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Italian Pages 256 Year 1984
IL MURO TRASPARENTE SCRITTI
DI POESIA, a cura
DI PROSA
di Manuela
E DI TEATRO
Scotti
con due ricordi di Aldo
Garosci
e Nina
Ferrero Raditza
e due carteggi con JEAN-JACQUES
BERNARD
€ ALBERTO
CAROCCI
X QUADERNI LIBRI
DELLA
FONDAZIONE
SCHEIWILLER
:
MILANO
PRIMO
CONTI
MCMLXXXIV
fa in
CENTRO DI DOCUMENTAZIONE E RICERCHE SULLE AVANGUARDIE STORICHE PRIMO CONTI
NUOVA SERIE QUADERNO 7-8
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LEO
IL MURO SCRITTI
DI
FERRERO
TRASPARENTE
POESIA, a cura con
Aldo
Garosci
DI
PROSA
di Manuela
E DI TEATRO
Scotti
due ricordi di e Nina
Ferrero
Raditza
e due carteggi con JEAN-JACQUES
QUADERNI LIBRI
BERNARD
DELLA
€
ALBERTO
FONDAZIONE
SCHEIWILLER
*
MILANO
PRIMO
CAROCCI
CONTI
MCMLXXXIV
©
1984 by Libri Scheiwiller,
Per gentile concessione degli Eredi: PRINTED
IN
Milano
Ferrero, Carocci, Bernard ITALY
RICORDI
D’UN
AMICO
PERDUTI
E RITROVATI
Mi è stato detto — da persone cui avevo riferito l’impressione di « ingenuità » che, nel nostro sodalizio, stretto attorno all’autunno 1932, sembrava propria di Leo Ferrero — che dopotutto l’aggettivo non si attagliava a un giovane già fuori dell’adolescenza, maturo per opere di solido pregio; forse, già in quell’autunno 1932, il più maturo di tutti noi. E questo è certamente vero se a « ingenuo » si dà il senso peggiorativo di svagato e stralunato, dimenticando quel significato di nobile e, direi, sorpreso dalla vita, che è non solo nell’etimologia della parola ma rimane largamente nel suo vivo significato attuale. Chi avesse visto allora scendere per il Boulevard Saint Michel quella singolare compagnia che usava riunirsi ogni giorno per cenare al « Rouget » (« Nos soles », vantava fieramente l’insegna) avrebbe certo fermato l’attenzione su quel giovane occhialuto, vestito d’una pelliccia di pelo di capra, come quella che già al tempo della guerra ’14-’18 portavano i taxisti parigini (i conduttori dei famosi « taxis de la Marne » che avevano contribuito a fermare l’avanzata di Moltke su Parigi,
portando al combattimento
la guarnigione parigina comandata
dal generale Gallieni). Ma
avrebbe poi anche dovuto constatare che, dei quattro, solo lui, assieme con Carlo Levi, aveva già stampato (non parlo dei suoi scritti postumi) un libro pieno di nostalgie, Paris dernier modèle de l'Occident, che rivelava, appunto, uno sguardo, sul mondo che lo circondava, stu-
pito e ammirato e sorpreso, e insieme la profonda reazione di un’anima offesa dinanzi all’ingiuria inattesa e gratuita; per non parlare della Palingenesi di Roma da Livio a Machiavelli, scritto in collaborazione con il padre, opera anch’essa matura. Mentre noi — dico Ferrata ed io — avremmo fatto attendere ancora più anni i primi faticosi parti, quali che fossero, e molto più un’opera che si potesse dir matura. Che cosa diceva di essenziale Pariîs...? Diceva anzitutto la gioia di una città che si apriva con generosità all’accoglimento di ogni giovane e nuovo talento, circondandolo dell’appropriata lode, che lo esaltava a dare il meglio di sé. Così Leo aveva incontrato Parigi, e gli era stata grata meraviglia quel respiro universale, specie se confrontato con il più angusto e gretto ambiente dove era vissuto fino a ieri — non solo per l’angustia del regime, che faceva il più, ma per gl’innumerevoli e mordaci epigrammi con i quali i clan letterari sogliono accogliere, con la contraddizione, ogni nuovo venuto. Onde lo stupore e quasi il senso di beatitudine per l’ampiezza del nuovo orizzonte, che fa gridare, quasi, a chi vi giunge: « Paris, à nous deux! ». Ma ciò che era parso essenziale al giovane fiorentino non era riuscito di gusto all’editore Grasset, il quale villanamente aveva respinto il saggio, contrapponendogli una citazione baudelairiana, «...et les berges de la Seine », con la quale, evidentemente, si ammazza qualunque autore; onde il libro era uscito alle edizioni Rieder, ma non senza amarezza di Leo. Ma forse il maggior motivo di stupore era stato ritrovarci, in quei nostri incontri, così affini e così diversi
nella nostra
affinità.
Carlo
Levi ed io, cresciuti
nell’ambiente
torinese,
eravamo di matrice gobettiana o « venturiana », pertanto, in teoria, schierati in campo idealmente avverso a quello positivistico di Ferrero; quantunque io debba dire che della Storia di Roma di Guglielmo Ferrero ero stato lettore appassionato fino dall’adolescenza imparando da quelle pagine il destino contradditorio di Cesare e dei primi triumviri e la Repubblica di Augusto e Augusto e il grande impero, e V’imporsi quasi fatale a quei personaggi delle nuove dimensioni che prima di loro e con loro aveva preso il mondo. Che proprio mi fosse chiaro già allora chi fosse un boss della Tammany Hall, cui venivano paragonati da Guglielmo Ferrero gl’incettatori romani di voti popolari o avessi un’idea precisa del grande saccheggio
romano, del prospero retaggio ellenistico, non oserei di poterlo affermare; ma bisogna pur dire che questi concetti della scienza politica, come del resto quelli più correnti nella stessa dottrina di plutocrazia e di demagogia, prendono in ciascuna opera la loro dimensione propria, e non si può sommariamente liquidarli. Era, insomma, la reciproca scoperta della condizione dell’esiliato, che ci faceva quasi cambiar di parte: e Leo per un qualche tempo si sentì quasi crociano, tanto che fummo noi, almeno in parte, a temperare i suoi ardori, ché lui stava benissimo come stava, con le sue illusioni fiorentine (quelle sì, illusioni di un adolescente) che la vita temperava (ci raccontò la sorpresa della visita non platonica al suo atelier parigino di una giovane signora che aveva idoleggiato invano in patria); mentre noi stessi, Carlo Levi e io, discendevamo, pur nella comune filosofia, da opposti ceppi interventistici e neutralistici; le carte s'erano davvero rimescolate una volta scelto l’esilio. Perché però non sussistano equivoci, devo anche aggiungere che non ho mai ben compreso, se non
nel senso della persistenza dei residui, come
mai un maestro, il Croce, di cui
ho potuto personalmente sperimentar la profonda bontà d’animo (e a cui non saprei far colpa d’aver difeso la monarchia quasi ormai perduta — ogni animo liberale si rende conto certamente della necessità degli antagonismi e della fedeltà alle vocazioni) abbia potuto, nei riguardi di Guglielmo Ferrero mancar così evidentemente di equità, pur dopo aver preso parte, come senza dubbio prese, e come prova una non superficiale lettera che è stata pubblicata, in occasione della scomparsa di Leo, al lutto comune dell’antifascismo, commettere fino alla fine certe strane ingiustizie che erano, appunto, la negazione della equità, facendosi guidare dal suo spirito mordace e dal gusto del bon mot. Già non era stato molto elegante nella recensione della Palingenesi di Roma, distinguere i due collaboratori, attribuendo a Leo i maggiori meriti del volumetto; ma proprio non si riesce a capire come, in presenza degli sviluppi dello stato totalitario e dell’immane pericolo rappresentato da una tecnica non più infrenata da una adeguata volontà etica, egli continuasse a ignorare che Ferrero si era dapprima rivolto alla Germania con una profonda ammirazione ne L'Europa giovane e solo un’ulteriore meditazione sul culto della forza, il militarismo, l’esasperazione della tecnica, gli avevano mostrato i pericoli di quella brutale strapotenza. Poniamo che fosse ingiusto attribuire troppo gran parte di quel culto della violenza a hegeliani e storicisti, ma quando, come il tardo Croce, si risaliva addirittura a Lutero, vedendo nel frate agostiniano il primo inconscio autore d’una fatale separazione tra la libertà interiore, la « libertà del cristiano » e l’ossequio dovuto alla spada dei prìncipi; quando, come il tardo Croce ritornava a esaltare l’umano e saggio e non certo storicista Goethe — che senso avevan più le antiche mordaci satire? In realtà, quel reciproco accostarsi dei giovani, quelle « crisi » delle loro filosofie, quegli scambi appassionati erano espressione d’una comune condizione, l’esilio; e forse è vero quel che mi è stato affermato, cioè che Leo, alla vigilia del suo viaggio americano, era di tutti il più maturo e che quella crisi aprendogli dinanzi il vasto mondo, ce l’avrebbe reso mutato, forse avviato a nuovi pensieri di filosofia, forse, sulle orme del padre, teorico del potere e della legittimità, e forse il contrario;
ma
intanto partiva e lasciava dietro di sé Angelica, l’ultimo
compiuto messaggio di un’anima poetica. Come mi accadde di trovare, di « scoprire » Angelica? Quando partì per gli Stati Uniti, Leo mi aveva offerto di ospitarmi nell’alloggio abitato da lui fino allora, in rue Mouffetard (la leggendaria «rue Mouff » che, attraversata da altri vicoli di aspetto, almeno allora, sordido, sale dalla collina Sainte-Geneviève ove è situato il Panthéon, ai Gobelins e alla Place d’Italie: un pezzo della Parigi di Hugo e di Sue, romanticamente proiettato nel presente e nella vita artistica e studiosa della « rive gauche »). L’alloggio, che a Leo era stato prestato da Franc-Nohain, attore che poi divenne famoso sotto il nome di Claude Dauphin, caratterista di parti brillanti, consisteva in una stanzetta e in uno studio tutto vetrato posto e quasi poggiato sul tetto d’una casetta bassa, affiancata appunto a sinistra dalla « rue Mouff », a destra da un cortiletto con un grande albero, forse un ippocastano. Quando
Leo partì, in autunno,
non era freddo, e non
lo era neppure
l’inverno, tranne
che allora tutto il calore veniva da una enorme stufa di ghisa, che si arroventava e qualche
volta, prima di raffreddarsi con l’alba, mi faceva temere l’incendio. Arredato appunto con il gusto artistico e zingaresco del suo proprietario, aveva molti divani, pochi cassetti e, sopra, in uno scaffaletto, appunto, una collezione dei « Cahiers Verts » di Grasset. Fu lì che fui raggiunto dalla notizia della tragica, improvvisa fine di Leo, e dall’invito di recarmi a Ginevra e di portarvi, appunto, quel che di suo Leo avesse lasciato nei cassetti, fors’anche si accennava all’esistenza di Angelica. Ma devo dire che, prenotato il treno per il giorno successivo, e messa la mano sul dattiloscritto, ne fui così affascinato che passai l’intera notte, e poi di nuovo il tempo del viaggio a leggerla e rileggerla. Quel popolo di maschere italiane, che era il nostro popolo, quel destino che sembrava ripetere contro una cupa oppressione la generosa vicenda di un moderno Rienzi, presto rinnegato e abbandonato e rimpianto, era destino nostro, e i nostri sentimenti non vi erano gridati ma toccati quasi da una musica sottofondo, o riflessi in poche amare sentenze. Di queste, due mi toccarono allora, come ancora mi toccano: la prima, quando l’eroe domanda a un semplice cittadino, a un passante: « Que pensez-vous de la liberté ?» e la semplice risposta: « Qu’elle est douce, monsieur » —, ma soprattutto la sentenza conclusiva di fronte all’èra incombente delle tirannidi: « Mieux vaut un désordre qu’une injustice ». Così, quando arrivai a Ginevra, incontro ai diserti genitori e parenti che si apprestavano, con pochi amici giunti dall’Italia, a prendere da lui l’ultimo congedo nel cimitero di Plainpalais, mi pareva quasi di essere portatore d’una buona novella, di avere con me la prova di qualcosa di Leo che non solo era vissuta, ma viveva e ancora davanti aveva un avvenire. Gli altri scritti di Leo, che sono stati più tardi pubblicati e raccolti in volume, dovevano confermare la realtà di quella maturità raggiunta, prima che la sua vita fosse troncata; lui non sarebbe tornato a compiere come noi altri errori e provar altri dolori, e le gioie del ritorno in una terra che frattanto ci diventava sconosciuta, ma aveva scritto il suo messaggio affidandolo agli amici e a chi gli si sarebbe fatto amico, come una « bouteille à la mer ». Parlare di chi vidi a Ginevra in quelle ore febbrili, di Carocci che portava da Firenze il saluto degli amici di « Solaria », del padre assieme cupo e sereno, di quel frammento d’Italia in terra ginevrina, mi riesce difficile a questo punto, sembra mi distragga da quel momento di vita nella morte; e tuttavia, poiché noi, e con noi i nostri amici, non siamo fatti del nostro individuo soltanto, ma degli affetti che ci hanno formato e di quelli che ci circondano, mi fermerò di nuovo brevemente su Guglielmo Ferrero, che elaborava allora la sua dottrina dci fondamenti della legittimità: il diritto divino e l’autorità della tradizione, che van scomparendo, e il suffragio universale della democrazia, rimasto unica fonte attiva del potere. Tanto più, in quel suo sforzo di ritrovar l’origine della legittimità di fronte alle nuove tirannidi, colpiva vedergli accanto un personaggio (mi pare, ma la memoria potrebbe tradirmi, che fosse Moysset) il quale spessissimo, anche in quell’occasione, dava in sfoghi contro la democrazia. Era come se chi si era accinto alla ricerca delle fonti del potere legittimo si fosse voluto, tollerante, tenere accanto,
quasi specchio e monito, un rappresentante,
in vesti
aggiornate, del vecchio legittimismo, per misurarne la superstite vitalità. Pure, l’ultima immagine di Leo Ferrero non è neppure quella della sua ultima dimora a Plainpalais né quella dell’austero, meditativo dolore paterno. Essa risale a mesi, forse a due anni più tardi, quando in un teatro parigino, Angelica fu portata dinanzi al pubblico dalla compagnia
Pitoéff; da lei, Ludmilla, che tante lacrime di commozione
ci aveva fatto versare
nei capolavori di Ibsen, e da lui, Georges, attore e regista dalla magica voce roca e cupa, che accompagnava e sottolineava i colori e le luci volta a volta evocate dalla parola e dall’accento. Perché c’era in quella versione di Angelica una scena che non è nell’originale e che tuttavia mai mi parve tanto raccoglierne e raccomandarne il fragile messaggio. Dopo che sul tramonto dell’eroe, Orlando, è calata l’oscurità, le luci si riaccendono pian piano e le maschere italiane, che han seguito incoscienti la tragedia, si ritrovano, si raccolgono e si direbbe si animano per levare, in sordina prima e poi più vigorosamente, le note e le parole dell’inno che era stato degli antenati: fratelli d’Italia.
Era ben più di una « trovata » teatrale; era l’esile sogno da cui era stato sorretto il co-
mune destino che si faceva luce in mezzo al fragore dei carri armati che già laceravano il nostro mondo. Certo, non solo è scomparso Leo Ferrero, e Guglielmo, ma anche la voce di Georges e Ludmilla non saranno più riascoltate: destino della bellezza, destino del ricordo. Ma a chi le ascoltò, e come noi, più fortunati, è rientrato in un’Italia naturalmente mutata, quella non
dimenticata evocazione, di ciò che, un momento, eravamo stati è sufficiente testimonianza del legame insopprimibile tra morte e vita, quel legame che l'adolescenza vive senza conoscerlo e che i giorni della « maturità » conoscono criticamente senza ritrovarlo altro che nella coscienza del tempo mai perduto perché mai dimenticato. Ecco perché non sono per noi, finché vivremo, fantasmi bensì uomini vivi quei quattro che, assieme, percorrevano discutendo, come tant’altri, prima e dopo di loro, il Boulevard Saint-Michel. ALDO
GAROSCI
Gina
Lombroso
e Leo;
Buenos
Aires,
1907.
La famiglia Ferrero a Saint-Vincent, 1904; si riconoscono, nell’ordine, Francis Lance Ferrero (con il cappellino), Guglielmo Ferrero, Gina Ferrero Lombroso, Giuseppe Ferrero (giovane), Vincenzo Ferrero (padre di Guglielmo), Felice Ferrero (marito di Francis), Candida Ferrero (madre di Guglielmo), Nina
(sorella di Guglielmo).
Lombroso
con Leo in braccio, Cesare
Lombroso,
Corinna
Ferrero
La famiglia Ferrero a Laigueglia, 1912-1913; si riconoscono, da sinistra, Guglielmo Nina Lombroso, Leo, un amico di Leo, Gina Lombroso Ferrero e Nina.
Ferrero,
Leo
Leo
Ferrero
all’Ulivello,
1932.
Ferrero,
1922-1923.
GLI
ANNI
DI LEO ...mi sento scivolare verso l’avvenire e mi sembra che non vi sia distanza fra l’inizio della vita e la morte.
L. F., La catena degli anni
Quanti ricordi, quanti sogni, quanti piani per l’avvenire mi sono riapparsi mentre preparavo, l’estate scorsa, le carte di mio fratello, Leo Ferrero, per la Fondazione
Primo Conti.
Tutt’a un tratto ho realizzato che erano passati esattamente cinquant’anni, era il 26 agosto — il giorno in cui Leo perse la vita in uno stupido incidente su una strada del New Mexico. Cinquant'anni sono passati e la nostra generazione è vecchia e malata. Molti dei suoi cari amici italiani e francesi se ne sono andati — Carocci, Montale, Carlo Levi, i Rosselli, Claude Dauphin e ora anche Alessandro Bonsanti, e tanti tanti altri. Per me Leo è ancora il bel giovane dagli occhi bleu penetranti, e un sorriso alle volte pieno di gioia e spesso terribilmente pieno di tristezza come quando lo accompagnammo al treno che lo doveva portare al battello e oltreoceano, negli Stati Uniti.
Leo aveva sette anni più di me, una differenza anche maggiore vista la sua precocità. Durante la prima guerra, nel 1916, i Ferrero andarono a stabilirsi a Firenze dove avevano trovato una bella casa in mezzo a un grande giardino, confinante con il giardino pubblico del Bobolino, in viale Machiavelli. Leo a dodici anni, a Torino, poco prima del trasloco, era stato nominato presidente per
la parte italiana della « figlio di Julien Luchaire, tano Salvemini. Quando allora sui quindici anni, Lascio
Lega latina della gioventù », fondata e diretta da Jean Luchaire, allora direttore dell’Institut Frangais a Firenze, e figliastro di Gaearrivammo a Firenze i due « presidenti » si incontrarono. Jean aveva era già alto come un uomo.
descrivere l’incontro a Jean: “Je puis revivre avec une précision surprenante l’instant auquel je pris pour la première fois contact avec Leo Ferrero; cela se passait en Juin 1916. Pour présider la branche italienne de l’Association Franco-Italienne que j'avais fondé on m’avait designé Leo Ferrero que je ne connaisais pas. Après une brève correspondance — Leo habitait à Turin — l’accord était fait. Après quelques mois Leo vint s’établir à Florence. Le jour où j'avais pris rendez-vous avec Leo à son nouvel domicile florentin, je m'y amenais plein de curiosité. Et traversant un jardin fleuri qui conduisait a un grand pavillion ensoleillé, je rencontrais un petit garçon en coulotte courte dont le visage couronné de cheveux blonds irsutes était illuminé de deux yeux bleus. « Petit — fis-je — c’est ici que demeure Leo Ferrero? ». « C’est moi », répondit le petit garçon. Je restais petrifié. Certes je savais que Leo n’avait pas encore treize ans, et qu’il n’avait point herité la grande taille de son père, mais de la à supposer que Leo Ferrero dont les lettres m’avaient charmé par le style élegant, par leur pensée ferme, par leur intelligence aigue, par leur écriture originale et sûre, était une sorte de gamin, il y avait loin. « Ah, c’est vous Leo Ferrero », dis-je desorienté. « Vous me trouvez trop jeune?», s’écria-t-il ne riant. Trop jeune, Leo aura toujours été trop jeune d’apparence. Trop jeune tel qu’il vient de nous être enlevé. (« Notre Temps », 13 settembre 1933)”.1 Adattarsi a Firenze, per Leo, fu difficile: si lamentava per l’impossibilità d’intrattenere amicizie, poiché i compagni avevano la « signorinomia », non parlavano che di ragazze, non sapevano giocare, ma solo spettegolare, e le ragazze lo stesso. Arrivando a Firenze, i Ferrero avevano alcuni vecchi amici, come i Salvemini, la signora Rosselli, Julien Luchaire, il dr. Gatti, che aveva tre figlie, la signora Finaly e altri. Né Jean
Luchaire, né Nello Rosselli erano a scuola con Leo. Nello aveva appena perso il fratello Aldo in guerra, e Leo non osava andarlo a trovare. Per me fu più facile, avevo appena finito la prima elementare a Torino e subito mi feci delle amicizie alla scuola elementare comunale,
con certe bambine francesi, figlie di un professore all’Institut, Emile Marcault, con le figlie di un ingegnere del gas, Henry Winkler. Queste bambine avevano fratelli e sorelle più grandi e più piccole e tutti venivano con piacere a giocare nel nostro grande giardino. I Ferrero avevano casa aperta la domenica e gli amici di Firenze venivano quando volevano, gli stranieri di passaggio erano invitati. Si riunivano nel salotto-biblioteca, il tè era servito in camera da pranzo intorno a una grande tavola preparata con cura, con una bellissima tovaglia ricamata in bianco e rosso, delle tazze di Sèvres, e un samovar di rame lucido, che il nonno Lombroso aveva portato da Mosca. Gli ospiti sedevano intorno alla tavola e io dovevo lasciare gli amici « per servire il tè », spesso con un po’ di muso. Era tempo di guerra e c’era poco da mangiare, soprattutto non c'erano né zucchero né dolci da offrire. Ma dopo la compera dell’Ulivello, ci portavano una volta alla settimana del pane fatto in casa, era scuro e spesso un po’ duro, ma gustoso e fatto di vero grano. La mamma faceva fare delle marmellate di fichi e uva senza zucchero, che offrivamo sulle fettine di pane. Non certo un tè elegante, ma a tutti sembrava una leccornia, specialmente a noi ragazzi sempre affamati. Le discussioni continuavano intorno alla tavola e poi di nuovo in biblioteca; alcuni degli amici di Leo, più intelligenti e maturi, alle volte si univano, dopo i giochi. Leo da quando aveva undici o dodici anni si sentiva a suo agio con gli amici di papà e mamma e discuteva con loro di letteratura, arte, filosofia come se fosse molto più vecchio. Di una domenica ho ancora il ricordo vivo. La domenica dopo la marcia su Roma, nel 1922. C’era molta gente quel giorno, stranieri e italiani e fra l’altro c’era Salvemini. Una grande discussione cominciò fra Salvemini e mio padre. Papà era disperato, diceva che la marcia su Roma avrebbe portato la dittatura in Italia per decenni, e che anche avrebbe potuto portare il paese a un’altra guerra; Salvemini invece prendeva la cosa alla leggera e diceva che Ferrero era sempre il solito pessimista, che le cose sarebbero tornate come prima in tre mesi... La discussione durò a lungo, tutt’e due picchiavano i pugni sulla tavola e le tazze ballavano, mi ci appassionai anch’io e quella volta rimasi a sentire. Fra gli adulti che posso ricordare, c’era Salvemini, naturalmente, il professor Alessandro Levi, Niccolò Rodolico, lo storico Carlo Placci, Piero Jahier, il meraviglioso Jack La Bolina, che ci raccontava affascinanti storie del mare, il colonnello G. B. Klein — esperto della guerra —, Julien Luchaire, il console francese e storico Albert Pingaud, il professor Limentani, il direttore del British Institute Spender, Guido Ferrando, Marco Slonim appena arrivato dalla Russia, Zarian, il capo degli armeni in esilio, rifugiato a Firenze, il filosofo Arrigo Levasti e sua moglie Filli, pittrice, l’avvocato Olga Monsani, Martin Chauffier, bibliotecario alla Villa Finaly e tanti altri. Jean Luchaire, che aveva la mania di fondare riviste, dette vita a la « Revue des Jeunes Auteurs » e a « Vita »; a tutt'e due Leo collaborò. Scrivere era per Leo importantissimo. Iniziò a scrivere presto: a sei o sette anni scrisse poesie, e il suo primo romanzo, dedicato al padre e alla madre — La Storia di Fantasma — lo scrisse a undici o dodici anni. À quattordici anni scrisse la sua prima commedia, // concorso di Bellezza, che avrebbe voluto veder recitata dagli amici... ma non ci riuscì. Scriver bene era essenziale per lui; già da ragazzino leggeva 1 Promessi Sposi per imparare: «Mi ha rallegrato di effimera letizia, un fatto. Ho superato i miei compagni in italiano scritto, non mi importa nulla di essere il primo in altra materia, ma in scrivere invece sono incaponito a superare tutti — annota in un taccuino sotto la data del 17 aprile 1917 —. Il mio amor proprio mi dice, che, siccome dovrò fare la carriera letteraria, ho l’obbligo di cominciare da piccolo. E scrivo, scrivo scrivo ».2 Queste parole scritte prima dei quattordici anni mostrano chiaramente che Leo già da bambino aveva deciso di continuare la tradizione familiare anche se forse più nel senso letterario che storico e sociologico.
IO
Leo andava al Liceo Michelangelo. Da viale Machiavelli a via della Colonna la strada è lunga anche in bicicletta. Come fare per tornare a colazione a casa ed essere in tempo per le classi del pomeriggio? Mia madre si mise d’accordo con la signora Salvemini (che traduceva in francese gli articoli di papà) affinché Leo andasse a colazione da loro che stavano a due passi, in Piazza D'Azeglio. Leo non si interessava molto di politica, ma la storia gli piaceva moltissimo ed era felice di passare quell’ora in casa Salvemini. Tanto Salvemini che papà avevano preso posizione contro i nazionalisti sul problema della Dalmazia, che ritenevano dovesse esser data alla Yugoslavia. Questa posizione era molto impopolare e Leo divenne figlio e amico di « rinunciatari ». La conseguenza fu l’ostracismo sociale immediato. L’anno prima era stato invitato a tutte le feste, ora non lo era più. Quando invitava gli amici a casa sua, il più delle volte trovavano una scusa per non venire. Questa fu una grande disillusione perché veniva da coloro che credeva suoi amici. Ci fu un compenso. Alcune signore, membri del Lyceum Club di Firenze, tornate dall’Inghilterra impressionate dai « debating club » dove i giovani inglesi imparavano a parlare e a sostenere posizioni differenti, lanciarono un « debating club » per i figli dei membri. Si iscrissero molti giovani fra cui Leo e Jean Luchaire. Era stato deciso che il tema sarebbe stato dato sul momento. Il primo dibattito ebbe come soggetto « critiche all’educazione ricevuta ». I giovani iscritti, presi da un attacco di timidezza, non osarono alzare la mano per domandare la parola; il presidente con riluttanza dette la parola a Leo, che aveva espresso il desiderio di parlare, e a Jean. Leo fece una bella esposizione concludendo che non si può fare una critica di un’educazione di cui non si son visti ancora i risultati. Jean rispose con grande eloquenza, e il pubblico si divertì moltissimo. Al secondo dibattito, la sala era gremitissima. Il soggetto era « i delinquenti »; si ripeté quanto era avvenuto nella riunione precedente, dato che solo Jean e Leo eran pronti a discutere; il « debating club » fu chiuso. Jean, che si era divertito un mondo, e che aveva gran piacere a cominciare nuove cose, prese una sala a nolo e lanciò « I giovani oratori ». La sala era aperta ai giovani che volevan leggere le loro poesie o i loro racconti, e a dibattiti su problemi di loro interesse. La nuova società ebbe molto successo, non so quanto durò esattamente ma tutti si divertirono molto.
Leo sin da quando era bambino aveva bisogno di armonia intorno a sé, di cose belle, di persone che gli volevano bene. Una delle grandi gioie, venendo a Firenze, fu quella di avere una bella camera da letto per sé, piena di sole, con una grande finestra sul giardino. Se la fece imbiancare, si fece dare dalla mamma un bel cassettone barocco piemontese, fece fare delle biblioteche e una bella coperta per il letto copiata dai sarapi messicani e appena ebbe qualche soldo comprò libri e stampe sui barroccini di piazza Indipendenza... Era felice quando vedeva la mamma ben vestita, andava con lei dalla sarta per aiutarla a scegliere i vestiti per le conferenze che doveva fare o per i viaggi a Parigi... Gli piaceva la bella casa, i fiori nei vasi, una tavola ben apparecchiata. Era pieno di intuizione, sensibilità e curiosità. Sapeva godere della vita. Nei periodi buoni, lavorava molto, ma gli piaceva anche veder gente, ballare, era sempre innamorato e piaceva alle donne. A un periodo di gran lavoro seguivano fasi di depressione, dormiva molto, non poteva scrivere e se ne andava solo a far lunghe passeggiate; alle volte bastava una lettera, un articolo accettato per rimetterlo in carreggiata. Aveva un gran bisogno di esser amato, mia madre certo gli dette tutto l’amore che una madre può dare a un figlio, un amore intelligente e altruista, non possessivo, che lasciava libero Leo di provare Je sue ali, e a volte anche di bruciarle, di trovare la strada da sé in ogni
modo possibile, ma sempre sapendo che qualunque cosa succedesse, la famiglia lo avrebbe sostenuto.
Le relazioni con mio padre eran differenti. Mio padre gli voleva molto bene, lo sentiva come un’estensione di se stesso, vedeva in lui la tradizione che continuava, ma non sapeva dimostrarlo, era severo e appariva freddo (ma non lo era); seguiva il lavoro di Leo con immenso interesse, lo aiutava quanto poteva a svilupparsi, ne discuteva le idee, gli scritti. Gli
II
offrì la collaborazione al scutere con Leo, e lui che trovò intorno un gruppo Leo alle volte provava
libro La Palingenesi di Roma, quando aveva vent’anni. Amava diaveva sempre voluto essere professore, finalmente grazie a Leo si di giovani intelligenti con cui e a cui parlare. una certa reticenza e timidezza con papà, quando non si trattava
di cose letterarie. Se voleva il cavallo, l'automobile, una
nuova
rete per il tennis, mandava
me
a chiedere. Era un fratello affettuosissimo, si rendeva conto intuitivamente della grande attenzione che la famiglia gli concedeva e voleva aiutarmi a vincere una strana timidezza che a volte mi congelava. Mi accompagnava a scuola sulla sua bicicletta, mi aiutava a fare i compiti quando non mi riuscivano. La domenica mattina mi portava agli Uffizi, a Palazzo Pitti, al Museo di San Marco, voleva che imparassi a guardare un quadro, a riconoscere i pittori. M'incoraggiava a cercare il soggetto dei vari quadri, nel Nuovo Testamento, nella Bibbia, nella mitologia. Aveva una grande passione per la musica e fu uno dei primi abbonati agli « Amici della Musica », quando Alberto Passigli li fondò. Volle subito che fossi abbonata anch'io, così ogni sabato dopo pranzo andavamo alla Sala Bianca di Palazzo Pitti. Prendevamo lezioni di piano tutt'e due da una simpaticissima maestra, non eravamo dotati né l’uno né l’altra, ma Leo si divertiva molto a suonare. Dopo un concerto meraviglioso di Alfred Cortot, che suonò tutti i Preludi di Chopin, anche Leo li suonò per settimane. Per Leo l’acquisto dell’Ulivello fu una grande gioia. La villa era stata scelta da papà e mamma dopo aver visitato tutti i dintorni di Firenze per mesi, a causa della bellezza della veduta dalla casa e dal giardino e per l’eccellente vino che ci si faceva e si continua a fare nel cuore del Chianti classico. La casa con tanto spazio, il giardino a labirinto di siepi d’alloro, il leccio centenario, la magnolia piena di fiori carnosi bianchi e profumati, il gelsomino che si arrampicava al muro, le conche rosse di limoni fioriti, i due albicocchi giganti da cui si potevan cogliere i frutti dal primo piano, e soprattutto quel panorama meraviglioso di colline che si accavallano l’una sopra l’altra fino a Vallombrosa, lo riempivano di gioia e di piacere. Leggere e scrivere erano le sue passioni, ma anche gli sports. Non più il calcio, ma nuotare, sciare, l’alpinismo, andare
a cavallo, tirare di scherma,
giuocare a tennis.
La casa era sempre piena, mai meno di dieci o dodici a tavola ogni giorno. Venivano la nonna, gli zii i cugini, gli amici dei genitori e i nostri. Papà lavorava nel « biliardo-biblioteca », nessuno doveva disturbarlo. Noi, bambini, non dovevamo giocare da quella parte del giardino e se fossimo dovuti passare davanti alle porte finestre avremmo dovuto farlo in punta di piedi. La mamma aveva un suo studio sia all’Ulivello che a Firenze, tutti e due eran chiamati da Leo «la camera della disperazione ». Mentre la mamma lavorava tutti osavano disturbarla, interromperla, chi voleva spiegazioni su un lavoro da fare, la cuoca veniva a disperarsi perché il « fidanzato » non le aveva scritto, io perché non riuscivo a fare il mio compito di latino, i contadini che sapevano che la mamma era dottoressa, venivano a fare delle consultazioni a tutte le ore e a chiedere i medicinali che la mamma riceveva in omaggio per poi trovare che quelle stesse medicine, se comprate a caro prezzo, facevano meglio... Leo aveva una bella stanza anche all’Ulivello con la bella veduta, ma adorava il sole e gli piaceva scrivere in giardino. La sua pelle era molto bianca e lentigginosa, essendo di capelli biondo rossiccio; non si abbronzava mai e solo diventava rosso come un’aragosta e si riempiva ancor più di lentiggini. All’Ulivello era felice di parlare con i contadini, d’imparare la loro bella lingua così ricca, ogni parte di un oggetto aveva un nome e se non ce l’aveva lo foggiavano — i suoi taccuini sono pieni di queste parole e espressioni. Gli piaceva ammirare il loro lavoro, con i bei buoi bianchi fare i solchi « a regola d’arte », le curve perfette. I contadini gli volevano bene. Quando non stava bene le contadine gli portavano le uova ancora calde dal pollaio, 12
e per lui il latte della mucca
non
era
« battezzato » benché
temessero
che la mucca
«si
sdegnasse ». La vita all’Ulivello cominciava presto la mattina con il fresco. À papà e mamma portavano la colazione a letto alle sette. Per gli altri la colazione era servita in camera da pranzo. Negli anni più belli dell’Ulivello quando ancora il fascismo non ci tormentava tanto, alcuni
amici
di Leo, come
Claude
Franc-Nohain,
Samy
Lattes,
Giovanni
Malagodi
e altri
venivano a passare settembre da noi. Anche alcune delle mie amiche venivano, come le ragazze Winkler, Giovanna Calastri, i cuginetti Lombroso, la differenza d’età era un po’ diminuita
e andavamo
tutti a fare delle belle corse in bicicletta, a vendemmiare
e a ballare
sull’aia dopo il pranzone della vendemmia. La sera spesso ci sdraiavamo sul muretto alla fine del viale dei cipressi: da qui la vista spaziava su tutta la campagna. Facevamo a gara a chi poteva riconoscere più costellazioni o stelle — una delle eredità trovate all’Ulivello era un bellissimo mappamondo delle stelle — o a chi vedeva più stelle cadenti. I Ferrero avevano l’abitudine, la domenica, dopo la siesta, di ritrovarsi nel biliardo-biblioteca a leggere il lavoro che ciascuno aveva fatto durante la settimana, quando qualcuno degli ospiti era scrittore, anche loro erano sottomessi a questa tortura. Era una tortura perché i Ferrero non risparmiavano le loro critiche. Mio padre stava allora scrivendo il suo romanzo — La Terza Roma — a cui lavorò per anni pur continuando a scrivere articoli e libri di storia e politica. La mamma scriveva i suoi libri sulla donna: L’anima della donna, La donna nella vita, o, più tardi, Le tragedie del Progresso. Leo stava lavorando alle Campagne senza Madonna e al Leonardo o dell’arte. La grande stanza del biliardo con le persiane chiuse aveva una luce soffusa e riposante venendo dalla luce infocata di fuori. La stanza era fresca e c'era una grande calma. In un angolo un sofà duro e diritto, fatto apposta per guardare le partite di biliardo (che non si potevano fare visto che i ladri avevan portato via le palle); sedevamo in circolo e gli scrittori leggevano. La Terza Roma trattava la Roma di fine Ottocento, la politica, la finanza, un delitto, un giovane ricco e idealista — Oliviero — immischiato nel processo per difendere una donna che sapeva innocente. In casa si discuteva molto sul romanzo di mio padre che Leo giudicava con molto tatto, mentre la mamma con più violenza: quella manìa, per esempio, di usare metafore per non nominare strumenti moderni, a parere della mamma non faceva altro che appesantire la narrazione. Papà, naturalmente, difendeva le sue metafore, a volte si arrabbiava, ma poi prendeva in considerazione le osservazioni da noi sollevate. Quanto ai libri della mamma, sia quelli sulla donna che quelli contro l’industrializzazione, le discussioni diventavano intense, perché tutte le donne presenti avevano esperienze che provavano e non provavano le teorie della mamma. Leo si accaniva contro la mancanza di stile nello scrivere della mamma. Per lei il contenuto era l’importante, non lo stile; per Leo eran importanti tutt’e due. Mi ricordo, una volta una delle ospiti, un’amica di Leo, giornalista e narratrice francese, Simon Téry, ridendo e prendendola un po’ in giro la costringemmo una domenica a leggere quel che aveva scritto quella settimana. Quando la mamma cominciò a criticare i suoi personaggi, si arrabbiò e finalmente scoppiò a piangere e ci volle tutta la pazienza della mamma, mia e di Leo per convincerla a non ripartire subito per Parigi.
A sedici anni Leo andò a passare una parte dell’estate con la nonna Lombroso e i cuginetti a Courmayeur. Fu un’estate magnifica, scoprì il piacere di ballare e di far gite sui ghiacciai. Fece amicizia con un giovane della sua età, di madre italiana e di padre francese, Samy Lattes. Samy divenne suo compagno d’alpinismo e anche delle feste da ballo. I Lattes avevano un grande appartamento a Parigi, Avenue Friedland, e subito lo invitarono. Leo non se lo fece dire due volte e a settembre partì per Parigi, dove si trattenne un mese. Si divertì moltissimo,
di Samy, amici per Finito non dover
fu entusiasta della città, dei musei, dei teatri, dei francesi. Conobbe un amico Claude Franc-Nohain che divenne poi l’attore Claude Dauphin, e diventarono la vita. Di ritorno da Parigi si mise a scrivere drammi. il liceo, finalmente entrò all’Università; che piacere era per lui — ricordo — andare a scuola tutti i giorni.
TS
All'Università
non
ci andò
molto, seguiva i corsi di Salvemini,
quello di Ramerino
—
con quell’esame di latino che era lo spauracchio della facoltà di lettere —, i corsi di storia dell’arte con il professor Toesca. Ma con l’avvento del fascismo, l’università divenne sempre più politicizzata. Il corso di Salvemini era specialmente preso di mira, con razzie e studenti picchiati. In quel corso conobbe Bogdan Raditza che poi divenne suo grande amico. Leo non era codardo, ma la violenza lo faceva soffrire. Per fortuna aveva dei buoni amici anche tra i fascisti che lo avvertivano quando ci sarebbero state queste spedizioni punitive, ed egli se ne stava a casa, così non
ebbe
mai a che fare direttamente
con
la violenza.
Nel 1922 mio padre fu invitato a far delle conferenze in molti paesi europei, specialmente nel Nord — Germania, Svezia, Danimarca, Belgio e Parigi. Invitò Leo ad andare con lui, e questa fu la vera introduzione di Leo nel mondo intellettuale europeo. Naturalmente furono ricevuti dappertutto con tanti onori e tante feste, e Leo conobbe così un gran numero di intellettuali importanti. ‘Tanto il padre che il figlio furon molto sconcertati dall’inflazione spaventosa che incontrarono in Germania. Questo viaggio fu molto importante per Leo. Il suo interesse per il teatro, sia per scrivere che per quello che gli altri scrivevano, lo portò a mettersi in contatto con il gruppo francese della « Chimère », un gruppo d’avanguardia di Parigi. Leo, già al tempo del suo primo viaggio a Parigi (a sedici anni), era interessato allo scambio di idee fra scrittori francesi e italiani. Così fece grandi sforzi per creare una « Chimère » italiana. Passò parecchio tempo a Milano per realizzare questo progetto, ma era difficile, c’era molta diffidenza da parte degli italiani. A Roma trovò una compagnia teatrale che accettò di dare le sue Campagne senza Madonna al Teatro Moderno. Rimase a lungo a Roma per seguire le prove del suo dramma, così conobbe Pirandello. Si stava formando allora intorno a Pirandello un teatro detto « dei Dieci ». Corrado Alvaro propose Leo come «uno dei dieci». Da Roma scrive alla madre: «...La cosa è ancora in aria e non bisogna dirlo a nessuno, perché, se venissero a saperla alcuni speculatori, fallirebbe. Si comincerebbe in ottobre. Ah, servizio militare! Per me se la cosa riuscisse, sarebbe stupendo. Pirandello è simpaticissimo, ci sarebbero Ludovici, Pea, Vergani, Alessio, d'Amico, Alvaro, Ferrero. Se divento uno dei dieci a Roma sarà più facile esser rappresentato ». 3
Nel 1924 o 1925 va a Trieste a parlare con « Il Piccolo » per un’eventuale collaborazione alla terza pagina. Lì conobbe Umberto Saba di cui aveva letto e ammirava le poesie. Saba lo portò da Italo Svevo. Tornò con La Coscienza di Zeno che ancora a Firenze nessuno conosceva e che per Leo era il più grande romanzo del secolo. Ne scrisse subito su « Solaria ». In questo periodo scrive articoli per « Il Baretti », « Il Secolo », « Il Lavoro », « Il Convegno » e naturalmente « Solaria » che aiutò a fondare. Diventò amico di tutti i solariani e anche di altri artisti come Mario Castelnuovo, a parer di Leo, il miglior giovane compositore italiano. Si ritrovavano alle « Giubbe Rosse ». Le « Giubbe Rosse »: ...mi ricordo, uscendo di scuola, andavo a raggiungerlo lì, tornavamo insieme in bicicletta a casa. Attorno allo stesso tavolo, tutti i giorni a mezzogiorno, si riuniva un gruppo di giovani che, dopo la guerra, diventarono i più influenti intellettuali d’Italia: Montale, Carocci, Loria, Primo Conti, Alessandro Bonsanti, Colacicchi e tanti altri. Ero molto intimidita — ero ancora una ginnasiale — ma mi divertivo ai loro discorsi che a me sembravano
astrusi. Tornando
a casa Leo continuava:
« Convinciti, Nina, è un’illu-
sione che tu esisti. La vita è un’illusione... ». Quando dovette fare il servizio militare, scelse il Corpo degli Alpini, con l'illusione di lunghe sciate sulle Alpi e gite sui ghiacciai. Lo mandarono invece alla scuola ufficiali degli Alpini a Torino dove passò quasi tutto il suo periodo di servizio militare. A Torino c'erano la nonna Lombroso, gli zii Carrara, e tanti altri vecchi amici. Il capitolo di Espoirs, pubblicato in questo volume, descrive proprio quell’epoca. Ahimè, dopo un anno di servizio militare, il fascismo aveva allungato le mani e le cose
De
divennero difficili. Il « Secolo » era stato venduto nel frattempo e mio padre non poteva più scriverci. La nuova direzione non era interessata agli articoli di Leo. Uno a uno le riviste e i giornali in cui Leo parlava di argomenti prettamente letterari non vollero più pubblicarlo perché portava il nome Ferrero. Le porte si chiusero un po’ da ogni parte. Pensò allora di fare la sua tesi di laurea su Leonardo, in storia dell’arte, sperando poi di andare alla Scuola Superiore di Storia dell’Arte
a Roma,
diretta
da Lionello
Venturi
e, possibilmente,
di tro-
vare quindi un posticino di direttore in un piccolo museo di provincia, dove non ci sarebbe stato troppo da fare e avrebbe avuto il tempo di scrivere drammi e poesie: ma anche questo progetto si mostrò vano. Dopo la fuga di Turati, cominciarono le persecuzioni dirette contro papà. Guardie furono piazzate tutt'intorno al giardino, per « proteggere » mio padre — diceva il questore. Alberto
Franchetti,
annoiato
dalle
guardie
che
sostavano
anche
davanti
al suo
cancello,
non rinnovò il contratto d’affitto e così si dovette andare a vivere all’Ulivello tutto l’anno. A papà fu rifiutato il passaporto e la vite si strinse sempre più intorno alla famiglia. Grazie alle scene spaventose di mio padre in questura, Leo ed io ricevemmo il passaporto e partimmo per Londra per tre mesi. Al ritorno papà propose a Leo di cambiare nome, visto che non era il contenuto dei suoi scritti in questione, ma il nome. Leo si rifiutò assolutamente. Mi ricordo che gli disse: « Fino a ora ho avuto tutti i vantaggi del nome che porto, ora ne avrò gli svantaggi... Ma certo non cambio nome ». Così se ne partì per Parigi con il cuore in gola. Lasciare l’Italia fu per lui un gran dolore e un gran trauma. Naturalmente lo fece apparire ai nostri genitori come una avventura meravigliosa. Chi non vorrebbe vivere a Parigi? Conoscendo la terribile situazione in cui aveva lasciato papà e mamma all’Ulivello, con trentasei guardie giorno e notte intorno alla proprietà, più un camion e un’Alfa Romeo (noi avevamo
una
piccola Citroén),
la posta controllata,
e per di più un inverno
terribile
(le uova si trovavano ghiacciate nella dispensa), tra il freddo e le minacce della polizia agli amici e perfino le raccomandazioni agli stranieri — che domandavano all’albergo come raggiungere Ferrero — di non andare a trovarlo, pochi erano quelli che venivano all’Ulivello. La posta era censurata e, quel che era peggio, restava per settimane senza essere distribuita, specialmente le lettere raccomandate con assegni dall’estero — l’unica sorgente di guadagno per mio padre. Leo scriveva ai genitori tutti i giorni, dico tutti i giorni, anche solo una cartolina, informandoli sulle persone che vedeva, sugli articoli che pensava di scrivere, fornendo loro dettagli della sua vita giornaliera, riflessioni divertenti e argute sulle persone e su quel che succedeva, anche quando, poveretto, la vita gli era difficile. Questa folata di ossigeno giornaliero sostenne i Ferrero in quell’annata terribile. Che facesse bello o piovesse, i Ferrero ogni dopopranzo facevano la passeggiata alla posta di Strada in Chianti (5 chilometri fra andata e ritorno) per ricevere la cartolina di Leo. Per alcune settimane le cartoline furono piuttosto laconiche e corte; finalmente giunse una lettera in cui Leo si scusava dicendo di aver lavorato notte e giorno per liberarsi di un gran peso sulla coscienza. I miei si scervellarono per capire questa frase sibillina. Ma quando si rividero, alcuni mesi dopo, nessuno più pensò a quella frase. Quale fu la sorpresa, dopo la morte di Leo, quando il suo buon amico Aldo Garosci, che viveva allora in Rue Lhomond,
portò a Ginevra tutte le carte di Leo che aveva trovato nello studio, fra le quali il manoscritto di Angelica e un dramma satirico sul fascismo e sul nazionalismo, trovato in fondo a un cassetto, di cui Leo non aveva mai parlato (l’aveva dimenticato!). Fu messo in scena a Parigi, postumo, dai Pitoéff con grande successo e fu rappresentato per mesi e mesi. Arrivato a Parigi andò a vivere con Claude Franc-Nohain, che allora si guadagnava la vita facendo il pittore scenografo. Vivevano nel cuore del Quartier Latin, in uno studio di fotografo, a Rue Lhomond, tutto vetri, in cui si gelava d’inverno e si bolliva d’estate, ma l’affitto era modesto e lo dividevano in due. Leo si mise a leggere disperatamente i classici francesi, Bossuet, Montaigne, Balzac per imparare a scrivere in francese. I Franc-Nohain lo accolsero come un figlio e così i Lattes. Gi amici dei nostri genitori gli aprirono le porte
LO
delle loro case, e presto Leo si mise in contatto con giovani scrittori e drammaturghi come Jean Jacques Bernard, e gli attori registi Georges et Ludmilla Pitoéff, Gaston Baty, Jean Dullin e Louis Jouvet, sempre con l’idea di scambi italo-francesi. In mezzo a tutti questi sforzi per ricominciare la vita, non dimenticava l’Italia, come si può vedere dalle lettere a Carocci, e continuava il suo sforzo per far conoscere in Francia « Solaria » e i solariani; anche lì però non fu sempre capito. Riuscì a convincere Paul Valéry di scrivergli una prefazione al libro su Leonardo — la tesi che aveva riscritto — e questo gli facilitò la pubblicazione del libro sia in Italia che a Parigi. Cominciò a scrivere in francese e dopo qualche articolo gli fu chiesto dalla Comtesse de Pange — credo — di fare una conferenza nel suo salotto, su Parigi. L’editore Bernard Grasset, che era presente, gli offrì un contratto per scrivere un libro su Parigi. Questo lo incoraggiò nel suo sforzo di affermarsi come scrittore in francese. Leo era molto preoccupato di dover ancora dipendere in parte da mio padre: quel che guadagnava non gli bastava ancora per quella vita pur semplicissima che faceva. Scrisse il libro con grande entusiasmo. Lavorò giorno e notte per finirlo. Eravamo tutti felici e fieri di questo primo successo che poteva aprirgli una strada. Intanto papà e mamma erano finalmente riusciti, attraverso innumerevoli intercessioni — fra cui quella del re del Belgio — ad avere il passaporto. A mio padre fu offerta in quel periodo la cattedra di Storia Moderna all’Università di Ginevra — la realizzazione di un sogno di trent'anni — e un invito negli Stati Uniti a fare un giro di conferenze. Accettò tutt’e due; insegnò un semestre a Ginevra e poi partimmo tutt’e tre per New York, lasciando Leo a Parigi. AI momento di partire, Leo ci disse che Grasset aveva rifiutato il manoscritto perché non era quello che voleva. Ci si può facilmente immaginare la disperazione dei nostri genitori: partire, lasciare Leo in quelle peste, con questa grave disillusione. Avevano paura che avesse una depressione nervosa. Leo era certo distrutto, ma non lo fece vedere, anzi si rimise al lavoro immediatamente e tre mesi dopo, al nostro ritorno dagli Stati Uniti, aveva rifatto il manoscritto e trovato un altro editore: Rieder. Nelle lettere ricevute durante il nostro viaggio non si lagnò mai, anzi trovava che Grasset aveva avuto ragione e che il libro era ora molto migliorato e approfondito. Avendo saputo che la Rockefeller Foundation offriva a giovani europei una « post graduate fellowship » alla Yale University, Leo fece la domanda, assillato come sempre dall’idea di esser autosufficiente. Fu scelto come candidato italiano da Luigi Einaudi, rappresentante in Italia della Rockefeller Foundation. Tredici giovani, uno per ciascun paese europeo, partirono nel settembre del 1932 sul S.S. Carinthia dove cominciarono a conoscersi. Leo, oltre all’esperienza americana, che pensava essergli utile e interessante, pensò che così avrebbe potuto fare il giro del mondo e andare in Cina e India, paesi ai quali era molto interessato. La Rockefeller Foundation pagava ai « fellows », dopo la fine dell’anno accademico, un viaggio negli Stati Uniti allo scopo di perseguire dei progetti specifici. Leo chiese la borsa di studio per fare una ricerca sugli indiani del Mexico e del New Mexico. Dalla costa del Pacifico gli sarebbe stato facile partire poi per l’Estremo Oriente. La vita difficile di Cesare Lombroso, suo nonno, le battaglie per la pellagra e l’antropologia criminale che per poco non gli rovinarono la carriera e la vita, la vita tempestosa di suo padre, l’incomprensione dei suoi scritti in Italia — che portò all’inutile e terribile lotta per la cattedra di Filosofia della storia —, le persecuzioni sotto il fascismo, diedero a Leo l’idea di scrivere un roman-fleuve alla Balzac — La Comédie Italienne. In parecchi volumi avrebbe voluto raccontare le lotte e peripezie di tre generazioni in Italia, ciascuna lottando per un proprio ideale. Lombroso per migliorare le condizioni degli uomini malati di pellagra o dei malati di mente. Ferrero per gli ideali di un’umanità libera e di un’Italia democratica. La generazione di Leo per un’Italia che capisca i suoi figli e non li mandi in prigione o in esilio. Cominciò con il Misanthrope de Padoue — la generazione di Cesare Lombroso e l’Italia 16
del 1880. Ma l’ultima volta che passò l’estate all’Ulivello prima di partire per gli Stati Uniti, ci disse che non poteva scrivere su un periodo così lontano, quando le persecuzioni incalzavano in Italia. Il nuovo romanzo, che aveva cominciato prima di partire, aveva come protagonista uno scienziato e intorno una miriade di adolescenti e giovani che rappresentano i tipi delle due generazioni, quella dei nostri genitori e la nostra. Stava finendo questo romanzo quando morì a Santa Fe nel New Mexico. Il romanzo Espoirs, pubblicato postumo dalla casa editrice Rieder, fu scritto quasi completamente a Yale, in quell’ultimo anno così fruttuoso. Aveva da preparare i rapporti per il seminario in inglese, mandava articoli alla stampa francese che l’avrebbe aiutato a pagarsi il viaggio intorno al mondo, e scriveva il romanzo in francese, oltre a leggere enormemente per prepararsi al suo giro. Il romanzo finisce con la morte di Francesca, la madre di Bernardino, il giovane personaggio centrale, e di Carlotta sua sorella. Leo era molto preoccupato di questa scena e dall’ultimo taccuino dell’agosto 1933, appare chiaro che parlava di questo problema con medici e religiosi. La signora, che viaggiava con lui al ritorno dai balli degli Indiani del New Mexico, ci scrisse che durante tutto il viaggio Leo le chiedeva quali pensava potessero essere gli ultimi pensieri di una donna, di una madre che muore... NINA
1 G. Lombroso, 2 Ibidem, p. 5.
Lo sboccio di una vita, Le Nuove
Edizioni di Capolago,
FERRERO
Lugano
RADITZA
1935, p. 196.
3 Ibidem, p. 311.
17
OLTRE
IL VELO
DI MAYA
I poeti non parlano tra pareti impenetrabili. Non esiste poeta che non veda la propria opera nella sintesi di una creazione-audizione, che non abbia coscienza di comunicare. Leo Ferrero può dirsi dunque poeta, non solo per la precoce frequentazione con la poesia, ma
per quell’atteggiamento interiore di partecipazione alla vita, così come lo intendeva Claudel. « Ecco: il problema grave — afferma Catullo, nonché Leo, nella Chioma di Berenice — è vivere poeticamente ». Comunicare agli altri la propria concretezza. Quel Muro trasparente che intitola un suo saggio su J-J. Bernard e Paul Géraldy può suggerire la chiave di lettura e insieme
valere come
simbolo
della condizione
poetica dell’autore,
che anela ad adeguare
l’espressione alla pienezza dello spirito, alla sintesi viva di intelletto e volontà, di ragione e sentimento, di mente e cuore. Non a caso, sul frontespizio di uno dei suoi primi taccuini di cui pubblichiamo in appendice una scelta — si legge stampigliato a caratteri dorati Mente e cuore. Per Leo Ferrero scrivere, dunque, significava dare una testimonianza di vita con quella stessa immediatezza con cui ascoltava la propria anima. Pertanto considerarlo letterato nel senso che si dà a questa parola, dal momento che sono varie le forme letterarie con le quali si è misurato — dalla poesia al teatro, alla narrativa e alla saggistica — sarebbe come tradire la vitalità del suo pensiero. Michaud affermava che leggere un’opera è esistere, essere insieme a quell’opera, e a tal fine cercheremo di percorrerne il cammino contando i passi che annodano e snodano gli eventi di un’esistenza che, seppur breve, non è trascorsa invano. Sarà quindi necessario, per avvicinarsi al pensiero di Leo Ferrero, risalire dall’opera a ciò che la sostiene, ovvero all'uomo e al suo tempo. Formatosi in un periodo di grandi tensioni politiche, letterarie, morali come il primo decennio del Novecento, Ferrero fu tra coloro che, nell’ambito delle riviste letterarie italiane maggiormente di spicco quali « Il Baretti » e « Solaria », si schierarono sulla linea di un’azione letterario-morale nella difesa della letteratura insidiata dalla politica, non per restaurare una rondesca autonomia dell’arte, ma per attribuire alla letteratura nuove responsabilità etiche e civili, « per salvare la dignità — come si legge nel foglio gobettiano del 23 dicembre 1924 — prima che la genialità ». ! Ferrero condivide dunque l’istanza morale del « Baretti », dalle cui premesse scaturisce l’idea di una letteratura strenuamente impegnata nell’agone civile come Gobetti aveva tenuto a precisare nel suo corsivo d’apertura al foglio quindicinale. Di fronte alla presente barbarie priva anche d’innocenza rappresentata dalla dittatura mussoliniana, la difesa della « civiltà » per la riaffermazione dei principi democratici e libertari diventa la parola d’ordine dell’intellettuale barettiano, alla luce di uno stile operativo che recupera la tradizione più schietta della nostra letteratura. Un rigor di stile che si manifesta, come espresse Guglielmo Alberti rivolgendosi in forma epistolare all’amico Passerin d’Entrèves: «in un tono che mi piace dire di moralità nativa, straniato sì che difficilmente la comunità italiana ci si può riconoscere, ma pur rampollante dalle più profonde e pure scaturigini della nostra terra », che vuol dire anche solitudine e distacco ma «lungi dall’impoverirli, ti si vadan mutando, se una fede temperata d’ironia ti animi, in una maggiore virtuale ricchezza offerta dalla possibilità delle più varie integrazioni ». ? Sul recupero del senso della tradizione per opporsi alla presente « epoca del provvisorio » in nome di « valori più semplici di civiltà e d’illuminismo » si concentra l’impegno dei collaboratori barettiani con i quali, Leo Ferrero non escluso, si verifica come scrisse Giorgio Luti « l’incontro tra il moralismo civile piemontese » e « l’attendismo revisionistico romano ». 3
19
Affinché l’opera letteraria possa risultare una possibile via per accedere all’umano deve contare su tutto un complesso di riferimenti, osserva
Ferrero, di « sottintesi », risalenti alla
tradizione per dar vita alla tanto conclamata «civiltà ». Il tema dei « sottintesi » sarà poi ripreso da Ferrero in « Solaria » nell’articolo Lieviti letterari del 1928 e quindi maggiormente sviluppato nel suo volume Paris, dernier modèle de l’Occident che l’autore pubblicò durante l’esilio francese nel 1932. La tendenza verso un’isolata consorteria intellettuale deriva — a parere di Ferrero — appunto dalla mancanza di « sottintesi », cioè di valori comuni a tutta una civiltà, senza i quali o ci si orienta verso la « neoclassica » schiavitù delle regole o si dà libero sfogo alla libertà e quindi alla via delle avanguardie. Soltanto sulla base di questi comuni valori sarà possibile l’intesa tra scrittori e pubblico, poiché essi « aiutano a creare [...] dando agli scrittori dei limiti senza esprimerli in regole ». 4 Nel saggio su Parigi, in cui Ferrero chiarisce il valore dei « sottintesi », si parte dall’ipotesi della possibile classificazione delle civiltà europee. Egli distingue, in Europa, due tipi di civiltà: la civiltà ateniese che si basa sullo spirito d’analisi e sulla capacità di immaginazione e la civiltà romana che si distingue per il suo moralismo e per la sua capacità dialettica. L’una è rivoluzionaria, l’altra conservatrice. Ferrero tenta dunque di dimostrare che Parigi, la città originale dove sono mescolate tutte le razze e riuniti tutti gli elementi spirituali d’Europa in virtù di una élite quasi invisibile, ma che regna sovrana, ha saputo instaurarvi la sintesi di queste due civiltà. Da questa moltitudine cosmopolita, da questo crogiolo di razze, si è staccata, già dal XVII secolo e soprattutto dal XVIII, una élite molto potente che ha imposto alla massa dei parigini i caratteri delle civiltà d’Atene e di Roma, conciliandole in una sintesi superiore che rappresenta lo spirito di Parigi: « Tel est le ròle de la multitude: garder les principes en les transformant en sous-entendus, donner aux artistes des limites invisibles ». 5 Tali considerazioni sul valore della tradizione le ritroveremo poi analizzate riguardo alla civiltà americana. Infatti in Amerique, miroir grossissant de l’Europe, Ferrero studia le tradizioni americane, industriali e della mistica anglosassone dalla cui combinazione scaturisce una società « inhumaine, mais humanitaire », diversamente dall’ Europa in cui gli individui sono umani ma non umanitari: « Il faut vivre en Amérique pour comprendre à quel point les Européens se sont résignés au mal ». 5 L’America è per Ferrero le «miroir grossissant » l’evoluzione europea. È un paese in cui la vita comincia ad organizzarsi all’epoca della rivoluzione industriale, un paese in cui il capitalismo, prima forma organizzata di questa rivoluzione, poté esercitarsi senza ostacoli, mentre in Europa la sua azione era ancora frenata dalle tradizioni vivaci dell Ancien Régime. Di qui si capisce che « l’Amérique ne manque pas de tradition, comme on le prétend. Elle manque de traditions précapitalistes ». 7 Ci siamo soffermati sul recupero della tradizione proprio per sottolineare l’attaccamento di Ferrero a tutto un substrato di valori etici senza i quali viene a mancare l’intesa tra autore e lettore. Tanto che sin dai primi numeri di pubblicazione del foglio gobettiano il clima di «raccoglimento » acquista sempre più peso per orientare l’attenzione sul problema relativo al rapporto col pubblico visto come « una moltitudine sempre più anonima ». 8 Così Ferrero è ognor più convinto di vivere in un’epoca contrassegnata dal marchio della « stupidità » come s'intende dal suo Dialogo sul progresso: « In verità, caro amico, tu non ti sei ancora accorto, che il problema su cui è imperniata la storia della nostra civiltà, è quello degli stupidi... Nei giornali, nella critica, nella letteratura gli stupidi trionfano, volteggiano, ingrassano come nel clima più propizio alla loro salute indiscutibile; e l'opinione pubblica, questa sintesi di stupidi, questa stupidità fatta da Dio, li incorona, li riconosce per suoi, li nutre e li arricchisce. Pensa invece a quei pochi intelligenti, derisi e poveri, che girano umilmente tra quei grassi sovrani del mondo, rifugiandosi nell’arida consolazione di un sorriso ironico, e dimmi se veramente non è il caso di temere una tempesta, che a corta scadenza seppellirà tutti quanti ». 9
20
Ed è qui che sembra evidenziarsi il nodo del problema, cioè il valore della sopravvivenza di una classe colta che, come ebbe a dire Santino Caramella nel suo articolo di fondo dedicato al volume di Julien Benda dal titolo Zrahison des cleres, affinché la letteratura possa svol-
gere il proprio ruolo si ritiene necessaria « quell’indipendenza di giudizio che solo può dare il pensiero in cui si sviluppa la libertà spirituale. Ora è certo che questa indipendenza e questa libertà oggi tendono a svanire, e perché il ‘chierico’ muta troppo sovente atteggiamento e opinioni per il mutare del vento politico da una posizione all’altra. Qui sta il tradimento, nell’aver mancato e nel mancare degli scrittori ai loro doveri stessi ». 10 La polemica contro i « nuovi cortigiani » che hanno abbandonato il tempio in cambio dei fasti della corte viene a più riprese fomentata da Ferrero per il quale l’autonomia di giudizio è la principale categoria del vivere. Interessarsi al mondo vuol dire patirne. Tutte le letterature e più ancora le romanzesche sono il frutto di sofferenza morale. I romanzi non dovranno essere ormai — se tutti gli scrittori non sono insopportabili letterati — insensibili a tutto quello che non è della preziosa accademia di stile; romanzi per metà sociali, in cui il tumulto del popolo e del mondo si mescoli grandiosamente al dramma dei personaggi, in cui nuovi eroi entrino in considerazione e nuovi abbominî siano additati all’odio e all’esecrazione. I romanzi sono sempre in ritardo sulla loro età. Ma un dramma dell’età nostra in cui il caso psicologico sta presentato isolato dal mondo in cui viviamo, in cui l’eroe si muove in una terra in cui i treni arrivano in orario, in cui la giustizia, le leggi, i cambi, la moneta, i governi, i partiti funzionino silenziosamente con tanta disinvoltura, che non si sentono, che siano come un sottinteso del racconto, non interesserà più nessuno. 11
Nel brano citato, non esente da intoppi sintattici per troppa immediatezza di sentire — poiché si tratta di riflessioni tratte da taccuini
privati dell'autore — Leo Ferrero deplora l’asservimento letterario, politico e morale dell’intelligenza italiana nelle epoche di reazione partendo dall’epoca dei Comuni fino a quella a lui contemporanea: dopo che i Comuni — osserva — furono privati della libertà di pensiero per via dell’ingerenza di poteri stranieri e dell’azione della Controriforma, gli scrittori per non incorrere nella tortura, nella prigionia o nella morte annullarono ogni facoltà pensante nell’asservimento al potere. Soltanto le arti plastiche potevano fiorire: architetti, scultori e musicisti presero il posto di coraggiosi pensatori come San Francesco d’Assisi, Dante, Giordano Bruno, Arnaldo da Brescia. Unico sbocco per la letteratura fu allora la « sensazione »: Nel XIV, nel XV secolo essi descrivono in modo convenzionale e letterario î sorrisi, i pudori, gli sdegni, le forme delle loro dame. Nel XVI secolo essi cantano in versi perfetti le imprese e gli amori dei paladini di Francia, eroi molto lontani, o à rischi corsi in Terra Santa da Crociati molto cristiani. Nel XVII e nel XVIII secolo essi si riporranno in quegli isolotti squisiti e ammuffiti che sono le accademie. In mezzo al fracasso della Controriforma e negli anni in cui si prepara la Rivoluzione essi narrano le vicissitudini dolorose dei pastori, a cui i pirati rapiscono le pastorelle da tanti anni sospirate... *? L’analisi della sensazione, la ricerca della forma dominano per secoli nella letteratura italiana, Leo ricorda che Dante, Leopardi, Manzoni furono più una reazione contro l’Italia che la sua espressione. Non c’è dunque da stupirsi — osserva l’autore — se in un’epoca di reazione come quella fascista, ricompaiono i menestrelli e i cantastorie di sovrani e duchi del passato: Quanti scrittori ed artisti vedo in Italia nelle penultime generazioni chiusi nelle loro città illustri, splendenti e morte, nei loro caffè venerabili e lumacosi, attorniati da pochi amici di mestiere, coi quali nonostante il loro commercio, non hanno litigato, vivere in mezzo agli uragani che hanno devastato l’Europa în questi tredici anni, una vita tranquilla che una guerra turba meno di una recensione maligna! Il mondo per loro è un misterioso e vastissimo buio, in cui scintilla ogni tanto il lampione di un editore, in cui di quando in quando si sentono rullare le macchine tipografiche di una gazzetta. Liberi dalle angoscie maestose, sono in balìa di una meschina infelicità; indifferenti e pettegoli, si sono accampati nel più raffinato dei continenti come in mezzo al deserto. *3 Il legame di collaborazione fra scrittori e pubblico, per mancanza di coscienza morale, si è sciolto. La popolarità della letteratura si raggiunge allorquando si toccano sentimenti universali, comuni a tutti gli uomini, di tutti i paesi e di tutte le classi sociali: primi fra questi
ZM
il senso della giustizia, della coscienza morale e della libertà, ossia quei sentimenti che hanno animato i grandi classici russi Cecov, Gogol, Dostoievski, le cui opere per la loro universalità fanno parte del patrimonio spirituale di tutti i popoli. Altrettanto non si può dire per osserva Ferrero
—
che non è letta e né tantomeno
la letteratura attuale
—
germanista
Vincenti, 16 e sulla lirica tedesca
amata all’estero;
essa vive nell’isolamento, lontana dall’Europa e dallo stesso pubblico italiano che legge più volentieri opere straniere: La letteratura italiana ha rinunziato all’ Europa: si è cinta, nel suo stesso continente, di un largo silenzio. Deve ammetterlo chiunque, contemplando il panorama della nostra letteratura, e il guazzabuglio chiassoso e morto delle sue accademie, pensi di segnalarne un carattere solenne. L’ultima e triste polemica fra Strapaese e Stracittà ha confermato questo solenne intellettuale. Non siamo più europei, perché non siamo più italiani. Si chiama infatti letteratura europea — e qui ci occupiamo soprattutto della romanzesca, e escludiamo la lirica — quella che dipinge il proprio paese, sottintendendo gli altri. Lo scrittore europeo non deve dunque esiliarsi per amore del forestiero, ma per acquistare, conoscendo il mondo, quel sottinteso. Ogni giudizio è il frutto di un paragone; e in ogni libro che dipinga grandiosamente l’Italia si deve avere il presentimento del mondo. Il tema dell’europeismo, avviato sulle pagine del « Baretti » — ricordiamo il numero doppio dedicato alla letteratura francese del Novecento, 15 quello sul teatro tedesco curato dal Leonello
contemporanea, = i puntuali
inter-
venti di Morra, Cajumi, Polledro, Ginsburg sulle letterature anglo-americane e russa, per condurre la « battaglia contro culture e letterature costrette nei limiti della provincia, chiuse dalle frontiere di dogmi angusti e di piccole patrie » 18 — ritorna su quelle di « Solaria » di cui Ferrero insieme ad Arturo Loria e Nino Frank fu tra i più assidui mediatori. L'articolo Perché l’Italia abbia una letteratura europea resta un vero e proprio simbolo dell’europeismo di « Solaria », di un’Europa però che se per l’intellettuale barettiano aveva rappresentato l’orizzonte e il punto ideale di riferimento ideologico della civiltà e della democrazia neo-liberali ora viene trasformandosi in « mito letterario »: « L’Europa solariana è, d’altra parte — afferma Luti — il prodotto di una evidente trasposizione in termini mitici e letterari della dimensione civile dell’Europa barettiana. I solariani non tengono nel giusto conto la vera realtà europea e soprattutto tendono ad ignorare la profonda convergenza ormai in atto tra Italia fascista ed Europa libera ». 19 Pertanto l’articolo Perché l’Italia abbia una letteratura europea, viene letto più come invito all’antiprovincialismo contenuto nelle forme di una letteraria obiezione di coscienza che come ripresa dei temi a cui s’ispirava il liberalismo gobettiano del « Baretti ». Ma invero è proprio sulla traccia di questo fervore morale che ritorna Ferrero, denunciando i letterati chiusi nel loro « aureo isolamento [...] che una guerra turba meno di una recensione maligna », nella difesa della civiltà europea unificata dal « sentimento morale [...] chiave della vita non solo europea, ma universale » e dal « desiderio della giustizia ». 20 L'incontro fra tradizione e modernità sul terreno di una morale universale, alla luce di un'idea della letteratura intesa come « documento umano » il cui modello non è più quello della « prosa d’arte » di marca rondiana, ma quello del romanzo al servizio dell’uomo, diventa per Ferrero, che è tra i solariani uno dei più convinti assertori della moralità dell’esercizio letterario, momento di centrale interesse. È non a caso sarà proprio lui a mediare, per primo, sulle pagine di « Solaria », l’opera di Svevo, al quale la rivista dedicherà nel ’29 un numero unico, nell’intento di far conoscere una narrazione finalmente ricca di «vita» e capace di offrire documenti di « umanità ». È chiaro dunque che per Leo Ferrero lo scrittore ha un imprescindibile dovere sociale: se scrive è per servire l’umanità, altrimenti che taccia. Ad un’attenta lettura delle sue opere si noterà che sotto forme letterarie più diverse, comune è lo scopo perseguito dall’autore: dimostrare la necessità dell’ordine e della legge. Si legga a questo proposito in Angelica il dialogo fra Orlando e il Reggente durante il quale Orlando conclude: | Que les bourgeois méprisent la loi, passe encore; ils ne sont affamés que d’argent, et il est plus facile de devenir riche en violant la loi qu’en la respectant. Que les ministres la méprisent, passe encore; ce sont souvent des hommes faibles qui se croient forts, et qui ignorent que pour bien gouverner, sans se plain22
dre des entraves, de la manière la plus difficile mais que les poètes méprisent la loi, cela m'étonne vraiment, parce que la loi, monseigneur, est la plateforme du rêve. Croyez-vous qu'on puisse écrire des vers, sculpter des statues, peindre des tableaux, imaginer dans une chambre silencieuse les plaisirs vagues et déchirant de la musique, si les Régents ne respectent pas la loi, si les juges ne la font pas observer? 2!
Allo scopo di raggiungere ideali universali e supremi contro la « dialettica dei distinti », Leo va in cerca di un ordine possibile, umano. Sia che leggiamo Angelica o il Leonardo ci accorgiamo che l’autore tende ad inquadrare ogni fatto della conoscenza nelle forme dell’universale: per il Leonardo nella ricerca di un principio che trascenda l’arte, per Angelica che superi la necessità, cioè che trasformi la politica in libertà. Questa aspirazione alla giustizia e alla libertà ad un tempo, si trasforma in intimo tormento di fronte alla lotta impari tra il bene e il male. Il bene non è una condizione spontanea e gratuita, ma una continua conquista del suo contrario. « La morale deve presentarci l’immagine dell’uomo ‘come deve essere’ — annota nei taccuini — il fatto che la gente si ribelli, quando si vuole applicare questo principio alla politica, dimostra che nella politica non c’è morale, non solo ma la massa esige che non ci sia. Perché se no anche la politica dovrebbe essere fatta non tenendo conto dell’uomo ‘com’è’ (se no sarebbe pazzia), ma per avvicinarsi al modello più alto cioè alla politica come dovrebbe essere. La scienza dell’uomo deve essere un mezzo mentre per quasi tutti è un fine. E così anche la politica non potrà liberarsi dall’immoralità perché cerca le sue regole in se stessa invece che in un principio posto al di fuori di sé ». I fattori che rendono possibile ciò sono in primo luogo la costituzione delle élites in conformità con quel principio filosofico-sociale: il pensiero scende dall’alto e il fatto sale dal fondo. Così precisa sulla funzione delle élites: Quand une societé ne sait plus à quelles lois elle obéit, elle s’en donne de toutes neuves. Les milles problèmes insolubles que pose une grande civilisation finissante découragent les ésprits les plus intrépides: chacun cède à l’attrait des réformes radicales, tout ce qui est simple semble bon [...] Par contre, une societé qui a assez d’imagination pour concevoir des principes, et assez de force morale pour les appliquer est en même temps stable et prête à se transformer. Elle ne s’écarte point d’une certaine ligne de conduite tant qu'elle sent des principes, elle peut en choisir de nouveaux pendant les crises de son histoire. ?? Senza una sana morale non ci può essere per l’uomo nessun principio di equità e neppure equilibrio di vita. La felicità, che è la meta dell’esistenza, non può essere raggiunta che attraverso l’ordine: l’ordine non può essere stabilito senza leggi e senza principi che regolano la vita come l’arte, la poesia, la pittura. La morale — dice Leo — est la science qu’aide l’homme à eviter la désillusion, cioè a renderci meno infelici, tanto che in un secondo tempo definisce la morale come la science du bonheur dans la mésure où elle enseigne que l'homme ne peut pas se satisfaire soi-même; elle nous donne des principes pour mantenir l’equilibre entre nos moi et entre notre moi et l’univers. 8 Caposaldo di questa convinzione è la teoria della « necessità », « maestra e tutrice della natura » che procede all’ombra del Trattato di pittura di Leonardo da Vinci: Che cosa sia veramente la ‘necessità’ non è facile dire. Leonardo non la definisce che dai suoi effetti. Questa necessità, più che vista è sentita, amata come il segreto regolatore di quell’illusorio disordine. *O potente e già animato strumento dell’artificiosa natura — esclama Leonardo, in un passo che è quasi un canto, ed ha ormai conquistato molta gloria — o stupenda necessità, tu costringi con la tua legge ogni effetto per la più breve via a partecipare della tua cagione’. Questa necessità è dunque l’ordine vitale dell’universo, quella che governa i rapporti fra le cause e gli effetti con delle leggi: la legge della omogeneità della natura, che permette l’analogia, la legge della causalità-meccanica, e la legge del minimo mezzo. ® Valga come esempio il modo in cui Leo Ferrero spiega cosa intendesse Leonardo per imitazione della natura: se la natura non è semplice spettacolo, ma ordine regolato da leggi universali, imitarla non significa trasporre sulla tela la realtà fenomenica, come intendevano artisti e teorici del Rinascimento, ma imitare le leggi che governano quella realtà, per dar vita ad un microcosmo pittorico il più possibile vicino al cosmo.
forma mentis della cultura italiana,
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Queste leggi sono le condizioni dell’esistenza del mondo artistico, come di un qualcosa in cui c’è uno svolgimento, un ordine, un nesso tra parte e parte, tra causa ed effetto. Solo per questo interno ordinamento ogni elemento della vita volitiva e intellettiva ha una conoscibilità per lo spirito. L’artista quando crea definisce con norme e leggi fisse il suo oggetto di verità che per quanto immaginato deve avere coerenza con i fondamenti del mondo stesso, sia con quelli di ordine fisico sia con quelli di ordine spirituale: Leonardo considerava la natura come il fine supremo dell’arte [...] perché voleva raggiungere un microcosmo, creare cioè col pennello un piccolo mondo in cui tutte le cose si sentissero vivere, non solo come superficie, ma come oggetti sottomessi a una necessità, densi e gravi di leggi. ?° Cosicché il processo d’imitazione si risolve in una gara con la natura — concetto estraneo agli artisti del Rinascimento il cui scopo esclusivo era quello di raggiungere la bellezza — resa eroica dalle difficoltà che l’artista, e in particolar modo il pittore, deve affrontare, data la disparità dei mezzi a disposizione: un pennello, una superficie piana e dei colori: Dico esser più difficile — scrive Leonardo — quella cosa che è costretta a un termine che quella che è libera. Le ombre hanno i loro termini a certi gradi, e chi n’è ignorante, le sue cose saranno senza rilievo, il quale rilievo è l’importanza e l’anima della pittura. Il disegno è libero, imperocché si vedrà infiniti volti, che tutti saranno varii. E chi avrà il naso lungo e chi lo avrà corto. Adunque il pittore può ancora lui pigliare questa libertà e dov’è libertà non è regola. 26 All’autore preme sottolineare, nella sua analisi, la spiritualità del pensiero di Leonardo, in quanto è affermazione di un processo attivo, creativo dell’artista di fronte alla natura. Una produzione artistica morale è dunque indissociabile da ogni forma d’arte; essa prende valore dal maggiore o minore avvicinamento all’espressione dello spirito. L’attività dello spirito costituisce dunque la sintesi della volontà con la facoltà intellettiva. Il vero valore del principio volitivo che muove lo spirito è dunque l’esigenza dell’assoluto. Pertanto quelle attività fondamentali dello spirito, ovvero la religione, la filosofia e l’arte, per Ferrero, non sono autonome e distinte, ma volte, attraverso la luce razionale, a indicare la via verso l’assoluto, e quindi verso quell’Ente ultimo che è Dio. Come Valéry, Leo Ferrero converge l’attenzione su due fattori capitali: l’importanza del mezzo
tecnico, il ruolo della coscienza nella creazione artistica e la necessità dell’Irrazionale
vis à vis del Razionale, sottolineando l’importanza di quest’ultima posizione in quanto nega la superiorità dei « concetti filosofici » su quelli « empirici ». E la forza dell’artista sta tutta nella coscienza che controlla le immagini. L’ispirazione esiste, dice Valéry, ma da lucido cartesiano qual è, afferma che non è mai pura e concettuale. Su questi punti la visione estetica di Leo Ferrero, per quanto la sua analisi su Leonardo non voglia essere di tipo filosofico ma donner des pensées ai filosofi, coincide con quella di Valéry, discostandosi da Croce. Ricordiamo che la speculazione crociana, dalle prime ricerche sull’arte agli ultimi saggi — La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893): le Tesi fondamentali di estetica (1900) ; L’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902); L'intenzione pura e il carattere lirico dell’arte (1908); Problemi di estetica (1909); Breviario di Estetica (1912); Nuovi saggi d’Estetica (1920); Aesthetica in nuce (1928); e infine l’ultimo saggio La Poesia — subisce questa evoluzione: in un primo periodo l’arte è rappresentazione del reale possibile, in opposizione alla storia rappresentazione del «realmente accaduto » e quindi l’arte è espressione o conoscenza della natura o delle impressioni (sensazioni e sentimenti), dell’individuale, al di là della distinzione di reale e di irreale. Diversamente la filosofia è conoscenza di relazioni di cose e quindi di realtà spirituale, dell’universale e della distinzione di reale e irreale. Ma, dopo il 1905, Croce abbandona la concezione estetica della storia e identifica la storia con la filosofia; anche la precedente estetica è in realtà negata, e offre all’arte come campo tutto il reale. La differenza tra l’arte e la filosofia è che l’arte conosce il reale come la filosofia, ma non
distingue nel reale intuizione da concetto, volizione da norma etica. L’arte insomma vive, sottolinea Croce, fintanto che non si giunge
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all’autocoscienza.
Mentre per Ferrero l’arte è l’autocoscienza della continua sintesi volitivo-intellettiva, del volere come aspirazione che non si contenta del finito. L’arte suggerisce « l’infinito »: Il fine di un pittore, di uno scultore o di un letterato non è la natura, ma quello che vorrei chiamare l’infinito della natura. Non penso né all’infinito metafisico, né all’infinito matematico ;cerco di esprimere con questa formula, l’incalcolabile molteplicità di aspetti, che offre ogni cosa della natura, e le sostanze innumerevoli di cui si compone. 2? Questa attività dello spirito, il cui valore risiede nella relazione con l’assoluto, sospinge gradatamente verso quel definitivo processo che conduce al problema religioso. Il problema religioso è sempre stato per Leo, nonostante la doppia eredità del razionalismo ottocentesco, essendo nipote di un grande criminologo e figlio di un grande storico per niente interessato alla religione, una questione assillante. Leo per tutta la vita ha cercato Dio: nella patristica cristiana,
nella
tradizione
esoterica
giudaica,
nel
buddismo,
nel confucianesimo.
Ne sono un esempio i suoi poemetti e preghiere del libro postumo Désespoirs, ma in modo particolare quel suo romanzo Espoirs che, sotto il titolo di Commedia italiana doveva iniziare un ciclo di romanzi di cui Espoirs rappresentava il primo volume, rimasto senza seguito per la prematura morte dell’autore. Disquisendo sul destino della sua generazione, mette l’accento su quello che sarà il punto focale della sua visione del mondo quando osserva che la civiltà occidentale ci offre la possibilità di scegliere fra la santità e la vita istintiva: « si nous vivons sans le contrôle de nos passions, nous ne sommes pas des sages, nous sommes des saints manqués ». 28 E sarà proprio il protagonista di Espoîrs, Bernardino Celli, alter ego di Leo, ad illustrarci la catarsi della vita interiore del suo autore. Una catarsi lunga e difficile le cui tappe corrispondono a quelle della conversione di Leo. L'errore di Bernardino — ci dice Leo — sta in ciò che «la preuve de l’existence de Dieu, on ne la trouve pas en lisant des raisonnements sur Dieu, mais en réfléchissant sur les vicissitudes humaines et sur sa propre vie ». 29 L’incontro con l’ebreo della caserma, Gabriele Pavia, risulterà decisivo per Bernardino: « moi aussi — gli dice Pavia — j'ai cherché la foi dans les livres et je ne l’ai pas trouvée [...]. La foi, n’est pas un problème, c’est une passion. Une passion est toujours indépendent du raisonnement ». 30 Sarà una vera e propria lezione di vita, illustrata in poco tempo durante un incontro al bar della caserma dove Bernardino si era rintanato la sera di Natale. Pavia gli farà capire che « c’est dans le sacrifice, dans la compression de ses instincts, dans l’oubli et dans le contrôle de soi-même qu’on trouve le bonheur ». 81 La salvezza nasce dall’applicazione di questi principi, poiché l’esperienza mostra, dice ancora Pavia a Bernardino, che « l’assouvissement déréglé de ses passions porte aux regrets, aux désillusions, aux désespoirs » e per evitarli «il a fallu des organisation, des religions... Le Christianisme y est arrivé en dirigeant l’amour de soi vers Dieu ». 82. È dunque proiettando l’amore di sé in Dio che la civiltà occidentale raggiunge l’ordine e la pace. Ecco perché la religione è così importante, poiché insegna all’uomo a convogliare le proprie passioni, causa di disordine, verso Dio che rappresenta «un absolu à quoi s’accrocher », «le createur infinitement bon et responsable de l’ordre universel » al quale ci si rimette « pour le choix des ses buts », di cui si può « suivre les lois aveuglément ». 83 Certo la ricerca di Dio, in Bernardino e quindi in Leo, non è fine a se stessa, ma via per
liberarsi dall’angoscia; infatti quando Bernardino è riuscito a credere in Dio si è sentito invaso da una gioia deliziosa: « Oui, chaque fois, c’était la même qui après quelques temps s’était tout à coup effacée ». 34
sensation de paix, de joie,
La felicità dunque non è — e qui Ferrero si fa interprete del pensiero roussauviano (La — dove comunemente si crede, nel lusso, nei salotti, nel libertinaggio, nell’ateismo, essa è in Dio, nella natura, che ci riconduce verso la semplicità. La natura offre all’uomo, quando sappia « vedere », andare oltre « il muro trasparente » della realtà fenomenica, esempi di manifestazione divina come l’episodio della sorgente per Bernardino, che affaticato nella vana ricerca di una sorgente si stende all’ombra di una Nouvelle Héloise)
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roccia, quando vede giungere una pecora che fa il giro della roccia e se ne va per poi tornare una seconda e terza volta. Incuriosito guarda dietro la roccia e scopre « une petite source couverte par des cailloux que les brebis venaient de remuer ». Bernardino, che durante questo periodo medita su Dio, si dice: « Cette source était là et moi, je ne l’avais pas vue. Mais les brebis qui pourtant en savent bien moins que moi l’ont tout de suite gloirée. Ainsi Dieu pourrait être ici à côté de moi, il a pu exister toujours près de moi et moi, je ne le vois parce que il ne sait pas le reconnaître ». 35 Certo non è facile auscultare il silenzio delle cose, poiché spesso l’orecchio si smarrisce nei rumori della vita. Soltanto in certi istanti come quello di Bernardino anzi descritto o questo di Pavia, affiora la realtà profonda delle cose: Il m'arriva une fois — spiega Bernardino a Pavia — de me réveiller au milieu de la nuit e J°entendis un rossignol chanter dans un arbre [...]. Alors je me suis dit: ‘si jusqu'ici je n’ai pas entendu ce rossignol ce n’est point parce qu’il ne chantait pas, mais parce que je dormais. Dieu est comme ce rossignol: il doit etre là, mais je dors toujours’. Le matin... je croyais à Dieu, %6 e la terra ha la grazia di riflettere il cielo che qui ci è lontano. Non è perciò senza motivo che l’autore sottolinea la sua «illuminazione interiore » in virtù di qualche « istante » poiché la sua ricerca di vita percorre la via dell’espoir — come indica il titolo del suo romanzo — ovvero della speranza che si proietta ansiosamente nell’avvenire, ignorando la prospettiva temporale dell’espérance, della virtù teologale che permette all’uomo di entrare davvero nell’orizzonte del tempo, come indica Charles Péguy ne Le Porche du mystère de la deuxième vertu: ...l’éternité même est dans le temporel Et l’arbre de la grâce est raciné profond Et plonge dans le sol et touche jusq’au fond Et le temps est lui-même un temps intemporel, in quella temporale pienezza dell’oggi in cui si perdono e si annullano le umane fatiche. MANUELA
SCOTTI
1 Piero GOBETTI, Illuminismo, in « Il Baretti », n. 1, 23 dicembre 1924, p. 1. ? ORESTE [GucLIELMO ALBERTI], Lettera d’occasione, in « Il Baretti », 1° febbraio 1925, p. 10. 3 Giorgio Luti, La letteratura nel ventennio fascista. Cronache letterarie tra le due guerre: 1920-1940, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 87. 4 Leo FERRERO, dai Taccuini, 12 gennaio 1929. 5 Leo FERRERO, Paris, dernier modèle de l’ Occident, Les Editions Rieder, Paris 1932, p. 152.6 Leo FERRERO, Amérique, miroir grossisant de l’Europe, Les Editions Rieder, Paris 1934, p. 18. ? Ibidem, p. 26.8 ORESTE, Lettera, cit.9 Leo FERRERO, Dialogo sul progresso, in « Il Baretti », nn. 11-12, novembre-dicembre 1927, p. 60. 1° Cfr. SANTINO CARAMELLA, Tradimento degli scrittori, in «Il Baretti», 16 febbraio 1928, pp. 5-6. 1! Leo FERRERO, dai Taccuini, 18 febbraio
1929. !? Ibidem, 20 febbraio 1929. 13 Ibidem, 19 febbraio 1929. 4 Leo FERRERO, Perché l’Italia abbia una letteratura europea, in « Solaria », 1° gennaio 1928, p. 32. 15 Cfr. « Il Baretti », aprile 1925. 19 Jbidem, luglio 1925. 17 Ibidem, settembre 1925. 18 Piero GOBETTI, Lettera a Parigi, in «Il Baretti », 18 ottobre 1925, p. 149. 1° Grorcio LuTI, La letteratura, cit., p. 87. 2° Cfr. Leo FERRERO, Perché PItalia, cit., p. 33. ®! Leo FerRrERO, Angelica, Les Editions Rieder, Paris 1934, p. 109. 2? Leo FERRERO, Paris, cit., pp. 99-100 e p. 109. 2° Leo FERRERO, Désespoirs, cit., p. 171. 2 Leo FERRERO, Leonardo o dell’arte, Le Nuove Ediz. di Capolago, Lugano 1935, pp. 92-93. 25 Ibidem, p. 100. 26 Ibidem, p. 115. ?? Ibidem, pp. 177-178. 28 Leo FERRERO, Espoirs, Les Editions Rieder, Paris 1935, P. 274. 2° Ibidem, pp. 178-179. 8° Ibidem, pp. 275-276. #1 Ibidem, p. 272. 82 Ibidem, p. 272. 83 Ibidem, fx 272. 34 Ibidem, p. 279. % Ibidem, p. 186. 3 Ibidem, p. 276.
