor e che con Marguerite Long e l’orchestra Straram eseguiremo per la Columbia il concerto...».

Nino Frank

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Maurice Ravel scriverà presto una 1Jeanne dArc”x Il compositore ci confida i suoi progetti e ci racconta qual è la sua concezione dell’eroina nazionale

Il Belvédère, a Montfort-l’Amauiy, non usurpa certo il suo nome! È proprio un belvedere, appollaiato su di un costone come un nido d’aqui­ la. Domina la campagna che si stende ai suoi piedi. A sinistra, un paesag­ gio deirile-de-France, con il villaggio dai tetti bruni su cui spicca il campanile d’ardesia. A destra, praterie solcate da valli, disseminate di boschetti. Lontano, la macchia bianca di un castello, a metà nascosto dagli alberi. Una pace dolce, che sembra fatta per meditare, scende su tutto questo. «La veduta, vastissima, è circoscritta dalla linea delle colline all’oriz­ zonte», mi dice Maurice Ravel accompagnandomi sul suo balcone. Il pensiero non fugge, non si disperde. Se ne va, ma ritorna. E come se il paesaggio lo “rimandasse indietro”. Sono nel “ritiro” di uno tra i musicisti più grandi, più giustamente celebri. Piccole stanze con bei mobili laccati, oggetti rari, soprammobili preziosi, vasi cinesi, stampe giapponesi, libri dalle rilegature leggermente ravvivate in oro fino. — Si dice che stiate lavorando a una Jeanne d’Arc. Sono venuto a chiedervi di farci conoscere la vostra concezione della nostra eroina nazionale. «Non sto ancora lavorando a quest’opera. Ci penso, la sogno già da lungo tempo. Certo, questo progetto mi sta sempre più a cuore, ma lo elaboro con lentezza, lo carezzo dolcemente... «Devo prima scrivere per il prossimo marzo un balletto, Morgiane-, Ida Rubinstein lo porterà sulla scena. E la favola delle Mille e una notte, Alì Babà... Ma avrò la forza di realizzare questo progetto? Mi sento stanco. Una crisi di depressione nervosa... Pago lo sforzo fatto per por­ tare a termine i miei due concerti per pianoforte. Per tre anni, quasi senza uscire di casa, ho lavorato ad essi senza sosta. Ho accumulato fatica. Vallery-Radot, nipote di Pasteur, che mi ha in cura, mi vieta ogni nuovo sforzo.

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Interviste

«Voglio anche mettermi al lavoro su Le chapeau chinois, di FraneNohain2, con una specie di orchestra da operetta. «La mia Jeanne d'Arc verrà soltanto dopo. E stato il libro di Delteil a ispirarmela. Il libro! E la parola giusta? L’epopea lirica, piuttosto». — E stato il lirismo a tentare il musicista? «Ma certo! E stata anche la figura, tornata a vivere, di questa commo­ vente fanciulla, spogliata dell’alone di leggenda che la rendeva lontana, quasi estranea. Non è una statua più o meno santificata che dobbiamo adorare, è una ragazza delle nostre, “una grande paesana di Francia, impastata di terra, di buon senso e di Dio”, come dice Delteil». — Ci sono anche l’epoca remota, l’arcaismo dello scenario e del linguaggio... «Questo non conta. Non ha importanza. Il merito di Delteil, è quello di aver traversato l’età che si colloca tra Jeanne e noi per farne ai nostri occhi quasi una contemporanea, un essere di carne e di nervi che vedia­ mo agire, che sentiamo ridere, gemere, piangere, come se fosse al nostro fianco3. «“L’ho condotta a me”, scrive Delteil nelle venti righe della sua pre­ fazione, “attraverso il deserto archeologico [...]”. E continua: “La patina di antico della Storia, il Tempo che riduce in polvere non le tolgono né i colori freschi né il suo sorriso di carne. No, non è una leggenda, una mummia. Al diavolo i documenti e il colore locale! Non ho altro inten­ dimento qui se non quello di mostrare una ragazza di Francia [...]”. «Non è neppure soltanto una ragazza di Francia», continua Maurice Ravel, «è la ragazza di Francia, è la Francia stessa, ne è l’anima perma­ nente. Non è una Jeanne d’Arc per i corsi complementari o per le parrocchie quella che sogno di far vivere, ma un inno d’amore che canti la Francia, che la mostri nel suo spirito eterno attraverso questa fanciulla che ne incarna la razza. E quest’inno, ancora secondo le parole di Delteil, sono tentato di dedicarlo “alle anime semplici, ai cuori folli, ai bambini, alle vergini, agli angeli...”». — E per la realizzazione? «Vedo bene il “taglio” adottato da Delteil: piccoli brevi quadri si succedono rapidamente, in guisa di episodi di un film. Dapprima la battaglia dei ragazzini, quella che Delteil chiama “la guerra in boccio”, che mostra immediatamente la personalità di Jeanne: “Di temperamento bellicoso, il gesto naturalmente autoritario e conciso, la voce aspra, il procedere ardito, l’occhio acceso, godeva presso i ragazzi e le fanciulle della sua età di un prestigio considerevole! Forte e passionale, non disde­ gnava del resto di far valere con i pugni la sua autorità «Questa, è la Jeanne d’Arc bambina. Poi cresce, si sviluppa. Eccola giovane fanciulla, come resterà sino alla fine, d’altronde così prossima. A partire dal capitolo delle visioni (le Copines du deh nella storia romanza­

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ta), ella ha già la sua forma definitiva». — Voi vedete dunque diverse interpreti di Jeanne: una per la Jeanne bambina e una per la Jeanne giovinetta? «Sì, almeno due... Probabilmente, perché tutto questo, lo ripeto, non è per il momento che un progetto...». — Ma come renderete, con la musica, quel carattere di permanenza, di eternità, che collega le epoche tra di loro, e che contate di dare alfopera? «Ricordatevi, al capitolo della sagra (Va’, va’, va’! in Delteil). L’autore scrive: “La cattedrale di Reims fiammeggia di colonne e d’incenso. La folla immensa grida: Noél\ Le trombe squillano a piena voce. La musica dell’Armagnac suona La Marseillaise...”. Come questa Marseillaise dell’Armagnac4, mentre il popolo grida: Noél\ , scuote il tempo e lo spazio per giungere direttamente a noi! Carattere arcaico del Noel, carattere locale della musica dell’Armagnac, carattere contemporaneo per via della Marseillaise, c’è tutto! Penso anche a introdurre una Marseillaise nella scena della sagra, ma una Marseillaise trasposta, beninteso, una Marseil­ laise interpretata, una Marseillaise a mio modo, sorta di canto trionfale in gloria della terra e della razza. Il procedimento non è nuovo: Berlioz l’ha utilizzato inserendo “la ritirata” nella Damnation»5. Scendiamo chiacchierando nel giardino. Un poco intimoriti dalla mia presenza, i gatti siamesi del musicista, tre animali dal pelo stupendo, ci scortano cautamente. Di fronte a noi, immerso in una luce soprannatu­ rale, il paesaggio sembra cristallizzarsi come in un forma definitiva: quel­ la che aveva ieri, quella che avrà domani, villaggio di una Francia di questa e d’ogni altra epoca. In lontananza suona una campana. Forse la campana di Domrémy6?... Gabriel Reuillard

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Appendice I testi di Maurice Ravelper i balletti

I testi di Ravel per Ma mère l'oye. Adélaide ou le langage des fleurs e La Valse sono pubblicati nel Catalogue de loeuvre de Matinee Ravel (Parigi, fondazione Maurice Ravel, 1954, pp. 13-9). Sebbene simili alle versioni a stampa, gli autografi originali di Ma mère l’oye e di Adélaide, che si trovano presso la biblioteca dell’Opéra1, sono assai più dettagliati. L’autografo di La Valse non è stato ritrovato.

“Ma mère l’oye”2 “Prélude ”

I Quadro. “Danse du rouet”ò Giardino incantato. Una vecchietta è seduta all’arcolaio. Entra la Principessa Florina saltando la corda. Inciampa e urta nell’arcolaio, fe­ rendosi con il fuso. La vecchietta chiede aiuto. Cavalieri e damigelle d’onore accorrono. Tentano inutilmente di rianimare la Principessa. Ci si ricorda allora della maledizione delle fate. Due dame d’onore la prepa­ rano per la notte eterna. II Quadro. “Pavane de la Belle au bois dormant” Florina dorme. La vecchietta, ora in piedi, getta indietro il suo sordi­ do cappuccio e rivela gli abiti sontuosi e i lineamenti fascinosi della Fata Benigna. Si presentano due negretti. La fata affida loro la custodia di Florina e il compito di dare svago al suo sonno.Ili Ili Quadro. “Les entretiens de la Belle et de la Bète” Entra la Bella. Prende lo specchio, s’incipria. Entra la Bestia. La Bella la scorge e impietrisce. Respinge con orrore le dichiarazioni della Bestia che cade ai suoi piedi, singhiozzando. Rassicurata, la Bella si prende gioco della Bestia con civetteria. La Bestia si accascia svenuta per la 173

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disperazione. Commossa da questo grande amore, la Bella la rialza e le concede la mano. Ai suoi piedi, ella vede ora un principe più bello delTAmore stesso, che la ringrazia per aver posto fine all’incantesimo.

IV Quadro. “Petit Poucet” Una foresta. Si fa sera. Entrano i sette figli del taglialegna. Pollicino sbriciola un tozzo di pane. Scruta intorno a sé e non vede case. I bimbi piangono. Pollicino li tranquillizza mostrando loro il pane che ha semi­ nato lungo la loro strada. Si coricano e s’addormentano. Passano gli uccelli e mangiano tutto il pane. Al loro risveglio i bambini non trovano più una sola briciola e s’allontanano tristemente.

VQuadro. “Laideronnette, impératrice despagodes” Una tenda drappeggiata alla cinese. Entrano pagodini e pagodine. Danze. Appare Laideronnette vestita come una cinese di Boucher. Ser­ pentello verde sale amorosamente al suo fianco. Pas de deux, poi danza generale. VI Quadro. “Le jardiri féerique” L’alba. Canto di uccelli. Entra il Principe Fascinoso, guidato da un Amorino. Vede la princi­ pessa dormiente. Lei si sveglia contemporaneamente al levarsi del gior­ no. Tutti i personaggi del balletto si stringono intorno al principe e alla principessa uniti dall’amore. La Fata Benigna si alza a benedire la coppia. Apoteosi.

“Adélaìde ou le langage desfleurs”^

Parigi, 1820 circa, nel palazzo della cortigiana Adelaide. Un salotto nel gusto del tempo. Sul fondo, una finestra che dà su un giardino. Ovunque, tavolinetti reggono vasi colmi di fiori.

I. — Una festa in casa di Adelaide. Coppie danzanti. Altre, sedute o a passeggio, assorte in teneri conversari. Adelaide va e viene tra gli invitati, respira il profumo d’una tuberosa (voluttà).

IL - Entra Lorédan, cupo in volto e malinconico. Le offre un ranuncolo. Scambio di fiori a significare la civetteria di Adelaide e l’amore di Lorédan. 174

Interviste

III. - Ella sfoglia i petali del fiore e vede che l’amore di Lorédan è sincero. La margherita rivela a Lorédan che non è amato. Adélaide vuol rifare la prova. Questa volta il responso è favorevole. IV. — I due innamorati danzano mostrando i loro sentimenti. Ma Adé­ laide vede entrare il Duca e s’arresta imbarazzata.

V. — Il Duca le offre un mazzo di elianti (vane ricchezze), poi uno scrigno che contiene una collana di diamanti, che lei indossa.

VI. - Disperazione di Lorédan. Ardente corteggiamento. Adélaì’de lo respinge con civetteria. VII. - Il Duca supplica Adélaide di accordargli un ultimo valzer. Lei rifiuta e va in cerca di Lorédan, rimasto in disparte in tragica postura. Egli dapprima esita, poi si lascia trascinare dalla tenera insistenza della cortigiana.

Vili. - Gli invitati se ne vanno. Il Duca spera d’essere trattenuto. Adé­ laide gli dona un ramo d’acacia (amor platonico). Il Duca esce manife­ stando il proprio dispetto. Lorédan si fa avanti, mortalmente triste. Adélaide gli offre un papavero (oblio). Egli rifiuta e s’allontana con gesti d’addio senza ritorno. Adélaide va verso la finestra del fondo e la spalanca. Aspira voluttuo­ samente gli effluvi della tuberosa. Ricompare Lorédan, che ha scalato il balcone; ha i capelli scarmigliati, lo sguardo fatale. Si precipita verso Adélaide, cade ai suoi piedi ed estrae una pistola che avvicina alla tempia. Lei, sorridente, trae dal proprio seno una rosa rossa e s’abbandona tra le braccia di Lorédan.

“La Valse”5 Poema coreografico per orchestra Nubi turbinose lasciano intravedere, a squarci, coppie che danzano il valzer. A poco a poco le nubi si dissolvono: si ravvisa6 una sala immensa, popolata d’una folla vorticante. La scena si fa via via più nitida. Al fortissimo1 brilla improvvisa la luce dei lampadari. Una corte imperiale, 1855 circa.

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Note al testo

Scritti e articoli

Uno schizzo autobiografico di Maurice Ravel (pp. 3-7) 1 Roland-Manuel, Une esquisse autobiographique de Maurice Ravel, «La Revue Musicale», dicembre 1938, p. 17-23. 2 Pseudonimo di Roland-Alexis-Manuel Lévy (1891-1966), musicologo, composi­ tore e critico. Presentato a Ravel da Erik Satie nel 1911, studiò con lui composizione e ne divenne presto amico. 3 Dopo la pubblicazione Esquisse autobiographique, Roland-Manuel operò due aggiunte al testo che compaiono nell’esemplare della «Revue Musicale» conservato nel dipartimento di musica della Bibliothèque Nationale. Queste revisioni (relative all’Ha­ banera e a Miroirs) sono riportate in nota. 4 L’atto di nascita, pubblicato in Ravel: Man and Musician (New York, Dover 1991), tavola 1, di fronte a p. 218, dice tra l’altro: «L’anno Milleottocentosettantacinque, il giorno otto marzo a mezzodì, dinnanzi a Noi Sindaco, Ufficiale di Stato Civile del Comune di Ciboure, [...] si è presentata Gracieuse BILLAC, di cinquant’anni, pescivendola, domiciliata in questo comune, la quale ci ha dichiarato che Marie Delouart, di ventotto anni, attualmente residente a Ciboure, moglie di Pierre Joseph Ravel, ha partorito iersera alle dieci, in Rue du Quai N° 12, un neonato di sesso maschile, che ci presenta, e al quale ha dichiarato di voler dare il nome di Joseph Maurice». 5 Nel maggio 1882, poco dopo il suo settimo compleanno, Maurice ricevette la sua prima lezione di pianoforte da Henry Ghys (1839-1908), che trovò il suo giovane allievo «intelligente». Il suo secondo maestro di pianoforte fu poi Emile Decombes, che insegnava al Conservatoire. Il 2 giugno 1889 ventiquattro suoi allievi, tra i quali figuravano Reynaldo Hahn e Alfred Cortot, suonarono estratti di diversi concerti per pianoforte nella Salle Erard. Maurice suonò un frammento del Concerto n. 3 di Moscheles; fu questa la sua prima esibizione pubblica conosciuta.

6 In una lettera a Roland-Manuel, Charles René, allievo di Léo Delibes, rievocava la coerenza e l’originalità di cui già davano testimonianza sotto l’aspetto melodico le prime composizioni di Ravel: «Vi è una concreta unità nel suo sviluppo artistico; la sua

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Note al testo

concezione delia musica gli è connaturata e non costituisce affatto, come per tanti altri, il risultato di uno sforzo» (Roland-Manuel, A la gioire de Ravel, Paris, Editions de la Nouvelle Révue critique 1938, p. 27). 7 Eugène Anthióme definì il suo allievo «discretamente dotato», e riteneva che avrebbe potuto progredire bene qualora si fosse impegnato. Nel luglio del 1890 Maurice ottenne la medaglia del secondo premio al concorso di fine anno e poi, nel luglio del 1891, la medaglia di primo classificato, che gli consentiva l’accesso al corso di Charles de Bériot. Questa medaglia di primo premio — il secondo era stato assegnato ad Alfred Cortot — fu l’unico riconoscimento mai ricevuto da lui al Conservatorio.

8Nell’autunno del 1891, Maurice entrò nel corso di pianoforte tenuto da Charles de Bériot (1833-1914) e nel corso di armonia di Emile Pessard (1843-1917). Nel luglio del 1895 fu escluso, secondo il regolamento del Conservatorio, da entrambi i corsi, poiché non aveva ottenuto alcun premio. Secondo ciò che ci viene testimoniato da Bériot, Ravel suonava con grande ispirazione ed emozione un ampio repertorio di musiche del XIX secolo. Quando s’impegnava era in grado di suonare bene; ma pare che il suo maestro andasse su tutte le furie quando non s’impegnava a sufficienza — cosa che accadeva spesso. 9 Abbiamo ritrovato, e pubblicato da Salabert, la maggior parte delle opere giovanili scritte da Ravel negli anni Novanta, per lungo tempo considerate perdute. Oltre alla Sérénade grotesque (pianoforte, circa 1893) e alla Ballade de la reine morte d'aimer (voce e pianoforte, da un poema di Roland de Marès, circa 1893), possiamo citare i Sites auricidaires (due pianoforti, 1895-1897, costituiti da una Habanera e Entre cloches), una Sonate pour violon et piano (in un movimento, 1897), la Chanson du rouet (voce e pianoforte, da una poesia di Leconte de Lisle, 1898), Si mornelfyoce. e pianoforte da una poesia di Emile Verhaeren, 1898), e l’Ouverture di Shéhérazade (orchestra, 1898). I Sites auriculaires e l’Ouverture di Shéhérazade furono eseguiti una volta soltanto vivente l’autore, che poi li tolse subito dal repertorio. Tutte le altre opere vennero presentate per la prima volta all’auditorium Charles S. Colden, Queens College, Flushing, New York, il 23 febbraio 1975, in occasione di un concerto registrato dalla Musical Heritage Society (MHS 3581).

10 Pessard all’inizio giudicò il suo allievo un «armonista assai bravo», dotato di buona «propensione». In seguito Ravel, che arrivava in ritardo alle lezioni, gli parve «un po’sbadato» nel suo lavoro, pur essendo «molto dotato». Da queste osservazioni di Pessard, se leggiamo tra le righe, nasce l’impressione che Ravel assimilasse rapidamente tutto ciò che il professore aveva da insegnargli, e che fosse attratto da armonie ben più moderne di quelle che gli venivano insegnate. Eppure assimilò a fondo il Traité d’harmoniedÀ Henri Reber (approvato dal Conservatorio nel 1862) e il suo supplemento di Théodore Dubois (1889). 11 Nel febbraio 1893, Maurice Ravel e Ricardo Vines suonarono i Trois Valses romantiques alla presenza di Chabrier (1814-1894). L’impressione suscitata da questo incontro segnò durevolmente il giovane Ravel, che per tutta la vita mantenne il proprio interesse per la musica di Chabrier.

12 All’inizio degli anni Novanta, Joseph Ravel aveva presentato suo figlio a Erik Satie (1866-1925), che all’epoca conduceva una vita da bohémien a Montmartre e suonava il piano al Café de la Nouvelle Athènes. La personalità pittoresca di Satie e la sua musica poco ortodossa esercitarono una profonda impressione sul giovane musicista, che in seguito appoggiò la carriera del collega più anziano. Dopo la guerra Satie, scegliendo di sostenere il partito della generazione più giovane, prese le distanze dal suo antico benefattore, che continuò tuttavia a mostrarsi deferente nei suoi confronti.

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Ravel — Scritti e interviste

13 Testo nella revisione di Roland-Manuel: «Ritengo che ['Habanera, con il suo pedale ostinato e gli accordi dalle molteplici appoggiature, contenga in germe numerosi elementi che sarebbero stati predominanti nelle mie composizioni successive». Tra questi elementi si può notare l’influenza di motivi spagnoli e ritmi di danza. Caratteri simili si riscontrano inoltre nel linguaggio armonico di Noctuelles (Miroirs) e Le gibet {Gaspard de la nuit).

14 Gédalge (1856-1926) cominciò nel 1905 a insegnare presso il Conservatorio, dove il suo Traité de la fugue era usato come libro di testo per lo studio del contrappunto. Grande pedagogo, formò moltissimi compositori, tra cui Arthur Honegger, Darius Milhaud e Florent Schmitt. Quando seppe della scomparsa di Gédalge, Ravel scrisse un breve omaggio: «Ho avuto la notizia a Oslo, è stato un duro colpo. Forse non sapete tutto quel che Gédalge ha rappresentato per me: quelle possibilità, quegli sforzi di costruzione che s’intravedono nelle mie prime opere, è stato lui a insegnarmi, più tardi, ad avviarne la realizzazione. Il suo insegnamento era di una chiarezza fuori dell’ordinario: accanto a lui si capiva immediatamente che il mestiere era tutt’altro che un’astrazione scolastica. Non è stata solamente l’amicizia a spingermi a dedicargli il Trio', il mio omaggio si rivolge direttamente al maestro» («La Revue Musicale», 1° marzo 1926, p. 255).

