Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta 8815237860, 9788815237866

Perché la sinistra radicale degli anni Settanta fece della violenza uno strumento d'azione determinante e sovente p

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Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta
 8815237860, 9788815237866

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Il volume è pubblicato per iniziativa e con il contributo dell'Istituto Storico della Resistenza in Toscana

ISBN 978-88-15-23786-6 Copyright © 2012 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i di­ ritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsia­ si forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizionilfotocopie

INDICE

Premessa, di Simone Neri Serneri

p.

7

PARTE PRIMA: DISCUTERE IL CASO ITALIANO

l.

Contesti e strategie della violenza e della militarizzazione nella sinistra radicale, di

Simone Neri Serneri Il.

La lotta armata. Forme, tempi, geografie,

di Monica Ga/fré III.

63

La strage è di stato. Gli anni Settanta, la violenza politica e il caso italiano, di Mar-

co Grispigni

IV.

11

La piazza e la forza. I percorsi verso la lotta armata dal Sessantotto alla metà degli anni Settanta, di Marco Scavino

93

1 17

PARTE SECONDA: RETORICHE E LEGITTIMAZIONE DELLA VIOLENZA

V.

VI.

«Pagherete caro, pagherete tutto!». La violenza politica nelle riviste della sinistra extraparlamentare, di Silvia Casi/io La retorica della violenza nella stampa della sinistra radicale ( 1967-77 ) , di Barba-

ra Armani VII.

207

23 1

La legittimazione della violenza. Ideologie 5

e tattiche della sinistra extraparlamentare,

di Isabelle Sommier PARTE TERZA: LUOGHI, PRATICHE, CONTESTI

VIII. La lotta armata e la «questione delle car­ ceri», di Christian G. De Vito IX.

Schedare il nemico. La militarizzazione della lotta politica nell'estrema sinistra ( 1 969-75) , di Guido Panvini

X.

Percorsi di micromobilitazione verso la lotta armata, di Lorenzo Basi e Donatella

della Porta XI.

Per una geografia della lotta armata, di

Vincenzo Filetti XII.

Genova. La lotta armata in una città ope­ raia e di sinistra, di Davide Sera/t'no

Indice dei nomi Gli autori

6

PREMESSA

All'origine di questo volume sta l'esigenza di affron­ tare la storia degli anni Settanta, e in particolare la dif­ fusione in quel decennio di una violenza politica senza precedenti - per intensità, organizzazione e continuità - dalla fine della seconda guerra mondiale, superando la stagione del primato delle pur indispensabili ricostruzioni a carattere giornalistico e della memorialistica. Affiancandosi a quanto altri studiosi vanno facendo da alcuni anni, si è inteso ripartire dalla ricerca storica, non solo per fondare la conoscenza sull'indagine docu­ mentaria, ma per ridefinire - anche nel confronto con le scienze sociali - categorie interpretative e periodizzazioni altrimenti ancora troppo interne alle memorie dei prota· gonisti e alle prospettive coeve. Parte dei saggi qui presentati costituiscono la rielabo­ razione, spesso sostanziale, di alcune delle relazioni pre­ sentate al convegno Violenza politica e lotta armata nella sinistra italiana degli anni Settanta, organizzato dall'lsti· tuto Storico della Resistenza in Toscana e svoltosi a Fi­ renze il 27 e 28 maggio 2010. Il programma del conve­ gno, realizzato selezionando le risposta a un apposito cali /or papers, rifletteva lo stato e in parte anche le difficoltà della ricerca, ragion per cui solo alcuni dei partecipanti hanno accolto l'invito a trasformare le loro relazioni in saggi più maturi. A essi sono stati affiancati alcuni altri saggi, redatti appositamente, per allargare l'impostazione del discorso avviato, certo non a integrare o completare un piano di lavoro che attende ben altri sviluppi. Il volume, come il convegno, si concentra sulla sini­ stra, in particolare quella radicale, non tanto per la sua pur rilevante responsabilità, ma per una questione di me­ todo. Pur consapevoli del ruolo cruciale di altri soggetti, 7

riteniamo necessario considerare preliminarmente e in quanto tali le modalità e il ruolo che la questione della violenza politica e della «lotta armata» ebbe in quello spazio politico e culturale. Perché non si trattò di moda­ lità né di un ruolo secondari, eterodiretti, o meramente reattivi. Occorre considerare, insomma, quanto e perché la violenza politica, poi la militarizzazione del conflitto e infine l'organizzazione terroristica - per quanto tra loro distinte - appartennero alla storia della sinistra italiana di quegli anni. La partizione del volume risponde, pur sommaria­ mente, a una possibile articolazione dell'agenda di ricerca e ha al proprio centro il nesso tra violenza politica e ge­ nesi della lotta armata. Un nesso variamente declinabile, come i saggi dimostrano, ma che forse ha il suo fuoco principale proprio nelle ragioni e modalità di transizione da un esercizio generico di pratiche violente all'adesione a progetti e organizzazioni finalizzati alla militarizzazione del conflitto politico. I saggi della prima parte affrontano da varie angola­ ture alcuni dei caratteri distintivi e degli interrogativi di fondo posti dall'esperienza italiana: dalla questione della periodizzazione alle peculiarità rispetto ad altri conte­ sti europei, all'interazione tra i diversi soggetti politici e istituzionali fino ai nessi ravvisabili tra pratiche violente, progetti politici e dinamiche di militarizzazione. Nella seconda parte l'attenzione si concentra sulle modalità discorsive di narrazione e legittimazione della violenza e sulle progettualità politiche che intesero connettere quelle retoriche a determinati obiettivi e strategie conflittuali. La terza parte, infine, esplora - forzatamente in un numero limitato di casi di studio - la possibilità, in realtà la ne­ cessità, per la ricerca storica e politologica di verificare interrogativi, categorie analitiche e ipotesi interpretative dentro la pluralità dei contesti geografici, sociali e rela­ zionali che concorrevano a costituire il variegato universo sociale, politico e culturale dell'Italia degli anni Settanta. SIMONE NERI SERNERI 8

PARTE PRIMA DISCUTERE IL CASO ITALIANO

SIMONE NERI SERNERI

CONTESTI E STRATEGIE DELLA VIOLENZA E DELLA MILITARIZZAZIONE NELLA SINISTRA RADICALE Molte ragioni stanno all'origine dell'interesse mediatico come di quello scientifico per la diffusa violenza politica e la persistente attività delle organizzazioni politiche dedite alla lotta armata o altrimenti al terrorismo1 negli anni Set· tanta. Un interesse di portata tale da dare parvenza di fon­ damento alla definizione di quel decennio come gli «anni di piombo», in realtà etichetta nebulosa che tutto allinea alla dimensione omicida e pressoché nulla distingue tra i percorsi, gli intenti e le pratiche che alimentarono la vio­ lenza politica, la lotta armata e il terrorismo. Recuperare le ragioni più profonde di quell'attenzione mediatica è premessa necessaria di una ricerca storica solo di recente awiata e per molti aspetti ancora da in­ traprendere. Sommariamente, esse rimandano anzitutto al rilievo e all'impatto, senza precedenti in tempo di pace, della violenza politica e della militarizzazione del con­ flitto politico sulle vittime e più largamente sulla vita ci­ vilel. Non minore è l 'interesse per il fenomeno in sé, le 1 Consapevole dell'irrisolta valenza ideologica di queste definizioni, questa sede mi attengo a una distinzione sommaria, considerando or­ ganizzazioni di lotta armata quelle formazioni che attribuirono Wl valore strategico e dunque prioritario alla militarizzazione del conflitto politico contro avversari definiti e invece terrorismo quelle azioni omicide volte a suscitare insicurezza nell'opinione pubblica in modo indifferenziato, per quanto tale distinzione si sfumi in quei numerosi casi in cui azioni militari dirette contro singoli avversari avevano anche un evidente scopo intimidatorio contro una ben più vasta cerchia di soggetti. 2 Le vittime della violenza politica tra il l %9 e il 1982 ammontereb­ bero a Ll l9, di cui 35 1 morti, a loro volta distinguibili in 13 8 vittime di attentati stragisti, 154 vittime di attacchi mirati, 39 terroristi morti in conflitti a fuoco, e 20 vittime accidentali, secondo le stime riportate in D. della Porta e M. Rossi, Ci/re crudeli_ Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, 1 984, pp. 58-63, ove pure si distingue

in

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sue cause, la cultura sociale e politica e le motivazioni e i percorsi di vita di chi scelse la strada della lotta armata. Ancora, ma non ultimo, quelle ragioni rimandano al rap­ porto tra quelle scelte estreme e la storia della sinistra politica, sociale, sindacale, per quanto ebbero in comune e vicendevolmente si condizionarono.

l.

Sistema politico e dinamiche sociali

Ma già questi ultimi quesiti evocano questioni di ben più larga portata, direttamente attinenti alla storia dell'Italia repubblicana. È ben noto che nel nostro paese la violenza politica si dispiegò con intensità e durata del tutto peculiari nello scenario europeo, eccezion fatta per le assai particolari realtà irlandese e basca, e che ne trasse origine un novero senza dubbio cospicuo di formazioni armate, complessivamente attive per un elevato numero di anni con il coinvolgimento, variamente graduato nel tempo e nelle responsabilità, di una vasta schiera di mi­ litantP. Tali peculiarità a loro volta chiamano in causa i tra le 360 e le 758 vittime (morti e feriti) imputabili rispettivamente a fonnazioni di sinistra e fonnazioni di destra, riducibili rispettivamente a 300 ( 1 22 morti) e 39 (3 1 morti) qualora si escludano le vittime di stragi, quelle incidentali o durante tentativi di arresto e i terroristi stessi. Ana· logamente si indica in 128 i morti causati dalle organizzazioni armate di sinistra tra il 1 969 e il 1 988, il 60% circa dei quali appartenenti alle diverse forze di polizia, in Aa.Vv., Progetto Memoria. La mappa perduta, Roma, Sensibili alle foglie, 2009, pp. 493 ss., ove pure sono riportate brevi schede biografiche di quei morti e dei terroristi deceduti. Cfr. an­ che le schede biografiche raccolte in Presidenza della repubblica, Per /e vittime de/ terronsmo nell'Italia repubblicana, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2008. 1 Pur tenendo conto dei diversi criteri adottati, e in specie del fat· to che parte non marginale degli inquisiti furono assolti e dunque in misura da appurare anche da considerarsi estranei a ogni esercizio di violenza, si consideri che in Aa.Vv., Progetto Memoria. La mappa per­ duta, cit., pp. 483 ss., si riporta la cifra di 4.087 «inquisiti», ma senza dubbio si tratta di incarcerati per «banda armata, associazione sovver­ siva o insurrezione» tra il 1 969 e il 1989, dei quali il 38% minori di

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tratti specifici assunti nel nostro paese dalla mobilitazione giovanile e sociale sviluppatasi in Europa e negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta e dunque i contesti e le culture sociali che alimentarono quei movimenti e il loro radicalismo. Pure chiamano in causa, per altri versi, l'adeguatezza delle classi dirigenti nel fronteggiare e governare le aspettative e, sovente, i di­ sagi e le tensioni sociali scaturiti da quelle che - non solo con il senno di poi - furono trasformazioni epocali degli assetti del paese. Perché quelle tensioni riflettevano certo l'inadeguata redistribuzione dell'accresciuto benessere, ma pure sca­ turivano da cambiamenti profondi delle sue strutture so­ ciali, il cui baricentro era andato rapidamente ridefinen­ dosi nel rapporto tra mondo urbano e lavoro industriale, scolarità di massa e condizione giovanile, diffusione delle culture del consumo e della comunicazione e affranca­ mento di soggettività finallora subalterne. Ne furono investiti i presupposti, non tanto di gerarchie e consue­ tudini sociali già travolte dalla cultura di massa, quanto del sistema politico, della sua rappresentatività e dunque della sua democraticità, intesa come capacità di governare coniugando equamente libertà e coesione sociale4• Difatti, il protagonismo di nuovi e molteplici soggetti e aggrega­ zioni collettive e l'emergere prorompente di inedite e in25 anni e il 40% minori di 35 al momento dell'arresto o inquisizione e, dal punto di vista occupazionale (sul 69% del totale), il 16% stu­ denti e il 16% operai. Già D. della Pona, Il te"orùmo di sinistra, Bo­ logna, Il Mulino, 1990, pp. 139 ss., aveva censito tramite gli atti giu­ diziari 1 . 137 membri di «organizzazioni clandestine», dei quali il 25% donne, il 36,4% e il 34,5% rispettivamente nati tra il 1950 e il 1 955 e tra il 1955 e il 1960, nonché (limitatamente al 39,5 % del totale) il 40% operai dell'industria e il 1 5 % studenti. 4 Questioni su cui aveva già richiamato l'attenzione A. Melucci, L'invenzione del presente. Movimenti, tdentità, bisogni indivtduali, Bo­ logna, Il Mulino, 1982. Una disamina delle analisi del fenomeno terro­ ristico svolte pressoché a ridosso degli eventi è in G.M. Ceci, Interpre­ tazioni del te"an·smo: il primo dibattito scientifico italiano (1977-1 984), in «Mondo contemporaneo», 3 , 2009.

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numerevoli istanze di libertà e di tutela, solo in parte for­ malizzabili come altri diritti individuali e collettivi, mise in questione le procedure consolidate di formazione e integrazione della rappresentanza sociale che avevano fi­ nallora sostenuto la centralità dei partiti di massa e delle organizzazioni di interesse che li fiancheggiavano. Promotori e strumenti dell'avvento della democrazia nel nostro paese, sul finire degli anni Sessanta i partiti di massa soffrivano da un lato il loro insediamento tardivo al centro del sistema politico, condizionato dalla vittoria del fascismo nel primo dopoguerra e dal preminente ca­ rattere rurale del paese, e dall'altro il rapido compiersi della transizione a una modernità urbana-industriale che, coniugando alcuni tratti tipici del fordismo con l'afferma­ zione crescente di una socialità acquisitiva e consumistica, erodeva i presupposti stessi del loro radicamento sociale e le logiche organizzative della loro rappresentatività po­ litica. Il divampare della violenza politica negli anni Settanta non fu l'effetto, ma certamente il sintomo estremo di una crisi del sistema politico imperniato sui partiti di massa e, al tempo stesso, il banco di prova della loro capacità di rinnovamento. A conti fatti, si rivelò però piuttosto l'alibi per un'occasione drammaticamente mancata, come avrebbe dimostrato l'evoluzione, o involuzione, politica e istituzionale dei decenni successivi. In sostanza, affrontare la questione della violenza politica e della sua militarizzazione significa gettare uno sguardo, certo da un punto di vista estremo, sugli isti­ tuti, le politiche e le pratiche della giovane democrazia italiana, tanto sul versante della gestione dell'ordine pub­ blico, quanto su quello del rapporto tra istituzioni e so­ cietà civile e, come sopra detto, sulla vitalità e l'efficacia del sistema politico a base partitica in un decennio cru­ ciale della storia repubblicana. E, in modo solo apparen­ temente meno diretto, investe la questione dei diritti di cittadinanza, tanto sul versante del rapporto tra società e stato, ove certo pesò l'ombra lunga del fascismo, quanto su quello delle relazioni tra imprenditori e lavoratori, 14

anch'esse all'epoca per molti aspetti tutt'altro che equi­ librate, come si poteva facilmente constatare anche solo gettando lo sguardo oltreconfine. In altri termini, se negli anni Settanta fu all'ordine del giorno anche in Italia una profonda riconversione del sistema economico e politico-istituzionale che aveva pla­ smato lo stato nazionale nei decenni postbellici, quanto la militarizzazione del conflitto sociale e politico e la sua gestione da parte delle forze di governo valsero ad argi­ nare la crisi di prospettiva e di proposta in cui versava il pani to di maggioranza e quanto costrinsero l'opposizione comunista a legittimarsi sul terreno della difesa delle isti­ tuzioni anziché su quello delle riforme economiche e so­ ciali? Quanto l'enfasi sulla minaccia terroristica rinsaldò il rapporto tra istituzioni e società civile, a scapito tuttavia di una più decisa valorizzazione di quest'ultima e a van­ taggio di un sistema partitico sempre più pervasivo, oltre­ ché di forze e organizzazioni criminali, come indicato dal ruolo assunto dalla loggia massonica P2 e dall'espansione della mafia e delle camorra? Quanto le pur comprensi­ bili preoccupazioni per la tenuta del sistema democratico contribuirono ad arginare l'erosione del consenso alle forze moderate, come divenne evidente nelle prove elet­ torali della seconda metà del decennio, e a procrastinare e orientare il dibattito sulle possibili riforme istituzionali? Quanto, infine, la ristrutturazione del sistema produttivo poté procedere attraverso la compressione delle forze del lavoro, spesso secondo logiche punitive, piuttosto che at­ traverso una politica industriale capace di contenerne costi sociali e di preparare un nuovo ciclo espansivo?' ' Tra le molte riflessioni sulla crisi italiana degli anni Settanta, e in particolare sui nessi tra dinamiche sociali e sistema politico-istituziona­ le, si veda anzitutto per l'ampiezza delle questioni sollevate e le condi­ visibili suggestioni interpretative F. De Felice, Nazione e crisi: le linee di frattura, in Stona dell'Italza repubblicana. 3. L'ltalza nella cn:Si mon· dzale. L'ultzmo ventennio, vol. I: Economia e società, Torino, Einaudi, 1994; cfr. anche tra gli altri S. Lupo, Il crepuscolo della Repubblica, in Aa.Vv., Lezioni sull'Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 1994; P. Scop-

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2. Il Sessantotto: soggettività e rivoluzione Passaggio centrale in questa relazione tra dinamiche sociali e sistema politico fu il Sessantotto6, non perché sia il punto di partenza di questa storia, tanto più della spe­ cifica questione della violenza e della lotta armata, bensì perché fu crocevia, crogiolo e punto di non ritorno di molte diverse esperienze che da allora mutarono segno e portata. Il '68 giovanile, ben oltre che studentesco, e pure il '69 operaio non si limitarono a riecheggiare mobilitazioni dispiegatesi altrove, bensì con esse interagirono e si fe­ condarono, accomunati da alcuni rilevanti dati strutturali e culturali: la sinossi dei tempi di maturazione e mobili­ tazione, radicata nei rispettivi anni Sessanta, l'orizzonta­ lità generazionale ora assurta a frattura politica dentro la storia del Novecento postbellico, lo spaesamento indotto dalla modemizzazione neocapitalistica e consumistica e il rovesciamento in chiave antiautoritaria della emergente cultura dell'individualismo. D'altronde il carattere fondante del Sessantotto risie­ dette nel proporre la dimensione del sé - la soggettività individuale e collettiva - come criterio di valutazione sia dell'organizzazione della quotidianità sia della legittimità delle istituzioni politiche e sociali. Ma quella soggetti­ vità - il punto è cruciale - era storicamente radicata e ancorata negli orizzonti problematici, nei valori, nei pro­ getti del proprio tempo. Lungi dall'essere un accidente, il Sessantotto fu un'epifania, il manifestarsi di domande, istanze e tensioni, scaturite dagli stessi processi che avepola, Una msi politica e istituzionale; P. Craveri, Partiti e «democrazia speciale»; N. Tranfaglia, Parlamento, partiti e società civile nella crisi repubblicana degli anni Settanta, tutti in G. De Rosa e G. Monina (a cura di), L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Seuanta, vol. l: Si­ stema politico e istituztoni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003 . 6 Più ampiamente in S. Neri Serneri, Gli «anni del '68». Radicali­ smo e modernità, in M. De Nicolò (a cura di), Dalla trincea alla piazza. L'i"uztone dei giovani nel Novecento, Roma, Viella, 2011.

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vano trasformato radicalmente le società postbelliche e costretto le sue culture, quale che fosse il loro universo valoriale e segno politico, a rifondarsi, con molto affanno e malcelate incertezze, per dare un senso e un ordine al «mondo nuovo» che andava avvolgendo e travolgendo le vite di milioni di italiani. Tanto laddove resistevano le strutture, gerarchie e men­ talità più retrive e conservatrici, quanto laddove invece la modernità «neocapitalistica» si era più linearmente af­ fermata e il paternalismo e il tradizionalismo declinavano più rapidamente, tensioni e contraddizioni scaturivano in primo luogo dalle frustrazioni e dalle persistenti inegua­ glianze cui sovente soccombevano le aspirazioni alla pro­ mozione sociale. Soprattutto erano attizzate dal delinearsi di gerarchie e poteri sociali nuovi, ma non meno coercitivi dell'autonomia individuale e degli affermati ideali di tra­ sparenza, eguaglianza e democrazia. Quelle che apparivano come le promesse mancate della modernità si sommavano così - e l'Italia della massiccia deruralizzazione, delle mi­ grazioni interne e dell'urbanesimo malgovernato ne fu forse l'esempio di maggior rilievo7 - al permanere o rinno­ varsi di antichi disagi e contrasti sociali. Alle gerarchie vecchie e nuove, ai tradizionali o rinno­ vati strumenti di disciplinamento sociale il movimento dei giovani - studenti, ma anche lavoratori8 - rispose, difatti, 7

Un quadro sintetico, ma assai efficace è in E. Santarelli, Storia Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 90-96; cfr. anche la ricostruzione di G. Crainz, Storia del

critica della repubblica. L'Italia dal 1 945 al 1 994,

miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni /ra anni Cinquanta e Sessanta, Roma, Donzelli, 1 996, e Id., Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ouanta, Roma, Donzelli, 2003 . 8 G. -R. Horn, The Spiri/ o/ '68. Rebeltion in Western Europe and North Amen'ca, 1956- 1976, Oxford, Oxford University Press, 2007 , pp. 93 ss.; cfr. anche B. Gehrke e G.-R. Horn (a cura di), 1 968 und die Arbeiter. Studien zum «proletarischen Mai» in Europa, Hamburg,

Vsa, 2007 . Sul caso italiano cfr. tra l'altro D. Giachetti e M. Scavino, La Fiat in mano agli operai: autunno caldo del 1 969, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1 999, e A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola opera­ ia nell'Italia repubblicana, Roma, Donzelli, pp. 123 ss.