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NOTIZIA
BIOGRAFICA
Se ogni grande vita ha una sua cifra, quella di Leo Ferrero, seppur breve poiché consumata nell’arco di soli trent'anni, ne ha avuta una particolarmente invidiabile: la facoltà di muoversi in una varietà di luoghi geografici e di ambiti storico-sociologico-letterari, incontrando numerosi « spiriti » magni e contribuendo con loro ad allargare gli orizzonti della cultura. Proviamo a seguire l’itinerario dei suoi spostamenti geografici: nasce a Torino il 16 ottobre del 1903 da Guglielmo Ferrero e Gina Lombroso (figlia del celebre Cesare Lombroso). La sua educazione linguistica italiana corre di pari passo con quella inglese e francese tanto che le sue primissime composizioni sono in francese e le prime poesie in inglese, come si viene a sapere da quel diario Lo sboccio di una vita in cui la madre Gina Lombroso annotava fedelmente lo sviluppo fisico-psicologico-intellettuale del figlio dalla nascita fino all’età di vent'anni con la stessa obiettività scientifica con la quale si era messa a scrivere la vita del padre Cesare Lombroso (morto qualche anno dopo la nascita di Leo). Viene formandosi una cultura letteraria e filosofica al Liceo e all’Università di Firenze dove i genitori sì erano stabiliti dal 1916. Il romanzo Fantasio rappresenta, come spiega nella dedica ai genitori: « il primo passo della mia strada letteraria », seguito da numerose poesie — gran parte delle quali sono state pubblicate in ordine cronologico dalla madre ne Lo sboccio di una vita — e dal Diario della mia vita studentesca in cui registra i suoi stati d’animo, le amicizie che seppe intrattenere durante la sua permanenza a Firenze. Appartengono a questo periodo i drammi in versi, d’argomento mitologico: La favola dei sette colori (1919) e Il ritorno di Ulisse (1921), ambedue pubblicati postumi, nel 1940. Nel 1919 iniziano i viaggi: prima a Parigi, poi nel 1922 è con il padre a Monaco di Baviera, Berlino, Stoccolma, Lund, Copenhaghen, soggiorni da cui scaturisce una serie di articoli su Parigi, pubblicati nel « Figaro », su Tilgher nell’« Écho de Paris ». Nel 1923 compone La chioma di Berenice, un dramma in tre atti in prosa. Il teatro sarà un punto fermo nella carriera letteraria di Ferrero. Egli sceglie di rappresentare il dramma di Catullo proprio per la possibilità che il testo gli offriva di applicare i metodi drammatici ad un soggetto antico. Infatti così scrive all'amico Jean-Jacques Bernard il 20 agosto del 1922 (la lettera è stata poi pubblicata nella prefazione a // ritorno di Ulisse e La favola dei sette colori) : « ...Jai un fort penchant vers une forme d’art classique. Lassé des perversions littéraires, des intrigues invraisemblables, des drames à recette où les fous étaient toujours protagonistes par basse spéculation commerciale, des recherches toujours nouvelles et toujours plus insensés pour la transformation du théâtre moderne en un autre pire encore — come ces tyrans de Athènes — j'ai regardé vers la simple e bien construite puissance antique comme vers une solution du problème et je me suis trompé dans cette source vivifiante en adoptant de l’antiquité la forme et les sujets ». La chioma di Berenice è il primo dei suoi tre drammi in cui si valorizza l’arte per l’arte, seguito nel 1924 da Le campagne senza Madonna e quindi nel 1929 da Angelica, in cui la concezione dell’arte per l’arte viene ribaltata per affermare che l’opera d’arte senza contenuto morale non ha alcuna utilità sociale e alcun valore. Intanto legge Sant'Agostino e i classici latini per un libro che scriverà con il padre sulla Palingenesi di Roma: si tratta di un saggio sulla storiografia romana e la sua varia fortuna dal Medio Evo al Rinascimento fino a Machiavelli. Nel 1922 si mette in contatto con una società d’avanguardia teatrale francese, « La Chi-
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mère », fondata per rinnovare l’arte drammatica. Fa progetti di drammi. Cerca di formare in Italia un gruppo teatrale analogo a quello francese, ma il progetto fallisce. Nel 1924 va a Roma per rappresentare il dramma Le campagne senza Madonna al Teatro Moderno, richiamando l’attenzione di critici teatrali come Tilgher e di drammaturghi come Pirandello che lo invitano a fondare con lui il « Teatro dei 10 ». È messo al bando dal fascismo per le idee politiche e democratiche dei genitori: « Il Convegno » dichiara che non può più pubblicare niente di lui, « La Fiera letteraria » rifiuta la sua collaborazione, le compagnie teatrali non accettano più le sue commedie. Sulla persecuzione politica ad opera del fascismo, che Ferrero avversò fin dal suo sorgere condannandolo come movimento illegittimo, ci parla il Diario di un privilegiato sotto il fascismo, che scrisse dall’ottobre 1926 al dicembre dell’anno seguente, allorché abbandonò l’Italia dove la sua vita di intellettuale era sempre più ostacolata dai « giri di vite » della dittatura mussoliniana. Ma come indica nella prefazione la madre di Leo: tutta la famiglia Ferrero si trovava in una situazione di privilegio nei confronti del fascismo. Guglielmo Ferrero non apparteneva ad alcun partito politico per cui le persecuzioni subite dai fascisti si limitarono solo al divieto di pubblicazioni di libri e articoli. Questo diario è un importante documento storico che l’autore non pensava certo di pubblicare, la cui ispirazione vitale riversò poi nell’ultimo dramma Angelica, un vero e proprio «J'accuse » da cui si può capire che per lui la forza del fascismo risiedeva soprattutto in una deficienza morale degli italiani: il fascismo non era la causa bensì l’effetto del crollo dei valori morali per cui l’universale acquiescenza alla sopraffazione isolava i pochi oppositori da renderli facile preda del potere. In Angelica ritrae il dramma dell’Italia, cioè la sua prostituzione alla tirannia da cui non può liberarsi perché per il momento se ne compiace troppo. Così i puri prendono la via dell’esilio, ma senza poter dimenticare la loro patria e il loro cielo che « cosparge di dolcezza gli esiliati che nutre e poi strema ». Il fascismo gli faceva così pagare la sua opposizione al regime, per cui, costretto ad abbandonare il teatro, si impegna nello studio di Dante — dalle cui note lasciateci nei suoi quaderni scaturirà nel 1940 il saggio dal titolo Appunti sul metodo della Divina Commedia — presto mutato in un altro su Leonardo da Vinci nella speranza di ottenere una cattedra di storia dell’arte. Il 1° gennaio 1928 dunque parte per Londra dopo aver dato avvio alla sua tesi su Leonardo da Vinci. Risultato del soggiorno londinese (durato tre mesi) fu il saggio che pubblicò sotto il titolo Le secret de l’Angleterre nell’edizione francese (1941), e in edizione italiana nel 1944. Come avverte Guglielmo Ferrero nella prefazione, l’autore non andò a Londra come il viaggiatore o il turista, ma come l’esule che cerca una nuova patria e la trova proprio in questo paese di cui affresca la civiltà sociale che insegna a vivere rispettando le regole, e tenendo conto degli altri. Questa nozione di morale manca, egli dice, anche alla civiltà intellettuale tipica dell’Italia che « octroie à l’individue la faculté de faire sa carrière personelle, même au détriment des autres ». Persuaso che ormai non ci fosse più possibilità di scrivere in Italia, nel 1929 si stabilisce a Parigi dove completa il suo saggio su Leonardo, che pubblica nello stesso anno a Parigi e a Torino con una prefazione di Paul Valéry. Al soggiorno parigino sono da ascrivere le Meditazioni sull’Italia, pubblicate nel 1939, in cui confrontando le due letterature, quella italiana e quella francese, con una metafora afferma che la prima non è una catena di montagne rilegate dalle Prealpi, ma un caos di blocchi isolati che sorgono su una grande pianura uniforme, mentre la seconda è una successione di massicci montagnosi, di catene continue. La differenza fondamentale sta nel fatto che i francesi si raggruppano in artisti, letterati, uomini politici, secondo le proprie affinità. Al contrario l’isolamento è un martirio inflitto a gran parte degli italiani. Nel 1931 riprende a viaggiare: visita Grecia, Turchia, Romania, per conoscere l’oriente dell’Europa, ma soprattutto per scrivere articoli sugli ultimi re, per il « New York Times
Magazine » (A modern King democrat Albert I of Belgium, in « The New York Times Magazine », 16 aprile 1933 e Portrait of a King Carol of Rumenia, ibidem, 8 gennaio 1933). Quando si dice che Leo Ferrero visitò sotto vari gradi di latitudine paesi e popoli non vorremmo che questa formulazione sembrasse riduttiva: egli univa alla incredibile ricchezza di esperienze culturali un’ineguagliata capacità di sondare i campi d’indagine a cui si applicava, studiando le differenze specifiche di civilizzazione prodotte dall’influenza combinata della razza, del clima, dell’idioma, dalla cui analisi è uscita una vera e propria galleria di ritratti sociali: Paris, dernier modèle de l'Occidente (1928-1931), Le Secret de lAngleterre (1928), Amérique, miroir grossissant de l’Europe (1932-1933). In merito al saggio su Parigi ottiene una borsa Rockfeller, che lo invita a raggiungere nel 1932 l’Università di Yale a New Haven. Qui scrive saggi sull’America, poi note per un’opera di rinnovamento morale che voleva intraprendere al ritorno (Désespoirs, 1932-1933), poemi in prosa, preghiere, pensieri (1933), un romanzo, Espoirs, che doveva essere il primo quadro di un largo affresco della vita nazionale prima e dopo la guerra mondiale, il cui titolo doveva essere La commedia italiana. Durante questo periodo, per completare le sue ricerche di ordine etico desidera approfondire la civiltà orientale — le note sul pensiero orientale pubblicate nel saggio sull’ America ne sono un avvio — per cui decide di fare un viaggio in India e in Cina, ma, a Santa Fe, alla vigilia della partenza, un incidente d’auto lo uccide il 26 agosto del 1933.
Al termine di questo lavoro desidero ringraziare la signora Nina Ferrero Raditza per la sua generosa disponibilità; il direttore della Fondazione Primo Conti, dottor Paolo Bagnoli, per i consigli apprestatimi, e rivolgere un grazie particolare al professor Giorgio Luti che ha seguito da vicino la stesura di questo libro.
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I
FERRERO
SAGGISTA
RAPPORT
SUR
LE THÉÂTRE
ITALIEN
L'Italien ne s'intéresse pas au théâtre. Térence déjà, dut répéter deux fois sans succès la première d'une comédie, à cause d’une troupe de danseurs de corde et d'une troupe de gladiateurs, qui lui enlevèrent successivement tout son public. Sous l’Empire, les héritiers de la Grèce transformèrent la tragédie en ballet, et la comédie fut délaissée pour le cirque. De même, le peuple italien n’a pas une tradition de romans.
Au succès des Fiancés de Manzoni,
le chef-d'œuvre
des romans
italiens, contribuèrent d'importantes raisons politiques. Et Verga, le dernier de nos grands romanciers, n’a pas obtenu, en vingt ans, cinq éditions des Malavoglia. Comment expliquer cette indifférence? Le peuple italien ne s'intéresse pas à la psychologie, qui est le fondement du drame. Son tempérament est lyrique. Le gros public s’enthousiasme aux tirades vulgaires des dramaturges qui connaissent son faible. Les raffinés apprécient Dante, Leopardi et Pascoli. Mais comme les théâtres sont remplis par le gros public, c’est le mauvais lyrisme qui a du succès, et c’est la psychologie, surtout si elle est fine, qui ennuie et se fait siffler. Est-il donc impossible de maintenir sur les scènes une pièce vraiment poétique, c'est-à-dire, mesurée et sobre, où le lyrisme est continu et de bon aloi, la psychologie pénétrante et discrète? Le Glauco de Morselli, les pièces de Pirandello ont eu du succès, mais La Donna di Nessuno (La Femme de personne) par Lodovici,
a été accueillie avec défiance.
Or, ces trois types de pièces sont particulièrement représentatifs du nouveau théâtre italien. Le Glauco, pièce lyrique, écrite dans un style simple et toscan, s’est imposé parce que le mythe poétique, où les passions étaient grandioses et claires, d’une couleur unie, charmaient le public par leur surface brillante. Et bien que le spectateur n’appréciât pas la beauté de la forme, il était sensible à cette « tristesse majestueuse » et à la douleur élémentaire d’un drame simple, où il reconnaissait ses passions bourgeoises devenues héroïques. Mais Pirandello est aujourd’hui acclamé par ce même public qui le huait il y a trois ans; cependant le théâtre de Pirandello n’a pas changé. Si on laisse de côté l’élément snobisme, qui a une certaine importance, il n’est pas moins étrange qu’une masse inculte et indifférente applaudisse un théâtre hardu, fécond en raisonnements cérébraux et captieux, où l’on doit se donner du mal à comprendre non seulement la clef du drame, et le sens des mots, mais aussi
la parenté des personnages. Or malgré la difficulté du sujet et l'inquiétude, le malaise causés par ces premiers contacts, le théâtre de Pirandello a du succès, parce qu'il est, dans le meilleur sens, populaire. On y trouve quelque chose qui n’est pas clair à la première rencontre, mais qui s’éclaircit à la seconde et enfin s'impose entièrement au public émerveillé après la troisième, la quatrième, la dixième pièce qu'il écoute. Lorsqu'un théâtre peut être compris par sa quantité, et par la répétition des mêmes moyens, il montre que ses racines ne s’enfoncent pas dans la terre commune, mais qu’il existe comme 39
un monde à part, comme une langue étrangère ;on peut le pénétrer avec de l’exercice. Pirandello est original surtout parce qu’il utilise des sujets absolument nouveaux, alors que d’autres renouvellent à travers leur tempérament les éternels sujets de la vie quotidienne. Lorsqu'on a compris certains éléments jusqu’alors inconnus du monde où il veut nous plonger, les difficultés s’évanouissent et le public est flatté de la facilité illusoire avec laquelle il comprend ce qui, au commencement, lui paraissait inabordable. Il s'amuse à écouter une langue mystérieuse et abstraite qui lui semble désormais claire, comme,
en suivant une conférence à l'étranger, on
se réjouit d'apprécier tout simplement le sens littéral des mots. Ainsi, amusant le public avec d’élégants feux d’artifice, ce grand charmeur lui fait tolérer, sans qu'il s’en aperçoive, une idée profonde. On voit, après initiation, que même certains caractères antithéatraux du théâtre de Pirandello — les raisonnements interminables, le besoin, qu’ont ses personnages, de se placer sans trêve à leur place, dans l’échelle des valeurs, celui de raconter à toute heure qu'ils ne se sentent pas le centre, mais une médiocre partie de l’univers — deviennent chers au public, qui cligne de l’œil à son voisin, lorsque les personnages paraissent, en se disant:
« Voilà Pirandello.
Ça, c’est du Pirandello », satisfaits et
personnellement fiers de le reconnaître. Soutenir que le théâtre de Pirandello n’est pas populaire, c’est comme si l’on croyait qu’une langue étrangère ne peut être parlée que par les savants, parce que chez nous le peuple l’ignore. Car le public, après quelque temps, jongle avec des idées vertigineuses, comme si elles lui avaient été toujours familières. Pirandello restera comme une île splendide, sombre et désespérée. Lodovici, au contraire, nous intéresse comme un arbre qui fleurit sur notre terre féconde et sereine, et nourrit des fruits naturels. Son théâtre, qui devient chaque jour plus humain, se reliera donc au théâtre du passé tout en annonçant le théâtre de l’avenir. Lodovici a écrit La Donna di Nessuno, antérieure à Martine de Jean-Jacques Bernard. Ces deux femmes appartiennent à la même famille. La Donna di Nessuno est plus tourmentée, plus terrible dans son calme, plus moderne. Elle vise plus haut, mais n'y atteint pas. Martine est plus modeste, plus simple, mais elle est par aite. Lodovici a fait une œuvre révolutionnaire sans le savoir. C’est son grand mérite. Mais c’est aussi pour cela que le gros public s’en méfie. Lodovici a rencontré une créature étrange et intéressante. La nouveauté, l’aristocratie, la discrétion mystérieuse de cette femme n’ont pas permis à l’auteur d’analyser les rouages secrets de son âme, de connaître les lois qui régissaient et expliquaient les actes de sa vie. Mais, il a vu avec une grande force tous les détails et a deviné obscurément certains côtés de ce type polyédrique; de sorte qu’il a procédé, pour écrire son drame, à l'envers. Au lieu de faire découler, des lois générales, les petits faits, artificieusement disposés pour que le spectateur remonte à ces lois générales, il a reproduit toutes les actions, les manières, les expressions, les paroles, les silences de cette femme, tels qu’il les avait observés, et en les distribuant à coups de pinceau, comme un peintre impressionniste. Chaque phrase examinée à part, toute seule, se vide de sens, a l’air d’une phrase quelconque, presque inutile. Mais ces dialogues simples, d’une tranquillité tragique, composés de phrases courtes et communes qui se suivent avec nervosité, gonflées de significations inexprimées et closes, finissent par composer mystérieusement le tableau sous nos yeux, sans que ni l’auteur ni le public ne comprennent comment on est arrivé là. On peut dire que Lodovici est parvenu à connaître son personnage, après en avoir écrit le drame. 34
Malheureusement, cette pièce très significative, que j'ai choisie pour représenter un courant, plein d’avenir, du théatre italien, ne peut que rester unique parmi les œuvres
de cet auteur.
Au contraire de celles de Pirandello, elle est d’ailleurs d’un
genre qu'on saisit immédiatement ou qu'on ne saisira jamais. La situation du théâtre italien serait donc très triste, car le public composé de gens de tous les milieux, qui veulent s'amuser, et tombent au hasard sur un chef-
d'œuvre ou sur une petite pochade, n’est absolument pas obligé de se casser la tête pour comprendre le sens tragique d’une phrase apparemment tranquille, même
si c’est la Gramatica
qui rend sensible, comme
dans La Donna
di Nessuno,
les intonations les plus délicates et les plus subtiles. On commence toutefois à espérer. À Milan le « Convegno », la plus vivante des revues et le plus important des centres intellectuels et artistiques italiens, dirigé par Enzo Ferrieri, est en train de fonder un théâtre d’art. Ce théâtre, le premier théâtre d’art italien, se rattache à la tradition du Vieux Colombier. Il recherchera des décors qui exigent le minimum de moyens. Son directeur, dans un numéro spécial du « Convegno » sur le théâtre, nous cite comme le modèle de décors une évocation de faubourg, réussie avec un seul arbre et une bouteille renversée dans un buisson. Mais la collaboration de Gordon Craig et de Appia nous laisse prévoir quelques expériences plus complexes. Des auteurs étrangers, ils choisiront ce qui se rattache à notre sensibilité latine,
et ils n'auront pas de scrupules à dépayser des œuvres de climat nordique. C'est avec les petits théâtres que nous arriverons à cultiver un public indifférent et fantasque et à permettre l’éclosion d’un théâtre italien de poésie, simple, humain, exempt de lyrisme facile. [« Vita », marzo
ARTE
CLASSICA
E ARTE
1924; firmato Leo Ferrero Lombroso]
DECADENTE
Noi viviamo in tempi in cui la confusione dell’arte non è minore della confusione politica, vale a dire ha raggiunto il suo ultimo stadio, è come un tisico di terzo grado. La prima cosa che ci colpisce quando osserviamo con occhio imparziale gli scontorcimenti di questa moribonda arte moderna, è la scomparsa dei limiti fra le diverse arti particolari. Non soltanto, per esempio, nella letteratura — in cui i romanzieri fanno del teatro come se fosse un romanzo, i poeti scrivono romanzi come prima componevano liriche, e ci sono dei filosofi che canonizzano in sistemi
queste aberrazioni — ma in un campo più vasto possiamo vedere la pittura che si insinua pian piano fra le note musicali, e la poesia che vuol sostituirsi alla pittura, la quale ha spesso la pretesa di essere poesia. Il Caylus che Lessing prende in giro nel Laocoonte giudicava un poeta buono o cattivo secondoché dalle sue opere si potevano trarre molti o pochi quadri pittorici. Noi non siamo lontani da questo principio. Ci sono molti scrittori, che senza formulare
una
teoria spendono
tutta la loro
attività descrivendo con la penna come pittori raffigurerebbero coi pennelli. Il Lessing pone con molto acume i limiti fra le due arti, scegliendo due episodi dell’{liade, Pandaro che scaglia una freccia e il consesso degli dèi. E dice: « Seb00
bene ambedue gli argomenti, essendo visibili, si prestino ugualmente alla pittura propriamente detta, c'è nondimeno fra loro questa differenza sostanziale, che il primo è un’azione visibile progressiva, le cui varie parti si succedono a poco a poco in un periodo di tempo;
il secondo invece è un’azione visibile permanente,
le cui
varie parti si svolgono l’una accanto all’altra nello spazio. Ora, se la pittura, pei suoi caratteri
e pei suoi mezzi
d’imitazione
che può unire soltanto
nello spazio,
deve in tutto rinunziare al tempo, le azioni progressive, in quanto progressive non appartengono ai suoi argomenti, ma essa deve accontentarsi delle azioni coesistenti e di soli corpi che facciano supporre dai loro atteggiamenti un'azione ». Questi limiti che mi paiono definiti molto ragionevolmente non sono mai stati meno osservati. Ne dovremo riparlare un po’ più in là con maggiore diffusione. Ma un altro difetto grave della nostra epoca è l’assoluta mancanza di una regola per giudicare il bello ed il brutto. I princìpi su cui si basa l’estetica moderna variano coi quarti della luna. E sono tutti ferocemente assoluti e particolari, con la pretesa
di essere universali. La stessa opera è giudicata bella con un metro, e brutta con un altro metro. E questa civiltà, che per misurare le stoffe è riuscita a stabilire il sistema metrico decimale unico per tutto il mondo, al posto delle innumerevoli misure del tempo antico, è anche riuscita a stabilire innumerevoli misure, al posto dell’antico e unico metro, quando si trattava del bello e del brutto. Una confusione simile si ritrova nell’arte del III secolo dopo Cristo. Divampava allora la lotta fra il principio pagano e quello cristiano. Ma il paganesimo politeista, l’ultimo sostegno dello stato crollante, era ormai vuoto di senso. E il cristianesimo non si era ancora affermato. Non c’era dunque un principio solido, in cui gli uomini potessero trovare un appoggio. E nei tempi di anarchia nasce negli uomini la sete e il disgusto di tutte le fedi. Strana contradizione, che è il tormento delle civiltà moribonde, per cui l’uomo, cercando disperatamente qualcosa di solido e di certo, e volendolo universale ed illimitato, e quindi impossibile, finisce per non credere più nulla o per
credere con frenesia nella più temporale e limitata delle verità, convinto che sia l'eterna e la perfetta. Le lotte teologiche si ritrovano nell’arte e nella letteratura. Le nuove idee cercano di scalzare le antiche, le quali restano in piedi per forza d'inerzia. Il gusto delle classi governanti si pervertisce, perché la miseria, causata dalle guerre e dalle rivoluzioni, ha impoverito l’antica aristocrazia romana, e sale a poco a poco al suo posto una classe di barbari arricchiti calati dalle più lontane provincie, che non hanno più nemmen l’ombra della antica cultura. E diventano di moda le arti rozze ed appariscenti, violente e infantili. Quelle che son sempre piaciute ai barbari dell’età decadenti. Se invece noi guardiamo l’arte del Settecento, potremo trovarla fredda, leccata, antipatica, ma non disordinata. Un metro sicuro per misurare il bello c’era, e l’arte si trovava solidamente arginata fra le sassaie di quei princìpi. Aveva un carattere uniforme ed un livello uguale e continuato. E così l’arte del Cinquecento e del Quattrocento. Che cosa è successo? Come siamo arrivati a quello stadio di convulsioni disperate? Come si possono definire questi due poli artistici? Si dice con molta facilità, scegliendo in una biblioteca un volume, o in una galleria un quadro «il tale autore è romantico, o decadente o classico ». Ci si trova generalmente d’accordo — cosa rara. Questo vuol dire che quelle parole suscitano negli uomini di oggi dei sentimenti e delle impressioni comuni e almeno simili. Ma 36
di rado qualcuno riesce a spiegare perché definisce quell’opera come classica o romantica o decadente. Qui, generalmente, non ci si trova più d’accordo. I più sono persuasi che dire classico, sia come
dire « compassato,
freddo, artificioso », e
romantico « sentimentale, idillico, strano ». Decadente poi li fa vagamente Mallarmé e a qualcosa che non si capisce. Credo
che saremo
dunque
d’accordo,
quand’io
pensare a
dico che l’arte del Settecento,
del Cinquecento e del Quattrocento è un’arte classica. E forse anche quando dico che quella moderna è un’arte decadente. Ma intendiamoci. Arte classica, per me, è quella che ha coscienza dei propri limiti. Fidia e Policleto, Virgilio, Manzoni e Beethoven, sono classici. È un’arte che si pone alcuni problem, limitati, determina una zona e la chiude con muraglioni; poi cerca di risolvere quei problemi e di raggiungere la perfezione in quel piccolo campo, limitato, come ho detto, volontariamente.
Da
questa definizione
derivano
due altri elementi fonda-
re dell’arte classica. . Si ispira specialmente alla realtà esterna. 2. È un'arte costruttiva e quindi proporzionata. Se l’arte classica, infatti, ha coscienza dei propri limiti, vuol dire che è possibile misurarla e controllarla. E questo è lecito soltanto se si ispira e si fonda sulla realtà esterna all’artista, quella che è visibile a tutti. È così naturalmente condotta
all’obbiettività. Per la stessa ragione tende alla costruzione. Il frammento — caratteristico delle civiltà decadenti — non esiste in una civiltà classica, perché non ha né principio né fine, e sfugge ad ogni misura. Costruire vuol dire disporre le parti di un tutto in modo che stiano fra loro armonicamente — che siano cioè proporzionate — e in modo che, mancando una parte, il tutto debba crollare, e essere irriconoscibile. Per queste ragioni ho messo fra gli esempi di artisti classici Manzoni, e ho
pensato proprio ai Promessi Sposi, l’opera per cui è spesso posto con i romantici. Gli è che talvolta la gente confonde il soggetto con la forma. Molti, inconsciamente, fanno questo ragionamento: siccome, nel secolo del romanticismo, sono fioriti i romanzi storici, le storie paurose, e fantastiche e sentimentali, così le storie paurose
e i romanzi storici sono il romanticismo. Se si determina un’arte per mezzo dei soggetti che può scegliere, la confusione aumenta in modo inquietante. Ma in questo caso la confusione è più grave. Avrete spesso sentito dire che la Divina Commedia è romantica. Infatti, in certo senso corrisponde bene alla qualifica di romantica, come si intende comunemente questo pericoloso aggettivo. Scene infernali, violente e dolcissime, contrasti, affermazione del solito «io », linguaggio aspro e
anche popolare, passione, ecc. Avrete anche sentito dire che Petrarca è un romantico perché c’è in lui la smania dell’introspezione. E che per la stessa ragione è un romantico S. Agostino. Ed è romantica la Bibbia, ed Euripide si contrappone al classico Eschilo (mi sono limitato ad esempi letterari per non fare confusione, ma questa vale per tutte le arti). E bisogna ammettere che, senza dubbio, queste opere hanno del sapore romantico. Ma, se noi pensiamo alla nostra definizione di arte classica, bisogna anche ammettere che sono assolutamente classiche nella forma. E se paragoniamo la Divina Commedia al Faust, sentiamo benissimo che, nonostante le scene diaboliche, comuni a tutte e due, sono molto lontane una dall’altra. Ma che cosa è dunque il romanticismo? Nessuno ve lo saprà dire chiaramente: ne
sono state date le più contradittorie definizioni. E la ragione di questa incertezza e di queste contradizioni è che si è sempre voluto contrapporre l’arte romantica DO
all’arte classica, come se fossero due antagonisti, come se l’arte romantica fosse veramente un nuovo campione venuto da non si sa dove a sfidare l’arte classica, come
se fosse stata una Rivoluzione
Francese
di tutto l’antico sistema, mentre
in-
vece il romanticismo è sempre esistito nell’utero stesso dell’arte classica, e figli segreti del romanticismo sono molte opere dalle forme classiche. Il classicismo si ispira alla realtà esterna, ma naturalmente in certi periodi assimila con più zelo una parte di questa realtà. E succede dopo qualche tempo la reazione di quelli che vogliono ispirarsi all’altra parte. Quasi sempre, siccome la tendenza classica è obbiettiva, quest'altra è soggettiva. Ma è una semplice reazione meccanica, che si riattacca a un filone di altre piccole reazioni, fino all’origine
dell’arte. Diventa una rivoluzione seria, per dir così, solo quando si sviluppano i germi della decadenza, che porta spesso nella carne. La reazione alla forma di classicismo del Settecento si è chiamata
romanticismo.
È stata una reazione violenta,
grandiosa finché si vuole, ma è stata soltanto la reazione contro una parte, una forma, un aspetto particolare del classicismo, non contro il classicismo in sé e per sé. Tanto è vero che è ancora, senza volerlo, influenzata dai canoni classici. Il romanticismo ha tanta coscienza dei propri limiti che vuole romperli a tutti i costi, saltando, apposta, sul cavallo fatato di Eleonora, cercando di galoppare senza saper dove. Ha tanta coscienza della costruzione, che cerca, apposta, di rovesciare i pilastri e le cariatidi, per vedere che effetto può dare un edificio rovinato, vuole essere, visibil-
mente, senza forma, senza proporzioni, senza coerenza armonica. È dunque un ribelle alla vecchia legge, ma non è fuori della legge, la sente ancora pesare, tanto è vero che protesta e si divincola. Il romanticismo, inteso in questo senso, può essere anche classico. Come si può non chiamare romantica l’arte che, cominciando a comparire nel IX secolo dopo Cristo, sboccia poi meravigliosamente nel Trecento? Quell’arte delicata e sensibile a tutto l’amore ed a tutto il colore della vita, quell’arte che si avvince, tremando,
alla terra, sua sorella, e respira con genui anacoreti delle Tebaidi? C'è, agli Uffizi, un quadro della mantici del Milleottocentocinquanta. fiume, tagliato da ponti più corti del
l’erba e con le zolle e prega Dio con gli inTebaide che doveva commuovere tutti i roI buoni anacoreti sono dispersi intorno a un loro braccio disteso, solcato da velieri grandi
come un sandalo slacciato. Si innalzano, sulle sommità dei piccoli balzacci, le chie-
sette e le capanne che non sorpassano le loro spalle curve. E alcuni zappano, con una barba bianca più lunga del fiume, i piccoli orticelli annessi, ove ogni filo d’erba è diligentemente miniato. E altri pregano Dio, murati nella cella, e altri insegnano ai lupi le sacre scritture e conversan con pantere docili, e rimproverano le volpi perché hanno strangolato un povero gallo, anch'egli fratello. E pare che il cielo non possa mai essere meno azzurro, su quelle anime azzurre. C'è tutta l’ingenuità, l’afflato idillico, il sentimento della natura, il misticismo che si poteva pretendere in un manifesto romantico. Eppure l’arte del Trecento, è la reazione dell’arte classica contro quella bizantina, ossia contro l’arte ellenistica, decadente, trapiantata con elementi orientali in Italia nel V secolo. E avviene nel Trecento una rivoluzione simile a quella dell’Ottocento. Mi pare dunque di aver dimostrato che l’arte romantica non si può definire con precisione, perché è la trasformazione rivoluzionaria, e quindi sempre diversa, di un aspetto particolare dell’arte classica. Ma questa reazione regionale, ho detto poco fa, può diventare una vera rivoluzione, quando si sviluppano i germi della 38
decadenza, che porta spesso nella carne. L’arte decadente! Ecco il vero antagonista dell’arte classica. Vediamo di riuscire a sviscerare anche questo termine difficile. Quando parlavo delle confusioni e delle contradizioni dell’arte moderna, vi facevo il quadro rappresentativo di un’arte decadente. Che significa questa mescolanza di teoriche sostanze diverse in una stessa coppa? La sovrapposizione della pittura alla musica, della letteratura alla pittura, della lirica al romanzo, del romanzo al teatro? Come se fossero secondo il verso virgiliano « uva spremuta ed acqua dell’Acheloo » da mescersi nel tino? Che significa questa incertezza e questa moltitudine di princìpi fondamentali, per cui ogni uomo ha una misura unica ed infallibile colla quale distinguere il bello dal brutto? Questa è, secondo me, la chiave dell’anarchia:
l’arte decadente è quella che non ha coscienza dei
propri limiti. Da questa definizione, come dalla definizione di arte classica, derivano due corollari, opposti perfettamente ai due primi e cioè: Si ispira poco alla realtà esterna o cerca di trasformarla completamente. 2. È un’arte frammentaria e quindi sproporzionata. La miglior maniera per non essere controllati dagli altri, è quella di ispirarsi ad una fonte invisibile e non conosciuta. Quindi ricerca di complicati interiori — i più complicati e malati — quelli che sono poi stati appunto chiamati decadenti. Per le stesse ragioni, cioè per sfuggire alla misura, l’arte decadente è molto spesso frammentaria.
Il frammento è quella parte di un dino
mancando il quale
l’edificio crolla. Ma che ha una ragione d’essere solo in quanto è parte quell’edificio. Fuori del suo tutto non è più nulla. E non bisogna lasciarsi confondere dalla lunghezza e dalla grandezza. Ci può essere un frammento, largo o grande, e un edificio breve o piccolo. Il frammento, essendo la parte di un tutto, non ha né principio né fine. Se poi l’arte decadente s’ispira alla realtà esterna, cerca sempre di operare la trasformazione della sua materia. La natura è filtrata attraverso una sensibilità eccezionalmente diversa. Questa sensibilità è talvolta particolare a un’artista, molto spesso,
nelle epoche
di arte decadente,
tutta una
generazione
sente
e trasforma
la realtà nello stesso modo. La trasformazione della natura si chiama comunemente « stilizzazione ». Infatti la stilizzazione — altra parola adoperata spesso a sproposito — è una maniera particolare di sentire la natura 0 anche — diciamo più largamente la realtà esterna. Un esempio di stilizzazione in grande è il bizantinismo, fiorito in Italia specialmente nel V e VI secolo. Se guardiamo i mosaici di S. Apollinare Nuovo, saremo colpiti da quelle due lunghe processioni di Martiri e Vergini, tutti simili nel vestito, nelle pieghe, e nell’espressione trasognata del viso che porgono tutti lo stesso oggetto e suscitano, come dice il Muther, l’impressione di cosa che non finisce mai, immutabile, eterna. Ora il bizantinismo, come si può facilmente
dimostrare,
è un’arte
decadente,
perché è la derivazione dell’arte ellenistica, che era decadente. Gli uomini sono visti tutti nella stessa maniera, e di tutto l’uomo è considerata una parte sola: il vestito. Quelli non sono uomini coperti da un vestito, ma vestiti ripieni di uomo. Tutti gli occhi hanno la stessa espressione. Tutte le pieghe sono simili. Non ho mai visto nessuna piega e nessuno sguardo così, nella realtà. Nel VII e VIII secolo, tutte le figure, portando agli ultimi limiti i princìpi dell’arte bizantina, diventano così stilizzate che in un evangelario anglosassone si trova scritto sopra un disegno 43)
IMAGO HOMINIS — per non fraintendere. Le stesse parti di una figura si trasformano in ornamentazioni calligrafiche. Le pieghe del S. Matteo — nel magnifico vangelo di Lindisfarne — sono rami e i capelli striscie nastriformi. Ma l’arte, stilizzandosi, perde a poco a poco il controllo della stessa realtà che ha trasformato, e può raggiungere gli estremi poli dell’incoerenza, applicando un principio apparentemente logico. Ora, l’arte decadente nuota in un mare senza boe. Ma ogni periodo decadente ha dinnanzi a sé, come littore e battistrada, un periodo in cui le boe vengono volontariamente affondate. Il periodo che è stato chiamato romanticismo, nell’Ottocento: ma che, come abbiamo visto, si può ritrovare in tutti i secoli, sotto altri nomi.
E in questo senso dicevo che il romanticismo ha in sé i germi della decadenza. Se la volontà abolitrice delle regole e dei limiti si cambia in abitudine a non curarli, in ignoranza di quelle stesse regole e di quei limiti, allora l’arte classica è divenuta arte decadente. L’arte decadente, quindi, segue sempre e non precede mai l’arte classica. Mi si potrà dire: arte classica, arte decadente: ovo gallina, come fa a sapere chi è stato prima? Se noi osserviamo l’origine di qualunque arte ed in qualunque tempo, vediamo che gli uomini, appena hanno coscienza della vasta zona ove possono oprare, si affrettano a limitarla e a circoscriverla con ogni sorta di siepi, muraglie e fili spinosi. In letteratura, per esempio, nasce prima la poesia che la prosa, ossia nasce prima quella forma di espressione più strettamente regolata e misurata. Nei bambini artisti, — che sono un po’ come i popoli giovani — si sveglia prima il senso della poesia che quello della prosa. Nessuno scrittore di dieci anni debutta con una prosa, certo preferisce una contorta e anche sbagliata, ma certo rimata quartina. Questo che io vi ho detto sui limiti e sulle origini dell’arte è dimostrato dalla storia della scultura greca. Nei primi secoli i corpi erano rigidi, la sagoma del bacino e del petto si allargava geometricamente, le braccia si allungavano strette al corpo, la faccia era senza espressione, o con un sorriso legnoso. Anche nelle statue migliori dell’arte arcaica, come nel tirannicida Armodio, il busto « si disinteressa » del movimento del corpo e rimane immobile. Questa immobilità del tronco continua poi nelle grandi epoche della scultura, salvo pochissime eccezioni. Che cosa si proponevano quegli artisti? Guardando i bassorilievi del Partenone o del tempio d’Olimpia si capisce subito che aspiravano soltanto alla perfezione plastica del corpo e all’idealizzamento, come lo chiamano i tedeschi, della figura. Un critico tedesco, appunto, il Loewy, a proposito della non naturale bellezza di tutte le statue greche, al tempo di Pericle, e dell’aspetto composto che hanno non solo gli uomini, ma anche i cavalli — vedi, per esempio, il cavallo di Selene del frontone del Partenone — osserva che: « La natura crea soltanto individui. Se noi confrontiamo diversi esemplari del medesimo oggetto, come sarebbe un corpo vegetale, una foglia di platano, edera, vite, o una parte del corpo umano, un orecchio, un braccio, tra migliaia di esemplari non troveremo mai l’uguaglianza assoluta, vi saranno sempre differenze individuali. Eppure noi tutti abbiamo nella mente un'immagine ben determinata di queste forme: immagine che in certa misura corrisponde a ciascun oggetto reale, ma al tempo stesso se ne distingue. Le linee che chiudono l’immagine sono molto più semplici e regolari di quelle che delimitano l’oggetto. In una foglia di platano i lobi frastagliati e le nervature non si corrisponderanno mai con simmetria assoluta dai due lati; il contorno, anche nelle 40
minute frazioni, presenterà sempre innumerevoli ondulazioni,
e non mai una linea
ferma e decisa. Ma la simmetria è perfetta e mancano le ondulazioni nella nostra immagine della foglia. La nostra mente ristabilisce la forma pura ». Questi dunque, erano i problemi di quell’arte, essenzialmente classica: raggiungere la verità della specie, e la forma pura del corpo umano e quella rendere con la massima perfezione plastica. Difficile, ma ristretto e limitato il campo. Giunta a quel punto di insuperabile perfezione in cui cominciava ad essere satura, dopo la trasformazione operata da Scopa e da Prassitele, che vollero esprimere sentimenti più intimi, l’arte greca fu rivoluzionata da Lisippo. Lisippo abbandonò le forme pure, ridonò al tronco la sua flessuosità, al dovere ed all'amore la loro espressione naturale. Da quel momento la scultura, rotte le barriere che gli
antichi si erano costrutte, cerca di esprimere l’inesprimibile, pazza d’orgoglio, ebbra di libertà. E si prova a tutti i più difficili cimenti, e si crea le difficoltà per superarle, aspirando sempre a qualcosa di nuovo, di diverso, di strano. E si scatena il baccanale ellenistico, il periodo dei soggetti terribili violenti, in cui la scultura cercò di esprimere tutte le passioni e tutti gli sforzi, e tutti i desideri degli uomini. Questa non è ancora un’arte decadente, in tutta l’estensione del termine. Ma lo è già molto, e lo diventerà, come vedremo in seguito, sempre di più. Si potrebbe credere che l’arte ellenistica fosse un’arte realista. Ma questo non è vero: la natura è riprodotta qui più fantasticamente che nelle sculture del Partenone. Perché è sempre filtrata attraverso uno stato d’animo di eccezione. La realtà più serena e semplice è convertita qui in paurosa e violenta espressione di dolore, di rabbia, di sforzo. Tutte le vecchie sono grinzose come streghe, sdentate come una réclame di professore odontoiatra, che ha trovata una nuova e perfezionata dentiera. Fra tutte le azioni e tutti i drammi, la scelta cade sempre su quelli terribili. Pare che esistano soltanto guerrieri moribondi, omicidi e suicidi, lotte frenetiche, ove tutti i muscoli si tendono contemporaneamente in uno sforzo che ucciderebbe uomini meno robusti. Questa mi pare una stilizzazione della realtà, che non differisce da quell’altra stilizzazione dell’arte bizantina. Ma perché in tutte le arti succede sempre questo fenomeno? E come succede? Uno scrittore moderno scriveva, dell’arte moderna, queste parole: « Noi possediamo un nuovo istinto: l’istinto del complesso. Afferriamo tutto attraverso il complesso, mentre i passati coglievano poco, attraverso il semplice ». Questa è involontariamente e in termini complicati una prova di quello che poco fa vi dicevo, sui limiti nell’arte classica e decadente. È una illusione che gli uomini, dal principio dell’arte, continuano a farsi, senza stanchezza. Pensano che se in quella prima zona ristretta e ben limitata, sono riusciti a creare dei capolavori, uscendo in aperta
campagna e prendendo tutta la piana invece di quel campicello, potranno fare dei capolavori altrettante volte più belli, quanti sono i metri quadrati della pianura rispetto a quelli della zona limitata. Non so se mi sono spiegato chiaro. L'illusione dei decadenti è questa: « Se noi togliamo di mezzo i limiti, avremo tutto l’infinito d’innanzi a noi; potremo quindi creare delle opere infinitamente belle, ed infinitamente varie ». Questa spinta verso l’immensurabile è prodotta dalla stanchezza del misurato. Ma i decadenti non pensano, che se, come
ho già detto, devon nuotare in un mare senza boe, non sapranno
più dove vanno, né a che distanza sono dalla spiaggia, né a che velocità corrono; non pensano che se quelle boe sono un impaccio, possono essere anche dei salvagenti,
e che perdendo il sostegno di un principio e di un limite certo, potranno rimanere 4I
dentro i confini dell’arte, ma potranno anche, con la stessa indifferenza, uscirne completamente e creare una cosa senza senso, invece che un’opera di arte. Questo spiega come certi artisti decadenti, mostrino, vicino a creazioni meravigliose, opere
prive del minimo gusto estetico. Chi li frena? Lavorano a caso, e il caso o qualche volta l’istinto li guida. E così succede che certi artisti decadenti rimangano grandi artisti e creino meravigliosamente: perché, senza saperlo forse, si pongono certi limiti. Ma i discepoli ed i posteri non si possono reggere in equilibrio su quella cresta scivolosa e ruzzolano giù per i dirupi. È indiscutibile però che i decadenti riescono ad esprimere spesso passioni e movimenti complicati in modo stupefacente. E per ottenere questi risultati devono adoprare l’arte delle illusioni, e della suggestione. Questa difficile tecnica basata su impalpabili ed invisibili gradazioni di effetti, si chiama comunemente simbolismo. Nelle arti plastiche decadenti, una persona in ginocchio è nata per stare in ginocchio e non è una persona qualsiasi che si è inginocchiata. Le proporzioni del corpo, armonizzate artificiosamente, danno l’impressione di esser normali, ma sono invece fantastiche, pensate e non copiate, immaginate e non riprodotte. In un movimento non si ritrova l’azione vera e propria, ma il simbolo di quell’azione. Nella figura stessa non c’è, con tutti i dettagli, la figura, ma il simbolo della figura. Il simbolo dell’azione o della figura sta all’azione o alla figura vera e propria, su per giù, come, nelle teorie di Platone, il concetto di uguaglianza sta alle cose uguali. In letteratura ed anche in musica, il simbolismo consiste specialmente nella suggestione, per cui con una parola o con una nota, si suscita l’immagine, la sensazione di infinite altre parole o note. Esaminiamo per esempio la famosissima lirica di Verlaine sulla pioggia. Nessun poeta, credo, è riuscito a rendere così profondamente l’intima e inesprimibile angoscia della pioggia, quando scivola dolcemente sulla città. E questi versi, per tutte le ragioni finora esposte, possono essere un esempio tipico di lirica decadente. Il pleure dans mon coeur comme il pleut sur la ville; quelle est cette langueur qui penètre mon coeur?
Il pleure sans raison dans ce cœur qui s’écœure. Quoi! Nulle trahison? Ce deuil est sans raison.
O bruit doux de la pluie par terre et sur les toits! Pour un cœur qui s’ennuie O le chant de la pluie!
C’est bien la pire peine de ne savoir pourquoi, sans amour et sans haine; mon coeur a tant de peine.
Sono solamente sedici versi brevi. Ma che poema infinito risvegliano nelle intime fibre dell'anima! Ogni verso è il gocciolare di una stilla di pioggia, che cadendo risuona attraverso le pozze picchiettate come se avesse in sé la forza di cento echi. Il poeta è riuscito, con certe ripetizioni di parole e di rima, ad esprimere la monotonia di assonanze ritmiche della pioggia, e l’indeterminato di quel brusìo timido, che non si sa da dove viene, quando comincia e quando finisce. Non determina
niente. Riproduce il suo stato d’animo, senza cercar di capirlo. Quelle est cette langueur / qui penètre mon coeur? Non lo sa, non vuol dirlo. Quoi! Nulle trahison? / Ce deuil est sans raison. 42
E prima: Il pleure sans raison / dans ce cœur qui s’écœure. Forse il male che lo tormenta è appunto questo: non sapere perché è triste. Questo sentimento lo suscita in noi con delle interrogazioni, con delle confessioni distratte e malinconiche. Non lo dice mai. E non descrive il mormorìo della pioggia né ci dice in che modo egli vibri insieme a tutte le gocce. Si contenta di scrivere: O bruit doux de la pluie / par terre et sur les toits! Eppure con questi due soli versi, facendo rispondere la rima e la parola finale nei versi che seguono, risveglia in noi tutto il fluido gocciolare e tutta la dolce tristezza di una giornata di pioggia. E finisce lasciandoci in uno stato d’animo di aspettazione, come se ascoltassimo una musica di cui non si ricorda il principio e che non può finire; e dopo quell’ultima quartina sentiamo scivolare altri versi, senza fine. C’est bien la pire peine / de ne savoir pourquoi, / sans amour et sans haine; / mon coeur a tant de peine... La rima lunga e non tronca, con la ripetizione della parola « peine » ci dà appunto quell’illusione di indeterminato. E bisogna, a proposito del simbolismo, notare una strana contraddizione dell’arte decadente. Perché simbolismo vuol dire illusione, o suggestione, e quindi, in certo senso, artifizio. Ora l’arte decadente
ha
una marcata propensione a distruggere il convenzionale, che è in fondo uno dei tanti necessari artifizi con cui l’arte decadente riesce ad esprimersi. Nell'arte c’è sempre una parte di convenzione, che non è assolutamente abolibile. Scegliamo un esempio del teatro. In teatro, prima di tutto, si vede una camera con tre sole pareti; tutte le altre convenzioni teatrali vi sono abbastanza note perch’io non stia a ricordarle. Ebbene: la storia del teatro è una lotta eterna per la continua e sempre crescente distruzione di tutte queste convenzioni. Come se, quando si è sostituita una scala al palcoscenico e i personaggi recitano nel salone e gli alberi sono veri, il dramma sia molto più vicino alla realtà! Per quanto l’imitazione sia pedissequa e meticolosa l’originale sarà sempre troppo lontano dalla copia perché nasca nello spettatore la stessa sensazione corrispondente. Così è inutile, come fanno i musicisti impressionisti, pestare nei bassi per fare il tuono, operare agili glissants per riprodurre il vento; tanto il tuono che il vento saranno molto diversi. Nelle epoche decadenti si dimentica che la vera arte rappresentativa, quando vuole veramente riprodurre la realtà, non imita, ma esprime i sentimenti suscitati dalla realtà. E la Pastorale di Beethoven darà la sensazione della campagna più di una qualsiasi composizione impressionista, dove si sentano scorrere ruscelli, mormorare agresti fronde coi metodi or ora accennati. Un'altra secca in cui spesso si arena la nave dell’arte decadente, è, per la ragione che vi esponevo,
cioè per riuscire a vincere le catene
della natura,
la confusione
delle arti. Ogni arte particolare, quando ha esaurito tutte le proprie risorse, cerca di rinnovarsi e di rinvigorirsi assumendo quelle degli altri. Ho citato, in principio a questo articolo, una definizione del campo della pittura, rispetto a quello della letteratura.
Il pensiero di Lessing,
riassumendolo,
questo: « La pittura, pei suoi caratteri o pei suoi mezzi di imitazione che può unire soltanto nello spazio, deve in tutto rinunciare al tempo; le azioni progressive, in
quanto progressive, non appartengono ai suoi argomenti; ma essa deve contentarsi delle azioni coesistenti o di soli corpi che facciano supporre dai loro atteggiamenti una azione ». Vicino a queste parole, se mi permettete, metterò un brano di Boccioni, cri-
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tico futurista, il quale ha condensato, nel suo libro sulla pittura e scultura, esagerandoli, tutti i canoni dell’arte decadente.
« Sarebbe poco se noi ci arrestassimo ad una semplice analisi di forme, come gli impressionisti si fermarono ad una analisi di colore. Noi facciamo una sintesi dei risultati delle ricerche di colore e di forma. Ma questa sintesi non ci conduce di nuovo alle immagini statiche e successive (questo è fondamentale per noi) come avviene per i nostri amici di Francia cubisti od altro, ma ci porta a ridare la realtà nella sua essenziale manifestazione. Prima cioè che questa realtà si individualizzi in una distinzione tradizionale degli elementi naturali, noi vogliamo dare la vita della materia, traducendola nei suoi moti ». Lo scopo della pittura, nella teoria futurista, è proprio quello di rendere il movimento, le azioni progressive in quanto progressive. È cioè la codificazione di tuttenle mescolarize artistiche. È anche spesso il segno dell’impotenza; perché quando un’arte invade il campo di un’altra arte, vuol di che non sa servirsi delle sue armi o non ne è cosciente. Ma non starò a ripetervi altri esempi di questa confusione di cui vi ho già prima parlato, perché voglio rispondere a un dubbio che vedo nascere nei vostri occhi, mentre pronunzio la parola « futurismo ». Ho adoperato questo vocabolo per esprimere l’estremo dell’arte decadente. Ma « futurismo » « l’arte del futuro » dirà qualcuno di voi «arte giovane, bambina » che c’entra con l’arte decadente? Non ne è invece l’antagonista? Non è forse un’arte spontanea? E libera? Primitiva? Nuova? Infatti, se noi leggiamo i manifesti futuristi troviamo delle frasi come questa: « Respingiamo fin d’ora la facile accusa di barocchismo con la quale ci si vorrà colpire. Le idee che abbiamo esposte qui derivano unicamente dalla nostra sensibilità acuita. Mentre barocchismo significa artificio, virtuosismo maniaco e smidollato, l’arte che noi preconizziamo è tutta di spontaneità e di potenza ». O come questa: « Voi ci credete pazzi. Noi siamo invece i primitivi di una nuova sensibilità completamente trasformata ». Non bisogna lasciarsi impressionare dalle ingenue e violente affermazioni dei manifesti. I futuristi sono veramente decadenti, appunto perché vogliono essere liberi, originali, spontanei, primitivi, manie
tipiche delle civiltà malate. Prima
di
tutto non si è nessuna di queste cose quando si vuole esserlo. Non si può essere, di partito preso, né spontanei, né liberi, né primitivi. Bisogna esserlo senza pensarci. Ma esaminiamo più precisamente la questione. L’arte decadente, essendo un’arte rivoluzionaria, sorta in reazione ad una pre-
esistente arte classica, è sempre persuasa di essere indipendente dall’arte che ha combattuto, e quindi di essere un’arte giovane, nata dal nulla e da poco tempo. Ecco; persuasa forse no. Vuole sempre convincersi, in ogni modo, di essere il principio di una futura arte nuova, invece che la fine di un’arte vecchia e morente. La sensazione dell’agonia è, per quanto vaga, così angosciosa, che gli uomini cercano in tutti i modi un'illusione, anche incoerente, pur di levarsi di mente il pensiero ossessionante. Come se un vecchio, balbettando, credesse di ritornare bambino. E con l'illusione di ringiovanire l’arte decadente torna spesso ai falsi primitivismi. Così abbiamo visto le parole in libertà e la pittura metafisica, case bianche con le finestre a prospettiva sbagliata, le ombre lunghe come nelle tavole trecentesche, e i corpi umani rigidamente stilizzati. La stessa cosa è avvenuta in Grecia. Vi avevo detto, a proposito della scultura greca, che l’arte ellenistica, se non era
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già proprio decadente, stava per divenirlo del tutto. A poco a poco i soggetti terribili si esaurirono, diventarono comuni, lo spirito si stufò di quel cibo troppo piccante — nessuno mai ha vissuto di soli peperoni, aceto forte, pepe et similia. Si ri-
tornò ai soggetti idillici, alla natura, copiandola con molto rigore. E rivenne di moda l’arcaico, l’ingenuo. Da molto tempo le bocche eran disavvezze da quel semplice pane. Come siESTE nel giovane di Stephanos, a Roma, e nei gr uppi di Napoli e di Madrid, si ricominciò ad allargar le spalle, a ir rigidire ii movimenti, a immobilizzare il tronco, a stilizzare le pieghe. E gli uomini camminarono di nuovo sulle punte dei piedi, e le donne rinnovarono le processioni, una dietro l’altra, vestite ieraticamente coi pepli egiziani. Primitivismo artefatto e non sentito, quindi, che non può ingannare nessun occhio esperto. E ugualmente falsa è la libertà dell’arte decadente. Accade qui come coi regimi democratici. Nessun regime assoluto è stato così violentemente tirannico come la democrazia del XX secolo. Chi governa? Mistero; tutti obbediscono ad una legge fatta da non si sa chi. E così nell’arte decadente, ossia in un regime di libertà democratica, alle antiche leggi ben conosciute da tutti, si sostituiscono delle nuove e misteriose forme di tirannidi. Quella dei futuristi è veramente specifica. Voi troverete in tutti i libri e in tutti i manifesti futuristici delle frasi come queste: « Non v’è che una legge per l’artista ed è la vita moderna e la sensibilità futurista ». O: « L’era delle grandi individualità meccaniche è cominciata e tutto il resto è paleontologia! ». Boccioni ha formulato la scelta dei soggetti imperiosamente distribuiti fra gli adepti del futurismo. È così tipica che la voglio citare: « Le affiches gialle, rosse, verdi, le grandi lettere nere bianche e bleu, le insegne sfacciate e grottesche dei negozi, dei bazar, delle ‘‘LIQUIDAZIONI’’, gli smaglianti waterclosets inglesi, le danze negre nel ritmo brutale degli Tziganes tra le luci e le belle prostitute, ecco ciò che ci ispira e ci affascina ». E la tirannia si estende anche ai princìpi di critica. Oggi nelle arti plastiche, per esempio, non si deve più vedere altro che « una composizione di forme, colori, volumi ». Un giorno, mi ricordo, stavo guardando le due Veneri del Tiziano con un amico, molto intelligente e impregnato di dottrine decadenti. Quell’amico mi diceva: « Io preferisco questa, delle due Veneri. Ma non bado al disegno, o al colore, o alla perfetta rappresentazione della carne, o al meraviglioso paesaggio della finestra. No; io vedo una forma chiara e curva in uno sfondo scuro; e trovo questo quadro più bello dell’altro perché i colori della forma chiara, sono, a mio gusto, meglio armonizzati con lo sfondo scuro, e più elegante è la curva di quella linea ». Molti poeti decadenti, del resto, cercano di comporre soltanto parole armoniose, senza altre preoccupazioni. Ma allora, quale è la misura del bello? Se si applica questo principio in tutta la sua estensione, nessuno potrà dimostrarmi che una pennellata rossa sopra un Corriere della Sera è meno bella della Sistina. E siamo così ricascati nel problema dei princìpi. La mancanza assoluta di ogni principio anche elementare per distinguere il bello dal brutto e l’arte dall’esercizio, è l’origine di questa anarchia. Ma c’è un limite anche all’anarchia. Più in là del bolscevismo non si può andare. E avete visto, infatti, che in Russia si cerca di ritornare all’antico sistema capitalistico. E così, anche in arte, sono visibili delle correnti classiche echeggianti. Ed al classico si ritornerà, senza dubbio, ma non fondando delle riviste o ricomin-
ciando a scrivere con l’autografia del Cinquecento. Vedremo, fra un periodo più 45
o meno lungo di stasi, una fioritura di artisti che potranno essere definiti classici, ma che non ne avranno minimamente coscienza. Per saperlo, dovrebbero, se mai, leggere le storie letterarie di due secoli dopo. [« Le Fonti», marzo-aprile 1924; firmato Leo di Guglielmo]
PRIMO
CONTI
E LA
SIGNORA
CINESE
Luing Juk, la signora cinese che ha diviso, colla « Morte dell’Autore » di Giannetto Marchis, i due premi da diciassettemila lire del Concorso Ussi, è certo uno dei più ricchi, perfetti, e preziosi quadri di Conti; e per questo splendore, benché
non fosse in tema, la giuria l’ha premiato. Cercheremo, in questo articolo, di trovare un rapporto di proporzioni fra il quadro vincitore e l’opera intera di Primo Conti. Primo Conti ha già esposto largamente, con successo. Benché giovanissimo — è nato nel 1900 — la storia della sua opera è complessa come quella di un pittore maturo, perché Conti ha spicciato, in quattro o cinque anni, tante forme di pittura quante bastano per riempire vent'anni di lavoro normale. Sedicenne precocissimo, aveva già uno studio colmo di tele impressioniste, in cui l’imitazione di Fattori si complicava di un disfacimento un po’ meccanico dei colori. Rappresentò poi, con Corrado Pavolini e Rosai, una specie di sottofuturismo fiorentino. Periodo piuttosto tristo della sua arte, in cui per la prima e l’ultima volta Conti si mescolò e si adattò alla pittura di reggimento, alla stravaganza comune e impersonale. Ora, come gli altri, anche Conti cerca di placare i rimorsi del tempo perduto, dicendo a se stesso, che quello scarto fu necessario, perché lo
costrinse a ricominciare da capo, più esperto. Ma questo mi sembra il tentativo un po’ dialettico, di ridar valore, misurandolo sul presente, a un passato morto.
Conti rientrò presto nella grande linea della pittura; ma i primi quadri che dipinse dopo la conversione sono ancora gonfi di reminiscenze: le gambe, le braccia,
si compiacciono di certe voluttuosità, reliquie del cubismo, che, trovando in loro stesse una ragion d’essere, appaiono frammentarie. La composizione — poiché c’è già composizione — è ancora di quelle duramente geometriche, che han l’aria, in omaggio a certe forme teoriche, di sacrificare tutto quello che nei soggetti è umano e vivo. Dobbiamo però rallegrarci di questi rimasugli di cubismo, perché ci dimostrano come Conti, nonostante la rapidità della sua evoluzione, non sia stato uno di quegli acrobati un poco stupefacenti, che sono passati dai cocomeri dipinti sopra il « Corriere della Sera », alla levigata e lucente rappresentazione di una Venere Neoclassica, senza sfumature; e che anzi si divertono ad esporre le « due maniere» perché si vedano alla luce del sole le loro crisi spirituali (scommetterei che, nel loro intimo, essi pensano già al futuro storico mentre scrive di loro « egli ebbe due maniere »); ma come anzi si sia pacatamente e armoniosamente raffinato. L’arte di Conti si è sviluppata in due direzioni: verso la composizione umana, e la rappresentazione dello spirito e del dramma da una parte; verso una forma più generica dalPaltra. I cubismi facili, certe stilizzazioni chiassose e sempliciotte, sono tentazioni grasse, per tutti 1 pittori, che non si sentono uno stile profondo proprio, e che vogliono in 46
qualche modo essere riconosciuti e distinti dagli altri, grazie ad una maniera. A vent'anni, Conti, che non sapeva con certezza di avere uno stile suo, e perciò faceva dello zelo, si studiava di trovare una personalità appariscente, scambiando
certe bravure anonime, che gli venivano dal tempo, per qualità sue, e magari trascurando la sostanza vera della sua pittura. Se si pensa come, grazie alla innumerevole offerta di maniere e di forme, con cui il mercato della civiltà moderna tenta, stordisce e disorienta gli artisti in cerca di espressione, molti pittori, anche grandi (e con questo penso, per esempio a Picasso) si indugino tra un banco e l’altro a scegliere e a riscegliere tutta la vita, farà meraviglia di veder Conti, dopo un tentennamento assai breve, a 22 anni sicuro possessore del suo stile. Lo stile c’era in lui, fin dal tempo dei quadri impressionisti, che illuminati retrospettiv amente dall'opera di oggi, rivelano certe qualità intatte; ma allora né Conti né il pubblico potevano discriminarle, giacché esse sono affiorate, ripetendosi. Una volta riconosciuto se stesso — e questo mi pare, per un artista, il momento più solenne della carriera — Conti si pose fronte a fronte colla sostanza stessa della sua pittura, per renderla più perfetta, gradevole e profonda. Ora che l’aveva dinnanzi agli occhi, sotto le mani, che la conosceva e la contemplava nel suo moto, poteva adornarla e sfrondarla. Dall’Esposizione fiorentina primaverile ad oggi, Conti ha fatto dei progressi ogni giorno; i suoi colori sono diventati più golosi e rabbrividenti, più lussuosi, splendidi e, nel tempo stesso, semplici; hanno acquistato qualcosa di talmente particolare, che si distinguerebbero come suoi, anche se venissero stesi sopra una tela, senza essere disciplinati da nessuna forma. Infatti questo disegnatore, che servendosi di una sottile matita riesce a incidere, col più modesto e delicato dei segni, le figure, a cui una leggera ombra, grazie alla semplicità essenziale delle linee, dà forma calorosa e respiro, come in certe pagine aride un aggettivo è una grande illuminazione, si trasforma, nei quadri, in un colorista così ricco, prezioso e sensuale, che il gua par naufragare nella voluttà dei colori. L’osservatore un po’ frettoloso; rimane, sul principio, tanto colmo di materia pittorica, trepidante, di quella gioia irriflessiva, che ci dà un cielo consumato, una bagnata erba, quando si sente la pena di non godere abbastanza cogli occhi, e si vorrebbe toccare e baciare; che non s’accorge del disegno, robusto e saggio, quantunque ormai sciolto dentro il colore, come usava nella pittura veneziana del Cinquecento, che è stata la segreta, discreta e difficile intelaiatura del quadro. Nel Gesù tra i Dottori, premiato all’esposizione di Venezia, ci sono ancora certe ombreggiature troppo inchiostrose e impudiche, certi volumi visibilmente meditati, e quindi non meditati abbastanza. Ma nei ritratti che seguirono e nella Signora Cinese le tinte si sono alleggerite e riempite di gioia, le forme si sono contentate di stare nei limiti naturali dei corpi, acquistando, per questa naturalezza, qualcosa di più rattenuto e sostanzioso. Conti, come dicevo dianzi, ha cercato di essere più generico, di non brillare per troppe studiate originalità, che rivelassero una premeditazione: e ha l’aria di copiare modestamente, di dissimularsi dietro il suo personaggio, di far credere che tutta quella composizione saggia, quel disegno avveduto, quella colorazione smagliante, son nati come i frutti sugli alberi, perché non potevano fare altrimenti. Né il disegno, né il colore rivelano il mistero della loro originalità. Nessuno saprebbe spiegare perché si riconoscerebbero a prima vista; ma questa originalità assolutamente intima, dà tanta disinvoltura ai quadri, che lo spettatore, al primo sguardo, prova un senso di disappunto, di contrarietà e
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quasi di irritazione per lo sforzo di adattamento, che deve fare, a quel mondo imprevedibile; e poi si immerge tanto in lui, che gli pare il solo vero tra tutti, e si chiede come sia possibile dipingere diversamente. D'altra parte, appena compiuta una conquista, Conti, inappagato sempre, si attaccava a problemi più grandi. Così, sicuro del suo disegno e dei suoi colori, cominciò a comporre della pittura religiosa, per cimentarsi coi drammi e le passioni. L’uomo non doveva essere un corpo, né una figura geometrica. Doveva essere uno spirito, che si esprimeva attraverso delle forme corporali; rappresentare queste forme corporali per loro stesse, come
della materia
morta, voleva dire alterarle.
Il Gesù tra i Dottori è stata la prima opera, di questa fase pittorica, che Conti abbia esposta. Gesù, fragile, pensoso, malinconico bambino, che sotto i riccioli nasconde un pensiero precocemente maturo, e nel camicione bianco un corpo quasi astratto, che c’è solo perché ci deve essere tanto è spirituale la sua raffigurazione, medita, o quasi direi sogna, immobile, e staccato, dinanzi al compatto gruppo dei tre dottori, piombati e tenuti alla terra dai piedi enormi, che sono come il simbolo della loro pesante e terrestre materialità. Un braccio s’avanza con una grossa mano, pietrificata nel gesto un po’ misterioso, come per prolungare quel mondo corposo e dialettico, sino sotto il respiro di quell’altro mondo, etereo e spirituale, rappresentato da Gesù. E in fondo, una grande finestra su cui sono appollaiate due misteriose ombre, si colora col rosa gelato e profumato di una aurora invernale. Conti imbevuto
è riuscito a escludere tutte le pitture. Fino a ventidue anni, se ne è frettolosamente, gelosamente; ora si è rinchiuso nel suo studio, dove
è signore e principe; ed esce dal nostro secolo. Ma la sua vigilanza gli impedisce di sviarsi dalla linea della pittura vera, anche quando si accinge a rappresentare lo spirito, che appare come qualcosa di estraneo ad un’arte figurativa, perché Conti si limita a dipingere, di tutte le passioni, quelle che sono pittoricamente sensibili. Da questo si capisce, che la Signora Cinese rappresenta un’opera di riposo. Dopo tanto lavoro austero, Conti si è svagato un momento con i fuochi di artifizio dei colori puri. La signora cinese l’ha attirato come certi animali di serraglio, in cui le linee, componendosi in maniera inusitata, ci dànno da principio un senso di gradevole sbaglio. La malìa di questa signora è puramente esotica. In Conti, un po’ stufo di tanti ritratti europei, ove, bene o male, lo spirito del personaggio si esprimeva sempre attraverso certe linee, forme o colori simili, si sente la gioia di dipingere una creatura, nei lineamenti e nel gesto, impreveduta; tanto che arrivandoci colle sue forze già cimentate, studiando le figure europee, gli pareva quasi di dipingere per la prima volta un ritratto, e di riuscirci così facilmente per qualche miracolosa grazia di Dio. Egli ha sorpreso la signora cinese, durante certi ozi ieratici, in una bestiale e assopita contemplazione del vuoto, che per esser fatta nella vesta adorna di fregi immobili e pesanti, acquista un valore religiosamente decorativo. Perciò possiamo dire, che il Premio Ussi, più che a un ritratto, è stato dato ad una natura morta.
Opera di riposo, dunque; ma la preziosità del colore era tanta anche nei quadri di pensiero, che uno spettatore potrebbe rallinearli tutti insieme, giudicando che nel Gesù tra à Dottori come nella Signora Cinese il soggetto non fosse che un pretesto, e il fine vero uno stesso canto di tavolozza. E in verità, senza che Conti se ne accorga, la sua bravura pittorica, che si è sviluppata parallelamente al suo pensiero, tende ad affogarlo. E se dobbiamo dare a Conti un consiglio come conclusione, gli di48
remmo quasi di impoverirsi, perché la bellezza troppo gradevole dei suoi colori, non faccia pensare a questo téte-d-téte del pittore colla sua tavolozza, in cui il pittore, piuttosto che i mezzi per esprimere un'idea, chieda soltanto alla tavolozza consiglio, ispirazione e gioia. |[« Il Mondo », novembre
RAFFAELLO
FRANCHI
IN LOTTA
COL
1924]
ROMANZO
Proprio nel momento in cui gli artisti si sciupavano a far dei pezzi di bravura, Raffaello Franchi tentò, con Pocaterra (Bemporad edit., Firenze), il romanzo. Uscendo ora, quando lo stesso autore l’ha sorpassato, questo romanzo non mo-
strerà lo sforzo che c’è voluto a scriverlo allora, e appunto perché ormai il bisogno di un romanzo vero e proprio, come quelli del XIX secolo, è più comunemente sentito, appariranno in luce delle manchevolezze che qualche anno fa sarebbero state scambiate per pregi. L'autore veniva caldo caldo dalla prosa libera e lirica di Luci sulle case, in cui senza badare a un tessuto o a una trama di racconto egli si poteva sbizzarrire a segnar sul foglio le impressioni passeggere che le giornate e la vita imprimevano sul suo cuore, attento ad assorbirle come le piante in succhio accolgono i germi. Esaurita l'avventura di quella impressione, l’autore deponeva la penna. Così che non s'era mai imbattuto nelle difficoltà di un racconto, in cui la logica della vicenda l’obbligasse a seguire dei personaggi dal principio alla fine e a superare le zone antipatiche e pur necessarie che riunivano i punti culminanti, o solamente a risolvere dei problemi pratici come quelli dei nomi. Raffaello Franchi ha un suo genere speciale di congelamento delle impressioni. L’onda degli affetti e della commozione che lo invade a certi momenti e cerca di traboccare, urta contro una volontà maligna e inflessibile, la quale si impunta a lasciarla sgorgare adagio adagio, con una compostezza un po’ rigida che si fa creder fredda e quasi impacciata. Raffaello Franchi mostra addirittura un pervertito compiacimento a far credere al pubblico distratto che si tratti di scientifica indifferenza; e l’aria troppo glaciale con cui si diverte ad arzigogolare sulle vicende più tragiche della sua vita e su quelle dei suoi personaggi, come dire che l’autore non c'entra per nulla, fa pensare all’atteggiamento che tengono i timidi quando, essendo orgogliosi, per pudore dei loro sentimenti e paura di non essere apprezzati come valgono, si nascondono sotto una maschera, che mira a custodire il mistero della loro intelligenza e sensibilità. Questa maniera di scrivere lo riaccosta un po’ allo stile dei disegni di Ingres. E infatti devo dire che me ne sono accorto leggendo nel Dialogo sul Disegno (Accademia dell’Enciclopedia editrice, Firenze) un passo dello stesso Franchi, che qui voglio citare, in cui si parla del pittore francese con una acutezza e con una com-
prensione fraterna. «Lo chiamano una cosa fredda. Infatti, come vedi, non c'è nessuna di quelle ombre facili né di quei segni violenti che si chiamano caldi, perché l’ombre avrebbero potuto esser più larghe e fonde e i segni più violenti... In questa opera, segnata quasi a respiro sospeso, non v’è millimetro che non sospenda il respiro anche di chi la guarda. Quello che in questo disegno potrebbe essere accusato di accademia, 49
è passione sostenuta e sollevata, così da farne discendere appena un segno sottile che principia ad incidersi, gira e si conclude nella suggestione del ritratto ». E poi: « Qui c’è invece un superamento della sensualità come espressione ed è sfuggita la forma convenzionale e fragile. Qui la freddezza è spirito, custodia di calore e garanzia, per te che guardi, che certi brividi nascòstivi, di sensualità profonda, non potranno mai estinguersi completamente ». Ora, trovandosi di fronte a un soggetto che la sua audacia giovanile sentì il bisogno di chiamare romanzo, con queste qualità e con questi vizi, di istinto Franchi cercò di girare l’ostacolo, di sfuggire questo inquietante téte-d-téte con dei personaggi che si chiamano Margherita, Riccardo, nomi di una definitezza e di una risonanza paurosa, per lui che si era abituato al generico dell’autobiografia. Margherita, Riccardo. I nomi gli riescono poco familiari, né il lettore né l’autore sono persuasi che quei personaggi sieno battezzati veramente come è scritto; perché in verità si potrebbero
dar loro tutti i nomi
del calendario, senza danno.
Nessuno può dubitare che il cousin Pons o il colonnello Bridau possano vivere con un nome diverso — ché la risonanza di quelle sillabe contiene rappresa in sé la natura intima dei personaggi, quasi in una espressione musicale. Ma qui ci si immagina l’autore, avvezzo alla comoda vaghezza di un 0 anonimo, nel momento in cui si diede a pensare, impacciatissimo, alla scelta dei nomi, consultando magari il calendario, l’orario delle ferrovie, o l’indice del Tiraboschi; e si indovina che si
è deciso per « Riccardo » solo perché si è trovato un bel momento dinnanzi alla necessità di scegliere qualcosa, ma non perché Riccardo sia nato, come il cousin Pons, con quel nome, imponendolo per forza propria all’autore. Del resto Franchi affoga spesso in un apparente bicchier d’acqua, perché certi problemi che dàn poco filo da torcere a molti scrittori, lo rendono infelice e perplesso. Tutte le frasi, come « Egli disse », « Rispose », « Esclamò », « Prese il cappello e uscì », « Tacque », necessarie e convenzionali, si affollarono per la prima
volta sotto la sua penna appena cominciò a far muovere i suoi personaggi, e benché egli le respingesse indietro con sdegno, si trovò pure, dopo poche battute, a dover dire che Riccardo e Margherita « avevano risposto ». Ma per sfuggire il volgare, unto, consunto «rispose », l’autore si arrabattò a trovare delle circonlocuzioni lunghe e un po’ inquiete, si obbligò a inserire, fra battuta e battuta, delle descrizioni
di paese e di atmosfera, come volendo ricordar l’ambiente in cui la voce risonava, che sotto una funzione apparentemente necessaria, ci sono solo per evitare, con una osservazione sul cielo o sul sole, la fatale banalità di quel « rispose ». Queste e altre difficoltà nuove e fastidiose, gli fecero marcare il passo per un bel pezzo. E se il romanzo comincia verso l’ottantesima pagina, è perché l’autore si indugiò a lungo in un clima lirico, che gli era familiare e non gli incuteva soggezione, dove poteva pensare in pace ai mezzi di evadere e sperare che il romanzo gli sarebbe venuto sotto la penna da sé, in un momento fortunato. Nella stessa maniera Balzac prima di narrare aveva bisogno di scaldarsi descrivendo pezzo per pezzo la portineria della casa in cui abitava l’eroe. In verità, nonostante
le delizie
che
si possono cogliere in queste pagine di introduzione, l’autore, una volta che il romanzo gli venne davvero, avrebbe dovuto tagliarle o magari abolirle del tutto; ma non ne ebbe il coraggio. Del resto, questa prosa stessa, in cui vengon miracolosamente rapprese le più vaghe impressioni tra le guide di un elegante periodare, spiega, appunto perché è una collezione di gemme, che hanno una bellezza ognuna per sé, come lo scrittore, 50
dinnanzi a tanta vita, direi municipale, si persuada di non aver più diritti su di lei e non osi toccarla. Ora, se per ottanta pagine Riccardo non fa niente, bisogna dire, che qui, dove tutte le cose hanno un valore nuovo, questo niente è zeppo di avvenimenti che diventano quasi avventure, come sarebbe la scoperta di una certa parentela fra il
cielo e i comignoli, o il convincimento di tornare da un gran viaggio, che prende il protagonista a una certa ora del giorno. Queste pagine incantate, che fermano le cose a mezzo, mentre stavano per sfuggir via senza che si desse loro importanza, hanno suggerito a certi critici il ricordo di Proust. Ma è questo un contatto fortuito, che vien meno specialmente quando si vede come Proust cerchi di rendere chiarissimi e definiti dei sentimenti e delle sensazioni indistinte, mentre Franchi, per quel suo amore al nebbioso ed al vago, che gli rese amaro l’uso dei nomi e gli proibì
quasi quello dei cognomi, cerca di sfuocare le sensazioni semplici, di annebbiarne i contorni, con delle frange di atmosfera, che le imbevono a un tratto, e quando
più
appariscono isolate, coi riflessi multicolori e inquietanti delle cose disposte intorno a loro nell’universo. Una sensazione che sembrava vivere di vita propria, si rivela così mescolata a tutta la vita della terra, e si confonde ad un tratto con altre sensazioni di origine diversa, come in certi quadri di impressionisti si ritrovano sulle
facce delle signore 1 verdi dei prati. Cresciuto sulle rive dell'Arno, Franchi
ha ripreso al fiume quella facoltà di
assorbire le più varie luminosità dei cieli, mescolando, dopo averli fatti più consunti
e quasi patinati di antico, i crepuscoli ai palazzi rovesciati nell'acqua come in una più sensibile atmosfera. Pocaterra è dunque un romanzo per così dire, ché la storia, cominciando in verità verso il mèzzo, non basta a legittimarne il sottotitolo. I personaggi stessi, come nelle novelle, sono astratti dalla vita comune, perché si vedano soltanto in loro quelle parti di vita che interessano il dramma; mentre in un romanzo vero e proprio non si ammettono uomini che non si sa né di che cosa né come vivono, e che, per la mancanza di piombi, rischiano di potersi d’un tratto sciogliere nell’atmo-
sfera della loro città. Ma nonostante queste sproporzioni Pocaterra ci offre tanta miniera di osservazioni, tanta eleganza di stile, tanta ricchezza e acutezza di psicologia, che si giudica alla prima come scritto da un artista di razza. Il vero romanzo, Franchi ce lo darà quando si sarà familiarizzato colla banalità di certi schemi necessari, tanto da sapersene servire senza badarci. [« IL Mondo », novembre
Studio
IL MURO TRASPARENTE su Jean-Jacques Bernard e Paul
1924]
Géraldy
Una sera salutai l’amata per l’ultima volta con quella gioiosa disperazione delle ore definitive, che rende i gesti con cui accompagnamo un addio, a noi stessi scultorei. Fuori nevicava. Ma benché mi convenisse andare « come un automa per le vie» m’accorsi, con un certo stupore, che imboccavo le strade con la sicurezza di chi vive tranquillamente. Quel silenzio e quel deserto, dentro cui ravvolgevo la mia sognante disillusione, mi opprimeva; sicché, per provare se l’esistenza del DE
rumore fosse ancora possibile, mi misi a gridare a gran voce delle parole, a canticchiare delle frasi di musica, che, quando mi interrompevo, si perdevano nella neve senza risonanza,
soffocate in un attimo nel silenzio bianco, come
quando si mette
la mano sopra un bicchiere tremante di musica. Allorché, a un tratto, m’accorsi che alla disperazione veniva aggiungendosi un’inquietudine salita in me dal profondo delle abitudini, e provocata, con mio sdegno, dalle scarpe di vernice, che si riempivano di neve. E questa uggia assurda, che in una giornata comune avrei accolto naturalmente, mi indispettiva, per quella sua pretesa di non ammettere l’anormalità dell’ora. Allora mi resi conto di un primo elemento del teatro di Jean-Jacques Bernard e di Géraldy: la coesistenza di sentimenti e di mosse normali, disancorate dalla zona arcana della vita ordinaria, con la straordinaria fioritura della tragedia. Intanto, ripensando alla scena che si era svolta in quel breve passato, dovetti
considerare con malinconia che nella vita c'è povertà di grandi manifestazioni — giacché, quell’addio, glielo avevo detto proprio come se fosse stato un addio di un giorno per l’altro. E ora a studiarmi questo miserabile addio tutt’al più ebdomadario, e pensando alle impossibili sfumature che in verità sarebbero d’obbligo a chi vive con civiltà, mi rincresceva.
Allora ricordando le innumerevoli scene sciupate del mio passato, con la nostalgia dei rimedi tardivi, stabilii dentro di me che le nostre parole e il nostro gesto non sono mai proporzionati alla gravità del sentimento, e restano indifferenti come se, non sgarrando dal ritmo comune delle cose scorse e mostrando di disinteressarsi di noi, ci volessero persuadere che non c’è ragione di credere a un mutamento. Di questo resi responsabile la malignità della vita, perché questa mancanza di proporzione tra il nostro pensiero e le nostre parole ci fa soffrire — tanto è vero, che, quando siamo disperati, vorremmo scatenarci d’intorno una tempesta e declamare, senza temere la meraviglia degli uomini, come il re Lear. Ma allora mi resi conto del secondo elemento del teatro di Jean-Jacques Bernard e di Géraldy: la espressione dei sentimenti drammatici in parole povere — in parole, come
quelle che veramente
avevo
detto alla mia amata,
salutandola.
E non
era
forse il mio buonasera molto più tragico che una scena d’addio? Più tragico, anche perché gli era unito quel rincrescimento intimo che ci dà un’espressione inadeguata. Ma qui dovetti concedere che questa rinuncia era permessa soltanto ai forti; perché a ogni autore vien fatto piuttosto di sfogare sulla scena, dove trova il consentimento
dell’abitudine,
le sue
proprie
pene,
compresse,
nella
vita, da quello
stesso pubblico che le ammette a teatro. Così si spiega, del resto, come il pubblico dei grandi teatri non possa fare buona accoglienza a questo genere drammatico. Un pubblico un po’ grosso e assai mescolato, d’istinto esige che la scena cominciata si svolga come teatralmente è stabilito, e come egli, dotto in intrighi di vecchie commedie e ormai perspicace a indovinarne i finali, prevede; ma se trova sul palcoscenico una scena come quelle che gli capitano a lui, protesta, perché gli pare che non sia vera. Difatti, nella sua vita, non l’ha saputa osservare! Nessuno dei borghesi che vanno a teatro ha mai detto, nelle scene d’amore di cui abbellisce le memorie, quelle battute venerande che si conquistano, a teatro, il suo applauso. S'è convinto, ciò nonostante, che esse saranno state l’invidiato privilegio di altri più coraggiosi, o tutt’al più, che non gli è ancora capitata la buona occasione di metterle fuori. Ma al borghese non viene in mente che quelle dichiarazioni non le ha mai dette nessuno. 52
Ero arrivato a questo punto del mio amaro ragionamento, quando mi domandai se, dopo tutto, anche questo borghese non avesse una volta tanto ragione, chiedendo che, almeno sulla scena, i momenti gravi venissero segnati con delle parole gravi, perché non gli capitasse di lasciarli passare inavvertiti. O come può fare, disgraziato, a capire che questo mio buonasera definitivo, è tragico appunto perché somiglia a un buonasera, di quelli all'ingrosso? Se i miei sentimenti mutano, quel buonasera gli presenterà sempre una stessa fisionomia, famigliare e crassa. Ma per mutamento di venti mi trovai tutta un tratto mescolato alla musica crescente di una scala armonica, edificata, distrutta e riedificata continuamente da mani invisibili, sopra qualche pianoforte. Ora che nevicava più fitto, la scala armonica, che per quel salto di nota si vestiva di una innaturale e pensosa tristezza, veniva a partecipare della nevicata come se ne fosse l’espressione musicale. Le note, che si succedevano regolari, distaccate e granulose, sembrava che volessero disciplinare, con l’esempio del loro buon ordine, la folle discesa dei fiocchi di neve; e, d’altra parte, per le immagini che suscitavano, dei tasti bianchi, parevano anch’esse come dei fiocchi raggruppati e induriti, perché sciogliendosi e ricoagulandosi rapidamente una dopo l’altra, componessero il canto profondo, che non riusciva a cantare la massa barbara della neve. E più che un pezzo vero e proprio, quel salire e scendere come di un’anima che imprigionata in quelle note da una volontà superiore, si divincolasse, acquistava nella notte un’andatura ieratica e un accento straziante. Io rimasi a lungo immobile, per aspettare, nel correr liscio delle note, il salto della settima, da cui veniva propriamente quel gemito umano. Allora, mentre con ansia struggente contemplavo la facciata impassibile di quella casa, in cul qualcuno suonava, mi ricordai l’osservazione di uno scrittore francese, che potrebbe essere Victor Hugo; niente è così suggestivo come un muro, dietro il quale succede qualcosa. E mi dissi: noi siamo un muro, dietro cui succede qualcosa. Questo è il principio degli intimisti francesi. Ma bisogna rendere questo muro trasparente, in modo che alla soddisfazione di seguire un intreccio, si aggiunga la gradevolezza di entrare di straforo in un mondo nuovo, e di capire il gioco patetico dei sentimenti come per una miracolosa intuizione. Questa è un'illusione per metà cosciente, giacché il pubblico, pur sapendo che quei personaggi gli sono stati chiariti dall’arte dello scrittore, rimarrà stupefatto, quando, a casa, s’accorgerà che gli uomini e le donne
non hanno più trasparenza. Si capisce quindi che il borghese, il quale non si dà la briga di fare della psicologia a domicilio, rimanga insensibile allo squisito piacere di una falsa e facile collaborazione. Ma si capisce anche come, se non ci sono grandi attori e grandi pittori, il dramma non riesca a uscire dal boccascena. Quale è dunque il segreto di questa tecnica? La composizione, studiata così, che i piccoli fatti oscuri
diventino grandi e luminosi. Questi piccoli fatti, si noti, acquistano forza in quanto sono collocati al loro posto: la prova che questi drammi si reggono soltanto a una sapiente composizione, come le cattedrali gotiche si reggono sull’equilibrata contrapposizione degli archi, la possiamo avere, mutando l’ordine di quegli episodi e vedendoli, immediatamente, impallidire. Lo scrittore talvolta presenta il dramma e il personaggio, con una sola battuta, fino in fondo; talvolta li lascia trasparire, come se uscissero naturalmente dalla
nebbia delle cose ignote. Un procedimento di questo genere si trova nel primo capitolo dell’Education DO
Sentimentale. Qui Arnoux è segnato con due o tre particolari quasi generici: fa passare davanti a sé Federico, sussurra delle gracieusetés all’orecchio della moglie, ottiene un ribasso sul conto del pranzo. Questi due o tre movimenti che non possono ancora rivelare un carattere, acquisteranno un valore psicologico quando saranno visti retrospettivamente e negli altri inquadrati; ma concretano, per ora, quello sgomento che ci riempie a contemplare degli sconosciuti quando pensiamo a una vita sviluppata e costruita, con un passato ricco di avvenimenti e di passioni invisibili, che in quei parchi gesti, luminosi per certuni, e per noi indecifrabili
ancora,
affiorano.
E non si tacci questa scuola di verismo — perché il verismo io sono convinto che non esiste. Qualunque dramma, semplicemente perché è composto non è più vero. Qui gli scrittori hanno saputo tessere un’armonia di convenzioni teatrali, più squisita e meno appariscente. Tutt’a un tratto quell’essere che suonava, benché questo sembrasse inverosimile, smise.
