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Italian Pages 404 Year 1990
Stefano Tani
Il romanzo di ritorno
Dal romanzo medio degli anni sessanta. alla giovane narrativa degli anni ottanta
Civiltà Letteraria
del Novecento Mursia
CIVILTÀ LETTERARIA DEL NOVECENTO : Profili - Saggi - Testi
Direttore: GIOVANNI GETTO
Condirettori: G. BÀRBERI SquaroTTI, E. SANGUINETI it *
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Stefano Tani
IL ROMANZO DI RITORNO Dal romanzo medio degli anni sessanta alla giovane narrativa degli anni ottanta
Mursia
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a mia madre
PREMESSA
Sono già alcuni anni che si parla di «giovane narrativa » e la definizione, di per sé non particolarmente originale, con la durata sempre più ridotta di fenomeni e mode a cui i mass media ci hanno abituato risulta oggi già consunta, quasi una vaga forma di irrisione nei confronti di un nutrito gruppo di autori fra i trenta e i quarant'anni, e ormai anche oltre, che da essa viene
identificato. Se l’arte è sempre più lunga, più difficile da raggiungere, la vita delle etichette si fa sempre più breve, eppure il termine « giovane narrativa » risorge generazionalmente.! Al-
l’inizio degli anni ottanta è sembrato particolarmente appropriato per suggerire svecchiamento e cambiamento in una situazione statica in cui poco di nuovo era accaduto, letterariamente, dai tempi del Gruppo 63. Ovviamente c’erano stati casi isolati e indubbiamente di valore (D'Arrigo, Consolo, La Storia di Elsa Morante), ma niente che potesse essere ricondotto a fe-
nomeno collettivo, ad un più generale e non effimero Zeitgeist; per quasi due decenni è mancata un’apprezzabile nuova tendenza identificabile con un preciso gruppo di scrittori. Semmai, paradossalmente, in un momento di grandi rivolgimenti sociali e politici si è realizzato il consolidarsi discreto di un romanzo medio, ad opera di una schiera di autori dignitosi, di notevole mestiere, che erano stati i « giovani narratori » degli anni cinquanta. È cosi che gli anni sessanta e settanta sono gli anni di Cassola, Arpino, Prisco, Castellaneta, e di molti altri scritto-
ri dalle tirature da oltre centomila copie. Con la fine degli anni settanta, quando gli strumenti della rilevazione statistica e della
sociologia della letteratura mettono in evidenza il fenomeno dell’industrializzazione editoriale, si comincia a parlare di scuderie letterarie, di politica del best-seller e di romanzo medio.” Ci si può allora domandare che cosa c’è di nuovo nella « giovane narrativa » degli anni ottanta e se tale definizione riflette davvero una tendenza omogenea e identificabile con un preciso gruppo di scrittori. Innanzitutto questa degli anni ottanta è una narrativa « giovane » perché ricca di esordienti, di presenze nuove, ma anche perché, come si è detto, molti degli autori emersi recentemente sono scrittori fra i trenta e i quaranta. Per cui, nonostante le cautelative virgolette, questo termine giovane narrativa è in
z
effetti una denotazione in gran parte accurata anagraficamen-
te a cui si può ricorrere ancora una volta come generico espe-
diente referenziale. Con alle spalle un’industria editoriale matura e smaliziata che li guida, cresce e pubblicizza, i giovani narratori usufruiscono di una memoria culturale che gli anni settanta avevano rifiutato in nome della rivoluzione antiborghese, e coltivano e giocano il loro pubblico con accorta teatralità. Ai nostri giorni, in termini di mode e orientamenti, si brucia nello spazio di
un anno ciò che in questo secolo fino agli anni cinquanta si digeriva si e no in un decennio. È per questo che l’effimero fin dall'inizio deve avere, per durare anche il poco che dura, l’apparenza dell’autorevole, e scrittori al loro secondo romanzo ri-
cevono già, dalla stampa recensoria e dalla critica giornalistica, l’attenzione e lo spazio un tempo dedicati al romanziere affermato. Il fenomeno complessivo della giovane narrativa, che rimane essenzialmente un effetto di scelta editoriale (ci sono sempre state miriadi di aspiranti esordienti, semplicemente ora gli editori ne pubblicano molti di più), attraverso il getto continuo dei nuovi autori stampati viene fatto passare come straordinaria ricchezza creativa del decennio, fenomeno duraturo e
quindi degno di attenzione, peculiare « movimento narrativo » dei nostri anni. In realtà si ha a che fare con qualcosa che è in sé molto poco omogeneo e di creazione primariamente pubblicitaria, e il cui successo registra semmai la cesura che si è sentita, prima di tutto politicamente e socialmente, fra gli ideologici e turbolenti anni settanta e i consumistici e disincantati anni ottanta.
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Chi scrive deve quindi operare su due binari: da una parte offrire onestamente una trattazione dei giovani autori quanto possibile vasta ed esauriente, ma avere il coraggio, o l’incautela, di distinguere e di scommettere esplicitamente su certi nomi piuttosto che su altri; dall'altra ricostruire il background sto-
rico dell'intero fenomeno per valutarne in prospettiva la pretesa novità. La via scelta per tracciare un panorama ragionato
della narrativa degli anni più recenti passa attraverso una riconsiderazione di come gli anni sessanta abbiano preparato un modello influente di romanzo medio che in parte permane ancora oggi. Sarà ricostruito a grandi linee un percorso di tale romanzo e degli esperimenti che, a partire dal Gruppo 63, hanno cercato di uscire dal suo solco; si delineerà cosî un avvicendarsi e convivere di esperimento e consumo nel romanzo ita-
liano, dagli anni sessanta fino ai nostri giorni. Come le permanenze di elementi del romanzo medio sono oggi riscontrabili nelle opere di molti giovani narratori, cosi anche quelle istan-
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ze di rinnovamento e di apertura che gli si opposero negli anni sessanta e settanta ricompaiono sviluppate e trasformate nel: le loro prove. Nonostante gli elementi di novità che possiamo trovarvi, il romanzo di questa nuova generazione si presenta dunque sotto il segno del ritorno alle convenzioni: ritorno dall'ideologia all'autonomia dei valori letterari, ritorno dall’estremismo progettuale alla leggibilità, ritorno dall’idea di una letteratura come provocazione permanente al riconoscimento di una funzione anche sofisticatamente consolatoria del raccontare. Il risultato è un adattamento conciliatorio di motivi del romanzo medio e di quegli attacchi contro di esso collocabili fra il'63 e i tardi anni settanta: un «romanzo di ritorno » in equilibrio fra sperimentazione e mercato per indole e per vocazione generazionale. Senza la tipica cattiva coscienza degli epigoni o il complesso di inferiorità dei minori, questa giovane narrativa si propone negli esiti più felici come ripensamento non ingenuo sulle difficili e spesso fallite vie alternative del romanzo. Il livello di consapevolezza ovviamente varia con la qualità e gli intendimenti dell’autore ma, come si vedrà, certe propensioni già presagite o presenti nella narrativa dei due decenni precedenti, nel romanzo medio come nelle deviazioni da esso,
riaffiorano o si precisano con una puntualità che non può essere casuale. Non vi sono comunque solo ritorni di tendenze, ma anche orientamenti e aggregazioni trasversali: attorno ad essi levita l'aura sfumata di un nuovo che, almeno per ora, non è
né effettiva innovazione strutturale né rivoluzione tematica ma piuttosto gusto, atteggiamento, risonanza dell’epoca nel discorso narrativo.
NOTE 1 Si ricordi il saggio di Gaetano Mariani, La giovane narrativa italiana tra documento
e poesia, Firenze, Le Monnier,
1962.
2 Cfr. Gian Carlo Ferretti, Il mercato delle lettere. Industria culturale e lavoro critico in Italia dagli anni cinquanta ad oggi, Torino, Einaudi, 1979.
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ciesa Gite
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1.- IL ROMANZO
MEDIO E IL MICROCOSMO
(da Cassola a Bevilacqua e Pontiggia)
«Diciamo che esistono in Italia nove dieci narratori che raccontano la loro terra; possiamo fare una mappa, molto importante devo dire, dal Piemonte alla Sicilia, di narratori le-
gati a una verità che hanno cercato di descrivere. Ebbene, questi narratori hanno avuto un seguito di lettori, ce l'hanno. Perché? Perché hanno cercato di interpretare una certa Italia » (ALBERTO BEVILACQUA, « Successo e solitudine »).
Si parla ormai da anni di romanzo medio come, più recentemente, si è cominciato a parlare di giovane narrativa. Come per que-
st’ultima, anche al termine-raccoglitore di romanzo medio si ricorre con la più o meno esplicita insoddisfazione o malcelata condiscendenza critica che tocca in sorte ai concetti troppo elastici o troppo comprensivi per ammettere una precisa delimi-
tazione di campo. Eppure « romanzo medio » è un termine indispensabile, dietro il quale si disegna una cospicua sezione di storia culturale italiana degli ultimi decenni. Di primo acchito « romanzo medio » richiama l’idea del tipo di romanzo più diffuso, tradizionale, e tradizionale e diffuso perché incarna la quintessenza di ciò che il romanzo deve essere,
o ci si aspetta che sia. Ovviamente il romanzo medio non spicca per le sue caratteristiche, non si fa notare, appare equilibrato e naturale nella sua struttura, nel suo linguaggio, nei suoi contenuti, aspira a realizzare un’idea atemporale di bello scrivere e buon raccontare; è insomma, senza essere un inarrivabile ca-
polavoro, un « romanzo di qualità », secondo una felice espressione di Gian Carlo Ferretti.! D'altra parte si annida nell’espressione una connotazione meno positiva non appena si accentui, nell’idea di misura e buon gusto, l'aspetto normativo e standardizzante, con i suoi corollari di banalità, limitatezza, ripetitività, cosi facili a verificarsi
in una produzione narrativa ipertrofica come quella che l’odierna industria editoriale sollecita. Il romanzo medio italiano negli anni sessanta e settanta — tutt'altro che a-storico e puramente letterario, naturalmente,
ma che in un certo senso si voleva tale — è passato attraverso
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questa ambivalenza, e il termine si è progressivamente consu-
mato perdendo valore: da indicazione di apprezzamento per un
prodotto ben fatto a sufficiente e sommaria classificazione di
corriva mediocrità. In un’analisi della giovane narrativa degli anni ottanta, il romanzo medio si trova a svolgere il ruolo particolare dello sfondo antagonistico, del vecchio continente oltre il quale si guardava da anni con crescente insofferenza alla ricerca di sponde ulteriori; è grazie ad un battage pubblicitario che ha puntato su questa usura ed insofferenza che si sono salutati i giovani narratori come un nuovo e promettente territorio. Pur senza la pretesa di ricostruire l’intera storia del romanzo italiano dal sessanta a oggi, sarà opportuno dunque delineare con minore
grossolanità la fisionomia della tradizione da cui emerge e — se si deve dare retta alle voci correnti — si differenzia la giovane narrativa.
Anche se per il lettore non specialista il romanzo medio è definito dalle categorie « universali » che elencavo sopra, ed ha quindi un'identità molto lasca e generica, non è difficile precisare la data di nascita e la paternità di una sua specifica tradizione italiana seguendo la parabola di esaurimento del neorealismo. Nato spontaneamente come reazione a vent'anni di retori-
ca letteratura di propaganda e di regime, il neorealismo era narrativa-documento, romanzo-verità che toglieva lo scrivere
ai letterati e lo restituiva come forma di espressione alla gente comune che aveva vissuto e sofferto negli anni del fascismo e della guerra. Proprio perché fatto programmaticamente antiletterario, la produzione neorealista era spesso artisticamente
non convincente ma al contempo caratterizzata da un’insolita e attiva fiducia nel presente e nel futuro. Nella vita del paese infatti questo è il momento della solidarietà civile e della cooperazione parlamentare dettate dalla necessità e dall’entusiasmo della prima ricostruzione, e il neorealismo vero dura lo spazio di quella necessità e di quell’entusiasmo. Alla fine degli anni quaranta, con il venir meno dell'emergenza, prevalgono le divergenze politiche, che scadono presto in gretto gioco particolare. L'ottimismo lascia il posto ad una progressiva disillusione e le stesse tematiche del neorealismo, dal resoconto delle proprie esperienze durante la guerra a quello del reinserimento nella vita civile, si dimostrano presto superate, parte di una storia collettiva conclusa; intanto, silenziosamente, la vecchia con-
sorteria letteraria, dai premi all'antica dignità dello scrivere, si riforma e consolida con la svolta conservatrice degli anni cinquanta. 14
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È da questa progressiva restaurazione che nasce quello che è oggi conosciuto come romanzo medio. Già Alberto Cadioli? ne ha con grande lucidità illustrato le tappe: dal neorealismo militante di fine anni quaranta al vuoto letterario degli anni cinquanta, fino ai tre best-seller del boom economico. Il Gattopardo (1958), La ragazza di Bube (1960), Il giardino dei Finzi-Contini . (1962) stabiliscono il tono e l’orizzonte di tutto il romanzo medio a venire: impossibilità del cambiamento storico, elegia e ripiegamento intimista, frantumazione dei tempi eroici in un vile presente di ritorno all'ordine, nostalgia del passato come vero tempo dell’esistere, dignità superiore della memoria sull’azione. Soprattutto, con il loro successo, suggeriscono ad un’editoria che sta vivendo il momento di passaggio dalla fase artigianale a quella industriale quali sono gli autori e i romanzi da incoraggiare e crescere. I grandi editori capiscono che i tempi del romanzo-verità e del romanzo-documento, aspri e colloquiali, sono ormai finiti e che i tre best-seller provano come esista già una tendenza di ritorno alla prosa letteraria, ad una narrativa che elabori una propria riflessione privata (si pensi al Bassani delle Cinque storie ferraresi o al Cassola di La ragazza di Bube) su ciò che per il neorealismo era necessariamente oggetto di cronaca pubblica e immediata, o che addirittura dimentichi gli anni della guerra come esperienza già sufficientemente assorbita e esorcizzata, per trovare altrove, in un tem-
po più remoto o più vicino, comunque meno arduo, il suo ma-
teriale. Inoltre, per cause che si possono concisamente riferire al boom economico (approssimativamente 1959-1963) e all’ansia di promozione sociale di chi con esso sta migliorando la sua posizione, c'è un pubblico potenziale ormai più vasto per la lettura, come i best-seller da centomila copie e oltre dimostrano, ed
è alla conquista permanente o per lo meno continuata di questa fascia di lettori occasionali che la grande editoria mira. Quindi nuovi toni, nuovi contenuti e nuovi lettori, e tutto all’inse-
gna di posizioni che non sono più di rottura, come fu per il neorealismo, ma di conciliazione, di ritorno ad uno status quo e ad un equilibrio che si identifica immancabilmente con un concetto di medio. Genericamente media — nella sua ripetizione di situazioni e di temi « disimpegnati » e certe volte apertamente conservatori — è anche l'ideologia del romanzo che dai primi anni sessanta agli anni ottanta passa dalla celebrazione, se pur elegiaca, del periodo dell’antifascismo e della resistenza ad uno scettico qualunquismo, o alla rigorosa assenza di ogni messag-
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gio politico. Intanto il lettore stesso è ben consapevole della accattivante leggibilità di queste opere, caratterizzate da un bello scrivere non impegnativo, che sta fra il parlato cronachistico del neorealismo e la preziosità e la complessità sintattica della prosa d’arte. Il romanzo medio, non necessariamente nelle prime ma senz'altro nelle successive prove di scrittori come Cassola, Chiara, Bevilacqua e Arpino, è stato scritto per piacere ad un pubblico non più ristretto seppure non di massa, appunto a una fascia allargata di lettori che si è venuta a creare con la nuova prosperità del miracolo economico e la migliore scolarità ed istruzione del secondo dopoguerra. Fra scrittori come Cassola e Chiara, che pubblicavano a scadenze quasi annuali, e il lettore medio c’era una specie di patto di fedeltà reciproca, un impegno a piacersi rispettando regole del gioco che implicano, dalla parte dello scrittore, un intrattenimento dignitoso e gradevole (e con un repertorio di precise caratteristiche di contenuto che ora esamineremo) e da quella del lettore appunto un acquisto continuato e sempre più automatico di un tipo di romanzo che « fa cultura » e che offre una visione del mondo convenzionale e rassicurante.? Si vede bene insomma come una industria editoriale in perfetta sintonia coi tempi riesca a creare un prodotto che è insieme di qualità e di consumo attraverso la ricerca di un equilibrio tra fattori diversi. Non è altro che l’inizio della nuova strategia dell’«esclusività di massa » che si è venuta chiarendo, per ogni prodotto voluttuario, in questi ultimi anni (cfr. II.1.). Fra tratti ricorrenti di tono e ideologia, linguaggio e struttura, autori e pubblico, già si delinea un’identità del romanzo medio e del suo significato nel panorama culturale degli anni sessanta e settanta. Ma è possibile rintracciare un complesso di risonanze e affinità ancora più puntuali nella nutrita serie di romanzi che si pubblicano in questi due decenni analizzando le ambientazioni e i temi in essi privilegiati. Ne risulterà una serie di dati che costituisce un paradigma essenziale del medio, una serie di caratteristiche comuni che un gruppo di autori diversi condivide. Si badi bene, si tratta di caratteristiche comuni, non di una formula comune, ma è proprio specificando . ulteriormente queste caratteristiche che ognuno di questi autori arriva appunto a quella sua personale formula narrativa che gli consente una produzione continuata, qualitativamente soddisfacente e fedele al suo pubblico. Primo degli elementi di aggregazioni di questa linea narrativa Arpino-Bevilacqua-Camon-Cassola-Castellaneta-ChiaraPrisco-Sgorlon-Soldati-Tobino-Tomizza etc. è la presenza del microcosmo. Il romanzo neorealista abbracciava spesso scenari
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ampi e diversi quanto i teatri della guerra di liberazione, gli itinerari dei reduci, i pellegrinaggi degli sfollati, gli spostamenti dei partigiani, i luoghi di molteplici esperienze. Al suo sostanziale ottimismo e alla sua energia corrispondeva una spazialità aperta e mossa. Il romanzo medio, nato da una situazione di crisi e di ripiegamento, riduce drasticamente lo spazio a spazio di stasi, di ritorno, di inazione, al luogo della memoria che
è spesso la provincia o la campagna natale dell’autore-narratore. Col restringersi dell'entusiasmo si restringe anche l’ambientazione narrativa, a testimoniare un ritorno a posizioni di cono-
scenza non avventurosa, limitata all’interrogazione di ciò che
già si sa perché conosciuto da sempre. Non è un caso che questi microcosmi aspirino spesso a divenire metafore esistenziali, condensazione esemplare e pregnante di un mondo più vasto. Questa restrizione spaziale ha almeno due spiegazioni, una contingente ed una ricorrente. Il mondo provinciale e agrario del microcosmo è proprio ora, negli anni sessanta e settanta,
sottoposto all’attacco dell’industrializzazione, dei mass media, e dell’omogeneizzazione culturale e linguistica e, minacciato, si ritira in se stesso, cerca nella celebrazione dei propri valori attraverso i suoi scrittori le sue radici e le sue ragioni per continuare ad esistere; ma la narrazione diviene subito memoria
e si colora di pietas per ciò che è già irreparabilmente trascorso e perduto. Più ampiamente, si può dire che il romanzo italiano ha sempre avuto una forte componente regionalistica, dal verismo ai molteplici esempi di bozzettistica locale e, dopo il momento aggregante del neorealismo e della ricostruzione, queste tendenze centrifughe, in fondo espressione di un'Italia preunitaria che continua ad essere mille Italie, rifioriscono con la
crisi civile e involuzione conservatrice. Gli scrittori del romanzo medio nel raccontare la loro terra sembrano attingere l’esperienza e l'ispirazione primigenie del proprio mondo creativo, e non a Caso attraverso di essi si può ricostruire quella map-
pa di molte Italie regionali menzionata da Bevilacqua: Soldati e Arpino per il Piemonte, Castellaneta per la Lombardia, Camon per il Veneto, Sgorlon per il Friuli, lo stesso Bevilacqua per l'Emilia, Cassola e Tobino per la Toscana, Prisco per la Campania, e cosi via.
In tempi di industria editoriale la lingua di questi scrittori non può non essere un italiano medio e accessibile che essi appunto contribuiscono a costruire e a diffondere; ma dietro a questo italiano — che ha comunque per ognuno precise idiosincrasie e connotazioni stilistiche — emergono spesso spie di costrutti parlati, affiorano consapevoli lacerti in corsivo di dialetto quando il colloquio fra personaggi si fa più intenso e emotivo. 17
Come se questi scrittori volessero ricordarci che sotto il roman-
zo ben scritto e ben fatto c'è un racconto non meditato, non scrit-
to; ma orale, che è quello che si fa ai propri intimi e famigliari nella lingua del paese natale e che fornisce il sostrato essenziale e il tono primario al resoconto ufficiale che viene poi porto in bell’italiano a noi lettori. Anche questa lingua, tagliata perché su di essa un’altra più omogenea e commerciabile possa essere innestata, è prova di una matrice privata ed affabulatoria — fatta di voglia di raccontare — del romanzo medio, che è romanzo fisico, umorale, terragnolo, fatto di cose e di persone,
di passioni e di interessi concreti come la provincia, la cosiddetta « parte sana del paese ». (Dove il sano non deve però esser visto come connotazione morale ma piuttosto antintellettualistica, apertamente corporale e pratica nella sua quotidianità dimessa, come è appunto in tanta narrativa di Cassola, Chiara,
e Bevilacqua.) Il romanzo medio registra quindi un intimo paradosso: il mondo che descrive è fatto di fisicità e di concretezza, di « presenza delle cose », ma è proiettato il più delle volte nel passato, o distanziato attraverso qualche altra forma di filtro, che lo sottopone a processi di mitologizzazione. Il microcosmo assediato infatti guarda al suo passato per giustificare e vivificare il suo presente; e sono gli anni della forzata fioritura provinciale e agraria del fascismo, gli anni trenta, quelli preferiti da un narratore medio esemplare come Chiara. Anni di stasi, in cui la Storia arriva in paese come un'eco attutita e il regime stesso sembra benigno e bonario; i riti della vita di provincia appaiono eterni e rassicuranti, e insieme oscuramente minacciati da un futuro
diverso e impietoso. Più spesso la diversità, la distanza, è interna alla struttura del testo, nella costruzione del punto di vista, ed è la diversità di chi ritorna, ripresa di un grande tema di Vittorini e Pavese: la diversità dell’emigrato che rientra nel microcosmo dopo l’esperienza della grande città (Arpino, L'ombra delle colline); del bambino o dell’adolescente che si è fatto uomo altrove (Prisco, / cieli della sera; Tobino, La brace dei Bias-
soli; Saviane, Il passo lungo); dell’intellettuale che si misura con le sue radici popolari (Bevilacqua, La festa parmigiana; Sgorlon, Il trono di legno); del cittadino che cerca nella semplicità di costumi e nell’istintiva capacità di equilibrio della campagna il rimedio per il suo disorientamento esistenziale (Arpino, La suora giovane; Saviane, Il tesoro dei Pellizzari). Tutti portatori potenziali di uno sguardo crepuscolare e nostalgico, anche quando affermano orgogliosamente la propria emancipazione dai pregiudizi e dalla limitatezza culturale della piccola comu-
nità chiusa. Nel suo tentativo di resa realistica e cosale, il ro-
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manzo medio continua insomma a suggerire che la realtà e la vita vera sono in un certo senso sempre altrove rispetto al luogo da cui si scrive, ma che, una volta persa l'innocenza originaria, scrivere è l’unico modo per dare intensità alla vita già vissuta, per fissarla e non farla andare completamente perduta, secondo una poetica romantico-idealistica dell'espressione che accorda al letterato il magistero esistenziale e la più alta dignità umana. Corrisponde a questa predilezione per il passato, per la memoria e per «le cose che contano », la matrice privata, confessionale della narrazione. La narrazione neorealista era spesso in terza persona, il narratore parlava come parte di una colletTu etività di ricostruttori in lotta col passato o, se il romanzo era filtrato attraverso lo sguardo di un protagonista, era un « protagonista non individuale », quasi invisibile nella sua esemplarità (si pensi a L'Agnese va a morire di Renata Viganò). Nel microcosmo, sintomo di crisi del pubblico e di ripiegamento nel privato, chi narra dice di preferenza « io » perché è la sua personalissima storia che ci vuol raccontare, ed è questa spesso una storia d’amore per lui molto più importante di quella storia ciAA vile che nella sua narrazione scompare o scorre in sottofondo. Raccontare la propria esperienza amorosa è rivelare un fatto intimo, ed è sempre espediente liberatorio, dal resoconto agli amici al bar (Chiara, I! cappotto di astrakan) al diario solitario nell’appartamento metropolitano (Arpino, La suora giovane). ee, 9 Nepi Proprio questo tono di confidenza autobiografica, di fatto per pochi intimi o per se stessi, che viene tradotto dalla lingua privata del dialetto (di cui rimangono tracce) alla lingua pubblica dell’italiano standard, è parte dell’allettamento voyeuristico di un certo romanzo medio, dove il lettore sembra avere il ruolo di ascoltatore non invitato, a cui però si offre la traduzione simultanea su carta stampata. Al contempo non deve sfug-
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gire che questa valenza confessionale del romanzo medio non è fatto originale ma si rifà alla matrice cattolica di tanto romanzo italiano dove, se non si insegna idealmente ad un pubblico attraverso le traversie dei protagonisti, se non c’è un dichiarato intento pedagogico, c’è l'intento dell’autochiarimento, della confessione che sgrava e redime. La peculiarità di questa confessione cattolica è che, per quanto vi sia una componente analitica, l'emozione sovrasta il raziocinio, la contrizione la com-
prensione. È per questo che il romanzo medio, anche se abbraccia storie di famiglie, persino di generazioni, non si fa mai
epopea borghese, ascesa e caduta alla Buddenbrook, spiegazione
storica di un divenire e di un finire, ma rimane sentimentalismo cronachistico, fatto privato, dove il bel ritratto, il bello scor-
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cio prevale sulla veduta di insieme e all’intelletto si preferisce il cuore (si pensi al lirismo confessionale di Tobino in La brace dei Biassoli, a quello didascalico di Saviane in Il passo lungo, all’emotività torbida e inerte di / cieli della sera di Prisco). Il romanzo medio italiano sembra concentrarsi tutto sul passato e, una volta rievocatolo e perdonatolo in una situazione confessionale, lo giustifica e lo conserva, lo eleva alla dignità di calligrafico ex-voto, cosi che non c’è movimento se non all'indietro,
stasi e restaurazione. Situazione non straordinaria del resto in un paese in cui formazione e sviluppo sono stati a lungo guidati da una classe dirigente singolarmente arretrata rispetto alle coeve borghesie europee; una classe dirigente legata ad una mentalità agraria e cattolica, con un appannaggio di cultura classico-aulica a temperarne il paternalismo populistico, a compensarne il sentimento di inferiorità, e a rifornire di moduli retorici la pietas anti-industriale. Sono i « caratteri originari » della borghesia italiana, o meglio la mancanza di una vera borghesia egemonica, laica e modernista (come ben suggerisce Giulio
Bollati), a produrre la debolezza dell’epopea borghese progressiva nella narrativa nazionale. In un romanzo con una cosi chiara vocazione alla confessione, alla celebrazione della vita in veste di memoria, non può mancare una solida osmosi fra eros e thànatos. L’eros quasi os-
sessivo di certi autori del romanzo medio (Chiara, Bevilacqua) sembra l’unica possibile equilibrante espressione di vita in una narrazione altrimenti intrisa di luttuosa nostalgia. A sua volta è proprio il pervasivo senso di morte che nobilita la corporalità dell’eros di provincia di Bevilacqua e Chiara. È in fondo una soluzione letteraria presente fino dai tempi del Decameron: anche qui lo scenario-cornice era un microcosmo assediato dalla morte, ed era proprio la peste che creava i presupposti per l’erotico novellare dell’onesta brigata. Gli amici del caffè di paese sono per i protagonisti di Chiara quella stessa brigata, e non sembra casuale che proprio per lui sia stato rammentato tante volte il nome di Boccaccio. Anche quando le storie d'amore sono pudiche, o magari solo romanticamente sognate, sempre tra amore e morte oscilla la meditazione sul mistero del destino . umano che il romanzo medio propone. Amore e morte sono gli appuntamenti che non si possono mancare, comuni ad ogni vita, anche alla più antieroica — il materiale di ogni raccontare. Se da un lato è la scrittura letterata ma scorrevole, dall'altro è il loro orizzonte di tematiche nobili e formative, universali e fon-
damentali, a canonizzare alcuni di questi romanzi come piccoli classici moderni; e la loro fortuna nelle collane scolastiche
e nelle edizioni economiche ne è un segno ulteriore. 20
Ci si può domandare se c’è un punto di forza o comunque una salda unità costitutiva in questo microcosmo morale, aggredito dall’esterno e interiormente fatiscente, condannato dalla stessa nostalgica celebrazione dell’autore/protagonista, e dove fra eros e thànatos è sempre chiaramente quest’ultimo a vincere. Perché il microcosmo esista, anche nella memoria, bisogna
che ci sia un centro narrativo vitale. Esso è spesso fornito dal nucleo famigliare — l’istituto privilegiato del romanzo medio — che resiste, in toto o nell’alta figura morale di uno dei suoi membri, allo sfaldamento del mondo provinciale e rappresenta spesso il punto d’appoggio nella crisi esistenziale del protagonista. Si finisce il più delle volte col rimanere con una madre (Bevilacqua, La festa parmigiana; Tobino, La brace dei Biassoli), più raramente un padre (Saviane, // passo lungo), una famiglia (Prisco, / cieli della sera) o un suo surrogato (gli amici al bar nei romanzi di Chiara). La famiglia è il nucleo essenziale (e la molla narrativa) del microcosmo del romanzo medio, come
lo è della società ordinata e conservatrice di cui esso è espressione. Lo stile può essere alto (Tobino, La brace dei Biassoli), o basso (Cassola, Ferrovia locale), ma l’ideologia rimane la stessa, e cosi c'è una netta prevalenza di buoni sentimenti espressi liricamente nell’uno o di buoni sentimenti espressi dimessamente nell'altro. Sono sentimenti di devozione e amore per la madre o i parenti, di sacrificio di sé e delle proprie aspirazioni, colloqui commossi, piccole inconsulte felicità carpite alla routine del quotidiano, smarrimenti ed estasi nel palazzo di famiglia o nella trattoria di paese. Si può obiettare che la famiglia è protagonista di tanta narrativa semplicemente per come la società occidentale è costituita, ma questa prevalenza emotiva di cui viene investita sembra un fatto tipicamente italiano, che si può rintracciare letterariamente molto indietro, dal culto del focolare e della madre dell’Italia fascista al Cuore dell’Italia umbertina. Questa componente famigliare sostanzialmente conservatrice e frenante può rafforzare e spiegare ulteriormente due peculiarità del medio trattate precedentemente: il fatto che esso sia romanzo di microcosmo, privo di grandi spazi, di natura vergine, di animali e di avventure, ed il fatto collegato che raramente vi sia in esso il senso di una Bildung, di una formazione
intellettuale e pratica, che infatti viene usualmente rappresentata e raggiunta attraverso il viaggio e l’esperienza conosciti-
va, mentre qui la netta prevalenza è per la spazialità ristretta e il dato emotivo. Per la prima notazione si può aggiungere che,
storicamente, il romanzo italiano non è mai stato romanzo di
avventure perché appannaggio di una classe sedentaria di letterati ancorati ad una tradizione che esigeva imitazione e non 21
cambiamenti. A parte il caso centrale ed eccentrico allo stesso
tempo dei Promessi sposi, le poche trasgressioni furono dovute a «letterati d'azione », come Nievo e Guerrazzi, che riprodu-
cevano nella forma del romanzo storico la spazialità insolita delle proprie peripezie di uomini.5 Se la famiglia inibisce la fuga e l'avventura, sembra anche promuovere un certo tipo di crescita, quello in cui l'attaccamento emotivo sovrasta sempre l’affrancamento razionale. È in parte responsabile di questo squilibrio la già menzionata matrice cattolica — rigorosamente antiscientista — del romanzo italiano, in cui alla Bildung acquisita lottando
avventurosamente
nel mondo
esterno
si preferisce
un'esperienza squisitamente interiore. Alla formazione intellettuale, ad un sapere organizzato pratico o filosofico si sostituisce l'intuizione sentimentale: si sente, non si sa, e da qui tanta vocazione all’idillio e all’introspezione autobiografica e famigliare. A questo punto ci si può riporre una precedente domanda e chiedere perché il romanzo medio dagli anni sessanta a oggi abbia avuto e abbia ancora tanto successo. Direi che parte di questo successo proviene proprio dal fatto che il romanzo medio sembra a prima vista non avere un'identità definibile teoricamente e appare, per lo stesso tipo di valori che sostiene, un prodotto spontaneo della sensibilità e del gusto. Proprio perché l'avanguardia negli anni sessanta si arroga l’attualità, l’essere al passo coi tempi, il romanzo medio si vuole ancora più atemporale col suo apparente anacronismo. Sceglierlo per il lettore non implica prendere nessuna precisa posizione da un pun-
to di vista ideologico od una, quanto mai sfumata, di moderatezza in nome di valori più fondamentali di quelli politici; invece, da un punto di vista «letterario », soprattutto negli anni sessanta per una larga fascia di lettori in fase di promozione sociale, significa appunto una scelta di sensibilità e di buon gusto — si pensi appunto alle connotazioni ben più precise e di segno opposto che in quegli anni venivano dall’acquistare un
libro di Balestrini. Dopo averne messo in rilievo le peculiari caratteristiche ricorrenti, dal microcosmo al tono confessionale,
si può solo riaffermare l'impressione che il romanzo medio ab-. bia inteso rendersi autonomo rispetto ad obiettivi esterni alla letterarietà pura. Dopo il neorealismo esso ha coinciso, prima in sordina poi sempre più chiaramente, con una ripresa dei valori della Letteratura, e in questo senso sembra una distillazione essenziale di ingredienti che fanno capo ad una prospettiva conservatrice (a-politica, estetica, individualistica, «fuori del-
le scuole e delle mode ») su cosa la narrativa debba essere. Il lettore medio e con lui il lettore occasionale (che entra per for-
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eià Ia
za in gioco quando si parla di best-seller, di libro che per definizione supera le centomila copie) ha trovato nel buon romanzo medio la rassicurante solidità di un mondo che comprende e di una storia con un inizio ed una fine (spesso una storia d’amore ancor più accattivante perché malinconica e consolatoria), più le gratificazioni di un consumo «culturale ». Il lettore sofisticato o il critico professionista può avere delle riserve, ma non può nascondere a se stesso di leggere il romanzo medio volentieri, con la stessa voluttà con cui negli anni venti e trenta gli accademici anglosassoni bombardati da modernismo, rela-
tivismo, psicoanalisi e flusso di coscienza si leggevano un buon giallo di Agatha Christie, dove tutto tornava, come salutare tra-
sgressione alle loro complicate e oscure letture professionali.* Ora più di allora, il caos è soprattutto fuori, e i romanzi di Chiara, Cassola, Soldati e Bevilacqua, con la loro fisica « cosalità »,
il loro sano andamento lineare in cui ci si vuol riconoscere e si riconosce un microcosmo perduto, sono una trasgressione non solo a più impegnative letture ma anche al mondo che ci circonda —
un’evasione
relativa, un onorevole compromesso
che non manca comunque di offrire il suo tributo al nostro thànatos quotidiano nella malinconia che pervade il racconto, nel messaggio di morte ironico e dimesso come la visione che ci viene offerta della piccola provincia. A sua volta, al grosso editore una « scuderia » di autori del genere sotto contratto consente un'accurata programmazione annuale e una continua presenza sul mercato; elimina anche per lui il rischio dell’ignoto, e gli RES offre PENTA TE (I PETS anzi la garanzia di buone vendite per ogni stagione. Ma il romanzo medio durante gli anni settanta mostra segni di stan-
| chezza nella sua ripetitività e si ha l'impressione che i suoi autori migliori siano limitati dalla natura stessa del loro successo, che li obbliga a ritracciare incessantemente la mappa di un
iii sil
microcosmo rivisitato troppe volte e ormai anche per loro più luogo di oppressione (letteraria) che di creative rievocazioni. Cosi Chiara cerca ironico respiro cosmopolita nella vana rico-
labi dina
gnizione parigina di un provinciale di Luino in I! cappotto di astrakan (1979), e Bevilacqua prende opportunamente congedo dalla sua Parma e dal Po in La festa parmigiana (1980). Ma entrambi infine si dimostrano incapaci di sfuggire ad un microcosmo padre padrone, ispirazione primigenia e peccato ori-
ginale, se Chiara conclude la sua ricca carriera con Saluti notturni dal passo della Cisa (1987, postumo), schematica e frettolosa riesumazione di un congegno narrativo infallibile fatto di vita di provincia, di giallo e di amori grassi e illeciti, e Bevilacqua recidivo ritorna ai suoi luoghi sia in Il Curioso delle donne (1983) che in La Donna delle Meraviglie (1984) e non resiste alla 23
tentazione di includere, in conclusiva posizione principe, una lunga rivisitazione celebrativa di Contarina e del delta del Po nel ridondante La Grande Giò (1986). Proprio Alberto Bevilacqua (n. 1934 a Parma) merita un discorso a parte, in quanto la sua attività più che venticinquennale rappresenta emblematicamente la parabola di molti altri
narratori italiani che hanno esordito come giovani promesse negli anni sessanta. Invece di intraprendere una panoramica analitica del suo lavoro, che rischierebbe di essere ripetitiva, ci si
fermerà su tre momenti essenziali: il primo romanzo (Una città in amore), l’opera cruciale per comprendere il rapporto Bevilacqua-microcosmo-romanzo medio (La festa parmigiana), e l’ultimo prodotto narrativo di ampio respiro (La Grande Giò). Una città in amore (Milano, Sugar, 1962, ora in La mia Parma, Milano, Rizzoli, 1982) è un romanzo che già rivela tutte le
straordinarie doti e i latenti difetti del Bevilacqua a venire. L'ambientazione è quella di Parma, che rimarrà negli anni il centro magico della sua sorprendente vitalità ed energia narrativa; è infatti da Una città in amore che lo scrittore comincia
a creare la sua leggenda parmense, in una serie di capitoli incentrati su personaggi ed episodi già celebri nella mitologia orale cittadina, a cui egli dà dimensione letteraria. Dapprima infatti si ha l'impressione di leggere una serie di storie separate; ma esse iniziano a intrecciarsi e ordinarsi dopo l’entrata in scena, nel quinto capitolo, delle due bellissime figure di Guido Picelli e Amelia Sampieri. Il romanzo ha un andamento all’insegna dell’eccesso e del contrasto, è acre di passione e di rinuncia, eroismo e follia, eros e nostalgia dell’eros come espressione
più pregnante della vita. E di tutto questo non c’è da meravigliarsi, visto che Parma è in Emilia e l'Emilia ha questa tradizione di terra fertile e corposa, che trascende la sua fisicità so-
lida e solare nel furore visionario delle passioni dei suoi figli — uno strano sud transappenninico, dove la ricchezza della terra e degli abitanti rende la secchezza crudele della tragedia impossibile e spesso la fa levitare o la ingrassa verso una risoluzione fantastica o grottesca. Questa «esuberanza padana» fa. di Bevilacqua il fortunato precursore di quella linea visionaria e sensuale che diviene di li a pochi anni tanto di moda con il grande successo di Cent'anni di solitudine (Cien afios de soledad, 1967, tradotto nel 1968) di Gabriel Garcia Marquez, la cui
influenza arriva sino alla più recente narrativa italiana: da Piazza d'Italia (1975) di Antonio Tabucchi a Memorie malvage (1976)
di Barbara Alberti, a Mahò. Storia di cinema e di petrolio (1987) di Alfredo Antonaros. Ma mi pare che ci sia anche un contatto
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li
non mediato fra Una città in amore e il romanzo d'esordio di
Tabucchi (per quanto quest’ultimo abbia una sensualità meno esplicita, mortificata nel suo naturale rigoglio da una struttura frammentata in brevi episodi). Per esempio, quello di Asmara per Garibaldo in Piazza d’Italia è un’altra versione dell'amore vedovo da sempre di Amelia per Guido; alla guerra di Spagna come episodio storico cruciale di Una città in amore in Piazza
d'Italia si sostituisce la Resistenza, ma entrambi i romanzi ter-
minano nella secca disillusione del dopoguerra. La storia d’amore fra Amelia e Guido, lacerata fra impegno civile e cronaca sentimentale, fra Storia e storia, è metafora della difficile di-
mensione del raccontare di Bevilacqua, che vuole coniugare pubblico e privato, politico ed erotico, eventi nazionali e folklore provinciale, ed infine ci riesce grazie proprio a questi due personaggi che, spogliati di tutto dal tempo, proiettano a ritroso uno sguardo sobrio e struggente su una storia all'insegna della dismisura. In La festa parmigiana (Milano, Rizzoli, 1980, ora in La mia Parma, Milano, Rizzoli, 1982), ultimo romanzo di Parma, que-
sto compito di ordinatore narrativo che suscita ed esorcizza conflitti insanabili Bevilacqua se lo prende in prima persona. È infatti lui stesso il narratore-protagonista che, dopo anni di soggiorno a Roma, sente il bisogno di fuggire dalla capitale e di tornare per pochi giorni nella città natale in incognito, per potersi sentire « straniero nella [sua] città » (497) e carpirne il segreto nell’oscillazione fra estraneità e appartenenza. Bevilacqua, che nell’infanzia e nell'adolescenza ha conosciuto gli ultimi scampoli di una leggendaria storia cittadina (l’ultimo grande fabbricante di violini, gli ultimi norcini, Ligabue, gli ultimi ban-
diti del delta del Po) ed ha ricostruito con l’amore dello storico e l'inventiva dell'artista il grande passato della città ed i suoi protagonisti (Carlo III, Luisa Maria Teresa di Borbone, le duchesse Maria Amalia e Maria Luigia, il Duca Ranuccio I, Giuseppe Verdi), torna ora in una Parma che sente vuota, scaduta a livello di storia di piccoli scandali e di squallide malversazioni amministrative; una Parma in cui gli amici sono imbolsiti,
impazziti o morti, e la «qualità della vita » è in lento degrado.” La Storia, appunto, si è fatta storia, cronaca, e questo viaggio
purgatoriale, resa dei conti con il proprio passato di iniziazione alla scrittura, ultimo confronto con-una città che Bevilac-
qua stesso ha contribuito ad innalzare a livello di mito, è elegia non solo di una Parma scomparsa, ma del romanzo medio
degli anni sessanta-settanta, che su quell’elegia è nato e ha prosperato, fino a morire del suo saccheggio. Bevilacqua, uomo a cavallo fra Storia e storia, evoca con nostalgia ciò che ricorda
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e ciò che rimane della prima, registra con scrupolo moralista e pur complice ciò che vede della seconda. Certe pagine di questo «viaggio funebre » per Parma sono di grande bellezza, eppure la mediazione non riesce pienamente per quell’incontinenza narrativa che era apparsa fin da Una città in amore. Lio narcisistico del Bevilacqua romanziere, una volta innalzato al livello di personaggio protagonista, è il ritrovato meno idoneo per oggettivare e conciliare un materiale narrativo che si fa nella rievocazione sempre più esuberante e affollato, una danza di spettri in cui chi scrive è ancora troppo coinvolto per potere ordinare e dirimere. L'ossessiva visione erotica da sempre tipica del Bevilacqua narratore propone una conoscenza carnale della città che, essendo insistita in prima persona, sfiora spes-
so l’improbabile o il ridicolo. L’uso affiorante del dialetto, tipico di tutto Bevilacqua, continua in La festa parmigiana ma con la chiara coscienza della fine: «Perché non riesco a riacquistare confidenza con il linguaggio di questa città? Perché, più esattamente, lo stato d'animo di questo linguaggio mi è vietato? » (514). E, ancor più chiaramente: « Mi accorgo, ascoltando-
la [Franca Gherardi], di aver perso in buona parte l’uso del mio dialetto, come accade con la destrezza in un mestiere » (633). Tantomeno vi è una conciliazione a ritroso, attraverso dei per-
sonaggi di grande intensità che con la loro entrata in scena sappiano illuminare e ricomporre tutto il romanzo, come era accaduto con Guido e Amelia in Una città in amore, né riesce la
mediazione autoriale fra una Storia troppo alta e una storia troppo bassa. La festa parmigiana è il resoconto di Bevilacqua, in parte nostalgico, in parte vendicativo, sulla propria impossibilità di continuare a scrivere su Parma, città nuova che non
riesce più a comprendere, città vecchia di cui ha perso il dialetto. Nell’essere un’opera non riuscita sull’impossibile ricongiunzione di un autore con il proprio microcosmo narrativo, La
festa parmigiana è la «prova metanarrativa » della morte del romanzo medio. Nella sua sintomaticità, La festa parmigiana taglia un cordone ombelicale, chiude un conto in sospeso col microcosmo che non è solo di Bevilacqua ma, nel 1980, di tutta
una generazione di scrittori nati fra le due guerre che hanno . fatto della città natale e dintorni il centro della propria opera e che si rendono conto che la stagione di questo tipo di romanzo è finita. Con gli anni ottanta un cambiamento c'è indubbiamente stato, non solo un sempre più vistoso ricambio generazionale, ma anche un riorientamento dei gusti del pubblico. Lo ha sentito anche Bevilacqua nel suo ultimo romanzo, La Grande Giò (Milano, Mondadori,
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1986), dove l’azione si divide fra Contarina
«7 DD
(non più Parma, bensi la zona del delta del Po, comunque cara a Bevilacqua) e Roma, fra il microcosmo e la metropoli. La Grande Giò non è quindi quella rottura nei confronti del microcosmo indicata dall’addio di La festa parmigiana, ma semmai, appunto, un compromesso fra due scenari, dove idee e personaggi sono comunque intercambiabili. Infatti, in La festa parmigiana ci sono sostanziose anticipazioni della poetica su cui si basa La Grande Giò, romanzo dove Giò, al secolo Annapola Leoni, è il soprannome, che sta per « Grande Gioco », di una donna
fatale, che è riuscita a «vivere le mille vite in una » (24) e ha sedotto potenti di tutto il mondo e di tutte le età. In La festa parmigiana Marta Fiori, fanciulla procacciatrice e interprete di incontri erotici con l’autore, « parte torna scompare per riapparire quando meno l’aspetti; l’idea è che insegua [...] un fare e disfare la vita non per scontentezza, ma per il piacere di travestire continuamente se stessa » (596). E questo è esattamente ciò che fa l’elusiva Violante con lo scrittore Bevilacqua (di nuovo, incorreggibilmente e disastrosamente autore co-protagoni-
sta del romanzo) in La Grande Giò.* Anche la poetica del gioco, del «vivere le mille vite », appannaggio della Grande Giò,
viene chiaramente verbalizzata in La festa parmigiana attraverso l’antesignana Marta Fiori.? Una scena, poi, viene trascritta quasi parola per parola da La festa parmigiana a La Grande Giò:
quella dei tagliatori di trecce, i cavi, mercanti di capelli della zona del delta del Po (532 in La festa parmigiana; 349-350 in La Grande Giò). Anche un episodio di Una città in amore, in cui vengono descritte delle affascinanti prostitute parmensi, viene accorciato e riversato quasi letteralmente in La Grande Giò (448-460 in Una città in amore; 262-266 in La Grande Giò), a te-
stimoniare di un mondo troppo artisticamente concluso e rivisitato per essere ancora vivo, e quindi divenuto cliché autoria-
le passibile di indiscriminate trasposizioni. Se Giò è una seducente « mangiatrice di uomini », il suo romanzo è coerentemente
e apertamente cannibalistico nei confronti degli altri romanzi di Bevilacqua e, più latamente, del genere romanzo, qui inteso come totalizzante ed esotica fantasia sentimentale. Bevilacqua tenta cioè un rammodernamento dell’odierno romanzo medio contaminandolo con il feuilleton daveroniano, appunto il « romanzo medio » di sessanta anni fa. Alcuni esempi: La Grande Giò prese una mano della Violante: «No, non ora. È una storia troppo importante. La storia del grande
amore della mia vita» (103). [Giò] era entrata a caso nella camera dove Falco, sollevandosi, l’a-
veva inquadrata nel suo sguardo di fuoco (104).
ruote
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Mai avevano provato, cosi furiosa e potente, la voglia di fare l’a-
more. [...] L’idolo della solitudine aveva bisogno del loro rito, lo esigeva (252).
C'è qui il Da Verona di Mimi Bluette, fiore del mio giardino, con la sua patina di retorica artificiosa, nomadismo e fata-
lismo amoroso, che ritorna sorprendentemente oggi in Bevilacqua. Mimi, disperata per l’eroica morte del legionario Castelo, si uccide, mentre Giò vive spasimando ancora nel ricordo del defunto Falco lo Slavo detto il Moresco, cliché nato dall’incro-
cio del duro bogartiano con il dandy di provincia: « [Il Moresco era di] un’eleganza impeccabile [...]: cappello di feltro, alla Boi-
to, gran sciarpa bianca, impermeabile di taglio eccentrico, guanti che si infilava e si toglieva con gesti raffinati, bastone da passeggio col pomo d’argento, che faceva volteggiare con l'abilità di un prestigiatore » (128). Come La festa parmigiana, anche La Grande Giò è la storia di un ritorno in patria: Giò, donna bellissima che ha molto vissuto, ritorna in Italia dopo trent'anni, per andare a Roma a trovare il fratello; scopre il tradimento di lui e lo stato di povertà e degradazione in cui versa la famiglia, mette tutto a posto con incrollabile ottimismo ed inesauribili ricchezze, ed infine, dopo sparse vendette, trascina la famiglia redenta in finale pellegrinaggio purificatorio al luogo delle origini (Contarina, il delta del Po già rivisitato in La festa parmigiana), dove persino i vecchi e senili genitori (babbo Alfredo, in stato di follia autistica, sellatore solitario di cavalli inesistenti; mamma Ebe, ninfomane rurale) vengono riportati ad una serena ragionevolezza. Ci si potrebbe domandare se questa più che manifesta idea del gioco e della parodia che viene ribadita dal nome della protagonista e ad ogni occasione non voglia affermare che l’autoparodia, la fiaba assurda e pantagruelica, il gioco e lo sberleffo autoriale, siano precise intenzioni di Bevilacqua, non incidenti narrativi. Se cosi è, non se ne capisce l’intento. La metanarrativa e il gioco sono arti difficili, da amministrare con misura e ironia, che qui mancano del tutto, per cui La Grande Giò diventa un grande gioco all’automassacro del Bevilacqua nar- .
ratore, che si decostruisce sottolineandosi. Soprattutto Giò, summa di tutte le donne-madri-prostitute-simboli totalizzanti di vita di Bevilacqua, risente talmente di questo tentativo di essere e inglobare tutto il precedente da trasformarsi in personaggio grottesco. Giò è il tentativo di adeguare ai tempi una mitologia di grande femmina, di far fare all’eros di provincia struggente e ben incastonato in vicende di passioni civili (Una città inamore) il passo verso l'autonomia della leggenda, ma Giò non 28
riesce ad assurgere al rango di divina donna fatale. C'è qualco-
sa di generoso e di spavaldamente spericolato nella scelta di un personaggio simbolo come la Grande Giò che per diventare mito deve per forza confrontarsi con una sconfinata mitologia precedente, ma invero sembra che il narcisismo autoriale ab-
bia la meglio sulla temeraria generosità progettuale. Due dei narratori più conosciuti del romanzo medio sembrano cosi arrivare ad esiti formali opposti nelle loro ultime opere — esiti che non sono che le estreme conseguenze di tendenze in loro preesistenti sin dagli esordi. Chiara nel postumo Saluti notturni dal passo della Cisa arriva a scarnificare completamente la sua opulenta macchina narrativa, fino ad esibire solo i congegni delle vicende, in uno schematismo scheletrico che è in parte quello della struttura del giallo, suo genere privilegiato da sempre, in parte quello della scenografia cinematografica, prima destinazione dello scritto. Bevilacqua in La Grande Giò giunge invece all’incontinenza assoluta attraverso la sua protagonista dalla insaziabile vitalità. L'uno si prosciuga, l’altro si gonfia fino all’idropisia narrativa; Chiara con Saluti notturni mostra inequivocabilmente di essere stato narratore di storie dove ciò che conta è come la storia viene detta e si sviluppa, di essere stato grande architetto di strutture fabulatorie; Bevilacqua con La Grande Giò ribadisce di aver sempre preferito la carne allo scheletro in un romanzo che ha l’esilità formulaica della fiaba e la straripante esuberanza del fewilleton. Ma entrambi rivelano cosi la propria stanchezza ed il logoramento di un genere medio in manierismi che arrivano all’autoparodia.
Per concludere facciamo un esempio opposto, di una narrativa che, benché a prima vista appartenente alla tradizione letteraria del romanzo medio, in realtà contribuisce a minarne
alcune delle convenzioni. È il caso della produzione di Giuseppe Pontiggia (n. 1934 a Como), autore estremamente parco, attento alla qualità della sua scrittura. Pontiggia esordi nel 1959 su Il Verri con un racconto notevole, di sapore autobiografico, «La morte in banca », che già adombrava una delle sue doti mag-
giori: uno stile ellittico che riesce a rendere inconsueta persino una banale ambientazione impiegatizia e che è classico e ombroso per una certa tacitiana secchezza. Lo ha poi ripubblicato in volume in nuova stesura (Milano, Mondadori, 1979) assieme ad una serie di storie brevi, in gran parte giovanili, abbastanza discontinue qualitativamente e un po’ troppo facili nella loro ripetizione formale (ritmo rapido e tronco, repentini finali ad effetto). L'implicita predilezione per una fulminante risoluzio29
ne narrativa si è poi concretizzata in una collezione di aforismi genericamente collegati da un'atmosfera poliziesca, L'arte della fuga (Milano, Adelphi, 1968), di gusto sperimentale e di esito non convincente. I due seguenti romanzi, I! giocatore invisibile
(Milano, Mondadori, 1978) e Il raggio d'ombra (Milano, Mondadori, 1983) sono invece prova di una maturità raggiunta e svi-
luppano appieno quelle qualità di sovversione dall’interno nei confronti dei registri tipici del romanzo medio che erano già latenti nel primo Pontiggia. Un impiego corrosivo della terza persona inibisce al lettore i processi di identificazione caratteristici dell’elegia e del suo usuale io narrante; nessuno è buono; il linguaggio è asciutto e franto, scarnifica e concettualizza gli oggetti, rendendoli inquieti e fonte di disturbo. La concisione del dettato e l’uso folgorante dell’ossimoro contribuiscono a un taglio visivo « paranoico » che ha come effetto una detrazione di realtà dal reale, in un mondo in cui ci si tiene appesi ai margini, senza pienezza. In I! raggio d'ombra Mariano, la vittima, stringe i braccioli della poltrona (13), si afferra ai bordi della scrivania (14), alla spalliera della sedia (76) e persino ai cespugli (43), come a sottolineare la sua incapacità di control. lare la situazione, la sua crescente apprensione dopo aver commesso l’errore di prestare ad un amico comunista il proprio casino di caccia per ospitare un antifascista ricercato (siamo nel
1927) che poi si rivelerà una spia dell’OVRA. Come già in Il giocatore invisibile, dove una stroncatura anonima sconvolge la vita di un professore universitario, Pontiggia offre qui lo spaccato di un mondo borghese che ha già fatto tutti i compromessi e vive torpido e appagato nella sua routine di sicurezze raggiunte, finché il piccolo caso lo mina e lo sgretola grazie alla paranoia che attecchisce fertile nelle menti dei suoi protagonisti. AI solito, l’unica cosa da fare dopo l’accadimento (recensione anonima o chiavi date) sarebbe non fare niente. Ma i personaggi di Pontiggia sono piccoli Signor K. della provincia lombarda e finiscono col confidarsi in conversazioni svelte ed eppure dense di tensione e di ironia,!° in cui Pontiggia fra i contemporanei è maestro paragonabile solo a Sciascia, e accumulano cosi errori e ulteriori incertezze, scuotono castelli di complicità e di acquiescenze, si dibattono, agonizzano nell’ingranaggio del pettegolezzo o della delazione che essi stessi hanno pur messo in moto. Poi aspettano la fine in ville ai confini fra città e campagna, in atmosfere immote e gravide, di eterno prèsago cre-
puscolo. Dopo l'evento banale e improvviso che trasforma, chi ne è vittima finalmente si vede e soffre: la vita di prima, quella «inconsapevole », benché grigia, ora pare meravigliosa. Pontiggia insomma ricrea il mondo borghese del romanzo medio solo 30
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per smagliarlo nell’ansia del personaggio in trappola, per destabilizzarlo in una storia che riprende la suspense e i colpi di scena del romanzo giallo, ma non il finale rassicurante e consolatorio. Parimenti, la scrittura netta e leggibile acquista, tra le pieghe della storia « realistica », una carica allusiva di grande intensità. Quanto detto sinora sul romanzo medio, su chi ne è autore
e su chi ne prende le distanze, consentirà di situare meglio gli attacchi che gli sono stati mossi negli anni sessanta e settanta (dal Gruppo 63 alla scrittura di movimento del ’77), di capire i necessari correttivi che nello stesso periodo autori come Sciascia e Calvino gli hanno applicato per superare le strettezze del genere, e di mettere infine a fuoco i rapporti fra esso e la giovane narrativa (cfr. IILI1.).
NOTE ! Si veda a questo proposito il già citato Il mercato delle lettere. Industria culturale e lavoro critico in Italia dagli anni cinquanta ad oggi, Torino, Einaudi, 1979. Dice Ferretti: « Il romanzo di successo “di qualità”, ‘“‘il
capolavoro da 100.000 copie” [è la] versione (già) consumistica del vecchio livello “alto”, [...] un romanzo tradizionale “restaurato” e “rammoderna-
to”, come prodotto di “medio-alto” consumo per un pubblico piccolo-medioborghese » (p. 15). Ferretti è responsabile anche della diffusione del termine romanzo medio: vedi Gian Carlo Ferretti, I/ best seller all'italiana. Fortune e formule del romanzo « di qualità » (Bari, Laterza, 1983), e in particolare la prima sezione (« A livello medio », pp. 1-50). In questo primo capitolo all’acuta e innovativa analisi di Ferretti devo, oltre a questi termini,
innumerevoli spunti e informazioni sul romanzo italiano dagli anni cinquanta a oggi e sull’industria culturale. 2 Alberto Cadioli, L'industria del romanzo. L’editoria letteraria in Italia dal 1945 agli anni ottanta, Roma, Editori Riuniti, 1981.
3 A proposito di un caso esemplare come quello di Piero Chiara, Giulio Carnazzi nel suo bel saggio « Piero Chiara da Luino a Singapore» parla di «uno schema di gratificazione del lettore dove la seduzione consiste nella proposta di un consumo culturale sottratto al dominio della pura evasione » (Pubblico 1982, Milano, Milano Libri, 1982, p. 46). 4 Cfr. Giulio Bollati, L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino, Einaudi, 1983, già pubblicato come « L’Italiano »
in Storia d'Italia, Vol. I (Torino, Einaudi, 1972), pp. 949-1022. 5 Negli anni venti e trenta un romanzo di avventure di produzione nazionale doveva nascere, agli occhi del Fascismo, con la celebrazione degli ampi spazi vergini delle terre d'oltremare, e orientare l'opinione pubblica in favore della politica coloniale. Fin dall'inizio del secolo nel teatro e nel romanzo italiano c’era stata, in alcune opere di D'Annunzio (Più che l’amore, 1906) e di Marinetti (Mafarka il futurista, 1910; Il tamburo di fuoco, 1921), una linea africana, molto esoticheggiante, che con Mario dei Gaslini (Pic-
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colo amore beduino, 1926) e soprattutto Mitrano Sani (da E peri solchi millenari delle carovaniere, 1926, a Femina somala, 1933) stava acquisendo una
certa maturità di intenti; ma, prima ancora del crollo dell’effimero impero, fu la svolta razzista del regime a rendere impossibile ogni dignitosa narrativa coloniale d'avventura. A concludere idealmente la brevissima stagione del romanzo d’ambiente africano, Tempo di uccidere di Ennio Flaia-
no nel 1947 fa giustizia di ogni eroismo avventuroso e di ogni colonialismo illuminato con la repulsiva figura del suo paranoico protagonista. Con la seconda guerra mondiale lo stentato romanzo italiano di azione e di ampi spazi diviene, con triste ironia, narrativa non di avventurosa avanzata ma
di disperata ritirata (Rigoni Stern, // sergente nella neve; Bedeschi, Cento-
mila gavette di ghiaccio) o di prigionia (Del Buono, La parte difficile; Tumiati, Prigionieri nel Texas; Pegolotti, Criminal Camp), scarna memoriali-
stica di guerra perduta. (Sulla letteratura coloniale italiana si veda l’ottimo studio di Giovanna Tomasello, La letteratura coloniale italiana dalle avanguardie al fascismo, Palermo, Sellerio, 1984.) 6 Si veda a questo proposito il divertente saggio di Marjorie Nicolson, «The Professor and the Detective » (The Atlantic Monthly, April 1929, pp. 483-493), tradotto e pubblicato con il titolo di « Delitto “cum laude” » in La trama del delitto,
a cura di Renzo Cremante e Loris Rambelli (Parma, Pra-
tiche, 1980, pp. 43-51).
? «Essere parmigiani, oggi, significa dimenticare le glorie del passato, i suoi splendori e miserie. Non è quasi più possibile trascorrere il pomeriggio in attesa del tramonto ai tavoli dei bar di piazza Garibaldi; essa è praticamente ridotta a un presidio, a un accampamento di gente venuta da fuori » (Alberto Bevilacqua, La festa parmigiana, in La mia Parma, Milano, Rizzoli, 1982, p. 515).
8 Alcuni esempi: « La ragazza si insinuava a casa mia, a mia insaputa. [...] Mi appariva, ogni volta, con un aspetto diverso. [...] Mi spiegò che amava farsi chiamare coi nomi più diversi, cambiandoli con la stessa volubilità dei modi di vestire e di truccarsi. Mutare sempre, beffardamente — affermò — recitare parti essendo, noi di noi stessi, parodia e gioco » (Alberto Bevilacqua, La Grande Giò, Milano, Mondadori, 1986, pp. 7, 8-9). ° «Marta Fiori anima cosi il mio horror vacui, che ha intuito benissimo, con metamorfosi e ironiche mosse di avvicinamento; da un sogno scarsamente realizzato di metamorfosi, infatti, mi è venuta negli anni romani
la sete che tutto dovesse succedermi a ritmo serrato. Il vivere le mille vite » (La festa parmigiana, in La mia Parma, Milano, Rizzoli, 1982, p. 629, enfasi dell’autore). !0 Si ricordino le conversazioni con interlocutori insoliti e memorabili, come l’ex scrittore Mario Cattaneo (Giuseppe Pontiggia, I/ giocatore invisibile, Milano, Mondadori, 1978, pp. 145-161) e lo smagato e imponente dottor Berbenni (Il raggio d'ombra, Milano, Mondadori, 1983, pp. 114-123).