15 L’atmosfera libera e cordiale che regnava nella classe di Fauré è stata paragonata a quella del salotto di Mallarmé. Fauré (1845-1924) seguì con molto interesse la carriera di Ravel, che per ricambiarlo dedicò i suoi Jeux d’eau e il Quatuor à cordes al «caro maestro». La relazione conclusiva scritta da Fauré nel giugno 1900 tratteggia con molta perspicacia l’allievo venticinquenne: «Ottimo allievo, laborioso e preciso. Natura musicale molto attratta dalle novità, con una sincerità disarmante!». Malgrado questi incoraggiamenti, Ravel fu escluso dal corso di composizione nel luglio del 1900, dopo due bocciature consecutive al concorso di fuga. (Una delle due fughe gli costò uno zero da parte del direttore del Conservatorio, Théodore Dubois, con il seguente commento: «Impossibile per le terribili scorrettezze di scrittura».) Ravel continuò tuttavia ad assistere alle lezioni di Fauré come libero uditore. Iscritto nei registri del Conservatorio come «ex-allievo», vi rimase come uditore fino al 1903, anno in cui abbandonò definitivamente l’istituto. 16 In realtà, Ravel partecipò per la prima volta al Prix de Rome nel maggio 1900. Presentò una fuga e un brano per coro, Les bayadères, e non superò la prova eliminatoria. (I testi autografi di tutti i brani composti per il Prix de Rome si trovano presso il dipartimento di musica della Bibliothèque Nationale.)

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Testo nella revisione di Roland-Manuel:

Il titolo dei Miroirs, 5 brani per pianoforte composti nel 1905, ha autorizzato i miei critici a catalogare questa raccolta tra le opere collegate al movimento cosiddetto impressionista. Se si parla per analogia non ho nulla da obiettare. Si tratta peraltro di un’analogia piuttosto fugace, poiché l’impressionismo non sembra avere alcun senso preciso fuori del campo della pittura. La parola Miroir, in ogni modo, non deve indurre alla supposizione che io abbia voluto affermare una teoria soggettivista dell’arte. Mi farò aiutare su questo punto, per preci­ sare la mia intenzione diametralmente opposta, da una frase di Shakespeare: «Lo sguardo non conosce se stesso prima di aver viaggiato e avere incontrato uno specchio in cui potersi riconoscere» {Julius Caesar, I, 2).

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Nel Journal di Jules Renard (1864-1910), in data 12 gennaio 1907, leggiamo:

Maurice Ravel, il musicista delle Histoires naturelies, bruno, ricco e raffinato, insiste per­ ché, questa sera, vada ad ascoltare le sue melodies. Gli confesso la mia ignoranza, e gli chiedo che cosa abbia potuto aggiungere alle Histoires naturelies. - La mia intenzione non era quella di aggiungere, dice, ma di interpretare. - Cioè?

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Note al testo - Dire in musica quel che voi dite con le parole quando vi trovate di fronte a un albero, per esempio. Io penso e sento in musica, e vorrei pensare e sentire le stesse cose che pensate e sentite voi. Vi è una musica istintiva, sentimentale, la mia — bisogna prima di tutto conoscere il mestiere, beninteso — e vi è la musica intellettuale: d’Indy. Ci saranno solo persone come d’Indy, stasera. Costoro non ammettono l’emozione, che non vogliono spiega­ re. Io penso tutto il contrario; ma essi ritengono interessante ciò che ho fatto, dal momento che mi accettano. Si tratta di una prova estremamente importante per me. In ogni caso, sono sicuro dell’interprete: è straordinaria. (Jules Renard, Journal, a cura di L. Guichard e G. Sigaux, Paris, Gallimard 1960, pp. 1100-1.)

19 Pseudonimo di Maurice-Etienne Legrand (1873-1934). Nohain è il nome di un fiume vicino a Corbigny, luogo di nascita dell’autore. La sua opera trabocca di rime strane, di situazioni comiche, di quel delizioso umorismo che ritroviamo nel libretto òeWHeure espagnole. Questa commedia in un atto ottenne un vivo successo quando fu rappresentata per la prima volta al Théàtre de l’Odéon, nel 1904. Ravel scrisse a FrancNohain per chiedergli l’autorizzazione a operare alcuni adattamenti. Quest’ultimo si stupì, proprio come Jules Renard, che si potesse scegliere di mettere la sua opera in musica, ma concesse volentieri l’autorizzazione.

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L’opera nel testo è datata, per errore, 1918.

21 La fama di Aloysius Bertrand (1807-1841) è dovuta esclusivamente a Gaspard de la nuit, scritto intorno al 1830 e pubblicato postumo nel 1842. I testi completi di Ondine, Le gibet e Scarbo sono presenti nell’edizione Durand, e il romanticismo

ossessivo e rievocativo delle visioni di Bertrand è reso con sorprendente fedeltà in questi testi descrittivi.

22 Su questa datasi sono versati fiumi d’inchiostro. Roland-Manuel ha scritto in una nota: «Ravel si sbaglia di due anni. L’inesattezza è incontestabile, dal momento che i Ballets Russes fecero la loro prima apparizione nel 1909». Infatti, la lettera inviata da Ravel a Madame René de Saint-Marceaux indica che il lavoro sul soggetto di questo balletto cominciò nel giugno 1909 (v. Maurice Ravel, Lettres, écrits, entretiens -présentés etannotésparArbie Orenstein, Paris, Flammarion 1989, pp. 104-5). Eppure, Sergej Lifar asseriva che Diaghilev aveva incontrato Ravel fin dal 1906, quindi è possibile che il lavoro su Daphnis — forse non ancora concepito come balletto — sia iniziato prima del 1909 (Sergej Lifar, Maurice Ravel et le ballet, «La Revue Musicale», dicembre 1938, p. 75). 23 Eppure Ravel tornò alla musica del XVIII secolo nel 1914, mentre lavorava al Tombeau de Couperin, realizzando la trascrizione pianistica di una furlana di Francois Couperin (1668-1733) tratta dai Concerts royaux. (Questa trascrizione è pubblicata in Arbie Orenstein, Some Unpublished Music and Letters by Maurice Ravel, «The Music

Forum», 3, 1973, pp. 330-1.)

24 La danzatrice russa Ida Rubinstein (1885-1960) iniziò la sua carriera nei Ballets Russes di Diaghilev, prima di creare una propria compagnia. Ella era anche mecenate di grande generosità. Tra i balletti presentati da lei, possiamo citare Le martyre de SaintSébastien (1911) di Debussy, La tragèdie de Salomé (1919) di Schmitt, Lstar (1924) di d’Indy, LJmpératrice aux rochers (1927) di Honegger e Le baiser de la fée (1928) di Stravinsky.

25 L’universo incantato degli animali, in particolare dei gatti, è un altro tema importante nell’opera di Colette (1873-1954), e rappresenta un importante legame tra il compositoreEnfant et les sortilèges c la sua librettista. L’opera fu tenuta a battesimo alfOpéra di Monte-Carlo nel marzo 1925, venticinque anni dopo il primo incontro fra Colette e Ravel.

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26 Le Chansons madécasses, dodici poemi in prosa di Evariste-Désiré de Parny (17531814), risalivano al 1787. Parny sosteneva di aver raccolto e tradotto numerose canzoni degli indigeni malgasci, malgrado non fosse mai stato in Madagascar e non ne parlasse la lingua. Ravel considerava il suo ciclo di tre melodie come un’opera tra le più importanti da lui composte dopo la guerra, poiché raggiungeva il massimo dell’espres­ sività con una notevole economia di mezzi. 27 Dopo il Bolèro, Ravel terminò ancora tre opere: due concerti per pianoforte, uno pour la main gauche e l’altro in sol maggiore, e il ciclo Don Quichotte à Dulcinèe, su poesie

di Paul Morand. 28 Quando non aveva ancora neppure messo mano agli abbozzi di Jeanne d’Arc, Ravel ne parlò lungamente in un’intervista pubblicata il 24 settembre 1933 su «Excelsior» (v. pp. 170-2 in questo stesso volume). Ravel e Delteil (1894-1977) erano in relazioni amichevoli, e la biblioteca del compositore contiene molti libri dello scrittore con dedica personale, tra cui due esemplari di Jeanne d’Arc (Paris, Bernard Grasset 1925 e 1926).

Alcune riflessioni sulla musica (p. 8) 1 Roland-Manuel, Lettres de Maurice Ravel et documents inédits, «Revue de musico­ logie», 38, luglio 1956, p. 53. Secondo Roland-Manuel, questo testo costituiva la conclusione dell’intervista da cui aveva tratto origine VEsquisse autobiographique. 2 È naturale che Ravel tragga spunto da Mozart per enunciare la propria estetica, dal momento che il maestro austriaco era da lui venerato più di ogni altro compositore. Per tutta la durata della sua attività Ravel tentò di imitare di Mozart la chiarezza di espressione, la perfezione di scrittura e quell’equilibrio senza pari tra simmetria classica ed elementi di sorpresa. Un giorno Ravel fece notare come la sua musica fosse «molto semplice, null’altro che Mozart». A questo proposito, ricordiamo quanto ebbe a dire Mozart a proposito dell’aria di Osmino nel primo atto del Die Entfùhrung aus dem Serail, in una lettera al padre del 26 settembre 1781: Poiché Tuomo che si trova in uno stato di collera così violenta supera ogni regola, ogni limite, ogni confine; non riconosce più se stesso... E occorre che anch’essa, la musica, non conosca più se stessa. Ma poiché le passioni, violente o no, non devono mai venire espresse fino a eccitare il disgusto, e poiché la musica, persino nella situazione più terribile, non deve mai offendere l’orecchio, ma anzi, proprio in quell’occasione ancora deve affascinarlo, restan­ do così sempre ancora musica, io non ho scelto una tonalità estranea a quella di fa (che è la tonalità delTaria), ma una affine: non la più prossima, re minore, ma la più lontana, la minore. (Wolfgang Amadeus Mozart, Briefe und Aujzeichnungen, Bàrenreiter-Verlag, Kassel 1962.)

La musica contemporanea (pp. 9-18) 1 Conferenza tenuta da Ravel alla Scottish Rite Cathedral, Houston, Texas, il 7 aprile 1928, e patrocinata dal Rice Institute Lectureship in Music.

2 Si vedano i programmi in Arbie Orenstein, Ravel: Man and Musician, New York, Dover 1991, tavole 13 e 14. 3 Apparsa per la prima volta in «The Rice Institute Pamphlet» (15, aprile 1928, pp. 131-45), la conferenza fu ripubblicata con un’introduzione di Bohdan Pilarski, in Une conférence de Maurice Ravel à Houston (1928) («Revue de musicologie», 50, dicembre 1964, pp. 208-21). Se è pur vero che Ravel ha dovuto tenere la conferenza in francese, certo doveva avere con sé una traduzione inglese. Negli archivi del Cleveland Museum of Art, in cui il compositore e la soprano Lisa Roma eseguirono un concerto-conferenza

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Note al testo

nel pomeriggio di domenica 22 gennaio 1928, si trova una versione sintetizzata della conferenza (in inglese), letta in più occasioni nel corso di questa tournée nordamericana.

4

Roland-Manuel aiutò certamente Ravel nella messa a punto del testo francese.

Wagner e i musicisti d'oggi: opinioni di Florent Schmitt e di Maurice Ravel — Conclusioni (p. 19) ‘Louis Laloy, «La Grande Revue», XIII, 9,10 maggio 1909, pp. 160-4. In un articolo intitolato Wagner et nos musiciens («La Grande Revue», 10 aprile 1909, pp. 558-66), Laloy citava un recente commento di Pierre Lalo comparso su «Le Temps», che sottolineava come la giovane generazione avesse torto a rompere con Wagner e a cercare un’influenza più «perniciosa» (cioè debussysta). «L’arte di questi giovani diviene sempre più futile, futile, futile. Quasi quasi vien voglia di augurarsi una restaurazione dell’in­ fluenza wagneriana», scriveva Lalo. Laloy pensò che sarebbe stato interessante consultare direttamente «questi giovani» e sentire le loro reazioni alle affermazioni di Lalo. Alfredo Casella, Jean Huré, Raoul Laparra, Armande de Polignac, Albert Roussel, Déodat de Séverac, e più tardi, infine, Schmitt e Ravel furono tra le dodici personalità che gli risposero. Laloy concludeva così il proprio articolo: «Ogni influenza è valida per chi vale, e deprimente per chi vale poco. Se il nostro paese — tale sembra essere la convinzione dell’eminente critico del «Temps» — è sterile non di musicisti ma di musica, non sarà Wagner a salvarlo». («La Grande Revue», 10 maggio 1909, p. 164.)

2

V. p. 190, “Parsifal’\ nota 3.

3 Péladan (1858-1918), poeta, romanziere, teologo e occultista, era un wagneriano fervente così come il suo amico Catulle Mendès (v. Maurice Ravel, Lettres, écrits, entretiens - présentés et annotés par Arbie Orenstein) Paris, Flammarion 1989, p. 506, lettera 53, nota 9).

4 Cioè il desiderio di ritornare, in Francia, all’influenza wagneriana. Allo stesso modo di Golliwogg’s Cake-walk (1908) di Debussy, parodia di Tristan und Isolde, la notazione «Wagneramente» nella Fanfare di Ravel per il balletto L’éventail de Jeanne (1927) è una sorta di sberleffo a Wagner, che a quanto pare si poteva deridere, ma non ignorare.

5 II critico francese Pierre Scudo (1806-1864), conosciuto anche con i nomi di Pietro, Paulo, o Paul, era celebre per le sue vedute estremamente conservatrici. Ammirava Mozart, stroncava Berlioz, Liszt e Wagner, e non manifestava alcun entusia­ smo per la musica moderna (cioè posteriore al 1830).

Le Polonaises, i Nocturnes, gli Impromptus, la Barcarolle - Impressioni (pp. 20-1 ) 1 «Le Courrier musical», 13,1 gennaio 1910, pp. 31-2. Questo numero straordinario del «Courrier musical», pubblicato per il centenario della nascita di Chopin, conteneva tredici brevi articoli che trattavano diversi aspetti della vita e dell’opera del compositore. Ravel eseguì spesso la musica di Chopin nei suoi anni di studio e lo ammirò per tutta la vita. Occorre, tuttavia, che il lettore soffermi l’attenzione sullo stato di questo testo. In una lettera a René Doire, redattore della rivista, Ravel si lamentò infatti dei tagli e delle modifiche apportate al suo articolo su Chopin, sottolineando con enfasi la sua rinuncia a qualsiasi collaborazione futura con «Le Courrier musical». (Estratti della lettera di Ravel si trovano nel fondo Montpensier, dipartimento di musica della Bibliothèque Nationale.)

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2 Carl Maria von Weber (1786-1826) compose due polacche per pianoforte, la Grande Polonaise in mi bem. magg. (op. 21) e la Grande Polonaise brillante (L’Hilarité)

in mi magg. (op. 72). 3 L’opera di Stanislaw Moniuszko (1819-1872), compositore dell’opera nazionale polacca Halka, è particolarmente caratterizzata da un’estetica nazionalista.

4 Leggi Grande Polonaise in mi bem. magg. Si tratta della Grande Polonaise brillante précédée d’un Andante spianato (op. 22). 5

Erroneamente «do min., op. 26» nel testo.

6

Erroneamente «op. 46» nel testo.

7 II teologo gesuita spagnolo Luis Molina (1535-1600), la cui dottrina, battezzata molinismo, si sforzava di riconciliare le nozioni di grazia e di libero arbitrio.

Qm mettere sotto alla musica? Versi beili, versi brutti, versi liberi oprosa? (pp. 22-3) 1 «Musica» (febbraio e marzo 1911), pp. 38-40 e 58-60.1 pareri di Ravel si trovano a pp. 59-60. La rivista pubblicò diciannove risposte alla domanda, tra cui quelle di Debussy, Dukas, Fauré, d’Indy, e dei poeti Pierre Louys e Henri de Régnier. 2 ÌCAir des bijoux di Margherita tratta dal III atto del Faust di Gounod (1859), libretto di Jules Barbier e Michel Carré.

Concerts Lamoureux (pp. 24-6) 1 «Revue Musicale de la S.I.M.», Vili, 2, 15 febbraio 1912, pp. 62-3. Nell’autografo il titolo di quest’articolo è scritto da un’altra mano. Ravel afferma tuttavia di recensire quattro concerti (della domenica pomeriggio). Beninteso, egli non poteva commentare tutte le opere, e tra gli altri brani che furono eseguiti è possibile citare la Settima Sinfonia di Beethoven, i Nocturnes dì Debussy, il Concerto per pianoforte in do minore K. 491 di Mozart, Sheherazada di Rimskij-Korsakov, la Quarta Sinfonia e l’Ouverture, scherzo e finale di Schumann. I programmi erano diretti da Camille Chevillard. 2 Per qualche ragione, un paragrafo polemico che avrebbe dovuto figurare a questo punto, fu soppresso: Per l’appunto, a proposito di una piccola opera che ho appena fatto rappresentare, ricevo un articolo di Gaston Carraud. In esso viene formulata la più grave accusa che si possa muovere a un artista: la mancanza di sincerità. Secondo i termini usati dal critico, le mie produzioni avrebbero lo scopo generale di «fare colpo» sugli uditori. Solo un collega poteva osare una cosa del genere.

Nella «Liberté» del 30 gennaio 1912, Carraud spiegava che avrebbe recensito il giorno dopo la versione per balletto di Ma mère Poye, ch’egli definiva «gradevolissima piccola fantasia danzata». La recensione del 31 gennaio era tuttavia molto negativa; Carraud giunse a dire che Ravel avrebbe dovuto scrivere una nuova partitura piuttosto che orchestrarne una vecchia. «Per la prima volta, scriveva, Ravel lascia intravedere qualcosa che pare naturale, e maggior desiderio di divertirsi e divertirci discretamente che di “far colpo” su di noi». 3 Quest’opera in tre atti, su libretto di Jean Lorrain, musica di Pierre de Bréville, fu rappresentata per la prima volta il 7 marzo 1910 al Théàtre de la Monnaie a Bruxelles, ottenendo un vivo successo. La rappresentazione parigina ebbe luogo all’Opéra-Comique solamente 1’8 febbraio 1932. Vennero eseguiti due brani dell’opera: la musica del balletto del II atto e l’aria di Eros, cantata dal celebre mezzosoprano Claire Croiza (1882-1946).

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Note al testo

4

Composta nel 1899, la Pavane Ri orchestrata nel 1910.

3 Dall’omonimo poema di Schiller. Curiosamente Ravel scrive abitualmente Listz invece di Liszt. 6

Soprano francese (1869-1935) che fece una grande carriera internazionale.

7 II critico francese Alfred Ernst (1860-1898), wagneriano fervente, tradusse sei libretti di Wagner in “prosa ritmata”. 8 Georges-Martin Witkowski ( 1867-1943) studiò composizione con Vincent d’Indy alla Schola Cantorum. La sua Deuxième Symphonie fu pubblicata da Durand nel 1910, e dal 1924 al 1941 fu direttore del Conservatorio di Lione. A Lione dirigeva sia la Société des Grands Concerts sia i Concerts Witkowski. 9 II brano di Chausson (1882-1890, rivisto nel 1893), per voce e orchestra, è scritto su testo di Maurice Buchor. Fu cantato da una certa Bloomfìeld-Zeisler.

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Ancora un riferimento agli estratti dell’opera di Bréville.

Concerts Lamoureux (pp. 27-30) 1 «Revue Musicale de la S.I.M.», VIII, 3, marzo 1912, pp. 50-2. 2 L’imponente Histoire naturelle del naturalista Georges Louis Ledere, conte di Buffon (1707-1788), fu edita in quarantaquattro volumi. (Jules Renard ne derivò il titolo per le sue storie di animali.) Le riflessioni di Buffon sul genio e sulla pazienza si trovano nel primo discorso della Histoire naturelie, «Del modo di studiare e di trattare la storia naturale», pubblicato nel 1749.