Il silenzio, tornando dopo essere stato interrotto, mi si rivelò colmo di rumori —
e una pena dolcissima, stanca e tiepida, che m’invase per l’annientamento
im-
provviso di quella musica, sciolse adagio in me l’acerba e ghiaccia disperazione. Con quella scala armonica era entrata in me un poco di primavera. E pensando che il vento mi avrebbe sbarazzato di questo male come aveva infranta la musica, ora quasi mi rincrebbe, perché avevo inconsciamente sposato il mio dolore a quella scala, e all’uno
e all’altra mi stavo
affezionando. [« IL Baretti », febbraio 1925]
ELOGIO DELLE FORMULE Studi su Adriano Tilgher e Fausto Maria
Martini
La maggior parte dei critici — e qui parleremo dei critici teatrali, ma, in fondo, il problema s'impone a ogni sorta di critici — è, in principio, eclettica. Ogni critico, secondo il suo carattere alle volte maligno e alle volte benigno, dispensa biasimi e lodi, che non si sa bene da che cosa siano regolati; perché secondo la convenienza del momento, il critico si riferisce a qualche principio generale in cui è sottinteso che tutti s accorderebberoi oppure a quei princìpi che l’autore si sarebbe imposto e non ha poi saputo mantenere. Il pubblico, il quale, di questa critica apprezza la malleabilità e, talora, il buon gusto, non
s'è ancora
accorto
che essa manca
assolutamente,
in compenso,
di re-
sponsabilità; e che anche per questo, e per la segretezza e il lappolare continuo di princìpi, che nessuno può controllare, essa non riesce a far quella sistemazione dei valori sopra una scala unica, che mi sembrerebbe la sua grande funzione. Per questo, quando ho visto, prima con un critico come Tilgher e ora con un critico come Fausto Maria Martini, tentare una pubblica dichiarazione di princìpi, per spiegare, imprigionandosi dn alla loro formula di partito preso, che cosa intendono per teatro, invece di indignarmi di questa rinunzia, mi sono molto rali perché in essa vedo l’unica ‘regolare e pacata chiarificazione della critica moderna. « Giudicare è inquadrare nella storia, è collocare a suo posto nel movimento DE
generale dello spirito », scriveva, ancora negli Studi sul teatro contemporaneo Adriano Tilgher. Ma per inquadrare bisogna che il critico abbia un suo mondo, in cui ogni nuovo elemento possa trovar sistemazione. « Caselle », dice con
spregio il pubblico.
Appunto.
sia limitato, basta che sia coerente e armonioso.
Non
Ne abbiamo
importa
che il mondo
qui dinanzi due, che
si oppongono: quello di Tilgher (La scena e la vita, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1925) e quello di Martini (Cronache teatrali, Barbéra Editore, Firenze). In ognuno di essi, studiando come via via i princìpi sono stati messi in pratica, potremo trovar qualche inesattezza; gli stessi princìpi appariranno discutibili; ma dovremo ammettere che ci troviamo dinnanzi a un mondo, in cui ogni dramma può trovare posto e proporzione. La critica così rientra nelle leggi dell'armonia, che dovrebbero sempre governarla. La formula di Tilgher è stata largamente esposta, come tutti ricordano, in quegli Studi sul teatro contemporaneo che sollevarono tanto rumore. In verità, egli è stato il primo a piantare nel mezzo di uno spalancato e facile eclettismo, quella sua chiusa,
arcigna e nuova maniera di giudicare il teatro, che è poi «la formula ». La formula fu molto discussa; anche perché, per quella sua prepotente aria paradossale, e per certe oscurità di concetto, era facilmente discutibile. Tilgher diceva: arte = originalità; attualità.
originalità = attualità.
Quindi,
logicamente,
arte =
Ma che cosa fosse questa « attualità » non era ben chiaro, perché alle volte essa si avvicinava all’universale e alle volte al contingente. In questo secondo volume troviamo, a proposito di De Curel, un’osservazione che riattaccherebbe l’attualità piuttosto all’universale che al contingente. « Per esser troppo del suo tempo, non nel senso profondo in cui l’arte è sempre voce del tempo, ma nel senso di legarsi troppo alla forma che problemi di vita contemporanea hanno assunto in altri domini
di conoscenza,
De
Curel
rischia di non
essere
l’uomo
di domani ».
Se dunque Tilgher per attuale intende quello che è moderato, ossia vivo e eterno, quando parla dei problemi della verità e della finzione, che avrebbero rinnovato le nostre scene, più che un imperativo categorico all’artista, egli fa una constatazione. Perché non potrebbe esporsi al rischio di sostenere che è vivo, moderno e eterno soltanto il problema della realtà e della finzione. Ma quel che egli esige dalla nostra arte, si vede più chiaramente quando, ancora negli Studi sul teatro contemporaneo, Tilgher si estende sui doveri del critico moderno. « Avere un’idea chiara del problema dei tempi nostri; di quella determinata ansia di creazione di un nuovo mondo che è il tempo nostro e gli conferisce un'impronta inconfondibile,
è condizione
necessaria,
presupposto
indispensabile
per fare della
critica sul serio, per riconoscere il capolavoro se domani si presenterà ». In un certo senso, la vita moderna gli sembra necessaria come una forma fissa, in cui far calare una materia universale. La formula dunque c’è; e in questo nuovo
libro, più che nell’altro, tutto fatto
di grossi pezzi dimostrativi, si può veder come è messa in pratica. La critica, che ne deriva, è necessariamente una critica filosofica. È questa una prima limitazione. Ma nonostante le obbiezioni che le sono state mosse da molte parti, io credo che una critica di tale natura, possa anche rientrare, per vie traverse, nel campo della
critica suggestiva. Osservate, per esempio questa definizione di Lenormand: « Ad H. R. Lenormand l’uomo appare qualcosa che non in sé, ma fuori di sé ha il principio del suo
D9
essere e del suo divenire; per parlare in linguaggio bergsoniano, egli non già vive ed agisce, ma è vissuto ed agito dalle forze fisiche, dalla natura che è fuori di lui ». Lo stesso si può dire per questa sintesi dell’Unanimismo di Jules Romains: «In aritmetica,
due metà
fanno
un’unità.
In trattoria,
secondo
un’osservazione
fatta
or è molti anni da un personaggio della Vie de Bohème e della quale chiunque siasi trovato a corto di quattrini ha avuto modo di constatare per conto suo l’esattezza, due mezze porzioni fanno più di una porzione intera. Generalizzate, come fa Edgardo Poe nella novella La lettera rubata, ponete che nella realtà concreta della vita due metà fanno più di un’unità, ed avrete il principio dell Unanimismo ». Che la critica filosofica abbia degli inconvenienti è indubbio. Tra l’altro, essa non si sfama appieno che di idee universali; e però alle volte, anche nella critica di Til-
gher, dobbiamo notar degli ingrandimenti un po’ appiccicati; perché in verità non c’è dramma borghese in cui non si possa ritrovare un problema del Male contro il Bene, del Passato contro il Presente, moltiplicando, come fanno i geometri con uno strumento semplicissimo, le povere e umili situazioni create da un cattivo contro
un buono, o da un padre contro un figlio. Ma questo inconveniente è sempre da preferirsi a quello opposto. D'altra parte, la critica filosofica, che s’esercita sui concetti, stenta per la sua
stessa natura a rendersi conto della realizzazione, che rientra nel campo della pura sensibilità. E Tilgher, che di questa non manca, si trova per così dire impacciato dalla architettura di giudizi in tema universale, che ha costruito intorno ad ogni scrittore. Così, anche quando vorrebbe scendere a un esame più aderente non gli riesce, come non riuscirebbe a uno scultore, che da due ore s’accanisce sopra un grosso blocco di marmo, di infilar un ago. Deve perciò venire a delle transazioni curiose con la filosofia; e rassegnarsi a notare, di tutte le forme in cui la realizzazione si esprime, quelle più schematiche, che non si staccano troppo dall’aria universale, in cui tutto il saggio è immerso. Per scegliersi un’esempio tipico della critica tilgheriana, quando s’applica alla realizzazione, citerd un passo del saggio sul Cigno di Francesco Molnar: « Il difetto della commedia... è in ciò: che non è il cigno che, sceso a terra, e diventato oca, se la sbriga da sé a ricuperar la testa che aveva perduta; la soluzione viene dal di fuori, da un personaggio che interviene come deus ex machina a sciogliere il nodo strettosi fra Alessandra e il professore ». A questo punto, che Tilgher coglie sempre con giustezza, la sua critica filosofica è molto sensibile. Potrete infatti ritrovare la stessa osservazione altrove: ad esempio, nel saggio sul Pécheur d’ombres. E si capisce. Nel caso presente, la rigidità della forma critica, benché annulli certi arabeschi critici da orafo, si rende, tra le mani di Tilgher, preziosa. Ma in un altro caso invece, il caso unico del Tombeau su l’Arc de Triomphe, di Raynal, mi
pare che rischi di scombuiare. La tesi di Tilgher, a proposito di quest'opera, vi pare, sulle prime, bizzarra, ma attraente. Egli vuol dimostrare che gli appunti mossi contro quell’opera dalla
critica francese, varrebbero se l’opera fosse un dramma, ma non hanno peso, perché è una tragedia. Ora se voi considerate attentamente le due parti del saggio, prima quella intorno al dramma e poi quella intorno alla tragedia, v’accorgerete che nella prima si tratta della realizzazione, e nella seconda invece, si parla dell’enunciazione della idea drammatica. Il salvataggio della tragedia riesce, perché Tilgher, abbandonando l’esame critico, della realizzazione, passa allo sviluppo filosofico del tema, 56
senza rendersi conto, che dovrebbe
poi mettersi a studiare come
è stato, anche in
forma di tragedia, tradotto. Ma nonostante questi impacci, che gli mette il suo sistema di critica, Tilgher ogni tanto, riesce durante una scappata, a mostrare come saprebbe giudicar, con la pura sensibilità. Ne La scena e la vita abbiamo due esempi magnifici di esame della forma. Quello su Bataille (nota a pag. 11, lo studio della « tavolozza » del drammaturgo), e specialmente quello su Cecof, che è forse il più profondo del libro: « Naufraghi in porto, come un piroscafo abbandonato di cui l’acqua lentamente riempia la stiva ». Così sono dipinti i protagonisti di questo grande tragico russo — e a me pare che non si potesse trovare una metafora più solenne e definitiva. La formula Martini invece è una formula, che esige più sensibilità che dottrina e per questo è più larga, ma anche più vaga, più ansiosa, più curiosa e tremolante, e, in un certo senso, non ancora chiaramente compita come quella di Tilgher. Tutti i lettori di questo delicatissimo critico sanno che per lui il vero teatro è poesia; e questo pensiero ritorna, come deve essere, in ogni articolo, in cui si esamini un’opera che può rientrar per qualche verso nel campo dell’arte. Che cosa sia questa poesia Martini non ha tentato di spiegarlo in un libro fondamentale, come ha fatto Tilgher; l’ha detto un po’ di qua un po’ di là, non senza un certo ondeggiare fra due o tre concetti, o quasi direi sentimenti maggiori, ma sempre con un grande equilibrio, una lodevole diffidenza delle apparenze, e una profonda onestà. Poi che abbiamo dinanzi tutti i saggi dell’anno, possiamo, come il can da pastore, riunire le varie briciole di questo concetto di poesia, disperse attraverso il libro come le pecore di un gregge pascente in un grande prato. In fondo all’articolo su La leggenda di Liliom Martini, in un momento di gioia, grida, più che non constati che « il teatro più alto e più puro è sempre e solo quello che deriva la sua più fervida vita dalla poesia delle cose e dalla interpretazione lirica della realtà ». Questa affermazione, la più categorica forse del libro, è composta di due parti: « poesia delle cose » e « interpretazione lirica della realtà ». La « poesia delle cose » rimane un po’ oscura; è una di quelle formule che non riescono vuote di senso, che anzi vi lasciano dentro
delle frange di sentimenti;
ma
che, a batterci sopra,
non
risuonano. Quella « interpretazione lirica » che altrove è chiamata « trasposizione lirica », è più chiara. In un altro passo dell’articolo su La leggenda di Liliom questo concetto è ribadito e amplificato: « Nulla che valga a ridarvi l’intima forza del dramma, la poesia della leggenda, quel tanto cioè di vita poetica che il Molnar ha aggiunto alla modestissima realtà da lui presa a pretesto e per cui quell’umile serva che si innamora del banditore della giostra diventa il tipo di tutte le povere creature perdutamente prese di un uomo indegno di loro e assume a poco a poco un valore universale di umanità, evidente e incancellabile ». La poesia, secondo questo passo, sarebbe dunque un’atmosfera di universale che brilla intorno ai tipi vigorosamente creati. In questa regione astrale, le formule dei due critici si incontrano; ma secondo l’uno ci si arriva a traverso il crogiuolo dei problemi moderni, e secondo l’altro mediante un afflato lirico, che sia come la luce del crepuscolo sulle vetrate di una strada esposta ad occidente. Nell’articolo sul « Tenacity » noi vediamo come questo bisogno di liricizzazione 6%
faccia sì che l’autore gusti soprattutto quelle opere per così dire di piccola complessione fisica; intorno a cui sia possibile diffondere un alone spirituale. Per poter « suggerire » qualche cosa, per potersi espandere a poco a poco, bisogna che il nucleo del dramma abbia una gracile apparenza, e sia come quegli uomini, che con un corpo privo di prestigio, piacciono a poco a poco per la luce interna di cui sanno abbellirlo. «Far qualche cosa con niente », l'ideale drammatico che Racine si propone nella sua mirabile prefazione al Titus et Bérénice, è appunto ricordato da Martini in questo articolo. « Autentico teatro di poesia, — aggiunge il critico — questo nel quale l’artista muove dal più povero realismo e vi indugia dalla prima all’ultima scena, ma, grazie alla sua sensibilità estremamente fine e grazie soprattutto alla misteriosa efficacia del suo lirismo, suscita intorno al più minuto dettaglio di verità che egli sfiora,
una sorta di ampliamento poetico che subito si compone — da sé e quasi assente il commediografo — in una precisa unità di visione e di significato ». La poesia sarebbe dunque più precisamente la cristallizzazione (per parlare alla Stendhal) che si fa intorno a un nucleo povero. Altre volte, ma davanti a tutti questi esempi l’eccezione non ha troppa importanza, la poesia può trarsi dall’« indagine ansiosa, paziente, minuta dell’anima umana di fronte al mistero dell’amore » (dall’articolo su Amare di Géraldy), e quindi farebbe rientrare nella formula di Martini qualsiasi dramma psicologico. In ogni caso — e questo è importante da stabilirsi — la poesia non ha niente a che fare con la lirica declamatoria, anche se espressa in veri e propri endecasillabi. « Eloquenza e teatralità — scrive Martini a proposito dell'Aquila del Vespro — sono i caratteri essenziali di questa tragedia, e chi mi legge non ignora quanto poco il mio spirito sia sensibile a queste due lussuriose virtù ». I lettori avranno già osservato che nella prima parte dell’articolo io mi sono limitato a riassumere una formula già esposta e a veder come fosse adoperata, nella seconda a trovar dei contorni alla formula stessa. E queste mie due posizioni di fronte al problema sono, di per se stesse, una manifestazione critica. Non posso, a questo punto, non accennare agli effetti psicologici che hanno, sui due critici, le loro formule.
Perché Tilgher, una volta che ha trovato il nucleo con-
cettuale del dramma, e l’ha messo a posto nel gran registro del tempo, fatte alcune osservazioni sulla tecnica, si trova pago. Non si sente mai, nella sua critica, un senso di rammarico! E si capisce. Egli si è proposto un fine preciso e, in certo senso, risolvibile perfettamente. Di fronte a un dramma egli si trova come di fronte a un’ostrica, e quando ne ha cavata la polpa può contemplare, con soddisfazione di buongustaio, una conchiglia pulita. Mentre Martini, che dalla sua formula è portato a esaminar molto più la realizzazione che il tema, si trova sempre in uno stato d’animo di angosciosa insoddisfazione. Per quanto si consumi a ridarci quel nebbioso e soavissimo senso di gioia, che ci riempie dinnanzi a un dramma poetico, egli non può naturalmente appagarsi mai; un’opera, quella parte misteriosa e intangibile, che si disfa soltanto ad essere esaminata e riprodotta in altre parole. Gli stessi pezzi staccati dall’opera si impoveriscono, si alterano; e il lavoro del critico è come quello di un uomo che volesse trasportare con un secchio il colore azzurro del mare. Ormai il pubblico conosce gli ideali drammatici di Tilgher e di Martini e a lume di naso può immaginarsi che cosa piacerà all’uno e all’altro. Se tutti i critici 58
avessero la loro formula, le stroncature e le lodi troverebbero in quella sistemazione un peso doppio. E per quanto oggi non si possa più rinunciare a un certo benevolo eclettismo,
non
stupirà che un
Molnar
piaccia più profondamente
a Martini
che
a Tilgher, e un Pirandello più a Tilgher che a Martini; per quanto le stesse opere possono piacere ai due critici per ragioni diverse, il che dimostra che per essere regolata da qualche legge, la critica non diverrebbe né insensibile né settaria. [« ZL Baretti», agosto 1925]
IL VALORE
DEL
SILENZIO
L'interesse che si sta risvegliando per il cinema in tutti gli ambienti, ci consente uno studio in cui si cerchi di stabilire se il cinema sia veramente un’arte o sia invece rimasto sul piano di quel « fenachistiscopio » che Baudelaire considerava con un certo compiacimento tra i giochi scientifici « poco conosciuti » e « troppo cari », atti a sviluppare nei bambini «il gusto degli effetti meravigliosi e sorprendenti ». Questo problema è stato già trattato da Antonello Gerbi sul « Convegno » con ampiezza e io qui vorrei soltanto suggerire un argomento che potrebbe servire ai cineasti per difendere il cinema. Senza avventurarmi in una discussione d’estetica, ricca di trabocchetti, e formular princìpi generali che m° impegnino troppo, voglio notare come uno dei maggiori piaceri che gli uomini provino dinnanzi a un’opera d’arte sia il frutto di una integrazione; come cioè si goda esteticamente a vedere un mondo perfetto, un tutto, costruito con dei mezzi imperfetti e parziali. È forse questo un omaggio all’intelligenza e all’immaginazione dell’uomo; ma che differenza ci sarebbe fra l’arte e la natura, e fra l’uomo e Dio se ogni arte fosse completa com'è la realtà e l’artista avesse a disposizione tutto? Ci sarà forse in questo concetto dell’arte qualcosa che la riattacca al concetto, più volgare, dell’ingegnosità. Ma io non me ne spavento, perché in verità si potrebbe dire che l’arte è un’ingegnosità divina. Secondo
Bergson,
nell’arte
godiamo
particolarmente
le intenzioni
dell’artista,
quando vediamo che egli ha le forze per esprimerle. Mi chiedo, per analogìa, se quello che godiamo nell’arte, senza più nemmeno rendercene conto, non sia quella stessa lacuna che l’arte riesce a riempire; il mistero e l’incredibile magìa di un aspetto della vita ricostruito per pura suggestione; l’illusione medesima per cui un mondo ci appare completo quando, in pratica, non è che in abbozzo. Questo piacere, ridotto alla sua forma elementare, l'hanno provato tutti dinanzi a certi cartelloni, in cui è sfruttato largamente il compiacimento che prova l’uomo a illudersi. Ricordo d’aver provato un’infantile, istintiva e barbara gioia dinnanzi a un frack assolutamente nero, ove per via di non so che suggestioni di forme e di contorni, l’occhio immaginava tutte le linee del braccio e delle mani. Ingrandendo questo piacere, e trasportandolo su un piano più elevato, credo che si ritroverà il piacere che ci riempie dinnanzi a un’opera d’arte. Noi non ci rendiamo più conto del gusto intellettuale che ci dà la pittura, quando esprime un volume sopra una superficie piana; o la scultura quando rende un movimento con l’immobilità. Eppure si può dire che divengono arti in quanto hanno da integrare un moto,
99
in quanto hanno da suggerire un aspetto mancante, in quanto eccitano, con tale resistenza, l’ingegno umano a superarla. Non voglio concludere naturalmente che se la pittura riesce a rendere il senso del volume e della profondità su uno spazio piano sia solo per questo della buona pittura; e che se la scultura riesce a rendere il senso del movimento con una statua immobile sia solo per questo della buona scultura: il problema del bello, il problema, cioè, del punto in cui si deve riconoscere nell’arte la luce della bellezza, è tutto un
altro. Arte si prende qui semplicemente come mezzo per raggiungere la bellezza. Possiamo dire che non tutte le manifestazioni dell’uomo sono mezzi atti a raggiungere la bellezza. Possiamo dire che la pittura e la scultura sono due di questi mezzi; e a questi aggiungere, ultimo venuto, il cinematografo. Chi va al cinema a colori sa come l’occhio, che dinnanzi ai quadri incolori immaginava tutte le gradazioni delle tinte, quasi che potesse contemplare una fetta di realtà viva, si senta spaesato e stanco dinanzi allo splendore fittizio dei quadri colorati. Si vedono passare delle figure in cui una tinta caramellata ha l’aria come scissa e deposta sulle persone. I colori mancano di quella necessità persuasiva e dolce che hanno nella natura e di quella imprevista armonia che hanno nella pittura. Quello che si sente infelice in noi è l'immaginazione,
che con
dinnanzi
delle
macchie bianche e nere poteva ricostruirsi facilmente e felicemente una scintillante scala di colori. La prima suggestione, la prima integrazione del cinema, i colori resi con delle ombre,
è mancata.
Nulla è più utile delle films colorate per capire come la naturalezza e la perfezione si possano raggiungere in arte solo con mezzi convenzionali e imperfetti. I colori in una film sono il primo passo verso il teatro, che sarebbe quasi raggiunto se agli attori fosse data anche la voce. Immaginiamoci degli attori che parlano. Il cinema godrebbe così del movimento, del colore e del suono e si avvicinerebbe più di tutte le arti alla natura. Ma possiamo dire, in base all’esperienza dei colori, che il cinema allora parrebbe artificioso e pallido; perché invece di esser un altro
mondo, costituito con dei mezzi convenzionali in cui a poco a poco gli uomini fossero immersi fino a non accorgersi più della convenzione, sarebbe una copia stanca delle cose reali. Perché l’arte ci dà l’illusione di essere completa e naturale solo quando ci dà quest’illusione senza esserlo veramente; giacché se fosse completa e naturale ci darebbe un’impressione di falso e insieme di sovrabbondante e di manchevole. Di qui si vede come il cinematografo sia un’arte, perché è un’arte muta. Non ci rendiamo abbastanza conto del piacere che proviamo dinnanzi al silenzio di questi attori. Tutto il piacere estetico del cinema può dirsi condensato in questa illusione. Perché in verità dopo pochi minuti che vediamo una film, noi non abbiamo più la sensazione del silenzio; e non già per via della musica, che non sentiamo e che, come dice bene Gerbi, non serve che a tapparci le orecchie, ma perché il mondo sullo schermo è ricostruito perfettamente con la mimica. A Parigi ho visto proiettare due film: una del 1910 e una del giorno d’oggi. In quella del 1910 gli attori, invasi dalla paura di non farsi capire abbastanza, gestivano, più che per esprimere uno stato d’animo, per farne una dimostrazione figurativa: così, per far capire che pensavano a un oggetto, puntavano l’indice contro la tempia e poi lo tendevano verso l’oggetto. Il cinema era già un’arte; ma un’arte di cui non ci si sapeva servire, un’arte in cui non s’era raggiunto la bellezza. Quando 60
Charlot, nella Febbre dell'oro, per l’impaccio di un vecchio mendico che lo guarda, non
sa mettere
in tasca
una
fotografia,
che ha trovato
per terra, la bellezza
cine-
matografica è raggiunta, perché, senza parlare, senza uscire dai limiti concessi a un attore, che deve farsi capire con la pura mimica, senza apparentemente uscir dai limiti della vita, Charlot è riuscito a renderci un misterioso sentimento dore umano, meglio che se l’avesse descritto, recitato, o dipinto.
di pu-
Il bello sta tutto in questo apparentemente. Perché nessun uomo gestisce mai come gestisce un buon attore. Eppure un buon attore ci dà oltre all’illusione di parlare anche l'illusione di non gestire più di un uomo qualunque. L’arte del cinema è dunque l’arte di render le passioni dell’uomo con la pura mimica. Tale è la sua giustificazione psicologica, e basterebbe questo, per distinguerlo dalla pittura e dal teatro. Ma oltre a questo è l’arte del sogno — l’arte cioè che sa rappresentare, con una certa logica, quello che l'immaginazione più scatenata concepisce nei momenti in cui è in festa. So che la Duse, durante il suo viaggio in America, passava le giornate al cinematografo. Mantelli che trasportano a volo chiromanti e ladri, valli ghiacciate nella luce lunare, e bianche di cascate, sorprese da incredibili altezze, gelatina d’occhi di un pubblico visto dal trapezio, uomini che nelle pupille deliranti di un affamato si trasformano in polli, capanne che il vento trasporta sull’orlo di enormi abissi, e che gli abitatori, ignari, fanno dondolare sul vuoto, movimenti scomposti nel loro stesso ritmo segreto e rivelati dal rallentatore allo stesso modo che un analista spalanca i sentimenti dell’animo; immagini in cui altre immagini misteriosamente trapelano; particolari che nessuno vede ingigantiti e staccati dalla loro compagine; questa è materia di cinema, che non è materia di nessun’altra arte. Siamo dunque propensi a porre anche il cinema fra le arti, appunto perché il cinema è un mondo completo, ottenuto con mezzi parziali e convenzionali. Il cinema ha una tecnica sua e, appunto per questo, serve talvolta a rivelarci la natura. Tutti sanno come, nei periodi in cui si vedono molti quadri, si scoprano facilmente, nella natura, impreviste e luminose pitture; o come, nei periodi in cui si legge un analista, che potrebbe esser Proust o Dostoievski, si facciano sugli uomini e sul mondo continue osservazioni, che in quegli scrittori troverebbero la loro formula; e nei periodi in cui si leggono dei poeti, che potrebbero essere Dante o Verlaine, si trovi l’universo pieno di immagini dantesche e verlainiane. Questo succede anche andando al cinema. Dopo che s’è vista una bella film si vede il mondo sotto un improvviso aspetto cinematografico. Si immaginano, si sorprendono molte scene che non si potrebbero fissare, nella loro sostanza, che in una pellicola. E quando si voglia considerare il cinema come un’arte, questa sua forza di suggestione mi pare un elemento definitivo. [« Solaria », giugno 1926]
61
PERCHÉ
NON
OSIAMO
PIANGERE
A TEATRO
Perché mai a teatro si ride con facilità e disinvoltura e s’ha vergogna di piangere? Questo problema se l’è posto anche un francese del secolo d’oro, chiedendosi se è più nell’ordine delle cose naturali di sbottar dinnanzi al ridicolo che non di impietosirsi dinanzi al triste. E non si può dire che questo succeda per la paura, che abbiamo, di sfigurarci, perché a ridere la nostra faccia si corruga e deforma più che a piangere e tutti sanno che le fanciulle, quando ridono troppo, si voltano da un canto, e si tappano il viso col fazzoletto. Forse che a confessar d’essere troppo sensibili, specie se ci si trova dinanzi a un tragico di maniera, si abbia timore di far credere che si prende per oro schietto quello che è falso? Ma che cosa ci si aspetta — d’altronde — quando si va a vedere una tragedia? Che faccia ridere? E se è di maniera il tragico su cui non osiamo piangere, non è anche di maniera il comico su cui, per dirla all’antica, «ci scompisciamo dalle risa »? « Come non è punto strano, osserva quello scrittore, che da tutto un teatro
s’alzi, a un certo punto, una risata universale — e questo anzi vuol dire che la commedia è molto divertente e che la recitano con candore — così quello sforzo che ognuno di noi fa per frenare le lacrime, e il falso riso con cui cerchiamo di appiat-
tarle, ci provano che il naturale effetto del tragico sarebbe di far piangere tutti insieme francamente gli spettatori, senza che s’impaccino, a vedersi in faccia, se
non
per asciugarsi le lacrime ». Ora se succede tutto il rovescio, qualche ragione ci ha da essere. Spectatum veniunt, veniunt spectentur ut ipsae, «vengono a guardare per essere guardate » scrive Ovidio delle signore. Anche senza dare a questa considerazione un valore universale, anche se non tutti gli spettatori son venuti a teatro per ragioni che riguardano più la platea che il palcoscenico, è certo che nella presenza del prossimo bisogna cercare la ragione del nostro pudore; perché se ci trovassimo soli e invisibili dinnanzi a una rappresentazione tragica, non freneremmo le lagrime, come le freniamo dinnanzi a un teatro pieno — e anche se le frenassimo, come ci succede quando siamo soli dinnanzi a un libro commovente, è per pudore di un io ormai obbiettivato che è come un pubblico. Son dunque gli altri, che pongon dei limiti all’espressione candida dei nostri sentimenti, sia che questi altri sian veramente persone straniere a noi, sia che essi siano in noi stessi come parti di noi staccate ed erette contro di noi. Tant'è vero che questo sentimento di vergogna è forte negli uomini più che nelle donne, e negli uomini che si studiano più che negli incoscienti, e questo vuol dire che per certuni avviene e per altri non avviene lo sdoppiamento, e che in quelli in cui lo sdoppiamento non avviene, è pacifico che non c’è più controllo. L’io rimane io e non è più «gli altri ». Ma in questo pudore bisogna ancora distinguere delle sottili gradazioni. Dinnanzi agli ignoti si ha meno vergogna di piangere che dinnanzi a persone che si conoscono e — peggio — a persone che si amano — e agli stessi parenti. Eppure non dovrebbe essere così. Perché se si può temere che un essere ignoto, seduto con quella petulanza che hanno le persone inquadrate dal mistero di un’altra vita, nella poltrona accanto, a vederti piangere dinnanzi a una scena patetica, e a singhiozzare addirittura se un direttore ruffiano ti fa sonare, al momento
oppor-
tuno, un violino dietro le quinte, ti giudichi di carattere nobilmente debole e scandalosamente sentimentale (è inutile protestare: l’uomo è così vano che anche al62
l'opinione del vicino ignoto dà qualche peso), non si può temere affatto che una madre, o un padre o un amico o una amica, i quali ti conoscono bene, si facciano un'opinione su di te o addirittura la mutino perché ti vedono piangere a teatro. Si potrebbe dire che la gente ha paura, con certe lagrime troppo opportune, di rivelare uno stato d’animo particolare — noto ai vicini — che trovi risonanze sulla scena. Ma questa, che è una buona ragione per certi casi, non serve a spiegare il pudore che uno ha a piangere, per del patetico che non lo riguarda per nulla, o solamente per le vibrazioni che hanno sui suoi nervi impreparati i suoni languenti di un violino. Ora, per renderci conto, a fondo, di questo pudore a piangere, e di questa facilità a ridere di fronte agli altri, bisogna studiare che cos'è il comico e che cos'è il tragico. Il tragico è la trasfigurazione scenica del dolore. Il dolore è la realtà universale ed eterna della vita; è una sostanza profonda e inesauribile di cui sono fatte tutte le storie umane; è il sentimento di cui tutti gli uomini si sentono fratelli, perché con mille sfumature, e per varie ragioni, tutti quelli che l’hanno provato si sono accorti ch’aveva una sola natura. Il dolore è quindi il sustrato segreto e comune di tutti gli uomini; la profonda e invisibile spiegazione della loro vita. Ora, anche se il comico fosse la trasfigurazione scenica del piacere, non ci sarebbe da fare il baratto con equità; perché il piacere non è retto da leggi universali ed eterne come il dolore; e, oltre ad essere breve, e di varia natura, è, coi tempi e gli uomini, mutabile.
Ma il comico non è la trasfigurazione scenica del piacere. È quella di certi momenti fugaci, che nella vita sono rari e di solito abbozzati, che il teatro moltiplica,
rifinisce, e prolunga innaturalmente. Il tragico trasfigura una sostanza superficiale, perché effetto di imprevidenti combinazioni. Il comico non è dunque che una efflorescenza splendente sulle onde della vita, e il movimento che suscita in noi il riso, è di per se stesso fugace e a fior di pelle, perché non rivela nulla di interiore, ma si esaurisce in sé, e una
Mentre il tragico —
volta cessato ci lascia a secco.
sostanza profonda
—
suscita in noi il pianto, che non si
esaurisce in sé, ma rivela il dolore, come delle bolle d’aria che salgono alla superficie, rivelano il fondo nascosto di uno stagno. Quando abbiamo smesso di ridere è sfiorita la gioia. Quando abbiamo cessato di piangere possiamo ancora patire.
Non è dunque giusto contrapporre, come si fa, il tragico al comico, perché in verità non si equivalgono. Ed ecco perché noi osiamo ridere e non osiamo piangere; perché piangendo spalanchiamo
il fondo
di noi stessi, illuminiamo
una
sostanza che sentiamo
affine a
quella dei nostri vicini e che ci rivela a loro, per il fatto che tutti, in base alla propria esperienza,
possono
controllarla;
e, com’è
noto è più duro aprirsi ai parenti
e agli intimi che agli sconosciuti. Mentre che cosa riveliamo ridendo se non quello stesso moto fisico, che è palese a tutti, provocato dall’arbitraria combinazione di elementi, e spento non appena essi si sono sciolti uno dall’altro? Il problema rientra dunque nel campo — più vasto — del pudore del nostro io; ponendolo a questo modo, dovremo concedere a ogni persona bennata di ridere liberamente e invece, quando gli venga da commuoversi — innocua scappatoia — di soffiarsi il naso. C'è molto — in questo pudore — della istintiva e ammirevole dignità umana. [« IL Mondo », ottobre 1926]
63
ILSDEATRO Fra gli scrittori di teatro, c’è chi risolve il dialogo imprimendo a tutte le battute il proprio stile, e chi invece si adatta allo stile del suo personaggio. Nel primo caso lo spettatore sarà fin da principio riempito di questa unità stilistica e si avvezzerà a poco a poco, fino a non badarci più affatto, all’armonioso artificio di un mondo, visto attraverso un vetro colorato; nel secondo, la battuta stessa per esser
sorpresa in bocca al personaggio un po’ a tradimento, acquista grazie alla sua veracità una importanza di osservazione psicologica, che stupisce e sveglia continuamente lo spettatore, e, direi quasi, un valore di segreta satira. Nel primo caso l’autore domina la battuta; nel secondo la battuta, così come è, si impone all’autore. Fra queste due forme di scrittura drammatica, ce n’è una mediana, che chia-
merei quella della stilizzazione sotterranea; in cui a prima vista il dialogo ha l’aria di essere impersonale, borghese e facile, e ogni battuta, presa in sé, non svela nessuna riposta volontà stilistica: ma alla fine, ciò nonostante, lo spettatore non potrà
liberarsi da una generica e fluida impressione di unità. Ci sono certi musicisti, come Pizzetti, in cui lo stile è di questo genere. Queste tre maniere di risolvere il dialogo sono poi le tre maniere di concepire, più largamente, il dramma. Perché infatti troviamo il dramma lirico, in cui il drammaturgo è, senza dirlo, il misterioso e solo macchinista di tutto l’intrigo, l’unico cantore e ispiratore, che riempie di sé le altre figure, fino a dar loro una vita di seconda mano. Questo autore può rivelarsi addirittura in un personaggio che lo rappresenta e raccoglie, o mantenersi ipocritamente nascosto, spandendosi sui suoi personaggi e facendoli brillare, come il sole dà alle cose la veste illusoria dei colori. Troviamo poi il dramma di osservazione, in cui l’autore naufraga dentro la fredda inconciliabilità dei suoi personaggi, e non crede che nemmeno sul teatro, sia il caso di placarle nella sua espressione verbale, con la libertà che gli concede la convenzione dell’arte. Troviamo finalmente i lirici trattenuti, che sono come quei disegnatori sensibili e casti, che non osando e non volendo confidarsi troppo languidamente al calore di un carboncino arruffato in piccoli e sfumati triangoli d’ombre, ove la pagina segnata di linee povere trova calore e illuminazione. E queste mi paiono le tre divisioni insieme stilistiche e sostanziali, che si possono stabilire, per mettere un po’ d’ordine nella grande produzione drammatica della Francia moderna. Ai lirici confessi appartengono Claudel, Raynal, Ghéon. Agli osservatori Géraldy, Vildrac, Amiel. Ai lirici trattenuti Sarment, Bernard, Bouhélier, Lenormand, Romain. Il primo che abbia trovato la strada del dramma moderno a espressione convenzionale, è Paul Claudel. Claudel può dirsi, in un certo senso, il padre dei lirici confessi, e per questo, anche se non se ne sono accorti e se hanno risolto il dialogo altrimenti, Raynal e Ghéon (specialmente il Ghéon di Le Pain) da lui discendono. Ma Claudel è una mescolanza ruvida di terra e di cielo, di grasso e di misticismo, di divino e di umano, di rozzo e di sublime. E nelle persone stesse, la parte religiosa e sublime si rafforza per quella sensuale e terrestre, giacché, se spesso manca l'urto fra i personaggi del dramma, che grazie alla lirica finiscono per salvarsi ognuno sul suo binario e non incontrarsi, ci appare, formidabile e sempre spalancata, la tragedia interna di questa doppia e inconciliabile umanità. Ma luna e l’altra, cercando di sopraffarsi, si mettono in valore, come due lottatori tendono i
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muscoli. A questo s'aggiunga il senso veramente tragico che è nello stile — crogiuolo duro, grosso e sovrano, in cui la materia deve essere sciolta e ricostruita continuamente — tanto che alle volte, si ha come l’impressione che, sentendosi violare e
struggere, essa si divincoli; mentre con stupefazione vediamo diventare enormi e immobili, certe nuances fuggevoli di sentimenti che bisognerebbe appena suggerire. Lo stile a poco a poco s’addensa, s’ingrandisce, fino a prender la mano allo scrittore, e a ridurlo, come se fosse materia, suo schiavo. Da questa battaglia, certe pagine escono, trafelate e sciupate, altre morte: ma l’insieme conserva quel senso di robusta
pienezza che non ha niente a che fare con la Bibbia vera e propria, ma che riesce a chi sa sfruttare la Bibbia, da un punto di vista moderno
e per questo
molto più
chiaroveggente. In Ghéon tutto Claudel è più semplificato. In Raynal poi è addirittura disciolto. Nel Tombeau sous l Arc de Triomphe, il ritmo si barcamena tra la poesia e la conversazione, e, per regolare e comprimere questa prosa che sgronda da tutte le parti, manca una forma. Le persone poi, avendo ormai preso quello zoccolo di terra e di umanità, su cui, in Claudel, il mistico simbolismo si piantava a formella, barcollano
languidamente nella nebbia dei simboli puri, e si scolorano. Tolta loro la psicologia corrente, che salva i personaggi di Claudel da una retorica troppo palese, i caratteri, in Raynal, si vanno riempiendo a poco a poco del loro simbolo fino a essere stilizzati in una maniera quasi goldoniana, ma a rovescio. Perché come Raynal stilizza un carattere, riempiendolo del suo simbolo, Goldoni stilizzava un carattere, allargando sino all’inverosimile una sua quantità parziale. Bisogna osservare, d'altronde, come,
serva stesso, pisca linea tanto
per questi scrittori, la lirica qualche volta
da scappatoia, rispetto a certi problemi psicologici troppo urgenti. Claudel costruttore di personaggi robusti, se la cava come un disegnatore che camle sue figure tra un arruffio di grossi segni, senza cercare direttamente la giusta, ma girandole intorno ampollosamente e cogliendola, in mezzo a lusso di anelli e di fregoni, un po’ a caso. Perché questi scrittori, quando
imboccano
certi canaloni, da cui non si saprebbe come
uscire, cominciano
a spar-
gere inchiostro come le seppie, cercando di svignarsela sotto sotto. A quelle situazioni in cui la chiara musica di una battuta diventa eccessivamente pericolosa, essi contrappongono una pagina di lirica, ove quell’incertezza è nascosta da un sapiente disordine. Il gruppo degli osservatori invece si è proibito questo trucco definitivamente. Un Géraldy, un Vildrac o un Amiel, si trovano nudi in una stanza vuota, sì che i loro gesti, offerti allo spettacolo del pubblico come i guizzi dei pesci in acquario, devono essere definitivi e controllabili continuamente con la misura della vita comune. Questa misura è a disposizione di tutti, e non c’è nessuno che non sia sempre disposto a servirsene. Ma questi drammaturghi, Vildrac in particolar modo, hanno saputo sfruttare la diamantina e impacciante chiarezza del loro teatro per un nuovo e più segreto
effetto di stile. La bellezza di un dramma come il Paquebot Ténacity, il quale, da principio, lascia scontenti e pur pensierosi, è paragonabile a quella dell’aratro. La maggior parte della gente che va in campagna, non s'è mai accorta che l’aratro, per quell’equilibrio armonioso delle sole forze necessarie ad arare la terra, può essere un modello di grandiosa e scarna bellezza. Ma quello che, agli occhi illuminati, appare come il segreto di questa bellezza non è il vomere, il dentale, o la manecchia, considerati
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in sé, ma la composizione di questi strumenti rozzi in un insieme che è musicale, | perché non ci si trova né sforzo né parte superflua. È, necessario, ad ogni modo, fare una distinzione tra due drammaturghi come Géraldy e Amiel e un drammaturgo come Vildrac. Perché Géraldy e Amiel, più disinvolti forse, sul palcoscenico, sanno
nascondere
questa nudità sotto un’amabile
negligenza, per cui dapprincipio sembra che si gingillino tra gustosi particolari d’ambiente, come per una soddisfazione di buoni fiorettatori; ma ci si accorge poi che sotto quei falsi indugi il dramma si sviluppa senza sciupare una battuta. Mentre Vildrac ostenta questa sua essenzialità con tanta compiacenza che ha l’aria di volerla sfruttare come per un nuovo effetto oratorio. All’effetto oratorio della semplicità, s’accompagna una tecnica, contrapposta, al mestiere del vecchio teatro, così simmetricamente,
da diventare
un nuovo
me-
stiere. Il mestiere dell’antiteatro, e cioè la semplificazione piuttosto volontaria, che spontanea, della architettura. E qui si corre di nuovo un pericolo, perché la tecnica,
di cui noi tutti siamo abituati a dire un gran male, come di qualcosa che si contrapponga alla poesia, non è poi che l’arte della composizione, e cioè l’arte di ordinare le scene in modo che l’insieme, anche quando è lungo, dia l’impressione d’esser breve. È quindi uno degli elementi necessari a fare delle costruzioni drammatiche, che si reggano. Ma Vildrac, in un ardore cristiano di rinunzia, ha voluto spogliare il suo dramma
di tutto quello che avesse l’aria di interessare per il congegno, invece che per la sostanza. Così, dato il soggetto popolaresco del suo dramma, che si svolge in una taverna di porto, notevole è l’assenza del colore. Pensiamo alla funzione che il pittoresco aveva nell’Arlésienne, per scegliere, tra il repertorio dell’Ottocento, un dramma a sfondo colorato. Qui si può dire anzi, che l’Arlésienne è del pittoresco coagulato nei personaggi, i quali ne sono come l’essenza, o la traduzione umana. Vildrac lascia correre. Direi forse che cerca di mettere in ombra quello sfondo, che gli offrirebbe delle risorse troppo facili. E questa non va messa soltanto tra le rinunzie formali, ma anche tra quelle sostanziali; perché l’atmosfera e il paesaggio, come la lirica, possono servire ad annegare certe situazioni psicologiche divenute insormontabili. Avrete notato, che le battute di paese arrivano di solito quando bisogna trovare una via di scampo
giù come,
o una diversione,
e riuniscono due zone
drammatiche,
su per
nei quadri, i gruppi staccati sono ricomposti grazie alle architetture.
Se, per esempio,
un
Lenormand
si fosse privato
del paesaggio
africano,
per
non parlare di tutti gli altri sfondi che colano dolcemente nei suoi paesaggi fino ad impregnarli,
mi domando
come
se la sarebbe cavata.
Lenormand,
che, per lo
stile, appartiene ai lirici trattenuti, è l’unico di questi, in cui il colore abbia un’importanza drammatica. Ma qui non è più, come nell’Arlésienne, il pittoresco che trova la sua espressione in certi personaggi, ma sono i personaggi stessi, che a poco a poco scompaiono in seno all’atmosfera, la quale acquista la serietà di un protagonista. Trasportate il Simoun fuori dell’Africa e il dramma non avrà più scheletro, perché quello sboccio di desideri carnali, maturato adagio, tra le ombre torpide di un patio, in tutti quegli esigliati consunti, è reso con effetti pittorici di sole, di calura, di deserto, di paese, insomma, che l’autore sfrutta per spiegare al pubblico i sentimenti dei personaggi quasi attraverso un simbolismo decorativo. Il sole, il deserto, il caldo, sono come tanti cartellini che voglion dire: concupiscenze segrete. Il deus ex machina è poi l’Africa. 66
Ma la via di Lenormand, che può dirsi il re del morboso, non ha niente a che fare con quella degli altri lirici segreti, a cui l’ho riunito solo per ragioni stilistiche. E qui occorre, grosso modo, semplificare la materia mettendo da una parte Bernard e Saint Georges de Bouhélier e dall’altra, ognuno per conto suo, Sarment e Jules Romain (non parlerò di Crommelynk, il quale, col giovane scrittore del Nouveau Messie, rappresenta francamente la nuova letteratura fiamminga, che a quella francese è riunita per la lingua ma non per lo spirito.) I due primi scrittori si sono curvati a spiare drammi, i cui protagonisti sono sempre persone discrete. Se un Saint Georges de Bouhélier (parlo di lui specialmente come autore del Carnaval des Enfants) o un Bernard si trovassero di fronte a un protagonista brutale, perfido o maleducato, dovrebbero rimanere impacciati, giacché la loro arte, più che limitarsi ai piccoli soggetti, come osserva Tilgher, e questo io non credo, si limita alle persone bene educate, a quelle cioè che sanno ciò che si deve e non si deve dire, e in cui questa educazione è diventata così invadente,
che, aggiungendosi a un pudore istintivo, tappa la voce dei personaggi, proprio quando sarebbe loro permessa una più indulgente espansione. Ma ciò non toglie che in questa forma di pudica rivelazione, in cui gli uomini non dicono mai più di quel che si costuma nella vita e talvolta anche meno, siano stati scritti dei drammi molto
vasti. Basta pensare al Printemps des autres di Bernard. Bouhélier si compiace piuttosto di prendere un piccolo dramma familiare, che avvolge subito nelle brume di una languida e quasi maeterlinkiana poesia, fatta con delle ripetizioni un poco estatiche, e di immergerlo e inquadrarlo nella indifferenza della vita che continua a fiuire.
Invece
di isolarlo, come
fanno i drammaturghi,
nel suo scenario,
conden-
sando in lui l’universo e quasi fermando, per quel tempo, la vita degli altri, Saint Georges de Bouhélier, che ha sempre presente la proporzione giusta del suo dramma, non dimentica di riempirlo di questa vita universale, per aggiungere, all’angoscia della vicenda, quella della sua piccolezza e inutilità. Qui l'atmosfera non ha più un ufficio di comodo pittoresco, ma è parte essenziale del dramma. Sarment invece ci presenta dei personaggi che sentono l’importanza di sé e della loro tragedia, e si guardano con una certa voluttà soffrire, pensare e morire. Questi personaggi, non si sa bene se si rendono conto di essere a teatro o se ricercano degli aiteggiamenti decorativi per piacere disinteressato. Ma in essi c'è sempre una vena segreta di laforguismo, che ci è stata rivelata dal Mariage d’ Hamlet, in cui un Amleto, che ha letto Shakespeare e Laforgue e si conserva con studiata disinvoltura sopra una linea assolutamente letteraria, è la chiave del mistero di Jean
e di Tiburce. Per questo io credo che Le mariage d’ Hamlet, abbia una grande importanza, dal punto di vista critico. Anche Jean e Tiburce hanno una linea da seguire e cercano di risolvere il loro dramma nel modo più armonioso e sorprendente, come se conoscessero già l’ultimo atto, e volessero morire en beauté. Dicono le battute d’effetto con eccessiva chiaroveggenza e le calcano un poco, per timore che passino inosservate e per far capire che si rendono conto del loro peso. E come troviamo un pazzo che sa di essere pazzo e si diverte a dirlo, con la ingenua gioia di far colpo sugli uomini savi, così troviamo dei personaggi che si ricordano di avere una missione scenica, psicologica e sentimentale,
e, d’un
tratto, svelano attraverso
le loro
espansioni sorgive un lungo studio e il dramma si svolge delicatamente come un arabesco. Isolato e un po’ sibillino ci appare Jules Romain. Dall’Armée dans la ville sino al Mariage de M. Le Trouhadec, troviamo la solita preoccupazione unanimista, che
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riempie anche i romanzi e le novelle di questo grande scrittore. Ma nell’ultima commedia, la comicità nutrita di grasse e rabelaisiane oscenità, che non apparivano in commedie come Knock e Amédée, va diventando un problema letterario di curiosa importanza. Perché non si tratta di quella comicità istintiva, che illumina i romanzi e le novelle di Jules Romain, o di oscenità allegre, che si collochino armoniosamente in una burlesca tempesta di passioni rudimentali, ma di comicità, che ha l’aria di sottintendere qualche cosa e di oscenità studiate, incastonate dopo gravi calcoli in mezzo a un intrigo in parte unanimista e in parte politico. Questo mi fa pensare a una specie di neo-molierismo e cioè di avveduto rifacimento della vecchia commedia, che corrisponde, nella tragedia, al neo-biblismo di Paul Claudel. Tirando.le somme noi possiamo constatare in tutto il teatro moderno francese, come primo dato di fatto, la semplificazione della tecnica. Il dramma si regge sull’intrico sentimentale, e tutti gli altri congegni che servivano a costruire lo scheletro di un’opera di teatro, spariscono. Dal punto di vista sostanziale, mi pare che il secondo dato di fatto sia l’approfondimento del carattere. « Lo scopo a cui tende il teatro, scrive, nella prefazione al suo Tristan et Iseult, Saint Georges de Bouhélier, è la verità, in ciò che essa ha
di più intimo, e per conseguenza, di meno dipendente dalle circostanze esterne. Noi dobbiamo dunque darci allo studio del cuore umano, e non cercherei di scrivere per il teatro se l’uomo, con tutte le sue passioni, non dovesse esserne il centro ». Goldoni cercava un effetto direi quasi decorativo nella stilizzazione dei caratteri, che si rispondevano in una stessa commedia come gli strumenti di un’orchestra;
il teatro francese contemporaneo, più che del verismo, cerca un altro effetto decorativo, nella scomposizione dei caratteri e quindi nell’approfondimento della loro natura. Quello che scrive Tilgher, parlando della scomparsa del tipo, considerato come « ciò che in ciascuno di noi c’è di identico e di permanente » è dunque giusto, se inteso, non come la condanna della psicologia, ma come la sua rivalutazione. Su questa terra comune ogni drammaturgo ha edificato il suo teatro, ed è veramente cosa rallegrante guardare questa folla di buoni scrittori, che poche generazioni hanno saputo darci, e che lo spirito ordinato della Francia ha diviso e raggruppato in teatri, come il Vieux Colombier e la Chimère, in case editrici e riviste dandoci un esempio di coordinata e musicale civiltà letteraria. [« II Baretti », giugno 1927]
PERCHÉ
L’ITALIA
ABBIA
UNA
LETTERATURA
EUROPEA
La letteratura italiana ha rinunziato all'Europa; si è cinta, nel suo stesso continente, di un largo silenzio. Deve ammetterlo chiunque, contemplando il panorama della nostra letteratura, e il guazzabuglio chiassoso e morto delle sue accademie, pensi di segnalarne un carattere solenne. L’ultima e triste polemica fra Strapaese e Stracittà ha confermato questa solitudine intellettuale.
Non siamo più europei, perché non siamo più italiani. Si chiama infatti letteratura europea — e qui ci occupiamo soprattutto della romanzesca, e escludiamo la lirica — quella che dipinge il proprio paese, sottintendendo gli altri. Lo scrittore europeo non deve dunque esiliarsi per amore del forestiero, ma per acquistare, 68
conoscendo il mondo, quel sottinteso. Ogni giudizio è il frutto di un paragone; e in ogni libro che dipinga grandiosamente l’Italia si deve avere il presentimento
del mondo. Che l’Italia intellettuale non s’accorga più di vivere in Europa, è chiaro per chiunque legga, sulla grande tavola di un libraio, i titoli delle nostre riviste; perché in tutti i paesi europei, questo vocabolo magico, con cui gli uomini hanno battezzato il continente più civile e armonico della terra, splende sui frontespizi in inchiostri rossi e azzurri come una voce di superba concordia; ma nessuna rivista italiana rivela, dal titolo, questa gioia 0, almeno, questa inquietudine. E allora vien fatto di chiederci: perché l’Italia ha rinunziato a questa che è pure una gloria? Perché gli scrittori italiani ignorano l'Europa e non conoscono
l’Italia? Quanti ne vedo delle penultime generazioni, chiusi nelle loro città illustri, splendenti e morte, nei loro caffè venerabili e lumacosi, attorniati dai pochi amici di mestiere, coi quali, nonostante il lungo commercio, non hanno litigato, vivere, in mezzo agli uragani che hanno devastato l'Europa in questi tredici anni, una vita tranquilla, ‘che una guerra turba meno di una recensione maligna! Il mondo per loro è un misterioso e vastissimo buio, in cui scintilla ogni tanto il lampione di un editore, in cui di quando in quando si sentono rullare le macchine tipografiche di una gazzetta. Liberi dalle angosce maestose, sono in balìa di una meschina infelicità; indifferenti e pettegoli, si sono accampati nel più raffinato dei continenti come in mezzo al deserto. Questo spettacolo è una dimostrazione. Gli scrittori italiani non sono più europei, perché non hanno la chiave della vita, non solo europea, ma universale, che è il sentimento
morale.
Interessarsi
al mondo
vuol dire, soprattutto,
patirne;
ma
tutte le letterature, e più ancora le romanzesche, sono il frutto di questa sofferenza morale.
Possiamo
dire, perciò, che le più vaste animatrici
della letteratura
siano
già le passioni politiche, ma più largamente ancora le passioni morali; perché lo studio del proprio paese è ispirato e guidato dal desiderio della giustizia. Seguiamo per esempio, la letteratura francese dalla fine del Settecento, in cui Rousseau e Voltaire inaugurarono la guerra al vecchio regime, dal principio dell’Ottocento in cui Balzac ricostruiva grandiosamente la storia della società francese, al momento dei suoi grandi capovolgimenti, in cui Musset scriveva Les confessions d’un enfant du siècle e Victor Hugo Les Misérables; fino a Flaubert che scriveva L’éducation sentimentale,
la critica sentimentale,
e Bouvard et Pécuchet, la critica culturale
della sua generazione; a Zola che con gli aspri Rougon-Maquart riempiva d’echi l’universo, a Anatole France che in ogni libro rifaceva la storia di quel grandioso e tempestoso processo Dreyfus, in cui si erano gloriosamente impegnati tutti gli intellettuali, a Barrès che scriveva Les Déracinés, quadro sociale e politico della Francia dopo il ’70. Da tutti i punti di vista, incrociati come le strisce luminose di riflettori vaganti nella notte, questi romanzieri illuminano, criticano, attaccano, difendono, in un grande e fruttifero tumulto, la vita sociale, politica, sentimentale,
filosofica della Francia; vivono, crescono con il paese; partecipano, uomini come gli altri, alle sue lotte politiche, mettono la penna al servizio delle grandi idee morali e sociali, che si rinnovano nel corso della sua storia. Non tralasciano, per questo, l’esame psicologico, lo studio dei drammi privati e delle passioni individuali, ma li immergono nella grande tragedia del tempo. Anche un romanziere rigorosamente psicologico, come Maupassant, ha scritto i suoi capolavori quand’era in balìa di
69
una
passione
nazionale,
l’odio dei prussiani,
passione concreta,
sanguinante,
che
nessuno potrà coronare d’alloro perché non si pasce di ritmi. La creazione, infatti, è quasi sempre il distendersi come di una molla compressa: il bisogno di creare invade gli uomini con le passioni. E quale passione ha un valore universale come quella della giustizia, che è, insomma, il vero, profondo sustrato di ogni passione politica? A cominciare da Tacito — più romanziere che storico — che scriveva per vendicarsi, finiti i tempi solenni e terribili della tirannia, del dolore che aveva sofferto dinanzi allo spettacolo del suo paese, fino a Gogol e a Cecov che animò la visione di una Russia moribonda nella sua sterile immensità, quasi tutti i più grandi romanzieri hanno sofferto del male che affliggeva il loro tempo o il loro paese, e i loro scritti non sono che una rivolta della coscienza espressa in uno stile splendente. Che altro sentimento può animare un romanziere all’infuori del sentimento morale? Noi vediamo che dalla pura osservazione possono uscire, talvolta, dei gioielli,
ma non mai una vasta opera, né una grande letteratura; perché il sentimento morale genera e regola le passioni dell’uomo, e ne misura la tragedia, e un romanziere deve essere, prima di tutto, un uomo.
La legge morale che offriva a Kant uno spettacolo grandioso come quello del cielo stellato è in verità l’architrave della vita umana. L’uomo soffre per la prima volta di una sofferenza pura di ogni interesse, quando vede calpestato in sé il senso della giustizia. Al di fuori del sentimento morale, che cosa può rivelargli la natura profonda del dolore, se non la mera disavventura fisica? Perché anche nel dolore sentimentale c'è uno scheletro morale e quando soffriamo di amore sottintendiamo continuamente, forse errando, un principio di giustizia violato. Uno scrittore che giudica del mondo senza avere il sentimento morale è come un pittore che giudichi dei colori senza avere gli occhi; e quando un romanziere rinunzia a essere un uomo o, come si dice più decorosamente, « si ritira nella sua torre d’avorio », non potrà fare più che delle preziose e inutili professioni di stile. Si può scrivere un romanzo mossi, come Gide, da un sentimento polemico di immoralità, non mai dall’indifferenza al giusto e all’ingiusto, al bene e al male. Nessun romanzo può diventare europeo, se non è ispirato da un sentimento morale: perché su questo sentimento, prima di tutto, si accordano e riconoscono gli uomini di una stessa civiltà. Possiamo già dire, d’altra parte, che nessun roman-
ziere saprà dipingere gli uomini, in modo da appassionare tutti gli europei, se non lo anima la più universale delle sofferenze. Ma perché diventi europeo non un romanzo, ma una letteratura, questo non basta: ci vuole, soprattutto, il senso della tradizione. Qualunque paese, che produca dei capolavori solitari, è destinato a chiudersi nel silenzio: le opere si spandono quando si continuano spiritualmente, perpetuandosi una nell’altra. Il caso dei Promessi Sposi è clamoroso. I Promessi Sposi non sono più letti all’estero. Si traducono ancora di quando in quando (l’anno scorso ne è uscita una versione in America), ma chi volesse far testo di questo fatto, per sostenere che / Promessi Sposi vivono ancora nella cultura europea,
si illuderebbe;
quasi tutti i romanzi
italiani, allora, sono
tradotti
e in
Europa non li legge nessuno. Non si può dire che viva un’opera letteraria, quando si dice che è tradotta; ma quando s’accerchia di un continuo interesse e di molti echi, come di un alone. / Promessi Sposi sono tradotti, ma rimangono ignudi. Ora, non è il caso di dar la colpa al romanzo. Si può giustificare il silenzio del 70
mondo intorno a Verga, quando si pensa che Verga ha scritto dei romanzi regionali, ove i tipi, i drammi e l’ambiente erano più chiari per un italiano, anzi per un “alano che per un europeo. Verga non è stato, d’altronde, letto neanche in Italia (non credo che di Mastro don Gesualdo si siano vendute, fino a oggi, seimila copie); sarebbe dunque strano che il mondo leggesse, quello che non hanno letto nemmeno gli italiani, i quali conoscevano già la chiave di molti sottintesi. Ma I Promessi Sposi sono un romanzo universale. I caratteri e il dramma non sono particolari, né del Seicento, né della Lombardia. La tecnica è quella stessa tecnica ottocentesca, grandiosa e direi quasi meticolosa, in cui il lettore è condotto per mano e dolcemente dal principio alla fine, e tutto gli viene chiarito. Il romanzo non si basa su nessun sottinteso, che possano conoscere soltanto gli italiani: ha avuto infatti, nascendo, un successo europeo; è stato tradotto, letto, studiato e ammirato
in tutti i paesi europei, come si può dire che Manzoni,
un
modello
in Lombardia,
internazionale
di buon
fosse fuori del mondo.
romanzo.
Né
Egli trovò infatti,
nei paesi di lingua francese, oltre che una moglie, anche amici e ammiratori, e l’epistolario ci dimostra come, per esprimere le sue idee, sapesse servirsi, con garbo, eleganza e disinvoltura, della loro lingua. Che cosa spiega questo silenzio? Esaminiamo il caso di un romanzo scritto su per giù nello stesso tempo, famoso anche allora, ma ora più fortunato, perché è sempre letto: Le Anime Morte di Gogol. Quando si pensa al successo del romanzo russo, e al silenzio in cui l’italiano sta naufragando, c'è da meravigliarsi, perché Le Anime Morte sono molto più regionali dei Promessi Sposi, meno divertevoli, e incompiute. Di fronte alla classica opulenza dei Promessi Sposi, in cui si avvicendano con disinvoltura le scene di psicologia e quelle di azione, le avventure e la morale, il pezzo di paese e la storia, ove il ritmo dell’interesse è battuto con mano maestra; ove lo splendore sobrio dello stile s’adatta agilmente a tutti gli atteggiamenti dello scrittore, infinitamente mutevoli, sempre umani, e tali che tengono in sospeso, a questo modo e continuamente, l’animo del lettore, di fronte, dico, a questo romanzo, in cui non solo la tecnica e l'ampio afflato del romanziere, ma le vicende stesse sono avventurose e in cui il dramma è universale, abbiamo un romanzo incompiuto, in
cui trionfa fin dal primo rigo, e continua fino all’ultimo, un solo assiduo, lugubre, monotono, faticoso atteggiamento ironico, in cui non c’è l’ombra di quel climax che, come insegnavano i greci, è necessario per concitare lo sviluppo drammatico dei fatti, abbiamo un romanzo, che è un solo interminato corteo di birbanti, ordinati come in un catalogo, uno dopo l’altro; un romanzo, finalmente, che per il soggetto e l’aria, dovrebbe, più che commuovere un pubblico europeo, disorientarlo.
Ho ordinate qui le ragioni, per cui a leggere Le Anime Morte ci si diverte meno che a leggere / Promessi Sposi, mettendomi, più che altro, dal candido punto di vista di un grosso pubblico europeo, e mi pare che queste ragioni non siano né povere, né rade. Come mai, dunque, son lette in Europa Le Anime Morte e non I Promessi Sposi? Le Anime Morte sono ancora lette, perché in Russia non si è spenta la tradizione di Gogol. Non si leggono / Promessi Sposi, perché sono rimasti letterariamente isolati. Qui appare che un libro, in genere, può durare, in quel mondo misterioso in cui regnano le opere che si leggono, cerchio illuminato in mezzo all’ombra, solo quando ha una discendenza. Si crede generalmente che un capolavoro, quando resta isolato, trionfi nello splendore della sua solitudine; ma decade invece, perché gli uomini, quasi sempre, smettono di leggerlo appena entra nel passato. Ft
Vediamo quello che succede a ciascuno di noi. Che i lettori di questo articolo
diano un’occhiata alla loro tavola da lavoro: se ci saranno dei libri, saranno molto probabilmente contemporanei: uno sull’altro, libri di amici, che bisogna recensire
o per lo meno conoscere, libri letti da amici, di cui si vuol parlare con loro; libri
còlti sugli scaffali di un libraio, o usciti di fresco; libri comprati dopo aver letto un articolo.
I libri contemporanei, necessariamente, ci si impongono con molta più forza, e fretta, e in maggior numero degli antichi, perché entrano a far parte dei nostri interessi e della nostra vita, non tanto spirituale, quanto giornaliera. Chiunque va a colazione da uno scrittore, che ha pubblicato un libro da poco, si metterà piuttosto a leggere quel libro che l’Orlando Furioso. Ma oltre che per questo gioco di interessi e di impegni, dobbiamo confessare che, a parità di bellezza, un libro contemporaneo ci diverte più di un antico; nel libro contemporaneo troviamo oltre il piacere dell’arte con cui è narrata una vicenda, anche il piacere di poterne controllare la fonte negli avvenimenti del mondo; e questo è un piacere vivace, perché ci permette di misurare più da vicino le diffi-
coltà di cui il libro è stato il trionfatore. Il libro contemporaneo, satira di costumi e partiti, panegirico di idee o persone, può riferirsi a mille sottintesi, che abbiamo la gioia di indovinar facilmente.
La letteratura contemporanea ci accompagna dunque nella vita più dell’antica. Si capisce quindi il valore di suggestione storica che acquistano quelle opere, che discendono da un’opera passata. Quando in un romanzo noi sentiamo la presenza diffusa di un modello o di una tradizione, risaliamo naturalmente il corso della storia letteraria. Curiosi di vedere in che misura l’autore moderno discenda dal vecchio e in che misura se ne distacchi, inuzzoliti, qualche volta, da veri e propri richiami, come ci succede appunto leggendo i russi, che citano spesso i loro maggiori, o semplicemente spinti dopo essercelo proposto inutilmente per tanto tempo a leggere quei classici, solo perché i loro continuatori ce ne offrono, in un libro, il pretesto, l’occasione che aspettavamo, noi siamo condotti dall’opera d’oggi a quella di ieri senza nessuno sforzo. I pubblici d'Europa continuano dunque a leggere le Anime Morte, perché dopo Gogol, sono fioriti Tolstoi, Dostoievski, Turghenieff, Cecof, Gorki, che hanno letto
prima. « Siamo usciti tutti dal Mantello di Gogol » ha detto una volta Dostoievski. Il pubblico, dopo aver ammirati questi discendenti, risale al Mantello e alle Anime Morte. Così, quanti di noi hanno letto Voltaire o Chateaubriand per ritrovare l’origine stilistica di France e di Barrès! L’antica letteratura francese è così presente nella vita letteraria solo perché tutti i moderni si riattaccano a qualche vecchio maestro. Nessuno scrittore, nessun filosofo può invecchiare: se l’asciutto e luccicante Valéry è un cartesiano, Alain ha rinnovato lo stile succulento e magnifico di Montaigne. Ogni scrittore nuovo riporta alla ribalta il suo lontano mallevadore;
non
c’è più, così, quello schianto fra gli
antichi e i moderni, che è tanto a svantaggio degli antichi, e dei moderni... quando diventeranno antichi: gli scrittori di tutti i tempi, sono sempre moderni, e continuamente riletti. Ci troviamo dunque dinnanzi a un bivio solenne: perché oggi la letteratura di tutta l'Europa si è andata unificando; e un’opera letteraria, che non sia europea,
è mal tollerata nella sua stessa patria. Noi vediamo che in ogni paese il pubblico 72
non perde il filo delle glorie europee, ma si smarrisce tra quelle nazionali, anche se sono della sua nazione; tanto che si è imposto agli scrittori il dovere d’espandersi,
per durare e trionfare a casa propria. Paradosso del destino, che non so se chiamare tragico o grandioso, che giustifica, da una parte, gli sforzi affannosi e inutili, con cui tanti tra gli scrittori nazionali cercano di conquistare l'Europa. Ma noi pensiamo d’aver posto il problema nei suoi termini umani: è inutile far della propaganda in Europa, se non si produce una letteratura europea. Bisogna che gli scrittori non si lascino accecare dall’orgoglio candido di inaugurare, ogni volta che scrivono un libro, un nuovo genere letterario; che perpetuino invece, rinnovandole, delle grandi tradizioni;
ma,
sopratutto,
che abbandonino
il deserto,
ridiventino
uomini.
[« Solaria », gennaio 1928]
COMMENTO
ALL’OUVERTURE
DELL’EGMONT
DI BEETHOVEN
Vedo una tragedia in questa dolce maturità; non già tra Beethoven e se medesimo, ma tra Beethoven e il suo destino, che è forse il destino di ogni grande uomo.
Trionfa
per l’ultima volta, come
licità di creare semplicemente.
Oh!
lo sfarzo moribondo
come
degli autunni,
la fe-
mi riempiono di tristezza questi canti
densi di succhi copiosi, carichi d’oro! Sono già maturi, ma sempre colmi di affetto
e quasi di languore, e tutta la musica non è che il traboccare misurato di una passione ancor giovane. Ma io penso, che per l’ellissi necessaria di ogni vita grande, è scritto che questa grazia un poco terribile, ma ancora umana, debba corrompersi per ingrandirsi. C’è una legge, senza dubbio, che regola la maturazione del genio, e il suo bisogno crescente di ampiezza, per cui Beethoven è arrivato a questa pagina come ci si abbronza nel lungo sole di mare; ma per questa legge medesima Beethoven ci promette già, nel composto delirio di un canto, d’essere schiavo del destino che l’ha fatto così grande; perché la regola della grandezza è che ci si debba sempre ingrandire e quella dell’arte che ci si debba restringere.
Come leggendo la storia io mi addoloro, più dolce è dizione. Qui siamo nel mezzo di Beethoven doveva scatenare acquietarsi in nessun limite.
si trema per la sorte ben conosciuta di un eroe, così l’accordo, per la certezza di una prossima contradun mondo che ha vasti orizzonti. Ma per giungerci, in sé una volontà di immenso, che non poteva poi
Per ciò questa pagina è come
il movimento
di una danza, che non può essere,
se non attraverso quello che l’ha preceduta e quello che seguendolo lo comporrà nell’intera collana: ecco la sonata 111, infinitamente più ampia e già meno bella. Così ho capito che il sublime della concezione e il sublime dell’arte non coincidono, e che il sublime dell’arte si raggiunge un po’ prima del sublime della concezione; ma ho anche capito che il sublime dell’arte deve essere necessariamente il passaggio a un universo, che non sarà più nelle misure delle regole. L°Egmont non poteva essere scritto, se Beethoven non fosse stato certo di superarlo diminuendosi;
perché
questa ampiezza è legata alla sua perdita, e spesso la fine dei grandi, come quella dei marinai, è di naufragare nell’immenso. [« Solaria », gennaio 1928]
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LIEVITI
LETTERARI
Noto, nella letteratura italiana, un vasto malessere. Forse non tutti quelli che ne patiscono se ne rendono conto: credo utile perciò, come capita quando si è tristi senza una ragione visibile, di cercare qual è, di identificarla per liberarsene. La tragedia della nostra letteratura, infatti, non è tanto la povertà delle opere, come il malessere dei letterati; perché a guardarsi intorno si trovano, tra le vecchie e le nuove generazioni, dei nomi di scrittori e dei titoli di libri, ma anche una universale scontentezza di vivere. I letterati italiani sono in genere poveri e tristi. Malsicuri degli amici, in lotta con molti nemici noti e con moltissimi ignoti, vivono in mezzo agli uomini come dei solitari. Il pubblico, d’altra parte, non dà loro nessun
compenso. Pochi leggono i loro libri, e i teatri sono vuoti, quasi sempre gelidi. Le riviste falliscono, di anno
in anno,
tra l’indifferenza
universale.
Sembra,
alle volte, che
il terreno non regga sotto nessun peso. Affamati, in mezzo a questo disfacimento perenne delle cose, di una gloria che garantisca loro un approdo verso il futuro, che prometta all’opera una vita migliore di quella che visse l’artista, tutti i nostri scrittori, si vedono, dopo pochi anni di chiasso, dimenticati. Molti non riescono a essere riconosciuti mai. Tutti sentono avvicinarsi quello che per gli artisti forestieri è il grandioso e quieto crepuscolo della vita, come una sera temporalesca, e muoiono tra gli insulti o nell’oblio noncurante delle nuove generazioni. Distaccati dal pubblico, che non li segue più, rischiano spesso di essere applauditi per un errore e fischiati per una grande opera. Costretti, per svegliare l’attenzione di questo giudice sonnolento, a studiare fin dai primi anni la pirotecnica dei giornali e degli scandali, perdono il tempo a indebitarsi nel fasto di ville costruite per esser fotografate poi, o a stendere la rete intricata delle alleanze giornalistiche, che deve annunziare l’uscita del loro libro e lodarlo. Mal trattati da vivi, dimenticati
da morti, e mal
capiti da vivi e da morti, gli intellettuali italiani sono disperati di vivere e non possono nemmeno rassegnarsi a morire. Perché? L'Italia raccoglie un’eredità secolare d’intelligenza ed è stata sempre, in Europa, il modello di una civiltà intellettuale. Come si spiega che in Italia i letterati abbiano da portare una croce così pesante? Che vuol dire questo malessere? Il problema ha molte facce. Questa è in parte una tragedia di uomini e in parte una mancanza di ordine. Ma per spiegare come la repubblica delle lettere si stia disfacendo, bisogna cominciare dai letterati. Non s’è notato abbastanza, ch’io sappia, che l’intellettuale italiano ha una sua
concezione dell’universo. Per illuminarla, paragoniamola a quella del francese. L’intellettuale francese nasce con l'istinto del gruppo: appena è in età di meditare si cerca un maestro che lo riattacchi a una tradizione; appena comincia a scrivere si cerca dei compagni con i quali fondare una scuola. Questo senso del gruppo spiega i complimenti, con cui, fiorendosi la vita a vicenda, i francesi hanno fatto dei rapporti tra gli uomini il capolavoro della loro civiltà; perché ogni scrittore, e più largamente ogni essere umano diventa socievole, là dove la gente lo ammira. Così, per la gioia di sentirsi lodare, gli uomini acquistano l’istinto della compagine. Ma tutto si ripercuote; e se da principio gli uomini ammirano per essere ammirati, alla fine si assuefanno davvero a vedere nei loro simili piuttosto le virtù che i vizi: il gioco si trasforma in un profondo sentimento di benevolenza. Ma l’intellettuale italiano, in genere, nacque convinto, come Berkeley, d’essere,
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in mezzo
alle sue
rappresentazioni,
il solo uomo
vero
dell’universo.
Persuaso
di
vivere in un mondo di fantasmi, egli cresce nella perpetua irritazione di vedersi smentito. Esiste dunque, per definizione, contro tutti. Il suo atteggiamento è sempre aggressivo e un po’ schernevole. Partendo, infatti, dal punto di vista d’essere solo, tutto quello che succede al di fuori di lui non gli sembra che uno sterile tumulto di illusi. La vita, così, gli appare come il campo immenso in cui deve affermare il suo io, tra le ombre chiassose di altri falsi scrittori, che non vogliono riconoscerlo.
Questa mi pare la base psicologica del nostro malessere; perché un senso così selvatico della vita la inaridisce. In Italia, come
primo effetto, ha distrutto
negli intellettuali
e poi, di riflesso,
nel pubblico, quello che mi è sempre parso il lievito di una civiltà, la volontà di ammirare.
Io credo, infatti, che fioriscano
delle opere
da ammirare,
là dove
gli
uomini vogliono ammirare delle opere, e che l'ammirazione non sia tanto il premio come l’incubatrice dei capolavori. Giuseppe Rensi ha già osservato quanto c’è di fecondo nella lode. La lode è necessaria all’intellettuale, perché gli garantisce che ha visto giusto, nel tempo stesso in cui gli inocula di nuovo la grandiosa febbre della creazione. Ma anche Cicerone aveva scritto nelle Tusculane: Honos alit artes omnesque inceduntur ad studia gloria; facentque ea semper quae apud quosque improbantur. In un paese, ove nessuno sa e vuole ammirare, l’intellettuale brancola come un cieco senza bastone. Partiamo dal punto di vista che lo scrittore, rispetto all’ opera che ha fatto, sia quasi come un cieco. Là dove nessuno lo incuora a camminare o tutti gli riempiono lo spirito di paurosi fantasmi, invece di rassicurarlo, lo scrittore tende a chiudersi, immobile e inquieto, in se medesimo. Perciò se alle volte questo clima selvaggio non impedisce ai grandi capolavori di fiorire, se alle volte, come successe a Dante, il paese stesso gli fa scrivere la Commedia per la forza incommensurabile del disgusto, spesso inaridisce molti scrittori, che avrebbero bisogno di dolcezza per vivere, e li tuffa tutti in uno stato di perenne irrequietudine. Né mi si dica che ammirando non si può scegliere. Io credo invece che si può scegliere soltanto ammirando. Il più bell'esempio di critica condotta secondo un rigoroso ordine ce l’ha dato quel benevolo scrittore che fu Giorgio Vasari. Che miglior modello di una infatuazione della lode? Vasari sommerse tutti i pittori, gli scultori e gli architetti sotto un fiotto maestoso di elogi. E non per caso; ma a buon fine. Ce lo dice spesso — tra l’altro, nella vita di Lorenzo Ghiberti. « Né è cosa che più desti gli animi delle genti e faccia parer loro men faticosa la disciplina degli studi, che l’onore e l’utilità che si cerca poi dal sudore delle virtù, perciocché elle rendono facile a ciascuno ogni impresa difficile, e con maggiore impeto fanno accrescere le virtù loro, quando le lodi del mondo s’inalzano. Perché infiniti che ciò sentono e veggiono si mettono alle fatiche, per venire in grado di meritare quello che veggono aver meritato un suo compatriota; e per questo anticamente o si premiavano con ricchezza i virtuosi o si onoravano con trionfi ed immagini ». Ma in quel fasto di superlativi, si va classificando e vagliando, dal « divino Michelagnolo » a Gaddo Gaddi che « fece molte opere ragionevoli, le quali si mantennero sempre in buon credito e reputazione ». Gli è che in verità l’ammirazione è un mondo vasto, in cui si può distinguere e sottodistinguere, graduare insomma; mentre la critica acerba parifica tutte le opere sopra un piano di universale malcontento. Non ci siamo ancora accorti, in Italia, che se si prendessero tutti gli articoli di un critico di quotidiano e in base a questi articoli si volesse costruire à
una scala di valori, tutti gli scrittori apparirebbero, censure
convenzionali,
in una nebbia di lodi e di
allo stesso livello.
Questa — lo ammetto — è in generale la tara della critica moderna e quello il merito dell’antica. Vasari infatti studiava gli artisti con un metro invariabile; mentre i moderni hanno dimenticato il valore supremo di un principio unico, che serva di unità di misura del merito. Ma sta di fatto che anche se un critico possedesse, come
dovrebbe, il suo metro, qui lo butterebbe alle ortiche. Perché un
metro è prezioso nelle mani di un critico benevolo, che se ne serve per dare al suo sentimento delle proporzioni; ma nelle mani di un critico che non vuole ammirare, un metro è il continuo controllo della sua malignità. Il critico malcontento, infatti, giudica ogni opera alla stregua di un ideale, che egli stabilisce lì per lì, purché l’opera non l’abbia raggiunto. Mi ricordo di un romanzo di avventure in cui un personaggio valicava le Ande attaccato a due condors, guidandoli con due brandelli di carne eternamente appesi dinnanzi al becco. Così fanno, in genere, i critici: senza vedere quello che c’è, criticano un libro per quello che vorrebbe essere, allontanando,
a mano
a mano che s’ingrandisce l’opera,
il fine che dovrebbe raggiungere. Non si può così distinguere un’opera dall’altra, poiché tutte le opere sono come degli uccelli che corrono dietro a dei brandelli di carne e tutta la vita letteraria non sembra che un cimitero di ideali sciupati. Gli scrittori non sono perciò spinti né a ingrandire il loro mondo né a rendere le loro opere più perfette, poiché sentono che nessuno vorrà tener conto del loro sforzo. D'altra parte il pubblico, che non è stato educato da nessuno, s'è convinto a poco a poco che le opere grandi si possono trovare soltanto nella storia passata. Niente lo disturba e maraviglia come dover riconoscere che un libro moderno non è meno bello di un venerabile avanzo del tempo. L’inquietudine e ignoranza di un pubblico si vede a quella ch’io vorrei chiamare la religione degli incunaboli. I letterati del « Figaro », ch'io mi ricordi, nel corso di pochi anni hanno letto un articolo, in cui Mirbeau scriveva d’aver scoperto un drammaturgo grande come Shakespeare, che si chiamava
Maurice
Maeterlink, e un articolo in cui Maeterlink
scriveva d’aver scoperto un nuovo Omero, in un vecchio con un piede nel sepolcro, che si chiamava Henry Fabre. Ammaestrato in questo senso, il pubblico sogna soltanto di coronare l’uomo che diventerà grande. Così nel vasto fermento di una civiltà in cui ogni balenare di intelligenza è sorvegliato e premiato, in cui le Accademie lo rincuorano con la gloria e il denaro, le donne con l’amore, il pubblico con il rispetto, gli intellettuali sentono finalmente la gioia di scrivere.
Il malessere degli italiani è dunque il frutto di un atteggiamento, che spegne in loro la volontà di ammirare.
Vivere
uno contro
l’altro non
è facile, né umano,
e
le nostre élites stanno naufragando nella loro solitudine morale. Dico naufragando. Perché questo orgoglio appunto è la fonte di un disfacimento in cui non si inaridisce soltanto negli uomini la volontà di ammirare; ma si priva la letteratura italiana di un altro lievito: i sottintesi. Una civiltà non può dare un sentimento di benessere agli intellettuali che con due premure: l'ammirazione e i sottintesi. Un mondo in fiore si distingue da un mondo in travaglio non perché abbia dei princìpi più grandi e saggi, ma perché ha dei sottintesi più universali, e cioè dei fondamenti che tutti rispettano senza saperlo e quindi senza discutere. Nei tempi di decadenza 76
questi princìpi non sono, come si crede, più malati; spesso anzi sembrano stranamente salutari; ma sono sempre pubblici e discussi, si contraddicono, mutano spesso.
Invece, nelle grandi epoche, questi sottintesi governano il ritmo di una civiltà matura come divinità segrete. Perciò non importa tanto che siano meticolosi, ma importa che siano vasti e prudenti e specialmente che tutti li riconoscano, perché così soltanto si stabilirà quell’ordine, che è la base di un’epoca. Il primo vantaggio dei sottintesi è che si può parlare. Par quasi a ogni uomo di intendersi miracolosamente con gli altri uomini. In un mondo in cui basta una occhiata per aver trovato un accordo, tutti si illudono di essere intelligenti e vivono come in un’atmosfera d'amore. In verità, non è che gli uomini siano divenuti più intuitivi, quanto che partecipano tutti, senza saperlo, di un segreto comune. Ogni persona colta, quando giudica, si riferisce a questo patrimonio del suo tempo, prezioso e sconosciuto, che gli dà l’orgoglio di essere un iniziato. Considerate invece un salotto in cui sì trovino dieci intellettuali italiani: avrete dieci modelli vivi di dieci estetiche e di dieci morali. Ognuno di noi ha le radici in un mondo che gli altri non conoscono e si fonda nei suoi giudizi sopra una sua esclusiva definizione dell’universo. Questo vuol dire prima di tutto che non si può parlare. Si gode infatti, in una conversazione, quando si giudicano le cose in base a dei princìpi comuni.
È altrettanto piacevole, discutendo,
di dar le misure di un
fatto con lo stesso metro, quanto è ingrato disputarsi sul metro, e cioè sui grandi princìpi, con cui il fatto deve essere giudicato. In generale tutte le discussioni di principio rimangono sterili. Ma, tra noi, di che possiamo discutere, se non di idee?
Partendo da un romanzo, dopo pochi minuti due intellettuali si chiedono le loro definizioni del bello, e partendo da un fatto di cronaca le loro definizioni del buono. Costretti a risalire ai princìpi universali e a concludere, dopo una laboriosa dialettica, che non possono intendersi perché vivono in mondi diversi, gli intellettuali italiani finiscono per evitare delle discussioni, che sono fragorose e inutili. Ma i sottintesi permettono non soltanto agli uomini di parlare, li spingono a creare. Come? Dando agli scrittori dei limiti senza esprimerli in regole. La libertà è inebriante e pericolosa, la regola accogliente e spiacevole; e l’uomo, che ha fatto naufragio nell’illimitato e s'è contuso contro la regola, ha nello stesso tempo paura della libertà e delle catene.
Passa così da un estremo
all’altro, stancandosi
volta
a volta d’essere un padrone inquieto o un pacifico servo, mendicando dei limiti, e fuggendo le grandi leggi che glieli possono offrire. Studiate l’altalena delle civiltà, e vedrete come l’uomo non è felice né quando è futurista, né quando è neoclassico; perché quando mancano i limiti e la resistenza
della materia si indebolisce, e quando si fa il servo di leggi teoriche dissecca la propria ispirazione. Spesso, infatti, è passato da uno stato all’altro d’un fiato, cercando la felicità nel rovescio della sua sofferenza; ma né la libertà né il rigore hanno mai fatto una civiltà, che dev’essere prima di tutto un’atmosfera di universale benessere. L’uomo è infelice perché ha sempre da scegliere tra due beni che si escludono; una civiltà ha dunque come fine supremo di conciliare dei bisogni contraddittori: deve cioè soddisfare nell’uomo la sua nostalgia dei limiti e il suo orrore delle regole, e arrivare a una grandezza, regolata da leggi che non si conoscono. Una regola, un principio sono incisivi, netti, indifferenti. Stanno dinnanzi agli occhi degli uomini come dei monumenti; così che gli scrittori li possono evitare, condannare o discutere, ma bisogna sempre che se ne ricordino. E poiché se in una opera d’arte si sente il ricordo di una regola, la commozione si inaridisce, l’ar-
77
tista dopo qualche tempo di tirocinio, maledice nella regola la colpa del suo fallimento. Ora, sono delle regole anche i sottintesi; ma tanto più potenti e fecondi quanto più sono larghi, invisibili e benigni; perché hanno due immensi vantaggi: non c'è bisogno di ricordarsene, e non si possono discutere: guidano misteriosamente gli uomini, liberandoli dalla durezza della regola; tracciando dei grandi limiti che ignorano tutti e che non viola nessuno. Ma non è possibile accordarsi su dei sottintesi, se ogni uomo vive in un mondo diverso: bisogna che gli scrittori non si affatichino a reagire, ma si mescolino al pensiero generale. Per questo è necessaria una base, una cultura e una tradizione comuni e il senso di una fraterna compagine. Sperduti invece in quell’oceano deserto che è la nostra civiltà letteraria, gli scrittori italiani non hanno né l’appoggio del limite, né il pungolo della regola. Barcollanti e inquieti, si stremano a farsele. Ma quanti architetti riuscirebbero a costruire una cattedrale, se dovessero nello stesso tempo fare i calcoli e portare le pietre? Colpevoli e vittime nello stesso tempo, scontiamo la colpa del nostro orgoglio. Esistere contro tutti, non è possibile a nessuno; e se non cerchiamo di essere più umani, il motto nello stesso tempo eroico e folle che abbiamo scelto per vivere finirà per diventare il nostro epitaffio. [« Solaria », luglio-agosto
(BERNARD
1928]
RÉMARQUES SUR L’ACTION GRASSET, Rémarques sur l’action, Paris 1928)
È la prima volta che vedo un editore, un uomo, in genere, più disgustato che innamorato della cultura in cui deve vivere, un editore, che più spesso si riduce a esser soltanto un commerciante, e può alle volte, rifondendo in sé i ricordi di tanti libri stampati, diventare
un letterato, e cioè un ristretto di varie letterature,
rivelarsi come un vero e proprio filosofo, degno del suo grande precursore Labruyère, non perché abbia studiato la storia della filosofia, ma perché ha riflettuto su se stesso e sulle vicende, che attraversava.
In Rémarques sur l’Action certe sue note sull’azione sono degne d’essere lungamente meditate. Queste note includono, senza porlo esplicitamente, il problema dell’uomo di azione e dell’uomo di pensiero. Fino ad ora m’erano sembrati due casi semplicemente antagonisti; anzi, avrei detto che si opponevano simmetricamente; ma le note di Bernard Grasset mi hanno rivelato i veri termini della opposizione. Incominciamo a distinguere nell'uomo di pensiero, il creatore di opere, dal puro studioso delle cose. La distinzione è espressa con esattezza in uno di quegli aforismi. « Certi esseri non si contentano di capire; hanno bisogno di creare. I creatori non sono necessariamente più intelligenti degli altri; sono esseri di un’altra natura ». E allora si vedrà che l’uomo d’azione e il creatore si somigliano più di quel che si potrebbe credere. Vediamo infatti che cosa sia, per il Grasset, creare: « Noi creiamo — scrive — 78
quando ci muoviamo liberamente in un mondo che abbiamo scoperto e che siamo soli a conoscere ». Ma qual è la caratteristica di questo nuovo universo? « Le creazioni dell’attività — scrive — non sono generate né dalla sola immaginazione, né dalla sola realtà, ma
da una
realtà immaginata,
che l’uomo d’azione
ha la forza di sostituire
alla realtà vera ». Bernard Grasset scrive questo, forse, più del campo in cui regna l’uomo d’azione che di quello in cui regna l’uomo di pensiero; ma, in verità, ha determinato i con-
fini esatti del solo campo in cui si incontrano. Detto questo, pone il primo punto di contatto, fra l’uomo d’azione e l’uomo di pensiero. « Accompagna ogni vera creazione, nel campo del pensiero e dell’arte come in quello dell’azione, il sentimento ch’essa è veramente una creazione, e cioè una cosa ch'è stata detta o fatta per la prima volta ». Ora, non è affatto necessario per credere di essere i primi a fare un’opera, d’avere una vasta cultura, che ci permetta d’accertarlo storicamente. « Tutte le cose ragionevoli sono state dette; incominciamo a ridirle di nuovo » ha scritto Goethe, in capo ai suoi Discorsi in prosa. E Bernard Grasset commenta forse senza pensarci questo pensiero quando scrive: « Il vero creatore per esser certo di arrivare per primo non ha nessun bisogno di conoscere tutto quello che è stato detto o fatto prima di lui ». Questo convincimento profondo, che regna nell’uomo d’azione e nel creatore intellettuale, non è così ingiustificato, come può sembrare a qualcuno. E Grasset, in un altro frammento, ne dà la chiave: « Qualche volta, basta ignorare che una cosa è stata detta o fatta per dirla o farla in un modo così nuovo, che vale una creazione ». Sono dunque stati determinati alcuni punti di contatto: il fatto di muoversi in un proprio mondo, il fatto che questo mondo sia il frutto di una realtà immaginata, la coscienza che si sta creando.
i
Ma in questi aforismi scopriamo altri punti di contatto: c'è un punto di contatto fra l’uomo d’azione e il creatore, tanto quando si tratta di capire la realtà, per poi adoprarla; come quando si tratta di tradurre in opera la propria idea. « L'uomo d’azione — scrive il Grasset — sa scoprire, sotto la questione che gli è posta, la questione che si pone ». Ed è proprio quello che fa il creatore quando esamina le molte apparenze che gli offre la realtà. « L’uomo d’azione — continua — trova la pazienza necessaria alle grandi opere, solo grazie agli infiniti risultati di tutti i giorni ». Questo pensiero mi fa pensare alla scena, in Delitto e castigo, in cui Raskolnikoff s’accinge al delitto. In quel caso, soltanto i piccoli ostacoli gli permettono di condurre a termine l’impresa, attirando la sua attenzione, invece che sul delitto in sé,
sulle tante necessità che include. Ma il problema è lo stesso; e sono proprio quei piccoli e infiniti risultati quotidiani che permettono al creatore di arrivare alla fine di una opera vasta. Certo è che tanto per l’uomo d’azione come per quello di pensiero vale la nota con cui il Grasset chiude la serie de’ suoi aforismi, sentenza che riassume con molta profondità tutti gli sforzi di tutti i creatori: « C°è forse un’ingenuità a capo di ogni impresa ». Il ristretto di tutte queste idee è un’idea sola: l’uomo d’azione e il creatore intellettuale si somigliano, in quanto creano.