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OST ITELI
2.- IL GRUPPO 63 E IL ROMANZO SPONTANEO DAL ’68 AL '77 «Isessantottologhi hanno del ’68 una concezione ludica o demoniaca. Indifferentemente. Mentre era in corso hanno cercato di cloroformizzarlo con tutte le loro copertine urlanti, le tavole-rotondine, i dibattiti alla menta; oggi che, a distanza di dieci anni, potrebbero anche sforzarsi di capire, pigramente scambiano ciò che è stato con la rappresentazione che ne hanno dato loro » (VittoRIo BorELLI, Diario di un militante intorno a un suicidio).
Ovviamente qui non si intende fare una storia del Gruppo 63 e dei movimenti del '68 e del ’77. A celebrative scadenze decennali di ricostruzioni se ne fanno fin troppe per quell’ansianecessità di storicizzare e riconsumare il passato recente tipi-
ca dei media e dell’industria culturale. Questi tre momenti costituiscono però le più radicali contestazioni al romanzo medio, ed è in questa forma che mi interessa vederli. Il Gruppo 63 è, all’interno, un'operazione di riallineamento culturale rispetto ad una situazione italiana economica e so-
ciale in forte progresso negli anni del boom e, all’esterno, una operazione di riagganciamento rispetto ad una cultura europea (soprattutto francese) da cui l’Italia si sentiva progressivamente emarginata. Il Gruppo è l’aspetto culturale e conclusivo del fenomeno miracolo economico iniziato alla fine degli anni cinquanta. Si è visto come il romanzo medio sia un prodotto che non incorpora una manifesta teoria, ma valorizza piuttosto «istinto » letterario e sentimenti; perciò agli inizi degli anni ’60 è insufficiente agli occhi dei nuovi gruppi intellettuali, che mirano a definirsi come corporazione professionale, tecnici della letteratura in un momento di industrializzazione e tecnologizzazione del paese; mirano insomma a distanziare la vecchia figura, tipica del medio, dello scrittore rentier e ispirato. Se si perdona un certo schematismo, non è difficile mettere a fuoco le differenze attraverso una serie di opposizioni: gli scrittori del romanzo medio sono i portatori della tradizione
intellettuale umanistica e dei valori di un'Italia sommessa, provinciale e rurale; i protagonisti del Gruppo 63 rivendicano il loro ruolo provocatorio di operatori e agitatori culturali in sinto-
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nia con il mondo dell'industria e della metropoli. I narratori del medio credono in una poetica dell'espressione fatta di contenuti sentimentali e immagini liriche, di tipo idealisticocrociano; i componenti del Gruppo concentrano la loro attenzione sulla lingua e sulla struttura formale, il contenuto scompare o diventa pretestuoso. E ancora: i primi concepiscono l’in-
tellettuale come costruttore di consenso, appartato e saggio mediatore e conciliatore; gli uomini della neoavanguardia sono per posizioni di rottura, provocazione e trasgressione, operano nel contingente, rifiutano ogni concezione sacrale del ruolo. È in fondo il ciclico e antico confronto fra tradizione e innovazione (si pensi all'analisi che ne fece Tynjanov)! complicato dal fatto, acutamente messo in rilievo da Eco, che qui l'innovazione
è rappresentata da un gruppo d’avanguardia po un gruppo di scrittori sperimentali assai Inoltre il Gruppo 63 è anche un episodio razionale: i giovani rampanti del tempo, che tellati accademici
che è al contemdiversi fra loro.? di ricambio genehanno già adden-
o editoriali, li rafforzano con l'operazione
eversivo-elitaria del Gruppo. Non è infatti un’avanguardia dei poveri e degli emarginati: questi scrittori vengono pubblicati e sponsorizzati da un ben conosciuto editore trasformista, Feltrinelli, che aveva appena finito di costruire le sue fortune su due grandi antesignani del medio, quali I/ dottor Zivago (1957) e Il Gattopardo (1958), e che attraverso la pubblicazione delle opere del Gruppo precorreva ora quella raffinata strategia di vendita di un'immagine più che di un contenuto che diverrà comune negli anni settanta. Quella del Gruppo è infatti una produzione fatta di aura e teoria, un’operazione-manifesto come è tipico delle avanguardie; in altre parole una «letteratura da non fruire » che nei suoi ardui giochi compositivi si sottrae consapevolmente e polemicamente al consumo del lettore medio. Il Gruppo 63 rappresenta quindi un momento di rottura, di sprovincializzazione e di svecchiamento nei confronti del romanzo tradizionale e della « società letteraria », ma registra tutti
i limiti dell'esperimento puro e non commerciabile se non come manifesto culturale per gli addetti ai lavori. Nei primi anni sessanta, mentre infuria l'avanguardia, il lettore medio continua
tranquillamente ad acquistare Cassola e a decretarne i successi di vendita. Dati questi termini, ci si può a questo punto domandare
quale incidenza possa avere allora avuto il Gruppo 63 sulle sorti del romanzo medio, come e se abbia potuto influenzarlo. Direi che il Gruppo, benché il suo attacco al medio fosse esplicito, non ne ha visibilmente e direttamente modificato le convenzioni. Le situazioni del Gruppo e del romanzo medio sono cosi di34
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verse che non si incontrano né si scontrano, ma convivono com-
plicemente parallele. Da una parte c’è l'avanguardia e l’esperimento, dall'altra il romanzo tradizionale, come dire l’arte di laboratorio e quella di cesello; da una parte c'è una nuova generazione di operatori culturali, dall'altra la vecchia guardia degli scrittori puri; da una parte c’è un pubblico ristrettissimo e avido di novità costituito in gran parte da addetti ai lavori nel settore della cultura, dall'altra c'è una vasta fascia di lettori di ceto medio che identifica l'armonia della vera arte con l’elegiaca equidistanza dagli estremi propria del romanzo medio. Questi lettori nei confronti dell'avanguardia e dei suoi clamori autopropagandistici prendono posizioni che vanno dalla superficiale curiosità al fastidio che merita ogni chiassoso eccesso. Come puntualizza Alberto Cadioli,* quando si ha un vasto mer-
cato medio nasce la necessità di creare anche un mercato di élite, e il funzionamento di queste due culture (fatte di generi, scrittori e pubblici diversi) si basa sull’ossimoro della separata convivenza: l’una pone i presupposti per l’esistenza dell'altra nel delimitare il proprio spazio. L'avanguardia può esistere proprio perché c'è un romanzo tradizionale a cui reagire; gli scrittori di tale romanzo, lungi dal perdere il loro vasto pubblico, lo consolidano e divengono per esso artisti ancor più misurati se confrontati con gli incomprensibili «nuovi barbari » tecnologici. Quindi quello della neoavanguardia contro il medio è un attacco fallito in partenza perché puro manifesto, dialogo fra due contendenti sordi e complici; comunque un attacco che è stato l’antesignano e la spia di un’esigenza di cambiamento assai più vasta, che sfocerà nel ’68. Il medio possiede la vitalità discreta e insospettabile tipica di ogni caposaldo di una maggioranza silenziosa che lo identifica con dei «valori che contano e che durano », in grado di
superare effimere intemperanze avanguardistiche e radicali sommovimenti sociali. Non è questo il caso del Gruppo 63 che, tante volte tacciato di opportunismo carrieristico, ha tuttavia il merito di durare quanto deve e di darsi morte sulla rivista Quindici una volta che col '68 è superato dai fatti. Il Gruppo finisce con un necessario passaggio dalle ambiguità delle ideologie da manifesto alla chiarezza di una concreta e rischiosa militanza politica per chi, come Nanni Balestrini, crede di dover
coerentemente abbracciare i tempi nuovi che l'avanguardia stessa aveva auspicato. Ed è proprio Balestrini che mostra come l'operazione avanguardistica del Gruppo fosse stata program‘matica e cerebrale quando, con la lotta di classe, passa dal tuttoforma di Tristano (1966) al tutto-contenuto di Vogliamo tutto (1971). Caso diverso è quello di Giorgio Manganelli, unico scrit-
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tore del Gruppo che sopravviva sino ad oggi non come reperto ma come autore attivo e interessante, che non ha disconosciu-
to l’esperienza di eversione linguistico-testuale di quegli anni ma l’ha progressivamente temperata in giochi metanarrativi e fabulatori, precorrendo molte caratteristiche oggi considerate tipiche del postmoderno. Sin da Hilarotragoedia (1964) Manganelli è stato lucido anticipatore di quella metafiction raffinata ed autoironica che negli Stati Uniti acquisirà consapevolezza di sé solo nella seconda metà degli anni sessanta (Donald Barthelme, Snow White, 1967; John Barth, Lost in the Funhouse, 1968; Robert Coover, Pricksongs & Descants, 1969), a riprova
di come la componente più propriamente sperimentale del Gruppo fosse ricca di fermenti originali e di ampio respiro.* Col ’68 arriva il momento del saggio: il romanzo medio continua ad essere letto dal suo vasto pubblico abituale che, so-
prattutto in questo periodo di conflittualità generazionale, mi sembra utile configurare come pubblico di mezza età; i giovani invece acquistano saggistica politica e sociologica? e criticano
il romanzo come genere tipicamente borghese e d’evasione.$ Questa situazione persisterà per gran parte degli anni settanta. Dice Vittorio Borelli in Diario di un militante intorno a un suicidio (Milano, Feltrinelli, 1979), ironico e disincantato ritratto
della generazione che aveva vent'anni nel ’68: Per una decina d’anni non potevi neanche prendere in mano un romanzo, buono o cattivo che fosse, riuscivi a leggere soltanto saggi più o meno involuti, anzi la maggior parte dei quali involuti. Sarà per questo che tanti non riescono a ripensare a questi dieci anni trascorsi se non in termini di saggistica? (47)
È soprattutto il nostro romanzo fatto in casa che appare dissonante dalla mentalità e dalle aspettative delle generazioni giovani, e si legge semmai narrativa d'importazione: la letteratura latinoamericana, col suo taglio epico e la sua ricchezza fantastica, col suo sfondo di movimenti di liberazione e lotta popolare, appare portatrice di una cultura alternativa e aperta
alla speranza. Altri meriti si riconoscono più tardi alla narrati- . va mitteleuropea della prima metà del secolo, che dal suo punto di vista iperborghese scava però impietosamente nella decadenza e nel rimosso della civiltà europea. E, se Garcia Marquez
appartiene all'ormai consolidato e sempre presente Feltrinelli, sulla voga di Hesse e poi di Roth e affini nella seconda metà degli anni settanta fonderà le sue fortune un’editrice d’élite dall'immagine raffinata come Adelphi, a riprova del fatto che il «medio » presuppone sempre l’esistenza di un piccolo e com36
plice «alto ». Ma più ancora dei gusti ci interessano le proposte che escono dal movimento giovanile e studentesco: il '68 aveva propugnato un’idea di cultura antiaccademica e antielitaria, base per la liberazione e la maturazione di tutti e non fonte di potere per un ristretto gruppo dirigente. Con gli anni settanta e l'avvicinarsi del "77 si forma cosi un progetto di letteratura creativa e militante, che si propone di coniugare personale e politico («il personale è politico » è infatti lo slogan ricorrente), vita privata e impegno pubblico, come elementi di una progressiva ed armonica crescita dell’individuo. Si scopre il potere eversivo del reale e dello spontaneo contro le convenzioni, sentite come strumentazione elitaria. In una ricerca di nuove posizioni per l’intellettuale si recuperano programmaticamente il comico e il basso intesi non solo come ciò che fa ridere, ma anche come ciò che è cultura subalterna e marginale; e dare
voce ai marginali, agli incolti (0 meglio, a coloro che sono incolti secondo i criteri della cultura letterata e ufficiale), coincide con un programma di eversione ironica, di spiazzamento del punto di vista (si pensi al grammelot e ai « Misteri » di Dario Fo e, più latamente, al grande revival dei film comici del
muto e alla fortuna del fumetto impegnato). Dal movimento del ’68, cosi programmaticamente antiromanzo, per forza di cose non nasce nessuna significativa narrativa politica; ma anche il '77, nonostante l’enfasi su una forma di impegno creativo, non dà i risultati sperati. Si possono distinguere due atteggiamenti fondamentali nella produzione di «letteratura politica » nel periodo che va dal ’68 alla fine degli anni settanta: 1) Innanzitutto, già prima del ’77, la diffusione di una nozione di scrittura (la «scrittura di movimento ») che vuole recuperare i valori della spontaneità e dell’ingenuità cosi intenzionalmente da raggiungere infine risultati opposti, una retorica dell’antiretorica (come per esempio accadde agli ultimi e più corrivi esempi di romanzo neorealista). Spontaneità e ingenuità (intese come rifiuto delle sovrastrutture borghesi, concettuali o pratiche che fossero) sono viste come ingredienti essenziali di una creatività alla portata di tutti, dato che tutti hanno una ricchezza personale da esprimere ed il diritto di manifestarla. La forte spinta antiautoritaria, che fa degli anni settanta un’esperienza disinibitoria di massa (la prima mai verificatasi nella morigerata società italiana), si traduce a livello più specificatamente letterario nella rivendicazione del parlato a oltranza come veicolo di maggior autenticità. Nella tradizione linguistica si apre una frattura irreversibile attraverso cui irSY
rompono neologismi, gerghi, parole straniere, nuove licenze sintattiche. La scrittura dei giovani del movimento si ferma spesso a livello di comunicazione personale e privata (la lettera) o si rivolge ad un pubblico complice di militanti (il volantino, la piccola rivista), è gergale, iniziatica, a conferma della propria diversità; è volutamente irriverente ed eccessiva, talvolta piat-
ta e semplicistica, talvolta involuta e oscura (come in certe prove del politichese assembleare) nel tentativo di presentare una varietà e un sapere alternativi alla cultura ufficiale. Non è un caso che in questo periodo ci sia una grande fioritura di poesia sentita come il mezzo di espressione creativo e personale per eccellenza; la poesia è immediata e breve, e quindi alla portata di tutti (si rivaluta infatti soprattutto una linea poetica ribellistica e colloquiale, non certo gli ermetici o i parnassiani), non legata a quella laboriosa analisi e interpretazione del reale, o a quella produzione di un'immagine complessa di esso, che il romanzo richiede.” Insieme a quello per la poesia, cresce l’interesse per l'autobiografia femminile come espressione e presa di coscienza di una creatività frustrata e repressa da un ruolo subalterno; la scrittura privata e antiletteraria diviene una pratica di emancipazione politica e culturale. In questo rifiutare una dimensione più articolata e complessa dello scrivere, quale il romanzo, era presente una critica contro un genere lette-
rario che è pesantemente viziato da connotati di classe e prodotto dell’industria culturale (Boccalone di Enrico Palandri, uno dei pochi esempi di « romanzo di movimento », è non a caso pubblicato dal piccolo editore dell'ala creativa del ’77, L’Erba Voglio). Si identificava la verità e la civiltà con la non mediata espressione della massa e quindi si combatteva ogni posizione elitaria e letteraria come necessariamente ideologica, non spontanea e conservatrice. Cosi la scrittura di movimento si autoabortiva prima di acquisire una struttura letteraria e finiva con l'essere velleitaria e spontaneistica nel suo mimare un inattingibile « stato di natura ». 2) Da questo propugnato e inattingibile « grado zero » della artificialità si perviene a posizioni dichiaratamente di compro- . messo: i casi di quei libri o-collane che devono parte del loro successo al fatto di essere pubblicati e pubblicizzati da un’editoria di sinistra smaliziata o dalla grande editoria, e che, pro-
prio perché sponsorizzati dall'industria culturale, non posso-
no ene essere snaturati travestimenti di un originale impos-
sibile. Un caso da ricordare di questi anni è Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti (Roma, Savelli, 1976) di 38
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«Rocco e Antonia », adolescenti-massa della borghesia romana alle prese col proprio corpo, l’amore, le manifestazioni e i collettivi dell'anno scolastico 1975-76. Dietro « Rocco e Antonia » sta labile scrittura a quattro mani di Marco Lombardo-Radice
e Lidia Ravera, modello commerciale della « scrittura di movimento » che scaturisce dal ’77 (Boccalone di Palandri, Inverno
di Corrias), nella quale c’è un linguaggio simile, gergale e disinibito, lo stesso orizzonte di subculture giovanili attraverso il
cui filtro alternativamente dissacrante e mitizzante passa ogni esperienza « politica », e al solito una storia d’amore narrata in prima persona, magari con meno sesso e più introspezione sen-
timentale rispetto al provocatorio libretto che inaugurò per Savelli la collana «Il pane e le rose ». Da quanto Borelli dice con ironica genericità sull’editoria e il '68 si può estrapolare un preciso e malizioso commento al libro di Lombardo-Radice e di Ravera: L'editoria ha scoperto un nuovo filone: il '68 come cadavere da imbalsamare. Saggi di qui, memorie di là, terribili ex rivoluzionari che raccolgono i loro articoli come reliquie, intere collane sui comportamenti sessuali e le turbe psichiche degli ex sessantottini, romanzetti pieni di cazzi, culi, fiche e cioè (Diario di un militante intorno a un suicidio, 77).
C'è indubbiamente una «linea rossa »? che dal ’68 porta al "77, lungo la quale posizioni dichiaratamente militanti (Vogliamo tutto, 1971, di Nanni Balestrini; Nord e Sud uniti nella lotta, 1974, di Vincenzo Guerrazzi) e di netto rifiuto del romanzo
borghese (Irati e sereni, 1974, di Francesco Leonetti) si alternano a pagine già riflessive e memorialistiche (/ giorni del dissenso, 1968, di Giorgio Cesarano; Pagine di diario, 1971, di Franco Petroni; Cani sciolti, 1973, di Renzo Paris). Un vero e proprio filo narrativo che dall’immediato post-sessantotto arriva a lambire gli anni ottanta è quello fornitoci dalla collana «I Franchi Narratori » del funambolico Feltrinelli che, dopo essere stato il precursore editoriale del medio e l'editore dell’ambiguamente elitaria neoavanguardia, recupera a sinistra con una collana che vuole conciliare la domanda sempre crescente di saggistica con le suggestioni della narrativa. In altre parole Feltrinelli cerca di rendere più attraente e digeribile l’ostico e involuto saggio di cui parla Borelli mutandolo in romanzo politico. Si può obiettare che dietro l'apparente trasformismo editoriale questa è un’operazione meritoria. È giusto che, con l'emergere di nuovi protagonismi nella vita sociale (operai, donne, studenti), si realizzino tentativi di narrativa in presa diretta: dar voce a chi è
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sempre stato privato della possibilità di esprimersi, come si è visto, diviene un programma insieme culturale e politico. I prodotti « spontanei » delle classi e dei gruppi culturalmente subalterni, intesi come registrazioni antropologiche del parlato e come interventi in un dibattito aperto, non certo come opera d’arte, sono insieme documento, denuncia e proposta politica da un lato, frattura stilistica e contestazione della letteratura
colta dall'altro. Eppure «I Franchi Narratori » non sono quell'attacco coerente alle convenzioni del romanzo medio che possono sembrare a prima vista; anzi, finiscono spesso col riprenderne cripticamente molte caratteristiche e col suscitare in chi legge un tipo di adesione che è appunto quella preferita dall’abituale consumatore del romanzo medio. Questo non per consapevole malizia di chi scrive, il quale invero, proprio nel riprendere automaticamente certi stilemi e tépoi privilegiati del medio, dimostra come l’influenza di un certo modello borghese dello scrivere sia pervasiva e difficilmente evitabile. È semmai l’editore che sa, e sceglie oculatamente un « manoscritto
spontaneo » invece di un altro perché vi intravede un conveniente doppio binario di lettura. Si pensi ad un caso come Padre padrone: l'educazione di un pastore (1975) di Gavino Ledda, senz'altro il libro più fortunato della collana, tanto da essere trasposto in film. L’opera si propone come diversa e antiborghese per vari motivi: è l’autobiografia di un non-scrittore, addirittura di un pastore, rappresentante emblematico di una condizione subalterna ed emarginata; lo stile è antiletterario, infarcito di espressioni dialettali (per quanto fra parentesi); il contenuto ha una forza dirompente proprio per il suo anacronismo (un passato recente che sembra impossibile nella «civile Italia degli anni settanta »); il resoconto della lotta di Gavino contro la condizione di «uomo naturale » che gli viene imposta dal padre può sembrare un’altra salutare smitizzazione di quello « stato di natura » che, ironicamente,
il letterato e il lettore medio vagheggiano perché non conoscono che librescamente. Ciò nonostante Padre padrone, nella sua diversità e trasgressione, può essere facilmente recuperato e interpretato tutto a favore del lettore medio, che infatti ne fa .
un best-seller. Il benpensante nel leggere le sofferenze del pastore-bambino Gavino che vuole istruirsi ha un’ulteriore conferma di quanto siano importanti i valori della scuola e della cultura, che vengono proprio in questi anni messi in discussio-
ne dal movimento studentesco, e si coinvolge paternalisticamen-
te nel leggere la storia sensazionale e commovente di un pastore che diventa intellettuale. Questa storia è in fondo la conferma che nella nostra società il riscatto per i meritevoli che sanno 40
lavorare e soffrire è sempre garantito, che la cultura borghese
è la migliore, civilizzatrice e nobilitante se dà voce e parola per-
sino ai pastori. Il lettore medio insomma esce edificato e consolidato nella sua fede nei valori e dà il suo caloroso assenso
facendo di Padre padrone, paradossalmente, un successo della
nuova sinistra editoriale. Questo ambiguo doppio codice di lettura vale per molti altri libri della collana. Si pensi al caso di Tommaso Di Ciaula: nel 1978 pubblicò Tuta blu: ire e ricordi di un operaio del Sud, che riscosse un discreto successo. Tuta blu è una storia di vita di fabbrica, di trapasso bruto da una civiltà agricola ad una industriale nel resoconto stile diario, fatto di lacerti saltuari, della
vita di un operaio che avrebbe voluto fare il contadino (si noti la specularità rispetto a Ledda) e che rievoca un passato di solida e sana vita rurale. Il libro è scritto sul leitmotiv dell’«una volta ... ora»; confessionale, intriso di nostalgia per il microco-
smo assediato, a parte qualche « parolaccia » è una narrazione media poetica e piena di buoni sentimenti, umorale come si conviene allo scritto di un sanguigno operaio ed elegiaca come dev’essere la storia di un mondo che muore. Di Ciaula in Tuta blu quando scrive della vita di fabbrica ostenta una rabbia scanzonata che equilibra a malapena il languore e la malinconia sentimentale delle sue riflessioni sul Sud e sulla civiltà contadina che scompare; in Prima l'amaro, poi il dolce: amori e altri mestieri (1981) la rivendicazione di classe che scaturisce dalla vita di fabbrica si scolora ulteriormente e l’attenzione dello scrittore, come da quarta di copertina, si concentra sulla «ricerca delle tradizioni del vecchio mondo contadino e artigianale ». Cosi «un poeta-operaio rivisita il Sud e scopre, oltre i segreti delle vecchie professioni (le ricamatrici, i raccoglitori di olive, gli artificieri, i barbieri...), imeccanismi che garantivano continuità e compattezza ai rituali sociali: le processioni, i giochi dei ragazzi e i giochi d'amore, i banchetti e la magia»; siamo in piena elegia del microcosmo e Feltrinelli, non a caso, ha fatto ormai
colpevolmente e pudicamente sparire l’aggressiva definizione della collana dal risvolto di copertina.!° Prima l'amaro, poi il dolce è un romanzo medio in versione semisaggistica, reso un
po’ trasgressivo dalla « confezione alternativa » (la solita affollata copertina in bianco e nero dei «Franchi Narratori» che valorizza più la collana che il singolo autore) e da un po’ di esplicito e rude sesso rurale. Allo stile confessionale ed elegiaco non si sottrae neppure il libro di Vittorio Borelli, Diario di un militante intorno a un
suicidio (1979), dove il suicidio enigmatico del giovane compagno Marco e la crisi politica del narratore, militante del ’68 e
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del ’77, identificano il mondo che muore
non con il microco-
smo agrario ma con quello del movimento giovanile, e l’atmosfera, nonostante molti guizzi di caustica ironia, parla già di ripiegamento e di riflusso. Insomma, se da un lato «I Franchi Narratori » si propongono come iniziativa editoriale diversa, dall’altro finiscono con l’accettare surrettiziamente la logica del mercato, che vede nella
formula del medio l’unica che può veramente allargare la fascia dei compratori, conquistando alla collana non solo i giovani lettori a oltranza di saggistica ma anche una più vasta clientela di lettori progressisti non indifferenti al fascino discreto del romanzo medio e delle sue convenzioni. Vassalli e Celati
Tutti gli attacchi esaminati sinora non riescono a porsi come
valida alternativa al romanzo medio. L'’avanguardia utopistica e tuttavia connivente del Gruppo 63, l'impossibile esperimento ingenuo della scrittura di movimento e le astute operazioni di alcuni editori si esauriscono lasciando il panorama letterario sostanzialmente immutato. Sembra che l’unico attacco possibile contro il romanzo, genere borghese che si realizza e si verifica nel consumo, sia il non acquisto. Ed infatti, al di là delle
tavole rotonde sulla morte del romanzo che imperversano per tutti gli anni settanta e che sono catastrofiche ma anche pubblicitarie, la crisi più sentita dagli editori non è quella ideologica ma quella mercantile. Eppure il romanzo in questi anni non vende meno di quanto vendesse prima; vende però meno del saggio, genere che fino ai primi anni sessanta era la cenerentola dell’editoria. I giovani creano il boom del saggio politico e sociologico, ma non tolgono lettori al romanzo medio perché creano appunto un altro mercato per un altro pubblico che fino a poco prima non esisteva o leggeva ben poco in assoluto.
In realtà un attacco valido al romanzo medio che non sia mera alternativa quantitativa e che venga dall’interno c’è, ed è un ripensamento delle forme narrative alla luce delle esperienze dell'avanguardia e della scrittura di movimento. Si è visto come il parlato, proposto come posizione di rottura rispetto allo stile letterario, non diviene letteratura proletaria o co-
munque alternativa prodotta dal basso. Ma proprio su questo fallimento si innestano due posizioni colte, non più utopisticamente collettive ma fattivamente individuali: quella sperimentale, proveniente dal Gruppo 63, di Sebastiano Vassalli, che usa il parlato-scritto come uno dei linguaggi del suo letteratissimo
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repertorio di straniamenti antimimetici e provocazioni iperletterarie; quella più direttamente politica di Gianni Celati, di provenienza bachtiniana, che usa il parlato-scritto con intenti di resa comica (nel doppio senso del basso e del buffo), polemicamente caricata di valori eversivi rispetto ai canoni letterari alti. Vassalli e Celati meritano una trattazione a parte anche perché per troppo tempo la critica li ha trascurati associandoli a quelle impasse dell'avanguardia e della scrittura di movimento che proprio loro sono riusciti a superare. Per quanto a pri-
ma vista distanti — e direi distanti soprattutto per quel gran salto culturale nei modi di fare letteratura che fu il '68 — gli esiti di Celati e Vassalli riprendono rispettivamente motivi di sperimentalismo impegnato e di lucidità storica propri dei due maggiori scrittori italiani maturati negli anni cinquanta e sessanta, Calvino e Sciascia, di cui si sono dimostrati i più validi interlocutori. Sebastiano Vassalli (n. 1941 a Genova) esordisce con Narcisso (Torino, Einaudi, 1968), che deve molto al funambolismo oratorio di Hilarotragoedia (1964) di Manganelli, non a caso autore della postfazione. Segue cosi una linea prevalentemente lombarda di grandi rètori che uniscono allo pseudoraziocinio di un logos modellato su canoni classici ma internamente minato dal paradosso, dall’esasperazione, dall’ossimoro, la diso-
rientante veemenza affabulatoria e tragicomica prodotta dallo scontro di stile alto e stile basso (dal capostipite Folengo ai divertimenti scoppiettanti di Carlo Dossi, ai giochi trasognatoastuti del Bontempelli di Avventure, a Gadda, fino appunto a Manganelli). Dopo le poesie « dislettiche » di Disfaso (Roma, Trevi, 1969), dove l’effetto di un verso si cancella nel non sequitur del seguente che pure sembra accennare ad una logica nascosta, Vassalli arriva con Tempo di màssacro (Torino, Einaudi,
1970) a perfezionare gli esiti di Narcisso. Tempo di màssacro ha le armoniose movenze strutturali di un trattato tardo rinascimentale, ma scevera in dirompente stile maccheronico una ra-
gionata casistica di morte, che fa balenare olocausti recenti e incombenti. In JI! millennio che muore (Torino, Einaudi, 1972) Vassalli vuole offrire, in un sapienziale libro di fine millennio,
la cronaca impossibile della morte del libro, dell'estinzione della letteratura per esaurimento e decomposizione di tutte le sue possibilità, e insieme la celebrazione della parola, della scrit-
tura, del testo con il loro ordine compositivo, capace di dare l’unica forma possibile all’angosciosa inconoscibilità dell'io. Vassalli sembra contrapporre un'alternativa apocalittica e magmatica al lucido resoconto geografico-fantastico di Calvino in 43
Le città invisibili (1972), redigendo una mappa in cui il testo non è ricognizione visionaria di splendide città ma solo di se stesso
in chiave naturale (« pianure verdeggianti di aggettivi nereggianti di sostantivi praterie infiorate a perdita d’occhio di articoli, valli e convalli brulicanti di verbi, [...] giardini fioriti d'accenti » [8, 9)). In altre parole, all’idea classica e rinascimentale che la natura sia un « testo » decodificabile, e che il testo scritto possa esprimere tale natura, si sostituisce una contrazione meta-
forica per cui il testo è la natura stessa e nulla è al di fuori (« al di fuori del libro c’è il mondo privo di forma e sostanza inconoscibile innominabile nullo » [10]). Solo il testo è reale, e noi lo
leggiamo attraverso apposite nozioni come si legge un organismo vivente: il testo è reale e vivo, dunque a-razionale, e sono
i metalinguaggi dell'analisi semiologica a tentare un suo impossibile riordinamento concettuale. Questa passione per il siste-. ma e le sue variabili porta Vassalli in AA. Il libro dell’utopia ceramica (Ravenna, Longo, 1974) a partire da posizioni che ricordano il Calvino di // castello dei destini incrociati (1973), con esiti però molto diversi; ai tarocchi si sostituiscono esagonali piastrelle fabulatorie che si ordinano per lato, come un domino capriccioso degli argomenti possibili, giungendo cosi ad una « piastrellizzazione e ceramizzazione del globo » (trasformato in apparecchio sanitario), a sua volta di eco calviniana.!! Questi accenni vogliono dare un’idea dell’esuberanza sperimentale e del ricco apprendistato compositivo di Vassalli, ed anche però dei limiti che gli vengono proprio dalla « libertà creativa » predicata in quegli anni, con le sue caratteristiche di tautologico narcisismo e sterilità di temi. Dirà dopo Vassalli: [L]'assoluta modernità negli anni sessanta in Italia significò via
le maiuscole, via la punteggiatura, via la sintassi, via la metrica, via i generi letterari. Parole in libertà. Emozioni in libertà. Libertà in libertà. Caos e, in qualche caso, tentativi di dominarlo con astruse teorizzazioni o con l'elettronica dei computers. Insomma: l’Arcadia pro-
gressista e libertaria, ancora più asfissiante dell’altra.!?
E infatti a partire dalla metà degli anni settanta Vassalli traduce nella disciplina del genere romanzo la sua esperienza di anarchico poeta-rètore. Dopo l'esordio incerto di L’arrivo della lozione (Torino, Einaudi, 1976), i seguenti Abitare il vento (Torino, Einaudi, 1980) e Marebli (Milano, Mondadori, 1982) sono
la prova di come si possano scrivere romanzi godibili, eversivi, e letteratissimi. L'arrivo della lozione, beffardo fin nel titolo che vuole essere la corruzione fonetica, in bocca ai militanti di destra, dell’aborrito termine «la rivoluzione », racconta la storia
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esemplare di un personaggio specchio dei tempi e anticipa e rammenta l'impegno civile e la struttura-apologo del Candido (1977) di Sciascia. Il narratore cronista ricostruisce vita, morte e supposti miracoli di un « martire » della destra sottoproletaria ed estremista, il rozzo terrorista fascista Benito Chetorni
(che si immagina vissuto dal 1950 al 1973), e redige cosi la caustica radiografia di un'Italia degradata a murgia levantina, torpida e corrotta. Sarcastico Bildungsroman alla rovescia, L’arrivo della lozione incorre nel pericolo del didascalico proprio per la sua ansia di essere exemplum, fin nelle lunghe titolazioni arcaicizzanti dei singoli capitoli (anche qui, si ricordi lo Sciascia di Candido).!3 In Abitare il vento Vassalli adotta un io narrante che valorizza appieno le doti retoriche e narcisistiche della sua scrittura. Cris, che si definisce « cavaliere errante amico di
tanti e di tante », è un manovale balordo e sbandato del terrorismo rosso che nasconde la propria crisi di identità (che è anche storia di crisi dell’eversione armata e di riflusso) dietro un esuberante monologo affabulatorio, miracoloso equilibrio anarchico di ricchezze verbali divergenti (parlato basso guappo e romanesco, ma anche esibizionistiche citazioni da Quasimodo
e dai lirici greci, ecolalie, giochi di parole in rima, enigmistica, elisioni, imbastardimenti, sinistrese, etc.). Se il lettore scopre infine che il discettare narrativo di Manganelli è sempre un discorso sul nulla, con Vassalli assiste ad un viaggio verso il nulla, con Cris che si autocancella nel finale suicidandosi polemicamente e svanendo nella coscienza autoriale. Alla fallita eversione terroristica di Cris corrisponde però una riuscita eversione linguistica; Vassalli rifiuta la lingua tipica del medio e propone come alternativa un amalgama di alto e basso all’insegna del grottesco. Operazione simile ed egualmente riuscita è Marebli (1982, introvabile nell'edizione Mondadori e degno come pochi libri del decennio di una ristampa che gli faccia giustizia), dove il tema non è il riflusso o la crisi del terrorismo ma il previo appannamento della sinistra rivoluzionaria. Augusto Ricci, guardiano di campeggio e vecchio stalinista logorroico e voyeur, parla incessantemente ai quadri dei quattro « giganti della storia » (Marx, Lenin, Stalin e Mao) appesi nella sua roulotte, a cui chiede consigli per sbarazzarsi dell’«idra borghese », nella fattispecie turisti molesti e l’infido padrone del camping. Mareblù parodizza la lingua e la retorica della vecchia militanza rivoluzionaria nei monologhi deliranti di Augusto Ricci, che conclude la sua storia con una lunga e convulsa risata liberatoria (« Ah, ah, ah, sarà una risata che vi seppellirà » era non
a caso il motto dell’ala creativa del movimento del ’77). Come i giovani creativi del ‘77, Vassalli usa il comico e il punto di vi45
sta dal basso, e lo fa per trasgredire la grottesca e stupida serietà del mondo normale ma anche per esorcizzare l’elegia che sarebbe altrimenti prontamente evocata dal fallimento rivoluzionario; c'è nel comico di Vassalli più il sentimento nichilisti-
co della vanità persino della tragedia che la fiducia in una possibile lotta politica «buona», ludica e senza violenza. Cosi anche il suo parlato è esilarante e verosimile perché nasce dal sapiente tirocinio di laboratorio del Gruppo 63, non certo dall’ingenua credenza che il parlato, per riprodurlo, basti scriverlo. In altre parole, la sua è un’operazione in cui il politico è al servizio dello scriveree non viceversa, ma non perché l’arte e la letteratura debbano essere « pure »: anzi, esse hanno il dirittodovere di assumere dentro di sé tutte le passioni e anche tutte le scorie, l'oscurità che la storia porta con sé. Se la ragione è in scacco di fronte alle contraddizioni del reale, alla sua « de-
menza », per usare una parola di Vassalli,!4 allora la letteratura è in un certo senso più potente della politica e della scienza, perché può parlare e convincere senza esibire i fondamenti del suo discorso, può scagliare pietre di indignazione senza essere giusta, senza possedere la soluzione. Più di ogni altro discorso umano quello letterario è libero di cambiare gioco, regole, livello di realtà, intenzioni, e solo questa vertiginosa ricchezza
di possibilità può dar voce o figura all’altrettanto complessa e indelimitabile pluralità del vivere. A questa poetica del mescolato e del molteplice, in un certo senso l’avversaria diretta del romanzo medio e della sua monocorde e compunta sensibilità, Vassalli rimane fedele anche nei suoi lavori successivi agli anni settanta, meno clamorosa-
mente sperimentali ma sostenuti dalla medesima passione per l'intelligenza e dalla stessa sarcastica indignazione contro tutto ciò che vuole impedirne l’affrancamento e mortificarla entro limiti appannati e conformistici. Dal vetriolico pamphlet sulla nuova consorteria poetica italiana (Arkadia: carriere, caratteri, confraternite degli impoeti d’Italia, Bergamo, El Bagatt, 1983) ai romanzi-verità e alle inchieste che esaminerò fra breve, Vassalli dimostra sempre di essere uno scrittore scomodo,
ribelle alla logica e ai circuiti dell'industria letteraria, che infatti lo ha ripagato con indifferenza o sufficienza.
Gianni Celati (n. 1937 a Sondrio) esordisce nel 1971 con Co-
miche, pubblicato, come Narcisso di Vassalli, nella collana «La
ricerca letteraria » di Einaudi; la lunga e illuminante postfazione è di Italo Calvino. Comiche si svolge in un ambiente sfumato
ma chiaramente repressivo, dove niente, nemmeno il nome del protagonista, è sicuro. In una specie di albergo-scuola-colonia
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s a
estiva-manicomio un ipotetico professore dalla labile identità e afflitto da mania di persecuzione scrive un diario che tre maestri elementari invidiosi tentano di sottrargli in un susseguirsi serrato di variopinte vicende che coinvolgono bagnini, complot-
tatori monarchici, una voluttuosa direttrice grassa, un fanta-
sma maligno e un aeroplano parlante. Dietro l'esperimento di Comiche c’è da parte di Celati l'intento di trasporre la girandola esilarante di avvenimenti delle comiche finali (da Ridolini a Charlot, agli amati fratelli Marx)! dal visivo allo scritto attraverso la creazione di un parlato concitato e disadattato, quello del paranoico professore. Ma l’effetto della «comica scritta » lo si può paragonare a quello surreale e disorientante di una comica finale ulteriormente accelerata alla moviola. Letteralmente, il lettore non fa in tempo a divertirsi perché stenta a seguire e tanto più a visualizzare i rapidissimi accadimenti e i repentini cambi di scena. Nonostante questo, Comiche è indubbiamente una prima prova ricca di promesse: Celati rivaluta le qualità eversive del grande cinema muto e propone un esperimento linguistico antielitario che fa « parlare [...] le voci del rifiutato, dell’escluso, del rimorso » (Calvino, postfazione).
Come dice Celati stesso, questa è « una lingua di pure carenze » che, come insegnante, egli aveva conosciuto nell’ingegnoso e creativo parlato-scritto dei ragazzini delle scuole medie di campagna: «I ragazzini scrivevano il loro italiano, il loro abile (perché frutto di un’esperienza ormai secolare) adattamento all’italiano, con una capacità di ironia e di tensione che mi sbalordivano; altroché infantilismo; i loro equivoci erano, voluti o no,
dei capolavori di contestazione ». Celati vede nell’incapacità dei ragazzini a conformarsi ad un italiano scritto convenzionale e
retorico una prova di sano « disadattamento al mondo cartaceoparanoico-verbodelirante », che è poi quello degli adulti benpensanti e integrati. Cosi la salvezza dalla lingua cartacea dell’establishment la si trova solo nel parlato dei più giovani (come ben si vedrà in La banda dei sospiri) o in quello scardinato e delirante del folle. Come ricorda Calvino citando Celati, «[i]l
“parlato” di Celati vuol essere quello ‘che non si parla con nessuno tranne quando si va in vacca o si impazzisce’»; Celati si
riallaccia cosi ad una tradizione di scrittura antiletteraria che individua nella lingua del pazzo e dell’emarginato quella dell’unico artista possibile in una società repressiva (e da qui gli ambigui edifici-istituzione totalitaria di Comiche e di Le avventure di Guizzardi). Il suo Guizzardi è un «uomo del sottosuolo » che crede di volare quando si sottrae al mondo delirando, un paranoico veggente che vede e crea le sue stesse ossessive persecuzioni per divenirne comica vittima. Ma il fertile paradosso 47
è che le sue avventure surreali Guizzardi le verbalizza in una lingua corporale, tutta fatta di azioni e di cose. E la lingua concreta dei poveri, che non si stacca dai fatti neppure nella follia, e-Guizzardi sembra infatti una specie di Ligabue della parola, a dimostrare che anche i sottoproletari possono essere dei ricchi visionari. Le avventure di Guizzardi (Torino, Einaudi, 1973)
è insomma il logico e riuscito sviluppo dell'esordio narrativo di Celati. Rispetto al professore, Guizzardi è un più centrato io narrante e le sue avventure, benché spesso labili di intreccio come lui lo è di mente, sono sempre più consequenziali e distese del centrifugo susseguirsi di episodi di Comiche, anche se i temi comuni non mancano: dalla mania di persecuzione dell’io narrante inetto all’invadenza erotica della donna grassa, ai fantasmi maligni, al volo come fuga. Guizzardi, ritardato studente innamorato della signorina Frizzi che gli dà lezioni di « lingue estere » su una panchina dei giardini, un giorno arriva troppo tardi all'appuntamento per aver preso a calci la madre nei suoi «luoghi bruttissimi »; disperato si rifugia in altra città presso l’amico Piccioli dai turpi e avari genitori merciai; viene da
essi venduto alla vogliosa e grassa vedova Coniglio; riesce a fuggire gettandosi dalla finestra su un camion carico di rifiuti; finisce in un ospedale-lager in cui sfida e acceca con l’ombrello un gigantesco infermiere; fugge e con un compare si dà a una vita vagabonda di piccoli furti; viene imprigionato in una stia di galline dove due grasse sorelle abusano di lui; fugge di nuovo, e cosi via. Questa breve traccia per dare un’idea della ricchezza dell'impianto narrativo, dove abbondano suggestioni e richiami che vanno dal burlesque del muto a Pinocchio, alla com-
media dell’arte, al Don Quijote, fino al Decameron (l'episodio di Andreuccio) e all’Odissea (l'episodio di Polifemo). Non è un caso che Celati pubblichi poco dopo Finzioni occidentali (Torino, Einaudi, 1975), una collezione di saggi sul romanzo e sulle tradizioni e funzioni del comico e del riso (Rabelais, Breton, Cervantes, Beckett); né tantomeno è un caso che Le avventure di
Guizzardi lo si goda al suo meglio in una lettura a voce alta, che ne valorizzi la comicità sonora e immediata fatta di ecolalie demenziali, assonanze osé, testa-coda sintattici, continue in-
trusioni del discorso diretto in un raccontare logorroico, senza una sola virgola, appunto in perpetua fuga come il povero Guizzardi. Dicono Gianni Celati e Lino Gabellone nella presentazione a La bottega dei mimi (Pollenza-Macerata, La Nuova Fo-
glio, 1977), una giocosa collezione di foto corredata da testo sul
lavoro del mimo:
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Poi assieme abbiamo tradotto due libri di Céline [...], e per riusci-
re a farlo abbiamo dovuto recitarceli, metterci a posto la voce e i ge| sti, fare lavoro sul personaggio. [...] Uno di noi [ovviamente Celati] ha continuato a scrivere romanzi basandosi su questo criterio della voce da cercarsi (con esercizi relativi) e su un personaggio tutto tradotto dai toni di voce (3-4).
Insomma per Celati il laboratorio dello scrittore non è poi cosi diverso da quello dell’attore: in entrambi i casi si tratta . di creare un personaggio fondamentalmente attraverso la voce che gli si trova (sia essa sonora o scritta), e dietro ai risultati di questo « parlato » c’è solo in apparenza geniale spontaneità; | dietro c'è piuttosto cultura e controllo, paziente ricerca e innumerevoli prove. La banda dei sospiri (Torino, Einaudi, 1976) continua lo stu-
dio sul parlato non più dalla parte del disadattato ma da quella del ragazzino, e riprende idealmente quelle osservazioni sulla «lingua di pure carenze » fatte dal Celati insegnante. Mentre Guizzardi era un senza famiglia, qui il centro del romanzo è proprio una esemplare famiglia piccolo-borghese, con padre prepotente, madre vittima, figli discoli e un ostile parentado. Per l’io narrante, il ragazzino Garibaldi, la famiglia è un'’istituzione concentrazionaria, una « tribù di sbraitoni », un teatrino della
| vita dove ogni litigio finisce in una baraonda da comica finale. Garibaldi racconta la sua infanzia e adolescenza in un parlato bambinesco e sgrammaticato ora euforico ora imbronciato, fat| to di accattivanti divagazioni controllate (« Adesso dirò qualche parola di ... »), diverso dal parlato allucinato e guizzante, tutto strappi e vuoti, di Guizzardi. Il punto di vista è, letteralmente, . dal basso; il piccolo Garibaldi osserva il mondo adulto con la spiazzante freschezza dei ragazzini: « metafisicizza » le cose più normali (« Le prove dei vestiti si facevano con molti spilli in bocca alla madre » [23-24]; « Si mangiava tutto lei e cosi le spunta-
va tanta carne nel sedere » [16]) e demitizza quelle più artefatte («Il pittore era uno con la barbetta e aveva una moglie sua concubina, come si usava tra i pittori » [40]). Il parametro su cui Garibaldi misura i grandi più attraenti e pittoreschi è quello cinematografico; mito e corporalità si intrecciano: la bella lavorante assomiglia a Veronica Lake, Garibaldi la adora ma la vorrebbe anche palpare; il fratello di lei, che ha «un fegato da menefreghista senza pari » (29), diventa l'idolo maschile su cui misurarsi: Alan Ladd. La vita di famiglia per essere sopportata deve essere ricostruita sulle movenze dei « film preferiti, con sparatorie e baci » (57) e, in mancanza di pistole, l’unico sfogo è «[f]are delle scoregge » (201). Come per il professore di Comi.
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che e Guizzardi, anche per Garibaldi esistere è un'esperienza persecutoria e ossessiva
che si esorcizza
solo raccontandola;
cosi non si può mai smettere, e i finali non possono che essere finali aperti, in movimento: il professore vola via, Guizzardi si
addormenta parlando, Garibaldi conclude salendo su un tram in corsa «con un balzo acrobatico » (222). Nel ’78, mentre si consumava l'avventura della scrittura di movimento e con essa l’ultimo rigurgito post-sessantottesco, Celati pubblica un libro che, significativamente, non si svolge nel
presente ma nei primi anni sessanta (1961 o 1962).!° Lunario del paradiso è la storia del viaggio in Germania di un giovane (Giovanni) che va a trovare una ragazza (Antje) conosciuta in
Italia al mare. L’io narrante Giovanni è esplicitamente autobiografico; attraverso la sua «storia sentimentale » Celati cerca,
all'insegna della nostalgia e del recupero del privato, le radici del movimento del '68, di una rabbia giovanile che all’inizio del decennio era solo generica avventura e voglia di vivere, ma che
nel giro di pochi anni si sarebbe precisata in termini dichiaratamente politici. Rispetto a ciò che Celati aveva fatto precedentemente c’è una notevole differenza, si va verso il romanzo tra-
dizionale: il personaggio Giovanni è il primo vero personaggio, non una figurina charlottiana di demente labile o un bambino vivacissimo che ricorda da vicino un personaggio dei fumetti. La sua lingua è il gergo colloquiale, anticonformista e scafato, dei giovani di quegli anni (se non è addirittura in anticipo sui tempi) ma, a ben guardare, non è altro che uno sviluppo attualizzato di quelle di Guizzardi e di Garibaldi, con la differenza che Giovanni è un protagonista molto più complesso e narcisisticamente invadente perché autobiografico e innamorato. Giovanni è la tardiva versione italiana di quel modello di adolescente problematico che non si ha difficoltà a immaginare, di li a
pochi anni, sulle barricate del 68. Insieme a lui ci saranno senz'altro, negli Stati Uniti, un Holden già un po’ attempato ma arrabbiatissimo (Salinger, The Catcher in the Rye, 1951) e, in quella stessa
Germania
di Lunario
del paradiso,
un
Hans
Schnier che sa finalmente cosa fare di sé (B6ll, Ansichten eines
Clowns, 1963). Anche se il tempo dell'avventura è l’inizio degli. anni sessanta, l’anima di Giovanni è quella di Celati al tempo della scrittura, e nel ’78 si sente ormai più tristezza di riflusso che rabbia di rivoluzione. Per porre rimedio ai potenziali struggimenti, Celati cerca di rievocare l'atmosfera e lo spirito del tempo del viaggio viaggiando mentre scrive la storia («vado in giro per case a farmi la mia storia » [68]), cioè spostandosi con
la fida macchina da scrivere da una casa di amici all’altra in un’accattivante cornice metanarrativa, e riesce attraverso que-
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sta mimesi itinerante a creare un rapporto ironico fra tempo della scrittura e tempo dell’avventura che lo aiuta a temperare la malinconia per il dopo ’77 e la nostalgia per il suo pre ’68. Il fatto che Lunario sia intenzionalmente ed elusivamente decentrato rispetto ai momenti cruciali dei due decenni dà a Celati la possibilità di cogliere discretamente, nell'atmosfera aurorale del prima e nei riverberi del dopo, il senso di avvenimenti che, come vedremo (cfr. III.2.), si dimostrano spesso insofferenti sia alla emotività della presa diretta che a quella della rievocazione. Comunque, la conclusione di Lunario viene dalla cornice; ludica e maliziosa, è destinata più al critico che al lettore,
un’esortazione in perfetta sintonia con il credo della scrittura di movimento: « Caro pensatore, dacci un taglio di fare il cretino, prova anche tu a farti delle storie e vedrai che questa è la sputtanata verità » (185).
Si è visto come Vassalli e Celati inizino a scrivere all’insegna di patronati letterari di stile quasi opposto, facenti però capo alla stessa collana einaudiana. Il neobarocchismo di Manganelli e l’esperienza sperimentale del Gruppo 63 hanno vasta influenza su tutta la prima produzione di Vassalli (direi da Narcisso a AA. Il libro dell'utopia ceramica); per quanto poi egli se ne allontani polemicamente, è a questi due poli che va ricondotta quella straordinaria perizia linguistica che sarà l’humus di tutte le sue opere seguenti. Calvino invece avrà riconosciuto
nel giovane Celati qualità narrative che erano anche sue: l’impegno civile e la giocosità inventiva; doti che Calvino aveva mantenuto, almeno a prima vista, separate (come dire, La speculazione edilizia e Il cavaliere inesistente), ma che Celati fino dal-
l’inizio concilia nell'interesse per la « comica finale » come ludica protesta contro una società repressiva.! Vassalli nella sua prima fase parte da una sperimentazione essenzialmente linguistica, dove però la lingua, proprio nella sua nevrotica autoreferenza, esprime una situazione umana
di apocalittica claustrofobia (l'universo retorico di Narcisso, l’universo concentrazionario di Tempo di màssacro, quello cartaceo di Il millennio che muore e quello piastrellato dell’ Utopia ceramica). È una lingua che evoca e incorpora un sistema re-
pressivo proprio nel suo essere cosi allucinata e totalizzante, un provocatoriamente illeggibile ouroboros retorico che morde e inghiotte se stesso. La ricerca del primo Celati (da Comiche a La banda dei sospiri, con Lunario in una posizione più sfumata) è invece esplicitamente sulle strutture sociali concentrazionarie del sistema (quelle istituzioni globali tanto care al dibattito degli anni settanta, da Foucault a Basaglia), che ven51
gono demistificate-esorcizzate dalla creatività ludica e logorroica del folle e dell’adolescente. Questa liberazione creativa la si raggiunge partendo da due modelli: quello dell’espressività gestuale (il mimo) e quello della baraonda catartica del primo cinema muto (la comica finale), che a sua volta non era altro che la trasposizione filmica e collettiva degli a solo del mimo. Si potrebbe dire che Celati dà una voce contemporanea al mimo del film muto. Mentre la lingua di Vassalli era autoreferente ed «incorporea », questa di Celati è fisica, densa di odori e di cose, come una lingua che vuol farsi perdonare di essere solo
lingua e dietro cui occhieggiano visive e corporee sarabande da carnevale bachtiniano.!* I personaggi delle prime opere di Celati sono vittime di un’istituzione repressiva (l'ospedale psichiatrico in Comiche; la famiglia in La banda dei sospiri) o alle prese con una società sentita come ostile e persecutoria (Le avventure di Guizzardi, Lunario del paradiso). Per il Vassalli della prima fase libertà e persecuzione sono centrati sulla lingua, ludus totalizzante e paralizzante. Con la seconda fase di L'arrivo della lozione, Abitare il vento e Marebli, la lingua ha finalmente un centro, una
voce protagonista che condivide la claustrofobia e l’impotente anarchismo dei personaggi di Celati, ma li traduce in termini non tanto clowneschi quanto politici. Benito, Cris e Augusto sono emarginati logorroici, allucinati e paranoici che si atteggiano a grandi rivoluzionari ma o sono mera e inefficace manovalanza del terrorismo, sia esso di estrema destra (Benito) o di estrema sinistra (Cris), o incongrui e deliranti ruderi di una visione obsoleta della storia (Augusto). È da questo contraddittorio doppio binario di inettitudine fattuale ed impegno a parole, di balordaggine inerme e di velleitaria militanza — insomma dal confronto fra la realtà e la visione mitica e ossessiva che di essa e di sé ha il personaggio — che in Vassalli scaturisce il senso del comico, ed è la comicità crudele dell’impotenza; per Celati, il comico proviene soprattutto dalle fisicissime peripezie di un clown, ingenuo e mite ma talvolta capace di violenza innocente e liberatoria, all’interno della società-istituzio-
ne. In entrambi i casi il parlato riproduce lo scontro realtà-mito. da cui nasce il comico: radicato nel basso, dove ci si misura col
proprio reale fisiologico e sociale; stridente impasto di registri bassi e alti, dove si cerca di trasfigurarlo con mitologie gangsteristiche, culturali, erotiche, cavalleresche, rivoluzionarie, ci-
nematografiche.!? L'autoinganno affabulatorio e narcisista è l'espediente che Cris e Augusto condividono con il professore, Guizzardi, e Garibaldi per rendere la realtà vivibile; personaggi inattendibili,
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solo parlando riescono a sentirsi al centro di un mondo di cui sono diseredate e patetiche comparse. Il Giovanni di Lunario del paradiso si autoinganna « nella misura in cui » mitizza, scri-
vendola, la sua storia, e deve pur mitizzarla per giustificare il fatto che la scrive. « Fatevi le vostre storie », motivo conclusivo
di Lunario del paradiso e leitmotiv della creatività di movimento, è un po’ come dire « createvi i vostri miti », ed anche se i miti
si fanno partendo da storie individuali, i risultati alla fine attingono allo stesso immaginario collettivo. Giovanni, che ha intrapreso il suo viaggio dall'Italia fino in Germania per sedurre la ritrosa e bella Antje, nei momenti di esaltazione si sente cavaliere romantico, in quelli di sconforto virile duro cinematografico (Montgomery Clift); Cris è, in teoria, un duro di professione, ma ama pensarsi in veste di «cavaliere errante, amico
di tanti e di tante ». Eros e violenza, spogliati di ogni mitizzazione, sono la cartina al tornasole della situazione di marginalità e sopraffazione di cui sono vittime questi personaggi: il professore e Guizzardi sono perseguitati da vogliose e autoritarie grassone e, inermi, più volte picchiati; Garibaldi smania invano dietro alla bella lavorante; Cris apostrofa continuamente il suo « Grande Prole-
tario » afflitto da sempre più frequenti momentanee impotenze e nonostante il linguaggio da duro la violenza la fa soprattutto a se stesso suicidandosi; Augusto Ricci è un guardiano guardone, è stato uomo-oggetto di un’esigente vedova (la vedova Pittoni, buona seconda della vedova Coniglio ninfomane aguzzina di Guizzardi) e, nonostante la pugnace retorica, è intima-
mente vigliacco, incapace di ogni confronto fisico. Il sesso solo fabulatorio è in fondo la prova della non-relazione col reale dell’io monologante, perché questo sesso è o ossessione sopraffattoria, o pura fantasia, o perversione solitaria.
Vassalli e Celati, a prima vista cosi diversi, hanno in comu-
ne, oltre all’ovvio agire e interagire con un movimentato contesto politico-sociale, anche l'adozione di alcune strategie non dissimili. L'io inetto e monologante del Vassalli della seconda fase condivide con l’emarginato di Celati una simile esigenza di autoinganno ed un parlato basso ricco e divagante che cozza con un tentativo di parlato alto in cui risiede la mitologia del personaggio (cinematografica, cavalleresca, politica). Sia Celati che Vassalli hanno superato le strettezze del romanzo medio e i limiti di una posizione avanguardistica o spontaneistica con un meditato sperimentalismo narrativo che, nelle loro prove migliori, rifugge dal bello scrivere e dai buoni sentimenti come da ogni restrittiva militanza contingente. Entrambi sono poi pas-
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sati ad una scrittura scarnificata e densa: l’uno è arrivato alle ascetiche storie di Narratori delle pianure (1985) e di Quattro novelle sulle apparenze (1987), che riprendono e articolano nella veste del racconto filosofico il rigore meditativo dell’ultimo Calvino; l’altro è pervenuto ad una fase ulteriore, costituita dall'invenzione di un romanzo-verità (La notte della cometa, 1984)
o saggio-inchiesta (Sangue e suolo, 1985; L'alcova elettrica, 1986) che ha fatto tesoro degli insegnamenti dello Sciascia migliore e unisce le suggestioni di una scrittura intensa e polemica, dal forte e divergente impegno morale, ad una rigorosa ricerca documentaria. Celati e Vassalli mi sembrano oggi, tra gli esponenti della esigua « generazione di mezzo », quelli in grado di confrontarsi più fruttuosamente e originalmente con i tempi nuovi, ed a loro si tornerà nei prossimi due capitoli. Pascutto e Ravera
Più giovani di Celati e Vassalli, coetanei anzi dei giovani narratori degli anni ottanta, Giovanni Pascutto (n. 1948 a Pordenone) e Lidia Ravera (n. 1951 a Torino) per tempestività d’esordio e per formazione appartengono ancora alla generazione di mezzo. Pur non presentando caratteri di sperimentazione ed elaborazioni originali pari a quelle dei due autori appena considerati, la loro produzione spicca per continuità nell’episodico e non professionistico panorama della scrittura giovanile degli anni settanta. Verso la fine del decennio entrambi si fanno interpreti delle nuove figure e dei nuovi atteggiamenti prodotti dalla crisi della politica che ha origine all’interno dei movimenti: Pascutto con limpidezza e solidità inconsuete nell’incertezza stilistica e culturale della fase di transizione che precede e accompagna l'affermarsi della nuova costellazione di scrittori e poetiche; Ravera attraverso voci narranti che non sfuggono al velleitarismo della scrittura giovanile proprio per la loro capacità di riprodurre lo stile intellettuale dei tempi, dialettico e autocritico fino alla confusione. Per entrambi, infine, la ripresa narrativa nella seconda metà degli anni ottanta, dopo un'interruzione di qualche anno, presenta significative strategie di evoluzione o assestamento — per Ravera la scelta « professionistica » della letteratura d’intrattenimento e di genere,
per Pascutto una parabola di ritorno a tonalità e umori da romanzo medio — che li accomunano a numerosi giovani narra-
tori « generazionali » che esamineremo in seguito (cfr. III.2.).