La Storia naturale, considerata in tutta la sua estensione, è una Storia immensa, abbraccia tutti gli oggetti che ci vengono presentati dall’Universo. Tal prodigiosa moltitudine di Quadrupedi, d’Uccelli, di Pesci, d’insetti, di Piante, di Minerali, ecc. offre alla curiosità dell’umano spirito uno spettacolo vasto, il cui complesso è sì grande, che parrebbe, e nei fatti egli è, inesauribile nei dettagli offerti [...] Gli Osservatori più abili, dopo un lavoro di innumerevoli anni, null’altro han dato se non abbozzi assai imperfetti dei troppo molteplici oggetti offerti da quei particolari rami della Storia Naturale cui unicamente avevano dedicato le attenzioni loro: e pure han fatto costoro tutto ciò che fare potevano, e ben lungi dall’incolpare gli Osservatori per lo scarso avanzamento della Scienza, non saprebbesi lodare a suffi­ cienza la loro assiduità al lavoro e pazienza, senza puranco ricusar loro più elevate qualità; poiché v’è una sorta di potenza di genio e spirituale coraggio nel poter considerare senza smarrimento la Natura nell’innumerevole moltitudine dei suoi prodotti, e nel ritenersi in condizione di comprenderli e compararli [...]. (Cit. in Jean Pivoteau et al., Oeuvres philosophiques de Buffon, Paris, P.U.F. 1954, p. 7.)

3 La Seconda Sinfonia di Brahms risale al 1877, e la Symphonie di Franck al 1888. 4 Camille Chevillard (1859-1923) studiò composizione con Chabrier prima di diventare il direttore principale dell’orchestra Lamoureux. Fu con questa qualifica che guidò la prima esecuzione della Valse.

3 Ravel era particolarmente impressionato dalla fantasia orientale Islamey (1869, seconda versione nel 1902) di Balakirev, ritenuta generalmente il culmine del virtuosi­ smo pianistico. Confidò tuttavia a Maurice Delage che Gaspard de la nuit sarebbe stato ancora più difficile a suonarsi, cosa in effetti vera.

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6 Quest’opera in cinque atti su libretto di P. B. Gheusi e A. Mérane fù eseguita per la prima volta all’Opéra il 30 dicembre 1910. Hiie (1858-1948), dopo aver compiuto gli studi musicali al Conservatorio, aveva ottenuto nel 1879 il Prix de Rome; le sue numerose opere godevano, mentre egli era ancor vivo, di un’enorme popolarità. (Il suo balletto-pantomima Siang Sin fu rappresentato all’Opéra più di cento volte.) 7 Questo passaggio, che porta l’indicazione Allegro brillante) tradisce l’influenza della colorita orchestrazione di Rimskij-Korsakov: attiva presenza delle percussioni (in particolare timpani, grancassa e piatti), fitta la scrittura degli ottoni, arpeggi vivaci ai clarinetti, la melodia affidata soprattutto agli archi. La tessitura rimane sempre leggera. 8 II testo francese di questa melodia è tratto dal Salmo XLVII (XLVI nella Vulgata). Compiuta nel 1904, quest’opera voluminosa e drammatica è scritta per grande orchestra, coro misto e soprano solo. 9 II pianista tedesco Emil von Sauer (1862-1942) fu allievo di Nicolaj Rubinstejn al Conservatorio di Mosca e studiò per breve tempo con Liszt. 10 Cfr. Maurice Ravel, Lettres, écrits, entretiens - présentés et annotés par Arbie Orensteiny Paris, Flammarion 1989, p. 493, lettera 6 nota 4. [Era nota come envoi (invio)

la composizione che per contratto, almeno una volta l’anno, i vincitori del Prix de Rome dovevano mandare all’Académie des Beaux-Arts di Parigi dal loro soggiorno di studio a Villa Medici. Le Impressions dltalie^ suite sinfonica in 5 movimenti, era stato 1’envoi del 1889 di Gustave Charpentier, vincitore del Prix de Rome nel 1887 e successivamen­ te reso celebre dall’opera Louise (1900). Il pesante sarcasmo di Ravel sui «venerabili membri dell’istituto» riporta alla mente la storia delle sue tormentate partecipazioni al Prix de Rome, tra il 1900 e il 1905. N.d.T.]

I “Tableaux symphoniques”di Fanelli (pp. 31-3) 1 «Revue Musicale de la S.I.M.», Vili, 4, aprile 1912, pp. 55-6.

2 Ernest Fanelli (1860-1917), allievo di Léo Delibes, fu autore di alcune opere oggi dimenticate. All’epoca invece la sua musica e la sua carriera erano state al centro di un celebre dibattito. 3 Judith Gautier (1850-1918), figlia di Théophile Gautier, era anch’essa scrittrice. I suoi saggi e romanzi sono il riflesso dell’interesse da lei nutrito per l’orientalismo e per la musica. L’opera di Fanelli, a lei dedicata, è scritta sulla traccia del Roman de la momie di Théophile Gautier. Compiuto nel 1883, il poema sinfonico fu eseguito per la prima volta nel 1912.

4 Edouard Benedictus (1878-1930) aveva musicato diverse poesie di Judith Gautier. 5 L’espressione fa riferimento a una celebre manifestazione del 1827, durante la quale la folla invase le vie di Parigi scandendo su tre sillabe l’urlo Des lampions! per reclamare l’illuminazione pubblica. [N.d.T.]

6 Quest’immaginario detective americano è l’eroe di più di mille romanzi polizieschi di autori diversi. 7 Per quanto Ravel qualificasse Berlioz dell’appellativo di «genio», il suo entusiasmo per la musica di quest’ultimo rimaneva limitato.

8 Contrariamente a quanto dice Ravel, l’opera di Debussy fu bissata in occasione della prima esecuzione il 23 dicembre 1894. Nei suoi Mémoires> il direttore d’orchestra svizzero Gustave Doret (1866-1943) rievoca il concerto della Société Nationale con queste parole:

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Note al testo La sala è strapiena. Mentre il nostro straordinario flautista Barrère lascia scorrere il suo tema iniziale regna un impressionante silenzio [...] All’improvviso sentii alle mie spalle — una facoltà speciale di alcuni direttori! — il pubblico completamente soggiogato! Il trionfo fu completo, tanto che, nonostante il regolamento vietasse il bis, non esitai a trasgredirlo. E l’orchestra, affascinata, ripetè con gioia l’opera che aveva amata e imposta a un pubblico conquistato. (Gustave Doret, Temps et contretemps, Fribourg, Editions de la Librairie de l’Université 1942, p. 96.)

9 La successione di terze maggiori si trova nel passaggio iniziale della Faust symphonie di Liszt (1854).

10 Alexandr Dargomyzskij £1813-1869) morendo lasciò l’opera incompiuta. Tzezar’ Cui completò nel 1872 lo spartito che fu in seguito orchestrato da Rimskij-Korsakov.

11 Anche Claude Debussy scrisse una critica dell’opera di Fanelli, in cui affermava tra l’altro: Per il momento obbedisce troppo docilmente al demone familiare che gli impone di accumulare note su note, senza preoccuparsi granché dell’equilibrio. Possiede un acutissimo senso della musica decorativa che lo spinge a una tale minuzia descrittiva da fargli smarrire la strada, dimentico di ciò che la sua musica potrebbe avere di persuasivo senza il concorso d’altro. Possa ritrovarsi, la vita glielo deve, e noi gli diamo la nostra fiducia con simpatia. («Revue Musicale de la S.I.M.», 15 marzo 1913, pp. 48-9.)

(Fa torcière”all’Opéra-Comique (pp. 34-7) 1 «Comoedia illustre», V, 7, 5 gennaio 1913, pp. 320-3. L’opera è di Camille Erlanger (v. di seguito nota 6).

2 Francisco Jiménez de Cisneros (1436-1517), cardinale spagnolo, grande inquisi­ tore e uomo di stato, di umilissime origini divenne consigliere religioso e politico del trono di Spagna. 3 Oltre La torcière, Sardou (1831-1908) scrisse una settantina di opere destinate al palcoscenico, tra cui il melologo Tosca, da cui fu tratta la celebre opera di Puccini. 4 II baritono e attore francese Jean Périer (1869-1954) debuttò nel 1892. Fu interprete di Pélleas in Pélleas et Mélisande e di Ramiro nell’Tfe^re espagnole. 5 Quo vadis (1909), opera di Jean Nouguès (1876-1932).

6 Camille Erlanger (1863-1919) studiò al Conservatorio con Léo Delibes e ottenne il Prix de Rome nel 1888. Compose soprattutto musica vocale, tra cui nove opere; tra queste il maggior successo fu Aphrodite (1906), tratta dal romanzo di Pierre Louys, che ebbe più di cento rappresentazioni all’Opéra-Comique. La prima rappresentazione della Sorcière ebbe luogo il 18 dicembre 1912 e gli interpreti principali furono Marthe Chenal (Zoraya), Ninon Vallin (Manuella), Jean Périer (il Cardinale) e Leon Beyle (don Enrique). Dirigeva Francois Ruhlmann; le scene erano di Lucien Jusseaume e M. Bailly e l’allestimento di Albert Carré. 7 Francois Ruhlmann (1868-1948) diresse il 19 maggio 1911 la prima dell’Afez/re espagnole. 8 Rispettivamente di Giacomo Meyerbeer (1792-1864) e Charles Gounod (18181893). Ravel aveva di Meyerbeer più o meno la stessa opinione che aveva di Berlioz: lodava il loro talento di orchestratoti, ma non trovava nient’altro di ammirevole nella loro musica. (Su Gounod v. p. 61 sgg. in questo stesso volume.)

9 II pittore René Piot (1869-1934).

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Ravel — Scritti e interviste

10 Verosimilmente Ravel faceva proprie certe critiche di Debussy su Christoph Willibald Gluck (1714-1787). Nella sua Lettre ouverte à Monsieur le Chevalier C. W. Gluck («Gii Bias», 23 febbraio 1903), Debussy scriveva tra l’altro: Sia detto tra noi, la vostra prosodia è pessima; a dir poco, fate della lingua francese una lingua accentuativa quand’essa è, al contrario, una lingua di sfumature. (Capisco... siete tede­ sco.) Rameau, che ha contribuito alla formazione del vostro genio, racchiudeva esempi di declamazione fine e vigorosa di cui avreste dovuto fare miglior tesoro — non parlo di Rameau come musicista per non darvi un dispiacere. Vi si deve l’aver reso predominante l’azione del dramma sulla musica... È forse cosa degna di tanta ammirazione? Tutto sommato vi preferisco Mozart, che vi mette completamente nel dimenticatoio, il brav’uomo, e non si preoccupa d’altro che della musica. (Francois Lesure, Debussy on Music, p. 124.)

11 Madame de Polignac (1876-1962) studiò con Fauré e d’Indy. Compose diversi balletti di soggetto storico, così come mélodies, opere e brani strumentali.

12 Grovlez (1879-1944) e Ravel furono compagni di corso al Conservatorio.

13 Jacques Doucet (1853-1929), il celebre sarto e mecenate.

“Fervaal” (pp. 38-41) 1 «Comoedia illustre», V, 8, 20 gennaio 1913, pp. 361-4. L’articolo è sottotitolato «Fervaal, azione musicale in tre atti e un prologo; testo e musica di Vincent d’Indy». Rappresentato per la prima volta a Bruxelles nel 1897, Fervaal fu allestito un anno dopo all’Opéra-Comique. La recensione di Ravel si riferisce a una rappresentazione data all’Opéra con interpreti principali Lucienne Bréval (Guilhen), Lise Charny (KaTto), Lucien Muratore (Fervaal) e Francisque Delmas (Axfagard).

2 II critico musicale belga Victor van Wilder ( 1835-1892), così come Alfred Ernst, era un wagneriano fervente. Tradusse in francese tutti i libretti di Wagner a cominciare da Lohengrin. 3 Ravel pensava certamente alle “audacie” armoniche di Gwendoline (Bruxelles, 1866), con i suoi numerosi accordi di settima e di nona senza risoluzione. Quanto a Réve (Parigi, 1891), confidò a Calvocoressi che vi si trovavano esempi significativi di accordi concepiti come pure risonanze, disposti senza alcuna preoccupazione per la condotta delle voci». (Ravel’s Letters to Calvocoressi, «Musical Quarterly», 27, gennaio 1941, p. 18.) 4

V. p. 204, Un’intervista con... Maurice Ravel, nota 13.

Al Théàtre desArts (pp. 42-5) 1 «Comoedia illustre», V, 9, 5 febbraio 1913, pp. 417-20. 2 Librettisti erano Eugène Leterrier e Albert Vanloo. Quest’operetta in un atto racconta la storia di un giovane, Gontran de Boismassif, che riceve dal tutore e maestro Pausanias insegnamenti sulla scienza e sulle arti, ma non su ciò che deve fare la sera delle proprie nozze. Un forte temporale scoppiato a proposito spinge la tremebonda sposa tra le braccia di Gontran, lasciando che sia la natura, in luogo di Pausanias, a suggerire al giovane sposo l’adeguata condotta. 3 Thésée, tragedia lirica in cinque atti e un prologo di Jean-Baptiste Lully (16321687) su libretto di Philippe Quinault, fu rappresentata per la prima volta nel gennaio 1675 davanti a Luigi XIV. Il prologo si svolge nei giardini del castello di Versailles.

4 Scene e costumi erano di Maxime Dethomas (1887-1929).

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Note al testo

5 Tratto dall’opera di Francois Couperin (1688-1733), con libretto di Louis Laloy.

6 Secondo Laloy, Dolly era una «sorta di sketch danzante» che mescolava « il burlesco del circo e del music-hall» (Louis Laloy, La Musique retrouvée, Paris, Plon 1928, p. 198). 7 II compositore e direttore d’orchestra Henri Rabaud (1873-1949). 8 II celebre clown inglese George Footitt (1864-1921) e il suo compagno Chocolat, un Nero spagnolo, avevano posto le basi della loro fama a Parigi. Debussy (Minstrels, Golliwogg’s Cake-walk} e Toulouse-Lautrec li hanno immortalati entrambi. 9 Kitty-Valse, il quarto dei sei brevi brani di Fauré. Terminato nel 1896, Dolly doveva il suo titolo a Dolly Bardac, la dedicataria; costei era la figlia di Emma Bardac, che sarebbe divenuta la seconda moglie di Debussy.

A proposito delle “Images”di Claude Debussy (pp. 46-8) 1 «Les Cahiers d’aujourd’hui», febbraio 1913, pp. 135-8.

2 Cfr. Maurice Ravel, Lettres, écrits, entretiens -présentésetannotésparArbie Orenstein, Paris, Flammarion 1989, p. 90, lettera 41. 3 L’opera fu bissata. [Nota di Ravel]

4 Carraud recensiva la prima audizione delle due parti di Images : il 20 febbraio 1910, Gabriel Pierné guidò l’Orchestre Colonne in Ibéria, e il 2 marzo Debussy in persona diresse Ronde de printemps in occasione di un concerto patrocinato da Durand. 5 Pseudonimo di Camille Faust (1872-1924), critico, poeta, romanziere e storico dell’arte.

6 Pseudonimo di Isidore Cohen (1858-1935), compositore inglese. Dopo avere studiato con Edouard Lalo a Parigi, si dedicò al teatro, dove la sua musica dai toni leggeri conobbe un’effimera notorietà internazionale.

7 Compositore francese (1865-1914).

“Boris Godunov” (pp. 49-51) 1 «Comoedia illustré», V, 17, 5 giugno 1913, s.p.

2 La prima rappresentazione aveva avuto luogo al Theatre des Champs-Elysées il 22 maggio 1913, con Fedor Saljapin nel ruolo del protagonista. Saljapin (1873-1938) aveva interpretato questo ruolo anche neH’allestimento del 1908.

3 Calvocoressi riporta una conversazione nel corso della quale Diaghilev sosteneva l’impossibilità di allestire la versione lasciata da Musorgskij perché coro e solisti conoscevano solamente l’adattamento di Rimskij-Korsakov. Osserva Calvocoressi: «Sarebbe stato praticamente impossibile, per un cantante che ha studiato una delle due versioni, sentirsi a proprio agio con l’altra: troppo numerosi i trabocchetti: RimskijKorsakov ha modificato le tonalità, le indicazioni di tempo, le armonie, le modulazioni e persino, sebbene più raramente, le melodie. Gli argomenti di Diaghilev erano irrefutabili» (Musician Gallery, in Music and Ballet in Paris and London, London, Faber & Faber 1933, p. 178).

4 Questi i cantanti che avevano interpretato il ruolo di Dimitri: Damaev nell’allestimento del 1913 e Smirnov nel 1908.

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Ravel — Scritti e interviste

5 Problemi di questo genere, che rispecchiavano le idee di Calvocoressi, sono all’origine di una campagna che mirava a ristabilire la versione originale del Boris Godunov. I progressi furono tuttavia assai lenti. Nel 1928, le Edizioni musicali di Stato sovietiche cominciarono a pubblicare la loro edizione Urtext delle opere complete di Musorgskij curata da Pavel Lamm, contenente varianti e un importante apparato critico. L’edizione del Boris pubblicata da Lamm era però un amalgama di fonti diverse. Soltanto nel 1975, centocinque anni dopo che Musorgskij aveva terminato il Boris Godunov, David Lloyd-Jones pubblicò un’edizione fedele della prima partitura (Oxford University Press). Il secondo volume di quest’edizione comprende l’apparato critico e appendici musicali. 6 Allusione all’editore musicale russo Vassilij V. Bessel (1843-1907), che pubblicò le opere di gran numero dei compositori russi dell’epoca, tra cui Rimskij-Korsakov, Cajkovskij e i membri del Gruppo dei Cinque.

AirOpéra-Comique: “Francesca da Rimini”e “La vida breve” (pp. 52-4) 1 «Comoedia illustre», VI, 8, 20 gennaio 1914, pp. 390-1. Le due opere furono cantate in francese, in un allestimento di Albert Carré, sotto la direzione di Francois Ruhlmann. L’articolo contiene la distribuzione dei ruoli e un riassunto del libretto, senza dubbio un’aggiunta della redazione. Francesca da Rimini

Signori Francell (Paolo) Boulogne (Giovanni) De Creus (Il giardiniere) Deloger (Un soldato) Donvai (Vecchio servitore) Sposa di un Malatesta bruno, zoppo e deforme, Francesca gli preferisce il biondo, elegante e languido Paolo, fratello del marito. Costui coglie di sorpresa gli amanti e li trafigge con un unico colpo di spada.

Signore G. Vix (Francesca) Billa-Azéma (Prima dama) Marini (Un paggio)

La vida breve

Signori Francell (Paco) Vieuille (Sarvaor) Vigneau (Il cantante) Vaurs (Manuel) Don vai (Una voce) Deloger (Un venditore)

Signore M. Carré (Salud) Brohly (Nonna) Syril (Carmela) Carrière (Venditrice) Camia (Venditrice) Jeutel (Venditrice) Billa-Azéma (Venditrice)

Danze: Signorina Malaguenitas, Signor Rafael Pagan La gitana Salud è sedotta da Paco, che l’abbandona per sposare una ragazza del proprio rango. Salud irrompe nel bel mezzo del matrimonio. Il suo ex-amante la caccia. Lei muore per l’emozione.

2

Compositore francese (1861-1949).

3 Maurice Ravel, Lettres, écrits, entretiens - présentés et annotés par Arbie Orenstein, Paris, Flammarion 1989, p. 511, lettera 73, nota 3. L’opera di Aubert (1877-1968), tratta dalle fiabe di Charles Perrault, fu rappresentata per la prima volta all’OpéraComique nel 1924.

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Note al testo

4 Scritta su un’opera del drammaturgo inglese Francis Marion Crawford, nella traduzione francese di Marcel Schwob, l’opera di Franco Leoni (1864-1949) ebbe solo sette repliche all’Opéra-Comique. La prima fu il 30 dicembre 1913; protagonista era Geneviève Vix, prima interprete del ruolo di Concepcion nell’Heure espagnole. 5 Malgrado queste critiche a Puccini, Ravel, nel corso di una lezione data a Manuel Rosenthal, aveva elogiato l’armonia e l’orchestrazione innovatrici di Tosca. «Niente di diverso da quel che ho fatto io con il Tombeau de Couperin», disse. «Questa economia di mezzi, che fa sì che due soli strumenti producano un tale choc nell’orchestra di Puccini: tutto ciò è il prodotto di un grande artista».

6 Enrique Granados (1867-1916) era, come Albéniz, compositore e virtuoso del pianoforte.

7 Albéniz (1860-1909) si stabilì nel 1893 a Parigi, dove, oltre a Ravel, conobbe d’Indy e Dukas, che ebbero su di lui un grande ascendente. 8 Le scenografìe erano di Bailly, autore di quelle del primo allestimento dell’Heure espagnole.