In che cosa differiscono? 79
« L’uomo d’azione — scrive il Grasset — non può indugiarsi troppo a far progetti. Non perché sia impaziente, ma perché ha bisogno di arrivare più rapidamente al contatto della realtà ». « Molto di rado — aggiunge — un uomo d’azione crede al valore delle sue idee, prima che siano entrate in contatto con la realtà ».
Questa è la prima differenza fra l’uomo d’azione e l’uomo di pensiero. Se l’idea, come dice il Grasset, «nasce già con l’immagine, che la renderà visibile», il progetto,
per il creatore
intellettuale
non
è tanto
diverso
dall’azione,
che lo renderà
con-
creto. Nel progetto il creatore s’attarda anzi con una misteriosa e dorata voluttà. È, per lui, il momento più gradevole. Quando egli è sicuro delle proprie forze, sul progetto può abbandonarsi largamente e dolcemente, considerando in un attimo la visione enorme di un’architettura, in cui dei particolari già visti, come illuminati dal sole, scintillano tra la nebbia azzurra dei sogni. Ma nel Grasset stesso, e un po’ prima, si trova spiegato questo bisogno, che urge l’uomo d’azione, e posta la seconda differenza tra uomo d’azione e creatore intellettuale. « L’uomo d’azione — scrive il Grasset — non s’interessa che a ciò che può essere cambiato ». E più sotto: « Nel piacere dell’azione, c’è specialmente il bisogno di modificare l’ordine delle cose e il sentimento che se ne ha il potere ». Ma è appunto per questo che l’uomo d’azione ha bisogno di venire in contatto con la realtà. Dato che per lui agire è modificare l’ordine delle cose, si capisce che fin che non ha potuto controllare l’effetto del mutamento lo riempia un’angoscia mescolata di struggimento. Queste osservazioni dipendono dunque dalle due prime. Questo non succede invece nell’uomo di pensiero, che per ogni creazione parte dalla realtà com’è; e la sua calma gli viene dal fatto che l’ordine delle cose, da cui scaturisce l’opera, rimarrà in lui sostanzialmente lo stesso, tanto da poterlo sempre controllare mentre lo ricrea nella sua opera intellettuale. Per questo è necessario non soltanto che sappia guardare le cose, ma che sappia guardare in sé. Mentre «la natura non potrebbe trovare un modo migliore d’aiutare un uomo d’azione che privandolo della curiosità di se medesimo ». Ma a questi punti di distacco, che ho trovato nel Grasset, vorrei aggiungerne altri due. Il primo è appunto di ordine psicologico. Il Grasset dice che la natura aiuta l’uomo d’azione se gli impedisce di vedere in sé. Io direi che l’aiuta anche quando gli impedisce di vedere troppo profondamente negli altri uomini. Quando si dice che un uomo d’azione deve « conoscere gli uomini », si intende in verità che deve conoscere certe passioni fondamentali dell'animo umano e capire in che misura riempiano le persone di cui ha bisogno. Questa conoscenza, se dev'essere esatta, rapida, dev'essere anche rudimentale; perché se l’uomo d’azione conoscesse
gli uomini nel loro ritmo complesso di passioni contradittorie, e tenesse conto, in ogni giudizio, di tutti gli elementi che li compongono, si confonderebbe più facilmente che conoscendo soltanto, dell’uomo, quella passione che entra nel gioco de’ suoi interessi. L’uomo di pensiero deve conoscere appunto quell’essenza individua che fa d’ogni essere umano un uomo diverso dagli altri uomini. L’uomo d’azione deve conoscere quello che in un uomo lo riattacca a tutta l’umanità. L'altra differenza, che voglio stabilire, è già stata suggerita dal Grasset, quando ha scritto che « agire, vuol dire liberare ogni minuto dal groviglio dei fatti e delle circostanze la questione semplice che si può risolvere in quel momento ». Questo pensiero è acutissimo, ma forse non basta a stabilire la differenza fondamentale fra 80
l’uomo
d’azione
e l’uomo
di pensiero.
Gli uomini
d’azione,
direi, non
hanno
co-
scienza del quadro universale delle cose; e le imprese a cui si attaccano sembrano loro volta a volta più grandi dell’universo. Gli uomini di pensiero tendono a mettere in scala, a inquadrare nell’universo ogni piccolo episodio della loro vita, anche nel momento in cui l’attraversano. Concludiamo: tanto l’uomo d’azione, quanto quello di pensiero creano; tanto l'uno come l’altro hanno la loro base nella realtà, e in questo si somigliano; ma l’uomo d’azione parte dall’immaginazione per arrivare alla realtà; e l’uomo di pensiero parte dalla realtà per arrivare all’immaginazione. L'uomo d’azione concepisce, nella sua mente,
un’idea,
che attua
nella realtà.
L’uomo
di pensiero con-
templa la realtà, a da questa contemplazione cava un significato, che trasforma in opera. La differenza diventa dunque visibile nel momento in cui le idee si concretano.
Perché
le idee per l’uomo
d’azione,
si concretano
nei fatti; mentre,
per
l’uomo di pensiero quelle idee, che sono venute dai fatti, si concretano in un mondo a parte, che non ha più nessun contatto con la realtà, il mondo del pensiero. Per questo il Grasset ha scritto: « un uomo d’azione non deve cedere alla voluttà di scrivere. L'azione è un’amante gelosa, che priverebbe presto di ogni gioia chi l’abbandonasse per le Muse ». Se si pensa che il Grasset è sopra tutto un uomo d’azione, queste parole ci dimostrano che anch'egli, come tutti i grandi osservatori, è l’unico esempio che smentisce se stesso. [« Solaria », luglio-agosto
VISITA Villa Veneziani,
chauffeurs conoscono,
in un
sobborgo
1928]
A SVEVO
di Trieste,
è un’immensa
casa,
che tutti gli
costruita in mezzo alle fabbriche di Tintura Sottomarina, di
cui Svevo era, credo, amministratore.
Svevo abitava Villa Veneziani con la moglie,
tutte le cognate e i cognati, tutti i nipoti e forse i bisnipoti e — quando era ancor vivo — il gran patriarca, il suocero. Erano e sono tutti impiegati nella fabbrica di Tintura
Sottomarina.
Svevo, e cioè Ettore Schmitz,
mi ricevette in uno degli ap-
partamenti di questa casa. La domenica sera, tutta la famiglia Veneziani, tutti i rami collaterali e i loro amici si riuniscono negli appartamenti a terreno: ballano in una immensa sala luccicante o si rifugiano, per chiacchierare, in una serra piena di palme. Ma Svevo lo vidi per la prima volta a colazione, solo con la signora Schmitz. « Vede che non ha un occhio storto!» mi disse appena mi ebbe stretto la mano. Sapendo che avevo letto La coscienza di Xeno, temeva che volessi ricercar nella sua casa il modello di Augusta. Mi guardai attorno: la casa era traboccante di mobili, forse troppo lussuosi. Il pranzo era squisito. La signora Schmitz spandeva intorno a Svevo benessere, ammirazione.
Svevo aveva l’aria, più che altro, stupe-
fatta di questa gloria improvvisa e tardiva. La mia visita era per lui un po’ diversa dalle solite; perché, fra tanta gente che andava
che io andavo l’aria di dirsi: e io sono uno vola e umana,
a è di e
a trovarlo come
Schmitz, sentiva
trovarlo come Svevo — e me ne era molto riconoscente. Aveva proprio vero, dunque, che i lettori vengono a visitare gli scrittori questi. Sorrideva in modo bonario con una punta di ironia benela gioia e lo stupore di fronte al miracolo di questa svolta improv81
visa della sua vita, che aveva ormai consacrata da tanto tempo alla Tintura Sotto-
marina, erano troppo ingenui e puri perché le amarezze che la accompagnavano potessero intaccarla; ma non si poteva dire che Svevo fosse un uomo felice: gli sl leggeva in fondo agli occhi la luce dell’ossessione, un’ansia, un’angoscia continua, che egli cercava di placare in chiacchiere, in madrigali, in witz. Si sarebbe detto che Svevo aveva come ideale supremo di far ridere gli amici con dei witz. Svevo, certamente,
faceva
troppi witz.
La sua faccia era un curioso controsenso: perché la natura gliela aveva fatta tedesca, un accomodamento tra Hindenburg e Thomas Mann: due sopraccigli mefistofelici e ben segnati facevano un bizzarro Y sul naso ebreo, e la bocca era incorniciata dai baffetti grigi; ma gli occhi scintillavano di malizia latina, di bonarietà umana — e in fondo in fondo, affiorava quella strana ossessione. Siamo usciti: mi accompagnò in automobile, in quel pomeriggio livido e diaccio, a giro per il porto, poi alla tomba del Winkelmann.
Aveva una maniera di fare
che metteva tutti à l’aise: picchiava sulle spalle di Saba parlandogli in dialetto triestino, sorrideva allo chauffeur, stringeva la mano a una folla di passanti e a tutti diceva un witz, un complimento, una parola affabile. Era, soprattutto, affabile. AI museo, si mise a discorrere con il portiere; domandò del direttore, che non c’era,
poi salì, adagio per via del cuore, fino alla tomba di Winkelmann. Io gli dicevo che meraviglia erano le donne dei suoi romanzi. « Le ho amate tanto! » mi rispondeva soffiando per le scale e mi guardò con un po’ di malinconia. Ma i suoi romanzi, non trovava lo stesso da pubblicarli. Gli editori più importanti, anche dopo la gloria, gli avevano chiesto diecimila lire per ristampare Senilità. « Un commesso librario ha detto di me: è un autore che non va. È così, è così ». Diceva questo senza amarezza apparente; ma doveva soffrirne. La sua sensi-
bilità e anche la sua vanità erano a nudo. C°è così poca gente, in Italia, che sappia esprimere ai suoi grandi un briciolo di ammirazione! Per rimettersi da venti anni di silenzio e di oscurità, Svevo aveva bisogno di molto calore. Discorremmo di libri. Conosceva tutte le letterature di tutto il mondo —
da uomo
colto, non
da letterato;
da solitario che aveva
studiato
per un folle
amore delle lettere in mezzo alla meraviglia e al sarcasmo di una intera città. Si arrivò così dinnanzi alla tomba del Winkelmann. Il cielo si era un po’ rischiarato col vento: delle grosse nuvole passavano dinanzi al sole lasciando ogni tanto brillare degli angoli di azzurro. La tomba del Winkelmann è posta in una specie di orto accanto al museo: un prato abbandonato, cosparso di marmi romani, di qualche pianta che mi parve esotica, cinto da una parte di filo spinato, e dall’altra dalle grosse mura del castello. La tomba è uno dei monumenti neoclassici più deliziosi che io abbia visto: discreta, bianca, elegante e semplice, non si trova a disagio in quell’orto modesto, vicino a quei frammenti classici, a quegli avanzi del tempo. Io dicevo a Svevo, che non pubblicasse, come voleva, Senzlità in piena estate. « Ha ragione, mi rispose; ma vede... » esitò un momento, per pudore, poi aggiunse « se no, ho paura di morire prima ». Pensai che lo dicesse come il suo protagonista di Una burla riuscita, per nascondere il prepotente bisogno di ristampare il suo libro. Ci lasciammo su questa frase e Svevo morì un anno dopo. Ora egli ha spento la sua angoscia (che era paura di morire?) nella grande quiete della morte; l’opera sua è fatta. Sta a noi di darle il posto che merita nella letteratura italiana. {« Solaria », marzo
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1929]
IL TEATRO
E GLI
INTELLETTUALI
Perché il teatro italiano è in crisi? Il direttore di un giornale teatrale italiano, che apre un'inchiesta
sull’argomento,
mi chiede
di rispondere
a questa domanda.
Poiché immagino che molti scrittori avranno già risposto a quest'ora, accusando i ricchi che non aiutano il teatro, gli attori che non studiano la parte, i direttori che non si occupano della messa in scena, il pubblico, grossolano e disattento, che applaude le brutte commedie e fischia le belle, di essere i primi responsabili della crisi,
vorrei approfittare di questa occasione per denunziare la responsabilità che nella crisi hanno gli intellettuali. Prima di tutto bisogna riconoscere che la crisi è vera. I lettori certo hanno già letto, sull'argomento, degli articoli nei giornali. Ma anche se non leggessero i giornali, non avrebbero, per accorgersene, che da andare a teatro. I teatri italiani in genere sono semivuoti. I teatri si affollano ancora durante le « prime » turbolente degli scrittori teatrali più celebri; ma offrono a chi vuol vedere una commedia alla sua terza replica, lo spettacolo sconfortevole di una sala deserta, in cui campeggiano le vecchie « maschere » un po’ desolate. Il pubblico vuol dal teatro dell’eccitamento, e non gode davvero della propria commozione, se non la condivide. Ogni uomo, a teatro, non vuol soltanto sentirsi preso, ma vuol sentirsi « preso » insieme a una folla. Il numero,
non si sa come, aumenta
il piacere. Ogni spettatore perso in una
folla, si sente come uscir di se stesso, si accorge a poco a poco che non reagisce più alle battute dette sulla scena con il proprio cervello, con il proprio cuore, ma con il cervello e il cuore di un nuovo essere, che è il pubblico del teatro. Lo spettatore, quando è solo, non si illude. Per credere alla finzione della scena, ha bisogno di avere
molti che ci credono intorno a sé. Non può essere illuso che tra illusi. Ma il pubblico non può godere a teatro, se non riesce ad illudersi; perciò un teatro vuoto lo annoia e i teatri si vuotano perché sono vuoti. È vero dunque che i teatri sono abbandonati dal pubblico; è anche vero che gli attori sono svogliati. Le compagnie sono in genere ineguali, le messe in scena povere, il repertorio troppo eclettico. Ogni attore deve studiare almeno quaranta parti in un anno, recitare una sera in una tragedia di Sofocle e la sera dopo in una commedia di Verneuil; non è dunque possibile che reciti bene. Ora, appena un attore è svogliato, il pubblico sente che è un attore. L'illusione diventa sempre più difficile, lo spettacolo sempre più noioso. Qual è dunque la ragione prima di questa crisi? Il pubblico? Gli attori? Gli scrittori? È difficile, come sempre, indicare « la causa » di un fatto. Ogni fatto ha sempre
più di una causa. È difficilissimo in questo caso, perché si tratta di un circolo vizioso. Noi non cercheremo dunque di indicare « la causa » di questa crisi, ma ne approfitteremo per fare alcune considerazioni. Io credo infatti che se il teatro italiano si sta sprofondando adagio adagio nel silenzio e nella noia, è perché è stato abbandonato dagli intellettuali e dal pubblico scelto. Mi pare che in Italia non ci si sia ancora accorti, che per gli italiani più intelligenti il teatro rappresenta un'isola misteriosa. La maggior parte dei nostri scrittori non scrive per il teatro e non se ne interessa. Il pubblico più colto e rafhnato non compra più da molti anni un biglietto d’ingresso per un teatro. Non esistono più, per gli ambienti mondani più intelligenti, « le commedie che bisogna vedere ». Nessuno parla di teatro in un salotto. Si parla di libri, di cinematografo,
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dell’opera, dei concerti, ma non di teatro. Ho detto prima che per accorgersi della
crisi, bastava andare a teatro. Avrei dovuto dire che bastava fare una visita a una signora elegante. Gli italiani che non conoscono Parigi, Londra, Vienna, Berlino,
non hanno forse un’idea di quello che in Europa rappresenta il teatro. A Parigi soprattutto, il teatro non è soltanto il passatempo più universale, ma è il terreno di intesa su cui si affratellano nei salotti, coloro che ci si incontrano la prima volta. Ogni anno ci sono quattro o cinque commedie che bisogna vedere; e bisogna vederle non soltanto perché sono discretamente fatte, molto divertenti e rappresentate in modo perfetto, ma soprattutto perché non si può andare in nessun salotto senza doverne parlare. In Europa, il teatro è il punto di mira di una città intera. L'interesse
continuo di tutto un immenso pubblico crea intorno al teatro quell’atmosfera eccitante che lo fa vivere. Ma qual è il primo stimolo di tutto questo fermento? Il primo stimolo è il fatto che il teatro è considerato da una piccola élite come una grande arte. In Italia il teatro non è più considerato arte. Gli intellettuali sono persuasi che scrivere un dramma sia la cosa più facile di questo mondo. Il pubblico più intelligente pensa che ci vuol del genio o dell’ingegno per scrivere un romanzo, ma che un dramma, non si sa come, deve venire da sé. Si dirà che questa élite non ha nessun contatto con il grosso pubblico che riempie i teatri, che le teorie di una dozzina di letterati non possono davvero diminuire il borderò di una compagnia. Eppure è proprio così. I grandi orientamenti di un pubblico sono imposti da una piccola élite. Sarà inutile spandere sulle compagnie una pioggia di milioni; abbellire la messa in scena, rinnovare il repertorio; istruire gli attori; finché gli intellettuali e la élite non vorranno ricordarsi che anche il teatro aveva in cielo la sua musa. Il teatro in Italia sta languendo, non perché il pubblico sia stanco del teatro italiano moderno, ma perché gli intellettuali e la élite degli spettatori non credono che il teatro sia un’arte. Nessun’arte può durare quando i suoi giudici migliori non hanno fiducia in lei. Per noi, questo è del resto un dramma storico. Al teatro, noi abbiamo sempre preferito la lirica. La « prémière » della Suocera di Terenzio è stata un fiasco due volte, perché tutto il pubblico abbandonò il teatro per andare a vedere, la prima, dei funamboli, e la seconda volta dei gladiatori. In un grande paese, il tono è sempre dato da una piccola élite. Il gran pubblico affolla i teatri e compera i libri; ma gli scrittori più profondi o più fini saranno sempre i prigionieri intellettuali di quel piccolo gruppo di pubblico, che non paga il biglietto e riceve i libri in omaggio. Questo piccolo gruppo nutre gli scrittori di idee, dà loro il primo plauso e ha per loro la prima censura, battendo la strada per il pubblico più vasto. Il teatro ha perso il sostegno di questo piccolo gruppo, e degli intellettuali che questo piccolo gruppo ispira. Sarebbe strano che potesse fiorire. [« IL Piccolo della Sera», 24 aprile 1929]
TRASFIGURAZIONE
DELL’AMORE
L’amore è forse il più vigoroso fermento, di cui godano le civiltà mature. Che lievito infatti può compararsi a questo, che riempie tutti gli esseri umani di un divino furore? L’amore è un sentimento universale. Tutte le civiltà possono dunque servirsene. No. L'amore diventa un fermento incomparabile, solo là dove è stato trasfigurato, solo quando non è più che un sottinteso.
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Paragoniamo l’Italia, la Francia e l’Inghilterra. In Italia l’amore è forse l’occupazione universale; quello che si vede luccicare in tutti gli sguardi, quando si passeggia verso sera nelle nostre città. Gli uomini e le donne, con addosso i riflessi delle vetrine illuminate, si scrutano sperando di vedere in quelle centinaia d’occhi scintillanti un segno d'amore, una promessa, una garanzia, una possibilità d’amore.
Per quasi che all’incirca a un metro e mezzo dal suolo, più o meno, si possa immaginare una ragnatela immensa, composta di mille fili che riallacciano fra loro gli sguardi-ragnatela,
continuamente
disfatta
e rifatta, perenne
e caduca,
eterna
e
transitoria.
Ma l’amore è una passione, che non si può chiamare che amore, e quasi sempre amore fisico, desiderio di unione. Tutto è stato detto, quando s’è parlato del possesso. Non c’è né sottinteso, né trasfigurazione. L’amore è un desiderio che non si sottintende sotto nessun’azione, ma che ha sempre un fine in se stesso: è l’amore per l’amore, il possesso per il possesso. Se ne parla continuamente perché, invece di essere, come in Inghilterra, chiuso nel suo scenario, l’amore è il perno intorno a cui ruota la vita dell’italiano. Ma è
amore rudimentale, tempestoso e profondo, che lo sconvolge, ma che non lo trasforma, che lo riempie, ma che non lo intride, appunto perché resta quello che è — amore. A Parigi invece l’amore è trasfigurato. Si ama nell’universo; non se ne parla in nessun paese come a Parigi. Trionfa a Parigi una specie di adorazione dell’istinto, che possono permettersi soltanto le civiltà raffinate e mature. L’amore è, in un certo senso, il dio segreto e la disperazione di questa moltitudine scelta, che si incontra come in un bagno di fiamme, in quelle sale scintillanti e soffici, ove la dolcezza opaca e sorda degli arazzi tempera e inquadra, dalle pareti, lo splendore dei gioielli sparsi sulle carni bianche delle signore. Che cosa cercano, di che smaniano, a che pensano, tutti quei gruppi discreti e sorridenti di uomini e donne, che si ritrovano ogni sera nel fastoso scenario del loro dramma? L’amore è forse, da una parte, l’uragano che li travolge. Basta, per convincersene, tornare a Parigi di tre mesi in tre mesi, per vedere gli stessi ambienti, come cartelli variamente composti con gli stessi dadi, distrutti e ricostruiti ogni volta per le tragedie dell'amore. Chi resisterebbe, infatti, all’invito di quest’atmosfera incandescente? La Rochefoucauld s'è chiesto quanti uomini amerebbero se non avessero mai letto un libro d’amore. Ci si può chiedere quanti uomini non amerebbero, in un mondo così liquefatto e bruciante. Ma è stato troppo detto che l’amore dissolve; a Parigi bisogna notare, come sia invece la molla di tutta la grandezza francese. Perché? Perché l’amore è stato trasfigurato. Tutto l’edificio della civiltà francese riposa sulla base di questo sentimento enorme, selvaggio e universale; e non è poco ammirevole lo spettacolo di una civiltà che è riuscita a incatenare una tempesta e a servirsene, per le sue vele gonfie, come di un ponentino; che ha saputo disciplinare la passione che è per sua natura sfornita di regole e dare un fine e delle dighe a quella che sarebbe per tutte le civiltà la forza più vasta di creazione, se non si smarrisse appunto nel suo stesso furore. L’amore in Francia non è rimasto, infatti, allo stato di amore e cioè di desiderio fisico e anche sentimentale; ma si è trasformato
in arte, in letteratura,
in ambizione,
in azione.
Di questo sentimento,
che
scuoteva e travagliava i suoi uomini migliori, la Francia s'è servita come di fermento per farli creare, per farli operare. Sotto tutte le opere d’arte, sotto tutti 1 romanzi, le poesie; sotto tutte le imprese guerresche, le rivolte rivoluzionarie, i bei gesti, gli
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atti croici e i sacrifici stoici della sua storia; sotto tutte le epopee religiose e filosofiche della sua vita spirituale, sotto tutti i grandi fasti della sua vita politica, c'è un
sottinteso d’amore, c’è il lievito dell'amore. Le donne francesi, infinitamente intelligenti, sono state i numi che guidavano, con una bacchetta magica, questo paradossale disciplinarsi di una tempesta, questa elettricità che scaturiva dal Nia-
gara dei sentimenti. Invece di aggrapparsi all'amore e tenerlo tutto per sé, ben stretto e segreto, le donne hanno avuto il coraggio e la forza di farlo espandere, e rinunziando a quella parte d’amore, che doveva servire come il lievito di un’azione, hanno
spinto l’uomo,
ancora
carico di sentimenti,
a cercare
loro una
foce nelle
grandi opere che li hanno resi immortali. Si capisce per questo come tutti parlano di amore a Parigi e non si può chiamare candidamente passione corrotta un’orgia creatrice. In Italia dunque l’amore è il perno della vita individuale, ma resta amore; in Francia è il perno della vita sociale, e viene trasfigurato; in Inghilterra non ha nessuna importanza e resta, come in Italia, amore. Si potrebbe dire che, dal punto di vista sociale, l’amore, in Inghilterra, somiglia molto di più all’amore in Italia, che all’amore in Francia, perché, in tutti e due
i paesi, l’amore è una passione che non viene trasfigurata. Mio padre, nell’Europa Giovane, ha osservato, come esistano ansie e inquietudini continue, che fanno dell’amore anche una fonte di distruzione. Ma se è vero che l’inglese è più forte, perché il peso dell'amore non l’opprime ed ingombra, è anche vero che è più debole, perché il lievito dell'amore non lo riempie. Questo stimolo manca affatto nella civiltà inglese. Sotto le grandi azioni come sotto le grandi opere dell’Inghilterra, non c'è mai il sottinteso d’amore. Le donne, le sole creature dell’universo che sappiano giocare, virtuose dei sentimenti, con le corde della passione, come si tentano le corde di un’arpa, non pensano a eccitare nell'uomo una passione capace di grandezza. Per l’uomo l’amore è l’ultima molla d’azione: il bisogno di ricchezza, di potenza, di conforto, di pace, di gloria; l’interesse per la politica, per l'economia, per la finanza, per lo sport,
per la discussione sono più potenti e stimolanti del bisogno di amore, dell’interesse per amore. E questa, forse, è una prova che ci troviamo dinnanzi a una civiltà sociale. Il sottinteso erotico, l’amore come
fondamento
sotterraneo di una società sono un
privilegio delle civiltà intellettuali perché l’amore non diventa un sentimento profondo che quando l’uomo riflette. Per quale ragione l’amore, negli animali, tra i selvaggi, tra i contadini, è meno tempestoso e doloroso che tra gli uomini in generale, e, in particolare, tra gli uomini civili, e, più ancora, tra gli uomini delle città e più ancora tra gli intellettuali, se non perché gli animali non riflettono affatto, 1 selvaggi poco o nulla, i contadini riflettono, ma
a mano l’amore l’amore vaste e
ad altro, e così, su su,
a mano
che gli uomini, vivendo in società, leggendo libri, acquistano interesse alin generale e bisogno di riflettere e attitudine a riflettere sui loro sentimenti, si espande, torreggia, li atterrisce e ferisce e colma di gioie sempre più di dolore sempre più profondo?
Per chi non riflette sul suo sentimento, l’amore non è che un desiderio fisico, misto di un brumoso struggimento morale. L’amore s’è venuto intricando con la civiltà, perché l’uomo ha cominciato a rifletterci. Quando si considera in sé e proporziona con tutti gli altri, ogni sentimento si inghirlanda infatti di sogni, ogni pensiero o sospetto, si va tumefacendo di ragionamenti, che sembrano altrettanto
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ragionevoli e concatenati,
quanto sono falsi e sofistici. Nasce finalmente,
nell’uomo,
che fino ad allora aveva visto chiaro e sapeva di sé e dell’essere amato che cosa fossero
e che cosa
volessero,
quell’universale
della luce e dell’aria, che fa dell'amore che impone
coi fatti, ma
abbuiamento
un momento
per lo smarrimento
d’idee, quell’intorbidarsi
tragico, non
in cui tuffa quando
per il dolore
si cerca di inter-
pretarli. L'uomo non si sente più in scala nell’universo; non sa più che valore possiede ogni momento della sua vita, e non gli riesce più di proporzionarlo con i momenti passati. Le ghirlande di sogni che abbellivano ogni pensiero, lo deformano e rendono irriconoscibile; i ragionamenti s’ingigantiscono sui loro fondamenti illusori come immagini del delirio e opprimono ogni piccola certezza sotto una enorme e inutile mole di cartapesta, pronti a sfasciarsi senza tuoni e a rinascere in una notte,
come palazzi d'esposizione, su quello spazio di anima malata che ha la forza di reggerli. E quanto più l’uomo si smarrisce e vacilla, quanto più gli sfuggono i sapori delle cose, tanto più cerca, con l’intelletto preso da una concitazione
inutile e furibonda,
di ricostruire quei ragionamenti che si stanno sfasciando, di dar forma a quelle ghirlande, vuote, colorite e soffici come nuvole, di proporzionare se stesso al mondo e di vedersi. La tragedia dell’amore e anche i suoi frutti opulenti, sono il risultato di una lotta, non dell’uomo contro la donna, ma di ognuno di loro contro se stesso. In questo studio si possono scoprire delle sublimi verità e capire i congegni secreti e il sottosuolo della vita umana, perché l’uomo immerso nella sofferenza può consolarsi soltanto affogandola nell’universo, rimpiccolendola nell’oceano delle cose, disciplinandola tra i limiti di una legge. Per questo l’uomo che ama e quindi soffre tende a scoprire le leggi universali che reggono il mondo e diventa più maturo e benevolo. Sennonché, come il contadino che si occupa del podere, dei bovi, del tempo e dell’ordine con cui deve lavorare la terra nelle stagioni, che si sposa per avere dei figli, i quali l’aiutino a lavorarla,
timento, ma
e non
pensa
lo considera tranquillamente come
all’amore,
né riflette sul suo
un oggetto ben
sen-
visibile, solido e
chiaro in se stesso, così i popoli di una civiltà sociale, che si occupano di politica, di finanza, di industrie, di economia, di sport, e si preoccupano del comfort, della pace, della potenza, della gloria, della ricchezza, della forza muscolare, non si
occupano dell’amore, nella misura in cui se ne occupano i popoli delle civiltà intellettuali, non lo patiscono e non se ne servono, perché non ci riflettono o ci riflettono meno. L’amore è un privilegio delle civiltà intellettuali, perché è dato più dalla riflessione che dall’azione, più dall’attività intellettuale che dall’attività morale.
Che cos'è infatti l’amore, anche come piacere, senza quella forza intellettuale, che lo raffina, pregusta e considera continuamente, se non un fatto fisico di poca durata e rinnovabile di tanto in tanto? Non c’è vero piacere amoroso se l’uomo non arriva,
amando, a contemplare se stesso, a sapersi felice. La civiltà sociale insegna a regolare l’amore con delle leggi, ma non a farlo scintillare e risplendere. L'amore, in una civiltà sociale, è come un mare senza sole, e col cielo ricoperto di nuvole. [« Solaria », luglio-agosto
1929]
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ADDIO
A ROMA
Scrivo per l’ultima volta accovacciato sul piedistallo di una colonna, in Piazza
S. Pietro. Il vento spande da ogni verso il getto delle fontane, dipanandolo in tenue
pioggia. La spuma bianca annerisce i bordi della gran coppa e il selciato. Al vertice, il getto si polverizza in gocce bianche, che balzellano e si avvicendano come le palle di un giocoliere. Addio Roma! Queste due candide piume di struzzo, agitate dal ponentino in mezzo alla immobilità del granito e fra le colonne, queste due fontane irrequiete, irregolari e rumorose mi paiono il canto e l’anima stessa di tante pietre silenziose e di un sagrato colossale, preciso e aperto come la religione cattolica. Il sole scintilla e le casupole rosse, al di là del colonnato, sembrano domandare allo splendor della luce il diritto di innalzarsi in faccia a S. Pietro. Sono contento di partire da Roma. Il destino ha posto in Roma le pietre miliari della mia vita, ma non ho mai potuto liberarmi, in questa città, dal peso della sua malata magnificenza. Fin dal momento in cui arrivando verso la sera vedevo brillare i lumi della cittàgiardino, cominciava a turbarmi l’ansia e l’inquietudine di Roma. Da principio, non potevo accettare l’urto delle tre città, di Roma antica, di Roma papale e di Roma moderna, costruite come se volessero schiacciarsi a vicenda sotto la grandezza dei propri monumenti. D’istinto, arrivando a Roma, volevo ricostruirla a mio modo. Poi, per l’abitudine di rivederli insieme, sempre minacciosi e sempre immoti, mi parve che una stessa patina si stendesse sui ministeri, sui monumenti funebri, sulle chiese e sulle rovine, su quelle tre civiltà che convivevano gomito a gomito senza fondersi, racchiuse in se stesse, opponendo l’una all’altra la gloria delle proprie memorie. Ma non riuscivo lo stesso a godere a Roma di quel benessere che cantò Goethe nelle sue elegie. Forse i viaggiatori trovano in ogni paese quello che ci voglion trovare. A me quel cielo troppo vasto e particolarmente concavo, verde, consunto e tremante di un’antica e malinconica luce fatta per delle macerie, quella sontuosa urbe,
distesa attraverso il silenzio selvaggio della maremma, quella via Appia ornata di cipressi e avviata verso un orizzonte che sembra segnare il limite della terra, quelle fontane troppo squisite e musicali, quei palazzi, quella calata indifferente, lussuriosa
e molle, quell’aria pesante che si affina la sera e ci fa sognare il Mediterraneo, quei crepuscoli estenuati ed immensi avevano riempito il cuore di uno sgomento che gli anni e i ritorni non riuscivano ad acquietare. Forse sentivo il terrore di una segreta onnipotenza. Roma è l’urbe tirannica. Splendida e indifferente, si vendica dei piccoli uomini che hanno il coraggio di vivere tranquillamente dentro la cerchia delle mura aureliane facendone la propria preda. A Roma, io mi sentivo prigioniero di quella sterile sontuosità, come una barca arenata tra le sabbie mobili di un estuario. La luce o i secoli, il colore o i ricordi, il chiasso o il silenzio, il lastricato o il cielo avevano tanto potere sulla mia vita interiore? Non so; ma mi pareva di essere l’ombra di quelle mura, da cui trasudavano la disperazione o la gioia. Non gli eventi, e nemmeno le donne erano la ragione del mio quotidiano umore; ma la città stessa, che faceva di me, contro il mio volere, un uomo felice o infelice, appena la mattina avevo respirato il suo odore vagamente marino. Tutto quello che avevo pensato e sofferto a Roma, i miei più antichi sentimenti e le mie passioni,
invece di svaporare col tempo, si adagiavano nell’urbe come delle nuvole in una valle. Non potevo più liberarmi dal mio passato, e ogni volta che ritornavo a Roma 88
mi toccava rivivere la mia vita fin da principio. Roma era per me come un sogno, dove il tempo è abolito. Delle vecchie immagini quasi dimenticate si rimescolavano alla mia vita, come si vedono nelle corti di una casa moderna gli avanzi di un muro imperiale. Vivevo a Roma stupefatto ed inquieto, e tutte le cose che ci vedevo mi sembravano una nuova allucinazione, come a un convalescente che esce per la prima volta dalla sua camera. Addio Roma! Tra poche ore sarò a Termini su una di quelle piattaforme proiettate verso l’infinito dell'Agro come verso l’oceano. Avrò dietro di me la città che comincerà a addormentarsi e dinanzi a me due lucide parallele. Che cosa mi riserba il destino? Dove maturano gli avvenimenti? Parto con gioia da questa città che non amo. Ma forse, fra qualche anno, dopo aver vissuto in paesi stranieri, accoglienti e festevoli, e in una più pallida luce, lontano da Roma, penserò con nostalgia alla dolcezza di queste donne, al mare che trema come una linea opaca sugli orizzonti della maremma, ai bambini ruzzanti dinanzi alle porte dei grandi palazzi inutili, ai fiori di Trinità dei Monti, e libero di me,
signore in me stesso, rimpiangerò per un momento l’inumana e sovrumana lenza di questa città che aveva la forza di sottomettermi.
opu-
[« Solaria », gennaio 1930]
LETTERA
A ADRIANO
TILGHER
Caro signor Tilgher, quando si vuol parlare di una estetica — e in questa lettera vorrei parlarle appunto della sua estetica, e del capitolo, in cui sono messo in causa — bisogna prima di tutto stabilire se si tratta di un’estetica metafisica o psicologica. Tanto le une che le altre sono manchevoli: le metafisiche perché, erette a riscontro
di un'etica e di una
logica, non servono
che a colmare
un vuoto in un
sistema di filosofia; le psicologiche, più genuine, perché son condannate
coscrivere i termini di cui si servono.
a non cir-
Chi non ha costruito un sistema intero non
può dare la sua definizione di natura, di vita, di realtà; e se non
si rassegna,
come
Alain, a avvertire nella prefazione che prende a fondamento di tutto il suo sistema di belle arti la critica del giudizio — senza peraltro parlarne mai — sarà eternamente
un
empirico.
Tutti
potranno
obbiettargli,
come
De
Maistre:
«la natura,
chi è questa signora? ». Voglio anche ammettere che la costrizione di una architettura astratta, e l’urgenza, in cui si trovano i filosofi metafisici, di inventare ad ogni costo una estetica,
che faccia da puntello alla morale e alla logica, possano essere feconde. So di alcuni filosofi, che se non fossero stati guidati e disciplinati da tutte le ricerche anteriori, non avrebbero fatto certe scoperte. Pensi all’estetica di Hegel. Pensi allo stesso Kant (che pure ha scritto un’estetica quasi psicologica), disperato di non trovare una sin-
tesi a priori per la critica del giudizio. Ma, d’altra parte, che dire di certe riflessioni ingegnose e vane, fatte da un filosofo che non è onesto con se medesimo, e vuol piegare l’estetica al proprio sistema! La penna è uno strumento troppo ubbidiente e troppo scaltro: bisognerebbe obbligare i filosofi a incidere sul marmo i loro pensieri. Le estetiche psicologiche, invece, sono costruite in generale da un uomo che ha esaminato se stesso. È raro che siano assolutamente insensate. Quanto ai termini di natura, realtà, vita, che i filosofi di questa categoria non possono definire — diciamo
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la verità, perché mai dovrebbero essere definiti? A un esteta, che deve definire il bello in modo preciso, importa poco di lasciar nel vago la realtà, la natura, la vita — tutto ciò che non è arte. Quando un pittore guarda un paesaggio, non sl chiede se gli alberi, il cielo, la terra, il mare sono una sua rappresentazione, o se esistono per se medesimi: e il problema estetico, anche se si potessero chiarire questi grandi misteri, resterebbe ugualmente oscuro. Conviene dunque lasciare a questi termini il senso vago che, per un miracolo di cui mi maraviglio ogni volta, è comune a tutti gli uomini, che non si sono occupati di filosofia. | La sua estetica è un’estetica psicologica — di quelle, dunque, che amo particolarmente. i Le estetiche psicologiche si dividono, a loro volta, in due categorie: le estetiche esterne e le estetiche interne, quelle in cui il filosofo considera
l’opera d’arte creata,
dal punto di vista del pubblico, e quelle in cui il filosofo studia la creazione dell’opera d’arte, dal punto di vista dell’artista. L’estetica di Kant è un’estetica esterna. Tutte le estetiche moderne, non esclusa la sua, sono estetiche interne. Le estetiche
interne permettono all’esteta di evitare il problema della bellezza. Le estetiche moderne parlano sempre
di arte, raramente
di opera d’arte,
e mai di bellezza.
Ma, se
permette, ritorneremo più tardi su questo argomento. Vorrei dirle per ora come la premessa della sua tesi di estetica mi sia sembrata luminosa e profonda. Se non sbaglio, si potrebbe farne il ristretto, con le sue parole, in questa maniera: « L’esperienza artistica allora si produce, quando un ritmo di vita, una vibrazione di vita fa di sé l’oggetto del suo amore ». Questa esperienza è « esperienza di autosufficienza assoluta ». Un’opera d’arte non aspira a nulla. In essa non deve trovarsi « trascendenza vitale ». Si tratta certo di una scoperta importante. Che a ogni modo sia un'idea feconda (e un'idea filosofica, secondo me, non può aspirare a niente di più e a niente di meno) si vede al pullulare di idee secondarie, che ci si raggruppano intorno, a quelle ingegnose e delicate considerazioni sul sogno, sul ricordo, sulla conoscenza, sulla fantasia, con cui lei viene rimpolpando e fortificando lo scheletro della sua tesi. Questa formula m'è parsa dapprincipio una specie di pietra filosofale, con cui, nel campo della esperienza, si potessero toccare tutti gli elementi della esperienza artistica,
e farli diventare
d’oro.
Un'idea vitale illumina sempre un numero imprevedibile di problemi oscuri e fa sognare. Durante il lungo fantasticare a cui mi sono abbandonato, dopo aver letto il suo libro, mi sono chiesto se l’arte come amor vitae non potrebbe spiegare, tra l’altro, l’avidità e il furore con cui i poeti, quando soffrono, corrono alla penna.
Che miglior maniera di consolarsi? Per qualche attimo amano il proprio dolore. Ma a tutte le estetiche si possono muovere delle obbiezioni. E poiché la discussione, quando si tratta di idee generali, non può che riuscir feconda, mi permetterò
di interrogarla su alcuni punti che mi sembrano ancora oscuri nella sua tesi. Non è senza timore che mi arrischio a affrontare il corruccio mista come lei. Ma spero nella sua benevolenza. Il mio primo dubbio, lei se lo immagina. Mi riesce l’arte e la natura siano due categorie distinte del nostro nate a non incontrarsi mai. Ed è proprio questo, se non quasi severamente,
e che
pure
contraddice
«La fantasia — scrive — presuppone rapporto è estraneo alla vita estetica ». 90
senza
e la dialettica di un pole-
difficile di ammettere che spirito, due parallele destierro, che lei afferma, direi
volerlo.
un rapporto con la realtà. Ora questo
E ancora: « L'esperienza artistica, non si riferisce alla realtà, nemmeno per negarla o superarla, non ha in sé, nemmeno come negata o superata, la realtà. La realtà... è una categoria della vita, l’arte ne è un’altra ». Nelle prime pagine del suo discorso, ricordo una bella descrizione di Tristano, che «langue e si consuma nella nostalgia di Isotta lontana ». In questo languire lei vede un esempio di « vita vissuta ». Immagina poi Tristano, che « si ama come quello stato d’animo, come quella vibrazione e ritmo di vita che esso è » e in questo «amarsi », vede un esempio
di « stato d’animo
poetico ».
L'artista, infatti, può fare oggetto del suo amore l’orrore,
« l’angoscia, la disperazione,
il terrore ».
Là dove analizza il lavoro del critico, lei mette in luce il sottostrato dell’opera d’arte: il critico « determina come questo mondo di affetti, di passioni, di odii e di amori, di interessi e di fedi, di dubbi e di disperazioni, di concetti e di preconcetti
siasi venuto formando nel tempo e nella storia ». Ma allora, come può lei negare un rapporto tra arte e vita? Certo, la realtà, nel suo sistema, non è negata e nemmeno superata; ma, come è chiaro per tutti quelli che hanno letto la sua definizione, è amata. Non vedo come
si possano
definire
« gli affetti, le passioni, gli odii, etc. » che
l’artista fa oggetto del suo amore, se non vita, realtà. Per un poeta, per un romanziere, un sentimento, una passione, un moto dell’animo, sono realt come un albero per un pittore. Cambiamo argomento. Che l’arte come amor vitae sottintenda la realtà o non la sottintenda, il principio rimane nuovo e seducente. Per la letteratura, è una
rivelazione.
Ma
per l’architettura...
Lei mi risponde che non
ho diritto, a questo proposito, di muoverle
dei rim-
proveri, poiché nel mio libro ho lasciato da un canto l’architettura, la musica e la danza. Son dunque costretto ad aprire una parentesi, per difendermi. Una soluzione a questo gruppo di belle arti ermetiche, l’ho dato anch'io nelle ultime pagine, ma con la prudenza e le riserve di chi non è del tutto contento di se medesimo e conta ancora di tornare sull’argomento. Se qualcuno mi dimostrasse che « quell’ordine ostentato », con cui ho cercato di risolvere un problema così difficile, è una formula insufficiente, non esiterei a dargli ragione; ma sono convinto
d’essermi messo sulla buona strada, quando ho scritto, che per definire definitivamente
l’architettura,
la musica e la danza, bisogna dividere in due classi le belle
arti. E qui, per abbreviare il discorso, potrei rimandarla al mio libro stesso, anzi a quelle pagine che vanno dalla 215 alla 218. Non credo che si possano chiuder tutte le arti nella stessa definizione. Torniamo a lei. Se la formula di Leonardo, per esempio, abbraccia soprattutto la letteratura,
la pittura, la scultura e il cinema, la sua definisce soprattutto la poesia. Che cosa «ama in se medesimo », un architetto che deve costruire una banca? Lei non ci lascia nemmeno supporre che l’architetto ami in se stesso «l'amor del bello », poiché ha scritto: «lo spasimoso amore del bello e dell’arte, facendo del bello e
dell’arte un fine per lo spirito, cui questo ansiosamente aspira, ristabilisce la trascendenza vitale ed è micidiale alla genesi dell’esperienza artistica. Fare dell’esperienza estetica un fine da raggiungere, è tanto assurdo quanto fare dell’amore un oggetto di volontà. È inerente all’esperienza del bello di essere avvertita come un dono, come
una grazia, come
un'illuminazione
improvvisa
dall’alto ».
9I
Ma d’altra parte si può dire che l’architetto, quando immagina un edificio e fa i piani, non si preoccupi della bellezza e aspetti che il proprio edificio diventi bello «per un'illuminazione improvvisa dall’alto »? Se un artista può non pensare alla bellezza, è perché pensa alla vita. L’arte è dunque incatenata alla vita; o almeno sono incatenate alla vita quelle arti in cui l’artista può non pensare alla bellezza. Ma lei mi obbietta: « Bellezza, bello, sono parole che godono la pienezza del loro significato, quando sono applicate ad opere classiche, classicistiche, classicheggianti. È un concetto, quello di bellezza, che richiama invincibilmente con sé quelli di proporzione, armonia, convenienza, simmetria: un concetto, quindi, che sì applica a oggetti in rapporto fra di loro, un rapporto tale, che, al limite, tende ad esprimersi in termini chiari e distinti, matematici addirittura ». « Bellezza — aggiunge — è indescrivibile e irrisolubile in leggi, norme, concetti,
tipi astratti ». Per lei, la parola bellezza è sorpassata e non oseremmo mai servircene per I fratelli Karamazov. Chi troverà una parola, per definire « ciò che è esteticamente riuscito e positivo » diventerà immortale. Lei afferma dunque che « la bellezza richiama
invincibilmente
con
sé»
l’idea
di « proporzione,
armonia,
simmetria »;
osserva che ci sono delle opere d’arte inarmoniche, sproporzionate e conclude che la bellezza è un termine usato, di cui non possiamo più servirci per giudicare le opere d’arte contemporanee. Ma non le sembra questo l’esempio tipico del sillogismo, in cui la premessa è arbitraria? Come può lei affermare che la bellezza richiama invincibilmente con sé l’idea di armonia, proporzione etc.? Questo attributo, risponde lei, non può essere applicato che ad opere classiche, classicistiche, classicheggianti. Ma qui bisognerebbe definire e distinguere. Un’opera classica, non è un’opera classicheggiante. E che cos'è un’opera classicistica? Per opera classica, intende lei latina o greca? Non ci si può dunque servire della parola bellezza, che per giudicare le opere, latine e greche? E se non intende le opere latine e greche, poiché non voglio avventurarmi in una discussione sul classicismo, che sarebbe interminabile, crede lei che si possano chiamare classici, il Faust,
la Bibbia, Shakespeare, Michelangelo? E per dire che un’opera d’arte è bella, quando direbbe?
Non
« Riuscita,
mi sembra
non
è armonica
etc., come
perfetta »?
che si risolva il problema
della bellezza, quando
si dice di
un’opera d’arte, non che è bella, ma che è riuscita, perfetta; e se anche si inven-
tasse una parola nuova, mai udita, si tratterebbe poi sempre di definirla. E non crede lei che gli esteti moderni, identificando l’arte con la bellezza, confondono un’attività con una qualità? Se tutti i filosofi, che d’arte e di bellezza hanno fatto due sinonimi, non trovano più la maniera di distinguere l’arte dalla non arte, per parlare il loro linguaggio, gli è che applicano tutto il loro studio sopra un'attività, l’arte — l’attività che crea la bellezza —, mentre la bellezza è una qualità dell’oggetto, che esiste nella misura in cui l’uomo lo considera. Quando si giudica, non si giudica un’attività, ma una qualità. Mi pare che questo problema sia mal risolto anche nella sua estetica. Ammettiamo che l’arte sia amore di vita e che la bellezza sia parola invecchiata. Come distingue lei l’amore di vita che non è diventato arte, dall’amore di vita che è diventato arte? Perché dovrà pure ammettere anche lei che si dà qualche volta amore di vita e non arte. Col criterio della perfezione — mi risponde lei. 92
Ma quante opere d’arte sono belle senza esser perfette! Può lei dire che / fratelli Karamazov sono un romanzo perfetto? Opere d’arte perfette non ce ne sono, e, se ci fossero, i critici rimprovererebbero loro quella perfezione, come un difetto. Un capolavoro non è un’opera d’arte perfetta; è un’opera d’arte importante. E a ogni modo come definire la perfezione? « L’opera d’arte è perfetta — scrive lei — quando la vita che essa è coincide immediatamente con la realtà fisica che ne è il corpo; quando, per esempio, le parole del poeta fanno tutt'uno con la vita poetica, che scorre sotto ad esse e questa fa tutt'uno con le parole del poeta ». D'accordo. Ma resta inteso che questa perfezione è incontrollabile. Il solo che può forse rendersene conto, è il poeta stesso. Se lei dicesse un giorno a un poeta irascibile: « Signore, le sue parole non fanno tutt'uno con la vita poetica, che scorre sotto ad esse », il poeta avrebbe il diritto di risponderle « che ne sa lei? » E come potrebbe servirsi di questo criterio della perfezione, per giudicare un palazzo? Che vita architettonica scorre sotto le pietre dell’architetto?
Ma lei ha anche scritto: « Vita perfetta, tistica piace. Il piacere è il suo effetto e la piacere che essa procura e fuori di esso è Allora si torna a Kant. E siccome anch'io
perché autosufficiente, l’esperienza arsua essenza. L’arte non è altro che il nulla ». discendo da lui, non posso che consen-
tire a questa ultima definizione dell’arte, che lei mi dà. Ma non sarebbe opportuno
di circoscrivere un così raro piacere, di definirlo? Io credo poi, come già le dissi, che di questo piacere sia oggetto non l’arte, che è un’attività, ma la bellezza, o, se non le piace questa parola, l’opera d’arte bella, l’opera d’arte riuscita. E se il piacere si connette con la bellezza, o con l’opera d’arte bella, non crede lei che biso-
gnerebbe studiare in che modo e fino a che punto un’opera d’arte è bella perché ci dà piacere e ci dà piacere perché è bella? D'altra parte, come si conciliano le sue due definizioni di « opera d’arte riuscita »? Un’opera d’arte « imperfetta », che ci dà piacere, è bella, è riuscita? Un'opera d’arte « perfetta », che non ci dà piacere, è brutta, è mal riuscita? Ma prima di lasciarla, vorrei difendermi da una accusa, che mi sembra ingiu-
stificata. Lei m’ha dedicato un capitolo del suo libro. Le sono molto grato di questo onore; come le sono grato di aver per primo difesa e commentata una mia commedia, ai tempi in cui scrivevo ancora delle commedie. Ma poiché siamo nel campo delle idee e delle teorie, sono sicuro che non le parrà strano che difenda le mie. Per quel che riguarda quel tal capitolo, andiamo perfettamente d’accordo: tutte le idee che mi fa dire sono ridicole e assurde, e non le è difficile di provarlo. MA 10 NON LE HO MAI DETTE. Quando scrivo che in un’opera d’arte ci interessa la sproporzione tra i mezzi e il risultato, quando scrivo che un’opera d’arte è un infinito raggiunto con mezzi finiti, non alludo alle rime, ai metri etc. (quali sono le rime e i metri in pittura e in scultura?) ma alle parole, ai colori, al marmo. La civetteria di Leonardo, che pensa di raggiungere « l’infinito », non con i mezzi già limitati della pittura, ma con quelli
ancor più poveri del disegno, questa eccessiva austerità, mi hanno rivelato 1 principio sano che si poteva cavare dal Trattato della Pittura, come i casi patologici in biologia, rivelano — diceva già Broussais — le leggi che governano gli organismi normali. E non si trattava qui di metri e di rime, ma del disegno, ossia di un’arte più povera, ma sempre di un'arte. Non so davvero, d’altra parte, come lei possa scrivere che le mie « stravaganze 93
derivano logicamente da un errore fondamentale: quello di credere che, godendo di un’opera d’arte, noi teniamo d’occhio l’artista che ha fatto il miracolo ». Quando mai ho alluso all’artista? Se anzi ho speso qualche pagina, alla fine del libro, per confutare questa teoria, con degli argomenti, che somigliano a quelli che adopra contro di me! Veda quello che io scrivo a pagina 207 e 208 del mio libro. Giudicando un’opera d’arte (che faccia parte della prima categoria) si sottintendono sempre — e cioè si hanno
confusamente
presenti —
non l’artista, ma
i mezzi con cui l’opera d’arte è
stata creata — i colori, il marmo, le parole — mezzi fatti per maravigliarci, quando pensiamo all’« infinito » che suggeriscono. « Se il piacere estetico — lei mi obbietta — che ci dà un’opera d’arte, viene dal vedere un tutto reso con una parte, l’infinito reso con mezzi finiti, s'impone la conclusione che l’impressione estetica che ci dà la natura, non ha assolutamente nulla a che fare con quella che ci viene dall’opera d’arte. Allora, come si spiegherebbe che noi diciamo bello, dinanzi a un paesaggio come dinanzi a un disegno? ». Io credevo
che, bello, lo dicesse
soltanto
dinanzi
alle opere
classiche,
classici-
stiche, classicheggianti. Ma ammettiamo che lo dica dinanzi a un quadro e dinanzi a un
tramonto.
Ho scritto due capitoli, uno sul bello naturale, l’altro sul bello artistico, appunto per spiegare in che consista la differenza. Il bello naturale e il bello artistico ci dànno ambedue un piacere (che ho ben definito); ma il bello naturale è l’oggetto di un piacere, che non possiamo spiegare con « leggi estetiche » e il bello artistico è l’oggetto di un piacere, che possiamo, anzi dobbiamo spiegare con «leggi estetiche». Non le ho mosso delle obbiezioni, non mi sono difeso, che per amore della discussione. Un popolo vive intellettualmente quando gli scrittori si attaccano senza distruggersi, e quando le discussioni di idee non nascondono un conflitto d’interessi. Più che delle riserve, le ho fatto delle domande, e non ho mai pensato di «chiuderla tra le corna di un dilemma aguzzo ». So bene che lei potrà chiarire, quando vorrà, i punti oscuri che le ho segnalato e sono fin d’ora pronto a darle ragione. [« Solaria », luglio-agosto 1931]
LES
INTELLECTUELS
EN AMÉRIQUE
« L'Amérique n’a commencé à se critiquer elle-même que depuis la guerre — écrit un critique subtil, Van
Wick Brooks.
Dans l’histoire moderne,
il n’y a rien
de comparable à l'enthousiasme avec lequel ses passagers ont couvert de louanges le vaisseau de l’Etat américain ». Si l’on excepte des hommes comme Mark Twain, Henry Adams, et, après la guerre, les communistes et les écrivains de gauche, les intellectuels américains se sont toujours montrés satisfaits de leur civilisation. Franklin offre à son peuple un joli miroir où il peut s’admirer avec complaisance; Emerson exprime en phrases sonnantes la théorie virile de la « self-reliance ». Pour s'identifier avec sa race, William James,
ce neurasthénique
d’introspection, sacrifie son âme et ce qu’il y a de plus cérité. Il se contraint à concevoir et à bâtir une sorte le pragmatisme, que tout Américain peut adopter sans pratiques de l’homme d’affaires reçoivent le chrisme 94
délicat, malade
précieux dans la vie, la sinde philosophie de pionniers, hésitation, et où les instincts des sages. Dans ce flot de
consentements, on cherche en vain la réaction furieuse d’un penhauer,
d’un
Heine,
d’un
Dante,
d’un
Renan,
d’un
Nietzsche,
Gobineau,
d’un
Scho-
la sainte colère
des prophètes bibliques courroucés contre le peuple élu. Doit-on en conclure que l’Améri ique est le paradis, non des hommes d’action, mais des intellectuels? Que ceux qui veulent vivre en paix dans le domaine de la connaissance doivent s'établir au centième étage d’un gratte-ciel? Je doute fort que les manifestations d'amour prouvent l’amour et je me méfie des femmes qui répètent trop souvent: « Je t'aime ». En général, quand un homme aime son pays, il en est mécontent. Pareils à des enfants qui souffrent si leurs parents ne sont point parfaits en toutes choses parce qu'ils les révèrent comme un absolu, les intellectuels ont pris depuis toujours l'habitude de frapper leur patrie de leur foudre. Qui n'a pas senti l’amour blessé et offensé dans les apostrophes de Dante contre l'Italie « bordel des provinces » et « auberge de douleur » ne connaît rien à la psychologie humaine. L'amour provoque la fureur. Le manque de contacts profonds provoque des tentatives d'amour. L’enthousiasme des écrivains, à mon avis, ne signifie point qu'ils se sont identifiés avec l'Amérique, mais qu ‘ils ont désiré le faire sans y parvenir. Le cas de William James est le plus bel exemple de cette tragédie secrète. Son frère, Henry James, eut assez de force pour rompre dès le commencement de sa vie avec son pays: il s'établit à Londres. Mais William James était un tendre, il n’osait pas renoncer à la chaleur d’un vieux refuge. Il inventa un système philosophique pour se prouver qu'il était un véritable Américain. Il partagea, on le sait, les hommes en deux types: les tender-minded et les tough-minded, les tendres et les forts. Les premiers seraient rationalistes, intellectualistes, idéalistes, optimistes, religieux, dogmatiques, etc... Les derniers seraient empiriques, sensationistes, matérialistes,
irréligieux,
fatalistes,
etc.
Cette
division
est si évidemment
arbitraire
et dépourvue de consistance psychologique qu'il faut l’accepter comme une confession, les tender-minded représentant grosso modo ce que William James était et les tough-minded ce qu'il voulait être. William James réussit à se convaincre. Il demanda à la philosophie sa cash value, sa valeur pratique, comme un pionnier demandait à la charrue de bien labourer. Mais ce système risqua de s’écrouler dès que son architecte franchit lAtlantique. Et le tough-minded devint un tendre, l'Américain se sentit dangereusement près de la vieille Europe, l'Amérique lui sembla
« très triste, très triste parce
que
si vide » et il se jura « de ne jamais plus la quitter, à moins d’être sûr qu'il pourrait s'établir ailleurs jusqu'à sa mort ». Le cas de William James est symbolique. Après une vie dépensée à combler le fossé entre l'Amérique et lui, Georges Santayana partit pour Rome. Mais tous ceux qui sont restés dans leur patrie et ne se soulagent pas, comme Dreiser par la critique, les écrivains, les philosophes, les peintres mêmes font de grands efforts pour découvrir en eux-mêmes des points de contact avec la civilisation américaine. Prenez, je ne dis même pas Dewey, qui est pragmatiste, mais Waldo Frank. Il cherche à noyer sa nervosité et son malaise dans le rêve merveilleux d’une Amérique triomphante, qui irait de l'Alaska jusqu’en Patagonie. S’attendant à un refus, il préfère trop demander que trop peu. J'ai eu la chance de rencontrer et de fréquenter longuement un Américain extraordinaire, qui est à la fois anthropologue, linguiste, musicien, poète et psychiatre. Aussi nerveux que l’aiguille d’une boussole, mais doué d’une merveilleuse
96
facilité d’expression, il semble résoudre les complications et apaiser les tourments d’une vie intérieure très difficile dans le flot des discours. Sceptique et relativiste, comme la plupart des anthropologues, soucieux d’être aussi honnête que possible envers lui-même et de ne rien croire par hasard, travaillant sans cesse à purifier son esprit de ses préjugés et à maintenir un équilibre toujours instable, il sourit en général avec mélancolie, espérant trouver je ne sais quel baume dans la sympathie humaine. Trop artiste, trop intuitif, trop encyclopédique pour plaire à ses collègues au milieu desquels il doit vivre, il réagit contre leur froideur en cherchant à se persuader qu’il incarne l'Américain type. Les psychologues ont assez de pénétration pour se découvrir; mais ils ont aussi assez d'imagination pour s’inventer et se créer. L’homme dont je parle réussit à concilier on ne sait comment sa religion de la sincérité et ce besoin de sympathie qui le force à adopter, bon gré mal gré, l’américanisme.
Il défend avec une
habilité socratique les conquêtes,
les my-
thes et même les partis pris d’une civilisation industrielle avec laquelle il a tant de peine à se fondre. Et, plus sage que William James, il prend garde de ne point visiter l’Europe. Comment expliquer la persistance et l’âpreté de ce conflit, entre l'Amérique et les intellectuels? L'opinion publique américaine n’oppose point de résistance aux chefs-d’œuvre; elle est prête à les admirer. Mais elle prétend que les intellectuels, dans la vie, ne se distinguent pas des autres hommes; qu'ils soient des regular guys, avec les goûts, les passions, les mœurs, les vertus, les limitations de l’homme moyen. J’ai entrevu tout un monde d’inexprimables froissements à travers les lignes d’un livre sur l'Amérique publié il y a quelques années par un écrivain hautement cultivé. Ce malheureux se croit obligé de faire à chaque page une profession de foi de bon Américain
et de parfait démocrate;
il rappelle qu'il a été un businessman et, quand
il doit avouer qu’il s'intéresse à l’art grec archaïque, il s'excuse. Précisons, il s'excuse tout d’abord, puis revendique par avance contre un public hostile son droit de s'intéresser à l’art grec archaïque, il s’admire enfin lui-même pour ce goût avec une naïveté aussi embarrassante que son humilité, excessif dans ses excuses et dans sa satisfaction. Il ne reste, en effet, aux intellectuels que d’affirmer leur moi avec violence, de s’exiler, ou d'adopter l’américanisme en l’ennoblissant. Les trois solutions sont également douloureuses. Mais partout, sauf en France et peut-être en Chine, le lot des intellectuels est d’être dépaysés dans leur pays. L'Amérique en ce sens n’est que le miroir grossissant du monde et de ses misères. [« Les Nouvelles Littéraires », 27 maggio 1933]
OÙ
EST
LE BONHEUR?
De la civilisation la plus industrielle de la terre, je suis tombé dans le silence d’un pays sans machines. « Je vais enfin trouver dans ce village mexicain une modèle de vie heureuse », me disais-je. La sagesse des Indiens et leur art de vivre avaient frappé l’esprit de quelques intellectuels américains, échappés à l’enfer de Détroit et cherchant asile dans une civilisation plus humaine. « Le bonheur est ici —
avaient-ils écrit —
96
et non point aux Etats-Unis ».
Que la vie américaine soit fort dure et fort difficile, je le crois sans peine. Elle n'est point si différente d’une vie oisive, en ce sens qu’elle substitue le travail aux divertissements nécessaires pour devoyer les hommes de leur propre moi. La glorification du travail, qui s’explique à l’origine par les conditions de pionniers, perdus dans un continent désert et sans ressources, n’aurait
plus de véritable
raison d’étre
aujourd'hui si elle n’aidait les Américains à vivre en les empêchant de regarder en eux-mêmes. C’est un cercle vicieux. Quand ils débarquèrent sur le continent, ils durent renoncer à tout effort ou jeu intellectuel qui les détournât de l’action; aujourd'hui, ayant radicalement oublié l’art de vivre en tête-à-tête avec euxmêmes, ils sont forcés de recourir au travail comme les Européens recourent aux divertissements — et ils traversent la vie dans une usine comme sur un pont fragile qui les empêche de glisser dans l’abîme. Ce serait donc une erreur de plaindre les Américains parce qu’ils travaillent, alors que le travail est leur source principale de joie. Mais une vie fondée sur de tels principes est destinée, à la longue, à aboutir à une catastrophe. Quoi qu’en pensent les Américains, le travail, pour eux, est une fuite. Cette fuite devenant de plus en plus rapide, elle consume leurs énergies sans mesure. Rien n’est aussi commun que le drame du mari incapable de satisfaire sa femme, le soir, parce qu’il a trop travaillé pendant la journée. Et à la fin de sa vie, quand les énergies, ou l’âge, ou la chance adverse ne permettent plus à l'Américain de fuir, qu’il doit cesser de travailler et se retirer dans une petite maison en bois fournie de trois baignoires, c’est l'horreur de l’ennui et de la solitude. Les enfants l’ont abandonné;
ils viennent le revoir une fois par mois et n’ont rien à lui dire. Il lui reste parfois sa femme,
avec
laquelle il se promène,
le soir, en silence.
Il a perdu l'habitude
de s'exprimer, de confier ses sentiments, de s'ouvrir aux autres hommes. Il est seul, objet d’un respect narquois, muré en lui-même et il cherche en vain dans la nature, qu'il a abandonnée pour trop longtemps, une consolation et une joie qu’elle donne seulement à ses fidèles. Que le vie des Indiens est sage en comparaison! Ils ne travaillent que le moins possible et, en certaines parties du Mexique où tout pousse comme dans le paradis terrestre, point du tout. Et, toute leur vie, ils restent près des sources. Ils vivent près
de la terre et voient les fruits en sortir. Ils ont fait de leurs mains l’instrument avec lequel ils la labourent. Et ils connaissent depuis le commencement l’histoire de tout ce qu'ils portent et de tout ce qu'ils touchent. Ils ont tissé leurs sarapes euxmêmes avec la laine de leurs moutons; ils ont tourné leurs pots, cousu leurs sandales,
fabriqué leurs maisons. C’est, je pense, une des raisons qui expliquent leur sens artistique. L'homme civilisé s'éloigne des « sources », il vit dans un monde magique et sans histoires, sans commencements;
il ne fabrique rien, il ne se pose point le problème de fabri-
quer avec art. Les Indiens se sont habitués à considérer même la nature comme un atelier où Dieu s’amuse à fabriquer des millions de beaux objets. Ils se promènent en regardant les montagnes, les cailloux, les arbres, les racines avec des yeux de connaisseurs, en en louant les formes, comme ils feraient un pot ou un sarape, et, de temps en temps, donnant à Dieu un coup de pouce et l’aidant à mettre en lumière une idée que la nature avait à moitié étouffée dans son excessive magnificence.
Qui peut comparer les joies du comfort, auxquelles on s’habitue si vite, avec cette suite inépuisable de plaisirs intellectuels? Ces Indiens, comme
les artistes, n’ont-ils
Di
pas reussi à passer la moitié de leur vie dans le domaine de la connaissance pure, où le désir est suspendu, où la joie est parfaite? Et, pourtant, les Indiens vivent dans un état de désespoir chronique. On s’en rend compte, entre autres, en écoutant leurs chants, où l’on sent, paradoxe étonnant,
une tristesse agressive. Les chants des Indiens sont gutturaux, âpres, violents; le mêmes motifs, les mêmes notes sont répétés avec une sorte de fureur, les sujets les plus doux sont exprimés avec autant d’amertume que les histoires de meurtres. Il n’y a point de paix dans la tristesse des Indiens, rien de cette quies in malo dont parle Saint Thomas, mais un terrible « à quoi bon? », une interrogation qui n’attend point de réponse. Si les Indiens n'étaient pas religieux, on pourrait sentir dans chacune de leurs chants l’appel à Dieu d’un incrédule. O lecteur toulousain, cesse de croire que le bonheur est ailleurs! Je me persuade de plus en plus qu’il n’est nulle part, pas plus en Amérique qu’au Mexique. Loin de fuire leur propre moi, les Indiens descendent en spirale dans ses profondeurs. Mais dans le fond de leur moi, ils ne découvrent que la « douleur positive » d’Epicure, la douleur en soi, la douleur de vivre qui constitue presque toujours le fond de la nature humaine et sur lequel des moments de joie s’inscrivent comme des cris sur le murmure continu d’une ville. Les Indiens vivent en contact constant avec cette douleur métaphysique, mariés à cette douleur, livrés corps et âme à cette douleur, désespérés pour nulle raison. C’est qu’on tombe de mille mètres quand on tombe dans la douleur; mais on ne remonte que d’un mètre vers la joie. Un homme qui a mal aux dents est malheureux. Est-ce qu’il est heureux quando il n’a pas mal aux dents? Il suffit d’un rien pour que nous souffrions; mais que notre vie soit parfaite, tous nos désirs exaucés, et cela n’est point suffisant pour que nous soyons heureux. Et si nous n’étions tous entrainés par l’espoir chimérique d’un état meilleur que celui où nous sommes aujourd’hui, nous suivrions le conseil des anciens: Quieta non movere. [« La Dépêche », 21 agosto 1933]
LA RELIGION
DANS
LES
SOCIÉTÉS
L'Amérique nous offre un modèle, peut-être excessif mais dans l’ensemble fidèle, de la civilisation occidentale. C’est une civilisation où chacun fait ce qui bon lui semble. Les banquiers de la City ne sont pas plus altruistes que ceux de Wall Street. Les scandales qu’on a vu éclater ici — et l'Amérique peut être fière de son courage — nous révèlent qu'entre les Américains et les Européens du XXe siècle il ya un point commun: les uns et les autres ont renoncé à une « vie réfléchie » et vivent une « vie instinctive ». Tout homme et toute société, à un certain moment, sont obligés d’affronter et de résoudre la contradiction essentielle de l’existence. Nous naissons avec un instinctif amour de nous-mémes qui devrait étre la source principale de notre bonheur. Pourtant il n’en est rien. Et nous nous apercevons en vicillissant que cet amour ne saurait être assouvi et que, de désir en désir, de désillusion en désillusion, touJours projetés vers l’avenir ou traînant avec nous le poids du passé, nous brûlons les étapes de la vie sans un moment de joie pure. La « vie instinctive », celle où 98
l’homme s’abandonne à son amour de lui-même, celle où il se livre à son désir, ne nous offre pas le bonheur que nous en attendions à dix-huit ans. Ella a un goût
de cendre. Les moralistes et les fondateurs des religions, ces hommes préoccupés plus qu’on ne pense de notre bonheur, ont opposé à la « vie instinctive » où l’amour du moi s'efforce en vain de se satisfaire et nous entraîne au désespoir, une « vie réfléchie »
où il est modéré, supprimé ou sublimé. Il n’y avait point d’autres solutions. Confucius proposa la première, le Bouddha la seconde et Jésus la troisième forme de vie. On ne peut rien comprendre de l’état actuel de la civilisation occidentale si l’on oublie que le Christianisme a essayé non de modérer ou de supprimer l’amour du moi, mais de le sublimer. Loin de refroidir l’incandescence de notre nature, il déchaîna la passion et s’en servit comme d’une force formidable de propulsion en la canalisant vers Dieu. Dieu est présent dans tous les chapitres de la morale catholique. La vertu n'est possible que par la grâce. L’idéal du Christianisme n’est pas la sagesse, mais la sainteté. Diriger l'amour
du moi vers Dieu, purifier et ennoblir les passions humaines,
ce fut l’une des tentatives les plus grandioses de l’histoire universelle. Mais tout l’édifice bâti par le Christianisme a Dieu pour pierre angulaire. Que Dieu fasse défaut, l'amour du moi ne trouvera plus aucune raison de se restreindre, tout deviendra l’objet de sa convoitise. Il sacrifiera le monde à son bon plaisir. La civilisation occidentale nous donne le choix entre la sainteté et la « vie instinctive ». Un Occidental qui ne croit pas à Dieu ne songe point à devenir sage — la sagesse est la forme orientale de « vie réfléchie » — il glisse dans la « vie instinctive » que le Christianisme a toujours opposée à la sainteté comme la seule alternative; et il se croit libre parce qu'il n’est l’esclave que de ses propres passions. On ne peut expliquer le désordre de notre existence, notre inordinata concupiscentia que par la présence constante d’un idéal de sainteté que nous ne pouvons ou ne voulons pas atteindre. Il y a donc un point commun entre l’Europe et l’Amerique. Dans l’une et dans l’autre, les hommes opposent à la souffrance provoquée par l'amour du moi une « vie réfléchie » fondée sur Dieu — et la plupart d’entre eux ne croient pas à Dieu ou ils y croient sans ferveur. Nous ne sommes pas des sages, mais des saints manqués, et nous vivons en barbares en nous croyant chrétiens. Les sociologues qui aiment découvrir les grandes lois de l’histoire pourraient, j'imagine, établir des courbes et prouver que la « vie réfléchie » et la « vie instinctive » se succèdent selon un rythme régulier. Mon ignorance ne me permet point de me risquer dans une entreprise aussi périlleuse. Dans le cas présent, je veux seulement servir de miroir. Si l'Occident sombre dans un ténébreux désordre, si le cœur des Occidentaux est rongé par la souffrance,
si les passions à la fois les plus généreuses et les plus viles, amour, convoitise, l'intolérance, crispent leurs traits, —
la haine, la
c’est, entre autres, parce que lOc-
cident n’a plus de « vie réfléchie » ou plutôt parce qu’il a une « vie réfléchie » fondée sur la foi et n’a pas la foi. La morale chrétienne n’est point concevable sans flamme. L'édifice chrétien est fondé sur Dieu. Si l’on nie Dieu, tout s'écroule. La morale fondée sur « les droits » a été conçue vers la fin du XVIIIe siècle quand la
morale fondée sur l’amour de Dieu n’avait plus de force. Les hommes erraient alors ébahis au milieu des ruines du christianisme. Aujourd’hui les droits aussi s’effondrent. Comme nos canons et nos commis voyageurs ont à peu près détruit les bases de ces civilisations orientales fondées, non sur la sainteté, mais sur la sagesse, on © de)
peut dire que le monde entier, en ce moment, est revenu ou est en train de revenir à la « vie instinctive ». Aucune loi morale ne nous empéche vraiment de satisfaire nos passions, de commettre
l’adultère, de convoiter la richesse et de l’acquérir par
tous les moyens, de nous imposer aux plus faibles par la violence, de nous entretuer. Rien ne nous défend de nous livrer à notre amour de nous-mêmes — mais rien ne nous épargne le désespoir de découvrir la vanité de nos efforts. In omni peccato — écrit Saint Thomas — est inordinata conversio ad commutabile bonum. La première fonction de la morale et de la religion, c’est d'éviter le désenchantement. C’est ainsi que les Occidentaux, abandonnés à eux-mêmes et enfin libres, se demandent tous le jours pourquoi cette « vie instinctive » n’est pas aussi douce qu’ils se l’imaginaient — et chacun de nous se croit la victime du destin, du hasard, de la société, alors qu'il n’est la victime que de lui-même. [« Revue Juive de Genève », febbraio 1934]
IL
COMPITO
DEGLI
SCRITTORI
E IL CORAGGIO
Il mondo è un gioco di azione e reazione. Il romanzo nasce dalla coscienza morale e la coscienza morale si forma sul romanzo. I giudizi nostri non hanno valore fino a che non sono espressi in parole, e il compito di esprimerli spetta appunto allo scrittore. Il pubblico d’oggi freme ancora d’orrore davanti alle crudeltà esercitate dai negrieri di ieri (untorelli davanti ai dittatori di oggi) sui poveri schiavi negri, su cui tutta una letteratura, sia pure antiquata, richiama la sua attenzione; resta indifferente alle terribili sofferenze degli esiliati di oggi di cui la letteratura non ha ancora parlato. E ben sanno ciò i dittatori, che cominciano sempre coll’eliminare dai rispettivi paesi gli scrittori che potrebbero dare su loro un giudizio spassionato; e coll’obbligare gli scrittori prezzolati a cantarne le gesta. Se la condizione generale di una letteratura è la libertà, la qualità più necessaria a uno scrittore è quella più esecrata da ogni regime di tirannia: il coraggio. Il primo insegnamento che ci offre Tolstoi che fu certo il più grande romanziere, è questo: « Tutte le idee che ci vengono direttamente dagli uomini sulle cose, sono false. Non accettare mai nulla di quanto offrono gli uomini, i libri, i tuoi stessi ricordi, la tua stessa volontà — senza un esame accuratissimo ». Non ho mai visto un romanziere lottare così furiosamente e continuamente non solo contro le idee fatte, ma contro quelli che vorrei chiamare « sentimenti fatti », « sensazioni
fatte ». Non ho mai visto alcuno esaminare con tanta incredula attenzione quello che siamo abituati a considerare certo e indiscutibile, capovolgere, distruggere miti, come Tolstoi. « Gli uomini più intelligenti si lasciano tentare talvolta da questa ‘realtà bell’e fatta’ —
dice —
l’accettano e contribuiscono, accettandola, a renderla più indiscu-
tibile. Per vedere la ‘realtà più profonda’ bisogna avere il coraggio di guardare in sé. Guardare in sé è difficile; la paura delle opinioni altrui, la vergogna, la nostra presunzione e una educazione lunghissima ci impediscono di essere onesti di fronte a noi medesimi,
come
di fronte agli altri ».
Tolstoi ci ha dato parecchi esempi di coraggio. Noto è il suo atteggiamento di IOO
fronte a Shakespeare. Riescono preziose da questo punto di vista le pagine di introduzione allo studio su Shakespeare. Tolstoi stesso confessa la sua paura di ammettere che, onta suprema, non amava Shakespeare: paura che è riuscito a vincere
dopo essersi illuso volontariamente, per molti anni, soltanto in vecchiaia. Notissimo è l’atteggiamento di Tolstoi di fronte a Napoleone, ai generali, alla strategia, alla guerra. Ricordo una descrizione di battaglia, in cui si vede il generale passivo, che vince una battaglia senza far nulla. Difficilissimo, anche per dei testimoni oculari, anche per l’aiutante di campo, di ammettere che il generale ha vinto la battaglia per caso. I racconti, le relazioni fatte retrospettivamente, hanno troppa influenza sull’animo di quelli stessi che le sanno false: l’idea fatta, che i generali conducono le battaglie è troppo potente, perché un uomo normale abbia il coraggio di dirsi: « non sono io che mi sbaglio. Le cose succedono proprio così, come mi par di vedere in
questo
momento
».
Ma al di fuori di questi esempi celebri si possono trovare in Guerra e Pace migliaia di casi in cui Tolstoi smentisce, con coraggio, « la realtà bell’e fatta », la vita « come si crede che debba essere ». Natacha scrive al Principe André delle lettere stupide e le fa vedere alla mamma prima di spedirle, per paura di lasciarvi degli errori di ortografia. Non so perché scelgo questo particolare: ma mi sembra che Tolstoi dimostri qui di essere coraggioso e che mostri anche quanta « aria vissuta » dia questo particolare impensato, che ciascuno nella propria esperienza può controllare. D'altra parte Tolstoi non solo ha il coraggio di descrivere la realtà come è, ma differente come essa ci appare a seconda dei momenti in cui la si vede. Tolstoi ci insegna a creare nei personaggi dei veri e propri rapporti di tono, come farebbe un pittore, il che è contrario alla persuasione comune la quale crede che i fatti materiali esistono in sé e per sé sempre uguali. In nessun romanzo, come in Guerra e Pace, si sente che i personaggi esistono nella misura in cui sono contingui. I personaggi si ravvivano, acquistano una fisionomia particolare per il fatto che sono uno vicino all’altro. E gli stessi drammi per la contiguità diventano più potenti. Non si apprezzerebbe la facoltà che ha Tolstoi di giudicare volta a volta il mondo dal punto di vista del personaggio che è in scena, se i personaggi non fossero diversissimi e contigui. Tolstoi confusamente doveva rendersene conto, se no perché avrebbe messo, nella stanza in cui Kutuzoff raduna il consiglio di guerra, per decidere la ritirata, una bambina? Perché dar tanta importanza in quel momento al giudizio di una bambina, che vede in Kutuzoff « un buon nonno », se non per mettere in evidenza la quantità infinita dei punti di vista umani? Coraggio è dunque necessario allo scrittore per vedere e descrivere il mondo cogli occhi proprii e non cogli altrui. Coraggio per giudicare degli avvenimenti che avvengono sotto i nostri occhi; per affrontare l’opinione pubblica ligia sempre alle formule e ai giudizi antecedenti e mal disposta ad accettarne di nuovi. Questo spiega come grandi romanzieri, non possano vivere che sotto un regime in cui il coraggio può espandersi, in un regime di libertà. [« Giustizia e Libertà », 14 gennaio
1939]
IOI
da LEONARDO O DELL’ARTE (1929) DEL
BELLO
ARTISTICO
Poiché abbiamo definiti alcuni caratteri del bello naturale, per trovare quelli del bello artistico non ci resta che rovesciarli: avremo così che il bello artistico « è quello che ci dà un piacere che noi possiamo spiegare sottoponendo l’opera d’arte a delle leggi estetiche ». Ma per dare una definizione compiuta di legge estetica, bisogna dividere le belle arti in due categorie: le arti che riproducono l’infinito della natura, con dei mezzi finiti, violando una necessità. Le arti che aspirano a creare un tutto finito, con dei mezzi finiti, adattandosi ad una necessità. Alla prima categoria appartengono la pittura, la scultura, tutta la letteratura, il cinema. Alla seconda la musica, la danza, l’architettura, la decorazione.
Non ci occuperemo, in questo studio, che della prima categoria. Il fine di un pittore, di uno scultore o di un letterato non è la natura, ma quello che vorrei chiamare l'infinito della natura. Non penso né all’infinito metafisico né all’infinito matematico; cerco di esprimere, con questa formula, l’incalcolabile molteplicità di aspetti, che offre ogni cosa della natura, e le sostanze innumerevoli di cui si compone. Se l’infinito della natura è appena sensibile alla maggior
parte degli uomini,
è invece l’ossessione di quelli che vogliono riprodurla. Agli occhi di un pittore un albero o un viso sono infiniti come un cielo stellato. Pensate, per esempio, al caso di un ritrattista. Un ritrattista ha dinnanzi a sé delle pupille che la luce fa scintillare, che i sentimenti, i pensieri, i desideri del modello ravvivano e spengono come il vento adombra o increspa la superficie del mare; una pelle che l’aria può colorare in verde od in azzurro, che si accende dello splendor di un velluto; un ritrattista ha dinnanzi
a sé il mistero delle ombre,
il problema
inestricabile dei rapporti fra i vari toni, l’enigma, che ogni gesto moltiplica, delle relazioni fra il modello e le cose. Gareggiare con la natura vuol dir riprodurre l’infinito in una cornice, e questa fu la grande ambizione di Leonardo. Poiché l’universo non è una compagine, anche un’opera d’arte dev'essere un tutto indivisibile. Nonostante la teoria di Taine, un quadro e qualunque opera d’arte che aspira a raggiungere l’infinito non è divisibile in : parti. Per soddisfare una curiosità tecnica, possiamo studiare in una opera d’arte un particolare; ma poiché un quadro non è fatto di parti commesse, non riusciremo certo, decomponendolo, a sorprendere il suo segreto. Così, uno scultore, che modella dei corpi e suggerisce dei sentimenti, uno scrittore che si trova alle prese con le passioni e con le idee, un cineasta che ha da riassumere tutta la vita sopra uno schermo azzurro, lottano contro l’infinito, e cercano di dominarlo. Ma una bella opera d’arte si distingue dalla bella natura perché è un infinito violato — e tale, che lo possediamo soltanto attraverso a leggi estetiche, e cioè attraverso a quelle leggi, che « in base a un fine e a una necessità limitano i mezzi con cui si può raggiungere il fine, violando la necessità ». Giudicando una pittura, sottintendiamo sempre, come si è già visto nelle pagine precedenti, quelle leggi estetiche, che in base alla sua necessitàsd piano), limitano 102
i mezzi con cui un pittore ha per così dire il diritto di raggiungere « l’infinito » che si è prefisso e gli impongono di non uscire mai dalle risorse di una tavolozza — teniamo conto cioè dei mezzi di cui si è servito il pittore e del fatto che non sono proporzionabili alla grandezza del fine. Noi ammiriamo infatti, anche se ci appaiono ugualmente perfette, le opere di grande concezione più delle piccole, perché tenendo conto dei mezzi che sono su per giù gli stessi per tutti, riconosciamo il valore delle difficoltà di cui ha trionfato un artista, che s'è posto un fine più alto. « Tout jugement que l’on veut porter sur une œuvre d’art, doit faire état, avant toute chose, des difficultés que son auteur s’est données », ha scritto Paul Valéry. Questo pensiero m'è sempre parso profondo; stabilisce nel giro di poche parole il grande principio di una critica, che non voglia soltanto misurare dei piccoli trionfi stilistici, ma che sappia tener conto, giudicando un’opera d’arte, della sua gr andezza e del suo respiro. E questa è secondo me la critica più sapiente e quella
più umana; perché succede già che anche gli uomini ignari di estetica ammirino la Divina Commedia più che la Canzonetta a Nice di Metastasio. Ma noi non possiamo ammirare la Divina Commedia più della Canzonetta a Nice, che sottintendendo come Dante e Metastasio disponessero degli stessi mezzi; come non possiamo ammirare un corridore che ne batte un altro, se non corrono tutti e due a piedi. Chi potrebbe invece ammirare Dante e il corridore vincitore se si supponessero all’uno e all’altro dei mezzi più potenti di quelli che avevano Pietro Metastasio e il corridore battuto? Noi sottintendiamo dunque in tutti i giudizi i mezzi con cui sono state compiute le opere d’arte, e, giudicandole secondo una legge estetica spieghiamo a noi stessi il piacere di cui ci riempiono. Che gli uomini godano in due maniere il bello di natura e il bello dell’arte, si può provare esaminando in che modo siamo commossi dallo spettacolo dell’infinito e da un quadro che ce lo rappresenta. Concediamo senz’altro al mare, al cielo, al deserto e al quadro che dobbiamo paragonare, d’essere un bello spettacolo e un’opera d’arte immortale. Esaminiamoli. L'infinito s’offre al nostro sguardo in due modi: libero o incorniciato, chiuso soltanto nella riquadratura della pupilla, o tra limiti esterni, per esempio, tra gli
infissi di una finestra. Il primo genere di infinito ci dà insieme piacere e pena, perché ci riempie nello stesso tempo di un sentimento di liberazione e di un sentimento di cattività; di liberazione, perché rivelando a noi stessi l’attitudine che abbiamo di concepire l’inconcepibile,
o dimostrando
in noi, come
diceva
Kant
«una
facoltà
che
tra-
scende ogni misura dei sensi », ci suggerisce l’idea che possiamo in certo senso evadere da noi stessi; di pena, perché ci rende coscienti dei nostri limiti e ci fa balenare dinnanzi il miraggio di una potenza divina, nel momento stesso in cui ci dimostra che non potremo raggiungerla. Nella seconda specie di infinito il sentimento di pena è invece diminuito a beneficio del sentimento di piacere, non solo perché la riquadratura di una finestra, evitandoci di giungere, almeno dai lati, ai confini del nostro sguardo, ci libera un poco dallo sforzo che dobbiamo fare per dirci che oltre l'orizzonte c'è ancora spazio, ma anche perché questi limiti esteriori trasportano sulla materia l’angoscia della nostra limitazione spirituale. Così, per il fatto che in quella finestra vediamo come il simbolo dei limiti nostri, possiamo dire di sentircene alleggeriti.