Fin dal primo romanzo, Il milite ignoto (Venezia, Marsilio, 54
1976), Giovanni Pascutto mette in scena un personaggio dai trat-
ti fortemente idiosincratici che, raccontato in prima o terza per-
sona, modificato in certi dettagli, collocato in ambientazioni di-
verse, seguito per periodi più o meno lunghi, rimane sotto nomi diversi il suo unico protagonista. Giovane intorno ai vent'anni cocciutamente refrattario a vedersi adulto e a mettere la testa a posto; insofferente della famiglia e del mondo dei benpensanti, del lavoro e della regolarità, e insieme incapace di immaginare altre ambizioni e di darsi un equilibrio diverso; tendenzialmente passivo, sognatore e rimasticatore solitario, anoressico, abulico, depresso, sopraffatto dal senso di colpa e dall’ansia, ma an-
che guizzante di ironia e capace di smemoratezze salutari e di cattiveria senza remore quando si tratta di difendersi dall’ostilità vampiresca del mondo esterno: il protagonista ricorrente dei romanzi di Pascutto, parente stretto degli sbandati di Vassalli e delle comiche figurine di Celati, combina qualche oncia di fresca e irresponsabile grazia stendhaliana con una buona dose di sottosuolo dostoevskiano e incarna perfettamente i sentimenti insieme eroici e fallimentari del nichilismo giovanile dei tardi anni settanta, l'ambiguità di una generazione virtuosamente indignata ed esasperatamente cinica, in bilico fra un nobile disadattamento non privo di slanci generosi e il più parassitico e risentito opportunismo. Muovendosi con sicurezza . di tocco fra questi due poli, Pascutto ripropone in ambientazioni attuali e familiari e in dimensioni modeste la vena surreale e la visione deformante di tanti famosi inetti moderni. Il milite ignoto, la prima opera ancora un po’ ingombra di fughe oniriche, punteggiata di simboli e ambiziose allusioni (come il nome di Ofelia chiamato a consolidare l’immagine di una femminilità acquea e oscuramente mortifera), racconta da un punto di vista tutto interno la psicosi persecutoria di un servizio di leva mai accettato e conclusosi nel reparto psichiatrico dell'ospedale militare. Tema classico da romanzo di iniziazione come prima prova reale delle proprie capacità di adatta| mento e integrazione, legata ai miti della virilità e dell'amicizia, la disciplina militare si riduce in epoca di contestazione a imposizione grottesca e incomprensibile; l'istituzione totale viene presa a emblema di regole sociali violente, assurde e produttrici di follia, e diviene occasione per un’esplorazione dei conflitti profondi (vedi anche le successive riprese del tema da parte di Rasy, Comolli e Tondelli) che qui, pur generando un clown ossessivo simile al Guizzardi di Celati, non si salva però da un eccesso di kafkismo suggestivo. Il peculiare stile di Pascutto — frasi brevi e asciutte, scansioni narrative agili, immagini nette, impianto metaforico e sim-
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bolico ben calato nella concretezza del personaggio, narrazione in prima persona affidata all’impietosa e divergente ironia e alla incoerenza rivelatoria di chi dice io, stessa voce e stesso
punto di vista, con limitatissimi e calcolatamente stranianti commenti autoriali, nella narrazione in terza persona — si de-
finisce a partire dal secondo romanzo, La famiglia è sacra (Milano, Mondadori, 1977), primo tassello di una trilogia urbana che prosegue con Nessuna pietà per Giuseppe (Milano, Mondadori, 1980) e Tre locali pit servizi (Milano, Longanesi, 1981). Ne è filo conduttore la conquista o la difesa del Lebensraum, l’agognato appartamento come correlativo oggettivo e ultimo baluardo di un'autonomia personale minacciata dal conformismo e dalla montante « germanizzazione » dello stato in fase di controffensiva antiterroristica e antilibertaria. Nel microcosmo del monolocale, del palazzo, del quartiere, fioriscono i più micidiali conflitti, appena mascherati da urbana cortesia o da affetto famigliare; ci si ruba l’un l’altro spazio e capacità di vivere, e i protagonisti di Pascutto vanno alla guerra come alla guerra, coltivano sfrenate fantasie vendicative, si muovono per la città come guerriglieri solitari, idealizzano irreali amori compensatori della loro irresolutezza e impotenza. Un progressivo deteriorarsi della situazione oggettiva e delle condizioni emotive dei protagonisti dà alla trilogia nel suo complesso una piega tragica, che si insinua attraverso l’effetto comico di caricatura, at‘traverso l’esasperazione grottesca: in La famiglia è sacra il giovane Giuseppe, che ha lasciato l’angusta vita di paese per invadere appartamento e routine del fratello maggiore a Milano e riprodurre con lui l’intensivo sfruttamento già sperimentato con i genitori, ha il vantaggio della posizione di attacco e può contare sulla debolezza del fratello, a cui le pastoie della morale corrente (la famiglia è sacra) e il senso di fallimento personale impediscono di difendersi efficacemente, cosi che alla fine Giuseppe rimane irridente padrone del campo di battaglia; in Nessuna pietà per Giuseppe il protagonista estende il raggio del suo scontro e finisce per mettersi nei guai, nonostante che si pre-
scriva regole di condotta per difendere il proprio interesse e la propria tranquillità, per non saper dire di no ai propri istin-. tivi slanci di generosità verso i marginali e gli sconfitti (raccoglie e ospita, seppure sempre più a malincuore, un presunto terrorista ferito che si rivela poi essere un capo della polizia): intanto il non-lavoro da svogliata ricerca di prima occupazione . in una città piena di possibilità (La famiglia è sacra) diviene cassa integrazione, mentre le potenziali conquiste e gli allegri amori del neoinurbato Giuseppe si cambiano in un preoccupato affetto per la fragile Dina ricoverata in ospedale; in Tre locali più ser56
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vizi addirittura il protagonista Mario ha perso il lavoro, la donna lo ha lasciato e gli amici lo deridono come cornuto: accusando di tutti i suoi mali il soffocante monolocale in cui vive, Mario
progetta di affrettare la morte della vecchia signora che occupa l'appartamento contiguo per disporre finalmente di un tre| locali-più-servizi; ma, non abbastanza determinato nei panni di Raskolnikov, si lascia rubare l’idea dall’ipocrita nipote della vecchia che con l’aiuto del fidanzato la uccide facendo ricadere la colpa su di lui; Mario, in un crescendo di riflessioni paranoiche che lo oppongono a tutto il consorzio civile, come il Cris di Abitare il vento puntualmente si punisce di tutto, compreso un tradimento per debolezza e per rivalsa sull’amata (che ora gli scrive di non aver mai smesso di amarlo), e si getta dalla rupe alpina su cui si erano giurati eterno amore. Con L'amico Friz (Milano, Mondadori, 1981) la scena si sposta dalla metropoli alla campagna e al paese, che già si erano intravisti dietro le storie dei primi due romanzi, e l’esistenza del protagonista viene seguita fin dai primi mesi per ricostruire l'insorgenza e testimoniare gli effetti di una sua singolare malattia, che si vuole ereditaria: una mancanza di energia ed un disamore per la vita tali da tenerlo sempre sull’orlo del suicidio, e capaci di sollievo solo quando, come per contagio, il sui. cidio o la morte gli portano via le persone più vicine. Allevato dai nonni dopo una truculenta tragedia che gli ha distrutto la famiglia restituendo la libertà all’egocentrico e vitale padre Massimo, Friz cresce isolato credendo di essere loro figlio, vittima delle sopraffacenti cure della nonna e della sorda ostilità del nonno; passa attraverso varie tappe canoniche del romanzo di formazione (dall’ateismo perfezionato in seminario al legame privilegiato con l’amico più esperto, all’accidia scolastica, al primo amore, al traumatico servizio militare) e persino l'inevitabile accidentale agnizione delle proprie origini non cambia apparentemente nulla della sua ovattata routine, semplicemente lo promuove da vittima ignara a risentito vittimizzatore dei nonni, da inconsapevole « indifferente » a ostruzionista intenzionale e vampiresco. Il respiro più ampio della storia consente a Pascutto di disegnare intorno al suo protagonista una serie di comprimari convincenti pur nei loro ruoli cliché; il soffio di un grottesco quasi parodico e di un’insofferenza allegra-
mente irresponsabile anima la rappresentazione di una realtà dei legami affettivi cosi irredimibile e desolata da non poter essere presa sul serio da chi sceglie di vivere. L’amico Friz è comunque il punto più cupo della pascuttiana discesa verso la genealogia della morale. Dopo una pausa di cinque anni Pascutto pubblica Strana la vita (Milano, MonDU
dadori,
1986), e la crudezza dei conflitti lascia spazio a uno
sguardo più indulgente e a qualche possibilità di incanto e di consolazione; l'impossibilità di rendere morali i sentimenti e la continua oscillazione fra aggressività e senso di colpa che forma il terreno dell’incontro interpersonale sono risolti in una figurina di protagonista che si muove con la soave improntitudine e la sfacciata fortuna malgré lui di uno Zeno Cosini, e in una trama che ha la fluida e graziosa complicatezza amorosa delle opere di Mozart. Strana la vita è la storia della rivincita di Dario contro l’ex amico Mario, che gli ha rubato il grande amore, la fiducia in se stesso e persino il nome — una rivincita
tanto accidentale e accidentata quanto è radicata nel protagonista la convinzione della propria inettitudine. Ventiseienne psicologo di una U.S.L. di Milano, poco convinto della sua professione, perenne fidanzato per mancanza di ambizioni con una giovane e protettiva maestra d'asilo, soffocato dalla madre di
lei, Dario ritrova casualmente Mario dopo sette anni per vederlo subito dopo morire d’infarto al tavolino di un bar dove si era lasciato trascinare; da allora progressivamente ne eredita la mo-
glie (suo primo amore, malmaritata per rimediare ad una indesiderata e poi sfortunata gravidanza) e l'amante adolescente, a cui aggiunge una propria misteriosa paziente implicata in faccende di terrorismo;
incapace di accettare il suo nuovo
stato
di predatore e l’energia vitale che la morte di Mario sembra avergli restituita, Dario continua a rappresentarsi a se stesso
nelle vesti del debole e della preda: conteso fra quattro donne, pratica la noluntas con grande abilità istintiva e, nonostante la divertente goffaggine e gli imbarazzi in cui si caccia (compreso un improbabile rapimento da parte di una terrorista che sorride sempre, con conseguente scena di grande azione stile telefilm), si conquista il lieto fine riprendendo da dove sette anni prima aveva incassato la sconfitta. Lieto fine, o almeno il suo suggerimento, anche per / colo-
ri dell’acqua (Milano, Mondadori, 1988): la cinica ironia e la vena divergente di Pascutto si sono fatte più pacate con gli anni, e l'impressione di uno sguardo più olimpico sulla commedia del mondo si consolida in questo ultimo romanzo in cui il filtro della memoria addolcisce le asprezze e i dolori dell'adolescenza, ne richiama i colori e la fresca magia come attraverso la sfuggente limpidezza dell’acqua. Disseminato di tutti i tic, delle abitudini e delle caratteristiche coordinate del paesaggio mentale dei giovani protagonisti di Pascutto, / colori dell’acqua deve una sua speciale, trasfigurante vibrazione all’adesione tra il racconto in prima persona e la terra che ospita la storia: rievocando con rapida delicatezza e senza sbavature sentimentali gli even-
58
ti del primo amore fra Ettore e Teresa, Pascutto torna a cele-
brare il Friuli dei paesi, delle sorgenti, dei terremoti e dei pra-
ti d'erba medica, la terra sobria, laboriosa e soffocante da cui
i suoi personaggi fuggono, ma che sempre rimane alle loro spalle ricca di una misteriosa vita naturale in sintonia con la quale sembra trovarsi l’unica salute umana possibile. Come vedremo accadere nei percorsi di molti profughi dagli anni settanta, il ritorno ai sentimenti naturali e alla tonalità elegiaca del romanzo medio qui messo in atto da Pascutto fornisce la conciliazione più comunemente praticata della drammatica tensione fra la spregiudicatezza rivoluzionaria del pensiero che giudica inac-
cettabile lo stato di cose presente e l'impotenza a modificare efficacemente la storia umana in nome della ragione. Dopo l’inaspettato successo di Porci con le ali (Roma, Savelli, 1976), opera costruita a tavolino che, muovendosi
scan-
dalosamente ai limiti della sottocultura, rivelò una nuova generazione a se stessa scoprendone la distanza profonda da quel-la del '68, Lidia Ravera continua a farsi portavoce delle contraddizioni del riflusso in due opere dissimili per struttura ma accomunate dal proposito di render conto di stili di vita e percezioni della realtà che cambiano rapidamente e cambiando do| mandano nuove elaborazioni senza pregiudizi e soluzioni inedite. Sia in Ammazzare il tempo (Milano, Mondadori, 1978) che in Bambino
mio (Milano, Bompiani,
1979) lo sforzo di Ravera
è quello di presentare situazioni emotivamente forti in cui una vecchia e comoda identità va in pezzi e il difficile è inventarsi di nuovo, senza prendere a prestito dogmatiche e sterili certezze o consolanti modelli già consunti e rifiutati. Il suo protagonista è in entrambi i casi donna, anzi una delle « nuove » donne, con tratti esemplarmente rappresentativi (e in parte direttamen-
te autobiografici): adulta da poco, emancipata, professionista intellettuale, sulle spalle un passato politico rivoluzionario (che per tacito accordo dei suoi attori e cronisti sta prendendo la fissità irreale e insopportabile dell’agiografia), turbata da un desiderio di maternità difficile da conciliare con lavoro e abitudini « sregolate », caustica e fragile, gelosa della propria solitudine e orgogliosa mendicante d’affetto. In Ammazzare il tempo la crisi della protagonista Sara nasce dal doppio confronto con un passato ormai troppo stretto, rappresentato dall’ex compagno sempre uguale a se stesso, chiuso in un orizzonte asettico
di certezze teoriche (la psicoanalisi) e autocontrollo emotivo, e con un futuro incomprensibile e incerto, a cui danno corpo i ragazzi incontrati per lavoro nelle università occupate, con la 59
loro politica confusa e gestuale, o i giovanissimi drogati, abulici e scostanti, che si installano in casa sua. Incapace di aderire alla propria immagine professionale, l’unica salda (Sara è pre-
sentata come scrittrice e giornalista in carriera, benvoluta dal
direttore, corteggiata dai colleghi), la donna tenta il suicidio. Nella seconda parte del romanzo la osserviamo nel suo lento e sconnesso recupero, al centro di uno psicodramma allestito (e, almeno nelle intenzioni, orchestrato) terapeuticamente dall'ex compagno, che le ha convocato intorno vecchi e nuovi ami-
ci in una vacanza-convalescenza al mare. Ammazzare il tempo è volenterosamente impegnato a costruire il quadro clinico di un disagio reale e di un rifiuto radicale al limite dell’autodistruzione, uno spaccato generazionale tra riflusso, nichilismo e nuova consapevolezza femminile, ma non raggiunge mai il tim-
bro convincente dell’autenticità: ostile a tutto, oltranzista nei giudizi e petulantemente confusa nel tentativo di non essere didattica, la voce dell’io narrante della prima parte non riesce a
smussare un certo schematismo, sulle cui contrapposizioni si costruisce e precipita piuttosto legnosamente la crisi della protagonista mentre si preparano le mediazioni future; i personaggi appaiono tutti vagamente deformati dalla caricatura, troppo gravati di intenzioni o enfatici nell'esecuzione dei ruoli assegnati, cosi che la novità dell’analisi si perde nella retorica del nuovo. Più riuscito il tono di Bambino mio, lungo monologo di una madre col figlio prima e dopo la nascita, confessione delle ansie, delle ossessioni, dei conflitti, dei sogni, delle trasformazioni che accompagnano una maternità che non è più dovere o destino ma scelta e scommessa. Intorno alla donna e al bambino si affacciano, raccontati dalla voce di lei, gli altri: corteggiatori, amici, compagni o ex compagni di lotta, padri, nonne, colleghi, amiche, « donnecomenoi » e « donnevere »; ed è la loro evidente estraneità, la loro accidentalità di comprimari, che co-
munica il senso ineffabile e totale del legame tra madre e bambino. Tra le strettoie del ruolo tradizionale di madre-martire e le secche dei nuovi imperativi di efficienza, libertà e seduzione per l’intellettuale anticonformista, appassionata al suo lavoro,?° Ravera cerca un equilibrio non precostituito e non cal-. colabile, determinata a trovarlo nel concreto dell'esperienza, disposta ad accettare la quotidiana incertezza dell’indetermi-
nato, ma insofferente di fronte all’equazione tra scelta e rinun-
cia. E intanto, nonostante qualche ricaduta stonata nell’auto-
compiacimento falsamente sprezzante della propria schizofre-
nia e in altri luoghi comuni del periodo, Bambino mio trova un
equilibrio sfaccettato che non cade né nella mistica della maternità viscerale e appagante né nell’epica della maternità eman60
cipata, ed ha toni delicati nel raccontare quel ritorno alla pro-
pria infanzia, al mondo nuovo e instabile delle prime volte, che l’esser madre porta con sé. Tra il 1979 e il 1986 Ravera non pubblica narrativa. Il suo ritorno in libreria con Bagna i fiori e aspettami (Milano, Rizzoli, 1986) rappresenta al tempo stesso una riconversione a cen-
tottanta gradi, all'insegna dei tempi nuovi e del trionfo del consumo sull’impegno, e paradossalmente un ennesimo riuscito esempio di oltranzismo, di irridente eccesso contro il benpensantismo intellettuale, di tradimento delle aspettative e dei ruo-
li. Come il successivo Se lo dico perdo l’America (Milano, Rizzoli, 1988), Bagna i fiori e aspettami racconta una rocambolesca avventura per il mondo di una ragazza bionda e intraprendente di nome Giò, versione moderna e romana della Jo maschiaccio e aspirante scrittrice di Piccole donne, con tanto di analogo e appena appena aggiornato gineceo di sorelle e reinterpretazioni scapigliate della storia di famiglia. Vocazione seriale e ingredienti dei generi popolari, dal giallo d'azione al rosa, all'avventura esotica, alla commedia brillante, contaminano il
vecchio e intramontabile sapore del romanzo per ragazze con il ritmo e la comicità parodica dei film di Indiana Jones; le due storie attingono senza risparmio ad un immaginario collettivo
nutrito indiscriminatamente di cultura e sottocultura del grande e piccolo schermo, del rotocalco e del fumetto: Dallas e Dynasty, Humphrey Bogart e Grace Kelly, Freud mediato da Woody Allen, il Bronx e Colette Rosselli, iPeanuts e gli spot pubblicitari. Il risultato è in entrambi i casi un romanzo da spiaggia per signorine cresciute in vena di autoironia, non privo di ammicchi metanarrativi ma pienamente rispettoso di tutti imeccanismi consolatori della narrazione d’intrattenimento. È difficile azzardare un’interpretazione sulle intenzioni di questa quasi irriconoscibile Ravera (che però, a ben guardare, trasferisce sulla sua eroina-per-gioco vezzi e idiosincrasie delle precedenti, seriose protagoniste, ed organizza qui in modo funzionale sue antiche propensioni al cliché e alla caricatura, alla cronaca mondana e di costume). Eppure, oggi che tutte le demistificazioni possibili sono state consumate, l’ironia più sofistica-
ta sulla strategia consolatoria e d’evasione della letteratura di genere sembra non tanto il sorridere sulla scoperta ingenuità delle formule ma il sorridere sul fatto che le formule funzionano puntualmente ancora, nonostante tutte le nostre lucide e stranianti consapevolezze. Come vedremo in seguito (cfr. III.2. e III.3.), scrivere assecondando le tentazioni più inconfessabili e gli istinti più bassi alla gratificazione della lettura, usare a piene mani il fewilleton e il romance, flirtare con la grossolani61
tà di immagini massificate e inflazionate, negli anni ottanta è una strada ben frequentata, alternativa o complementare allo sciogliersi dell'impegno in elegia. Se la circostanza di essere stati scritti da una ex autrice impegnata non conferisce ai « romanzetti» di Ravera maggior dignità letteraria di quanto si trova settimanalmente nelle edicole, in qualche modo tale circostanza modifica le istruzioni per l’uso e li fa leggere come un possibile tentativo di giocare con la letteratura per divertirsi senza pretendere nulla di serio, senza « sprem[ersi] come limoni » e «ridul[rsi] in metafore perché il mondo abbia qualcosa per riflettere » come ai tempi della scrittura militante,?! ora che un certo pudore commosso e amaro del passato e del presente vieta che al raccontare sia ascritta la missione di enunciare la verità o di praticare la critica dell'esistente in direzione del futuro. A scongiurare l’identificazione di Ravera con l’incallita dispensatrice di colpi di scena e compensazioni fantastiche di Bagna i fiori e aspettami e Se lo dico perdo l’America, e a dar conto di una tensione esistenziale non sopita dal gusto per le trame e per il bon ton, esce, tra i due romanzi, Per funghi (RomaNapoli, Theoria, 1987), un racconto di sommessa e sobria ma-
linconia autunnale sull’invecchiare di una generazione di ex ribelli, ex generosi smascheratori del mondo ora integrati e ripiegati sui riti edonistici del proprio egoismo e sulla propria ordinaria solitudine. In un casale ristrutturato nel cuore della Maremma un gruppo di amici più vicini ai quarant'anni che ai trenta passa il fine settimana in complice separatezza a coltivare la propria residua « diversità », a compiacersi della propria superiorità intellettuale, del proprio stile, della propria spregiudicatezza e originalità. Fatue e brillanti conversazioni, piccoli drammi, tradimenti spudorati, tacite richieste di aiuto
e solidarietà, confessioni, schermaglie e sbruffonate, aggressività e autocompatimento si consumano con manierato understatement e senza pedagogici riguardi sotto gli occhi attenti e
mai stupiti di Polly Anna, la bambina di nove anni figlia dei padroni di casa. Polly Anna è un'affascinante bambina-mostro, che sembra adeguarsi con indulgente condiscendenza e senza alcuna adesione alle manie e alle aspettative degli adulti, cosi autosuf- . ficiente, sicura e giudiziosamente equilibrata da far risaltare per contrasto la loro comica e patetica immaturità, la loro incapacità di essere altro che figli, la loro reciproca dipendenza gregaria e il loro egocentrismo. Un tema questo dell’incapacità di crescere e di aderire seriamente al reale che vedremo ricorrere in altri giovani autori che esordiscono negli anni ottanta (cfr. III.2.), cosi come l'oscillazione fra gioco e disperazione implosa, fra struggente senso dell’assenza e disincanto, costitui62
sce il leitmotiv, l'ambigua vibrazione atmosferica lungo la quale
Ravera si sintonizza con la rarefazione dei sentimenti e l’asciuttezza minimalistica del decennio.
NOTE
! Cfr. Jurij Tynjanov, «Il fatto letterario », in Avanguardia e tradizione (Bari, Dedalo Libri, 1968), pp. 23-44. ? Cfr. Umberto Eco, « Il Gruppo 63, lo sperimentalismo e l’avanguardia », in Sugli specchi e altri saggi (Milano, Bompiani, 1985), pp. 93-104, e in particolare pp. 97-99. 3 Cfr. Alberto Cadioli, L'industria del romanzo. L'editoria letteraria in Italia dal 1945 agli anni ottanta (Roma, Editori Riuniti, 1981), pp. 109-110. 4 Anche Calvino in questi anni guarda con attenzione agli esperimenti che coniugano narrativa e consapevolezza autoriale, semiotica e fantasia. Lo testimonia il racconto « Un segno nello spazio » e in generale tutte Le
Cosmicomiche (Torino, Einaudi, 1965), impalpabile « cosmogonia per voci » che, come Hilarotragoedia, gioca programmaticamente con il vuoto, ma con l'intenzione di riempirlo grazie a una nuova mitologia, mentre Manganelli propugna intransigentemente un discorso che parla di se stesso; una retorica del nulla e sul nulla. 5 Infatti i romanzi dei giovani autori che rievocano il ’68 o i primi politicizzati anni settanta sottolineano come questa predilezione militante per la saggistica fosse generalmente un modo per autodefinirsi e riconoscersi fra compagni. Un esempio a contrario: « [Marco s]i avvicinò e scorse i titoli. Era strano per lui, che da mesi non leggeva che saggi, vedere tutti quei romanzi e poesie. E nemmeno un testo di Marx. Ma forse non erano ancora domande che poteva fare. Quelle sui gusti di Filippo » (Giorgio van Straten, Generazione,
Milano, Garzanti,
1987, p. 69).
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6 Parte di questo clima anti-romanzo, di un bisogno di narrativa che deve in qualche modo essere soddisfatto altrove, è il grande interesse per il cinema, la forma di espressione creativa extraletteraria sentita più vicina alla situazione giovanile. Gli anni settanta sono tutti un fiorire di iniziative cinematografiche, dalle sale d’essai alla fondazione di riviste, all’istituzione di corsi universitari di storia del cinema, al rinnovato impegno politico del cinema italiano. ? Parimenti, dai primi anni settanta fino al '77 si assiste ad una rinascita del teatro giovane e sperimentale. Il nuovo teatro si organizza in cooperative, rivaluta l’espressione gestuale e corporale nel lavoro dell'attore (la linea drammaturgica che da Stanislawskij arriva a Grotowski e Barba), mette in scena testi dai contenuti prevalentemente politici, trasgressivi e antiborghesi (Artaud, Breton, Brecht, Vitrac), promuove l’happening, l’intervento di protesta e di strada, l’improvvisazione e la libertà creativa. 8 Non mi pare un caso che Porci con le ali, fallito Savelli, sia stato re-
centemente ristampato da un editore non certo di sinistra come Rizzoli (Biblioteca Universale Rizzoli, 1985), che ha emblematicamente concluso la
già ambigua operazione di Savelli togliendo il « dialogo a posteriori » di Giaime Pintor e Annalisa Usai e sostituendo la presentazione originale con una frettolosa e moralistica introduzione di Francesco Alberoni; persino la « spinta » copertina savelliana a nove pannelli è stata castigatamente rimpiazza-
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ta con il disegno di un busto di fanciulla nuda dietro cui occhieggia il manifesto (mai nominato nel testo). ? Cfr. Giampaolo Borghello, Linea rossa. Intellettuali, letteratura e lotta di classe 1965-1975, Venezia, Marsilio,
1982.
10 La definizione era: « La collana dei Franchi Narratori raccoglie quei testi “irregolari” rispetto ai parametri sia della letteratura “pura” sia del semplice documentarismo, in cui si raccontano esperienze direttamente vissute dagli autori stessi, e che rappresentano ‘‘spaccati’’ di problematiche profondamente vincolate alla realtà storico-sociale della situazione culturale di oggi; testi quindi esemplari, che spesso costituiscono, in senso lato, delle testimonianze di un’antropologia ‘in fieri”, di una realtà troppo viva, attuale, complessa, per essere ingabbiata in già scontati moduli editoriali ».
1! In «La molle luna»
(Italo Calvino,
Ti con zero, Torino, Einaudi,
1967) Ofwfq ricorda i tempi in cui crosta terrestre era fatta « di plastica e cemento e lamiera e vetro e smalto e pegamoide », che la ricoprivano sot-
to forma di « piastre lisce e esatte » prima che la Terra fosse investita e corrotta dalla « deiezione lunare, fradicia di clorofilla e succhi gastrici e ru-
giada e grassi azotati e panna e lacrime » (17). 12 Sebastiano Vassalli, «I generi, i lettori », in Salvo imprevisti 27-28
(ottobre/dicembre 1982-gennaio/aprile 1983), p. 4. 13 Basti l'esempio dei titoli dei rispettivi primi capitoli: « Capitolo primo: in cui si parla della venuta al mondo di Benito Chetorni protagonista di questa cronaca e dei sogni e segni che l’inaugurarono, si dà notizie dei genitori e s’intravvede la murgia » (Sebastiano Vassalli, L'arrivo della lozione, Torino, Einaudi, 1976); « Del luogo e della notte in cui nacque Candido Munafò; e della ragione per cui si ebbe il nome di Candido » (Leonardo Sciascia, Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia, Torino, Einaudi, 1977).
14 Dice Vassalli nel retrocoperta di L'arrivo della lozione: « Sono partito dall’osservazione e dall'analisi della realtà e mi sono mosso nell’ambito del verosimile [...]. Il presente mi si offriva con certe caratteristiche eccezionali: era il presente delle bombe, della “strategia della tensione”, del-
la burocrazia che sopravvive allo Stato e si fa Stato. Quel presente mi interessava anzitutto per le caratteristiche spaventose, di assurdità e di demenza, che sembrano governarlo. La demenza, purtroppo, affiora tra le righe di tutti i libri di storia e a volte si accorpa nelle righe stesse. Difficile contrapporle davvero la ragione: l’uomo è un tutto indiviso, c'è eros e c’è priapo e c’è logos... Stando cosi le cose, io penso che la letteratura e l’arte abbiano per loro natura il dovere di affrontare la demenza sul suo stesso terreno: di assumersi la responsabilità e i rischi di una partita contro l’oscuro che né la politica né la scienza potrebbero giocare sul serio ». !5 Prova di quanto i fratelli Marx siano stati un modello per la comicità del primo Celati è la recente pubblicazione da parte della piccola casa editrice Baskerville (Bologna, 1987) di La Farsa dei Tre Clandestini (Un adattamento dai Marx Brothers), un testo che Celati scrisse intorno al 1970-72 (cfr. « Premessa », p. 7). Prendendo ispirazione da gag e scene memorabili dei film dei tre fratelli, Celati costruisce una surreale e scatenata farsa-
sceneggiatura in 14 quadri in cui Groucho, Harpo e Chico, clandestini su una nave di lusso, si prendono gioco del potere nelle vesti del capitano e di petrolieri e finanzieri corrotti. 16 Dice infatti Giovanni nel corso della sua narrazione: «Il mese era, secondo il mio lunario, quello di novembre; anni fa, sedici, diciassette, for-
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se» (Gianni Celati, Lunario del paradiso, Torino, Einaudi, 1978, p. 134). 17 Quale punto d'incontro si potrebbe anche sostenere che Marcovaldo (Marcovaldo, Torino, Einaudi, 1963) è il prototipo di Guizzardi, un clown involontario e mesto ancora inserito nella produttiva e anonima società dei consumi, un alienato i cui i primi sintomi di rivolta, di mite follia allucina-
toria, vengono abilmente esplicitati da Calvino nei guizzi surreali di certi racconti. 18 Cfr. Gianni Celati, Finzioni occidentali. scrittura (Torino, Einaudi, 1975, 1986?), p. 151.
Fabulazione,
comicità
e
!° Per Vassalli: «Questa di abitare il vento ragazzi è l'ispirazione fondamentale-segreta della mia erranza da esteta e tutto il resto son balle, bischero universale e tutto, l'ombra d’un’ombra di un rutto » (Abitare il vento,
Torino, Einaudi, 1980, p. 60); « Elisabetta va in bagno a prepararsi perché vuole assolutamente partire con il treno delle cinque e io torno fuori, mi siedo sulla mia sdraia, dico ad alta voce: si. Sf, QUESTO AMORE È SPLENDIDO. Personaggi e interpreti la regina Elisabetta IX e il rivoluzionario individualista Augusto Ricci, nome di battaglia “Bill”. Cinemascope, tecnicolor. ‘“Su uno scenario di incomparabile bellezza la storia di un amore tenero e travolgente, raffinato e sensuale” » (Mareblu, Milano, Mondadori,
1982, p. 157). Per Celati: « Senza però riuscire a salvarla: lei chiusa nella torre inaccessibile, nel bosco incantato dei misteri, con la maledizione del-
la settima fata che fa addormentare la principessa per cent'anni. Tutto è contro l’eroe, che per forza allora lo prende nel culo » (Lunario del paradiso, Torino, Einaudi,
1978, p. 182).
Ì
20 Appare fra le righe del testo un riferimento a contrario alla Letteraa un bambino mai nato (Milano, Rizzoli, 1975) di Oriana Fallaci, testo best-seller di pochi anni prima e modello da cui prendere le distanze. 21 Lidia Ravera, Ammazzare il tempo (Milano, Mondadori, 1978), pp. 77-78.
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f I Se Mn
3. - L'INCHIESTA DALL’INDAGINE ALLA RICERCA STORICA (Sciascia, Vassalli, Consolo, Magris, Cavallari, Eco)
«Non sto cercando la verità, bensi le ragioni e le spiegazioni di una contraffazione della verità » (CLaupio MacRIs, Illazioni su una sciabola).
Negli anni sessanta e settanta anche nell’ambito della produzione letteraria tradizionale, né d'avanguardia né di contestazione, le fortune del romanzo medio trovano un controcanto ed un'alternativa discreta (non chiassosa) in una narrativa di ca. rattere marcatamente diverso, intellettuale e anti-intimistico:
il romanzo-inchiesta e la narrazione saggistica sono aspetti di una medesima strategia di correzione e aggiornamento della tradizione narrativa rispetto a ciò che in quegli anni il romanzo medio va proponendo come modello di scrittura e di esperienza. Il romanzo-inchiesta ha le sue premesse/ascendenze nell’ambito della poetica neorealistica: nell'immediato dopoguerra la narrativa privilegia le caratteristiche del romanzo-verità, dell'inchiesta sociale e della denuncia, coerentemente
con l’idea
dell’arte come strumento di conoscenza e di informazione propria del neorealismo (si pensi a Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi). Per la sua situazione il sud è il più ricorrente polo di interesse. Ma, con la crisi del romanzo neorealista e il ripiegamento elegiaco tipico del nuovo romanzo medio, la letteratura di inchiesta e di analisi rimane come corrente minoritaria, separata da ciò che viene considerato come letteratura in senso proprio e di grado più alto. Alla fine degli anni cinquanta dall’eredità neorealistica si sviluppa in opposizione al roman‘zo medio il programma del romanzo industriale, le cui storie. sono costruite come illustrazioni della vita di fabbrica e delle condizioni di lavoro della classe operaia; ricerca e saggio sociologico si intrecciano in un romanzo che spesso si rifà ad un rigore di linguaggio da scienze umane. Ma il progetto si esaurisce piuttosto rapidamente con le opere di Ottieri (tra cui si deve ricordare Donnarumma all'assalto, 1959), Davi (Uno mandato da un tale, 1957, e Il capolavoro, 1961), e solo parzialmente Vol-
poni (Memoriale, 1962) e Parise (Il padrone, 1965). 66
Durante gli anni sessanta le potenzialità informative e critiche della narrazione si enfatizzano invece nuovamente in modo più duraturo attraverso l’uso dell’inchiesta come formula com-
positiva vera e propria. Mentre ancora può assolvere compiti di denuncia e lasciare spazio alla riflessione civile e morale, l’inchiesta come avventura intellettuale sfrutta i meccanismi coin-
volgenti della curiosità, e propone un eroe, l’investigatore, portatore di valori razionali e pratici notevolmente diversi dal sentimentalismo autoindulgente dei personaggi lirico-autobiografici del romanzo medio. All’auscultazione della propria più o meno dolorosa estraneità al mondo, l’inchiesta sostituisce una
positiva attenzione verso l'esterno, un interesse per i fatti reali e soprattutto per i fatti nascosti e oscuri, per i conflitti e le irregolarità mascherate o soffocate che segnalano quanto il mondo degli uomini sia distante da ogni auspicato mondo della ragione, dal migliore dei mondi possibili. Sciascia è l’autore a cui va ascritto il merito di intuire la formula e svilupparne le possibilità, col proposito di dare un nuovo respiro morale e un più avvincente passo narrativo alla stanchezza dell’intreccio tradizionale. Sciascia può indubbiamente essere annoverato fra i creatori di quel « giallo letterario » che è recentemente emerso all'attenzione della critica internazionale come fenomeno postmoderno (e che in Italia già contava l’illustre ma isolato e tangenziale precedente gaddiano). Ma ancor più tipicamente e originalmente sciasciana è un’altra realizzazione della formula dell’inchiesta: la ricerca documentaria, ovvero la narrazione di una ricerca in cui sotto inchiesta
sono le carte di un giallo decantato e occultato dal tempo.! Nel primo caso l’inchiesta si determina in investigazione o poliziesca (I/ giorno della civetta) o amatoriale (A ciascuno il suo) o anche entrambe sovrapposte (Todo modo). Il romanzo assume le movenze del giallo senza mai rispettarne le regole fino in fondo: c’è un delitto (o più delitti), un detective, e un’azione
che si svolge nel presente o in un passato recente, ma, nella narrazione prevalentemente in terza persona (si pensi a Il giorno della civetta, a A ciascuno il suo e a Il contesto — l’unica ecce-
zione è Todo modo), il narratore onnisciente si permette commenti e più o meno oscure anticipazioni sui fatti in corso che
sono delle patenti infrazioni alle regole britanniche del poliziesco. Per di più, anche se l'enfasi del romanzo è sul lavoro di indagine verso quella soluzione che dovrebbe coincidere con l’acquisizione della verità, o la soluzione non c'è (Todo modo), o non implica il trionfo della giustizia (Il giorno della civetta, Il contesto), o l'identità del colpevole viene offerta a chi legge ben pri-
ma della fine del romanzo, ed è il destino dell’incauto detecti-
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ve che fa allora trepidare il lettore e mantiene in funzione il congegno narrativo (A ciascuno il suo, Il contesto). Nell'ambito di questa struttura l'intreccio è d’invenzione ma plausibile e l’ambientazione è dettagliatamente realistica (il paese, personaggi tipici ben delineati, la mafia, la Sicilia):° la finzione narrativa è cioè quanto mai verosimile storicamente, a indicare come la
posta in gioco non sia solo l'esercizio di una maniera letteraria e l’intrattenimento dei lettori. Le conversazioni fra l’investigatore e i vari personaggi, svelte, intense e ironiche, sono poi l’espressione migliore dell’intelligenza viva e pungente dello Sciascia narratore. Diversa è la situazione per l’altro polo intorno a cui gravita l'inchiesta di Sciascia, quello della ricerca documentaria. In questo caso, al posto di un romanzo, di una finzione narrativa verosimile come quella del giallo, si ha una ricostruzione storica «vera »: Sciascia applica la sua fantasia rigorosa alla rico-
struzione di un fatto misterioso realmente accaduto, preferibilmente uno scampolo oscuro di passato che, una volta spiegato, possa assurgere a mise en abîme di tutta un’epoca. Primo esempio di inchiesta come ricerca documentaria, che dalla metà degli anni settanta ad oggi diverrà il polo maggioritario della produzione di Sciascia (da La scomparsa di Majorana, 1975, fino ai recenti /9/2+1, 1986, e Porte aperte, 1987), è stato Morte dell’Inquisitore (1964). In questo tipo di inchiesta al detective protagonista commentato da un narratore onnisciente si sostituisce come investigatore Sciascia stesso, in prima persona, e l’oggetto dell'indagine varia molto e spazia dal delitto alla condanna iniqua fino alla scomparsa e alla sostituzione di persona. Anche se un'indagine si centra sempre su un fatto già accaduto,
qui si tratta di ricostruire, il più delle volte, non un passato recente ma uno lontano (dal 1938 di La scomparsa di Majorana fino al Seicento di La strega e il capitano e di Morte dell’Inquisitore), per cui mentre nel caso del polo giallo si ha l’impressione di una temporalità continua, di un seguito di cronaca che va dal momento del delitto a quello della soluzione o non-soluzione, in quello della ricerca documentaria si assiste ad una vera e propria discesa dal presente dell’investigatore Sciascia al pas-. sato del tempo del mistero, che Sciascia scandaglia e spiega attraverso i-documenti a disposizione. Mentre nel primo caso la tensione è verso un futuro immediato in cui soluzione e verità dovrebbero coincidere, in quello della ricerca documentaria la
tensione è opposta; va infatti verso la ricostruzione di quel passato dove della soluzione come scioglimento di concreti accadimenti (il destino dei protagonisti) ha già fatto giustizia il tempo, mentre la verità è stata distorta o è rimasta oscura. Cosi 68
ut Qi
per gli episodi più remoti resta solo un desiderio di verità non più finalizzato ad ottenere una giustizia terrena che distribuisca ricompense e punizioni secondo ragione, ma tradotto in ansia disincarnata di rievocare, dalla parte delle vittime, storie
di fantasmi che in questo processo metafisico ritornino vivi come il tempo a cui appartennero (Morte dell’Inquisitore). Mentre il romanzo-inchiesta nel polo giallo si configura come «ricostruzione e scrittura del delitto » attraverso indagini sul posto e interrogatori, la narrazione-inchiesta nel polo di ricerca documentaria assume le forme di una « ricostruzione e riscrittura del processo ».* Dato che i protagonisti del mistero sono ormai scomparsi e tutto quello che rimane è un corpus di documenti più o meno coerente e consistente da interpretare e commentare, appunto testimonianze sparse ed eterogenee (un carteggio, gli atti di un processo), l’investigazione da dinamica si fa necessariamente sedentaria e diviene esegèsi filologica, collazione di testi diversi e contraddittori, analisi delle fonti, processo di un processo, inquisizione di un’inquisizione (e anche
da qui la dimensione metafisica e metanarrativa delle rievocazioni più intense). Cosi, rispetto al polo giallo, qui non importa molto il «come va a finire » o l’whodunit, il « chi l’ha fatto » (co-
munque minimizzati e frustrati da uno Sciascia che usa il poliziesco solo strumentalmente), perché sono cose che si sanno già; importa invece porsi meno attraenti domande: come è potuto succedere, qual è la logica del sistema che crea quest’ennesima « sconfitta della ragione ». La sfida di Sciascia è mantenere l’attenzione del lettore non agitandogli di fronte la facile carota del mistero da risolvere, ma conducendolo attraverso una
complessa analisi filologico-investigativa dentro gli ingranaggi tramite cui il potere si perpetua e si innalza a ragione delle cose. Sciascia riesce a tener vivo l’interesse di chi legge sorretto solo dalla lucidità della sua dialettica e dalla serrata consequenzialità delle prove che deduce dai testi — insomma passa qui dal lavoro del detective a quello meno fascinoso e più arduo del pubblico ministero. Dietro questa tecnica che implica un raffinato e puntiglioso magistero stilistico c'è l'insegnamento della Storia della colonna infame (« Manzoni [...] prefigura il ‘“genere” dell'odierno racconto-inchiesta di ambiente giudiziario »,4 ricorda non a caso Sciascia). Come per la Storia della colonna infame, anche per Sciascia spesso si tratta di ricostruire e riscrivere la storia minore decostruendo le poche informazioni disponibili, che sono invariabilmente quelle lasciate dai cronisti dalla parte del potere. Smantellate le incongruenze e le ipocrisie della storia ufficiale e ritrovate le ragioni cancellate degli sconfitti, nasce un’altra storia animata da tanta indignazio-
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ne e passione da trascendere le connotazioni ristrette della ricerca documentaria per acquisire il respiro e la trasparenza della vicenda esemplare. Facendo sua la lezione di Manzoni nella Storia della colonna infame, Sciascia non nasconde il suo in-
tervento autoriale nell’interpretazione dei dati, non pretende che gli eventi parlino da soli. Nella storiografia, cosi come in letteratura, non c'è vicenda senza narrazione, né narrazione sen-
za voce.’ Sul caos oscuro ed equivoco dei fatti deve essere imposto un ordine perché essi acquistino significato, e l'ordine, il senso, è il soggettivo punto di vista dell'autore, la sua lettura che ricrea il passato (e il presente) come storia attraverso l’organizzazione in una fabula. Ma tanto più onesto è il lavoro di chi racconta storie « vere » quanto più la sua partecipazione intellettuale ed emotiva è aperta e consapevole. Quando Sciascia esordisce scrivendo « mi accingo a rivivere sulle carte del suo archivio [di Monsignor Ficarra] la storia
amara degli ultimi suoi anni »,) comprendiamo di nuovo quanto consapevolmente la ricostruzione per farsi scrittura persuasiva debba prima farsi esperienza vicaria, rievocazione. Dietro
questa ricostruzione-rievocazione di vicende congeniali affiorano inevitabilmente l’assurdità della storia e l'arroganza del potere; ma se il Vassalli di L'arrivo della lozione dichiara pole-
micamente che si può controbattere la demenza della storia solo con quella della letteratura, Sciascia idealmente replica che l’u-
nica salvezza dal delirio rimane la chiarezza della ragione e, da quel pessimista ma lucido discepolo di Voltaire che è, continua a registrare e a smascherare le infinite cronache di follia e sopraffazione che la storia propone. A Voltaire e ad una ragione libera da qualsiasi chiesa Sciascia rende omaggio in un testo che esula dalla mia classificazione e che fin dal nome si richiama alla illustre tradizione del conte philosophique: con Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Torino, Einaudi, 1977), immaginaria ed esemplare biografia di un personaggio dallo sguardo irriducibilmente limpido che con la sua passione per la verità e la sua evangelica coerenza non si lascia assimilare dal conformismo
sociale, Sciascia
attacca il costume e la storia italiana a partire dall’ennesimo . ciclo di trasformismo che segue la caduta del fascismo fino all'egemonia comunista degli anni settanta. Il Candido di Voltaire impara che non viviamo nel migliore dei mondi possibili, e il Candido di Sciascia deve a sua volta accorgersi che nessun credo collettivo, nessun ideale politico di giustizia passa la prova della pratica e della burocrazia che lo amministra, degli interessi personali che lo stravolgono. Candido è il romanzo di una educazione esistenziale, sentimentale e politica, dove però
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l'educazione politica approda al superamento di ogni impegno meramente partitico che alieni la libertà individuale: ribaltan= do quella parola d'ordine che proprio nel 1977 diceva che il privato è politico e anticipando il riflusso, Candido si salva dalla confusione e dal compromesso col negare con lucido anarchismo ogni credo politico e ogni padre, anche Voltaire, e sceglie ancora una volta di coltivare il proprio orto con la fuga-rigenerazione esistenziale a Parigi. Si capisce come questo libro abbia potuto segnare per Sciascia il lungo abbandono della narrazione romanzesca liberamente ispirata alla cronaca o alla storia recente che era iniziata col giallo (da // giorno della civetta, 1961, a Todo modo, 1974), per passare tutto alla narrazione storico-documentaria. Una volta denunciata, con Candido, l’im-
possibilità di una positiva e propositiva formulazione politica del reale, Sciascia per più di un decennio ha scelto la me-
diazione dell’antiquariato filologico-investigativo che gioca col passato e col riflesso di esso sul presente, ma ha rinunciato ad affrontare narrativamente e problematicamente il presente in sé. È proprio questa la qualità e il limite della recente produzione di Sciascia. Se da una parte il proliferare di controprocessi in forma di piccolo libro sembra quasi il disperato e nobile tentativo di erigere un nutrito baluardo esorcistico contro le sterminate demenze della storia, dall’altra proprio nella ferocia produttiva di questi anni recenti Sciascia diluisce inevitabilmente l’intensità del suo impegno. Cosi la bella prosa indulge verso il rigoglio della prosa d’arte, il rigore filologico rischia il compiacimento erudito, lo scritto di trenta pagine (La sentenza memorabile, Palermo, Sellerio, 1982) che nasce come
nota ad un precedente libro di ottanta (Il teatro della memoria, Torino, Einaudi, 1981) deve fornirsi di note proprie, di testo au-
siliare di Montaigne e di note al testo di Montaigne per raggiungere faticosamente la consistenza di libriccino. Borgesianamente, le note generano note; cosi La strega e il capitano (Milano, Bompiani, 1986) è una glossa annotata ad una frase di I promessi sposi, e si ha il sospetto che l’inquisizione dell’inquisizione si stia trasformando in un gioco fine a se stesso dove, fra l’altro, l'esito del processo è talmente scontato e la mediocrità dell'episodio e dei personaggi (I! teatro della memoria, 1981; 1912+1, Milano, Adelphi, 1986) è cosi evidente che istruire un contro-processo, per quanto possa contribuire a rivelare lo spirito del momento storico, sembra pur sempre antiquariato un po’ gratuito. Intanto, più i libretti si fanno esili, più i personag-
gi risultano appena abbozzati e nella loro inconsistenza lascia-
no spazio troppo ampio al narratore-controinquisitore Sciascia,
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cosi che la sua voce, per riempire il vuoto, rischia i sovrattoni del narcisismo, la sua indignazione sfiora un moralismo dalle note stridenti (La strega e il capitano). In Porte aperte (Milano, Adelphi, 1987) il «piccolo giudice » è un personaggio positivo, ma sembra stentare a diventar vivo proprio per la nobile simpatia e il pervasivo commento in cui è avviluppato dal narratore onnisciente, fino ad assumere nelle sue conversazioni con il procuratore generale e con l’amico giurato una dignità troppo composta e disincarnata. Una apparente inversione di tendenza avviene invece con il recente I! cavaliere e la morte (Milano, Adelphi, 1988), che sem-
brerebbe un ritorno alla narrativa di invenzione e appunto a quel romanzo poliziesco a cui ancora il lettore associa la produzione più originale e convincente di Sciascia. Un’incisione di Diirer che appare in copertina (I! cavaliere, la morte e il diavolo) suggerisce il titolo e ricorre nell’intreccio come immagine emblematica della narrazione, come accadde già a Tentazione di sant'Agostino di Rutilio Manetti per Todo modo. Il Vice, poliziotto senza nome se non quello che gli viene dalla funzione subalterna, opera in una città a sua volta anonima; la sua ma-
linconica solitudine e la riluttanza al dettaglio identificante della storia si rifanno al giallo-apologo di Il contesto (presentato da Sciascia come «una parodia », definizione non lontana da
quella di « sotie » posta in sottotitolo a JI! cavaliere e la morte) più che a quello circostanziato e a tutto tondo di I/ giorno della civetta e di A ciascuno il suo. Come l’ispettore Barlach di Der Richter und sein Henker (1950) di Friedrich Dirrenmatt, il Vice
è mortalmente malato e più di lui minato da una progressiva rassegnazione, da un senso della vanità del tutto che ne accelera la fine e ce lo fa sembrare una versione giallo-crepuscolare del personaggio memorante ed elegiaco, assediato da un mondo ostile, del romanzo medio. (E non si può non pensare ad un’altra recente narrazione in terza persona che avvolge il destino di un detective estenuato e pensoso, lo Spino di // filo dell’orizzonte di Antonio Tabucchi.) Come nelle cose migliori di Sciascia, risaltano in // cavaliere e la morte i bellissimi dialoghi del Vice con il Capo, testimoni e sospetti, metafisiche aperture alla morte come unica soluzione possibile per un investigatore sconfitto da una congiura vasta quanto il corrotto apparato dello Stato. Fin dal titolo” I! cavaliere e la morte è la storia di una preparazione al morire cavallerescamente (stoicamente) vissuta più che un romanzo-inchiesta alla maniera del primo Sciascia; più una summa, un congedo dalla vita, che una convinta
ripresa della narrativa di invenzione. Je
Ci si può a questo punto domandare in che modo, negli anni sessanta e settanta, l'invenzione di Sciascia abbia rivitalizzato
il romanzo tradizionale. La narrazione incentrata sull’inchiesta è un'alternativa alla fabulazione, spesso prevedibile e non avvincente per lo scaltrito lettore contemporaneo, delle forme medie assunte dal romanzo. La componente gialla crea nel testo nuove e lucide possibilità di intrattenimento e di riflessione, sconosciute all’elegia sentimentale di molto romanzo medio;* la componente di ricerca storica e documentaria rende la narrazione più plausibile, più equilibrata, mentre ormai il romanzo verosimile «tutta finzione» viene, come osserva Claudio Magris,° percepito come kitsch, operazione eccessiva e un po’
| grottesca che ha come oggetto un lettore fin troppo disponibile a lasciarsi trasportare sulle proverbiali ali della fantasia per non destare sospetti di acritica credulità. Se nel romanzo medio c’era molto sentimento e un po’ meno intelligenza, il romanzo-inchiesta è il tentativo di chiamare in causa di nuovo proprio l’intelligenza del lettore. Da parte dello scrittore è insomma un atto di maggior fiducia nei confronti di chi legge: non si richiede più complicità elegiaca ma partecipazione intellettuale. Fin dagli anni sessanta, la produzione di Sciascia si rivolge ad un pubblico sensibile al riemergere di problematiche collettive e lettore di saggistica, quel pubblico a cui il romanzo esistenziale e privato alla Cassola pare insufficiente; da qui il successo di queste ibridazioni che coniugano rigore di ricerca e passione civile, intrattenimento e lucidità di discorso.!° Nel. la narrazione-inchiesta di ricerca documentaria la storia ritorna come protagonista dopo che il romanzo medio, con le sue totalizzanti storie private, l’ha relegata per anni sullo sfondo. Rispetto all'attacco del Gruppo 63, che benché radicale finiva per rivolgersi ad un pubblico diverso e per scorrere parallelo ad un romanzo medio sostanzialmente indisturbato, l’alternativa proposta da Sciascia risulta certo meno eversiva teoricamente ma, in pratica, si rivela molto più efficace perché non nega utopisticamente un fatto letterario tradizionale, ma si propone più realisticamente di innovarlo, innestando su di esso gli elementi di un sottogenere, l'inchiesta, che in fondo fa capo alla medesima paternità del romanzo realista borghese: all'origine c'è sempre il « caso » degno di essere conosciuto e narrato. Quindi si tratta della sussunzione e del riciclaggio di un sottogenere in ottima salute, specialmente per quanto riguarda i favori del pubblico, per rafforzare e rivitalizzare il genere maggiore in crisi. Nel polo giallo del romanzo-inchiesta le regole del racconto poliziesco vengono trasgredite e riadattate ad una realtà non
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più positivisticamente considerata razionale e controllabile ma, piuttosto, sfuggente e minacciosa. Nell’inchiesta di ricerca documentaria Sciascia riesamina criticamente i documenti uffi-
ciali del passato per farli parlare in un modo che, se non è necessariamente più oggettivo della storia ufficiale, è senz'altro più significativo e attraente per il nostro gusto di uomini del tardo ventesimo secolo, addestrati dalle divulgatissime filosofie del sospetto e della demistificazione a preferire la verità che si dà come smascheramento a quella che si dà come credenza «naturale» e diretta. A ben guardare, le due operazioni sono simili: nel caso del giallo Sciascia decostruisce il genere razionale per eccellenza per produrre incertezza e insoddisfazione, e denuncia cosi la crisi delle istituzioni; nell'inchiesta filologi-
ca decostruisce l'apparente solidità della versione ufficiale per gettare nuova luce sull’iniquità del potere e sulle connivenze individuali che la sostengono. Queste operazioni di sovvertimento delle convenzioni di un genere, del significato di un testo, la programmatica e ironica delusione delle aspettative del lettore, l’aperta coscienza di non poter che rivisitare il già scritto nella propria condizione di epigono della tradizione moderna coniugano in Sciascia agilità letteraria postmoderna e partecipe serietà morale, confermano un’adesione disincantata ma tenace ai valori della ragione illuministica, invecchiata senza inverarsi ma anche senza mai es-
sere superata. Cosi lo Sciascia migliore arricchisce di una rara dimensione civile l’usuale dimensione ludica del riscrivere postmoderno. Che sia stata apprezzata nella sua complessità narrativosaggistica o che sia piaciuta come semplice formula, per la collaudata struttura offerta alla narrazione o per l’accattivante presenza di un eroe intellettuale decisamente intonato alle costellazioni mitiche del nostro tempo, l’inchiesta di Sciascia ha avuto
seguito. Anche Sebastiano Vassalli dopo un periodo sperimentale e tre romanzi «politici» arriva infatti ad un tipo di narrazione-inchiesta che ha delle indubbie affinità con quella di Sciascia. Si è già visto che il modello di Narcisso e degli altri . lavori del periodo iniziale è il Manganelli di Hilarotragoedia; Vassalli persegue, forse neanche tanto consapevolmente, un progetto di letteratura oratoria e al contempo cerebralmente sistematica, come si capisce da
Tempo di màssacro, Il millennio
che muore e A A. Il libro dell'utopia ceramica che hanno alla base un’astratta struttura razionale, assalita e inghiottita però
dal magma della retorica. Vassalli è un grande rètore alla ricerca di un sistema ordinatore che porti le indefinite possibili74
roR
tà del linguaggio fuori dall’autistica impasse sperimentale della neoavanguardia; la sua ricerca sembra avvicinarlo alle geometrie fantastiche di Calvino, ma i loro temperamenti letterari sono troppo diversi. Calvino è rigoroso, antinarcisista fino all'autonegazione; appartiene a una sinistra illuminata che, parafrasando il signor Palomar, è dubitosa e riservata fino a « mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione»,!! e usa magistralmente ironia e allegoria, mentre Vassalli, anarchico e insofferente, risolve sdegno e malessere attraver-
so invettive sarcastiche, ama la caricatura e la polemica. Quindi quella con Calvino è una liaison appena sfiorata nella base teorica di Il millennio che muore e AA. Il libro dell'utopia ceramica, un amore subito impossibile; invece la soluzione comples-
sa e ordinatrice viene dal romanzo politico (L’arrivo della lozione, Abitare il vento, Mareblu), mentre le poesie e il pamphlet divengono lo strumento della soluzione «biliare », la struttura breve ed epigrammatica della vendetta contro la società letteraria e gli «impoeti » (I! finito, Arkadia). Ma una nuova fase. è già in gestazione. Fin dai primi anni settanta (si ricordino le note di Vassalli all'edizione scolastica di I! giorno della civetta),! Vassalli si era interessato all’inchiesta di Sciascia, e il suo
terzo tempo prende appunto le forme di un'inchiesta in cui invenzione narrativa e ricerca documentaria trovano una loro originale e difficile conciliazione in una singola opera, quale La notte della cometa. Quella di Vassalli è un’indagine ancor più idiosincratica e soggettivamente motivata di quella di Sciascia. Se Sciascia sceglie il caso di ingiustizia congeniale si, ma anche universalmente esemplare, la sconfitta della ragione da sceverare e comprendere, Vassalli lavora solo su ciò che ama (il Campana di La notte della cometa, 1984) o odia (la consorteria futurista fiorentina di L'alcova elettrica, 1986), ed il miracolo è proprio che riesce a trasformare in equilibrato ed avvincente prodotto artistico il frutto di tanta intensità. Ci riesce per due motivi: uno riguarda la scelta della struttura narrativa e l’altro l’impiego della ricerca documentaria. In La notte della cometa (Torino, Einaudi, 1984) Vassalli sceglie una struttura del racconto articolata in brevi frammenti di una pagina-una pagina e mezzo che valorizzano la sua intensità e tengono sotto controllo la sua esuberanza. D'altro canto, rifugge dall’esegèsi filologico-investigativa di Sciascia, esplicitata nel testo. A differenza di Sciascia, la convinzione di Vassalli è che, in letteratura, i fatti possono parlare da soli. Vassalli più che dimostrare vuole mostrare: cita i documenti ma lo fa quasi senza parere, includendoli armonicamente nel testo ed evitando nel modo più assoluto note e glosse. Anche quando ha fatto delle nuove scoperte,
DO)
le include senza particolare risalto, per non incrinare lo scor-
rere della narrazione (« Ho avuto la fortuna di trovare l’incartamento [...]»). Piuttosto, sulla base di un profondo lavoro di ricerca ed una grande capacità di immedesimazione, riesce a ricreare dialoghi e frasi dei vari personaggi in modo tale da conferirgli il timbro della verità. Non è un caso che sulla quarta di copertina di La notte della cometa si legga « Vita e morte di un poeta in un romanzo-verità »; Vassalli cerca di conciliare il romanzo
e l’inchiesta,
vuole
raccontare
la vita di Campana
(« Facciamo ora un passo indietro, per recuperare una parte della storia che s'è perduta »), mostrarcela e farcene spettatori (« Entriamo ora con Dino nel manicomio di Imola. Assistiamo alla conta degli oggetti, alla rasatura del cranio »), perché visione e verità coincidano e si avvalorino a vicenda. Eppure Vassalli non esita a dire « probabilmente », a immaginare conversazioni (« Pochi giorni dopo questo dialogo immaginario [...]»; «Perché io mi immagino che Tanzi le dica [...]»), a usare, non
sempre felicemente, i puntini di sospensione quasi per esprimere l’esitazione del fatto non certo e la sensazione della fluidità della storia. Nel raccontare Vassalli trova un difficile equilibrio fra l'autorità della ricerca documentaria e quella che sente venirgli da un’affinità elettiva con Campana. Campana è un personaggio cercato e trovato, ricreato invece che creato di sana pianta; è il risultato di un’ansia di proiezione dell’io che ha trovato fortuita corrispondenza e felice conferma in un artista realmente vissuto. E infatti Vassalli conclude La notte della cometa scrivendo: Io cercavo un personaggio con certi particolari connotati. Il caso
me l’ha fatto trovare nella realtà storica e da li l’ho tirato fuori: con accanimento, con scrupolo, con spirito di verità. [...] Ma se anche Dino non fosse esistito io ugualmente avrei scritto questa storia e avrei inventato quest'uomo meraviglioso e « mostruoso », ne sono assolutamente certo. L'avrei inventato cosi (239).
Tutto ciò non è una snobistica battuta conclusiva: Vassalli
si interessava a Campana già da molto tempo! e, a livelli « bas-. si », lo aveva già inventato con i suoi due disadattati protagonisti di Abitare il vento e Marebli, Cristiano Rigotti detto Cris e
Augusto Ricci; la biografia su Campana riprende il personale maledettismo di Vassalli (la sua intransigenza e la sua polemica con l’establishment letterario italiano) e la sua predilezione per il personaggio spostato. Dopo i fittizi Cris e Augusto, come a completare un ciclo, Vassalli invera il disadattato dall'alto, con il fatto storico, quasi a confermare che anche lui condivide
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la diffusa sensazione che il romanzo-romanzo è esausto, non più proponibile. Cris e Augusto erano due facce di una stessa crisi politica (Augusto quasi un Cris arrivato ad invecchiare), si riflettevano e completavano a vicenda; narcisisti balordi e mo-
nologanti in gerghi eccessivi e d’accatto, espropriati di una lingua reale come di ogni unitaria interpretazione della realtà, erano privi di ulteriori sviluppi, terminali, ridotti sul filo del silenzio dal suicidio o dalla follia. L'unico modo per provare che erano pazzi veri era crearne un altro che era veramente esistito ed era anche stato artista, poeta puro. L'alcova elettrica!* (Torino, Einaudi, 1986) è l’altra faccia
di La notte della cometa. Nata dal lavoro di ricerca per il libro sull’artista puro Dino Campana, è una rievocazione dettagliata e impietosa di quella società letteraria fiorentina (anno 1913) fatta di arrivisti, dandies e mediocri orecchiatori che snobba
e vittimizza l’«uomo dei boschi » Campana, ed è in particolare la storia del passaggio del trasformista Papini nella schiera dei futuristi, e di un processo per offesa al pudore. Struttura e metodo compositivo sono gli stessi di La notte della cometa; c’è semmai un aumento di conversazioni in discorso diretto, non sempre felici per una certa insistenza bozzettistica su facili fiorentinismi!* che infine sortiscono un effetto caricaturale. Il documentato narratore, presentissimo con le sue avversioni e
le sue caustiche cattiverie di rappresentazione, resta però del tutto implicito. La struttura dell'inchiesta è alle spalle della narrazione, e vi compare direttamente solo come trascrizione delle prove documentarie acquisite.
Più direttamente legato all'ordine della scoperta, resoconto dell'inchiesta vera e propria, è Sangue e suolo. Viaggio fra gli italiani trasparenti (Torino, Einaudi, 1985), che tratta di una situazione del presente, l'emarginazione degli italiani in Alto Adige da parte della « minoranza » di lingua tedesca « che si governa in quanto maggioranza e si tutela in quanto minoranza »
(68). Vassalli adotta anche qui la tecnica del frammento breve e vivido, con molto discorso diretto, usata negli altri due casi.