“Parsifal” (pp. 55-7) 1 «Comoedia illustrò», VI, 8, 20 gennaio 1914, pp. 400-3. Il sottotitolo recita: «“Parsifal”, dramma sacro di Richard Wagner, versione francese di Alfred Ernst. Rappresentato per la prima volta il 1° gennaio 1914 al Théàtre National de l’Opéra». 2 Occorre ricordare che, all’epoca in cui visse Ravel, in Francia le musiche di Beethoven e di Wagner venivano eseguite di continuo. Il suo complesso e un po’ contraddittorio atteggiamento nei confronti di questi compositori era un misto di rispetto, di deferenza e d’invidia, oltre che una veemente denuncia della loro influenza sui compositori francesi. 3

Nella prefazione a DerFall Wagner (1888) Nietszche si esprimeva in questi termini:

Voglio sgravarmi un poco la coscienza. Non è soltanto una pura malignità, se in questo scritto lodo Bizet a spese di Wagner. Tra molti scherzi faccio presente una cosa con cui non si deve scherzare. Voltare le spalle a Wagner fu per me un destino; essere tornato in seguito a sentire propensione per una qualsiasi cosa fu per me una vittoria. Forse nessuno ebbe in maniera più pericolosa a concrescere con il wagnerismo, nessuno si è con maggior durezza difeso da esso, nessuno ha maggiormente gioito dell’essersene liberato. Una lunga storia! — Si vuole una parola per designarla? — Se fossi un moralista, chissà come la chiamerei! Forse superamento di sé [...] Comprendo perfettamente un musicista che oggi dica: «Odio Wagner, ma non sopporto più alcun’altra musica». Ma comprenderei anche un filosofo che dichiaras­ se: «Wagner riassume la modernità. Non c’è niente da fare, si deve cominciare con l’essere wagneriani [...]». (Friedrich Nietzsche, Il caso Wagner, trad. it. F. Masini, Milano, Adelphi 1979, pp. 163-4.)

4 II grand-opéra di Meyerbeer, su libretto di Eugène Scribe, fu rappresentato per la prima volta nel 1831. Grout vedeva in questa storia «una misto di leggenda medievale, di passione romantica, di superstizione grottesca e di generale follia». (Donald J. Grout, A Short History ofOpera, New York-London, Columbia University Press 1974, p. 316). 5 Ernest Chausson scrisse sia la musica sia il libretto di quest’opera, rappresentata al Théàtre de la Monnaie il 30 novembre 1903.

6

Operetta brillante di Jacques Offenbach, eseguita per la prima volta nel 1866.

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Ravel — Scritti e interviste

1 Riti religiosi dell’antica Grecia che celebravano ogni anno la morte e la rinascita della natura.

8 Ravel dichiarò in un’intervista: «Il principio dell’orchestrazione è l’isolamento dei timbri. Wagner non s’è mai preoccupato di far sentire il suono di un clarinetto o d’un violino. Le Prophète [di Meyerbeer] è orchestrato cento volte meglio di Lohengrin» (Georges Devaise, Raveliana, «Gringoire», 14 gennaio 1938). 9 Le scenografie all’Opéra erano di Simas (atti I e III) e di Rochette (atto II), Paul Stuart si occupò della regia. 10 La musique et la mise en scène (scritto in francese, pubblicato in tedesco nel 1899). Adolphe Appia (1862-1928), scenografo svizzero, influenzò con le sue teorie il teatro del XX secolo. Nella sua opera egli auspicò l’utilizzo di una scenografìa tridimensionale invece di un fondale su tela, l’uso di una illuminazione che fondesse scena e attore in un tutto unico, e l’impiego di effetti di luce come controparte visiva e interpretativa della musica.

I nuovi spettacoli della Saison Russe: “Le rossignol” (pp. 58-60) 1 «Comoedia illustre», VI, 17, 5 giugno 1914, pp. 811-4. In una lettera del 31 maggio 1914 inviata al critico inglese Edwin Evans, Ravel prometteva al collega di inviargli una copia di quest’articolo, «che, più che dell’opera, è una critica di coloro che hanno preteso di criticarla» (autografo inedito, presente nella Frederick R. Koch Foundation Collec­ tion, depositata alla Pierpont Morgan Library).

2 Oltre a essere un termine tecnico di danza, “pirouette” suggerisce in francese l’idea di un brusco cambiamento di direzione. Ravel intende così mettere in ridicolo i critici che graziosamente “piroettano” dalla censura all’elogio. 3 Questi commenti del musicologo e critico Jean Chantavoine apparvero in «Excel­ sior» il 28 maggio 1914. 4 Si tratta di Gaston Carraud, la cui critica al Rossignol fu pubblicata il 28 maggio 1914 sulla «Liberté».

5 II tema iniziale del Rossignol è quasi identico all’accompagnamento pianistico (battuta 17) della terza melodia Okonchenprazdriiy, shumniy den (Il bruciante giorno di festa volge al termine), del ciclo BezSolntsa (Senza sole) di Musorgskij. L’accentuazione ritmica è tuttavia completamente diversa. 6 Eric White fa osservare che tra il 1909 (atto I) e il 1914 (atto II e III), il linguaggio musicale di Stravinsky «si è talmente evoluto da essere quasi irriconoscibile». Il linguaggio del II e del III atto — dice — è di certo più evoluto di quello del I atto, e la differenza tra le due parti ha senza dubbio sconcertato qualcuno tra i primi ascoltatori; ma con il tempo essa s’è sfumata e le divergenze stilistiche paiono un difetto meno grave di quanto sembrasse al principio. È la natura stessa dell’opera a richiedere stili musicali contrastanti, e i suoi punti deboli non consistono nelle disparità stilistiche, ma in un’imperfetta fusione tra gli elementi della narrazione, del balletto e dell’opera. (Eric Walter White, Stravinsky, Paris, Flammarion 1983, pp. 249-50).

7

II direttore d’orchestra Pierre Monteux (1875-1964).

8 La Josephslegende (La leggenda di Giuseppe) di Richard Strauss, su commissione di Diaghilev, fii terminata nel 1914. Subito prima dell’inizio della Prima Guerra Mondia­ le, Strauss diresse il balletto a Londra e a Parigi. 9

Figura importante per la nascita del balletto moderno, Benois (1870-1960)

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Note al testo

lavorava sia come scenografo sia come autore di soggetti per balletti. Insieme a Diaghilev e a Leon Bakst aveva fondato una rivista russa, «Le monde de 1’art», che svolse un ruolo importante nella nascita dei Ballets Russes.

Le “mélodies” di Gabriel Fauré (pp. 61-5) 1 «La Revue Musicale», 3, ottobre 1922, pp. 22-7.

21 brevi studi biografici di Paul Verlaine intitolati Lespoètes maudits ( 1884) miravano ad attirare l’attenzione su sei poeti ch’egli considerava misconosciuti: Tristan Corbière, Marceline Desbordes-Valmore, Villiers de l’Isle-Adam, Stéphane Mallarmé, Arthur Rimbaud e Pauvre Lelian (anagramma del nome dello stesso Verlaine). 3 Henri Duparc (1848-1933) fu allievo di Cesar Franck. La sua fama è dovuta a una quindicina di melodie scritte tra il 1868 e il 1884. In seguito a disturbi di carattere nervoso cessò praticamente di comporre dopo il 1885. 4 Au cimetièrey tratta dalla raccolta La mer (1886), è opera di Jean Richepin (18491926); la sue poesie e i suoi scritti teatrali furono in grande voga durante la vita dell’autore.

5

Su testo di Ch. Leconte de Lisle, 1897. [N.d.T.]

6 II termine écriture artiste è legato a una ricorrente espressione dei Goncourt, che identificava una tecnica di scrittura caratterizzata costantemente dallo sforzo d’invenzio­ ne verbale, e dalla presenza tangibile di questo sforzo nello stile, come elemento costitutivo dell’opera e non come mezzo. [N.d.T.] 7 Nelle prime melodie di Debussy (Defleurs> dalla raccolta Proses lyriques) e di Ravel (Un grand sommeil noir e Si morne!) si riscontra il procedimento di Massenet, che

consiste nel ripetere numerose note gravi che all’improvviso s’impennano drammaticamente verso una nota acuta.

8

Allusione all’omonima poesia di Armande Silvestre, musicata da Fauré. [N.d.T.]

A proposito dell'ispirazione (p. 66) 1 Risposta a un’inchiesta condotta da L. Dunton Green su «The Chesterian», IX, 68, gennaio-febbraio 1928, pp. 105-18. Le osservazioni di Ravel sono riportate a p. 115. Tra gli undici musicisti che risposero figuravano Sir Arthur Bliss, Alfredo Casella, Paul Dukas, Sir Eugene Goosens, Albert Roussel e Franz Schreker. Altri compositori, quali Sir Edward Elgar e Ildebrando Pizzetti, si dissero incapaci di qualsiasi commento sulla natura dell’ispirazione musicale.

2

Ravel in realtà aveva iniziato a lavorare alla Sonate fin dal 1923.

3 Ravel citava inoltre l’aforisma di Baudelaire: «L’ispirazione è certamente sorella del lavoro quotidiano» (LArt romantiquè}. Secondo il suo punto di vista non occorreva dunque semplicemente rimanere in attesa dell’ispirazione. In una lettera a Jacques Durand del 1918 aggiungeva: «Ho passato istanti terribili, persuaso d’essere svuotato, e che mai sarebbero tornate l’ispirazione e la voglia di lavorare. E poi, dopo qualche giorno, sono tornate.» Durante una prova della sua Sonate pour violon et piano con il violinista André Asselin, rispose così a una domanda sul ruolo svolto dall’ispirazione nella Sonate'. «L’ispirazione — che volete dire — non — non so davvero che volete dire... Quel ch’è più difficile per un compositore — vedete — è la scelta — sì — la scelta — e sottolineava la parola con il gesto. Per quel che riguarda l’interprete, il suo dovere è

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Ravel — Scritti e interviste

quello di non dimenticare mai che tra lo spirito e la lettera la via è, e deve restare, molto stretta». (Dattiloscritto inedito di André Asselin, dal titolo Nostalgie, gentilmente comunicatoci da Jean Touzelet .)

Iljazz va preso sul serio! (pp. 67-9) 1 «The Musical Digest», XIII, 3, marzo 1928, pp. 49 e 51. Questo articolo in inglese senza dubbio trae origine da un’intervista tradotta per il «Musical Digest», costellata, curiosamente, di parole e frasi rimaste in francese (qui in corsivo). 2 La biblioteca di Monfort-TAmaury contiene diversi racconti di Conrad tradotti da Georges Jean-Aubry e pubblicati a Parigi negli anni Venti.

3 Arlen (1895-1956), nato Dikran Kouyoumdjian, mutò il proprio nome quando divenne suddito britannico. The Green Hat{\\ cappello verde, 1924), spiritoso romanzo sull’alta società londinese, ebbe un successo straordinario e rese Arlen una celebrità internazionale. 4 Allusione alle composizioni per pianoforte di Louis Moreau Gottschalk (18291869), intrise di ritmi latino-americani e creoli. Nato a New Orléans da padre inglese e madre creola, Gottschalk fu un bambino prodigio. Fece numerose tournée in Europa e nelle Americhe, spesso suonando la sua musica da camera, elegante e brillante.

5 Sembra che i compositori non si siano mai incontrati. Antheil (1900-1959) in modo molto appropriato intitolò la propria autobiografìa The Bad Boy of Music (Il cattivo ragazzo della musica, 1945). Dopo avere studiato con Ernst Bloch a New York, fece parte dell’avanguardia parigina degli anni Venti, prima di iniziare a comporre musiche tradizionali per film a Hollywood. Il suo Ballet mécanique, scritto per una ventina di strumenti a percussione, tra cui quattro pianoforti, “eliche d’aereo” e campanelli elettrici, fece scalpore a Parigi (1926) e a New York (1927). 6 Quest’operetta rimase allo stadio di progetto, e il libretto in questione non è mai stato identificato. Bousquet, un oscuro critico, era vicino di casa della famiglia Ravel in via Victor Massé (intorno al 1887). 7

Le roi d’Ys (1888) di Edouard Lalo era sempre in repertorio.

Ricordi di un ragazzo pigro (pp. 70-2) 1 «La Petite Gironde», 12 luglio 1931, p. 1. L’autenticità di quest’articolo fu messa in discussione da Edouard Ravel poco dopo la sua comparsa su «Paris-Soir», il 4 gennaio del 1938 (v. «Revue de musicologie», maggio-agosto 1938, p.107). L’articolo anziché con il nome di Maurice Ravel è firmato «Copyright Opera Mundi Press Service», suggerendo così qualche tipo di collaborazione con un anonimo giornalista. Cionono­ stante, l’autenticità dell’articolo è stata difesa con argomenti convincenti da Francois Lesure (v. «Musical» giugno 1987, pp. 4-10).

2 Des Esseints, protagonista del romanzo di HuysmansX Rebours (1884), cerca di vincere la propria profonda noia esistenziale, ma le sue macchinose esperienze con i piaceri sensuali lo lasciano sfinito e pessimista. Un moderno scrittore ha osservato che il romanzo ha un’importanza retrospettiva come compendio dei gusti e degl’interessi fm-de-siècle, e può avere un corrispettivo inglese nel Picture ofDorian Gray di Oscar Wilde. E interessante notare come il più grande piacere del protagonista consista nella lettura di Mallarmé, i cui scritti, nel 1884, erano poco conosciuti.

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Note al testo

“Concertopour la main gauche” (pp. 73-4) 1 «Le Journal», 14 gennaio 1933.

2 Paul Wittgenstein (1887-1961) era stato l’interprete della prima esecuzione parigina del Concerto pour la main gauche il 17 gennaio 1933.

Trovare motivi musicali nelle fabbriche (pp. 75-7) 1 «New Britain», 9 agosto 1933, p. 367. Questo articolo, pubblicato in inglese, è stato probabilmente tradotto per questa rivista.

2

Queste due celebri ouverture risalgono rispettivamente al 1882 e al 1866.

3 Cfr. Maurice Ravel, Lettres, écrits, entretiens -présentés etannotésparArbie Orenstein, Paris, Flammarion 1989, p. 497, lettera 19, nota 5. 4 Ravel si riferisce certamente a Pacific 231 di Honegger (1923), Zavod (Fonderie d’acciaio, 1927) di Mosolov, e Die gluckliche Hand (La mano felice, 1924) di Schoen­ berg; la terza scena di quest’ultima opera si svolge in una grotta descritta nella partitura come «una via di mezzo tra un’officina e un laboratorio di gioielliere».

5

V. p. 203, Maurice Ravel e il suo Bolèro, nota 4.

Le aspirazioni di chi ha meno di venticinque anni: la giovane musica (pp. 78-80) ’«Excelsior», 28 novembre 1933. 2 Dopo aver rievocato la generazione dei compositori francesi nati intorno al 1890, (i Six> ecc.), Ravel la paragona alla generazione successiva, nata intorno al 1910, alla quale appartenevano musicisti come Jean Fran^aix, André Jolivet e Olivier Messiaen. 3 In un’intervista con il critico austriaco Paul Stefan, Ravel manifestò le sue preferenze per questo modo di concepire la composizione. «Mozart», diceva, «aveva compreso che “la musica non ha necessità di essere filosofìa, essa deve essere semplicemente musica” [...] Io mi sono impegnato a comporre così. La mia arte non ha nulla a che vedere con quella dei compositori “a programma” che posano a esploratori della profondità di concezione universale o che vogliono essere rivoluzionari a ogni costo». («La Revue Musicale», 19, dicembre 1938, p. 277).

4 La sigla, oggi in disuso, è l’abbreviazione di télégraphie sans fils, e indicava comunemente e genericamente le emissioni radiofoniche. [N.d.T.]

Nijinsky, maestro coreografo (pp. 81-2) 1 Non si è mai trovata traccia della pubblicazione di quest’articolo. Le tre pagine dell’autografo si trovano nella collezione privata di Madame Alexandre Taverne. 2

Achille Devéria (1800-1857), pittore, autore di litografie e incisioni.

3 Si potrebbe contrapporre l’estetica classica di Ingres (1780-1867) e di Mendelssohn al romanticismo di Delacroix (1798-1863) e di Berlioz.

4

Nel manoscritto, Ravel per errore aveva scritto «inizio del XIX secolo».

5 Cézanne (1839-1906) e Gauguin (1848-1903) svolsero un ruolo di primo piano nella nascita del cubismo e del fauvisme.

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Ravel — Scritti e interviste

6 Lo stile vigoroso delle sculture di Antoine Bourdelle (1861-1929) testimoniava l’influenza del suo maestro Auguste Rodin.

7 Dopo la stagione del 1913 dei Ballets Russes, Nijinsky (1890-1950) ruppe con Diaghilev per formare una sua compagnia. Dietro sua richiesta, Ravel orchestrò il Carnaval di Schumann e Les Sylphides di Chopin per la sua compagnia.

Interviste

Le opinioni di Maurice Ravel sulla musica francese moderna (pp. 85-6) 1 Intervista non firmata in «The Musical Leader», XXI, 11 ,16 marzo 1911, p. 7.

“L’heure espagnole” (pp. 87-8) 1 «L’Intransigeant», 17 maggio 1911.

2 II compositore Claude Tettasse (1867-1923) aveva collaborato con Franc-Nohain a diverse operette; fu lui a presentarlo a Ravel nel 1906. 3 In un’altra intervista, Ravel dichiarò: [...] L * heure espagnole, o l’ora del mulattiere, come dicono gli Spagnoli, è precisamente la commedia di Franc-Nohain, così come venne rappresentata all’Odéon [...] L’heure espagnole richiede uno scarso lavoro di allestimento. D’accordo con Franc-Nohain, ho aggiunto, mentre gli orologi si abbandonano al loro malizioso strepito, qualche grottesco automa: ballerine, marionette danzanti, un soldato, un galletto, un uccello esotico, i cui movimenti meccanici arricchiranno l’illusione [...] Quanto agl’interpreti, sono d’una vivacità affascinante. Jean Périer è un attore strordinariamente duttile: il suo accento da boulevard de la Villette è più buffo che mai. Geneviève Vix canta e interpreta la parte di Concepciòn in modo delizioso. Riferite con chiarezza la mia gratitudine ai musicisti dell’orchestra: in quest’opera, la cui esecuzione è tanto difficile, non solamente hanno dimostrato di essere all’altezza della situazio­ ne, ma hanno anche testimoniato una devozione nei confronti dell’arte che va al di là di ogni elogio. Francois Ruhlmann, il loro direttore, è un artista dotato di una competenza e di un talento fuori del comune [...] E credo che il pubblico non sarà infastidito trovandosi di fronte questa Spagna comica, una Spagna vista dall’alto di Montmartre, priva di qualsiasi misticismo e truculenza». (Charles Tenrec, Les avant-premières: “Thérèse”et “L’heure espagnole”à TOpéra-Comique, «Comoedia», 11 maggio 1911.)

4 La biblioteca di Montfort-l’Amaury ospita un volume di poesie di René Bizet {Une histoire, Paris 1910) con una dedica a Ravel, indirizzatagli dall’autore dopo aver ascoltato Ricardo Vines interpretare Gaspard de la nuit. Toccato da questo gesto, Ravel

gli concesse diverse interviste.

“Ma mère Voye” (pp. 89-90) ’«L’Intransigeant», 28 gennaio 1912. 2 V. 7 testi di Maurice Ravel per i balletti a p. 173 di questo stesso volume.

194

Note al testo

“La lince”: Maurice Ravel in campagna (pp. 91-3) 1 «Bonsoir», 8 ottobre 1920.

2La Salle Gaveau si trova al 45 di rue de la Boétie, e conta circa milleduecento posti. 3 Si tratta della vecchia Salle Pleyel, in rue Rochechouart. 4 Situata in rue du Mail numero 13, questa sala da concerto oggi è diventata un ufficio. Su una targa nell’ingresso si legge: «Dal 1823 al 1878 la famiglia Erard accolse come ospite Franz Liszt in questa casa».

5 Questa sala, un tempo al numero 8 di rue d’Athenes (di fronte all’Hótel d’Athenes, dove Ravel alloggiava spesso quando era a Parigi), è stata da poco demolita e sostituita da un complesso di moderni uffici. 6 II Palais de Chaillot (1937) si trova ora al posto del Palais du Trocadéro, costruito in occasione dell’Esposizione Universale del 1878. Il grande auditorium di questo palazzo poteva contenere circa cinquemila persone, ed era celebre per il suo particolare riverbero. 7 E un lapsus dell’intervistatore, che pensa alla Sonatepour violon et violoncelle iniziata nell’aprile del 1920 e terminata nel febbraio 1922 (Ravel non compose mai nulla per violoncello e pianoforte).

Impressioni viennesi di un artista francese (pp. 94-5) 1 «Neue freie Presse», 29 ottobre 1920. 2 Puccini giunse a Vienna nell’ottobre del 1920 per le prime rappresentazioni in quella città del Trittico e della Rondine. La sua visita si trovò a coincidere almeno in parte con quella di Ravel, quindi esiste la possibilità che i due musicisti si siano incontrati. 3 Die Frau ohne Schatten, eseguita per la prima volta a Vienna nell’ottobre del 1919, scritta su libretto di Hugo von Hofmannsthal, è una sorta di erede spirituale dello Zauberflote di Mozart.