103
Vediamo ora che genere di piacere ci dia l’infinito raffigurato in un quadro. Noto subito che è quasi inutile distinguere, come prima, due categorie di infiniti, perché un cielo o un mare, visti attraverso a una finestra o liberamente, ci riempiono dello stesso piacere. Volgiamo lo sguardo dall’oceano al quadro, e veà Non ci sentiremo più limitati, dremo il godimento mutare e la pena de di poter essere più grandi di noi, intuito avevamo momento un per quando come perché pensavamo una cosa che l’uomo non potrebbe pensare, e nello stesso tempo ci accorgevamo d’essere troppo deboli, perché non riuscivamo a pensarla tutta. Godremo invece del piacere contrario. Sarà un piacere meno inebriante e più dolce, meno temporalesco e più umano: ci parrà come di passare improvvisamente dal ponte di una nave in balìa degli uragani in una sala silenziosa e tiepida, illuminata dalla luce tremante e dorata di qualche candela. Che cosa è infatti questo piacere? È il piacere di violare l’infinito lasciandolo intatto, di possederlo, di capirlo, di pensarlo come un oggetto, nel momento stesso in cui lo si pensa come infinito. Dinnanzi a un quadro in cui brillano i cieli più vasti, noi godiamo di contemplare questo prodigio che è una distanza, della quale non si può fornire come misura una unità, imprigionata in quattro confini d’oro, senza nemmeno meravigliarci di noi, colla stessa durezza chiara di pensiero e di ragionamento, con cui guardiamo, bianca e grossa sul primo piano, una casa. Noi godiamo dunque l’infinito raffigurato in un quadro, non solo perché non proviamo la pena che ci dà l’infinito della natura, ma anche perché non ne godiamo quel piacere, di cui ci ricordiamo come di una sofferenza. Ma perché mai l’infinito ci annienta nella natura e ci procura quando è dipinto un sentimento così gradevole di potenza? Perché il vero cielo è un mistero, in cui non possiamo che naufragare; mentre abbiamo la chiave di un cielo dipinto in un quadro. Sappiamo di dove l’artista è partito per arrivare a quel risultato, possiamo calcolare i mezzi con cui è stato raffigurato l’infinito sopra un breve spazio di tela. L'infinito infatti, in pittura, ci riempie di godimento, solo perché sopraffà misteriosamente una cornice ed un piano, e quelle armoniche trasparenze del cielo e quei violetti orizzonti c’incantano, solo perché sono resi coi pennelli e con delle mestiche. Senonché, noi possiamo conoscere questi mezzi, e tenerne conto quando giudichiamo un’opera d’arte, soltanto perché sono inadeguati rispetto al fine e parziali. L’infinito reale, fatto di infinita materia,
non
ci dà lo stesso piacere dell’infinito
ottenuto con dei colori stesi sopra la canapa, appunto perché il fine e i mezzi si confondono come il mare e il cielo sull’orizzonte, durante le mattinate di bruma. Ma tener conto dei mezzi o giudicare in base a leggi estetiche è la stessa cosa, poiché le leggi estetiche appunto limitano e determinano i mezzi con cui si può raggiungere un fine. La letteratura e il cinema ci offrono lo spettacolo della medesima lotta con l’infinito. Apro i due libri dell Abbé Bremond sulla poesia, e vedo questo critico sensibile alle prese con un « fluido misterioso », con una « magia piena di raccoglimento », che gli pare troppo vaga e profonda perché si possa chiudere nel giro di una definizione. « Grelots de la rime — scrive— flux et reflux des allitérations, cadences tour à tour prévues et dissonantes, aucun de ces jolis bruits ne parvient jusqu’à la zone profonde où fermente Pinspiration, où l’on ne perçoit, avec le Périclès de Shakespeare, que la musique des sphères ». In un poema « il y a d’abord et surtout de l’ineffable » e « tout poème doit son caractère proprement poétique
104
à la présence, au rayonnement, à l’action transformante et unifiante d’une réalité mystérieuse, que nous appelons poésie pure ». Ma che è mai questo mistero, questa magia, questo fluido contenuto in un verso? Sono le parole che sorpassano se medesime; è l’infinito prigioniero dei suoni. Un bel verso è il miracolo di un sentimento, di un’idea, di una visione infinita,
che due parole, appaiandosi, fan prigioniere, «senza averne il diritto ». Quando un poeta concepisce una poesia, il suo volo è continuamente appesantito dall’ansia di non saperlo condurre a termine, e ciò che si chiama in genere ispirazione è la coscienza del momento propizio alla scrittura. Un'opera di poesia non può fiorire che alla sua ora, perché prima non era ancora matura, e dopo è già secca. Ci sono a ogni modo due maniere di catturar l’infinito, quella di tutti i classici e una moderna. Fino al secolo XIX i poeti, servendosi delle parole, non avevano ancor l’aria di mordere il freno. Le parole erano la necessità della poesia, e i poeti sapevano che ci voleva un ostacolo per acquistar la gloria di averlo vinto. Consideravano l’infinito con calma, come se fosse un oggetto, non si decidevano a dargli la caccia che dopo averlo ben conosciuto,
e se ne impossessavano
con un certo distacco, senza
perdersi d’occhio. Si può quasi dire che « raccontassero l’infinito ». Anche quando era in loro, attendevano, per inseguirlo, di vederlo come una cosa lontana. I grandi classici hanno tutti aspettato, per scrivere dei versi tristi, che la loro tristezza, adagio
adagio, avesse lasciato il proprio deposito. Ma dall’Ottocento in poi si sono visti i poeti, presi, direi quasi, dallo struggimento di esprimersi per capirsi, spremere l’infinito senza guardarlo, con gli occhi chiusi, come si spreme un limone. Il poeta concita in se medesimo questo infinito che vorrebbe traboccare in cascate ritmiche, e cerca, abbandonandosi ai suggerimenti di un vago istinto, delle parole che acquietino il suo furore con il sentimento di un’inesplicabile concordanza, e scrive in base alla garanzia del proprio benessere. Mallarmé ci ha dato l’esempio estremo di questo metodo. Non è giusto infatti di considerare Valéry, così rigorosamente, come l’ultimo frutto del simbolismo. Valéry
ha delle radici in questi mondi. I poeti che spremono l’infinito come un limone maturo — Mallarmé più degli altri — sono in rivolta perpetua contro il vocabolario. La povertà delle parole li esaspera,
e a torto, poiché non avrebbero
più nessuna
voglia di scriver dei versi, se le parole possedessero già la qualità divina di essere poesia.
Valéry,
invece,
come
i classici, sente
il valore
di questa
resistenza
delle
parole, e ora mi ricordo di una intervista, in cui Leon Paul Fargue si rallegrava di aver da fare con il francese, perché « è una lingua dura ». Rileviamo, tra l’altro, che si possono scrivere in tutte due le maniere dei capolavori; ma che la Divina Commedia è più bella di qualunque suo verso, mentre un verso di Mallarmé è sempre più bello di tutta la poesia. Non potrei sognare un esempio più persuasivo del cinema. Ecco un’arte che può avere delle immense ambizioni — e che ha per prima necessità il silenzio. L'infinito delle passioni e dei sentimenti,
tutto quello che si esprime
in parole, deve
apparire sopra uno schermo silenzioso. Possiamo ammirare questa difficoltà, ora che una nuova invenzione ha permesso di catturare nello stesso tempo alla realtà la sua immagine e la sua voce e sta annientando la bellezza e la maraviglia del cinematografo. Come lo splendore caramellato delle films a colori mi ha rivelato il valore delle ombre nere, il cinema
parlante mi ha rivelato la maestà del silenzio. Il silenzio è la difficoltà che l’artista
105
ha da vincere, la necessità del cinematografo. Chi ha visto oggi a Parigi delle films di anteguerra sa come questo silenzio forzato intimidisse gli attori, che per paura di non essere intesi abbastanza, facevano di ogni gesto una vera e propria dimostrazione figurativa. Allora si poteva dire che il silenzio fosse clamoroso. Ogni atteggiamento rammentava la rinunzia delle parole. Bisognava arrivare a non sentire il silenzio. Oggi la lotta contro il silenzio è stata vinta dall’uomo e il silenzio è divenuto il complice benigno della espressione. E senza saperlo il pubblico è grato agli attori appunto di questo: che si facciano capire senza parlare, più che se parlassero. Arrivati a questo punto, precisiamo: se è vero che il bello artistico si distingue dal naturale, perché se ne può spiegare il piacere, dobbiamo aggiungere che il piacere non si prova affatto se non si spiega. Si potrebbe cioè concludere « che il bello artistico è quello che ci dà un piacere, che per esser goduto noi dobbiamo spiegare ». Il bello naturale ci riempiva per forza sua. Il bello artistico no. Il piacere del bello artistico, se non viene spiegato, non è nemmeno un piacere artistico e quindi per la maggior parte dei casi non è che un piacere mediocre. Certo, ci si imbatte, anche nel piacere artistico, in un momento
che non
riu-
sciamo a comprendere; e forse l’ultimo nòcciolo di un’opera d’arte è ermetico come quello della natura. Ma poiché siamo degli uomini, e cioè degli esseri nello stesso tempo saggi e ignoranti, dobbiamo avere il coraggio di spiegare le cose in un modo grossolano, per non correre il rischio di ignorarle del tutto. Ci rassegneremo dunque in questo caso a rilevare che la natura e un’opera d’arte ci dànno due piaceri diversi, anche se dobbiamo rinunciare a far luce in quel fondo ultimo dei sentimenti, che sfugge al dominio dell’intelletto. Alla base di un’opera d’arte si trova ad ogni modo sempre una contraddizione; perché se è vero che c’è un punto, nell’opera d’arte, che non possiamo capire, è anche vero che ci sentiamo appagati, guardandola, come se potessimo spiegarla. E in verità la spieghiamo, sebbene non del tutto. Ne abbiamo data una prova trattando dell’infinito; se ne potrebbe facilmente dare una controprova, mostrando come in generale gli uomini godano poco dinanzi alle opere d’arte, appunto perché non cercano di spiegarle. Basta guardare la folla di cui rigurgitano i musei, per capire quante volte gli uomini
contemplino
il bello
artistico,
come
se fosse
una
bellezza
della
natura,
aspettando che il piacere li penetri, quasi attraverso a dei pori. Ma chi guarda un’opera d’arte come si guarda una campagna o una donna e apprezza soltanto, nell’opera d’arte, quegli elementi che sono ancora natura — il colore o il soggetto nelle arti figurative, i suoni nella musica, la trama nella letteratura — gode molto meno che dinnanzi a uno spettacolo naturale, appunto perché il suo godimento è colto di straforo e come ingiustamente a un’opera che era stata composta per dare un piacere diverso. Questo godimento, infatti, che ci è dato da un attento esame di noi medesimi, in cui cerchiamo di spiegare perché si è goduto e si gode, non si può quasi distinguere dallo sforzo rapidissimo che facciamo per spiegarcelo in base a leggi estetiche. Godere esteticamente vuol dire in gran parte meravigliarsi dinnanzi al paradosso di un tutto ottenuto con mezzi inadeguati; per provare un piacere, dobbiamo dunque riconoscere questa specie di maestoso e stupefacente squilibrio, che fa la grandezza dell’arte; e cioè spiegare il nostro sentimento a noi stessi. Per questo Leopardi dava tanta importanza, nel suo Sistema di Belle Arti, all’as106
suefazione, e cioè in fondo all’attitudine, che veniamo a poco a poco acquistando, di spiegare il piacere della bellezza artistica. Senza l’assuefazione infatti, noi non possiamo provare nessun piacere innanzi a un’opera d’arte. Tutte le persone colte se ne sono accorte con la musica moderna, che le prime volte li aveva lasciati scontenti. Perché, infatti, la musica moderna dava loro così poco piacere? Perché non conoscendone i mezzi — nuovi e difficili — e non vedendone il fine, non arrivavano a capire in che misura il fine e i mezzi potevano coordinarsi, e non potendola
giudicare secondo una legge estetica, non riuscivano nemmeno a spiegarne, non dico il piacere, ma il primo significato; e poiché quella stessa armonia era sensualmente sgradevole a un orecchio non esercitato (gradevole diventa ora che l’abbiamo capita), dovevano scambiare per « rumore » quella che era una nuova maniera di utilizzare la scala armonica. Volendo dunque riassumere in uno schema i risultati di questi ragionamenti, direi: L'arte è quell’attività che crea il bello. 2. Il bello (artistico) è quello che ci dà un piacere che per essere goduto deve essere spiegato e che noi possiamo spiegare sottoponendo l’opera d’arte a delle leggi estetiche. 3. Il piacere è una concordanza sorprendente con un tutto imprevedibile e la coscienza che nessuno, salvo l’artista, avrebbe potuto crearlo. 4. Legge estetica è quella che in base a un fine e a una necessità, limita i mezzi con cui si può raggiungere il fine violando la necessità. Possiamo perciò ripetere, come nel capitolo precedente, che mentre quasi tutti gli uomini godono gli spettacoli naturali, pochissimi godono la bellezza dell’arte. Molti uomini sentono forse il bisogno di commentare il contenuto o il soggetto e cioè la materia naturale di un’opera d’arte, ma rimangono indifferenti a quello che in un’opera d’arte suscita il piacere artistico; e se non li urgessero le convenienze e la vergogna di un prossimo, che ha vergogna di loro, rinuncerebbero volentieri al loro sovrano diritto di giudici. Ma anche quando riescono a farsi una tavola di valori, possiamo dire che godano? Tra le stesse persone colte, quanti, visitando una galleria o leggendo un romanzo o ascoltando musica, sentono davvero la bellezza, e cioè quello che dà all’uomo un piacere, che può essere spiegato in base a una legge estetica e non quello che è ancora natura e piacevole per se stesso, come i colori o le note degli strumenti? Notate che tutti si illudono di godere un capolavoro e che è un piacere questa stessa illusione. Già Leopardi ha notato come un’opera, quand’è antica e famosa, ci dia, solo per questo, un piacere che non ci dànno le opere sconosciute o moderne. Il fatto di leggere un libro o di guardare una pittura, che sono famose da molti
secoli, che ci giungono cioè avviluppati di un alone suggestivo di ammirazione e di leggende, è un piacere di per sé, prima di tutto perché il voler godere è quasi
sempre
tutt'uno con il godere, negli intelletti non
esercitatissimi,
poi perché ci
sentiamo, a quel modo, gradevolmente partecipi di un immenso coro, falsi cantanti che hanno soltanto da aprir la bocca, liberi da ogni giudizio responsabile e contenti di godere senza avere il dubbio che ne valga la pena, e finalmente perché ogni opera famosa,
che abbiamo
conosciuta,
entra a far parte della nostra coltura so-
ciale, e ci fa sperare che ce ne potremo servire con gli altri uomini, quando vorremo sfoggiare la ricchezza delle nostre letture. Si spiega così come gli uomini godano dinnanzi agli avanzi del tempo o sem107
plicemente dinnanzi alle opere illustri; ma per capire come questo piacere non sia un piacere artistico, basta pensare che gli uomini non ne godrebbero, se non sapessero d’essere davanti a dei capolavori. Partiamo da questo principio; che là dove l’uomo è incerto per ignoranza, giudica sinceramente con il volere; e che ama sinceramente tutto quello che o per seguire la moda o per opporcisi vuole amare. Ma dire che la volontà è la vera base di quasi tutti i giudizi di gusto, in fatto d’arte, è come dire che pochi uomini godono veramente quello che dicono bello.
da PARIS DERNIER MODÈLE DE L’OCCIDENT (1932) PARIS,
SYNTHÈSE
I. Comment
DES
CIVILISATIONS
ATHÉNIENNES
ET
DES
CIVILISATIONS
ROMAINES
expliquer alors le rayonnement séculaire de Paris? Tour à tour
royal, républicain, impérial, constitutionnel, parlementaire, Paris a connu, en un sié-
cle, l’ivresse des victoires et la tristesse de l’invasion — tous les changements de fortune qui remplissent, chez les autres peuples, les chroniques d’un millénaire. Mais nulle catastrophe
n’a pu l’abattre,
et il s’est servi des défaites, comme
d’un
tremplin,
pour rebondir. Semper in malis major resurrexit. Au moment des crises, on le voit infléchir sa route. La monarchie tombe: ce pays, qui avait enseigné au monde les rites magnifiques de la royauté, devient successivement le modèle de tous les régimes politiques imaginables. La littérature déchoit: il capte l’attention de l’'Europe par sa peinture. Puissant, il impose ses lois, par des préfets et des commissaires, à l'Europe courbée. Isolé, à la fois craint et affaibli, il impose ses goûts. Terrassé, surveillé de près, mais tout de même rayonnant, il continue d’attirer les hommes et de les renvoyer dans le monde, porteurs de son message. Ce Paris brisé et lumineux m’a semblé toujours le plus digne d’admiration. Il me fait songer à un marronnier séculaire qu’on abbattit devant les fenêtres de mon atelier. Quand toute la rue fut encombrée par le feuillage, comme par la chevelure verte d’une géante terrassée, on vit les passants accourir vers la grande branche amputée, et s’en aller, tachetés de vert, ayant puisé leur provision dans cette fontaine de verdure. Pourquoi Paris a-t-il surmonté toutes les crises, toujours intact malgré les souillures? Pourquoi les godillots mêmes des armées étrangèeres qui faisaient sonner ses pavés, n’ont-ils pu piétiner son âme? Parce que Paris a accompli le miracle que semblait démentir la science sociale: fondre la civilisation athénienne et la civilisation romaine. Comme la plupart des instincts athéniens sont contrebalancés par des instincts romains, comme l’ordre est assez stable pour que les hommes puissent entreprendre, et le désordre assez grand pour qu'ils puissent réfléchir, la crise qui a entraîné la décadence de l'Italie et de l’Angleterre ne menace point la civilisation parisienne,
IT. Mais comment expliquer que cet équilibre soit justement le privilège de la ville la moins pure, la plus tumultueuse de l'Occident? Quand on se figure un boulevard de Paris à ces heures du soir où une foule cosmopolite hésite et s’écroule au coup 108
de sifflet avec un mugissement de mer, on se demande par quel miracle cette civilisation harmonieuse est sortie du chaos. Les Parisiens, en effet, ont la peau blanche, noire, jaune, jaunâtre, cuivrée; les cheveux lisses et crépus; tous les accents; ils mangent la poularde, les macaronis, les saucisses, le roast-beef, les bambous frais, les nids d’hirondelles; ils boivent le vin, la bière, la vodka, le café, le thé, le mathé; ils adorent Jésus, Mahomet, Bouddha, Confucius et diverses idoles. C’est dans les rues de Paris que l’on se encore les derniers fez Les différences entre les Parisiens de Paris, nés à Paris depuis plusieurs générations, ne sont pas moins étonnantes. On trouve encore les représentants de cinq ou six époques d'histoire parisienne: le littérateur du XVIITE® siècle, qui rêve des institutions politiques peu probables, comme les encyclopédistes rêvaient de la Chine; la princesse sans principes, le roué de la Régence; le Jacobin athée; le réactionnaire chatholique de 1815; le quaranthuitard idéaliste; le sceptique débauché second Empire; «l’ennemi du peuple » des premières années de la IIIe République. Chaque milieu, chaque groupe a des habitudes, des mœurs différentes. Les jazz-bands nègres des boîtes, à Montmartre, troublent le sommeil des vieilles familles françaises, survivants polis de la Restauration, qui habitent à l’étage au-desLe quartier de l'Opéra se lève, au moment où Montparnasse se couche, las de cocktails et de cafés crèmes. Rue Saint-Dominique, la vierge qui va à la messe dans une voiture à deux chevaux, croise la jeune fille délurée qui court chez son
amant. Les ambitions, les idéaux, sont aussi différents que les mœurs. On peut dire, grosso modo, que les Florentins et les Vénitiens, au XIIIe siècle, voulaient être libres, s’enrichir, embellir leur ville; que les Anglais, au XVIIIe et au XIXe siècle, vou-
laient développer la grande industrie, conquérir et conserver un empire. Mais que veulent les Parisiens? On rencontre, dans le même salon, des banquiers qui viennent de ruiner quelques milliers de rentiers par un coup de bourse, des artistes dédaigneux du luxe, affamés de gloire, martyrs de la perfection, des saints qui prêchent le retour à Saint Thomas et une vie austère, des pédérastes qui vantent la beauté de l’amour grec, des femmes qui attendent la grande passion, des généraux qui espèrent la guerre; ou même des banquiers qui passent leurs nuits à lire les Pères de l'Eglise, des littérateurs ventrus qui ne rêvent que plaies et bosses, des poètes qui aspirent avant tout à la richesse, des généraux pacifistes et anti- muilitanistos la richesse, la gloire, la sainteté, la débauche,
l’amour, la guerre, les idéaux les plus
contradictoires, apparaissent à l’observateur sur le même tact et l’habileté d’une maîtresse de maison. Mais alors, qui a taillé dans cette masse
plan, conciliés par le
une civilisation athénienne et une ci-
vilisation romaine; qui a su les unir? L'administration, répond Gobineau. III. Unifier, en montant
une imposante machine à culture, les connaissances de
ces millions de Parisiens cosmopolites; enrichir les sots d’idées générales, faire «des ânes chargez de livres », et, grâce au prestige qui entoure les forts en thème, donner l'illusion d’être intelligents à tous ceux qui ont conquis un parchemin universitaire ; gouverner la France quand le corps politique fait défaut (on peut lire à ce sujet le beau livre de Daniel Halévy sur La décadence de la liberté); établir et maintenir à 109
3 Paris cet ordre point fait pour de sa capitale, vinces —
x È 1 IRE: FREE Fe ; à la fois solide et relâché, qui attire et séduit les étrangers et n'est déplaire aux Parisiens; mais surtout briser la France en l’honneur alimenter la ville, construite en forme de coeur, du sang des pro-
tels sont, à mon
avis, les titres de cette somnolente et irrésistible divinité
moderne. La création d’un centre, quoiqu’en peuvent les Français, est sa plus grande gloire. A une époque où les peuples qui s’obstinent à garder plusieurs capitales n’en ont plus aucune, la centralisation, quoi qu’on pense, a plus d'avantages que d’inconvénients. Les capitales en gerbe, qui ont embelli de palais royaux l’Italie, étaient un privilège du système monarchique. Grâce à la magnificence des Rois, une capitale pouvait surgir en quelques années d’un désert. Mais ses richesses et ses ressources étaient artificielles. Qui prendrait la place des Ducs d’Este à Ferrare, de la Princesse Marie-Louise à Parme? Que ferait Goethe à Weimar, s’il vivait au temps de la République? Dans ces capitales, où les Rois déposés n’ont laissé comme témoignage de leur ancienne puissance et de leur luxe que des meubles, on dirait aujourd’hui que le silence est rompu seulement par les bâillements éperdus des officiers de la garnison. L'administration a donc contribué à organiser Paris. Quand on pense qu’elle a compté et compte, parmi ses membres, des hommes comme Arthur Fontaine et Philippe Berthelot, qu'Henry Moysset l’honore de sa collaboration désintéressée, on ne peut douter de sa force et de son influence. Mais si les bureaux peuvent étre l’instrument avec lequel on discipline et conduit les sociétés, ils ne sont jamais les véritables créateurs d’une civilisation. Faits pour accomplir les desseins d’un roi ou d’une élite, pour offrir aux multitudes passives une conception du bien et du mal, du beau et du laid, de l’honorable et du
honteux qu’élaborent les esprits supérieurs des classes dirigeantes, ils tendent à ossifier tout organisme social qui n’est pas assez jeune pour leur résister, ou à tromper les peuples en donnant habilement à la mort le masque de la vie. Qui nous racontera un jour les incantations de ces sorciers en veston d’alpaca, les mystères des « chemises » où la vie des peuples s’éteint, la magie noire de l’Administration, que des centaines d’huissiers et de portes doubles préservent des regards indiscrets? Concilier deux civilisations, c'était une œuvre trop vaste et trop délicate pour que des bureaux l’accomplissent. Mais si les bureaux se sont bornés à façonner le Parisien moyen, à lui donner une culture, qui est le véritable créateur de Paris? La plupart de ceux qui habitent la capitale de l'Occident ont eu l’occasion d’entrevoir, dissimulé derrière l’écran de la ville visible, un Paris presque invisible, une élite secrète, instituée on ne sait par qui, et pourtant souveraine. Assez fidèle à certaines traditions, mais prompte, quand il le faut, à les désavouer, cette élite toute-puissante, qui ignore elle-même sa propre puissance, s'élève, depuis deux siècles, face à la multitude cosmopolite de Paris. En Italie et en Angleterre, les élites sont le fruit des peuples. Les vices et les vertus de la race se trouvent exprimés dans des individus que le sort, le génie ou le mérite ont distingués. Les élites reflètent le visage des peuples. Leurs idéaux, leurs ambitions, leurs moyens d’action, sont déterminés par le peuple d’où elles sortent, comme la qualité du vin est déterminée par la composition de la terre où est plantée la vigne. Loin de produire une élite, le peuple de Paris est formé par elle. Il l’a peut110
être engendrée
cède visiblement
à l’origine; il l’alimente;
mais, depuis la fin du XVIII
siècle, il
à son influence.
Unie et toujours présente, quoique dispersée et invisible, insupprimable dans son ensemble, cette élite demeure intacte, alors que les révolutions, les guerres, les
tyrannies, exaspèrent, bouleversent ou stupéfient la multitude. Qu'importe donc que les vicissitudes humaines semblent de temps à autre briser le vase de la civilisation, puisque le potier n’est pas mort! Cette élite habile à choisir et à conduire, les hommes, a concilié à Paris la civilisation athénienne et la civilisation romaine. Obligée de respecter les instincts fondamentaux d’une foule aussi hétérogène, mais voulant tout de même les utiliser, elle a canalisé la multitude dans les deux directions que celle-ci prenait tout naturellement. Rien de violent, ni même de perceptible, dans l’exercice de ce pouvoir. Nulle école où l’on apprend
aux Parisiens à s'habiller, à se laver, à se peigner, à rire, à
manger de la même manière. L’élite de Paris n’a jamais songé à fabriquer le Parisien type. Au contraire, Paris est une des rares villes de l’Europe où l’on peut être soi sans s'opposer à rien. La vie intérieure de l’homme s’y épanouit à la chaleur bienfaisante d’un milieu qui semble fait pour elle, et s’insinue dans la vie générale comme le mi entre le do et le sol de l’accord parfait. Je dirai plus: Paris révèle à eux-mêmes ceux qui s'ignorent. C’est une des fonctions de l’élite, de découvrir, masquées par des qualités d'apparence ou par des ambitions d'emprunt, les vertus sommeillantes, la force secrète de chaque Parisien. A Paris, l'homme vit entouré d'observateurs pleins de tact, qui ne manquent pas une occasion, par bonté ou par méchanceté, de faire ressortir ce qu’il possède ou ce qui lui manque. D’invisibles influences agissent sur lui doucement. Ses désirs vagues se précisent, ses convoitises obscures s’éclairent à ses yeux. Il éprouve le plaisir de se sentir observé, d’avoir mille témoins de son existence. Il prend conscience de lui-même. Athénien, il est entrainé vers la spéculation et apprécie la valeur de son intelligence; romain, vers l’action, et il se loue de sa force. Mais l'instinct d'imitation est si puissant chez une multitude, que l’élite fond, sans s’en apercevoir, les deux civilisations qu’elle détermine. Au théâtre, quand le rideau se lève, quelques centaines d’êtres sans liens, issus de toutes les races, formés par diverses cultures, — les ennemis et les amis de l’auteur, assis côte à côte, résolus d’avance à trouver la pièce bonne ou mauvaise, les critiques fatigués et ennuyés, les amoureux indifférents au spectacle, les vieux messieurs blasés, les étrangers curieux, les jeunes filles électrisées et décidées à paraître «comme les autres », — semblent soudainement absorbés dans une personnalité unique, qui n'existait point auparavant. La synthèse qui s’accomplit à Paris me fait songer à cette naissance du public. Les conceptions les plus différentes de la vie se compénètrent, parce que les hommes ne peuvent se soustraire indéfiniment à la contagion des idées répandues dans la masse où ils vivent. Qui n’a eu mille occasions de s’en apercevoir? L'influence continuelle de l'esprit athénien sur les Romains et de l'esprit romain sur les Athéniens s'étend jusqu'aux détails de la vie. N’est-ce pas le Paris athénien qui apprend à une Anglaise à s’habiller avec goût, tout en respectant chez elle ses qualités romaines? Et comment expliquer qu’un Italien, lecteur malveillant, critique mécontent par principe, « s'emballe » pour un livre comme tous les Parisiens, au bout d’une année de Paris? JUST
L’Anglaise apprend à s’habiller en examinant les robes des femmes qu’elle rencontre; mais quand on veut expliquer pourquoi les Parisiennes sont presque toujours élégantes, il faut remonter à ces dessinateurs de talent qui créent les modèles pour les grands couturiers et affinent le goût des petites couturières et celui du public. De même, le lecteur italien ne « s'emballe » que par contagion; mais le public enthousiaste qui lui communique l'instinct d'admirer ne s’emballerait point, s’il n’avait l'habitude de lire, dans les journaux et dans les revues, des articles où la louange est ardente; les critiques n’oseraient point compromettre leur autorité par des jugements téméraires, s’il n’existait en France une tradition de la louange, que les plus grands écrivains se sont plus à continuer à travers les siècles. Qu'on songe seulement à ce que Baudelaire osait écrire de Delacroix, un contemporain. L’élite est donc responsable de la civilisation parisienne.
da DÉSESPOIRS PENSEÉS
SUR
LE
RÔLE
DE
LA
MORALE.
(1937) LES
SOLUTIONS
DU
PROBLÈME
Il n’y a que deux manières de résoudre le problème: 1. S’arrêter de s’aimer soi-même et de chercher un bonheur qui ne nous satisfera jamais; arriver au calme à travers l'indifférence (Bouddhisme) ou à travers la raison (Confucius). 2. Projeter notre amour vers Dieu. Les Chrétiens disent: « L’amour de soi, c’est le péché originel et il faut tâcher d’aimer Dieu ». Les Bouddhistes disent: « Il n’y a pas de soi ». Les Stoïciens disent: « Efforcez-vous de considérer votre moi comme si c'était une autre personne ». Schopenhauer dit: « Cherchez refuge dans la pan-connaissance où le moi ne désire rien ». Spinoza dit: « Le moi n’est rien, il se confond avec l'Univers ». Laotse dit:
« Il n’y a pas de vice plus maladif que loventosness c’est-à-dire l’amour désordonné de soi-même ». Confucius dit: « La victoire sur soi-même c’est la vertu, et la vertu
c'est le bonheur ». Diverses
manières
de résoudre
le même
problème.
Le Christianisme arrache l’homme à lui-même. Le Bouddhisme ses profondeurs. Confucius ne parle pas d’amour, il parle de devoirs.
le jette dans
Le Bouddhisme cherche à faire rentrer l’homme en lui-même, « l’eau dans l’eau,
le feu dans le feu, l’éther dans l’éther. Comment peut-on les distinguer? Il en est de même de l’homme quand il entre en soi-même ». Tout est arrangé dans les couvents chrétiens pour permettre à l’homme de se concentrer dans l’idée de Dieu; dans les couvents bouddhistes pour permettre à l’homme de se concentrer en lui-même. Pour l’Européen, le mysticisme c’est un moment reuse, une union avec l'Univers, avec les hommes.
d'amour,
d'expansion
amou-
Pour l’Hindou, Yogi c’est le sentiment qu’il est immortel, omnipuissant, libre de toute limitation, et des contrastes éternels entre le bien et le mal (Vivekananda). Pour le Bouddhiste, dans le quatrième stade de dhyama, l’indifférence pour le 1n2
soi est parfaite, mais il y a des stades supérieurs encore; celui où il n’existe plus rien, et dans lequel la méditation confirme qu’il n’existe rien, absolument rien. De
là on passe à un stade plus haut encore de méditation dans lequel on se dit: « Il n'y a même plus ni idées ni absence d'idées et on s’arrête ». Après cela il y a encore une région dans laquelle on arrive à un point où tout, et les idées et la perception ont disparu, et alors on s'arrête définitivement.
J'aime le Bouddhisme: 1. Parce qu'il plus grand. 2. Parce qu'il Bouddha pourrait 3. Parce qu'il
s'attache
uniquement
au problème
de la souffrance
qui est le
ressemble plus à une philosophie grecque qu’à une religion (le être considéré comme un Épicure hindou). n'a pas comme but la vertu, mais la sagesse, état permanent de
réflexion, d'attention,
perpétuelle présence et possession
d’esprit qui en toutes cir-
constances permet au cerveau la clairvoyante analyse des faits. 4. Parce qu'il contraint l’homme au contrôle de toutes les minutes de sa journée. 5. Parce qu'il oblige l’homme à ne pas demander secours à Dieu, mais à luimême (ce qui n'exclut pas l'existence de Dieu). 6. Parce qu'il demande des renoncements au nom de la sagesse au lieu de les demander au nom de la vertu (il ne renonce pas aux plaisirs avec peine, mais avec dédain, après mûre réflexion). 7. Parce que pour le Bouddha pécher par ignorance est plus grave que pécher sciemment. L'amour de Dieu est joyeux, parce qu'il est un absolu dans lequel nous nous épanouissons. En aimant Dieu nous agissons comme si nous étions membres d’un corps — le monde des Hindous, le feu des Chinois — d’où l’ordre moral. En s’aimant soi-même, Adam (et l'homme depuis) se considère comme le tout, d’où le désordre. On voit de quelle manière, Christ règle les rapports des hommes à travers Dieu. Les Stoïciens disaient: vivre selon la nature des choses.
Pour les philosophes La blimer La en lui La
Dieu est le souverain
bien.
morale se charge de mordérer l’amour de nous-mêmes, la religion de le suou de le supprimer. La morale est une transaction, elle fait appel à la raison. morale (ma définition) est la science qui aide l’homme à éviter la désillusion, apprenant que son amour de soi ne pourra jamais se satisfaire. morale est la science du bonheur dans la mesure où elle enseigne que l’homme
ne peut pas se satisfaire soi-même;
elle nous
donne
des principes pour maintenir
l'équilibre entre nos moi et entre notre moi et l’univers. Nos instincts nous entraînent à vivre selon nous-mêmes. Un principe est dur et immuable. Il est un refuge dans les moments de désarroi où les faits sont défigurés par le désir et où nous ne savons plus si c’est le moi rationnel qui a convaincu le moi irrationnel ou vice versa. Nos points de vue changent parfois d’heure en heure; un principe, une règle de vie demeurent immobiles au-dessus de ce tumulte comme un arc-en-ciel audessus des nuages. 113
Les principes nous guident comme des rails. Gràce à eux on peut avancer sans regarder.
Pour Confucius, la morale est la science par laquelle le trop long est raccourci, le trop court est allongé, le superflu est réduit, le manque est comblé. L’homme vertueux est pour Confucius celui qui arrive à l’équilibre, en étouffant l'amour de soi-même. « La victoire sur soi-même et l’acceptation des lois de la nature auxquelles doit s'adapter votre conduite — cela est la vraie vertu. Si un homme réussit pendant l’espace d’un jour à vaincre son amour de soi, et à s’adapter aux lois de la nature, le monde entier le proclamera vertueux ». Le sage est le saint des civilisations sans Dieu. Il atteint le calme fécond, et lutte contre son amour du moi en modérant ou abolissant son désir, alors que le saint se détache de lui-même en s’abandonnant à Dieu. Depuis le Christianisme, l'Occident ne s’est plus proposé la sagesse, mais la sainteté. Nos vicieux et nos damnés tombent de plus haut; ils ne sont plus des sages, mais des saints manqués; c’est ce qui explique qu’ils puissent être diaboliques. Un Nietzsche ne s’expliquerait pas sans le christianisme.
L'équilibre entre nos moi — bonheur — n’est possible qu’en sacrifiant une partie de nos désirs (pour la santé — le bonheur du corps — il faut que nous sacrifions l’un ou l’autre de nos appétits). Pour qu’un absolu nous sauve, il faut que nous lui sacrifions quelque chose de cher. Plus nous lui sacrifions, plus nous croyons en lui, plus il nous aide à vivre. On dirait qu’une religion nouvelle triomphe, non en adoptant mais en s’opposant à la civilisation qu’elle veut conquérir. C’est au moins la conclusion à laquelle on aboutit quand on considère honnêtement la doctrine chrétienne et la société romaine où elle se répandit; la doctrine bouddhiste et la société chinoise. Imaginez un Romain ou un Chinois à qui on aurait annoncé le triomphe de ces deux religions, il se serait mis à rire.
Mystérieux besoin d’évasion de l’homme! Il y a des moments dans la vie de l’homme, comme où lon n’est sauvé que par une doctrine, un absolu qui à tout ce qu'on a crue et aimé jusqu'alors. Il est difficile d’adopter comme absolu, un principe familier. Il est en nous. On ne peut pas se réfugier en lui. nous le sachions. On ne tombe pas amoureux des amis d’enfance. Je me convainc de plus d’une importance capitale. lui-même pour aboutir; il ses moi. Jung dit que Tertullien,
ivi
dans la vie des peuples, soit radicalement opposé qui nous a toujours été Il nous est utile sans que
en plus que le sacrifice chrétien est un enseignement Tout créateur doit sacrifier la partie la plus chère de doit la sacrifier pour établir un équilibre entre tous
l’homme qui pense, sacrifia la raison et s’enferma dans
un christianisme inhumainement rigide (credo quia absurdum) et Origène, l’homme qui sent, sacrifia ses sens et sa chair. Tout homme supérieur ferait le sacrifice de ce qu’il désire le plus pour rétablir un équilibre. D’après moi ce n'est pas pour établir son équilibre, que l’homme supérieur doit faire ce sacrifice, mais pour rendre son déséquilibre productif. Tout créateur est nécessairement déséquilibré. Il doit pour créer développer d'une manière anormale certaines parties de lui-même: l’homme n’est pas fait pour créer, il est fait pour vivre. Mais ce déséquilibre peut demeurer plus ou moins stérile s’il n’est pas complet. Il y a donc une tendance de l’homme à sacrifier ce qui empêche son déséquilibre d'être productif. S'il voulait produire dans le sein de l'Église et dans le domaine de la spéculation, Tertullien devait sacrifier sa raison et Origène son sexe. Mais on voit aussi des hommes qui sentent, sacrifier non leur sexe, mais leur raison. Il est cependant vrai que l’homme supérieur sacrifie d’instinct ses passions naturelles, ou lutte contre elles; mais c’est probablement parce qu’il sent que l'amour du moi est plus violent de ce côté, et que par conséquence il sera plus facilement tenté d’exagérer dans ce sens. Les passions empêchent de produire, l’homme leur oppose un système où elles sont sacrifiées. Mon idéal c’est une vie où les passions seraient exclues. Toute création est donc une manièere de lutter contre l’amour du moi puisqu'elle nous demande le sacrifice de ce que le moi désire avec le plus de violence. Mais on peut aussi dire le contraire. D’instinct, l’homme supérieur lutte contre son moi. Origène contre son sexe, Tertullien contre son cerveau; ils justifient ensuite cette attitude irrationnelle, en canalisant l’énergie du moi qui n’a pas été sacrifiée dans une œuvre. Montaigne ne lutta pas contre son moi; il l’organisa. Il doit y avoir deux types. L'histoire des civilisations est l’histoire des différentes manières par lesquelles les élites d’une société ont réagi contre le péché originel, c’est-à-dire contre l’amour excessif « du moi » qui est la cause essentielle de notre souffrance. Apaiser et étourdir cet amour du moi, ou lui donner un autre objet, ou séparer pour ainsi dire le moi de lui-même, telles ont été les méthodes par lesquelles les élites des différentes civilisations ont lutté contre la souffrance. Les Grecs ont cherché un refuge dans le domaine de la connaissance pure (art, philosophie) où l’amour du moi, la volonté de vivre est supprimée. Les Chrétiens ont dévié l’amour du moi vers Dieu et ont réhabilité le sacrifice — c’est-à-dire la souffrance altruiste qui est si douce. Les Hindous ont cherché à noyer l'amour du moi dans l’Univers, comme Spinoza. Les Romains et les Chinois ont apaisé l’amour du moi avec la raison. Les Anglais ont transporté les bornes du moi aux confins d’un Empire; ils ont tâché d’apaiser la fureur de cet amour en l’élargissant à l’infini, comme on calme la violence d’un
torrente en lui ouvrant un vaste débouché. Toute la civilisation est donc une lutte contre la souffrance.
La civilisation occidentale du XXe siècle c’est la glorification de l'amour du moi. Elle a été enfantée par le christianisme dégénéré (l'amour passion) et la grande industrie. Elle ne sera sauvée que par un mouvement puissant qui forcera les hommes à poursuivre des idéaux de vie plus désintéressés. Les communistes américains, par exemple, tirent leur force de cette joie, la joie de ne pas trop penser à euxmêmes.
116
II
FERRERO:
LETTERATO
va P_i a ar a ÙU
x
s
POESIE
ALL’AUTUNNO Autunno, signorile stagione che adombri di grazia i visi delle donne, accendi le vigne, schiarisci gli orizzonti e benigne fatiche offri all'uomo dei campi e frutta mature da empirne i canestri con mite sforzo, ti preferisco al folle e inquieto risveglio del tempo novo, per quella stanchezza di tutte le cose. Il cielo troppo viola da lunghe stagioni è consunto: e trascolora agli orli bagnati in dolcissimo verde. Grazie al sol che scendendo tra i rami fa rider le piante sotto le viti, ricche di pampini e grappoli, un’ombra porge refrigerio a tutte le zolle deserte; sì che la terra stanca di stendersi nuda a bruciare contro il sole, pratisce di non seminato palèo — e le voci nel grande silenzio si fascian di lunghe risonanze, e gli insetti son dolci a sentire nel vento. Autunno, m’empie il cuore di gonfio stupore la tua maturità succulenta; e in quella cadente bellezza di donna stesa, m’appare un vivere nuovo dei campi. Forse grazie ai cipressi che si illimpidiscono i cieli d’intorno per il frascame più nero che in ogni stagione. Forse per quella grave immobilità dei rotondi grappoli e pel recente fruttificar delle more Forse pel vento, grato a noi come un fiato di donna, che spinge dalle campagne lontane col suon degli armenti i cori autunnali, e palpitar le mimose inquietamente e i sacri olivi oscillare in silenzio. Così benigno è l’autunno ad uomini e a cose che il suo splendore s’attenua per esserci amico e non farci tristi col sentimento di nostra umiltà peritura. Tanto che volle darsi per dono alle donne dai rossi fazzoletti e ai robusti garzoni in consuete vendemmie, sì che strappando ai curvi festoni il decoro dei campi, godessero gli umani d’aver tra le braccia il destino delle campagne e d’esser commisti alla ricca stagione. Pende copiosamente offerta la messe dell’uva. Bella tra tutte l’uva trebbiana, che in gocce, attraverso
la bionda trasparenza rapprende il color dei tramonti. E a mirarla disciolta, matura e opulenta, coi grani abbronzati dal sole in mezzo alle bacchiche foglie, sembra la capigliatura ricciuta di vigne ubertose. Che pena, contemplarla premuta in bigonce dal rosso
119
ammostatoio! I grani diafani, istoriati del sole come vetrate, al cieco massacro si sfanno schizzando
il mosto mescolato al mosto di tutte le vigne: al San Giovèto, al màmmolo, al dolce aleatico. I bovi aspettano pazienti d’aver le ammostate bigonce
sul plaustro, socchiudendo a ronzo di vespe i grandi occhi. Tu solo, Autunno, ti fai umano per viver le nostre
sofferenze, e ci uguagli, nel ritmo dell’ore, alle cose vegetali. E nell’ore mature in cui guardo i tramonti consumati da antico languore annunziarci la sera, so che tu sola, stagione cristiana, sai darmi la forza di così vasto godere, né cresci su me sovrumana e indifferente — e attingo, giacendo ricolmo del tuo spirito, in questa serale tristezza un immenso piacere. L’Ulivello, primi di ottobre del 1923
PREGHIERA
PER
LA
LIBERAZIONE
DEL
DOLORE
Se contemplando l’universo i cuori che la tristezza preme hanno un momento di refrigerio, come l’occhio stanco s’acqueta sul mare, o mio Signore fa che s’affoghi il mio dolore acerbo nell’infinito. Io mi sento strappare alla natura: giaccio in mezzo all’erba della vallata come insetto morto nel latte. Dio, non sai quant’è acerbo vedersi intorno ridere la terra intiepidita, e non averne dolce calore, come un tronco mozzo giace nella verde foresta. Amara vita che un giorno s’offre alla tua voglia e un giorno t'esilia. Un tempo, io m’accostavo al mondo come a un corpo di donna; ora non trovo intorno a me che un regno ove non regno — e se voglio goder questi soavi canti d’uccelli o pestar la mia erba sento che Iddio, che la creò per gli altri mi spegne il desiderio in una grande indifferenza; e m’è duro guardare un mondo che fu mio e che m’è tolto. Ma che strazio m’ingombra? Ora mi sento come una nota d’organo, che suona appena tocca, quasi avesse eterno respiro. E forse empio il mio cuore straziato 120
del tuo nome, e non credo e mi vergogno d'essere vile.
Pace o morte! Io sono solo e tu sai quanto ho pregato. In questa vita, Signor Iddio, tu non m’hai dato che il pensiero ed il sogno. Ogni letizia io l’ho sognata e scritta. Ogni dolore l’ho pianto. E il male or mi fa groppo e il mio cervello stanco di pensare e sfatto di sofferenza anche vacilla — e allora che resterà di me? Fammi tornare stupido, o Dio, come cosa di pietra. Che m'importa di gloria? Io non ti chiedo che la pace mortale e la dolcezza di un mondo uguale, ove non c’è pensiero — sì che la mente mia trovi il suo sonno che non trova nel sonno. Io so che un giorno — e a pensarci sorrido — avrò il mio corpo sotto una pietra. E allor mi sarai buono, e cadran gli anni sulla tomba ad uno ad uno. Dio, come cospargi i prati di molle pioggia — e tornerà il silenzio. 13 giugno 1926
AL
MARE A Romano,
in memoria
di M. P.
Dove sei, tra le vaste distanze dei mondi che unisci
e partisci, sfuggendo ai Limiti? Invano t'ha imposto l’uomo dei nomi: la tua divina sostanza s’allarga una nell’universo, né varia la tua trasparente varietà di verdi tempeste e di chiare bonacce, come non varia in questa natura terrestre l’amore. Come l’amore, al primo incontro, riempi il mio cuore di stupefatta gioia. E in te che odor spandi dai grandi respiri, spalancato nel disco splendente, tra’ tuoi orizzonti tremanti, il core si tuffa cantando come in un sentimento d’amore. O infinito silenzio,
o splendore opaco! O Mare, che al sole ti schiudi come a maturare tra l’onde semenze d’enormi vegetazioni verdi e non serbi, nel seno ove brilla il dolce azzurro del cielo, che i semi del nembo infecondo, mi sembri splendido e triste, immenso ed inutile, come
la passione d’amare, che Dio ci versò nelle vene perché in ogni uomo allegasse la dolce pietà del dolore. TRON
Ma se guardo la tua solenne continuità di moti, nello spazio viola, e il quieto disdegno
con cui, nei lunghi giorni, largisci alle terre i tuoi flutti rotolanti, e quel ritmo d’antiche maree, d’oscillanti
inquietudini, che al tempo opponi, con lui gareggiando a non consumarti; se vedo mill’ombre, disfatte in luce, ricomporsi nell’onda; e rinascermi intorno
per languire, in questa vallata di vetro, da tutte le lontananze, i mille sospiri dei fondi; e se m’urge la bianca tempesta di schiume, che leva il libeccio distendendo sui lidi sommersi i marosi ribelli, come candenti penne di struzzo, mi sembri in quel vano e infaticabile sforzo di vivere, o mare, il pensiero, che nasce e si rispegne in sé come l’ombra nei flutti, che non sa come vive, a tratti si gonfia d’enormi cicloni, senza ragione si placa e si strema a lasciare inutilmente se stesso al mondo, così come a sera,
quando si ritira la battima stanca del mare, l’arena inumidita rispecchia l'azzurro del cielo.
Ma il dolore m’appare, se all’alba ti guardo nel tuo violaceo pallore, cosparso di bianche scintille morte, riflesse come sul frigido dorso di un pesce. Poich’io non credo a confini terrestri di là da quel segno che al cielo ti congiunge, mi sembra che in questa tristezza siano naufragati i mondi. Io conobbi il dolore come ora ti guardo, così l’ho creduto infinito. O mare tu che sei grande, eterno, profondo e amaro come la sofferenza umana,
tu sai che non c’è
consolazione per l’uomo che soffre, perché anche la gioia di arrivare alla terra, di là da quel segno che è come l’infinito tangibile, è ancora dolore. Ma dove è tra la nostalgia del male e il male un momento di quiete? Così, se il sole si spegne nel cielo come il suono di un cristallo toccato, rientra nel guscio del suo dolore bianco il mare, e rinasce il silenzio.
O pallide tempeste! O bonacce! Divina illusione di sostanza! Che siete, se non risonanze di venti e riflessi di luce? O mare, sei come un’immensa e docile orchestra, distesa fra il cielo e la terra,
che ispirano gli elementi. E non forse l’amore, il pensiero e il dolore son come il mare, parole che l’uomo ricompone? Così, nel dolce tremar della luce sull’acqua si rapprende l’umana ricerca del vero, e nel tuo insensato cantare è il mistero di tutte le infinite cose ignote del mondo, ove l’uomo sprofonda impaurito. O mare, tu canti e sull’uomo 122
che cerca, l’universo si chiude, così come, dopo il nembo, sui naufragati vascelli ti chiudi, mentre alto
nel cielo indifferente e limpido il sole risplende.
A BISANZIO (da un frammento
*
greco del III secolo)
Pesante è il destino che regge il tuo moto, o reame di lussuoso dolore! Bisanzio, tragedia vestita di marmo, tumulto di voglie inesauste, aggolita brama di bellezza, Bisanzio, invidiosa, affamata
e luccicante, la tua grandezza ti estenua; come un melo troppo carco, ti schiantano i frutti, e non puoi
che splendere morendo, eterno crepuscolo! Schiava di un voluttuoso trionfo di morte, dipingi 1 volti di tristezza ambigua; e non sanno gli amanti della tua bellezza, che, come il trebbiano s’addolce
e arrossa per le lunghe giornate di sole, così brillano le tue pitture per tutto il Dolore che il tempo nei colori ha stillato. Chi pensa, Bisanzio, che splendi consumando te stessa, tripudio funebre, sfarzo sempre moribondo? Hai spento i tuoi grandi nell’alta indifferenza, come la notte calando tra i monti
seppellisce le cime; da vivi li hai pesti, da morti li hai dimenticati. E avvivando il tuo fasto del loro inutile martirio, hai dato i pochissimi eroi che non ebbero speranza. Perché dove mai la grandezza umana e il sagrificio rimasero sterili come sotto il tuo gran sole? E mentre ti stendi, opulenta d’un rigoglioso languore, nei secoli, il cielo cosparge di dolcezza gli esiliati che nutri e poi stremi; e la luce tinge di viola le tombe obliate dei grandi.
SUNNIO Oh! Perché mai, nel silenzio d’opale, gli antichi naufragi,
mendicante di pace, mi risovvengono! Chino sul precipizio, muoio in sogno, ed immobile è il mio dolore come quel barco che il vento dimentica. Un gregge pascola all’ombra dei capitelli troppo sereni, * Per ragioni di censura A Bisanzio.
politica Leo
Ferrero
dovette
sostituire
l’originario
titolo
All’Italia
con
129
con un pigro romore di pioggia e la piana è quieta e malinconica come il semicerchio d’un mare traversato. Oh! Dormire del sonno del golfo! Ma invano portano il cielo le rosee colonne che àdula il sole, se in questo rudere colmo di gioia, riso di pietre mutilate, non trovo un angolo d’ombra che accolga la mia vergogna di soffrire, cristiano smarrito tra le memorie, in una lentissima sera d’esilio...
POÈME
EN
PROSE Diis aliter visum (Virgilio)
I
Mon coeur! Je dois étre un de ces hommes qu’on voit passer dans la rue, les après-midi de printemps, égarés dans la profondeur un peu ridicule de leurs monologues, hochant la tête et ne souriant qu’à eux-mêmes. Il m’est très doux de m’entretenir avec toi,
et de te confier que ma vie me semble étrange, mon destin lourd et singulier — Mais ce n’est pas l’illusion de tous ceux qui considèrent leur passé; et toute conscience, à qui l’examine, n’apparaît-elle pas douloureusement hésitante? II
Il faisait ce matin un temps merveilleusement angoissé. Un souffle violet, déjà riche de senteurs de pluie, semblait descendre, dans un sec fracas
de portes fermées, de je ne sais quelle froide gorge de montagne. Sous le ciel mauve, les chevelures des arbres se courbaient jusqu’à terre, et les oliviers devenaient blancs, comme
si on eût découvert la
nuque des collines. Les visages des femmes étaient doux et tendres, et on croyait voir pour la première fois, tant ils étaient nets, les contours et les véritables couleurs des choses. L’orage n’éclata jamais; mais on entendait des cris lointains de frayeur.
124
III
Je me suis promené tout seul au milieu d’une rue étroite, ancienne et blanche. Le vol alourdi des hirondelles,
le chant distrait des petites filles dansant en rond dans une place déserte, le pas des étudiants inquiets, le trot d’un cheval, le son des cloches, l’odeur de vent, de fleurs,
de fumier et de poussière a peine mouillée, me semblaient la révélation d’un monde s'élevant autour de moi comme si, vaguement flévreux, j'en étais le pivot. Mais cette fausse et présomptueuse idée de mes relations avec l’Univers, m'a paru moins enivrante que mélancolique. IV
(Mon coeur), je me balance sans cesse entre l’espérance et le désespoir, et il n’est point de journée où je ne rêve d’être différent de moi-même. C’est que je me connais trop et trop peu et je sais mon passé. Mais cette science n'est utile qu’à remplir ma vie du remords de changer: car le destin m’offre les plus bruyantes revanches au moment où je n’ai plus aucune envie de les prendre, et je ne suis en somme qu’un vainqueur profondément ennuyé... V
Le silence est vaste sur sa maison et le ciel plein d’étoiles brille comme un immense arbre de Noël. Elle s’abandonne peut-être au sommeil, comme on se glisse dans une eau d’égale température ; elle oublie que le temps passe, que les événements s’accomplissent et que toujours inquiets, toujours ailleurs, nous avons à peine le temps d’espérer, de regretter et de recommencer
à attendre.
Mon cœur, pourquoi ne suis-je pas à côté d’elle dans la lumière de la lampe; pourquoi ne puis-je goûter enfin la douceur de m’oublier moi-même en la regardant?
125
VI
Je songe à des troupeaux de moutons descendant vers les pàturages des vallées, riches de menthe et de camomille; à des foréts, à des mers, à de beaux pays, que nous ne verrons pas ensemble; aux arcs-boutants des cathédrales, qui offriront en vain, quand le sacristain tournera le dos, des niches, des ombres, des saillies,
des modénatures complices de mille douceurs défendues; à tous les changements des saisons, aux fontaines, aux Jardins, aux guinguettes, aux gares, aux
silences mùrs des moissons — à tout ce qui passera devant nos yeux sans jamais s’accrocher à un passé unique. Je la laisse s’éloigner vers un avenir que j'ignorerai toujours et mon cœur s’obscurcit comme la terre quand un nuage
passe devant le soleil. VII
Mon cœur! Je ne sais si je ressemble à un mendiant qui ferait l’aumône, ou à un roi qui la demanderait: tout m’a réussi trop tard ou trop tôt et mon appel s’est perdu dans le sein du destin, comme un chant sur la neige. Mon cœur! En cette nuit de printemps où la ville bruit et m’entoure comme
un souvenir,
je ne peux demander à Dieu que de me donner la force d’attendre encore l’amour que j'ai rêvé depuis le commencement de ma vie intérieure. VIII
Je m'’efforce de dessiner son visage sur cette feuille; je trace des arabesques, des palpes incertains, qui ont pour moi la douceur et la consistance des caresses. Mais tout est mort maintenant, et cette ardeur est aussi vaine et
illusoire que ces pauses, dont tu t’étonnais, mon changements aussi peu les bordées d’un voilier 126
ces silences d’amour cœur, quand je l’aimais — considérables que sur l’océan.
IX
Pourtant, amour — attente, impatience tu m'as semblé aussi étincelant et
—
incroyable que la mer quand on la voit pour la première fois. Et j'ai encore en moi-même cent villes merveilleuses où tu as éclaté,
et des soleils, des orages, qui ont ajouté au tumulte la douceur et l’épouvante de la nature. Et je ne peux oublier ni cette vaste amertume, ni cette allégresse, ni cette attirante déception, en qui renaissait perpétuellement l'espoir d’une plus vague joie. Et le souvenir, et le désir, et le remords traînent encore dans mon cœur, comme le ciel se reflète
sur le sable humide quand la marée se retire. X
Mais le printemps est déjà l’été et l’automne est déjà l’hiver. Les semaines tombent les unes sur les autres comme des cailles après une longue traversée; les jours sont brefs comme des coups de fusil. A peine réveillé je dois me rendormir, à peine couché je me réveille. La veille s'évanouit en faits et en pensées, le sommeil en réves;
tout est obscurément rapide. Je me sens glisser vers l’avenir et il me semble qu’il n’est pas d’écart entre le commencement de la vie et la mort. XI
Destin, Destin! Zèle immense et obscur, toujours présent, toujours intact,
tu poses à chaque instant les prémisses de l’avenir, mais aucun des hommes endormis dans les maisons de la terre — ruches de lumières et de tragédies inconnues — ne sait si le ciel est traversé par une étoile filante ou par un nuage. Tu illumines, tu éteins, tu joues, tu crées, tu détruis,
tu t’accomplis avec une lenteur et une précision effroyables, tu épouses les effets de toutes les causes, tu enfermes,
en tout être, en toute chose,
127
un morceau d’infini. Suspendu entre le passé et l’avenir, je songe ce soir que ma vie toute entière se forme dans ton sein,
mais je ne suis devant toi qu’un batelier arrêté par le grondement énorme d’une cascade, que l’obscurité aurait rendue invisible. XII
Le succès m’assombrit comme une moquerie du Destin, tantje doute de moimême. Le bonheur ne me semble vrai que quand le sort me l’enlève et je ne sais plus que pleurer la perte d’un bien qui ne me donne aucune joie. Telle est la peine des hommes sans sagesse! Puisque mon cœur est assoiffé de tout ce qu’il ne peut boire, et qu'il ne s’apaise ni dans la joie, ni dans la douleur, ni dans le désir, ni dans l’assouvissement; puisque je souffre également de mes triomphes et de mes défaites; puisque l'amour ne m'a offert que les mille teintes d’une douleur brillante et changeante comme le cou de la colombe, sommeil, il ne me reste à accepter,
au commencement de cette nuit, que ton invitation à l’oubli. Tu enveloppes depuis des années dans ton doux manteau de laine mon corps fatigué; tu connais les dernières et les premières lueurs de mon intelligence; fais-moi donc grâce des rêves, aussi lourds que des souvenirs, aussi vains que les plaisirs de la veille; je ne veux que m'égarer en toi, comme sur un océan sans phares — et mourir une nuit.
128
TEATRO
da LA
CHIOMA PARSIENCO
DI
BERENICE
TEA GEELCO,
Di Magni, facile, ut vere promittere possit,
Atque id sincere dicat et ex animo.
A Roma, nella casa di Catullo, in primavera. Sul fondale, un parapetto bianco da cui una scalea di marmo scende con tre gradini verso la scena. Questa scalea si incava nel mezzo come un’ansa a forma di falce allungata, ove si modellano sempre, seguendo la curva, gli scalini. A questa curva convessa risponde un’altra curva concava, che la chiude in forma di ellissi, formando un bacino colmo d’acqua. Nel mezzo, murata nella scalea, una fontana da cui cola un getto perpetuo. Ai due lati due cipressi neri. Il cielo, che riempie metà dello spazio, è di un azzurro profondissimo, polposo, e ormai definitivamente serale, schiarito ancora
sull’orizzonte da una
luce non più crepuscolare.
Catullo e Ipsitilla sono accoccolati sul bacino, e guardano l’acqua, in silenzio. Un manoscritto arrotolato è abbandonato sul gradino più basso.
caTULLO. Questa fontana ha torto, quando si rallegra e si rattrista, quando soffre di non parlare con voce umana. Le cose almeno dovrebbero essere indifferenti. IPSITILLA. Appena la stella piove nell’acqua, dopo il crepuscolo, la fontana si mette a cantare più dolcemente. E il pesce d’oro sonnecchia sotto le foglie (butta dei sassolini nel bacino, ridendo) (pausa). Catullo invece, il mio strano cognato, scrive dei versi sulla stella bagnata. (Catullo non risponde. Lega le braccia alle ginocchia, e guarda l’acqua. Ipsitilla, un po’ inquieta, col suo silenzio determina un silenzio molto sensibile). CATULLO (dopo un momento). Che cosa dicevi? IPSITILLA. Jo? Niente (pausa). Ieri, hai visto Lesbia? CATULLO.
Sì, sapeva
già che avevo
trascritto,
una
notte, le confidenze
della co-
stellazione (pausa). Ha detto che stasera verrà qui per ascoltare i miei versi, e intanto tener d’occhio il bacino. Pare che non abbia mai visto una stella nell’acqua. IPSITILLA.
C'erano
i suoi soliti adoratori?
Volusio,
Egnazio,
Marrucino?
CATULLO. Naturalmente. Mi dicono che le stanno sempre vicino, da quando ha divorziato. IPSITILLA. Anche da prima (pausa). CATULLO. Strano. IPSITILLA. Che cosa? GATULLO. Mi stupisce, quella donna. Credevo che sviandosi dalla tradizione avrebbe anche lasciato perdere i suoi mille antenati; ma ci tiene ancora, tanto che riceve gli amici sul solio di pietra, sedia avita, — e non certo per far dimenticare
la sua nobiltà. Così non m’è stato ancora possibile capire il segreto della vostra amicizia.
IPSITILLA (sorridendo). Davvero?
Eh già. Siamo tanto diverse. Eppure, sai, sono la
129
sua unica amica. Dopo la morte di tuo fratello mi sentivo così sola. Tu eri in Asia. E Lesbia è stata buona con me. Anche Lesbia era senza amiche. Aveva rotto ogni relazione colle matrone romane: le trova troppo frivole e noiose. Ha ragione. In verità, Lesbia non avrebbe bisogno di amiche. Ma io sì. Lesbia, vedi, non è nella regola, ma è però così intelligente! Forse non puoi sapere: con voi uomini Lesbia è più artificiosa, benché, come sai, ami gettare in faccia
le tristi verità — anche in questo è un po’ artificiosa. Invece, quando stiamo insieme noi due, Lesbia si trasforma. Mi aiuta. Come dire? Alle volte, una piccola cosa pòsta dinnanzi agli occhi ti nasconde tutto lo spazio. E allora sì è infelici, durante la vita. Lesbia mi offre quelle soluzioni chiarissime, ch'io non
riuscivo a vedere. E mi rivela dei piccoli segreti meravigliosi (pausa). Ecco. Mi inquieta, in certe cose. Come può tormentare i suoi amanti con quella tranquillità? Gliel’ho anche detto, un giorno. Clodia s’è messa a ridere con tanta grazia (pausa). Sì, Catullo. Lesbia è anche terribile, con la sua dolce e calma indifferenza. Credo che non abbia mai amato nessuno. Ah! Come può non amare nessuno?
(Catullo si alza, coglie il libro, torcendolo con asprezza. Poi lo ributta. Guarda
il cielo). CATULLO. Una zanzara! E sia ben venuta, anche questa zanzara: annunzia l’estate magnifica, in cui gli uomini, rimbecilliti per la calura, passano da un sopore d’oro a un risveglio stupefatto. La vera vita, in cui si riscuote in noi quella parte di materia che ci unisce alla terra. In questa primavera mi sento angosciosamente leggero. IPSITILLA (alzandosi). Delle nuvole. caTULLO (è erritato. Si china sul bacino e poi alza la testa). Si impaluderanno tutte sulla nostra testa, per soffocarci, con la loro immobilità.
La stella è morta.
IPSITILLA. Oh, Catullo perché ti arrabbi? Stasera non sei come il solito. Anche le nuvole hanno il diritto di andare e di stare. E ci sono mandate dagli Dèi per il nostro utile. caTULLO. Non è vero. Vi sbagliate, quando credete, nei giorni di bel tempo, alla benevolenza degli Dèi. Essi ci hanno seminato intorno i bruti e le bestie perché qualcuno si contentasse del tepore del sole. Ma a chi pensa han dato la strana gioia di vedersi ogni giorno consumare. La vita dovrebbe essere eterna o non cominciare.
Gli uomini
dovrebbero
dividersi in zone di eterni bambini,
eterni
giovani, eterni vegliardi. Vi par naturale di cambiare a poco a poco natura fino a scomparire? No, il giovane non crederà mai di invecchiare. Valeva la pena di faticare, per giungere a questo silenzio? Ah! quando penso che ventimila anni fa un uomo qualunque soffriva per una donna! Tu non capisci. Non credi alla morte. Ma io sono diverso. Ti dico: non puoi capire. (Lesbia, che era entrata a mezzo il discorso da sinistra, e aveva ascoltato senza muoversi, sorride, quando Catullo ha finito di parlare). LESBIA.
Catullo,
ti stavo
a sentire.
CATULLO (st volta. Risponde con voce calmissima). Anch'io, Lesbia, mi stavo a sentire. LESBIA (s dirige verso il bacino. Ipsitilla la fa sedere sui bordi). Non ti inquietare, Ipsitilla. Catullo stava studiando quel fatto strano che è Catullo arrabbiato. CATULLO (alzando il braccio al cielo). Me l’hanno distrutta le nuvole. LESBIA. Infatti non vedo niente, lì dentro. Buio pesto. Forse anche un nuvolone sì sarà innamorato di quella chioma, che, mi pare, ha molti successi. Puoi raccontarmi questa funebre storia, mentre aspettiamo.
130
CATULLO. Quando Tolomeo Evergèta ritornò vincitore e Berenice, adempiendo il voto, appese la sua chioma nel tempio di Venere, Zeffiro stesso volò sulle rive del Canopio per trafugare i biondi capelli della regina, e fissarli nel cielo vicino alla corona di Arianna. Ma io ti posso dire con quanta tristezza la chioma si rassegni a brillare nel cielo. Diceva l’altra notte: Me umida ancora di quel pianto e nuova stella nel tempio degli Dèi, la Dea subito pose fra le stelle antiche. Qui, sfiorando la Vergine, e il leone fiero, e la stella di Callisto, figlia di Licaone, ad occidente il pigro Boote spingo, che con cruccio, e tardamente si immerge nel profondo mare.
Ma benché a notte su di me gli Dèi passino, e il giorno sia ridata al seno di Teti (e parlo con tua pace, o vergine Ramnusia,
e non senza timore queste
verità dico) 10 non mi allegro in cuore delle mie gioie, ma soffro e mi strazio d’essere qui, sempre così lontana, così lontana da te, mia padrona, che da fanciulla anche già esperta in dolci cure, mi profumavi ogni mattina con gli unguenti più vari di Soria.
LESBIA. Favole. Si tratta certo di qualche amante, un po’ adolescente, che ha avuto l’idea buffa di rubarsi quei capelli biondi. E i sacerdoti si scusarono con una finzione imitata da qualche leggenda. 1PSITILLA. Tu, Lesbia, credi soltanto nelle cose ragionevoli. GATULLO. Anche gli Dèi sono stati spaccati in due metà e diventano stupidi, soffrono, quando li prende il desiderio di ricostruire l’unità primordiale. Voglia che quaggiù si chiama Amore. LESBIA. Catullo, la leggenda dice che facilmente ti prende l’ambizione di ricostruire l’unità primordiale. CATULLO (alza le spalle). Gli altri non sanno. Neanche tu capirai: l'atmosfera dell’amore è la sola in cui posso respirare ancora. Perché ora mi sento dolcemente, lentamente scomparire. Un male sottile. IPSITILLA. Dall’Asia è tornato tutto diverso. Non vedi com'è strano? Alle volte sembra troppo allegro. Quando è così allegro io vorrei che fosse più triste. CATULLO. È una cosa che mi deforma tutta la vita. Perché, con quel male, vedo le faccende nostre di un’altra tinta. Un vetro colorato. LESBIA (spiccando le parole e alzando le spalle). Non capisco niente. CATULLO (ridendo). Deliziosa risposta! Questa era la mia speranza. Ma tu sei troppo intelligente, e dopo un’ora di parole vuote diventerò chiaro come una lampada, sotto le tue pupille. Ti devi immaginare un uomo, che invece di avere innanzi a sé l’infinito, come usa, ha una piccola zona. A me pare d’essere sopra un cavallo assolutamente impazzito, che galoppa verso un muro. Nell’insieme, la mia situazione non mi dispiace. Per questo ho una certa allegria.
131
LESBIA. E perché puoi vivere soltanto nell’atmosfera dell’amore? catuLLo. Non so. La mia vita scorrerà in fretta, forse perché non ho amato mai, benché abbia goduto molto. Come te, Lesbia. Ma la nostalgia di questa cosa dolce che non conosco mi ingombra il cuore, quando penso alla morte. Così credo che se potessi capire mi rimetterei a nuovo. Forse anche il mio corpo, come
il mio spirito, diventerebbe sano.
IpsitiLLa. Non hai amato mai, neanche in segreto? CATULLO (guardandola). No. LESBIA (sorridendo). Tua cognata ha amato in segreto (un silenzio). Catullo, per amare io mi sono liberata da cinque secoli d’antenati, dal marito, dalle amiche, dalla tradizione, dal rango, dal pudore. Ma tutti gli uomini si somigliano come le canne,
come
le pere.
Così
Volusio, Marrucino, Egnazio.
scorrono
Hanno
le ore...
(Scendono,
dall’alto
della scala,
il capo coronato di rose e di mirto).
voLusio. Lesbia, finalmente ti ritroviamo! MARRUCINO. Sei corsa da Catullo, ma ti ritroviamo.
EGNAZIO (ride. Lesbia, un po’ stupefatta, li guarda senza parlare. Anche Catullo tace, in disparte). voLusio. Catullo, siamo — quanto è possibile — vecchi amici. Scuserai questa invasione. MARRUCINO. Tu non conosci le nostre abitudini. Hai ancora dell'Asia nelle vene. voLusio. È la prima volta che, alla nostra ora, troviamo la casa vedovata di Lesbia. EGNAZIO (ride). voLusio. Ci hanno detto che era da Catullo. MARRUCINO. Siamo venuti da Catullo. voLusio. Per renderle queste rose (tutti e tre si tolgono le rose dal capo e le porgono a Lesbia). IPSITILLA. Sedete... voLusio. Noi sappiamo di essere ingombranti. MARRUCINO. Ma sediamo lo stesso. EGNAZIO (ride). voLusio.
Il nostro destino, Catullo, è ormai quello di dar noia a tutti gli amici di
Lesbia. Tu non sai ancora. MARRUCINO. Abbiamo bisogno di Lesbia. La vita si trasforma, vicino a lei. È dolce, per me, sentire che sotto il suo sguardo ridivento ingenuo, mentre tutti a Roma sanno che sono furbo. Mi riposo della fatica di essere furbo. VOLUSIO (indicando Egnazio). Costui, vedi, era il più funebre e rusticano cittadino di Roma. Fra gente amabile sembrava un vaso aretino fra i cristalli. Un corvo spennacchiato, che fosse per caso caduto sulle rive del Caistro, fra i cigni ledei. E ora, vedi, ride come
se fosse felice.
EGNAZIO (ride). voLusio. E io, Catullo? Io sono un poeta che non scrive più versi da tanto tempo. E vicino a Lesbia mi riposo della fatica di essere sempre poeta mancato. Divento intelligente. Perché io, Catullo, so criticare questa miseria che sono io. (ride). CATULLO. Alludi a me? VOLUSIO. Questa sera, Catullo, ci sentiamo simbolici. Tutti i Romani le hanno offerto, col nostro gesto, delle rose. Possiamo dunque essere sinceri. Dirti che in verità non stimiamo i tuoi versi.
no)
MARRUCINO. Nessun amico di Lesbia stima i versi degli amici di Lesbia. Devi imparare. voLusio. Noi disapproviamo quella tua abitudine di versificare le miserie quotidiane, le avventure
mediocri, i buoni pranzi, i cattivi pranzi. Noi siamo cultori
degli Dèi d’Olimpo e le loro vicende ci stanno più a cuore che le tue. Per cui ci rifiutiamo di imparare che ieri ti hanno rubato un fazzoletto. LESBIA. Siete strani. Io non so che cosa volete da me, questa sera. Cioè, so bene che cosa volete da me. MARRUCINO. Finalmente abbiamo sentito la sua voce. LESBIA. La poesia. Volusio, non sta solo nelle cose dei nostri miti, ma in tutte le cose. E il concime, passando attraverso le mani di un poeta, diventa montagna d’oro. MARRUCINO. Alle volte resta solo concime. LESBIA. Voi non capite niente. Marrucino, tu che sei furbo, contèntati d’essere furbo, e non volere essere intelligente. Volusio, tu che sei un poeta mancato, contèn-
tati d’essere un poeta mancato.. nudo.
Voi temete,
vigliacchi,
Le poesie di Catullo specchiano un uomo
la sua violenza.
Siete delle femminucce.
Ma
a io
adoro la violenza. CATULLO. Non vi turbate. Se sapesse Volusio quanto poco mi preoccupa la mia musa! Questi sono i versi d'amore che ho scritto fin’ora (agita 1l libro. Por spacca, sul ginocchio, l’ombilico di legno a cui è legata la carta pecora. Butta via il manoscritto. Ipsitilla grida). Non c’era la chioma di Berenice. Ecco: il problema grave è vivere poeticamente. Saper chiudere a tempo una scena vera, per esempio. E poi, bisogna che nessuno capisca. Ci si diverte. I miei versi sono appunti: li scrivo per ricordarmi quanto me la son goduta, tutto solo, in qualche vicenda. Perché, vedete: io sono un tale che conduce la sua vita come vuole (gli altri guardano Catullo, tacendo). Ma a voi non riuscirebbe di certo. Perché voi, pur conoscendo il limite umano, credete nell’infinito della vostra esistenza. Vi pare che quanto è avvenuto si dovrà ripetere, domani, dopodomani, come la pioggia, che ha l’aria, certe volte, d’essere eterna.
Ma
invece io so quando le cose
ces-
seranno di ripetersi intorno a me. IPSITILLA (triste). Catullo, perché hai spezzato il tuo libro? LESBIA. Ora mi avete annoiata abbastanza. Andate via. voLusio. Torneremo tutti soli al banchetto? LESBIA. Andate via. MARRUCINO.
Cammineremo
adagio,
Volusio,
voltando
la testa.
Chissà.
VOLUSIO. Egnazio non ride più. LESBIA. Andate via. voLusio (con voce alta). Catullo: bada che a te rimane soltanto la speranza d’essere un mancato,
d’essere un disperato. Perché Lesbia risuscita i malati, ma uccide
1 forti. EGNAZIO (ridendo). Ah! Ah! Forse Lesbia lascerà morire Catullo, dopoché gli avrà inoculato salute. MARRUCINO.
Andremo
adagio,
Egnazio,
voltando
la testa
(escono. Catullo,
Lesbia,
Ipsitilla rimangono un momento in silenzio). CATULLO. Sono ubriachi d’amore. LESBIA (sorridendo). Mi annoiano (si avvicina a Catullo, appoggiandogli una mano sulla spalla). T’è dispiaciuto?
CATULLO (immensamente grato di questa parola). No, Lesbia (le stringe la mano). LESBIA. La chioma di Berenice è tornata nella fontana (un silenzio. Catullo e Lesbia si chinano insieme sul bacino. Ipsitilla, un po’ indietro, li guarda. Fa un passo verso la porta e poi sosta. Si sente dimenticata). Ora possiamo fare il confronto. Vuoi continuare?(Catullo non risponde. Guarda la fontana). Questi versi sembrano vissuti e sofferti (pausa). Quando li hai scritti, Catullo? CATULLO. L'altro ieri sera. LESBIA. Una donna t’ha fatto del male, in questi giorni? CATULLO. No. LESBIA. E allora? CATULLO. Pensavo, così, a quello che mi succederà, forse, tra un mese. (/psitilla st è allontanata, a passi feltrati, dalla fontana. È ripiegata in sé, con il viso un po’ triste. Esce da sinistra dopo che Catullo ha pronunziato quest’ultima frase. Catullo volge la testa. S’accorge che Ipsitilla li ha lasciati. Ma tace. Lesbia si accoccola, come prima Ipsitilla, sulle rocce del bacino. Catullo, in piedi, guarda nell’acqua al di sopra di lei). LESBIA. Buffi, quei cipressi. Si allargano e si stringono. Sembrano elastici. E l’acqua ondeggia come fosse un disco solo (pausa). Vuoi continuare, Catullo? (piega indietro la testa. Cerca con gli occhi alzati gli occhi di Catullo curvo, e con la mano la mano di Catullo. Così rimangono un momento brevissimo. Poi Catullo cade bruscamente in ginocchio e le ammignatta la bocca. Quando si sono staccati Catullo l’alza in piedi violentemente, scuotendola per i polsi, e parlando con la voce arrochita). CATULLO. Hai capito? (un silenzio). Questa è una cosa grave. Troppo grave (un silenzio). Lesbia, non è come il solito. Hai capito, dimmi? (un silenzio. La coglie sulle braccia. Esce correndo. La scena rimane deserta. Si sente il chioccolio della fontana. Ipsitilla rientra. Cammina adagio. Va alla fontana). IPSITILLA. Ma ora nessuno indovina che questa fontana piange (vede, in un angolo, ai piedi di un cipresso, il libro spezzato. Lo raccoglie. Ritorna via).
Fine
del
primo
atto
[« La chioma di Berenice », dramma
da LE
CAMPAGNE
SENZA
in 3 atti, Athena, Milano
1924]
MADONNA
LR ZI OM AMETIO
Un cielo più serale sullo stesso spazio di terra. Primetta e Maria stanno in piedi, nel mezzo del campo. PRIMETTA. E allora? MARIA. Mio marito era trovatello, come sai, ma lo adottò una famiglia di mezzadri;
e per via di matrimoni e morti si trovò a capo del podere verso i venticinqu’anni. PRIMETTA. Così fu che vi prese in moglie?
MARIA. Sì. Anch'io, come te, uscivo da una razza di contadini; e pensavo che gli uomini fossero tutti come i miei fratelli.
Di
PRIMETTA. È invece, dopo sposa, v’accorgete che il vostro uomo è diverso... MARIA. Non ci potevo credere. Pensava a tante cose che non entravano nel suo lavoro; e poi non dirigeva, non comandava, lavorava poco, alla men peggio. E il podere era il più brutto a vedersi della fattoria, tanto, che si diventava sem-
pre più poveri, e per campare bisognava ricorrere a mezzi non puliti, come vendere il concime e ingrandire la nostra metà fino a farne tre quarti. PRIMETTA. Oh! Questo si è usato sempre anche da noi. MARIA. Sì, e non che ci sia poi tanto male; ma bisogna farlo con garbo. Non so, insomma; a casa mia mi sembrava naturale, e lì no.
PRIMETTA. E allora avete gridato, vi siete imposta... MARIA. Piangevo. Non riuscivo a capire: m’avevano insegnato che le donne devono obbedire, e io ero sempre pronta a obbedire, dalla mattina prestissimo alla sera; e mi sbarazzavo in furia delle faccende di casa, per aiutare il mio uomo, non so, dove volesse.
PRIMETTA. E quello, almeno, v’era grato. MARIA. Non ci badava neppure. Mi lasciava libera, oppure mi faceva far dei lavori senza senso, che mi struggevo tutta a obbedirgli; e aveva sempre quell’aria annoiata e stanca. PRIMETTA. Ma voi non gli rispondevate mai, quando v’imponeva delle cose non giuste? MARIA. Qualche volta; ma s’arrabbiava terribilmente. Io avevo paura, paura, e piangevo, sempre di nascosto, perché le donne devono mostrar solo una faccia allegra, se no gli uomini se ne stufano. E poi, un giorno, ho stabilito, che invece di ribattere (che non si deve mai) bisognava operare come giudicavo meglio, senza dir niente. PRIMETTA. Ma allora si sarà stizzito più che mai... MARIA. Non se ne accorse. Anzi fu contento. Gli uomini sono così; è inutile domandarsi perché. Allora, finché mi riusciva senza che lui se ne avvedesse, dirigevo io, e miglioravo le terre, perché io, che vuoi, ci son nata e cresciuta, e per
la terra ho passione. Quel giorno ho capito, Primetta, che il mio uomo era di razza diversa, cittadina forse, e non si poteva pretendere che avesse amore alla terra, poi che nel sangue nessuno glielo aveva messo. D'altra parte, era forse colpa sua se dei genitori senza cuore l’avevano esposto? Io mi son rassegnata, sì ch'egli non era proprio scontento della sua moglie. Ma sai quando ho ricominciato a disperarmi? (pausa). Quando nel figlio ho visto rinascere il padre. Quel giorno ho capito, Primetta, che il mio uomo era di razza diversa, cittadina forse, e non si poteva pretendere che avesse amore alla terra, poi che nel sangue nessuno glielo aveva messo. D'altra parte, era forse colpa sua se dei genitori senza cuore l’avevano esposto? Io mi son rassegnata, sì ch’egli non era proprio scontento della sua moglie. Ma sai quando ho ricominciato a disperarmi? (pausa). Quando nel figlio ho visto rinascere il padre. PRIMETTA. Per questo, Maria, capivate tante cose, che erano nascoste nascoste, anche a noi. MARIA. Fino ad ora ho sperato che i guai si spegnessero per conto loro; che si sarebbe trovato un accordo, d’istinto, senza che venisse fuori chiara la vostra di-
versità. Perché alle volte, è meglio non capirla, Primetta. Ma oramai... (pausa). PRIMETTA. Allora... (pausa). Sarebbe di nuovo così, come quando siete stati sposi voialtri... (pausa). E ora sono sola (pausa). Ma come ho da fare, io! Quando 509
vedo una cosa che non mi garba, devo dirlo, anche a mio marito. E poi, un uomo così, non mi sembra un marito vero, ecco. In fondo, gli voglio pur bene; ma come a un figliolo discolo, da sgridare. MARIA. Eppure, se ora che viene... PRIMETTA. Non verrà. È partito di casa stamane all’alba senza dirmi niente. MARIA. Ma sì, a me, ti dico, ha risposto, abbracciandomi, che sarebbe andato al vivaio, per scegliere i piantoni degli olivi, e poi sarebbe venuto a piantarli. Non so perché, del resto, a quest'ora. PRIMETTA. Di sera? MARIA. Primetta, se ti mettessi costì... PRIMETTA. Dove? MARIA. Sotto l’olivo. Io me ne andrò, ti lascerò sola. PRIMETTA. Ma perché?
MARIA. Bisognerebbe mostrargli come l’ami ancora, pregandolo, chiedendogli scusa. Ti ripugna? Non ti riesce? Eppure, se vuoi che rimanga, se non vuoi che vada a morir di stenti chissà dove, per dispetto, per disperazione, è necessario che intravveda in questa casa distrutta una speranza di pace (pausa). Arriverà con una faccia sconvolta e al pésto t’accorgerai che è furioso. Ma tu non devi
aver
paura,
perché
sai bene
che
in fondo
sarà
contento,
di ritrovar
la sua moglie in attesa. Ti griderà: « Che vuoi, qui? ». Allora tu, invece di rispondergli con la voce dura, come di solito, gli dirai: « Ti aspettavo », e lui: « Lasciami in pace »; e subito dopo, senza attender la tua risposta: « Parla! Dimmi! ». E tu: « Giovanni, dobbiamo dimenticare quel che è successo ieri ». E lui: « Non lo scorderò mai! ». E tu: « Allora, te ne vuoi andare? ». « Sì ».
«Quando? ». « Non so» — perché non può ancora aver stabilito. Tu starai zitta un momento. Poi gli dovrai chiedere scusa, parlando come ti detta il cuore, dentro, senza vestire i buoni pensieri di spine. Gli dirai che ieri non potevate parlare secondo ragione, per via dell’accaloramento. E quando si sarà commosso,
fatto mite, buttagli le braccia
al collo, stringitelo forte e non
lasciarlo più andare; ti riuscirà, se ne hai voglia, perché le braccia della moglie son più forti che quelle della mamma (sta in ascolto. Poifa un cenno. Esce in fretta da una parte. Entra dall’altra Giovanni, in giacchetta, spingendo un carrettino, colmo di piantoni di olivi, con la paglia intorno alle radici vestite di terra. Primetta è immobile sotto lPolivo). GIOVANNI (con voce calma). È bene che tu sia qui, perché così ti saluto. PRIMETTA. Mi saluti? GIOVANNI. Ho stabilito di partire per la Francia, alle ventiquattro. Il posto nella diligenza è già fissato. PRIMETTA (stupefatta). Ma è certo? GIOVANNI. Si. PRIMETTA. E la mamma? GIOVANNI. Stamane, l’ho baciata come per sempre, l’ho salutata dentro di me. Ma non gliel’ho detto; perché sapevo che non avrebbe potuto resistere a piangere, che avrebbe voluto tenermi; e tu capisci che io non volevo di queste scene,
perché è già duro così... (pausa). A te lo dico giacché non vorrai trattenermi, né ti metterai a piangere. PRIMETTA (ha come un movimento represso). Ma... (pausa). GIOVANNI. Che volevi dire?
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PRIMETTA. Non so. Mi aspettavo che tu fossi diverso: come ieri... Non così calmo... (bruscamente). E al bambino non ci pensi, nevvero? GIOVANNI. Sì che ci penso. Sono andato a vederlo or ora, di nascosto da tutti, mentre
giocava, e gli ho regalato un organino enorme, che farà arrabbiare la sua mamma (sorride). E poi ho avuto un’altra idea buffa. Sono un po’ fantastico, io. Dal vivaio, ho scelto dieci piantoni, e li pianterò nella fossa, perché il bimbo dica
poi: sono gli ulivi che ha piantato il babbo prima di partire. (St leva la giacca. Incomincia a scaricare è piantoni). PRIMETTA (impulsivamente). Non vorrai mica piantarli senza gli scolaticci? GIOVANNI (interrompe il lavoro ridendo). Riconosco Primetta. Quella degli scolaticci. PRIMETTA (un po vergognosa). Ma gli ulivi, se no, marciscono... GIOVANNI. Marciscono! Ma ormai puoi dire e fare come ti piace. Non m’inquieti. Perché mi par d’essere già via; guardo le cose come se fossi in Francia, e questo qui che vedi non fosse propriamente Giovanni. Eppure, d’altra parte, non mi riesce di immaginarmi partito fra cinque minuti. PRIMETTA (con un accento in cui non sa mitigare la consueta rudezza). Resta. GIOVANNI. Senti, che tono! PRIMETTA. Ah! Sei allegro? Sei contento di andartene? GIOVANNI. No, Primetta. Come puoi domandarmelo? Sento un peso enorme, qui. E quando volgo intorno gli occhi sul mio paese, pensando che lo devo guardar bene bene, perché fra poco queste cose, che ora le vedo, dovrò immaginarmele... PRIMETTA. Ma se non ti ci potevi vedere? GIOVANNI. Eppure è bello. E poi, sono conosciuto da tutti... PRIMETTA.
Bella nomèa,
che ci hai!
GIOVANNI (alza le saplle). Che importa? Per tanti chilometri di qui o di là, o di là, quando incontro qualcuno posso dirgli: felice giorno, Giuseppe! E quello mi risponde nella mia lingua. Ci pensi tu, che cosa vuole dire trovarsi in un paese dove nessuno ti conosce, e parlano diverso? (pausa). E poi, nel mio paese, quando cammino sulla via maestra mi dico: di qui ci passava Primetta per andare a portare il latte, e io la seguivo, da bimbo. Nei campi, trovo sempre un albero che mi fa pensare: qui ho dato il primo bacio a Primetta; o una treggiaia dove t'ho accompagnata a sera, tornando dalle vendemmie; o una pietra su cui Ci siamo seduti stretti stretti a fabbricar dei sogni; o una capra che mi rammenta la tua capretta, quando venivo a vederla mungere. Tu non te ne sei avvista: ma se ho potuto vivere fin qui, è perché tutte le volte che non mi stavi dinnanzi, ti ritrovavo da ogni parte com’eri prima. PRIMETTA. E allora, perché partire? GIOVANNI. Non me l’hai forse gridato tu, ieri sera? PRIMETTA. Oggi ti dico di restare. GIOVANNI. Ah! Vedi? Ma non t’accorgi che se io resto ancor qui, la giornata di ieri sarà come un’ombra immensa su tutta la vita? (con voce lenta). Ora non pensi, Primetta, che niente è mutato, da un mese a oggi, se non quello che è peggiorato. Oggi vorresti tenermi. Ma una volta che avessi detto: resto, ti persuaderesti subito che io potevo dire solo: resto, e si incomincerebbe da capo, tanto la mia presenza sarebbe di nuovo naturale. Perché tu non potrai mai capire la gioia di suonare l’armonica, di vedere una casa dipinta ad arte, di passeggiare la notte.
PRIMETTA. E tu non potrai mai capire quella di avere una terra. 137
GIOVANNI. Appunto. E ci si urterebbe ancora, sempre di più, perché io non potrò dimenticare quello che mi hai detto ieri. PRIMETTA. E tu hai voluto buttarmi in terra. GIOVANNI. Allora la noia e la rabbia e la disperazione e i ricordi mi scaverebbero così presto, che reggerei a vivere quanto basta per rovesciar la sciagura su tutta la casa. Oppure mi consumerei adagio fino a morire senza che tu lo sappia, per gli stenti e l’umiliazione. Bisogna dunque che me ne vada, che me ne vada, che me
ne vada.