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con la parola d'ordine dell'antiautoritarismo, in nome della libertà e dell'autonomia individuale, di ciascun indi­ viduo e dunque anche delle comunità e collettività. Non si trattò, peraltro, di un mero conflitto generazionale, bensì del manifestarsi della valenza a un tempo radicale e universale che la soggettività giovanile era in grado di esprimere, profondamente innovandoli, nei diversi ambiti conflittuali aperti o latenti nelle società dell'epoca, a par­ tire da quelli di classe e di genere�. Per questo, l'antiau­ toritarismo rivolto contro le gerarchie considerate all'ori­ gine dell'oppressione sociale assunse rapidamente una declinazione egualitaria: alle differenze enfatizzate dalle gerarchie per legittimare la propria autorità si contrap­ pose l'eguaglianza tra gli individui. E la ricordata valenza radicale e universale della mobilitazione giovanile diffuse il conflitto in tutti quei contesti ove si percepiva l'esi­ stenza di strutture coercitive dell'autonomia individuale e collettiva: dalla famiglia alla scuola, dai luoghi di lavoro alle istituzioni pubbliche, per allargarsi progressivamente a tutti gli spazi di organizzazione della vita sociale, dalla produzione culturale alla sanità, dall'amministrazione della giustizia alle carceri, dalle relazioni di coppia alle associazioni politiche. Né va trascurato come, a fronte delle retoriche pro­ gressiste, pacifiste e universaliste, che nel corso degli anni Sessanta erano subentrate ai toni bellicisti, il ripro­ dursi di virulenti conflitti locali nei contesti postcoloniali parve confermare tanto il persistente primato del ricorso alla guerra come strumento per imporre l'egemonia delle potenze occidentali, quanto la «validità limitata» dei prin­ cipi di democrazia e sovranità popolare da queste pero­ rati. Questa contraddizione sostanziale e quella condizione di oppressione e di guerra erano imputate - in Italia come altrove in Europa e negli Stati Uniti - al fatto che 9

Come sottolinea D. Giacheui, Un Sessantotto e tre conflitti. Gene· Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 2008.

ral.ione, genere, classe,

18

le istituzioni e le forze politiche egemoni, pur vittoriose sul fascismo storico, parevano rispondere ancora una volta ad élite più o meno ristrette, anziché alle istanze espresse dalle maggioranze popolari. Enfatizzando le dif­ ficoltà, se non la crisi, delle tradizionali capacità di rap­ presentanza e integrazione dei partiti di massa a fronte della complessità e della pluralità sociale veicolate dalla modernizzazione «neocapitalistica», queste valutazioni fortemente critiche alimentavano un approccio all'azione politica imperniato sul primato della prassi, ritenuto indi­ spensabile per rilanciare l'autonomia sociale e per supe­ rare la discrasia tra presente e futuro considerata all'ori­ gine della riproduzione di strutture di potere - anche partitiche - prive di legittimazione funzionale e sociale. Nel tentativo di superare quelle discrasie ci si affidò a modalità di iniziativa politica - solo sommariamente riconducibili all'azione dal basso e allo spontaneismo - che traducevano in pratiche «di massa», e dunque ge­ neralizzavano, istanze critiche formulate nei tardi anni Cinquanta e più decisamente nel decennio successivo da esperienze minoritarie di avanguardie attive in ambiti di­ versi, che spaziavano dalle sinistre cosiddette «critiche» o «neomarxiste» al sindacalismo di base, dai gruppi pacifi­ sti a quelli per i diritti civili o per il sostegno ai movi­ menti anticolonialisti e terzomondisti, dalle comunità ec­ clesiali più innovatrici o critiche alle avanguardie culturali e artistiche10• Soprattutto, il movimento operò sovente anche una radicalizzazione e una semplificazione di molte di quelle istanze, perché, con la forza della dimensione di massa, 1°

Cfr. C. Adagio, R. Cerrato e S. U rso (a cura di), Il lungo decen­ Verona, Cierre, 1999, ma anche N. Fasano e M. Renosio (a cura di), I giovani e la politica. Il lungo '68, Torino, Gruppo Abele, 2002, e i materiali raccolti in N. Balestrini e P. Moroni (a cura di), L'orda d'oro 1 968- 1 977. La grande ondata rivoluzionana e creativa, politica ed esistenztale, Milano, Feltrinelli, 1988. Per una pa­ noramica europea cfr. Horn, The Spiril o/ '68, cit. nio. L'Italia prima del '68,

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avallò il primato della prassi e dunque rafforzò la con­ vinzione - già insita nelle precedenti esperienze di avan­ guardia - che gli obiettivi potessero realizzarsi perché «anticipati» nel corso stesso dei conflitti sociali. Questi criteri di condotta - nient'affatto invalida ti dagli insi­ stiti richiami a un olimpo ideologico variegato e sovente contraddittorio - esprimevano, anche nella rottura delle usuali prospettive temporali della politica, la diffusa per­ cezione delle potenzialità di cambiamento offerte dalla società deli'epoca 11• Conseguente fu quindi l'ulteriore passaggio a considerare la conflittualità sociale lo stru­ mento utile, non tanto a rafforzare la propria forza con­ trattuale, quanto a ampliare costantemente il novero degli obiettivi raggiungibili. In Italia, tutto ciò trovò espres­ sione nella più ampia mobilitazione sociale, che fin dal 1 967 e con più forza dalla primavera-estate 1 969 investì le fabbriche e progressivamente anche altri ambiti sociali, e nella quale il movimento giovanile e studentesco con­ fluì, ritenendo non a torto che quelle potenzialità di cam­ biamento stessero rapidamente concretizzandosi. L'interazione tra aspettative di cambiamento radicale e capacità di mobilitazione e di «anticipazione» degli obiettivi alimentò con forza crescente una prospettiva po­ litica di intonazione rivoluzionaria, intesa come possibilità di giungere in tempi relativamente brevi a un rovescia­ mento sostanziale dell'ordine politico, sociale e culturale dominante. Quella prospettiva cercò sovente sanzione e conferma nelle varie declinazioni del marxismo radicale e parve legittimata dal successo di alcune esperienze in­ surrezionali «terzomondiste». In realtà, essa espresse e trasse primariamente vigore - ben più che dall'ideologia - appunto da un diffuso e prepotente desiderio di cam11 A. Cavalli e C. Leccardi. Le culture giovanili, in Storia dell'Ita­ lia repubblicana 3. [;Italia nella crisi mondiale. L'ultimo ventennio, vol. Il: Istituzioni, politiche, culture, Torino, Einaudi, 1 997, pp. 787 ss.; cfr. anche R. Lumley, States o/ Emergency: Cultures of Revo/t in Ita/y /rom 1 968 to 1 9 78, London, Verso, 1990; trad. it. Dal '68 agli anni di ptom­ bo. Studenti e operai nella crisi italiana, Firenze, Giunti, 1998.

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biamento, nutrito, in quell'Italia appena uscita dal mondo rurale, dalle valenze palingenetiche largamente sedimen­ tate e diffuse dalla cultura cattolica come da quella co­ munista e rilanciate proprio dali'esperienza e dagli esiti del boom economico, che aveva dimostrato la possibilità di un cambiamento repentino e radicale, ma che le aveva anche rimotivate, invocandole a rimedio delle iniquità morali e sociali che ne erano scaturite. L'interazione tra quelle convinzioni e attitudini e la crescente mobilitazione sociale generò molte delle con­ traddizioni che costellarono gli sviluppi e gli esiti del mo­ vimento nella sua più lunga durata. La più drammatica fu certo quella concretizzatasi nel crescente, poi diffuso e, infine, per taluni, privilegiato ricorso alla violenza. Infatti, la diffusa, quanto talora generica, adesione a una prospet­ tiva politica rivoluzionaria trasse con sé anche l'accetta­ zione implicita o esplicita della violenza come strumento ordinario e magari necessario di lotta politica. Non signi­ ficava però - così come, d'altra parte, non era accaduto per la base comunista degli anni Cinquanta, anch'essa ancora largamente imbevuta di aspettative rivoluzionarie - accettare di conseguenza una strategia insurrezionale, tanto meno predisporsi a entrare in una organizzazione di lotta armata o terroristica12• Molte e diverse, anche nel tempo, furono le moda­ lità di esercizio della violenza e la strumentalità a esse attribuita rispetto alle finalità del movimento e poi, più precisamente, delle organizzazioni politiche che intende­ vano farsene parte dirigente. Del pari, molte e diverse 12 Tende invece a sfumare queste distinzioni, indicando nella vo­ cazione rivoluzionaria la matrice della lotta armata, A. Ventrone, Dal

Palazzo d'inverno ai quartieri ltherati. LA trasformazione dell'zdea di n'vo­ luzzone, in Id. (a cura di), I d.Jnnati della rivo/uzzone. V1olenza politica e stona d'Italia negli anni Sessanta e Settanta, Macerata, Eum, 201 0. In­

teressanti suggestioni sugli orizzonti di aspettativa, i linguaggi e le con­ cettualizzazioni rivoluzionarie del Sessantotto e dei movimenti da esso scaturiti, in G. Parrinello, LA sinistra nvoluzzonaria dopo il Sessanio/lo. Espen'enze, orizzonti; linguaggi, in «Storicamente.org», 4, 2008. 21

furono le condizioni e le pulsioni che incentivarono il ri­ corso alla violenza. Senza dubbio molto pesò, in seno al movimento, la radicalizzazione del primato della prassi e del soggettivismo, spinta fino alla legittimazione della ri­ soluzione violenta dei conflitti. Una radicalizzazione nu­ trita dal tragico intersecarsi di motivazioni politiche e culturali, tra le quali primeggiarono quelle alimentate dal diffondersi di un'accezione drammaticamente solipsi­ stica della cultura della militanza, che spinse a esaltare in chiave apertamente offensiva, anche quando sorretta da motivazioni «difensive», il paradigma del conflitto amico­ nemico, largamente egemone nella tradizione politica no­ vecentesca. Certamente agirono impulsi vitalistici, irrazionali e anche estetizzanti, mossi da una ricerca di senso affine a quella di altri, magari opposti raggruppamenti politici coevi o comunque novecenteschi accomunati dall'avver­ sione alla liberaldemocrazia1\ così come molto - e talora anche in modo determinante - pesarono nelle scelte e nei percorsi individuali i vincoli di solidarismo amicale e di gruppo14• Tuttavia, porre quella ricerca di senso e quella «ipertrofia del sentire» a fondamento del ricorso alla vio­ lenza non solo non rende ragione del perché tali manife­ stazioni si rinnovarono nel contesto italiano degli anni Set­ tanta, ma presuppone una connessione tra l'«ipertrofia del sentire» e la «ricerca di senso» da un lato e la violenza dall'altro che, per quanto reale, non può considerarsi ob­ bligata e dunque deve essere spiegata, così come non è obbligata l'antitesi di quelle pulsioni alla liberaldemocra­ zia, potendosi certamente considerare la «ricerca di senso» e l' «ipertrofia del sentire» attraverso la ricerca del piacere 11

Cfr. A. Ventrone, I.:assalto al cielo. Le radici della violen'l.IJ poli· tica, in De Rosa e Monina (a cura di), L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, cit. Una interpretazione estrema di un approccio fondato sul primato dell'ideologia e della dimensione esistenziale è in A. Orsini, Anatomù1 delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del te"o­ n'smo rivoluzionano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009. " Cfr. della Porta, Il te"orismo di nnistra, cit., pp. 133 ss., 1 65 ss.

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e l'esaltazione del corpo come modalità di presenza nel mondo manifestazioni tipiche della modernità definita dai consumi, anche nei sistemi politici liberaldemocratici. Piuttosto, come cercheremo di mostrare più avanti, il fondamento primo del ricorso alla violenza risiedeva nella convinzione che essa fosse lo strumento necessario, e per taluni indispensabile, per affermare la propria soggettività sociale e dunque il proprio diritto contro un potere con­ siderato ingiusto e perciò autoritario. Non senza analogie con la secolare tematica cattolica della «guerra giusta», la violenza era legittimata con la necessità di tutelare un diritto ritenuto moralmente superiore e finalizzata a in­ frangere le presunte gabbie del disciplinamento sociale. Una prospettiva che almeno in prima istanza era ben !ungi dall'essere nichilista e distruttiva, persino quando affermava il «rifiuto del lavoro», avversato in quanto tale perché ritenuto inevitabilmente subalterno ai processi di valorizzazione produttiva capitalistici, ma senza che ciò implicasse una avversione alla produzione sociale della ricchezza. E, si noti, un punto di vista ben diverso da quello del radicalismo di destra, che nell'esercizio della violenza vedeva essenzialmente la manifestazione naturale di un potere gerarchicamente sovraordinato. Che la cultura di sinistra muovesse da quel punto di vista lo suggeriscono non solo le ricorrenti considerazioni circa la specularità tra potere e violenza e la concezione del diritto formale come sanzione di quella specularità, da cui si faceva discendere il necessario rovesciamento di quel rapporto. Ma lo suggerisce soprattutto la persistente discussione, aperta all'interno dei gruppi che pure consi­ deravano la violenza una risorsa strategica, attorno alla le­ gittimazione dei livelli di violenza praticabili, fino all'omi­ cidio, e di chi personalmente esercitava quelle violenze. D'altra parte, quella discussione rimase aperta anche dopo, e nonostante, le tragiche brutalità omicide spesso sempre più pauperamente motivate degli ultimi anni Set­ tanta e dei primi anni Ottanta e valse ad avviare un per­ corso critico sull'esperienza della lotta armata e più in ge­ nerale sulla legittimità della violenza, del quale la vicenda 23

politico-giudiziaria della cosiddetta dissociazione fu solo uno dei momenti più significativi. 3. Un passo indietro. Il caso italiano, la violenza e il Ses­

santotto

Una riflessione storiografica sull'esercizio della vio­ lenzau dovrà spingersi oltre le opposte, ma riduttive, tendenze ad addebitarla all'esaltazione ideologica o alla degenerazione meramente criminale o, invece, a consi­ derarla esito pur deprecabile delle contingenze politiche. Del pari, non è certo sufficiente evidenziare le continuità, n

Per alcuni riferimenti, nient'affatto esaustivi, cfr. I. Sommier,

LA

violence polittque el son deuil. L'apres '68 en France el en Italie, Ren· nes, Presse Universitaire de Rennes, 1998; Crainz, Ii paese mancato, cit., pp. 2 17 ss., 273 ss.; A. Bravo, Noi e 14 violenZJJ. Trent'anni per pensarci, e E. Betta e E. Capussotti, «Il buono, il brullo e il callivo»: l'epica dei movimenti tra storia e memoria, entrambi in A. Bravo e G. Fiume (a cura di), Anni Sellanta, in «Genesis. Rivista della Società Italiana delle Storiche», III/l, 2004; B. Armani, Italia anni se/tanta. Movimenti� vtolenZJJ polittca e lo/la armata tra memoria e rappresenta­ ZIOne storiogra/ica, in «Storica», 32, XI, 2005; M. Galfré, L'insosteni­ bile leggerew del '77. Il trentennale tra nostalgia e demonizzazioni, in «Passato e presente», 75, 2008; L. Bosi e M.S. Piretti (a cura di), VIo­ lenza politica e terronsmo, numero monografico di > nel numero monografico Mtllenovecentosessantanove, dicembre 1 998.

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rie. Un'influenza che, non essendo limitata agli ambienti studenteschi o a certa borghesia intellettuale, ma coin­ volgendo settori significativi delle classi lavoratrici e delle stesse organizzazioni sindacali 14, risultava obiettivamente difficile da contrastare, anche per le contraddizioni in­ terne ai partiti della sinistra e più in generale al quadro politico-istituzionale".

1 4 Non c'è dubbio che uno dei problemi storici più rilevanti, a questo proposito, riguardi la permeabilità degli ambienti operai (e in parte anche sindacali) italiani all'azione dei gruppi rivoluzionari, senz'altro superiore a quella che si registrò in qualsiasi altro paese coinvolto in quegli anni da forti agitazioni operaie con caratteristiche simili (ad esempio le spinte salariali ed egualitariste degli operai comu­ ni, spesso in larga parte immigrati di recente). Per un inquadramento generale, cfr. C. Crouch e A. Pizzorno (a cura di), Conf/illi in Europa. Lo/le dì classe, sindacati e Stato dopo il '68, Milano, Etas, 1977. Utile, in particolare per chiarire la storica debolezza strutturale dei sindacati italiani, anche A. Pizzorno, l soggelli del pluralismo. Classi, partiti, sin­ dacati, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 99 ss. " E diventato quasi un luogo comune, nelle ricostruzioni di quel periodo, puntare l 'indice contro la «rinuncia da parte dello stato ad adoperare doverosamente fino in fondo i suoi strumenti di controllo e repressione» (P. Craveri, LJ Repubblica dal 1 958 al 1992, Torino, Utet, 1996, pp. 448-449). Tale debolezza si sarebbe manifestata, ad esem­ pio, nella mancanza di provvedimenti analoghi a quelli con cui il go­ verno francese, già nel maggio 1970, mise fuori legge l'organizzazione di estrema sinistra Gauche prolétarienne, ritenendola responsabile di numerosi atti di violenza, ma anche di teorizzazioni della lotta armata per la conquista del potere. Tale giudizio mi sembra non tenere però conto adeguatamente di quali fossero allora le reali condizioni del si­ stema politico-istituzionale italiano, il grado di divisione fra i partiti, la fragilità della coalizione governativa di centrosinistra, il deficit di legittimità democratica della Democrazia cristiana: elementi che con­ correvano potentemente a rendere impraticabili misure legislative o amministrative di aperta repressione, a meno di non voler provoca­ re un ulteriore (e forse insostenibile) aggravamento delle tensioni. Su questo punto si veda l'utilissimo articolo di V. Sana, Il rapporto Ma:r.­ :r.a. LJ crisi dell'ordine pubblico all'inizio degli anni Settanta, in «Nuo­ va Storia Contemporanea», XIV, n. 6, novembre-dicembre 2010, pp. 57 -80, dal quale emerge con chiarezza, in particolare, come il Pci e il Psi non fossero disponibili ad avallare un'azione repressiva contro i gruppi, pur combattendoli sul piano politico, per evidenti ragioni poli­ tiche (in tal senso si pronunciò apertamente, alla Camera dei deputati,

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Non per questo, tuttavia, se ne può trarre la con­ dusione che nelle sinistre rivoluzionarie, in senso lato,

fossero già maturate delle scelte programmaticamente orientate verso l'uso organizzato della violenza (che è cosa diversa dall'esercizio della violenza nel corso di scioperi o di manifestazioni pubbliche) e, tanto meno, verso la lotta armata. Tutto quanto sappiamo dei gruppi e dei movimenti attivi nel biennio 1 968- 69 porta anzi a escluderlo con una certa sicurezza. Al di là dei toni spesso violentissimi della stampa e della propaganda (che nel novembre del 1 969, ad esempio, valsero due denunce - e poi due condanne a un anno e qualche mese - ai direttori responsabili di «Lotta Continua» e di «Potere Operaio», Piergiorgio Bellocchio e France­ sco Tolin16) , in quel contesto l'obiettivo comune a tutti i gruppi e le formazioni politiche di estrema sinistra restò semplicemente quello di promuovere un allargamento e una radicalizzazione delle lotte, che potessero valere ad aprire una crisi complessiva del sistema. Il che poteva senz'altro comportare (e di fatto comportava) la parte­ cipazione attiva a scontri di piazza e a vari episodi di violenza nei luoghi di lavoro o nelle università e nelle scuole, ma non configurava affatto una strategia politica, il comunista Luciano Barca nel corso del dibattito parlamentare del lO dicembre 1969). «Rapporto Mazza» è il nome con il quale divenne fa­ mosa un'allarmata relazione sull'ordine pubblico stesa nella primavera del 197 1 dal prefetto di Milano, Libero Mazza, rimasta senza seguito e all'origine di forti polemiche tra i partiti. 16 I due casi furono in parte diversi. Bellocchio venne denunciato (e poi condannato nel marzo del 1970) per apologia di reato e diffu­ sione di notizie false e tendenziose, in relazione soprattutto a un ar· ticolo del 22 novembre, intitolato La violenu operaia dalle fabbriche alle strade (si era a pochi giorni dagli incidenti milanesi del giorno 19, in cui aveva perso la vita un agente di pubblica sicurezza). Tolin fu invece denunciato per istigazione a delinquere in relazione a un arti­ colo, comparso il 30 ottobre, che si intitolava Sì al/4 violenu operaia, e venne processato per direttissima. Per queste ragioni il caso di Tolin suscitò maggiore scalpore, in parte anche nell'opinione pubblica de· mocratica: su di esso cfr. A. Grandi, La generazione degli anni perduti. Storie di Potere Operaio, Torino, Einaudi, 2003, pp. 107 · 1 1 2. 1 26

che mirasse a diffondere pratiche sistematiche di uso della forza17• Un lavoro di ricostruzione dei percorsi, che portarono all'emergere in una parte del movimento rivoluziona­ rio (per la verità molto minoritaria, almeno inizialmente) della tendenza a muoversi programmaticamente sul piano della violenza (e anche dell'uso delle armi), non può che partire quindi dalla constatazione che il Sessantotto, in senso stretto, c'entra solo per il fatto di aver innescato uno scontro politico e sociale di straordinaria inten­ sità. Che in quello scontro sociale vi fosse stato un tasso molto alto di violenza e che in parte, ma solo in parte, ciò fosse imputabile alle azioni dell'estrema sinistra18 può