4 Mahler (1860-1911) diresse la sua Seconda Sinfonia a Parigi nell’aprile del 1910. Ravel avrebbe sicuramente dato delle sue sinfonie lo stesso giudizio che riservava alle mélodies di Duparc: imperfette, ma segnate dall’impronta del genio.

5 Rappresentata per la prima volta a Vienna nel maggio del 1920. La più famosa operetta di Franz Lehàr (1870-1948) era però Die lustige Witwe (La vedova allegra, 1905). 6 Ein Walzertraum (1907), che fruttò a Oscar Straus (1870-1954) una fama

internazionale. 7 Fall (1873-1925) era con Lehàr e Straus uno dei più importanti compositori dell’età d’oro dell’operetta viennese.

Ravel e la musica moderna (pp. 96-7) 1 «The Morning Post», 10 luglio 1922.

2 Tema che contiene i germi del suo futuro sviluppo. I temi “architettonici” di Beethoven ne sono eccellenti esempi. 3 La “fantasia lirica” L’enfant et les sortilèges.

195

Ravel — Scritti e interviste 4 II gallo d'oro di Rimskij-Korsakov si svolge in una terra incantata. Un’aura analoga di irreale incantesimo costituisce lo sfondo dell’Enfant et les sortileges.

5 Thomas (1811-1896) è ricordato soprattutto per la sua opera Mignon. Studiò al Conservatorio, vinse il Prix de Rome nel 1832, e più tardi entrò nei ranghi dell’istituto. Fu insegnante di composizione di Massenet, e ricoprì la carica di direttore del Conservatorio negli ultimi venticinque anni di vita.

Ilfestival di musica francese (pp. 98-100) 1 «De Telegraaf», 30 settembre 1922. L’articolo, in olandese, porta come firma soltanto le iniziali C. v. W. 2 Questo mensile, dedicato alla musica contemporanea, era diretto dal critico viennese Paul Stefan (1879-1943).

3 Genere di spettacolo in cui si uniscono giochi di luce, improvvisazione, ecc. La pantomima Fonctionnaire MCMXII di Schmitt rientrerebbe in questa categoria.

4

V. i commenti di Ravel a proposito della sincerità a p. 8 e p. 72 di questo stesso volume.

5 Willem Mengelberg (1871-1951) fu direttore del Concertgebouw di Amsterdam per più di quarantanni. 6

In francese nel testo.

Maurice Ravel a Londra (pp. 101-2) 1

Intervista non firmata in «The Morning Post», 18 aprile 1923.

2

II direttore era Sir Henry J. Wood (1869-1944).

3

La trascrizione della Sarabande e della Danse di Debussy.

Un celebre compositore francese a Londra (pp. 103-4) 1

Intervista non firmata, pubblicata in «The Star», 16 ottobre 1923.

2

In realtà a Montfort-l’Amaury, vicino alla foresta di Rambouillet.

3 Henry Purcell ( 1659-1695), certamente il più grande compositore inglese del XVII secolo. 4 Le opere di Sir Edward Elgar (1857-1934) hanno assai contribuito alla rinascita musicale dell’Inghilterra del XX secolo. ’ Sir Arnold Bax (1883-1953).

6

Gustav Holst (1874-1934).

7

II compositore inglese Lord Gerald Tyrwhitt Berners (1883-1950).

8

Sir Arthur Bliss (1891-1975).

9

Insieme a Elgar, il più importante compositore inglese contemporaneo fra quelli citati.

Il grande musicista Maurice Ravel parla della sua arte (pp. 105-8) 1 «ABC de Madrid», 1 maggio 1924, p. 19

196

Note al testo

1 La principale piazza di Madrid. 3 Allusione alla Tzigane.

4 II celebre violinista spagnolo Pablo de Sarasate (1844-1908) giunse a Parigi all’età di dodici anni e studiò a lungo al Conservatorio. 5 Ravel aveva visitato gran parte della Spagna del Nord nel 1911, ma questo era il suo primo viaggio a Madrid.

6 Danza di origine ispano-cubana, caratterizzata da continue alternanze di ritmo tra i 6/8 e i 3/4 o 2/4. La «Chanson romanesque» di Ravel, dal Don Quichotte à Dulcinèe, si fonda su di un ritmo di guajira. 7 Max Reger (1873-1916) Fu grandemente influenzato da Bach e da Beethoven, e soprattutto da Brahms. 8 In un articolo commemorativo intitolato Maurice Ravel, Prokof ev scrisse: [...] Per un musicista sovietico è particolarmente gratificante sapere che, come Debussy, Ravel non fu soltanto vivamente interessato alla musica russa, ma fu anche influenzato da questa, soprattutto da Musorgskij e da Rimskij-Korsakov. Di quest’influenza si può trovare traccia in numerose composizioni di Ravel, nel suo Daphnis, ad esempio, e la superba trascrizione orchestrale dei Quadri da un’esposizione di Musorgskij mostra con chiarissima evidenza l’inte­ resse di Ravel per la musica russa, così come la scelta del tema di Sheherazada, sebbene lo abbia poi trattato in modo del tutto diverso rispetto a Rimskij-Korsakov [...] Ho incontrato Ravel per la prima volta nel 1920, a Parigi. Fu a una serata musicale con Stravinsky, Ansermet e alcuni altri importanti musicisti. Un uomo piccolo, con lineamenti asciutti e particolari, una zazzera che cominciava a tendere al grigio, fece il suo ingresso nella sala. Era Ravel. Qualcuno mi presentò. Quando gli espressi il mio piacere per Poccasione di stringere la mano a un compositore così onorato e lo chiamai maitre (un modo comune in Francia per rivolgersi ad artisti celebri) Ravel strappò via la mano come se fossi stato sul punto di baciarlo ed esclamò: «Per favore, non chiamatemi maitre'». Non dubitai per un solo istante che Ravel fosse perfettamente consapevole del proprio grande talento, ma odiava ogni sorta di omaggio e faceva tutto quel che poteva per evitare ogni tentativo di ossequiarlo [...] Qualche tempo dopo la Guerra alcuni giovani musicisti francesi — Honegger, Milhaud, Poulenc e parecchi altri — dichiararono che la musica di Ravel aveva fatto il suo tempo, che nuovi compositori e un nuovo linguaggio musicale erano comparsi sulla scena. Sono passati gli anni, i nuovi compositori hanno occupato il posto che spetta loro nella musica francese, ma Ravel rimane ancora uno dei primi compositori di Francia e uno dei più eminenti musicisti del nostro tempo. (Sergej Prokofev, Autobiography, Artide, Remini­ scences, Moskva, Foreign Languages Publishing House s.d., pp. 107-10.)

9 Iniziata nel 1910, quando Milhaud aveva diciott’anni, e completata cinque anni dopo quest’opera in tre atti su libretto di Francis Jammes fu eseguita per la prima volta all’Opéra-Comique il 10 dicembre 1923.

10 Allusione alle musiche di scena per il Proteus di Paul Claudel (op. 17, composte nel 1913-19). Nel 1954 Milhaud compose musiche di scena per la seconda versione del dramma di Claudel (op. 341). 11 Composti nel 1920 (op. 63). 12 II celebre compositore (1899-1983) membro dei Six.

13 Presentate per la prima volta rispettivamente nel 1859 e nel 1862, quando Verdi (1813-1901) si avvicinava ai cinquantanni.

14 II punto di vista prettamente francese di Ravel è ovvio nelle osservazioni su Coppélia (1870), Sylvia (1876) e Lo schiaccianoci (1892).

15 Opera in quattro atti di Rimskij-Korsakov, su libretto proprio tratto da L. A. Mey,

197

Ravel — Scritti e interviste

presentata in tre versioni tra il 1868 e il 1892. L’opera di Musorgskij, composta una prima volta nel 1868-1869, fu riscritta nel 1871-1872. Dopo la morte di Musorgskij, Rimskij-Korsakov approntò una versione completamente rivista del Boris Godunov (cfr. pp. 49-51 in questo stesso volume).

16 II gruppo di cinque compositori russi di scuola nazionale conosciuti come moguchay kuchka («gruppo dei forti»): Balakirev (1837-1910), Borodin (1833-1887),

Cui (1835-1918), Musorgskij (1839-1881) e Rimskij-Korsakov (1844-1908).

Anteprima (pp. 109-10) 1 Intervista non firmata, «Le Gaulois», 20 marzo 1925.

2 Celebri illustrazioni, prodotte originariamente a Epinal; di grande diffusione popolare, dai tratti ingenui e dai colori vivaci, raffiguravano per lo più soggetti storici o leggendari. [N.d.T.]

3 In un’altra intervista a proposito di quest’opera Ravel affermò: I contrasti sono necessari alla musica drammatica, e ci si deve liberare della formula dell’opera romantica, di cui Meyerbeer fu indiscusso maestro. La vita stessa non è forse un susseguirsi di azioni e reazioni? [...] 11 teatro, letterario o musicale che sia, non può essere paragonato a nessun’altra forma d’arte. Ha leggi ed esigenze proprie, alle quali occorre sotto­ mettersi senza per questo abdicare in nessun modo alla propria personalità. Ho voluto scrivere un’opera che fosse profondamente “teatrale”». (Pierre de Saint-Prix, Ce quest Toeuvre nouvelle de M. Maurice Ravel: “L’enfant et les sortilèges”, «Excelsior», 10 luglio 1925.)

4I tre colpi di mazza che annunciavano l’inizio di ogni spettacolo teatrale. [N.d.T.] 5 Altri dettagli biografici sull’A^w^ et les sortilèges furono dati da Ravel in un’inter­ vista pubblicata da un giornale di Monte-Carlo: Il libretto di Colette mi fu inviato quand’ero ancora al fronte, a Maison-Rouge, nei pressi di Verdun. Allora non lo ricevetti, poiché avevo cambiato sezione. Dopo aver contratto, come tanti altri, una grave malattia, fui riformato nel 1917. Il libretto mi raggiunse finalmente qualche tempo dopo. Iniziai a lavorarci nella primavera del 1920. E poi... mi sono fermato. Erano forse le difficoltà della messa in scena, o la mia cattiva salute, il motivo di quest’inter­ ruzione? Sta di fatto che non ci lavoravo più, eppure non smettevo di rivolgervi di continuo la mente. Quand’ecco che, la scorsa primavera, Gunsbourg piombò come una bomba in casa mia: le bombe avevano cessato di sorprendermi, ma Gunsbourg seppe farlo: «La vostra Heure espagnole — mi disse — è stato un vero trionfo a Montecarlo. Mi dia presto qualcos’altro!». Ecco dunque come e perché, sei mesi dopo, terminai finalmente L’enfant et les sortilèges [...]». (Jules Méry, Opéra de Monte-Carlo, avant-premières: “L’enfant et les sortileges”, «Petit Monégasque», 21 marzo 1925.)

6 All’epoca, il ventunenne coreografo e ballerino russo George Balanchine (19041983) era agli esordi di una brillante carriera internazionale. Dopo aver lavorato nei Ballets Russes, si stabilì negli Stati Uniti, dove firmò le coreografìe di più di centosettanta opere per Hollywood, Broadway e il New York City Ballet. La sua carriera russofranco-americana fu parallela a quella del suo amico Igor Stravinsky. Le sue coreografìe per i festival di danza dedicati a Stravinsky (1972) e Ravel (1975), furono a New York straordinariamente bene accolte.

7 Ravel confidò a un altro giornalista che de Sabata conosceva già a memoria la partitura dell’Enfant appena dodici ore dopo averla ricevuta (André Arnoux, Avantpremières, OpéradeMonte-Carlo: “L’enfantetlessortilèges", «Le Figaro», 20 marzo 1925).

198

Note al testo

L’arrivo di Maurice Ravel (pp. 111-2) 1 Intervista firmata con le iniziali X. M., «Berlingske Tidende», 30 gennaio 1926.

2 Porto nel sud della Danimarca. 3 La prima delle Trois Chansons pour choeur mixte sans accompagnement (1914-1915). Ravel le aveva trascritte per pianoforte e voce sola.

4 In un concerto tenuto a Copenaghen il 2 febbraio 1926, Ravel inserì la Sinfonia n. 40 di Mozart (fu una delle rare occasioni in cui diresse la musica di un altro compositore). La sua interpretazione fu accolta con entusiasmo, così come il resto del programma, che comprendeva Ma mère l’oye, le trascrizioni della Sarabande e della Danse di Debussy, Shéhérazade, con Louise Alvar come solista, e La Valse.

5 II celebre mezzosoprano Maria Malibran (1808-1836) aveva infatti sposato il violinista belga Charles-Auguste de Bériot (1802-1870) poco prima di morire. Suo figlio, Charles-Wilfride de Bériot, fu professore di pianoforte di Ravel al Conservatorio (cfr. p. 178, Uno schizzo auto biografico di Maurice Ravel, nota 8). 6 Allusione alla cantata Myrrha, su testo di Fernand Beissier (tratta dalla scena finale del Sardanapalus di Lord Byron), composta per il Prix de Rome del 1901. La cronologia raveliana (o l’interpretazione datane dal giornalista) è inesatta, perché la cantata fu composta prima del Quatuor à cordes e di Shéhérazade.

L’influenza scandinava sui compositori francesi (pp. 113-4) 1 Intervista non firmata su «Svenska Dagbladet», 9 febbraio 1926.

21 programmi erano simili a quelli proposti a Copenhagen (cfr. intervista precedente). 3 Cfr. Maurice Ravel, Lettres, écrits, entretiens -présentés etannotésparArbie Orenstein, Paris, Flammarion 1989, lettera n. 213, nota 3.

4 II compositore norvegese Johann Svendsen (1840-1911).

5 Alcune ulteriori osservazioni su quest’argomento erano apparse in un’intervista con un giornalista olandese: Il pubblico scandinavo è certamente influenzato in larga misura dalla musica tedesca. Nelle regioni scandinave i compositori apprezzano grandemente Brahms. Traggono ispirazio­ ne dalla musica tedesca assai più che dalla dolce e pittoresca musica di Grieg e Svendsen, il che è forse un gran peccato. I musicisti francesi sono influenzati più da Grieg e Svendsen che dai compatrioti di questi due grandi artisti. Questo è un fenomeno sorprendente. Ma sono davvero lieto di osservare come il pubblico scandinavo comprenda la musica francese. Le mie opere hanno ricevuto un’accoglienza più che cordiale. {Een Onderhoud met Maurice Ravel, intervista non firmata su «De Telegraaf».)

6 Viking Dahl (1895-1945), allievo del Conservatorio di Stoccolma, studiò in seguito danza con Isadora Duncan. 7 Apparentemente un refuso per Pizzetti (1880-1968). In un articolo commemora­ tivo, Pizzetti ricordava di avere incontrato Ravel a Parigi nel 1913, quando le sue musiche di scena per il dramma La Pisanella di Gabriele d’Annunzio furono presentate al Théàtre du Chàtelet. I due compositori si incontrarono anche brevemente negli anni del dopoguerra, e le loro relazioni furono contraddistinte da cordialità e reciproco apprezzamento (Ildebrando Pizzetti, Ltalie — Souvenir de Maurice Ravel, «La Revue Musicale», dicembre 1938, pp. 245-8).

199

Ravel — Scritti e interviste

8 Delle opere progettate da Ravel troviamo una Sonate per pianoforte e violino e le Chansons madécasses.

Maurice Ravel e la giovane musica francese (pp. 115-8) 1 «Les Nouvelles littéraires», 2 aprile 1927.

2 Critico influente, Camille Bellaigue (1858-1930) scriveva per «La Revue des deux mondes»; fu autore anche di una ventina di libri.

3 Le “profezie” di Pierre Lalo rimasero in effetti inascoltate come quelle di Cassandra. 4 Allusione al titolo dell’opera di Milhaud, Les malheurs d'Orphée (cfr. di seguito nota 10). 5I1 poeta simbolista Jules Laforgue (1860-1887).

6 In una recensione assai negativa di Shéhérazade. 7 In un articolo sfavorevole sulla Rhapsodic espagnole. 8 L’opera comica di Marcel Delannoy (1898-1962), su libretto di Jean Limozin e André de La Tornasse, fu proposta in prima esecuzione all’Opéra-Comique il 21 febbraio 1927. Il dipartimento di musica della Bibliothèque Nationale possiede un esemplare della partitura con la seguente dedica del compositore: «A Maurice Ravel: un altro “giovane” con rispettosa e ammirata simpatia. Parigi, luglio 1926». 9 Sottotitolo delle musiche di scena di Honegger per Un miracle de Notre-Dame (1926), di Saint-Georges de Bouhélier. 10 Ravel utilizza qui l’espressione «jadis et naguère», letteraria e arcaicizzante, con chiaro riferimento alla celebre raccolta poetica di Paul Verlaine (Jadis etnaguère, 1885). [N.d.T.]

11 La breve opera in tre atti di Milhaud, tratta da un adattamento contemporaneo del mito di Orfeo realizzato da Armand Lunel, fu rappresentata per la prima volta a Bruxelles il 7 maggio 1926. L’opera richiede un’orchestra da camera composta da tredici strumenti. 12 Con il sottotitolo «Scènes chorégraphiques russes avec chant et musique», l’opera è scritta per quattro solisti (soprano, contralto, tenore, basso) e coro, accompagnati da diciassette strumenti a percussione, tra cui quattro pianoforti.

13 Dalla prefazione a Bérénice (1670) di Racine; brano desunto dal testo di Plutarco Come si potrà distinguere l'adulatore dall'amico.

Maurice Ravel, ruomo e il musicista (pp. 119-24) 1 «New York Times», 7 agosto 1927. L’intervista vera e propria è preceduta e seguita dai lunghi commenti di Olin Downes. 2 Malgrado le affermazioni di Ravel, il giudaismo e il pensiero ebraico hanno influenzato profondamente l’arte di Ernest Bloch (1880-1959). 3 In Jean Sibelius (1865-1957) si ritrova lo stesso vibrante romanticismo di Bloch. 4 Allusione ai racconti macabri e soprannaturali di E.T.A. Hoffmann.

Ravelparla degli stimoli offertigli da Poe nell’arte della composizione (pp. 125-6) 1 Intervista non firmata sul «New York Times» del 6 gennaio 1928.

200

Note al testo

2 Ravel lesse il saggio di Poe, che era stato pubblicato per la prima volta nel 1846, nella traduzione di Baudelaire La genèse d'un poème.

5 Così Poe: «Per la maggior parte gli scrittori — in ispecie i poeti — preferiscono lasciar intendere di comporre spinti da una sorta di nobile slancio — un’estatica intuizione — e certamente sarebbero colti da brividi d’orrore se al pubblico fosse consentito di sbirciare dietro le quinte, di far scivolare l’occhio sulla forma complessa e incerta del pensiero grezzo — [...] sulle caute scelte ed esclusioni — su ciò che con pena viene rifiutato o inserito. [...] Non sia letta come infrazione alle norme del decoro, la mia, se espongo il modus operandi che ha guidato l’edificazione di alcune mie opere. Scelgo The Raven perché è la più conosciuta. È mia intenzione palesare che non v’è un unico luogo nel suo processo di composizione che sia da attribuirsi al caso o all’intui­ zione — che il lavoro vi è stato condotto a piccoli passi sino al suo completamento, con la precisione e la logica serrata che competono a un problema matematico».

4 Quest’operetta rimase allo stadio di progetto, e il libretto in questione non è stato identificato. Bousquet, un oscuro critico, era vicino di casa della famiglia Ravel in via Victor Masse (intorno al 1887). 5 Lo scrittore era Joseph Delteil, autore di Jeanne d'Arc (v. p. 181, Uno schizzo autobiografico di Maurice Ravel, nota 28).

6 Forse riferendosi allo spirito di contraddizione e ironia, assai raveliano, riscontrato nella commedia pirandelliana Sei personaggi in cerca d'autore (1921).

Il ritorno di Maurice Ravel (pp. 127-32) 1 «New York Times», 26 febbraio 1928.

Maurice Ravel parla di Berlioz (pp. 133-6) 1 «Daily Telegraph», 12 gennaio 1929.

2 Mikail Glinka (1804-1857), fondatore della scuola nazionale russa, fu in relazione d’amicizia con Berlioz, che incontrò quando entrambi, giovani compositori, erano studenti in Italia.

3 Un pedale di re dei violoncelli e contrabbassi è presente per 108 battute del Ballet des Sylphes, nella seconda parte della Damnation de Faust di Berlioz.

4 Pseudonimo di William Roberts (1868-1959), autore e critico musicale inglese. 5 Tra le altre sue opere, il compositore tedesco Max Butting (1888-1976) scrisse dieci sinfonie. Ravel aveva studiato la Prima (1922), la Seconda (1924) o la Terza Sinfonia (1925). 6 Rosenthal in realtà non aveva studiato con Satie.