PRIMETTA. Ma dove? GIOVANNI. Ve lo farò sapere (pausa). Pensare che non conosco niente — che sarò tra ore in mezzo a gente strana (pausa). PRIMETTA. Hai paura. GIOVANNI. No che non ho paura! Perché mi dici che ho paura? PRIMETTA. Perché è vero. E i denari? GIOVANNI. M°è rimasto qualcosa in tasca. Ma non ne voglio, da te. Ne avete bisogno, per pagare il bove. Che ho da temere, io? Sono un uomo solo. Me ne infischio del mondo. E poi mi resta poco da campare. Che ho da temere, io? (pausa. Estrae dalla tasca il fazzoletto rosso di Primetta e glielo porge). Tieni. PRIMETTA (lo prende e se lo rigira fra le mani). Ma io, tutta sola, che cosa farò? GIOVANNI. Mah! Io non tornerò certo, e poiché sei giovane e bella ti prenderà un altro. Dio, Primetta, quando ci penso (ma come è possibile?) mi viene una tristezza, pesante, dappertutto, e mi metto a sognare la mia fidanzata, che si rideva insieme. E ora riderà con un altro? Eh già. Dunque bisogna partire presto, non pensarci più (e che cosa pensare?) e si dimenticherà tutta la vita fino a questo momento, che te lo dico. (No, ancora un momento, ma che si consuma). Sarà come se si cominciasse a trenta anni. Mi ricorderò l’infanzia quasi che fosse quella di un altro. La vedrò come un’ombra che non ti sia attaccata ai piedi. La vedrò come se fosse dietro un vetro. Altri amici, un camposanto che non conosco. (Quanti morti che non conosco! Quanti vivi che non conosco!) E tutto questo perché fra pochi istanti sentirò il cocchiere che griderà: « Oh! Giovanni! ». E poi la diligenza scenderà la china, in modo che mi dirò: ora vedo quella casa per l’ultima volta (e perché mai?), e la mia moglie si risposerà (e con chi, per quale ragione?); e la mia mamma? E la mia mamma? (mentre parla, finisce di scaricare à piantoni). Si sente una voce. Oh! Giovanni! (Giovanni impietra, lasciando cascare un piantone). LA voce. Oh! Giovanni! (Giovanni fa per muoversi; quando Primetta, per salutarlo, non sapendo come liberarsi del fazzoletto, lo ripone in testa). GIOVANNI. Quel fazzoletto! PRIMETTA (con ansia). Che cosa? GIOVANNI. Come il giorno delle nozze. Il fazzoletto rosso e la veste turchina — la nostra Madonna... PRIMETTA. Addio, allora (pausa). LA VOCE (più forte). Oh! Giovanni! GIOVANNI (è immobile, con le mani lungo i fianchi). LA voce. Ti si vede benissimo sai! Che fai all’amore con la tua moglie? Vieni o non vieni? (silenzio). Non ti vergogni? Dopo tre anni di matrimonio! Se non rispondi e non ti muovi, ce ne andiamo. Credi che si faccia solo il comodo tuo? (silenzio). Uno! (silenzio). Due! (silenzio). Tre! E va al diavolo! (schiocco di frusta). 138
GIOVANNI. Eri come allora (pausa). PRIMETTA. Così, resti? (pausa). E allora non piantare olivi senza gli scolaticci! GIOVANNI. E sarà l’inferno, poi che sei così bella e non ho osato partire. (Primetta vorrebbe abbracciare il marito, ma Giovanni l’allontana. Rimette i piantoni nel carro e spinge Primetta fra le due stanghe). GIOVANNI.
Va, va pure,
con
i tuoi olivi sacrosanti.
Nessuno
li tocca, i tuoi olivi.
(Primetta è spinta adagio fuori del campo. Giovanni resta solo, immobile. Cade in ginocchio dinnanzi al tabernacolo). Vergine Maria, non so come ti pregano gli uomini, ma siccome sei pietosa e donna, capirai che ora credo in te per la prima volta e ho tanto bisogno d’aiuto. Fine [« Le campagne senza Madonna », dramma
in 3 atti, Athena, Milano
1924]
da ANGELICA L’aurore teint le ciel et les clochers de rose. Dans l’ombre, la ville est encore violette.
ORLANDO (ouvre les yeux). Le jour commence et je vais mourir. Mourir. Mourir... verbe étrange... Mourir... N'est-ce pas cette chose qui arrive aux autres? (un silence). Et en ouvrant les fenêtres vous verrez encore le grand soleil du matin illuminer la poussière, et vous verrez les arbres, le ciel, les oiseaux, des femmes qui sourient et qui aiment, des hommes qui souffrent, des moissons qui croissent, des grandes pluies, des sécheresses et mille et mille événements. Vous verrez encore des automnes à l’air transparent, où les bruits sont purs et résonnent au loin, où les abeilles sont douces à entendre, où le ciel est vert et toutes les choses sont lasses; et des printemps trop vastes, surhumains et indifférents, et vous suivrez, avec l’attente perpétuelle de quelque chose de meilleur, le changement des saisons (un silence. Il est pris par un istant de délire). Je vous déteste! Allezvous en! Vous croyez connaître la vie parce que vous vous souciez de vos intéréts! Intéréts, ignoble carapace du monde! Hommes, pourquoi donc ne croyezvous plus à rien? Parce que vous n’étes rien, et que vous voulez mesurer le monde sur vous-mémes. Mais vous serez toujours malheureux, si vous continuez à avoir une si médiocre idée du bonheur! Qu'est-ce que je dis? (un silence). Je ne veux pas mourir en vous haïssant. Vous ne savez pas encore d’où je suis venu — pourquoi m’aimeriez-vous? Je vous le confesserai donc: je suis né moi aussi dans cette ville. Mais je l’ai abandonnée pour ne plus voir toutes les injustices que l’on y faisait. Je me suis dit: « Pourquoi cette ville, de tout temps et sous tous les rois, a-t-elle couronné la bétise, a-t-elle crucifié le génie? Ses héros sont donc les plus grands du monde, s’ils ont pu lutter pour leur patrie malgré elle? Il y a devant la vie une attitude à prendre, qui est vitale ou mortelle. Les villes fleurissent là où les hommes savent ne pas tuer la vie. Qui a jeté dans nos cœurs ce sombre enivrement de la mort? ». Et j'ai abandonné mon pays. Mais de loin j'avais la nostalgie de son grand soleil, de ses vignes blondes, de
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ses crépuscules consumés par une antique langueur, de sa mer opaque qui tremble au fond de ses plaines, de ses femmes douces et dévouées, de ses hommes au regard intuitif, de ses marbres, de ses silences, de sa magnificence désespérée. N'est-ce pas cela qui a attiré tous ses martyrs? Comme une maîtresse merveilleuse et indifférente, on ne peut pas l’oublier et on désire mourir pour elle. Je suis revenu, mes amis, en me disant que cette ville était trop belle pour qu’on la laisse tomber en ruine... (un silence). Et je suis revenu sans espoir. LA PATRONNE (sort du café, à moitié vêtue). C’est donc vrai qu’Orlando est mort! O ciel! C’est donc vrai! Qui a tué cet homme? Quel est le vaurien, l’assassin, le traître, le Judas qui a tué Orlando? Jésus-Christ, qu’il est pâle! Au moins, apportez-lui un coussin! (elle sort et rentre avec un coussin). Dites donc, Docteur, est-ce qu’il va vraiment mourir? Mais qui a tué Orlando? Seigneur, qu'il doit souffrir! C’est lui qui nous a sauvés. Sans lui, nous serions tous des esclaves. Qu’auriez-vous fait, vous tous? Vous, les ministres? Vous, les industriels? Rien!
Rien! Rien! Et vous l’avez laissé tuer! Et vous ne l’avez pas défendu! Orlando, c’est un héros! rous. C’est un héros! C’est un héros! C’est un héros! Vive Orlando! Vive Orlando! ARLEQUIN. Il faut lui faire un monument! ORLANDO (il ouvre les yeux). O mes amis, pourquoi, pour aimer ceux qui vous aiment, attendre qu'ils soient morts? LE DOCTEUR. Il est mort (les hommes enlèvent leurs chapeaux, les femmes s’agenouillent. La scène est plongée, pour un instant, dans l’obscurité. On entend une marche funèbre. Quand la lumière revient, on voit la méme place, pleine de soleil et de foule, quelques heures après. Entrent quatre hommes en noir qui portent, sur un brancard, le corps d’Orlando. Ils passent. Tous les personnages de la pièce passent à leur suite, très graves, deux par deux). PANTALON. Sans en avoir l'air, c'était un malin; mais il a trop voulu ruser et il en
est mort.
MENEGHINO. Ce n’était pas un homme politique: c'était un poète qui maniait le sceptre comme si c'était une plume (ils passent. Entrent le Dr Bolonais et Valerio). LE DOCTEUR BOLONAIS. Il était si vain, qu’il mettait tout son point d'honneur à paraître simple, et toute sa force à dédaigner les hommages qui l’enivraient. VALERIO. C'était un faible, qui voulait avoir l’air d’un fort (ils passent. Entrent Tartaglia et Pulcinella). TARTAGLIA. Il sa-savait soulever l’enthousiasme; mais il ne savait pas se faire respecter: ce n'était pas un maître. C’état un démagogue. PULCINELLA. Il avait sourtout de l’ambition; mais il ne serait arrivé à rien, parce que de vagues préjugés l’auraient toujours empêché d’être vraiment lui-même. Ce fut un arriviste manqué (ils passent. Entrent Scaramouche et Francatrippa). SCARAMOUCHE. Il croyait à la force des sentiments, à la puissance des idées, à l’importance des lois, à la valeur des traités — autant dire qu’il ne croyait à rien de sérieux. Jamais il n'aurait conquis un empire, ses ambitions étaient trop petites. FRANCATRIPPA. Il savait quelquefois agir; mais il ne savait point penser. Il était conséquent dans ses idées, c’est-à-dire qu’il n’était pas attaché à la réalité. Il croyait être un poète, et ce n’était qu’un homme politique (ils passent. Entrent le lieutenant et Isabelle). LE LIEUTENANT.
L’avez-vous
vu
monter
à cheval,
Madame?
ISABELLE. Il était tout à fait ridicule, ne m'en parlez pas (ils passent. Entre Arlequin. Angelica arrive en courant).
140
ARLEQUIN.
Vous étes en retard Angelica!
ANGELICA.
Avez-vous
en
enfin
Mais quelle jolie robe!
la commande?
ARLEQUIN. Oui, c'est moi qui lui ferai le monument (ils passent. Entrent Brighella el Gianduia). BRIGHELLA. Après tout, c'était un brave homme. GIANDUIA. Qui, mais à quoi bon faire le sacrifice de lui-méme? Pour qui? Pour quoi? Les hommes comme Orlando, sous tous les régimes, en tout temps et dans tous les pays, seront crucifiés par leur peuple (Brighella lève les épaules. Ils passent. Entre la patronne). LA PATRONNE (elle sanglote très fort, elle passe). Rideau [« Angelica », Rieder, Paris 1934]
I4I
PROSA
da ESPOIRS III. LA
VOIE
AU
BONHEUR ET LA VOIE À DIEU INDIRECTES ET DÉTOURNÉES
SONT
DES
VOIES
1. On ne croit pas que les grands événements arrivent! On le sait, on en est sûr, mais pourtant on n’y croit pas quand on est au milieu. Un homme mûr a fait mille fois l’expérience du changement des choses; il a vu mille fois sa vie, relativement calme, interrompue, transformée par un événement soudain. Mais malgré tout il persiste à vivre comme si tout était immuable. Le 24 mai 1915, le gouvernement italien déclara la guerre à l’Autriche, et aussitôt — après quelques jours d’excitation (la guerre, comme toute catastrophe générale commune à tout le monde, provoque une excitation qui a je ne sais quoi d’agréable) après la première surprise, les premiers enthousiasmes, la première colère, les premiers adieux, les premières douleurs — tout le pays loin du front, commenga à trouver la guerre aussi naturelle que la paix. On ne le disait pas. On se demandait: « Quand est-ce que cette guerre va finir? », et ceux qui avaient au front des étres aimés vivaient dans l’angoisse. Mais malgré l’angoisse, la tristesse, le désespoir, le fait est qu’en août 1916 on s'était habitué à la guerre comme à quelque chose de naturel et d’inévitable. Depuis un an l'Italie était en guerre, et dans le fond de l’âme, tous, à l’arrière,
avaient l’étrange conviction que la guerre ne finirait jamais. Pourquoi finirait-elle ? De même qu’on ne croyait pas à la fin de la paix, alors que tout le faisait pressentir, on ne croyait pas à la fin de la guerre encore que la raison eût mille arguments indiscutables pour prouver qu’une guerre ne peut pas être éternelle. Ceci était vrai en Italie surtout pour les jeunes gens et les adolescents qui allaient entrer dans le gouffre de la guerre. Ceux-ci n’avaient au fond aucune idée réelle de la paix. Pour ceux qui sont nés au commencement du XXe siècle, la paix est un mythe rétrospectif dont leurs parents rebattent les oreilles pour les persuader que tout va mal. Ils sont convaincus, en apparence, que ce paradis a dû exister; mais en réalité ils ne comprennent pas que tout va mal. Après tout, rien n’est aussi naturel pour eux qu’une déclaration de guerre et que l’annonce d’une bataille où trente mille hommes ont péri. Ils ont toujours vécu dans cette atmosphère. La guerre de Tripoli d’abord, ensuite les guerres balkaniques, ensuite la guerre européenne. Ils n’ont vu le monde qu’en état de guerre depuis l’âge de la raison. En 1916, les jeunes gens ne souffraient en Italie de la guerre que dans la mesure où elle compliquait le problème de la nourriture et du chauffage, et diminuant les ressources pécuniaires de la famille, les obligeait à une vie d’économie. Mais même ces problèmes étaient assez secondaires. En Italie on mangeait mal, mais on mangeait, et tout le monde en était réduit au même pain bis et aux mêmes boîtes de conserve, ou, quand l’occasion se présentait, à acheter des salamis ou du jambon pour six mois, et à les manger tous les jours matin et soir. Un malheur com-
142
mun n'est pas si douloureux, encore que les enfants et les adolescents, dans leur inconscience, eussent le courage de se plaindre de la nourriture sans se rendre
compte le moins du monde des difficultés de la leur procurer. Les déséquilibres budgétaires furent plus douloureux parce qu'ils étaient inégaux. Ceux que la guerre ruinait pardonnaient mal à ceux que la guerre enrichissait une
insultante
aisance;
et, surtout
au lycée où l’on est très sensible à la diffé-
rence de classe, de richesse, d'élégance, de bien-être, de prestige, les appauvris souffraient en se voyant obligés à porter le même costume pendant des années. Mais ce fut à peu près tout. La vérité est que la jeune génération, surtout celle qui n'a pas fait la guerre, n’a rien compris à la tragédie, à l’horreur de la guerre; qu’elle a supporté avec beaucoup plus de sérénité les défaites de son pays que la honte de porter un vieux costume pendant des années. Oui, tout le monde se plaignait alors et se plaignit depuis des horreurs du temps; mais les hommes n’avouent jamais que ce qu’ils doivent éprouver. Et d’ailleurs, tel est notre amour de nous-mêmes qu’un petit malheur personnel nous semble infiniment plus douloureux qu'une catastrophe universelle. Ceci est vrai surtout des adolescents qui n’ont même pas l’expérience et les connaissances suffisantes pour se rendre compte qu'une catastrophe universelle peut les attendre. i. Les événements du 15 mars 1915, surtout l’émeute de la foule et l’insurrection des camarades contre lui, avaient été une rude secousse pour Bernardino. On oublie même à cet âge délicat les événements les plus douloureux quand, leurs ravages accomplis, ils disparaissent dans le passé. Mais ces deux événements continuaient à agir sur Bernardino. Sa mère n’était pas guérie du coup de feu, qui l’avait atteinte au Ponte alla Carraia. La balle n’avait pas été retrouvée, des interventions chirurgicales peu heureuses obligeaient Francesca à passer des semaines dans une clinique, loin de ses enfants, pour suivre des traitements douloureux
et ennuyeux.
Et depuis le jour de l’émeute, Bernardino, qui avait un si pressant besoin d’être aimé et admiré, sentait grandir autour de lui la froideur. Sous prétexte « qu’il n’était pas bon patriote », Bernardino avait été exclu cet hiver-là des réceptions et des bals, dont il avait été jusque-là un des invités les plus recherchés. Le mauvais esprit avait gagné aussi le groupe de jeunes élèves (du Conservatoire, de l’Académie, de l’Université) avec lesquels depuis deux ans il se réunissait
au
café des
Giubbe
Verdi
pour
discuter
d’art, de
philosophie
et de
littérature. On lui avait retiré la critique musicale qu’il avait été chargé d’écrire dans une petite revue de jeunes. A ces coups d’épingle, il répondit sur le moment avec un dédain souriant et une excitation presque joyeuse. Il se moquait avec humour des réceptions manquées, de la mesquinerie des rivaux, des jugements de « ces idiots » qu'il flétrissait dans des poèmes satiriques. Il avait remarqué tout enfant que « les autres » s’acharnent contre celui qui laisse apparaître sa souffrance, et il avait si bien appris à la cacher, à la refouler en dedans que quelquefois il était, lui-même, dupe de sa manœuvre. Mais ces petits échecs l’affligeaient beaucoup et cette affliction, dont il était honteux et qu’il refoulait dans son moi le plus profond, la jugeant indigne de lui, le tourmentait horriblement. Que la vie véritable est différente des rêves de la prime jeunesse! Avec son imagination vigoureuse et minutieuse, Bernardino avait prévu une carrière brillante, dans laquelle seulement ses efforts et la perfection de son art auraient de 143
l'importance. Il s’apercevait maintenant qu'il y avait des obstacles de tout autre nature et qu’il n’était pas dans son pouvoir de les abattre. Les romans qu’il avait lus, avaient contribué à le convaincre jusqu'alors que partage les hommes en heureux et malheureux. En se comparant aux persort le sonnages de ces romans il s'était trouvé de taille à être comblé. Génial, fort, souple, ardent, capable de jouir de tout, n’était-il pas prédestiné à arracher au destin toutes les concessions possibles? Quel choc à s’apercevoir qu’il pourrait lui arriver de devoir se ranger parmi les personnages malheureux! Il ne pouvait pas comprendre encore et admettre que « les personnages malheureux » ce sont « les hommes » car la souffrance est positive et réelle, la joie négative et chimérique. Quand, au commencement de juillet de 1916, Bernardino partit pour « L’Ombrellino », il était en plein désarroi. Mimi avait quitté Florence deux mois auparavant, on ne savait pas très bien ni avec qui ni pour où. Elle avait tout embrouillé avant de partir par des quiproquos, des complications, des erreurs qui lui étaient naturels, mais qu’elle exploitait plus ou moins consciemment pour ses propres fins. Il est difficile de savoir jusqu’à quel point un être est sincère ou joue la comédie, quand il exploite délibérément les défauts de son caractère. Mais disparaissant derrière une brume de coups d’ceil éteints au bon moment, de promesses démenties par le ton de la voix, d’espoirs suggérés, mais pas assez clairement d’un geste, ou par un acte de tendresse qui pouvait être interprété de mille manières, Mimi avait laissé en héritage à Bernardino assez de regrets, de doutes, pour en détruire radicalement un jeune homme de dix-huit ans, à cet âge de l’adolescence souillée par la concupiscence, embrasée par un besoin de prendre et de donner qui ne parvient pas à s’assouvir, et qui peut se transformer en délire, provoquer des crimes ou des actions héroïques. C'était justement pour retrouver un peu de calme et d'équilibre que Bernardino avait renoncé aux bains de mer pour « L’Ombrellino », la villa où il avait passé son enfance. On conseille à l’homme meurtri ou angoissé de changer de lieux, de «se distraire ». Mais c’est seulement dans sa propre maison que « le moi » s’endort. La répétition des actes familiers stupéfie. Par contre, un monde étranger exalte « le moi » et avec «le moi» les passions et la souffrance. Le calme
des lieux familiers,
la vie paisible, solitaire
et monotone
parmi
les
arbres qu’il avait vus pousser, les collines qu’il avait contemplées dès sa plus tendre enfance avaient apaisé Bernardino. Pour juger les choses, pour les accepter ou les refuser, l’homme doit s'interroger et il ne s’interroge bien que dans la solitude. Il reprend
alors contact
avec
lui-même;
il découvre
en lui des inclinations
ou
des
répulsions ignorées. Quelle souffrance s’il souffre, mais qu’il est heureux s’il est heureux! Comme elle n’était plus là il pouvait l’aimer avec une ardeur illimitée. Il s'était mis à étudier la musique avec la fougue avec laquelle les chastes tentent d’épuiser une vitalité surabondante; il s’efforçait de se débarrasser de son désir en l’aiguillant vers les lumineuses régions de la gloire. Il comptait y trouver quelque chose de tellement extraordinaire que l’amour même lui semblerait une médiocre chimère. Mais ses rêves de gloire étaient intimement mélés à des rêves d’amour. C’étaient toujours des femmes qui l’applaudissaient. Il imaginait la gloire comme un théâtre plein de femmes qui tombaient toutes amoureuses de lui. La musique est un art pour chastes. Bernardino s’était mis à l’étudier sérieusement sous la direction de son oncle, à cette période de la vie où il était tombé amoui
reux de Mimi. Quand on fait l'amour régulièrement on résiste à la musique, on l’écoute avec l’esprit. Mais la musique avait un empire bien plus grand sur Bernardino; il croyait que c'était parce qu'il était naturellement musicien; en réalité c'était parce qu'il était chaste. La musique l’apaisait; elle troublait et détendait ses nerf; elle les faisait vibrer avec
la même
intensité
qu'une
caresse;
mais
elle était infiniment
plus pure,
plus
parfaite et moins terrestre qu’une caresse; c'était une sensualité où il n’y avait ni sueur, ni fatigue, ni angoisse, ni pores. La musique le laissait détendu et mélancolique, mais un peu étonné de son voyage, et quelquefois légèrement sceptique. C’est que de tous les arts la musique est celui qui arrache le plus l’homme à lui-même, ou ce qui est à peu près la même chose, qui le rejette dans ses profondeurs. Quand il écoutait de la musique Bernardino s’éloignait peu à peu de cette zone de préoccupations journalières que les Hindous appellent «les vrittis »; tous les détails perdaient leur étrange, immédiate, absurde importance comme s’il pouvait regarder la vie sub specie aeternitatis; et il se sentait projeté dans cette partie du moi où tout est immobile et permanent. Il ya en nous je ne sais quoi de persistant, d’éternel, un nucleum, une unité que les vagues de la vie quotidienne couvrent et recouvrent sans cesse et que la musique semblait tout d’un coup découvrir aux yeux de Bernardino. En méme temps il sentait passer le temps, il percevait la durée, le ruissellement des choses, le panta rei. Cela tenait, je pense, aux phrases musicales, qui sont si évidemment immergées dans le temps et le rendent sensible, je dirais presque dense. Dès les premières notes Bernardino se sentait « devenir ». Il avait parfois d’étranges fantaisies. S'il était, par exemple, à un concert, au thèâtre, ou même au café « les autres » lui suggéraient des pensées qu’ils ne lui auraient jamais suggérées en temps normal; il voyait avec une clarté extraordinaire toute la courbe de leur vie. Ou alors il se découvrait lui-même en un geste, il voyait « son propre visage », il s’imaginait que tout le monde devait l’aimer, tant il se sentait tendre; il se pensait, se souvenant de ce moment; le passé perdait son pouvoir sur lui; il n’était plus qu'une image sans force, qu'il regardait sans voir; l’avenir ne l’inquiétait plus; il vivait dans l'instant, et en même temps dans cette partie de lui-même qui était éternelle, mais comme s’il n’était pas lui-même, ni seul. Parfois, pendant ces moments d’exaltation, il avait une
immense
pitié de lui-
même, ou il avait envie d’écrire des sottises sentimentales, pour soulager ce je ne sais quoi de trop abondant dont il était plein à crever. Ce n’était alors qu'une manière indirecte de se chercher un témoin de sa propre émotion, le papier prenant la place de cette femme idéale qui aurait dû comprendre tout et l’admirer infiniment. « Quand est-ce que cette terrible solitude finirait-elle donc? Jusqu’à quand devrait-il se borner à ‘se dire’ toutes ces choses à lui-même; ces choses qui existeraient bien autrement s’il pouvait les lui dire, à elle ». Mais parfois il s’absorbait réellement dans la contemplation de ce moi durable, essentiel qui se révélait à lui comme par un coup de baguette; et il lui semblait regarder la porte ouverte d’une cave. Il se réveillait de la musique comme
d’un sommeil;
il revenait à la vie normale
emportant avec soi le souvenir de je ne sais quel étrange paysage. Peu à peu les préoccupations journalières accouraient, les unes après les autres, par groupes, comme des pigeons qui se communiquent les uns aux autres qu’il y a de quoi manger
58)
dans un certain point de la place S. Marco. Bernardino recommençait à se rendre compte du présent, à craindre l’avenir, à se souvenir du passé; et il perdait de vue
peu à peu cette partie immobile pendant
un moment.
et éternelle de son moi qu’il avait découverte
Alors, selon les jours, il souriait avec
scepticisme
en levant
les épaules et tàchant de se débarasser complètement des derniers souvenirs de ces moments de joie, comme de quelque chose de faux et d’artificiel dont il aurait été la dupe. Parfois au contraire il tàchait de conserver en lui aussi longtemps que possible l’impression de ces minutes comme on cherche à se souvenir d’une douce image que l’on a révée. Pourtant il ne croyait pas à la réalité profonde des visions qu'il venait d’avoir; il croyait beaucoup plus à la réalité des images trompeuses et passagères que lui suggérait la réalité de tous les jours. Il faut beaucoup d’années pour comprendre que tout ce que nous sentons et pensons tous le jours, quand notre esprit est à froid, est infiniment moins vrai et moins juste que ce que nous sentons dans l’état apparemment artificiel où nous met la musique. Il s°était donc mis à étudier la musique avec une passion extraordinaire; il était surtout tenté par l’orchestration, qui avait pour son imagination je ne sais quoi de particulièrement magique; mais au fur et à mesure qu’il pénétrait dans les détails de l’orchestration, sous la direction intelligente de son oncle, la musique sollicitait de plus en plus son esprit, mais elle le mettait de moins en moins dans cet état d’exaltation où il avait la perception du mo? profond. Il remarquait l’entrée des bois, dans une symphonie, là où il aurait auparavant tout simplement éprouvé un frisson. Il est bien dur de devoir constater que tout ce que nous gagnons d’un côté nous le perdons de l’autre et que nos désirs se contredisent et s’entremélent d’une façon si embrouillée, que nous n’arriverons jamais à être satisfaits de quoi que ce soit. Telle est la nature humaine, quelque chose qui semble si manifestement fait pour attirer de toutes les manières la douleur, qu’on se demande comment les théologiens ont pu déterminer une ligne de partage entre la vie terrestre et la vie infernale. Rien, en tout cas, ne semble aussi raisonnable à un observateur impartial des folies et des souffrances humaines que la théorie du péché originel; car si Dieu ne voulait pas nous punir d’un crime mystérieux accompli à l’origine des temps, pourquoi nous aurait-il donné, non pas les maux extérieurs, non pas les maladies, les guerres, mais ce qui est plus grave, cette inaptitude fondamentale à être heureux, cette multitude infinie de désirs contradictoires, qui nous sollicitent en même temps et nous déchirent? Pourquoi surtout nous aurait-il donné cette passion de l’amour, pourquoi aurait-il inoculé à l’humanité ce ferment terrible, l’origine de presque toutes nos souffrances ? Quand on songe à cette foule immense d'hommes et de femmes qui se cherchent,
qui se perdent, qui se désirent, qui se haïssent, à cause de l’amour, et à l’état de
folie où cette passion nous tient à partir de l’adolescence, on éprouve vraiment une immense pitié pour le hommes. Ces malheureux, le calme même les dégoûte, alors qu’il devrait représenter pour tout esprit réfléchi le suprême aboutissement ; le port d’où l’on se refuse de partir! Mais regardez-les: ils l’ont atteint, ils ont obtenu tout ce qu'ils espéraient, leurs désirs ont à la fois la possibilité de renaître et d’être satisfaits sans délai; leur esprit n’est possédé par aucune obsession; ils jouissent des détails; et ils abandonnent
le calme, l’absence
de souffrance
pour rechercher
de
nouveaux plaisirs qui ne leur apporteront que de la souffrance. Ils le savent, mais cette folie, cette fureur propre à la nature humaine, cet espoir têtu et chimérique
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dans le miracle qui leur permettra un jour l’accomplissement de leurs rêves de Jeunesse les entraîne, alors que l’expérience de toute leur vie devrait leur apprendre que cela est impossible. Mais à quoi sert l’expérience? Dieu a voulu nous punir jusqu’au bout, en nous empêchant
de profiter même
de notre douleur; chacun de nous, à un certain mo-
ment de sa vie fait son bilan, analyse ses expériences et croit avoir compris: après avoir accusé pendant des années d’aveuglement le Destin, le Hasard, la Providence et autres mythes commodes, il accuse enfin lui-même des maux qui l’ont affligé; il fait des plans pour l'avenir. Mais à la moindre occasion il détruit tout ce temple de sagesse péniblement élevé et il se retrouve de nouveau perdu au milieu des ruines. Alors, il songe avec nostalgie au calme qu'il a quitté: peine perdue, il ne désire ce calme que parce qu'il ne l’a pas. ur. L'été était féroce et poussiéreux. On avait déjà fauché les blés et les champs étaient tous hérissés de chaumes. On sentait un grand calme dans la campagne, ce calme des chaleurs. À midi la lumière était si blanche que la série innombrable des collines même semblait s’aplatir. Parfois on découvrait leur densité quand un petit nuage les couvrait d’une ombre. Mais les nuages étaient très rares, et dès qu’ils apparaissaient les paysans les regardaient avec un tel espoir qu’il fallait vraiment toute l'indifférence de la nature pour qu’elle n’en fût pas touchée. Dans la citerne, qui se remplissait avec les pluies de l'hiver, il n’y avait plus que quelques doigts d’eau; il fallait se laver de moins en moins. À « L’Ombrellino » on vivait avec les portes et les fenêtres fermées, dans une
ombre profonde. Il y a je ne sais quels rapports entre l’ombre et le silence, le soleil et le bruit. Quand on sortait, on sursautait à la chaleur et à l’incandescence du soleil comme à un grand cri. Et on humait l’odeur de la terre sèche. Les cyprès, les oliviers se sentaient tout de même à l’aise dans la chaleur; ils ondulaient doucement à la moindre brise; mais les citronniers dans les vases étaient vraiment dignes de pitié: leurs feuilles se racornissaient chaque jour davantage. Pourtant on n’avait absolument plus d’eau à leur donner; il fallait attendre la pluie. Sur les routes on voyait des files de chariots rouges, traînés par des bœufs, et remplis de tonneaux:
les paysans allaient chercher l’eau au fleuve ou aux rares fontaines qui n'étaient pas taries. On faisait queue aux fontaines. Mais on ne peut s’imaginer la saveur des tomates réchauffées par le soleil; leur goût était aussi intense que leur couleur; elles contenaient du jus de feu; et les fruits rares qui pendaient des arbres, qui avaient résisté à la chaleur, les abricots, les pêches, les poires, étaient fripés, rabougris, mais aussi doux que le miel. Tout le parfum de l’espèce semblait se trouver en quintessence dans chacun de ces petits fruits, en partie rongés par les insectes et desséchés par le soleil. Quant aux insectes, on n’en voyait pas beaucoup en l’air. C’était peut-être parce que personne ne sortait pour aller les voir. Par contre les mouches et les moustiques étaient surabondants; les moustiques étaient génants pour les hommes, mais les mouches étaient vraiment terribles pour les bœufs: elles s’amoncelaient en petites montagnes noires autour de leurs yeux ou sur leurs côtes; et ils devait donner de grands coups de queue ou tressaillir violemment, pour s’en débarrasser. On voyait alors la peau se hérisser, sur les côtes, ou bien on les voyait fermer et rouvrir les yeux en secouant
les « moscaiole » — cornes.
ces tabars de ruban rouge que les paysans attachent
à leurs
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C’est pendant cette chaleur que Bernardino fut repris une fois encore par son ardent désir de croire en Dieu, et par son désespoir de n’y réussir d’une manière qui lui parût complète et sincère. Bernardino depuis son enfance avait toujours senti le besoin d’un système de règles, auxquelles se soumettre et s'appuyer. On aurait dit qu’il ne pouvait vivre sans cette soumission et cet appui. L'idée qu’il pourrait croire en un Dieu créateur infiniment bon et responsable de l’ordre universel et s’en remettre à lui pour le choix de ses buts, qu’il pourrait en suivre les lois aveuglément,
le soulageait telle-
ment qu’à certains moments il lui semblait d’être aussi sûr de l’existence de Dieu que de sa propre existence. Il était fatigué de penser à son passé et à son avenir, de se tourmenter par des regrets et des remords. Il pressentait la joie de se reposer sur une puissance supérieure à la sienne, de lui abandonner la direction de sa barque; il sentait la béatitude de se perdre dans un tout, dont un autre que lui eût la responsabilité; de se sentir dans les mains d’une puissance infiniment sage et amoureuse qui le comprît mieux que lui. Dans le désarroi des premières désillusions il sentait le besoin d’un absolu à quoi s’accrocher, et il ne pouvait le trouver qu’en Dieu. Il se vérifiait dans sa conscience la loi que la psychologie si subtile de Saint Thomas a si bien exprimée. Dilectio praeminet cognitioni in movendo, sed cognitio previa est dilectioni in attingendo. Mais la joie durait peu; et il tombait toujours dans les raisonnements avec lesquels il brisait tous ses élans. « Ah, que ce serait beau! mais je n’y crois pas, et si j'y croyais c’est parce que je l’aurai voulu, donc ce ne serait pas de jeu ». Il s'imaginait que l’on obtient quelque chose dans la vie sans la payer des efforts et que la volonté soit exclue de la foi. Il était dérouté aussi par l’idée que le moment de la conversion serait aussi dramatique pour lui que pour Saint Augustin et il lui semblait que son âme était de glace en comparaison des ardeurs mystiques au milieu desquelles seulement Dieu pouvait se révéler. C'était là encore la poursuite d’un rêve de jeunesse, d’un de ces rêves faux qui sont destinés à nous dérouter au lieu qu’à nous conduire. Mais sa volonté opérait dans les profondeurs de son âme, malgré lui et à son insu. « Après tout — se dit-il enfin le 16 août — il faudrait queje sache quelque chose de ce sujet ». Il monta chez son oncle dont l’érudition riche mais un peu désordonnée passait encore à ses yeux pour une sorte de science encyclopédique. L’oncle Benedetto était dans sa bibliothèque, en train de jouer l’Egmont de Beethoven. « Ecoute, écoute, que c’est beau! », exclama-t-il, ravi d’avoir un auditeur avec
qui s’épancher. En vérité je ne peux concevoir quelque chose de plus beau; je considère cette page comme le mouvement d’une danse, qui ne peut être sinon à travers ce qui l’a précédé, et qui venant après le composera dans le collier complet. La deuxième sonate, infiniment plus ample, est déja pourtant moins belle. L’oncle joua quelques accords. « Mon oncle» — dit Bernardino au bout d’un moment — « Excuse-moi de interrompre. Je dois te parler de choses très graves. Pourrais-tu me donner des preuves de l’existence de Dieu? ». « Il y a les cinq preuves de Saint Thomas », répondit don Benedetto très surpris, en laissant son piano et en se dirigeant vers sa bibliothèque. « Quelles sont les cinq preuves de Saint Thomas? Dis-les moi tout de suite ». « Elles sont un peu compliquées. ». 148
« Cela n’a pas d’importance ». « La première preuve a pour point de départ le mouvement », dit Benedetto en s’asseyant à son bureau et en parlant avec sa vitesse et son excitation habituelles. « Mais attention! par ‘mouvement’ Saint Thomas entend aussi les altérations de la qualité, les changements, comme Aristote, d’ailleurs. Le mouvement est. Le changement est. Il n’y a pas de doutes. Tu peux t'en rendre compte directement », dit-il en déplaçant son encrier. « Mais tout ce qui change, change en vertu d’autre chose que soi. Cet encrier a été déplacé par moi. Changer, c’est passer de la puissance à l’acte, et rien ne peut passer de la puissance à l’acte par soi-même ». « Et toi? », demanda
Bernardino.
« Je suis composé de mille parties. Les étres sont multiples, il y a toujours en eux quelque chose qui est moteur et quelque chose qui est mû, tu entends? Il est évident qu'on ne peut mouvoir et être mù en même temps, car mouvoir, c’est faire passer de la puissance à l'acte; être mù c’est subir ce passage. Si nous observons le mouvement des choses, il faut donc remonter de chose en chose jusqu’à quelque chose qui soit moteur et qui ne soit pas mû; autrement il n’y aurait pas de mouvement. Ce moteur immobile, c’est Dieu ». Bernardino écoutait avec une excitation extraordinaire,
mais
il était si ému
qu'il ne comprenait rien; il avait peine à saisir le sens des mots. « Donne-moi Saint Thomas» — dit-il — «Je vais le lire ». Il rentra dans sa chambre avec quatre énormes volumes latins, et dédaignant les trois derniers, ouvrit le premier au livre De Deo. Tout ce qui ne se rapportait pas à l’existence de Dieu lui semblait futile et inutile; il devait comprendre seulement plus tard que les problèmes capitaux de notre existence, le bonheur et Dieu,
ne doivent pas être attaqués de face, que la meilleure manière de les perdre c’est de se jeter sur eux. La voie au bonheur et la voie à Dieu sont des voies indirectes et détournées: le bonheur découle de quelque chose, c’est à ce quelque chose qu'il faut viser; et la preuve de l’existence de Dieu on ne la trouve pas en lisant des raisonnements
sur Dieu, mais en réfléchissant
sur les vicissitudes humaines
et sur
sa propre vie. On trouve les preuves après. C’est ainsi que Bernardino négligea dans la Somme les passages lumineux qui auraient pu orienter sa vie et qui beaucoup plus tard devaient le rendre conscient de sa folie et de ses erreurs: par exemple, le passage où Saint Thomas dit que l’homme qui voit dans l’homme et dans son propre corps la dernière fin est comparable au capitaine préoccupé non de naviguer mais de bien conserver son bateau. L’homme n'est pas la fin suprême de l’homme, il est destiné à quelque chose d’autre. Il y à je ne sais quoi de dramatique dans cette image d’un adolescent égaré dans les possibilités infinies qui s'ouvrent devant lui, qui a la solution à sa portée et par un hasard fâcheux ne peut pas la voir. Bernardino devait se convaincre beaucoup plus tard, en lisant ces lignes, que toutes ses souffrances étaient produites par son erreur, par son obstination à forcer son corps et son cœur à ce à quoi ils n'étaient pas destinés; et il devait avoir le regret de ne l’avoir pas compris. « Ah, pourquoi n’ai-je pas lu cette page de Saint Thomas il y a dix ans », se dira-t-il. « J'aurais compris, qu'il n’y a pas de jouissance s’il n’y a d’abord le bonheur; j'aurais compris ma folie ». Ces regrets seront d’ailleurs une autre forme de folie. Nous avons des regrets parce que nous mettons à la place du « moi » qui a mal agi le « moi » présent qui a compris l'erreur et qui aurait agi avec plus de sagesse; mais nous ne songeons point qu’alors « le moi » était différent et qu'il ne pouvait agir comme nous
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le lui demandons plus tard. Autant penser que nous étions un autre. Au fond Je parlais d’un hasard dramatique qui détournait Bernardino de ces pages révélatrices. Mais il n’y a pas de « hasard ». Bernardino ne les lut pas parce qu’il ne devait pas les lire, et parce que s’il les avait lues il n’y aurait rien compris. Il s’obstina au contraire à lire et à relire les cinq preuves de l’existance de Dieu. Au commencement il était si intimidé et exalté à l’idée qu’il lisait Saint Thomas, rien moins que Saint Thomas lui-même («que penserait Giovannino s’il savait que je lis Saint Thomas? ») qu’il ne comprenait rien, qu’il continuait à ne rien comprendre. Et pourtant il éprouvait du plaisir. C’est le privilège des œuvres très célèbres et un peu mystérieuses d’exalter les adolescents par leur célébrité beaucoup plus que par leur sens. En suite, il fut un peu choqué en bon lycéen par le latin et surtout par ce quod qui revenait toujours à la place de « que ». Enfin il put comprendre, traduites péniblement, les cinq preuves de l’existence de Dieu. Il jugea les raisonnements inattaquables, mais il s’aperçut qu’ils le laissaient complètement indifférent, et qu’il ne croyait pas à Dieu plus qu'avant, que même il y croyait moins. Ce sujet commençait à l’embêter. Il s’endormit et rêva de Mimi. Il est difficile que dans la vie ordinaire nos joies soient complètes. Les préoccupations de l’action nous troublent; l’imperfection, l’à peu près qui sont propres à la nature des choses, les contradictions intérieures qui ne s’apaisent jamais, les conflits entre les désirs qui n’ont point de trêve, nous empêchent de jouir d’une manière parfaite des joies réelles. Tel n’est pas le lot des humains! Mais pour que nous ayons une idée de nos limitations et de la joie divine que nous ne pouvons pas obtenir, les Dieux nous ont donné les rêves. En rêve l’émotion est totale, elle a je ne sais quoi de compact, elle est absolument opposée à l’ennut.
Bernardino fut si troublé par la douceur de ce rêve qu’il oublia Dieu; c’était trop agréable de recommencer
à penser à Mimi.
Quand pendant la nuit il se ré-
veillait, cet instinct de méthode qui présidait à sa vie l’obligeait à se demander: « Est-ce que je vais penser à Dieu ou à Mimi? », et il concluait toujours: « Pensons à Mimi », avec plaisir infini. Pourtant comme
Mimi
était loin, il ne savait pas où, il fut très content le len-
demain de savoir qu’Ester allait arriver pour passer quelques jours à « L’Ombrellino », parce qu’il avait grand besoin d’une femme sur qui déverser le flot renaissant de sa tendresse et Ester était la jeune fille idéale. « Je vais serrer Ester », se disait-il en soupirant et en songeant à Mimi. C’est vraiment triste d’avouer que Bernardino passait avec tant d’insouciance de Dieu à Mimi et de Mimi à Ester; mais telle est la vérité, et toute dure qu’elle semble il faut bien dire qu’il songeait avec un plaisir particulier à Ester parce qu’il avait rêvé de Mimi. Nous cherchons toujours des mystérieuses compensations dans la vie.
Iv. « Carlotta! Allons nous promener dans les ‘sodi!’ », cria Bernardino, qui était dans le jardin en train de causer avec Ester, le soir du 18 août. Il faisait moins chaud, et Ester et Bernardino contemplaient avec surprise leurs ombres que le soleil désormais oblique dessinait sur le gravier, des ombres immenses, qui se brisaient sur les citronniers et se prolongeaient sur cette partie du jardin qu'on appelait le « gazon »: un terrain sec où poussaient quelques brins d’herbe
jaunis.
Ester était l’amie et la camarade de classe de Carlotta. Bernardino n’était pas son ami, il était le frère de son amie. Elle venait à « L’Ombrellino » pour voir
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Carlotta; elle ne venait point à « L’Ombrellino » pour voir Bernardino. Chaque fois qu ‘elle se trouvait seule avec Bernardino, ils avaient l’impression que ce n’était pas bien; qu'ils ne respectaient pas des règles mystérieusement établies, obscures et pourtant légitimes, indiscutables. Et d’ ailleurs, comme ils n’en avaient pas l’habi-
tude, chaque fois qu'ils se trouvaient en tête à tête ils ne savaient plus quoi dire. « Carlotta! Allons nous promener! » répéta Bernardino. Non, Carlotta n’avait pas envie de se promener, mais il n’y avait vraiment pas moyen de résister à la tyrannie enthousiaste de Bernardino. Elle maugréa quelques mots de désapprobation et descendit. «Ah! Il est avec Ester », se dit-elle avec déplaisir. Mais elle n’osa pas penser: « Il me vole toutes mes amies. Ester vient à ‘L’Ombrellino’ pour lui ». Non, elle n’osa pas se dire cela, parce que à cet âge on ne se dit pas la vérité et Carlotta aurait été étonnée si on lui avait dit qu’elle était jalouse; mais elle éprouvait un vague déplaisir, à l’idée qu’Ester était avec Bernardino. « Ester, se dit-elle encore, sait être belle avec rien ». Carlotta ne s’habillait pas bien; elle n'avait pas encore compris l'importance des robes; elle ne voulait pas avouer qu'elle leur donnait inconsciemment de l’importance, ou qu’elle recherchait l'attention et l’affection, tant elle avait peur de ne pas les obtenir. Quand on lui reprochait de ne pas être élégante, elle haussait les épaules dédaigneusement. « Pourquoi est-elle si mal habillée? », se disait Bernardino souvent avec désespoir. « Je viens, mais si ‘tu crées’ ce n’est pas drôle! », obiecta Carlotta. Elle racontait avec beaucoup d'humour ses promenades avec Bernardino. « Il me demande de l’accompagner » — disait-elle — «mais ‘il crée’ et ne dit pas un mot pendant des heures. C’est vraiment terrible quand lillustre musicien ‘crée ! ». Elle devait développer plus tard cette tendance à la satire, à l'humour, et parfois aux sarcasmes, que son esprit d'observation extrêmement perspicace nourissait de faits. Mais toute cette gestation se passait dans le secret d’une âme close. Personne ne savait rien de Carlotta; et Bernardino ne lui parlait que de lui-même, Carlotta d’ailleurs, pleine de respect pour son frère aîné, trouvait cela très naturel. Bernardino se mit à courir à travers les alignements d’oliviers et de vignes en descendant la colline. Vers le fond de la vallée les plantations cessaient et il n’y avait plus que « des pâturages », c’est-à-dire des terrains incultes où l’on entrevoyait des brins d’herbes. Comme il avait devancé sa sœur et Ester de quelques minutes, il s’assit sur une pierre: elle était chaude comme un animal. Mais partout on voyait des ombres: le ombres des cyprès se perdaient dans la masse tremblante des ombres des oliviers et réapparaissaient au delà. Les mottes de terre étaient tout un étincellement d’ombres et lumières, et les collines révélaient leur corposité. « Carlotta! Ester!» — s’écria Bernardino — «les moutons! Allons voir les moutons! ». Quand Ester était là il se sentait toujours excité et plein d’idées, il ne savait
pas porquoi, il ne savait vraiment pas pourquoi. Au fond de la vallée, cinq ou six brebis s’efforgaient de se nourrir avec l’herbe des « sodi »; leur museau sensible et frémissant reclait la terre dure avec un bruit
de pluie. Bernardino partit en courant avec Ester. Carlotta était assoufflée, mais jamais, jamais elle n’aurait avoué qu’elle ne pouvait courir autant que son frère. « Si jamais il eût pu supposer qu’elle courait moins que lui ne l’aurait-il pas méprisée? Mais pourquoi tout le monde courait-il plus vite qu’elle? ». HET
Bernardino s’arrêta à quelques pas des brebis. Sa sœur le rejoignit et s’appuya à son bras. Les brebis étaient pleines; elles levèrent la tête inquiète et regardèrent les trois jeunes gens avec méfiance, puis elles se remirent à brouter. Mais elles n'étaient pas à leur aise: elles levaient le museau de temps en temps et surCarlotta et Ester avec leurs yeux vitreux, peureux et et les lumières s’entre-croisaient dans leur poil bouclé et elles répandaient une forte odeur de laine et de fromage. Bernardino fit un pas en avant; les brebis, sans s’émouvoir, s’éloignèrent de la même distance; et au fur et à mesure que Bernardino avançait, elles reculaient; Bernardino se mit à courir, et les brebis se mirent à galoper en conservant toujours la même distance. Plus Bernardino courait plus elles galopaient. Bernardino riait aux éclats; ils étaient arrivés en un clin d’œil au fond de la petite vallée. « Bernardino » — cria Carlotta, qui avait le sens pratique et connaissait les choses de la campagne — «Tu es fou! Elles sont pleines! ». Bernardino s’arréta. Les brebis s’arrétèrent. Elles étaient essoufflées; leurs flancs se soulevaient et s’abaissaient rythmiquement avec le bruit du vin qui fermente dans le tonneau. Elles tenaient la téte basse, prétes à reprendre leur course. « Il est absolument impossible de toucher un mouton! » s’écria Bernardino. Du fond de la petite vallée on ne voyait que deux coteaux nus et âpres, sans arbres: un paysage africain, plein de rochers, de pierres et d’herbes épineuses. Le ciel du soir était vert, et il devanit de plus en plus sombre. Vénus brillait tout seule dans cette zone du ciel où le vert devenait clair et lucide. « Est-ce que tu ne penses jamais à Dieu? », demanda Bernardino à Ester, en s’asseyant sur un tas de pierres. « Moi j'y pense, oui, j'y pense beaucoup ». Ester s’était accroupie à côté de lui; Carlotta restait debout, leur tournant le dos, c’était une manière de protester contre quelque chose, elle ne savait pas bien veillaient Bernardino, stupéfaits. Les ombres
contre quoi. « Non, je ne pense jamais à Dieu », dit Ester très inquiète, regardant vers Carlotta comme vers une bouée de sauvetage. « Pourquoi me parle-t-il de Dieu? » — se dit-elle — «II verra que je ne sais rien de Dieu ». Elle ne se rendait compte, pas le moins du monde, qu’elle était mystique. Et elle éclata de rire, en lui montrant une fourmi qui gravissait un fil d’herbe. Mais Bernardino sentit qu’Ester ne riait que pour changer de conversation. «Je crois, je crois vraiment que Dieu existe» — dit-il, très grave. « Je crois que saint Thomas a raison ». « Saint Thomas... d’A... d’Aquin?... », dit Ester en feignant de l’ignorer plus qu'elle ne l’ignorait réellement, et elle cria: « Carlotta! Carlotta! Viens ici! ». « Oui, saint Thomas », dit Bernardino et il se mit à expliquer aux jeunes filles la première preuve de l’existence de Dieu. Lui non plus, il ne disait pas la vérité. Autrement, il se serait aperçu de cette chose effrayante: qu’il se servait de Dieu pour flirter avec Ester. Qui, cette passion, cette lecture frénétique, devenaient maintenant un moyen de flirter avec Ester. Mais Ester ne le suivait pas sur ce terrain: elle l’interrompait tout le temps par des plaisanteries. Il ne se fâchait pas, il comprenait que c’était
par timidité, mais tout d’un coup il se tut; il eut comme l’impression de se faire battre dans sa compétition avec Ester. Leurs rapports étaient toujours artificiels. «Non, je ne veux pas être moins léger qu’Ester! », se dit tout d’un coup Ber152
nardino effrayé. « Je ne veux pas perdre la supériorité d’être plus léger qu’Ester », se répéta-t-il. Il sentait qu'il avait d'autant plus d'autorité sur elle, qu’il était plus léger et indifférent; il lui semblait qu'il y avait une lutte secrète entre Ester et lui,
et que le premier qui serait grave se trouverait dans une situation d’infériorité; il « demanderait » quelque chose que l’autre aurait le droit de refuser; et s’il devenait grave et laissait voir que Ester ne lui était pas complètement indifférente, toute sa supériorité serait perdue; elle ne l’aimerait plus. C’est pour cette raison que Bernardino cessa de parler de Dieu. Il ne parla plus de Dieu pendant quelques jours; au fond il n’y croyait pas encore. La nuit il ne faisait que des rêves amoureux où l’image de Mimi se mélait à celle d’Ester;
il dormait
d’ailleurs
assez
bien et tout
d’un
trait.
Mais le 1°" septembre quelque chose d’extraordinaire se passa. Il était allé à pied à San Giusto, il avait pris un chemin de traverse et il s’était perdu. Il était seul; autour de lui pas une cabane, pas un arbre, pas un animal; et la chaleur était accablante; il avait une soif atroce, et il cherchait en vain une source. Désespérant de la trouver, il s’étendit à l’ombre d’un rocher, et chercha de distraire sa soif en regardant le ciel. Et voilà que d’un coin de l’ceil il voit une brebis s’approcher du rocher, le doubler
et s’en aller, et puis une deuxième,
une
troisième
faire de même. Il se leva, fit le tour du rocher et avec sa grande joie il découvrit une petite source couverte par des cailloux que les brebis venaient de remuer. « Cette source était là et moi je ne l’avais pas vue », se dit-il. « Mais les brebis qui pourtant en savent bien moins que moi l’ont de suite flairée. Ainsi Dieu pourrait être ici à côté de moi, il a pu exister toujours près de moi, et moi je ne le vois pas parce que je ne sais pas le reconnaître ». Il but et s’étendit de nouveau à l’ombre du rocher en pensant à la source. Les collines lointaines étaient teintées d’ombres violettes, et on voyait briller les vitres des villas éparses sur leurs flancs, qu’on ne percevait pas. « Qui» — il se dit — « Dieu existe ». Quand il rentra à « L’Ombrellino » quelques heures après, il lui semblait qu'il croyait à Dieu depuis toujours. Il passa la journée en proie à un plaisir très doux; il référait tout à Dieu comme à une femme bien aimée. « Tout ce qui m'arrive » — se disait-il — «tout ce qui m'est arrivé: mes maladies, mes folies, mes manies, mes craintes, mes obsessions, mes besoins, mes tentations, mon amour pour Mimi, tout cela n’est rien, tout cela n’est qu’une partie minime du tout. Oui, ces brebis pleines, Carlotta, ces paysans, Ester, Mimi, ce
sont des manifestations de ce tout; oui, je m’y perds, je me perds dans le tout. C’est exquis et tout ce qui m'arrive n’a aucune importance ». Il passa deux semaines très doucement. Il était si serein qu’il avait embelli. La beauté est en grande partie l’effet d’une harmonie intérieure, d’un accord entre notre volonté et nos facultés, entre notre conscience et notre subconscience; je dirai plus, un accord entre le moi et le monde. Bernardino se sentait embelli et il souriait de joie, il marchait et éprouvait un plaisir calme et intense. Vaguement, il devinait que toute sa joie venait de ce qu’il avait pu se débarrasser pour un instant de l’obsession de l'amour en la transformant en élan vers Dieu. Pourtant il sentait cet état provisoire, terriblement provisoire. C’est qu'il s'était imaginé que le jour où il aurait cru en Dieu toute son âme aurait été agitée par une épouvantable tempête; mais rien de ce qu’il avait prévu n’arrivait, rien ne troublait son âme et il s’accoutumait à croire en Dieu comme 199
autrefois il se parlait du Destin; il l’invoquait machinalement, il ne songeait pas le moins du monde à observer les règles morales; il pensait toujours à Mimi et à Ester. « C’est bien facile de croire en Dieu », se disait Bernardino. « Je suis bien tranquille pour un homme qui vient d’avoir une conversion », ajoutait-il un peu troublé. «Voyons » — se demandait-il — « quand est-ce que j’ai cru en Dieu pour la première fois? Est-ce quand j'ai vu les brebis à la source? Non, quand j’ai vu les brebis j'y croyais déjà, autrement cette association n’aurait servi à rien ». Il ne trouvait pas une heure, une minute où il avait cru à Dieu pour la première fois, mais seulement des instants où il avait commencé à se dire « qu’il y croyait depuis longtemps ». Il ne savait pas encore que le « moment » est un mythe, une idée abstraite, une fiction qui est le privilège des rêves d’avenir ou du passé, tel qu’on les reconstruit après coup dans les Mémoires. Mais un dimanche que Giovannino était venu le voir, il commit pour la première fois, lui si scrupuleux
de la vérité, une incroyable
lâcheté.
« Qu'est-ce que tu lis? », lui avait demandé Giovannino. « Je lis le chapitre de Saint Thomas sur Dieu », répondit Bernardino, satisfait d’écraser Giovannino par la supériorité de ses lectures. «Tu crois en Dieu, maintenant? », lui demanda Giovannino avec le ton de voix avec lequel lui, Bernardino, l’année précédente avait détruit la foi de Giovannino. Et voici que Bernardino se trouva pour la première fois obligé à soutenir et à affirmer sa foi. Non, la conversation
avec
Ester ne comptait pas, c’était du flirt,
c'était vague, il était maître de la situation, il aurait pu dire n’importe quoi à Ester et à Carlotta, il savait qu’elles l’auraient accepté; mais maintenant, c’était beaucoup plus grave, c’était d’autant plus grave que Giovannino aurait pu lui répondre avec les mêmes arguments qu’il lui avait donnés. Et tout d’un coup une quantité énorme de doutes l’envahirent avec une rapidité vertigineuse et la honte le paralysa. Pouvait-il vraiment commencer « à dire » qu’il croyait en Dieu? Croire en Dieu c'était très bien, mais le dire, après tant d’années où il avait soutenu le contraire? Il n’eut pas le courage et il renia Dieu. «Non» — dit-il — «je ne crois pas en Dieu ». « C’est très mal»,
se dit-il ensuite.
Mais sa foi en Dieu était de nouveau mit à penser à autre chose.
ébranlée par ses propres paroles et il se [« Espoirs », Rieder, Paris 1935]
154
III
FERRERO
INEDITO
Sin dall’adolescenza Leo Ferrero aveva l’abitudine di annotare la più piccola impressione o evento quotidiano nei taccuini privati dai quali difficilmente si separava; si può dire che sia vissuto col taccuino in tasca poiché la sua indole, così leale con se stessa tanto da fare un culto della propria dignità di uomo, non gli permetteva di trascurare la benché minima osservazione sul reale. È quasi un dovere che Ferrero impone a se stesso per andare a fondo nella propria coscienza, veder chiaro dentro di sé; in ragione di ciò il suo sguardo « scava » impietosamente di strato in strato fino al punto in cui emerge la genesi della nuda forma espressiva. E non è senza stupore che, leggendo queste note, avvertiamo di trovarci di fronte a chi sin da giovanissimo, converte in elevazione morale l’inestinguibile desiderio del conoscere, a chi va oltre l'apparenza, la superficie delle cose per cercarne la sostanza riposta. Scriveva dappertutto: per strada, in aperta campagna, a teatro, nei bar, sui treni. Dall’età di diciotto anni fino alla morte ha riempito di riflessioni una trentina circa di taccuini che, insieme ai manoscritti delle opere pubblicate e non, e ad alcune centinaia di lettere, cartoline, biglietti con i nomi più prestigiosi della letteratura italiana, europea ed extraeuropea, vanno a comporre un ricco compendio alla sua opera letteraria che attualmente è conservata presso la Fondazione Primo Conti di Fiesole. Di questo materiale si pubblica qui una scelta dai taccuini — dalla cui lettura ci accorgiamo subito che opere come Désespoirs, Amérique, miroir grossissant de l’Europe, il Diario di un privilegiato sotto il fascismo sono quasi esclusivamente nate da questi quaderni; scelta che, nel seguire un criterio cronologico, ha cercato di individuare un filo conduttore in quella passione primaria di Ferrero che è il desiderio di sapere per ascendere sempre più in alto nella visione del mondo, alla conquista intellettuale e morale di se stessi.
dai TACCUINI 1921 Cipressi di Castelnuovo. Sinfonia. Calma piena d’angoscia, ripetersi di un canto pieno di malinconia, come un ricordo; sembra che lo ripetano gli alberi. Tromba di vento leggerissima, frascheggiamento. Chi si lamenta sotto i cipressi? Una voce racconta una storia triste e gli alberi cercano di consolarlo, ma viene un turbine di dolore che investe la foresta e i cipressi gemono, si divincolano, si sentono più vicini al canto di malinconia dell’uomo; ritorna la calma angosciosa, rotta ogni tanto da una sferzata di vento cattivo, e da un singhiozzo rotto; di nuovo c’è una
voce che si lamenta. Ora tutto il bosco gli risponde di nuovo, tormentato, spaventato, nella tempesta. Dolore morale o lacrime strappate dal vento? Una voce sola di rassegnazione s’innalza e cerca di placare i tormenti mentre il vento si avvolge dolcemente intorno ai cipressi come un velo. E tutte le anime addolorate chinano il capo e rinunciano a lottare. Colore brillante e verde; verdissimo; a volte scuro come
a volte chiaro come
il ramo
della cipressa,
l’acqua dei vasi da fiori dove galleggiano ancora
petali pu-
trefatti. Nonostante l'incubo c’è steso, dietro i cipressi, un cielo senza nuvole; tragicamente azzurro, implacabilmente azzurro; diaccio e tagliente come gli occhi di
una fanciulla, come l’acqua solidificata in gennaio nelle vasche delle fontane. Cielo d’inverno. Incubo: sensazione che c'è un male non rimediabile e che vano è disperarsi, vano sperare, inutile vivere, inutile morire. Nessuna luce, in quel cielo sereno.
La serenità triste, la più spaventosa
Q NOVEMBRE
tristezza.
1922
Io che avevo la straordinaria illusione di non aver più illusioni, nonostante la mia giovane età, ho scoperto che per quanto poche siano le illusioni, l’uomo è condannato a perderne continuamente sino alla morte tanto infinite e innumerabili sono le disillusioni che gli uomini offrono sulla loro intelligenza e sulla loro bontà. Protesto! Ci sono troppi imbecilli, troppi vigliacchi, troppi mascalzoni e troppi sinceri opportunisti! IO
NOVEMBRE
10922
Autunno. Certe vespe dorate sotto i rondò, dove le macchie di sole sono spennellate vicino all'ombra frammentaria, stanno immobili e come sospese a mezz'aria per un istante e poi tutto a un tratto ruotano in larghi cerchi fulmineamente, in
modo che non si possono seguire con l’occhio, con un lungo ronzio fuso di tanti ronzii rotanti, e si sospendono di nuovo in un punto vicino a mezz'aria per ricominciare pazzamente la loro ubriacatura di vortici. L’oro brilla al sole e striscia l’ombra. Le mosche freddolose si stendono sui tavoli di marmo battuti dal caldo e rivelano
scintillii arcobalenici
sulle ali illuminate.
L'erba,
per terra, ha invaso
la ghiaia dei viali e del chiosco rispondendo finalmente, fresca e rugiadosa alla chiamata delle piogge che tornano. E la brina sotto il sole la fa così chiara che 157
sembra grigia. Il piede si posa con voluttà su quel velluto nuovo e cedevole e io bagno, tutto felice, la scarpa nei folti di paleo e di trifoglio. NOVEMBRE
1922
In certi vole isolate, in cui sono pittura ad
giorni d’autunno in cui il cielo pulito è corso da grossi gruppi di numa spesse, verso il tramonto certi cirri prendono il colore dell’acqua stati lavati e intinti i pennelli (prevale il rosso — ombre nere) di una acquarello.
DICEMBRE
1922
Nella Primavera c’è qualcosa di profondamente tragico che non è stato ancora notato: ed è l’indifferenza. Lo sboccio della più inverosimile bellezza si compie in un’atmosfera di inconscia apatia; la primavera viene con la trascuranza di una ragazza desiderabile che non cura i desideri e sta fissa in un suo interno sognamento. In quell’esplosione di colori, di calori di semi di nebbie genesiache di sole e di profumi di nascite animali e floreali, di morti feconde c’è un sentimento di indifferente sovrumanità: la primavera è crudele per l’uomo. Non lo cura. Dalle aurore rugiadose alle notti viola grida all'uomo esultante: « me ne infischio di te: nasci, muori, soffri, godi, pensa, crea, piangi, opera, la tua vita non è niente, tu non conti
più di uno qualunque dei miei fiori. Io continuo a splendere implacabilmente, superiore alle tue passioni e lontana da te ». Non so perché penso sempre, respirando la primavera, a me stesso vecchio e sulle soglie in quella medesima contemplazione. Mi vedo in quel giorno pieno di tristezza per la ineluttabile, egoista giovinezza della primavera. Perché la primavera chiama cadaveri per trasformarli in fiori e in germi? E quelle ventate di desideri che ti ardono come un [...] frenetico e fanno contorcere persino le rame degli alberi, mi fanno stranamente pensare alla morte. Tutte queste morbosità della primavera si accumulano qualche volta sul tuo cuore e ti sollevano dentro delle indescrivibili malinconie. L’autunno è per me tanto più dolce. Non è sovrumano; gode, splende e piange con tutti gli uomini. Ma nella primavera c’è veramente l'indifferenza della morte. DICEMBRE
1922
I nostri sentimenti contraddittori rispetto alla morte sono prodotti da questo: la morte è un fenomeno ineluttabile che si attua in forme occasionali. La morte di vecchiaia, fatale, capita sempre in seguito a un raffreddore o a un’indigestione o a qualsiasi malattia, mancando
la quale, si pensa,
l’uomo
non
morrebbe.
E questo da una parte ci permette di vivere tranquillamente sino alla morte senza vederla arrivare, e dall’altra ci rivolta come una particolare ingiustizia. Non è vero che l’amor della gloria sia un bene, in un artista. Cicerone dice che serve da pungiglione. Ma un vero artista non deve aver bisogno di pungiglioni. Deve creare non per avere la gloria, ma perché non può farne a meno. La gloria, se si guarda con attenzione, è un complesso di piccole vanità ridicole. La gloria, come se l’immagina l’uomo, è la gente che si volta quando passi, la busta con scritto su illustre, le autorità che ti fanno delle concessioni negate al grosso pubblico, il dar del tu agli altri grandi personaggi, vedere la propria fotografia o il proprio nome nei giornali. Molto spesso persone di sentimenti più meschini si godono la gloria specialmente rispetto agli inferiori: camerieri etc. che
158
non hanno nessun’idea di quanto il merito corrisponda alla fama e che non possono valutare. In queste ridicolezze l’artista si dimentica assolutamente dell’opera sua, e quando se ne ricorda è portato dal suo istinto ad accontentare in ogni maniera quel pubblico da cui può avere le suddette soddisfazioni. Non cercherà più di fare il capolavoro con tutto il tempo necessario, ma di fare un’opera il più rapidamente e il più puttanamente possibile. Come è possibile che un artista vero lavori per delle gioie così miserevoli? L’amor della gloria, invece, butta sul campo dell’arte tanti indegni quanto l’amor del denaro. Il vero amore della gloria non deve essere per sé, ma per l’opera. L'artista ha bisogno di un certo consentimento perché se no non può sapere se è pazzo o savio. La lode è per lui la conferma che ha visto giusto, poiché anche altri hanno visto così. L'artista, se ama la sua opera, deve desiderarla conosciuta ovunque e sperare che altri uomini si commuovano esteticamente o sensibilmente là dove si è commosso lui. E soprattutto deve desiderare che l’opera rimanga nel mondo dopo la sua morte e che continui attraverso le generazioni a commuovere e a far pensare. Questa è la lotta contro la distruzione di sé che l’artista vince lasciando un essere tutto creato da lui e che nessuna malattia potrà scancellare sotto il sole.
GENNAIO
1923
Se c'è una qualità che è causa dell’infelicità umana Ragione (facoltà di fare dei ragionamenti). Gli uomini che vogliono ragionare (o sragionare, fa se non sono degli scrittori avidi di meccanismi interni, sangue freddo, che sono soddisfatti solo quando la loro
questa qualità è certo la lo stesso) sulle loro gioie, diventano degli animali a ragione dimostra loro che
hanno il dovere di essere soddisfatti, ma non sentono mai la vera gioia, che è quella
fatta di niente, senza spiegazione, o con motivi inadeguati. Nessun uomo sarà felice se non avrà nel cervello almeno un granulo di follia. È vero, come dice Gide, che il classicismo cerca, con sforzo, la banalità, e in questo sforzo è inconsciamente originale — se si tratta di un vero artista. Ma la definizione è incompleta. Aggiungendoci che è l'Arte cosciente dei propri limiti, Arte quindi costruttiva, ne consegue che è anche l’Arte che non dice tutto quanto può e vuole dire; ma sempre un po’ meno. Determinata una zona limitata la riempie tutta e per questo ci dà quella sensazione di pienezza e di soddisfacimento intero. Mentre l’Arte Decadente, che titilla tutto l’infinito, vaga di qua e di là cercando invano di riempire l'Oceano, ci fa intravedere degli squarci di illimitato e ci lascia inquieti, ansiosi, per la sua impotenza
eroica, la sua furberia inutile, la
lotta contro un avversario invincibile. Non bisogna tornare all’antico. È questa la frase di tutte le epoche di decadenza: gli Ellenisti e, derivandone, i Bizantini — i Frontoniani — etc. tornano alle formule esterne cercando così un’inutile scusa per la loro impotenza. Il loro Primiti-
vismo è tutto quello che c'è di meno
primitivo. Il quadro dinamico è più vicino
a Giotto che il quadro giottista. Gli antichi classici, nelle epoche sane, non pensavano mai di tornare all’antico — ritorno che, se è voluto, è impossibile. Anda-
vano sempre avanti. Siccome la terra è tonda c’è caso, andando sempre avanti, di ritrovarsi al punto di partenza. Ma è questa l’unica maniera possibile di tornare 159
all'antico: andare avanti. Le grandi epoche, anche quando si esauriscono, devono offrire ai successori ancora tanta vitalità da poter essere rinnovate e risuscitate. Che cosa faremo noi con un’arte giunta a uno stato di dissoluzione così inquietante? È inutile, cari pittori e scrittori, che imitiate il 300 o il 400, il 500 il 600, il 700. Siete XX secolo più che mai. Il gran pericolo che minaccia la nostra generazione è di non poter rompere i legami che la legano al secolo XIX. Non che il XIX sia stupido. Tutt'altro! Se non altro per la creazione del romanzo! Ma perché dalle premesse romantiche siamo giunti a un tale punto di complicazione (futurismo) che non è più possibile continuare in quella carreggiata. Ora, non è lecito risalire alle premesse. Bisogna cambiar via. Da questo passo risulterà la vita del secolo XX — in arte — poiché noi dovremo cominciarla. Fin’ora ci sono ancora gli ultimi resti del moribondo XIX. Anzi più niente: il periodo d’incubazione. Quando Berlioz scrivendo che « Teocrito, Virgilio e Beethoven avevano espresso la campagna in arte. Ma che Beethoven aveva schiacciati i due poeti colla sovrappotenza della musica (incliti sed victi) » diceva una grossa fesseria. Prima di tutto si può fare solo il paragone fra Beethoven e Teocrito — o il Virgilio di imitazione teocritea, che è come dire Teocrito — perché tanto la divina Pastorale che gli idillii siracusani raccontano una campagna falsificata, inventata, addolcita e profumata. Mentre le Georgiche parlano di concime, non di pipperi. E quei contadini sudano cupamente sull’aratro e la vanga da mane a sera, non ballettano e ascoltano i ruscelli cantare. E poi la Pastorale ha espresso la natura come si esprime musicalmente — indefinita,
emotiva,
suggeritrice
di sensazioni,
di passioni,
di desideri
misteriosi.
Le
Georgiche hanno tradotto la campagna come si esprime letterariamente — grandiosa per semplicità rudimentale e chiarezza di contorni, rude, circoscritta, piena e senza
ambiguità sentimentale. La grandezza dei due capolavori sta appunto nel fatto che hanno volutamente rispettato 1 limiti della musica e della poesia. Dire che la Pastorale ha sostituito le Georgiche è attribuire alla Pastorale un’ambizione letteraria (invasione di confini) che contrasta con la sua natura d’opera classica. MAGGIO
1923
Wagner è troppo puttana. Per questo la sua grandezza sarà sempre di ordine secondario. Una cocotte, per quanto raffinata, non può esser posta allo stesso rango morale di una bella signora onesta. Così, bisogna dare il primo posto alla musica che cerca di ammaliare e contentare quel critico incontentabile e freddo che è lo spirito. Il secondo a quella musica che liscia e titilla la carne, più facile al godimento e all’approvazione. In Wagner c’è, quasi sempre, l'ambizione di dare al nostro orecchio delle sensazioni spaventosamente piacevoli, di irritare i nostri nervi con una libidine di suoni puri, senza poi appagare i nostri desideri. E come un’amante sensualissima, ma sentimentalmente idiota. Beethoven e Bach
cercano di far godere il nostro spirito, con creazioni che si rivolgono all’intelligenza musicale. Wagner può esser gustato da un essere musicalmente limitato purché sia dotato con larghezza di sensibilità nervosa (vedi per es. l’attacco di violini dopo il tema 160
iniziale,
nell’ouverture
del
Tannhauser.
In questo
ha dei contatti
con
D'Annunzio
(benché Wagner sia dieci volte più grande). Bisogna infatti ammettere che Wagner sia un grande musicista. Ma la sua musica mi inquieta come un'affascinante perdizione. Il suo decadentismo malato è pericoloso. E poi non m'appaga, ripeto. Esco da un’audizione di Wagner come da un'amante che non permetta le ultime logiche conseguenze dell'amore. Mentre dopo Beethoven mi sento purificato come se avessi conversato con una persona intelligente e alta di cose belle e perciò ultramondane. 26 MAGGIO
Molta gente usa dire, con una certa enfasi, che il vero artista deve essere sempre scontento dell’opera sua. Ora questa scontentezza è propria di alcuni periodi, ma non di tutti. Scontenti sono gli artisti contemporanei e, in generale, quelli di tutte le epoche « decadenti » anticlassiche. Quell’ambizione di chiudere l’infinito in una formula, per forza finita, di cui si parlava prima, lascia in noi e in loro la stessa inquietudine. Si capisce che non siamo contenti mai di un tentativo inevitabilmente fallito. Ma gli artisti classici che devono riempire pazientemente una zona limitata, sono difficili, non incontentabili. Virgilio non era scontento delle Georgiche ma ci impiegò degli anni a scrivere versi. Ora gli artisti classici potevano esser contenti, dopo lunghe ma utili elaborazioni, appunto
perché
s’erano
limitati.
MAGGIO
La cuoca ha ragione: ho 19 anni ma sono vecchio. Che tristezza! Mi sono accorto che ragiono, che medito, che non getto più giudizi recisi, esagerati, avven-
tati, che ho dell’indulgenza per i difetti altrui, che sono stanco. Non è questo il segno della vecchiaia? Mi pare di aver vissuto già tanto! Di aver scritto enormemente, di avere un’esperienza precisa delle cose e degli uomini. Alle volte guardo il mondo con occhio d’oltretomba. Idiota! Era Ja primavera. MAGGIO
1923
In Virgilio non c’è solo la coscienza dei limiti della letteratura, ma la coscienza
delle risorse e dei limiti del latino, per cui egli ha scritto sfruttando tutte le qualità del latino e sfuggendo abilmente quelle circostanze non esprimibili in latino. I nostri scrittori vogliono anche valicare i confini della lingua. Quanti ora hanno cercato di esprimere in Italiano quelle cose che si potevano solo dire in francese dimenticandosi quelle che si potevano solo dire in italiano e non in francese. Il francese, benché in misura infinitamente minore, è la sola lingua che, dopo il latino, sia riuscita a farsi adottare anche da scrittori stranieri. Questo è il segno della sua grandezza letteraria. 30
MAGGIO.
ASSISI,
NOTTE
Qui sento più che altrove come gli uomini mi fraintendono; come non riesco a farmi capire mai; come la mia intelligenza, il mio amore, la mia ingenuità, la mia fede, la mia tristezza, la mia gioia, la mia religione siano continuamente scherI6I
nite 0 temute, a metà indovinate, a metà volutamente oscurate. Perché, dinnanzi alla purezza di questa campagna infinita, semplice e dolce, gli uomini cercano solo di far stridere i miei difetti, per godere della dissonanza? È questa forse l’infelicità più grande che ci aspetta nel mondo? MAGGIO.
ASSISI
S. Francesco Alto. Giotto. Quando si dice che Giotto ha voluto tornare alla natura, non bisogna considerare il punto di vista della rappresentazione classica, perché anche Giotto è stilizzato plasticamente (vedi Tempio di Minerva affresco n. 1). Fra lui e gli altri c'è però questa differenza: i Bizantini o pregiotteschi facevano della stilizzazione e Giotto fa dello stile. Quando un pittore fa dello stile non fa mai dell’ornamentale (perché l’arte ornamentale è tutta fondata sopra una formula schematica ossia stilizzata, che si ripete). Giotto s'è quindi trovato a essere il primo, che dopo tanti secoli di arte ornamentale, ha fatto dell’arte anti-ornamentale. Ha l’aria di esserci stato trascinato inconsciamente. La sua forza stilistica ha scaricato i canoni stilizzati; il suo occhio campagnuolo ha guardato le cose con più grande penetrazione. Da questo stato
d’animo è stata generata naturalmente e per la prima volta la rappresentazione dell’uomo. L’uomo che da tanti secoli non era più stato dipinto. Infatti l’uomo era diventato,
per la raffinatissima
eleganza dei bizantini
e dei francesi,
un pretesto
a disegnare certe linee, una superficie colorata non dissimile dai sassi o dagli animali. (Relazione con la pittura moderna). In che maniera dunque Giotto è tornato all’uomo ossia alla natura? Giotto è il contadino di genio. Come contadino ha un’acutezza psicologica enorme, e una forza di pugno e d’occhio per rappresentare con pochi tratti essenziali i gesti sorpresi. La rivoluzione di Giotto è tutta nella psicologia. Ripeto psicologia di contadino, rude e senza illusioni, che guarda i suoi conterranei con profondità, non si copre gli occhi dinnanzi alle espressioni sublimi o grottesche, che spia con una certa furbizia i sentimenti nascosti negli occhi degli uomini, anche quando questi individui paiono presi fra la folla. È il contadino che, tr ovandosi in i mezzo a una moltitudine di persone raggruppate per osservare un fatto, non guarda le cose che gli altri guardano, ma guarda anche come i suoi vicini guardano e nota. Quando si mise a dipingere aveva nella testa una serie di espressioni sorprese € [...]. Ha dunque adoperato queste osservazioni non solo per esprimere i sentimenti dei protagonisti, ma anche per rendere il senso completo del dramma, per intensificare la tragedia di una persona inquadrando questa tragedia nell’atmosfera indifferente o sensibile del mondo. Questo accompagnamento intimo più moderato delle folle è la sua prima grande invenzione.
Ho detto l’atmosfera indifferente o sensibile perché una delle grandi trovate di Giotto è stata appunto la rappresentazione del contrasto. Nei Vangeli con abilissimi tocchi vengono abbassati tutti gli apostoli in modo che Cristo sembra veramente un gigante (Pietro non capì quelle parole.. etc) Già nei momenti più tragici o solenni della vita di S. Francesco, nei momenti 162
della preghiera o dell’estasi vediamo intorno a lui qualche faccia sogghignante di frate ottuso. Quel sorriso incredulo, o stupido, intensifica il dramma di S. Francesco, facendo vedere come il Santo spiritualmente altissimo, si trovi isolato e anche incompreso dai suoi stessi fratelli, a causa della sua grandezza (questo è anche il dramma di Cristo). Così vedi la faccia del nobiluomo a cui S. Francesco dona il mantello: capolavoro di rappresentazione psicologica. In quegli occhi passano in un lampo lo stupore, l’incertezza, l’incredulità, la preoccupazione per un’opera così fuori dal comune. Pochissimi sentimenti di riconoscenza. Quel nobiluomo ha piuttosto l’aria di pensare: « Che cosa c'è sotto? Perché costui compie un’opera disinteressata? È mai possibile? Se veramente disinteressato quest'uomo sarà certo uno stupido ». Come è italiano il nobiluomo! Vedi anche la faccia di certa gente nel quadro in cui S. Francesco si spoglia dei vestiti. Idem Francesco dinanzi al Soldano. Idem Francesco e il bambino del presepio. etc. Anche sa trovare dei grandi mezzi per dimostrare le cose soprannaturali: quando S. Francesco, morto, ricompare innanzi ai suoi discepoli, quasi nessuno lo guarda in faccia. C'è, negli occhi dei discepoli, lo spavento e la commozione di coscienza del soprannaturale che comunica alla stessa atmosfera qualcosa di soprannaturale: e S. Francesco appare veramente diverso al nostro occhio, mentre, in fondo, è proprio dipinto come quando era vivo. Giotto è dunque riuscito a farci trasformare una figura, con l'impressione che questa figura provocava negli altri. Ora badate che questo mezzo, poi molto adoprato, può fallire con facilità. Perché riesca è necessario un gran senso di misura. Anche in questo quadro un monaco ha l’aria di dubitare: ma non sorride, pensa con disperata intensità, come se volesse risolvere sul momento un problema. Ci voleva molto gusto però per non ficcare in questa scena il solito ghigno. E infatti sulla scena della morte di San Francesco, nessuno dubita, nessuno ride, nessuno è distratto. In questa sola scena Giotto ha voluto che l’ambiente accompagnasse con la sensibilità piena il dramma centrale. Forse perché il dolore è un sentimento che tutti, anche i semplici, possono provare. Ma questa scena perfettamente armonica ha un valore grande di commozione, appunto perché è l’unica. Accordo pieno e dolcissimo dopo una serie di ansiose e meravigliose dissonanze (penso agli affreschi in cui ci sia della folla).
Ma Giotto è grande perché, aperta la strada della rappresentazione psicologica, invece di tentare tutti i mezzi leciti e illeciti per raggiungere il suo effetto — come avrebbero fatto i seicentisti — egli ha saputo sbarrare coscientemente quella strada che le sue stesse mani avevano aperta. In questo è un vero classico. Perché ha saputo raggiungere il massimo dell’espressione, l’infinito dell'animo, con dei mezzi limitatissimi volontariamente limitati. I suoi gesti sono parchi e quasi immobilizzati dall’inquietudine di sovrabbondare.
Tutta l’espressione è data dall’occhio. 163
Le gradazioni veramente infinite sono rappresentate con il taglio e la circoscrizione del bianco dell’occhio e con il segno delle rughe sopracigliari. Eppure con questo soltanto Giotto è riuscito a variare tutte le qualità dei sentimenti. Perché l’umanità dei suoi personaggi è data appunto dalla varietà delle nuances, dal cangiamento continuo di piccolissime tonalità psicologiche. Vedi per es. come rappresentò la preghiera. Quella che per i suoi predecessori era una persona in ginocchio con gli occhi alzati, in Giotto diventa un santo che soffre, spera, pensa.
C'è la preghiera disperata, la preghiera ansiosa o serena, la preghiera nella meditazione,
l’estasi.
Questi raffinamenti non si troveranno più fino al Cinquecento. Ma neanche nel Cinquecento ritroveremo quella semplicità voluta di sceneggiatura. Quelle figure rade e solenni, che si muovono con una compostezza antica e sorridono o pensano con una serenità cristiana. Le sacre rappresentazioni sono state qui fissate pittoricamente. Semplicità voluta che si ritrova nella maniera stessa di dipingere una figura con poche righe rade e necessarie (studiava dove non fare le pieghe. Nel paesaggio di linee grandi o dolci che accompagna come le folle, il dramma). Quando si ritroverà questo paesaggio sensibile e intelligente? Ricordate la roccia spaventosamente nuda della Verna, su cui S. Francesco ricevette le stimmate? Quella nudità è di grande potenza: si sente la tragedia di un uomo che ha la coscienza della sua immensa responsabilità tutto ad un tratto qui la severità della montagna compie la funzione che prima compivano i discepoli assorti, nel quadro dell'apparizione. Fa pensare all’affresco di Beato Angelico in una cella di S. Marco dove è rappresentato il Discorso sulla Montagna. Giotto è dunque una reazione dello stile contro la stilizzazione, del classico contro il decadentismo, dell'anima contro l’ornamento. Chi è dunque meno giottesco che i giotteschi moderni? Sostengo che i quadri dinamici di Carlo Carrà sono più giotteschi che i giotteschi moderni. Ho quasi l’impressione che Giotto riesca a esprimere, in certi momenti di immensa tragicità, quel riso nervoso che si chiude con un singhiozzo e che è il segno massimo del dolore e del turbamento. Quegli occhi a mandorla si contraggono e si affusolano in biancori crudi, intorno al nero umido della pupilla fissa, o alzata molto, o china. E non si comprende bene se quella luce che brilla nell’iride sia il segno del pianto o quasi un riso meccanico e triste. Riso ben distinto da quello sogghignante, incredulo o cretino di certi altri musi frateschi. N.B. Questo, solo per i personaggi secondari, cioè per gli uomini. Ché in S. Francesco non c’è mai questa mescolanza involontaria di sentimenti contraddittori. In S. Francesco c’è un’idealizzazione sentimentale. La sua sensibilità è finissima, i suoi sentimenti sono chiari e di un solo tono, logici e definiti in modo superumano. Così il dolore, la gioia, la serenità, il furore, la fede sono passioni complete e piene agli occhi del Santo, senza che nessun elemento dissonante turbi quella coerenza. 164
Si potrebbero rappresentare con dei colori uniti. Mentre i sentimenti degli altri uomini che gli sono intorno vengono espressi con tutte le variazioni e gli intorbidimenti delle anime umane. Si potrebbero rappresentare con chiarezza di colori. Questo è un altro elemento che rende sensibile la superiorità di S. Francesco sugli altri uomini. Tanto più che questa armonia di S. Francesco e quelle dissonanze della folla sono continuate per tutte le scene della vita, con una logica che sorprende. I caratteri psicologici si rinnovano come sopra una linea definita in tutti i quadri; e noi da un quadro viamo
veramente
rimangono
gli stessi
all’altro
non
uomini,
ritroviamo
coi loro
solo gli stessi vestiti, ma
caratteri
inalterati.
Come
ritro-
inalterate
le diverse gradazioni di valori spirituali.
Guardando Giotto. L'arte classica deve cercare di esprimere le cose comuni o di esprimere,
se v'è costretta,
le cose
straordinarie
in modo
ordinario.
La pittura deve esprimere le cose che si vedono. L'artista deve cercare coscienziosamente di raggiungere la realtà. La deformazione prodotta dalla personalità deve essere inconscia. Perché
se no
c’è stilizzazione,
ossia arte ornamentale.
L'arte ornamentale è inferiore perché non consente lo stile. L'artista deve dunque riprodurre le cose che si vedono come le vede. Tra le cose che si vedono c’è l’uomo; ossia un’anima vestita di corpo. Come i pittori studiano nudo per ricoprirlo di panni, così bisogna rappresentare anche l’anima e velarla con il corpo. Tutti gli uomini vedono nei loro consimili una luce che non è quella degli animali. Quest’anima interna, espressa negli occhi e in certi movimenti, è penetrata con maggior o minore profondità ma è sempre sensibile. Rappresentare l’uomo senza esprimere questo elemento differenziale, come se fosse solo una massa, una cosa, è stilizzare l’uomo, trasformandolo in motivo ornamentale. È una falsificazione, deformazione cosciente della realtà.
Non c’è quindi più stile, né grande arte. Soltanto: anche in questa rappresentazione psicologica ci deve essere un limite. Perché l’artista deve cercare di esprimere solo quei sentimenti che l’uomo manifesta con la fisionomia
o con i movimenti,
per non
oltrepassare i limiti delle arti
plastiche. Potrà, se vuole, dare delle sensazioni più varie e complesse, anche quelle non plastiche, a condizione di saperle esprimere con quei mezzi limitati. Tornare a Giotto, che ha concretato perfettamente questi principi, sarebbe certo una via di salvezza, ma solo quando si tornasse ai suoi principi, e non ad una riproduzione esterna. Osservazioni vecchissime che oggi possono essere originali. GIUGNO
1923
Leopardi.
Non
è affatto
vero,
come
dice
Mazzoni,
che
in Leopardi
c’è l’inde-
finito e l’amore del vago. Lo sforzo del classicismo di Leopardi è appunto quello di raggiungere la chiarezza conchiusa e adamantina.
Il suo genio antico si rivela quando ha chiuso l’in-
finito in un quadro limitato. 165
La siepe gli ha dato la chiave. M. sostiene che le prime poesie di Leopardi erano non solo classicheggianti ma montiane di forma (dedica) e wertheriane romantiche ossianiche lamartiane di contenuto (!). Leopardi a 18 anni scrisse un’ode in greco alla luna. In italiano non dice niente. Il Leopardi descrive molto parcamente perché stima (v. Xibaldone) che le descrizioni siano fuori dal campo letterario — giusto — infatti tutte le sue descrizioni sono espressioni di uno stato d’animo, acquistano quindi un valore sentimentale, cioè letterario. Musica.
Il Leopardi, scrive che amava
la musica.
Il Mazzoni si meraviglia che ne parli poco. Anche questo deriva dal senso dei limiti che proibiva al L. di valicare gli argini della letteratura. Amore. Nel sett. del 1817, a 19 anni, poté per la prima volta sfogare il suo antico desiderio di conversare con donne avvenenti (contessa Gertrude Lazzeri). Come dicevamo in qualche pagina addietro, a proposito dell’Infinito, mi pare che Leopardi, primo dopo una lunga serie di poeti italiani (fino a Dante?), abbia cercato di esprimere in versi i sentimenti. I sentimenti, cioè le sensazioni dello spirito, quelle ondate che le cose provocano subitamente in noi, e che possono anche subitamente svanire, lasciando turbinose scie di moribonde reminiscenze. La caratteristica dei sentimenti è l’illogicità incerta, l’incomprensibilità dell’origine, il mistero delle associazioni che suscitano, la reazione istintiva che si risveglia in noi, la fugacità strana del loro svanire. Vedi, per esempio, nella Ginestra, il momento in cui L. immagina la lava che scende, e dopo una descrizione tremenda della materia impazzita, nomina «le cittadi che il mar, là, su l’estremo lido, aspergea » destinate al seppellimento. Ora questa visione delle città, dolcemente accoccolate al sole e sensibili alla carezza marina, questa fugacissima immagine di una vita di pace e di serenità tiepide, che è resa con quell’« aspergea » raggiunge, incastrata nel mezzo di una descrizione furibonda, questo effetto potente, appunto perché esprime un sentimento fugacissimo e molto vero che doveva venire nell'animo di chi sognava quei cataclismi vulcani. Ha un valore di sogno, appunto.