1 7 Si deve tenere conto, peraltro, che le posiZIOni m merito alla questione della violenza erano molto differenziate tra i vari gruppi. In genere, infatti, chi si riconosceva - sia pure in modi diversi - nella tradizione storica del movimento comunista internazionale di matri­ ce terzinternazionalista, foss'anche nella più recente versione maoista, considerava il ricorso soggettivo alla violenza come l'espressione di una tendenza anarcoide e piccolo-borghese, sostanzialmente estranea alle masse e quindi da condannare e contrastare. Larga pane del mo­ vimento studentesco, influenzata dalle esperienze di lotta armata nel Terzo Mondo, era invece decisamente più possibilista e non escludeva affatto l'opponunità, ad esempio, di piccole azioni di guerriglia, dal carattere sostanzialmente dimostrativo (senza dimenticare peraltro la sopravvivenza, in alcune aree marginali dei partiti di sinistra e degli ex combattenti antifascisti, dei miti legati alla Resistenza armata). Ancora diverso, infine, era l 'atteggiamento di chi veniva dal cosiddetto «ope­ raismo» teorico o da correnti storicamente minoritarie del movimen­ to operaio, quali il sindacalismo rivoluzionario e il luxemburghismo, o l'anarchismo di matrice non individualistica, e in genere considera­ va il problema della violenza sostanzialmente come una variabile dello scontro sociale, con la quale fare pragmaticamente i conti nell'ambi­ to del processo rivoluzionario. Occorrerebbe riflettere maggiormente, quindi, sulle conseguenze che ne derivarono, a questo proposito, per i gruppi - come Le e Po - nati dall'intreccio fra movimento studen­ tesco e gruppi operaisti preesistenti. Tema che punroppo mi sembra non sia ancora stato indagato a fondo dagli studi sul Sessantotto ita­ liano. 18 Si tenga presente, a questo proposito, che benché gli aspetti più violenti del Sessantotto fossero senza dubbio gli scontri di piazza, nel corso dei quali si registrarono ben cinque moni (due braccianti uccisi

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costituire un contesto di carattere generale ma non aiuta di per sé a comprendere certe scelte e certi passaggi suc­ cessivi. Occorre guardarsi dalle generalizzazioni, dagli anacronismi e dalla confusione tra fenomeni diversi, così come dalle ricostruzioni di una parte dei protagonisti, i quali - comprensibilmente - hanno spesso fornito un'im­ magine di continuità e linearità tra Sessantotto, violenza politica e lotta armata, contribuendo così a indirizzare la stessa riflessione storico-politica su un terreno scivoloso, fatto più di memorie e di autorappresentazioni che di in­ dagini critiche e di approfondite ricostruzioni dei fatti e dei contesti in cui essi si svolsero19• Prendere parte a de-

dalla polizia ad Avola, in provincia di Siracusa, il 2 dicembre 1968, due manifestanti uccisi sempre dalla polizia a Battipaglia, in provincia di Salerno, il 9 aprile 1969, e l'agente Antonio Annarumma morto a Milano il 19 novembre 1969 a causa di un tragico incidente, solo in­ direttamente imputabile al comportamento dei manifestanti), nell'espe­ rienza di gruppi come Lotta continua e Potere operaio contarono as­ sai di più - anche come miti di fondazione - le violenze che si re­ gistrarono all'interno delle fabbriche, in particolare negli stabilimenti Fiat di Torino (cfr. quanto già richiamato nella nota 15). Fondamen­ tali, per quell'area di movimento, furono inoltre gli incidenti di piazza del 3 luglio 1969, sempre a Torino, che per la verità gli organizzatori dell'assemblea operai-studenti non fecero davvero nulla per provoca­ re, né si dimostrarono in alcun modo organizzati a gestire: cfr. l'ampia ricostruzione di D. Giachetti, Il giorno più lungo. Lz rivolta di corso Traùmo. Tonno, J luglto 1 969, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1997. 19 Su questi temi esiste ormai una memorialistica vastissima, at­ torno alla quale sono stati costruiti quasi tutti i principali lavori di­ sponibili in materia, a partire dal volume di G. Bocca, Noi te"on­ sti. Dodià anni di lotta armata ricostrutli e discussi con i protagonisti, Milano, Garzanti, 1985. Un ruolo particolare ha avuto poi l'opera di R. Curcio, A viso aperto. Intervista di Mano Sàaloja, Milano, Monda­ dori, 1993 , che ancora oggi costituisce una delle fonti principali per le ricostruzioni storiche sulle Brigate rosse. Un esempio recente di autorappresentazione in chiave di continuità è dato da S. Ricciardi, Maelstrom. Scene di nvolta e autorganiUJJzione di classe tn Italia (19601980), Roma, DeriveApprodi, 20 1 1 , in cui l'autore, pur avendo ade­ rito alle Br solo nel 1 977, dopo una lunga militanza politica in varie formazioni di sinistra (tra cui i collettivi autonomi romani), fornisce un quadro delle proprie esperienze tale da far apparire la scelta della lotta armata come uno sbocco di percorso quasi naturale. Credo che 128

gli scontri di piazza o anche sfasciare delle vetrine non è la stessa cosa che lanciare delle bottiglie molotov, se non altro perché queste ultime vanno preparate e richiedono un minimo di organizzazione; creare un servizio d'ordine a fini di autodifesa delle manifestazioni di piazza non implica necessariamente l'adozione di schemi organiz­ zativi paramilitari o un particolare tipo di armamento, e di per sé non ha nulla a che fare con la scelta di impie­ gare quel servizio d'ordine in azioni di guerriglia urbana o di farlo intervenire, e con quali modalità, a sostegno di un'occupazione di case (scelta che rimanda evidente­ mente alla più generale strategia politica del gruppo di appartenenza20); compiere attentati incendiari o comun­ que di danneggiamento alle cose costituisce una scelta che può maturare in contesti diversi (può anche essere fatta da poche persone, non necessariamente inserite in un'organizzazione che fa degli attentati una prassi proa questi limiti della riflessione storico-politica sull'argomento non ci si possa sottrarre del tutto sino a quando non saranno disponibili lavori approfonditi di analisi sui vari gruppi della galassia rivoluzionaria ita­ liana. 20 Il caso dei servizi d'ordine è particolarmente emblematico dei rischi che si corrono generalizzando certe esperienze ed equivocan­ do sulla loro natura. Nei primi anni Settanta il servizio d'ordine più organizzato, e per certi versi anche più aggressivo e militarizzato, era infatti quello del Movimento studentesco dell'Università statale di Mi· lano, i cui appartenenti erano indicati con il tennine «katanga» (dal nome di una regione del Congo al centro delle cronache internazio­ nali nei primi anni Sessanta) e che fu protagonista di innumerevoli scontri, anche violentissimi, a Milano e in altre città lombarde dove il gruppo aveva esteso la propria presenza. Cionondimeno il Movimento studentesco, trasformatosi progressivamente in una vera e propria for­ mazione rolitica che nel 1976 prenderà il nome di Movimento lavora· tori per i socialismo, fu senza dubbio tra le componenti politicamente più moderate dell'estrema sinistra, costantemente in polemica, spesso non solo verbale, con altri gruppi, come Avanguardia operaia o Lotta continua, accusati di avventurismo soprattutto per la loro azione nelle fabbriche e per la loro opposizione ai sindacati confederali. Va da sé che il Movimento studentesco diede sempre un giudizio drasticamente negativo della lotta armata e che i militanti dei suoi servizi d'ordine non ebbero mai nulla a che spanirvi. 1 29

grammata); realizzare un agguato a una persona fisica è cosa ben diversa da un attentato incendiario, implica un salto di qualità tanto sul piano delle scelte morali quanto su quello delle prassi operative; decidere come gruppo di darsi strutture organizzative «coperte» per raccogliere in­ formazioni sugli avversari politici non equivale tout court a trasformarsi in un'organizzazione clandestina, così come compiere delle rapine per autofinanziamento non signi­ fica necessariamente aver scelto la lotta armata; usare o meno le armi da fuoco è una opzione carica di implica­ zioni politiche, non solo morali, così come decidere - in­ fine - di uccidere una persona.

2.

Dopo il biennio 1 968-69: il carattere equivoco del con­ cetto di «lotta armata»

Nell'Italia degli anni Settanta nessuno di questi pas­ saggi avvenne per caso e non ci fu nessun rapporto di se­ quenzialità fra l'uno e l'altro, come se la violenza politica fosse di per sé una sorta di piano inclinaw verso la lotta armata e il terrorismo. Se da un lato è senz'altro vero che l'estrema sinistra nel suo complesso si trovò immersa in un clima di crescente radicalizzazione dei comportamenti e delle prassi organizzative, frutto di un conflitto poli­ tico e sociale prolungato e sempre più aspro, dall'altro è innegabile che tutto ciò non sia sufficiente a spiegare le origini della lotta armata, intesa in senso stretto, come il passaggio a una modalità specifica di organizzarsi e di agire politicamente, e che occorra invece ricostruire in tutta la loro complessità e contraddittorietà i percorsi che spinsero alcuni gruppi, e non altri, a quelle scelte21• Te2 1 Molti studi su questi temi hanno teso invece a sottolineare le af· finità e le convergenze tra i vari gruppi, almeno agli inizi degli anni Settanta, piuttosto che le loro differenziazioni ideologiche e di prassi politica, traendone la conclusione che la lotta armata non fosse altro che un modo panicolare di tradurre in pratica cene idee rivoluziona-

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nendo presente che si trattava comunque di scelte politi­ che, operate in vista di certi obiettivi e nel quadro di de­ terminate strategie, e non - genericamente - di uno sfogo di indistinte pulsioni rivoluzionarie. Da questo punto di vista le origini della lotta armata in Italia risultano assai più articolate di quanto in genere non si creda. E c'è da domandarsi se la stessa categoria, in sé, non sia inadeguata a darne esattamente conto, nella misura in cui suggerisce una periodizzazione del feno­ meno tutta incentrata sulla nascita - già nel 1970 - delle prime formazioni armate (i Gruppi di azione partigiana, il Gruppo XXII ottobre, poco più tardi le prime Bri­ gate rossel2), enfatizzandone e dilatandone oltre misura il significato alla luce di scenari che in realtà si determi­ narono successivamente, e trascurando invece di conside­ rare il dibattito che si aprì all'indomani del biennio 1 96 869, in un'area ben più vasta dell'estrema sinistra italiana, in merito al rapporto fra lotte di massa e organizzazione rivoluzionaria. Non si tratta, beninteso, di minimizzare l'importanza - soprattutto in prospettiva storica - di quelle prime esperienze di guerriglia. Feltrinelli aveva al­ lora un ruolo, anche a livello internazionale, che sarebbe senz' altro un errore sottovalutarel}, ed era considerato rie. Cfr. ad esempio G. Panvini, La piani/ica1.ione della violenza (1969· 1972), in Vemrone, I dannati della rivolu1.ione, cit., secondo il quale «i gruppi della sinistra extraparlamentare condividevano, nonostante le numerose divergenze teoriche, buona parte dei repertori d'azione adottati dalle nascenti formazioni terroristiche di estrema sinistra» (p. 76) . 22 L' opera più attendibile per tutte le informazioni sui diversi grup· pi armati italiani attivi fra il 1970 e i primi anni Ottanta è il volume Aa.Vv., Progetto Memoria. L4 mappa perduta, Roma, Sensibili alle fo· glie, 1994 (ne è uscita una seconda edizione nel 2006). 21 Profondamente legato all'idea di una solidarietà militante inter· nazionale, Feltrinelli appoggiava sia la guerriglia in America latina, sia la resistenza alle dittature europee dell'epoca, in particolare quel­ la greca. Pare accertato, peraltro, il suo coinvolgimento nell'assassinio, avvenuto ad Amburgo il 2 aprile 1972, del console boliviano Roberto Quintanilla, ex capo della polizia ritenuto uno dei responsabili dell'uc· 13 1

con rispetto un po' da tutti, benché le sue manie cospira­ tive suscitassero parecchie riseJVe, non solo per ovvie ra­ gioni di convenienza, data la sua generosità nei finanzia­ menti e nel sostegno alla stampa1\ ma perché - occorre sottolinearlo ancora una volta - le sue posizioni, pur criticabili e criticate, non erano affatto viste come estra­ nee alla riflessione politica del movimento2'. Il Collettivo politico metropolitano, da cui ebbero origine le Brigate rosse, era un gruppo ben radicato a Milano e nell'hin­ terland, con una solida rete di collegamenti in altre città e con altri collettivi militantil6• E anche il Gruppo XXII ottobre, benché le sue caratteristiche fossero in parte di­ verse, legate a una realtà, come quella genovese, in cui l'estrema sinistra risultava abbastanza debole27, può essere cisione e ddla mutilazione di Guevara: Feltrindli, che nel frattempo era però deceduto, avrebbe fornito l'arma usata dall'attentatrice. Il più significativo riconoscimento al suo ruolo nel movimento, dopo la tragica mone avvenuta nel corso di un attentato a Segrate, il 1 4 mar­ zo 1972, comparve su «Potere Operaio del lunedì», 20 marzo 1972, con il titolo Un rivoluzionario è caduto: ne nacquero forti polemiche in seno all'opinione pubblica di sinistra e anche di estrema sinistra, giac­ ché la maggior pane dei commentatori sosteneva che l'editore fosse stato assassinato, con ogni probabilità da elementi fascisti. 24 Il lancio del settimanale «Potere Operaio», ad esempio, fu reso possibile da un accordo con le librerie Feltrinelli, che accettarono di comprarne cinquemila copie «a scatola chiusa», cfr. Grandi, La gene­ razione degli anni perduti, cit., p. l 00. 2' Nel 1968 aveva dato aUe stampe diverse pubblicazioni in cui si sosteneva la necessità del passaggio alla guerriglia, cfr. ad esempio G. Feltrinelli, Italia 1 968. Gue"iglia politica. Tesi e proposte per una avan­ guardia comunista; Id., Persiste la minaccia di un colpo di stato in Ita­ lia, entrambi usciti per le Edizioni deUa Libreria. 26 Convincente, in questo senso, è la ricostruzione ex post di Re­ nato Curdo, fatta nel volume A viso aperto, cit., tutta volta a sotto­ lineare, forse con un po' di esagerazione sul numero dei militanti, il radicamento e la rappresentatività del gruppo. n Cfr. Aa.Vv. , Progetto Memoria. La mappa perduta, cit., pp. 4 1 -43. Il gruppo, che si era costituito verso la fine del 1 969, da cui il nome stesso che si era dato, e che nella primavera del 1 970 aveva deciso di iniziare a compiere piccoli attentati dinamitardi, aveva una composi­ zione e un'ideologia eterogenee, solo in minima pane riconducibili all'influenza dell'estrema sinistra. Significativa, in questo senso, fu la 1 32

considerato il frutto di una situazione generale all'interno della quale la scelta della guerriglia - almeno nei modi e nelle dimensioni di quella primissima fase28 - non sem­ brava davvero particolarmente impressionante. Cionondi­ meno è indubbio che sul piano storico occorra allargare lo sguardo e considerare anche altri ambiti di movimento, altre esperienze dotate di un'influenza decisamente mag­ giore, le cui vicende e i cui percorsi politico-organizzativi - pur muovendosi in un'ottica diversa da quella della clandestinità armata - risultano altrettanto importanti, se valutati in una prospettiva di tempo più lunga. Se è vero che «le periodizzazioni - come ha scritto Krzystof Pomian - servono a rendere pensabili i fatti»29, bisogna prendere atto - allora - che il discorso sull'organizza­ zione della violenza e sulla lotta armata, oltre a non do­ ver confondere questi fenomeni con quelli presenti più in generale nei conflitti sociali dell'epoca, va articolato mag­ giormente, sia nel tempo sia sul piano delle dinamiche politiche, tenendo conto di come esistesse un'area signi­ ficativa dei movimenti rivoluzionari (quella rappresentata da Lotta continua e da Potere operaio e da altri collettivi

decisione, già nell'autunno del 1 970, di organizzare un sequestro di persona a scopo di autofinanziamento, un'opzione che nessun gruppo, anche decisamente più organizzato, a quell'epoca sembrò mai mettere neppure in conto. Cfr. anche P. Piano, Ùl «banda 22 ottobre». Agli al­ bori del/4 lotta armata in Italia, Roma, DeriveApprodi, 2008. 28 Si tenga presente che fra il 1970 e il 197 1 le azioni armate com· piute da questi gruppi ebbero tutte un carattere sostanzialmente dimo· strativo (incendi di autovetture o piccoli attentati dinamitardi a sedi di partiti), tale peraltro da farle passare pressoché inosservate agli occhi dell'opinione pubblica, a fronte di un livello di violenza politica altis· simo, fatto non solo di scontri di piazza e di confronti fra opposte fa· zioni, ma anche di veri e propri attentati, compiuti perlopiù dall'estre­ ma destra: si veda l'impressionante raccolta di dati, in ordine cronolo­ gico, pubblicata nel volume a cura dell'lsodarco, Vent'anni di violenza politica in Italia. 1969-1988, Roma, 1992, un'opera che tende a sugge­ rire potentemente l'immagine di un dilagare complessivo della violenza dopo il 1968, senza fornire alcun'altra chiave di lettura del fenomeno. 2• K. Pomian, Periodiv.azione, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1980, voL X, p. 647. 133

e gruppi locali di analoga matrice politico-ideologica30) che per alcuni anni discusse effettivamente di quei temi e cercò in vari modi di tradurli in pratica, ma in una di­ mensione e in termini tali, e con esiti così contraddittori, da rendere assolutamente improponibile l'accostamento ai percorsi dei primi gruppi armati. Il concetto stesso di lotta armata, insomma, è forse troppo generico, o troppo ambiguo, per poter essere as­ sunto come chiave di lettura univoca di certe dinamiche politiche e organizzative. In senso stretto, infatti, sembra impossibile applicarlo a esperienze come quelle di Lotta continua e Potere operaio, che si muovevano in un'ottica cui era strutturalmente estranea l'idea del passaggio alla clandestinità e che tennero sempre per fermo un con­ cetto di avanguardia strettamente legato alle espressioni di massa dei movimenti di classe, diametralmente oppo­ sto - in termini ideologici - a quello che ispirava le prin­ cipali formazioni guerrigliere dell'epoca, come i Tupama­ ros uruguaiani, ma lo stesso valeva anche per la nascente guerriglia urbana nella Repubblica federale tedesca e, in buona misura, anche per le prime Brigate rosseH . E tutJo Ad esempio il Circolo Lenin di Sesto San Giovanni, un collet· tivo fortemente radicato nelle fabbriche della zona, che aderì a Lotta continua solo nel 1 972, contribuendo a rafforzare notevolmente l'ani­ ma operaista dell'organizzazione locale; cfr. una scheda sul gruppo in E. Mentasti, Senza tregua. Storia dei Comitati comunisti per il potere operaio. 1 975-1976, Paderno Dugnano, Colibrì, 20 1 1 , p. 3 9. li Sull'ampia circolazione in Italia di quei modelli, alimentata so­ prattutto, e certo non a caso, dalla casa editrice di Feltrinelli, cfr. A. Labrousse, I Tupamaros. LJ guerriglia urbana in Uruguay, Milano, Fel­ trinelli, 1 97 1 ; R. Debray, LJ lezione dei Tupamaros del Movimento di liberazione nazionale uruguaùmo, Milano, Feltrinelli, 1972; I Tupamaros in azione. Testimonianze dei gue"iglieri, Milano, Feltrinelli, 1 972. Sulle origini della lotta armata nella Rft, cfr. invece B. Baumann, Come è cominciata. «2 giugno» e Tupamaros a Berlino Ovest, Milano, La Pie­ tra, 1 977. Che anche le Brigate rosse fossero sorte sull'onda di quelle suggestioni, emerge con chiarezza da tutte le testimonianze dei primi protagonisti, a partire da quella di Curcio, A viso aperto, cit., sia pure nell'ambito di una riflessione fortemente legata in realtà alle lotte ope­ raie e al ruolo delle grandi fabbriche. Manca ancora, tuttavia, una sto-

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tavia, se si analizza a fondo la produzione teorica di quei gruppi e se ne ricostruiscono, per quanto è a tutt'oggi possibile12, le vicende interne tra il 1 969 e il 1 97 3 , dif­ ficilmente si sfugge alla sensazione di essere alle prese con esperienze che si collocavano già, per molti aspetti, su un terreno diverso da quello delle altre formazioni politiche di estrema sinistra, in merito a questioni come l'uso della violenza, il rapporto fra lotte di massa e ruolo dell'avanguardia, la stessa opportunità o meno della lotta armataH.

ria delle Br che aiuti a chiarire anche la complessità, la contradditto· rietà e gli innesti progressivi dei richiami politico-ideologici all'interno del gruppo; si veda comunque M. Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Roma, Odradek, 2007. 12 Non sono molti, al momento, i lavori di ricostruzione storica ai quali fare riferimento con un buon grado di affidabilità. Per Le, cfr. L. Bobbio, Lotta Continua. Storia di un 'organizzazione rivoluzionaria, Roma, Savelli, 1979, che ha il pregio di essere un'opera scritta a cal­ do, si può dire, da un protagonista della prima ora, e A. Cazzullo, I ragaui che volevano fare la rivoluztOne. 1 968- 1978. Storia di Lotta Con­ tinua, Milano, Mondadori, 1998, basato essenzialmente su una raccolta larghissima di testimonianze. Per Po, cfr. invece Grandi, La generazio­ ne degli anni perduti, cit., anche in questo caso si tratta di un lavoro di taglio giornalistico, che ha utilizzato testimonianze, fonti giudiziarie e fonti a stampa, integrabile con alcune delle interviste raccolte nel volume di G. Borio, F. Pozzi e G. Roggero (a cura di), Gli operalsti. Autobiografie di cattivi maestri, Roma, DeriveApprodi, 2005. Va da sé, peraltro, che gli aspetti più lacunosi di questi lavori riguardino le atti­ vità illegali. 11 Emblematico è ad esempio quanto scrisse, ancora prima del­ la costituzione formale dei gruppi, Adriano Sofri in un articolo che venne pubblicato prima in «Giovane critica», con il titolo Avanguar­ dia e massa, n. 1 9, inverno 1 968-1969, poi nell'edizione italiana della «Monthly Review», con il titolo Su//'organiuazione, n. 3 -4 , marzo-apri­ le 1969. In esso, criticando la classica concezione leninista del partito e del processo rivoluzionario, Sofri ipotizzava «il passaggio [ . . ) dalla prospettiva dell'insu"ezione a quella della lotta armata di lunga durata, anche nei paesi del tardo capitalismo». Un altro esempio ancora, se mai ce ne fosse bisogno, di come certi termini circolassero allora senza problema nel dibattito pubblico. .