7 Cfr. p. 201, Maurice Ravel e la giovane musica francese, nota 8.

Problemi della musica moderna (pp. 137-8) 1 Articolo non firmato in «Der Bund», 19 aprile 1929 (giornale pubblicato a Berna).

Maurice Ravel e il suo “Bolèro” (pp. 139-41) 1 «La Nación», 15 marzo 1930 (giornale pubblicato a Buenos Aires).

201

Ravel — Scritti e interviste

2 Una conosciutissima sala da ballo sulla Rive-Gauche.

3 Cfr. più oltre, A casa di Maurice Ravel, nota 7. 4 In una lettera scritta a Manuel de Falla il 6 marzo 1930 Ravel faceva menzione di un progetto intitolato «Dèdale 39, che, come potete immaginare, è un aeroplano — e un aeroplano in do». Un altro progetto ispirato all’aviazione avrebbe dovuto essere un poema sinfonico, Icare (lettera inedita a Manuel Rosenthal). Sembra che entrambi i lavori non siano stati neppure parzialmente abbozzati. 5 A quel punto della sua carriera Paul Hindemith (1895-1963) godeva di una reputazione internazionale che lo collocava al primo posto tra i compositori tedeschi della sua generazione.

Intervista con Ravel (pp. 142-3) 1 «La Revue Musicale», 12 marzo 1931, pp. 193-4. Quest’intervista non firmata fu certamente concessa a Henry Prunières. Sono state omesse le domande del giornalista, che vertono su Schoenberg e la sua scuola.

2 Ravel si riferisce alle sonate per clavicembalo di Domenico Scarlatti (1685-1757), e alle loro incisive appoggiature e acciaccature. 3 Le prime melodie di Schoenberg sono ancora tonali e «brahmsiane»; l’influenza sensuale di Tristan und Isolde è evidente in Verkldrte Nacht (1899).

A casa di Maurice Ravel (pp. 144-7) 1 «De Telegraaf», 31 marzo 1931. 2 La tournée di Ravel si limitò poi soltanto all’Europa. 3 Oggi Jacarta.

4 Fock (1886-1973) era nato a Batavia (Giava), dove suo padre era governatore generale delle Indie orientali olandesi. Studiò direzione e composizione nei Paesi Bassi e in Germania, poi fu direttore d’orchestra in Europa e negli Stati Uniti.

5 Orchestra giavanese composta da diversi tipi di campane, da un violino a due corde, un salterio e dei flauti (per la sezione melodica), e da gong e tamburi (per le percussioni). 6 Senza dubbio un’allusione alle componenti di pastiche che si trovano in Pulcinella (dalle musiche di Giovanni Battista Pergolesi, 1710-1736) e in Mavra (dedicata alla memoria di Puskin, Glinka e Òaikovskij). Le due opere furono tenute a battesimo dai Ballets Russes all’Opéra di Parigi il 15 maggio 1920 e il 3 giugno 1922.

7 II direttore d’orchestra e compositore francese Albert Wolff (1884-1970), dopo aver studiato al Conservatorio diresse l’orchestra dell’Opéra-Comique, e fu direttore principale dell’Orchestra Pasdeloup; fece inoltre numerose tournée in Europa e in America del Nord e del Sud. 8 Questo progetto non venne mai realizzato.

9 Cfr. p. 199, Anteprima, nota 2.

Maurice Ravel parla della propria opera (pp. 148-50) 1 «Daily Telegraph», 11 luglio 1931 (in un articolo apparso su «Musical Quarterly»

202

Note al testo

[gennaio 1941, p. 17] Calvocoressi citò una parte di quest’intervista, datandola per errore al 16 luglio 1931).

2 Ravel pensava ai concerti per pianoforte di Brahms (cfr. p. 165 in questo stesso volume).

Un'intervista con... Maurice Ravel (pp. 151-5) 1 «Le Guide du concert», XVIII, 16 ottobre 1931, pp. 39-41. José Bruyr ripubblicò quest’intervista, con qualche modifica, nel suo libro Maurice Ravel (Paris, Editions Le Bon Plaisir 1950, pp. XI-XVIII).

2

Rispettivamente nel XVI e Vili arrondissement, quartieri della Parigi alla moda.

3 ALevallois-Perret. Due fotografìe di quest’appartamento appariranno in F. Lesure e J.-M. Nectoux, Maurice Ravel (Exposition), p. 70. 4 Fotografo e pittore americano, Man Ray (1890-1976) prese parte ai movimenti dadaista e surrealista. Visse a Parigi negli anni Venti e Trenta. 5 «La Revue Musicale», 1° aprile 1925, p. 83, pubblicò uno schizzo di Ravel, a opera di Favory.

6 II quadro di Georges d’Espagnat, Réunion des musiciens chezM. Godebski (1910), che ora si trova all’Opéra di Parigi, è riprodotto in Arbie Orenstein, Ravel: Man and Musician, New York, Dover 1991, tavola 7.

7 Due ritratti di Ravel, a opera di Achille Ouvré, sono esaminati in F. Lesure e J.-M. Nectoux cit., tavole dopo le pp. 24 e 30.

8 Pseudonimo di Lucien-Albert Moreau (1882-1948), autore di un certo numero di schizzi di Ravel e delle litografìe che illustrano la partitura delle Chansons madécasses. 9 Allusione a un’immagine umoristica nella Statue de bronze (poesia di Léon-Paul Fargue), la prima delle Trois Mélodies (1917) di Satie.

10 Lo spirito dell’aria in The Tempest di Shakespeare, simbolo del mondo magico e incantato di Ravel. 11 Jacques de Vaucanson (1709-1782), grande inventore di automi, che rappresenta qui il gusto per la precisione meccanica dell’arte di Ravel (v. Roland-Manuel, A la gioire de Ravel, Paris, Editions de la Nouvelle Revue critique 1938, p. 231). 12

Milhaud compose diverse opere su testi di Paul Claudel (1868-1955).

13 André Messager (1853-1929), compositore, direttore d’orchestra e di teatri, pianista, organista e critico. I suoi balletti e le sue operette venivano rappresentati molto spesso. Nel 1902 diresse la prima di Pelléas et Mélisande all’Opéra-Comique.

14

Quartiere operaio nel XVII arrondissement.

15 Oggi esiste una piazza intitolata a Emmanuel Chabrier, nei pressi di place Claude Debussy.

16 Guiraud (1837-1892) portò a termine con successo le opere di due suoi amici, Jacques Offenbach e Georges Bizet. Compose i recitativi e provvide all’orchestrazione dei Contes d’Hoffinann, nei quali inserì la celebre barcarola tratta da Die Rheinnixen, dello stesso Offenbach. Fu inoltre lui a comporre i recitativi che fecero di Carmen un grand-opéra. 17 II poema sinfonico (1911-1915) di Strauss, che fa ricorso a un’orchestra gigante­ sca, comprende numerose pagine “impressioniste”.

203

Ravel — Scritti e interviste 18 Lefou de la dame di Delannoy, chanson de geste in un atto (libretto di Jean Limozin e André de La Tourrasse), e Rayon des Soieries di Rosenthal, opéra-comique in un atto (libretto di Nino, pseudonimo di Michel Veber, cognato di Jacques Ibert), furono tenute a battesimo insieme airOpéra-Comique il 3 giugno 1930.

19 Balletto in un atto, soggetto di Boris Kochno, coreografìa di George Balanchine, su musiche di Hàndel arrangiate da Sir Thomas Beecham.

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Dal poema Jeux d’eau, tratto dalla raccolta Humoresques (1921).

Qualche confidenza del grande compositore Maurice Ravel (pp. 156-7) 1 «Excelsior», 30 ottobre 1931. 2 Ravel, o forse l’intervistatore, tralascia di citare i due clarinetti e la sezione di percussioni composta da timpani e da sette altri strumenti, oltre all’arpa. Inoltre, in conformità con la tradizione classica, gli archi si limitano a trentadue strumentisti.

Un pomeriggio con Maurice Ravel (pp. 158-60) 1 «Neue Freie Presse», 3 febbraio 1932. L’intervista è firmata C. B. L. 2 In realtà Leon Leyritz era nato in Francia e aveva studiato a Parigi. 3 Letteralmente, «Botteghe Artigiane Viennesi». Questi laboratori, fondati nel 1903, erano specializzati in arti decorative.

4 Cordiale, alla buona. [N.d.T.]

Le fabbriche offrono ispirazione al compositore (pp. 161-2) 1 Intervista non firmata nell’«Evening Standard» del 24 febbraio 1932.

2 Si tratta del Concerto in sol. Esso fu eseguito la prima volta al Queen’s Hall di Londra il 25 febbraio 1932, dalla Royal Philarmonic Orchestra, con Ravel direttore e Margue­ rite Long solista. Malcolm Sargent diresse il resto del programma, che iniziò con l’Ouverture Idomeneo di Mozart, seguita dalla Sinfonia n. 94 di Haydn e dal Concerto per pianoforte. Dopo l’intervallo fu eseguito il concerto per oboe e orchestra di Eugene Goossens (con Leon Goossens come solista) e il programma fu concluso dalla Suite da El amor brujo di Manuel de Falla. 3 Si riferisce alla messa in scena, da parte dei Ballets Russes, dell’opera di Satie Parade, che fu proposta al Theatre du Chàtelet il 18 maggio 1917, con la sceneggiatura di Jean Cocteau, le coreografìe di Leonid Massine, le scene e i costumi di Pablo Picasso e la direzione di Ernest Ansermet. Oltre alle macchine da scrivere americane presenti nell’orchestra, altre sonorità inusuali includevano sirene, colpi di pistola e una ruota da lotteria. Alla prova di Parade Ravel fu assai critico con l’orchestrazione, e disse a Jean Cocteau che non aveva capito la tecnica di un’opera «che non era irrorata da alcun flusso sonoro» — espressione rivelatrice di come Ravel concepisse il suono.

Dieci giudizi di Maurice Ravel su opere e compositori (pp. 163-6) 1 Intervista non firmata su «De Telegraaf», 6 aprile 1932.

2 Jacques Ibert (1890-1962) ottenne un riconoscimento internazionale con la sua

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Note al testo

suite orchestrale Escales (1919). Negli anni del dopoguerra incontrò Ravel nel salotto dei Godebski, e fu occasionalmente suo ospite a Le Belvedére. 3 Tibor Harsànyi (1898-1954), compositore ungherese, studiò con Kodàly, e più tardi fu tra i capifila AeWEcole de Paris, un gruppo di esuli che vivevano a Parigi. Ricevette alcuni suggerimenti artistici da Ravel, così come altri membri del gruppo, Alexandre Tansman e il rumeno Marcel Mihalovici. 4 II nome nel testo è scritto erroneamente come «Nabokof». Nicolas Obukhov (18921954) emigrò in Francia nel 1918. Poco dopo il suo arrivo intraprese studi di composizione e orchestrazione con Ravel, che lo appoggiò in seguito nella carriera musicale. 3 Allusione all’ostinato ritmico della mano sinistra nel secondo movimento.

6 Nell’originale olandese «Quartetto [rz?]». Ravel disse a Marguerite Long che aveva composto il movimento lento del concerto «due battute alla volta», con l’aiuto del Quintetto con clarinetto di Mozart. Per di più, come il concerto per pianoforte in do minore di Mozart, questo spazioso movimento evidenzia due solisti, il pianoforte e il gruppo dei legni.

7 Quest’elemento di contrasto tra solista e orchestra fa la sua comparsa nel primo movimento del concerto: Ravel introduce dapprima una cadenza dell’arpa, seguita da una cadenza dei legni che eseguono passaggi a imitazione dell’arpa, e solo a quel punto presenta la tradizionale cadenza dello strumento solista. 8 Beers (1902-1947) era compositore, pianista e organista. Dopo gli studi compiuti ad Amsterdam si stabilì a Parigi (1928-39) dove prese lezioni di composizione da Jean Huré e Nadia Boulanger. Il suo concerto, dedicato a Marcelle Gerar, è un’opera relativamente tradizionale, in tre movimenti, in do maggiore. La parte del soprano consiste in soli vocalizzi. Marcelle Gerar interpretò la prima esecuzione con Janine Weill al piano, Jules Viard al sassofono; Roger Désormière dirigeva l’Orchestra Sinfonica di Parigi alla Salle Pleyel, il 19 febbraio 1933.

Maurice Ravelfra un treno e l’altro (pp. 167-9) 1 «Candide», 5 maggio 1932.

2 Sembra che di questa sinfonia esista soltanto una pagina con l’abbozzo di un trio (autografo nella collezione privata di Madame Taverne). 3 Si tratta sostanzialmente di ciò che si verfìca nell'Enfant et les sortilèges. 4 Ravel pecca qui d’eccesso di modestia. In un articolo del 1921, Roland-Manuel sottolineava la decisiva influenza di Ravel sulle generazioni più giovani in Austria, Inghilterra, Francia, Ungheria, Italia e Spagna. Ma il compositore lasciò ovviamente la propria impronta soprattutto sulla scuola francese, alla quale il suo spirito era più affine, come dimostrano le opere di Maurice Delage, Jacques Ibert, Louis Durey, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre e della generazione che si sviluppò negli anni Trenta.

3 Osservazione ironica, naturalmente. 6 Cfr. p. 194, Le aspirazioni di chi ha meno di venticinque anni, nota 4. 7 Questo progetto non venne mai realizzato.

Maurice Ravel scriverà presto una «Jeanne d’Arc» (pp. 170-2) 1 «Excelsior», 24 settembre 1933.

2 L’opera rimase allo stadio di progetto.

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Ravel - Scritti e interviste

3 Hélène Jourdan-Morhange, facendo riferimento a diverse conversazioni avute con Ravel, ci dà la seguente suddivisione delle scene: «Jeanne con le sue pecore — La Corte — Incontro con il re — Assedio di Orléans — Presa di Orléans — Il processo davanti ai preti francesi e ai funzionari britannici (musica sarcastica, diceva Ravel), infine il rogo — Morte di Jeanne — e... Ingresso in cielo». Ravel concepiva quest’opera come un’ “opera-oratorio”, o un grand-opéra come quelli di Meyerbeer. Durante l’assedio di Orléans, pensava di far risuonare Tipperary dalla parte inglese e La Marseillaise e La Madelon dalla parte francese. Secondo Hélène Jourdan-Morhange, lo scopo era di appagare la sua «inclinazione alla mistificazione: anacronismi alla Bernard Shaw la cui Jeanne d’Arc aveva affascinato Ravel (avevo d’altronde l’impressione che lo spirito di Shaw si stesse a poco a poco sostituendo a quello di Delteil)». (Cfr. Hélène JourdanMorhange, Ravel et nous, Genève, Editions du Milieu du Monde 1945, pp. 235-7 e tavola 23, disegno dei costumi per Jeanne d’Arc di Luc-Albert Moreau). 4 Durante la Guerra dei Cento anni, il trattato di Calais (1360) assegnò 1’Armagnac agli Inglesi; la regione venne nuovamente annessa alla corona francese solo nel 1607.

5 Allusione al coro dei soldati, nel finale della seconda parte, e poi, in una versione completamente differente, nella quarta parte (scena 15). Berlioz aveva inoltre orchestra­ to e sviluppato la Marche de Rdkóczy, esattamente come Ravel intendeva fare per La Marseillaise.

6 II villaggio che diede i natali a Jeanne d’Arc.

Appendice: I testi di Maurice Ravel per i balletti (pp. 173-5) 1 Ma mère Toye, lettera autografa di Ravel n. 1 ; Adélaide, lettera autografa di Ravel n. 14.

2 Tratta dalla suite per pianoforte a quattro mani. Prima rappresentazione al Théàtre des Alts (direttore Jacques Rouché), Parigi, 29 gennaio 1912; direzione Gabriel Grovlez; scene e costumi, Jacques Drésa; coreografìa, Jeanne Hugard. Ravel aggiunse il Prélude e la Danse du rouet così come alcuni interludi per la versione per balletto.

31 soggetti sono tratti da Perrault {Contes de ma Mère l’Oye, Petit Poucet e La Belle au bois dormant}, da Marie-Catherine d’Aulnoy {Serpentin Veri) e da Marie Leprince de Beaumont {La Belle et la Bète). Gli intrecci sono però confusi (il nome Fiorine dato alla Bella Addormentata, ad esempio, è costante nelle fiabe della contessa d’Aulnoy) in una sorta di rievocazione di fantasie infantili; e lo stesso processo animerà i personaggi evocati dall’immaginazione dell’Enfant nell’£wyzzw^ et les sortilèges. [N.d.T.]

4 Balletto basato sulle Vaises nobles et sentimentales per pianoforte e composto da otto brani: sette valzer e un epilogo. Prima rappresentazione a opera della compagnia di Natasa Trouhaova, al Théàtre du Chàtelet, Parigi, il 22 aprile 1912, con Ravel alla guida dell’orchestra Lamoureux; scene e costumi, Jacques Drésa; coreografìa, Ivan Gustine. 3 Prima esecuzione in forma di concerto: Camille Chevillard alla guida dell’orchestra Lamoureux, a Parigi, il 12 dicembre 1920. Prima rappresentazione parigina del balletto all’Opéra, il 23 maggio 1929, con la compagnia di Ida Rubinstein; direzione, Gustave Cloetz; scene, Alexandre Benois; coreografìa, Bronislava Nijinska.

6 Al n. 9 nella partitura Durand. 7 Al n. 17 nella partitura Durand.

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Bibliografia essenziale

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Ravel — Scritti e interviste Maurice Ravel, Paris, Bibliothèque Nationale 1975. [Catalogo della mostra su Ravel (con 367 pezzi) allestita presso la Bibliothèque Nationale nel 1975.] Long Marguerite, Au piano avec Maurice Ravel, Paris, Julliard 1971. Marnat Marcel, Matirice Ravel, Paris, Fayard 1986. Marnold Jean, Le Scandale du Prix de Rome, «Le Mercure Musical», I, 15 giugno 1905, pp. 155-8, e 1 luglio 1905, pp. 178-80. Milhaud Darius, Hommage à Maurice Ravel, «Le Soir», 29 dicembre 1937. «Musical», Ravel, numero speciale (4), giugno 1987. Narbaitz Pierre, Maurice Ravel, Cote Basque, 1975. Nectoux Jean-Michel, Ravel/Fauré et les débuts de la Société Musicale Lndépendante, «Revue de musicologie», 1975, 61(2), pp. 295-318. - Maurice Ravel et sa bibliothèque musicale, «Fontes artis musicae» 24, 1977, pp. 199-206. - Fauré, Henry Prunières et la Revue musicale, «Etudes Fauréennes», 17, 1980, pp. 17-24. Nichols Roger, Ravel, London, Dent 1977. Orenstein Arbie, Ravel: Man and Musician, New York, Dover 1991. - L’Enfant et les sortilèges: Correspondance inèdite de Ravel et Colette, «Revue de musicologie», 1966, 52(2), pp. 215-20. - Maurice Ravel's Creative Process, «Musical Quarterly», ottobre 1967, 53, pp. 467-81. - Some unpublished Music and Letters by Maurice Ravel, «Music Forum», 1973, 3, pp. 291-334. - L’GSuvre de Maurice Ravel pendant la première guerre mondiale, «TAM», 28 marzo 1975, 284, pp. 62-5. - Ravel's Letters to Charles Koechlin, «ADAM», 1978, 41(404-6), pp. 20-5. - Ravel and Falla: An Unpublished Correspondence, 1914-1933, in Music and Civilization: Essays in Honor ofPaid Henry Lang, a cura di E. Strainchamps, M.R. Maniates, e C. Hatch, pp. 335-49, New York, W.W. Norton 1984. - La Correspondance de Maurice Ravel aux Casadesus, «Cahiers Maurice Ravel», 1985, 1, pp. 113-42. Prunières Henry, Trois Silhouettes de musiciens: César Franck, Saint-Saèns, Maurice Ravel, «La Revue Musicale», 1 ottobre 1926, 7, pp. 225-40. Ravel Maurice, Contemporary Music, «Rice Institute Pamphlet», aprile 1928, 15, 131-45. Roland-Manuel, Ravel, Paris, Gallimard 1948. - Maurice Ravel, «La Revue Musicale», 1921, 2, pp. 1-21. - Réflexions sur Ravel, «La Grande Revue», aprile 1938, 42, pp. 40-4. - Maurice Ravel a travers sa correspondance, «La Revue Musicale», gennaio-febbraio 1939, 20(188), pp. 1-7. - Lettres de Maurice Ravel et documents inédits, «Revue de musicologie», 38, luglio 1956, pp. 49-53. Rorem Ned, Historic Houses: Maurice Ravel at Le Belvédère, «Architectural Digest», settembre 1986, 43(9), pp. 182-88 e 212. Stuckenschmidt Hans Heinz, Maurice Ravel, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag 1966. Szmolyan Walter, Maurice Ravel in Wien, «Ósterreichische Musikzeitschrift», marzo 1975, 30(3), pp. 89-103. Vaughan Williams Ursula, R.V.W.: A Biography ofRalph Vaughan Williams, London, Oxford University Press 1964. Vuillermoz Emile et al., Maurice Ravelpar quelques-uns de ses familiers, Paris, Editions du Tambourinaire 1939.