È brumoso e iridescente. Ora qui, con una sola parola, Leopardi è riuscito a chiudere questi sentimenti poco definibili. Così nell’/nfinito Leopardi ha chiuso questo sentimento, in una forma precisa, grazie a quella siepe, che ha reso il senso dell’infinito col contrasto della sua finitezza. Non dunque Leopardi aveva l’amore del vago, dell’indefinito per se stesso, ma soltanto cercava di esprimere dei sentimenti i quali sono per la loro natura indefiniti. E cercava di esprimerli in maniera definita. Per questo possiamo dire che Leopardi è un classico: un artista cioè che esprime, di partito preso, meno di quello che vuole, forse di quello che può. Perché dar 166
forma definita e chiusa a dei sentimenti indefiniti e senza cancelli, vuol dire quadrarli, piallarli, limarli, finché entrino in una forma, vuol dire dar loro dei contorni, e quindi limitarli. Leopardi
è riuscito, in certi momenti
non ordinari, a darci lo stesso questa sen-
sazione di indefinito proprio di un sentimento. Ma sono pochi. Il più delle volte il sentimento,
appena
nato,
è stato concretato,
solidificato,
piallato e plasmato nella sua forma letteraria, ha perso quel brumoso piacevolissimo perché lo sente, e la sua chiarezza adamantina non ha consentito la dolce incertezza di una interpretazione autobiografica e malsicura. In Leopardi la coscienza dei limiti letterari doveva essere tremenda e senza pietà. Così, sempre nella Ginestra, Leopardi volge gli occhi intorno, una notte, e vede
il cielo pieno di stelle. Allora, pensando che ogni stella è un mondo, prova un sentimento così naturale di sconforto e di umiliazione; confronta con quell’eternità delle cose, la brevità del suo destino umano,
e in lui quasi dovrebbe
nascere
per reazione la voglia di lasciare queste spoglie ridicolmente mortali e l'ambizione di diventare cosa. Questo aspetto di curiosa convivenza dell’uomo con i mondi naturali è molte volte espresso nella sua poesia. Ed è quello che nasce sempre in chi medita di notte. Forse perché il sole e la luce ci riempiono tanto la terra e la vita che sono diventati nostri fratelli, direi più che si sono identificati con la terra e con la nostra vi-
sione quotidiana delle cose. Mentre invece la notte è meno umana; la luna col suo silenzio — perché la luna dà l'impressione di essere silenziosa, mentre nel sole c'è un grande e continuo canto
— determina
in noi una
diffidenza
incuriosita;
con
il suo
taciturno
e lon-
tanissimo andare ha l’aria di porre in chiaro la sua diversa sostanza e la sua immensa, meravigliosa, divina indifferenza. Questa indifferenza ha ferito il cuore del suo timido amante e cantore, quasi quanto l’indifferenza di Aspasia. Per questa indifferenza s'è più persuaso della nostra inutilità. V. Pastore errante; Bruto minore. Trovandosi dunque nell’epicentro di un cielo stellato Leopardi ha certo provato i sentimenti indefinibili di uno schiacciamento. L’immensità lo annienta e gli ingombra il cuore: « Escono immense in guisa / che un punto a petto lor son terra e mare / veracemente ». Si ripete che « [...] le nostre stelle / o sono ignote, o così paion come
/ Essi alla terra, un punto / di luce
nebulosa ». Ora, come sfocia questo empito di sensazioni che nella poesia sono condotte tutte secondo un filo logico e razionale, mentre già dovrebbero illogicamente, irrazionalmente e tutte insieme riempire l’animo? Leopardi si rivolge alla « mortal prole infelice » e chiede a se stesso: « quale moto allora / mortal prole infelice, o qual pensiero / verso te finalmente il cor m'assale? / Non so se il riso o la pietà prevale ». L’artista classico, sentendo il bisogno di riassumere e chiudere questi sentimenti in una formula definita, pensa che tutta quell’ora di passione debba poi concentrarsi in un moto e in un pensiero. Riso e pietà. Arrivati a questa conclusione l’indefinito illogico dei sentimenti si muta in un'espressione certa e visibile: di tutto quel momento noi non vediamo più che un riso e non immaginiamo più che un preciso sentimento di pietà. 167
Così, è certo che il filo sempre logico con cui egli ci racconta i suoi sentimenti non concorre a ricordare la sensazione di un momento illogico. Leopardi ha sempre l’aria di uno scrivano che sta a guardare un uomo, di uno scrivano che è tanto più freddo e tranquillo quanto più l’uomo è conturbato. Questo scrivano prende appunti, e poi si trasforma in uno storico e ci racconta in bella forma, dal principio alla fine, organando, sfrondando, spiegando tutte quelle note disordinate e assurde, la storia verissima di un momento poetico. Tale sdoppiamento è curioso. Perché questo storico è un essere ragionevole, e non consente che si trovino dei sentimenti non chiaramente spiegabili. E ha tanta paura che noi non si capisca la ragione di questi sentimenti, che una volta espressi i sentimenti, si sente in dovere di darci la ragione filosofica che li ha provocati. Forse anche perché la maniera migliore per dar forma chiusa e logica a dei
sentimenti è di trasformarli in filosofia. Ma si noti che tutti i momenti in cui questi sentimenti divengono filosofia, sono liricamente morti. Perché se il poeta vuole la storia di un momento di esultanza per forza sentimentale e rituffare noi in quel flutto di commozioni, sentimenti, ci lascerà insensibili.
Anche quando resterà impietrata. mento poetico, la Cerano invece dunti, ragionando Ma
trasformando in filosofia quei
avremo capito di che cosa si tratta la nostra immaginazione Perché in verità sentiamo che nel cuore dell’uomo, in quel mofilosofia non c’era. solamente i sentimenti confusi. E lo storico che aveva preso apsu quel materiale, più tardi, ci costrusse il sistema.
a questa forma di espressione Leopardi deve essere stato inconsciamente
trascinato dalla tradizione, dal gusto, dalle tendenze, dall’autopersuasione. In quel-
l'epoca non era possibile scrivere altrimenti. I Romantici non avevano cambiato niente. Prima di tutto perché in Italia non c'erano. Ma il secolo stesso diede, fin dalla nascita, a Leopardi quella visione classica delle cose, gli mise dinnanzi agli occhi quel vetro colorato che gli alterava la rielaborazione letteraria della vita. Egli si è trovato fra le mani uno strumento perfetto che però lo costringeva a esprimere solo quello che lo strumento voleva e poteva. Forse per questo, leggendo le poesie di Leopardi, io provo sempre un senso di angoscia, perché mi pare che il poeta non sia mai stato soddisfatto pienamente della sua rappresentazione, perché sento che nell’intimo della sua coscienza qualcosa doveva dirgli: questo non è tutto. I tentativi di esprimere le ombre fugaci dei sentimenti passeggeri hanno tutti una rigidezza severa e composta che doveva rincrescere alla dolce benevolenza di Leopardi. Questo rincrescimento non sarebbe classico, sarebbe invece il tormento interno portato nel suo cuore dai primi vènti odorosi di intentate esperienze che annunziavano
il ciclone
moderno.
Ma
forse, se fosse vissuto
ora, e avesse
avuto
fra le mani tutti gli strumenti per esprimere l’inesprimibile, se non avesse osato e voluto limitarli in forme rigide, il suo tentativo, troppo ardito, sarebbe stato condannato alla disfatta. Questa rigidità delle forme classiche gli ha dato, forse, un tormento. Ma gli ha certo risparmiato quella che poteva essere la sua più grande tragedia. 168
GIUGNO
Quando piove, in certe ore d’estate, da una nuvolaglia dolcemente grigia, illuminata per luce nascosta, le piante diventano d’un verde chiaro inverosimile, e le rose di un rosso e di un bianco non ordinario, tanto che si incorniciano fra le
foglie come diamanti; e la luce invisibile piove in modo così artificioso e brillante che il giardino, nel rettangolo della finestra, sembra un quadro del Quattrocento lucido per la vernice, o una scena di teatro che spacca il buio. Quello che fa impressione è il verde illuminato delle piante sotto il cielo opaco, per cui pare che la luce nasca dentro il corpo stesso della verdura, e il cielo non sia che un immenso paralume. Si può dire che in quel verde non esistano più ombreggiature, tanto il tono è unito. A me pare che nella sistemazione moderna del lavoro intellettuale la cosa più iniqua sia proprio il pagamento. Non tanto iniqua come ingiusta, assurda. Perché non è lecito pretendere che con un certo determinato prezzo l’editore abbia compensato l’autore del suo merito e della sua fatica. L’opera d’arte è impagabile. Per rendere l’operazione del compenso meno materiale e bruta bisognerebbe che fosse possibile un’infinita scala di prezzi, secondo il valore artistico dell’opera. Ma ognuno capisce che questo è impossibile e che lo scrittore pornografico avrà sempre un percento superiore a quello dell’artista. Molto più giusto era il metodo
antico secondo
il quale i signori pagavano
all’artista, non
l’opera, ma
la
vita e dandogli la maniera di vivere gli permettevano di scrivere delle preziosissime opere gratuite. In una zona unica ormai i moderni si attengono a una limitazione volontaria: nel giudizio della prosa latina. I moderni, continuando meccanicamente
una tradizione antica, affermano che
la prosa antica è quella di Cicerone, e che in quella di Sallustio si trovano certe pecche di arcaicità o monotonia,
mentre
in Livio di patavinità,
quella di Cicerone è perfettamente monda
in Tacito
di decadenza,
di scorrettezze.
È questa una
arbitraria e volontaria limitazione: perché, nel Rinascimento, stabilito, per ragioni
evidenti di rassomiglianza e per utilità di creazione, che la prosa di Cicerone era l’unica e la migliore, tutte le prose che ne differivano dovevano presentare, come scorrettezze,
le differenze
stilistiche,
come
impurità
le diverse
ricerche
verbali
e
le opposte soluzioni armoniche. Si capisce che gli uomini del Rinascimento si proponessero come modello Cicerone e che limitassero in quello l’ideale della prosa, perché, dovendo scrivere in latino lingua viva, e organare rapidamente tutte le improvvise
e copiose rinascenze
classiche, era necessario,
con una scelta, stabilire
un ordine. Ma per noi che consideriamo il latino come una lingua morta, soggetta ormai soltanto alla critica estetica e grammaticale, non c’è più ragione di conservare, soltanto in questo campo,
un’arbitraria
limitazione.
La limitazione deve imporsi quando si tratta di creazione. E la critica, per questa sola ragione, deve rassegnarsi all’arbitrio dell’arte. Ma dove non c’è più critica, come
nella zona
della letteratura
latina, è assurdo
continuare
a metrare,
sulla misura di Cicerone, tutta la prosa antica, da Varrone a S. Agostino. Possiamo quindi ammettere che Livio e Tacito scrivevano così bene come cerone, ma avevano un altro stile.
Ci-
169
Ho riflettuto molto sul problema dell'Arte. Ma siccome non riuscivo mai a trovare una definizione unica per tutte le arti, sto arrivando alla conclusione ultima che ci debba essere una sola definizione senso contrastanti, delle Arti.
del Bello, ma
due
definizioni,
in certo
Da una parte le Arti classiche dall’altra le Arti letterarie. L’arte, plasticamente, mi pare che sia la « deformazione incosciente o cosciente della realtà esterna » (vedi a questo proposito l’appendice alle mie osservazioni su Giotto: stile e stilizzazione). È assurdo, come si usa, sostenere che le Arti plastiche non hanno niente a che fare con la realtà, con la natura,
quando
devono,
per forza, esprimere le cose che
st vedono, cioè quelle della Natura. L’arte, e questo è un luogo comune, si distingue dalla fotografia perché l'Arte deforma la realtà. In questa deformazione è dunque tutta l’Arte (Plastica). Ma le Arti Letterarie? Di questo non sono ancora sicuro. A me pare però che le Arti Letterarie sono quelle che esprimono dei sentimenti e poi li mettono al loro posto, proporzionandoli alle cose dell’universo esteriore. L'Arte sta tutta in questa espressione e in questo proporzionare. In questo caso non ci dev’essere ricerca di deformazione, né deformazione. Anzi, più l’espressione è esatta e più c’è Arte. Perché non sarebbe Arte riprodurre tal qual è una cosa esistente, senza che in questa riproduzione si senta un uomo piuttosto che un altro, ma è arte esprimere delle cose che, prima di essere espresse, non c'erano. Infatti basta considerare questi due verbi: riprodurre, esprimere. Come si deformerebbero delle cose inesistenti? In che maniera la deformazione sarebbe visibile, sarebbe utile, sarebbe personale? Uno scrittore che riproducesse, deformandoli,
tutti i sentimenti avrebbe l'originalità del pazzo, non quella dell’artista.
Nota pure che nella deformazione dei sentimenti non ci sono L’originalità non viene dunque dalla deformazione, ma viene maggiore aderenza e dalla maniera di dire. Perché nelle Arti Letterarie si pone questo nuovo problema: la sibile fra cose dette e maniera di dire, fra idee e stile. È lecito dire: questo è scritto molto
bene, ma
non
dice niente.
limiti possibili. proprio dalla
distinzione posbrano di prosa
O viceversa.
Mentre non c’è distinzione fra forma e idea nelle arti plastiche, e non sarà lecito ammirare, in un’opera, un’idea male eseguita. Per cui, letterariamente, si crea dal nulla, in modo che la maniera di esprimere sarà soltanto il mezzo con cui manifesti agli altri questa idea. Mentre nelle Arti Plastiche, il modello visibile è già creato al di fuori, e l’artista deve farlo suo riproducendolo deformato, ossia con la sua impronta. Così nelle Arti Letterarie la maniera di esprimere è un mezzo, nelle Arti Plastiche è un'impronta. Nelle Arti Letterarie non c'è dunque bisogno di deformazioni. Ma anche in queste l’originalità sarà data. SETTEMBRE
1023
Nella Nina noto ora un mutamento dell’antico istintivo egoismo fanciullesco, o almeno, se non egoismo, apparenza scontrosa nel far piacere, in un altruismo e in una servizievolezza ancora freschi. Infatti si sente benissimo che quando le si chiede un servizio ha, per un attimo, l’antica mania di sollevar obbiezioni e pro170
teste inutili ma che, sapendo come, allora stesso, ciò riesce a soffocarla e a chiuderla
e ora, quel servizio lo renderebbe lo prima che si manifesti; ma allora ti
fa quel piacere con un’aria di saperlo e di dirti « sta attento », frutto del suo rapidissimo ragionamento, che toglie all’atto un po’ di grazia, perché stride con la sua intima dolcezza come una serie di movimenti mal coordinati. Questa mancanza di grazia, tutta esteriore, la svaluta ingiustamente. Ma con l’età si andrà perdendo. SETTEMBRE
Oggi mentre passavo per una viottola una voce, dall’interno di tal cascina domandò
chi c’era, e un bambinello
vedendomi
gridò: un òmo. È stata la prima con-
ferma generica e tattile della mia situazione rispetto agli altri. Senza che nessun abisso
netto
separasse,
come
m’immaginavo,
il me
bambino
dal me
òmo,
sono
cresciuto. E io mi son posto nei panni di quel bambinello pensando d’esserlo io e di vedermi, con gli occhi di allora. E fui stupefatto all’idea che io potevo per lui essere
quella cosa
inverosimile,
potente,
diversa che era stato un dmo, per me.
SETTEMBRE
Un'opera d’arte eccellente, contrariamente a quanto si crede, in questo momento di disordine e di affollamento di croste, non appare più bella, ma anzi molto meno; si gusterà con minor sensibilità e acutezza che non in un’epoca ricca di capolavori tutti creati in una lingua uguale. Perché la disarmonia e la bruttezza delle opere circostanti [...] del loro stesso brutto, accentuando quelle parti che nell’opera bella si trovano comuni alle croste, e impedendo, con l’imperioso affollarsi delle loro immagini di disordine nella nostra intelligenza critica, che noi si distingua con pace e giustezza come in momenti di creazione tranquilla e monolineare, l’ordine che le rende armoniose. E potremo facilmente scambiare quell’ordine vero per una di quelle tante apparenze d’ordine fallace che si nascondono sotto una maniera, esteriormente più composta, ma intimamente viziata come le altre.
Una donna bella in mezzo spicchi.
tutte
a 10 brutte è possibile che scompaia più che non
OTTOBRE
La musica classica ha l’aria di sviluppare con rigore un'idea precisa e cristallina e anche quando incontra le possibilità di armonie più squisite e gradevoli, sui margini della sua strada, non devia e continua diritta, trascurandole (Beethoven, Bach). La musica romantica (Chopin) invece si abbandona con voluttà a questo vagabondaggio, e si diverte a cogliere tutti i fiori che intravede, camminando, di qua e di là dalla via, e che prima forse non aveva preveduti. Cosicché, in definitiva, quest’ultima musica è più colma di piacere e di delizie, sembra anzi che le esaurisca tutte pienamente; ma la sua linea è meno diritta e limpida, e questa pienezza e questo accollarsi continuo di trovate gradevoli, le valuta. Mentre nella musica
classica se,
a un certo punto,
si prova la pena di intravvedere
delle
bellezze laterali che l’autore ha sdegnato di cogliere, all’ultimo si ha l’impressione di una massa più compatta e solida, e quelle poche delizie sensuali che l’autore s'è permesso, acquistano, per la loro rarità, un pregio e un'efficacia maggiori. 171
7 DICEMBRE A proposito dell’intermezzo di Schumann. È brutto pensare che questo musicista, arrivato tardi alla musica attraverso studi approfonditi di armonia, dia l’impressione di essere un bambino di genio, che gioca con le note per puro divertimento. Qui c'è musica pura; ossia manca assolutamente quella umanità che anima la musica di Beethoven, per cui si sente che dietro l’arabesco delle note c'è un uomo terreno. La musica di Schumann sgorga a frammenti chiusi e staccati, deliziosamente puliti e eleganti, belli a studiarsi come delle linee; ma che stanno chiuse in sé, staccate dall’autore come se fossero nate per conto loro già belle e fatte. A metà
di un pezzo si intuisce, dopo le note di un
tema
nuovo,
che si deve
stoccare in un bel motivo; questa intuizione dà molta gioia. Alle volte pare che la frase, dopo due accordi che si sono già sentiti in un altro pezzo, debba continuare come si sa; ma poi la frase devia, naturalmente, e si rimane
un po’ stupefatti, pur prevedendolo
(specialmente in Chopin).
Quando entra una persona a mezzo di un concerto mi sdoppio: e da una parte continuo a sentir la musica seguendo il filo, dall’altra mi metto nei panni del nuovo venuto o sento tutta una confusione di note, come uno che non avendo assistito al principio e non
essendosi
ancora
abituato
ad ascoltare, pena.
Impressione di stupidità. Una vecchia signora con cappellino ridicolo che saluta a un concerto sorridendo. Poi il sorriso le si spegne piano piano come una lampada elettrica a cui manchi
la corrente, ma
all’ultimo si fissa sulla sua faccia come
un
ictus, mentre la mente, cullata dalla musica, non pensa assolutamente più a sorridere; cosicché quella contrazione dei muscoli appare spoglia, assurda e macchinale. Nasconde il vuoto.
Le uniche filosofie che hanno un senso sono le dogmatiche, cioè quelle che dopo avere distrutto intorno a te le certezze ti ricostruiscono un mondo basato su qualche cosa di certo (la Bibbia, per il Cristianesimo). Perché a che serve dimostrare agli uomini, che se ne stanno tranquilli con l’intima persuasione d’essere il centro del mondo, che invece non sono niente e che niente
è sicuro,
niente
vero,
e che niente
potranno
imparare,
o conoscere?
Ora
a questa conclusione di disperazione inutile concludono tutte le filosofie razionaliste. Infatti i dogmatici dovevano essere mossi dalla volontà cosciente di trovare una base certa, ma nascondevano questa volontà e la trasformavano in obbedienza a una rivelazione. Mio padre è il solo dogmatico che lo dice, forse perché si è trovato in tempi in cui una base riconosciuta non era possibile (nemmeno la scienza, dopo la fine di Comte). Invece di dire la verità è la Bibbia o la Scienza ha detto — rivelando il processo segreto che condusse a quelle due conclusioni S. Tommaso e Comte — la filosofia deve limitarsi e basarsi su qualcosa di esterno all’uomo e di non razionale, che poteva essere la Bibbia ai tempi di S. Tommaso, la Scienza ai tempi di Comte. Perché oggi non lo fa la filosofia diventa un gioco che distrugge. Perché questa base manca il mondo vacilla. Ma gli uomini possono avere abbastanza intelligenza per credere che la Bibbia è infallibile, quando glielo insegnano, ma non per capire che, anche se la Bibbia non fosse infallibile, sarebbe opportuno anzi necessario di crederci lo stesso. Per questo il mondo moderno, a sentir tali parole di condanna, è entrato in furore.
172
Quando negli occhi altrui vidi me stesso adolescente invidiar gli amanti certo che mai donna m’avrebbe al fianco lungo un fiume serale immaginai la tua dolcezza e mi colmai di pace. L’immaginarti, nelle sere estive mi placherà mentre il bollir dei giorni lunghi e solenni perpetuando in questo corpo imbevuto di sole gli affanni delle stagioni mature m’impregna di desideri stanchi. Oblierai come in un sogno quel tramonto, amica. Ma or che lungi da te sento che il giorno muove m'attristo a questo lungo oblio.
MAGGIO
1924
La poesia è un po’ divisa in 2 generi: quella in cui senza avere un idea precisa di quanto gli verrà scritto, fusa in sé; e quella in cui il poeta esprime dei concetti mente. Ora ci sarebbe un po’ bisogno di questa seconda
il poeta si mette a scrivere ma solo la sensazione conche vede e formula chiaramaniera.
Nel teatro ci sono due maniere di concepire il dialogo. Quella in cui la battuta per essere sorpresa e colta in bocca al personaggio che si è visto nella realtà, è così vera che acquista un valore di satira nascosta e si impone come la frase di per se stessa all’autore; e quella in cui la battuta è invece regolata e plasmata dall'autore che le imprime il suo stile — il quale stile si deve vedere nelle battute più diverse e in bocca a tutti i personaggi. Quando M. Hamelin nelle Nous d’Argent di Géraldy dice « Ne t’éternise pas devant Botticelli. Raphaél évita la vérité », la sua maniera di parlare appartiene alla prima maniera. Ci sono certe che non lasciano costruzione. Ma formi fossero state 2
GIUGNO.
riproduzioni di affreschi, visti in proiezione per esempio e male, vedere di una massa di figure che delle linee e delle masse senza si ha l’impressione netta che se quelle figure che si vedono come masse indipinte come masse informi ne darebbero un’altra impressione.
VIAREGGIO
Viareggio deserta di stranieri, di primavera,
è dolce e più confortante.
Sono
arrivato di sera, e il mare è così sereno che si fa appena sentire con un continuo canto, assai lontano. E nel fresco illuminato da una sola stella del cielo verde,
pochi atleti seminudi e bronzei passeggiano come immergendo con gioia nella luce crepuscolare il loro corpo dove si contiene e è placata tanta forza di muscoli; sì che la mia bianchezza e fragilità e stanchezza che m’hanno costretto a venir qui per trovar nuovo vigore, mi rendono ai miei occhi vergognoso e poco rispettabile. Se i grandi uomini spesso non sanno
fare 1 conti 0 allacciarsi
le scarpe o anno-
darsi la cravatta è in verità perché siccome hanno coscienza che per i loro meriti
173
letterari, artistici scientifici politici la gente li stima intelligenti, non c’è più bisogno di apparirlo anche nelle piccole cose (e anzi quasi è meglio gloriarsi di certe piccole insufficienze); mentre i comuni mortali non oserebbero non saper fare quelle cose semplicissime per paura di esser tacciati di stupidi, e sforzandosi di riuscirci, ci riescono in verità — il che succederebbe, se essi lo volessero, anche ai grandi uomini.
Sono andato lungo il mare verso il calare del giorno, partendo con l’intenzione di pensare a vari disegni letterari che covo da tempo; ma il fatto di essere deliziosamente libero nel costume da bagno e coi piedi nudi che mordevano la sabbia mi dava un così grande senso di leggerezza e di perfetta libertà che io non riuscivo a pensare ad altro se non al muovere del mio corpo; e solo più tardi quando la stanchezza del piede che doveva continuamente liberarsi dalla rena in cui affondava mi dette un senso di pena riuscii a concentrarmi nella mia idea. Il che dimostra che se normalmente possiamo pensare è grazie alla noia che ci danno o le scarpe o il vestito o il freddo o il caldo o la strada ingombra, le quali ci urtano inconsciamente a divagare coll’immaginazione forse per impedirci di pensare a quell’indistinto e continuo malessere. La stanchezza del resto, camminando sulla spiaggia, non si avvertiva come stanchezza ma come voglia di sdraiarsi assolutamente dissociata dall’idea comune della stanchezza. Forse perché quest'idea comune è appunto legata all’insieme di noie che ci procurano i vestiti e le scarpe etc. per il troppo restarci addosso. La sera era vasta e dolce. E le onde un po’ corrucciate ritirandosi lasciavano sulla spiaggia come delle pezze di cielo dagli orli frastagliati più luminose che il cielo, in cui a ogni istante altre onde striscianti e orlate di schiume parevano rinnovare la luminosità, perché non si perdesse, con nuovi strati di colore. A volte queste pezze si sfuocavano agli orli come delle placche di metallo, quasi iridaceo, che hanno gli orli abbrunati. A volte sembravano dei laghetti tranquilli e lontani in cui l’ondeggiare a falce della terra e dell’acqua prodotto dalla maggiore o minore avanzata dell’onda, avevan l’aria, a me che li guardavo come da una distanza enorme, di promontori e di golfi che dovevano modularne le coste. In quell’aria chiarissima tutti gli oggetti sulla sabbia acquistano un valore di contorni un poco anormale, come se fossero tutte incise nel cielo o nella terra con l’arte di un opus sectile. Ricordo un piccolo granchio, immobile sulla sabbia aggrinzita, vicino al fiume come le nostre mani quando si sta troppo nell’acqua. LUGLIO
La gente non s’accorge che della indiscrezione; la discrezione, appunto perché è tale, passa inosservata.
Un artista giovanissimo può avere più esperienza di vita di un uomo comune maturo, prima di tutto perché l’esperienza si fa guardando e spesso gli uomini comuni non guardano affatto anche in vent’anni di vita vissuta e poi perché all’artista è data la facoltà dell’immaginazione per cui egli senza patirne si ricostruisce una folla di sensazioni che non ha provato realmente. Il sentimento suo di fronte al verificarsi del male sarà un approfondirsi ma non mai la meraviglia.
Una quantità di opere è nata perché l’autore, trovandosi in situazioni impac174
cianti o solamente
noiose ha voluto cavarne
fuori un qualche cosa di letterario per
avere di fronte a se stesso la sensazione di avere utilizzato almeno artisticamente quei momenti
AGOSTO.
persi.
RIVA
Sul lago, il cielo era coperto di regolari nuvolette a pecorelle, come di una bianca capigliatura ricciuta. La luna si divertiva a trasfigurarsi come se fosse elastica nei laghetti del giardino tra mezzo le ombre intricate dei salici piangenti. Il lago chioccolava sulla massicciata come se ogni tanto un grosso pesce volesse venir fuori. Mi dava pena l’idea che il lago finisse proprio in quella linea precisa che potevo toccar col dito e seguir con l’occhio a mano a mano che si volgeva nelle falcate della costa. NOVEMBRE
Sono in uno stato di immobilità spirituale, di arresto o addirittura di sbandamento; e nella mia testa che si vuota, le idee che prima pullulavano, fresche e chiare, si cristallizzano, diventano morte come dei capelli falsi, mi sembrano ba-
nali. Tutto quello che scrivo è mediocre.
Sento il bisogno di ricominciare a stu-
diare, e di lasciar lì il teatro. Invece, mi accanisco a lavorare per persuadermi che i miei precedenti fallimenti son dovuti alla difficoltà dei temi, invece che alla po-
vertà improvvisa della mia immaginazione. Così deploro tutti i bei soggetti che carezzavo nella mia fantasia da due anni. Appena mi accingo a meditare, le persone, i fatti mi sfuggono da tutte le parti, il nesso e l’intrigo si trasformano di minuto in minuto, mi danno l’impressione di essere così scorrevoli e instabili, che rinuncio a fissarli; perché dopo un’ora di meditazione mi accorgo di essere arrivato alla conclusione e al dramma opposto a quello da cui ero partito, e non ritrovo più la luminosa tessitura che avevo immaginato concependo il soggetto, perché le sovrappongo ormai tutte le assurde e grigie e effimere tessiture che ho concepito in quella febbrile ora di studio. Mentre prima, pensando, chiarificavo, adornavo le mie idee; ora le scombino e avvilisco. Così, ho paura di pensare. Mentre prima sapevo, che un'idea immaginata, riprodotta sulla carta, sarebbe apparsa come veramente appariva a me, e quindi lavoravo con la sicurezza di chi si sente sulla buona terra; ora dubito sempre della mia facoltà di « realizzazione » e mi accorgo che non solo, spesso, non rendo l’idea che ho pensato, ma che se una volta l’ho resa male, non riesco più a ritrovarla, e sono imprigionato da quella falsa, che vien fuori contro me stesso dalle mie parole e m'invade. Così ho paura di scrivere. Infatti, appena entro in un soggetto, tutto quello che in questo soggetto mi pareva inebriante e un po’ vago, piacevolmente brumoso, si precisa e dissecca, perché cola in certe mie vecchie forme, di cui ho già abusato, delle frasi, delle immagini, delle scene, delle armonie di periodo, che erano fresche e umide quando le avevo trovate, mi sembravano ora stanche, usate e monotone come quelle espressioni fatte, che togliamo dai libri o dal linguaggio corrente: per
me, sono veramente diventate delle espressioni fatte, giacché comincio a imitarmi! 175
A questo sono arrivato per un eccesso di lavoro e ho consumato troppo sopra un vitto modesto. Non ho più grasso. Perché non ho più visto e non ho più letto. Ho scritto, scritto da pazzi, spendendo e spandendo, come se fosse inesauribile, tutto il mio bene, rinunciando
a vivere veramente,
e conservando
quel tanto di
relazioni con gli uomini che mi servivano a trovar dei soggetti, e a osservare. Ho trasformato la vita in un magazzino per la mia arte; ma invece di riempirmi adagio di questa vasta natura, per averla sottomano più tardi, quando volessi, larga, ricca e feconda, l’ho colta frettolosamente e l’ho subito fissata sulla carta. L’uomo saggio capitalizza una parte dei suoi guadagni per aver della rendita; io sono stato prodigo e insaziabile. E ora mi trovo a correr dietro alla mia letteratura, invece di riceverla con degnazione. Ma siccome non l’accontento, in questa sua transitoria tresca con la comoda mediocrità; o piuttosto la sterminerei; mi trovo come un architetto che costruisce edifici subito crollanti. Ho perso la dirittura della mia linea. Tutti i libri ricominciano a influenzarmi. La mia testa, che si era fatta un piano e s’era tracciata una strada precisa attraverso le varie espressioni artistiche e le varie letterature, si è riaperta a tutte le esperienze, come durante l’adolescenza. Se scrivo in uno stile, provo la pena di
non scrivere diversamente, e ogni novella, ogni poesia mi fa pensare con nostalgia a tutte le bellezze diverse e contraddittorie che quella novella o poesia escludono e in cui devo rinunciare a tuffarmi. Se continuo lo stesso su quella strada, non è più per una fede cieca e brutale, per la convinzione che non ce ne fossero altre, ma perché mi ricordo ancora dei tempi in cui su questa fede ritmavo il mio passo, e so che se si vuole arrivare a concludere non bisogna scantonare. La bellezza dei contorni è una tentazione. Ogni risultato è fatto di molte rinunzie. Nell'adolescenza, mi sarei perso al primo boschetto. Ora invece continuo zoppicando e aspetto il momento in cui mi ritorneranno le forze. Mattine chiare. Giù per il viale, si vedeva una bagnata macchia di cielo viola, impantanato tra i platani rossi e gialli. Questo cielo si scoloriva, a mano a mano che saliva tra quelle rotaie rugginose. Ma la nebbia delle mattine gelate, mescolandosi al frascame e alle pezze di cielo, spalmava quasi il cielo con delle pennellate rossastre, come se il rosso e il giallo delle foglie stingessero nell’aria. Si sentivano su tutti noi gli atomi dell’aria colorati diversamente. Avevo l’impressione che, tirando fuori di tasca la mano, l’avrei trovata colorata d’azzurro e di giallo. E la luce più raddensata a Porta Romana, diffusa cantante e allegra nel viale giocava sulle foglie e sulle pietre, quasi trovando un'espressione vocale nei gorgheggi degli uccelli. NOVEMBRE
10924
Nessun uomo s’accorge mai della felicità, quando c’è immerso, perché anche nei momenti più dolci della vita c’è un filo nero di noie e di dolore su cui la mente, indifferente alla gioia, si fissa. E così, con gli occhi sempre addosso a quelle pene, l’uomo esce dalla felicità senza sapere che c’era stato. Se n’avvedrà dopo, quando con il giudizio, fatto dal tempo più chiaro, peserà nel suo passato il bene e il male.
Io mi domando come un artista può avere una vita avventurosa. Quando un uomo riesce a creare dei mondi col pensiero, tutta la sua vita deve essere chiusa 176
nel suo pensiero, tanto che a lui devono arridere visioni iridescenti e su lui devono
grandinare tragedie durante giorni grigi. La vita vera non è niente, di fronte a quella che io mi immagino. E le dissolutezze degli uomini fanno ridere, tanto sono semplici e povere. Un artista non deve degnarsi di essere dissoluto, perché la dissolutezza è troppo facile. Io mi convinco sempre di più che la tecnica nel teatro è semplicemente l’arte della composizione, e cioè l’arte di metter le scene una prima e una dopo in modo che l’insieme,
GENNAIO
anche
quando
è lungo, dia l’impressione
d’esser breve.
1925
Ci sono varie gradazioni di stupidità e intelligenza. Io direi, per determinare una zona di stacco, che una persona comincia a essere intelligente quando è sensibile direttamente alla intelligenza degli altri. Direttamente, cioè non attraverso la fama, o la carica delle persone intelligenti. Il capire se stessa è il primo elemento necessario a ogni qualità spirituale, ed è certo che uno stupido è, perché stupido, nell’assoluta impossibilità di capire l'intelligenza, come un ignorante la cultura.
Per l’articolo sul teatro francese: Goldoni cerca un effetto direi decorativo nella stilizzazione dei caratteri. Il teatro francese più che nel verismo cerca un altro effetto decorativo, nella scomposizione dei caratteri. Quindi psicologia pura. In Goldoni c'erano degli effetti di colore (paesaggio). Qui è tutto studio di uomo. La lirica è un po’ una scappatoia rispetto a certi problemi psicologici troppo urgenti. Claudel stesso, costruttore di figure grosse e piene, se la cava come un disegnatore che campisca le sue figure tra un arruffio di segni anellosi, non cercando la linea giusta, ma girandole intorno ampollosamente, senza risparmio, e cogliendola in mezzo un po’ a caso. I moderni si sono proibiti questa specie di trucco elegante. Claudel imbocca spesso certi canaloni da cui non si saprebbe come uscire. Alle situazioni di risposte impossibili, contrappone una pagina di lirica, in cui un sapiente disordine nasconde quell’incertezza; ma un Vildrac o un Géraldy devono aver sotto mano le due parole precise, che determinano una situazione nuova. Così, salvo in Lenormand, è sparito lo sfondo colorato. Paragonare i due ambienti popolani dell’Arlésienne e del Ténacity. L’Art è un pittoresco che si coagula in due personaggi, che sono un po’ l’essenza di quel pittoresco. Vildrac lascia correre. Direi anzi che cerca di mettere in ombra quello sfondo colorato, che gli offrirebbe delle risorse troppo facili. Perché anche l’atmosfera serve spesso per annegarci dentro una situazione psicologica divenuta insostenibile. Notare che le battute di paese arrivano di solito quando bisogna trovare una via di scampo, e riuniscono due zone drammatiche su per giù come nei quadri del Quattrocento gli archi delle architetture riunivano i gruppi. Claudel
è il padre
dei lirici confessi.
Ma
Claudel
è una
mescolanza
di terra
e di cielo, di grasso e di misticismo, di simboli e di psicologia, di divino e di umano, di rozzo
e di sublime.
Raynal
rifà a suo modo
la traduzione
lirica e stilizzata di
177
situazioni drammatiche, dipendendo, anche se non lo sa, da Claudel. Perché Claudel è il primo che abbia trovato la strada del dramma moderno a espressione convenzionale. Ma in Raynal tutto è più disciolto. Il ritmo si barcamena fra la poesia
e il discorrere comune: manca una forma vera e propria (il versetto biblico di Claudel) che, sia pure esteriormente comprima e regoli questa prosa che sgronda da tutte le parti. E le persone, avendo ormai perso quella parte di terra e di umanità che in Claudel dava una forza enorme alla parte religiosa, barcollano languidamente nella nebbia dei simboli puri, e si scolorano. Claudel era l’unico che, grazie al suo linguaggio stilizzato, aveva potuto stilizzare i caratteri (Mard, Violaine) mantenendoli in una linea moderna. In Raynal [...] apparentemente non c’è più carattere, c’è invece una stilizzazione dei caratteri ancor più rigida, perché gli è stato levato quel temperamento che nelle figure di Claudel era la psicologia corrente. Raynal è dunque il vero anti-Goldoni: Goldoni stilizzava un carattere, riempiendolo tutto di una sua qualità parziale. Raynal stilizza un carattere, riempiendolo tutto del suo simbolo. FEBBRAIO
Per fare una
descrizione
efficace è utile, talvolta,
di luce non come sono, ma come pittoricamente grazie all’impressionismo). Quando Chateaubriand (ova che sono grigie) non fa che imitare un pittore parla della Dormeuse, la descrive come la vorrebbe FEBBRAIO.
rendere
il paese
o l’effetto
vengon tradotti (specialmente parla delle ova bleu dei merli impressionista. Quando Valéry dipinta da Degas o da Picasso.
ABETONE
Questi cieli di montagna, di uno splendore verde e tetro, perché sono distaccati dal sole e dalla neve come se fossero in un altro universo, sembrano certi occhi indifferenti di donna.
Noi spesso ammiriamo le nuvole; ma noto che quasi sempre (salvo i casi in cui si tratti di piccoli cirri inoffensivi) questa nostra ammirazione viene dopo un atto di volontà e un certo sforzo di visione quasi astratta e sempre critica. Apprezzamento ben diverso da quello che suscita in noi un grande cielo. Forse questa nostra difficoltà ad ammirare le nuvole si spegne in un istintivo sentimento di noia al pensiero della pioggia, e da questo si vede come rinasca in noi un placato senso di utilitarismo. Perché l’orribile in sé, quando sappiamo che non ci darà fastidio, non altera il nostro giudizio. Così, noi ammiriamo senza la minima incertezza, gli orridi alpini.
Per il dramma. Nel mondo moderno si è perso il senso della giustizia perché tutto quello che la nostra civiltà cerca di sviluppare e rassodare nell'uomo è l’amore di sé. Questo amore di sé — che è per natura nell’anima umana
—, deve essere da una
vera civiltà compresso invece che acceso, perché l’amore di sé è infinito e conduce quindi a imprevedibili guai — mentre l’amore degli altri è facilmente regolato dal costume e conduce a vantaggi prevedibili. La giustizia non esiste che tra uomini altruisti — o almeno le tradizioni abbiano frenato l’amore di sé. 178
tra uomini in cui
Per frenare l’amore di sé bisogna far vedere all’uomo anche quella parte della sua natura cheè brutta; ma la civiltà moderna finisce per adorare qualunque vizio, pur che sia violento, solo perché è nell’uomo. Questo viene dall’ammirazione per la potenza, che hanno tutti i moderni. Adorando nell’uomo le sue qualità di potenza egoistica, solo perché sono in lui, non ci sarà più distinzione fra bene e male;
ma tra forza e debolezza. (Debolezza: incapacità di sviluppare a pieno le qualità egoistiche.) Non sarà quindi possibile far vedere all’uomo la parte miserabile della sua natura,
né frenare in lui l’amore
di sé.
Perché si potesse distinguere il bene dal male bisognerebbe che i criteri del bene e del male fossero posti come al di fuori dell’uomo, da una specie di tribunale che contemplasse la terra dall’alto, e giudicasse secondo principi che non ci riguardano. È quello che ha fatto il Cristianesimo. Perché se ci si addentra nell’uomo, e si stabilisce una regola in base a quello che è, come si farà a separare il bene dal male? Sarebbe come guardare l’estensione di una pianura standoci fermi in mezzo. La morale deve presentarci l’immagine dell’uomo « come deve essere »; il fatto che la gente si ribelli, quando si vuol applicare questo principio alla politica, dimostra che nella politica non c'è morale non solo, ma che la massa esige che non ci sia morale. Perché se no anche la politica dovrebbe essere fatta tenendo conto dell’uomo come è — se no sarebbe pazzia — ma per avvicinarsi a un modello più alto e cioè alla politica come dovrebbe essere. La scienza dell’uomo deve essere un mezzo,
mentre per quasi tutti è un fine. E così anche la politica non potrà li-
berarsi dall’immoralità, perché cerca le sue regole in se stessa invece che in un principio posto al di fuori di sé. una
Per l’uomo moderno la potenza è poi semplicemente la ricchezza; la quale dà potenza di cui gli uomini si servono solo per aumentare ancora la propria
ricchezza.
E infatti
la ricchezza,
persino
nel prestigio degli uomini,
ha preso
il
posto della nobiltà, dell’intelligenza, della cultura. Potenza e prestigio: i due attributi della regalità. Ma che cosa si può sperare da una civiltà in cui regna la ricchezza? L’arricchire è poi lo sforzo più brutale dell’amore di sé. V. Rabevel di Fabre. Lo stesso autore non può spogliarsi dinnanzi a tutte le ribalderie del suo eroe, di una certa ammirazione. E perché mai Rabevel commette tutte quelle ribalderie? Per aver dei soldi: cioè per avere dei comodi fisici, e del prestigio — in fondo dozzinale. Come si può pretendere della giustizia, quando si ammirano degli uomini che « violano tutte le leggi della morale corrente » solo per avere dei soldi? Noto che una vecchia abitudine mi fa scrivere ancora di queste leggi. E infatti sarebbe falso dire che queste leggi non esistano più -- tanto è vero che se ne parla. Ma esistono solo — e pallidamente — per dare ai ribaldi la gioia di violarle, e agli onesti la gioia di vederle violate. Quello che non capisco bene è perché gli onesti godano tanto a vedere i disonesti violare quelle stesse leggi che essi osservano. (Naturalmente quando questo non si fa a danno loro.) Forse c’è in questo sentimento una segreta nostalgia di fare altrettanto.
179
« Un vero onesto, quando segue una linea morale, non lo sa ». Non è vero che i santi e i mistici antichi non ragionassero di molto sulla loro fede e non avessero coscienza della loro forza. Se paion diversi da noi è prima di tutto per la lontananza e poi, in certi casi, perché di tutto quel travaglio interiore si vede solo la conclusione pubblica. Così quando noi vediamo un manifesto nuovo per la strada non pensiamo mica a tutte le corse su per le scale del municipio che ha dovuto fare l’interessato per avere «il permesso ». « Questo non è affatto il secolo della critica. È il secolo in cui la critica fa molto rumore e non conclude niente, come una motocicletta rovesciata che gira a vuoto ». La critica non ha senso che se si applica a qualche cosa. La critica ha efficacia in un’epoca in cui ci sono due o tre grandi idee opposte da illuminare e rafforzare; non in un’epoca, come questa, in cui ce ne sono mille piccole, o diciamo,
nessuna. Un uomo
è veramente
grande, quando sa di essere libero in catene.
Anzi per essere libero, bisogna essere un po’ legato; perché l’uomo legato aspira alla libertà, mentre l’uomo completamente libero ha bisogno di catene.
I « grandi » e i « forti », sono quelli che vogliono essere « grandi » e « forti ». Non bisogna mai dire « questo sforzo non serve a niente ». Tutti i grandi risultati si sono avuti con mille sforzi che non servivano a niente. In questo paese i vari grandi sono trattati da ciarlatani e da buffoni, e i buffoni da grandi. Ma sarebbe troppo comodo se oltre alla coscienza di sentirsi grande ci fosse anche la gioia di veder riconosciuta la propria grandezza. Queste cose forse succederanno un giorno.
Bisogna guardarsi dal fare delle considerazioni troppo amare sugli uomini, perché si finisce per prenderci gusto. In verità, noi non sappiamo
mai, se questi uomini
li amiamo
o li odiamo.
volte ci paiono saggi e buoni, a volte pazzi e cattivi. Ma è perché cambiamo o perché cambiano loro. Dio mio, come tutto è incerto!
A
noi
Preghiera a Dio. Io ho peccato secondo la tua legge sino ad oggi. Ho cominciato col non credere in te. E oggi continuo a peccare perché non sono ancora sicuro di credere in te e non mi pento davvero dei miei peccati. Tu hai cominciato a punirmi. Saggiamente perché da quando mi fai soffrire io comincio a pensare a te. Indifferente o sdegnoso, fin quando hai fatto piovere su di me i tuoi doni largamente, ti ho supplicato quando ho cominciato a patire, e ti ho temuto e ti temo ora che sto piegando le ginocchia sotto i tuoi macigni. Ma questa preghiera a te non deve essere grata. Se è vero che mentre scrivevo le prime e più empie frasi del mio discorso ho avuto un brivido di paura sacra, è anche vero che in questa preghiera c’è un bisogno carnale da placare e un segreto ricatto. Non è la prima volta che ti ho posto questo ricatto. Dal giorno in cui ho comin180
ciato ad aver paura di Yone, io ti ho gridato (in ginocchio, me ne ricordo, e con le mani giunte) che io avrei creduto in te e a te avrei data la mia vita se me la rendevi. Non solo facevo un ricatto dunque, contro di te; ma ti chiedevo in grazia l’amore peccaminoso di una donna. Tu hai sembrato ascoltarmi, e appena ho creduto che m’avessi esaudito la mia fede in te si è spenta e ho avuto persino vergogna di scrivere che avevo davvero chiesto questa grazia a te. Poi, tutte le volte che ho temuto di lei ti ho di nuovo pregato e di nuovo rinnegato.
Ora io non posso lamentarmi se mi punisci. Rileggendo queste righe, mi è venuto sulla bocca un sorriso, a pensare che forse io grido e chiamo e prego e non c’è nessuno che m'ascolta. Dunque sono empio anche ora e se ho invocato in te il Dio vendicatore è perché ho bisogno di una grande tempesta in cui le mie forze e il mio male si stremino finalmente. E in verità anche ora commetto un peccato d’orgoglio; perché cerco, per addolcirlo, di ingigantire il mio male fino a farlo venire da te, come se tu degnassi del tuo sguardo questo piccolo mortale, e non sapessi che questo è uno dei milioni di mali di lussuria che popolano le anime umane. Tu mi lascerai dunque languire solo, senza darmi un segno della tua collera o un segno del tuo amore. E questo sarà il castigo più grave. Eppure tu hai già capito che anche ora, in verità, io voglio chiederti ancora e sempre la stessa grazia. E in verità non al Dio della vendetta io voglio ricorrere ma al Dio che solo può aver pietà di questa mia sofferenza. Signore
Signore,
io dico una
bestemmia
ora, io sono
molto
empio
ma
sono
anche molto triste e tu devi sentire che questa volta davvero nel dolore mi sono avvicinato a te e non mi puoi lasciare. Non ho nessuno a cui chiedere aiuto e pace e un po’ di riposo, e io non posso turarmi la bocca e non gridare a te che mi rendi Yone, anche se mi farai molto male. Come è dolce il dubbio, quando si è arrivati ad una certezza triste! La certezza però ci fa diventare molto più chiaroveggenti, perché è un dato di fatto. Quando si ha un’improvvisa e definitiva certezza, il dolore grosso non è immediato. Lì per lì, appena sentiamo sorgere in noi la folla dei piccoli ricordi dolcissimi che ci legano a una donna, siamo così spaventati che li schiacciamo subito sotto un sentimento generale di abbrutita disperazione. Sentiamo che dobbiamo cominciare
ad adattare
prima non
esisteva
il nostro pensiero a una situazione
nuova,
(o nostalgia!), che questo ci costerà sangue,
che un minuto
ci domandiamo
perché questo è successo, cerchiamo di tenere un contegno, fabbrichiamo dinnanzi
a noi stessi una specie di sorriso (come mai?) e sudiamo. Questo stato può durare abbastanza. Alle volte, se abbiamo qualcuno che ci consola subito, questo stato migliorerà anche moltissimo; ci parrà di poterlo guardare da lontano,
con
stacco,
ci sentiremo
forti, diventeremo
chiaroveggenti.
Ma
il dolore comincia dopo (specialmente la mattina), quando siamo avvezzi a pensare con gioia alla nostra donna. Allora la folla dei piccoli ricordi, e dei sogni costruiti su di lei per l’avvenire, si sveglieranno tutti insieme e cominceranno
a farci 181
patire di rimpianto e di bastava un nonnulla per goduto la metà di quello venteremo guardando un rimpianti,
un
futuro
rimorsi atrocemente. Avremo sempre la sensazione che salvar tutto. Avremo sempre la sensazione che non s'è che si poteva godere e che ora è troppo tardi. E ci spafuturo che non riusciamo a veder mai liberato da questi
in cui non
ci par più possibile
di amare
altre donne.
Ma piangere non è facile, per noi che non ci siamo più abituati. punto, decidemmo freddamente, col cervello, di provare a piangere sforzo fisico per far uscire le lagrime, dovemmo storcere la bocca e gli quando si ride. Intanto pensiamo che tutto questo non serve a niente, noi e la nostra
donna
una
separazione
a volte incolmabile,
A un certo e [...] uno occhi come che c’è tra
che la nostra
donna
non sa non immagina questo male e che se lo vedesse, per il fatto che non ci ama più, non le farebbe più effetto. Questo senso che per mancanza d’amore, qualsiasi nostro atto è spogliato di risonanza, mentre prima era efficacissimo, ci spaventa. Ma che cosa è dunque questo amore? Sentimento misterioso e inafferrabile che cambia valore a tutte le cose! E poi sopraggiungono due sentimenti: la gelosia dell'ignoto, che è poi l’idea che tutti i privilegi di cui hai goduto li godrà un altro, che tu diventerai un numero della serie (366), e il senso che « questi dunque sono i sentimenti veri dell'amore, che quando si leggono hanno un’aria tanto diversa ». L’abitudine a legger storie d’amore, ha ormai tolto ogni valore anche alle parole più gravi che troviamo: strazio, disperazione,
etc., che ci rammentano
confusamente
altri libri e quindi
più letteratura che sofferenza vera e propria. L’idea che quelle descrizioni e parole dipingessero il sentimento in cui ci troviamo noi ora ci riempie di sdegno e stupefazione. Vorremmo far capire che tutto è molto diverso, è cento volte più forte, ma se appena formuliamo due frasi, ci accorgiamo che vengon fuori le stesse parole che abbiamo letto, e che chi ci legge — anche l'essere amato — riproverà quelle sensazioni che provammo noi. Di qui il sentimento penoso della incomunicabilità. Si noti, che nonostante tutto, rimane sempre in noi un filo di speranza. Ogni tanto si presentano di fronte a noi due vite: quella mediocre senza sofferenza e quella grande e dolorosa. Quando non soffriamo ci par bello di aver da patire enormemente per poi trasformare il dolore in poesia e diventare immortale; ma quando soffriamo rinunceremmo volentieri all’onore di sfruttare il dolore. E la gloria accanto all'amore ci sembra il canto di una tazza vicino a quello di un violino.
Il momento più doloroso è forse quello in cui ho uno sfogo di sensi. Allora mi sveglio nella notte disfatto proprio al fondo dello sconforto, perché mi par che tutto il mio male si riduca a una questione sessuale, e contemplo la sproporzione fra la mia disperazione sentimentale e quello che mi sembra un fatto corporale. Anche il dolore ha bisogno di un po’ d’ebbrezza di sublime.
Alle volte un pensiero che aveva vissuto con modestia nella nostra mente per tanto tempo, acquista un’importanza impreveduta, s’allarga fino ad annientare tutti quelli che prima erano parsi fondamentali senza che sia successo nessun fatto nuovo, che giustifichi questa rivoluzione, ma così, per un gioco interno dei pensieri, simile a quello che regola nei ghiacciai, l'equilibrio delle masse di neve. 182
La prova che quando siamo in balìa del dubbio fisso non riusciamo intimamente a credere a una soluzione del nostro dolore l’abbiamo il momento in cui cerchiamo, invasi dalla speranza, di immaginare un avvenire improvvisamente sereno. Questo momento, che ho definito un rimpianto proiettato nel futuro, è sempre breve e scialbo; perché non osiamo impegnar troppo le nostre forze in un esercizio che sappiamo inutile; ed è proprio allora che ci accade più spesso di dimenticare a un tratto che cosa pensavamo e di rimanere col pensiero sospeso (segno di poca intensità). Rimanendo tutto a un tratto con la testa vuota, come quando ci si sveglia, e con la sensazione che i nostri pensieri non erano troppo sgradevoli, cominciamo con la mente a girare per i campi più familiari del nostro dolore E della nostra speranza, per rintracciare questa consolazione svaporata. Ma proprio allora ci riprende il dubbio sulla nostra falsa allegrezza, e passando quella rassegna ci incontriamo, invece che in quell’incanto distratto e sfinito, nelle immagini vive e sanguinanti della disperazione, che ci riempie
L’unica
maniera
a un
tratto
con
l’impero
di riposarci, quando
di una
cascata
sempre
nuova.
siamo vittima del dubbio fisso, sarebbe
di non pensarci e quindi di distrarci. Ma non succede mai, come in quei casi, di aver così poca voglia di distrazione, di evitarle con tanto zelo, e, se siamo costretti
a subirle, di penar tanto per lo sforzo di non lasciarci distrarre e di pensare al nostro male. In verità con la ragione noi ci rendiamo conto che la salvezza sarebbe nella fuga; ma ormai la volontà stessa è stata sottomessa dal male e adoprata da lui come un aguzzino, che ci riporta a ogni istante sotto i colpi del dolore, e quando stiamo venendo, ci ridà la forza che è necessaria per soffrire ancora. Il dolore più stremante è dato dal dubbio fisso. L’incertezza fissa acquista poco a poco una specie di vera consistenza materiale dentro la testa dell’uomo, e pesa
in una parte del suo cervello come se fosse un male fisico. Si può anzi dire che l’uomo se la sente diventare a poco a poco cervello, gli sembra che invece del cervello ci sia ormai quel dubbio il quale così per condiscendenza, continua a ragionare e a osservare tante piccole cose senza importanza presso a poco come il cervello: « Che cosa sentì mai una mosca imbarcata nel treno di Torino che si trovi a Grosseto? ». « Quella signora ha le mani grosse ». Il dubbio l’incertezza sono stremanti perché sanno esaurire a poco a poco l’uomo facendolo passare continuamente da un’alternativa all’altra. Nell'uomo che soffre ci sono
due
strati paralleli;
uno
di speranza
e uno
di disperazione.
Se vi
fosse solo quello di disperazione l’uomo a poco a poco cercherebbe di adattarvicisi e di rinunciare al bene che perde, orientando in modo nuovo il suo pensiero. Ma questo equilibrio non lo può trovare proprio a causa di quei momenti di speranza che lo risollevano fallacemente per lasciarlo cadere giù, facendogli risentire tutti i momenti il colpo della ricaduta. Né quei momenti di speranza sono veramente dolci; perché l’uomo che soffre s’accorge benissimo, come nei sogni, che non
sono solidi; perché se passa la speranza in primo piano, rimane in secondo piano, ghignante, la disperazione. E poi la speranza è ancora più faticosa; perché la speranza consiste nel dubbio che s’affaccia che quell’altro dubbio sia chimerico. Ma subito si sente venire il dubbio su questo secondo dubbio, e l’uomo finalmente non potendo più resistere a queste ondate accavallantesi di incertezza ritorna alla disperazione presa quasi come un sospiro di sollievo per ritrovare almeno la semplicità di un sentimento chiaro. Nei momenti in cui la speranza scompare come il sole fra le nuvole, con già 183
un senso penoso di provvisorio l’uomo intravede la possibilità di una gioia astratta che sia indipendente dagli avvenimenti, e che è poi la rinnovazione di uno di quegli stati d’animo che precederanno la crisi, il quale per un miracolo trova ancora il modo d’essere applicato; ma in pratica l’uomo non sa nemmeno immaginare una soluzione vera e propria, in cui in nuovi avvenimenti il nodo si sciolga; perché se appena comincia a immaginarla, lo strato disperato si gonfia e distrugge quel primo abbozzo di reazione, irrigidendolo: e la timidità con cui l’uomo si attacca a questo lavoro ricostruttivo, viene dal fatto che egli sente subito, fino dal primo istante, come basti ricominciare a ricostruire perché tutto il nuovo edificio venga distrutto; e allora cerca di appagarsi di quel momento di illusorio sollievo, che più di una speranza è un rimpianto accorato proiettato nel futuro. Il dolore
è veramente
di natura
divina
punto di vista naturale, incomprensibile. in me a essere abbandonato, a dubitare, è ben strano.
perché infinito e, in certo senso,
dal
Per quale ragione io sento tanto strazio
anzi a temer d’esserlo — o a non capire, o solamente
Forse questa osservazione è ingenua e stupida ma io ripeto che ora non vedo come la natura possa spiegare questo scempio che un dolore morale fa della mia testa e del mio corpo stesso. La natura deve appagarsi di quel che ha e rinunziare a quel che non ha. La natura è intimamente allegra, perché è perfettamente congegnata e a ogni minuto che passa gode di vedersi prosperare e vivere. La tristezza e il dolore sono il segno di Dio nell'uomo; l’incomprensibile passione che l’anima di qualche cosa di diverso e perciò gli permette di contemplare la natura come fosse qualche cosa di staccato da sé e perciò di non perfettamente naturale. I drammi sono generalmente più profondi delle commedie (a parità di livello) perché il dolore è la realtà continua e universale della vita, mentre il riso, il comico, sono nella vita come la schiuma nel mare, un’efflorescenza effimera e particolare e in verità non si possono contrapporre. 19 SETTEMBRE
1025
19 giorno di soldato.
Advient ce qui pourra
Fucile O.R.I.
8325.
Che cosa dolce la disciplina ... perché ci difende dai compagni. Se mai, vorrei essere trombettiere. Il trombettiere ogni mezz’ora si mette a capo del piazzale e suona e come per incanto tutta la caserma gli obbedisce e si fa il silenzio in ogni stanza; oppure, come attirata da quegli squilli, una turba di soldati corre gridando verso una meta che io non capisco. Il trombettiere si deve un po’ sentire padre eterno. Il trombettiere è più potente del colonnello.
Dopo un po’ che stanno in gruppo gli uomini s’avvezzano a pensare forte e a comunicarsi anche quello che è inutile. Ieri sera non si poteva dormire perché in camerata c’era una turba di insonni che a ogni passar di recluta o di sergente sentiva il bisogno di dire: passa uno, o discorsi del genere.
In queste folle ogni uomo ha tutti i suoi tentacoli fuori per cercare negli altri la natura affine. 184
Sensazione di naturalezza. A mano a mano che mi capita qualche cosa di nuovo l’affronto come se l’avessi preveduta e mi ci abituo come se l'avessi già provata. Non posso nascondermi che in questa attesa di nuovo c’è una punta di vera e propria gradevolezza. Questo sentimento di essere io, come prima, ma immerso nella folla militare, questa coscienza pre-militare che galleggia sulla noia dell’ozio di caserma e si impregna di tutte queste cose nuove con l’avidità di un estraneo, mi consola. Mi par quasi di non essere soldato che in parte e quanto durerà? La sera è deliziosa. Nella grande camera piena d’ombra delle forme bianche si alzano e s’abbassano con un movimento quasi ritmico, agitando le grandi ali bianche dei lenzuoli contro il muro grigio. Tutti parlano sottovoce e certi accenti veneti, colti attraverso la stanza, hanno un sapore musicale. E a un tratto ecco la dolce e triste tromba del cortile. La mattina. Tromba
d’oro. Sensazioni d’acqua fresca.
Ho letto la Prière di Pascal. In questo ambiente invece di attutirsi le frasi rintronano nel mio cervello come i rumori nell’orecchio di uno che è stato a lungo rintontito per un girar d’acqua e che a un tratto si sente alleggerire. Fabbrica di gioie. Ognuno ha occupato la camerata che corrisponde alla sua squadra. Io ero già, per caso, in quella che avrei dovuto occupare. Quindi ho potuto tenere il mio letto. Soddisfazione grandissima. Dormo da due notti in questa branda e mi ci sento già attaccato, tanto, che a cambiare mi parrebbe di emigrare. In verità, godo il muro, che vuol dire un
collega di meno e un panorama grigio sotto gli occhi, affogando nel quale mi posso illudere
d’esser solo.
Veri alpini. Han l’aria di camminare gerezza di uno zaino mancante.
quasi traballando,
per l’eccessiva leg-
Leggere un canto di Dante nei cantucci di tempo. Gioia, deliziosa. In fondo questa vita da bruti è proprio quella che mi ci voleva. Ci ho affogato dentro
dolori, ricordi, rimorsi, stanchezza,
febbre.
Ma
per il fatto che ce li
ho veramente affogati non posso più godere della gioia di non averli. E questo dimostra che il riposo si sente solo se è un po’ salato di fatica e cioè se non è riposo assoluto. Così di tutte le cose: per vederle bisogna esserne fuori in parte. (V. l’altro libretto.) Ritorniamo bambini e materialoni. Ora capisco molte cose dei militari. Sono diventati tutti morbosamente vanitosi e passano il tempo a specchiarsi nei vetri. E poi il futuro e la vita s’annegano nell’episodio. Se possiamo uscire un’ora prima siamo allegri, se un’ora dopo tristi. E non si bada ad altro. Anche i ricordi di Yone, che ogni tanto mi riprendono con violenza, sono prevalentemente sensuali. Un compagno di letto m’ha fatto subito le sue confidenze amorose. Io ho sentito la superiorità di non dire niente. Ma che serve? Quello è coccolato evidentemente
e felice e nessuno mi è grato di questa delicatezza. Bisognerà che cominci anch'io a far lo stesso. Quando sta per venirmi un pensiero me n’accorgo e il pensiero nasce da questo sforzo che faccio, appena me ne sono accorto, per esprimerlo in parole. Sto come in agguato e non ho la forza di cacciar fuori il pensiero. Appena sento che sto per averlo, il pensiero evapora. 185
La vita si stilizza proprio nel regolare scorrere degli esercizi militari. Ci persuadiamo che un uomo, il quale faccia bene l’attenti e il fianco dest, debba essere,
sempre, un uomo
ricco di ogni qualità intellettuale ed umana.
Mi sono scoperto molto più contemplativo e attonito di tre o quattro anni fa. Allora avrei trovato un qualche gusto ad « arrangiarmi ». Ora mi è indifferente e mi lascio scappar le occasioni buone sotto il naso per indolenza. Forse la paura delle consegne mi sveglierà. Per ora mi pare che la vita militare, una reazione, esasperi, piuttosto che non corregga, questo mio stato di spirito. Quando mi trovo davanti quella linea che un Montaigne o un Pascal hanno preso dinnanzi alla vita, l’idea di riassumerla per conto mio e d’entrare nei panni di questi filosofi, per quanto diversi, mi pare gradevolissima — molto più che quella di essere come sono — e immagino per un momento un Leo che sorrida come Montaigne dice: « Que sais-je? ». O che si spaura come Pascal dinnanzi all’incomprensibile dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. Ma questo piacere dura poco, perché ogni posizione è continuamente smentita dalla successiva che mi pare altrettanto gradevole. E rientro dolorosamente in me come in un brutto albergo, che è pure accogliente, dopo che si è girellato a lungo per una città nuova. Bella e leggera cosa la vita militare, in cui la preoccupazione maggiore di un giorno può essere una penna troppo lunga e l’umiliazione più profonda un cicchetto del tenente perché hai le scarpe polverose.
Quando dalla nebbia del primo giorno, in cui tutti i compagni sembrano similmente anonimi e brutti, si vedono uscire a poco a poco degli uomini con caratteri ben segnati, che hanno radici nella vita di prima, si prova un dolcissimo senso di scoperta — su per giù come quando si contempla un paesaggio prima a occhio nudo e poi col cannocchiale. Fin qui ero avvezzo a dividere gli uomini in due classi: geni e persone soltanto d’ingegno. Mi trovo tutto stupefatto ora, accorgendomi che ammiro il tenente, il quale non è certo un genio. Ma ormai anche per me questa divisione è morta: e se n’è sostituita un’altra, quella che fanno tutti i miei compagni.
Qui si vede la dipendenza dello spirito dal corpo. Stamane m'è venuto d’un tratto un ricordo straziante di Yone che mi ha tolto le forze e il calore. La vedevo ridere, guardandomi. Poi sono andato a prendere il caffè e mi sono sentito d’un tratto vigoroso e allegro. Yone è soffocata nel caffè! La vita dell’esercito è come quella di una religione già morta. Siccome non è possibile mantenere nei soldati una disciplina e una compattezza di convinzione (fede), si ricorre a un insieme di irragionevoli disposizioni, che per il loro numero e per il loro rigore servono alla vita militare come di scheletro. Ma è un circolo vizioso; perché finché resteranno in vigore queste disposizioni non ci sarà mai compattezza e disciplina convinte, ma solo obbedienza basata sulla paura. Dello stesso genere è il rispetto per i superiori. x
Tutte le impressioni si allargano in Proust come è gettata una pietra in uno stagno.
i cerchi d’acqua quando
si
La prova che la disciplina militare non è di convinzione si ha quando si dà il comando « Passo! ». Siccome non si può vedere chi lo fa e chi no, non ci si abbada 186
per nulla; metà della compagnia regolarmente la prima volta che vien dato non eseguisce l’ordine. I caratteri affiorano nei momenti anormali. Basta la paura di essere consegnati per far venire a galla tanti fondi nascosti. I distratti sono in fondo delle persone che seguono il filo dei loro pensieri — ed è perciò normale che non possano insieme pensare alle cose loro e a quelle di fuori. Il ricordo di Yone mi opprime a ore fisse, la mattina mentre facciamo la ginnastica. Allora è violentissimo e mi fa venire le lagrime agli occhi. Mi è duro continuare; ma a poco a poco il male passa nel tumulto. In fondo io sono un giocattolo ben simpatico per una donna (che vuol provocare delle emozioni); perché so soffrire moltissimo — e mi accorgo che anche questo è più raro di quel che si creda. Io credevo che la vita militare mi avrebbe dato anche un bisogno di creare delle opere più sode, per quel contatto continuo con la realtà; ma facevo una inconscia trasposizione dal corpo allo spirito; perché mi convinco che a un progressivo irrobustimento
del corpo
non
corrisponde
che questa vita materiale invece di rassodarmi tualmente.
Forse, il momento
un
irrobustimento
e darmi
intellettuale;
e
vigore mi disfà intellet-
in cui si è più vigorosi, per la creazione, è quello in
cui si è già un poco stanchi. Vedendo
come
sto bene ora che non lavoro affatto mi rendo conto dello sforzo
che ho dovuto compiere e della durezza di questa carriera. I borghesi non possono saperlo. La musica aiuta a camminare, ma ancor più a star fermi, perché ci riempie della coscienza della nostra posizione e ci porta dolcemente fuori di noi in modo che ci contempliamo così immobili con un soave compiacimento, e stiamo fermi
perché ci guardiamo star fermi. A volte, se non
osiamo
vedere
negli altri certi sentimenti,
che la nostra espe-
rienza personale ci dovrebbe rendere chiari, è perché il pudore di questi sentimenti è così grande, che abbiamo paura di rivelare agli altri, con un'intuizione troppo sottile, di averli già provati noi. E questa paura, che noi avvertiamo come tale, ci annebbia l’occhio e ci impedisce di guardare. Far bella figura, ecco la formula della vita militare. Per questa ragione i soldati in pace sfilano allineati e in guerra muoiono. Non mi pare che ci siano altri veri sentimenti animatori. Si capisce quindi che il nocciolo di questa vita sia ben magro e non possa appagare uno spirito profondo. Quelli Uno
che servono
in pratica sono
spirito contemplativo
solo ? mezzi talenti.
può essere
facilmente
poco
virile.
Non avrei creduto che la bassa levatura morale di un compagno mi sarebbe riuscita così urtante. Perché si ammetta in un uomo l’egoismo e l’anormalità bisogna che quest'uomo sia molto intelligente. Ma poi, è proprio necessaria questa intelligenza? La bontà è molto importante. Ma la voluttà di pensare non me la cava nessuno. E in questa voluttà mi rifugio con un senso di riposo appagato. I compagni mi dicono allora: « Che cos'hai
Ferrero? Sei abbrutito? ». 187
16 SETTEMBRE
A volte mi sento infelice perché la ragione ed una specie di linea che mi sono imposto di fronte alla vita mi impediscono di fare quello che l’istinto mi suggerirebbe e che mi darebbe piacere. Ma dopo che ho rinunziato, mi sento aduggiato continuamente da un misterioso rammarico. Temo che seguendo l'istinto sarei poi vittima della mia ragione, che si farebbe ironica; ma l’ironia, per quanto asprigna, non ha forza, quando si urta contro la nostra vera natura. Quando bisogna scegliere, per una specie di risentimento contro di noi che non so bene da dove venga, siamo attirati dal partito peggiore.
La religione del superiore di cui ci riempiono ha degli inconvenienti: tra gli altri quello di limitare in certo senso le facoltà intellettive del soldato, per via del panico. Il panico consiste in questo: il soldato sente che il superiore quando lo guarda, cerca in lui la mancanza. Questa diffidenza professionale dell’ufficiale a cui il soldato è morbosamente sensibile, fa sì che il soldato a poco a poco anche quando non è in colpa, si persuada di esserlo, e si conforti come uno che cerca di cavarsela da un impiccio, in cui, in realtà, non è caduto. Così alle volte, mentisce per la paura che il superiore creda che lui voglia mentire. E non è strano che per
aggiustare una grandi bugie.
prima
inesattezza,
finisca, senza
Bisogna declinare ad alta voce nome tano
con
ansiosa
cognome
necessità,
per raccontare
delle
e titoli di studio. Tutti aspet-
delizia il loro turno.
Qui si vede che ci sono due classi di maturità: quella per cui un uomo entra sempre più profondamente in certi sentimenti universali, e quella per cui capisce più rapidamente i propri interessi. Questa seconda maturità non ha nessun bisogno di esperienza né di anni. Certi l'hanno subito. E molti non l’hanno mai. Ma per la prima è necessaria la sofferenza e l’età, oltreché l’ingegno. A sentirsi sporchi, sbracati, brutti, in una cantina fumosa, con un litro di vino
davanti e accanto un caporale toscano intelligente, si prova una certa ebbrezza. E il piacere delle cose complete. Dal tuo vestito al soffitto il quadro è armonioso. Se tu non fossi stato soldato o ti ci fossi trovato elegante saresti stato infelice.
Noi ci rendiamo conto con molti errori dell’impressione che facciamo sui nostri ufficiali. Io raggranello tutte le impressioni che un ufficiale avrebbe dovuto avere di me nei vari momenti in cui siamo a contatto e li sommo insieme, senza rendermi conto che quelle impressioni, per il fatto che mi riguardano, rintronano in
me molto più rumorosamente che nell’ufficiale — e che molte volte l’ufficiale non sè nemmeno accorto di quella che a me è parsa una clamorosa balordaggine o un'attenta manovra. Io ho però una complessiva e brumosa coscienza di quella che è l’opinione dei miei superiori verso di me, e per quanto, probabilmente, l’ingrandisca, come tutte le cose che ci stanno a cuore, devo essere sulla strada buona.
4 Io mi convinco sempre di più che nel popolo l’amore per la giustizia è più vivo che tra i borghesi. Un caporale nostro s'è indignato veramente (e non solo alla superficie) perché alcuni allievi consegnati sono stati graziati e altri, che ne avevano più diritto, no. Noi, anche quando abbiamo questo sentimento profondamente, siamo talmente avvezzi a vedere ingiustizie, che non ci facciamo più tanto caso. E, in certo senso, 188
fare il callo a un male vuol dire patirlo meno.
Se ci pensiamo,
nella vita del po-
polo, non ci sono ingiustizie — e per questo il fascismo ha sdegnato i popolari più che i borghesi (e non solo per ragioni d’interesse). 22
SETTEMBRE
Io credevo una volta che l’uomo uscisse dall’infanzia spiritualmente il giorno in cui si proponeva una linea generale di vita e sdegnasse le ricerche particolari — non s’affogasse cioè nel dolore o nella gioia di un piccolo episodio. Ma ora m’accorgo che la maggior parte degli uomini non si matura mai — perché vive giorno per giorno e non riesce a pensare alla propria vita che in via teorica e senza impregnare di questo sentimento il minuto che passa. Così nell’attesa di un piacere o nel timore di un dolore consuma tutta la vita. La gioia s’accresce nella contemplazione di se medesima. Il caporale in congedo ha durato a gridarci, per un giorno di fila: « Sapete! Io domani vado in congedo! ». 2
OTTOBRE
Ci sono dei forti che con una donna si fanno deboli, e dei deboli che con una donna fanno le viste di essere forti. E in verità sin che la donna non s’accorge del
trucco, i deboli che fanno i forti sono più forti dei forti che fanno i deboli. In un ritmo regolare (passo) il nostro orecchio ritrova i ritorni più vari. Immaginazione dei sensi. I furbi hanno sugli ingenui anche questo vantaggio: che quando fanno un’insinuazione,
che deve esser raccolta,
tutti in verità la raccolgono,
mentre
nessuno
prende sul serio l’insinuazione che fa un ingenuo, perché nessuno gli dà stima di furbo e tutti prendono le sue parole alla lettera. L’uomo
che mia Ma bini
è maturo,
tra l’altro, quando comincia ad aver coscienza dei momenti
vive; se io guardo indietro agli anni della fanciullezza vedo dei momenti della vita che sono come staccati da me perché non li vivevo con la coscienza sveglia. questo al solito non vale per gli uomini, che, probabilmente, vivono da bame da grandi allo stesso modo.
Per avere fortuna con gli uomini alle donne conviene piuttosto esser calme che frenetiche; e per aver fortuna con le donne agli uomini conviene piuttosto esser frenetici,
che calmi.
Io mi domando se l’uomo non sia più monogamo di quel che si crede. Perché quando un uomo s’è orientato verso un tipo di donna, gli riesce più difficile di orientarsi verso un altro tipo, che non di continuare ad amar quel tipo, e — se è possibile — quella donna. Vedendo l’esattezza e la folla delle immagini della Divina Commedia, mi domando se quel procedimento non sia esatto — e cioè se Dante avesse vivendo raggranellato tante immagini di movimento, di gruppo, di effetti di luce, prevedendo di doverle adoprare, e, dato che aveva piena libertà di far muovere i suoi personaggi come voleva, non avesse poi, molte volte, stabilito il movimento dei suoi personaggi in base alle immagini che già aveva, piuttosto che viceversa. Questo 189
m'è venuto
in mente
lucidando
con
dell’acido
la baionetta,
e vedendo
come
la
lama a poco a poco si riempiva di mondo, illuminandosi. Io mi son detto: questo potrebbe servire per un’immagine del paradiso. Poi ho pensato: perché Dante non avrebbe fatto così?
Per far durare l’amore — il legame sessuale è forse più necessario in una donna che in un uomo. (Questo vale solo per una classe di donne?) Se è vero che una donna s’innamora dell’uomo che non s’accosta troppo, è anche vero — e questo par più strano — che un uomo s'innamora di una donna quanto più spesso e quanto più clamorosamente la donna glielo dice. Un po’ di gelosia piace a tutti e due. Nella donna si intuisce perché. Nell’uomo per via della vanità. Infatti l’uomo se ne lagna sempre con gli amici. Le donne
amano
gli uomini
di amore
variabile.
(Piacere delle emozioni.)
Un uomo sente il bisogno di esprimere in parole un sentimento o un’idea; ma non quello di esprimere un godimento sensuale; perché in verità un sentimento o un’idea non acquistano vita chiaramente se non sono stati espressi in parole, mentre il godimento sensuale esiste di per sé, in quanto s'è goduto. Quindi degli scrittori come D'Annunzio sfruttano a freddo delle sensazioni che non richiederebbero espressione. Qui troviamo la parola che cerca nella vita dello scrittore una sostanza su cui incontrarsi.
Si dice facilmente di uno « che fa delle pazzie », ma al pubblico non è dato valutare equamente la gioia che danno le pazzie e lo sforzo che costa rimaner saggio. In verità alle volte la saggezza può essere così dolorosa da esser pazzia. Tristezza della vecchiaia: I vecchi devono ripetere in forma diretta quello che noi chiediamo loro, per far capire che hanno veramente capito. Per essere amati dalle donne bisogna essere come tutti gli altri uomini. Perché le donne ti vogliono diverso a parole, ma poi, siccome i meccanismi sensuali e sentimentali che governano l’amore sono sempre gli stessi e si muovono come la maggior parte degli uomini si muove, se tu sei diverso e fai muovere quei meccanismi in modo diverso, le donne rimangono disorientate e divengon scontrose. In natura le eccezioni sono malattie.
La cosa più difficile per i furbi è di capire l’ingenuità (e specialmente l’ingenuità degli intelligenti; giacché per un furbo l’intelligenza è poi la furberia).
Gli onesti hanno, nella vita comune, anche questo privilegio: che qualunque cosa facciano ingenuamente, gli altri credono che lo facciano a trucco. E naturalmente ridono perché il trucco manca d’arte.
I rassegnati sono quelli che hanno avuto un dolore grave — perché un uomo si rassegna al male che lo affligge, quando può paragonarlo a un male peggiore. Solo coloro che hanno fatto i denari o che li hanno visti fare, conoscono la potenza dell’oro e la sanno adoperare.
Gli uomini devono condursi a un modo con la moglie e a un altro con l'amante; perché è opportuno che il marito faccia piacere alla moglie (e magari sia un po geloso); ma è necessario che l’amante all'amante faccia paura.
190
Tenere una donna e conquistarla, sono due cose diverse. Gli uomini
d’azione
non
hanno
coscienza
del quadro
universale
delle cose; €
le imprese a cui si attaccano sembran loro volta a volta più grandi dell’universo; m’accorgo invece che io tendo a vivere sempre più mettendo ogni piccolo episodio in scala anche nel momento in cui l’attraverso; questo mi dà una certa serenità, ma mi rende sempre più contemplativo (e poco attivo). Gli uomini non sono scontenti di rendersi l’un l’altro dei servizi che non costino troppo, perché un credito di riconoscenza è una cosa gratissima a tutti; ma nessuno ama rendere alla collettività dei servizi che restino anonimi. Questo sentimento, che in Italia ha ancor più forza, allontana dalla vita politica, se questa presenta qualche pericolo, tanti cittadini, che si esporrebbero magari a quel pericolo per un amico. A ogni dolore l’uomo scopre un mondo. Così si vien maturando la natura La felicità è una irriflessione.
umana;
perché non
si riflette che soffrendo.
Qui due compagni godono di grandi privilegi: un cristiano e un ebreo. Il cristiano, nonostante 1 vantaggi che ottiene, si lagna sempre; l’ebreo non può celare la soddisfazione di star meglio degli altri. E tutti l’hanno a morte con lui, mentre restano amici del cristiano. In verità non l’hanno contro i privilegi di cui l’ebreo gode, ma contro la sua soddisfazione. Gli ebrei godono molte cose — e pure per questo più largamente sono stati e sono odiati dagli altri uomini.
Le donne amano gli uomini che hanno le idee ristrette — forse perché le scambiano per passionali. Certo, a ogni modo, perché ci si ritrovano. I lisciatori dan noia a tutti; ma quelli che sono lisciati non se ne accorgono mai. Cordoni. Sensazioni gradevoli: sentirsi sacri e inviolabili. Maligno e profondo dispetto di fare dispetto alla gente chiudendole il passo. Illusione di essere guardati dalle donne (che in verità non possono aver niente di più che un’impressione complessiva). Disprezzo per i borghesi; sensazione di forza per il fatto che si è inquadrati e bisogno, per vederla in pratica, di caricare la folla, la quale non rappresenta
altro, per noi, che
una
forza disorganizzata.
Gli uomini non si interessano agli argomenti in cui hanno da imparare, ma a quelli su cui hanno da parlare. La ironia è faticosa, perché ci obbliga a contemplare la vita dal di fuori e quindi a non lasciarcisi mai affogare. L’ironico è un uomo che s’alleggia. Nella vita militare chi più ha avuto, più ha diritto di avere. È forse così anche nella vita civile. Se ora posso avere tante idee e fare tante osservazioni è perché vivo da letterato la vita dei soldati: questo dimostra che un letterato deve vivere tutte le vite
possibili, salvo quella del letterato; perché un letterato che vive da letterato è come un palombaro IO
che volesse contemplare
il mare
calandocisi dentro.
NOVEMBRE
Gli stupidi si credono intelligenti non tanto perché s’alzino al livello degli intelligenti quanto perché abbassano gli intelligenti al livello in cui si trovano loro. 191
Gli uomini, in generale, sono pieni di scrupoli inutili cessari. Un uomo
e mancano
di quelli ne-
cerca d’essere, anche con una donna, ragionevole; e quando afferma
qualche cosa, ha poi paura di smentirsi, senza pensare che la donna s’accorgerebbe delle contraddizioni.
Noi ci accorgiamo che nella vita ci son sempre due misure solo quando siamo giudicati con la misura peggiore. (Infatti prima di venir sotto le armi non trovavo strano che i critici o i giornalisti e gli editori mi ricevevano con una cordialità di cui non eran larghi con gli altri autori giovani. Mentre trovo doloroso e ingiusto che un ufficiale non mi permetta quello che permette di fare ai suoi amici o ai raccomandati.) La ragione riesce, avendo
un
dato di fatto, a ricostruire
il rovescio;
l’imma-
ginazione no. L’immaginazione ha bisogno, per rendersi conto di uno stato d’animo, di averne i primi germi. E un uomo libero e ricco non riescirà a immaginare che cosa è la cattività o la miseria, come un prigioniero o un povero non riusciranno a immaginare la libertà e la ricchezza. La felicità è quel sentimento di benessere che comprende in sé i primi elementi di tutte le gioie. Infatti si ha più bisogno di essere amati quando si è tristi che quando si è contenti. Non solo perché d’istinto sappiamo che la nostra tristezza servirà a riaccendere ancora l’amore di una donna che è generalmente pietosa, ma anche perché nella felicità è già contenuto,
tra gli altri, un germe
d’amore.
Le donne oneste si meravigliano, quando vedono che gli uomini sì innamorano di donne disoneste; ma non pensano che anche le donne oneste si innamorano spesso di uomini disonesti (in tutti 1 sensi). In verità le qualità che contano per fare innamorare donne e uomini sono le qualità immediate, che hanno efficacia diretta. Un uomo e una donna possono essere disonesti tutte le ore del giorno, se sono piacevoli nell’ora in cui si incontrano.
C'è una differenza fondamentale fra la letteratura italiana e quella francese: ed è che l’italiana è stata scritta per uomini soli, e la francese per uomini e donne.
NOVEMBRE
1925
Gli uomini generalmente insuccessi alla sfortuna.
attribuiscono
i propri successi al merito e i propri
Le donne si meravigliano che gli uomini non s’accorgano dei trucchi delle altre donne; ma in verità non si può dire tanto che gli uomini non se n’accorgano, quanto che anche agli uomini, che se ne rendono conto, questa commedia piace, come qualcosa che stuzzica e attrae, perché è un segno delle qualità amorose della donna. L'uomo impone alla donna il suo stile esteriore e la donna, come la cera, informa su ogni uomo il suo modo di pensare, d’operare e di parlare; ma poi la donna trasforma l’uomo nel « didentro » come le pare e piace, senza che l’uomo riesca a far mutare la donna di una spanna.
Agli uomini piace molto l’illegalità commessa dagli uomini che dovrebbero rispettare religiosamente la legalità.
192
Gli inferiori mettono gli inferiori.
in impiccio e preoccupano
i superiori quanto
i superiori
[...] Come quando si vede nascere nell’occhio di uno che cerca di capire un problema, la luce dell’appagamento e dell’intelligenza. Certe signore sono tanto avvezze a dire delle cose illecite o a pentirsene poi clamorosamente con mille ammicchii d’occhi, che spesso continuano a fare tutte
quelle manifestazioni di sdegno pudico anche quando dicono delle cose innocenti. Se in nessun diario o epistolario di grande scrittore è confermata una certa preoccupazione dei posteri e il presentimento che quei pensieri saranno letti un giorno dal pubblico, è appunto perché nessun scrittore vuol far vedere che anche nei momenti più intimi sente la brumosa presenza della folla che gli è dintorno; ma in verità nella coscienza dello scrittore i posteri sono qualche cosa di astratto che riassume in sé misteriosamente tutta l’intelligenza, la sensibilità e l’equanimità che sono concesse agli uomini; e ai posteri ogni uomo può veramente confessarsi come a un sacerdote o a una madre. IO
DICEMBRE
Quando io esprimo un pensiero senza raccontare come m’è nato, faccio molta più impressione che se lo esprimessi, raccontando l’occasione in cui m’è capitato di pensarlo. Perché quand'è così isolato è come vivo di vita propria, meraviglia la gente per quel miracolo che è una cosa che non si sa come è nata e che splende; mentre se metto a nudo l’origine d'un pensiero, che è sempre un fatto quotidiano, e banale, gli uomini s’immaginano che avrebbero potuto arrivarci anche loro, solo perché si sono trovati in condizioni simili — e lo riportano d'istinto alla loro altezza. Scena per Sebastiano. Lui: « Perché non hai fatto la sola cosa importante che c’era da fare? ». Lei: protesta vivacemente. Lui: «Eh! Non c’è da arrabbiarsi così. Non c’era il caso di prender sul serio etc. Potevi rispondere in un altro modo ». Lei: « Perché io rispondessi in un altro modo bisognerebbe che credessi che tu fossi diverso da quello che io ti credo ». D'Annunzio: dei balli di Loiea Fuller in letteratura. I balli in genere e D’Annunzio hanno successo presso il pubblico perché appagano un certo bisogno decorativo che è umano; e soprattutto perché non danno da pensare. In uno di questi balli le ombre delle danzatrici sembravano più vere e consistenti dei corpi (immaginazione). Se un innamorato così facilmente si illude sui sentimenti dell’essere amato è perché, in verità, all'uomo riesce durissimo immaginare nell’essere che ama uno stato d’animo diverso dal suo.
Ci sono due categorie di uomini: quelli che vogliono amare e quelli che vogliono essere amati. In verità quelli che sono amati sono quelli che vogliono essere amati. 198
Sta di fatto che a ogni uomo il destino d’un proprio amore quello della propria patria o addirittura della propria civiltà. Gli
uomini
felici
sono
quelli
che
non
hanno
importa più che
passato.
Una grande occasione mancata può pesare su tutta la vita: questo è il rischio gravissimo che corrono continuamente gli uomini fortunati. Nell’ammirazione che hanno le donne per la violenza (di tutti i generi: in politica, nella stessa critica, ecc.) c'è un inconscio sottinteso sessuale.
Un dolore non ti comincia a bruciare e a rodere che quando l’hai capito — e le persone intelligenti soffrono di più appunto perché riescono a capire più profondamente quello che succede in loro. Uno stupido si vede limitata la zona del dolore dalla impossibilità in cui si trova di vedere in sé? Capire vuol dire soffrire. Gli uomini si sdegnano quando le fortune non capitano loro al momento opportuno. Ma in verità dovrebbero meravigliarsi le rare volte che può stabilirsi questa armonia. La lontananza invece nessun avvenimento che riverà mai a persuadersi concreta e sanguinante.
che spegnere pietrifica l’amore, perché non può sorgere faccia divallare o biforcare la passione. L’uomo non arche un piccolo pezzo di carta si opponga a tanta vita L’amore non si spegne che con il contatto continuo.
Da un amore non ti può distrarre che un altro amore. Viaggi, divertimenti servono anzi a meraviglia a inquadrare un pensiero d’amore. I dolori passati lasciano un segno; le gioie no.
Dante, nel momento supremo della Commedia, quando si immerge nella contemplazione di Dio, si serve come similitudine di un geometra che non riesce a ricordarsi le regole per trovar la circonferenza. Più si tratta di cose divine e arcane e più Dante le riattacca, con le immagini,
all’umano. È questo che dà al poema un senso di lirica soda e sostanziale — ed era poi la sola maniera di risolvere il problema del soprannaturale in arte, senza cadere in uno stucchevole e facile delirio di immagini; ma bisogna notare, che la maggior parte delle immagini, con cui Dante vuol rendere le cose divine, sono tratte dal campo dei sentimenti o da quello del pensiero, che sono in verità i due mondi più misteriosi e in un certo senso divini che siano sulla terra. nda,
La preghiera è il geniale sfogo d’uno stato d’animo in cui ogni uomo, anche miscredente, si trova ogni tanto senza saperlo. Un ateo non capisce che alle volte ha bisogno di « pregare » e si strugge di malcontento. La maggior parte delle amicizie, che si vedono in giro, sono in verità tentativi di amicizia falliti. Perché per essere amici bisogna essere intelligenti; e due uomini possono sentirsi legati tra loro più che con gli altri uomini solo se possono andare l’uno nel campo dei sentimenti dell’altro o se possono scambiarsi dei pensieri che hanno una base comune. Ma un uomo che non ha né sentimenti né bravura per capire i sentimenti altrui, né idee, come può stabilire con un altro uomo una relazione di affetti diversa da quella che ha stabilito con tutti? Immagino che in questo tentativo gli uomini debbano sentir qualche cosa di arido e di incompiuto.