Ma, nonostante che lo scrupolo di verità e il lavoro di ricerca siano simili in tutte e tre le opere, mentre è chiaro che sono accomunate dal fattore inchiesta, non si può certo sostenere che
Sangue e suolo sia anche un romanzo. La differenza proviene dal fatto che le prime due vicende non sono recenti e che, grazie alla distanza nel tempo e alla diversa qualità della passione e della denuncia, soprattutto la vita di Campana acquisisce nella ricostruzione di Vassalli una carica simbolica che è propria della narrativa di invenzione. Campana è perfettamente vero, sto-
ricamente esistito, e al contempo perfettamente romanzesco,
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dotato di grande potenza mitopoietica, tanto che Vassalli può fare di lui l'oggetto di uno studio documentato e allo stesso tem-
po una proiezione del proprio io creativo (il coronamento di una serie di proiezioni, se si mettono in conto Cris e Augusto). Il ri-
sultato è un equilibrio fra le due valenze, appunto un romanzoverità, o un romanzo-inchiesta. L’alcova elettrica non ha un personaggio con le caratteristiche di Campana, ha anzi come soggetto gli anti-Campana, i Soffici e i Papini; non c'è mitopoiesi ma
piuttosto, come
afferma
il commento
di retrocopertina,
«una storia gustosa » 0 «un vivace quadro d’epoca ». Però L'alcova elettrica acquisisce delle suggestioni romanzesche proprio per come Vassalli, nel mettere in luce impietosamente maneggi e mediocrità di questi personaggi, li sottrae alla oleografia letteraria in cui siamo abituati a vederli imbalsamati, e cosi li rinnova, li rende veri nella loro meschinità, vivi nella loro ri-
balderia. Ma qui siamo comunque già a metà strada fra il romanzo-inchiesta su Campana e il saggio-inchiesta sull’Alto Adige, dove ovviamente le valenze mitiche sono nulle e tutto si svolge nel nostro presente, con interviste a personaggi di cui
purtroppo leggiamo quotidianamente sui giornali. È bene ricordare a questo punto che sia Sangue e suolo che L’alcova elettrica sono nello scrivere di Vassalli dei prodotti « secondari », cioè dettati da circostanze occasionali: Sangue e suolo era stato concepito come innocente commento turistico da af-
fiancarsi a un reportage fotografico commissionato a Vassalli dalla Mondadori per una patinata rivista d’evasione del gruppo. La curiosità e poi l'indignazione di chi non si ferma alle apparenze di disneyana perfezione dell'Alto Adige hanno fatto il resto, e Vassalli si è dovuto cercare un altro editore per pubblicare ciò che da innocuo servizio era diventato un libro bianco. Come si è accennato, L’alcova elettrica è parte dell'enorme
lavoro di ricerca per il libro su Campana, un episodio in cui Vassalli si è imbattuto ricostruendo i rapporti fra Campana e l’ambiente letterario fiorentino delle riviste (in particolare Papini e Soffici); quella del processo per oscenità è una storia esemplare che non poteva avere spazio in un libro intenso e stringato come La notte della cometa, ma che per la sua « contemporaneità » (trasformismo, mediocrità e mafia letteraria) meritava di essere raccontata. L’opera successiva, L'oro del mondo (Torino, Einaudi, 1987), non è invece un prodotto collaterale e ri-
prende il percorso di La notte della cometa, fatto di proiezione dell’io e di frammenti di storia. Semmai con Sangue e suolo Vassalli ha imparato a costruire il racconto a due livelli, quello dell'inchiesta e quello metanarrativo del libro nel suo farsi (come dal reportage nasce l'inchiesta, i rapporti con Mondadori e Ei-
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naudi), e con L’alcova elettrica ha acquisito il gusto trasgressivo della ricerca storica che scova il caso sensazionale nelle pieghe della storia più grande. Tutto questo ritorna in L’oro del
mondo dove, da una biografia costruita su affinità elettive e ri-
cerca storica come quella di Dino Campana, Vassalli passa ad una scapigliata autobiografia che si intreccia polemicamente con la storia dell’Italia dagli anni quaranta ad oggi. I piani narrativi qui sono tre: la gestazione e lo sviluppo del libro e i rapporti con l’editore e con l’industria culturale (piano metanarrativo); la tragicomica storia di non-formazione!* dall’infanzia ai nostri giorni di un io di nome Sebastiano (fabula autobiografica); la storia degli italiani « che fuoriescono dal fascismo » negli anni 1943-44 vista attraverso episodi autonomi (i materiali del «romanzo storico » che ossessiona l’io narrante) e poi quella degli italiani che si arrangiano negli anni cinquanta inserita all’interno del piano autobiografico. La tecnica narrativa è sempre quella del lacerto di tre-quattro pagine; i tre livelli funzionano con grande fluidità e cospirano nel fare di L’oro del mondo una ora amara ora allegra vendetta contro la retorica ufficiale e l’odierna industria editoriale. Vassalli riprende la sua polemica contro la « demenza della storia » puntando sguardo e linguaggio dissacranti sul comunque inglorioso e caotico periodo 1943-44, che gli storiografi si affannano a giustificare e gli italiani a dimenticare: È il romanzo della mia generazione. Da una parte ci siamo noi, bambini e adolescenti, e dall’altra tutti gli italiani [...] che sono stati fascisti per vent'anni e poi a un tratto si ritrovano cosi, fuori delle farneticazioni e dei sogni: faccia a faccia con il loro stupido destino. Quaranta milioni di spennacchiati senza futuro né patria né dignità: un volgo querulo e osceno, un immenso starnazzante pollaio (11).
Tra episodi di valore e di sofferenza cancellati da più ampi fenomeni di collaborazionismo con i tedeschi e un’accurata scelta di casi sensazionali e sintomatici che a nessuno piace ricordare — una specie di « colonna infame » del carattere nazionale — si delinea l’immagine della sconcia vitalità della generazione dei padri, o almeno di quei padri trasformisti impuniti e vincenti che, come il padre di Sebastiano, non affondano mai e nessun valore, nessuna civiltà sanno trasmettere che non sia
la loro golosa e amorale capacità di vivere.!” Impotenza, isolamento, sconfitta sono la sorte di chi rifiuta l'eredità di questa infamia originaria. Vassalli ha la tempra del grande moralista, del libero pensatore che non può non entrare in conflitto con il crasso opportunismo che contraddistingue le recenti vicende del nostro paese. Come già in Sciascia, c'è in Vassalli una 19
permanente vena di indignazione, di polemica iconoclasta contro le ipocrisie della nostra storia e del nostro costume, qui coniugata ad una vena espressionista deformante e intemperante che dalle ossessioni private dilaga verso ciò che è storico. Ma c'è anche, nella voce sarcastica e grottesca di Vassalli come in
quella sorniona e ironica di Sciascia, una diversa vibrazione: nei confronti di ciò che del passato vorremmo non perdere, del poco che suscita il nostro rispetto e la nostra solidarietà, si può provare anche commozione, pietas. Allo smascheramento dell’orribile o del meschino si accompagna la memoria della dignità individuale (lo zio Alvaro! in L'oro del mondo), tanto poca cosa nella storia che di essa resta solo ciò che l'affetto fa rivivere nel racconto. L’io autobiografico di Vassalli, nel 1987, lo lasciamo alla
fine del romanzo significativamente sospeso, in treno (seconda classe), mentre torna a casa dopo un inutile viaggio e fa ilpunto della sua situazione presente che « non è rosea » (167). È difficile dire a quale stazione si fermerà il treno di Vassalli. Certo lo splendido L'oro del mondo già lo conferma come lo scrittore più influente, assieme a Celati, di quella generazione di mezzo,
perduta tra la «morte della letteratura » e la sua rinascita attuale, che fino a poco tempo fa si dava per non esistente. È infatti con Vassalli e attraverso Sciascia che si può ricostruire e comprendere quell’interesse per la ricerca storica e per i suoi più romanzeschi sviluppi che caratterizza non solo, come vedremo in seguito, molti giovani narratori degli anni ottanta (cfr. III.3.), ma anche, più ampiamente, maturi studiosi e saggisti che recentemente, attraverso la mediazione della storia, si sono ac-
costati alla scrittura narrativa.!° Per quanto sia oggi di moda fra gli scrittori italiani negare di avere imparato alcunché dai « piccoli maestri » nazionali per proclamare invece respiro cosmopolita facendo i nomi di Conrad, Mann, o Joyce,?° sembra chiaro, esaminando un certo tipo
di produzione « storica » molto cresciuto a partire dalla fine degli anni settanta, che Sciascia ha almeno aperto una tendenza e prefigurato un modello di autore, lo studioso-scrittore, che. attinge alla storia per scrivere e per insegnare, che conosce il
potere e la responsabilità della letteratura come testimonianza e memoria di ciò che il tempo consuma. Si è infatti moltiplicato in questi ultimi anni il numero delle ricostruzioni storiche: meditazioni narrative che si basano su fatti realmente accaduti o invenzioni esemplari inverate dall'uso di materiali autentici, che diventano esse stesse in qualche modo documen-
ti. Come Sciascia, gli autori di queste narrazioni si concentra-
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no su episodi circoscritti di una storia più grande, alla ricerca del farsi della storia nelle vite e nelle responsabilità individua-
li. Meno che in Sciascia, o almeno in misura minore man mano
che si avanza negli anni ottanta, il loro ricorso al passato è orien-
tato da una finalità di smascheramento o di denuncia: vengono piuttosto chiamati in gioco affetti e gusti personali, e appare più il desiderio di capire che di accusare, la necessità di rifare
i conti con la storia in senso esistenziale e morale più che politico. In ogni caso, c’è una particolare autorevolezza che viene dall’uso del documento: il patto narrativo orienta qui ad una lettura meditativa e saggistica che, maestra l’ironia o la pietas, ha per filo conduttore la difficoltà della conoscenza e dell’in-
terpretazione del reale.?! Ma vedremo in seguito (cfr. III.3.) che le carte in tavola possono rovesciarsi, e il materiale documen-
tario divenire la chiave di altre strategie narrative. Dietro /! sorriso dell'ignoto marinaio (Torino, Einaudi, 1976) di Vincenzo Consolo (n. 1933 a Sant'Agata di Militello, Messi-
na) c'è lo Sciascia delle migliori narrazioni storico-documentarie e, di conseguenza, l’eredità del Manzoni della Storia della co-
lonna infame. Nell'ultimo capitolo (« Le scritte ») il romanzo riporta le scritte graffite sui muri del carcere di Sant'Agata dai contadini condannati a morte dopo la rivolta di Alcàra Li Fusi (maggio 1860) in un modo che è un chiaro omaggio allo Sciascia di Morte dell’Inquisitore (che parte appunto dalle iscrizioni dei condannati dell’Inquisizione) e allo storico siciliano Giuseppe Pitré, nominato appunto da Sciascia in prima pagina qua-
le fonte ispiratrice delle sue ricerche. Nel Sorriso vi sono poi appendici di vario tipo (trascrizioni di una lettera di prefazione ad un libro sui molluschi, di una conferenza storica, di alcu-
ne pagine di Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba, degli atti del processo relativo alla rivolta di Alcàra Li Fusi, di un certificato di morte, di un pro-
clama), un apparato di reperti originali o plausibilmente riprodotti che invera e stratifica la narrazione, in questo caso la storia della lenta conversione (dal 1852 al 1860) del mite e appartato barone siciliano Mandralisca, a tempo perso scienziato che si occupa di molluschi, alle cogenti cause della rivoluzione an-
tiborbonica. Lo stile di prosa frammista a poesia di Consolo, che tocca note ora sperimentali ora barocche, è un vorticoso
impasto di dialetto e di lingua letteraria dove si intravedono numerosissimi prestiti e suggestioni (da Carducci a Pascoli, a D'Annunzio, a Manzoni, a Sterne), in un laboratorio linguistico
che richiama quello gaddiano. Di Gadda in Consolo bisogna mettere in rilievo l'enciclopedia scientifica, l'accumulazione ver81
bale, la percezione gastrica e sensuale della realtà, l'insistenza
su materiali corrotti, il cozzare di neologismi, di lingua aulica e di espressioni idiomatiche insieme macerate e riciclate. E dai poeti del nostro decadentismo Consolo attinge il gioco di assonanze che scandiscono interne e segrete cadenze, i ritmi popolari e rituali del lamento e della ballata, la traduzione del primitivo in letterario. Ispirazioni intense provengono naturalmente da Verga (« Libertà ») e da Tomasi di Lampedusa; da Sciascia Consolo riprende l'impegno civile, la passione per la storia e i costumi siciliani, la ricerca storico-documentaria. Ma è infine il sorriso «ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto » (5) — quello dell’anonimo
ritratto di Antonello da Messina a cui si riferisce il titolo — che permea e dà il tono a questo originalissimo pastiche. Racconto ancora storico di grande intensità evocativa è Retablo (Palermo, Sellerio, 1987), tutto giocato sulla tensione fra
movimento (il tempo, il desiderio, il viaggio, il racconto) e immobilità (l'origine metafisica, il fondamento d’essere di ciò che esiste, la conoscenza, l'osservazione, la pittura), preziosamente e precariamente conciliati nell’idea appunto del retablo, del racconto in quadri. La storia si sviluppa intorno al viaggio che un gentiluomo milanese contemporaneo dei Verri e di Beccaria, intellettuale illuminato ma disilluso e pittore dilettante,
compie in terra di Sicilia per guarire dal mal d’amore e sfuggire alla cieca e dolente attualità della storia, « questo tempo uma-
no del conato » (34). Consolo inserisce nella sua rappresentazione della Sicilia settecentesca i punti di forza della consapevolezza antropologica recente, dai briganti alla festa popolare alla religiosità magico-pagana. La ricerca e l’erudizione che gli permettono di allestire il suo ricco tessuto di voci e situazioni, sorretto dalla consueta sensibilità linguistica, qui si fondono armoniosamente con la narrazione, invece di risultare in una se-
rie di appendici (// sorriso dell'ignoto marinaio), o addirittura in una sezione di note e documenti a sé stante, come era accaduto nella «favola teatrale» Lunaria (Torino, Einaudi, 1985),
dove un tale apparato costituiva appunto una specie di secondo testo da potersi anche leggere separatamente (« Notizie», 69-85). Infatti in Retablo la figura dell’erudito e sentimentale viaggiatore settecentesco e l’idea del giornale di viaggio (una proiezione trasparente, attraverso il doppio straniamento sto-
rico e geografico, dello sguardo distaccato e oggettivante dell’intellettuale Consolo, emigrato a Milano e al tempo stesso appassionato cantore del fascino della sua isola) lasciano assorbire nel racconto gran parte del ruolo che altrove Consolo at82
tribuisce ai documenti e all’intervento autoriale. Intanto la ri-
flessione sulla storia si fa sempre più disincarnata e universa-
le, lucida e conseguente nel suo pessimismo senza salvezza, dove
solo la dignità umana delle passioni e delle rinunce costituisce
una forma di riscatto. Il recente Le pietre di Pantalica (Milano, Mondadori, 1988),
una raccolta di racconti e memorie ambientati in Sicilia che vanno progressivamente dal 1943 ai nostri giorni, conferma l’importanza della storia — storia isolana e storia civile, ma qui an-
che testimonianza e riflessione autobiografica — nell'opera di Consolo. Le pietre di Pantalica tratteggia in pagine di risonanza verghiana la disillusione per un dopoguerra che porta solo il consueto avvicendarsi di regimi e il riconsolidarsi di secolari poteri nell’immobile teatro dell’isola dopo una breve apertura di speranza; esprime amarezza e sdegno per il degrado politico e ambientale della nuova Sicilia, con tanto di nomi e circo-
stanze, in un modo che fuga ogni possibile dubbio a proposito. di uno scrivere di Consolo più raffinatamente letterario e antiquario che fattivamente ed eticamente impegnato nel presente. Come nell’ultimo Sciascia la constatazione della vittoria della mafia, qui strettamente connessa allo sfacelo ecologico e culturale, alla quasi scomparsa della civiltà dell’isola, dà luogo ad un doloroso sentimento di morte che pervade la terza parte della raccolta di una stoica, funerea elegia. Come le pietre della ne-
cropoli di Pantalica, le rovine dei templi greci, i vasi dipinti e le statue fittili di una civiltà trapassata, cosi gli arnesi del mondo contadino raccolti dall'amico Uccello nella sua Casa-museo, gli odori e i sapori dei cibi, delle erbe, dei frutti, i gesti, le perso-
ne, i sentimenti, le parole di una Sicilia appena di ieri si affidano alla memoria delle pagine per non disperdersi nell'oblio, per non cedere alla barbarie e all’incubo della storia di oggi. A più di trent'anni dalla raccolta-reportage di Carlo Levi, le parole tornano ad essere pietre: pietre da scagliare, di amara e tenace
denuncia, pietre di memoria, come le pietre pietose delle tombe. Come l’avido viaggiare di Consolo per ogni angolo della sua terra, anche lo scriverne è « una sorta d’addio, un volerla vede-
re e toccare prima che uno dei due sparisca » (179). La sensibilità nostalgica e personalistica del romanzo medio si accompagna in Consolo ad una coscienza militante della letteratura, che
sfida con la sua sincerità e consapevolezza il ripiegamento di una sconfitta già nota.
Sono recenti anche i casi di Claudio Magris e di Alberto Cavallari, l'uno professore universitario, l’altro prestigioso gior-
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nalista, che rispettivamente in I//azioni su una sciabola? (Milano-Bari, Cariplo-Laterza, 1984, 1985%; Pordenone, Studio Te-
si, 1986) e La fuga di Tolstoj (Torino, Einaudi, 1986) si cimentano felicemente con una narrazione strutturata come ricostruzione documentaria di una circoscritta storia esemplare.
Con Illazioni su una sciabola Claudio Magris (n. 1939 a Trieste) riesuma un episodio fino ad allora poco conosciuto della seconda guerra mondiale, l'occupazione nel 1944-45 della Carnia da parte dei cosacchi che collaboravano con i nazisti?* e a cui in ricompensa era stata promessa quella terra quale Kosakenland. Nel suo componimento misto di storia e di invenzione Magris crea una bella voce di narratore, don Guido, un vecchio prete memorante e smemorante che rievoca ai nostri giorni in una lunga lettera all'amico don Mario” la storia dei cosacchi. La narrazione di don Guido prende spunto da una missione che egli svolse per incarico del vescovo ai tempi dell’occupazione e dal mistero sulla morte del generale Krasnow, capo dell’armata cosacca, durante la ritirata. I tedeschi nel 1957 asserivano di averne identificato la salma nel piccolo cimitero di un paese della Carnia. Nella riesumazione era affiorata l’elsa di una sciabola priva di lama e da questo compendio di vana
sfida e resa parte la riflessione sull’amara sorte di Krasnow e dei cosacchi, alleati « dei quali i tedeschi si servivano per misere e infime operazioni, ingannandoli con promesse impossibili e persuadendoli al male, facendo di essi le loro vittime e i loro complici, persecutori di altre vittime » (Studio Tesi, 17). La sciabola spezzata sembra l’emblematica reliquia della condizione di vittima della storia del popolo cosacco e, accanto alle presunte spoglie di Krasnow, sembra dare per lo meno una composizione nobile e significativa a questo triste episodio. Don Guido, ostinatosi a ricercare ogni testimonianza sulla vicenda, sa che le cose sono andate diversamente: Krasnow è stato preso prigioniero dai sovietici e ingloriosamente processato e impiccato come traditore nella Mosca di Stalin. Il cadavere, come la
sciabola spezzata, non è il suo anche se l’ingenuo e generoso generale, incapace di rendersi conto che stava vivendo la stessa storia di tradimenti e sconfitte più volte raccontata nei romanzi da lui scritti, «avrebbe meritato quella fine autentica » (84), cavallerescamente cercata nell'avventura, quasi a riscatto delle sue scelte politiche sbagliate, della sua anacronistica
e angusta visione della storia. Cosi don Guido con commozione e pietas riesce a recuperare l’immagine dell’elsa spezzata e ad
innalzarla a simbolo di un destino non solo di Krasnow, o dei cosacchi, ma della condizione umana:
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29 Elemento ricorrente nel romanzo che contiene ricerca documentaria è, assieme al documento e all'apparato di note e di appendici che spesso lo « convalidano », la presenza della mappa. Essa sintetizza il luogo della narrazione e drammatizza simbolicamente la storia attraverso il tracciato di un itinerario: dalla riproduzione grafica della prigione-chiocciola (120) in I! sorriso dell'ignoto marinaio alla mappa dell'abbazia nell'interno di copertina di Il nome della rosa (riflessa in sovraccoperta dallo schema del labirinto su cui si basa la pianta della biblioteca), alla mappa delle province russe di Tula e Kaluga con il percorso della fuga in La fuga di Tolstoj di Cavallari, a casi diversi ma comunque sintomatici quali sono le carte del Danubio in Danubio di Claudio Magris e del Po in Narratori delle pianure (Milano, Feltrinelli, 1985) di Gianni Celati. La presenza della mappa nelle opere di Consolo, Eco e Cavallari pare suggerire ordine e controllo, sfida al labirinto ma, letto il testo, queste mappe concentriche risultano
piuttosto la schematizzazione simbolica di un « girare a vuoto », di una sconfitta della ragione. Nei casi di Celati e Magris, lo scrittore aderisce ai canoni mimetici e rassicuranti della verosimiglianza, alle generiche convenzioni della carta turistica, e ritaglia in essa un itinerario che è al contempo intellettuale e naturale facendo coincidere riflessioni e storie con le località che si susseguono lungo il percorso del fiume fino al mare; tutto ciò crea l'illusione di un disegno finalizzato e armonico, che invece viene frustrato
nei finali di entrambe le opere, in cui si stenta appunto ad orientarsi e a trovare la foce. 30 Si pensi al Thomas Pynchon di The Crying of Lot 49 (Philadelphia, Lippincott, 1966; traduzione italiana: L'incanto del lotto 49, Milano, Mondadori, 1968, 1988), in cui un presunto sistema postale segreto avrebbe in-
fluenzato le sorti del mondo occidentale e forse avuto un ruolo importante nello scoppio della rivoluzione francese. Per un trattamento del motivo della congiura si veda Raymond M. Olderman, Beyond the Waste Land: The American Novel in the Nineteen-sixties, New Haven, Yale University Press, 1972. 31 Cfr. Maria Corti, « Mr. Borges, suppongo? », Panorama 1172, 2 ottobre 1988, p. 143.
32 «Se [l’autore] avesse voluto sostenere una tesi, avrebbe scritto un saggio (come tanti altri che ha scritto). Se ha scritto un romanzo è perché ha scoperto, in età matura, che di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare » (Umberto Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980, risvolto
di copertina). 3 Cfr. Storia figurata delle invenzioni. Dalla selce scheggiata al volo
spaziale, a cura di Umberto Eco e G.B. Zorzoli, Milano, Bompiani, 1961, come
pure-/ colori del ferro, saggio introduttivo di Umberto Eco, commenti tecnici di Gino Papuli, fotografie di Kurt Blum e altri, edizione a cura di Eugenio Carmi e Franco Fedeli, Genova, Italsider, 1963. 34 Cfr. la bella recensione di Lorenzo Mondo, « Nelle oscillazioni di un
ua Eco cerca la verità », Tuttolibri (La Stampa) 626, 15 ottobre 1988, p. 1. | 35 Cfr. Umberto Eco, Il pendolo di Foucault (Milano, Bompiani, 1988), p. 208. Non è questo l’unico punto di contatto fra le fortunate « operazioni » di Fruttero e Lucentini e i romanzi di Eco. Oltre a giocare con temi ocu-
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latamente mirati al crescente bisogno di irrazionalità e di mito (la religiosità gnostica di A che punto è la notte, Milano, Mondadori, 1979; l'ebreo errante di L'amante senza fissa dimora, Milano, Mondadori, 1986) che Eco
utilizza nel Pendolo, Fruttero e Lucentini rappresentano nel panorama italiano il primo esempio di spregiudicata consapevolezza narratologica; la loro pianificazione compositiva va, come quella di Eco, in direzione di una intenzionale combinazione di generi popolari e scrittura di buon livello, sostenuta da intelligenza e ironia (si pensi al poliziesco di La donna della domenica, Milano, Mondadori, 1976, o ad una « storia di fantasmi » come // palio delle contrade morte, Milano, Mondadori, 1984) — intelligenza e iro-
nia che però i due vogliono rigorosamente frivole e mondane, ritraendosi dalla serietà come da un peccato di gusto e dichiarando propositi di intrattenimento che li hanno sempre tenuti ai margini della società letteraria, nel territorio commerciale della paraletteratura.
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4.- PER UNA NARRATIVA ALL'ALTEZZA DEL PROPRIO TEMPO. NARRATOLOGIA E NUOVI SAPERI (Calvino, Levi, Saviane, Celati, Eco) «Vogliamo dalla letteratura un'immagine cosmica [...], cioè
al livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco » (IraLo CaLvino, «La sfida al labirinto »).
Sulla falsariga dell'inchiesta abbiamo visto delinearsi nel panorama letterario italiano una narrativa erudita variamente nutrita di competenza storica e filologica, di un rinnovato senso del valore della cultura e dell’autorevolezza morale ed estetica che essa conferisce, fino a sconfinare nel saggio. Un altro aspetto
di questa propensione della narrativa alla saggistica è quello che tende più propriamente all’autoriflessione interrogandosi sull’esistenza e sul destino del romanzo: una vocazione alla ricerca letteraria che alterna « dimostrazioni » sulle possibilità della narrativa alla domanda diretta sulla sua ragion d’essere. In una costellazione estetica ancora in gran parte atteggiata storicisticamente,! chiedersi cosa sia e dove debba andare il ro-
manzo significa confrontarsi con la propria epoca, con la sua immagine e con i suoi saperi, e quindi cercare di realizzare un tipo di narrativa che sia, se non summa,
orientamento,
intui-
zione degli emblemi più significativi di una cultura. Per illuminare la prospettiva che i giovani narratori che affrontano queste problematiche (cfr. III.4.) si trovano alle spalle, pare ovvia la scelta di Calvino, come scrittore che fin dall’i-
nizio della sua carriera ha vissuto la tensione tra funzione universale del raccontare e storicità della prassi umana, ridefinendo continuamente e fruttuosamente questo rapporto. Ma sembra indicativo fornire campioni, sia pure attraverso un esame
sommario, anche di accostamenti più limitati e parziali fra forma narrativa e saperi contemporanei: un raro caso di simbiosi
fra formazione scientifica e vocazione letteraria come quello di Primo Levi consente una genuina presenza della scienza e
del metodo sperimentale nella composizione narrativa; più meccanico e didattico è il tentativo di Giorgio Saviane, tipico di anni in cui alla narrativa si chiedeva di poter essere letta come un saggio informativo. L'apertura del romanzo alla nuova enciclo-
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pedia delle scienze umane denota le ansie di rinnovamento di scrittori che avevano fino ad allora praticato una narrativa di impostazione elegiaco-sentimentale e che ad essa ritornano subito dopo; in questo senso sembra appunto esemplare il tipo di aggiornamento intrapreso da Saviane (// mare verticale, 1973), già ridefinito in chiave più mimetica ed accessibile al lettore medio nel seguente Eutanasia di un amore (1976). Si vedrà poi come la ricerca di Calvino continui e acquisti altre tonalità nell'evoluzione di uno scrittore come Celati, che appartiene alla generazione di mezzo, quella fra Calvino ed i giovani narratori. A differenza di Calvino, che è stato un precursore puro ed è rimasto un isolato, Celati è entrato in risonanza con il nuovo cli-
ma neonietzschiano e neoheideggeriano degli anni ottanta, apparendo il mediatore ancora in bilico fra la calviniana sfida al labirinto gnoseologico-culturale e gli esiti di semplificazione o di stuporosa resa al fascino dello spaesamento presenti nella nuova generazione. Labirinto dei saperi, crisi della ragione ed irrazionalismo montante sono anche i termini fra cui, come ab-
biamo visto nel capitolo precedente, si muove il lavoro narrativo di Eco, che è forse quello che nel decennio in corso ha goduto della maggior visibilità: nei suoi romanzi Eco prende indirettamente posizione su tutti i principali temi della discussione contemporanea e rinnova in modo originale il rapporto fra narrativa e filosofia; le modalità e la portata della sua proposta poetica hanno una rilevanza peculiare per l’odierna riflessione sul senso della letteratura a cui questo capitolo-è dedicato. Calvino in Italia ha rappresentato per decenni la punta avanzata di una autoconsapevolezza letteraria basata non solo su una profonda conoscenza storica della tradizione narrativa,
ma anche sulla partecipazione al dibattito teorico, su una nuova coscienza antropologica e semiologica di che cosa significa narrare. Prendendo spunto da Propp e dai formalisti russi, Calvino si occupa del racconto come meccanismo combinatorio di varianti strutturali e tematiche, ne ricerca la freschezza originaria nella tradizione orale; dialoga sul senso attuale della let-
teratura con lo strutturalismo francese e con l’école du regard, poi con l’estetica della ricezione e il post-strutturalismo decostruzionista e postmoderno. Nello stesso tempo lavora in una situazione come quella italiana, in cui il ruolo e l’autocoscien-
za dei letterati continuano per tutti gli anni settanta ad avere un'impronta più ideologica e politica che strettamente professionale, e del rapporto fra letteratura e politica, o meglio delle sorti della tradizione illuministica di questo rapporto nella com-
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plessa società dell'industria culturale e dei consumi di massa, è interprete acuto e tormentato.
Per molti aspetti il percorso di Calvino è significativo: il suo è un apporto di sprovincializzazione e di aggiornamento, originalmente impegnato a misurarsi con le grandi correnti internazionali e ad esplorare dall’interno valori, significati e possibilità dell’autonomo universo narratologico. Contemporaneamente il suo lavoro di scrittore è un tentativo ininterrotto, di alto rigore intellettuale e morale, di fare della letteratura, obbedendo alle sue regole, uno strumento, o almeno un’occasio-
ne, di crescita per gli uomini che la creano. Dunque letteratura all'insegna della mediazione, difficile, ma a volte straordinariamente felice, tra «sacerdozio » letterario e impegno educativo,”
tra valori teorici e significato pratico, vivibile, dell'esperienza culturale, tra significati «universali » e segni datati nell’ieri o nell’oggi. È un percorso anticipatore e solitario che ha lasciato, nella coscienza letteraria degli anni ottanta, un’eredità complessa, e che vale la pena di riesaminare nei suoi momenti salienti. Tutta la prima produzione di Calvino, da Il sentiero dei nidi
di ragno (1947) fino a metà degli anni sessanta, è a prima vista distinguibile in due linee: una che privilegia l'impegno e un’adesione razionale alle problematiche contingenti (I/ sentiero dei nidi di ragno, 1947; Ultimo viene il corvo, 1949; L'entrata in guerra, 1954; La speculazione edilizia, 1957; I racconti, 1958; I giovani del Po, 1957-58; La giornata di uno scrutatore, 1963; Mar-
covaldo, 1963; La nuvola di smog e La formica argentina, 1965) e l’altra antimimetica e fantastica, che rivisita con apparente
sprezzo del presente un passato improbabile, mitico o cavalleresco (Il visconte dimezzato, 1952; Fiabe italiane, 1956; Il baro-
ne rampante, 1957; Il cavaliere inesistente, 1959). A questa superficiale dicotomia fra « pesantezza » e «leggerezza » si potrebbe subito obiettare dicendo che fin dal Sentiero dei nidi di ragno, e poi altrettanto chiaramente in Marcovaldo, Calvino proprio attraverso un narrare ironicamente fiabesco in cui assume il punto di vista del subalterno (sia esso il bambino del Sentiero dei nidi di ragno o l’uomo di fatica Marcovaldo) riesce ad evitare l'impasse retorica del neorealismo, ed a risultare efficace sia
sul fronte dell’impegno che su quello della fabulazione. Più ampiamente, nei romanzi della prima linea c’è un’osservazione circostanziata del reale, e direi proprio l'osservazione di una imprescindibile conflittualità fra il sogno dell’avventura e del riscatto e la squallida realtà della guerra, fra il sogno della ricostruzione postbellica e la sua pratica delusione, mentre nei romanzi della seconda linea questa conflittualità viene deconte104
stualizzata, stilizzata in uno scontro cavalleresco o fantastico
fra voler essere e essere, fra idealismo e praticità, filtrati attra-
verso l'ironia analgesica della grande allegoria o della fiaba (e in / nostri antenati l'ambientazione cavalleresca tematizza perfettamente la vanità eroica del conflitto fra essere e voler essere). In altre parole impegno e fantasia in Calvino vanno sempre di pari passo, ciò che cambia è per cosi dire l’ottica dell’osservatore che può essere estremamente ravvicinata (La giornata di uno scrutatore) o esorcisticamente distanziata (Il visconte dimezzato può essere letto come fiaba ma anche come giocosa al-
legoria della guerra fredda). In un’intervista a Paolo Monelli, parlando delle sue opere degli anni cinquanta, Calvino dice: «Scrivere racconti fantastici trovandomi a essere membro attivo del partito comunista mi è parsa una coraggiosa affermazione di originalità e di indipendenza ».3 Ma è appunto un’indipendenza dalle direttive culturali del partito, che non trasgredisce la direttiva interiore di conciliare impegno e fantasia. In una conferenza del 1955 Calvino afferma: [Cliò che ci interessa sopra ogni altra cosa sono le prove che l’uomo attraversa e il modo in cui egli le supera. Lo stampo delle favole più remote: il bambino abbandonato nel bosco o il cavaliere che deve superare incontri con belve e incantesimi, resta lo schema insostituibile di tutte le storie umane, resta il disegno dei grandi romanzi esemplari in cui una personalità morale si realizza muovendosi in una na-
tura o in una società spietate.*
La fantasia dunque non è che la creatività della ragione, la sua capacità di trovare varianti e possibilità all’interno di una struttura, la sua capacità di trovare il colore in un’avventura umana che è universale nelle sue linee, nel suo insostitui-
bile schema di racconto. È perché gli uomini vivono raccontandosi la propria vita con ragione e fantasia che la letteratura può educarli, « aiutandoli a esser sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti »,° sia che essa parli del presente sia che racconti storie favolose. I problemi per Calvino cominciano con la sua crisi di militante del 1956-57, dopo l’invasione sovietica dell'Ungheria. A partire da La speculazione edilizia, pur non rinunciando all’imperativo di osservare, conoscere e capire, le narrazioni mime-
tiche si fanno sempre più pessimistiche perché il militante Calvino si fa sempre più disilluso e la militanza politica non offre più allo scrittore sufficienti chiavi di lettura della realtà. Inaltre parole, nella linea dell’impegno diretto, la tensione fra ideale e reale si è ormai risolta tutta in disillusione sull'Italia crassa e materialista del miracolo economico. Sull’altro piano invece
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la conflittualità, proprio perché trascesa, risulta ancora praticabile, coerente in quanto militanza che non è più partitica ma interiore. Nella lettera a Spriano che commenta le proprie dimissioni dal PCI Calvino dice: «[N]on sono un socialdemocratico né un olivettiano; e lo sai. È difficile fare il comunista stando da solo. Ma io sono e resto un comunista. Se riuscirò a dimostrarti questo, ti avrò anche dimostrato che // barone ram-
pante non è un libro troppo lontano dalle cose che ci stanno a cuore ».° Durante gli anni sessanta anche questa militanza interiore
diviene difficile e Calvino, sempre più « dalla parte del fantastico », a partire da Le Cosmicomiche (1965) sposta la sua attenzione dal conflitto fra voler essere e essere all’ancor più rarefatta dialettica del conoscere. Alla base dell’antinomia fra tensione ideale e deludente realizzazione pratica sta lo scacco della ragione (e si veda qui un’implicita affinità con Sciascia), incapace di produrre un ordine definitivo ed evidente del mondo e nello stesso tempo impegnata a fornire di continuo approssimazioni, modelli provvisori, tentativi di razionalizzazione. L’ac-
cumularsi di questi tentativi di razionalizzazione del mondo costituisce la tradizione culturale della nostra civiltà, all’interno
della quale nulla è definitivamente vero e giusto ma tutto ha la sua ragion d’essere come prodotto dell’originario destino di una condizione umana condannata a cercare il senso attraverso i segni. La lettura politica del disagio di vivere, del conflitto fra bene e male o fra utopia e realtà, si rivela dunque parziale e limitata di fronte alla più ampia riflessione sulla cultura come sempre rinnovato conflitto fra cosmo e caos. Ciò non toglie che l’intellettuale abbia un ruolo politico, una funzione da svolge-
re nella collettività di cui fa parte; ma la crisi del marxismo, presagita da Calvino quando ancora doveva realizzarsi la sua massima egemonia, gli ha fatto capire come tutti i modelli siano approssimativi, strutture provvisorie che corrispondono alle nostre esigenze d’ordine. Cosi la funzione dell’intellettuale è
svincolata dal servizio di un particolare modello di lettura del mondo, ed è piuttosto quella di tener fede alle modalità universali ordinatrici, argomentanti e non dogmatiche con cui la ra-
gione cerca il senso delle cose. Se Calvino si è sempre sentito autonomo, ed ha attinto a piene mani dalla tradizione letteraria e filosofica come da un grande repertorio fantastico, un serbatoio di miti ognuno col suo aspetto di verità (Il visconte dimezzato, Fiabe italiane, Il ca-
valiere inesistente), d’altra parte il passaggio ad una concezione più generale, o più radicale, di quella che deve essere la funzione dell’intellettuale coincide per lui con la passione per un
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nuovo tema narrativo: la cosmogonia, la creazione di un modello intelligibile del mondo (Le Cosmicomiche). « Vogliamo dalla letteratura un'immagine cosmica [...], cioè al livello dei pia-
ni di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco ».” Sono questi gli anni in cui si divulga la riflessione epistemologica sulle componenti linguistiche e formali della scienza. La nozione di struttura come fonte di rigore e controllabilità è ciò a cui si àncora la scientificità del sapere in epoca di relativismo. Per Calvino letteratura e scienza sono entrambe organizzazioni linguistiche imposte sopra un reale caotico, e la riflessione sulle modalità ordinatrici e idealizzanti della ragione può avvenire (o meglio, deve avvenire) all’interno della letteratura cosi come avviene all’interno del pensiero scientifico. La letteratura ha addirittura un punto di vantaggio sulla scienza: essa può inglobare la scienza e trasformare l’apparentemente irriducibile diversità del suo sapere in mito, può insomma « dimostrare » con i suoi mezzi specifici che le conoscenze scientifiche sono aspetti della sua stessa originaria capacità mito-. poietica. La narrazione è dunque il possibile luogo di tutti i nostri saperi, il medium di ogni nostra riflessione, la forma ultima del saggio. L'obiettivo di Calvino diventa una narrazione che realizzi l’archetipico meccanismo del racconto e insieme manifesti consapevolezza metanarrativa, che quasi abbia di per sé portata critica e saggistica, raccontando anche la propria idea di letteratura. Le Cosmicomiche (1965) e Ti con zero (1967) sono il primo risultato narrativo, la drammatizzazione di questa riflessione su ragione, letteratura e scienza. Costruiti come sviluppo leggendario di ipotesi scientifiche, i racconti cosmogonici di Ofwfq argomentano per il lettore lo strapotere della narrativa e del mito sulla scienza, mostrano come la scienza di oggi possa essere usata in funzione non diversa da quella che aveva il mito per gli antichi: come un modo di rendere familiare il mondo e dargli senso raccontandolo. Le storie di Ofwfq ricostruiscono un mondo intero, remoto e fantastico, che ha-plausibilità e coerenza narrativa perché condivide lo stesso nucleo di validità del nostro pensiero razionale: la logica di un cosmo, un modello ordinato in cui le parole delle nostre leggende o delle nostre teorie acquistano significato, un ordine del descrivere che è sempre implicito nell’ordine del narrare. Il Calvino illuminista umanizza la scienza, la traduce in nar-
rativa, non è che voglia rendere scientifica la narrativa. Qualcosa di simile fa, sia pure con una percezione meno semiologica e più sperimentale della scienza, Primo Levi in I sistema pe107
riodico (Torino, Einaudi, 1975), la sua «autobiografia chimica »8 rivisitata in una serie di racconti che si distendono armoniosamente secondo la griglia della tavola degli elementi. Levi usa gli elementi chimici come Calvino usa le ipotesi di cosmologia in corsivo in Le Cosmicomiche: come punti di partenza, suggestioni tecniche ancora astratte che devono essere inverate e dispiegate dalla narrazione e dall'esperienza di qualcuno che le ha vissute in prima persona, dallo sguardo di un testimone che vi porti senso umano, sia egli il fantastico Ofwfq o il chimico militante Primo Levi. La « chimica solitaria, inerme
e appiedata, a misura d’uomo »? di chi deve inventare e improvvisare ogni giorno con quel poco che ha per sopravvivere è insieme confronto con l’ancestrale ricchezza reale e simbolica della materia (basti pensare al sapere alchemico) e apprendistato esistenziale, parte integrante di uno stile di vita. Per Levi come per Calvino l'introduzione del « corpo estraneo » scienza nell’aulico universo letterario italiano, oltre all’ovvio aggiornamento tematico, ha la funzione di educare al metodo, di rompere la «congiura dei sentimenti » del romanzo medio, proponendo il rigore come nuovo valore che è al tempo stesso estetico ed etico. C'è semmai da dire che, da una stessa matrice moderna e illuministica che vuole l’uomo impegnato a risolvere i problemi e le prove dell’esperienza con lucida responsabilità, Calvino sviluppa una riflessione più speculativa e radicale sulle possibilità e i limiti della ragione, mentre Levi incarna la ragione dell’romo faber nell'immagine popolare e pragmatica del resourceful man alla Defoe. Per Levi la scienza non è quella dei massimi sistemi, dei modelli teorici, ma quella che si traduce ingegnosamente in téchne, in capacità operativa il cui possesso garantisce una proporzionale dignità umana proprio per
come e quanto aiuta a sopravvivere con intelligente adattamento alle condizioni che l’ambiente impone, e mette in grado di scegliere, di essere responsabili di sé. È questo il filo rosso che percorre tutta la narrativa di Levi, dalle memorie dei campi di ster-
minio nazisti all’elogio del lavoro in La chiave a stella (Torino, Einaudi, 1978). Al confronto la fascinazione per le risonanze mitiche della materia inerte e per l'ordine simbolico del sistema periodico resta per lui un episodio marginale. Ciò che attrae Calvino nella scienza (sia essa astronomia, fisica o biologia) è invece proprio la proposta di un paradigma, di una «geometria razionale » già pronta e in bella evidenza, una struttura solida da cui partire per raccontare.!° Il pensiero scientifico di Calvino di per sé non è né originale né profondo, come ha giustamente rilevato il neurobiologo Ruggero Pieran-
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toni,!! ma serve al doppio scopo di dare alla sua creatività la base razionale e l'autonomia della scienza. Le brevi epigrafi scientifiche in corsivo che fanno da postulato a ciascuno dei racconti di Le Cosmicomiche e Ti con zero servono come punto di partenza, ma anche come elemento di riferimento e contrasto; addirittura finiscono per essere messe in discussione o travolte dalle fantasie razionali di Calvino, che pure proprio da esse scaturiscono. Se una volta letto il racconto si torna all’epigrafe che lo ha energizzato, si ha la consapevolezza che quell’epigrafe è stata svuotata dal racconto delle sue possibilità fantastiche, che Calvino ha fatto con essa i migliori giochi possibili; ed una sensazione del genere, più vasta, la si avrà quando si misuri la tematica gnoseologica globale del libro (sia essa la cosmogonia in Le Cosmicomiche o l’astrofisica in Ti con zero) con il macrotesto di Calvino. Dice Calvino in « La luce negli occhi », riprendendo il concetto di paradigma di Thomas Kuhn:" La conoscenza procede sempre attraverso modelli, analogie, immagini simboliche, che fino a un certo punto servono a comprendere, e poi sono messe da parte, per ricorrere ad altri modelli, altre immagini, altri miti. C'è sempre un momento in cui un mito che funziona veramente esplica la sua piena forza conoscitiva.!5
Opere come Le Cosmicomiche e Ti con zero sono modelli narrativi che scaturiscono da ragionamenti deduttivi, ipotesi scientifiche, e di tali ipotesi ricalcano il destino: i racconti sono sollecitati dalle potenzialità razionali e al contempo fantastiche che il discorso scientifico offre agli occhi di Calvino; si alimentano di quelle potenzialità, le esauriscono, e a loro volta si esauriscono quando sopravviene un altro spunto modellizzante che stuzzica la lucida fantasia dello scrittore. La varietà fa risaltare la tecnica, l'intenzione compositiva; e la consapevolezza tecnica, con il suo orizzonte di gioco di finzioni, si traduce in suggestione metanarrativa. Ciò del resto accade anche più esplicitamente quando Calvino abbandona l’astrofisica di Ti con zero per la logica combinatoria dei tarocchi di // castello dei destini incrociati, le cui storie si intersecano con una svagatez-
za lunare di sapore ariostesco e con il rigore simmetrico di un cristallo. Somma di questo filone produttivo è l'esperimento o meglio il gioco metanarrativo di Se una notte d'inverno un viaggiatore (1979), con «l’autore» a colloquio con i lettori dentro e fuori un romanzo composto da una serie di romanzi interrotti e da un ininterrotto ragionare sull’atto della lettura. Ancora
variazioni di stili, di generi e di tecniche, frammenti inconclusi come inconcluso e frustrante è il tentativo di scrivere, all’in-
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terno dei percorsi tradizionali, all'altezza di un’idea di letteratura capace di esprimere l’autoconsapevolezza « terminale » del nostro tempo.
E, nonostante
tutto, ancora
una storia, con tutti
i dovuti colpi di scena, i buoni e gli antagonisti, e le nozze finali della fiaba: la storia avventurosa della passione per i libri, del piacere di leggere, del bisogno di storie come unico e inesauribile fondamento della sopravvivenza della letteratura. E ancora una volta un gioco di incastri, un piccolo labirinto risolto, un principio logico a reggere il meccanismo delle variazioni e a fare di una serie apparentemente casuale una struttura, un segno significante. Queste creazioni geometriche, questo amore per la simmetria, il labirinto, le ferree regole della sfida intellettuale, sono
però pur sempre creazioni di fuga, rimozione della lacerazione essere-voler essere nell’empireo di una cultura irenistica e globale, che proprio perché dilatata fino ai massimi sistemi del sapere perde le sue particolari connotazioni storiche e conflittuali e si offre come puro gioco fantastico e intellettuale di ricostruzione delle radici della conoscenza e del raccontare. È la saggistica di Calvino che scopre le carte, che al solito ci fa comprendere meglio: in «I francobolli degli stati d'animo » Calvino registra con soddisfazione, come in altri saggi di Collezione di sabbia,!* il tentativo di trovare un modello per il reale che però sia il risultato di un atto di indipendenza catalogatrice-creatrice del soggetto collezionista. I francobolli fatti da Donald Evans, rappresentazione filatelica di un sereno e armonioso mondo immaginario, affascinano Calvino perché esprimono il desiderio — ridotto a proporzioni autoironicamente minimaliste — di controllare un reale sempre più sfuggente e minaccioso. L'ordinata filatelia fantastica di Evans è una piccola diga contro la catastrofe (« Viviamo in un’epoca in cui non si salva più niente né nessuno »).!5 Alla luce di una simile interpretazione di ripiegamento catalogatorio-esorcizzante si comprende meglio la fascinazione per i meccanismi delle fiabe, per l’araldica, per le classificazioni naturalistiche, e si capiscono meglio non solo il conclusivo Palomar, ma anche JI! castello dei destini incrociati, La taverna dei destini incrociati, Le città in-
visibili, in cui la nostalgia per un mondo metafisicamente perfetto, combinatorio, comprensibile, viene celata dietro la comi-
cità e l’'imprevedibilità delle varianti; in cui la paura del reale viene trascesa dalla rassicurante felicità di una geometria controllabile e privata, eletta a ordinamento di un microcosmo plausibile (il castello, la taverna, la città). Come nei racconti di più chiara valenza saggistica, anche nei saggi di Collezione di sabbia!° l'ansia dominante (nei saggi chiaramente esposta, nei 110
racconti abilmente occultata nella giocosità della creazione fantastica) è sempre quella di trovare un sistema ordinatorio proponibile (la sabbia, la mappa, la fotografia, la grafica, lo spazio, la luce e l’idea della luce), un tassello da cui iniziare una
faticosa ricostruzione-delucidazione del reale disintegrato dei nostri giorni. Soprattutto i saggi sul Giappone (155-190) mettono in rilievo una tensione fuga-controllo (cfr. 169), intercambiabilità-permanenza (cfr. 172), e un’ansia continua di trovare il modello su cui rifondare e controllare la propria esperienza del mondo che saranno poi tipici di Palomar,!” summa di tutta una narrativa all'insegna della ricerca del modello, che contiene fra
l’altro un’ironica meditazione intitolata «Il modello dei modelli “a
Palomar comprende che è impossibile modellizzare il
reale: Se le cose stanno cosi, il modello dei modelli vagheggiato da Palomar dovrà servire a ottenere dei modelli trasparenti, diafani, sottili come ragnatele; magari addirittura a dissolvere i modelli, anzi a dis-
solversi.
A questo punto a Palomar non restava che cancellare dalla sua mente i modelli e i modelli di modelli (113).
Mentre nei saggi Calvino finisce col trovare un punto di con- tatto, una conciliazione e una sintesi fra due termini opposti di uno stesso fenomeno, talvolta anche un po’ forzatamente (« mi viene da pensarlo più per amore della simmetria nei ragionamenti che perché ne sia veramente convinto »),!* questa passione per la sintesi sembra frustrata in Palomar.!? In questo senso, per quanto in Collezione di sabbia Calvino non faccia mistero del suo pessimismo,?° mi pare che questa visione negativa si stemperi in fondo e nell’essere verbalizzata quasi esorcisticamente e nei vari tentativi di trovare un simbolo che sia al contempo di sintèsi e di fuga. Quello di Collezione di sabbia è un Calvino inedito che sfiora retorica e misticismo, voluttà di annichilazione cosmica e cosi
cosmicamente giustificata e finalizzata. Si rileva, soprattutto nella quarta parte (« La forma del tempo»), in progressione dalla sezione sul Giappone a quella finale sull’Iran, un’alta frequenza di verbi che implicano ricerca, tensione, approssimazione: «cominciare a capire » (166), « credere di capire » (208), « essere sul punto di capire » (215), come se questa verità ineffabile la si potesse solo intuire, intravedere guizzare e « parlare », senza poterla fermare o comprendere del tutto, come le lingue di un fuoco (si veda appunto «Le fiamme in fiamme »).?! Dall’armonia natura-uomo del Giappone all’armonia-disarmonia del Mesdi
sico, alla distruzione cosmica che intuisce in Iran, Calvino com-
pie in « La forma del tempo » un viaggio dal paradiso all’inferno; è però l’inferno-universo, con le sue fiamme entropiche e
pur sempre mistiche, ad assolvere per lo scrittore laico la funzione di paradiso, un paradiso dove il fine e il nulla coincidono:
La cosa che mi sembra d'essere sul punto di capire è questa: dolersi che la freccia del tempo corra verso il nulla non ha senso, perché per tutto ciò che c'è nell'universo e che vorremmo salvare, il fatto d'esserci vuol dire proprio questo bruciare e nient'altro; non c’è altro modo d’essere che quello della fiamma (215).
Mai come qui Calvino si era tanto avvicinato alla comprensione e alla dizione poetica. E nel conclusivo «Le sculture dei nomadi» anche l’ultima conciliazione fra voler essere e essere, fra «vivere in funzione del segno indelebile da marcare, trasfor-
mandosi nella propria figura incisa sulla pagina di pietra» e «vivere identificandosi col ciclo delle stagioni, con la crescita delle erbe e dei cespugli » (220) è essenzialmente poetica. In entrambi i casi « è la morte che si vuole sfuggire [...] è l’immutabilità che si vuole raggiungere » (220): la morte non esiste per il segno lasciato sulla pietra, né esiste per la specie. Fra questi due estremi la mediazione è offerta dai tappeti: Solo un pensiero mi fa sentire a mio agio: i tappeti. È nella tessitura dei tappeti che i nomadi depositano la loro sapienza: oggetti variegati e leggeri che si stendono sul nudo suolo dovunque ci si ferma a passare la notte e si arrotolano al mattino per portarli via con sé insieme a tutti i propri averi sulla gobba dei cammelli (220).
Il tappeto è il punto d’incontro fra il lasciare il segno e l’essere natura, fra consapevolezza e inconsapevolezza della sto-
ria, fra staticità e movimento; è il segno culturale e il bagaglio leggero di un popolo quasi naturale; suggerisce sapienza e spontaneità, riposo momentaneo e viaggio continuo. Il tappeto evoca una conoscenza fiabesca del mondo, ci ricorda che la trama
di saperi che frapponiamo fra noi e le cose è fondamentalmente una produzione fantastica, una tessitura di racconti. In questo senso il tappeto è simile alla cultura con cui ci raccontiamo la realtà; come conciliazione fra voler essere ed essere è un altro modo di raccontare il mondo per renderselo accettabile. Collezione di sabbia è per Calvino un altro tentativo di misurarsi col ruolo della cultura nella civiltà degli uomini. Il desiderio di conoscere è la ferita originaria, la prova del distacco dell’uomo dalla natura. L'uomo occidentale, sembra dire Cal-
vino, differisce dall'uomo spontaneo (l'ideale del nomade) in 112
434 di
quanto vede la natura come paradiso perduto e la cultura come un'armonia possibile che è insieme il suo faticoso compito e la sua avventura. Solo attraverso il conoscere-desiderio di armonia l'uomo può tentare di costruire una sua armonia sempre in fieri, sempre da rimettere in discussione.
Tener fede a questo compito è la forza di Calvino, il suo rigore razionale; d’altra parte la ragione è una fede senza certezze, che si evolve sempre in qualcos'altro, abbisogna di sempre nuovi modelli e verifiche, si nutre di scrupoli puntuali e tor-
mentosi. Calvino rimane un grande scrittore laico in cerca di verità: sa di non poterle trovare, ma non rinuncia per questo
a cercarle. La narrazione saggistica è per lui la conclusiva forma letteraria di questa ricerca. Non è un caso che la grande tradizione letteraria del saggio, da Montaigne a Kierkegaard, si sviluppi intorno allo stesso nucleo di scetticismo.?? Già da Collezione di sabbia a Palomar la scrittura di questa incertezza, benché simile, è mutata: mentre in Collezione di sabbia si tro-
vava una momentanea conciliazione finale nel sereno simbolo del tappeto, in Palomar la conclusione è più disperata e metafisica. Infatti, se l’unica certezza è la ricerca della certezza, se — come abbiamo imparato in Collezione di sabbia — «[i]l tempo è come il fuoco [e] il solo suo fine [è] consumare ogni cosa e consumarsi » (215), Palomar a sua volta comprende che arriverà il momento «in cui sarà il tempo a logorarsi e ad estin-
guersi in un cielo vuoto, quando l’ultimo supporto materiale della memoria del vivere si sarà degradato in una vampa di calore». E «[s]e il tempo deve finire », pensa Palomar, «lo si può descrivere, istante per istante, [...] e ogni istante, a descriverlo,
si dilata tanto che non se ne vede più la fine ». Cosi «[d]ecide
che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto » (128). C'è qui un progetto di scrittura come forma di eternità in cui il fantastico gioco di Shahrazàd viene portato alle estreme conseguenze. Ma nessuna forma di eternità è accessibile nell’universo, e la scrittura non salva dalla annichilazione. Poter pensare il tempo che passa, anche oltre la propria morte e fino alla fine dell’universo, non è che una conciliazione simbolica della
tragicità del tempo, letteralmente un passa-tempo senza efficacia reale. Imparare ad essere morto è dunque la stessa cosa | che imparare ad essere vivo, imparare ad accettare il tempo che passa e consuma senz'altro riscatto che la possibilità di essere pensato e raccontato, provvisoriamente e perché non sappia-
mo fare altro, perché non possiamo farne a meno. Raccontare la vita è almeno l’attività idealmente illimitata che allontana
l’ansia della morte, perché è ciò che la vita deve essere, è ciò
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che è naturale fare. Quando Palomar giunge a questa strenua soluzione, ironicamente non può che fulmineamente morire («In quel momento muore » [128]), a riprova di come la scrittura, che sottrae simbolicamente la vita all'ordine e alle ansie del tempo, non possa sostituirsi alla vita. Eppure Calvino ci dice che l'estrema possibilità della ragione è morire scrivendo, momen-
to in cui scrittura della vita e vita si incontrano e si fondono nel nulla, pervengono insieme al filo dell'orizzonte, alla dissol-
venza ad infinitum, come ultima paradossale sintesi.
Secondo un'ottica più circoscritta rispetto alla ricerca letteraria a tutto campo di Calvino, il romanzo italiano prova comunque ad essere all'altezza dei tempi mettendosi in sintonia con i nuovi saperi e le nuove problematiche che scaturiscono da momenti culturali e sociali di grande fermento. Cosi Giorgio Saviane (n. 1916 a Castelfranco Veneto) negli anni settanta ha tentato di uscire dai limiti del narrare tradizionale attraverso due romanzi che coniugavano abilmente le nuove acquisizioni del saggismo antropologico, psicoanalitico e sociologico allora
imperanti con le conclusioni rassicuranti del prodotto medio. In Il mare verticale (Milano, Rusconi, 1973) il narratore osses-
sionato dal rumore prodotto da un martello pneumatico nei pressi della sua abitazione « sprofonda in una rappresentazione fantastica, uscendo dalla propria individualità e regredendo nel passato fino ad identificarsi con l’uomo preistorico».?4 Partendo dalle nuove cognizioni dell’antropologia culturale Saviane ricrea la nascita dell’uomo, dal branco al raggiungimento della stazione eretta, al controllo del fuoco, fino alla civiltà egizia, e ricostruisce cosi gli eventi mitici di una cosmolo-
gia antropocentrica. L'operazione è la versione « seria » di quello che in termini giocosi aveva già fatto Calvino con Le Cosmico-
miche (1965) e Ti con zero (1967) basandosi non sull’antropologia ma sull’astrofisica e sulla biologia; dalla stessa suggestione evocativa dell’alba dell'umanità partiva lo spettacolare e fantascientifico 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick. Mentre il Ofwfq di Calvino racconta con limpida ironia le sue infinite reincarnazioni, l'io molteplice ma monocorde di Savia-
ne coinvolge il lettore con uno stile alto e franto, una sorta di prosa d’arte allucinata che, proprio perché priva di distacco,?5 ha una singolare forza retorico-evocativa. I problemi iniziano nel terzo capitolo, quando Saviane vuole confrontarsi col più malioso t6pos letterario dell’ultimo quarto di secolo, assurto ormai a epitome dell’arte e della consapevolezza narrativa. Ecco cosf «La notte di Shahrazàd », dove il saggismo di Saviane viene privato di ogni magica rievocazione preistorica e rimane solo 114
:
la retorica fra il sentenzioso e il mistico di una Shahrazàd che a colloquio col suo sovrano si crogiola in una densa e vaticinante rivisitazione dei mali del genere umano, passati presenti e futuri, tutta all'insegna dell’eccesso oratorio. Anche qui non si può fare a meno di rilevare un’affinità per difetto con Calvino, e precisamente con quello di Le città invisibili (1972), dove l'interazione Shahrazàd-sultano era stata traslata efficacemente in quella Marco Polo-Gran Kan, e la sobrietà della struttura calviniana controllava sfrenatezze rapsodiche e predicatorie, pur dando adito a qualche riserva per una cadenza aforistica di stampo talvolta facilmente kafkiano. L'ultimo capitolo di // mare verticale, « Le mani quadrate », riporta la narrazione al presente: l’io narrante Marco, che vaga riconciliato con se stesso
nella notte per il quieto centro della sua città, diviene improvvisamente testimone di un guignolesco incidente motociclistico (che dovrebbe, nelle intenzioni, fungere da sutura simbolica fra i due piani della narrazione), in cui il manubrio di una moto
colpisce una ragazza « al ventre [e] la passa da parte a parte» (190). Tornato a casa, il turbamento di Marco si eleva a melodramma in un lugubre incubo e si stempera infine nel catartico abbraccio della partecipe consorte. Il «viaggio » non porta a Marco nessuna crescita e si conclude nell'alveo consolatorio del rapporto a due; cosi, dopo il grandioso affresco della nascita dell’uomo, ritornano i ritmi rassicuranti del romanzo medio: La fronte di Anna ebbe un moto, quasi una concentrazione. Dalla pelle delle sue mani tese sul lenzuolo veniva sicurezza. « Hai le mani quadrate », disse lui affettuosamente. Gliene prese una, gliela baciò. Anna avrebbe voluto piangere. Poi pensò che non doveva. Sarebbe stato bello però, ma per lei. Lui ora aveva bisogno di aiuto (199).
Il gioco è ancora più scoperto in Eutanasia di un amore (Milano, Rizzoli, 1976), in cui Saviane traspone in un accattivante
intreccio sentimentale quella serie di cognizioni antropologiche e psicoanalitiche che potevano essersi rivelate ardue per l'acquirente del Mare verticale, e le tematizza attraverso personaggi familiari al lettore di romanzi. Questi personaggi nelle intenzioni di Saviane dovrebbero dar voce alla « nuova sensibilità» di una società che nei primi anni settanta si percepisce in fase di grande rinnovamento, ma in fondo essi rispettano ancora, nella storia di crisi amorose ed esistenziali, abbandoni e ritrovata serenità, le movenze di una narrazione ben nota. Più estesamente, in Eutanasia di un amore un professore universitario incorre in lancinanti nevrosi e precoce invecchiamento psi-
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cosomatico dopo essere stato abbandonato dalla bella e giovane amante, che incarna per lui il principio femminile della madre. Ma dopo alterne vicende, nell’incanto di una marina estate-mediterranea, egli infine riesce ad accettare la morte di que-
sto amore con la serena certezza che con esso muore anche l'egoismo del possesso, e nasce invece una nuova vita dei sentimenti. Precursore in chiave narrativa di una divulgazione alla Alberoni, nell’autoprefazione in risvolto di copertina Saviane impartisce all'acquirente una gnomica chiave di lettura del romanzo, bilanciata fra marxismo, psicoanalisi e drammatizzazione narrativa di problemi di attualità (in questo caso l’aborto). Eutanasia di un amore è la traduzione benpensante in forma di romanzo medio del grande boom saggistico di sinistra seguito al '68; una proposta di doveroso aggiornamento culturale nel campo alla moda delle scienze umane che Saviane rende attraente grazie alla storia d’amore e ad un calibrato passo narrativo moderatamente anticonformista (alternanze di io narranti, mescolanza di prima e terza persona). Narratori delle pianure (Milano, Feltrinelli, 1985), pubblicato dopo sette anni di silenzio, è libro diversissimo da Luna-
rio del paradiso e da tutti gli altri di Celati. Ha detto acutamente Guido Almansi: Gianni Celati sembrava uno scrittore naturalmente grasso che amava la scrittura espansiva, chiassosa, comica, funambolesca, aggressiva, massimalista, carnale, violenta, sgrammaticata, ribalda; ma den-
tro di lui c'è sempre stato le lande del minimalismo, della letteratura povera e goscia dell'universo in
scrittura.?”
uno scrittore magro che lo spingeva verso là dove Beckett elabora una sua versione il Kafka delle parabole brevi condensa l’anformulazioni minimali di secchissima
In effetti l’unica cosa che Narratori delle pianure sembra avere in comune con la produzione « comica » precedente è il punto di vista dal basso, una condizione subalterna in cui crea-
ture marginali, incolte, offese e inermi si muovono con spiazzante naturalezza. È un libro di racconti dimessi e scarni, fatto
di understatement e di paesaggi padani piatti e nebbiosi; la Padania vi appare in veste di carta geografica (un percorso da Gallarate al delta del Po, una storia per località) in una doppia pagina antecedente il testo. La mappa quindi, come nel classico romanzo poliziesco, come se Celati ci volesse offrire lo spacca-
to di un «luogo del delitto » che ormai non può essere altro che il luogo banale e piatto (ed ecologicamente assassinato) di un qualunque vivere quotidiano. Ma la mappa vuol essere soprat116
tutto il tracciato di un itinerario-pellegrinaggio in cerca di storie, la cornice che definisce la voce e orienta la lettura: Narratori delle pianure si presenta come una paziente trascrizione in scarno parlato-scritto di storie che si immaginano sentite viaggiando da un capo all’altro della Padania. In quest’ultimo dato si può scorgere una precisa presa di posizione contro le storie visive, fatte per il cinema, o già costruite come videoclip, tipiche dei nostri anni; Celati si rifà piuttosto ad un raccontare orale, oggi in via d'estinzione, dove protagonista è appunto una voce narrante che presuppone ascoltatori attenti e attivi, non gli occhi pigri degli odierni consumatori di immagini. In questa volontà di raccogliere e di ricreare il raccontare parlato si può intravedere un trait d’union con il linguaggio antiletterario di Guizzardi, di Garibaldi e di Giovanni. Il loro però era un parlato idiosincratico, individuale, mentre qui i racconti hanno la secchezza del verbale e del referto; la voce è dimessa e
sempre uguale, goffa e ostinatamente inespressiva, quasi la voce collettiva della grande pianura monotona, su cui l’industrializzazione ha replicato la sua sgraziata e anonima omogeneità. Per i narratori della pianura tutti i racconti sono bene comune; essi
circolano e arrivano come ridotti a pura essenza nelle mani ultime di chi li scrive. i Idea poetica portante del libro è il bisogno primordiale di raccontare provato dagli uomini, un bisogno-piacere che ha a che fare col non essere soli; per questo la storia più degna di essere raccontata è quella di altri uomini: scambiandoci storie di altri ci si educa alla vita, a comprendere la sua limpida casualità. La storia raccontata mette il solitario protagonista nel paradiso della comunità, dell'esperienza comune a tutti. Cosi il narratore che ha raccolto le storie di prima o anche di seconda mano, scrivendole (come i grandi scrittori di storie, da Boc-
caccio al Calvino di Fiabe italiane) mette in comune il patrimonio delle storie della civiltà postindustriale di provincia: quello che rimane da raccontare quando si è perso il mondo che aveva ancora fiabe da raccontare. Si capisce cosî che in realtà le fiabe non muoiono mai, semplicemente cambiano, perché na-
scono dal mito, e il mito è etimologicamente « discorso pubblico », voglia di raccontare e di comunicare. Prendiamo il racconto forse più denso e significativo: « Storia di un apprendistato », la storia di un uomo che apprende la necessità della cerimonia per controllare l'angoscia del vivere. Un giovane italiano, che a Los Angeles aspetta un lavoro e piange tutti i giorni alle cinque del pomeriggio, nel piccolo paese del Kansas di 220 abitanti dove si rifugia viene esibito come una celebrità dalla coppia di vecchietti (Bill e Edith) che lo ospitano. In quello scheletro 117
minimale di società che è il villaggio, comunità primaria nel paese più avanzato del mondo, il giovane reimpara le regole cerimoniali su cui si fonda il vivere sociale: ridere ad una battuta già sentita, ripetere ancora una volta la stessa frase che piace. Ma, misteriosamente, dietro la cerimonia c’è la solidarietà per
gli altri e degli altri, e la progressiva acquisizione del controllo di sé. In altre parole il soggetto deve rappresentarsi per poter essere riconosciuto come soggetto, e si rappresenta attraverso un rituale (una formula) di parole che sono lo strumento fon-
damentale del condividere. Questa è insomma la storia di una riconquista dell'io attraverso la fiducia che viene dall’approvazione e solidarietà pubblica per avere assolto «come si deve » (36) i rituali della cerimonia. Non è un caso che all’inizio rimanga ambiguo che relazione abbia, nel gioco della finzione narrativa, il narratore-protagonista di questa storia con il raccoglitore-scrittore Celati. La storia è raccontata ripetitivamente e «cerimoniosamente » e, solo alla fine, quando la cerimonia del narrare è conclusa, si svela che in questo caso il raccoglitore
di storie è anche il protagonista: Alcuni mesi dopo, a Piacenza, ha finalmente accettato la sua si-
tuazione e non gli è più successo di piangere; ha anche accettato di non poter essere celebre come lo era stato nel Kansas, pur senza dimenticare i cerimoniali appresi laggiù. Cosi, essendo tutto ormai lontano, gli è anche riuscito di scrivere la storia del suo apprendistato con Bill e Edith, cioè questa (37) .