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3 . Lotta continua, Potere operaio e il dibattito sulla lotta

armata Perché quei gruppi e non altri? Tutta l'estrema sini­ stra italiana, nei primi anni Settanta, traboccava di re· torica rivoluzionaria e aveva una concezione della lotta politica che non escludeva affatto l'uso della violenza; ogni formazione politica si trovò coinvolta (quale più direttamente e consapevolmente, quale meno) in duris· simi scontri di piazza con le forze dell'ordine, che non di rado provocarono morti, feriti e numerosissimi arre­ stP4, e si attrezzò di conseguenza con l'organizzazione di servizi d'ordine più o meno militarizzati; gli scontri fisici, e spesso cruenti, con i neofascisti furono comuni a tutte le aree politiche della sinistra, sia pure in forme diverse e con differenti gradi di pianificazione delle ag­ gressioni personalP5; su tutti, infine, pesava la piena con· sapevolezza di avere di fronte a sé uno stato largamente permeato, a tutti i livelli, di tentazioni autoritarie, che tollerava e copriva (a voler essere benevoli) il terrorismo l4 Limitandosi agli episodi più noti, vanno ricordati gli incidenti di Milano del 12 dicembre 1 970 (primo anniversario della strage di piaz­ za Fontana), in cui fu ucciso lo studente Saverio Saltarelli; quelli di Torino del 29 maggio 1 97 1 , in occasione di una manifestazione con­ tro la repressione, con 56 arresti; quelli di Milano del 24 novembre 1 97 1 , provocati dall'intervento della polizia contro un corteo non au­ torizzato davanti all'Università statale (72 feriti, 1 1 arrestati e più tardi 275 denunciati) ; quelli di Pisa del 5 maggio 1972, nel corso di una protesta contro un comizio del Movimento sociale, che provocarono la morte dell'anarchico Franco Serantini; e quelli di Milano del 23 gen­ naio 1 973, davanti all'Università Bocconi, dove venne ucciso Roberto Franceschi e un altro militante, Roberto Piacentini, risultò gravemente ferito. " Cfr. l'ampia ricerca di G. Panvini, Ordine nero, guemglia ros­ sa. La violenza politica nell'Italia degli anni Sessanta e Settanta (19661975), Torino, Einaudi, 2009, della quale non convince, tuttavia, la tendenza a dilatare eccessivamente il ruolo di questo genere di pra­ tiche della violenza, sino a farne uno dei terreni di formazione della lotta armata, laddove mi sembra che nessuna delle formazioni armate italiane abbia mai attribuito in realtà un'importanza strategica al feno­ meno neofascista e di conseguenza allo stesso antifascismo.

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neofascista e che agiva in una condizione di sovranità limitata dalle esigenze strategiche dell'imperialismo sta­ tunitense36. Eppure la maggior parte di quei gruppi e di quelle organizzazioni risultò pressoché impermeabile, an­ che negli anni successivi, ai percorsi che portarono una parte del movimento rivoluzionario verso la lotta armata. Mentre gruppi come Lotta continua e Potere operaio, sia pure in forme e in misure diverse (che andranno chiarite, ovviamente), svilupparono un tipo di dibattito e vissero dinamiche interne tali da costituire, per molti versi, il retroterra politico-ideologico, ma anche pratico-organiz­ zativo, di quasi tutte le esperienze combattenti che ma­ turarono successivamente. Le ragioni, pertanto, vanno ri­ cercate sul piano delle culture politiche di questi gruppi (ascrivibili, sia pure in modi diversi, all'operaismo teorico degli anni Sessanta37), nonché nelle caratteristiche partico-

36 Su questo p unto cfr. il saggio di M. Grispigni compreso nel pre­ sente volume. E evidente che per un giudizio storico-politico com­ plessivo sulla crisi italiana degli anni Settanta si tratta di un elemento fondamentale, che non può essere in alcun modo sottovalutato. Altra cosa, invece, è volerne fare la chiave di lettura delle origini e degli svi­ luppi della lotta armata, come ben ha argomentato (sia pure nel qua­ dro di un'interpretazione eccessivamente benevola dei caratteri demo­ cratici dello stato italiano) V. Satta, Gli «anni di piombo» e la reazione dello Stato, in «Nuova Storia Contemporanea», XII, n. 2, marzo-aprile 2009, pp . 29 ss. 37 C fr. G. Trotta e F. Milana (a cura di), L'operaismo degli anni ses­ santa. Da «Quaderni rossi» a «Classe operaia», Roma, DeriveApprodi, 2008. Tuttora interessanti sono anche le considerazioni di M. Caccia­ ri, Problemi teoriCI e politici dell'operaùmo nei nuovi gruppi dal 1 960 ad oggi, in G. Napolitano, M. Tronti, A. Accornero e M. Cacciari, Operaismo e centralità operaia, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 4579. Mentre la filiazione di Potere operaio da questo filone teorico è del tutto pacifica e costituisce ormai l'oggetto di numerosi studi (cfr. ad esempio il già citato volume Gli operaisti, in cui la maggior parte degli intervistati risulta aver militato in quel gruppo), il caso di Lotta continua è senz'altro più complesso e sfaccettato, trattandosi di un'or­ ganizzazione con un percorso di formazione più eterogeneo, in cui confluirono il Potere operaio di Pisa, innanzi tutto, ma anche il grup­ po Potere proletario di Pavia e la maggioranza dei movimenti studen­ teschi di Torino e di Trento. Ciononostante credo sia giusto indicare

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lari con cui essi si costituirono (entrambi, non a caso, alla fine del 1 969, dopo aver vissuto insieme le lotte della pri­ mavera-estate alla Fiat di Torino38) e negli obiettivi che, fin dall'inizio, si prefissero. Che non erano affatto quelli di stimolare la pura e semplice crescita delle lotte e del movimento, di rafforzare l'area rivoluzionaria in competi­ zione con il movimento operaio ufficiale, di lavorare alla costruzione del partito, nei termini tradizionali delle si­ nistre di ispirazione terzinternazionalista, ma muovevano piuttosto dalla convinzione che fosse ormai matura - a partire proprio dallo scontro in atto nelle grandi fabbri­ che - una rottura di portata storica «tra le lotte prole­ tarie e il controllo politico del movimento operaio su di esse»39, da intendere come premessa per la generalizza­ zione dello scontro sociale, all'interno del quale le lotte sugli interessi materiali di classe (salario, orario, casa, servizi gratuiti) potessero tradursi in lotta per il potere, per l'abbattimento dello stato, per la dittatura operaia di massa. Non era molto chiaro, per la verità, quale idea di ri­ voluzione fosse sottesa a quei programmi. Di certo Lotta continua e Potere operaio non si ispiravano ad alcun modello storicamente determinato di rivoluzione e non manifestavano alcuna passione (anzi: manifestavano sem­ mai un consapevole e ostentato disinteresse) per le infi­ nite dispute di carattere ideologico su come articolare

l'operaismo come elemento fondamentale anche della cultura politica di Le. Si veda comunque il volume di R. Massari (a cura di), Adriano Sofri, tl '68 e il Potere Operaio pisano, con la collaborazione di S. Gat­ tai, introduzione di L. Della Mea, Bolsena, Massari, 1 998. Js Cfr. ancora Giachetti e Scavino, La Fiat in mano agli operai, cit. '9 Da un documento ciclostilato del settembre 1969, attribuito ad Adriano Sofri e intitolato Proposte dei comitati di base di Pisa e Ton­ no per un giornale nazionale e citato in Bobbio, Lotta Continua, cit., p. 47; da notare che nel documento, a proposito delle imminenti lotte dell'autunno caldo, Sofri scriveva: «non ci aspettiamo la lotta armata per la presa del potere, non ci aspettiamo la proclamazione del parti­ to». 138

in Italia una strategia rivoluzionaria per la conquista del potere, che caratterizzavano invece, talvolta sino ai limiti del grottesco, il dibattito teorico di altri gruppi. Non erano né marxisti-leninisti, né trotzkisti, né guevaristi, o altro ancora; e le accuse di fare del puro e semplice «spontaneismo» (o «movimentismo»), piuttosto frequenti da parte di altre formazioni politiche, non sembravano toccarli granché4°, dal momento che essi ambivano a es­ sere l'espressione di una fase storicamente nuova dello scontro fra classe operaia, capitalismo e stato, all'interno della quale i concetti tradizionali dell'agire politico rivo­ luzionario (partito, avanguardia, soviet, presa del potere, insurrezione) non avevano più senso, o andavano com­ pletamente reinventati. Da qui l'elaborazione (in parte ripresa dall'operaismo del decennio precedente, in parte maturata nel vivo dell'azione politica) di formule, con­ cetti e parole d'ordine che si ponevano consapevolmente in alternativa al patrimonio teorico della tradizione ter­ zinternazionalista, così come di altre correnti del pen­ siero rivoluzionario classico: la crisi del capitale come frutto esclusivamente di leggi oggettive dell'economia, la distinzione fra lotte economiche e lotte politiche, il ruolo dei sindacati, il partito come avanguardia esterna dei movimenti di classe, la rivoluzione - infine - come «presa del P.Otere», come evento promosso e pianificato dal partito. È sufficiente scorrere la pubblicistica di Lotta continua e di Potere operaio (ma il discorso, sia pure in forme diverse e meno radicali, vale anche per altre for­ mazioni politiche, come Avanguardia operaia e il Manife­ sto, il gruppo radiato dal Partito comunista nel novembre del '694 1 ) per rendersi conto di come quell'intero baga-

4° Cfr. ad esempio l'articolo Lotta Continua è spontanetsta?, in «Lotta Continua» (settimanale) , n. l , 15 gennaio 1 97 1 . 4 1 Sulla complessità dei profili ideologici dell'estrema sinistra, tut­ tora meritevole di approfondimenti e di studi non stereotipati, cfr. an· cora, malgrado l'evidente ostilità dell'autore, Ottaviano, La rivoluzione ne/ labirinto, cit.

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glio teorico venisse invece sostanzialmente ribaltato, nel porre il problema della rivoluzione in una situazione di capitalismo avanzato: la crisi del sistema non dipendeva solo da oggettive condizioni economiche, ma era il frutto della generalizzazione dello scontro fra le classi; non c'era distinzione fra lotte economiche e lotte politiche, anzi erano proprio le lotte economiche, quando non restavano isolate tra loro ma si estendevano e si approfondivano, a mettere in crisi politicamente il sistema; il partito si iden­ tificava, di fatto, con il movimento o, per meglio dire, con la capacità dell'organizzazione di stare totalmente dentro al movimento, lavorando alla sua continuità e alla sua consapevolezza rivoluzionaria; la rivoluzione era un processo di massa, che la classe operaia e il proletariato dovevano vivere in prima persona, organizzandosi sul ter­ reno della lotta per il potere; non c'era nessun Palazzo d'Inverno da assaltare e conquistare, nessuna insurrezione da pianificare a tavolino, ma c'era una lotta di lungo pe­ riodo da affrontare con tutti gli strumenti, che si fossero resi necessari volta per volta, senza che se ne potessero predeterminare le modalità e i tempi di svolgimento42•

41 Proprio per l'idiosincrasia verso le dispute ideologiche, che ca­ ratterizzava soprattutto Lotta continua, è difficile trovare una sintesi compiuta di queste idee, che risultano perlopiù sparse in articoli e scritti vari. A puro titolo d'esempio cfr. l'articolo Una premessa alla discussione su Lotta Continua, in «Lotta Continua>> (quotidiano), 8 ot­ tobre 1972. Molto interessante, per quanto riguarda il dibattito inter­ no a Potere operaio, la bozza di documento dal titolo Tesi sull'Europa, acquisita agli atti del processo cosiddetto del 7 aprile e riprodotta in Mentasti, Sen1.0 tregua, ci t., pp. 26-27, dove sono elencate, in forma schematica, le principali differenze dalle teorie della tradizione terzin­ ternazionalista. Una sintesi teorica del dibattito in Po è comunque il lungo documento, scritto da Antonio Negri, presentato come relazione introduttiva alla III Conferenza di organizzazione del gruppo, Roma 24-26 settembre 197 1 , dal titolo Crisi dello Stato-piano, comunismo e organiZZJJzione nvoluzionana, distribuito in allegato al mensile «Potere Operaio>>, n. 43, 25 settembre-25 ottobre 1 97 1 , e più tardi pubblicato nel volume di S. Bologna, P. Carpignano e A. Negri, Cnsi e organiZZJJ1.ione operaia, Milano, Feltrinelli, 1974.

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Fu dunque sulla base di queste idee e di queste teo­ rie, di questi modi di intendere il rapporto con il mo­ vimento e il problema dello sbocco politico delle lotte («Non siamo noi a decidere dello sviluppo e della radi­ calizzazione della lotta di classe - né alcuna altra avan­ guardia. Noi possiamo solo scegliere di essere fino in fondo dentro questo sviluppo e di contribuire a offrirgli una prospettiva e un riferimento organizzato rivoluziona­ rio»43) , che Lotta continua e Potere operaio agirono nel periodo successivo al 1 969, differenziandosi dalla maggior parte delle altre formazioni politiche di estrema sinistra per una sistematica ed «estremistica» ricerca della rottura fra movimenti di classe e movimento operaio ufficiale, che consentisse di tradurre la forza delle lotte in una ge­ neralizzazione dello scontro e nella vanificazione di qual­ siasi tentativo di mediazione politico-istituzionale. Occorre riflettere a fondo, tuttavia, sul fatto che i due gruppi, costituitisi nell'autunno di quell'anno credendo fermamente - e con qualche buona ragione, tutto som­ mato - nell'imminenza di una clamorosa rottura fra le lotte operaie e la mediazione del movimento operaio uf­ ficiale, si trovarono all'indomani della firma dei contratti nazionali di lavoro, e della strage di Milano, in una situa­ zione molto diversa da quella preventivata: con una forte capacità di recupero dei sindacati e del Partito comuni­ sta nei confronti delle spinte più avanzate delle grandi fa bbriche, una estensione formidabile delle lotte sociali, che non si era però tradotta in scontro politico generaliz­ zato44, una reazione delle classi dirigenti dai tratti oscuri

41 Situazione politica generale e nostri compiti, documento introdut· tivo al I Incontro nazionale di Lotta Continua, Torino 25-26 luglio 1970, attribuito ad Adriano Sofri, in «Comunismo», n. l , ottobre 1970 (della rivista, progettata per pubblicare materiali di riflessione politica generale, uscì solo quel numero). 44 Su questo punto rimando a M. Scavino, Quando la classe operaia voleva dirigere tut/o. Il 1 969 degli operai italiani, in C. Aruzza (a cura di), Cosa vogliamo' Vogliamo tut/o. Il '68 quarant'anni dopo, Roma, Alegre, 2008.

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e obiettivamente inquietanti, che di certo non preludeva a fantomatici colpi di stato, ma lasciava comunque in­ trawedere con chiarezza l'emergere di una profonda crisi politico-istituzionale0. Una situazione, in altre parole, che ai loro occhi continuava a essere di tipo prerivoluzio­ nario, il che non costituiva affatto un giudizio scontato nell'estrema sinistra dell'epoca46, ma che in pochi mesi si era talmente modificata da richiedere un profondo ripen­ samento politico47• �' Fra le tante opere disponibili in merito, cfr. l'interessante volume di G . Orsina e G. Quagliariello (a cura di), LA crisi del sistema poli­ tico italiano e il Sessanio/lo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 200�. con un'amP.ia raccolta di interviste a protagonisti del movimento studen­ tesco. È imponante sottolineare, a ogni modo, come dopo la strage di Milano (ma il giudizio sostanzialmente non cambiò neppure un anno più tardi, quando si consumò il misterioso tentativo golpista condotto da Junio Valerio Borghese) , la maggior pane delle sinistre non credes­ se all'ipotesi di un colpo di stato autoritario, ma piuttosto all'esistenza di una lotta durissima all'interno della classe di governo democristia­ na, una pane della quale si serviva dei servizi segreti e degli agganci di questi ultimi con alcuni gruppi eversivi neofascisti per bloccare grazie alla cosiddetta «strategia della tensione» - un'eventuale apenura a sinistra del quadro politico. Su tutto ciò, con una forte sottolineatu­ ra del ruolo che vi avrebbe avuto la Nato, più che il governo statuni­ tense, cfr. A. Giannuli, Bombe a inchiostro, Milano, Bur, 2008. 46 Chi si ispirava alle culture politiche più tradizionali della sinistra, infatti, era molto prudente sull'argomento, ritenendo che mancassero ancora - per poter definire prerivoluzionaria la situazione apena dal Sessantotto - alcune condizioni indispensabili, dalla maturità della co­ scienza socialista fra le masse alla formazione del partito rivoluziona­ rio. Un riflesso significativo di questo atteggiamento è ad esempio nel quinto volume dell'opera di R. Del Carria, Proletari senza n"voluzione. Dal miracolo economico al compromesso storico. 1950- 1 975, Roma, Sa­ velli, 1979, che rappresenta sul piano storiografico il punto di vista delle correnti marxiste-leniniste del movimento. L'autore negava de­ cisamente che la situazione italiana fosse matura per l'apenura di un processo rivoluzionario, attribuendo questa convinzione al «soggettivi­ smo» di ceni gruppi, come appunto Lotta continua e Potere opera­ io, dimenticando, mi sembra, come nei volumi precedenti egli avesse giudicato potenzialmente rivoluzionari, senza porsi troppi problemi, parecchi momenti della storia italiana postunitaria. 47 Sui primi passi, spesso sottovalutati, del dibattito nelle due orga­ nizzazioni, cfr. Potere Operaio. Convegno nazionale di organizzazione.

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È vero che i due gruppi imboccarono, per molti aspetti, strade alquanto diverse. Lotta continua, grazie alla propria duttilità «movimentista», divenne in poco tempo la più importante formazione politica di estrema sinistra, presente in larga parte del territorio nazionale, almeno nei maggiori centri urbani, dotata dalla prima­ vera del 1 972 di un giornale quotidiano, ben radicata soprattutto nelle grandi fabbriche del Nord ma attiva su pressoché tutti i fronti dello scontro sociale, comprese le lotte dei detenuti e i primi tentativi di organizzazione dei militari di leva48• Potere operaio, invece, fu sempre un'or­ ganizzazione più debole e frammentaria sotto il profilo organizzativo, che risultava fortemente radicata solo in alcune realtà (Roma, l'area di Porto Marghera e il pado­ vano, in misura minore Firenze e Bologna), ma a Milano aveva una presenza poco più che formale e a Torino non tardò molto a perdere gran parte dei collegamenti con le avanguardie operaie maturati nel '69. Era pressoché as­ sente, inoltre, in quasi tutto il meridione. Al di là di al­ cuni, specifici punti di forza, il gruppo non era dunque in grado di incidere in maniera rilevante sull'andamento delle lotte, almeno non nel modo con cui vi erano riusciti nel 1 968- 69 i collettivi di base da cui esso aveva avuto origine, e per la verità non tentò neppure - a differenza di quanto fece Lotta continua - di inserirsi in tutti gli ambiti di movimento o comunque di agire davvero come una formazione politica di massa, preferendo qualificarsi per la propria capacità di indicare alle avanguardie una Firenze 9- 10- 1 1 gennato 1970, in Linea di massa. Documenti della loua di classe, Roma, 1970; «Comunismo», n. l , 1970, con gli atti del I In­ contro nazionale di Lotta Continua, Torino 25-26 luglio 1970. '8 Sul lavoro nelle carceri cfr. I dannati della le"a, Roma, Edizioni di Lotta Continua, 1972; Ci siamo presi la libertà di follare. Il movi­ mento di massa dei detenuti da gennato a rellembre 1973, Roma, Edi­ zioni di Lotta Continua, 197 3; L Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973. Sul movimento dei Proletari in di­ visa, che pubblicava anche un proprio bollettino dal titolo omonimo, cfr. Da quando wn partito militare, Roma, Edizioni di Lotta Continua, 1973. 143

prospettiva strategica d'azione, il che, indubbiamente, nasceva dalla presunzione di poter rappresentare un ele­ mento di aggregazione e di determinazione di certi pas­ saggi del processo rivoluzionario a prescindere, in qual­ che modo, dal proprio grado di effettivo radicamento po­ litico e organizzativo49• Eppure, al di là delle differenze, Lotta continua e Potere operaio continuarono a essere accomunati da un elemento di fondo, che - giova sottolinearlo ancora - li distingueva dalla maggior parte degli altri gruppi e che in ultima analisi consisteva nella ricerca dei modi, dei terreni d'azione, delle forme d'iniziativa politica con cui rompere (non in una prospettiva di medio o lungo pe­ riodo, ma in tempi sufficientemente brevi) il controllo ri­ formista sulle lotte operaie e provocare, per contro, una precipitazione dello scontro sociale tale da configurarsi concretamente come avvio di un processo rivoluzionario. La situazione era senz' altro cambiata, rispetto al 1 969, ed esigeva strumenti nuovi, ma l'obiettivo restava lo stesso. E non è certo un caso se nel dibattito interno di en­ trambi i gruppi iniziò da allora a circolare con sempre maggiore insistenza l'argomento che l'autonomia di classe avesse ormai raggiunto un «tetto», nella propria capacità di mettere in crisi il sistema; le lotte operaie e proletarie,

49 Tale presunzione non va però confusa con la pretesa, che sareb­ be stata davvero assurda. di poter avviare il processo rivoluzionario con le proprie sole forze. È sufficiente leggere l'opuscolo Potere Ope­ raio alle avanguardie per il partito, Milano, Edizioni politiche, dicem­ bre 1970, per rendersi conto di come si trattasse di una proposta e di un disegno politico ambiziosi e forse irrealistici, ma ai quali era del tutto estranea la velleità di procedere tout court alla costruzione del partito. Non si capirebbe, in caso contrario, per quali ragioni Pote­ re operaio nella seconda metà del 1970 tentasse addirittura di avviare un'aggregazione con l'area rappresentata da «il manifesto», culmina­ ta in una conferenza operaia che si tenne a Milano nei giorni 30-3 1 gennaio 197 1 ma che si risolse ben presto nel nulla: cfr. Grandi, La generazione degli anni perduti, cit., pp. 146- 158, dove tuttavia l'intera operazione risulta incomprensibile, paradossale, o - peggio ancora una piccola furberia tattica. 144

che pure continuavano a essere il punto di riferimento fondamentale dell'azione rivoluzionaria, non erano più in grado, di per sé, di far saltare il controllo riformista e le mediazioni del potere, non costituivano più in quanto tali l'elemento strategico del processo rivoluzionario, ma andavano accompagnate, supportate, implementate con un'azione soggettiva delle avanguardie, che riuscisse a far emergere da esse la prospettiva rivoluzionaria�0. Tutto ciò, beninteso, non costituì una vera e pro­ pria svolta, ma fu piuttosto un processo che iniziò gra­ dualmente a prendere corpo all'interno dei due gruppi con ampi margini di incertezza e di contraddittorietà, nonché fra varie resistenze e perplessità, proprio perché il discorso della violenza - in quel contesto - acquisiva inevitabilmente un ruolo più marcato e un significato del tutto nuovo. Non si trattava più, infatti, della violenza ge­ nerica delle lotte o dei cortei, ma di quella che l'organiz­ zazione poteva decidere di praticare in determinate situa­ zioni, valutandone l'opportunità, l'efficacia, le possibilità di gestirla politicamente. Il che ovviamente non signifi­ cava, e di fatto non significò mai, scatenare la violenza in

'0 Il primo accenno in questo senso (almeno per quanto è a mia conoscenza) lo si trova in un articolo di Franco Piperno risalente ad­ dirittura all'estate del 1969: Organizw:àone della lotta, in > e quella, spe­ culare, di un «salto di qualità>> da far vivere nelle lotte furono usate a piene mani da Lotta continua e Potere operaio, anche (contradditto­ riamente) in fasi diverse; era, cioè, la principale giustificazione teorica di ogni scelta rivolta a sottolineare l'esigenza di un ruolo soggettivo più marcato delle avanguardie, cfr. ad esempio Bobbio, Lotta Conti­ nua, cit., pp. 75 ss.