Le
Non è vero che le parti teologiche, in Dante, siano meno belle che le parti liriche; è vero che a noi riescono, per lo spegnersi della passione cattolica, difficili a capirsi; ma probabilmente quelle parti liriche in cui sono descritti certi passaggi di sentimenti
degni di Proust,
difficili. È adunque
SR mutato
riescivano
ai medioevali
altrettanto se non
più
l'orientamento.
Nel Paradiso i caratteri si stemprano; ogni personaggio rappresenta più che un uomo un sentimento puro. Beatrice non è diversa da S. Bernardo o da S. Pier Damiano. Questo da una parte si capisce, dato che in Paradiso un carattere, ossia un insieme di asperità, riescirebbe cosa troppo terrena; ma dall’altro toglie sapore alla cantica. Chi ci perde più di tutti è Beatrice, che è schiacciata dai ragionamenti gravi, che deve tenere; tanto che quando Dante ci rammenta la sua bellezza corporale o la dolcezza del suo sorriso o il suo fascino femminile, restiamo un po’ meravigliati. GENNAIO
1926
La sua mano
tremava
come
l’ago della bussola...
Molte volte un uomo si tormenta dinnanzi ai grandi problemi della vita e dell’universo solo perché non ha risolto i suoi piccolissimi; e c'è caso che una donna appagandolo d’amore o la fortuna di gloria e di considerazione glieli rendano indifferenti. Noi crediamo generalmente che quando gli uomini commettono atti di pazzia la ragione si sia in loro annebbiata o magari abbia cessato di funzionare. Io credo invece che la ragione continui a funzionare come prima. X mi diceva: ho deciso di scrivere una lettera da pazzo alla mia amica e ho saltato la data per non sembrare un uomo ordinato. Vediamo se la beverà. Per il fatto che ha ragionato su quel che faceva X credeva di non essere stato così pazzo quanto appariva dalla lettera; ma in verità il fatto di decidere di fare il pazzo a quel modo e di non mettere la data, per una persona ragionevole com’è X è un segno di vero e proprio turbamento. Se X non lo capiva è che quando guardava negli altri dei casi di pazzia simile alla sua s’accorgeva dei risultati ma s’immaginava che a quei risultati gli altri fossero giunti attraverso vicende sentimentali ben diverse dalle sue per quell’ istinto, che abbiamo tutti, di crederci dei casi speciali. Quello dunque che è segno di follia non è tanto commettere inconsciamente degli atti folli, quanto decidere di commetterli con la nostra ragione. Così l’ubriaco generalmente finge d’essere ubriaco. Ma il fatto che abbia voglia di fingere l’ubriachezza è un segno che è veramente ubriaco. Il silenzio non può far scemare l’amore. Se un'amante s’orienta verso l’amore e non riceve lettere, non cesserà d’amare; ma anzi l’amore nel silenzio potrà ma-
turare, perché niente verrà a sciuparlo, così che a poco a poco l’amante si arricchirà l’immaginazione
di un futuro decorativo
e dolce in cui ogni parola e gesto
dell'amato saranno già preveduti. Queste fantasticherie saranno una sottile inquietudine che all’amore non può che giovare. L’amore sarà continuamente com’è la mattina quando ci svegliamo pensando. La mattina,
svegliandoci,
noi abbiamo
una
visione globale della nostra vita;
un sentimento generico di felicità e di infelicità in cui i particolari si smarriscono. 105
Soltanto allora, forse, le vicende del momento
stro giudizio e il mondo il sole o la pioggia.
ci appare come
non
turbano
la chiarezza
del no-
una gran nebbia dietro cui si indovina
Un uomo comune che è facilmente, come tutti, scontento della sua sorte, bia spesso questa sua scontentezza per grandezza, o comunque per un segno ginalità, che lo rende diverso e quindi superiore agli altri; e non si rende che è un uomo comune appunto perché è scontento, e che la serenità è privilegio di pochi.
scamd’oriconto
invece
L’uomo sereno non è quello che non può soffrire; ma quello che domina una sofferenza paragonandola a una peggiore. Gli uomini onesti sono quelli che paragonano — prima di compiere un atto che gioverà loro e danneggerà un altro — il loro bene al male dell’altro, e secondo il loro grado di onestà a questo bene rinunziano o in ogni maniera, o nei casi in cui i vantaggi che ne hanno sono minori dei danni che portano. Ma la maggioranza degli uomini non si inquieta di fare un gran danno agli altri, se può cavarne un piccolo vantaggio per sé.
(Stile togato! O dove l’ho preso?) 6 FEBBRAIO
1926 Rien n'est plus beau que ma patrie Rien n'est plus Canzone alpina
Per convincere una donna che la capisci tu devi star zitto e approvare quello che ti dice; perché anche se ti racconta delle bugie, ti stimerà di più se fai finta di crederle che se gliele metti a nudo. Perché, in fondo, nel momento che le spiattella, ci crede, e niente è così irritante come
un amico che non s’adatta a prender
per oro colato una bugia e che noi abbiamo deciso di credere verità. Per convincere una donna che tu sei eloquente devi star zitto e farla a lungo parlare di sé. Sul silenzio la donna (e l’uomo) posson ricamare quello che vogliono mentre ogni parola può essere uno sbaglio. APRILE
A
PARIGI
Mi accorgo che il mio teatro è troppo vecchio per i moderni, troppo moderno per i vecchi. Mi domando se questo non vuol dire proprio ch’è un teatro vitale. I salotti interessanti sono quelli in cui godi di molta considerazione.
I grandi uomini sono meno interessanti dei giovani danno nessuna pena di dir delle idee intelligenti quando già per quello che hanno fatto pubblicamente; mentre come garanzia e mallevadoria che le parole che dicono di non affogare nelle appaganti banalità.
intelligenti, perché non si sanno che tutti li stimano i giovani, che non hanno sul momento, si sforzano
Osservazioni sui sogni: Le ho fatte la mattina, riaddormentandomi
appena, in un momento
in cui co-
minciavo a sognare ma avevo ancora delle frangie di chiaroveggenza. Avevo voglia, in realtà, di mingere; e subito ho rapportato questo bisogno reale 196
nel piano del sogno e siccome ero stato una volta, al Théâtre des Arts, in un w.c.
che avevo un po’ cercato — e c'ero andato N.B. per altra ragione — mi s’è ripresentata l’immagine
di quella porta.
Ora, un’altra volta, ero andato
a prendere al
Théâtre des Arts Pitoëff e dopo lo spettacolo avevamo raggiunto Mme Pitoëff alla Comédie Française. Allora io ho immediatamente raggruppato M. e Mme Pitoéff e mi sono visto uscire dal teatro con loro al momento in cui entravo nel w.c. Nota che dovevo a tutti i costi trovare qualche cosa che mi impedisce di entrare perché se no non avrei saputo come rappresentarmi le sensazioni che sarebbero seguite e l’immaginazione preveggente ed esperte s'è affrettata a farmi uscire dal teatro. Invece di andare alla Comédie Française, siamo andati all’ Atelier, da Dullin, dove
ero stato qualche giorno prima. E siccome all’Atelier, avevo lasciato sola Y. un momento per andare da Dullin, nel sogno mi sono fermato per lasciare entrare i due Pitoéff e io sono rimasto nel corridoio, sempre sperando di trovare un w.c. Ma siccome in realtà all’Atelier non ne avevo visti mi s’è ripresentata l’immagine del corridoio del Théâtre des Arts come in principio e in questo punto mi sono svegliato. Il tutto avrà durato qualche secondo. I sogni sarebbero dunque una combinazione arbitraria di elementi ragionevoli. Qui ho potuto rintracciare tutti gli elementi reali e veder come si erano alterati, perché il sogno era abbastanza borghese; ma in quelli più stravaganti il problema probabilmente non muta; e la stranezza verrà appunto dalle combinazioni. Non si sogna niente di nuovo, come mai si crea niente di nuovo. Creare vuol dire combinare in un modo nuovo. Gli artisti si distinguono dai pazzi perché sanno raggiungere delle combinazioni universali, mentre i pazzi non sorpassano delle combinazioni puramente arbitrarie. Il sogno è come la creazione di un pazzo; e cioè un insieme di enigmi di cui solo l’autore ha la chiave. In verità la pittura più interessante in Francia è quella del 500, in cui mi par di veder la doppia influenza degli italiani e dei tedeschi. Lo stesso Fr. Cloner risente delle due pitture con i ritratti di Francesco I e quello di Pierre Quthe [sic!] (1562) assolutamente tizianesco. Mi domando se quello che chiamo tedesco non fosse allora lo stile gotico comune a tedeschi e francesi. Forse sono gli italiani che hanno fatto deviare la pittura francese da quella direzione. V. Ercole di Fontainebleau assai debole. Sarebbe un guaio. Il gotico è il lato forte dell’arte francese, che, scostandosene,
L'homme au verre de vin — 400 — curiosissimo.
s’infievolisce.
Vino e coltello caravaggeschi.
Confrontare la Pietà dell’ École d'Avignon con quella di Botticelli. È goticinesca. Una imitazione ridotta a primitiva. Malcned Bellechode (400). Martirio di St. Denis. Questi pittori stilizzati volevano fare i realisti con grande coscienza; e appunto per la pedanteria con cui hanno cercato di fare le teste e le goccie di sangue son riusciti decorativi scherzi.
Perché desidero dentro di me che il mio amore per Y. si istradi verso un ritmo un po’ sonnolento,
trovi un
tran tran, si crei delle abitudini,
tanto che io possa
contemplare la nostra intimità non come un fatto ogni volta commovente e grande ma come qualcosa di necessario e ormai classificato? Perché sento che dalla pas197
sione si passa in un baleno alla rottura. Nel momento in cui io e lei ci scambiamo delle lettere appassionate, io tremo, perché a ogni lettera può nascere una tempesta; questa mia inquietudine mi ingombra lo spirito da mane a sera, mi forza a pensare a lei continuamente,
mi tiene col fiato sospeso,
e mi mette,
di conseguenza,
in istato di inferiorità e di zelo. Per questo, invece, qualunque donna cerca di prolungarlo finché può, e intorbida ogni tanto le acque con qualche mossa imprevista che distrugga, quando sta per essere trovato, un pacato equilibrio, in cui teme d’affogare. Il « buon senso » dovrebb’esser di nuovo considerato con più rispetto. Il « buon senso » è la sola qualità forse che sia necessaria a tutti gli uomini. Per l’artista « buon senso » vuol dire senso artistico; quell’attitudine cioè a capire fin dove si può arrivare e a che cosa bisogna rinunciare; per l’uomo politico, vuol dire senso politico; e cioè quell’attitudine a capire su che elementi si può realmente contare e come si distingue il possibile dall’impossibile, il sogno dalla realtà, il presente dal passato;
per l’uomo
normale, vuol dire « senso pratico » e cioè l’attitudine a
capire con che mezzi si risolvono i piccoli problemi che a ogni persona cadono in sorte, in che misura valga la pena di risolverli o di patirli, fino a che punto ci si debba concedere al piacere e al dovere, con quanti sacrifici si debba pagare una gioia. E in verità chi manca di buon senso non è come si crede, per un vecchio equivoco, l'artista, che non manca di buon senso ma ha un buon senso diverso da quello dell’uomo politico e delluomo pratico, ma, più spesso, il « borghese » e cioè, «l’uomo che non ragiona con la sua testa ». Quando il borghese applaude una brutta commedia solo perché è stata scritta da un autore celebre, manca di buon senso; quando il borghese applaude a una politica nazionalista per l’illusione che ingrandendo in centimetri quadrati il suo paese, qualche cosa gliene verrà anche a lui in grandezza, manca di buon senso; e quando si dispera per davvero e protesta e si dimena e fa una scenata alla moglie perché la minestra sa di bruciato, manca ancora di buon senso, perché non sa inquadrare quel guaio nell’universo, e metterlo in scala. Perché, per ogni persona, dal punto di vista personale, buon senso vuol dire attitudine a giudicare delle cose proporzionandole l’una all’altra, e questa è in verità la qualità più filosofica che sia concessa all’uomo. «Qui dit exactitude
et style invoque le contraire du songe » (Varieté).
Esempio per dimostrare come l’uomo senta il bisogno di limiti in ogni attività pratica: quando uno fa dei giri di corsa da solo, o dei movimenti ginnastici, non ne fa tanti quanti ne ha voglia, ma fissa un numero,
che rispetta anche se avrebbe
fiato per farne di più o se si sente stanco già prima.
«Tu
fai quello che pensi; io mi limito a pensare su quello che faccio ».
Agli intuitivi si facilita sempre la strada. Alle volte, quando si è con un intuitivo, s’atteggia d’istinto la faccia in modo che l’intuitivo capisca il nostro sentimento, perché si ha la certezza che con quella mossa ci risparmiamo la pena di dire delle cose magari difficili; mentre quando si è con un tonto d’istinto rinunciamo a qualsiasi gesto che sappiamo rimarrà sterile. 198
Ammirazione — Studiare la scienza — Intendersi sulle basi fondamentali e cioè candore — Studiare i classici italiani — Avere il senso dei limiti della lingua — Dei generi letterari — Critica degli artisti — Il teatro come segno di rinascita — Fare un altro mestiere. Attesa
Dio, non ho più respiro; e il cor mi batte come a un falco sorpreso; la bollente mano si bagna di ghiaccio sudore nella palma; le dita unte e tremanti non ghermiscono le cose; inchiavardite alle ginocchia ho le gambe; la testa piena di marmo,
e una voglia straziante di distendermi tutto, in questa luce meridiana, non sa trovar posa acquetante. 17
GIUGNO
1926.
MILANO
Le donne incatenano gli uomini con la sottomissione. Verità del principio omeopatico nel campo morale. I simili si curan coi simili. La tristezza con la tristezza. La disperazione con la pietà. Il dolore con la « simpatia » nel senso greco: « soffrire insieme ». Per il Ghiberti Giotto è l’artista che crea «non uscendo dalle misure ». Come è grande la vita! In terra. Attesa
Dio, non ho più respiro; e il cor mi batte come a un falco sorpreso; e la bollente mano si bagna di ghiaccio sudor nella palma; le dita unte e tremanti
non ghermiscon le cose; inchiavardite alle ginocchia ho le gambe; la testa piena di marmo, e una voglia straziante di distendermi tutto in questa luce meridiana; non sa trovar posa acquetante. Com'è 5srave la vita!
Perché la vita è così dura? ogni uomo non vede mai farsi sostanza il sogno che l’ha beato, e il vero è come un sasso
che in fondo all’acqua mano ed occhi illude pel riflesso dei raggi e che non sai dove si posi. Perché Dio non hai fatte dritte le cose? Oggi contemplo il filo delle cose d’ogni uomo, e ad ogni passo vedo un intrico, e tra i meandri il core si smarrisce a guardar quanto è lontano il bene; or tu gliel’offri a un tratto e troppo è il piacere per noi che solo un Dio gode quando il piacere è come un lampo 199
Così tra gioie non godute e mali sofferti io vo poi che mi arde quel lume d’illusoria pazzia ch'è la speranza Son come un’ombra che s’annera o stinge coll’occhieggiar del sole. Amica un tondo nuvolone m’ha strutto, ombra tra ombre
Signor!
Signor fa ch'io veda sempre il gioco Delle cose con l’occhio trasparente Di chi rinasce ogni mattina al mondo La mia vita
La vita mia quando mi sveglio intera contemplo e stimo e un sentimento di tristezza o di giola ove s’è perso l’episodio del giorno il cor mi preme; colorando il futuro mi attardo con il pensiero, sì che il mondo appare innanzi agli occhi miei come una nebbia dietro cui s'indovina o sole o pioggia.
L'amore nasce come un limone verde diventa giallo. A un tratto ci si accorge che è giallo paragonandolo al verde che era prima, ma nessuno sa quando ha cambiato colore, perché un momento preciso non c’è. In un amore profondo ci sono ogni tanto delle pause e dei momenti odio, che non lasciano nessuna
superficiale.
200
traccia. Questi momenti
di vero
non ci sono in un amore
IV. CARTEGGI
Pubblichiamo, scambio
in fine due utili testimonianze per rilievo storico-letterario
epistolare, alquanto
copioso,
tra Leo
e Alberto
Carocci,
e con
offerte dallo
l’amico francese,
nonché drammaturgo Jean-Jacques Bernard. La selezione epistolare si è orientata su questi due nomi non tanto perché motivata da criteri soggettivi, ma poiché è risultata la più consistente in merito al clima di lavoro in cui Ferrero si andava formando. Certo i nomi dei corrispondenti di Ferrero non sono pochi; tra i più ricorrenti ricordiamo, per quanto riguarda l’Italia: Corrado Alvaro, Silvio Benco, Raffaello Franchi, Giansiro Ferrata, Aldo Garosci, Stefano Pirandello, Adriano Tilgher, Emilio Cecchi e altri; e d’oltre confine: Paul Géraldy, Jean Luchaire, Maurice Sarraut, Paul Valéry, che figura però più in veste di destinatario che di mittente. Senza dubbio ciò che vale la pena di sottolineare è, ancora una volta, la forza di una parola capace di rivelare la sua intima natura « trasparente », che rompe con l’esteriorità delle coscienze per raggiungere l’intesa spirituale così remota dall’uomo che ne ha perso la nozione. M.
S.
I
CON
JEAN-JACQUES (1921-1925)
BERNARD
Di
1-0-1921 Mon cher ami, J’allais répondre à vos dernières lettres, si affectueuses, quand j’ai reçu votre lettre sur Le Printemps des autres. Je suis heureux que vous aimiez cette pièce. Vous n’avez pas tort de penser que c’ètait un sujet bien difficile. Je ne vous cacherai pas que j’ai dû le travailler beaucoup, reprenant chacun de mes actes jusqu’à trois ou quatre fois et fignolant jusqu'au dernier moment, afin de rendre parfaitement clair ce que les mots ne pouvaient exprimer directment et de ne pas faire une femme intolérable de cette malheureuse inconsciente Clarisse. A propos de mes contes de guerre, vous avez eu une comparaison à laquelle j’ai été très sensible: celle de Fabrice à la bataille de Waterloo, ne voyant que des fragments de l’événement gigantesque auquel il participe et ne se rendant pas compte de son importance. Ces pages sont parmi les plus belles que je connaisse et sans doute parmi les plus émouvantes de la Chartreuse de Parme. Votre mère m'a fait beaucoup de plaisir en m’envoyant son livre. Je lui ai écrit pour la remercier. Mais vous pourrez le faire encore de ma part et lui dire que je l’ai lu avec beaucoup d’attachement. Je suis plongé dans une grande pièce, très difficile encore une fois. J’espère l’avoir à peu près terminée en rentrant à Paris, où nous serons pour le premier octobre. Vous n'êtes plus très loin de votre départ pour le service. Je pense beaucoup a vous à cette occasion. Je vous souhaite beaucoup de patience, et ce qui vous en donnera le plus, je crois, c’est le sentiment qu’après tout on peut de toute chose retirer un certain profit. Je ne vous cacherai pas que pour ma part j'ai gardé un assez mauvais souvenir de cette période. J’y avais même beaucoup plus que pendant la guerre un sentiment d’emprisonnement et d’inutilité. Mais, à distance, je me rends compte que ce fut pour moi l’occasion de prendre contact avec des échantillons d’humanité que je ne connaissais pas. C’est dans des expériences de ce genre que je vous conseille de chercher des raisons de patience. Et puis vous aurez peut-être la chance de tomber sur une garnison agréable et d’avoir des loisirs pour travailler. En tous cas tenez-moi au courant de ce que vous ferez. Vos lettres me font toujours plaisir. Bien cordialement vôtre Jean-Jacques Bernard Lettera manoscritta su quattro facciate; carta intestata: Nord).
« Clos Martine », Ploubazlanec
2. Strada 20
(Côtes du
L’Ulivello in Chianti agosto
1922
Cher Monsieur, Je pense bien que je connais l’oeuvre de Tristan Bernard. 1 Je suis même son fervent admirateur! Et à propos de lui je me rappelle que j'étais à la répétition des Pla: sirs du hasard au Vieux Colombier lorsque avec une grande partie des critiques il ne put entrer parce que les portes étaient déjà rigoureusement fermées, l’acte venant alors de commercer. On en a parlé tout le temps « dans les corridors ». Je pensais, à propos de ce que vous disiez sur la complication de la simplicité, et sur
205
l’intelligente fausseté du vrai artistique, qui ne doit pas étre réel pour en donner l’impression, à une conversation que j'ai eu avec Leonardo Bistolfi, le plus grand et le plus illustre peut être de nos sculpteurs. Il était en train de regarder un groupe pour monument funèbre, la Vie qui suivait, comme
fascinée, la Mort.
La Mort
c’était une
femme
avec
la tête ren-
versée en arrière et un voile tombant. Je ne trouvais rien d’anormal dans cette figure. Il me dît: «J'avais déjà pour modèle une femme avec un cou très long, mais je ne réussisais pas quand même à obtenir l’effet que je voulais, tout en l’allongeant avec précaution de quelques millimètres. Un soir je me suis décidé. J'ai coupé la tête et j'ai allongé le cou de dix centimètres. Personne ne s’en aperçoit, et j'ai obtenu l’effet artistique dont je révais ». Ainsi je crois, qu’en musique, un des torts des impressionistes c’est de vouloir imiter les bruits de la nature avec des sons. C’est inutile de taper dans le bas du piano pour faire le tonnerre et d’exécuter d’agiles glissants pour imiter le vent, ou le ruisseau ou la tempête. L’imitation sera toujours inférieure à la réalité et, par son effort, fera remarquer son impuissance. Tandis que dans la Pastorale de Beethoven vous sentez la campagne profondément sans que vous trouviez aucun virtuosisme d’onomathopée. Quant au théâtre, j'ai observé deux orientements en France et en Italie. En France le public veut, en ce moment, ou des pièces très comiques — et la comédie marche à grands pas vers la pochade — ou des pièces comme les vôtres, la profondeur psycologique; le théâtre des sous-entendus, de suggestion et de synthèse (exprimer l’inexprimible, faire sentir ce qu’on ne peut pas dire, imaginer ce qu’on ne peut pas faire). Cette dernière vision de l’art dramatique n’a aucun succès chez nous. Le peuple italien — je ne sais pas si je vous ai déjà écrit — n’a pas le « tempérament théâtral » comme il a peu de disposition à écrire des romans, ou n’importe quel genre psycologique. Depuis le temps de Terence à qui une première est deux fois manquée parce que des gladiateurs et des jongleurs étaient arrivés à Rome, jusqu’à nos jours où le Cirque Krone vide tous les théâtres d’une ville comme une pompe pneumatique, le peuple italien n’a eu aucun penchant pour Melpomène et Thalie, à moins que ces nobles dames ne soient accompagnées par la Musique ou par la lyrique (j’abandonne les Muses parceque j’ai peur de me tromper ou d’être obscur). Car le tempérament italien est essentiellement lyrique. Et c’est le théâtre lyrique qui a du succès chez nous en ce moment — genre tabou en France. Helas, après la guerre, la cherté des places — qui n’est rien après des vôtres, mais si vous connaissiez nos prix d’avant guerre! — et l’apauvrissement des classes cultivées ont transformé le public de manière que c’est la lyrique, mais la mauvaise lyrique plutôt qui triomphe. Quant à moi — puisque vous voulez bien continuer cette correspondance il faudra que je vous donne quelques détails — j’ai un fort penchant vers une forme d’art classique (tout en étant très Jeune j'ai longuement travaillé sans me vouloir jusqu’à présent risquer sur 1 scène parce que je ne me sentais pas assez fort — mais cette année, ou l’année prochaine le grand saut sera accomplit). Lassé des perversions littéraires, des intrigues invraisemblables, des drames à recette où les foux étaient toujours protagonistes par basse spéculation commerciale, des recherches toujours nouvelles et toujours plus insensées pour la transformation du théâtre moderne en un autre pire encore — comme ces tyrans d'Athènes — j’ai regardé vers la simple et bien construite puissance antique comme vers une solution du problème et je me suis trompé dans cette source vivifiante en adoptant de l’antiquité la forme et les sujets. « Sujet mythologique » reponse qui met en défiance les acteurs et les directeurs de Théâtre, car le public en ce moment ne veut que du moyen âge. Vous même vous avez peut-être froncé le sourcil en lisant « forme d’art classique ». Je crois qu’en France vous n’avez plus l’idée de ce qui est le vrai « classique » grec ou latin, parce que vos « classiques » l’ont complètement transformé et depuis lors vous ne voyez plus Homère ou les drames grecs que dans Racine, et Virgile que dans Delille,? — c’est à dire, inconsciemment, vous sentez l’antiquité en alexandrins et — disons-le en secret —- comme un art un peu déclamatoir, très vague et fort ennuyeux. Nous sommes restés beaucoup plus près des antiques parce que notre langue armoniquement a encore le même rythme que leur langue et nous n'avons pas eu par bonheur des professeurs d’Université expliquant à répétition « que 206
Racine remonte à Euripide comme Corneille remonte à Sophocle ». Mais si vous pensez à la poésie grandiose qui coule des doux vers d’Homère, simples et liquides, quand il racconte — dans l’Odissée, le chef d'oeuvre — da faits divins et terre à terre avec cette méme indifférente nonchalance et cette noblesse qui purifie et annoblit les plus humbles détails et vous sculpte en ayant l’air de rien, des types d’homme impérissables, vous comprenez comme cet art est loin des alexandrins * rythmés en cadence et de grands discours style « Rome l’unique objet de mon ressentiment » et quelle source d’inspiration on peut trouver par exemple dans l’Odissée, émouvant comme un soleil couchant sur la mer. Et cela quant aux sujets et au style de « l’emotion artistique ». (J'aime bien me plonger dans cette atmosphère un peu fantastique où les hommes sont moins compliqués et leur vie et leurs drames un peu différents, car je congois le théâtre historique seulement comme une recherche de situations dramatiques qui ne se présentent plus aujourd’hui, mais où les personnages doivent être humains comme les modernes). Quant à la forme, ce que j’appelle « art classique », c'est pour moi «l’art qui a conscience de ses limites ». Et par conséquant un art de construction — car le fragment ne souffrant pas de mésures est illimité. Mais c’est un problème très compliqué — je l’ai d’ailleurs plus longuement developpé dans quelques conférences — et nous en parlerons, si vous voulez bien, une autre fois. Je me suis donc inspiré — inconsciemment — à ces principes en écrivant Le retour d’ Ulysses, et quelques autres pièces. Mais je crois que je débuterai avec une pièce que j'ai préparée, mais que j’écrirais à peine fini un livre sur les historiens latins, fait en collaboration avec mon père 3 — sur Catulle, le délicieux poète de Rome, le plus moderne des lyriques anciens. Et par cette pièce où je ferai ressortir une âme compliquée de poète malade et décadent et deux types de femmes autour de lui, je me rapprocherai beaucoup de votre genre d’art, sans oser, d’ailleurs, vous égaler; et c’est une des raisons pour lesquelles, j'ai été frappé en lisant votre Martine. Pardonnez moi donc de vous avoir parlé ainsi à tort et à travers de moi-méme, mais pour correspondre il faut une connaissance réciproque au point de vue artistique de deux correspondants; vous n’avez maintenant qu’une manière pour me pas me faire honte, c’est de me parler longuement de vous, de ce que vous faites, de ce que vous avez fait; et si vous avez publié quelques autre chose, vous me ferez grand plaisir en me l’envoyant. Croyez aux sentiments de toute mon amitié tout
a vous
Leo Ferrero Lombroso * L’alexandrin, Velina
particulièrement
est le vers plus anticlassique que je connaisse.
dattiloscritta.
Tristan Bernard, drammaturgo e romanziere, padre di Jean-Jacques, nacque a Besançon nel 1866. Nel 1880 giunse a Parigi con la famiglia e dopo aver frequentato gli studi di legge, si dedicò alla letteratura pubblicando le prime opere nella « Revue blanche » a partire dal 1894. Si ricorda di lui soprattutto il teatro (Les Pieds nickelés; Le fardeau de la liberté; L’angluis tel qu'on le parle; Triplepatte ; Le petit café; Le danseur inconnu; Les Jumeaux de Brighton). Trascorse a Cannes i suoi ultimi anni; colpito dalle persecuzioni razziali, morì a Parigi nel 1947. 2 Jacques Delille (1738-1813), poeta e noto traduttore di classici latini tra cui le Georgiche (1770) e l’Eneide (1804). hi
3 La Palingenesi
di Roma.
2
Cher Monsieur, Votre lettre m’a vivement qui me donnent grande envie de mieux vous drez à Paris l'hiver prochain et que j'aurai Je partage entièrement votre passion pour
Ile de Bréhat 30-8-1922 (Côtes du Nord)
intéressé. Elle est pleine d’apergus ingénieux connaître. J'espère beaucoup que vous vienle plaisir de vous recevoir à la maison. les anciens. C’est chez eux que j'ai puisé mes
207
meilleures leçons. Je pense comme vous qu’il ne faut pas les voir à travers les classiques français et la froide transposition de Delille m’a toujours exaspéré. Mais attention! S'il importe de ne pas voir Virgile à travers Delille, ni Horace à travers Boileau,! il faut se garder de mettre Delille et les « classiques » du même acabit sur le même plan que Racine. Sans doute il est vain de chercher des points de comparaison entre Racine et Euripide. S'il y en a, ils restent tout de même, l’un et l’autre, représentatif de génies très différents. Mais quoi qu’on pense du classicisme français, on ne peut nier la prodigieuse personnalité de Racine. Et je connais pour ma part peu de choses qui aillent aussi loin que Bérénice. ? Cela ne sera plus discutable le jour où on aura cessé de lire les pâles imitateurs de l’art racinien, comme on a perdu le souvenir des petits drammaturges qui ont vécu dans l’ombre des grands tragiques grecs. Maintenant, qu’il y ait peu de profit à puiser à cette source unique, je suis de votre avis et la meilleure preuve est que le « classicisme » a desséché la poésie française pendant près deux siècles. Il a fallu attendre André Chenier pour retrouver le chemin de l’antiquité et, pourtant, de la vérité.
Mais ici il faudrait démontrer que le romantisme n’a pas été beaucoup plus heureux, à la scène du [...]. Le XIX siècle français a été beaucoup plus un siècle de poésie et de roman qu’un siècle dramatique. Ballotté entre le classicisme desséchant et le romantisme hypertrophique, le théatre a été bien malmené. Je vous dis tout cela d’une façon un peu décousue. Mais vous en tirerez facilement des conclusions. D’abord qu’un certain écletisme, en cette matière, n’est pas à dédaigner. Le théâtre est un art tellement souple qu’on n’y peut repousser aucune méthode à priori. Le secret est peut-être même de déer une méthode pour chaque sujet different. C’est en ne s’enfermant pas dans des limites étroites, c’est en puisant à des sources très nombreuses que le théâtre retrouvera la vitalité nouvelle qu’il cherche. Mais je m’arrête, car si je voulais vous énumerer toutes les influences — aussi bien scientifiques que littéraires — qu’il y a bien d’envisager, je n’en finirais pas. Nous en sommes encore à la période de « débrouillage ». Un important mouvement dramatique se dessine en France. Un théâtre nouveau se développe qui, je le crois et je l’espère, sera ce théâtre de suggestion et de synthèse que nous aimons tous deux et qui est le théâtre même. Nous avons entrepris au groupe de la « Chimère » de travailler à la recherche des directives dramatiques. Nous ne faisons que commencer, mais nous sommes pleins d’espoirs. Je vous expliquerai et les buts du comité que nous avons créé. Nous sommes douze, parmi lesquels H. R. Lenormand, 8 Saint Georges de Bouhélier, 4 Denys Amiel, 5 Jean Sarment, 6 etc. Notre tâche sera souvent délicate et difficile, mais bien intéressante. Je vous ai envoyé une pièce de moi qui a été joué l’année dernière, Le Feu qui reprend mal. L’Illustration l’avait d’ailleurs publiée, mais peut-être vous a-t-elle échappé. Je viens justement, il y a quelques jours, de vendre cette pièce pour l'Italie. Je serai toujours heureux de vous lire et vous prie de croire à toute ma sympathie
Jean-Jacques Lettera
manoscritta
Bernard
su sei facciate.
! Nicolas Boileau-Despréaux (1636-1711), poeta e polemista francese di tendenza rigorosamente classicheggiante; note sono le sue Satire (XII) e le Epistole. ? Opera drammatica di Racine. ® Henri-René Lenormand (1882-1951), autore di teatro. Celebri i suoi drammi Le réveil de l'instinct (1908); Le Simoun (1921); A lPombre du mal (1925). Saint-Georges De Bouhélier, nato a Rueil (Seine et Oise) nel 1876, drammaturgo, autore di drammi quali: Le roi sans couronne (1906); La tragédie royale (1909); Le Carnaval des enfants (1911). ° Denys Amiel, nato a Villegailhenc (Aude) nel 1884, drammaturgo. Tra le sue opere si ricordano particolarmente Le voyageur (1923); L’Image. L’Homme d’un soir (1930); La Décalage (1931). $ Di Jean Sarment ricordiamo i drammi: Le pêcheur d’ombres (1921); Mariage d’Hamlet (1922); Je suis trop grand pour moi (1924); L’Arlequin (1925); Sur mon beau navire (1929).
208
4:
L’Ulivello Strada in Chianti 3 settembre 1922
Cher Monsieur, j'ai lu avec grand intérêt la pièce que vous venez de m’envoyer et dont je vous remercie.! Tout en préférant Martine à cause de sa grandeur et nouveauté dramatique et des types moins communs et exquisement tracés: Martine, j'ai observé dans Le Feu qui reprend mal les mêmes charactères de styl et de théâtre, et j’ai senti le modelage d’une main connue. Le drame, ici, est plus petit, plus simple, trés commun + il finira peut-être avec le temps: il n’y a rien de vraiment irréparable. De femmes comme Blanche la France en est pleine, ainsi que d'hommes comme André — moins peut-être. Mais le drame est traité avec votre habituelle délicatesse et finesse psychologique. Quant à la construction elle est plus régulière et traditionelle que celle de Martine, mais elle démontre une profonde habilité technique. La nudité de la charpente a atteint ici le maximum: il n’y a pas une phrase qui ne sort pas essentielle. Le même genre de fin d’actes: très simple: mots qui portent loin, sans être rien, en eux mêmes. J'adore, comme exemple bien réussi, la fin du Ier acte Un Americain. Ce mot acquit une valeur énorme parce qu’il n’a pas été prononcé qu’une fois. Il ya un défaut, selon moi: c’est l’amie, qui n’est pas quelque chose de bien clair et de bien defini: un type qui flotte dans une brume et par son imprecision psychologique laisse voir un peu que son existence est due aux nécessités de l’Art dramatique, et que c’est une obscurité qui doit clarifier les autres. Or, comme il n’y a que quatre personnages, chaque personnage a une grande importance. Celui qui intéresse particulièrement, ici, c’est André, au fond, plus que Blanche, tandisque dans Martine, l'homme me laissait fort indifférent. Mais ce que j'ai le plus « goûté » c’est les changements rapides de la situation entre eux, cet équilibre recherché avec tant d’efforts et bouleversé par des riens, par des ombres, des impressions rapides, des inquietudes incompréhensibles. La scéne de ce genre la plus frappante est celle où André se trouble de nouveau, lorsque sa femme lui dit que Jeanne n’a pas confessé! Je n’insiste pas sur la pièce, car je devrais répéter ce que je vous ai dejà écrit à propos de Martine. Pour passer à Racine je vous dirai que en affirmant qu’il ne faut pas voir l’antiquité latine et grecque dans Racine, je ne voulais absolument pas nier la valeur de Racine, mais seulement avertir que son « classicisme » était bien différent du « classique » originel: ce n’est pas pire: c’est autre chose. Je me vante d’ailleurs d’être le seul, dans le groupe de mes amis plus ou moins intellectuels et litéraires, à aimer Racine et à le soutenir, en lui donnant la palme, contre Shakespeare. Jugement épouvantable et digne du pilori, depuis le Romantisme et le fatal bouquin « Rac. Shakesp. ». Je vous confesserais même que ma position spirituelle envers le Romantisme n’est pas loin de celle de Léon Deubel ? dans Le stupide dixneuvième siècle, tout en adoucissant ses condamnations en masse dignes du Massacres de Septembre. Mais cela est aussi une grave question que nous pourrons discuter plus tard, si vous voudrez bien, parce que je veux vous mander quelques autres informations. Ce que vous m'avez dit sur la « Chimère » m’a vivement intéressé. Je savais que ce groupe c'était formé parce que j'étais à Paris quand on a commencé à lui faire de la publicité. Mais je serais très curieux de connaître plus à fond cette entreprise, de lire, s’il y en a, les programmes exactes, parce que c’est une noble et très utile tentative pour sauver le pauvre théâtre de la boue où il tombe peu à peu (« Compagnie pour le sauvetage de Mile Melpomène du gouffre de la corruption »). C’est regrettable que ces efforts se localisent en Paris, quand ils seraient dignes d’une plus grande terre où jeter les semences. Et en pensant à l'utilité d’une expérience semblable en Italie, qui compte de bons éléments — acteurs et auteurs, mais dispersés et sans direction, j'ai eu cette idée, que je vous expose telle quelle: je connais plusieurs acteurs, beaucoup de critiques et d’auteurs de théâtre; pourquoi ne pas faire un effort pour fonder une section italienne des compagnons de la Chimère, en réunissant des jeunes écrivains intelligents et dans cette direction spirituelle, et en commencant pour vous traduire en italien? C’est une idee qui m'est venue. Je n’en prends pas encore
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la responsabilité, d’autant plus qu’il me faudrait parler avec quelqu’un de vous, ou connaître à fond les programmes. Comme je n’ai pas encore assez d’autorité, je chercherai de faire faire les approches par des amis dejà placés et classés. Mais si on pouvait organiser quelque chose de ce genre, je crois que on serait utiles à l’Art et que votre groupe et vos idées y gagneraient de la force et de la renommée. Il y a des difficultés, évidemment, parce que les compagnies italiennes — qui se trouvent aujourd’hui, en une dèche formidable — n’ont pas de place fixe, tournent tout le temps dans nos cent villes et cherchent toujours d’avoir un programme varié, pour remplir les théâtres assez vides. Mais pour tout cela il serait bien agréable de se voir, or je crois que cette année je n’irai pas à Paris. Mais si après le mois d’Octobre vous voulez profiter du change en faisant une pointe jusqu’ à Florence, mes parents me chargent de vous dire qu’ils seraient bien heureux d’avoir pour hôte le fils de Tristan Bernard, qui est, en outre Jean-Jacques Bernard. C’est une des « facilitations » qu’en ces moments terribles les membres de la classe intellectuelle, la seule qui n’est pas encore confédérée — se doivent tout de même les uns les autres. Et nous vous l’offrons sans compliment et avec joie, d’autant plus que vos souvenirs de Florence, à ce que vous m’avez écrit, remontent bien loin. En souhaitant donc que tous ces plans ne soient pas vraiment chimériques — calembour que vous aurez fait, parmi les compagnons, plusieurs fois peut-étre — je vous serre la main. votre Leo Ferrero Lombroso P.S. Je crois que chez nous on devrait organiser une action tout autrement que chez vous: sans théâtres fixes et compagnie spécialisée. Savez-vous quelque peu d’Italien? Velina
dattiloscritta.
1 Si tratta di Le Feu qui reprend mal. ? Leon Deubel, nato a Belfort nel 1879 e morto nel 1913. Poeta di cui si ricordano le raccolte di versi: La lumiére natale (1905); Ailleurs (1911); Régner (1913).
5.
L’Ulivello Strada in Chianti 24 settembre 1922
Cher Monsieur, Je suis très content que mon idée vous ait plu. Quand je serai de retour à Florence et que j'aurai les programmes de la « Chimère » je commencerai, avec mes faibles forces, à faire tout mon possible pour réunir un groupe. Je choisirais préférablement des jeunes qui ont déjà un peu de renommée, mais qui ne sont pas encore des gloires nationales. Il faudra commencer,
comme je vous l’ai déjà écrit, d’une manière
tout à fait diffé-
rente qu’en France, où on peut avoir un théâtre et une compagnie fixes dans Paris. Nous ferons d’abord connaître le groupe par des articles, des conférences, etc.; nous chercherons de faire jouer quelque pièces de la « Chimère » par différentes compagnies. Puis, nous verrons. Naturellement c’est encore un peu théorique; quelque fois les choses de loin, sont moins difficiles que de près; mais j'espère de réussir quand même et que nul obstacle infranchissable ne s’opposera à notre projet. Je vous écrirai plus longuement après avoir reçu les programmes par Gaston Baty. 1 Je suis bien amicalement votre | Velina
|
Leo
Ferrero
Lombroso
dattiloscritta.
! Gaston Baty, drammaturgo e scenografo, nato nel 1885 a Pélussin (Loire). Fonda, con un gruppo d’autori drammatici, la compagnia della « Chimère » (1922-1923). Nel 1936, mentre è direttore al Teatro Montparnasse è chiamato per la scenografia alla Comédie Frangaise, con Jacques Copeau, Charles Dulin et Louis Jouvet. Ha rappresentato un centinaio di pièces: Le Simoun di H.-R. Lenormand; Martine di J.-J. Bernard; Maya di Simon Gantillon; Tétes de rechange di J.-V. Pellérin; Le Dibbouk di Schalom-Anski; Marie Stuart di Marcelle Maurette, ecc. i 210
6.
Cher ami, J'ai commencé
Viale Machiavelli 7 Firenze novembre 1922 à m’agiter pour la « Chimère ». Je suis allé à Carrara, pour voir
un des auteurs à qui j'avais pensé et ma mission s’est hereusement accomplie. Monsieur Cesare Lodovici, mon bon ami, a accepté avec « chaleur » et avec fois. Il est un dramaturge vraiment fort. Il a écrit la Donna di Nessuno (La femme de personne) une pièce de nuances et de silences qui évite le bruit et l’éclat, mais se dessine avec une tragique profondité. Vous aimerez certainement cette oeuvre. Elle est de votre manière. En tout cas il a aimé Martine, que je lui ai passé; il m'a dit qu’il aurait voulu vous connaître et vous écrira probablement. La Donna di Nessuno c’est son principal titre. C’est d’ailleur l’oeuvre qui l’a classé. Je devais continuer pour Milan, ou je voulais voir un autre écrivain, mais la fièvre m’a pris juste la veille du départ, quand j'avais déjà le billet de chemin de fer, lez chemises dispersés sur les chaises et le lit, la valise ouverte et presque pleine. Vous connaissez le décor. A present la grippe est passée. J'irai donc à Milan après Noël, si quelque accident nouveau se n’oppose. Hélas nous vivons en un moment, où les accidents arrivent avec facilité... L’écrivain de Milan s'appelle Raffaele Calzini, il est, lui aussi, père d’une pièce sur Ulysses, La toile de Penelope où Penelope est vue sous un jour défavorable. L'oeuvre est écrite avec un style sobre et vraiement remarquable; elle arrive quelque fois à une profondité telle que les acteurs, bien que l’auteur soit très connu, n’en ont pas voulu. Elle a été publiée en livre. Calzini est collaborateur de l’« Illustrazione italiana » (une imitation de la votre). Nous voulons avoir aussi M. Pea, qui entr’autre possède un théâtre mais à Viareggio, M. Rosso di San Secondo, etc. — c’est une ambition de Lodovici - M. Luigi Pirandello, qui n’est plus jeune mais écrit du jeune et très extraordinaire théâtre, depuis très peu de temps. Ce serait un gran nom, car il tient le haut du pavé en ce moment, chez nous, et s’est imposé au public dans ces dernières années d’après guerre. Seulement c’est une ambition, je ne sais pas si on pourra la réliser. (Il est d’ailleurs un dramaturge très différent des autres choisis). Voila nos projets. Je n’ai rien reçu de Gaston Baty. Il n’aura pas eu le temps d’écrire probablement. Mais peut-être aussi la lettre s’est perdue. La poste perd une quantité remarquable de lettres. Nous avons pu contrôler cet inconvénient plusieurs fois dans ces derniers mois. N'oubliez pas que mon adresse est maintenant à Florence, et non à la campagne. Je vous serre cordialement la main votre
Leo Ferrero Velina dattiloscritta.
DE Paris, 30-1-1923 Mon cher ami, je vous ai ecrit au moment où une lettre de vous venait vers moi. Il me semble que c’est un cas de telepathie. Notre amitié vient de faire un grand pas. D’autre part je venais d’écrire à Lodovici, quand je trouve cet article dans le Figaro. Je vous envoie égalment ma Martine. J'en ai très peu. Le numéro de l’Illustration est épuisé et la pièce n’a pas encore paru en librairie. Je vous en enverrai d’autres plus tard. Je suis vraiment heureux des progrès que fait votre « Chimère ». J’en ai longuement parlé il y a trois jours avec Gaston Baty, Denys Amiel (un des auteurs de la S [...] Mme Bendet) et Jean-Victor Pellerin : (auteur d’Intimité, un acte très original qui a été joué avec Martine et où il y avait un curieux essai de matérialisation de la pensée et des désirs subconscients). Nous pensons tous que c’est après nous être solidement organisés chacun de notre côté que nous pourrons définir des accords entre nous. En restant originaux et personnels, nous nous servirons mieux les uns les autres. Mais vous connaissez assez l’esprit de notre Chimère pour donner à la vôtre un esprit très voisin. Je sens bien que vos préoccupations, que vos tenDATE
dences sont parentes des nôtres. C’est un encouragement à poursuivre vos efforts parallèles. Le moment venu nous étudiérons des accords pratiques. Je suis sûr que la publicité faite autour de ces deux mouvements jumeaux sera excellente. Je compte bien, quand ce pouvra être utile, m’arranger pour aller vous voir. Pour le moment, ce qui est important, c’est que depuis ma dernière lettre notre « Chimère » à déjà fait de nouveaux progrès. Il est à peu près certain qu’elle aura son toît cette année, peut-être avant trois mois. Gaston Baty a un terrain bien placé, sur lequel il comptait d’abord construire un théâtre important. La crise des affaires a rendu ce projet incertain. Alors il étudie le moyen d’édifier rapidement une grande baraque. Cela ferait beaucoup d’effet. Je vous tiendrai au courant. J'espère pouvoir vous écrire prochainement des choses plus précises. Ne manquez jamais de dire qu’il y a chez nous une grande curiosité de ce que vous faites et une
grande
sympathie
pour
vous.
On
nous juge trop sur nos journaux
et sur nos
po-
liticiens; ce n’est pas juste. C’est encore dans les milieux intellectuels de France que vous trouverez le plus d’exaspération contre certaines maladresses françaises. Notre propagande officielle semble faîte à rebours par des gens à courte vue. Nous avons chez nous trop de pontifes qui ont des oeillères et j’ai souvent envié l’indépendance d’esprit que l’on trouve chez vous. Nous avons tout à gagner à être nus. Quelle belle politique continentale il y avait à faire pour l'Italie et la France travaillant d’accord. Mais c’est un vaste sujet... Bien amicalment vôtre Jean-Jacques Bernard Lettera manoscritta
Flachat.
Wagram
su due facciate; carta intestata recante l’indirizzo del mittente:
22 Rue
Eugène
09-43.
1 Jean Pellerin, nato nel 1885 a Pontcharra (Isère) e morto nel 1921. Narratore e poeta di cui ricordiamo: La jeune fille aux pinceaux (1919); La romance du retour (1921); Cecile et ses amours (1923); Tartine (1924).
< Paris, 13-2-1923 Mon cher ami, notre « Chimère » prend bonne tournure et j’ai la ferme espoir que nous pourrons commencer notre prochaine saison le 15 avril. Baty reprendra Martine et Intimité et donnera deux spectacles nouveaux, dont une pièce d’Amiel. Mes amis sont tous d’avis qu’il faut que d’ici quelques semaines nous annoncions une ou deux pièces italiennes pour l’année prochaine. Envoyez-moi tout ce qui vous paraîtra intéressant. J'espère beaucoup que mes amis partageront mon opinion sur la Donna di Nessuno dont ma femme achève de mettre au point à leur intestation une traduction aussi respecteuse que possible. Et le cas échéant, si Lodovici n’a encore aucun engagement avec la France, je lui demanderai de bien vouloir nous réserver sa pièce. Mais je ne lui en parlerai que quand je serai sùr de l’avis de mes amis. Il m'a envoyé une lettre qui m'a beaucoup touché. Nous étudierons, dès que vous serez formés, de quelle nature peut étre notre collaboration. Il me semble qu'il ne faut pas l’enfermer dans une réglementation étroite. Les échanges que nous pouvons faire ne peuvent guère se prévoir d’avance et il faut que nous gardions nos spontanéités originales. Mais il y aura tout profit à multiplier entre nous les points de contact. J'ai déjà parlé à Baty de la possibilité d’ouvrir sa baraque à votre troupe, quand la sienne sera en déplacement. Il est très favorable à cela. Les tournées font partie de ses projets et il est à peu prés certain qu’il pourra aller en Italie l’an prochain. Je vous signale pour votre organisation un point capital, je dirai même vital. Vous m’écrivez que Pirandello ne pourrait vous donner de pièces et qu’à cause de cela vous ne vous adresserez pas à lui. Serait ce que vous envisagez votre « Chimère » comme une simple coopérative d’auteurs qui s’unissent uniquement pour se faire jouer? C’est un but évidemment; mais ce ne doit pas être le but. Ce serait une erreur mortelle. Croyez en notre expérience. En France les coopératives d’auteurs ont fait leurs preuves, déplorablement. Il n'y x à attendre de ce systéme que malentendus, conflits, brouilles et galagée. Comment voulezDUE
vous que fonctionne un théâtre où chaque auteur a le droit, à tour de rôle, d’apporter une pièce quelle qu’elle soit. Aussi sommes-nous partis à la « Chimère » d’une toute autre conception et il est important que je vous l’explique. Les douze auteurs qui se sont groupés autour de Gaston Baty, directeur et metteur en scène, forment un comité de lecture. Le fait de faire partie de la « Chimère » n’implique nullement le droit absolu d’être joué, Quand l’un d’entre nous apporte une pièce, elle est soumise au comité dans les mêmes conditions q'une pièce venue de l'extérieur. Et cela est indispensable à la vie de notre groupe. Nous avons mis cette discipline, consentie par tous, à la base de notre union. Et il s’est déjà produit ceci que des pièces d’entre nous ont été refusées par le comité; et chaque fois la décision a été acceptée avec une entière bonne grâce. Nous nous faisons confiance les un aux autres et souvent la discussion provoquée par des piecès donne lieu à des débats extrêmement intéressants. Nous nous défendons donc d’être un groupe d’auteurs qui ne se sont unis que pour se faire jouer. Notre ambition est beaucoup plus vaste. Nous révons de jouer un rôle dans l’histoire dramatique de notre temps. Et cela n’était possible qu'en ne nous laissant pas déborder par des questions d’intérèts personnels. Nous avons réuni les noms qui nous paraissaient les plus représentatifs des tendences nouvelles, sans nous préoccuper si tel ou tel auteur pourrait nous donner des pièces. C’est pourquoi il me semble que vous pouvez demander Pirandello, même s’il ne vous donne rien, à condition toutefois que vous estimiez qu’il représente une des forces neuves de votre théâtre. L’appoint que vous apportera son seul nom sera déjà considérable. Vous me comprenez bien; le plus gros danger à éviter c’est que le fait d’appartenir à votre groupe entraîne le droit d’apporter une mauvaise pièce. Si vous réglez immédiatement cette question comme nous l’avons fait, votre force sera dix fois plus grande. J'ajoute que pour notre part nous nous appliquons non seulement à choisir de bonnes pièces, mais des pièces représentant quelque chose de neuf, répondant le plus possible au théâtre que nous révons, au théâtre de demain... que je ne veux pas me hasarder à definir, mais que nous pressentons déjà. Et à ce propos je vous dirai que nous avons écarté la pièce d’un de nos camarades, qui nous a paru répondre à des conceptions d'il y a vingt ans. Une fois les pièces recues, nous laissons à Gaston Baty toute liberté pour la façon de les monter et pour l’ordre des spectacles. Et cela aussi est essentiel. Il serait très important pour vous d’avoir un metteur en scène moderne, à qui vous pourriez en toute confiance remettre les pièces choisies. C’est une question délicate. Nous avons eu beaucoup de chance en rencontrant un Baty. Si vous ne trovez pas un homme à qui vous fier entièrement, il vaudra mieux vous organiser sur des bases différentes des nôtres. D’ailleurs les conditions du théâtre sont bien différentes chez vous et l’impossibilité d’avoir un domicile fixe vous empêchera peut-être de vous en remettre à une direction unique. Mais qu’au moins il y ait une unité dans vos efforts. Vous n’imaginez pas avec quel intérêt nous attendons ce que vous allez faire. Nous avons beaucoup parlé de vous hier soir à une réunion où il y avait Lenormand, Bouhélieu, Amiel, Fleg, : Pellerin, etc. et je vous assure que c’est avec une grande émotion que nous voyons naître au delà des Alpes cette Chimère, soeur de la nôtre. Bien à vous Jean-Jacques Bernard Lettera manoscritta Wagram 09-43. 1 Edmond
su sei facciate;
carta
recante
l’indirizzo
del mittente:
Rue
Eugène
Flachat.
Flegnheimer, detto Fleg.
9.
Strada
L’Ulivello in Chianti
I agosto
1923
Mon cher ami, j'ai été très touché non seulement par l’attention avec laquelle vous avez lu ma pièce, ! mais aussi par le ton amical et sincère de votre lettre; car il me fait croire que,
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malgré les justes critiques que vous pouvez me faire, cette oeuvre ne vous semble pas indigne de tout estime et que notre amitié est resserrée. Ce que vous me dites parait se résumer ainsi: le sujet est peu dramatique, ou vous l’avez traité de manière à donner cette impression. L’observation est juste; j’ai toujours eu conscience de ce désavantage. Or, je ne sais si c’est le cas de faire responsable le sujet ou mon adaptation; car, au fond, le sujet avait des éléments très dramatiques et aurait pu être traité, selon la vieille méthode, avec succès; j’en aurais pu faire un drame qui tenait très bien la scène; mais j'en aurais fait aussi une pièce romaine-republicaine à toge du plus mauvais goût; je n’aurais plus pensé à faire, avant tout, une oeuvre d’art. Pour resoudre le problème de ne pas écrire un livret d’opéra avec un sujet qui était parsemé de dangers et d’occasions encore plus dangereuses, j’ai du me contraindre à composer une pièce où les éléments exterieurs et contingents ne tenaient presque pas de place et où toute l’attention se concentrait vers le drame intime. Malheureusement, le drame intime était d’une ligne si simple que je suis peut-être tombé dans l’extrème opposé; je ne le sais encore. On pourrait me demander pourquoi je choisi ce sujet; mais vous savez mieux que moi, que, comme le dit justement Flaubert, ce n’est pas nous qui choisissons les sujets, mais ce sont les sujets qui nous choisissent. Le fond romain m’a servi comme un rideau gris que je tirais derrière mes personnages, et avec lequel je les isolais de toute atmosphère particulière d’un temps trop précis; ce qui me permettais de jeter sur eux seuls toute la lumière. Ce que vous me dites de l’atmosphère, m’a été déjà dit par des amis, en d’autres termes: selon eux, toute l’atmosphère un peu étrange de la pièce était crée par le personnage Catulle, dont les choses et les êtres du drame étaient des reflets. Je n’ai aucune ideé de ce que le public peut sentir, à propos de ce phénomène observé par quelques uns, et dont je ne suis certainement responsable qu’inconsciemment. En tout cas, l’atmosphère a été obtenue avec une certaine séylisation, à propos de laquelle on peut trouver des éléments de décadentisme, dont un jour, sans aucun doute, je me depouîllerai. C’est à cause de cette stylisation de l’ensemble que j’ai été contraint à cette recherche de style. Pour qu’il y eut de l’armonie entre atmosphère, personnages, ligne et forme verbale j’ai du chercher et soigner un style, qui fut un style, pour exprimer des êtres qui avaient eux aussi, un style. Je ne crois pas d’ailleur qu’on puisse faire une oeuvre d’art, même au théâtre, sans une recherche de style. Or quand vous dites que mon style est difficile, vous avez raison. J’ai vu, à cette observation, que vous devez connaître l’Italien, parce que plusieurs étrangers ont trouvé que cet Italien était très facile. À quoi j’ai compris qu’ils ne s’étaient pas doutés des difficultés. Mais je vous dirai que, pour un Italien non lettré, il parait très simple; car la difficulté ne vient pas des mots, mais de la composition, des formules nouvelles, de l’absence de phrases faites; toutes choses qui rendent très difficile la compréhension rapide à un étranger assez expert de notre langue pour en connaître les phrases courantes. J’ai cherché en outre de ne pas laisser une phrase Jaible, en les soignant, les changeant, les rythmant comme des vers; et ce travail a été plus intense pour les phrases communes que pour les « poétiques ». Quelquefois, dans les phrases très communes, que je me cassais la tête à rendre avec élégance, je finissais par adapter un rythme de pure métrique; comme, au troisième acte, quand le Procuratore entre pour annoncer les trois femmes et dit: « Catullo son venute le tue amiche antiche; tre ne ho trovate fra quelle e quelli che m'hai fatto cercare ». Je vous cite un exemple au hasard. Or, évidemment ce travail ne doit pas paraître; la prose doit étre « guelée » mais simple; et où vous avez eu l’impression que c’était « trop joli » c’est que ce ne l’était pas assez; que le style n'était pas encore arrivé à ce point de perfection qui vous fait accroire la négligence. J'ai entr’autres choses découvert des fautes de la machine qui vous aurons peut étre donné du fil à tordre: comme au IIme acte, où Catulle, lorsqu'il parle, à Lesbie, des choses douces de leur amour lui dit: « leggevamo i miei versi, ancora fiochi » au lieu defreschi; c’est à dire frais, parce qu’il venait de les finir. Fiochi n’a aucun sens. Je ne crois pas que le théâtre italien est plus beau que le français: chaque langue a des avantages et des limites; une oeuvre est bien écrite quand elle sait user des avantages et respecter les limites.
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Je chercherai de traduire la Chevelure de Bérénice en frangais, cet été, avec mon ami Claude Franc-Nohain (le fils de Franc-Nohain) qui vient ici. Je vous reverrai donc à Paris en Novembre; je vous remercie de votre invitation; je serais d’ailleurs hôte d’amis et vous mêmes, n’avez-vous pas des projets pour l’Italie? En ce cas, naturellement, n'oubliez pas notre maison. Pour des raisons que je vous expliquerai de vive voix je crois qu’il est mieux de laisser trainer la combinaison pour la « Chimère ». Mais, est-ce que vos destinées sont incertaines? Ludovici a fini sa dernière pièce: La buona novella. Jen connais un acte, excellent. Je vous conseille de la lui demander. Ma pièce (vous l’ai-je déjà dit?) paraîtra en Novembre ou Décembre. Presentez mes hommages à Mme Bernard, avec laquelle, désormais, j'ai des rapports de connaissance et remerciez-la de sa collaboration. Je vous serre la main cordialement votre
Leo Velina
Ferrero
Lombroso
dattiloscritta.
1 Si tratta de La Chioma
di Berenice.
10. Paris, 17-1-1924 Je ne saurais vous dire, mon cher, combien je suis touché de votre affectueuse amitié. La carte collective, et puis vôtre lettre m’ont beaucoup ému. Dîtes bien à tous, à vôtre père d’abord, à Lodovici, à vos amis — mes amis maintenant — qui vous ont soutenu dans cette « bataille » que je les remercie de tout mon coeur. Cette aventure est pour moi un peu plaisante et un peu mélancolique. Ma pauvre Martine n'avait jusqu’à présent connu que des joies. On l’avait fêtée dans les villes les plus diverses, Strasbourg, Lyon (je cite au hasard), Amsterdam, Copenhagen, Genève, Montréal, Liège, Bruxelles enfin, où l’on continue à la jouer depuis le début de l’hiver. Pourquoi faut-il que sa première disgrâce lui ait été réservée par cette Florence que Jaime et où je compte de si bons amis? Au moins cela ni aura permis de mesurer la sympathie de ces amis et ce résultat vaut à lui seul d’avoir connu cette disgrâce, que j'espère momentanée. Il n’y a vraiment pas de raisons pour que Martine réussisse moins bien à Florence que dans les villes que je vous ai citées. Il n’y en a pas non plus pour qu’elle touche le public italien moins bien que le Feu qui reprend mal. Je connais l’effet que produisent généralement les deux pièces. Le Feu prend le public tout de suite et ne le lâche plus. L’émotion dans Martine monte au contraire de tableau et atteint finalement à une inténsité plus grande. C’est le rythme particulier à chacune des deux pièces qui veut cela. Il faut évidemment plus d’attention pour écouter Martine. Je vous dirai même qu’il suffit de l’écouter, ce qui ne parâit pas avoir été le cas au Politeama Nazionale. J'ai écrit à Mr. Raggio, qui a acheté la pièce, pour lui dire toutes les fautes qui ont été commises, dans l’espoir qu’on les évitera si on joue la pièce ailleurs. Je lui demande communication de la traduction (ce qu’on devrait toujours faire). Je lui conseille, entre autres choses, de passer plutôt après la troupe Carini qu'avant, parce que le Feu qui reprend mal heurte moins les habitudes du public. Enfin je crois plus adroit de ne pas annocer d’avance Martine comme une pièce révolutionnaire. Pour faire accepter des formules nouvelles, il faut commencer par présenter des pièces. On se méfie toujours — et moi tout le premier — des formules qui précèdent les oeuvres. Tout ce qu’on a pu dégager de Martine à Paris l’a été après la représentation. Moi-méme je l’ai écrite sans idéé préconçue, simplement comme je la sentais. Vous m'avez rendu un grand service en me racontant exactement comment les choses s'étaient passées. Je vous demanderai de m'envoyer tout ce que vous pourrez comme articles, car, au dehors de la Nazione, on ne trouve pas grand chose à Paris. Dans l’ensemble je trouve avec vous que cette aventure n’est tout de même pas mauvaise
215
et que les discussions soulevées par les représentations presque simultanées des deux pièces sb ne peuvent que créer une atmosphère de curiosité intéressante pour l’avenir. Je vais étre très pris ces temps-ci: une pièce en trois actes et cinq tableaux (1’Invitation au voyage) à l’Odéon, vers le milieu de février. Ensuite, peut-être en mars, une piecè en trois actes (le Printemps des autres) au théâtre Vienna. J'attends votre prochaine pièce. Peut-être vaut-il mieux en effet que vous vous fassiez connaître à Paris par une oeuvre moderne. Il est possible que je puisse proposer quelque chose d’intéressant à Lodovici pour Con gli occhi socchiusi. Je lui écrirai dès que j'aurai des précisions. Encore merci à tous. Et bien affectueusement vôtre Jean-Jacques Bernard Lettera manoscritta su cinque facciate; carta con indirizzo intestato: 22 Rue Eugène Flachat. Wa-
gram 09-43.
II.
Viale
Machiavelli, 7 Firenze Aprile 1924
Mon cher ami, avec quelle joie j'ai reçu l’Invitation au Voyage, car il y a dans vos oeuvres un élément de jouissance pure, qui ressemble à celle que nous éprouvons devant certains tableaux,
uniquement
pour
leurs couleurs,
ou en écoutant
certains
morceaux
de musique,
uniquement pour les sons. En peinture on appelle ca la metière picturale au moins chez nous. Dans vos oeuvres cette matière est donnée par le tissu psycologique, et par les continuelles trouvailles, dont vous vous servez pour exprimer pudiquement les états d’àme. Quand on commence à lire on s’attend déjà à ces douces rencontres. Mais je ne saurais vous expliquer la cause de cette joie, c’est probablement parce que vous donnez au public l'illusion qu'il travaille pour son compte et qu’il decouvre par ses propres forces le drame? Illusion, car c’est vous qui presentez le drame de manière que tout le monde doit le voir, par ces procédés que je ne vous cite plus. Mais vous réusissez quand même à éveiller dans le public la sensation instinctive et fausse que s’il voyait ce drame dans la réalité il le découvrirait aussi facilement. C’est l’attente de ces joies qui nous remplit d’aise, quand nous ouvrons un de vos livre, ou j'imagine, quand on voit le rideau se lever. Je pense qu’avec l’Invitation au voyage, vous êtez arrivé au maximum de l’acrobatie (ne vous offensez pas de ce mot). Car le drame qui est réduit à presque rien prend une importance enorme. Je ne comprends pas comment quelques critiques aient pu dire que votre théâtre est le contraire du théâtre commun en tant que ce dernier amplifie et le vôtre modère le drame. En ce sens je pense que votre théâtre est, entre tous, celui qui sait faire ressortir le plus le drames presque invisibles. L’Invitation au V. en est la preuve. Pour le rendre sensible il a fait grandir énormement un drame qui n’aura plus aucune place dans la vie de cette femme. On voit la main de l’artiste dans le fait que cette amplification de valeurs ne gène pas du tout, et devient même naturelle. Car je parie que deux années après les événements que vous avez écrits, Marie Louise ne se souviendra de rien. En effet on se souvient du geste avec lequel on a jetté une allumette, si cette allumette a donné le feu à la maison; mais on l’oublie si cette allumette s’est éteinte. Dans le cas de Marie Louise l’allumette, après quelques moments d’incertitude (le drame) s’est éteinte. Le prodige c’est d’avoir fait un drame sur une allumette qui n’a pas donné le feu à la maison. Jadmire beaucoup ce fragment de dialogue qui va de « Ne t’es-tu jamais dit qu’au lieu de ces arbres »... etc. jusqu’à: «des sapins, des sapins». Le drame ne pouvait être mieux posé, et la scène de la carte géographique atteint une intensité poignante.
216
Dans vos intentions, je crois que Marie Louise, à qui Philippe était indifférent, s’interesse à lui en tant qu’il represente l’Argentine (c’est à dire le nouveau, le changement) quand il part. Mais ces manifestations d’ennui et d’indifférence un peu prononcées, pour que le public les sentent, peuvent être prises pour des expressions hostiles de l’amour, comme on en voit souvent. Il y a peut-être quelque chose à éclaircir. Je suis très curieux de voir le Printemps des autres qui me semble encore plus beau. J’ai vu moi aussi un drame de ce genre et encore plus tragique. Les drames entre mère et fille, qu'on voit partout et qui sont presque inévitables, n’ont pas été exploités par le théâtre autant
qu’on
pourrait.
Je vous écrit au lit (ce qui explique mon écriture) où je cherche depuis quelques jours de réconquerir des forces perdues à travailler excessivement pour repartir pour Rome, car dans 2 semaines à peu près on représentera la Terre Dure dans un théâtre d’avant-garde de Rome. J'ai beaucoup changé le Ier acte de la pièce. Je vous l’enverrai bientôt. J’ai aussi corrigé les épreuves de la Chevelure, qui paraîtra avec la Terre Dure après la représentation. J'ai parlé de vous et de la « Chimère » avec Pirandello (avec qui nous sommes en train d’arranger de grandes choses pour un théâtre) et avec le jeune Pericoli que j'ai connu. Je vous serre affectueusement la main Leo Ferrero Lombroso P.S. J'ai vu avec plaisir que maman a été appelée comme texte à l’appui de votre pièce... Velina
Les
dattiloscritta.
Viale Machiavelli 7 Firenze 14 febbraio 1923
Cher ami, merci de votre livre: qu’il est agréable de voir reliées en un volume vos quatre pièces! Cela fait quelque chose de compacte d’homogène et de solide. C’est un ensemble. Je vois que vous étez un peu effrayé de la formule où le public vous imprisonnait, en croyant vous suivre fidèlement. Vous avez raison. Il faut chercher un style dont les dessous ne soyent pas si illuminés — pour qu'il soit impossible d’en trouver la formule. La formule d’Ibsen ou de Racine est introuvable. Ils n’ont donc pas eu le besoin continuel d’en sortir. Une manière, c’est une tentation pleine de charme. Cela attire. Elle vous donne des délices. Mais ensuite vous y naufragez dedans. Moins par votre faute que par celle du public et de la critique, qui ne se sentent plus de joie à l’idée d’avoir compris votre secret et vous le jette à la tête du matin au soir en vous forçant à faire ce qui est le plus dangereux — vous imiter. Mais votre terre (maintenant je parle de vous en particulier) est en vérité féconde et riche — et elle continuera à donner des beaux fruits. Je vous envoye une espèce d’article que j’ai écrit sur vous et Géraldy dans le Baretti. ! Le Baretti est en train de devenir la plus interessante de nos revues. Elle réunit un groupe assez homogène de jeunes écrivains. J’y fait la critique dramatique. Je parlerai encore de vous dans un article sur le théâtre français contemporain, que j’écrirai pour un numéro dedié exclusivement à la littérature française. Notre théâtre, ici, avance. Probablement M. Padovani et moi nous en prendrons la direction. Mais le problème de la salle n’est pas encore resolu — et tout pourra s’y noyer. En tout cas nous nous souviendrons de vos deux actes! Ma pièce aussi avance. On m’a demandé de représenter la Chevelure de Bérénice. Je suis très indécis. Que diriez-vous? Je vous serre affectueusement la main Leo Ferrero P.S. J'ai lu dernièrement la Leonarda de Bjornson. Que votre Pr(intemps) des autres est plus beau! Il est utile de lire Leonarda pour comprendre la profondeur de votre drame.
217
Je suis très content que Lodovici soit representé à Paris, bien que ces trois petites scènes me laissent un peu indécis. Quand nous aurons decidé vraiement de l’existence de notre petit théâtre je vous écrirai pour que nous nous mettions d’accord avec la Petite Scène. Velina
dattiloscritta.
1 Si tratta dell’articolo pubblicato con il titolo di I/ muro trasparente nel numero del « Baretti ».
di febbraio
1925
13. Paris, 22-39-1925
Mon cher ami, quel délicieux article vous m’avez envoyé.! Vous pouvez vous dire que vous avez réussi à me faire plaisir. Et pourtant, au premier abord, le rapprochement avec Géraldy ? m’avait un peu surpris. Non que je méconnaisse toutes ses qualités qui sont très grandes. Mais je crois que beaucoup de choses nous séparent et que ma formation et mon idéal sont bien différents des siens. Je vois quelles aspirations communes nous pouvons avoir. Mais il me semble qu’il prolonge parmi nous un théâtre dont nous cherchons de plus en plus à nous écarter. Il procède beaucoup de Porto-Riche, * qui est un grand Homme, mais qui n’est plus notre grand homme. J'ai peut-être tort. Tout cela est si confus et il faut un grand effort pour voir clair. À distance vous devez y réussir mieux que nous. S’il m'est possible de donner dans Comoedia un extrait de votre article, je le ferai. Je ne sais si J'y arriverai, mais J'en serais bien heureux. Je vous envoie un article que je viens de publier. Ce n’est qu’un essai, une indication, une tentative de mise au point. Cela est nécessaire quelquefois, mais il faut réviser souvent ses propres jugements. La pièce de Lodovici sera jouée le mois prochain et, je crois, très bien. Je voudrais le décider à venir à Paris. Pour moi, je n’ai en perspective qu’une reprise de Martine. Je ne sais pas encore si ma nouvelle pièce pourra être jouée cette saison. Il est déjà bien tard. Il nous faut d’ailleurs — je parle de ceux d’entre nous qui ne veulent pas ravaler leur art à une besogne — une dose de patience que vous ne soupçonnez pas. Nous serons quinze jours en Bretagne pour les vacances de Pâques. À vous bien affectueusement Jean-Jacques Bernard Lettera manoscritta su quattro facciate; carta con indirizzo intestato: 22 Rue Flachat. Wagram 09-43. 1 Il muro trasparente, in « Il Baretti », febbraio 1925. 2 Paul Géraldy. 3 Georges de Porto-Riche, nato a Bordeaux nel 1847, pubblicò da principio raccolte di poesie come Prima verba (1872); Tout n’est pas rose (1872); Vanina (1879); ma presto si dedicò al teatro con Vertige (1873), poi Un drame sous Philippe II (1875); e Les deux fautes (1878). Porto-Riche era ancora
fedele alla tradizione del dramma romantico in versi. Ben presto intraprese un vero ciclo che designò sotto il nome di Teatro d’ Amore: La chance de Françoise (1888) ; L’infidèle (1891); Amoureuse (1897); Le vieil homme (1910); Zubiri (1912); Le marchand d’estampes (1918). Membro cese dal 1903, morì a Parigi nel 1930.
218
dell’Accademia Fran-
II
CON
ALBERTO
CAROCCI
(1926-1933)
I, Firenze 4 gennaio 1926 Caro Ferrero, ti mando il primo numero di Solaria che, spero, non ti dispiacerà troppo. So che è piena di difetti ma confido che sia possibile toglierli in avvenire. Perché non manderesti qualcosa per un prossimo numero? (Se non altro almeno, per intanto, qualche piccolissima e spicciolissima recensione; che non ti costa fatica e mi sarebbe molto utile). Mi sarebbe gradita una tua collaborazione e mi pare che ti troveresti in compagnia che non ti è nuova. Cerca di rispondermi al più presto. Molti saluti cordiali. Tuo Alberto Carocci Lettera
manoscritta
su due facciate;
carta
intestata
« Solaria ».
Strada in Chianti (Firenze) 3 settembre 1927 Caro Alberto, ho fatto correggere il mio francese dalla Nina! perché non ho un minuto libero: mi sono impegnato nella tesi a corpo morto e ho fatto contemporaneamente delle monumentali letture filosofiche di cui ragioneremo insieme un giorno. La tesi va bene: ? le idee son molte, i testi infiniti e non so da che parte scappare per evitare l’ossessionante visione di qualche codice che non potrò mai leggere. Dammi notizie di Solaria e dei Solariani del Forte. Salutami tanto la tua mamma, Mario, Loria, etc. Ti stringo la mano affettuosamente Leo Rimandami il ms. francese. Se hai lì la lista degli indirizzi di Solaria, puoi mandarmi quello di Bontempelli? Lettera
manoscritta
su
una
facciata.
1 Nina Ferrero Lombroso è la sorella. 2 Leo si riferisce alla sua tesi su Leonardo da Vinci, intrapresa per ottenere una cattedra di Storia dell’Arte.
gi s.d. [1927] Caro Alberto, in fretta, prima di partire. Eccoti il « programma » e il sunto del medesimo da mandare ai giornali. Nel sunto ho scritto « programma » per far colpo. Ti accludo anche
quella pagina sull’Egmont .1 C'è un’idea che mi sembra abbastanza vera. Guarda se lo ficchi nello Zibaldone. Conosci Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer? Molto buono. Saluta tutti i Solariani affettuosamente. ‘Ti stringo la mano Leo 221
P.S. Mi raccomando:
non fatevi prendere dai dubbi all’ultimo momento!!
P.S. II°. Non so se il sunto è molto chiaro e ben fatto. Vedi Lettera
manoscritta
su una
tu se è il caso di rifarlo.
facciata.
1 Ferrero si richiama al Commento all’Ouverture dell Egmont di Beethoven, poi pubblicato su « Solaria » nel gennaio del
1928.
i Firenze 30 novembre 1928 Caro Leo, scrivo oggi anche a Martin Chauffier ! per il numero Svevo. Lui meravigliato? E io non dovrei meravigliarmi della sua meraviglia? (che lui non si meravigli che io mi son meravigliato della sua meraviglia, se no io mi mera... ecc.) A Grasset ho SEMPRE mandato Solaria, e a volte gli ho chiesto libri per recensione che lui, contrariamente a ogni altro editore non mi ha mai mandato. Sarà che l’indirizzo era sbagliato; me lo mandi dunque esatto e avrà tutto quel che vuole. Bene per Baring. ? Il numero di novembre uscirà, finalmente, a giorni. Poi ci rimetteremo in orario. Tu lavori? Io no, fo una vitaccia e sono idrofobo. Manderò Solaria a Rensi e C. Che si fa di bello a Parigi? Che cosa darai a Solaria? Addio a presto. Aspetto il Leonardo. Affettuosamente tuo Alberto A giorni ti mando a firmare il contratto. Mandami appena puoi la tua quota: o a me o a Parenti. Due facciate dattiloscritte su cartolina postale intestata « Solaria ». 1 Louis Martin-Chauffier del quale Leo de l’Âme, pubblicati nella collezione dei 2 Maurice Baring, « uno dei più delicati finisce Leo recensendo per « Solaria » Confortless Memory.
Ferrero recensì, su « Solaria » (n. 6, giugno 1927), Jeux « Cahiers du Mois », diretta da André e François Berge. e umani scrittori dell’Inghilterra moderna », così lo de(n. 9-10, settembre-ottobre 1928) il romanzo del Baring:
5. Firenze, Caro Leo, avrai veduto, non mì è stato possibile varare le tue recensioni;
non
10-12-1928 mi credere
trascurato, ne ho pubblicata una a quelli che me ne avevano mandate quattro o cinque. Ti mando i contratti. Firmali dove è scritto in lapis il tuo nome. Poi manda tutto a Debenedetti, Corso San Maurizio 36 Torino, con le stesse indicazioni. Invitai Martin Chauffier, manderà. Qui ho conosciuto Baillou, 1!mi pare molto simpatico. Conto di vederlo uno di questi giorni. Dimmi che cosa conti di fare per Solaria. Indicami esattamente quali sono i tuoi zibaldone da pubblicare. A me pare il De Traz? e... Perché non scrivi mai? Porco. Un abbraccio. Scrivimi una lunga lettera su Parigi etc. Che cosa ti costa dedicarmi un po’ di tempo? Tuo Alberto Lettera dattiloscritta
su una
facciata; carta
nenti i contratti di cui la lettera parla.
intestata
« Solaria », con
acclusi sette allegati concer-
! Si tratta di Jean Baillou, giovane professore di letteratura francese, che Leo si è precedentemente curato di presentare a Carocci. ? Carocci allude al romanzo di Robert De Traz: L’écorché, Grasset, Paris, recensito da Leo Ferrero su « Solaria », nel n. 12 del dicembre 1928. 222
6. Firenze 17 dicembre 1928 Caro Leo, ma che cosa mi hai combinato?! ‘Ti avevo mandato le sette copie del contratto perché tu le firmassi e le rimandassi a Debenedetti. Dentro c’era questa lettera per te che ti rimando.
Adesso
non
solo rimandi
a me
i contratti,
ma
sono sei invece di sette. Manca
per l’appunto una delle copie più importanti: quella per il registro. Mio babbo dice con grande commiserazione: questi poeti! Manda dunque subito, ma suBITo quell’altra copia a Debenedetti che la firmi e me la rimandi. Avrai a quest'ora ricevuto la mia cartolina di sollecitazione. Deciditi a scrivermi una lunga lettera. Come vedi me ne muoio nel disio. Saprai forse che la Fiera letteraria sta per essere liquidata. Sembra che venga presa dal PopPd’It, e che alla direzione ci venga messo Calzini!!! Dunque i nostri doveri verso Solaria aumentano: sebbene adesso ci sarà Pegaso. Qualche volta vorrei scriverti, ma con altro indirizzo. Tu lavori? Io al solito perdo il mio tempo e la mia pazienza allo studio a far l’avvocato. Tempo e pazienza, e fra poco potrò anche dire la giovinezza. Veramente per la mia letteratura non c'è altra speranza che qualche rottura di gamba e stare a letto per un po’ di tempo: ma sono rimedi energici, e poi le gambe non son che due; mettine una per novella: a fare un volume dovrei essere per lo meno un gambero. Un abbraccio affettuoso dal tuo Alberto Lettera
dattiloscritta
1 Raffaele Calzini
su due facciate;
(1885-1953).
carta intestata
narratore
« Solaria ».
e giornalista del « Corriere della Sera ».
SE Firenze 23 dicembre
1928
Caro Leo, ho avuto la tua cartolina; più avaro non potevi essere. Mi sembri esageratamente impaurito da quella specie di boule de neige di mondanità che ti leva il tempo di lavorare. Ma perché non la pianti? Altrimenti non so come vorrai lavorare. À proposito, che cosa ne è del volume? : Ma aimè, temo che gli faccia troppa concorrenza quella giubba di velluto azzurro. Debenedetti non mi ha ancora rimandato i contratti firmati. Tu non mi hai scritto nulla relativamente alla quota sociale. Non credere, è un argomento importante! Di me non ci sono grandi notizie, o almeno non molto liete. Passo al solito l’intera giornata allo Studio. E adesso che mio fratello non può iscriversi nell’albo dei procuratori, e mio babbo ha sempre assoluto bisogno di me, capisco bene che la mia è una galera a vita. Nonostante ciò mi sono rimesso alla disperata impresa di lavorare. Riprendo le mie povere carte nelle mezz’ore di respiro, e lavoro la sera dopo cena; male, come puoi credere, senza calma e senza fiducia e stanco. Ora sto terminando il racconto che avevo cominciato e interrotto un anno e più fa, vorrei che uscisse in questo n. di Solaria.? C’è a Parigi la Liuba Sarsowski, una mia buona amica. Vorrei che tu la conoscessi. A Liuba voglio molto bene e le sono molto riconoscente per esser stata buona con me in momenti un po’ penosi. Ora traversa la crisi dell’indipendenza: vuol stare fuori di casa e far da sé la sua vita. Benedette ragazze; chi sa mai che cosa intendono per la loro vita! Pensavo che tu potresti esserle di aiuto; e sapendo che tu la conosci e che vi vedete a me parrebbe che Liuba non fosse del tutto sola. Ho scritto a Lei di mandarti un biglietto. Devo avvertirti di una cosa: Liuba rimase a me quanto mai antipatica, quando la conobbi; rammento che la trattavo senza simpatia e senza rispetto. Te lo scrivo per evitare a te il medesimo errore.
223
Rammentati
che aspetto una tua lettera: non ti sembra da porco dimenticarti di me? Affettuosamente tuo Alberto
P.S. Dimenticavo l’indirizzo: Liuba Sarsowski, Rue Bertollet 2, Paris Lettera
manoscritta
su tre facciate.
1 Carocci probabilmente allude al Leonardo 0 dell Arte che Leo Ferrero pubblicherà nel 1929 a Torino presso l’editore Buratti e sempre nello stesso anno, tradotto in francese e preceduto da un saggio di Paul Valéry: Léonard et les philosophes, a Parigi presso le edizioni Kra. 2 Si tratta del racconto Cose uscito nel n. 12 del dicembre 1928 di « Solaria ».
8. 36 Avenue Friedland, Paris, s.d. [1928] Caro Alberto, ti presento Jean Baillou un giovane francese che diventa professore di Letteratura all’Institut frangais. Vorrebbe conoscere delle persone intelligenti a Firenze e io lo mando naturalmente da te. Fagli conoscere Loria, ! Franchi, ? Tecchi, * Colacicchi, 4 Ferrata, 5 i Solariani insomma, dagli un’alta idea della nostra letteratura, fallo abbonare a Solaria e convincilo che in Italia c'è ancora il sentimento dell’ospitalità. Ti stringo affettuosamente la mano. Tuo Leo Lettera manoscritta su una facciata; con allegato il biglietto da visita dell'amico di Leo: Jean Baillou. 1 Arturo Loria (1902-1957), narratore e attivo collaboratore di riviste quali « Solaria », « Pegaso », « Letteratura », fondò nel 1945 insieme a Bonsanti e a Montale « Il Mondo ». 2 Raffaello Franchi (1899-1949), poeta e narratore fu tra i più assidui collaboratori di « Solaria ». 3 Bonaventura Tecchi (1896-1968), narratore e esperto studioso di letteratura tedesca. 4 Giovanni Colacicchi Caetani, poeta e collaboratore di « Solaria ». 5 Giansiro Ferrata, critico letterario e narratore, direttore di « Solaria » dal 1929 al 1930.
9e Firenze 9 gennaio 1929 Caro Leo, se i tuoi meriti di buon amico non fossero già tanti, ora ne avresti uno nell’avermi scritto una cosi affettuosa lettera, e non piccolo merito. Dunque un capitolo de consolatione amicitiae sarebbe ancora possibile e senza esser poi del tutto elegia di ciò che non fu! (Bada che non parlo sul serio: ho sempre paura che tu mi prenda sul serio, benedetto Leo). Dell'avvocatura non ne parliamo. La peggior preoccupazione non è quella del tempo quanto quella dell’attenzione da dedicare a lei o alle lettere. Il brutto di una tal professione è che essa ti assorbe ben più del numero di ore che passi in ufficio. Proprio come il lavoro di scrittore non si compie nei tre quarti d’ora che passiamo a tavolino, ma con l’indirizzo che va dato a qualunque atto della nostra attività. Ora, lavorare a un racconto un’ora al giorno, vuol dire essere un pessimo avvocato per tutto quel periodo di tempo, anche se il lavoro di ufficio non vien diminuito nemmeno di una mezz'ora. Ora esce un racconto mio in Solaria. ! Lo vedrai: ne sono assai scontento. È duro, faticoso, difficile, irto di intenzioni ancora annodate e con pochi sbocchi. Puoi senz’altro mandare la tua quota a Parenti o a me. Possibilmente subito. A giorni riceverai Solaria dicembre 1928; finalmente. Se vedi Franchi ? sollecitalo per il n. Svevo. Hai visto la Liuba Sarsowski? Salutala da parte mia. Che voglia avrei di venire a Parigi! Un abbraccio affettuoso dal tuo Alberto Lettera manoscritta
su due facciate.
1 Cose, pubblicato in « Solaria » n. 12, del dicembre ? Raffaello Franchi.
224
1928.
IO.
Firenze 8 marzo 1929 Leo carissimo, sono contento che la nuova copertina di Solaria ti sia piaciuta. Spero anch’io che questa veste ci aiuti un po’ a levarci di dosso la fama dell’elegante, aristocratica e simili che era una vera persecuzione. Ti raccomando di farci réclame. Per le traduzioni lo dissi agli amici; ma tornerò a ripeterlo. Per il Leonardo sei un lavativo. Ma io che son più cocciuto di un mulo mi ostino a voler un articolo. Quel che sempre ti raccomando è la brevità. Un articolo per Solaria non ha le esigenze di un articolo per giornale; quindi puoi condensare
quanto
Vuol.
Come sta il libro? ! Caro Leo, invidio la tua libertà e il tuo lavoro, e perfino la tua stanchezza momentanea della quale ti lamenti, se essa ti viene dall’aver lavorato. Io tento un po’ di lavorare. Ma questo mi è possibile solo il pomeriggio tardi, dopo le sei, quando allo studio c’è un po’ meno confusione. Del resto anche quella ora o poco più che mi avanza, è interrotta da telefonate e noie del genere. Sto lavorando al secondo di quei racconti, Canti di Natale. È tremendamente difficile: senza gli appigli dei fatti ai quali accrocher l’arco della composizione, c’è il rischio di ottenere un piano unico per tutte le parti del racconto senza rilievi e senza linea. Poi questo racconto mi rimane un po’ difficile anche perché vorrei tenerlo molto leggero di tocco, di una materia misurata, e un po’ mosso. Aggiungi che non mi è facile trovare la serenità necessaria per stare al lavoro. Ho tante cose che mi fanno star male, e che mi perseguitano, e ogni sera, quella breve ora di lavoro, è una serenità da riconquistare a forza. Così scrivo mezza pagina al giorno: sicché, a dio piacendo, avrò finito il racconto in tre mesi. Ti abbraccio affettuosamente Alberto Lettera
manoscritta
1 Il Leonardo
su due facciate.
o dell’Arte, Buratti,
Torino
1929.
TT: Firenze Caro Leo, ora sei una Che cosa c’entra però il collaboratore adatto Perché immagini che via. Credi che ne son
18 marzo
1929
persona per bene. Ho ricevuto il tuo Amore, : ben fatto e divertente. la letteratura annunciata nel titolo? Tu mi scrivi presentandoti come per « far varietà »: giustissimo, e questo articolo è proprio in tono. io non debba esserne contento e non debba incoraggiarti in questa contentissimo e son certo che faccia del bene a Solaria: credo anche
però che bisogna fare queste iniezioni un po’ alla volta, anche per non far strillare troppo i nostri scandalizzabilissimi amici e collaboratori. Con
le idee del tuo
Leonardo,
io sono,
come
tu sai, in completo disaccordo.
Questo
non
sarebbe gran male, se Solaria si fosse già pronunciata, e dichiarasse un atteggiamento teorico: ma questo in Solaria è sempre mancato. Aggiungi che l’argomento che tratti e la gravità delle tue affermazioni esigono di essere giustificate in 200-300 pagine di prosa: esporle
in forma di paradosso, se non addirittura aforistica, è cosa che ti permetterò solo dopo la tua morte, in un n. unico di Omaggio a Ferrero che ti dedicherò! D'altra parte i tuoi articoli non sono come quei nebulosi inconcludenti e acchiappanuvole articoli di Franchi, i quali almeno hanno il vantaggio di non farsi leggere e quindi di non dare nessun tono. Per il Luchaire
ho la massima
diffidenza,
ti confesso
che vorrei farne a meno. ?
Che cosa fai tu? Io ogni tanto lavoro al mio Canti di Natale e spero di mandartelo a leggere presto: ti stimo tanto buon amico da esser certo che mi criticherai con tutta sincerità. Grazie dell’ Amore, dimmi del Crémieux. Una affettuosa stretta di mano Alberto Lettera manoscritta su due facciate.
1 Probabilmente Carocci ha ricevuto alcuni appunti concernenti osservazioni di Ferrero sull’amore, | I 1 tratti dai Carnets. 2 Si tratta della recensione al libro di Jean Luchaire: Une génération réaliste che Leo desidera pubblicare nello