Quindi infine la cerimonia particolare attraverso cui il protagonista ha deciso di dare contenuto al suo io è stata lo scrivere; cosi « Storia di un apprendistato » è la storia dell’apprendistato di uno scrittore, ma uno scrittore che non crede e non vuo-
le che la letteratura sia una cerimonia eccezionale o superiore alle altre.?3 Coerentemente con questa idea, i racconti sono « magri »,
privi di ogni digressivo abbellimento (la Padania e il delta del Po di Celati sono ben diversi da quelli di Bevilacqua), e ricordano semmai, nello stile scarno come nella desolazione degli -
scenari, la lezione degli americani Raymond Carver e Grace Paley. Il lettore dirà che Narratori delle pianure non è un bel libro da leggere; ma queste storie volutamente « brutte » e dimesse, dove il grottesco, il surreale, il crudele, l’assurdo, il lirico
passano tutti attraverso il filtro normalizzatore di un’intonazione ordinaria e senza stupore, mi sembrano fra le cose più intelligenti di questi ultimi anni: provocano il lettore con la loro lucida ottusità che non consola ma irrita e fa pensare e, come
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vedremo (cfr. III.2.), sono in piena sintonia con l'aspirazione ad un narrare incisivo e minimale di molti giovani autori.
Con Quattro novelle sulle apparenze (Milano, Feltrinelli, 1987) Gianni Celati chiarisce ulteriormente, in verità con esiti
un po' ripetitivi, lo spessore intellettuale del suo nuovo « raccontare magro » e rende un implicito omaggio al Calvino di Se una notte d'inverno un viaggiatore e di Palomar. Come suggerisce il titolo, i personaggi di queste quattro novelle filosofiche arrivano a rendersi conto che il mondo è fatto di apparenze: di convenevoli, di luci luminose e sfasate, di fingere di sapere o di fingere di vivere e, a poco a poco, si trovano a guardare la vita dal di fuori — con indifferenza o spirito scientifico, con trepidazione o sorpresa. In «Baratto » l’omonimo protagonista rimane improvvisamente senza pensieri e di conseguenza senza parole. Guarda con una fratellanza nuova raggi di luce ed ombre, spigoli di case e cose animate, ed è sereno e indifferente alle richieste di at-_ tenzione dei suoi simili, alleggerito dal peso di un comunicare quotidiano banale e meccanico con moglie, amici, colleghi e superiori. Baratto ammutolisce e difende il suo silenzio con l’ostinatezza di un Bartleby, e — perfetto uomo dei nostri giorni — non ha nessun tormentoso segreto da nascondere, benché nel
suo silenzio ci sia chi legge disponibilità o fascino misterioso. E quando infine, dopo molti mesi, parla di nuovo lo fa durante una seduta spiritica, al posto del medium, come a dire che noi non parliamo ma « siamo parlati », cioè parliamo sempre pensieri e parole di altri, siamo semplici portavoce di un’ovvietà mediatrice al cui interno ci muoviamo. In «Condizioni di luce sulla via Emilia », come già era ac-
caduto in Narratori delle pianure («Il ritorno del viaggiatore », « Giovani umani in fuga »), si descrive con distacco l’odierno degrado della Padania. Nella pianura non ci sono venti e le nuvole e l'inquinamento formano una cappa attraverso cui i raggi
del sole stentano a passare, creando una luce cangiante e brumosa che offusca i colori e i contorni e dà l'impressione di un perpetuo tremolante moto delle cose, un atmosferico commento al correre indaffarato della gente della via Emilia e del mondo che lavora e non si accorge di niente. Solo il « dipintore d’insegne » Emanuele Menini si rende conto di questo fenomeno dell'apparenza e vaga alla ricerca di qualcosa illuminato da una luce nitida, immobile, tranquillizzante, che non comunichi la
follia di una vita vissuta di corsa. È chiaro come questo racconto-apologo riprenda quell’osservazione della natura tipica del
Calvino di Palomar (« Lettura di un’onda », « La spada di luce »),
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ma Palomar si ostina a cercare con sofisticata retorica paradigmi e possibili conciliazioni teoriche, mentre il semplice pittore artigiano Menini usa le parole della vita di tutti i giorni per spiegare quello che vede — addirittura ha bisogno che lo scrittore (Celati) quelle parole le metta per iscritto per lui. Eppure le conclusioni sono simili: Menini, come Palomar, cerca
di fissare la vita in movimento, la vorrebbe immobile come la morte per poterla osservare meglio; ma alla fine, come Palomar, è lui a morire e proprio quando ha trovato, in una rigida giornata d’inverno, la luce giusta: è una luce ferma e limpida, che non a caso ricorda quella dei «viali dei cimiteri » (60). L'eco del Calvino di Se una notte d'inverno un viaggiatore è riscontrabile in «I lettori di libri sono sempre più falsi », no-
vella sui lettori e sull’atto del leggere in cui lettore e lettrice percorrono itinerari opposti: lei, all’inizio divoratrice di rotocalchi, viene a poco a poco convertita alla «trepidazione » (81) della lettura di libri, presi cosi seriamente da portarla a soffrirne e infine a rifiutarli; lui, lettore e studente di letteratura
che «ha cercato a lungo di comprendere cosa vogliano dire i libri » (63), si muta infine in un abietto critico-scrittore che cerca di mettersi in luce frequentando il giro dei convegni e scrivendo rodomontiche stroncature. Ad approfondire la dimensione metanarrativa ci pensa il critico-ex lettore, che scrive un romanzo sui lettori di libri, «un romanzo allegorico » nel quale, come in Se una notte, ci sono organizzazioni che sostengono di saper « distinguere i libri buoni da quelli cattivi » (92). C'è qui nei confronti dell’industria culturale una certa malizia che oltre a Se una notte fa venire in mente L'oro del mondo di Vassalli, e partecipa a questa nuova tendenza che fa del mondo dell'editoria l’oggetto del libro stesso, coniugando il gusto recente per lo smascheramento dei segreti meccanismi del potere culturale con la dimensione metanarrativa. Anche qui, come in Se una notte, il lettore e la lettrice si sposano dopo che il loro Ermes Marana, un ingegnere venditore di enciclopedie, arcinemico dei libri e innamorato della lettrice, è definitivamente scomparso. Mentre il romanzo di Calvino termina circolarmente con il lettore che finisce di leggere appunto Se una notte, la no- vella di Celati si chiude con un contrito twist che identifica l’ex lettore diventato critico con il narratore stesso, ora alle prese
con l’apocalittica frase di un’intervista con «un vecchio scrittore che scrive libri oscuri e di poco successo ». Questa frase è la nichilistica e al tempo stesso fiduciosa risposta a quella domanda su cosa vogliano dire i libri che il giovane lettore si poneva all’inizio della novella. Nell'ultimo racconto, « Scomparsa di un uomo lodevole », 120
un tranquillo borghese, dirigente di una ditta che vende contenitori per alimenti liquidi, una domenica ha una rivelazione. Da quel giorno si osserva vivere e si sente perduto, controfigura di se stesso in un mondo di controfigure dell’esistenza che sì muovono secondo un copione previsto ma insondabile (118)
e «vagano e lavorano, vagano e acquistano, vagano e dormono [...] ma non aspettano niente, e soprattutto non ci pensano neanche per sogno d’essere perduti » (120). Vedere l'apparenza è comprendere la propria non appartenenza, cosi la voce sarcastica e paradossale del benpensante e farisaico io narrante francese (che ricorda il protagonista di La Chàte di Camus) si sfoga nella stesura del memoriale che leggiamo, e aspetta il giorno in cui la sua crescente estraneità da se stesso lo avrà trasformato del tutto in un altro per abbandonare la sua opaca routine e fuggire. Il lettore dirà che in queste quattro novelle a vincere sono le apparenze più che il risveglio da esse annunciato in quarta di copertina: Baratto si rimette a parlare parole di altri, Menini muore, lo studente idealista si trasforma in tristo critico, l'’«uomo lodevole » si sente perduto nella vita inautentica ma
intanto pensa che la sua salvezza può consistere solo nel sentirsi simile agli altri, nell'accettare di far parte delle apparenze... e allora? Allora forse Celati ci dice che questa vita per brutta che sia è l’unica che abbiamo e che dietro le apparenze non c'è nulla (cfr. 102), o almeno nessun solido territorio dell’essere a cui noi possiamo approdare. Come sa il signor Palomar, «[s]olo dopo aver conosciuto la superficie delle cose [...] ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile » (57). Se la verità profonda di questo mondo è il nulla, l'alternativa, alla Céline, è fra mentire e morire.
La vita migliore sembra quella di chi vive come l’acqua, la polvere, le mucche, nell’accettazione « naturale » della messinsce-
na, continuando ad andare senza svegliarsi, continuando a praticare le usate strategie dell'apparenza perché la « grande nullità» (102) abbia l'impressione di esistere. Qual è allora la condizione di chi sa, e soprattutto qual è la condizione di chi scrive il nulla di cui sa? Se da un lato svegliare i propri compagni di apparenza sembra un’operazione vana (riaddormentarsi è fisiologico, né la veglia è più vera del sonno) e tutto sommato inautentica (scrivere è comunque un modo per evitare che si presenti il muto apparire delle cose e « allontanare l’imbarazzo che il suo pensiero procura » [88]), ci sono almeno due buoni ‘motivi per avvolgersi nel paradosso delle novelle sulle apparenze: il paradosso è un gioco, ci sottrae certezze e punti fermi, ci rende perplessi e forse proprio per questo ci libera dal peso di
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prendere troppo sul serio i nostri pensieri. D'altra parte ci permette ancora una volta (come in Palomar) di affermare, per gioco, la dignità e la consapevolezza della scrittura che celebra l’insostanziale, che accetta di non avere altro senso che consuma-
re il tempo. Ai filosofi e al loro discorso si perdona male la contraddizione e la maschera: Celati pensa di poter raccontare con meno imbarazzo di quanto se ne ha a teorizzare ciò che crediamo di capire quando spingiamo il nostro pensiero e il nostro linguaggio al limite della riflessione su di sé. Che « di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare » è la lapidaria e ormai famosa parafrasi wittgensteiniana con cui, nel risvolto di copertina del Nome
della rosa, Eco annun-
cia l’inizio della sua carriera di narratore dopo decenni di lavoro teorico come semiologo, medievalista, studioso di esteti-
ca. Se dunque il discorso letterario eccede con la sua costitutiva ambiguità e ricchezza di senso i limiti di ogni teoria, proprio per questo esso può produrre al suo interno immagini che articolino la complessità del reale (inclusa la realtà della letteratura o del significare) meglio di quanto le rigorose astrazioni dei modelli teorici sappiano fare; l’universo letterario diviene una sorta di spazio topologico, il luogo in cui tutti i testi possono riflettersi e una cultura riconoscersi; la letteratura — e la narrativa in particolare — è una regione semantica per sua na-
tura mista, impura, aspecifica e totale. Non è possibile chiudere questo capitolo, apertosi con l’auspicio calviniano di una letteratura capace di offrire «un'immagine cosmica », senza parlare di nuovo, sia pur brevemente, dei due romanzi di Eco e
dell'immagine cosmica di letteratura che essi mettono in gioco. Il confronto con Calvino è cogente. Per entrambi gli autori l'avventura è il cuore del narrare, e l'avventura intellettuale è
l'avventura per eccellenza; entrambi aspirano a far rivivere in forma narrativa e ludica il mito dell’opera globale, del libro che
contiene tutti i libri, della perfezione della sapienza e del senso. Affascinati dal potere disvelante/occultante della parola e dalla vertigine che corrisponde al « livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco », sia Calvino che
Eco finiscono per allestire il Trauerspiel, o la teologia al negativo, di una ragione umana che sa pensarsi solo dal punto di vista di Dio ma ne è per sempre esclusa. L'immagine della totalità cosmica non può che essere l’immagine della labirintica totalità culturale, la totalità dei discorsi con cui si interpretano senza fine il mondo e il tempo; ma lo stile compositivo con cui Eco fa dei suoi romanzi (I! pendolo di Foucault in modo molto
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più accentuato del Nome della rosa) una summa conoscitiva e un'immagine della totalità è assai diverso dalla geometrica chiarezza e dal passo leggero della scrittura calviniana: mentre Calvino segue il filo conduttore di una pluralità fatta di varianti, opposizioni, simmetrie, componenti essenziali e sistemi chiusi — l’idea insomma del modello matematico, il cui fallimento esi-
bisce la sconfitta dell’ossessione moderna di padroneggiare un universo senza limiti cogliendone l’armonica legge di infinita ripetizione — Eco predilige realizzare nei suoi testi narrativi la molteplicità « disordinata » e aperta dell’enciclopedia, l’accumulazione di saperi disparati come nei « tesori » medievali, il gusto barocco di incistare nell’intreccio capsule d’informazione; ogni livello testuale (e paratestuale: introduzioni, risvol-
ti, interviste) è occasione per quello che Eco chiama un citare «non innocente »,°° erudizione narcisistico-didattica e complice ammicco
al lettore; anche le scansioni narrative, ricalcate
sulla numerologia dell'Apocalisse e del Sefer Jesirah, propongono le suggestioni dell’ordine sapienziale della tradizione più che quelle dell'ordine matematico della scienza, aumentano la complessità della storia più che semplificarne l’organizzazione. L'intenzione si precisa nel passaggio dalla voce media e dal linguaggio funzionale del Nome della rosa al protagonismo della variazione di voci e di stili nel Pendolo. A rendere l’idea di un potere di riflessione cosmica della letteratura c’è nel secondo romanzo di Eco, al posto degli eieganti paradossi o delle tensioni razionali di Calvino, una proliferazione di ordini simbolici e un’esuberanza ermeneutica che punta a creare l’effetto di una narrativa sublime nell’eccesso, quasi non padroneggiabile nella sua mescolanza — idealmente dantesca o meglio joyciana — occhieggiante di « non innocenti » richiami a tutti i livelli. E subito, grazie anche ad una campagna promozionale che ha avuto buon gioco nel presentare I! pendolo di Foucault come i! libro, l'evento letterario che compendia ciò che vale la pena di imparare e con cui non si può mancare di familiarizzarsi, ecco i prontuari per la lettura come il Dizionario del pendolo di Foucault,*° un'operazione di sapore scolastico che va ad amplificare la risonanza didattica del romanzo di Eco, a scapito di quel difficile equilibrio fra informazione e suggestione, fra coerenza poetica e calcolata disarmonia che decretò il successo del Nome della rosa. Il pendolo non vuol essere un’'oscura enciclopedia da glossare ulteriormente, ma un'immagine dell’enciclopedia che è l’immagine del cosmo; l'enciclopedia è il libro degli uomini (di cui «non si dà mai rappresentazione definitiva e chiusa », e la cui capacità di rappresentazioni ordinate « non è mai globale, ma sempre locale »)?! che interpreta incessante-
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mente il libro di Dio e incessantemente esibisce la propria imperfezione. Eco sa che il sublime è concesso per allusioni e rovesciamenti, e agli epigoni solo attraverso la terribile serietà del gioco, la finzione, l'ironia, l’understatement. Dove si perde la difficile tensione fra ubris e umiltà, fra distacco e commo-
zione, fra serietà e divertito atto gratuito, l’immagine del sublime può solo prendere l'aspetto di una un po’ goffa riduzione accademica.
NOTE ! Persino le posizioni più oltranziste vengono giustificate con una sorta di maturità dei tempi: il Gruppo 63 si offre come momento del necessario svecchiamento culturale dopo il riallineamento economico; lo strutturalismo sembra corrispondere perfettamente alla prevalenza di rapporti astratti e all’indebolimento dell’io della società di massa. 2 I saggi e gli interventi di Una pietra sopra (Torino, Einaudi, 1980) mostrano come l’idea della funzione pedagogica della letteratura rimanga costante per Calvino. Due esempi: « Noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibile » (da «Il midollo del leone », 1955, p. 13). « Ecco dunque che dopo aver escluso la pedagogia politica dalle funzioni letterarie, mi ritrovo ad affermare che credo in un tipo d’educazione attraverso la letteratura, un tipo d’educazione che può dare
i suoi effetti solo se è difficile e indiretta, se implica l’arduo raggiungimento d’un rigore letterario. Qualsiasi risultato raggiunto dalla letteratura, se rigoroso, può essere visto come un punto fermo per ogni attività pratica, per chi miri alla costruzione d’un ordine mentale cosi solido e complesso da contenere in sé il disordine del mondo, per chi tenda a stabilire un me-
todo cosi sottile e duttile da essere l'equivalente dell'assenza d'ogni metodo » (da «Usi politici giusti e sbagliati della letteratura », 1976, p. 293). 3 Citato in Chiara Valentini, « Ritratti inediti. Spriano racconta il suo amico Italo Calvino: comunista con allegria », Panorama 1067, 28 settembre 1986, p. 161.
4 Italo Calvino, « Il midollo del leone » (1955), in Una pietra sopra (Torino, Einaudi, 1980), p. 15. 5 Italo Calvino, «Il midollo del leone », p. 13.
$ Paolo Spriano, Le passioni di un decennio (1946-1956) (Milano, Gar-_ zanti, 1986), p. 25. ? Italo Calvino, «La sfida al labirinto » (1962), in Una pietra sopra (To-
rino, Einaudi, 1980), p. 97. 8 Mario Petrucciani, Scienza e letteratura nel secondo novecento. La riserca letteraria in Italia tra algebra e metafora (Milano, Mursia, 1978), pid.
° Primo Levi, Il sistema periodico (Torino, Einaudi, 1975), p. 207. 0 «In questo momento, il modello del linguaggio matematico, della logica formale, può salvare lo scrittore dal logoramento in cui sono scadute parole e immagini per il loro falso uso ». Da « Due interviste su scienza ‘
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e letteratura » (1968), in Italo Calvino, Una pietra sopra (Torino, Einaudi, 1980), pp. 190-191. lla [Calvino] ha cominciato a occuparsi di biologia e astronomia, ma
come potenziali narrativi. Ecco Ti con zero, che viene dagli studi sulla cellula T4; ecco Le Cosmicomiche, che vengono dalla cosmologia; ecco un linguaggio che guarda Galileo. Ma sono metafore, connessioni improbabili anche queste. Il “pensiero scientifico” di Calvino in quanto scientifico a me non piace, lo trovo superficiale e di scarso interesse. [...] Dal pensiero scien-
tifico Calvino ha tratto materiali letterari. Il bello sta nel “letterari” non nel ‘““materiali’’ » (« Arte e ricerca scientifica. Il neurobiologo che tenta di conciliarle. Ecco il bello della scienza », intervista con Ruggero Pierantoni di Omar Calabrese, Panorama 1077, 7 dicembre 1986, pp. 197, 200). !? Cfr. Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chica-
go, University of Chicago Press, 1962, 1970? (La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969, 19782). 13 Italo Calvino, « La luce negli occhi » (1982), in Collezione di sabbia (Milano, Garzanti, 1984), p. 126. 14 Italo Calvino, «I francobolli degli stati d'animo » (1981), in Collezio-
ne di sabbia (Milano, Garzanti, 1984), pp. 145-148. !5 Italo Calvino, Collezione di sabbia, p. 49. 16. Una piccola prova che i saggi sono, oltre che una più scoperta registrazione delle lacerazioni che Calvino occultava e trasformava nei romanzi, anche quaderni di appunti verso i romanzi stessi, materiale intellettualmente elaborato che però aspettava una rivisitazione fantastica in chiave narrativa, è il saggio «Il rovescio del sublime » (1976), che anticipa quasi letteralmente le riflessioni che aprono « Sul tappeto di foglie illuminate dalla luna » in Se una notte d'inverno un viaggiatore (1979). Da « Il rovescio del sublime »: « Gialle del giallo più acuto e luminoso sono invece le foglie del ginko, che cadono in pioggia dagli altissimi rami come petali -di fiori: infinite foglioline a forma di ventaglio, una pioggia continua e leggera che pigmenta di giallo la superficie del laghetto » (p. 165); da « Sul tappeto di foglie illuminate dalla luna »: «Le foglie del ginkgo cadevano come una pioggia minuta dai rami e punteggiavano di giallo il prato. [...] Se dall'albero di ginkgo cade una sola fogliolina gialla e si posa sul prato, la sensazione che si prova guardandola è quella d’una singola fogliolina gialla » (p. 199). E quindi le rarefatte discussioni del narratore e del signor Okeda in «Sul tappeto di foglie illuminate dalla luna » non sono che l’ultima ironica trasfigurazione delle ardue conversazioni tra Calvino e la sua guida, lo studente giapponese di « Il rovescio del sublime »: « Ma la conversazione è difficile perché entrambi vorremmo dire cose o molto precise o molto sfumate e invece riusciamo a scambiarci solo frasi o troppo generiche o troppo perentorie » (Collezione di sabbia, p. 167). 17 Italo Calvino, Palomar, Torino, Einaudi, 1983. 18 Italo Calvino, Collezione di sabbia, p. 167.
19 I saggi di Collezione di sabbia, fin dal titolo che sembra quasi una pessimistica contraddizione in termini (ma invece trova riscontro nella realtà di un’esposizione parigina e relativo appassionato saggio omonimo ad apertura della raccolta), sono un tentativo strenuo di conciliazione, l’ultima ra-
zionale versione di una collezione « mitica » cominciata da Calvino con le distese e solari Fiabe italiane e continuata con la conciliazione di mito e «ragione scientifica » in Le Cosmicomiche e Ti con zero. Benché ben lungi dall'essere solare, Collezione è pur sempre un atto di fede nelle possibilità di ordinare razionalmente il reale. Palomar, fin nella sua divisione inter-
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na, sembra invece la ripresa di un discorso iniziato con Marcovaldo: l’os-
servatore da uomo di fatica si fa sofisticato borghese, « uomo-osservatorio » anche nel nome, ma i risultati anziché migliorare peggiorano. Se l’osservare i segni della natura nella grigia città porta a Marcovaldo solo irrealizzati desideri e comici guai, per Palomar il raggio dell’osservare alla ricerca di un modello si restringe, frustrato, sempre più, fino alla solipsistica osservazione del proprio io privo di movimento, morto prima in teoria e poi a tutti gli effetti. 20 « Viviamo in un’epoca in cui non si salva più niente né nessuno » (Italo Calvino, Collezione di sabbia, p. 49). 21 Cfr. Italo Calvino, Collezione di sabbia, pp. 211-216 e in particola-
re p. 214.
22 Può essere curioso ma anche significativo che l’ultima meditazione del signor Palomar, « Come imparare a essere morto », richiami il titolo di un saggio di Montaigne: «Que philosopher c'est apprendre à mourir » (Essais I, 20). 23 Italo Calvino, Palomar, p. 128. Calvino riecheggia qui la chiusa del leopardiano « Cantico del gallo silvestre »: « Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima,
sarà spenta. [...N]on rimarrà pure un vestigio;
ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso ». 24 Giorgio Saviane, Il mare verticale (Milano, Rusconi, 1973), risvol-
to di copertina. 25 Due brani di Saviane e Calvino curiosamente simili nel tema (hanno entrambi per soggetto il branco dei preominidi, la lotta, e l’acquisizione della stazione eretta), ci dimostrano le diverse strategie stilistiche: da una parte il coinvolgimento del lettore attraverso una retorica drammatica (cfr. in Il mare verticale, Milano, Rusconi, 1973, pp. 26-27, il brano che inizia con «Ma era per la violazione delle femmine »), dall'altra la scelta dell’essenziale, dove è la cadenza, non l'esplicita dichiarazione del protagonista, a sottolineare incisivamente il dato drammatico della lotta (cfr. in
«Il nome, il naso », in Sotto il sole giaguaro, Milano, Garzanti, 1986, pp. 19-20, il brano che inizia con « C'è un odore nemico che mi viene nel naso »). 26 Un esempio: « Sono salita sulla tua alcova di morte a tentare questa fantastica corsa attraverso l'impossibile galleria dell'io e trovarlo, e mettergli le mani alla gola tremanti del fracassio che rompe le case. Perché è questo nodo che divide le mie cellule dalle tue che voglio fare esplodere » (Il mare verticale, p. 171). 27 Guido Almansi, La ragion comica (Milano, Feltrinelli, 1986), p. 61.
28 Cfr. l'intervista « Delegati alla rappresentazione. Incontro con Gianni Celati », a cura di Manuela Teatini, Linea d'ombra 24, febbraio 1988, pp.
24-26.
29 Cfr. «Come si fa un romanzo storico », conversazione di Claudio SIE. con Umberto Eco, in Pubblico 1983 (Milano, Milano Libri, 1983),
p.
47. 30 Luigi Bauco e Francesco Millocca, Dizionario del pendolo di Fou-
cault,
a cura di Luciano Turrini, Ferrara, Gabriele Corbo Editore, 1989. 3! Cfr. Umberto Eco, « L'antiporfirio », in Gianni Vattimo e Pier Aldo
Rovatti (a cura di), Il pensiero debole (Milano, Feltrinelli, 1983), p. 75.
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. GLI ANNI OTTANTA: 555 ATIVA ANE NARR LE GIOV E ORIA A EDIT STRI INDU 3g
1.- NUOVE STRATEGIE DI AUTORI
PER UNA NUOVA
GENERAZIONE
«Oggi anche gli impulsi antiletterari sono scaduti nell’indifferenza e in un pigro diniego che, se la parola non fosse abusata, si potrebbe definire qualunquistico. In questo clima di rassegnazione, rotto soltanto dalla esasperata ed effimera ricerca del “caso del giorno” da parte della stampa; nella crescente disattenzione del pubblico, che l'industria culturale tende a combattere prospettando “capolavori” in vorticosa sequenza; svanita ogni autorità della critica militante; moltiplicati sino a una egualitaria insignificanza i premi letterari; la letteratura narrativa, insidiata dall’udienza del racconto televisivo, si rifugia nello sperato clamore del successo o si avvicina ambiguamente al dominante kitsch » (GENO PAMPALONI, « Modelli ed esperienze della prosa contemporanea »).
Fin qui si è tracciato un ritratto del romanzo medio e si sono analizzati attacchi e alternative alla sua ideologia e ai suoi contenuti, ed è cosi venuto ad emergere un discorso sulle forme
innovative della narrativa italiana dalla crisi del neorealismo fino agli anni ottanta. Invero l'avanguardia, la scrittura politica, il romanzo-inchiesta e il romanzo-saggio hanno intaccato solo in minima misura il prestigio e il mercato del romanzo tradizionale. Tutt’al più si sono verificati dei momentanei ammodernamenti di facciata (vedi Bevilacqua e Saviane), ma in sostanza autori come Prisco, Arpino, Castellaneta, Chiara, Tobino, Soldati e Sgorlon hanno mantenuto immutate le loro posi-
zioni fino quasi ai nostri giorni, riproponendo per decenni forme e contenuti narrativi inalterati.
Anche il passaggio di potere che si è verificato oggi con la cosiddetta « giovane narrativa » è dovuto più ad un necessario ricambio generazionale che ad un cambiamento sostanziale. Non è un caso che uno dei nuovi autori, Roberto Pazzi, abbia
polemicamente e onestamente affermato: Qualche anno fa c’è stato il problema del ricambio generazionale e cosi siamo entrati io, Tabucchi, Del Giudice e alcuni altri. Ma i posti sono sempre limitati. Guai ad allargare i passaggi, ad abbattere alcu-
ni sbarramenti!!
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Fin dal riconsolidamento dell’establishment letterario, tra
il dopoguerra e l’inizio degli anni sessanta, l’editoria italiana è stata molto cauta nei suoi primi approcci con le nuove leve e per la maggior parte si è guardata bene dal cercare nuovi autori e dal rischiare su di essi, fino a quando una serie di fatti
contingenti che vedremo, assieme ad un biologico assottigliarsi delle fila degli scrittori affermati, non l’ha spinta a cambiare prospettiva. I motivi contingenti sono stati innanzitutto il successo na-
zionale e internazionale di Se una notte d'inverno un viaggiatore (1979 in Italia, 1981 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti) e l’'inaspettato successo mondiale di Il nome della rosa (1980 in Italia, 1983 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti). Essi hanno rappresentato una salutare scossa per il dibattito letterario e per il mercato della narrativa italiana, che verso la fine degli anni settanta era ancora asfittico a causa sia della complessiva congiuntura economica sia della crisi generale del romanzo a favore del saggio. Semmai in questo periodo l’editoria era concentrata sulle traduzioni (molta America latina, caustica Germania contemporanea, sofisticati ripescaggi francesi e mitte-
leuropei di primo novecento, e dopo tutto anche una breve moda giapponese), per quel bisogno di allargare gli orizzonti e desiderio di sprovincializzarsi che accompagna la rapida trasformazione del paese nel decennio. Il segnale viene interpretato come cambiamento del vento: maturi i tempi per un rilancio narrativo imperniato sul nuovo; da rivedere la strategia difensiva e di piccolo cabotaggio fino ad allora assegnata alla produzione nazionale. La da sempre rabdomantica Feltrinelli aveva già fatto un primo tentativo all'insegna della provocazione con Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli all’inizio del 1980, ma la prima ini-
ziativa ben concertata e autorevole è quella dell’Einaudi, che punta su due giovani sconosciuti scoperti da Calvino. Cosi escono, con sua prefazione, il romanzo d'esordio di Andrea De Car-
lo prima (Treno di panna, 1981) e quello di Daniele Del Giudice poi (Lo stadio di Wimbledon, 1983). Nel frattempo, specialmente dopo il successo della traduzione americana di Il nome della rosa, si espande quello che è stato giustamente chiamato l’«effetto-Eco », la percezione che un nuovo e più spregiudica‘to atteggiamento verso lo scrivere è ormai maturo anche in Ita-
lia, e si diffonde presso tutti gli editori la sensazione che gli esordienti siano stati troppo a lungo trascurati. Infatti, dopo il 1983,
a quella borsa del libro che sono le Buchmessen di Francoforte, le quotazioni della narrativa italiana salgono progressivamente, grazie appunto al best-seller di Eco e ad una generale
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crescita di immagine dell’«azienda Italia» che si verifica per motivi economici e politici proprio in questi stessi anni.
All’inizio l’effetto-Eco sembra funzionare in senso diretta-
mente imitativo; Mondadori e la stessa Einaudi tentano la strada
del «romanzo dei professori »,* pubblicano cioè il primo romanzo di accademici già conosciuti per le loro opere saggistiche (Vittorio Saltini, /l primo libro di Li Po, Milano, Mondadori, 1981; Laura Mancinelli,
/ dodici abati di Challant, Torino,
Einaudi, 1981); ma il successo di Treno di panna (Torino, Einaudi, 1981) di Andrea De Carlo, che contribuisce a generaliz-
zare l'interesse editoriale per l’opera prima, ne sposta il fuoco dagli universitari ai giovani esordienti. Il caso, la risonanza, la
novità si costruiscono infatti meglio sul giovane sconosciuto che sull’universitario alla sua prima pubblicazione non scientifica,
sia perché si capisce presto che una tale strategia segue troppo scopertamente e banalmente il caso Eco sia perché c’è a nessun costo e già pronta una retorica giovanilistica che aspetta da anni di essere inverata. Come vedremo, Il nome della rosa;
oltre a favorire lo sviluppo del romanzo accademico, porterà alla nascita di un eterogeneo filone « neogotico » (cfr. III.3.), ma per ora si può dire che in generale favorisce un boom del romanzo giovane, che va dalla pubblicazione dell’esordiente al pentito repéchage editoriale di chi, dopo aver già pubblicato in tempi meno favorevoli, è stato lasciato ad invecchiare. Cosi autori già stampati negli anni settanta ma rimasti nel limbo delle piccole tirature e/o dei piccoli editori vengono definitivamente lanciati negli anni 1983-85: Antonio Tabucchi passa da il Saggiatore a Sellerio, viene notato con Donna di Porto Pim (1983) e Notturno indiano (1984), e si afferma infine con Feltrinelli e Piccoli equivoci senza importanza (1985); Francesca Duranti lascia La Tartaruga dopo due romanzi e raggiunge il successo con Rizzoli e La casa sul lago della luna (1984) presentato da Giorgio Bassani; Stefano Benni, già noto come umorista (Bar Sport, Milano, Mondadori, 1976) e giornalista, diviene a tutti gli effetti un giovane narratore con il passaggio alla scuderia « giova-
ni» della Feltrinelli e la pubblicazione di Terra! (1983) e di Comici spaventati guerrieri (1986). Ecco anche i veri e propri esordi
narrativi di Alain Elkann (7! tuffo, 1981) per Mondadori, di Aldo Busi (Seminario sulla gioventi, 1984) per Adelphi, di Gianfranco Manfredi (Magia rossa, 1983) per Feltrinelli e di Roberto Pazzi (Cercando l’imperatore, 1985) per Marietti. C'è poi la seconda ondata di giovani narratori, apparsi 0 riproposti da grandi e piccoli editori dopo il 1985, a fenomeno ormai costituito, per rafforzare l’immagine all’interno e all’estero di questa conclamata rinascita narrativa italiana degli
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anni ottanta che indubbiamente « tira » per tutti a livello di vendite. Seguendo la strategia intrapresa da Einaudi con De Carlo, molte case editrici si aggiudicano autorevoli patrocinatori per i romanzi di esordio (o di riproposta) di questo secondo gruppo di giovani autori. Cosi Mondadori con l’ausilio di Cesare Garboli lancia Vincenzo Pardini (Il racconto della Luna, 1987), che
aveva già pubblicato precedentemente;* Longanesi grazie a Pietro Citati scopre Marta Morazzoni (La ragazza col turbante, 1986); il lavoro editoriale pubblica con una presentazione di Goffredo Fofi il secondo romanzo di Claudio Piersanti (Charles, 1986); Franco Cesati Editore si aggiudica La gabbia a pagoda (1986) di Roberto Barbolini con un retro di copertina firmato da Giovanni Arpino. In altri casi, quando non è disponibile un influente mentore, si fa leva soprattutto sulla pubblicità; cosi Garzanti tenta un ben programmato ma inutile ripescaggio di Enrico Palandri (Le Pietre e il Sale, 1986) e prepara l’uscita dell’opera prima di Giorgio van Straten (Generazione, 1987) con orchestrate anticipazioni e continui slittamenti sulla data di pubblicazione; Mondadori assiste l’esordio per i suoi tipi di Liaty Pisani (La terra di Avram, 1987) con un articolo pilotato sul settimanale del gruppo Panorama;” Marsilio reclamizza l’insolito finanziamento pubblico-privato che permette la pubblicazione di Cinzia Tani (Sognando California, 1987) e Marco Neirotti (Assassini di Carta, 1987) nella nuova collana per esordienti «Primo tempo» e fa leva sulla retorica giovanilistica.8 L’editoria italiana perfeziona tecniche rese possibili dalla razionalizzazione dei grandi gruppi editoriali, che si consolidano alla fine degli anni settanta;? queste tecniche si basano sulla risonanza che un romanzo acquista quando viene pubblicizzato da tutti i vari elementi di un conglomerato editoriale: il libro del giovane narratore viene anticipato, all’interno di un articolo, in un settimanale del gruppo, pubblicizzato come imminente su un quotidiano legato all'editore, recensito dalla stampa del gruppo e da-quella amica che con esso si scambia « cortesie d'informazione »; l’autore è invitato ad una trasmissione televisiva e vince poi uno degli ormai innumerevoli premi letterari, con aiuto dell'editore proporzionale all'importanza del premio. Le notizie, tutte positive, acquistano spessore e credibilità proprio perché rimbalzate da un elemento all’altro dei mezzi della comunicazione di massa: dalla pagina allo schermo al concreto rituale del premio anch'esso infine recensito e teletrasmesso, la catena della promozione si conclude e si avvalora circolarmente. Come mette in rilievo Geno Pampaloni, l’obiettivo di tale articolato apparato di operazioni, il lettore, si fa sempre
più diffidente e indifferente di fronte alla grancassa promozio132
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nale, mentre in proporzione i risvolti di copertina divengono sempre più audaci e promettenti. Nella generale attesa del romanzo nuovo, dopo tante morti e resurrezioni del romanzo, è diffuso il costume di ottenere
formule narrative originali per via di trasformismo ed etichette. Cosi ci viene detto che antologie poetiche possono essere lette come un romanzo, romanzi sono le raccolte di racconti che presentino un qualche pretestuoso filo conduttore, e persino semplici frammenti una volta stampati insieme divengono romanzi, se non aspirano ad essere piuttosto poesie in prosa. D'altra parte, di molti fra i romanzi legittimi (la cui misura è sempre più vicina a quella del racconto lungo) si sottolinea la composizione mista, l’uso di più sottogeneri o di più tonalità. I risvolti editoriali si compiacciono di confondere le acque, di strizzare l'occhio, di gonfiare la consapevolezza compositiva del testo, la sua ricchezza culturale, i suoi blasoni letterari, puntando a proporre una complessità spesso estrinseca, tenuta insieme con gli spilli in funzione dell’appetibilità pubblicitaria. La svoglia-
tura della moda impone un barocco amore per gli effetti complicati e i giochi di agudeza che sono di frequente solo un fatto di confezione. Come deve essere, per reggere i ritmi del rapido invecchiamento dei nomi e dei prodotti, tutto appare in ampia misura unico, sperimentale, audace, una sfida e una lusinga lan-
ciate al lettore e alla sua capacità di riconoscere ed apprezzare. Ma poiché l'omologazione della qualità narrativa da parte del successo di mercato esige un alto grado di leggibilità e un «facile» grado di sperimentalità, gli esperimenti hanno in realtà più l’aspetto di variazioni combinatorie dell'esistente in funzione di un modesto effetto di novità che quello di rivoluzioni creative tese a saggiare le potenzialità della letteratura. Sperimentale significa oggi più che mai frutto di un progetto dell’intelligenza, come nei laboratori scientifici. Se appena può, il libro gioca con il suo doppio progettuale, con le intenzioni sottili, con la suggestione dell’opera aperta e stratificata, con la dimensione metanarrativa. Le presentazioni editoriali, e spesso le autopromozioni degli autori stessi, mirano a suscitare l’idea di uno scrittore che ha pieno controllo intellettuale, non sentimentale, sulla sua opera e sulla sua poetica. Del resto questo coincide perfettamente con la nuova immagine che si ha dell’editore: dall'editore che modella la casa editrice a propria immagine e somiglianza, accentratore ed intellettuale, illuminato e consapevole sostenitore di una perso-
nale idea di cultura (se non di un preciso orientamento politico da ritrovarsi nelle sue scelte editoriali), in grado di esercitare un forte, e non sempre positivo, ascendente sui suoi autori pre-
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diletti si è passati ad una nuova generazione di manager editoriali settoriali, sostituibili ed intercambiabili, che pensano più
al marketing che all'ideologia, che coltivano non tanto il singolo autore quanto appunto una generazione di autori da vendere e magari omogeneizzare e indirizzare verso quelli che i sondaggi di opinione hanno stabilito essere i nuovi gusti del pubblico. La giovane narrativa diviene insomma la scuola di perfezionamento degli uffici stampa e di un marketing sempre più sofisticato, multiforme e aggressivo, che crea un prodotto in cui si può riconoscere e che, nel caso della grande editoria,
segue e controlla a tutti i livelli, dalla pubblicità alla distribuzione. Case editrici più piccole e di più modeste risorse semplicemente puntano sulla qualità ma vendono avvalendosi anche di quello che ormai si può chiamare « effetto-giovane narrativa»: cosi Theoria ha successo con Diario di un millennio che fugge (1986) di Marco Lodoli e con Navigazioni di Circe (1987) di Sandra Petrignani; Studio Tesi propone Fantasmi di carta (1986) di Massimo Romano; Sellerio scopre L'apologo del giudice bandito (1986) di Sergio Atzeni. Non è un caso comunque che i piccoli editori risultino le vittime più evidenti delle grandi concentrazioni editoriali: più avventurosi per vocazione, sono .spesso loro a pubblicare le opere prime di giovani scrittori senza aderenze, salvo poi essere abbandonati per le grandi holding che si fanno avanti dopo l’inaspettato successo di un primo romanzo garantendo un servizio totale e un compenso maggiore. Cosi Tabucchi passa da Sellerio a Feltrinelli, Pazzi da Marietti a Garzanti (per poi però tornare a Marietti), Lodoli da Theoria a Bompiani, Busi da Adelphi a Mondadori,!° De Carlo da Einaudi in crisi a Bompiani, Duranti da La Tartaruga a Rizzoli. La casa editrice si è fatta sempre più attiva ed invadente alle spalle dello scrittore fino ad entrare di buon diritto come protagonista nell’immaginario narrativo. L'apparato editoriale viene avvertito ambivalentemente come poco compatibile con l’idea della creazione artistica ma anche come parte ormai integrante dell'odierna mitologia della scrittura; ne è spia ed esor-
cismo l’affacciarsi come presenza tematica, talvolta dissacrante talvolta compiaciuta, dei retroscena dell’attività letteraria in un numero significativo di nuovi romanzi o racconti (dopo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino e A che punto è ‘la notte di Fruttero e Lucentini, entrambi del 1979: I! falso pre-
tendente di Liaty Pisani, La casa sul lago della luna ed Effetti personali di Francesca Duranti, Piazza Carignano di Alain Elkann, Fantasmi di carta di Massimo Romano, Il superlativo as-
soluto di Giampaolo Rugarli, Sodomie in corpo 11 di Aldo Busi, L'oro del mondo di Sebastiano Vassalli, Quattro novelle sulle
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apparenze di Gianni Celati, I! pendolo di Foucault di Umberto Eco). Luca Canali addirittura scrive un Manuale ad uso degli scrittori esordienti (Milano, Bompiani, 1988), che più che un ma-
nuale è piuttosto un «pamphlet » in cui dà consigli agli aspiranti narratori, ricostruisce la mappa degli operatori culturali influenti (che da bravo latinista chiama « sponsores »), e discute su quel sistema di recensioni e prefazioni importanti che può fare (o disfare) una carriera in fieri. Come si è visto, analizzando come viene pubblicata la prima ondata di giovani narratori (1981-1985), l'impressione dominante che se ne ricava è quella di un’industria editoriale che va per tentativi mentre cerca di comprendere e usare nel modo migliore la nuova situazione che il caso Eco ha contribuito a catalizzare. La seconda ondata è invece l’effetto delle analisi di mercato e dei preparativi portati a termine in un quadro stabilmente delineato: più un esperimento di laboratorio, un fatto di marketing e di uffici-stampa, che uno spontaneo e continuato fiorire di giovani talenti. Questo « secondo tempo », se da un lato mostra le sofisticate strategie editoriali di stampo americano a cui abbiamo fatto cenno, dall’altro mette in risalto an-
che la ripresa di una società letteraria omogenea ricostituitasi contemporaneamente al declino dei circuiti e delle sedi alternative degli anni settanta e che, attraverso il sistema delle presentazioni, dei premi letterari, delle associazioni culturali e dei convegni universitari e para, convive ormai tranquillamente con l'editoria più modernamente agguerrita, con essa spartendosi
i compiti.!! Basta riandare alla frase di Pazzi per scorgere dietro il suo «i posti sono sempre limitati. Guai ad allargare i passaggi, ad abbattere alcuni sbarramenti! » la tradizionale logica © di cooptazione della corporazione letteraria. In altre parole, se da una parte è ormai l'editoria stessa a incrementare oltre misura il fenomeno giovane narrativa per approfittare a fondo del momento favorevole, con criteri orientati verso la novità e sen-
za particolari preoccupazioni per la qualità o la rilevanza letteraria di quanto si presenta come nuovo, dall'altra ben si sa
che, alla resa dei conti, e in definitiva anche per ragioni di mercato, i posti saranno comunque limitati, e che provvederà la rinata consorteria letteraria, con i suoi criteri molto più conservativi, a scremare e insediare i nuovi autori ritenuti idonei, perché la nuova generazione sin nel numero non sia troppo diversa
dalla precedente e perché il sempre più esiguo potere mediale dello scrittore non vada ulteriormente disperso e inflazionato. Con l’uscita di // pendolo di Foucault nell'autunno del 1988 anche il « secondo tempo» entra in fase di esaurimento. Col suo captare e incorporare nel Pendolo gran parte delle tensioni nar135
rative più fertili e nuove degli ultimi anni Eco emblematicamente chiude la stagione dell’affermazione del romanzo giovane, che si era aperta come momento di rinnovamento dei ranghi dei narratori italiani all’inizio degli anni ottanta quale imprevedibile componente dell’«effetto-Nome della rosa ». Con la fine del decennio si comincia a contare chi c’è e a dimenticare chi credeva di esserci. I nuovi dei primi anni ottanta, se continuano ancora a pubblicare e ad essere nominati anche al di fuori della mera occasione recensoria, sono ormai « arrivati »; hanno cioè
superato l’effimera macina promozionale del « presentato, parlato, bruciato »!? (in cui scompare nel giro di poche settimane la maggior parte degli esordienti) per ritrovarsi improvvisamente invecchiati, e sono oggi a loro volta giudici di premi letterari, oggetto di interviste e dispensatori di opinioni su sintomi e propensioni del mondo culturale. Al contempo la caccia al nuovo narratore si è ormai talmente generalizzata da diventare po‘litica dominante delle case editrici, non più fatto saliente e peculiare: gli esordienti sono oggi una tale pletora da rendere impossibile il tenerne traccia anche all’addetto ai lavori; si consumano e autocancellano in una strategia editoriale massificata che non permette più l’individuazione di talenti singoli e di nuove tendenze narrative ma solo di macroscopici indirizzi di mercato. Se i meccanismi attraverso cui si consolida il prestigio di uno scrittore all’interno dell’establishment letterario non sono molto cambiati, è invece cambiata sostanzialmente l’immagine che dello scrittore si propone al pubblico: il passaggio è quello dalla mistica della torre d’avorio al consumo dello scrittore multimediale. Mentre fino a pochi anni fa, in ossequio ad una visione tradizionale e tipicamente italiana dell’uomo di lettere, l'editore proponeva l’immagine sfuggente di un autore scontroso e appartato, alieno da compromessi esibizionistici nei confronti del vasto pubblico e semmai ideologicamente impegnato o professionalmente attivo nell'editoria o nel giornalismo come campi paralleli e separati, ora lo scrittore è a suo modo uomo di spettacolo, personaggio che guadagna vistosamente in vendite e visibilità quanto più si espone al grande pubblico attraverso televisione, giornali, glossate retrocoperte con la propria fotografia, dichiarazioni dappertutto e su tutto. Il presenzialismo, da sempre regola d’oro di ogni buona società mondana, e come tale anche della società letteraria, ma un tempo
limitato ai suoi riti elitari, ora funziona anche a livello di mass media. Benché si siano notati sintomi di insofferenza e di rigetto di questa immagine massificata e inflazionata (si pensi ad Arbasino e al suo polemico, per quanto esibizionistico e tardi136
dl
pentimento), bisogna notare che essi provengono dalla vecchia guardia, generazionalmente meno abituata e disposta al contatto coi mezzi di comunicazione di massa, e inoltre già affermata, mentre il giovane scrittore, figlio della società dell’im-
magine, sembra essere più incline a prestarsi al consumo multimediale!* nonché in genere più a suo agio, anche se non quanto i suoi smaliziati colleghi americani. Un ulteriore aspetto del fenomeno « giovane narrativa » cosi come è stato gestito dai media merita di essere considerato: con la comprensione delle possibilità messe in luce dal fenomenoEco e con quella palestra di confronto internazionale che è la Buchmesse, l'editoria nostrana ha fabbricato sulla seconda on-
data della giovane narrativa una nuova immagine del prodotto letterario italiano che viene avvalorata proprio da un’interazione con l’estero prima trascurata o ritenuta impossibile. In casa si pubblicizza la giovane narrativa come prodotto nazionale, nascita di una nuova generazione letteraria che, se non è proprio un movimento, è quanto di più articolato e ampio si abbia a questo proposito dai tempi del Gruppo 63, e come tale merita interesse e attenzione. Cosi si vogliono travestire i giovani narratori da squadra di calcio,! gli si dedicano ampi reportage sui maggiori settimanali — parte dei grandi gruppi editoriali — , e li si investe di quel rinnovato orgoglio nazionale che è fiorito con la nuova prosperità degli anni ottanta e unasituazione interna apparentemente più dinamica e meno instabile.! Al tempo stesso si energizza il fenomeno dei giovani narratori mettendo in evidenza che sono nuovi e degni di attenzione perché immagine di una nuova Italia sofisticata e cosmopolita, più a loro agio nel descrivere un aeroporto (si pensi a De Carlo) che la città di provincia prediletta dal romanziere medio, e li si blasona proprio attraverso questa funzione sprovincializzatrice, proponendo agganci e paragoni con il minimalismo americano!” ed evidenziando il successo che essi stanno avendo in Francia,!* terra per le patrie lettere spesso fonte di complessi di inferiorità. Si potrebbe sostenere che il successo della giovane narrativa è quindi parte di una articolata rivendicazione dello status di quinta potenza occidentale — si ricordi lo sbandierato «sorpasso » della Gran Bretagna all’inizio del 1987 — che il paese ha tentato non solo su un piano politico-economico; quanto più i giovani narratori sono visti all’estero come prodotto italiano, tanto più in Italia risultano prodotto cosmopolita, raf-
forzato e avvalorato dal successo internazionale. Ovviamente tale strategia penalizza gli «intraducibili », gli autori che per idiosincrasie di linguaggio o argomenti risultano poco appetibili ad un pubblico di lingua e cultura non italiana, e lavora a L37
favore di una perdita delle connotazioni regionali in direzione di un orizzonte genericamente occidentale. La giovane narrativa diviene cosi lo strumento di un’abile operazione editoriale, che fa leva su un nuovo nazionalismo!’ e su un vecchio complesso di inferiorità che, anziché deprimere come al solito il mercato del romanzo italiano, si è per la prima volta tramutato in orgoglio e paga proprio in vendite interne. Si è già detto che questa narrativa è l'evidente risultato di un naturale avvicendarsi generazionale, ma si è rilevato anche
che i giochi sempre più scoperti dell'apparato pubblicitarioeditoriale (scoperti proprio perché pianificati in modo prevedibile ed efficacemente collegati agli umori del mercato) sono a loro volta largamente responsabili del successo e del consolidamento del fenomeno. Se c’è una contraddizione in questo connubio di ricambio generazionale e costruzione artificiale, essa
è tipica dell’Italia degli anni ottanta, dove coesistono e prosperano istanze fino a pochi anni prima difficilmente conciliabili. Per esempio, da un lato si realizza un allargamento del consenso e una omogeneizzazione della società che sono tipicamente postcapitalistiche e dall’altro si cerca di superare i conseguenti rischi dell’appiattimento rimettendo in gioco i valori del privato, gli spazi creativi del singolo, il narcisismo e l’autoaffermazione, salvo recuperare tutto (uomo massificato e narcisismo)
nel campo dei consumi, attraverso la nuova politica dell’esclusività di massa. Cosi il vestito prodotto in migliaia di capi viene firmato dal grande sarto per dare all'acquirente medio l’illusione di appartenere ad una élite, le vacanze in località dal nome illustre sono ormai offerte in pacchetti a buon prezzo, e l'abbigliamento come il viaggiare (con le loro estensioni di fitness, tempo libero, e oggettistica tecnologico-nobilitante) vengono elevati a paramistiche esperienze edonistiche da una pubblicità smaliziata, che ci dà l'illusione di essere soggetti anziché oggetti della scelta, e in realtà ci affratella tutti in un ecumenico e complice abbraccio consumistico. Ci si avvia cosi verso una società dell’ossimoro, dove la con-
ciliazione fruttuosa degli opposti viene ottenuta al prezzo di una caduta degli ideali e di un distaccato e pragmatico disincanto, e dove ogni fenomeno apparentemente spontaneo o è il prodotto di una strategia indotta che mira appunto a creare bisogni «spontanei » o, se non indotto fin dall’inizio, viene prontamen-
te raggiunto e massificato quando se ne scorgano le possibilità . di consumo e di ritorno economico. È sostanzialmente una so-
cietà neo-borghese?® dove, dopo tre decenni travagliati da uno sviluppo economico disordinato e inaspettato, da aspre tensioni di classe e dal terrorismo, si è giunti infine ad un diffuso be-
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nessere (o all'apparenza di un diffuso benessere) che ha smorzato la conflittualità marginalizzandola e frammentandola, ha allargato la fascia della classe media attraverso un enorme sviluppo del terziario, e ha introdotto una nuova etica della professionalità (almeno a livello retorico), del successo e del consumo, che era fino a pochi anni prima appannaggio dei più industrializzati paesi protestanti. Tutto questo è la base di un nuovo consenso, improntato alla realistica acquisizione di beni
materiali e di stili di vita sempre più sofisticati, a detrimento di qualsiasi idealismo politico di stampo radicale o comunque mirante ad una rifondazione sociale. Se la borghesia italiana consolidatasi con la ripresa degli anni cinquanta si identificò con il romanzo medio, la società neo-borghese degli anni ottanta, che maschera il suo conservatorismo dietro i miti dinamici di un’imprenditorialità diversificata e aggressiva, del look sofisticato e moderno, della vacanza-
avventura « dove ogni turista è un viaggiatore », si esprime altrettanto bene nel romanzo di ritorno dei giovani narratori, dove i sostanziali valori del medio di leggibilità e di fair play con il lettore permangono, arricchiti però dalla giovanilità estroversa e accattivante, anche anagrafica, dell’autore-personaggio, dall’agilità di uno scrivere al passo con i tempi che mima la fluidità dell'immagine cinematografica, dal nuovo scenario cosmopolita di un intreccio avvincente. Il romanzo di ritorno è espressione di un'’omogeneità culturale che non si era più realizzata in tale misura dopo la metà degli anni sessanta, o meglio è il risultato di un’onnivora assimilazione delle differenze culturali da parte dell’egemonica ideologia del consumo e dello spettacolo. Il romanzo medio, nato alla fine degli anni cinquanta come rappresentazione e riconferma di una classe borghese egemone, era poi nei tardi anni sessanta della contestazione e negli anni settanta del terrorismo divenuto la reazione consolatoria ad una realtà sempre più conflittuale e indecifrabile; il romanzo
di ritorno, invece, non
si presenta più come
reazio-
ne. La « caduta delle ideologie » alla fine degli anni settanta permette a questa variegata riproposizione di una narrativa media di apparire adeguatamente espressiva della nuova realtà. Non a caso — si pensa — i suoi autori sono giovani, cioè capaci di guardarsi intorno senza pregiudizi, aperti a riconoscere i connotati e i simboli della nuova società; il mito della modernizzazione, l'emergere di una nuova configurazione sociale, il desi-
derio di una partenza sul pulito favoriscono una visibile retorica dell’attuale, del contingente, implicita appunto nell’enfasi sul «giovane ». Alla spinta conservatrice presente nel romanzo
medio, come acquiescente adesione alla realtà o impotente ele-
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gia della speranza, si è sostituita quella meno evidente perché trasformistica e mitologicamente dinamica che si riflette nel romanzo di ritorno, il quale coniuga fruttuosamente termini apparentemente inconciliabili come consumo ed esperimento.?! Nella società dell’ossimoro, la qualità di massa (massa ancora limitata invero dalla ristrettezza del nostro pubblico di lettori di libri) viene cosi ottenuta anche in campo editoriale secondo la collaudata formula del romanzo medio, aggiornata e scaltrita fino a includere ogni spunto di alternativa attraverso un riciclaggio riformistico fatto alla luce di certi leitmotiv dei nostri giorni, quali trasformismo, spettacolo, irrazionalismo e disincanto.
Oltre a mantenere, ma aggiornato, il patto con un nuovo lettore medio, la giovane narrativa si modernizza infatti proprio riproponendo opportunamente modificate e assimilate quelle istanze di svecchiamento che erano state mosse nei confronti del romanzo medio. Cosi, se fra i giovani narratori rimar-
rà pur sempre una nutrita schiera di autori che aspirano ad una classicità dello scrivere tempestivamente reinterpretata e che può essere bellettristica, smaliziata o visionaria, ci saranno an-
che autori che in termini più o meno provocatori reclamano le istanze generazionali e di rottura degli anni fra il ’68 e il ’77; autori che trasformano la narrazione-inchiesta alla Sciascia in romanzo falso-storico, arricchito dai fermenti di un nuovo irrazionalismo di fine secolo; autori che ripropongono le suggestioni saggistiche del rapporto scienza-letteratura, della meditazione filosofica e del racconto esemplare in uno stile essenziale e distaccato che riflette lo scetticismo esistenziale dei nuovi lettori. In questo senso la quadripartizione con cui ho organizzato il materiale della prima parte è il risultato di un orientamento retrospettivo. Come si è premesso, essa non intende fornire un'analisi esaustiva dei fatti rilevanti nel ventennio narrativo che si chiude alla fine degli anni settanta, ma offrire i precedenti o meglio le suggestioni che anticipano le quattro tendenze di fondo della narrativa degli anni ottanta e costituiscono la base di partenza della sua trasformistica novità.
Ma prima di addentrarsi i rapporti di questo romanzo con il fenomeno parallelo del produzione dei nostri giovani
in distinzioni sarà bene chiarire di ritorno dei giovani narratori minimalismo americano, a cui la autori è stata appunto più volte
associata.
Il minimalismo americano? è in realtà fenomeno ancor più recente della nostra giovane narrativa, dato che solo nel 1984 il primo libro di David Leavitt, Family Dancing, ha avuto 140
negli Stati Uniti la funzione catalizzatrice per successo e riorientamento del mercato verso le nuove leve che in Italia era stata di Treno di panna di Andrea De Carlo nel 1981. Nel contesto della narrativa statunitense il minimalismo può essere visto come una reazione alla presunta sclerotizzazione manieristica del postmodernismo. È la nuova invenzione di una potente critica accademica legata all’industria editoriale, che alleva giovani promesse nei corsi universitari di creative writing, che provvede prontamente al prodotto narrativo gli avvaloranti supporti di un’interpretazione,? e che, come il prodotto stesso, deve continuamente rinnovarsi, vale a dire escogitare nuove eti-
chette. Il postmodernismo prediligeva la citazione ironica e il gioco combinatorio, la cifra dell’asistematicità o addirittura del caos; il minimalismo è piuttosto un impulso di riduzione e ricostruzione che è condiviso da una nuova giovanissima generazione di scrittori: si ricostruisce lo spazio e le possibilità del narrare ripartendo dal poco che si conosce, i piccoli fatti e rapporti del vivere di ogni giorno. Alla base del minimalismo c’è una grande diffidenza per tutto quello che è complesso e quindi facilmente travisabile; c’è un bisogno di autenticità e di sincerità che si può soddisfare solo nel fatto minimo, nella situazione essenziale, una tenacia mimetica in aperto contrasto con
l’artificiosità affabulatoria della narrativa postmoderna. Cosi la famiglia è il tema ossessivo dei racconti di David Leavitt (Family Dancing, 1984) e di Susan Minot (Monkeys, 1986), ambientati rispettivamente a New York e dintorni e nel New England, mentre Amy Hempel (A Reason to Live, 1985) ha un registro appena più vario e usa come sfondo la California del Sud. Il minimalismo è il sintomo di un mondo atomizzato e di un orizzonte ristretto, di un’incomunicabilità generazionale che perdura e si fa indifferenza; è la scelta del quotidiano come unico e precario tempo possibile del vivere e del raccontare. Uno scenario cosi limitato può offrire solo un certo numero di varianti, e cosi vi ricorrono un’alta percentuale di padri assenti o insignificanti, madri dominatrici e malate di cancro, figli omosessuali o alla ricerca di se stessi. Queste storie di vita famigliare vengono registrate con una lingua appunto di routine, cosi programmati-
camente colloquiale e antiretorica da risultare, talvolta, paradossalmente, leziosa (si veda appunto Family Dancing). D'altra parte quest’indugio sui piccoli sentimenti, sulla cronaca documentaria e minuta di vite ordinarie può evocare una specie di crepuscolarismo smagato e nitido, dove nostalgia ed elegia vengono suggerite dalla precisione radiografica del dettaglio narrativo (The Lost Language of Cranes, 1986, e Equal Affections, 1989, di Leavitt; Monkeys di Minot). Da qui il grande uso di ter141
mini come understatement, «implosione », « epifania mancata » per descrivere la tecnica narrativa dei minimalisti, prontamente tradotti e pubblicizzati in Italia, dove per successo hanno trovato la loro seconda patria, e da qui anche l’impazienza di molti (critici e lettori)?4 per i loro microcosmi asfittici e ripetitivi, assolutamente privi di autoironia, che fanno sospettare un talento altrettanto ristretto e serioso.