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maniera indiscriminata, ma mirava piuttosto a far vivere dentro le lotte, nelle fabbriche, nelle occupazioni di case, nelle manifestazioni di piazza, e in forme inevitabilmente diverse, la tendenza verso uno scontro generalizzato e violentos1 • D'altra parte, che quello fosse ormai il programma che i due gruppi avevano scelto di adottare, sia pure in forme e in tempi diversi (e tra mille sfumature e contrad­ dizioni interne), non costituiva certo un mistero. Potere operaio nella sua III Conferenza nazionale d'organizza' 1 È plausibile ritenere (come ha sostenuto Antonio Lenzi nel cor· so del secondo seminario su Violenza politica e lotta armata negli anni Settanta, Reggio Emilia, 2 1 -22 ottobre 2010, in una relazione intitola­ ta Agire a pugno chiuso: i primi passi verso 14 militarizzazione di Lotta Continua, di cui si attende la pubblicazione a stampa) che i primi ten­ tativi di muoversi in questo senso siano stati quelli praticati a Trento e a Torino da Lotta continua, in occasione - nel primo caso nel lu­ glio del 1970 - della «gogna» cui furono sottoposti davanti allo stabi­ limento della lgnis due aderenti al Movimento sociale, bloccati dopo che avevano aggredito degli operai e costretti a sfilare in corteo per chilometri, sino in città (vennero poi compiuti alcuni piccoli attenta­ ti dimostrativi contro obiettivi neofascisti), e nel corso - nel secondo caso - dei durissimi incidenti di piazza avvenuti a Torino il 29 maggio 197 1 , a seguito di un corteo contro la repressione che si legava però a un forte clima di lotte in fabbrica Oa Fiat aveva da poco licenziato alcuni militanti di spicco di Le). Gli scontri, ai quali partecipò attiva­ mente anche Potere operaio, durarono per un intero pomeriggio, nel centro cittadino, con episodi come l'attacco con bottiglie molotov ad alcune autovetture della polizia, e provocarono 56 arresti (una decina di operai venne poi condannata a due anni di carcere). Per quanto ri­ guarda Potere operaio, un'efficace (anche se di carattere un po' trop­ po impressionistico) descrizione di questi passaggi, relativi soprattutto alla situazione romana, è in Grandi, La generazione degli anni perduti, cit., ad esempio alle pp. 158 ss., dove alcuni dei protagonisti (in par­ ticolare Valerio Morucci) ricostruiscono il «battesimo del fuoco» av· venuto il 5 febbraio 197 1 durante un corteo di movimento a piazza Venezia, con un fitto lancio di bottiglie incendiarie contro polizia e carabinieri, che intendevano impedire lo svolgimento della manifesta· zione, e con l'idea, peraltro non realizzata, di attaccare alcuni obietti­ vi mirati, tra cui l'abitazione del ministro dell'Interno Franco Restivo. Secondo gli stessi protagonisti, tra l'altro, quegli incidenti avrebbero contribuito in maniera decisiva a far fall ire l'ipotesi di aggregazione con il gruppo de «il manifesto».

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zione (Roma, 24-26 settembre 1 97 1 ) lanciò ufficialmente la parola d'ordine della «insurrezione», come prospettiva sulla quale far convergere il movimento di classe in tutte le sue espressioni, di massa e d'avanguardia (compresa la lotta armata}'2• E Lotta continua, pochi mesi più tardi, nel suo III Convegno nazionale (Rimini, 1 -3 aprile 1 972 ) accentuò fortemente i caratteri più estremistici della pro­ pria linea politica, parlando appunto di «scontro genera­ lizzato» e teorizzando la necessità di un salto di qualità nell'organizzazione delle lotte e nel rapporto tra avan­ guardie e masse: a ben guardare, un discorso non molto diverso - nella sostanza - da quello di Potere operaio, sia pure svolto con «maggiori cautele» ed evitando «un'espli­ cita teorizzazione dell'attualità della lotta armata»". Le conseguenze, anche sul piano dell'organizzazione interna, furono rilevanti. Non solo perché - come ha scritto Luigi Bobbio a proposito di Lotta continua - si determinò «una spinta oggettiva alla clandestinizzazione di certe funzioni e al conseguente sviluppo della centra­ lizzazione», nonché alla prudenza «attorno alle riunioni degli organi dirigenti e alle comunicazioni interne»H, in '2 Cfr. Grandi, La genera1.ione degli anni perduti, cit., pp. 182 ss., dove non mi sembra però chiarito (come è invece opportuno sul pia· no storico-politico) che il termine «insurrezione» in quel contesto ave­ va un significato molto diverso da quello della tradizione comunista: non era, cioè, il momento finale e risolutivo della presa del potere, che l'organizzazione dovesse pianificare e mettere in atto, ma era un modo di intendere la rivoluzione come un processo politico in cui le lotte di massa e l'azione delle avanguardie si intrecciassero strettamen­ te per far precipitare lo scontro sul terreno del potere. Va precisato, a questo proposito, che nel linguaggio e nella cultura politica di Pote­ re operaio alcuni termini classici del pensiero comunista (a partire dal concetto di «leninismo») erano usati in sensi del tutto diversi da quelli più consueti (si veda ad esempio uno dei testi meno ricordati, ma più significativi di A. Negri, LA fabbrica deli. Fu un autentico terre­ moto sociale per tutti i paesi industrializzati, che in Ita­ lia - fra il '7 3 e il '74 - si tradusse tra l'altro in misure drastiche di «austerità» (limitazioni alla circolazione degli autoveicoli, agli orari di apertura dei negozi, all'illumina­ zione pubblica), aumenti generalizzati delle tariffe pub­ bliche, provvedimenti massicci di cassa integrazione da 7' Cfr. A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1 945 a oggi, Bologna, Il Mulino, 1 998, pp. 87 ss. 76 Cfr. E.J. Hobsbawm, Il reco/o breve, Milano, Rcs, 1 995, pp. 303 ss. 1 60

parte delle imprese (a partire dalla Fiat) e licenziamenti nei settori più deboli della classe operaia77• Sul piano politico e istituzionale, peraltro, l'effetto più vistoso della crisi fu di rendere del tutto evidente che, senza una qualche forma di coinvolgimento dei sin­ dacati e senza - di conseguenza - una sia pur relativa apertura a sinistra, difficilmente il sistema avrebbe retto al peso della conflittualità sociale. Da qui - schematiz­ zando - la brusca liquidazione nell'estate del '73 del go­ verno guidato da Giulio Andreotti (un esecutivo dalla chiara inclinazione di centrodestra, che comprendeva il Partito liberale ed escludeva quello socialista) e il ritorno del Psi nell'area di maggioranza, con un ruolo determi­ nante nell'indirizzo economico dell'esecutivo. Ma da qui, soprattutto, il tentativo di affrontare la crisi attraverso la collaborazione - sia pure in un quadro generale caratte· rizzato da infinite contraddizioni711 - tra Confindustria e sindacati confederali, i cui passaggi più significativi fu. rono l'elezione di Gianni Agnelli alla presidenza di Con­ findustria nel maggio del 1 97 4 (che sembrò garantire la prevalenza fra gli imprenditori di un atteggiamento non ostile pregiudizialmente al dialogo con le sinistre) e l'ac­ cordo del 2 5 gennaio 1 975 fra il padronato privato e le confederazioni Cgil, Cisl e Uil (esteso nell'aprile anche al settore statale) con il quale venne introdotto un nuovo n Per un quadro d'insieme, cfr. ancora Ginsborg, Stona d'Italia dal dopoguerra a oggi, cit., vol. II, pp. 473 ss. 78 Particolarmente importanti erano le tensioni esistenti nelle orga­ nizzazioni sindacali, dove le strutture di base (i consigli dei delegati) e le grandi federazioni di categoria (metalmeccanici e chimici in testa) avevano tentato, senza riuscirvi, di imporre la cosiddetta unità organi­ ca, cioè lo scioglimento di tutte le strutture aderenti a Cgil, Cisl e Uil e la creazione di un unico sindacato, diviso per categorie (per i settori più radicali del movimento sindacale, si sarebbe dovuto procedere ad­ dirittura a creare un «sindacato dei consigli», cioè un'organizzazione il cui perno fossero le strutture di base elette da tutti i lavoratori, anche non iscritti ai sindacati). Sui temi riguardanti il movimento sindaca­ le, cfr. L. Bertucelli, LJ gestione del/4 crisi e la grande trasformazione (1 973-1 985), in L. BertuceUi, A. Pepe e M.L. Righi, Il sindacato nel/4 soaetà industnale, Roma, Ediesse, 2008, pp. 1 8 1 ss.

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meccanismo di calcolo della contingenza, unico per tutte le categorie di lavoratori (un provvedimento esplicita· mente rivolto a depotenziare e ridurre la conflittualità aziendale in materia di salari). Non c'è dubbio, insomma, che nel complesso - a par· tire dal 1973 - si profilasse una svolta politica significa· tiva, confermata clamorosamente l'anno seguente dalla sconfitta del referendum sul divorzio e sancita, infine, dai risultati ( altrettanto clamorosi) delle elezioni ammini­ strative e regionali del 1 5 - 1 6 giugno 1 975 , in seguito alle quali tutte le maggiori città italiane (tra cui Roma, Mi­ lano, Torino, Napoli) e molte regioni passarono sotto la guida di giunte «rosse», incentrate sulla collaborazione fra comunisti e socialisti. Il che, se per un verso contribuì a creare la diffusa convinzione di essere davvero alla vigilia di un mutamento politico di portata epocale (determinato dalla forza dei movimenti di classe e al contempo dai suc· cessi elettorali delle sinistre), per l'altro costituì invece un elemento di ulteriore complicazione, dal momento che in realtà non esistevano molti margini di mediazione tra le esigenze dettate dalla crisi economica ( una crisi di ca· rattere strutturale, che in prospettiva coinvolgeva l'intero modello sociale costruito nel dopoguerra) e l'enorme ca­ rica di rivendicazioni materiali e di ambizioni politiche ac­ cumulata dalla classe operaia. Tanto più che, nella realtà italiana, l'ipotesi di un'effettiva svolta a sinistra conti­ nuava comunque a scontrarsi con un insieme di ostacoli fortissimi, che andavano dall'anticomunismo viscerale di una parte consistente delle classi dirigenti e del ceto me­ dio (ben rappresentato, in quegli anni, da «Il Giornale», il nuovo quotidiano fondato da Indro Montanelli dopo la rottura con la proprietà e la direzione del «Corriere della Sera», accusate di eccessiva accondiscendenza verso le si­ nistre) alla presenza di gruppi terroristici di matrice neo­ fascista variamente e contraddittoriamente intrecciati con alcuni settori dei servizi segreti (è plausibile, a questo pro­ posito, ritenere che la recrudescenza in quel periodo di stragi e di attentati neofascisti debba essere interpretata come un segnale lanciato dall'estrema destra agli apparati 1 62

di stato «amici», che li stavano in qualche modo abbando­ nando al loro destino79), sino ai vincoli derivanti dall' ap­ partenenza alla Nato e dalla tradizionale subaltemità agli interessi strategici degli Stati Uniti80• È non solo comprensibile, ma persino owio, che questi mutamenti degli scenari economici, sociali e politici com­ plessivi influissero anche sulle scelte e sugli orientamenti dei movimenti rivoluzionari, ivi compresi quei settori che sino ad allora avevano tentato - senza riuscirvi - di for­ zare la situazione generale del paese nel senso di una rot­ tura violenta degli equilibri di fondo del sistema. A ben vedere, c'è un che di paradossale nel fatto che le ipotesi di una generalizzazione e di una precipitazione dello scon­ tro in senso «insurrezionale», coltivate e perseguite in va79 Tesi adombrata, tra gli altri, dall'ex ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani, nel corso dell'audizione presso la Commissione parla­ mentare di inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle ragioni della man­ cata individuazione dei responsabili delle stragi (XIII Legislatura) del l" luglio 1 997 e in quelle d el militante di estrema destra Stefano delle Chiaie, del 16 e 22 luglio dello stesso anno (i testi integrali delle audi­ zioni sono disponibili in Internet). 80 Nel quadro di una valutazione della crisi italiana degli anni Set­ tanta il ruolo degli Stati Uniti fu senza dubbio importantissimo, ma forse in maniera più articolata di quanto in genere non si creda. Me­ riterebbe particolare attenzione, in questo senso, la diffusa sensazione - nel periodo 1 974-75 che la superpotenza americana versasse in profonde difficoltà, che derivavano in parte dalla crisi politica inter­ na (nell'agosto del '74 il presidente Nixon rassegnò le dimissioni per evitare l'impeachment, dopo lo scoppio del cosiddetto scandalo Water­ gate), in parte dall'enorme impressione suscitata l'anno seguente dalla sconfitta nella guerra in Vietnam. Si trattava dunque di una situazione molto complessa, in cui si inserivano anche la fine delle ultime dit­ tature autoritarie europee (Portogallo, Grecia, Spagna) e l'evidente fastidio statunitense per la cosiddetta Ost-politzk della cancelleria so­ cialdemocratica tedesca, interpretata dal Dipartimento di stato come il primo passo verso una distensione nei rapporti fra l 'Europa e l'Unione Sovietica. In merito cfr. E. Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologia'. Le relazioni internazionali dal XX secolo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2007 , p. 339: «La situazione politica americana fu [ . . ) carat­ terizzata, dall'agosto 1 974 alle elezioni presidenziali del 1976, da un serio periodo di incertezza. [ . . . ] Esisteva dunque, in termini generali, uno scenario di relativa debolezza delle possibili reazioni americane». -

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rio modo fra il 1970 e il 1973 (cioè in una situazione nella quale la crisi era ancora più un elemento teorico, che una realtà pienamente dispiegata), venissero invece sostan­ zialmente abbandonate di fronte alla crisi vera e propria: l'ultima illusione in tal senso fu il velleitario tentativo di alcune componenti di Potere operaio, sopravvissute allo sbandamento del gruppo, di intervenire nelle tensioni provocate dalla crisi diffondendo per alcuni giorni a To­ rino - nel febbraio del '7 4 - un foglio quotidiano, intito­ lato «Fuori dalle linee», che ripeteva stancamente gli ap­ pelli alla rivolta operaia di massa, in assenza peraltro di un rapporto davvero significativo con le avanguardie di fab­ brica81 . Era la dimostrazione, forse, di come - sia pure tra mille difficoltà - si stesse facendo strada la consapevolezza che il discorso sulla violenza e la lotta armata si presentava più complesso e contraddittorio del previsto, che i tempi del processo rivoluzionario (della cui possibilità, beninteso, nessuno dubitava) erano più lunghi e meno lineari, che la crisi metteva in moto meccanismi delicati di scomposizione e divisione della classe operaia (e per contro di formazione di nuovi settori di proletariato, soprattutto giovanile), che si trattava per molti versi di ricominciare da capo, senza la 81 «fuori dalle linee. Foglio quotidiano di agitazione degli operai Fiat in lotta» (da non confondersi con il quasi omonimo «Fuori dalle linee. Giornale per il coordinamento internazionale delle avanguardie operaie», di cui era uscito un unico numero, nel maggio del 197 3) ve­ niva stampato a Firenze e trasmesso quotidianamente a Torino, presu­ mibilmente con un dispendio enorme di risorse materiali e organizza­ tive. Ne sono rimaste pochissime copie, disponibili presso alcune bi­ blioteche e archivi specializzati; ad esempio alla Fondazione Feltrinelli di Milano, dove ne sono conservati quattro numeri. Il senso di quanto vi si proponeva risulta chiaramente dal n. 2, 27 febbraio 1 974 (quel giorno era stato proclamato dai sindacati uno sciopero generale), dove si legge tra l'altro: «Compagni operai, in questi anni abbiamo impa­ rato a ribellarci e a lottare, dobb iamo imparare a organizzarci e ad armarci». In quelle circostanze confluirono a Torino alcune decine di militanti da varie sedi, pronti a intervenire militarmente in piazza qua­ lora fosse scoppiata la scintilla della violenza operaia: ultimo e quasi grottesco tentativo di applicazione della vecchia linea del gruppo.

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pretesa di avere in tasca - per così dire - la soluzione dei problemi. Particolarmente importante, per le dimensioni e il ra­ dicamento sociale del gruppo, fu il dibattito che iniziò a svilupparsi in Lotta continua già dall'autunno del '72 se ne può datare l'avvio alla riunione del comitato nazio­ nale del 14-15 ottobre, che prese le mosse da un lungo documento autocritico pubblicato dal giornale nei giorni precedenti82 - e che in breve tempo finì per ribaltare pressoché interamente la linea politica fissata dal conve­ gno di Rimini di sei mesi prima. L'autocritica fu totale e per molti versi addirittura impietosa, spaziando dalla questione dei delegati a quella della violenza, dalle carat­ teristiche ideologiche del gruppo al modo di stare fra le masse e dentro il movimento, sulla base del «bisogno di rivedere gli schemi, di ripensare alla propria storia, di ri­ definire la propria identità in rapporto a tutto ciò che di diverso da se stessi (o da un'autonomia operaia concepita in modo primitivo ed estremista) è nel frattempo cre­ sciuto»8J. Una riflessione che, fin dai primi mesi del 1 97 3 , mise capo all'elaborazione d i una nuova proposta poli­ tica, sintetizzata, con un certo gusto della provocazione, nella formula «il Pci al governo»84• Non si trattava, beninteso, di abdicare ai principi strategici della rivoluzione e dell'autonomia di classe. -

112 Così secondo Bobbio, Lo/la Continua, cit., p. l 13, che fa poi una lunga e accurata, e in larga parte simpatetica, analisi della «svolta». Il documento Una premessa alk discussione su Lotta Continua fu pubblica· to dal quotidiano in tre pani, nei giorni 8, 12 e 14 ottobre 1972. 8' Bobbio, Lotta Continua, cit. , p. 1 1 3 . 114 L a proposta nasceva d a una considerazione, che voleva essere realistica, cioè che le masse, non essendosi verificata la prevista rottu­ ra con il riformismo, non fossero ancora mature per scegliere diretta­ mente la rivoluzione, ma che fosse invece ipotizzabile, sull'onda delle lotte operaie e popolari, il pieno coinvolgimento dei riformisti nella gestione del sistema. A quel punto, ovviamente, si sarebbe aperta una fase nuova, più favorevole a uno sbocco rivoluzionario proprio perché incentrata sulla divaricazione tra il rifonnismo e la maggioranza della classe operaia.