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Interviste con Maurice Ravel (tutte riprodotte per intero nella II Parte di questo volume) Maurice Ravel’s Opinion ofModem French Music, «The Musical Leader», XXI, 11,16 marzo 1911, p. 7. Bizet R., LHeure espagnole, «L’Intransigeant», 17 maggio 1911. - Ma Mère l’Oye, «L’Intransigeant», 28 gennaio 1912. FÈVR.E Georges Le, “Le Lynx”: Maurice Ravel aux champs, «Bonsoir», 8 ottobre 1920. Wiener Eindrucke eines franzosischen Kiinstlers, «Neue freie Presse», 29 ottobre 1920. Ravel and Modem Music, «The Morning Post», 10 luglio 1922. Het Fransche muziekfeest, «De Telegraaf», 30 settembre 1922. M. Ravelin London, «The Morning Post», 18 aprile 1923. Famous French Composer in London, «The Star», 16 ottobre 1923.

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Ravel — Scritti e interviste RévéSZ André, Elgran musico Mauricio Ravel habla de su arte, «ABC de Madrid», 1 maggio 1924. Avant-Première: A l’Opéra de Monte-Carlo: LEnfant et les sortilèges, «Le Gaulois», 20 marzo 1925. Maurice Ravels ankomst, «Berlingske Tidende», 30 gennaio 1926. Skadinaviskt inflytandepà Jransk komposition, «Svenska Dagbladet», 9 febbraio 1926. Roland-Manuel, Maurice Ravel et lajeune musique fiangaise, «Les Nouvelles littéraires», 2 aprile 1927. Downes Olin, Maurice Ravel, Man and Musician, «New York Times», 7 agosto 1927. Ravel Says Poe Aided Him in Composition, «New York Times», 6 gennaio 1928. Downes Olin, Mr. Ravel Returns, «New York Times», 26 febbraio 1928. Calvocoressi Michel Dimitri, Maurice Ravel on Berlioz, «Daily Telegraph», 12 gennaio 1929. Probleme der modernen Musik, «Der Bund», 19 aprile 1929. André José, Maurice Ravely su “Bolero”, «La Nación», 15 marzo 1930. Entretien avec Ravel, «La Revue Musicale», marzo 1931, 12, pp. 193-94. Op Bezoek bij Maurice Ravel, «De Telegraaf», 31 marzo 1931. Calvocoressi M. D., M. Ravel Discusses His Own Work, «Daily Telegraph», 11 luglio 1931. Bruyr José, Un Entretien avec ... Maurice Ravel, «Le Guide du concert», XVIII, 3, 16 ottobre 1931, pp. 39-41. Lerci Pierre, Quelques confidences du grand compositeur Maurice Ravel, «Excelsior», 30 ottobre 1931. Ein Nachmittag bei Maurice Ravel, «Neue freie Presse», 3 febbraio 1932. Factory Gives Composer Inspiration, «Evening Standard», 24 febbraio 1932. Tien opinies van M. Ravel, «De Telegraaf», 6 aprile 1932. Frank Nino, Maurice Ravel entre deux trains, «Candide», 5 maggio 1932. Reuillard Gabriel, M. Maurice Ravel va écrire une “Jeanne dArc”, «Excelsior», 24 settembre 1933.

Altre interviste (alcune pubblicate, parzialmente, in questo volume; nessuna di esse aggiunge alcunché di sostanziale rispetto alle interviste già citate) Arnoux André, Avant-Premières: Opéra de Monte-Carlo: L’Enfiint et le sortilèges, «Le Figaro», 20 marzo 1925. Bernier René, Un Entretien avec Maurice Ravel, «Voix», 1 aprile 1931. Del Brezo Juan, Musicay musicos; Una charla con Mauricio Ravel, «La Voz», 6 maggio 1924. Devaise Georges, Raveliana, «Gringoire», 14 gennaio 1938. Jean-Aubry Georges, A Visit to Ravel, «Christian Science Monitor», 17 settembre 1927. Méry Jules, Opéra de Monte-Carlo: Avant-Première: L’Enfiint et les sortilèges, «Le Petit Monégasque», 21 marzo 1925. Montabré Maurice, Entretien avec Maurice Ravel, «L’Intransigeant», 28 gennaio 1923. Saint-Prix Pierre de, Ce qu’est Toeuvre nouvelle de M. Maurice Ravel: “L’Enfant et les sortilèges”, «Excelsior», 10 luglio 1925. Tenroc Charles, Les Avant-Premières: “Thérèse”et “L’Heure espagnole”a l’Opéra-Comique, «Comoedia», 11 maggio 1911.

Interviste non firmate o soltanto siglate Een Onderhoud met Maurice Ravel, «De Telegraaf», 9 marzo 1926. Ravel Says He Began Classic Revival as Reaction to Debussy, «New York Herald Tribune», 6 gennaio 1928.

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Bibliografia essenziale Retour d’Amérique: Le Beau voyage de Maurice Ravel, «L’Intransigeant», 29 aprile 1928. Ravel en de nieuwe school, «De Telegraaf», 29 maggio 1928.

Gespràch mit Maurice Ravel, «Neue freie Presse», 1 febbraio 1932.

Articoli e interviste di dubbin autenticità Goudeket Willy, La Confession de Ravel, «Presse du Sud-Ouest, 8-9 luglio 1933. [Quest’inter­ vista è fortemente sospetta e probabilmente non ebbe mai luogo.] Chambrillac René, Survie de Ravel, «Page musicale», 4 febbraio 1938. [Immortalità di Ravel; apparentemente un’intervista concessa a René Cambrillac, in realtà un esteso plagio dall’articolo di Willy Goudeket.] Ravel Maurice, What I Think ofModem Music (colloquio con David Ewen), «The Etude», settembre 1933, p. 571. [L’autenticità di questa intervista fu messa in discussione dal pianista e compositore francese Maurice Dumesnil, intimo amico di Ravel. In una lettera datata 16 novembre 1933, James Francis Cooke, presidente della Theodore Presser Co., casa editrice di «The Etude», gli scrisse in questi termini: «David Ewen ha scritto moltissimo in America ed è con profondo stupore che mi rendo conto di quanto le opinioni di Ravel siano state travisate, ammesso che Ewen lo abbia mai incontrato ... La mia indignazione e irritazione per ciò che riguarda tutta questa storia sono vivissime, e mi auguro che vi affrettiate a spiegare a Ravel che le cose sono andate in modo completamente opposto rispetto ai criteri usati da “The Etude” in precedenza. La nostra reputazione si fonda sul prestigio culturale e su di una accurata diligenza. D’ora in poi nutrirò riserve sulla pubblicazione di qualsiasi ulteriore scritto di Ewen, stante l’impres­ sione di una beffa di questo genere ai nostri danni». (Lettera autografa nella collezione privata di Jean Touzelet.) Fortemente sospetta appare anche un’altra intervista con David Ewen, Maurice Ravel on Jewish Music («B’nai Brida Magazine», gennaio 1936, 50(4), p. 111). Le precarie condizioni di salute di Ravel non avrebbero consentito un’intervista del genere, che va considerata probabilmente una costruzione fittizia.]

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Indice delle opere citate

6 Studi per la mano sinistra (C. Saint-Saèns), 73 1812 (P. I. Cajkovskij), 75 Adélaide, ou Le langage desfleurs (M. Ravel), 112, 148 Alborada delgracioso (M. Ravel), 169 Alpensymphonie, Eine (R. Strauss), 154 Apollon Musagète (I. Stravinsky), 154 Après un rève (G. Fauré), 62 Au rimettere (G. Fauré), 63 Antonine (G. Fauré), 62 Ballade de la reine morte d'aimer (M. Ravel), XLIX.4 Ballo, in maschera, Un (G. Verdi), 106 Barcarolle (F. Chopin), 20-1 Berceaux, Les (G. Fauré), 62 Blaue Mazur, Die (F. Léhar), 95 Bolèro (M. Ravel), XXXVI-XXXIX, L-LI, 7, 7Ò, 77, 139-40, 146, 149-50, 157, 161, 168-9 Bonne chanson, La (G. Fauré), 61, 63 Boris Godunov (M. Musorgskij), 49-50, 107 Brebis égarée, La (D. Milhaud), 106 Briséi's ou Les amanti de Corynthe (E. Chabrier), 154 Capriccio spagnolo (N. Rimskij-Korsakov), L Carmen (G. Bizet), XXXI Carnaval romain, Le (H. Berlioz), 32 Chanson d'Eve, La (G. Fauré), 64 Chansons madécasses (M. Ravel), XXXVI, XLVII, LI-LII, 6, 16, 143, 157, 168-9 Chantspopulaires (M. Ravel), 111

Chapeau chinois, Le (Franc-Nohain), 171 Children's Corner (C. Debussy), 30 Choéphores, Les (D. Milhaud), 12 Christophe Colomb (D. Milhaud), 153 Clair de lune (G. Fauré), 62 Cloche engloutie, La (opera di Ravel non portata a termine), XXXII, 88 Concerto in re per pf, per la mano sinistra (M. Ravel), XXXVI, XXXIX, XLVII, L, 73, 144, 149, 152, 156 Concerto in solperpf (M. Ravel), XXXVI-XXXVIII, L,7, 73 Contes d'Hoffinann, Les{]. Offenbach), 154 Convitato di pietra, Il (A. Dargomyzskij), 32 Coppétta ou Lafile aiixyeux d’émailtf. Delibes), 107 Coq et Arlequin, Le (J. Cocteau), XLVI Daphnis et Chloé(M. Ravel), XXXII, XXXIX-XL, L-LI, 6, 81, 85, 104, 112, 116, 148, 157 Dolly (G. Fauré), 43-4 Don Juan (R. Strauss), L Don Quichotte à Dulcinèe (M. Ravel) XXXIV, XXXIX

Education manquée, Une (E. Chabrier), 42 Enfant et les sortilèges, L' (M. Ravel), XXXVXXXVI, XLV, 6, 73, 109, 110-2, 145, 148, 150, 153 Entre cloches (M. Ravel), XLIX Eros vainqueur (P. Bréville), 24, 52 Esclave favorite de Sardanapale, L' (M. Ravel), 112 Eventail de Jeanne, L'{JA. Ravel), L Faust (C. Gounod), XXXIV, 36, 106 Fervaal (V. d’Indy), 38-40, 55

212

Indice delle opere citate Feu d’artifice (I. Stravinsky), 32 Forèt biette, La (L. Aubert), 52 Forza del destino, La (G. Verdi), 106 Fou de la dame, Le (M. Delannoy), 154 Francesca da Rimini (F. Leoni), 52 Frau ohne Schatten, Die (R. Strauss), 94 Gallo d'oro, LI (N. Rimskij-Korsakov), 97, 153 Gaspard de la nuit (M. Ravel), XXXII, XLVII, LI, 5, 124 Gòtterdammerung (R. Wagner), 25 Grandsommeil noir, Un (M. Ravel), XLVII Grande polonaise brillante précédé d’un Andante spianato in mi bem. magg. op. 22 (F. Chopin), 21 Gwendoline (E. Chabrier), 40, 42, 55, 154 Habanera (in Rhapsodie espagnole} (M. Ravel), XLIX, 4, 16, 153 Fiabanera per 2 p£, XXIX Heure espagnole, L’ (M. Ravel), XXXII, XLV, 5, 85, 87'9, 108-10, 112, 124, 148, 152 Histoires naturelies (M. Ravel), XXXII, 5, 88,116, 169 Horizon chimérique, L’(G. Fauré), 64 Huguenots, Les (G. Meyerbeer), 36, 153

Ibéria (in Images} (C. Debussy), 47 Ich grolle nicht (R. Schumann), 63 Ideale, Die (F. Liszt), 24-5 Idomeneo, redi Creta (W. A Mozart), 36-7, 64, 107 Images (C. Debussy), 46, 116-7 Impératrice aux rochers, L’ (Un miracle de NotreDame} (A. Honegger), 117 Impressions d’Italie (G. Charpentier), 30 Improvvisi (F. Chopin), 20-1 Islamey (M. Balakirev), 29

Jardins sous la pluie (C. Debussy), 16 Jeanne d’Arc (progetto di Ravel rimasto incom­ piuto), XXXVII, 8, 136, 146, 148, 153, 168, 170-1 Jeuxd’eau (M. Ravel), XXX-XXXI, XLIX, 4, 16, 123 Josephslegende (R. Strauss), 60

Ldndler (F. Schubert), 20-1 Leichte Kavallerie (F. von Suppé), 75

Maison de Fou (V. Dahl), 113 Malheurs d’Orphée, Les(D. Milhaud), 12, 117, 154 Ma mère l’oye (M. Ravel), XXXII, L-LI, 5, 89,

101, 104, 112, 145, 148, 153 Manon (J. Massenet), 53 Marche funebre (F. Chopin), 70 Martyre de Saint-Sébastien, Le (C. Debussy), 116 Matrimonio, Il (M. Musorgskij), 87 Mavra (I. Stravinsky), 154 Mélancolie (E. Chabrier), 71 Mélodies (G. Fauré), 61-2, 64-5 Menuet antique (M. Ravel), XLIX, 4 Mer, La (C. Debussy), 116 Miracle, Le (G. Hiie), 29 Mirages (G. Fauré), 64 Mireille (C. Gounod), 62 Miroirs (M. Ravel), XXXII, XLV1II, 4-5, 124 Missa solemnis in re magg. (L. van Beethoven), 56 Mlada (N. Rimskij-Korsakov), L Morgiane (progetto di Ravel rimasto incompiuto), XXXVIII, XLVI, 170 Nell (G. Fauré), 62 Nell’Asia centrale (A. Borodin), 29 Nicolette (in Trois Chansons} (M. Ravel), IH Noces, Les (I. Stravinsky), 117, 154 Nona Sinfonia (L. van Beethoven), 86, 154 Notturni (F. Chopin), 20-1 Nuages (C. Debussy), 59 Oedipus rex (I. Stravinsky), 123, 146 Oiseau de feu, L’(l. Stravinsky), 60 Oiseaux tristes (in Miroirs} (M. Ravel), XXX, 4 Parfum impérissable, Le (G. Fauré), 63-4 Parfums de la nuit, Les (C. Debussy), 47 Parsifal (R. Wagner), 39, 56 Pavane pour une infante défunte (M. Ravel), 24, 87,153 Pelléas etMélisande (C. Debussy), XXIX, 23, 47, 86, 116, 122 Pénélope (G. Fauré), 63 Petruska (I. Stravinsky), 81 Philémon et Baucis (C. Gounod), 61, 63, 106 Pierrot lunaire (A. Schoenberg), 6, 99, 106, 143 Poème de l’amour et de la mer (E. Chausson), 26 Poirier de misère, Le (M. Delannoy), 117 Polacche (F. Chopin), 20-1 Polonaise-Fantaisie in la bem. magg. op. 61 (F. Chopin), 21 Pour une fete deprintemps (A. Roussel), 99 Prélude a l’après-midi d’un faune (C. Debussy), 32, 86, 96, 156-7

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Ravel — Scritti e interviste Preludi (F. Chopin), 21 Primo Concerto in mi bem. magg. (F. Liszt), 29 Principe Igor', Il (A. Borodin), 81 Prison (G. Fauré), 63 Prophète, Le (G. Meyerbeer), 68 Protée (D. Milhaud), 106 Psaume XLVII (F. Schmitt), 29 Pskovitana, La (N. Rimskij-Korsakov), 107 Quartetto per archi in sol min. (C. Debussy), 145 Quatuor à cordes in fa magg. (M. Ravel), XXXI, 4, 111-2, 145, 148, 157 Quintetto per clarinetto e archi K. 581 (W. A. Mozart), 165

Rayon des Soieries (M. Rosenthal), 154 Requiem (G. Fauré), 64 Rève, Le (L. Bruneau), 40 Rhapsodie espagnole (M. Ravel), XXXII, L, 6,104, 121, 124, 153 Rigaudon (in Le tombeau de Couperin) (M. Ravel), 9 Robert le diable (G. Meyerbeer), 55 RoiArthus, Le (E. Chausson), 55 Roi malgré lui, Le (E. Chabrier), 42 Romèo et Juliette (H. Berlioz), 32 Ronde deprintemps (in Images){C. Debussy), 47 Rossignol, Le (L Stravinsky), 58-60

Sacre du printemps, Le (I. Stravinsky), XXXVI, 58-9, 81, 154 Saint-Julien l’hospitalier (C. Erlanger), 34 Salome (R, Strauss), 142, 154 Sapho (C. Gounod), 61 Saugefleurie (V. d’Indy), 29 Schiaccianoci, Lo (P. I. Cajkovskij), 107 Seconda Sinfonia (A. Borodin), XXX Seconda Sinfonia (G. Witkowski), 25 Seconda Sinfonia in re magg. (J. Brahms), 27 Secret, Le (G. Fauré), 62, 64 Septuor {Introduction et Allégro per arpa, con accomp. di fl., cl. e quart.) (M. Ravel), 148 Seherazada (N. Rimskij-Korsakov), L, 81 Sérénadegrotesque (M. Ravel), 4 Shéhérazade (M. Ravel), XXXI, XXXV, XLVI II, L, 4, 9, 112, 155, 157

Si marne! (M. Ravel), XLVII Siegfried (R. Wagner), 55 Sinfonia di salmi (I. Stravinsky), 145-6, 154, 164 Soir (G. Fauré), 63 Sonata per vi. epf. (M. Ravel), XXXVI, 6-7,9,66, 120,148,157 Sonata per vi. e vlcJJA. Ravel), XXXVI, 6, 148 Sonatina (M. Ravel), XXX, XXXII, 5, 9, 111 Sorcière, La (C. Erlanger), 34 Source lointaine, La (A. de Polignac), 36-7 Sulamite, La (E. Chabrier), 42 Surgi de la croupe et du bond (in Trois Poèmes de Stéphane Mallarmé) (M. Ravel), XLVIII, 6 Sylphides, Les (da F. Chopin), 81 Sylvia ou La nymphe de Diane (L. Delibes), 107 Symphonie (C. Franck), 28 Symphonic fantastique (H. Berlioz), 134

Tableaux dune exposition (M. Musorgskij/M. Ra­ vel), L Tableaux symphoniques (E. Fanelli), 31-3 Tetralogia (R. Wagner), 39, 56 Thésée (J.-B. Lully), 43/ Till Eulenspiegel (R. Strauss), L Tombeau de Couperin, Le (M. Ravel), 6, 9 Tragèdie de Salomé, La (F. Schmitt), 43 Trio in la magg. (M. Ravel), XXXII, 148, 169 Tristan und Isolde (R. Wagner), XLI, 18, 39 Trois Poèmes de Stéphane Mallarmé (M. Ravel), XXXII-XXXIII, 6, 108, 121, 143, 153 Trois valses romantiques (E. Chabrier), 153 Tzigane (M. Ravel), 6

Vallèe des cloches, La (in Miroirs) (M. Ravel), 9 Valse des Sylphes (in La damnation de Faust) (H. Berlioz), 133-4 Valse, La (M. Ravel), XLVII, L, 6, 73, 98, 104, 108, 146 Valses nobles et sentimentales (M. Ravel), XXXII, 5, 104, 146, 169 Variations symphoniques (C. Franck), 163 Venusberg (R. Wagner), 28 Vida breve, La (M. de Falla), 52-3 Vie parisienne, La (J. Offenbach), 56, 146 Walzertraum, Ein (O. Straus), 95

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Indice dei nomi

Albéniz Isaac, 53 Alvar Louise, 111, 113 Andersen Hans-Christian, 112, 114 Andreev Nicolas, 50 Ansermet Ernest, XL, XLVIII Antheil George, 68 Anthiòme Eugène, 3 Appia Adolphe, 56 Arlen Michael (Dikran Kouyoumdjian), 67 Aubert Louis-Frang:ois-Marie, 52 Auric Georges, XXXIX,12-3, 106, 114 Aveline Albert, 44