Diverso è il discorso per chi, come Jay McInerney (Bright Lights, Big City, 1984; Ransom, 1985; Story of My Life, 1988) e Tama Janowitz (American Dad, 1981; Slaves of New York, 1986; A Cannibal in Manhattan, 1987), si lascia associare alla fruttuosa
etichetta critico-pubblicitaria del minimalismo, ma in pratica la confuta con una scrittura esuberante e aggressiva, « massimalista » per varietà di intreccio ed invenzione di stile. E in una situazione mediana, fra il minimalismo povero di Leavitt, Mi-
not ed Hempel e le storie ribalde e ricche di invenzioni di McInerney e Janowitz, si colloca il Bret Easton Ellis di Less than Zero (1985), che descrive la vita annoiata e dissipata della ricca gioventù di Los Angeles. Infatti, mentre i primi narrano in termini dimessi il fatto quotidiano e i secondi giocano ironicamente con le nevrosi e gli eccessi mondani di una New York « yuppie » e pseudoartistica, Ellis volge il suo sguardo più apatico che cinico su una vita eccessiva diventata routine per chi la conduce, ma non certo per chi legge. Gli adolescenti californiani figli di miliardari per cui cocaina, sesso, sadomasochismo, feste e macchine lussuose sono la vita di ogni giorno, fanno pensare, con le debite proporzioni, ad un The Sun Also Rises privo di ogni nobilitante stoicismo esistenziale, dove anzi la nullità assoluta
dei personaggi ed il vuoto del loro vivere vengono esponenzializzati dall’affluenza economica. Come ha fatto notare Tondelli,’ è la Los Angeles che il protagonista italiano di Treno di panna intravedeva dall'esterno vista ora dall'interno, che risulta cosi ancora più accurata e cattiva. Anche il secondo romanzo di Ellis (The Rules of Attraction, 1987), ambientato stavolta in un college di lusso, registra le vite piene di sesso e prive di senso di ragazzi banali e sbandati senza meglio precisare le doti e il respiro del suo autore. Se si confrontano queste tre indicazioni di tendenza — comunque molto fluide e provvisorie per narratori al loro primo o secondo romanzo — con i lavori dei più maturi Grace Paley (The Little Disturbances of Man, 1959; Enormous Changes at the Last Minute, 1974; Later the Same Day, 1985) e Raymond Carver (Will You Please Be Quiet, Please?, 1976; What We Talk About When We Talk About Love, 1981; Cathedral, 1983; Where I'm Calling From, 1988), che alcuni minimalisti come Lea-
142
vitt, Hempel e Minot considerano loro maestri, si nota come
Paley?° e Carver, quest’ultimo scomparso nel 1988, mostrino sempre una partecipazione emotiva discreta ma intensa nei con-
fronti di ciò che accade ai loro personaggi, e al contempo abbiano anche il gusto del gioco, della situazione comicamente insolita, insomma quelle virtà dello sguardo simpatetico e del sorriso che sono raramente riscontrabili fra i giovani minimalisti. Eppure Leavitt, Hempel, Minot hanno avuto successo, un
successo che è direttamente proporzionale alla loro scaltrezza o più ancora a quella della macchina editoriale e mondana che li pubblicizza, che per autoalimentarsi deve sfoderare una nuova rivelazione per ogni nuova stagione editoriale. Recentemente è stata la volta della trentatreenne Mary Gaitskill, autrice di una raccolta (Bad Behavior, 1988) di belle storie di quieta disperazione, di amori e squallori metropolitani: segretarie masochiste, giovani executive su un binario morto, aspiranti scrit-
trici prostitute part-time, famiglie dalle vite monotone in cui nel grigiore del tran-tran si insinuano momenti di turbata o gioiosa consapevolezza di esistere acquistano vita e spessore in nove racconti scritti in uno stile pacato e terso, ricco di sot-
tile umorismo e di compassione, né querulamente delicato come quello di Leavitt né insistentemente ribaldo come quello di Janowitz — forse l’esordio di una vera scrittrice (e non mi pare un caso che proprio leggendo la Gaitskill si senta più che in altri casi l'inadeguatezza dell’etichetta minimalista). Pochi mesi prima era stato scoperto Michael Chabon, il cui buon The Mysteries of Pittsburgh era nato come tesi di creative writing alla Università della California ad Irvine nel 1987, ed era stato poi rivisto e pubblicato da Morrow, a New York, nel 1988. The Mysteries of Pittsburgh, un tipico romanzo americano di iniziazione di un adolescente alla vita, non è affatto minimalista ma al
solito si avvale dell’aura pubblicitaria del minimalismo, ormai liberamente associato al successo di giovani esordienti. Il romanzo ha avuto una campagna promozionale al limite del farsesco, in cui il ventisettenne David Leavitt, dall’alto delle sue
due flebili prove di allora, ha recitato la parte del Saul Bellow della situazione, presentando con entusiastica autorevolezza il ventiquattrenne Chabon, che è stato immediatamente tradotto dal suo editore italiano, Mondadori
(I misteri di Pittsburgh,
1988). Infatti il nuovo scrittore americano per la prima volta scrive con occhio rivolto non solo al consumo interno, ma an-
che all’esportazione.?” E le ottime vendite all’estero non possono più meravigliare, soprattutto in un paese come l’Italia, dove c'è sempre stata un’avida curiosità per la descrizione dello stile di vita della borghesia americana (ormai invero non molto 143
diversa dalla nostra per quel processo di omogeneizzazione culturale di cui è vittima tutto l'Occidente), e dove nei primi anni ottanta il mito degli States reaganiani, ricchi e sicuri di sé fino all’arroganza, è tornato in gran voga.
Questi rapidi accenni ai minimalisti vogliono mettere in risalto somiglianze e differenze con la giovane narrativa. La predilezione per il rispetto delle convenzioni mimetiche, per un tipo di osservazione oggettivante e analitica, per uno spesso osten-
tato ritegno sentimentale, per una scrittura senza ridondanze e dal passo rapido è ampiamente condivisa anche da molti giovani narratori italiani (De Carlo, Del Giudice, il Tondelli di Rimini, Tabucchi, Bacci, Tani, Fortunato). La rappresentazione
di situazioni quotidiane ed antieroiche, di una realtà casuale e senza peso, di un’intelligenza smagata delle cose e degli uomini che non si fa né disperazione né piccola fratellanza, ma disincanto, constatazione di una negatività vissuta come routi-
ne oggettiva, la presenza di un punto di vista dal basso o dal di fuori, sono altre caratteristiche comuni, rintracciabili in par-
ticolare in quel gruppo di giovani narratori che assume come tema la propria generazione e il suo non-destino. Ed è in effetti la comune investitura dei giovani scrittori a rappresentanti e voce di una nuova generazione sempre più omogenea di qua e di là dall’Atlantico il trait d’union su cui il confronto più latamente si impernia. Basti pensare ad un certo tipo di promozione: il romanzo di Giorgio van Straten (Generazione, Milano, Garzanti, 1987) racconta «le scelte e i destini di chi oggi ha trent'anni»;?8 Diario di un millennio che fugge (Roma-Napoli, Theoria, 1986) di Marco Lodoli si avoca, con musiliano scon-
forto, il ruolo di «romanzo di una generazione senza qualità »;°° Via Po (Roma, cooperativa il manifesto anni 80, 1987) di Sandro Medici, fra il biblico e il sensazionale, annuncia « E ven-
ne il giorno in cui gli anni settanta e gli anni ottanta infine si incontrarono »;5° Per dove parte questo treno allegro (RomaNapoli, Theoria, 1987) di Sandro Veronesi narra «l'epopea di una giornata, l’ultima prima di diventare grandi »;3! la fascet-
ta di Floppy disk (Venezia, Marsilio, 1988) di Gaetano Cappelli cerca di evidenziare il lato generazional-formativo di una trama soprattutto d’azione (« Un'avventura di spie e trafficanti d’armi che è il sorprendente romanzo di formazione di un ragazzo d'oggi »). E senza particolari retoriche da quarta di copertina anche Pao Pao (Milano, Feltrinelli, 1982) di Tondelli, Semina-
rio sulla gioventù (Milano, Adelphi, 1984) di Busi e Charles (Ancona, il lavoro editoriale, 1986) di Piersanti sono romanzi con una forte componente generazionale. (Ed era una tendenza già
144
4
presente nel « giovane cinema » degli anni settanta, basti ricordare l’Ecce Bombo di Nanni Moretti, Maledetti vi amerò di Mar-
co Tullio Giordana, Ho fatto splash di Maurizio Nichetti.) Ma se le affinità generazionali tengono, ed è possibile interpretare una parte rilevante della produzione « giovane » americana e italiana come l'estensione narrativa di un modo di vivere e di pensare il più delle volte aproblematicamente neoborghese, talvolta tormentosamente senza qualità e punti di riferimento, la cifra stilistica del minimalismo si rivela inadegua-
ta a contenere il fenomeno della giovane narrativa. Non a caso si è parlato sinora di trasformismo e riciclaggio degli attacchi alromanzo medio e di rammodernamento del medio stesso in «giovane »; tutte operazioni che implicano una coscienza più spregiudicatamente postmoderna che regressivamente minimale. I giovani narratori hanno imparato ad usare tutto, o almeno che è lecito usare tutto: hanno allargato il campo di tematiche, tecniche, registri consentiti proprio perché gli attacchi al romanzo medio da un lato ne hanno messo in evidenza l’esangue limitatezza e ripetitività, dall'altro hanno reso familiare l’idea
che in letteratura bisogna procedere per sperimentazione di formule nuove. Entro certi limiti si potrebbe vedere anche la corrente minimalista all’interno del panorama della giovane narrativa italiana come eredità o trasformazione più diretta del romanzo medio, la cui sentimentale elegia è qui diventata implosa malinconia, referto di un sentimento; il minimalismo sarebbe al-
lora la traduzione e l'aggiornamento del romanzo medio nei termini del gusto sentimentale e dei settings canonici degli anni ottanta. Ma già il primo e migliore Cassola era un autore dalla secchezza « minimale », come già per tutti c'era stato Hemingway. Sia il gioco dei cicli dovuto a una perdita di memoria storica o ad un incremento di malizia letteraria, rimane il fatto
che il romanzo di ritorno — come il romanzo medio di trent'anni fa — si è proposto con una connotazione distintamente genera-
zionale e come espressione del proprio tempo, il che fa pensare che sia (come il precedente) destinato a durare quanto questa generazione, una volta che, dopo la fase di assestamento, i posti limitati di cui parla Pazzi siano stati definitivamente assegnati.
Per concludere, vorrei osservare come il successo della gio-
vane narrativa usi e al contempo consolidi una situazione nuo-
va nel campo della letteratura italiana, quella di una ormai raggiunta koiné linguistica, di una generazione di scrittori in gran parte cresciuta insieme alla televisione e ai mezzi di informa-
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zione, lontana da ogni influenza dialettale e padrona di un ita-
liano che è finalmente lingua anche parlata. Non per questo, mi pare, i giovani scrittori possono dirsi avvantaggiati, se non nel senso di avere un pubblico potenzialmente più vasto, però distratto appunto dalla concorrenza degli altri media. Giorgio van Straten apre Generazione, significativamente, con la scena di un bambino che all’inizio degli anni sessanta fa lo « sciopero
della parola » perché i genitori non gli fanno vedere il film del lunedi sera alla televisione, a cui lui tiene molto « perché a scuola lo vedono tutti » (15) — situazione inquietante per noi che col senno di poi sappiamo quanto chi non vede la televisione sia oggi « muto », oltreché cieco, nella civiltà dell'immagine. Rispetto alla precedente generazione, gli scrittori nati negli anni cinquanta non conoscono altro microcosmo che quello del video. Per gli scrittori del romanzo medio la nostalgia era anche quella della lingua di casa, e scrivere era accarezzare con la circospezione della bella prosa il dialetto irsuto o dolce della propria provincia, un dialetto che era comunque una fonte di energia, un ritorno al microcosmo che fruttava in ricordi e in cadenze stilistiche originali. Le nuove leve non hanno « case linguistiche », province-piccole patrie a cui ritornare; ed è questa impossibile nostalgia della parola che soprattutto per i più giovani rende i rapporti con la lingua massificata più ardui: non
c'è nessuna scorciatoia del cuore per fare guizzare il proprio italiano, che va estratto e ricostruito a fatica dalla insipida koiné della televisione e dei mezzi di comunicazione di massa. Fra la generazione primonovecentesca di chi l’italiano lo doveva imparare a scuola e quella di chi lo ha saputo da sempre e ripassato e appiattito davanti a uno schermo, mi pare che la più fortunata sia stata appunto quella di mezzo, degli scrittori del romanzo medio che hanno inverato la lingua di fuori con l’affetto per la lingua di casa.
NOTE
! «Pazzi: ti fanno pagare il secondo romanzo », intervista con Mirella Serri, Tuttolibri (La Stampa) 536, 17 gennaio 1987, p. 4. 2 L'anno d’oro è il 1985, in cui al consolidato successo mondiale di Il nome della rosa si aggiunge una viva curiosità per la giovane narrativa e a Francoforte gli editori italiani vendono moltissimi diritti per traduzioni in inglese, francese e tedesco. Cfr. Nico Orengo, « Sorpresa a Francoforte: adesso arriva il libro made in Italy », Tuttolibri (La Stampa) 472, 12 ottobre 1985, p. 1; il compiaciuto servizio di Manuela Grassi, « Made in Italy.
146
sri
Gli scrittori d'esportazione. Creatività? Oh yes », Panorama 1019, 27 ottobre 1985, pp. 106-110; e, l'anno seguente, Alfredo Venturi, « Francoforte:
la ricerca del best-seller ora punta sull’Italia », Tuttolibri (La Stampa) 521, 4 ottobre 1986, p. 1. Questa nuova attenzione per la produzione editoriale
italiana culmina nel 1988 in una Buchmesse con un padiglione tutto dedicato all'Italia e incentrata attorno al lancio del secondo romanzo di Eco, Il pendolo di Foucault; di questo rafforzato interesse per la nostra narrativa, a lungo trascurata, beneficiano ampiamente anche i giovani scrittori — cfr. Claudio Altarocca, « Alla Buchmesse l’Italia fa un buon bottino », Tut
tolibri (La Stampa) 625, 8 ottobre 1988, p. 1. 3 Il termine è stato coniato da Gian Carlo Ferretti. Cfr. Gian Carlo Ferretti, Il best seller all'italiana. Fortune e formule del romanzo di « qualità» (Bari, Laterza, 1983), p. 59. 4 Cfr. la prefazione di Cesare Garboli a Il racconto della Luna in risvolto di copertina. Pardini aveva già pubblicato racconti su riviste (Nuovi argomenti, Paragone), una raccolta con un’autorevole prefazione ma un editore sconosciuto (La volpe bianca, nota introduttiva di Giovanni Raboni,
Parma, La Pilotta, nel 1983. Ma, come il primo romanzo, 5 Si veda per
1981) e un’altra raccolta con Mondadori (I! falco d’oro) spesso avviene, il lancio in grande stile viene fatto con e la presentazione di Garboli. esempio Manuela Grassi, « Libri: il secondo romanzo di
Enrico Palandri. Com'è cresciuto Boccalone », Panorama
1986, pp. 111-113.
1041, 30 marzo
6 Per esempio L'Espresso recensisce il libro di van Straten, proponen-
dolo come giovane narratore, già nella primavera del 1986 (Mario Fortunato, « La guerra dei trentenni », L'Espresso, 27 aprile 1986, pp. 117-121) e annuncia l’uscita di Generazione con Garzanti per l'estate. Il libro esce invece nel marzo del 1987. © Cfr. Pier Mario Fasanotti, « Ghiaccio e calore », Panorama
settembre
1987, p. 18.
1116, 6
5
8 Si veda per esempio Massimo Dini, « Nuove collane: saranno minimalisti. Sull'onda della New Wave americana la Marsilio lancia giovani. Una sfida. Ma con sponsor», Panorama 1088, 22 febbraio 1987, p. 137. ? Si veda a questo proposito l'ottimo studio di Alberto Cadioli, L’'industria del romanzo. L’editoria letteraria in Italia dal 1945 agli anni ottanta (Roma, Editori Riuniti, 1981), e in particolare il capitolo IX. 10 Mondadori infatti ricompensa Busi con servizi adulatori sul suo settimanale Panorama, che appaiono in concomitanza con la pubblicazione dei nuovi romanzi. Vita standard di un venditore provvisorio di collant è in libreria nell'ottobre del 1985, e già in settembre appare su Panorama un servizio di Manuela Grassi, corredato da esibizionistiche foto di Busi:
«Avvenimenti letterari. Ecco un romanzo che scatenerà polemiche. La ballata del collant » (Panorama 1012, 8 settembre 1985, pp. 74-77); La Delfina Bizantina esce nel dicembre del 1986 e immancabilmente nel gennaio dell'87 Panorama pubblica: « Scrittori. Aldo Busi allo specchio. In nome della Madre... Protagonisti: Madre, Figlia e Spiritessa Santa. Scene: scabrose come quella dei feti lessati. Il nuovo romanzo La Delfina Bizantina tocca il vertice della provocazione. Qui l’autore spiega perché », intervista con Aldo Busi di Enzo Scolari (Panorama 1083, 18 gennaio 1987, pp. 113-116). E per tenere vivo il personaggio, a fine estate si stampa un'intervista di Aldo Busi con Maria Luisa Agnese, « Rapporto dal pianeta Thatcher. Uno scrittore italia-
147
no accusa. Io stramaledico gli inglesi » (Panorama 1119, 27 settembre 1987,
pp. 122-128).
11 Si veda a questo proposito l’analisi di Gian Carlo Ferretti in Il best
seller all'italiana, pp. 4-5. 1? Cfr. Lietta Tornabuoni in Maria Luisa Agnese, « Qui ci vuole un al-
ter Eco », Panorama 1175, 23 ottobre 1988, p. 213. 13 Cfr. Nico Orengo, « Una circolare di Arbasino contro “le prestazioni culturali gratuite”. L'autore assediato », Tuttolibri (La Stampa) 551, 16 maggio 1987, p. 3; e ancora Nico Orengo, « Dopo la polemica di Arbasino sulle prestazioni
culturali.
Tutti lo vogliono ma
lo scrittore
sa dire di no?»,
Tuttolibri (La Stampa) 552, 23 maggio 1987, p. 1. Segue l’inevitabile strascico su Panorama: Oreste Del Buono, « Pronto, chi paga? », Panorama
1104,
14 giugno 1987, pp. 134-141.
14 Mi pare un sintomo significativo l'iniziativa organizzata dalla rassegna cinematografica « Film Maker » e dalla rivista Cinema & cinema (numero 48, marzo 1987, pp. 20-44), che ha pubblicato dieci storie-soggetti di giovani narratori pensate per il cinema, da trasformarsi in sceneggiature e da filmare a basso costo, fondi e registi disponibili permettendo. In questo caso, si tratta più di una multimedialità dei giovani autori sentita come
programmatica necessità dei tempi che felicemente risolta: tutti i testi sono piuttosto mediocri e inadatti ad una resa cinematografica, come del resto mette bene in evidenza Roberto Duiz (« Cercasi “‘stories’’ disperatamente: 10 scrittori per Film-makers 88 », il manifesto, 11 aprile 1987, p. 11). 15 Si veda l’articolo di Antonio Tabucchi, « Signori, io lascio la Juventus », L'Espresso 52, 29 dicembre 1985, p. 82, in riferimento all’articolo di
Manuela Grassi, « Made in Italy. Gli scrittori d’esportazione. Creatività? Oh yes », Panorama 1019, 27 ottobre 1985, pp. 106-110. 16 Cfr. Massimo Dini, «I nostri scrittori sfondano all’estero: roman-
zi d’invasione », Panorama 996, 19 maggio 1985, pp. 126-127, e Massimo Dini e Pier Mario Fasanotti, « Letteratura: avanza una nuova generazione. I ba-
ronetti rampanti», Panorama 1005, 21 luglio 1985, pp. 104-108. 1? Cfr. Massimo Dini, « Nuove collane: saranno minimalisti. Sull’on-
da della New Wave americana la Marsilio lancia giovani. Una sfida. Ma con sponsor », Panorama
1088, 22 febbraio 1987, p. 137, e Simonetta Robiony,
«Cinzia Tani e Marco Neirotti aprono una nuova collana Marsilio tutta di
opere prime. E adesso, minimalisti all'italiana », Tuttolibri (La Stampa) 541, 21 febbraio
1987, p. 2.
18 La parabola di questa situazione, che parte dal complesso di inferiorità per culminare nella rivalsa, può essere ben illustrata da questi articoli: Sandro Ottolenghi, « Ah, les italiens. Dopo i big della finanza sbarcano a Parigi le case editrici. Per provare che l’Italia ha idee da vendere », Panorama
1089, 10 marzo
1987, p. 140; « Chiara, chi era costui? Lo distri-
buisce Le Monde. Ma in “Cento anni di letteratura italiana” ci sono lacune. E sorprese », Panorama 1113, 16 agosto 1987, pp. 95-97; Giovanni Bogliolo, «Parigi non ci incanta più », Tuttolibri (La Stampa) 572, 19 settembre 1987, p. 1. Da parte francese la stampa è stata elogiativa: si veda per esempio il lungo servizio di Péretié, Fusco, Fernandez e Vitoux dedicato alla narrativa italiana (Il nome della rosa e il film di Annaud, 1912+1 di Sciascia) « Le
goùt de l’Italie », Le Nouvel Observateur 1153, 12-18 décembre 1986, pp. 51-58; nel servizio spiccano una sezione sui giovani narratori (Dominique Fernan-
dez, «La dérive cosmopolite », pp. 56-57) e un conclusivo atto di contrizione per aver trascurato e tradotto poco e male gli autori italiani (Frédéric Vitoux, « Lisez-vous l’italien? », p. 58). Un altro servizio da segnalare dell’i-
148
talianista Dominique Fernandez è « Entrée des Italiens », Le Nouvel Observateur 1192, 11-17 septembre 1987, pp. 57-58, sulle traduzioni francesi di Diario di un millennio che fugge di Marco Lodoli e di Lunario dell’orfano
sannita di Giorgio Manganelli. !? In concomitanza con il molto pubblicizzato e forse effimero sorpasso dell'Inghilterra, Panorama è al solito il fautore del criptonazionalismo in carta patinata. Si veda Tino Oldani, « Primati economici. L'Italia è dav-
vero una grande potenza? Dai che sei quarta », Panorama 1083, 18 gennaio 1987, pp. 42-47; Mario Calderoni, « L'Italia e i 5 grandi. Quanto contano davvero la lira e la nostra economia. Fuori voi, nuovi ricchi », Panorama 1090, 8 marzo 1987, pp. 218-222; Pino Buongiorno, « 1987. Quanto conta l’Italia nel mondo. Penisola del tesoro », Panorama 1092, 22 marzo 1987, pp. 102-114;
Carlo Rossella, « Italiani all’estero. Quelli che contano a Londra. Forza Italy», Panorama 1100, 17 maggio 1987, pp. 200-201; Marco De Martino e Silvestro Serra, « Nuove tendenze. Il gran ritorno dell’Italia. Tricolore mi sen-
to », Panorama 1101, 24 maggio 1987, pp. 172-180. Nella storia del costume italiano degli ultimi 25 anni Panorama ha un ruolo, spesso nefasto nella sua mondana superficialità, di trendsetter che meriterebbe indubbiamen-
te uno studio a parte; si veda per esempio l'articolo molto critico «Il Rambo italiano non c'è (o ce ne sono troppi) » di Lietta Tornabuoni a commento della copertina di Panorama 1017, in Tuttolibri (La Stampa) 472, 12 ottobre 1985, p. 1.
20 Cfr. CENSIS, A metà decennio. Riflessioni e dati sull'Italia dall’80 all’85 (Milano, Franco Angeli, 1986), e in particolare pp. 87-93. 21 Carlo Bo, pur in modo piuttosto negativo, coglie l’implicito paradosso di una nuova generazione di narratori tecnicamente agguerrita ma
priva di tensioni ideali ed usa con acume i termini manierista e barocco per definire questa insolita situazione letteraria creatasi negli ultimi anni. In un’intervista con Claudio Altarocca, Bo lamenta che « [i] romanzi di questo tempo sono di testa, non di cuore. Non raccontano un sentimento vero,
un’emozione vera, un problema vero ». E, nel resoconto di Altarocca, Bo
aggiunge che « gli scrittori al di sotto dei quarant'anni sono tutti abilissimi, molto più di cinquant'anni fa, ma [...] giocano con la forma, come pattinassero su una superficie linguistica. Sono scrittori manieristi, barocchi, ma senza turgori: freddi, invece, lucidi artigiani della manipolazione. [...] Sono dei ‘‘conversatori’’, letterari e mondani. Un fenomeno non solo italiano, beninteso, che risponde alle esigenze del “fast food” culturale. Libri pronti che non saziano mai, da addentare di continuo nella frenesia del consumo » (Claudio Altarocca, «I narratori senz'anima: Bo accusa, i critici di-
scutono », Tuttolibri [La Stampa] 657, 10 giugno 1989, p. 3). 22 In una panoramica comunque frivola e compilativa, lascia perplessi la distinzione che Fernanda Pivano nella sua postfazione all’edizione italiana di Less than zero (Bret Easton Ellis, Meno di zero, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1986) escogita fra minimalisti (i « padri » Carver, Paley e Robison) e postminimalisti (i giovani Hempel, Ellis, Cameron, etc.), e per una
certa sazietà nei confronti dei troppi « post » di moda negli ultimi anni per cose troppo effimere anche per essere postume, e perché il termine minimalismo, per effimero che sia, nasce negli anni ottanta e si afferma in relazione ad autori come Leavitt e Minot, e pare arbitrario, nonché ingeneroso, far ricadere sui padri le etichette dei figli. 23 Si veda per esempio l’articolo del romanziere accademico John
149
Barth,
«A Few Words About Minimalism », The New York Times Book Re-
view, 28 December 1986, pp. 1-2 e 25. 24 Si veda per esempio la polemica di Grazia Cherchi, « L'amore è fuori moda? », Panorama
1094, 5 aprile 1987, p. 26, e l'articolo piuttosto criti-
co di Mary Sinatra, «Il complesso di Peter Pan », Linea d'ombra 18, maggio 1987, pp. 34-36. 25 Pier Vittorio Tondelli, « Sesso, coca e Coca-Cola », L'Espresso 50, 21 dicembre 1986, p. 143.
26 Si veda a questo proposito la bella intervista di Mario Materassi a Grace Paley « Una storia che nasce », in L’Indice 1, gennaio 1988, pp. 12-13. 27 Si pensi al caso di Leavitt, che ha pubblicato il suo Equal Affections prima in Italia (Eguali amori, Milano, Mondadori, 1988) e poi negli Stati Uniti (New York, Weidenfeld & Nicolson, 1989). 28 Cfr. quarta di copertina. 29 Cfr. quarta di copertina. 30 Cfr. quarta di copertina. 31 Cfr. quarta di copertina.
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HI GLI ANNI OTTANTA .. I GIOVANI NARRATORI
(1980 -1988)
1.- IL NUOVO ROMANZO E MANIERISMO
MEDIO
FRA MICROCOSMO
«L'altro modo sbagliato è quello di vedere la letteratura come un assortimento di eterni sentimenti umani, come la verità
d’un linguaggio umano che la politica tende a dimenticare e che va dunque ricordata ogni tanto. Questa concezione ap-
parentemente lascia più spazio alla letteratura, ma in pratica le assegna un compito di conferma di ciò che già si sa, o magari d’ingenua provocazione elementare, col piacere giovanile della freschezza e della spontaneità. Dietro questa concezione c’è l’idea d’un insieme di valori stabiliti che la letteratura ha il compito di conservare; c’è un’idea classica e immobile d’una letteratura depositaria di una verità data. Se accetta di assumersi questo ruolo, la letteratura limita se stes-
sa a una funzione di consolazione, conservazione, regressione, funzione che credo più dannosa che utile » (ITALO CALVINO, « Usi politici giusti e sbagliati della letteratura »).
Si è visto come il romanzo medio nato dalla crisi del neorealismo si sia affermato negli anni sessanta ed abbia accusato i segni di una certa stanchezza e ripetitività nel corso del decennio seguente. Con gli anni ottanta la stampa e l’editoria hanno iniziato a spostare la loro attenzione sulle nuove leve, mentre
aveva ed ha luogo un naturale processo di avvicendamento generazionale. Con la scomparsa di scrittori come Chiara, Cassola ed Arpinosi è aperto un vuoto nella produzione narrativa di buon livello, un vuoto che inizia ora ad essere colmato da nuovi autori che ripropongono, in una situazione di mercato sem-
pre più consumistica e pubblicitaria, l’immagine dello scrittore appartato e discreto. Sono i continuatori di uno scrivere rigoroso, in cui il piacere della bella prosa si coniuga a leggibilità e intrattenimento, e l'influenza di modelli classici va di pari passo con qualche concessione ad uno scrivere metanarrativamente consapevole, raffinato dalle recenti acquisizioni critiche e filo-
sofiche, o comunque da un qualche specifico tratto di relativa originalità stilistica o tematica. Antonio Tabucchi, Giorgio Montefoschi, e Francesca Duranti mi paiono i casi più rappresentativi in tal senso. Invero questi tre scrittori, che pubblicavano già negli anni settanta, non possono essere riportati alla giova153
ne narrativa tanto per motivi anagrafici quanto piuttosto per
essere stati notati dalla critica fa ed essere stati a quel punto schiera dei trentenni emergenti cato. Solo ora che questi autori
e dal pubblico solo pochi anni frettolosamente associati alla sull’onda del fenomeno di mer-
hanno raggiunto uno status indipendente l’equivoca associazione « scrittore nuovo-scrittore giovane » comincia ad essere dismessa nei loro confronti. Per
quanto inesatta, essa si è comunque rivelata efficace e persistente, capace di influenzare per molto tempo la ricezione di questi (ed altri) autori, cosi che essi non possono mancare in un'analisi della giovane narrativa. Microcosmo Elkann
e manierismo:
Tabucchi,
Montefoschi,
Duranti,
Antonio Tabucchi (n. 1943 a Pisa) si distingue per la scrittura misurata, caratterizzata dal taglio scorrevole, dal dettaglio sapiente ed essenziale, dal senso della scelta narrativa. Tabucchi
aveva esordito nel 1975 con Piazza d’Italia (Milano, Bompiani), una saga famigliare che dalla caduta del Granducato all’ascesa della democrazia cristiana nel dopoguerra abbraccia quasi novant'anni di vita di un borgo toscano. Il richiamo a Cien afios de soledad (1967) è evidente, non solo nella storia famigliare ma anche nella scrittura visionaria e sanguigna, ironica e solare, dove fiaba e riferimento storico si fondono in una denuncia militante di un’Italia da sempre paese di regime, sia stato esso il bonario regime granducale, l’autoritarismo umbertino, il fascismo o la più subdola arroganza democristiana. In lacerti che vanno dalle poche righe alle due-tre pagine, Tabucchi ricrea con grande agilità una storia popolare dai personaggi memorabili: la rassegnata Esterina, l’acquea Esperia, i gemelli Quarto e Volturno, il flaccido Melchiorre, gli eterni fidanzati Garibaldo e
Asmara. Piazza d’Italia traduce splendidamente la corposità poetica e fantastica di Garcia Marquez in un’altra realtà storica e sociale, e il borgo dell’alta maremma toscana, con la sua. gente ruvida e generosa, caustica e appassionata, in continua
lotta col potere, ben rappresenta la frattura tipicamente italiana fra paese legale e paese reale. C'è un filo di fiero anarchismo toscano in Piazza d'Italia, dove l'intolleranza alla sopraf-
fazione stilisticamente si condensa in un periodare insolito, brachilogico e discorsivo, ma non alieno da un sobrio lirismo, e che
comunque ricorre sempre al ritegno della battuta asciutta quando la storia si fa troppo densa di emozioni. 154
Piazza d’Italia, quasi la promessa di un nuovo realismo magico, ha avuto un suo degno interlocutore solo nel buon Memorie malvage (1976) di Barbara Alberti, ingiustamente dimenticato. Infatti la seconda prova di Tabucchi, // piccolo naviglio (Milano, Mondadori, 1978), sembra un insoddisfacente tentativo di riscrivere la stessa saga di un paese toscano (questa volta inerpicato sulle Apuane) in chiave realistica e di aperta denuncia; ma la voce narrante, man mano che abbandona il lirismo
di un passato famigliare e montano per avventurarsi nel tumulto della speculazione edilizia e delle rivolte studentesche degli anni sessanta, si fa sentenziosa e ripetitiva, sentimentale e retorica (ne sono esempi le estenuanti invettive sul «brodo di naselli » e gli sdilinquimenti su « l’Ivana detta Rosa »), e perde presto la sua magia.
Nel titolo dell'ottima raccolta di racconti I! gioco del rovescio (Milano, il Saggiatore, 1981) c'è un implicito omaggio al proteiforme Ferdinando Pessoa,! la cui opera è stata tradotta in italiano appunto da Tabucchi, che insegna letteratura portoghese all’Università di Genova. Più specificamente, nell'omonimo racconto iniziale, all'idea di rovescio (revés) come consapevolezza del risvolto segreto e inaspettato della vita è connessa quella, altrettanto cara a Pessoa, di saudade: la struggente malinconia per un altrove al di la’ del mare che diviene per i portoghesi «categoria dello spirito » (10), pervasivo sentimento esistenziale. Il racconto è centrato su chi del gioco del rovescio ha fatto un modo di concepire l’arte e l’esistenza, Maria do Carmo, una donna affascinante ed elusiva morta prematuramente
a cui l’io narrante è stato intellettualmente e sentimentalmente legato. Nel rievocarla riaffiorano e si fondono il mistero della sua intensa personalità e la malinconia per la sua scomparsa, revés e saudade, assieme al ricordo di una Lisbona segreta e antica, cara a Pessoa, che il narratore ha scoperto ed imparato ad amare grazie a lei. Si vedrà come queste due categorie diverranno tecniche narrative ed elementi essenziali della voce narrante e dell’atteggiamento esistenziale di Tabucchi.
Un racconto che riprende entrambi i motivi è « Dolores Ibarruri versa lacrime amare », tutto giocato sulle tecniche dell’assenza, della sottrazione dell’informazione, e dell’understatement, e proprio per questo straordinariamente efficace. Si tratta
di un’intervista, ambientata negli anni di piombo del terrorismo, di un reporter alla madre di un giovane. Tabucchi riesce, con sapiente scelta narrativa, a suggerirci un'immagine sgra-
devole del giornalista senza farlo mai parlare direttamente, come pure a farci intuire che il giovane apparteneva alle Bri155
gate Rosse ed è stato ucciso dalla polizia. Anche se Tabucchi riporta solo le risposte della madre, si comprende che il giornalista vorrebbe da lei la genesi e le prove, possibilmente da rintracciarsi sin dalla fanciullezza, della criminalità del figlio
— un lacrimoso scoop. Ella invece finisce col rievocare attraverso struggenti digressioni un ritratto del marito morto, un dimenticato e schivo eroe delle Brigate Internazionali nella guerra di Spagna. Padre e figlio sembrano molto simili nella loro commovente devozione per la donna e nel loro amore per la vita e la giustizia, e cosi il trasporto e la freschezza della voce della madre lasciano il lettore, a intervista conclusa, con un im-
».* Ma plicito e politicamente inquietante « gioco del rovescio belle sono tutte le voci, soprattutto quelle di donne e di bambi-
ni che Tabucchi ricrea con virtuosismo ventriloquo. Si ricordi il solitario mondo incantato, i giorni estivi pigri e immobili nella villa in campagna dei bambini di «I pomeriggi del sabato », che fa pensare ad una certa narrativa del Sud degli Stati Uniti (per esempio, The Member of the Wedding di Carson McCullers). Tabucchi ha recentemente ripubblicato I/ gioco del rovescio (Milano, Feltrinelli, 1988), corredandolo di una prefazione un po’ compiaciuta e di tre nuovi racconti. Il primo, « Il gatto dello Cheshire », è molto suo nel rapporto elusivo, fatto di malinconia e
di ricordi agrodolci, del protagonista col proprio passato, e nella complice e repentina compulsione (al solito, il rovescio) a non affrontarlo nel presente, a farlo rimanere solo passato, limitandosi semmai a spiarlo a distanza precauzionale (un treno in movimento). Gli altri due si rifanno a quella recente propensione a ricreare o creare narrativamente episodi minimali delle vite di artisti illustri (cfr. Morazzoni e Volpi in questo capitolo), e costruiscono episodi «in costume » intorno a dissimulati personaggi storici (Dino Campana in « Vagabondaggio »; Pindaro
in «Una giornata a Olimpia ») per poi « sorprendere » alla fine il lettore con la loro identità. Molto meno convincente è Donna di Porto Pim e altre storie (Palermo, Sellerio, 1983), sostenuto solo dall’intenso e allucinato racconto eponimo, per il resto svagata e raccogliticcia evocazione folkloristica di fantastiche Azzorre, che Tabucchi
cerca di fare assurgere al rango di Encantadas melvilliane in un calligrafico e pretenzioso centone fornito persino di citazioni sulle balene stile Moby-Dick.
Il racconto lungo Notturno indiano (Palermo, Sellerio, 1984), forse ispirato a «L'accostamento ad Almotàsim » (« El acerca-
miento a Almotàsim»,
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1935, in Ficciones) di Borges, narra di
un viaggio in India alla pretestuosa ricerca di un amico in fuga fra ospedali-lazzaretti, grandi alberghi e centri di teosofia. Notturno indiano ha l'atmosfera lucida e rarefatta di una lunga notte insonne e termina con un giocoso twist metanarrativo da cui sì ricava un'immagine del romanziere come seducente presti-
giatore e mentitore che scompone, ricompone ed altera con metafisica sapienza gli episodi della propria vita. Il racconto coniuga la saudade dell’europeo in terra sconosciuta” con il revés ironico del finale, in cui il narratore propone appunto alla sua bella interlocutrice una versione capovolta della storia che avevamo letto sinora: il resoconto di un « rovescio » che confluisce e si conclude armonicamente, nel presente dell’io e di Chri-
stine, nella forma concreta ma sempre sfuggente del conto della cena appena consumata che è stato misteriosamente già pagato, forse dal sornione narratore, forse dall’amico-doppio che secondo il rovescio non è cercato ma cerca il narratore, forse
più semplicemente da un galante ammiratore di Christine. La qualità di Notturno è proprio questa capacità di lasciare aperte più soluzioni senza per questo deludere o confondere, di fare in fondo intuire il gioco fine a se stesso senza confermarlo sfacciatamente; insomma il saper trasformare la disorientante eluività in qualcosa di naturale e di gradito al lettore (come lo era una volta l’esigenza di uno scioglimento) creando un clima impalpabile di elegante e inquieta réverie.
Probabilmente da una sua escrescenza Tabucchi ha ricavato una breve storia dal finale prevedibile, «I treni che vanno
a Madras »,° ora parte della raccolta Piccoli equivoci senza importanza (Milano, Feltrinelli, 1985), che fa appunto di una variazione sul tema del rovescio, l'equivoco, l’esile filo condutto-
re di una collezione alquanto disparata per atmosfere, ambienti, e allusioni
letterarie.
Su alcuni
racconti,
come
era già
accaduto in I/ gioco del rovescio, incombe una deprivazione impalpabile, sofferta in silenzio, la morte (o la mancanza) del padre-scrittore. Anche Piccoli equivoci senza importanza è immerso nella saudade: vi fluisce una memoria malinconica e un po’ voyeuristica, un sentimento struggente della vita come appuntamento mancato, viaggio e ripetizione. Le storie si svolgo-
no su uno sfondo spesso marino, che passa abilmente dalla Toscana alla Francia, dall'India a Lisbona e a New York. Questi racconti sono tutti sottesi, fin nel titolo della raccolta,° da un
pervasivo uso dell’understatement, da un ritegno narrativo che tende a minimizzare il fatto narrato; mi pare significativo che
il titolo di Tabucchi riecheggi, sia pure solo in parte, quello di una collezione di Grace Paley, che ha precorso di molto il mini-
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malismo degli anni ottanta: The Little Disturbances of Man (1959). La scrittura perfetta e preziosa, l’amore per il rifacimento e la suggestione letteraria sono le vette e i limiti di Piccoli equivoci che non si avventura mai per vie nuove ma tocca, se pur sapientemente, registri già conosciuti. Come in «Stanze », mirabile bozzetto di malinconia campestre e di devozione famigliare, la grande tentazione di Tabucchi è la prosa d’arte. Si nota semmai un sensibile cambio di tono fra i primi sei racconti — racconti della malinconia e della memoria, della nostalgia e della scomparsa narrati in toni lievi e soffusi, quasi confessionali — e gli ultimi cinque che, a cominciare da «Il rancore e le nuvole », hanno voci e intrecci più concreti e intensi (temi del rancore, della prigionia, della vendetta, del tradimento e della finzione), mentre il monologo cede il passo alla conversazione e il fuoco narrativo dal passato si-concentra sul presente. Non meraviglia che Tabucchi, dopo un magico romanzo-saga (Piazza d’Italia) ed una seconda prova in tale direzione molto meno riuscita (I! piccolo naviglio), abbia scelto la misura a lui più congeniale del racconto di semplici situazioni o di atmosfera. In esso le suggestioni e le reticenze che gli sono care non sono sottoposte all'usura dell’intreccio, ma vengono piuttosto equilibrate e valorizzate assieme alle qualità narrative del Tabuc-
chi migliore: la raffinata ricerca stilistica e quella splendida ma fragile voce della memoria sospesa fra meditazione e nostalgia. Il filo dell'orizzonte (Milano, Feltrinelli, 1986) è appunto, più che un romanzo, un racconto lungo: un racconto poliziesco che termina senza soluzione, nello stile del giallo letterario (si pensi al Todo modo di Sciascia, ma anche a Comici spaventati guerrieri di Stefano Benni). Una controllata voce narrante in terza persona fra l’ironico e il malinconico, echi chandleriani, allusioni metanarrative e metafilmiche, una Genova assolata, vuota e decrepita, sono gli elementi salienti di questo ricercato de-
tective tale esistenziale. Si può facilmente intuire come la mancata soluzione e la mesta stanchezza che pervade /l/ filo dell'orizzonte siano forme di revés e di saudade. Per questo esso ricorda Notturno indiano, con cui ha in comune anche la ricer-
ca delle tracce di uno scomparso che poi si fa personale quest esistenziale. Il filo dell'orizzonte è trascorso da una sorta di scoramento agrodolce, da Marlowe invecchiato, che si coagula in una rete di aggettivi dominanti (stanco, rassegnato, pacato, indolente, sciatto, infingardo) che rifuggono da ogni vitalismo. Come in un Chandler crepuscolare, il giallo diviene una scusa per un’indagine sulla vita e sui suoi oggetti, o meglio sugli oggetti che
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dell’uomo sopravvivono alla morte, segni senza voce in attesa di una mano pietosa che ricostruisca una traccia e un senso.
Se l’inizio di metodica e distaccata consuetudine obitoriale con la morte può ricordare per un momento il più puro hard-boiled come l'incipit di The Lady in the Morgue di Jonathan Latimer, Tabucchi
prende
subito una
strada
diversa,
e una
frase di
«Anywhere out of the world » (Piccoli equivoci senza importanza) come « spiare attraverso le vecchie tendine di pizzo » (78) è un po’ il leitmotiv di questa indagine umbratile e voyeuristica che indugia in sbrecciati villini piccolo-borghesi, nel laboratorio demodé di un sarto in pensione (e viene subito in mente « La giacca stregata » di Buzzati), in un ufficio polveroso che reca, chandlerianamente, una scritta smerigliata sulla porta a vetri, in un vecchio salotto da Nonna Speranza ingombro di foto e di oggetti, in un cimitero monumentale e deserto. Il protagonista Spino spia le tracce di vita dell’altro lui che è morto (non è ogni poliziesco un gioco di doppi, una riluttante ma necessaria immedesimazione
del detective con il suo antagonista?), e sente
al contempo che qualcuno lo spia, un uomo, un gabbiano o, più banalmente, il lettore. Di star « spiando » un romanzo che è intriso di altri romanzi, consapevole di cinema e in genere del potere evocativo dell’immagine, il lettore certo se ne accorge presto; le suggestioni metanarrative e metafilmiche non mancano. Dalla scena in cui Spino e l’amico giornalista Corrado assumono consapevolmente i ruoli classici del detective ficcanaso e del « capopagina cinico » (49), ai ricordi di vecchi attori e vecchi film (Mirna Loy, Bogart, « Strettamente confidenziale »,
«La corrazzata Potemkin »),
ad affermazioni come «[p]er un attimo gli è parso che anche lui [Spino] stesse vivendo la scena di un film » (91), fino all’ingrandimento-traccia alla « Blow-up » (riecheggiato anche dalla copertina) che-fa affiorare su una vecchia pellicola una famiglia scomparsa (54-58).” Nel fatiscente microcosmo di questa indagine irrisolta Spino guarda, si guarda ed è guardato (« ora qualcuno che lui non poteva vedere forse lo stava osservando » [93]),
cosi che la non-soluzione diviene un semplice riflettersi e annullarsi di immagini, un «avanzare nel buio ».
Nel racconto l’uso improvviso della terza persona al passato prossimo senza il pronome personale espresso stacca col presente della narrazione descrittiva e distanzia il protagonista Spino dall'ambiente in cui agisce e dalle proprie azioni, creando un effetto straniante che aumenta le suggestioni del testo. Lo sconosciuto Carlo Nobodi è morto solo da pochi giorni e, dice Spino, « le persone che lo hanno conosciuto tacciono, [...] comese non fosse mai esistito, gli stanno cancellando il pas-
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sato » (79). Il fatto che il « doppio » di Spino, Carlo Nobodi, fosse stato in vita, con tutta probabilità, un terrorista propone l’eversione come una. strada che negli anni settanta poteva essere imboccata facilmente da chiunque, anche da un uomo dimesso
e non politicizzato come Spino, e che con la fine degli anni di piombo viene fatta oggetto di un tentativo di rimozione collettiva. Come Carlo Nobodi, Spino vive per noi nel passato prossimo, un passato che è appena stato ma che rischia in ogni momento di essere cancellato in non essere. Contro questa possibile cancellazione del passato dell’alter ego e suo deve essere vista tutta l’azione di Spino nel racconto. Come suggerisce l’epigrafe,8 Spino agisce e fruga nel passato perché Nobodi, il suo nessuno, possa continuare ad esistere. Ed anche per questo il lettore lo lascia mentre egli si addentra ridendo nel buio di un capannone del porto, con «l’assoluta certezza che in quel luogo non c’era nessuno » (105): solo cosi l’elusiva narrazione — sospesa tra possibile agguato mortale, vana ricognizione e gioco di parole — può rimanere aperta e non essere consumata dall’irreversibile ultima pagina di una soluzione.’ Tabucchi in I! filo dell'orizzonte traduce in tecniche gradevoli e sfumate gli aspetti più dissonanti, rispetto al romanzo tradizionale, della narrativa postmoderna: mostra la finzione
del narrare ma rispetta l’integrità e la piacevolezza del racconto; delude il lettore che si aspetta una spiegazione razionale del mistero ma allo stesso tempo lo blandisce con un crepuscolarismo agrodolce e suadente, a tal punto da rendere la logica soluzione tipica del giallo atmosfericamente inappropriata rispetto alla « dissolvenza » emotiva e metafisica che viene proposta; esibisce elementi innovativi attenuandoli però all’interno di un contesto raffinatamente tradizionale. Se in Tabucchi c’è sempre la levigata abilità del narratore di classe, al contempo chi lo legge non si sottrae mai al sospetto di una sensibilità fin troppo consapevole e accorta, forse connaturata alla sua professione di critico, a proposito di ciò che letterariamente «va» — ciò che Pampaloni argutamente chiama la « ruffianeria » dello scrittore colto « che sa dove tira il vento ».!° Aspetto diverso ma complementare di questa consapevolezza è quell’urgenza che ormai ogni scrittore arrivato ha di essere presente sul mercato, in parte scelta personale, in parte pressione di un’industria editoriale sempre più quantitativamente esigente, che sollecita ormai pubblicazioni a scadenze quasi annuali. Solo cosi mi pare si possa giustificare un’opera come / volatili del Beato Angelico (Palermo, Sellerio, 1987), raccolta minuta che segue quel vezzo di Sciascia e di Sellerio per
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lo scampolo letterario, la chicca di poche pagine faticosamente costruita in piccolo libro. Lo stesso Tabucchi stenta nella sua accattivante nota introduttiva a trovare un motivo per la raccolta che non sia quello del dare un loculo definitivo a questi «organismi fetali [...,]un “rumore di fondo” fatto scrittura » (9,
10). I volatili del Beato Angelico è cioè un tour guidato nel laboratorio dello scrittore, dove i protagonisti sono i « romanzi e racconti mancati [che h]Janno natura larvale » (9). Lo mostra bene la storia omonima
in apertura, in cui tre uccelli disarmonici
e vagamente antropomorfi, benevola versione delle arpie, arrivano stremati a Firenze, nell’orto di San Marco, per trovare una
loro armonia e compiutezza nelle riproduzioni dipinte che di essi fa Fra’ Giovanni. Negli affreschi gli sgraziati volatili divengono angeli, mentre Fra’ Giovanni, grazie anche a loro, guadagna l’appellativo di angelico. Il racconto non è quindi incompleto in sé, ma è piuttosto la metafora della trasfigurazione artistica di ciò che sembra appunto goffo e incompleto; è l’apologia di un’arte che, molto minimalisticamente,
è fatta di
«schegge alla deriva » e parte dalle «zone interstiziali del nostro quotidiano dover essere » (9). Seguono tre lettere (e tutta la raccolta sembra sfruttare a suo favore la brevità del genere epistolare), di cui la più interessante (« Lettera di Mademoiselle Lenormand, cartomante, a Dolores Ibarruri, rivoluzionaria »)
riprende uno dei migliori racconti di Tabucchi (« Dolores Ibarruri versa lacrime amare », Il gioco del rovescio); viene poi un bel calco borgesiano (« L'amore di Don Pedro »), un frammento non molto felice (« Messaggio dalla penombra »), e una corrispondenza fra un teosofo indiano e Tabucchi (« La frase che segue è falsa. La frase che precede è vera ») iniziata a causa di Notturno indiano. Da segnalare l’ironico « Le persone felici », che ricorda, nella sua suggestione di «vendetta accademica », il più denso e risentito « Il rancore e le nuvole » (Piccoli equivoci senza importanza). Lo struggente « Gli archivi di Macao » rinnova quella capacità di Tabucchi di dare senso compiuto alla malinconia — da sempre sentimento « lento » — in un racconto di poche pagine, attraverso un serrato confronto fra presente e passato. Il conclusivo « Ultimo invito » è una disquisizione sul suicidio che ha l'andamento ironico e paradossale del trattato sull’assassinio come arte di Thomas De Quincey, e sembra appunto invitarci a ricordare che la voce di Tabucchi si gioca tutta sulla prospettiva ironica e insolita ma mai stridentemente tragressiva e sull’equilibrio raffinato di una malinconia struggente e un po’ mortuaria, insomma il revés e la saudade. Appropriatamente quest’ultima Tabucchi non esita a consigliarla come letale ritrovato per un suicidio da compiersi sulle lunghe 161
distanze, da centellinarsi quotidianamente guardando in silenzio il mare e il filo dell'orizzonte da una panchina di Lisbona. Eppure, nonostante il benefico influsso dell'amica ironia, chi legge, arrivato in fondo all’esile raccolta, non può scacciare un pervasivo senso di frammentarietà, di inconsistenza, che
ha poi un suo riflesso nella presenza di tanti fantasmi anche all’interno di questi «romanzi mancati ». Ma allora, nonostante tutto, si potrebbe sostenere che / volatili del Beato Angelico
riesce proprio perché amplifica fino a farne linee tematiche quelli che dovrebbero essere i suoi punti di debolezza? Direi di no. Anche perché si parla tanto di spiriti e di voci dall’al di là, c'è qualcosa di naturalmente postumo in questi racconti, come c’era una volta nelle note che rapaci curatori trovavano nel fondo dei cassetti dei grandi scrittori defunti e che assennate vedove costringevano a pubblicare solo in edizioni numerate, alla memoria, per i membri della famiglia e gli amici più cari, perché ricordassero il caro estinto con qualcosa di intimamente suo (appunti, riflessioni, frammenti), come una letteraria ciocca di capelli. Lungi dal volere addensare su Tabucchi l'ombra terminale di una saudade sinora eccellentemente amministrata, per il suo gusto e per la sua ironia, avrei preferito
che fosse avvenuto per questa raccolta, fra moltissimi anni, proprio cosi. Simili perplessità destano I dialoghi mancati (Milano, Feltrinelli, 1988), due esili e narcisistici monologhi per il teatro che
mettono in campo autori cari a Tabucchi come gli elusivi Pirandello e Pessoa, e ruotano attorno a temi ormai familiari: la
«mancanza » (come per i «romanzi mancati » di / volatili del Beato Angelico), qui nella forma precipua di dialogo non avvenuto, la presenza/assenza, la finzione e la memoria.!! Semmai, « Il si-
gnor Pirandello è desiderato al telefono » e «Il tempo stringe » confermano quella versatilità nella scelta dei generi letterari e quella propensione a rielaborare liberamente personaggi storici ed accadimenti minori o solo possibili che si erano già riscontrati nelle opere di altri critici-scrittori. Si pensi per esempa allo Stadelmann e alle Illazioni su una sciabola di Claudio agris. Per concludere, mi pare che Tabucchi sinora abbia dato il suo meglio nello stupendo romanzo d'esordio, Piazza d'Italia, che certo meriterebbe una riedizione, e nella misura del rac-
conto lungo (Notturno indiano e Il filo dell'orizzonte), mentre le raccolte di racconti brevi — à parte l’omogeneo e, in termini di poetica, fondamentale // gioco del rovescio — risultano al loro 162
interno troppo frammentarie e qualitativamente diseguali perché ciascuna di esse possa essere considerata globalmente convincente. Più di ogni altro in questo gruppo di nuovi autori, Tabucchi risulta scrittore di transizione, consapevole di essere su un crinale e capace di giocare su entrambi i versanti, distillan-
do con raffinatezza minimalista le malinconie e gli umbratili umori confessionali del romanzo medio in racconti che pure sono aperti alle arguzie metanarrative e postmoderne dei giochi del rovescio. Forse crepuscolarismo di fine secolo, ironico ripiegamento e guardinga avanscoperta; comunque sembra giusto azzardare che Tabucchi è lo scrittore più significativo e interessante fra quelli che oggi cercano di conciliare vecchio e nuovo. Giorgio Montefoschi (n. 1946 a Roma) esordisce nel 1974 con Ginevra (Milano, Rizzoli), un romanzo breve onirico e atmosferico, ma dalla precisa geometria ossessiva di immagini e di ricorrenze che molto ricorda L'invenzione di Morel (La invenciòn de Morel, 1940) di Adolfo Bioy Casares. In una villa con
parco, alla periferia di una grande città (mai nominata, ma chiaramente Roma), quattro giovani consumano i loro giorni in at-
tività senza senso apparente, aspettando le visite o le istruzioni di un ricco signore dallo sguardo freddo e sereno che abita a Ginevra e, mirabile banalità, porta il nome di Godot. Con Godot, che oltre che della villa sembra proprietario dei loro desti-
ni, hanno fatto indimenticabili viaggi e sperano di farne altri, ma Godot non torna, e Marcello gli manda a Ginevra accorati messaggi registrati, Leone deperisce visibilmente e poi scompare, la splendida Jessica interrompe le sue misteriose uscite notturne, e anche il narratore, che passa il tempo chiuso nello studio di Godot a guardare vecchi film e documentari, infine sembra disperare. Come ogni romanzo dall’aura magica e fascinosa, Ginevra basa il suo potere sulla capacità di irretire il lettore nel suo gioco di seduzioni e suggestioni, e tutto ciò non sempre riesce. Man-
tenere un’atmosfera è un'impresa di funambolica precisione e basta un’impercettibile smagliatura perché la voce dell’alienato io narrante acquisti coloriture fra lo stupefatto e il demenziale e faccia precipitare l’allusivo nel ridicolo, l'intenso nel banale.!? Ma, a parte alcune cadute, Ginevra ha una sua indub-
bia qualità coinvolgente a cui contribuisce, nonostante tutto, l'ormai abusato espediente di sottrarre al lettore ogni esplicito significato o conclusiva soluzione in questo ricorrere di azioni e sogni dei quattro personaggi, che si spiano a vicenda, intrec163
ciano fra di loro silenziosi amori e risentimenti espressi in minimi gesti, indulgono in manie e rituali ossessivi, deperiscono e sognano nella magnifica villa con parco progettando viaggi improbabili e, naturalmente, aspettando Godot. Sembra che tut-
to ruoti intorno al quarantenne gentiluomo ginevrino, divino e assente provveditore del loro immaginario, e che senza di lui anche le fantasie e i ricordi possano infine esaurirsi, portando ad un’anoressia di immagini dietro cui c'è la morte (cfr. 142-43); e infatti la morte viene più volte evocata dal narratore e da Marcello in sogni descritti con allucinato nitore. Infine il vero protagonista di questo gioco jamesiano è, si capisce, il vuoto al centro, la struttura allusiva che allude solo a se stessa, l'esercizio
mirabile. Non si può non rimanere favorevolmente impressionati da ciò che Montefoschi riesce a fare nella sua opera prima con del materiale che è in fondo di trovarobato letterario (la villa di mistero e di delizie, l’aspettare Godot, l’intrecciarsi di sogno e realtà), mostrando una notevole sapienza tecnica già acquisita e una predilezione per la narrativa statica e di atmosfera che verrà indubbiamente perseguita. Il Museo Africano (Milano, Rizzoli, 1976) riprende situazioni e temi già apparsi in Ginevra, con cui condivide anche precise strategie narrative. Anche qui la storia ruota intorno a tre uomini e una donna che hanno viaggiato insieme, ai loro complessi rapporti, e all’ossessiva necessità di scoprire e analizzare il senso di quell’esperienza. Il solito narratore anonimo racconta di un viaggio negli Stati Uniti con gli amici Antonello e Gloria, e con il sentenzioso e irritante Kuncewitz, contrario al viaggio ma ciò nonostante parte di esso. I quattro in un tour de force compiuto in aereo ed in auto coprono migliaia di chilometri,
passano dalle grandi città del Nord-Est ai deserti dell'Arizona e del Nuovo Messico, e presto si comprende che il loro è un tentativo di dilatare il tempo, esorcizzare e allontanare la morte attraverso la molteplicità e l’intensità della vita. Il viaggio contro il tempo è analizzato in tutta la sua fenomenologia di ansia, anticipazione, distacco dalla propria routine, avventura, separazione e nostalgia, e diviene metafora del vivere, esperienza mistica e totalizzante — infine esperienza letteraria, perché è il virtuoso esercizio del raccontare che invera il viaggio, dà ad esso profondità e spessore. Ma l'America del Nord è presto sconvolta da una misteriosa catastrofe e i viaggiatori, fra cui i rap-
porti si sono fatti sempre più tesi (Kuncewitz si isola dagli altri; il narratore si scopre perdutamente innamorato di Gloria;
Gloria litiga con Antonello), dopo aver raggiunto a tappe forzate una New York spettrale, ritornano in Europa. Antonello
164
scompare (si ricordi Leone in Ginevra), Gloria va a vivere a Londra, il narratore trova un lavoro al Museo Africano di Roma e
Kuncewitz si ritira a vivere a Ober, co sperduto fra i monti (già apparso cello mandava a Godot in Ginevra) scorrere. E da qui l’ultima parte del
un antico villaggio austrianelle registrazioni che Mardove il tempo sembra non romanzo (« Ritorno: Ober »),
composta dalla corrispondenza fra Kuncewitz e il narratore,
i quali, ad anni dal memorabile viaggio, si scrivono prima in modo guardingo, poi in modo sempre più intenso e accorato, per scoprirne il senso. Kuncewitz, da sempre avvocato di un’«eternità » ottenuta attraverso una vita semplice e ripetitiva, cerca
di persuadere
il narratore,
a suo
tempo
sostenitore
del viaggio americano come strenua sfida al tempo, a venire ad Ober. Ma questi ha a sua volta raggiunto un anestetico equilibrio nella sua vita romana scandita dal lavoro mattutino al museo e da lunghe passeggiate pomeridiane a Villa Borghese (che era il «parco comunale » che appariva anche in Ginevra), e il carteggio (come del resto la polarizzazione fra Nord e Sud come luoghi ideali del vivere) si conclude in un nulla di fatto. Da questo epistolario di stasi traspaiono, da entrambe le parti, inquiete memorie del viaggio, patetiche confessioni dei segreti di allora, paure e nostalgie irredente, e con esse la certezza che neppure la monotonia dell’oggi garantisce la pace col tempo e la vita indolore. Con Il Museo Africano Montefoschi conferma le qualità e i limiti di Ginevra: da una parte un virtuosismo descrittivo di altissimo livello e la capacità di creare trame e atmosfere a volte suggestive partendo da situazioni minimali, dall'altra una mancanza di ironia, una compiaciuta letterarietà dei personaggi e del loro sentimentale sentire che riducono l’assenso del lettore (si veda soprattutto il lungo e poco plausibile epistolario), che apprezza lo stile ma intravede anche l’esiguità e la sostanziale artificiosità del messaggio. Roma, già presente negli altri romanzi, è forse la vera e accattivante protagonista di L'amore borghese (Milano, Rizzoli, 1978). In una Roma sempre diversa e sempre splendida, l’io narrante, agiato romanziere tradizionale, sposa Sara ma inizia presto una relazione con la migliore amica di lei, Luisa, che conti-
nua anche dopo il matrimonio di Luisa con il medico Daniele Limentani. Per molti anni le due coppie si frequentano senza ombre, ma la morte del padre di Daniele, il vecchio professor Marco Limentani, con cui il metodico e non molto attivo narra-
tore soleva intrattenere fervide e sempre uguali discussioni, da una parte segna la fine dei tempi felici (entrambi i matrimoni 165
si dissolvono), dall'altra fa nascere in lui una dapprima dolorosa ma poi più matura e serena consapevolezza di sé e degli altri. Mi pare che il romanzo indichi una nuova coscienza dei pericoli della letterarietà da parte di Montefoschi. Infatti, mentre i punti forti e certi leitmotiv del suo scrivere permangono, le ambizioni metaforiche della struttura vengono ridotte e direi consapevolmente mortificate nella storia rigorosamente mimetica di un adulterio borghese. In questa narrazione a tutto tondo, dove Montefoschi può valorizzare al massimo le sue rare qualità di grande descrittore della vita (gli stupendi e minuti passaggi di stagione, i quartieri di Roma, gli interni di abitazioni), la precisione dello sguardo nutrita dalle ragioni del cuore fa scattare una misteriosa verità poetica, che negli altri romanzi veniva inibita proprio dalla programmatica allusività del disegno. Questo sentimento è affine a quella serena meraviglia per l’armoniosa pienezza di vita delle cose che il protagonista raggiunge attraverso l’esperienza del lutto, stemperando il suo privato dolore in una mistica comunione con la natura: «[...] poi-
ché credo che il grande momento sia giunto e una luce cosi intensa possa illuminare anche un uomo comune
come me, an-
che un uomo che ha avuto un’esistenza comune e chiusa ed egoista come la mia » (328). E cosi, dopo aver pubblicato un romanzo realista di successo (Vita di una famiglia borghese) ed aver a lungo considerato una sua continuazione, il narratore pensa poi di scrivere un libro sulle stagioni, su Roma, e infine una grande opera sulla bellezza della natura è sulla felicità della vita che dimostri come «l'armonia dell’universo riposa su un disegno divino » (334). Ciò non è in fondo molto diverso da quello che Montefoschi fa nelle pagine migliori dei suoi romanzi. In L'amore borghese il riflesso del romanzo nel romanzo non genera, come si potrebbe temere, quella situazione di iperletterarietà che era già affiorata in Ginevra e in Il Museo Africano. Direi anzi che, anche se si può nutrire qualche perplessità sulla conclusiva vocazione panteistica dell'io narrante, nel complesso, all’interno del romanzo, egli ci offre una rappresentazione cosi concreta e fattuale del lavoro dello scrittore da crea:
re piuttosto ironici riverberi metanarrativi, che sono felici novità nel serio raccontare di Montefoschi. Le spesso comiche conversazioni di poetica con Marco Limentani contribuiscono in tal senso, per quanto certi tratti ripetitivi ed eccessivi attribuiti al vecchio professore rischino talvolta la caricatura. Se c'è un salutare stacco dai primi due romanzi fin troppo costruiti, vale però la pena di notare anche una rete di ricorrenze da cui emergono alcuni nodi profondi del mondo narrativo di Montefoschi: una precisa topologia romana (Villa Bor166
ghese, il Giardino Zoologico e Via Aldovrandi erano già in Il Museo Africano e più mascheratamente in Ginevra) e un certo sommesso permanere del tema del viaggio; un narratore in prima persona che sembra riprendere e sviluppare la voce e la vita metodica dei due precedenti; una predilezione per i complessi rapporti fra quattro personaggi e per segrete triangolarità amorose; una partitura narrativa in tre movimenti che deriva la sua
fluida musicalità dalla descrizione della natura e dello scorrere delle stagioni; una figura femminile particolarmente riuscita (prima Jessica e Gloria e qui, più delle altre, Luisa) proprio perché « lasciata [con] una piccola parte di inafferrabilità, o meglio di incompiutezza e di segreto » (140), come appunto, con malizia metanarrativa, Montefoschi fa dire al suo io narrante romanziere a proposito del modo in cui ha costruito i personaggi in Vita di una famiglia borghese. Purtroppo l’esito positivo di L’amore borghese non si ripete in La felicità coniugale (Milano, Rizzoli, 1982),!3 dove la riu-
scita storia di coppie del precedente romanzo si espande ed estenua in un inerte e dettagliato affresco dell'amicizia fra due famiglie, che vengono seguite dal primo dopoguerra ai nostri giorni. È insomma quella continuazione di Vita di una famiglia borghese (che l'anonimo narratore di L'amore borghese progetta di scrivere per tutto il romanzo per poi saggiamente non far-
ne di niente) che infine Montefoschi scrive in prima persona, moltiplicandola per due. Cosi il lettore segue la vita dei Guidetti e degli Scalia!* a Roma per due generazioni, sospetta amori illeciti, presenzia a nascite e morti; il che potrebbe sembrare forse non particolarmente originale ma per lo meno coinvolgente. Ma data la classicità delle sue scelte tematiche, Montefoschi è giocoforza co-
stretto ad essere « nuovo » almeno nello stile; ed è proprio il taglio prezioso, ellittico, onirico e rarefatto del raccontare che
affossa la saga: una parodia jamesiana in versione tardo-modernista dove la conversazione banale deve essere resa sospirosamente allusiva a tutti i costi, frammentandola oltre ogni limite, e dove il crepuscolarismo contenuto di L'amore borghese diviene pulviscolo cronachistico in una narrazione perduta nella routine del quotidiano, intrisa di nostalgie sentimentali e leggiadri stordimenti, crivellata da indulgenze fabulatorie statiche e ripetitive. Montefoschi, dai tempi di L'amore borghese assertore appartato e un po’ snobistico del romanzo di ambienti e di atmosfere, di un rivisitato grande realismo ottocentesco («Il trascorrere del tempo, la solitudine, i rapporti tra le fami glie, tra padri e figli, sono poi i contenuti che ritornano in ogni 167
mio romanzo.