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Anzi, sull'onda dell'impressione e delle discussioni susci­ tate dai fatti cileni, dopo il rovesciamento violento nel settembre del '73 del governo di Salvador Allende ad opera dei militari (e con il sostegno fattivo degli Stati Uniti), il discorso sul «Pci al governo» si caricò di va­ lenze e di umori, che sembravano riecheggiare vecchie posizioni («Il problema che ci consegna il Cile - scrisse il giornale - è quello della direzione rivoluzionaria della forza armata proletaria»85). E nelle polemiche con il Par­ tito comunista in relazione alla proposta del «compro­ messo storico» (lanciata dal segretario comunista Enrico Berlinguer all'indomani del colpo di stato in Cile per escludere l 'ipotesi in Italia di un governo delle sinistre, che sarebbe stato esposto a rischi fortissimi) Lotta con­ tinua non mancò mai di sottolineare come il problema fosse invece di prepararsi per tempo attraverso l'arma­ mento delle masse. Il gruppo, insomma, formalmente non ripudiò affatto il proprio carattere di forza politica rivo­ luzionaria ed estremista, anche nel modo di intendere la violenza; tant'è vero che in Le continuarono comunque a esistere aree di militanti (e intere sedi) che su quel punto non cambiarono di una virgola le proprie idee e le pro­ prie pratiche politiche86• Cionondimeno è indubbio che quella awiata sul finire del 197 3 , e conclusasi agli inizi del '75 con il primo congresso nazionale, fosse una vera e propria svolta, dettata dalla volontà dei gruppi diri­ genti di trasformare a tutti gli effetti l'organizzazione in un partito, che fosse in grado di «fare politica» anche nel senso più tradizionale del termine, ivi compresa, a partire dal '75, la scelta di confrontarsi anche con le scadenze elettorali87• Né ci sono dubbi che essa fosse vissuta e di8' 86

Da un anicolo del 13 ottobre 1 973, citato ibidem, p. 126. caso più eclatante fu quello di Sesto San Giovanni, dove alla fine del '73 si arrivò al commissariamento della sezione, in seguito a tut· ta una serie di iniziative (tra cui l'assalto di massa a un'armeria a Mon· za) che chiaramente si collocavano fuori della linea ufficiale dell'organiz· zazione; dr. in merito Mentasti, Senza tregua, cit., pp. 49 ss. 87 Alle elezioni amministrative del '75 venne data l'indicazione di votare per il Pci (anche se in qualche città si appoggiarono liste di 1 66

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scussa come tale da tutti i militanti, perfettamente con­ sapevoli che Le stesse progressivamente voltando pagina rispetto alla fase precedente, il che tra l'altro indusse al­ cune aree di dissenso a uscire subito dall'organizzazione88. Di tutt'altro genere fu quanto avvenne invece in Po­ tere operaio. Non solo perché quella che formalmente doveva essere la quarta conferenza d'organizzazione ( te­ nuta a Rosolina, in provincia di Rovigo, dal 3 1 maggio al 3 giugno del '73 ) fu in realtà un incontro semiclan­ destino, predisposto più con la preoccupazione di sfug­ gire alle attenzioni della polizia, che con la volontà di rivolgersi all'esterno. Ma soprattutto perché il gruppo, a quel punto, era ormai una realtà abbastanza evane­ scente, presente in maniera significativa solo a Roma e nel Veneto, e per di più assolutamente diviso - anzi: lacerato - al proprio interno. Tant 'è vero che in quel convegno, dei cui lavori, non a caso, non venne reso pubblico nulla8", si consumò, più che una scissione, una sorta di implosione del gruppo, al termine di una discussione dai toni sostanzialmente autoreferenziali benché vi fosse stata una lunga relazione introduttiva di Franco Piperno - fatta di insinuazioni e di sospetti incrociati, di recriminazioni e di accuse cocenti (in par­ ticolare sulla tragedia di Primavalle) , di difficoltà e di imbarazzi tali, che le cose più scottanti vennero discusse nel corso di una riunione notturna, limitata solo ad al­ cuni militanti. estrema sinistra costituite da Avanguardia operaia e Pdup-Manifesto), ma l'anno seguente - alle elezioni politiche generali - l'organizzazione scelse di aderire con gli altri gruppi al ca"ello elettorale di Democra· zia proletaria. 1!!1 Il caso più significativo, almeno per i suoi sviluppi successivi, fu quello che coinvolse il settore di lavoro sulle carceri e alcuni detenuti (o ex detenuti), da cui ebbe in parte origine l'esperienza dei Nuclei armati proletari, di cui si dirà più avanti. 89 Sull'andamento della conferenza cfr. Grandi, LA generazione degli anni perduti, cit., pp. 300-309, dove le uniche fonti sono alcune testi­ monianze di protagonisti. Altre informazioni, tratte da successivi atti giudiziari, sono in Mentasti, Senza tregua, cit., pp. 86-88.

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In realtà una logica, in quel che accadde a Rosolina, c'era. Lo sbandamento di Potere operaio, infatti, significò la definitiva divaricazione fra due tronconi dell' organiz­ zazione (identificabili rispettivamente con le posizioni di Toni Negri, da un lato, e di Piperno e Scalzone, dall'al­ tro), che già da tempo avevano preso a operare lungo direttrici assolutamente diverse e, a ben vedere, inconci­ liabili tra loro90• L'idea di Negri e di quanti decisero di lasciare Potere operaio, in sintesi, era che il gruppo poli­ tico - inteso come forma d'organizzazione - avesse fatto il suo tempo e non fosse più in grado di rappresentare in maniera adeguata le spinte più significative dell' au­ tonomia di classe, costituite invece da quella rete di or­ ganismi operai autonomi che si era andata aggregando tortuosamente a partire dal '71 e che ai primi di marzo del '73 aveva tenuto a Bologna la sua prima assemblea nazionale91• Si trattava, in altre parole, di sciogliersi in­ teramente all'interno delle assemblee e dei comitati au­ tonomi, aderendo in tutto ai loro percorsi organizzativi. Ed era precisamente questa prospettiva a non convincere affatto le altre componenti di Potere operaio, dai ro­ mani alla maggior parte di coloro che continuavano in condizioni difficilissime - l'intervento politico a Torino, -

90 Secondo Franco «Bifo» Berardi, La ne/asta utopia di Potere Ope­ raio, Roma, Castelvecchi, 1998, ci sarebbe stato - in realtà - un terzo filone, che puntava alla dissoluzione del gruppo in nome di un'avan­ guardia non più politica, ma «culturale, immaginaria, desiderante» (p. 1 39). Tuttavia, benché fosse senza dubbio in formazione - allora - un'area di movimento legata a fenomeni, soprattutto giovanili, di controcultura e di comunicazione alternativa, non mi sembra ci fos­ se traccia di questi elementi di riflessione nel dibattito, che portò alla fine di Potere operaio. 91 Le principali realtà presenti a Bologna erano le assemblee au· tonome dell'Alfa Romeo, della Pirelli e della Sit-Siemens di Milano, l'assemblea autonoma di Porto Marghera e i collettivi politici dell'End e del Policlinico di Roma (questi ultimi erano il risultato di una scis­ sione maturata nel '7 1 tra alcuni lavoratori aderenti al Manifesto). La presenza di operai della Fiat era invece poco più che simbolica. Cfr. L. Castellano, Aut. Op. La storia e i documenti. Da Potere Operaio all'Autonomia organi1.Zilta, Roma, Savelli, 1980.

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Milano, Firenze; non perché, ovviamente, le assemblee autonome non fossero considerate un punto di riferi­ mento importante, ma perché in quel momento l'ipotesi di confluire tout court nell'area dell'Autonomia operaia non aveva altro significato, per loro, che quello di rinun­ ciare definitivamente al progetto di costruzione di una forza politica armata in grado di agire tanto a livello di massa, quanto a livello d'avanguardia, cioè - in ultima analisi - di realizzare un modello di lotta armata alterna­ tivo a quello delle Br. Anzi, con ogni probabilità la ra­ gione di fondo per cui quelle componenti preferirono al momento sbandarsi e ridursi a uno stato di totale incer­ tezza92, piuttosto che abdicare a quell'ambizione, fu pro­ prio il sospetto - o per meglio dire la convinzione - che la proposta di «sciogliersi nel movimento» nascondesse in realtà un'intesa politica con le Br, o quanto meno l'idea di poter influire su di esse spingendole ad aprirsi mag­ giormente nei confronti del movimento93• 92 Dopo Rosolina l'organizzazione rimase formalmente in vita anco­ ra per alcuni mesi (il settimanale «Potere Operaio del lunedh> conti­ nuò a uscire sino al n. 82, del 3 1 dicembre), ma perdendo sempre più consistenza e capacità di iniziativa. I fuorusciti pubblicarono invece un ultimo numero della vecchia testata «Potere Operaio», rendendo uffi­ ciali le loro scelte e le ragioni che ne stavano alla base. 93 Chiarissimo in questo senso il giudizio, pieno di rancore perso­ nale verso Negri, di Valerio Morucci (cfr. Grandi, La generazione degli anni perduti, cit., p. 304), secondo cui il progetto di chi voleva chiude­ re l'esperienza di Po «era quello di mettere su un'organizzazione flu­ ida e non centralizzata che governasse le lotte operaie e che, forte di questo primato, riuscisse a piegare le Brigate rosse a fargli da braccio armato». Analoghe, anche se più criptiche, le considerazioni di Paolo Virno (un altro esponente di spicco del gruppo romano, presente a Ro­ solina) comprese nel volume Gli operaisti, cit., pp. 3 1 1 -3 12, dove ri­ spunta anche la vecchia obiezione sulla «lotta armata per le riforme». In merito si veda anche quanto ricostruito in un lungo saggio/testimo­ nianza da C. Funaro, «Il comunismo è giovane e nuovo». Rosso e l'au­ tonomia operaia mi/4nese, in S. Bianchi e L. Caminiti (a cura di), Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, Roma, DeriveApprodi, 2007 , in particolare alle pp. 164- 166, dove - pur negando l'esistenza di qualsia­ si disegno egemonico - i rapporti con le Br vengono riconosciuti sen­ za alcun problema. Funaro era uno dei militanti di Po più attivi nel

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D'altra parte le Brigate rosse nel '73 erano una realtà di un certo peso, non solo per la risonanza delle loro azioni (l'aver scelto di colpire solo obiettivi di fabbrica, pe­ raltro senza mai infierire fisicamente sulle persone, aveva creato indubbiamente un discreto consenso nei loro con­ fronti94), ma anche per la loro effettiva presenza nel mo­ vimento, soprattutto a Milano, la città in cui erano nate e in cui conservavano una solida rete di rapporti operai. Che fossero presenti in maniera significativa nelle grandi fabbriche, in particolare all'Alfa Romeo, e che potessero influire anche sulle assemblee autonome, era quindi del tutto pacifico95• Ma c'era di più: proprio nel '73 le Br ave­ vano messo a segno alcune azioni importanti anche a To­ rino, dimostrando di non essere più solo un gruppo locale milanese (per quanto importante), ma un'organizzazione in espansione, capace di inserirsi anche in una realtà strate­ gica come la Fiat; e non c'è dubbio che, nel quadro del dibattito in corso all'interno di Potere operaio, ciò costi­ tuisse un elemento degno della massima attenzione96• Le gruppo milanese, che uscì dall'organizzazione insieme a Negri (anche quest'ultimo, peraltro, si era trasferito da tempo a Milano). "" Certe modalità di trattamento dei «prigionieri», improntate nel complesso al rispetto della persona fisica, erano considerate allora par· te integrante del messaggio rivoluzionario. Questo elemento retorico fu usato per la prima volta in occasione del sequestro del dirigente Fiat Amerio, ma risaltò anche nel successivo sequestro del giudice Ma­ rio Sossi (aprile-maggio 1974). Si veda l'insistenza su questo aspetto tanto in Curcio, A viso aperto, cit., quanto in A. Franceschini, Mara Renato e io. Stona dei fondatori delle Br, con la collaborazione di P. V. Buffa e F Giustolisi, Milano, Mondadori, 1 988. 91 Cfr. Funaro, «Il comunismo è giovane e nuovo», cit., p. 1 64: «Per avere rapponi stabili con le assemblee autonome [a Milano], era in­ somma necessario che i nostri compagni [ . . ] operai, ma soprattutto gli esterni che reggevano l'intervento, non trovassero porte chiuse da pane delle Br». 96 Se si legge con attenzione il documento dedicato alla situazione Fiat, che Negri scrisse dopo i blocchi degli stabilimenti torinesi della primavera '73 (cfr. Articolazioni organiuative e organl:r.:r.a:r.ione comples­ siva: il partito di Mira/ton·, cit.), sono piuttosto evidenti - mi sembra - i segni di una riflessione politica, che inclinava verso l'idea di poter coniugare la violenza spontanea degli operai e l'azione armata ester.

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Br, insomma, rappresentarono sicuramente un punto di riferimento fondamentale, nel dibattito che portò allo scio­ glimento di Potere operaio; né stupisce che, dopo l'uscita dall'organizzazione, l'operazione più importante realizzata dal gruppo milanese raccolto attorno a Negri fosse l'avvio della rivista «Controinformazione», realizzata proprio in accordo con le Br: una rivista che in effetti tentò di dare voce pubblica, dentro al movimento, tanto al processo di costruzione dell'area politica delle assemblee autonome operaie, quanto al dibattito sulla lotta armata97• 5 . Le Brigate rosse, la diaspora rivoluzionaria e le diverse ipotesi di lotta armata Sul piano del giudizio storico-politico, tuttavia, quel che è più significativo è che, malgrado tutto ciò (mal­ grado, cioè, gli indubbi spazi di azione politica di cui godevano allora le Brigate rosse, rimaste l'unica vera or­ ganizzazione armata operante in ltalia98), fra il 1 97 3 e il na, ad esempio dove stava scritto: >; Pelli venne invece arrestato nel dicembre 1975. Per le vicende interne del gruppo e per la riorganizzazione del 1 975-76, incentrata tra l'altro sulla nasci­ ta della «colonna» romana, cfr. M. Clementi, Storia delle Brigate Rosse, ci t.

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rali del mese di giugno e dalle loro conseguenze anche sull'estrema sinistra. Da una parte con l'evidente diffi­ coltà (o la crisi aperta, nel caso di Lotta continua) dei gruppi maggiori, dopo la sconfitta elettorale, a tenere in­ sieme la scelta di pungolare da sinistra il Pci per forzarlo verso la formazione di un governo delle sinistre e la per­ durante radicalità delle lotte di massa (nell'estate del '76 nacque il cosiddetto governo «delle astensioni», preludio alla svolta verso i governi di solidarietà nazionale e al coinvolgimento dei comunisti nell'area di maggioranza). E dall'altra con l'ulteriore rafforzamento tanto delle for­ mazioni cosiddette «autonome», quanto dei gruppi armati (verso la fine dell'anno, tra l'altro, si costituì formalmente Prima linea14' ) . Da un'altra parte ancora, però (e credo che questo non debba essere trascurato) , con l'abban­ dono della militanza attiva da parte di parecchie persone, attive nei movimenti in molti casi dal Sessantotto, in una pluralità di scelte e di atteggiamenti personali che anda­ rono dal puro e semplice ritorno al «privato» all'avvio di una miriade di pratiche «controculturali», a metà tra il mercato alternativo e la ricerca di una nuova profes­ sione (fenomeno, quest'ultimo, sinora poco studiato con gli strumenti dell'indagine sociale, ma che per molti versi ebbe un'importanza notevolissima negli scenari di fine decennio). 10 A questo proposito non è secondario ricordare che il primo omicidio realizzato dal gruppo avvenne nell'aprile del 1976, quando ancora agiva come ccSenza tregua». Si trattò dell'uccisione del consi· gliere comunale del Movimento sociale Enrico Pedenovi, decisa imme­ diatamente a ridosso dell'ennesima aggressione neofascista (il giorno 27 tre ragazzi di sinistra erano stati accoltellati e uno di loro, Gae­ tano Amoroso, morì poi il 30; il ministro degli Interni aveva vietato ogni manifestazione di piazza). Ulteriore dimostrazione, mi sembra, di quanto quell'area combattente milanese fosse strettamente legata a cer­ te dinamiche del movimento. Sulla storia di Pl, oltre a Boraso, Muc­ chio selvaggio, cit., cfr. L. Guicciardi (a cura di), Il tempo del furore. Il fallimento della lotta armata raccontato dai protagonisti, Milano, Rusco­ ni, 1988. Molto utile anche il racconto di uno dei principali protago­ nisti: S. Segio, Una vita in prima linea, Milano, Rizzoli, 2006.

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Si tratta però di non indulgere a una v1s1one sem­ plicistica di quei fatti, interamente calibrata sui caratteri innovativi e dirompenti del cosiddetto «movimento del '77»146 • Che certo vi furono, ma rischiano di essere gra­ vemente fraintesi, se non li si mette in relazione con tutta una serie di fenomeni, maturati in realtà già negli anni precedenti. Non solo le profonde trasformazioni dell'area politica dell'estrema sinistra e la nascita, in quel contesto, dei gruppi armati, ma anche quei fenomeni di riflessione sui rapporti «pubblico/privato», sulla droga, sulle cul­ ture giovanili e sulle donne, che acquisirono poi sempre più spazio. Fu in quegli anni che una parte dell'estrema sinistra «scoprì», per così dire, che non esisteva solo la contraddizione operai/capitale e ne rimase per certi versi scioccata, faticando a elaborare linguaggi e pratiche ade­ guate: per rendersene conto è sufficiente scorrere la ru­ brica di «Lettere» che il quotidiano «Lotta continua» creò nel '75 per discutere quanto era emerso dall'incon­ tro giovanile di massa avvenuto a Licola, e che anticipava largamente tematiche esplose poi nel '77 . In questo senso una riflessione sui percorsi verso la lotta armata, che caratterizzarono la prima parte del de­ cennio, riveste indubbiamente un'importanza di grande rilievo, proprio perché si tratta di una storia strettamente e profondamente intrecciata - sia pure in forme irridu­ cibili agli stereotipi più ricorrenti - con quella dei mo­ vimenti che si erano formati a partire dal Sessantotto. Alcune generazioni di militanti politici, o di persone che semplicemente riversavano una parte delle loro energie nelle lotte e nelle loro forme di organizzazione, persegui­ rono con convinzione l'idea che fosse possibile rovesciare il sistema e realizzare una rivoluzione comunista, anche in un paese come l'Italia. Una parte di costoro lo fece rite­ nendo, a un certo punto, che la strada più efficace pas146 Nell'ampia letteratura disponibile in merito, cfr. il volume an­ tologico Settanta�ette. La rivoluzione che viene, Roma, Castelvecchi, 1997.

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sasse anche per l'uso delle armi o comunque della vio­ lenza organizzata; non per sostituirsi alle masse, o per provocare manu militari la crisi dello stato, ma per ac­ compagnare un processo politico rivoluzionario di massa. Idee che oggi, a trent'anni di distanza, sembra persino difficile comprendere nel loro esatto significato, e che ri­ sulta di gran lunga più facile liquidare come fanatismi e aberrazioni, nella migliore delle ipotesi come ingenue illu­ sioni dagli esiti drammatici e devastanti. Se è vero, tuttavia, che la storiografia non si occupa di giudizi morali, ma tenta di capire e di spiegare quanto è accaduto, ricostruendone non solo i contesti ma anche le logiche interne, può non essere inutile dedicare nuovi studi e nuove ricerche a quegli avvenimenti, interpretan­ doli come una chiave di lettura importante della crisi ita­ liana degli anni Settanta. «Se non altro - come ha scritto Eric Hobsbawm a proposito di tutt'altra epoca - perché noi (storici compresi) non ci siamo più dentro, ma non sappiamo quanta parte di essi è ancora dentro di noi»147•

p.

147 E.). Hobsbawm, I.:età degli zmpe,.;, Roma-Bari, Laterza, 1 987 , 8.

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PARTE SECONDA

RETORICHE E LEGITTIMAZIONE DELLA VIOLENZA

SILVIA CASILIO «PAGHERETE CARO, PAGHERETE TUTTO ! ». LA VIOLENZA POLITICA NELLE RIVISTE DELLA SINISTRA EXTRAPARLAMENTARE

La controinformazione [ . . . ] [d] eve essere carat­ terizzata dal fatto che essa si realizza sulle spalle, per così dire, dell'informazione normale, prendendola in contropiede, e succhiandole il sangue [ . . . ]. Controin­ formazione non significa dire al telegiornale cose di­ verse, ma andare dove la gente guarda il telegiornale e intervenire facendo notare come esso distorce le in­ formazioni e come, interpretandolo tra le righe, si po­ trebbe cavarne informazione diversa [. . . ]. In tal modo da un lato si critica il modo in cui l'informazione è data e dall'altro si aggiunge nuova informazione. Umberto Eco, Cerchiamo di usare anche Toro Se­ duto, in «il manifesto��. 23 maggio 1 97 1

La controinformazione è figlia essenzialmente di quell'ondata di trasformazioni, a volte contraddittorie e spesso radicali, che coinvolse tra gli anni Sessanta e Settanta la società italiana. In questo periodo l'Italia, così come la maggior parte delle società industriali avanzate occidentali, registrò un incredibile sviluppo della partecipazione poli­ tica al di fuori delle arene istituzionali e una conseguente crescita delle forme della militanza politica, ossia di impe­ gno personale, diretto e continuativo per le cause sociali le più diverse. Vasti segmenti sociali, che solo in parte o per niente si riconoscevano nei partiti, diedero vita a movimenti di protesta animati da istanze di trasformazione in senso più profondamente democratico della società' . 1 Cfr. G. Cotturri, La soctetà delLJ politica istituzionale, in M.L. Boccia (a cura di), Mtlitanz.a senz.a appartenenza. Schede su movimenti

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Quindi i movimenti studenteschi del Sessantotto che funzionarono come una sorta di laboratorio, l'esplosione dei nuovi media, la nascita di nuovi approcci della socio­ logia e della ricerca sociale, un profondo processo di po­ liticizzazione della cultura soprattutto di quella giovanile, la lotta armata rossa e nera che fosse, la strategia della tensione e le bombe contribuirono nell'arco di un ven­ tennio alla nascita della pratica della cosiddetta controin­ formazione che sembrò allora l'unica strada percorribile per cercare di cambiare il modo di fare informazione, per tentare di andare al di là e oltre quella che veniva presen­ tata come la verità, l'unica possibile, dalle fonti istituzio­ nali. Massimo Veneziani, in un libro edito da Castelvec­ chi qualche anno fa, ha scritto che la controinformazione altro non è che una informazione contro e in particolare contro il potere, una informazione animata da un senti­ mento di profonda diffidenza nei confronti delle fonti uf­ ficiali a cui non veniva riconosciuta aprioristicamente nes­ suna affidabilità2• Questa diffidenza nei confronti delle istituzioni e una crescente richiesta di protagonismo (e quindi di parte­ cipazione, termine che ancora una volta torna ad affac­ ciarsi nel nostro ragionamento) non sono fenomeni tipici solo ed esclusivamente della giovane democrazia italiana. Come ha sottolineato Marica Tolomelli, infatti, essi vanno letti alla luce della crisi del modello di democrazia - im­ postato sulla mediazione, sulla negoziazione corporatista di interessi, con un'inclusione politica esclusivamente me­ diata dalle istituzioni partitiche dei soggetti sociali e una concezione passiva della cittadinanza} - affermatosi in Europa nel secondo dopoguerra. Quando la cittadinanza e assoàazioni delkz politica di/fusa, supplemento di «Democrazia e di· ritto», l, 1986, in particolare p. 3 3 . 2 M . Veneziani, Controinformazione. Stampa alternativa e giornali­ smo d'inchiesta dagli anni Sessanta a oggi, Roma, Castelvecchi, 2006. 1 M. Conway, The Rise and Fati o/ Western Europe's Democratù: Age, in «Contemporary European History», 2004; trad. it. in «900. Per una storia del tempo presente», 12, 2005.