Berkeley Sir Lennox, XLI Berlioz Louis-Hector, XXXIV, XLV, XLVII, L, 32, 106, 133-4, 154 Berners Lord Gerald Tyrwhitt, 104 Bertrand Aloysius, 5 Beyle Léon, 35 Bilhon, M.mes (ballerine), 110 Billa-Azéma, M.me (cantante), 53 Bizet Georges, XLVII, 38, 62, 106 Bliss Sir Arthur Drummond, 104 Bloch Ernst, 123 Blum Léon, XXX, XLIV Boigne Louise d’Osmond, contessa di, XXXV Borodin Alexandr Porfir’evic, XXIX-XXX, XLVII, Bach Johann Sebastian, XXXI, XXXV, 12, 109, 29, 32 165 Boulogne (cantante), 52 Bakst Léon, 50 Bourdelle Emile-Antoine, 81 Balakirev Milij Alekseevic, XXIX, 29, 32 Bourgeois (cantante), 42 Balanchine George, 110 Bousquet Fernand, 68, 125, 153 Balzac Honore de, XXXV Brahms Johannes, XLVII, 27-8, 165 Bartók Béla, XL, XLVII, 9, 18, 164 Bréval Lucienne (nome d’arte di Berthe-AgnèsBathori-Engel Jane, XXXIII, XXXV, XXXIX Lisette Schilling), 25, 40, 56 Baudelaire Charles, XLV, XLVII-XLVIII, 118 Bréville Pierre-Eugène Onfroy de, XXX, 26, 52 Bax Sir Arnold Edward Trevor, 104 Brohly (cantante), 54 Beecham Sir Thomas, XXXIII Bruneau Louis-Charles-Bonaventure-Alfred, 40 Beers Jacques Cornelis, 163, 165 Buffon Georges-Louis Ledere, conte di, 27 Beethoven Ludwig van, XXXI, XXXIV, XLVII, LI, 12, 28, 55-6, 75, 85-6, 94, 107, 115, 134, Butting Max, 135 141, 145, 154, 159, 168 Cajkovskij Petr Il’iè, 75, 107 Bellaigue Camille, 115 Calvocoressi Michel Dimitri, XXX, XLVI, 49 Bellini Vincenzo, 107 Benedictus Edouard, 31 Caplet André, XXX, 30 Carol II, re di Romania, XXXVII Benois Alexandre, 60 Carraud Michel-Gaston, 47-8 Berg Alban, 164 Carré Albert, 52 Bériot Charles-Auguste de, 71, 112-3

215

Ravel — Scritti e interviste Carré Marguerite, 54 Casadesus Robert-Marcel, XXXV, XXXIX Casals Pablo, XXXI, XL Casanova Giovanni Giacomo, XXXV Casella Alfredo, XLIII,15, 29 Cézanne Paul, XXX, 81 Chabrier Alexis-Emmanuel, XXIX, XLVII, 4, 14-5, 24, 38, 40, 42-3, 62, 68, 71, 96, 106, 153-4 Chadeigne Marcel, XXX Chausson Amédée-Ernest, 26, 39 Chenal Marthe, 35 Chevillard Camille-Paul-Alexandre, 29 Chocolat (nome d’arte di Raphael Padilla), 44 Chopin Fiyderyk, XXX, XLVII, 20, 70, 96, 133-4 Cocteau Jean, XLVI Colette Sidonie-Gabrielle, XXX, XL, LI, 6, 92, 108-9, 114, 152 Conrad Joseph, XXXV, 67, 131 Corbière Edouard Joachim, detto Tristan, XXX Corot Jean-Baptiste-Camille, 147 Cortot Alfred, XXXI-XXXII, XL Coulomb Mantelle, 42 Couperin Francois, 6, 106, 147 Creus M. de (cantante), 53 Dahl Viking, 113 Damaev (cantante), 50 Dargomy2skij Aleksandr Sergeevic, 32 Debussy Achille-Claude, XXX-XXXI, XXXIV, XL, XLV, XLVII-XLVIII, 4, 9, 14-5, 30, 32, 38, 46-9, 59, 62, 68, 71, 81, 86, 96, 99, 102, 104, 107,113, 116-7,122,124,136,145,153,156-7 Delacrolx Eugène, 81, 118, 134 Delage Maurice, XXX, XXXIII, XXXV, XXXVII, XXXIX, XLIV, 144 Delage Nelly, XXXXIII, XXXV-XXXVII, XXXIX, XLIV Delannoy Marcel, 12-3, 116-7, 136, 154, 164, 169 Delibes Clément-Philibert-Léo, 107 Delmas Francisque, 40, 56 Delouart Marie, XXVII, XXXIV Delteil Joseph, XXXVII, 7-8, 136, 146,153, 168, 170-1 Desboutin Marcelin, XXXV Dethomas Maxime, 43 Deve ria Achille, 81 Diaghilev Sergej, XXXIII, XLV, 5, 49-50, 79, 153 Divoire Fernand, 22

216

Dostoevskij Fedor Michailovid, 43 Doucet Jacques, 37 Drésa Jacques, 89 Dubois (ballerino), 110 Dubois Henri, 3 Dubois-Lauger M.me (ballerina), 110 Duncan Isadora, XXXI Dukas Paul-Abraham, 68 Dumas Alexandre, XXXV Duparc Henri, 62 Durand (editore), XXXII, XLIV Durey Louis, XXXIV-XXXV Edwards Alfred, XXXII Edwards Misia, XXXII El Greco, propr. Domenico Theotokópulos, 106 Elgar Sir Edward William, 104 Erlanger Camille, 34-5 Ernst Alfred, 39 Espagnat Georges d’, 152 Espinasse M.lle (cantante), 35

Fabert Henri, 110 Faguet Emile, 47 Fall Leo, 95 Falla y Matheu Manuel de, XXX, XLVII, 53, 106, 164 Fanelli Ernest, 31-3 Farge (scenografo e costumista), 42 Fargue Léon-Paul, XXX, XLII Fauré Gabriel-Urbain, XXX-XXXII, XLVII, 4, 15, 43, 61-4, 106, 112-3, 116 Favory André, 152 Février Jacques, XXXV, XXXIX Fock Dirk,145, 149 Fokine Michail Michailovic, 5, 81 Foliguet M.me (ballerina), 110 Foottit (o Footit) George (nome d’arte di Tudor Hall), 44 Franc-Nohain, pseud, di Maurice-Etienne Le­ grand, XXX, XXXV, 5, 85, 87, 108 Francell (cantante), 52, 54 Franck Cesar, XXIX, XXXI, XXXIV, XLVII, 25, 28, 46, 163-4 Franz Paul (nome d’arte di Francois Gautier),56 Furtwangler Wilhelm Gustav Heinrich Ernst Martin, XXXVII Garban Lucien, XXX Gaudin Marie, XXXVIII

Indice dei nomi Gauguin Paul, 81 Gauley Marie-Thérèse, 110 Gautier Judith-Louise, 31 Gédalge André, 4, 112 Gérar Marcelle, XXXV, XXXVII, XLV Gershwin George, LI, 68 Ghasne (cantante), 37, 43 Ghys Henry, 3 Gil-Marchex Henri, XXXV Glazunov Alexandr Kostantinovic, XXIX Glinka Mikhail Ivanovic, 133 Gluck Christoph Willibald, 37, 133 Godebska Ida, XXVIII, XXXV Godebska Mimie, XLIV, 5 Godebska Misia, XXX Godebski Cipa, XXXIII, XXXV Godebski Jean, 5 Gogol’ Nikolaj Vasil’evic, 87 Goloubeff M. de, 37 Golschmann Vladimir, XXXIV-XXXV Gounod Charles-Francois, XXXIV, XLVII, 38, 61-2, 68, 96, 106, 168 Goya y Lucientes Francisco, 106 Granados y Campina Enrique, 53 Gresse André, 56 Grey Madeleine, XXXV, XXXVII, XXXIX Grieg Edvard Hagerup, 113 Grovlez Gabriel-Marie, 37, 44 Gruppo dei Cinque, 107 Gruppo dei Sei, XXXVI, XLVIII, 9, 12, 136 . Guiraud Ernest, 154 Gunsbourg Raoul, 109-10 Handel Georg Friedrich, 154 Hansen Wilhelm, 111 HarsAnyi Tibor, 164 Haour Pierre, XXX Hauptmann Gerhart, 88 Heifetz Jascha, XL Hérold Ferdinand-Louis-Joseph, 13-4 Héronville Marcel, 44 Hindemith Paul, XXXIV, 15, 141, 164, 169 Holst Gustav Theodore, 104 Honegger Arthur, XXXV, XXXIX, 12-3,77,99, 106, 114, 116-7, 154 Hue Georges-Adolphe, 29 Hugard Jeanne, 89 Hugo Victor, XXXV Hugon M.lle (ballerina), 89 Huysmans Joris-Karl, 71

Ibert Jacques-Francois-Antoine, XXXIV-XXXV, 164 Indy Vincent d’, XXX-XXXI, XLVII, 29, 38, 40, 46,123 Inghelbrecht Désiré-Emile, XXX-XXXIX, XLIV Ingres Jean-Auguste-Dominique, 81 Jean-Aubry Georges, 111 JimÉnez de Cisneros Francisco, 34 Jourdan Jacques, XLIII Jourdan-Morhange Hélène, XXXV-XXXIX, XLIII Journet Marcel, 56 Juon M. (pittore, scenografo e costumista), 50 Keats John, XLIX Klingsor Tristan, XXX, LII, 155 Kodaly Zoltàn, XLVII, 9, 18, 164 Koussevitzky Serge, XXXIV, XXXVI, 102, 108

Ladmirault Paul-Emile, XXX Lafont Charles-Philippe, 110 La Fontaine Jean de, XXXV, 128 Lalo Edouard, 38, 62, 106 Lalo Pierre, 47-8, 55, 115-8 Laloy Louis, 19, 43, 115 Lara Isidore de, pseud, di Isidore Cohen, 48 LehAr Franz, 95 Leonardo da Vinci, 70 Leoni Franco, 52 Lestelly (cantante), 56 Lévy Claude, XXXVII Leyritz Léon, XXXV, XXXVIII, XLII, 152 Liszt Franz, 9, 14, 18» 24-5, 29, 32, 68, 96, 106 Lloyd Miss (scenografa), 44 Long Marguerite, XXXVII-XXXVIII, 73, 145, 167,169 Lully Jean-Baptiste, 43 Maeterlinck Maurice-Polydore-Marie-Bernard, 86 Magnard Lucien-Denis-Gabriel-Albéric, 48 Mahler Gustav, XXXVI, 95, 142 Malibran Maria Felicia, 112 Mallarmé Stéphane, XXX, XL, XLVII-XLVIII, LI, 6, 9, 15, 108, 121-2, 131 Manet Edouard, 71 Maréchal Maurice, XXXVII Massenet Jules-Emile-Frédéric, XXXI, XLVII, 38, 53, 62, 64, 72 Mauclair Camille, pseud, di Camille Faust, 48

217

Ravel — Scritti e interviste Pizzetti Ildebrando, 114 Pirandello Luigi, 131 Poe Edgar Allan, XXXVI, XLV, XLVII-XLIX,

Mayer Rudolph, 103 Mendelssohn-Bartholdy Felix, XXIX, XXXIV, XLVII, 165

MendEs Catulle, 19, 55 Mengelberg Willem Joseph, 99, 146, 163, 167 Messager André-Charles-Prosper, XXX, 40, 56,

15,71, 107, 118, 121, 125, 131

Polignac Armande de, 37 Poulenc Francis, XXXV, XXXIX, 12-3,99, 106, 169

153

Prokof’ev Sergej Sergeevic, XXXVI, XXXIX-XL,

Meyerbeer Giacomo, XXXI, XXXIV, 59, 68,

106

106, 168

Proust Marcel, XXXV PruniEres Henry, XXXIV Puccini Giacomo» XXXI, 52, 94 Purcell Henry, 104

Mihalovici Marcel, XXXIV Milhaud Darius, XXXIV, XXXIX, XLVII,11-3, 15» 99, 106, 114-7, 123» 154, 164, 169

Miralès ( ballerino), 44 Moisson (cantante), 43 Molière, pseud, di Jean-Baptiste Poquelin, XXXV Molina Louis, 21 Monet Claude, 68 Moniuszko Stanislaw, 21 Monteux Pierre, XL, 60 Moreau Luc-Albert, pseud, di Albert-Lucien

Rabaud Henri-Benjamin, 43 Racine Jean, XXXV Rameau Jean-Philippe, XXX, 43, 106, 120, 128, 147

Moreau, XXXV, XL1V, 152

Mosolov Alexandr Vasil’evié, 77 Mouveau Georges, XXX, 44 Mozart Wolfgang Amadeus, XXIX, XXXI, XXXIV, XLVII, LI, 8, 64, 85,94, 107-8,113, 145, 149» 156. 159, 165, 168

Muratore Lucien, 40 Musorgskij Modest Petroviè, XLVII, 32-3, 4950, 59-60, 87, 107, 134

Napjerkowska M.lle (ballerina), 37 Natanson Alexandre, XXX, 152 Natanson Thadée, XXX Newman Ernest, pseud, di William Roberts, 134 Nicolaeva M.me (cantante), 50 Nietzsche Friedrich Wilhelm, 19, 55, 154 Nijinsky Vaslaw, XL,81-2 NouguEs Jean-Charles, 34

Raunay Rachel, 42 Ravel Aimé, XXVII Ravel Edouard, XXVII-XXVIII, XXXVII, XXXIX Ravel Pierre Joseph, XXVII-XXVIII Ravex (Ravet) Francois, XXVI1 Ray Man, 151-2 Reger Max, 106 Regnier Henri de, XXX Reid Eva, 44 Renard Jules, XXX, 5 René Charles, 3, 71 Reveleau M.me (governante di casa Ravel), XXXV» XXXIX

Rimbaud Arthur, XXX, 72 Rimskij-Korsakov Nikolaj Andreeviè, XXIX, XXXIV» XLVII, L, 32-3» 49, 107, 134

Roger-Ducasse Jcan-Jules-Aimablc, 48 Roland-Manuel, pseud, di Roland-Alexis-Ma­ nuel Lévi, XXXIV-XXXV, XL, 3,12-3,61,989, 154

Ronsard Pierre, LI Rosenthal Manuel, XXXIV-XXXV, XLIII, LI,

Obukhov Nikolaj, 164 Offenbach Jacques, 87, 153-4 Orsini (cantante), 110 Ouvré Achille, 152 Painlevé Paul, XXXV, XLIV Parny Evariste-Désiré de, LI, 7 Péladan Joséphin, 19 Périer Jean, 34-5 Pessard Emile-Louis-Fortuné, 4 Petit Léoncc (abate), XXX PiernE Gabriel, 31 Piot René, 36

135-6, 154, 164

Rossini Gioachino, 13-4, 164 Rouché Jacques, 36-7, 44-5, 89 Roussel Alberc-Charles-Paul-Marie, 48 Rubinstein Arthur, XXXI Rubinstein Ida Lvovna, XXXIV, XXXVIIXXXVIII, 6-7, 139, 170

Ruhlmann Francois, 36 Sabata Victor de, 110 Saguet Henri, XLVIII

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Indice dei nomi Saint-Marceaux René de, XXX, XXXII Saint-Saéns Camille, XXXI, XXXIV, XLVII, 25, 62, 68. 73, 104, 145, 149, 156, 164

Saljapin Fedor Ivanoviè, XXXVIII, 49 Samazeuilh Gustavc-Marie-Victor-Ferdinand,

Terrasse Claude-Antoine, XXX, 87 Thibaud Jacques, XXXI, XXXV Thomas Charles-lx>uis-Ambroisc, 97 Toscanini Arturo, XLV, 146 Turina Joaquin, XXXIV, 53

XXXVII

San Francesco d'Assisi, XL1V Sandrini Pieri, 44 Sarasate y Navascuéz Pablo Martin Mclitón de, 105

Sardo u Vieto rien, 34 Sargent Sir Malcom, XXXVII Satie Erik-Alfred-Ixslie, XXIX, XXXI, XL-XLI, XLVII, 9, 14-5, 33, 68, 86,99, 122. 135,152

Sauer Emil Georg Konrad von, 29 Scarlatti Domenico, 142 Schmitt Florent, XXX, XLII, 19, 29» 43, 48 Schoenberg Arnold, XXXV-XXXVI, XLVII, 6, 9, 11, 16, 59, 77, 95, 97, 99, 104, 106, 113, 123, 135» 142-3, 153

Schubert Franz, XLVII, 5, 20-1, 27-8, 61, 141 Scudo Pierre (anche Pietro, Paulo o Paul), 19 Schumann Robert Alexander, 27, 63-4, 68, 141 Seménov (cantante), 50 Séverac Joseph-Marie-Déodat de, XXX Sibelius Jean, 123 Siohan Robert Lucien, XXXIV Smirnov Dmitrij Alekseevid, 50 Sordes Paul, XXX Soriano Francesco, XL1 Straram Walther, XXXIV Straus Oscar Nathan, 95 Strauss Johann, 95 Strauss Richard, XXXVI, XLVII, XLIX-L, 12, 25,60,73,86,94-5, 103, 106,142,154,157, 159, 163

Stravinsky Igor, XXXIX-XL, XLV, XLVII, XLIX» 15, 32, 48, 59» 97» 99» 103, 105-7» 113» 117» 123, 135, 145, 154, 157, 164

Strobinder (cantante), 50 Stuckenschmidt Hans Heinz, XLIV Supervielle Jules, XXXV Suppé Franz von, 75 Svendsen Johann Severin, 113

Valéry Paul, XXX Vallery-Radot, Pasteur (medico curante di Ravel a Montfort-l’Amauiy), 170

Vallin Ninon, 35 Van Gogh Vincent, XXX Vaucanson Jacques de, 152 Vaughan Williams Ralph, XL, XLVII, 97, 104, 123, 129

Vauthrin Lucy, 37, 43 Velazquez, deSilva y, Diego Rodriguez, 106 Verdi Giuseppe, 106-7 Verlaine Paul, XXX, 61-2, 121 ViEULLEjean, 54

Vigneau (cantante), 54 Villiers de l’Isle-Adam Philippe-Auguste-Ma­ thias conte di, 61

Vincent Clovis, XXXIX Vines Ricardo, XXIX-XXX, XXXIX, XIJ, XLVIII Vix Gcncvièvc, 52

Voltaire, pseud, di Francois-Marie Arouet, XXXV, 120, 152

Vuillemin Lucy, 43 Vuillermoz Emile, XXX, 58, 115, 140 Wagner Richaid, XXXI, XXXIV» XXXVI, XLVII, 9, 14, 18-9, 25, 28, 35, 38-40, 55-6» 68, 86, 94» 106-7, 117, 137, 154, 168

Warnery (cantante), 110 Weber Carl Maria von, 13-4, 21 Webster Beveridge, XXXVII, XL Whistler James McNeil, XXX Widor Charles-Marie, L Wilde Oscar, 154 Wilder Jéróme-Albert-Victor van, 39 Witkowski Georges-Martin, 25 Wittgenstein Paul» XXXV11,73,144,148,156, 162

Wolff Albert-Louis, 139-41, 146, 169 Tailleferre Marcelle-Germaine, XXXV, 12,106 Tansman Alexandre, XXXIV-XXXV1 Teremin Lev, 10

Zay Jean, XXXIX Zogheb Jacques de, XLIII

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Finito di stampare presso Stampane - Torino nel mese di settembre 1995

Ristampa 012 3 45678

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A un giornalista di «Excelsior» Ravel dichiara nel 1931: «... io lavoro troppo e dormo solo due ore per notte. Ora, la resistenza umana non è senza limiti. Ma tutto il piacere dcircsistenza consiste nelTincalzare la perfezione sempre un poco più da vicino, nel rendere un po' meglio il fremito segre­ to della vita». Non è difficile riconoscere in frasi del genere quel tono di dandysmo che aveva carat­ terizzato la gioventù di Ravel, ma tanti anni sono passati dall'epoca delle prime illuminazioni e in quello sforzo per «rendere un po’ meglio il fremito segreto della vita» l’estetica ha dovuto misurarsi con i tormenti del quotidiano, con le solitudini, con le delusioni, con le ondate non certo generose delle mode culturali, alle quali si può opporre sol­ tanto la ricerca delle proprie ragioni più intime, ed ecco allora profilarsi dietro l’immagine dell’uomo elegante e del conversatore raffinato la sagoma del lavoratore insonne, instancabile ncll’inseguire il miraggio di quella perfezione che sola è capace di fondare e garantire l’esistenza. Sono qui raccolti gli scritti (in gran parte frutto della sua attività di critico musicale) e le interviste rilasciate da Ravel a giornali di tutto il mondo in occasione delle sue tournée: documenti rivelatori della personalità dell’uomo e dell'artista, fin qui sparpagliati in un numero impressionante di pub­ blicazioni in lingua, e comunque di difficile acces­ so, in alcuni casi introvabili. Arbie Orcnstcin insegna alla Aaron Copland School of Music presso il Queens College della City University of New York. Considerato uno dei più autorevoli studiosi di Ravel, ha scritto, tra l’altro, Ravel: Man and Musician, pubblicato a New York dalla Columbia University Press c dalla Dover.

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