E mentre scrivo mi piace pensare che esistono
da sempre. Costanti e inattuali »),!° rischia insomma un'involuzione alla Cassola: quell’ossessivo e analitico restringimento dell'ottica narrativa che avviene quando si è compiuto il serioso errore di scambiare il grande romanzo con il romanzo degli intramontabili valori e del buon senso narrativo, e si finisce cosi
con lo scrivere un trasparente riadattamento del romanzo medio. Tanto più che Montefoschi ha identificato questi immutabili valori con quelli di un’alta borghesia romana inerte e annoiata, volutamente ritratta in un’età sfumata per garantirne
l'imperitura e universale icasticità (ma gli anni sono quelli cinquanta-settanta), come se le ansie a base di incomunicabili-
tà e di adulterio di questi personaggi fossero il distillato più prezioso dell'esperienza umana. Cosi l’abbracciare più generazioni, lungi dal fornire una prospettiva storica, un’epopea borghese alla Buddenbrook, si sfalda e frammenta in cronachismo sentimentale, come appunto accadeva al tipico romanzo medio.
Basti come esempio l’estatico e dolciastro finale, dove il peccatore Mario Guidetti muore in ospedale, non senza un’ispirata allusione ad un’ineffabile ma in fondo cattolica redenzione: Com'è rapido, invece, il cielo! Come si apre veloce! Laggiù, verso i Colli Albani, verso Cisterna, cioè, e verso il mare, è addirittura tutto azzurro e una spirale di vento tiepido, il vento di giugno, sembra volatilizzare le nuvole e poi risucchiare verso l’alto l’aria umida del giardino. E infatti un raggio di sole si posa proprio sugli occhi serrati di Mario Guidetti. Nella sua stanza, però, è solo e ormai non entra più nessuno. E cosi nessuno può accorgersi che ha il volto sereno: come se un misterioso signore, atteso tutta la vita, lo avesse preso e chiamato a sé (279).
Cose molto simili, e quindi più in breve, si devono dire per La terza donna (Milano, Garzanti, 1984), storia di un matrimonio in crisi, analizzato dal punto di vista della figlia, Francesca
Trotta, e dei suoi genitori, il freddo e goffo negatore della vita Federico e l’ostinata e sensuale Laura, il tutto nell’usuale cor-
nice romana (ricorrono luoghi e quartieri già presenti negli altri romanzi e sempre belle descrizioni di stagioni). Il taglio della narrazione, nonostante il gioco delle tre ottiche, si fa meno
rarefatto rispetto a La felicità coniugale, ma aumenta invece la componente sentimentale e languorosa, proliferano gli smarrimenti e le disperazioni, i punti interrogativi, di sospensione ed esclamativi. Le tematiche della vita famigliare e dell’incomunicabilità vengono scandagliate con grande dovizia di particolari, ma i coniugi, e specialmente il marito, barricati per tre-
cento pagine nelle loro posizioni di difesa e di stallo, non con168
vincono; invero non si capisce mai appieno il motivo di tanta autodistruttiva incomprensione. Il romanzo si sblocca infine in
modo prevedibile, con la tortuosa redenzione e morte per malattia incurabile del reprobo Federico Trotta nel solito ospedale. Seguono un rapido accenno alle imminenti nozze di Francesca con un amico di infanzia e un conclusivo commento sul mistero della vita: « Ma è cosi che finisce il viaggio, per sempre? Chi lo sa! Chi lo può sapere! » (313). Lo sguardo del cacciatore (Milano, Rizzoli, 1987) riprende temi e situazioni già apparsi nei precedenti « romanzi borghesi». La narrazione si apre a Roma con una festosa cena dell’ultimo dell’anno nel grande appartamento della famiglia Bellentani. In seguito il patriarca Antonio Bellentani muore dopo un infarto e un’incerta convalescenza; suo figlio Leone si incapric-
cia di Sandra Ballio, fidanzata e poi sposa del cugino e socio Simone, e abbandona la moglie Sofia e i figli per andare a vivere con lei. Ma il rapporto, basato soprattutto sull’attrazione fisica, non funziona e Leone dopo qualche anno lascia Sandra e cerca di riavvicinarsi alla famiglia, che riesce infine a far tornare a vivere con lui. Comunque la remissiva Sofia ormai subisce più che amare Leone e quando è ormai chiaro che fra i due niente può rinascere, ella provvidenzialmente muore di un male incurabile. Nell’epilogo si assiste circolarmente, a quasi due anni dalla morte di Sofia, ad un’altra cena dell’ultimo dell’an-
no, ormai spenta e priva di significato.!° In Lo sguardo del cacciatore ritornano i temi dell’infedeltà coniugale consumata con la moglie di un amico o di un parente, di una certa tacita complicità femminile fra amiche o sorelle che hanno condiviso lo stesso uomo, della difficoltà di conciliare vita erotica e vita famigliare, della donna sensuale e della donna madre, della mor-
te del vecchio padre, e dell’incomunicabilità fra marito e moglie. Ricorrono anche: una precisa topografia romana (un mi-
crocosmo composto sempre dalle stesse strade e dagli stessi quartieri) e dei dintorni di Roma (il litorale Pontino); la minuta descrizione di una routine benestante; l’ottusità abitudinaria
e l'egoismo cieco dei personaggi maschili; la trasgressione sentimentale come unico antidoto alla noia dell’affluenza; la morte di uno dei protagonisti che sblocca e conclude l’intreccio ormai arrivato ad una situazione di stallo; la struttura tripartita del romanzo scandita da nomi di donne. La differenza di estrazione sociale dei protagonisti di Lo sguardo del cacciatore rispetto agli altri romanzi (i Bellentani sono dei palazzinari arricchiti) potrebbe rappresentare una variazione sostanziale, ma è invece irrilevante perché Leone e i suoi parenti, pur non es169
sendolo, si comportano come degli alto-borghesi e risultano anche per questo non del tutto convincenti. Lo sguardo del cacciatore non aggiunge niente, nel bene e nel male, a quanto detto per i due romanzi precedenti. Permangono le ostinate afasie dei personaggi, le conversazioni inconcludenti e banali per disegno autoriale (ma che hanno infine un effetto negativo sull’interesse di chi legge), e si ripresentano anche discutibili vezzi stilistici, come « dillà » invece di « di là ». Si ha l'impressione che il ri-
tornare di Montefoschi agli inattuali temi della famiglia borghese per ben tre volte dopo il felice L'amore borghese abbia esaurito ormai il soggetto e mostri, più che nuovi orizzonti, una
complicità poco fruttuosa con il mondo dei suoi personaggi. Sembra giunto per Montefoschi il momento di un totale ripensamento perché il suo insolito talento di miniatore del reale non si perda in uno sterile e compiaciuto paesaggismo letterario.
Indubbiamente felice è l'esordio narrativo di Francesca Duranti (n. 1935 a Genova), La Bambina (Milano, La Tartaruga, 1976), storia autobiografica di un’infanzia dorata prima a Genova e poi in una villa vicino a Lucca negli anni bui del fascismo e della guerra. La Duranti ha l’accortezza di distanziarsi affettuosamente dal suo io fanciulla usando una narrazione in terza persona e chiamando se stessa appunto «la Bambina » 0 Francesca. Nella narrazione la donna che rievoca con nostalgia e umorismo gli anni della propria infanzia sorprendentemente ritrova la freschezza e l’ingenuità di allora nel descrivere «il mondo dei grandi », come se il romanzo fosse il risultato di un complice dialogo fra l’io narrante adulto e l’io narrante bambino. Nella nota in forma di lettera che precede La Bambina, la Duranti difende il libro da possibili critiche affermando che le è sembrato « abbastanza attuale il racconto di come e perché in una creatura privilegiata abbia origine il contrasto fra la propria coscienza e i propri comodi: faccenda lunga e dura, non senza morti e feriti, mai risolta definitivamente » (1). In effetti questa dimensione di presa di coscienza, per quanto minore, c’è, e contribuisce, insieme allo sfondo denso della guerra, a dare un certo spessore alle memorie infantili, comunque
gradevoli e piene di humour, di Francesca Duranti. L’isolamento e la carestia della guerra trasformano l’antica villa di Gattaiola, microcosmo autarchico dalle copiose risorse naturali, in un
incantato teatro rinascimentale sul cui palcoscenico fanno fugaci apparizioni ebrei, sfollati e ricercati che la famiglia della bambina ospita generosamente. Figura centrale e antagonistica a quella della bambina è la madre, donna dominatrice e volitiva, parca di affetto e temibile, a cui è lasciata nella narra-
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zione l’ultima parola, quasi a chiosare che Francesca dovrà ancora molto lottare per crescere senza costrizioni: La Mamma
disse, al momento
della buona notte:
«Allora hai scelto cosa vuoi? » Francesca aveva finalmente deciso:
« Voglio portare i capelli senza trecce e non voglio più avere il colletto bianco che spunta sotto il pullover ». Disse queste audaci parole tutte d’un fiato, piena di timore e di speranza. « Neppure per sogno » rispose la Mamma (153-54).
A parte qualche sporadico cedimento a un descrittivismo che scivola nel riassunto (un’incertezza di stile comune a molti esordi), La Bambina riesce per la sua scrittura ariosa e leggera e per la rievocazione sorridente e controllata di un’infanzia magica e aristocratica.!” Piazza mia bella piazza (Milano, La Tartaruga, 1978) prende il titolo da una filastrocca, la « lepre pazza » del cui secondo verso è nel romanzo una giovane donna che è stata trasformata dal marito in «coniglio domestico » (29) attraverso una idilliaca routine di vita sana e anticonsumistica nella campagna lucchese. Da questa vita ella aveva se non altro tratto «la certezza, o almeno una credibile illusione, di aver finalmente pre-
so congedo da quell’arrogante situazione di privilegio in cui era nata e che era stata una cosi rovente spina nella sua coscienza » (8). Si ha cosi l'impressione di assistere anche qui ad una narrazione velatamente autobiografica. La protagonista, la bionda e bella Paola, è in crisi col marito Marco per aver osato un gesto di implicita indipendenza intellettuale quale scrivere un libro. Dopo tormentose discussioni si separa da lui e passa attraverso una-lunga iniziazione di amicizie, amori, errori, soli-
tudine cipata rifarsi li Una
e riflessioni sulla sua nuova condizione di donna emane di giovane scrittrice. Piazza mia bella piazza sembra a testi modello di liberazione femminile e sessuale quadonna di Sibilla Aleramo e The Virgin and the Gipsy di
D.H. Lawrence, ma non ha né il controllo severo e sofferto del primo né la carica sensuale del secondo e rimane romanzo molto contingente, molto legato agli umori degli anni settanta e ad una fin troppo insistita programmaticità di intenti; vorrebbe essere opera esemplare della presa di coscienza femminile ma purtroppo è al suo meglio un centone di luoghi comuni, i cui personaggi di provincia rasentano spesso la caricatura.!* Anche la voce del narratore in terza persona, che dovrebbe avere funzione equilibrante come l’aveva avuta in La Bambina, qui
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si incrina e si fa enfatica o sentenziosa nell’ansia di voler tutto spiegare e di fare della storia un caso tipico. Cosi ogni possibile recondita freschezza viene uccisa da un onnipresente commento,!° mentre anche la tecnica di alleggerire e attualizzare la storia attraverso episodi spiritosi o conversazioni disinvolte e colloquiali (cfr. 54-55, 131) dà esiti scompensati, che spesso scadono in cliché grossolani, da cattiva commedia cinematografica di costume. In La casa sul lago della luna (Milano, Rizzoli, 1984) un germanista contemporaneo che si identifica con uno scrittore austro-ungarico arriva a ripeterne il destino di passiva disintegrazione. È questo il romanzo dell’affermazione nazionale (premio Bagutta, premio Città di Milano) di Francesca Duranti, la quale, come si vedrà più ampiamente in seguito (cfr. III.3.), contribuisce con esso ad una diffusa tendenza narrativa di questi anni, quella del ritorno alla storia e in generale al passato come momento magico e misterioso. Per ora vale la pena di notare che in La casa sul lago della luna tornano in misura diversa alcuni elementi tematici e stilistici già riscontrati precedentemente: la memoria di una magica infanzia in villa e di una madre dalla sicurezza signorile e dalla personalità fredda, in relazio-
ne a La Bambina; un protagonista altoborghese in crisi e un tono vagamente didattico ed esplicativo della voce narrante in terza persona, in relazione a Piazza mia bella piazza. Comunque La casa sul lago della luna, invece di essere vittima dei cliché di
una effimera stagione politica, questa volta sfrutta abilmente, nobilitandoli e aggiornandoli, i luoghi comuni, molto più antichi e duraturi, della narrativa romantico-sentimentale: l’anima troppo nobile per questo mondo corrotto, l’esitazione fatale fra la donna corporea e solare e la donna fantasmatica e notturna, il cedere ad una passione morbosa che uccide, il vampirismo e la forza del destino. Scaltro romanzo di qualità media, La casa sul lago della luna mostra comunque che Duranti ha imparato a muoversi al di fuori della narrazione autobiografica ed ha ormai acquisito un più saldo controllo dello stile e della materia narrata. i
Il seguente Lieto fine (Milano, Rizzoli, 1987) mi sembra infatti il coronamento di un lungo tirocinio: un romanzo che usa materiale biografico ma al contempo sa trascenderlo; che si avvale di situazioni e personaggi familiari senza per questo scadere nello stereotipo; che conduce il lettore attraverso una storia dall'esito preordinato sin nel titolo mantenendone purtuttavia l’attenzione grazie ad una voce narrante ironica e sobria
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che mostra senza spiegare ed è riflessiva senza essere sentenziosa. L'’affermato antiquario Aldo Rugani spia con un cannocchiale dalla sua torre nella campagna lucchese (il titolo del romanzo originariamente doveva essere appunto «La torre dell’Arnolfina ») la vita dei suoi aristocratici vicini: l’anziana e vo-
litiva Violante Santini, il figlio di lei Leopoldo, che ha sposato l'americana Cynthia, e soprattutto la vedova dell’altro figlio di Violante, Lavinia, che « [r]itorna ogni estate, [...] incapace di uscire da un’interminabile adolescenza, [...] sebbene abbia un figlio
di vent'anni e qualche filo bianco tra i capelli biondi » (10). Rugani è innamorato di Lavinia e in generale della naturale signo-
rilità dei Santini che lui, uomo di umili origini, è riuscito infi-
ne ad imitare senza però poter fare veramente sua. Questo gli dà un certo distacco, in parte critico in parte dolorosamente sentito come esclusione, nei confronti della famiglia, di cui co-
munque aspira a far parte da anni, come dimostra il suo devoto e vano corteggiamento dell’immatura Lavinia, che ovviamen--te si invaghisce solo di uomini che la fanno soffrire. Nel parco delle tre ville dei Santini arriva un giorno Marco, giovane enigmatico, taciturno ed efebico, che crea inquietudine e scompiglio mentre tutti cercano separatamente e diversamente di sedurlo. Infine Marco si rivelerà un ragazzotto qualsiasi, ma solo dopo aver funzionato da inconsapevole catalizzatore delle esitanti passioni e degli incerti destini degli altri personaggi. Cosi, se all’inizio il setting raffinato del giardino aveva fatto intuire che le intenzioni sviluppi alla Finzi-Contini, presto si comprende di Duranti sono solari, e che Lieto fine vorrebbe semmai trasporre in un ambiente borghese dei nostri giorni le risoluzioni ludiche e armoniose di certe commedie scespiriane. Tutto si risolve quindi nel migliore dei modi e c’è un lieto fine, appena mosso da dubbi leggeri, anche per il paziente amore di Aldo per Lavinia. Non è difficile intravedere da queste righe come Lieto fine riprenda da La Bambina l’ambientazione, distanziandola però in modo tale da renderla meno autobiografica; da Piazza mia bella piazza il personaggio femminile incapace di avere una relazione equilibrata e paritaria con l’altro sesso, facendone però il soggetto di un gioco lieve e disimpegnato; da La casa sul lago della luna la suggestione di un disegno che si compie e l’atmosfera incantata, benché qui gli esiti siano magici, non tragici. Lieto fine è un divertimento dalla grazia leggera, che rammenta un film come La regola del gioco di Renoir, e che dosa e alterna abilmente le riflessioni in prima persona di Aldo Rugani con una narrazione in terza filtrata di volta in volta attraverso
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i punti di vista di Lavinia, Violante, Leopoldo, e Cynthia, le cui
personalità emergono cost dai facili cliché iniziali. A ben guardare, Lieto fine non è altro che un romanzo medio aggiornato emovimentato che per il ceto alto dei suoi personaggi e per l’impostazione voyeuristica (Rugani) e decisamente scenica (il parco; la torre e le tre ville) dell'intreccio ha qualcosa anche della
commedia borghese, genere del resto sussidiario. Gli ingredienti del romanzo medio, opportunamente rimaneggiati, ci sono tutti: un ambiente provinciale dall’identità precisa, una storia d’amore in cui le virtù della tenacia e della devozione vengono infine ricompensate, l’importanza dell'istituto famigliare sopra ogni altra forma di organizzazione sociale (e all’interno di esso della figura materna), la soluzione non meditata e razionale ma improvvisa ed emotiva (se non addirittura magica) dei molti nodi della storia. Ed ancora: un microcosmo aristocratico ed agreste assediato dal tempo, ed emblematicamente riassunto nella vecchia matriarca Violante, che sente la morte vicina e si guar-
da intorno per capire chi potrà succederle come « nuova regina » (192); il tono confessionale, tipico del medio, modulato fra
nostalgia e malinconia dalla voce di Aldo Rugani, che oscilla fra la memoria del suo passato di ragazzo povero determinato a salire socialmente e l’irrequietudine del suo presente di uomo arrivato ma inappagato. In questo tono mi pare che Duranti prenda molto da Tabucchi, mentre l’efebico Marco, al di là del-
la suggestione pasoliniana (Teorema) in chiave leggera, sembra un giovane ispirato ai protagonisti di De Carlo. A parte una sottile complicità con il mondo dorato e un po’
snob dei suoi personaggi, che si manifesta talvolta in qualche cliché o in un tono fatuo reso senza distanza,?° Francesca Du-
ranti mostra in Lieto fine di aver acquisito una notevole padronanza dei suoi materiali, che le consente di operare creativamente all’interno di un rinnovato romanzo medio.
Effetti personali (Milano, Rizzoli, 1988) è la conferma della maturità espressiva raggiunta in Lieto fine da Francesca Duranti, che in questo romanzo riprende e sviluppa con eleganza ed ironia motivi a lei cari e li rinnova in un avventuroso romanzo di viaggio e di formazione che è anche un apologo etico-politico. Valentina Barbieri viene lasciata dal marito Riccardo Prini, intellettuale intrigante che ha fatto carriera sfruttando il lavoro di lei, per una donna affermata e un appartamento di lusso. Dieci anni prima Riccardo, laureato del DAMS, aveva capito che « per vendere sul serio, in modo da fare dei bei soldi, non ci sono che due strade: andare incontro al pubblico per dargli
la spazzatura che preferisce, oppure creare una falsa élite e nu-
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trirla di perle false » (12). Riccardo sceglie la seconda via, quella più nuova e più furba, e comincia a scrivere una serie di biografie «laiche e trasgressive » (15) dei Padri della Chiesa; la formula è mettere insieme con scaltrezza «[d]uecento pagine compilate saccheggiando qualche angolo dimenticato di una biblioteca » (14) per creare libri che per l'argomento stesso diano quell’impressione di raffinatezza ed esclusività a cui tiene il tipico consumatore neo-borghese dei nostri giorni, sia il prodotto «cultura » o una giacca firmata. Valentina per dieci anni fa il «negro » di Riccardo, traducendo dal latino testi di patristica e immettendo nel computer i materiali che lui elaborerà. Dopo essersi trasferito nel nuovo appartamento con «la nuova compagna economista chic » (17), Riccardo torna furtivamente per togliere anche la targhetta col proprio nome dalla porta d’ingresso del bilocale dove Valentina continua ad abitare. « Tutto il mio lavoro di dieci anni lo hai capitalizzato sul tuo nome, e il tuo nome te lo sei portato via [...] svitando la targa d’ottone dalla porta di casa » (37), pensa la trentunenne Valentina che, in «un’esplosione di lucidità atroce » (9), si accorge ora di non possedere niente e di aver vissuto per anni vicariamente all’ombra di un'identità del marito che lei ha contribuito con il suo lavoro ad affermare. È un identità capitalista e consumistica, fatta di successo e di oggetti che lo provino e lo esibiscano, ma cosi va il mondo, e Valentina si accorge che oggi il problema non è più «Avere o Essere », ma piuttosto « Avere per Essere » (11) eche lei, a parte l'appartamento, ora non ha niente e « quindi non [è] più niente » (11). Valentina si rende conto che nella no-
stra società c’è una relazione stretta e diretta fra « mio » ed «io »: « Non ho intorno alla mia persona un numero sufficiente di cose
che assolvano al compito di proteggermi, delimitarmi, definirmi, fare da predicato a me soggetto, darmi la sensazione di essere — come dire — meno informe » (11). Da qui la decisione di recarsi in un imprecisato paese dell'Est a intervistare Milos Jarco, un «grande romanziere d’oltrecortina non dissidente » (23), per trovare nel colloquio con l’autore di La risposta, che è riuscito a conciliare letteratura e ortodossia, appunto una risposta anche ai propri problemi esistenziali, una terza via fra Avere ed Essere, nonché una conferma delle proprie qualità di giornalista e forse una carriera sinora sacrificata ad anni di lavoro sui Padri della Chiesa. La dicotomia che lacera Valentina sembra avere un suo simbolico riscontro topografico nel luogo dove dovrebbe vivere Jarco: una « città doppia, due caotici emi-
sferi cuciti insieme da [un'] anacronistica Promenade austroungarica dove nessuno mette piede altro che per schizzare rapidamente da una parte all’altra » (64); una città fra Kafka e Go175
gol’ in cui si perde facilmente l'orientamento senza mai trovare quel che si cerca e dove dietro la cerimoniosità ufficiale della locale sede dell’Unione Scrittori si agita un piccolo mondo di invidie, pettegolezzi e maldicenze. I tentativi di Valentina di entrare in contatto con Milos Jarco non approdano a niente: c’è chi dice che è a Hollywood a collaborare alla sceneggiatura di un suo romanzo, c'è chi sostiene di averlo visto fare jogging quella stessa mattina. Valentina si accorge presto di essere tenuta sotto controllo e che forse una delle spie che si occupano di lei è proprio il timido e bello Ante Radek, poeta ascetico e trasandato, refrattario a qualunque forma di consumismo, acceso so-
stenitore di un’ortodossia comunista che certo vieta la proprietà privata e offre una vita grigia e squallida, ma in contraccambio mortifica la naturale avidità dell’uomo e la conseguente ingiustizia sociale. « Se ci spostiamo anche di un filo dall’integralismo, tutto quello che abbiamo costruito finisce in nulla entro cinque anni. In cinque anni saremmo come voi, solo più straccioni. [...] Tutti sembrano impazziti... c'è un’aria di cambiamento
che mi fa paura » (113, 125), dice sommessamente Ante Radek che, in tempi di glasnost e di perestroika (mai direttamente nominate), fa intravedere il disorientamento morale e sociale che potrebbe risultare da un’occidentalizzazione selvaggia dei paesi dell’Europa orientale. Valentina seduce il mite e giovane Ante, assumendo nei suoi confronti, non senza un misto di perplessi-
tà e di narcisistica rivalsa, il ruolo maschile e l’iniziativa sessuale che aveva per anni subito dal marito. Paradossalmente, messa di fronte al nobile ma deprimente squallore di una possibile vita con Ante oltrecortina, Valentina si trova anche a difendere il credo consumista di Riccardo, cosi che ancora una
volta si deve domandare se «[è] possibile che non ci sia nessuna ragionevole e realistica via di mezzo [... t]ra far l’amore da padrone e farlo da servo [..., t]Jra la frivolezza morale e il fanati-
smo » (126). Ante, pur di mostrare a Valentina di non essere cosi diverso da lei, le confesserà di aver ceduto anche lui alla tenta-
zione della proprietà privata: il suo modestissimo e patetico peccato è stato quello di costruire quando aveva vent’anni una capanna tutta sua su una landa desolata e acquitrinosa punitiva-. mente infestata dalle zanzare, appunto come « vaccinazione » (133) contro il morbo del possesso. Ma c’è anche un secondo «peccato » di Ante, che connette proprietà e identità: di fronte alla possibilità di impersonare il fittizio Milos Jarco (che apprendiamo è solo una tempestiva invenzione del ministero dell'Educazione nata da un colossale equivoco dei mass media occidentali) Ante aveva preferito dire di no perché per assumere il ruolo del romanziere, il cui successo era ancora tutto da pro-
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vare, avrebbe dovuto rinunciare alla propria identità di autore di un libretto di poesie. « Lui [Ante Radek] non se la senti di rischiare. Non volle barattare un passato modestissimo ma reale con un futuro — forse luminoso — ma virtuale » (160), confida a Valentina Vojtec Miciàn, uno dei creatori dell’inesistente Milos Jarco. Dunque « non c’è scampo per nessuno » (164): forse anche dietro l’ascetismo e il « nobile fondamentalismo » (135) di Ante c’è solo cautela, l’accontentarsi di poco sapendo di non
essere capace di osare di più; proprio come in Occidente dove, riflette Valentina, «Tutti siamo in corsa, ognuno col suo stile. [...] Chi si ferma prima, in genere, la butta sul filosofico e dice di essersi voluto fermare, ma non ci crede nessuno » (123). Dopo queste deprimenti scoperte, a Valentina non resta che intraprendere in auto il viaggio di ritorno in Italia: Alla fine del viaggio ci sono la mia casa, mia madre, il mio lavoro, i miei pochi e distratti amici [...]. Ci sono le mie sei lenzuola ricamate e le sei di cotone stampato. C'è il mio piccolo conto in banca. C'è il mio tavolo di noce. C'è il mio abbonamento al cinema d'essai dei preti. [...] C'è la certezza di non aver imparato quasi nulla perché non c'è quasi nulla da imparare, salvo il fatto che le cose potrebbero davvero essere sempre inevitabilmente destinate a rotolare o da una parte o dall’altra, perché una terza scelta non esiste in natura. [...] E allora? Pace.
Se è cosi, è cosi (166).
Dopo il viaggio e l'avventura, di per sé fallimentari, la vera maturazione si raggiunge ritornando con spirito nuovo ad un
passato fatto di piccole consuetudini e di affetti quotidiani, ad un ambiente e ad un « sistema degli oggetti» che dopo essere stato considerato inadeguato (cfr. 11) ora si ripropone in modo rassicurante e consolatorio, unica base da cui si può partire per rifondare un’esistenza e darle un orientamento saldo e genuino al di là degli ideali e delle ideologie. Effetti personali partecipa insomma di quella nuova tendenza del romanzo medio che,
attraversate le tensioni utopiche degli anni settanta e la loro dimensione tragica, ne intraprende il ridimensionamento verso l'equilibrio, l’elegia e la commedia (cfr. 167) — un percorso intellettualmente sofisticato (in parte parallelo alla più complessa riflessione di Eco in Il pendolo di Foucault) per tornare alle piccole cose di ogni giorno, come se una più ardua ed elaborata sconfitta delle certezze razionali potesse in qualche modo aumentare il valore del microcosmo ritrovato, obliare in saggezi — za raggiunta la delusione di un necessario ritorno. Effetti personali, il cui titolo non proprio cogente immagino voglia sottolineare il rapporto identità-proprietà, al solito riprende e sviluppa temi e personaggi già incontrati nei romanzi 177
di Duranti: la lotta per realizzarsi di una protagonista in crisi col proprio marito e con se stessa (Piazza mia bella piazza); l’uomo mite che nasconde dietro il proprio passivo idealismo la sua paura di vivere (si veda Garrone in La casa sul lago della luna); una problematica femminista e generazionale (Piazza mia bella piazza) qui trattata in modo originalmente capovolto nel difficile rapporto fra Valentina, figlia del « riflusso », e sua madre, formatasi negli anni sessanta in tempi di femminismo imperante e autocoscienza; l’elusiva ambientazione austro-unga-
rica qui rivisitata non in chiave alpestre e gotico-fiabesca (La casa sul lago della luna), ma nella sua contemporanea realtà di grigia società d’oltrecortina. Effetti personali è anche un ironico commento alla strategia dell’esclusività di massa (le biografie sui Padri della Chiesa) della quale, più o meno consapevolmente, è un prodotto anche tanta giovane narrativa; tenta di conciliare ossimori (« Avere per Essere ») come fa trasformisticamente la società neo-borghese degli anni ottanta; mette in scena, in un momento politicamente cruciale in cui le due parti | in causa stentano a definire la propria identità, « vorace logica capitalista » e «nobile fondamentalismo » comunista (135) attraverso l’incontro di Valentina ed Ante, e si interroga cosi su un possibile dialogo (qui invero più sentimentale che politico) fra i due sistemi. Se nella storia si avvertono a tratti degli schematismi, essi sembrano risolversi nella forma di parabola perplessa — e modernamente esemplare nella sua perplessità — che progressivamente il romanzo assume.
Idea interessante è an-
che quella dell’«invenzione della verità »:?! la storia del fantomatico Milos Jarco « per metà il frutto casuale di un equivoco, per l’altra metà un falso del ministero dell'Educazione » (166) è un avvertimento nei confronti dello strapotere di mass media tanto inattendibili quanto invadenti, ma è anche la riuscita metafora di un romanzo che proprio raccontando una storia poco plausibile di mistificazioni e delusioni trova una sua voce vera e convincente. Mi pare si possano ora proporre altri punti di contatto fra ‘ questi tre autori. Innanzitutto c'è una comune attenzione per un microcosmo che, anche se apparentemente differisce da quello provinciale e dimesso del romanzo medio, mantiene le sue funzioni: a livello più rarefatto in Tabucchi, più concreto e in-
variato in Montefoschi e Duranti. La voce narrante di Tabucchi ha il potere insinuante ed avvolgente di creare intorno a sé un'aura di sobria malinconia, una « depressione atmosferica » che viene prontamente riempita dall’ambiente circostante e restringe lo spazio dell’io, che si fa intimo e crepuscolare, acco178
gliente e al contempo nostalgico di un altrove non necessariamente più ampio ma certo lontano e inattingibile, mentre lo spazio esterno del presente (si pensi a I! filo dell'orizzonte) è causa di disagio, di messaggi ambigui e di trasalimenti misteriosi. Lo spazio del narratore di Tabucchi è quello di un microcosmo intellettuale mai definito ma sempre suggerito fantasmaticamente dalla devozione per le cose scomparse, e sempre riscattato da un movimento interno di leggera ironia, di /udus accennato che toglie il potenziale smalto dolciastro alla fabula. Montefoschi, come numerosi scrittori degli anni sessanta, ha eletto una precisa città a luogo principe della sua narrazione; anche se la scelta di Roma potrebbe far presagire una situazione non provinciale, in realtà il mondo di Montefoschi, ridotto a Villa Borghese ed al quartiere dei Parioli, si rivela quanto mai asfittico,
appunto una riproduzione del microcosmo del medio in versione alto-borghese. Duranti valorizza soprattutto lo spazio dell’otium aristocratico, la villa, la campagna pastorale mossa da giochi
e disegni che non possono essere che idillici e graziosi (La Bam-_. bina, Lieto fine); anche quando ci sono avventura e quest il microcosmo (agreste o urbano) ha la meglio su di esse, perché il personaggio che abbandona il suo ambiente in cerca di cambiamenti (Effetti personali) finisce infatti col tornarvi circolarmente investendolo di una rinnovata carica rassicurante e consolatoria. Inoltre tutti e tre questi scrittori, nella loro insistita ricercatezza formale, sono, sia pure in modo diverso, con-
sapevoli di una loro condizione epigonica ed alterano per questo, manieristicamente, l'equilibrio della composizione introducendo elementi di inquietudine e punti di vista insoliti. A parte certe generiche e superficiali somiglianze (la presenza di un ambiente borghese, di personaggi in crisi, e di uno stile mimetico), il caso di Alain Elkann mi sembra
invece molto di-
verso. Alain Elkann, nato nel 1950 a New York da padre francese e da madre italiana, vive a Parigi, dove lavora per la Mondadori. Esordisce nel 1980 con I! tuffo (Milano, Mondadori), romanzo slegato, incerto nella scrittura e nella misura narrativa. Nella prima parte (« Sergio Pontremoli ») l'io narrante, Franz, giovane diplomatico italiano a New York, incontra Sergio Pontremoli,
sedicente compositore logorroico e pedante, da cui è comunque misteriosamente affascinato. Egli inizia cosi una ossessi-
va e frustrante inchiesta presso amici di Pontremoli, anche in Italia, nel tentativo di comprenderne la personalità. Nel frattempo Pontremoli scompare, e Franz si invaghisce della moglie 1709
di lui, Giorgina. Segue una seconda parte (« Lettere ») composta principalmente appunto dalle lettere che il grafomane Pontremoli, fuggito da New York in cerca di ispirazione, scrive a Franz da Londra, Parigi, Ginevra e Roma per raccontargli sensazioni e giornate del suo ritorno in Europa. Franz non risponde, frequenta Giorgina senza che niente accada, e viene infine
trasferito al consolato di Chicago. L’ultima parte («Il tuffo») è la narrazione in terza persona del soggiorno invernale di Pontremoli a Venezia, dove questi si installa in una pensione dandosi ferrei orari nel vano tentativo di « condurre un'esistenza monacale » (119) e scrivere grande musica. Invece mangia e beve moltissimo, incontra una maniaca della danza, inizia a sospet-
tare una relazione fra la moglie e Franz, e finisce cosi col chiamare Giorgina a Venezia con un pretesto. Intanto si rapa a zero,
compra stivali e cappotto di pelle nera e si prepara una sceneggiata mistico-sentimentale per accoglierla all'arrivo; ma Giorgina non si fa impressionare e respinge la sua offerta di un comune bagno purificatore nelle gelide acque del Lido. L’« eroe artista » (189) deve tuffarsi da solo. Romanzo giovanile nelle trovate un po’ scontate come nello stile goffo e stentato, Il tuffo all’inizio sembra quasi un’allegra e consapevole abbuffata di cliché le cui ulteriori motivazioni, si pensa, verranno giustifi-
cate da qualche spericolato gioco nello sviluppo della trama. Ma alla legnosa narrazione dello scialbo Franz segue il vecchio espediente dell’epistolario e ad esso la divagazione veneziana di Pontremoli, che sfugge alle intenzioni tragicomiche di Elkann per divenire noiosamente grottesca. Il gioco, insomma, non arriva, e giunti in fondo si deve ammettere che I! tuffo risulta una
svagata e brutta parodia di James e di Mann per insipienza tecnica, non per perversità postmoderna.
Il tema internazionale e il tema dell’artista borghese velleitario si fondono in Stella Oceanis (Milano, Mondadori, 1983) in quello dell’alto borghese in crisi, analizzato in una cornice prevalentemente francese. Bruno Hass, direttore e comproprie-
tario di una prestigiosa casa di biancheria femminile a Parigi, è un ricco ed elegante cinquantenne sposato alla aristocratica Adelaide. Durante un’estate affocata in cui Hass ha già dimostrato segni di inquietudine e di stanchezza, i due lasciano Parigi per una crociera sulla « Stella Oceanis ». Sulla nave Bruno incontra Romola Tarnowska, avventuriera sensuale e sfronta-
ta, e quando la nave attracca a Napoli fugge con lei. Bruno e Romola si stabiliscono a Roma, ma il rapporto non funziona, Romola beve e si droga e presto finisce a Regina Coeli. Bruno, segnato dallo stressante e confuso periodo romano, torna a Pa180
rigi in incognito, e poi decide di passare l’ultimo dell’anno con la moglie e la famiglia. In gennaio si reca a Roma per essere presente alla scarcerazione di Romola, ma dopo un giorno ab-
bandona la donna per tornare in Francia. Romola disperata lo raggiunge, ma dopo alterne vicende si rende conto che Bruno Hass è troppo diverso da lei, « una persona debole e capricciosa » (199), vittima delle ipocrisie e delle forme del mondo a cui appartiene e quindi incapace di lasciare definitivamente la moglie per lei. Cosi Bruno parte con Adelaide per un viaggio a Creta, mentre Romola incontra Diego, giovane e affascinante ma-
lavitoso spagnolo, e va a vivere con lui. A cinque anni di distanza, Bruno e Romola si incontrano fortuitamente a Parigi per strada; Bruno la scongiura di tornare con lui, lei rifiuta: ormai è la donna di Diego che la batte e la fa prostituire, ma che l’ama «come il primo giorno, senza dubbi » (216). I due si lasciano davanti alla fermata del metrò: Rimasero in silenzio, e quando arrivò il convoglio, Romola salî su una carrozza, si chiusero le porte e spari. Hass si senti morire. Addosso gli erano rimasti solo il gusto e il profumo di Romola. [...] Era svanita, forse per sempre. Romola era la
donna che aveva gli occhi più belli che avesse mai visto (217).
Come si può intuire dalla sinossi, Stella Oceanis è un banale romanzo sentimentale, che qualche occasionale sprazzo di ironia non riesce a redimere. Contiene l’armamentario della commedia borghese che abbiamo già rivisitato con Duranti e più ancora con Montefoschi (il colpo di fulmine, la crisi, la fuga, l’esitazione fra moglie e amante, il ritorno al nido famigliare, lo straziante rimpianto), ma qui il livello della tecnica narrativa e della tessitura psicologica è vistosamente più ingenuo e ap-
prossimativo. Elkann scrive in brevi periodi dalle scansioni telegrafiche che danno una curiosa impressione di sbrigativo riassunto di qualcosa che non valeva la pena di scrivere in primo luogo; nelle sue conversazioni, nel tentativo di imitare un par-
lato alto e forbito, usa una lingua contegnosa e goffa, con un effetto di parodia involontaria. I personaggi, affluenti mediocri che auscultano le proprie crisi e vivono nel lusso, non assurgono né a ironica critica di un certo mondo né ad esempio pregnante di un’arroganza di classe detestabile ma in qualche modo anche carismatica. Rimangono invece patetiche figurine che, in uno sprazzo di lucidità, infine, si autocommentano: «[T]i confesso che questa storia mi lascia indifferente. È una storia banale; una delle tante tutte uguali, che sembrano eccezionali solo ai protagonisti » (176). Appunto.
181
Come nel caso di Duranti, anche per Elkann la terza ope-
ra, Piazza Carignano (Milano, Mondadori,
1985), è quella del-
l'affermazione nazionale e delle prime traduzioni, nonché l’e-
sempio di un sintomatico ritorno narrativo alla storia come torbida e oscura esperienza esistenziale — ritorno che, come vedremo, si registra in molti altri romanzi recenti (cfr. III.3.). Basti dire per ora che Elkann in Piazza Carignano al dramma borghese aggiunge intrigo e mistero, memorie della seconda guerra mondiale, diari, taccuini segreti, jef-set, una certa con-
sapevolezza metanarrativa e una maggiore padronanza dello stile e della materia narrata; se i cliché rimangono in abbondan-
za, l'impressione è che in Piazza Carignano Elkann riesca ad usarli abbastanza gradevolmente, piuttosto che esserne travolto. Il seguente Le due babe (Milano, Mondadori, 1986) è invece il classico libro di racconti eterogenei che si fa uscire per rimanere sul mercato dopo la fortuna di un più sostanzioso romanzo. In diversi di essi si possono riscontrare, con qualche opportuno rimescolamento di setting, alcuni motivi certo non molto originali ma comunque dominanti e ricorrenti nel mondo narrativo di Elkann: l’artista borghese depravato che vive a Pa‘ rigi in « Boulevard de Sébastopol »; il borghese in crisi che fugge a Venezia in « Federico Coppel »; il borghese mediocre che si innamora della prostituta solo quando è troppo tardi in «Il calamaio di lapislazzuli ». Per lo più Le due babe, come del resto dicono le apologetiche date di stesura in chiosa ad ogni racconto, è una composita serie di esercizi giovanili assai modesti risalenti agli anni settanta. L'unico di spicco è appunto « Le due babe », in cui lo «stile riassuntivo » di Elkann, nel raccontare le vicende di due anziane istitutrici italiane a New York, trova accidentalmente una sua divertita e sobria misura fattuale, che ricorda le concise novelle esemplari dell’ultimo Celati.
Manierismo e microstoria: Morazzoni e Volpi Marta Morazzoni e Marisa Volpi riprendono entrambe un tipo di scrittura caratterizzato da una prosa raffinata, dove allo stile elegante e controllato corrisponde un ritegno narrativo che smorza e attenua le passioni dei personaggi. Secondo le recenti suggestioni della « storia materiale » la rievocazione minuziosa
di un particolare microcosmo ambientale e esistenziale, qui nutrita da un’assidua frequentazione delle arti figurative, divie182
ne l'alveo accogliente in grado di contenere e spiegare sia la vita dell’artista che quella dell’uomo comune; tale gusto per la storia e per lo stile di un’epoca trova la sua ideale misura d’espressione nel racconto, come mostrano le raccolte d’esordio delle due scrittrici. È in particolare alla psicologia femminile e al rapporto arte-vita che Morazzoni e Volpi rivolgono le loro indagini nelle seconde prove, in narrazioni che scandagliano con analitica e pacata sensibilità, nel passato come nel presente, gesti e sentimenti di ogni giorno e il lento farsi della creazione artistica. Un paesaggio nordico, ricordato ambivalentemente da pittori danesi e tedeschi in cerca di ispirazione a Roma nei racconti di Volpi, o vissuto nella sua serena quotidianità dai mercanti e dalle ricamatrici di Morazzoni, sembra essere il luogo ricorrente e la fonte delle voci narranti sobrie e meditative di queste due scrittrici. Marta Morazzoni (n. 1950 a Milano) esordisce con La ragazza col turbante (Milano, Longanesi, 1986), una raccolta di cinque racconti che variano molto per ambientazione storica e scenario. I racconti sono tutti in terza persona, vicini al punto di vista di un personaggio principale; richiedono lo sguardo paziente e attento di un narratore onnisciente che sa cogliere nei suoi protagonisti le sottili inquietudini dovute ad una condizione provvisoria e gravosa, al contempo di transizione e di stasi. Questa «zona d’ombra » è il presentimento della morte in un musicista che potrebbe essere Mozart
in «La porta bianca», la
tenace anticamera in vista del successo in «La dignità del signor Da Ponte », il viaggio in «La ragazza col turbante », la sopportazione di un incarico sgradevole ma risolutivo in « L'ultimo incarico », la malattia in «L'ordine della casa ». Situazioni di trapasso, di movimento non evidente la cui ultima mèta
è spesso la morte, che Morazzoni rende con molta abilità ma che, come le storie tutte, lasciano nel lettore un’impressione di calligrafismo virtuoso e compiaciuto. Semmai, come mette in
rilievo il commento in risvolto di copertina, in La ragazza col turbante si coglie un lieve turbamento morale per la crudeltà umana, ma questo turbamento rimane costretto nei manierati
spazi di episodi remoti ed aggraziati, narrati talvolta con tono leziosamente ottocentesco (i ripetuti e stucchevoli «il nostro poeta » in « La dignità del signor Da Ponte » e «il buon mercan-
te» in «La ragazza col turbante »). In generale lo stile di La ragazza col turbante è nitido ed armonico, mima una compostezza classica che tuttavia la predilezione per il vocabolo arcaiz183
zante ed il bel costrutto fa talora scivolare in un periodare affettato e compunto. Più ricco ed elaborato è L'invenzione della verità (Milano, Longanesi, 1988); presentato come «romanzo » è, come in mol-
ti altri casi recenti, un racconto lungo, o meglio un doppio racconto in terza persona che procede in brevi partizioni alternate di tre-quattro pagine. Da un lato c’è una vicenda situata nell’undicesimo secolo: una volitiva regina, Matilde di Normandia, chiama alla sua corte
le migliori ricamatrici di Francia per approntare un arazzo-ex voto, a celebrare la vittoria del marito Guglielmo, conquistatore dell'Inghilterra; cosî Morazzoni immagina e racconta la cronaca della tessitura di una delle più splendide opere d’arte del Medioevo, la Tapisserie de Bayeux, eseguita dalla regina e da trecento operaie provette fra cui spicca una giovane donna di Amiens, Anna Elisabetta, con cui Matilde ingaggia una silenziosa sfida nell’arte del ricamo. Dall'altro si snoda la narrazione minuziosa dell'ultimo soggiorno sul continente di John Ruskin, esteta e storico dell’arte vittoriano, che nel 1879 dalla Scozia giunse in Francia per fermarsi nella città di Amiens, in Piccardia, di cui volle rivedere
la cattedrale e, in particolare, in un portale di essa, la statua della sorridente Vergine dorata. Come già nel primo lavoro, anche qui Morazzoni usa situazioni in parte immaginate su uno sfondo storico plausibile, in parte desunte da una storia minore di cui poco ci è rimasto in termini di testimonianze cronachistiche, che ella cosi ricrea e sviluppa con accattivante competenza ed affettuosa familiarità. Caratteristica saliente di L'invenzione della verità è che l’accostamento delle due vicende che lo compongono, cosi cronologicamente distanti, sembrerebbe inspiegabile, come del resto, con una certa civetteria a beneficio dell’insondabile oscurità dell’inconscio autoriale, la stessa Morazzoni dichiara.?3 Le due
storie emanano aure di significato complementari: stanno fra loro come il farsi dell’opera d’arte e la sua fruizione critica ed estetica,
e rappresentano due casi in cui la moderna situazio-
ne della creazione artistica individuale e della ricezione anonima e di massa viene capovolta. L’invenzione della verità, pare rammentarci Morazzoni con la citazione da Ruskin a chiusura del suo duplice racconto, è quella che attua l’artista quando crea l’opera d’arte, che come tale è viva e vera, non im-
porta se fatta dal singolo o da trecento ricamatrici (« la ricamatrice esperta deve possedere la natura del segno tracciato per restituirgli con la forma una parvenza di vita, ma anche più di
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una parvenza, talvolta la vita stessa » [40]), ma è anche quella
del critico che, come Ruskin, vive l’opera d’arte come esperienza emotiva ed interpretandola con passione la rende vera per sé, la reinventa. Morazzoni scrive che Ruskin paragonò l’aspetto esteriore delle cattedrali gotiche, il loro « tessuto di pietra », al rovescio di un tessuto di filo lavorato, in cui si mostrano le suture all’e-
sterno, mentre solo all’interno appare la levigatezza del ricamo (57), come a suggerire che solo in profondità i due racconti divengono una singola levigata entità. Infatti, in sintonia con quanto osservò un illustre storico americano contemporaneo di Ruskin, Henry Adams, a proposito del gotico francese (MontSaint-Michel and Chartres, 1904), possiamo ricordare che la Ta-
pisserie de Bayeux e la cattedrale di Amiens appartengono entrambe ad un tempo in cui l’arte era una perfetta fusione di ideale e di reale, di unità e di semplicità, di potenza e di bellezza che l’uomo moderno può solo guardare con irrisolta nostalgia. Catalizzatore di questo sentimento di unità spirituale che Adams attribuiva al Medioevo era il culto della Vergine, a cui si dedicavano chiese e immagini ovunque; non a caso Ruskin sente for-
temente l’attrazione familiare e rasserenante della statua della Vergine dorata che «lo corteggiava [...] con la dolcezza arguta della gioventù » (38). In L'invenzione della verità alla Vergine di Amiens, simbolo di una spiritualità umana, si affianca ideal-
mente la regina Matilde, inquieta amministratrice di un potere terreno che cerca la sua sublimazione nell’arte, ma che indirettamente conferisce anche una nuova dignità al lavoro della donna. Infatti il ricamo è l'alternativa femminile a «l’arte dei
pittori e degli scalpellini » (128), come a quella dei costruttori di cattedrali, ma è anche un’eloquente e popolare forma di «scrittura » comprensibile a tutti i livelli. A sua volta per Morazzoni narrare la cronaca della tessitura di un arazzo, che come un libro racconta una storia, ma per immagini, è anche svolgere di fronte al lettore, con virtuosa consapevolezza, l’ordito di questo stesso racconto, scrivere una metafora della scrittura. Comunque, come ha fatto ben notare Lorenzo Mondo,” il più suggestivo punto d'incontro fra le due vicende è quello alluso quando, entrato nella cattedrale nel tardo pomeriggio, il vecchio Ruskin osserva, con la nostalgia dell’esteta, una giova-
ne distratta e affascinante, che intuiamo potrebbe essere una discendente della leggendaria ricamatrice. Il tempo che passa e fa sospirare Ruskin di fronte alla bellezza, come la ricamatrice di Amiens al ricordo della figlia che non vede da mesi, sembra uno dei protagonisti di L'invenzione della verità, anche per il vuoto ostinato che interpone fra i due racconti, e per il com185
pulsivo desiderio del lettore di riempirlo, di creare connessioni, un ordito del sentimento che congiunga il tessuto di filo a quello di pietra. Anche la scansione rapida degli episodi alternati, che pur nella loro cronaca minuta terminano sempre lasciando nel lettore una piccola aspettativa ed una sensazione di movimento che si riversa prontamente nella ripresa dell’altro episodio, contribuisce a questa suggestione di comune significato, e a mantenere con grande abilità l’attenzione di chi legge per due vicende in sé statiche e contemplative. Tutto ciò, la sapiente co-
struzione delle atmosfere storiche ed artistiche, una serie di insolite e limpide rappresentazioni femminili, sono le cose migliori di L'invenzione della verità. Il maestro della betulla (Firenze, Vallecchi, 1986, introdu-
zione di Cesare Garboli), prima opera narrativa della storica dell’arte Marisa Volpi (n. a Macerata) che con essa ha vinto il premio Viareggio per il 1986, è una raffinata operazione di retroguardia, ma più viva e profonda del contemporaneo La ragazza col turbante di Morazzoni. Marisa Volpi, come Duranti e Tabucchi, non appartiene per generazione alla schiera dei giovani scrittori ma il suo esordio rientra nel quadro complessivo della rinascita narrativa di questi ultimi anni e presenta interessanti corrispondenze con quello di Morazzoni e degli altri au-
tori qui accomunati da un’elegante visione manieristica della letteratura. Anche Marisa Volpi nella sua raccolta di nove racconti predilige una storia minore, ma la arricchisce narrandola attraverso la sua prospettiva di storica dell’arte, tesa a illuminare mediante la personalità dell’uomo e certi episodi cruciali della sua vita le ragioni delle scelte dell’artista. Questo rapporto euristico di matrice longhiana fra biografia dell’artista e suo immaginario produce risoluzioni narrative felici per l'intensità cristallina e mai prevaricante delle riflessioni esistenziali e per l’insolita plasticità cromatica dello stile, che sembra appunto assumere i colori e le luci dei pittori protagonisti (Ni-
colas Poussin e Gaspard Dughet in «Il maestro della betulla »; Anselm Feuerbach in «L'esilio »;} Odilon Redon in «Le ombre
di Peyrelebade »). Non a caso i racconti in cui al tempo storico e all'esperienza dell’artista si sostituisce il personale presente di un io narrante (« Caminito », il ritratto di un grande critico che forse si rifà al maestro Roberto Longhi; « Sull’orlo del ricordo », storia della malattia mentale di un amico) sembrano meno filtrati, meno formalmente risolti, e incrinano la grazia
severa del manierismo di Marisa Volpi. Il maestro della betulla varia molto nei tempi (dal Seicento ai nostri giorni) come ne186
gli scenari (Firenze, Roma, Venezia, Napoli, Copenaghen,
la
Francia), ma vi si può ritrovare un ideale filo unitario nella mi-
sura narrativa e nei motivi ricorrenti del controllo e dell’abban-
dono, intesi come propensioni esistenziali che si riflettono nel-
l’arte (la vita ascetica e la pittura armoniosa di Poussin, la vita sensuale e la pittura istintiva di Dughet in « Il maestro della betulla »), come tentativi di possesso sentimentale che si risolvo-
no drammaticamente
(« L'esilio»,
«La veneziana », « Cordelia
Wahl», «Sull’orlo del ricordo »), e infine come malinconico de-
stino di disgregazione delle passioni e delle opere («La villa ») nello scorrere del tempo. I motivi del controllo e dell'abbandono, concentrati sul loro aspetto sentimentale, ritornano come filo conduttore della se-
conda raccolta di Marisa Volpi, appunto Nonamore Mondadori,
(Milano,
1988, risvolto di Cesare Garboli).? Queste nove sto-
rie, idealmente collegate dal tema di amori e in genere di sentimenti non corrisposti, hanno scenari che vanno dalla Roma dei nostri giorni, alienata e salottiera, a quella ottocentesca, variopinta e sensuale, mèta irresistibile per i pittori del nord, fino ad un fuggevole scorcio di Marocco e della Firenze dell’alta moda. La raccolta, come la precedente, ha due registri narrati-
vi, ma dosati in proporzioni differenti: uno riprende quello della rievocazione e dell’introspezione dei sentimenti in ambiente borghese ed intellettuale iniziato in « Caminito » e in « Sull’orlo del ricordo », e riguarda la maggior parte dei racconti di Nonamore, sette, quelli ambientati nel presente e per lo più a Roma. L'altro lo si ritrova solo in «La fortuna di Thomas Bellman» e in «L'isola della vita», in cui l'elemento propriamente amoroso è non a caso secondario; questo registro si rifà infatti al filone principale e più felice di J/ maestro della betulla, quello della penetrante e simpatetica biografia di artisti nordici vissuti a Roma, nella fattispecie due pittori del diciannovesimo secolo: l’oscuro (in effetti fittizio) danese Johan Thomas Bellman ed il famoso reprobo svizzero Arnold Bòcklin. Mi sembra che sia in questi due racconti storici in fondo infiltrati, non parte inte-
grante della raccolta, che Marisa Volpi ritrova la sua voce migliore: una terza persona dalla pregnanza talvolta quasi borgesiana che « dipinge » con tratti partecipi e incisivi vite di espatriati dell’arte pilotate da un caso che si fa destino sempre più consapevole e doloroso; sono piccole opere memorabili, che quasi reinventano il «genere vasariano » della vita d'artista, colo-
randolo di un’inquietudine che trae le sue suggestioni più belle e moderne da una profonda conoscenza dell’arte dell’Ottocento e della psicobiografia. Gli altri sette racconti invece sem187
brano molto meno convincenti, il tentativo di applicare al presente un registro che, nell'analisi cangiante e introspettiva delle oscillazioni sentimentali e amorose di figure appena abbozzate e piuttosto comuni (intellettuali e artisti velleitari ed egoisti, donne passive e sognatrici), si rifrange e si rompe: perde nell'attualità e nello scarso spessore dei personaggi quella coesiva severità che avevamo incontrato nei ritratti d’artisti, e indulge piuttosto in una dissezione iperintellettuale di emozioni ordinarie, fino a cadere, nei dialoghi in discorso diretto, in re-
citativi statuari e preziosi, frasi improbabili in bocche e vite d’ogni giorno.” Insomma, questa seconda prova conferma la bontà della « voce storica » di Il maestro della betulla, ma non riesce a ricrearla per situazioni contemporanee, come se l’intensa
ma decantata energia con cui vengono evocate le esistenze travagliate di pittori scomparsi non potesse essere trasposta nel-
la sterile e mediocre consuetudine dei vivi.
Microcosmo e primitivismo: Pardini Nei casi di Tabucchi, Montefoschi e Duranti l'io narrante si fa
malinconico, debole, voyeuristico; in quelli di Morazzoni e Volpi viene assimilato all’interno di una prospettiva estetizzante; un autore come Pardini offre invece una narrazione robusta e sanguigna, in cui la terza persona come l’io ripropongono, a tratti ingenuamente, un primitivismo ed un microcosmo regionale
certo non nuovi, che però l'invenzione linguistica ed una intensità a tratti quasi tozziana permettono di ripresentare come no-
vità di retroguardia.