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passiva IniZIO a essere percepita come inaccettabile da quei nuovi soggetti sociali, giovani e donne in particolare, che fino a quel momento non avevano trovato accesso alla sfera della politica tramite i canali della mediazione, la crisi diventò insanabile4• A generarla fu anche l'inca­ pacità di questo modello di affrontare con efficienza le radicali trasformazioni sociali che si registrarono, pur se in misura diversa, in tutte le società europee in seguito alla eccezionale crescita economica degli anni Cinquanta e Sessanta. In Italia la «democrazia consociativa» si dimo­ strò meno efficace che altrove soprattutto sotto il profilo dell'integrazione sociale e politica, tant'è che la conflit­ tualità sociale rimase piuttosto alta anche nei periodi di maggiore prosperità economica'. Oltre che per la diffidenza nei confronti delle istitu­ zioni e la richiesta di sempre più larga partecipazione, la controinformazione si distinse per il carattere squisi­ tamente militante: essa infatti si sviluppò, a partire dai primi anni Settanta, essenzialmente all'interno dei gruppi della sinistra cosiddetta extraparlamentare o rivoluziona­ ria come pratica politica vera e propria. Rigore di ricerca (teoria, documentazione) - scriveva nel 1 972 Pio Baldelli in un testo dedicato appunto al rapporto tra informazione e controinformazione - e passione di parte (la pra­ tica sociale) non possono essere separate, lavorano sulla defini ­ zione dei punti deboli del potere [ . . . ] . La controinformazione muove dal notiziario puro e semplice come prima linea: non pedinando le trame reazionarie ma cercando di scovare i muri maestri che reggono l'informazione del nemico di classé. 4 M. Tolomelli, Militan1.a e violen1.a politicamente motivata negli anni Sei/anta, in A. De Bernardi, V. Romitelli e C. Cretella (a cura di), Gli anni Settanta. Tra crisi mondiale e movimenti collettivi, Bologna, Archetipi, 2009. ' Ibidem. Sull'Italia e sulle conseguenze del boom economico cfr. tra gli altri P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopogue"a ad oggi. Società e politica 1 943- 1 988, Torino, Einaudi, 1989. 6 P. Baldelli, In/orma1.ione e controin/orma1.ione, Milano, Mazzotta, 1972, p. v.

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La più importante e forse meglio riuscita iniziativa di controinformazione risale al giugno 1 970 quando uscì La strage di stato: un libro-inchiesta, edito da Savelli, in cui in modo minuzioso ed estremamente dettagliato si cer­ cava di ricostruire le responsabilità sulla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1 9697• Sebbene l'inchiesta e la sua forma espositiva rispondessero a un assioma secondo cui la strage era parte di un disegno eversivo ideato e sostenuto dal cosiddetto partito americano con l'obiet­ tivo di destabilizzare il paese e di preparare la strada a un regime autoritario parafascista, i curatori del libro raccolsero informazioni, documenti e testimonianze indi­ viduando, in anticipo rispetto alle inchieste ufficiali, i col­ legamenti tra alcuni apparati dello stato e gli ambienti del neofascismo italiano8• Sebbene vi fossero state esperienze precedenti di controinformazione'�, il fenomeno, come ab­ biamo già detto, è tipico degli anni Settanta e abbraccia il fecondo mondo delle pubblicazioni che proprio in quel decennio nacquero nella galassia dei gruppi sorti a sini­ stra del Partito comunista. Si esamineranno qui in particolare quattro riviste, molto diverse tra loro, ma assai utili per comprendere e analiz­ zare il rapporto esistente tra i movimenti di quegli anni, 1 Sulle reazioni del mondo politico e della stampa mi permetto di ri­ mandare al mio «Avevo tanti impegni ma ho deciso di stare a casa a /in­ germi k sopracciglia.'» Una storia della controcultura in Italia (1965-1969), tesi dottorale, Università degli studi di Macerata, 2006, di prossima pub­ blicazione da Le Monnier, Firenze. Cfr. anche G. Panvini, Ordzne nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell'Italia degli anni Sessanta e Settan­ ta (1966-1 975), Torino, Einaudi, 2009, pp. 88-97, e B. Armani, Le parole del conflitto Informazione, controinformazione e propaganda dal caso Pi­ ne/li aU'omicidio Calabresi, in A. Martellini e A. Tonelli (a cura di), Vio­ lenza politica, comunicazione, linguaggi, in «Storia e problemi contempo­ ranei», n. 55, XXIII, settembre-dicembre 2010, pp. 30-37. 8 In proposito cfr., oltre al già citato testo di Veneziani, anche A. Giannulli, Bombe a inchiostro, Milano, Rizzoli, 2008. 9 Ad esempio i cinegiornali statunitensi realizzati per denunciare la povertà e il degrado degli slums metropolitani o la campagna in favore dei documentari indipendenti lanciata da Cesare Zavattini negli anni Sessanta.

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la controinformazione e la violenza politica: «Controinfor­ mazione», «Rosso», . L'accento era posto sul processo di politicizza­ zione dei detenuti «comuni». Se la convinzione di fondo era che «tutti i detenuti sono detenuti politici», si rico­ nosceva la necessità di un intervento ideologico e pratico teso a rompere l'atteggiamento individualistico ritenuto implicito nella mentalità dei «devianti» e a favorire per contro un'azione rivendicativa di tipo collettivo. Per que­ sto, pur non condannando la pratica dell'evasione e non escludendo l'uso della violenza nel corso delle rivolte, si propendeva decisamente per una lotta organizzata all'in­ terno delle carceri, che passasse per la costruzione di nu­ clei permanenti di discussione e di organizzazione colle­ gati con le avanguardie esterne. La linea di intervento dei gruppi di lotta armata, pur con alcune significative differenziazioni tra gli stessi4, vedeva invece il carcere quasi esclusivamente come un J Tra i riferimenti più significativi: E. Goffman , Asy/ums: le istitu· 1.ioni totali: la condizione dei malati di mente e di altn· internati, Tori­ no, Einaudi, 1968; F. Basaglia (a cura di), L'istituzione negata, Torino, Einaudi, 1968. Molto influente anche il libro di A. Ricci e G. Salier­ no, Il carcere in Italia. Inchiesta sui carcerati, i carcerien· e l'ideologia penitemiaria, Torino, Einaudi, 197 1 . Solo nel 1975 (in francese e nel 1 976 in italiano) venne pubblicato M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1 976. 4 In particolare tra l'area brigatista e queUa di matrice movimenti­ sta/anarchica (ad esempio Prima linea, Pac, Azione rivoluzionaria) .

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aspetto del potere statuale e tendeva dunque a negarlo senza penetrarne gli specifici meccanismi di funziona­ mento. La rivolta e, soprattutto, l'evasione di massa (so­ vente accompagnata da sequestri di personale penitenzia­ rio) divennero così gli obiettivi di un movimento interno peraltro progressivamente circoscritto ai detenuti politici; all'esterno, le «azioni» contro le strutture e il personale penitenziario derivavano dalle «campagne» delle singole organizzazioni e anche la costruzione dell'immaginario attorno al carcere come luogo della violenza statuale era funzionale alla legittimazione della violenza posta in atto da esse. A partire dalla fine degli anni Settanta, il tema della «repressione» - dentro il quale era collocato quello delle carceri, soprattutto dopo l'introduzione del circuito di massima sicurezza (luglio 1 977 ) 5 - venne utilizzato dai gruppi armati in funzione dell'obiettivo strategico della polarizzazione dello scontro con lo stato. In relazione a esso furono costretti a schierarsi anche i movimenti che non si collocavano «né con lo stato né con le Br», come accadde anche per quelli più specificamente attivi attorno alla questione carceraria: non furono più solo i comitati e le riviste vicine all'orientamento brigatista - come l'A. FA.DE.CO. e «Il bollettino» - a insistere sul tema della

, Centrale nella costruzione di un immaginario attorno alla repres­ sione (e alle carceri speciali) fu soprattutto il riferimento al caso te­ desco occidentale, per il quale si rinvia ad esempio a C. Almirante, F. Ferlini et al , Germania e «germaniz1.0zione», Napoli, Pironti, 1977. Considerazioni generali sono in De Graaf, Theater van de angst, cit., pp. 53-73, p. 212. Per alcune pubblicazioni relative alle carceri specia­ li: I prigionieri del campo di concentramento deli'Asinara, La settima­ na rossa, Catania, Edizioni di Anarchismo, 1978; Il carcere antimperia­ lista. Teoria e pratica dei proletari prigionieri nei documenti dei comitati di lotta, Verona, Bertani, 1979; G. Cassitta e L. Spanu, Supercarcere Asinara. Vùzggio nell'isola dei dimenticati, Genova, Fratelli Frilli, 2002; Il carcere speciale, cit. Una descrizione delle prime carceri di massima sicurezza è anche nella relazione dell'allora magistrato di sorveglianza Igino Cappelli, riportata in Magistratura Democratica, Il carcere dopo le rz/orme, Milano, Feltrinelli, 1979. 289

repressione e a concentrarsi sulla situazione dei «prigio­ nieri politici», ma anche esperienze da esso ongmaria­ mente distanti come «Carcere informazione» e il «Soc­ corso rosso militante». 2.

La questione delle carceri come punto di osservazione dei gruppi dirigenti brigatisti

Il sostanziale disinteresse con cui i gruppi di lotta ar­ mata guardavano allo specifico della «questione carcera­ ria» contribuì ad approfondire la strutturale separazione tra «dentro» e «fuori» e tra «politici» e «comuni» e con­ dusse a un tendenziale isolamento degli stessi militanti incarcerati. Ciò è particolarmente significativo nel caso delle Brigate rosse, in ragione del contrasto che si venne a creare tra il «nucleo storico» dell'organizzazione, in car­ cere a partire dal 1 97 6 , e la leadership esterna (Moretti). Questa tendenziale autonomizzazione dei militanti detenuti si accentuò dopo la creazione delle «carceri spe­ ciali»: da un lato divenne (relativamente) più difficile la comunicazione con l'esterno; dall'altro, la concentrazione dei detenuti politici in alcuni istituti penitenziari portò alla creazione di organismi di lotta propriamente carcerari («brigate di kampo» di soli brigatisti; «comitati di lotta» con esponenti di varie organizzazioni e detenuti «co­ muni» politicizzati) e ad azioni direttamente organizzate dai militanti detenuti (la «settimana rossa» dell' Asinara del 1 9-26 agosto 1 978 o ancora la «battaglia dell' Asinara» del 2 ottobre 1 979 ) . Nei contrasti interni alla dirigenza delle Br il car­ cere ebbe un ruolo significativo, che influì sulla succes­ siva evoluzione di quell'organizzazione. Attorno al 1 980 emerse infatti Giovanni Senzani come leader delle Br prima e delle Br-Partito della guerriglia poi. La sua fi­ gura, a lungo citata solo per speculazioni dietrologiche circa eventuali legami diretti tra Br, servizi segreti e ca­ morra, appare in realtà assai significativa proprio alla luce di questo percorso che pose sempre più al centro il 2 90

«carcerano»: arrestato (ma successivamente scagionato) sin dal 1 974 per presunti legami con i Nap, egli fu re­ sponsabile del Fronte delle carceri delle Br nella seconda metà del decennio e ponò all'interno di quell'organizza­ zione la vasta conoscenza della tematica carceraria che gli derivava dalla precedente attività di ricercatore: a lui si devono infatti un importante libro-inchiesta sulle case di rieducazione per minorenni e l'introduzione in Italia di un testo fondamentale della sociologia della devianza mi­ norile, L'invenzione della delinquenza di A.M. Platt6• Con l'ascesa di Senzani a scapito di Moretti, il «nu­ cleo storico» brigatista trovò così anche per questi motivi più specificamente «carcerari» un referente certo e ciò a sua volta facilitò l'emergere della tematica penitenziaria nelle campagne e nella prospettiva teorica dell'organizza­ zione, come rivelarono il documento L'albero del peccato e soprattutto le vicende legate al sequestro del responsa­ bile dell'Ufficio detenuti dell'amministrazione penitenzia­ ria, Giovanni D'Urso7• Il peso crescente che il carcere assunse nella strategia brigatista nei primi anni Ottanta era del resto anche il prodotto di una trasformazione quantitativa in atto: ben­ ché il dato numerico non sia facilmente controllabile, si stima che oltre cinquemila militanti di organizzazioni ar­ mate di sinistra siano passati per le carceri, con gli arre­ sti che si concentrarono proprio negli anni successivi al 6 Cfr. G. Senzani, L'esclusione anticipata. Rapporto d4 1 18 case di rieducazione per minorenni, Milano, Jaca Book, 1 970; M.A. Platt, L'invenzione della delinquenza: la definizione sociale della delinquenza minori/e, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1975 ; G. Senzani (a cura di), Eco­ nomùJ politica della criminalità: matena/i su criminologia, m·minaltlà e controllo sociale, Firenze, Uniedit, 1979. In qualità di esperto Senza­ ni fu anche sentito nel 197 4 dalla Commissione giustizia della Camera che stava approntando il testo di riforma penitenziaria, approvato nel luglio 1975. 7 Cfr. L. Jannuzzi (a cura di), La pelle del D'Vrso: a chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata, Roma, Radio Radicale, 1981; Col­ lettivo prigionieri comunisti delle Brigate rosse, L'albero del peccato, Paris, Rebelles, s.d. [ma 198 1 ] .

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1 9808• All'interno di quella popolazione di detenuti poli­ tici sempre più ampia, l'emergere del Partito della guer­ riglia di Senzani modificò inoltre in profondità i rapporti tra i militanti incarcerati appartenenti alle varie organiz­ zazioni armate di sinistra. In parallelo con la «campagna contro gli infami» (i «pentiti») che quell'organizzazione pose in atto all'esterno, anche nelle carceri essa inaugurò una prassi sistematica di schedatura, «processi» e «con­ danne» (anche a morte) contro militanti sospettati di aver collaborato con le forze di polizia o con la magistratura. Nei documenti dell'epoca e nelle più recenti testimo­ nianze di molti ex militanti si può cogliere quanto la vio­ lenza, l'ossessività e l'arbitrarietà di queste prassi abbiano contribuito a quella profonda desolidarizzazione dei mili­ tanti detenuti che accelerò lo stesso processo di dissocia­ zione9.

3.

Carcere e antiterrorismo

Nel corso degli anni Settanta e nella prima metà del decennio successivo l'istituzione penitenziaria svolse in tre momenti un ruolo decisivo nella strategia antiterroristica delle varie autorità dello stato. Ciò awenne in primo luogo nel corso del 1974, anno che vide la nascita di due nuclei antiterrorismo - il Nu­ cleo speciale di polizia giudiziaria guidato dal generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, e l'Ispettos Della Porta, Il terrorismo di sinistra, cit., p. 264. La ricerca ripor· ta dati inferiori a queiJa di altre fonti, ma rivela la frequenza degli ar­ resti, che si concentrano soprattutto nel 1980 e nel 1982. Per un'altra fonte si veda ad esempio: Aa.Vv., Progetto Memoria. La mappa perdu­ ta, Roma, Sensibili alle foglie, 1 994. 9 Si rinvia soprattutto a Il carcere speàale, cit. Cfr. anche le seguen­ ti memorie: S. Bussu, Un prete e i terroristi. Attraverso Badu 'e Ca"os un viaggio nel mondo dell'eversione, Milano, Mursia, 1 988; A. France· schini, P.V. Buffa e F. Giustolisi, Mara Renato e io: storia dei fondatori delle Br, Milano, Mondadori, 1 99 1 .

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rato generale per l'azione contro il terrorismo guidato dall'ex questore Emilio Santillo - con compiti largamente sovrapponibili, ma obiettivi e metodi confliggenti che provocarono a tratti un'aperta rivalità10• Il contesto car­ cerario entrò in questa storia in relazione alla cosiddetta «strage di Alessandria» del 9- 1 0 maggio di quell'anno: un tentativo di evasione dal carcere di quella città da parte di tre detenuti, accompagnato dal sequestro di personale penitenziario, che si concluse con l'intervento di un nu­ cleo di carabinieri comandato da Dalla Chiesa e con l'uc­ cisione dei sequestratori e di alcuni sequestrati. Si trattò di un avvenimento dal molteplice valore periodizzante: in carcere segnò l'avvio di una fase di repressione siste­ matica delle agitazioni dei detenuti che venne tra l'altro giustificata in sede politica e operativa anche attraverso l'evocazione di un'organizzazione armata in realtà mai esistita, avente il presunto nome di «Arancia meccanica»; all'esterno si collegò al sequestro Sossi posto in atto in quei giorni dalle Br e favorì così l'ascesa sul piano na­ zionale del Nucleo speciale di Dalla Chiesa, che si formò pochi giorni più tardi. Lo scioglimento nel 1 97 6 di entrambi i nuclei antiter­ rorismo ha fatto molto discutere commentatori e studiosi, rappresentando anche una delle presunte «prove» delle tesi dietrologiche che affollano la materia in questione. Esso determinò indubbiamente una dispersione di perso­ nale e conoscenze che non appare risolta dalla creazione dell'Ufficio centrale per le investigazioni e le operazioni 10 L' argomento è in realtà assai poco studiato, come in generale l'intera questione dell'organizzazione antiterroristica in Italia. Alcuni spunti sono nei già citati libri di Donatella della Porta e di Beatrice De Graaf. Pubblicazioni di taglio memorialistico-giornalistico sul­ la strategia antiterroristica del generale Dalla Chiesa sono V Morelli, Anni di piombo. Appunti di un generale dei Carabinieri, Torino, Sei, 1 988; P. Sapegno e M. Ventura, Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un caso aperto, Arezzo, Limina, 1 997; G. Armeni, LA strategia vincente del generale Dalla Chiesa contro le Bngate Rosse . . . e la mafia, Roma, Edizioni Associate, 2004 .

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speciali (Ucigos), avvenuta solo nel 1 97 8 insieme a quella del nuovo Nucleo speciale affidato ancora a Dalla Chiesa. Il vuoto operativo in questo secondo caso fu tuttavia solo parziale e a colmarlo intervenne soprattutto l'azione che il generale dei carabinieri portò avanti in quel biennio in relazione alla creazione e alla gestione delle carceri di massima sicurezza. Fu questo il secondo momento in cui l'istituzione penitenziaria assunse un valore decisivo nel farsi della strategia antiterroristica, ancora una volta m un intrecciarsi di motivi specificamente «carcerari» e di spinte provenienti dal quadro politico generale. Per l'amministrazione penitenziari a l'attivazione di carceri di massima sicurezza si legava originariamente all'esigenza di isolare i promotori delle proteste, delle ri­ volte e delle evasioni di massa sviluppatesi nel periodo 1 968-73 1 1 • Un primo progetto in questo senso venne ela­ borato all'interno della Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena nel 1 97 4, l'anno della svolta nell'atteggiamento repressivo dell'Amministrazione peni­ tenziaria rispetto al movimento dei detenuti. Il progetto individuava già allora alcune sedi e alcune caratteristi­ che strutturali degli istituti che vennero confermate nel luglio 1 977 quando, in un clima politico mutato anche dall'avanzare della prospettiva del «compromesso sto­ rico», si giunse all'istituzione di fatto del cosiddetto «cir­ cuito dei camosci». Per le nuove carceri di massima si­ curezza vennero così individuate le sedi di Cuneo, Fos11 Si fa riferimento qui a un livello puramente formale. Le «carceri di rigore», esistenti sin dall'Ottocento e ufficialmente abolite nell'im­ mediato secondo dopoguerra, avevano in realtà continuato a esistere anche oltre quella data, giocando un ruolo di primo piano nella re­ pressione delle proteste dei detenuti negli anni successivi al 1968. I modelli delle carceri di massima sicurezza che vennero istituite in Italia nel luglio 1977 provenivano dall'estero (Usa e Uk), dove erano stati sviluppati sin dagli anni Sessanta. Per un'imponante pubblicazio­ ne sull'architettura carceraria di quegli anni: Unsdri, Prison Architec­ ture. An lnternational Survey o/ Representative Closed lnstitutions and Analysis o/ Cu"ent Trends in Prison Design, London, The Architectu­ ral Press, 1 975.

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sombrone, Trani, Favignana e la diramazione «Fornelli» dell'Asinara; nel corso del 1 97 8-79 a esse si aggiunsero le carceri di Novara, Termini Imerese e Nuoro, la dira­ mazione «Agrippa» della casa di reclusione di Pianosa, il carcere speciale femminile di Messina e quello maschile di Palmi. Al momento dell'apertura delle prime cinque carceri speciali fu ancora l'esigenza interna all'amministrazione penitenziaria a prevalere: a essere trasferiti furono inizial­ mente soprattutto detenuti comuni politicizzatisi in car­ cere o comunque attivi nelle proteste, nelle evasioni e nei sequestri di personale penitenziario avvenuti negli anni precedenti. Lo stesso decreto interministeriale che segnò l'origine degli istituti di massima sicurezza attribuiva ai carabinieri la sola sorveglianza esterna delle carceri sopra menzionate. In realtà, le fonti archivistiche individuate e le memorie dei protagonisti evidenziano i pieni poteri assunti di fatto da Dalla Chiesa nell'individuazione degli istituti «speciali», nella definizione della loro ristruttura­ zione in funzione di un innalzamento del livello di sicu­ rezza e nella stessa decisione circa il regime detentivo da attuarsi in essi12• Le dettagliate circolari di Dalla Chiesa raggiungevano senza alcuna intermediazione i direttori delle carceri speciali, nell'intento di generalizzare le mi­ sure di sicurezza prese in altri istituti per prevenire eva­ sioni, atti di violenza e contatti con l'esterno; le risposte dei direttori costituivano per il generale la fonte di un ca­ pillare lavoro di intelligence finalizzato a comprendere le posizioni e i progetti delle varie organizzazioni armate e a utilizzare ogni divisione tra i singoli detenuti o gruppi di detenutP3• Il terreno carcerario giocò dunque un ruolo di 12 Con l'intento di colmare questo vuoto giuridico, nel gennaio 1 983 il giudice di sorveglianza Alessandro Margara e il senatore della Sinistra

indipendente Mario Gozzini provvidero alla stesura della prima bozza di quella che sarebbe diventata nel 1986 la legge Gozzini, dopo aver ampliato le sue finalità in virtù dell'apporto dei «dissociati». 11 Sul carcere come luogo dell'attività di inte/ligence cfr. De Graaf, 2 95

primo piano nei momenti decisivi dell'origine e del rilan­ cio dei nuclei antiterrorismo, contribuendo in entrambi i casi in maniera determinante al prevalere dell'opzione antiterroristica del generale Dalla Chiesa rispetto a quella legata alla Polizia di stato. Ancor ptu significativa appare poi la centralità dell'amministrazione penitenziaria rispetto al fenomeno della «dissociazione» dalla lotta armata che si sviluppò in alcuni ambiti della detenzione politica nei primi anni Ottanta. Vicenda tanto più rilevante, oltretutto, perché ne fu protagonista l'allora direttore generale delle car­ ceri, Niccolò Amato, che solo pochi anni prima era stato pubblico ministero in vari processi di terrorismo14• Fu lo stesso Amato a scandire la necessità di una svolta nella strategia antiterroristica: dopo la fase della lotta «duris­ sima e implacabile» contro le organizzazioni armate disse al principio degli anni Ottanta - era venuto il mo­ mento di avviare «una fase di pacificazione sociale, attra­ verso il recupero di tutti coloro che concretamente dimo­ strino di voler rientrare nel sistema e accettarne le leggi». L'azione delle autorità penitenziarie in rapporto al fe­ nomeno della dissociazione, che tecnicamente può essere Theater van de angst, cit., pp. 2 1 1 -2 1 5 . Un elemento di interesse ulte­ riore nello studio della strategia antiterroristica degli anni Settanta e Ottanta è dato dalla sua successiva applicazione alla strategia di lotta alla mafia. Tra antiterrorismo e antimafia la continuità è nelle persone (a cominciare dallo stesso Dalla Chiesa), nelle strutture (organizzazio­ ne di nuclei speciali operativi e di pool di magistrati) e nelle strate­ gie (in particolare quella dei collaboratori di giustizia). Una profonda continuità è data anche dal ruolo dell'istituzione penitenziaria e segna­ tamente dall'uso della carcerazione di massima sicurezza e, all'interno di essa, di livelli di ulteriore differenziazione («art. 90>> per i militanti delle organizzazioni armate, poi trasformato neU' art. 4 1 -bis per espo­ nenti della criminalità organizzata e recentemente esteso nuovamente al terrorismo internazionale e interno). 14 Citato in 11 carcere speciale, cit., p. 465 . Di Amato cfr. anche: Un pubblico ministero in Corte d'Assise. «L'attentato al Ponte/ice Giovanni Paolo Il», «Moro» e altri processi, Fasano, Schena, 1989; Diritto, delit­ to, carcere, Milano, Giuffrè, 1 987; Processo alla giustizia, Venezia, Mar­ silio, 1 994. 296

descritta come un'attività di counter-intelligence1', venne a marcare una profonda rottura rispetto alla strategia anti­ terroristica che contrapponeva staticamente la figura del «pentito» a quella dell' «irriducibile». Elemento centrale nella nuova strategia era infatti una flessibilità che affon­ dava le radici nella tipica prassi carceraria della differen­ ziazione e dell'individualizzazione, ossia nella gestione della massa dei detenuti attraverso la sua continua scom­ posizione e ricomposizione in gruppi più piccoli all'in­ terno della rete delle sezioni penitenziarie. Rispetto ai detenuti delle organizzazioni armate, già sul finire degli anni Settanta le autorità penitenziarie rup­ pero di fatto per via amministrativa il regime omogeneo imposto originariamente da Dalla Chiesa, procedendo a una specializzazione delle sezioni e degli istituti di mas­ sima sicurezza: c'era adesso ad esempio Palmi per soli detenuti politici e Ascoli Piceno per detenuti «comuni» pericolosi (lì viene recluso anche Cutolo); Fossombrone era meno rigido di Pianosa e soprattutto dell' Asinara, punto di massima repressione all'interno del circuito, so­ stituito nel 1 981 dal carcere nuorese di Badu 'e Carros. All'inizio degli anni Ottanta gli «irriducibili» vennero isolati nelle sezioni in cui era applicato il regime ulterior­ mente restrittivo previsto dall'art. 90 dell'Ordinamento penitenziario (quelle che essi chiamavano «braccetti della morte») 16; quelli in procinto di allontanarsi dalla logica della lotta armata vennero invece progressivamente con­ centrati nelle cosiddette «aree omogenee», dove il regime delle «celle aperte» e la presenza di sale comuni favoriva 11 Cfr. ad esempio su questo De Graaf, Theater van de angst, cit., p. 2 14 . 16 All'atto della sua prima emanazione, il lo gennaio 1984, esso venne applicato a 690 detenuti politici, 221 reclusi per motivi comuni, 205 appartenenti alla camorra e 24 a Cosa Nostra. Tale applicazione si protrasse almeno fino all'ottobre 1 984 nel carcere di Badu 'e Carros e nei cosiddetti «braccetti della morte» delle carceri di Ariano Irpino, Foggia e Torino. Per «Ordinamento penitenziario» si intende la legge 26 luglio 1 975, n. 354.

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il continuo scambio tra detenuti di varie organizzazioni e dove fitti erano i contatti con volontari, politici, magi­ strati e personalità del mondo della cultura provenienti dall' esterno17• Questo processo di «differenziazione nella differenzia­ zione» portò oltre tremila detenuti politici a beneficiare della «legge sulla dissociazione» approvata nel febbraio 1 987 , favorendo una rottura politico-culturale rispetto alla scelta della lotta armata ben più profonda ed estesa di quella del «pentitismo» stesso. Fu inoltre un percorso che, nel suo farsi, vide i dissociati dare un contributo de­ cisivo alla formulazione della «legge Gozzini» che nell'ot­ tobre 1 9 86 ridisegnò il mondo penitenziario italiano. 4 . Nota sulle fonti archivistiche carcerarie A corredo delle questioni sopra sollevate, e dunque delle piste di ricerca ipotizzabili, è utile fornire alcune considerazioni sulle fonti archivistiche relative alla que­ stione delle carceri. Nel trattare delle fonti d'archivio prodotte dall'Am­ ministrazione penitenziaria, bisogna innanzitutto riferire della grave situazione che caratterizza la conservazione e l'accessibilità degli archivi carcerari in Italia, ascrivibile a ritardi dell'autorità archivistica e soprattutto alla comples­ siva opacità dell'amministrazione penitenziaria italiana18• 1 7 Il primo segno visibile di questa strategia è dato dall'istituzio­ ne di fatto nel 1 982 di un'«area omogenea» all'interno del carcere di Roma-Rebibbia. L'istituzione formale delle «aree omogenee» (Torino­ Le Vallette, Roma-Rebibbia, Bergamo, Firenze-Sollicciano) avvenne con atto amministrativo della fine del 1983. Per una testimonianza sull'esperienza nelle aree omogenee cfr. S. Segio, Una vita in prima linea, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 209-285. Per la riflessione di Mario Gozzini cfr. M. Gozzini, Carcere perché carcere come: Italùz, 1 975- 1 987, Firenze, Cultura della pace, 1 988; M. Gozzini, Lz giustizia in galera? Una storia italiana, Roma, Editori Riuniti, 1 997. 18 Oltre che dall'esperienza personale di ricerca, le considerazioni che seguono derivano dal quadro emerso nel corso dell'incontro su-

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A livello centrale, la documentazione della Direzione generale delle carceri risulta versata all'Archivio centrale dello stato (Acs) limitatamente al periodo 1 865 - 1 925 e per il periodo 1 943 -45 con riferimento alle sole carceri della Repubblica sociale italiana. Per il resto, il materiale della Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena è conservato tuttora presso la sede centrale dell'attuale Dipartimento dell'amministrazione penitenzia­ ria (Dap) a Roma, sostanzialmente inaccessibile agli stessi funzionari dell' Acs. L'allora ministero di Grazia e giusti­ zia è stato del resto l'unico dicastero che non ha parte­ cipato nel 1 993 al censimento degli archivi di deposito dei ministeri e presso di esso risultano costituite solo un numero limitato di Commissioni di sorveglianza sugli ar­ chivi, delle quali quella sul Dap limita la sua competenza al materiale dell'Ufficio del capo dipartimento e dell'Uffi­ cio delle relazioni col pubblico. La mancata formazione delle Commissioni di sorve­ glianza segna negativamente anche la situazione locale. Nella maggior parte dei casi gli archivi penitenziari, tal­ volta anche relativamente al periodo ottocentesco, re­ stano tuttora conservati all'interno delle carceri stesse e non vengono dunque versati agli Archivi di stato com­ petenti secondo quanto previsto invece dalla legislazione vigente. In molti casi la documentazione giace così ac­ catastata in locali inadatti alla sua conservazione e non di rado viene «scartata» senza alcun criterio di tipo sto­ rico-archivistico. Questa situazione relativa alla conservazione della dogli archivi carcerari tenutosi il 18 novembre 2010 presso la Sala Ca· duti del Lavoro della Provincia di Bologna. Vi hanno partecipato tra gli altri la storica Monica Galfré, la funzionaria dell'Archivio centrale dello stato responsabile per i fondi del ministero della Giustizia, Cate· rina Arfé, e alcuni responsabili e funzionari archivistici della Regione Emilia-Romagna. La situazione degli archivi carcerari è decisamente migliore, ad esempio, in Francia, Gran Bretagna e Belgio, anche per effetto del maggior interesse mostrato dagli storici per la tematica car­ ceraria (per quanto quasi mai in relazione al fenomeno della lotta ar­ mata). 299

cumentazione accentua evidentemente le difficoltà nell'ac­ cesso alle fonti stesse. Poiché esse si trovano ancora all'interno di strutture afferenti al Dap, risulta necessaria la richiesta di autorizzazioni aggiuntive per l'accesso a esse, ciò che aumenta la discrezionalità delle autorità pe­ nitenziarie19. A fronte di questo panorama desolante vale la pena comunque di indicare tre casi in cui le fonti risultano consultabili presso gli Archivi di stato, anche per sotto­ linearne la ricchezza rispetto allo studio del fenomeno della lotta armata e delle strategie antiterrorismo negli anni Settanta e Ottanta. • Fondo «Direzione degli stabilimenti di pena» presso l'Archivio di stato di Firenze. Fondo non inventariato di

237 buste relativo all'Ispettorato distrettuale degli Istituti di prevenzione e di pena con sede a Firenze. La docu­ mentazione copre il periodo dal 1 966 al 1 980 e riguarda le carceri site nella zona di competenza della Corte d' Ap­ pello di Firenze (Toscana, Umbria e per periodi più limi­ tati M arche ed Emilia-Romagna). Il materiale è ordinato per istituto penitenziario, tranne circa trenta buste «tema­ tiche» che conservano le circolari ministeriali e dell'Ispet­ torato distrettuale e le relative risposte delle singole dire­ zioni carcerarie. Nelle buste ordinate per carcere è possibile rintracciare informazioni su episodi di protesta o su singoli detenuti politici, sia prima che dopo l'istituzione delle carceri spe­ ciali. Sono particolarmente interessanti le buste relative agli istituti «punitivi» di Volterra, Porto Azzurro e San Gimi­ gnano, nonché quelle sulla casa di reclusione di Pianosa dopo l'istituzione della sezione speciale nel 1978. Le buste tematiche sono estremamente significative per le notizie sulle misure di sicurezza adottate nei singoli 19 I Provveditorati regionali dell'Amministrazione penitenziaria (Prap) sono competenti per la concessione delle suddette autorizzazio· ni e ai Provveditori vanno quindi inviate le richieste.

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IStituti m relazione alle evas10m o alla presenza di dete­ nuti «pericolosi». • Fondo «Casa circondariale di Torino Le Nuove» presso la sede succursale dell'Archivio di stato di Torino (via Piave). Fondo parzialmente inventariato compren­

dente alcune centinaia di buste relative alla Casa circon­ dariale di Torino «Le Nuove». La documentazione relativa alla seconda metà degli anni Settanta e all'inizio degli anni Ottanta è assai signi­ ficativa perché rende l'idea di un carcere continuamente bersaglio delle azioni terroristiche e scosso in permanenza dalle mobilitazioni interne dei detenuti politici. Sono con­ servati anche i telegrammi ricevuti dalla direzione del carcere in occasione della morte degli agenti di custodia Lorenzo Cotugno, Salvatore Lanza, Salvatore Porceddu e Giuseppe Lorusso. Importante anche la documentazione relativa alle mi­ sure di sicurezza prese dalla direzione carceraria attra­ verso specifici ordini di servizio, che configurano di fatto l'esistenza di una sezione speciale già prima del luglio 1 977, in concomitanza con l'arrivo degli imputati del nu­ cleo storico brigatista in uno dei primi processi di lotta armata. • Fondo «Altavista» presso la sede succursale dell'Ar­ chivio di stato di Roma (via Galla Placidia). Raccoglie in

alcune centinaia di buste il materiale conservato dal diret­ tore generale delle carceri Giuseppe Altavista, per lo più relativo al periodo di fine Ottocento e inizio Novecento. Utili per lo studio del fenomeno della lotta armata e dell'antiterrorismo sono invece le buste nn. 98, 1 24, 1 25 e 1 27 . Queste conservano la documentazione relativa alle case circondariali di Roma-Regina Coeli (n. 98 ) e di Na­ poli-Poggioreale (n. 1 24 ) per gli anni 1 975-77 , attestando il clima peculiare di quel periodo compreso tra l'inizio del dispiegarsi dell'azione delle organizzazioni armate e l'istituzione delle carceri di massima sicurezza. Le buste n. 1 25 e n. 127 conservano documenti di 301

fondamentale importanza per comprendere il processo di selezione, istituzione e gestione delle carceri speciali. Accanto a queste fonti «ufficiali» è senza dubbio utile consultare quelle formate dai protagonisti dell'intervento sul carcere, fossero essi politici, attivisti di gruppi extra­ parlamentari e collettivi esterni o esponenti delle organiz­ zazioni armate20. Sull'intervento in carcere da parte della sinistra extra­ parlamentare sono ad esempio particolarmente importanti il fondo del Soccorso rosso militante conservato presso l'Ar­ chivio del Collettivo teatrale Fo-Rarne di Milano e il fondo privato di !rene Invemizzi, esponente di spicco della Com­ missione carceri di Lotta continua. Questa documentazione permette anche di cogliere l'atteggiamento della «Nuova si­ nistra» di fronte all'emergere dei gruppi di lotta armata nei decisivi anni 1 974-75 , passaggio che può essere valutato da un punto di vista interno alle carceri attraverso le fonti con­ servate nel fondo «Di Marco-Voltaggio» presso l'Archivio Marco Pezzi: si tratta infatti di documenti versati da Sante Notarnicola, dapprima punto di riferimento della stessa Commissione carceri di Lotta continua e successivamente transitato attraverso i Nap nelle Brigate rosse. Sull'origine del processo di dissociazione e sulla tes­ situra politica all'esterno delle carceri è un riferimento importante il fondo «Mario Gozzini» versato presso l'Isti­ tuto Gramsci Toscano (Firenze) . Vi sono conservate an­ che le lettere del senatore della Sinistra indipendente ad alcuni detenuti politici ristretti nelle aree omogenee, se­ gnatamente in quella della Casa circondariale di Firenze­ Sollicciano. Sulla fitta rete di contatti interno-esterno che si mosse attorno alla dissociazione è importante anche la consultazione del fondo «Ernesto Balducci»21, sempre 20 Una pane delle fonti citate di seguito nel testo sono consultabili presso chi scrive, in versione fotocopiata o digitale. 21 Su questo cfr. in panicolare: M. Galfré, Ba/duca; la dirsocia1.ione

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con riferimento al carcere fiorentino, e, soprattutto per l'area omogenea di Roma-Rebibbia, la documentazione privata conservata da Mauro Palma, negli anni conside­ rati esponente del Centro di documentazione sulla legisla­ zione d'emergenza.

dal te"orismo e il carcere, in B. Bocchini Camaiani, M. Galfré e N. Silvestri (a cura di), Percorsi di archivio. L'archivio di Ernesto Balducci, Brescia, Morcelliana, 2005 . 303

G UIDO PANVINI SCHEDARE IL NEMICO. LA MILITARIZZAZIONE DELLA LOTTA POLITICA NELL'ESTREMA SINISTRA ( 1 969-75 ) l.

schedatura degli avversari politici come strumento di lotta polttica

La

Nel luglio del 1 954, sul mensile «Pace e Libertà» fu­ rono pubblicati alcuni resoconti di presunte riunioni de­ gli organi dirigenti delle federazioni del Partito comunista delle città di Milano, Genova, Firenze e Roma. «Pace e Libertà» era un periodico anticomunista fondato nel 1 953 da Edgardo Sogno, uno dei capi militari della Resistenza durante la guerra di Liberazione, che nel secondo dopo­ guerra divenne il principale punto di riferimento per gli ambienti dell'intransigentismo atlantico1• Negli anni Ses­ santa e Settanta, Sogno divenne poi il terminale di cospi­ razioni e complotti volti a rovesciare le istituzioni repub­ blicane2. Le notizie pubblicate, in realtà, provenivano dai Comitati di vigilanza democratica, un raggruppamento politico che si era proposto di fronteggiare l'influenza delle sinistre nella società, denunciandone la supposta at­ tività sovversiva'. L'inchiesta riguardava l'attività di proQuesto contn'buto riprende i nsultati di alcune mie n'cerche pubblica· te in Alle origini del terrorismo diffuso. La schedatura degli avversari politici negli anni della conflittualità. Tracce di una fonte ( 1 969- 1 980), in «Mondo contemporaneo», n. 3, 2006, e Ordine nero, guerriglia ros­ sa. La violenza politica nell'Italia degli anni Sessanta e Settanta ( 1 9661 975), Torino, Einaudi, 2009. 1 Cfr. il libro/intervista di A. Cazzullo, Testamento di un anti-comu­ ntsta. Dalla ResiStenza al golpe bianco, Milano, Mondadori, 2000. 2 Sulla storia di Pace e Libenà - e dell'omonima rivista - e i proget­ ti golpisti di Sogno cfr. l'inchiesta di G. Flamini, l pretoriani di Pace e Libertà. storie di gue"a fredda in Italia, Roma, Editori Riuniti, 2001 . ' Cfr., ad esempio, «Pace e libertà» vigila all'interno del Pci, in «Pace e Libenà», II, n. 9, 1 954.

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paganda dei comunisti nelle fabbriche e nelle caserme delle forze armate italiane e si concludeva con la pubbli­ cazione dei nominativi degli ufficiali accusati di essere dei «collaborazionisti sospetti»4• L'antagonismo politico e ideologico che segnò la na­ scita dell'Italia repubblicana, in particolar modo dopo la forzata uscita delle sinistre dal governo nel 1 947 e in occasione delle elezioni politiche del 1 948, fornì a settori circoscritti del mondo politico e della società italiana la giustificazione per l'attuazione di pratiche eversive e ille­ gali che ebbero come corollario la schedatura e la dela­ zione degli avversari politicP. Queste prassi sono riconducibili al particolare clima di tensione che seguì la fine della guerra di Liberazione e allo strascico di guerra civile che si protrasse dopo la conclusione delle ostilità6• La predisposizione di molte­ plici forme di controllo nei confronti dei cittadini, tut­ tavia, ha radici lontane e può essere fatta risalire, addi­ rittura, all'istituzione del Casellario politico centrale, vo­ luto da Crispi, tra il 1 894 e il 1 896 , per il controllo degli oppositori politici. Con la costituzione dello schedario dei sovversivi si formò un meccanismo organico di sche­ datura, perno dell'apparato di controllo crispino e della successiva struttura repressiva fascista7• Negli anni della repubblica, le attività del Casellario politico centrale con­ tinuarono, come hanno dimostrato numerose fonti rac­ colte recentemente dagli storici, nonostante l'assenza di • Segna/azioni dei nostri comitati di vigilan1.1l democratica, in «Pace e Libertà», Il, n. 7, 1 954. ' Sull'instaurazione di tale clima e sul pericolo dello scoppio di una nuova guerra civile cfr. E. Bernardi, La Democrazù1 cristiana e la guer­ ra fredda ( 1 94 7· 1 950): una selezione di documenti inediti, in Ù.ma·•ptnllo iii