Vincenzo Pardini (n. 1950 in Media Val di Serchio, in provincia di Lucca) ha pubblicato la sua prima opera, La volpe bianca (Parma, La Pilotta, prefazione di Giovanni Raboni), nel 1981,
ma aveva già contribuito precedentemente con pezzi brevi a Paragone e ad altre riviste. La volpe bianca è divisa in quattro sezioni: quattro racconti nella sezione intitolata « Bestie » (« La volpe bianca », «La poiana », «Il cuculo », « Il falco d’oro »); un rac-
conto lungo (« La figlia del maestro »); altri quattro racconti sotto il titolo di «Spiriti» («Il nano », «Bisnonno », «Lo spretato », «L'escluso »), e tre racconti in « La fine del sentiero » (« La grande febbre », « Una parte dell’amore », e appunto l'omonimo e conclusivo « La fine del sentiero »). Non mi sembra ozioso aver elen188
cato i titoli, perché già essi fanno intravedere il microcosmo naturale di Pardini: un paese di montagna (in alta Garfagnana, sugli Appennini tosco-emiliani) con le sue storie di caccia, di animali predatori e di uccelli magici e ambiti (« Bestie ») ed anche con le sue inevitabili storie di umana solitudine, ritratti di
uno Spoon River appenninico (« Spiriti ») in cui i deformi, gli emigrati che tornano, gli spretati, gli esclusi hanno una dignità dolente e silenziosa che sembrano aver imparato dalle bestie. Raboni nella sua prefazione mette in guardia il lettore dal considerare i racconti toscani di Pardini mero « colore locale » e fa il nome del grande Tozzi, evocato dallo stesso titolo della
prima sezione. Invero «Il cuculo», «Il falco d’oro » e poi «La figlia del maestro » hanno un narratore tozziano in una voce d’adulto secca e tormentata, che non sembra ancora aver perduto del tutto un’innocenza selvatica da introverso bambino di campagna, e fanno pensare a Tozzi anche per la concisione del dettato, le transizioni repentine, gli ablativi assoluti, le brevi de-
scrizioni naturali di una bellezza guardinga e riluttante. Il bam-bino di questi racconti ha nomi diversi ma sembra sempre lo stesso (e forse avrebbe giovato alla raccolta se Pardini la avesse esplicitamente unificata in questo senso); è goffo, trasognato, inetto, gli calano nebbie sugli occhi, arrossisce di continuo,
si ammala e sembra in quello stato di perpetua convalescenza che è la scoperta del mondo per i bambini timidi. Per lui il termine di paragone per ciò che accade è l’animale o la natura: il primo bacio che spia a due amanti è descritto con la precisione stranita di una cosa che non si comprende. In La volpe bianca la luna, l'Appennino, le stelle posseggono una bellezza arcaica e misteriosa; la corporalità è naturale e i personaggi hanno odori come hanno sentimenti: cosi la pelle delle vecchie sa di cenere, quella della giovane e bella Maria («La figlia del maestro ») di « dolciumi crudi », il nano letterato e disperato emana odore d’aglio. Il bambino dei racconti cresce con gli animali, si innamora di un cuculo, trova il corpo del falco d’oro ucciso dall’aquila, ha i primi trasalimenti sessuali per la materna e maliziosa Maria. Gli viene detto più volte che sarà poeta e impara l'incanto delle parole scritte dal maestro, dal nano, dallo spretato, e sembra questo un apprendimento tanto più magico e trasgressivo proprio perché i pochi che sanno sono anche i diversi del paese. C'è insomma fra le righe di queste storie, a cui per qualche motivo Pardini non ha voluto dare lo stesso ‘protagonista, un crescendo, una formazione che si interrompe
con l’ultima, meno felice sezione (« La fine del sentiero »), dove due giovani di montagna, che potrebbero anche essere versioni cresciute del bambino, vanno in città in cerca di prostitute.
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Dopo tanta sensualità misteriosa che gronda da volpi bianche e falchi d’oro, queste ultime scene sembrano un po’ banali, ma
forse la perdita dell'innocenza è anche questo. Il falco d'oro (Milano, Mondadori, 1983) è una collezione di venti racconti che include otto di quelli già pubblicati nel primo libro di Pardini, probabilmente perché Mondadori poteva garantire all'autore una circolazione che la prima raccolta certo non aveva avuto. Dei nuovi, quello più interessante è il lungo racconto d’apertura, «Il bilancio », impari ed epica lotta, con forti risonanze simboliche e una bella tensione nel lungo inseguimento, fra un avvoltoio e un pastore sulle montagne dell’al-
ta Garfagnana. Fra gli altri racconti spiccano anche: « Un'altra vita», che narra di un mezzadro cinquantenne,
solitario e im-
malinconito, che ancora ricorda la ragazza di cui fu innamorato in gioventù e che mori suicida; «Il nonno», vivido ritratto
di vecchio contadino toscano, pieno di naturale dignità e di ritrosa poesia; «Occhi di cane», storia di Lupo, un cane randa-
gio raccolto ferito da un bambino e che diviene « domestico » per amore, non rinunciando però ad una sua selvatica ferocia.
Il tema dell’animale ferito raccolto da un bambino ricorre anche nel ripubblicato « Il cuculo » e in «La ballata della volpe grigia », dove le vicende di una volpe imprendibile sono legate per il protagonista Anio al presente (una scommessa, la ragazza di cui è innamorato) e al passato (il ricordo del padre) in una storia di caccia che intreccia la suspense dell’azione alle emozioni nascoste di memorie intime e famigliari. // falco d’oro rimane di buon livello, per quanto si noti il riemergere, aggravato, di qualche incertezza tecnica già riscontrata in La volpe bianca. Innanzitutto quel senso di dispersione, di raccolta casuale, ti-
pico dei racconti in volume, qui accresciuto dalla riedizione di racconti vecchi mescolati coi nuovi, dall'assenza di un elemento aggregante, sia esso una cornice o un io narrante ricorrente. Ritorna anche una certa incapacità di concludere in modo convincente le storie, che cedono ora a risoluzioni ingenuamente
tragico-sentimentali (« La piccola guardia », « Acchiappatassi »), ora alla mancanza di misura (« Don Pistola »), ora al bozzetto macchiaiolo di maniera, che fa pensare a Fucini («Il Mascaro »). Insomma, se da un lato con I! falco d'oro Pardini conferma un notevole talento di narratore, in grado di resuscitare le suggestioni corpose e popolari di un antico novellare toscano « da focolare », dall'altro sembra perdere in parte quella dimensione più complessa e profonda, magica e tormentata, che si era notata in La volpe bianca. 190
E questo l'aspetto che invece torna alla ribalta con // racconto della Luna (Milano, Mondadori, 1987, nota di Cesare Gar-
boli), opera eccentrica nel panorama della recente narrativa italiana per i suoi incantati paesaggi lunari e per il suo erotismo panico e ossessivo. In un tempo imprecisato un giovane angustiato e ombroso, l’io narrante, viene mandato come guardiacaccia in una località sperduta e selvaggia. Qui, in notti magiche per la bellezza dei boschi e delle montagne, fa conturbanti incontri nel corso delle sue perlustrazioni (una banda di contrabbandieri, una vecchia memorante e solitaria) ed è progressivamente attratto dal fascino sensuale della luna. Viene infine rapito da una tribù di nomadi, che si dicono portatori di una «Verità segreta» e sono minacciati da una banda nemica che li vuole annientare. Essi riconoscono nel guardiacaccia un uomo protetto dalla Luna (sempre maiuscola nel racconto) e gli affidano la loro giovane principessa — appunto creatura « lunare » splendida e sfuggente — da trarre in salvo. I due fuggono e si amano con erotico ardore e volubile alternanza di sentimenti. In un viaggio sempre ai confini fra sogno e realtà, sostano in una fortezza diruta, attraversano un vertiginoso ponte sospe-
so, si addentrano in una caverna tenebrosa, passano per una città spettrale e in rovina e infine raggiungono il mare e un veliero che li attende. In I! racconto della Luna ricorrono scorci naturali che già conosciamo, un cane che si chiama Lupo come
quello di « Occhi di cane » (Il falco d'oro), altre memorie della mitica figura del bisnonno divenuto pistolero leggendario in America (« Bisnonno », La volpe bianca) e un io narrante monologante e lacerato. Nel bell’inizio dell'arrivo del giovane guardiacaccia c’è un’indeterminatezza sofferta e surreale alla Buzzati e non si può non pensare al Landolfi di Racconto d’autunno per l'atmosfera di mistero e per lo stile arcaico. Infatti ciò che più colpisce in Il racconto della Luna è la perizia linguistica di Pardini, che ricrea un toscano antico, aspro e risonante,
attingendo a piene mani alla parlata della sua terra, il garfagnino. La lingua sembra subire le lacerazioni dell’io narrante in un impasto franto in cui pensieri e parole si accavallano in solecismi e anacoluti: «[c]on questo pensiero, cioè d'una donna
che potrei anche darle un volto e una voce, preso da tormento indefinito e indefinibile, scendo le scale lasciando il cane, per
guardia, chiuso » (18). È un periodare discorsivo e dialettale, che può ricordare quello del Guizzardi (Le avventure di Guizzardi) di Celati in certi suoi scarti paranoici e stuporose lamentazioni, ma che sa anche distendersi in scene di bellezza primitiva e sensuale, che echeggiano il panismo visionario dei Canti orfici di Campana. Le similitudini sono cifra stilistica ricchissima 191
e pervadente; attingono in gran parte al patrimonio inesauribile (e oggi quasi dimenticato) della vita contadina e del mondo animale con una spontaneità e un’immediatezza che implicano una conoscenza diretta della natura e danno a questo tipo di immagini, che siamo ormai abituati a recepire come figure retoriche, una vitalità robusta e intensa, omerica, di un Omero
le cui invenzioni non sono ancora consunte dal t6pos. Ciò che non convince in Il racconto della Luna è l'erotismo crudo che crea improvvise cadute di tono nella voce narrante,
che avrebbe invece un estremo bisogno di equilibrio per far entrare il lettore nella sua storia fiabesca e lunare. Ma la Weltanschauung laurenciana di Pardini equipara la natura selvaggia al sesso e non lascia spazio per tecniche sofisticate quali la seduzione, credendo anzi che quanto più si è rudi e diretti, tanto
meglio. Il risultato è spesso un ridicolo e grossolano cozzare di «alto » e «basso », uno stridente e goffo rovesciamento di registri che non mi pare avere intenzioni sperimentali, ma piuttosto porsi come provocazione ideologica. Cosi la provocazione iconoclasta riesce, ma I! racconto della Luna ne è la prima vittima. Forse la prova più verace di un primitivismo non letterario ma vivamente sentito, l’eros dissonante di Pardini comun-
que non convince appunto letterariamente, per gli irreparabili danni che infligge alla magia del racconto. L'espediente di Garboli, che nel risvolto di copertina tenta di nobilitare il tutto col bel termine « priapico », non resiste alla prova della lettura. Bastino un paio di esempi: Già muovevo sul folto delle sentinelle e del ragazzo dei passi incerti e nervosi quando riecco il vecchio; e ho le ginocchia d’improvviso fredde; le membra che quasi pare stiano per disciogliermisi. Come quando, adolescente spaurito, curioso e avvogliato, mi tiravo, snervanti fino al midollo, le prime scottanti seghe (88). E ancora: Mi piego, m’inginocchio davanti alle sue gambe dolci e ambrate;
ai suoi piedi rosei da sembrare abrasi. «Dov'è che ti fa male? » chiedo. Abbassandosi da posarmi i capelli sul naso si che glieli respiro e la respiro anche come pelle, risponde: « Qui ». Pigliatole il piede, bello quanto un dipinto in mano, le sfilo il sandalo: ha il mignolo, tenero e carino, tumefatto e pulsante. Cosa fare allora? Se non tentare d’avvicinarmelo, di strofinarmelo al cazzo per sbrodarci, tutto, su (97).
Le movenze dell’epico « disciogliersi delle ginocchia » e del cavalleresco amor cortese sono improvvisamente distrutte da192
gli imprevedibili finali, ma non c’è un briciolo di ironia che avvalori una qualsiasi ipotesi parodica. Sembra invece che l’ingenua intenzione di Pardini sia quella di unire con tale voce stilisticamente incoerente l’amore sacro a quello profano, l’epico al naturale. Si deve inoltre aggiungere che Pardini, come Tabucchi, non è uno scrittore di romanzi, e Il racconto della Luna
è appunto, più che un romanzo, un racconto allungato per esigenze editoriali cosi che, soprattutto nella seconda parte, quella della pretestuosa fuga, registra anche per questo cadute di tensione non lievi. Jodo Cartamigli (Milano, Mondadori,
1988) riprende e svi-
luppa quella figura leggendaria del bisnonno emigrato in America già vista in La volpe bianca e Il racconto della Luna. Ecco cosi, in un West incongruo e un po’ kitsch che ricorda da vicino la Garfagnana, il legnoso e fantasmatico pistolero Jodo, ani-
ma dannata costretta a vivere nell’odio e a cacciare cattivi che gli assomigliano sinistramente, quali il bieco Ellend Harrison, che come lui porta al panciotto la mesmerica catena d’oro di un orologio che non si vede mai. Il racconto, fatto di episodi che spesso non si legano bene, ha un ritmo frenetico, ma più che procedere gira su se stesso in un susseguirsi di duelli, massacri, imboscate, calure e geli micidiali, tramonti infuocati e
pleniluni maliardi (la luna, si sa, è la grande passione di Pardini) che generano nel lettore lo sconforto del già letto ed un’impressione sciattamente formulaica, accresciuta dalla bidimensionalità fumettesca dei personaggi e da una profusione di cliché narrativi (« L'avventura dei nostri eroi ci ha forse tenuto troppo lontani da Fort Wine » [174]) e sentimentali (« Essa, il volto sempre più bello, splendente, aggrappandoglisi al collo: “Io tua, sempre tua sarò” » [207]). Qua e là, le molte affinità fra Car-
tamigli e Harrison e l’inesorabile e sovrumana determinazione del bounty killer garfagnino fanno affiorare ricordi calviniani di visconti dimezzati e cavalieri inesistenti (anche Jodo ha una sua armatura, fatta di un impeccabile vestito nero con papillon rosso e di un cappello eternamente sugli occhi), ma qui levità e ironia, la limpidezza di idee con cui Calvino anima il gioco fiabesco, mancano del tutto. Le sostituisce un disegno del racconto cosi flagrantemente ingenuo da risultare falso, come rileva Massimo Romano.? Insomma una trasposizione storicogeografica che è una battuta d’arresto per uno scrittore naturale che forse ha già detto tutto con la prima raccolta e qualche memorabile passo di incantata adorazione lunare. Pardini, scrittore di un’area culturalmente decentrata e lin-
guisticamente isolata (come si è accennato, il garfagnino appen-
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ninico ha ancora a tratti la solenne risonanza del volgare trecentesco), è arrivato in ritardo al banchetto della narrativa del microcosmo regionale, ma con quel tono in più, raro, del visionario maledetto che era stato di certi grandi toscani di provincia (il quasi conterraneo Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Campana, alcune cose di Malaparte), qui valorizzato anche da una lingua dimenticata e tutta da riscoprire. Questo lo ha reso appetibile come « curiosità primitiva » ad un’industria culturale che altrimenti avrebbe ormai assorbito e concluso l’esperienza del romanzo regionale. Non a caso Pardini, dopo l’esito incerto di I! falco d’oro, spinge esplicitamente nella direzione del mitico-fiabesco un raccontare che stava scivolando nel « colore locale » dell’antico novellare toscano e forse pensa di riuscire come autore nuovo accrescendo anche la sensualità elementare e panica già presente nelle due raccolte; ma in Il racconto della Luna l'erotismo rude e primitivo non si concilia con la dimensione fiabesca e in Jodo Cartamigli lo scenario western che dovrebbe costituirne la novità è troppo finto per risultare mitico e per conservare, nella trasposizione straniante, la freschezza e l'incanto dei paesaggi appenninici delle prime due opere.
NOTE
1 «Pessoa è un genio perché ha capito il risvolto delle cose, del reale e dell’immaginato, la sua poesia è un juego del revés » dice Maria do Carmo al narratore in «Il gioco del rovescio » (Antonio Tabucchi , // gioco del rovescio, Milano, il Saggiatore;
1981, p. 11).
2 L’anno esatto lo si desume da questa parole: « Mai una volta che si sia dimenticato il mio compleanno, [...] guardi, dal Settanta a oggi sono otto telegrammi » (I! gioco del rovescio, Milano, il Saggiatore, 1981, p. 102). 3 Tabucchi riprenderà più esplicitamente il tema ambiguo e malinconico del fallimento di una generazione che ha creduto nella lotta armata nel racconto eponimo di Piccoli equivoci senza importanza (Milano, Feltrinelli, 1985) e poi in Il filo dell'orizzonte (Milano, Feltrinelli, 1986). 4 Scrive Tabucchi in / volatili del Beato Angelico (1987), in una lettera ad un teosofo conosciuto in India, l’incontro col quale ha scomposto e riusato in vari modi in Notturno indiano (1984): « certo anche perché mi trovavo in un continente cosi lontano dal mio mondo, provai allora un sentimento di estraneità molto forte verso tutto » (I volatili del Beato Angelico, Palermo, Sellerio, 1987, p. 50).
5 A proposito di Piccoli equivoci senza importanza e della percezione che « I treni che vanno a Madras » era parte di Notturno indiano, si veda
la bella recensione di Flavia Ravazzoli in Autografo 7, febbraio 1986, pp. 76-79. i 6 Cfr. Renato Barilli,
«Si per tre crescite », Alfabeta 78, novembre
1985, p. 4. ? Il motivo dell’istantanea che cela un segreto era già presente in Not-
194
turno indiano, dove la fotografa Christine mette in guardia il protagonista proprio a proposito degli ingrandimenti (cfr. Antonio Tabucchi, Notturno indiano, Palermo, Sellerio, 1984, pp. 101-102). ® «L'essere stato appartiene in qualche modo a un ‘terzo genere”, radicalmente eterogeneo all'essere come al non-essere » (Vladimir Jankélé-
vitch). ? Parte di queste considerazioni su // filo dell'orizzonte sono state riprese da Stefano Tani, « Il filo del silenzio », Jl Ponte 6, novembre-dicembre
1987, pp. 174-177.
!° Geno Pampaloni, « Eutanasia della scrittura », Il Giornale 283, 30 novembre
1986, sezione
« Lettere e Arti », pil
tt In/ dialoghi mancati Tabucchi riprende in chiave teatrale il genere antico e stravagante, prezioso e idiosincratico, della « conversazione immaginaria », da Luciano a Fontenelle e a Landor. 12 «A questo punto — grande regista anche ora! — la macchina da presa, con un morbido zoom, va ad inquadrare il volto della giovane donna illuminato dalla fioca luce della lampada che sovrasta il portone: è un volto splendido, segnato da uno sguardo magnetico, duro » (Giorgio Montefoschi, Ginevra, Milano, Rizzoli, 1974, p.120);
«Jessica che, muovendosi sul
divano, ha le movenze feline di una gatta » (p. 15);
«La donna sorride mali-
ziosa [...]. Certo, con il vecchio dovrà continuare a viverci, ma sarà solo una -
questione formale, perché il suo cuore, per sempre, sarà prigioniero del cuore del poeta » (p. 121). 13 Entrambi i titoli richiamano L’amore coniugale (1949) di Alberto Moravia, a cui Montefoschi è stato spesso paragonato, per quanto mi pare
che i due scrittori abbiano in comune soltanto la scelta ricorrente di ambientazioni romane e borghesi. 14 L’amicizia fra l’esangue Giulio Scalia, professore di lettere antiche, e l’estroverso Mario Guidetti, giornalista, dovrebbe essere al centro della
narrazione ma data la diversità dei due personaggi e la banalità delle loro rare conversazioni non se ne comprende mai la ragione e la natura, e questo profondo legame rimane un fatto poco convincente su cui purtroppo
si basa gran parte dell'intreccio di La felicità coniugale. 15 « Montefoschi: descrivo sentimenti, non seguo le mode », intervista
con Mirella Serri, Tuttolibri (La Stampa) 580, 14 novembre 1987, p. 2. 16 Quest’interesse per le celebrazioni festive quale momento cruciale per l'osservazione dei personaggi (del resto tipico del grande romanzo realistico, basti pensare a Buddenbrooks) era già stato espresso alla seconda dal narratore di L'amore borghese, che nel suo romanzo-saga Vita di una famiglia borghese riuniva di anno in anno i fratelli Bartolini a casa dei genitori.
17 Si ricordi a questo proposito il best-seller di Susanna Agnelli Ve-
stivamo alla marinara (Milano, Mondadori, 1975) in cui, più ancora che nel
libro di Duranti, il privilegio della giovinezza dorata appare legato al rigore della disciplina. 18 «“Ho fatto un po’ di indagini e ho appreso che il tuo amato bene è impotente”. “Mamma, lasciami in pace”. “Tu appartieni a una famiglia granitica, senza macchia. Sei bella, giovane, colta, intelligente: ti pare il caso di gettarti via per un eunuco?” “Bisogna vedere se è vero”. “È vero, è vero, lasciati servire. Almeno Carlo è un uomo, scusa tanto”.
195
“Piuttosto che tornare con Carlo prendo il velo'’» (Francesca Duranti, Piazza mia bella piazza, Milano, La Tartaruga, 1978, p. 39). 19 «Ma, in quel preciso istante, il matrimonio di Marco e Paola, la splendida, esaltante unione, il caso fortunato, irripetibile, aveva comincia-
to a morire: e da allora, sempre più rapidamente, aveva seguitato a precipitare verso la fine, decomponendosi nelle loro mani impotenti » (Piazza mia bella piazza, Milano, La Tartaruga,
1978, p. 8).
20 «[Lavinia ajveva catturato un ermellino [Marco]: una creatura per-
fetta, avvolta per diritto di nascita in un manto regale. O era invece l’ermellino che aveva catturato lei e si preparava, con comodo, a dilaniarla con i suoi bei dentini affilati? L'una cosa o l’altra, o tutte e due. Che importan-
za aveva? Si acciambellò attorno alla sua gastrite nervosa come una chioccia che riscalda il suo pulcino prediletto; cadde in un sonno di beatitudine» (Francesca Duranti, Lieto fine, Milano, Rizzoli, 1987, p. 154).
21 Si veda a questo proposito appunto L'invenzione della verità (Milano, Longanesi, 1988) di Marta Morazzoni, che prende il titolo da una frase di Ruskin citata a chiusura della narrazione (« Si possono immaginare cose false, e comporre cose false; ma solo la verità può essere inventata »)
e testimonia questo interesse molto contemporaneo per una verità artisti-
ca e paradossale. 22 Per esempio, la traduzione inglese di William Weaver di Piazza Carignano esce, con lo stesso titolo, nel 1985 (Boston, The Atlantic Monthly
Press). La traduzione inglese di Stephen Sartarelli di La casa sul lago della luna (The House on Moon Lake) esce nel 1986, per la Random House di New York. 23 «Una storia fa da supporto all’altra, ma per quale misterioso progetto, lo ignoro. [Il romanzo f]orse mi fa paura, come se fosse nato da cose poco governate dalla mia volontà », dice Marta Morazzoni a Domenico Porzio; cfr. « Col cuore al Nord», Panorama 1157, 19 giugno 1988, p. 18. 24 «Si possono immaginare cose false, e comporre cose false; ma solo
la verità può essere inventata »,
John Ruskin (Marta Morazzoni, L’inven-
zione della verità, Milano, Longanesi, 1988, p. 136). 25 Cfr. l’acuta recensione di Lorenzo Mondo, « Nella cattedrale
di
Amiens Ruskin incontra la favolosa ricamatrice », Tuttolibri (La Stampa) 604, 4 giugno 1988, p. 2.
26 Il titolo è ispirato ad una citazione della poetessa russa Marina Cvetaeva: « La mia prima scena d’amore [...] fu di nonamore: lui non amava, lei amava, lui andò via, lei restò » (Marisa Volpi, Nonamore, Milano, Mon-
dadori, 1988, p. 78).
2? «Una volta, anni indietro, [Luigi] si era trovato a soprenderne l’intimità [di Elena] mentre diceva ad Arturo: “Contro la mia forza, alla quale tu credi, c'è un impulso dentro di me che insiste, insiste senza che io me
ne accorga, quando una qualunque occasione lo ridesta. Potrei canterellarlo ‘Vorrei morir, vorrei morir, non posso più’. Per questo ieri ti è piaciuta la mia mazurka in sol diesis minore. La suono e fermo li il mio desiderio di sparire. Ne rimango stordita” ». Da « Interiorità » (Nonamore, Milano, Mondadori, 1988, pp. 167-168, enfasi dell’autrice).
28 «Pardini dà l'impressione di essere un finto naif — di mestiere fa la guardia notturna — che, travolto dai veleni della letteratura, non ha una storia sua da raccontare », in Massimo Romano, «Un bounty killer della
SELAANE emigra nel West », Tuttolibri (La Stampa) 648, 25 marzo 1989, piaz;
196
re#
2.- GLI ACCUMULATORI GENERAZIONALE
E L'AUTORITRATTO
« Detesto ogni tipo di scommessa. Non voglio correre il rischio di vincere. E ho un debole per le sconfitte, per gli sconfitti. Posso anche dirle che vado scoprendomi un certo amore alla rivoluzione: appunto perché è ormai sconfitta » (LEONARDO Sciascia, Il contesto).
Si è visto come il Gruppo 63 e la scrittura spontanea non abbiano prodotto dei cambiamenti significativi all’interno del romanzo medio, che ha mantenuto un'esistenza parallela e tutto sommato indisturbata rispetto ai due fenomeni. Ma le parole in libertà della neoavanguardia e la creatività diffusa del movimento hanno messo in crisi la nozione di un canone della letteratura e liberato molteplici possibilità. Le loro istanze di novità riemergono in una forma molto più controllata e conciliatoria nelle opere di giovani narratori che tendono ad un’esuberanza accumulatoria ma leggibile (Tondelli, Avalli, Cavazzoni) o che rievocano, spesso con toni elegiaci, le ansie, gli amori e
l'impegno politico di chi, come loro, aveva vent'anni nel ’77 (Palandri, Piersanti, Corrias). Come si avrà modo di notare, dei due autori il cui lavoro è stato qui esaminato in connessione con
il nuovo clima politico e culturale degli anni settanta è Celati quello che per questi esordienti è risultato più influente, per la sua vis comica e per essere stato l’interprete più interessan-
te delle tematiche della scrittura di movimento (si pensi a Lunario del paradiso). Ma, oltre a degli scrittori « accumulatori » e ad altri generazionali in quanto voci rappresentative della cruciale generazione del ’77, c'è anche un più recente gruppo di romanzieri generazionali « senza memoria », il cui precursore è Andrea De Carlo: Tani, Valentini, Cappelli e Veronesi non si misurano col passato da cui è uscita la loro generazione né cercano di leggere il presente come storia, ma esprimono piuttosto il disincanto e le ansie ben dissimulate dei giovani degli anni ottanta e sono generalmente accomunati da uno scrivere più controllato nello stile come nelle emozioni dei loro protagonisti. Rispetto a Tabucchi, Duranti, Montefoschi e Volpi, i nar-
ratori in questo capitolo appartengono davvero ad un’altra ge197
nerazione per età e formazione: sono cioè riferibili principalmente agli anni settanta se non addirittura agli anni ottanta per cultura, esperienze risolutive e materiali narrativi. Le loro voci sono fresche e ciniche, innocenti e dure allo stesso tempo; non
praticano le malinconie raffinate di Tabucchi o il civil conversare di Duranti e Volpi, ma tendono nel complesso ad uno scrivere «non cerimonioso », che si avvale dell'esperienza del par-
lato basso come coacervo capace di contenere esigenze espressive diverse, ribellistiche o giocose, mimetiche o visionarie. A questo stile eterogeneo corrisponde una scrittura più disarticolata per una consapevole riduzione del raggio della propria esperienza; l’unità narrativa non è più il classico capitolo, ma
piuttosto il frammento, il lacerto che coglie l’umore, la conversazione, il breve episodio.
‘Gli accumulatori fra realismo violento e visione comico-grottesca:
Tondelli, Avalli, Neirotti, Lacatena,
Barbolini, Antonaros,
Busi, Benni,
Cavazzoni
La foga accumulatoria di questi romanzieri la si può spesso mettere in correlazione con la presenza nelle loro opere di un protagonista picaresco, ribaldo o trasognato, che passa attraverso avventure diverse con l’avidità di vita e gli smarrimenti tipici della giovinezza, con la disponibilità propria della marginalità. Una componente di esuberanza carnevalesca, rabbiosa o irridente, può in diversi casi essere riallacciata anche alla matrice padana di alcuni di questi narratori (Tondelli, Busi, Cavazzoni, Benni, Barbolini), quella tradizione di scrittura corposa e visionaria, sensuale e surreale a cui si è già accennato per autori diversi come Bevilacqua e Celati, e che ha antenati illustri
quali Ariosto, Folengo e Ruzante. In genere la condizione giovanile è vissuta come ghettizzan-
te e frustrata; lo stile è cumulativo e frastornante, come la com-
plessità della realtà in cui ci si muove, con forte presenza del monologo interiore e del punto di vista acre e divergente. La scelta di un personaggio errabondo può essere il risultato di una proiezione autobiografica (Tondelli, Avalli, Antonaros, Busi) più o meno narcisistica o una creazione estrosa e clownesca, che si rifà agli io narranti di Celati e direi ad un’eco di stralunati clerici vagantes (Cavazzoni). Se da una parte un realismo violento contestualizzato dagli avvenimenti o dalle trasformazioni intense degli anni settanta sembra la controparte espressiva più diretta di un modello di esperienza accumulatorio e 198
senza coordinate (Tondelli, Avalli), dall'altra un'operazione più filtrata può dare esiti mimetici articolati e complessi (il Tondelli di Rimini) o comici e fantastici (Benni, Cavazzoni). Parimenti la lingua oscilla tra la ricostruzione di un parlato generazionale basso, gergale fino al brutale (Tondelli, Avalli) e un ammiccante stile clownesco, dove l’effetto comico dipende dal
gioco di parole, da un’affabulazione spesso svagata e surreale (Benni, Cavazzoni). C'è anche chi come Lacatena tenta ancora un'operazione primariamente retorico-sperimentale, che si basa sull’accumulazione di frammenti logorroici e dissonanti, vivificati comunque da rovesciamenti semantici fulminei, da calem-
bour umorali e sarcastici, e chi come Barbolini sposta l’esperimento retorico nell'odierna direzione del ludico e virtuoso laboratorio letterario postmoderno, dove il congegno romanzesco lo si commenta o lo si fa capricciosamente a pezzi. I casi meno convincenti sono quelli in cui l’accumulazione è mero tentativo di riempimento di un reale senza fondo, e non è temperata né da una ragion comica né da un progetto narrativo preciso,.
Gli effluvi emotivi e urlati di Neirotti e il narcisismo fluviale e involuto di Busi sono egualmente privi di controllo e fini a se stessi, anche se si tratta di due fallimenti di qualità molto diversa: l’uno dovuto a doti narrative troppo magre e acerbe, l’altro ad un talento incline agli eccessi grotteschi, incapace di disciplina fabulatoria e stilistica. Altri libertini (Milano, Feltrinelli, 1980) di Pier Vittorio Ton-
delli (n. 1955 a Correggio, Reggio Emilia) rientra nel novero di quelle operazioni editoriali tipiche di Feltrinelli che vogliono conciliare il ritorno di mercato con il classico épater le bourgeois, e che sono tanto più fruttuose quando si collocano sul crinale di un momento ancora ibrido, come appunto il 1980, situato fra le ultime convulsioni di un decennio di grandi sommovimenti politico-sociali e l’inizio di un massiccio ritorno all'ordine: comprano i nostalgici della bohème del movimento, comprano i borghesi curiosi che sanno che questo è il primo passo verso la museificazione della « rivoluzione », di cui infatti negli anni ottanta i media festeggeranno date e ricorrenze con
necrologico scrupolo. Per questo mi pare che il vero inizio del fenomeno « giovane narrativa », con tutto il suo peso di aspettative generazionali, sia non tanto Altri libertini, presentato e
percepito come libro scandalistico che chiude un decennio, quanto piuttosto Treno di panna (1981), che ne apre un altro fin dal commento in quarta di copertina di Calvino, che sollecita attraverso De Carlo una ridefinizione della comune percezione di scrittura giovanile, preparando la strada per una nuova generazione di narratori. 199
A tanti anni di distanza, è interessante rileggere e rivaluta-
re Altri libertini per quello che è: l'aura sulfurea di opera sequestrata, degenerata e perversa, ovviamente è sparita; il sentimento di avere a che fare con un libro che è la summa di un decennio di libertà e di confusione, di collettivismo e trasgressione rimane invece confermato.
Altri libertini è una raccolta di sei racconti che viene fatta passare per romanzo per motivi di vendibilità; sono storie comunque che hanno in comune l'ambientazione (in genere Reggio Emilia e Correggio), un simile mondo giovanile e, nel caso delle ultime quattro, uno stesso io narrante trasparentemente autobiografico. Tondelli concentra nel racconto di apertura la carica più cupa e violenta. « Postoristoro », che si svolge alla stazione di Reggio Emilia, narra in terza persona una giornata nella vita di spacciatori, tossicodipendenti, prostitute vecchie e sdentate o giovani e sfatte, e in particolare le vicissitudini di Giusy, pusher scassato più vittima che carnefice; « Postoristoro » descrive una fauna allucinata di relitti umani vagamente beckettiani (in particolare Molly) con una lingua gergale, rabbiosa e dura, abbrutita e stonata, che mima i ritmi franti e sballati della
droga e dell’astinenza. Con scaltro controcanto il seguente «Mimi e istrioni » è invece la storia frivola e picaresca di un quartetto di ragazze scatenate, le « Splash » di Reggio Emilia, che vivono e amano sfrenatamente nei giorni dei collettivi giovanili, dei gruppi autogestiti, delle radio libere e dei laboratori musicali e teatrali; il loro sodalizio, che si dissolve dopo il ritorno dalle vacanze estive, è raccontato con un noi collettivo
da una di loro (Pia) in un parlato controculturale, confidenziale ma esuberante, che ben traduce la nozione di un personale che è anche politico, più per istinto che per meditata consapevolezza ideologica. Cosi giocosi riferimenti un po’ goliardici a Dante e a Manzoni, a canzoni risorgimentali, partigiane e di protesta, si mescolano ai nomi di Godard, Marshall McLuhan e
« Umbert d’Ecò », come anche al gergo disinibito ed effervescente delle « sbarbine » da discoteca, a testimoniare quell’ubriacatura assimilatrice di libertà e di linguaggi acculturati e bassi che furono gli anni settanta. « Viaggio » è il racconto di ricerca di identità e di formazione di un giovane Tondelli fuggito dalla provincia plumbea di Correggio e che dal 1974 al 1977 viaggia a Bruxelles e a Parigi, vive a Bologna dove frequenta il DAMS e a Milano dove fa l’animatore in una scuola elementare e passa attraverso droga, ubriacature e amori omosessuali sempre
disperati secondo la bohème tipica del decennio, di cui respira l'atmosfera militante senza però farsi coinvolgere politicamente. È questo il racconto più lungo, personale e ambizioso di Altri 200
libertini,in cui Tondelli profonde le sue rare doti di narratore naturale, che riesce a tradurre in lavoro di buon livello un materiale autobiografico magmatico ed emotivo senza per questo
dare l'impressione di filtrare o irreggimentare il vissuto, di rinunciare nella scrittura all’immediatezza delle passioni e del parlato. Il titolo del breve « Senso contrario » gioca su una notîe balorda di guida folle, incurante di divieti e sensi unici per
fuggire all'inseguimento di un’auto di vigilantes, e di sesso omosessuale a tre, a cui segue il « vuoto enorme » (143) delle cinque del mattino. Forse il racconto migliore è quello che dà il titolo alla raccolta, una gustosa traduzione trasgressiva in versione
tardi anni settanta della tipica storia di provincia, con amici al bar, notti in bianco, pettegolezzi e amori grassi che abbiamo
letto tante volte nei romanzi aggraziati e malinconici di Chiara e che qui esplode in una girandola libidinosa e furibonda di ragazze «assatanate » e di giovani « checche sfrante » che si contendono il bell’Andrea di Milano in un nebbioso inverno del ’78 a Correggio, « questo cesso di paese staccato dal resto del mondo » (146); il narratore non dice quasi mai io ma narra in prima plurale con occhio imparziale e divertito le grandi manovre collettive per « cuccarsi » lo straniero. « Autobahn », sgangherata fuga in Cinquecento del solito io di Correggio sull'autostrada che da Carpi porta fino ad Amsterdam per esorcizzare « le belve degli scoramenti » (178), è anche un viaggio all’inseguimento del profumo della libertà: «l’odore del Mare del Nord che spazza le strade e le campagne e quando arriva [sull’autostrada] senti proprio dentro la salsedine delle burrasche e dell’o-
ceano e persino il rauco gridolino dei gabbiani » (181). « Autobahn » manifesta la componente « padana » e celatiana dello scrivere esuberante di Tondelli, che conclude con un « cercatevi il vostro odore », a riecheggiare quel « fatevi le vostre storie» che Celati poneva a conclusione del suo Lunario del paradiso (1978), appunto ricognizione di avventure nei pressi del mitico Mare del Nord. Se Celati richiama il lettore alla necessità dell’atto creativo indipendente secondo il credo della scrittura di movimento, Tondelli sembra esortare a un inseguimento di libertà e di avventura che è di per sé un privato e anarchico atto creativo. Ma è proprio questa avventura disimpegnata, che risolve la creatività per lo più nei termini molto giovanili e concreti di un’affabulazione a base di logorrea esistenziale o di esperienze sessuali (la cui novità trasgressiva ormai non è più tale), che
banalizza e ripete inevitabilmente il discorso di Tondelli. E il vecchio equivoco della vita come opera d’arte, tanto più artistica quanto più giovanile e sregolata, amplificato dalla natura accumulatoria, esplicita e cronachistica della scrittura di 201
Tondelli, che regge alle proprie esuberanze nel racconto ma si sfascia in un parlarsi addosso tedioso e torrenziale nella forma del romanzo. Cosi appunto accade in Pao Pao (Milano, Feltrinelli, 1982),
resoconto del servizio di leva di un io narrante autoriale che affastella voluttuosamente, in quell’ambiente dal presunto « statuto forte » che è la caserma, quante più trasgressioni possibili, per cui la suggestione esotica emanata dal titolo in fondo la si può paradossalmente applicare anche al suo reale significato: Picchetto Armato Ordinario. La lingua è un flusso continuo di parlato giovanile gergale e umorale, confidenziale o concitato, una «registrazione scritta » che sfiora talvolta il monologo interiore e che ha le sue ascendenze letterarie in William Burroughs e Jack Kerouac. Le sfilze di elenchi per associazione e per soggetto, le presentazioni di commilitoni caricaturali e della «fauna orba e storpia del ministero » (175) convergono verso l’effetto-bestiario, vogliono costruire la galleria subumana di una cialtroneria italiota e militare; ma questi personaggi grotteschi sono visti troppo da vicino, c’è nei ritratti un coinvolgimento feroce che impedisce anche solo il rigore del bozzetto. Cosi l'intenzione polemica si perde in un eccesso continuo che diviene infine goliardia compiaciuta, volubile e intemperante divagazione affabulatoria. L’unico filo che rimane in questa cronaca enfatica e disarticolata di bevute, stonature e amori ado-
lescenziali è quello di un autobiografismo indulgente e fine a se stesso, che infine narcisisticamente prevarica, con il suo ego-
centrismo sentimentale, anche su quella coralità narrativa che sembra all’inizio una delle cose migliori di Pao Pao. Rimini (Milano, Bompiani, 1985) rappresenta un drastico cambiamento nello scrivere di Tondelli. Dopo un’opera prima di successo, aggressiva e di rottura nello stile come nel contenuto, ed un romanzo molto meno convincente nella stessa di| rezione, Tondelli con il massiccio Rimini rientra nell’alveo di una narrativa mimetica e meditata, che vuole essere recepibile da un pubblico quanto più vasto. Se c'erano dubbi sulle qualità di Tondelli come narratore di ampio respiro, essi vengono fugati da Rimini. D'altra parte Rimini è anche un esempio paradigmatico della sveltezza con cui i nuovi autori escono da impasse più o meno sperimentali per scegliere il consenso che viene dal «romanzo ben fatto ». Mentre questo tipo di romanzo può essere replicato ed ha generalmente un successo di pubblico che è spesso stimolato proprio da una sua latente serialità, l’opera trasgressiva è per sua natura diversa e quindi difficilmente
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ripetibile, almeno con successo: come esemplificazione di poetica, o come gesto provocatorio, provoca reazioni di noia o di
indifferenza se insistita; da qui il ricorso a una strategia « me-
dia », conciliatoria
e mitemente innovativa, che produce opere
dal realismo ben temperato e che sembra oggi comunque preferibile ad una avventurosamente sperimentale. Cosi lo scapigliato io collettivo espresso dalla prima persona plurale che pervade Altri libertini e ritorna a tratti nel concitato Pao Pao diviene in Rimini, opportunamente moderato ed articolato, l’insolita (ma non certo originale) struttura ordinatrice del romanzo: « polifonia », compresenza di più protagonisti e più episodi, simultaneità di più vite parallele che talvolta si sfiorano nell’affollata Rimini estiva. Ma, a parte questo sofisticato gioco di voci di matrice bachtiniana, Rimini è in tutto un romanzo collocabile nell’ambito del realismo convenzionale; Tondelli mostra una nuova
e insospettata maestria nel costruire le narra-
zioni in terza persona, per lui tecnica quasi del tutto nuova, oltre alla usuale abilità nel far parlare i suoi io narranti. Rimini ha due narratori in prima persona: Marco Bauer, giovane cronista ambizioso in un giornale di Milano che viene inaspettatamente promosso a redattore della pagina estiva dell'Adriatico e si sposta cosi a Rimini, dove finirà per investigare su un suicidio poco chiaro; Renato Zarri, che in due brevi se-
zioni (« Pensione Kelly », « Hotel Kelly ») situate alla fine di ciascuna delle prime due parti del romanzo ripercorre, narrando la storia dei genitori albergatori e della sua infanzia e adolescenza, la storia del miracolo economico
italiano e della cre-
scita caotica, stagionale e artificiale di Rimini. Le due prospettive, quella del visitatore estivo esterna e contingente e quella del residente interna e diacronica, sono complementari e con-
tribuiscono a quell'immagine globale e multiforme della città balneare che Rimini vuol dare. La narrazione in prima di Marco Bauer fornisce il filo conduttore del romanzo che, giunto Bauer da Milano a Rimini, si apre alle storie in terza di altri personaggi, i quali, come il giornalista, sono venuti a Rimini spinti da sogni e desideri irrealizzati: Robby e Tony alla ricerca di soldi per produrre il loro film; l’antiquaria berlinese Beatrix apparentemente alla ricerca della sorella minore ma in realtà di se stessa; il sassofonista Alberto a suonare in un locale
notturno, ma anche lui aperto all’imprevisto, nella fattispecie la classica avventura con donna sposata al mare, che però rompe il suo fragile equilibrio di uomo frustrato. Bauer nel suo racconto sfiora i protagonisti delle altre storie: dà un passaggio alla sorella drogata di Beatrix e nota Beatrix all'aeroporto, va
alla prima del film di Robby e Tony e fa un servizio giornalisti-
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co sull’atto di follia di Renato. Ma l’unico protagonista di un episodio con cui Bauer ha un rapporto diretto è Bruno May, dalla personalità labile e sfuggente, che ad ogni incontro è un uomo diverso (disinvolto gigolò, apprendista monaco, amico romantico, misogino violento). E solo dopo questi incontri tesì a stimolare l’interesse del lettore che Tondelli procede con la storia di Bruno May, giovane scrittore di talento che sta vivendo il classico blocco dopo il primo romanzo, aggravato dalla fine di un infelice amore omosessuale. Scrive Tondelli in seconda di copertina: « Voglio che Rimini sia come Hollywood, come Nashville, un luogo del mio immaginario, dove i sogni si buttano a mare, la gente si uccide
con le pasticche, ama trionfa o crepa ». Se la Rimini di Tondelli è un’amara versione nostrana di Hollywood e del Sogno Americano, il romanzo è in generale un omaggio a Chandler, a cominciare dall'atmosfera smagata e hard-boiled del bell’inizio, con Marco che ha l’inattesa notizia dell'incarico a Rimini, fe-
steggia al bar, e a sera guarda con rapito e avido desiderio di successo le mille luci di Milano come se fossero quelle di New York o di Los Angeles. (Ed è proprio quest’aura chandleriana che distingue l’arrivista Marco Bauer dai tanti giovani protagonisti un po’ sfrontati e un po’ innocenti tipici della giovane narrativa, a partire dal Giovanni Maimeri di Treno di panna di Andrea De Carlo.) Ma più specificamente e dichiaratamente chandleriano è il rapporto fra il giornalista-detective Marco e ‘lo scrittore in crisi Bruno, che infatti ricorda da vicino quello
fra Philip Marlowe ed un altro romanziere che non riesce più a scrivere, Roger Wade in The Long Goodbye. Bruno è una con-
sapevole «citazione » per la cui costruzione Tondelli combina la figura dello scrittore alcolizzato Wade e quella dell’elusivo e ambiguo amico di Marlowe, Terry Lennox. Per esempio, dopo la presunta morte di Terry, Marlowe beve alla sua memoria un gimlet, il drink che questi gli aveva consigliato la prima volta che erano andati insieme in un bar, proprio come fa Marco dopo il suicidio di Bruno bevendo in suo ricordo un altro aperitivo, ugualmente a base di gin, che questi gli aveva fatto conoscere al loro primo fortuito incontro nel bar di un hotel; non a caso
il drink di Bruno si chiamava «Il Lungo Addio ». È facile scorgere dietro il molto alcool e l'incapacità di continuare a scrivere di Wade un impietoso autoritratto di Chandler e, se è vero
che lo scrittore si cela spesso dietro il suo personaggio, sembra che Tondelli riprenda e sviluppi nelle sue recenti riflessio‘ni in prima persona « Frammenti dell'autore inattivo »! le parole e i sentimenti sul blocco creativo e l’idea di « momento giusto »? che aveva già espresso mella storia in terza di Bruno May. 204
Ma in Rimini ci sono anche altri meno appariscenti omaggi a Chandler: la ricca e narcisistica mecenate americana Velma ha lo stesso nome della protagonista femminile di Farewell, My Lovely, e Vermilyea, l’esotico nome della colonia per artisti sponsorizzata da Velma, è senz'altro ripreso da quello dell’indimenticabile segretaria di Playback. Del resto, gli influssi americani in Rimini non mancano: da
piccole civetterie linguistiche come il calco « prendere una doccia »* al tono generalmente cinico e vissuto dell’improvvisato detective Marco Bauer, al titolo della terza parte del romanzo (« Apocalisse, ora ») che riprende quello del film di Francis Ford Coppola, ad una discografia in gran parte proveniente dalla musica rock degli Stati Uniti che è stata messa in coda al testo (« Musiche », 291) per suggerire le colonne sonore che secondo Tondelli dovrebbero fare da sfondo all’azione.5 In fondo Tondelli con Rimini tenta di costruire un mito italiano con pezzi e parti del mito americano, nonché assorbendo nella sua opera dall’ingordigia pantagruelica vari motivi particolarmente in voga nel romanzo e nel cinema contemporaneo: quello giallo (l'indagine di Bauer), quello apocalittico (il mancato maremoto la cui attesa provoca comunque il panico), e quello della quest sentimentale ed esistenziale (Bruno che si distrugge per Aelred, Beatrix che si realizza grazie a Mario), che nel caso del travagliato amore di Bruno si amplia in un lungo excursus altamente emotivo che ricorda la tecnica divagatoria e melodrammatica del romanzo d’appendice. Mi paiono proprio le storie di cuore di Bruno e di Beatrice le parti più deboli di Rimini, quelle che più spesso scivolano nelle ispirate frasi fatte? o nelle descrizioni gratuite. Per quanto l’orchestrata polifonia del romanzo necessiti un crescendo finale, un trasgressivo « carnevale » di una
qualche sorta, l’isteria collettiva che si diffonde a Rimini e dintorni dopo la profezia del vecchio svanito professore, e che porta poi a violenze e disordini, non sembra molto verosimile. A par-
te queste pecche minori, la vasta struttura del romanzo regge egregiamente perché sorretta da un’ottima storia principale. La bella voce asciutta e disincantata di Bauer e la trama investigativa che si adatta perfettamente a tale voce danno a Rimini una mitica risonanza chandleriana, assicurano l’attenzione del lettore e forniscono un centro ideale anche alle altre vicende;
garantiscono insomma lo statuto forte del romanzo, impedendogli di disperdersi. Infine Bauer farà luce sul suicidio poco chiaro dell’appartato senatore Attilio Lughi: con un ironico colpo di scena edipico-corporativo, egli finirà per scoprire che il mandante di quello che invero era un omicidio è il gruppo a cui appartiene il suo giornale e che lui, giovane giornalista rampan-
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te, «pollo di turno » (280), aveva ottenuto l'ambito incarico di
capopagina a Rimini proprio perché si era certi che si sarebbe fatto facilmente ingannare dalle tracce lasciate a bella posta per avvalorare l’ipotesi del suicidio. Quindi, anche se c’è la soluzione, la giustizia non trionfa, a parziale smentita del classi-
co e gratificante meccanismo del poliziesco. Abilmente, per mantenere l’impressione di simultaneità cronologica su cui si basa il romanzo senza metterne in crisi la verosimiglianza, Tondelli racconta la tragicomica questua sulla spiaggia di Robby e Tony come contemporanea alle altre vicende, per dirci poi solo incidentalmente, al momento della pri-
ma del loro film (a cui fa assistere Bauer per concentrare quanto più possibile tutte le storie attorno alla sua), che l’«Operazione Briciole » era avvenuta l’anno prima.” Nel caso di Renato, Tondelli invece anticipa i suoi due monologhi dalla prigione, incuriosendo il lettore con delle vaghe allusioni,* e solo nel conclusivo « Apocalisse, ora » spiega ciò che Renato ha fatto, con Bauer
testimone, prima di arrendersi alla polizia e di raccontare dal carcere la storia che abbiamo già letto. La metamorfosi narrativa di Tondelli da Altri libertini a Rimini non è meno sorprendente di quelle del suo personaggio Bruno May; questa capacità di trasformarsi dimostra una ac-
quisita padronanza dei propri mezzi narrativi e mette Tondelli nel novero di quegli autori che hanno indubbiamente superato il limbo del noviziato « giovanile » e da cui c’è da aspettarsi nei prossimi anni un contributo meditato e di rilievo. Anche il personale e contingente Biglietti agli Amici (Bologna, Baskerville, 1986), una frammentaria raccolta di 24 « biglietti » che scandiscono le ore della notte e del giorno e che in parte provengono dal « diario letterario » di Tondelli in parte si rifanno o contengono citazioni da autori molto vari (da Ingeborg Bachmann a Leonard Cohen), è la spia di un nuovo orientamento: Tondelli dopo la polifonia estroversa e quasi feuilletonesca di Rimini sta ora esplorando lo spazio intimo e raccolto dei sentimenti amorosi e dell’identità, della solitudine e della lontananza, che analizza con una prosa scarna e meditativa, in cui distanzia il pro-
prio io con la terza persona;? un tipo di scrittura in sintonia con quella di « Frammenti dell’autore inattivo » (che infatti inizia con una citazione da Biglietti agli Amici), analisi cinerea della stasi creativa, inerzia dolorosa ma anche necessaria fase di isolamento e di rigenerazione.
Di aver iniziato sotto l’etichetta di « giovane » e di quanto sia difficile per un giovane scrittore anche solo essere preso in 206
considerazione dall'industria editoriale Tondelli conserva però buona memoria, tanto è vero che si è fatto promotore, negli ultimi anni, di iniziative volte a trovare spazio per gli esordienti. Come curatore delle due antologie di racconti under 25 Giovani blues (Ancona e Bologna, il lavoro editoriale, 1986) e Belli & Perversi (Ancona e Bologna, Transeuropa, 1987) e della serie editoriale « Mouse to mouse » per Mondadori, Tondelli si è assun-
to il ruolo del talent scout simpatetico e, per quanto limitato, il suo lavoro è meritorio nel panorama scoraggiante delle nostre mafie editoriali. Il primo lavoro di Ippolita Avalli (n. 1949 a Milano), Aspettando Ketty (Milano, Feltrinelli, 1982), è una raccolta di nove racconti che ricorda immediatamente l’esordio altrettanto arrabbiato e di rottura di Pier Vittorio Tondelli con Altri libertini, delle cui trasgressive fortune rappresenta forse per Feltrinelli un tentativo di remake al femminile. Per le narrazioni dalla cifra esasperata il pericolo più comune è quello della maniera; e da esso mi pare non vada esente Aspettando Ketty. Anche qui, come in Altri libertini, c'è violenza, droga, vagabondaggi, libidinosi amori etero ed omosessuali, prostituzione, crisi esistenziali, sfrenatezze ribalde o balorde. Semmai c’è da dire che le
vicissitudini della protagonista di Aspettando Ketty sono ringhiose e solitarie, hanno ben poco dello spirito collettivista, generoso e sinistrese degli anni settanta; sono storie già posteriori,
di «riflusso », segnate da una disperazione egoistica, priva di ogni illusoria fratellanza. L’implicito modello americano di Avalli è quindi più il nomadismo urbano, privato e guardingo, alla Charles Bukowski, che quello avventuroso, impulsivo e generazionale della fine degli anni cinquanta, stile Kerouac, che sembrava particolarmente caro al Tondelli di Altri libertini. Nel lavoro di Tondelli l'ambientazione emiliana si faceva sentire attraverso la scelta di colloquialismi e imprecazioni regionali, e in genere si riverberava nell’istrionica e creativa esuberanza linguistica; un impatto più pesante ha la Roma di Aspettando Ketty sullo stile di Avalli, caratterizzato da un impasto linguistico pasoliniano composto di crasso e protervo romano basso e slang metropolitano duro, diversificato a seconda dei vari sottocodici gergali implicati (droga, prostituzione, etc.). Dopo il primo racconto, appunto « Aspettando Ketty », che ha una sua mossa intensità, la narrazione ristagna per le seguenti cento pagine, anche per la propensione di Avalli al monologo statico e melodrammatico, urlato e compiaciuto, che ha per protagonista ap-
punto una io narrante di nome Ippolita. Poi fortunatamente con il settimo racconto «Capannoni e colombi » qualcosa cambia:
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lo stile si fa più disteso e le trucide vicende cominciano ad essere illuminate da una certa verve umoristica e picaresca. I migliori racconti sono gli ultimi due: « Rita Polaroid », storia grottesca di sesso e di avanspettacolo, con tournée di provincia, soubrette avvenenti o scalcinate, vecchietti in calore e platee urlanti; «Domani », in cui lesbismo e sadismo in cuoio portano a
un caso di vampirismo spinto che sconfina nel fantastico — la carnefice ringiovanisce fino a divenire neonata e la vittima Ippolita si trasforma in «uno scheletro dalle tette a mongolfiera » (207) che infine si ribella e fa giustizia. Ho parlato di racconti perché non mi pare che Aspettando Ketty possa dirsi un romanzo, anche se (come era già accaduto per Altri libertini) per tale viene fatto passare dalla dicitura che compare sotto il titolo, probabilmente dovuta all’idea, molto comune
al tem-
po della sua pubblicazione, che le raccolte di racconti siano un genere invendibile. Come nel caso di Altri libertini, il filo che
accomuna le storie è fornito dalla presenza in quasi tutte (l’eccezione è « Rita Polaroid ») di Ippolita come narratrice, protagonista o comprimaria. Trentenne nomade e bruciata, Ippolita è alla perenne ricerca di un letto e di una macchina da scrivere in un precario pellegrinare fra Roma, Milano, e qualunque periferia dove un amante uomo o donna e comunque sempre sbagliato le offra ospitalità, fino all’immancabile violenta conclusione. Dopo sarà di nuovo sulla strada, o meglio seduta in un bar a bere vodka o martini e ad aspettare la prossima avventura, come tutte le altre all’insegna di un eccesso massimalistico e carnevalesco, ora surreale ora angoscioso, che anticipa le esu-
beranti e sgangherate storie di donne dell’americana Tama Janowitz (Slaves of New York, 1986). Ippolita vive per scrivere e scrive per vivere nei conformistici ed anestetici anni ottanta: Finiti i tempi della comune e del diverso. Finiti i tempi delle fragole e anche quelli del sangue. È dura far parte della generazione dei brigatisti e dei drogati. [Ormai l)a gara [è] per arrivare al posto. Postocasa, posto-macchina, posto-ufficio, posto-ristoro, posto-fica, postoniente, porto-franco, post-mortem (185, 186).
AI di là della aggressività programmatica, soprattutto negli ultimi racconti c’è nella scrittura di Avalli un vitalismo ir| requieto non ancora sorretto da uno stile appropriato, un talento ancora acerbo e magmatico che deve mettere alla prova le sue potenzialità in lavori dove grinta e controllo stilistico si possano incontrare. Il suo secondo libro, L’infedele (Milano, Rizzoli, 1988), è in
effetti del tutto diverso, all'insegna della costruzione stratifi208
di
cata e del controllo dei moduli compositivi, mentre la lingua sl attesta su un piano medio, a far da semplice veicolo della storia, con qualche ricercatezza e qualche sciatteria entrambe casuali. Come per Tondelli il cambiamento di genere sembra indicare sia l'intenzione di non lasciarsi identificare con un cliché di troppo facile lettura autobiografica sia la volontà di cimentarsi con una struttura narrativa più complessa e ambiziosa. Per molti aspetti il romanzo di Avalli, il cui titolo è lo stes-
so di un best-seller di Delly, somiglia alle opere « neogotiche » che esamineremo nel prossimo capitolo. Il progetto di L’infedele è quello di costruire un mondo autonomo e fantastico intorno ad una trama gotico-feuilletonesca, con delitti, tresche dinastiche, risentimenti, matrimoni d’interesse, vendette, investiture spirituali, donne-maghe fatali e fanciulli sensitivi, labirinto e rivelazione finale, il tutto compresso nella durata di poco più di un giorno, con l'apertura di abbondanti digressioni descrittive e retrospettive per costruire lo spessore leggendario della storia. Sacrificato alle scansioni ritmiche e sceniche dell’azione e alle sue necessità di coesione, il meraviglioso però
si affastella, perde respiro e suggestione. L’isolata città di Conticesco, con la sua topografia feudale e il suo clima rigidamente quadripartito secondo le stagioni, la sua ricca vegetazione e la sua fauna limitata ai soli gallinacei, i suoi terremoti e la sua economia « archeologica », le sue etnie e lingue babeliche ma miracolosamente comprensibili, la sua malattia della memoria, sta a mezza strada fra Macondo e il fantasy senza riuscire ad ottenere né la densità visionaria e il passo epico dell’una né la coerenza e leggerezza fiabesca dell’altro. Ulteriore difficoltà l'inserimento nelle formule della narrativa d’intrattenimento di blasoni colti quali la dendrologia, i tarocchi, l’astrologia, con i loro cataloghi preziosi e saperi complessi, che sprecano la loro portata evocativa in legami un po’ estrinseci con il basso registro di questo mistero e con la saggezza insipida della morale finale. Il vecchio Cosimo Durante, che nella torre
di vedetta del castello preserva i segreti di una vita ambiziosa e superiore ad ogni scrupolo contemplando le stelle e l’intricata legnaia-tempio (con puntuale piantina annessa) da lui fatta costruire all’epoca in cui signoreggiava sulla città, non riesce
ad essere né un principe di Salina né un Aureliano Buendia né il fanatico Jorge del Nome della rosa, e con lui tutti i personaggi hanno l’aria di copie impallidite di grandi figure letterarie, senza raggiungere la grazia della citazione ironica.
I primi lavori di Tondelli e di Avalli sono caratterizzati da una mimesi accumulatoria che non esita a ricorrere all’esaspe209
razione della violenza e del grottesco per raggiungere l’effetto trasgressivo cercato; se non si può sempre condividere le scelte dei due autori, si rimane comunque colpiti dalla forza e dall'ampiezza dei registri linguistici, da una competenza narrativa che almeno sembra capace di crescita. Lascia invece perplessi l'esordio del giornalista Marco Neirotti (n. 1955), che nel suo Assassini di carta (Venezia, Marsilio,
1987) vorrebbe appunto
padroneggiare tecniche di scrittura ardue e rabbiose che ricordano, mutatis mutandis, quelle di Altri libertini e di Aspettan-
do Ketty. Al solito, anche se presentata come romanzo, l’opera prima di Neirotti è piuttosto una raccolta di racconti. Si tratta di otto episodi riuniti da motivi ricorrenti e da una storiacornice su un cronista in crisi, stanco di scrivere poche righe di routine su casi di nera dietro cui traspaiono drammi umani che richiederebbero ben altra attenzione e partecipazione. I racconti iniziano con un asciutto trafiletto di agenzia, in corsivo,
che dà la notizia: una giovane epilettica sviene per la strada; un uomo che ha tentato di rapire una bimba viene bloccato dalla polizia; un giovane ubriaco muore in un incidente stradale; un pensionato si suicida; un bambino si taglia la gola, e cosi via.
Segue la storia narrata dalla vittima di turno in un lungo monologo in stile flusso di coscienza e quasi sempre allucinato, delirante, concitato e scomposto. Ogni caso termina con parole che vengono riprese, più o meno letteralmente, dal seguente, per dare un senso di fatale continuità a questi fatti invariabilmente tragici. All’interno di ogni monologo il narratore finisce sempre col fare affiorare dal proprio passato l’immagine di una donna in vesti colorate, zingaresche, con fra le braccia
un bimbo e accanto un uomo — immagine peraltro sempre associata ad un episodio di dolorosa vittimizzazione. Questa presenza ricorrente dalle ovvie risonanze simbolico-religiose viene sviluppata come racconto a sé nell’ottavo caso (« Madre e fi.glio scomparsi »), e ritorna anche in una sua finale esplicazione nella cornice, nella quale il giornalista muore volontariamente nell’esplosione di un palazzo dove, in un misero appartamento, una giovane zingara il cui bambino è stato recentemente ucciso da un'auto pirata ha aperto il gas per suicidarsi assieme al marito. Come è facile intuire, la materia di Assassini di carta è anche progettualmente drammatica e quindi di non facile controllo narrativo. Neirotti scrive cosi un libro ingenuo ed urlato, con modulazioni che vanno dal tragico al lirico all’hardboiled e che finiscono con l'essere comunque monotonamente eccessive e col richiamare, curiosamente, i sovrattoni di un sen-
timentalismo magniloquente e filantropico di stampo ottocen210
tesco. Ritorna dunque il patetico romanzo d’appendice riciclato in veste giornalistica, con risultati assai poco convincenti.
Un caso in cui il sarcasmo logorroico della narrazione non si mescola mai a patetismi è quello di Le spose del marinaio (Lecce, Piero Manni, 1986) di Umberto Lacatena (n. 1947 a Marano,
Napoli), scrittore ancora irriducibilmente sperimentale e provocatorio in un decennio di ritorno all’ordine o di cauti compromessi parainnovativi. Naturalmente l’intransigenza si paga e la caratteristica prima della raccolta di «racconti » Le spose del marinaio è proprio quella di far balenare, all’esasperato lettore in cerca di storie, inquiete e grintose ricchezze verbali che però non si distendono mai in narrazioni mimetiche ma guizzano e si dissolvono in brevi sogni surreali, gongolanti paradossi, cortocircuiti aforistici, boutade frizzanti e repentine, stoc-
cate misogine, compiaciute fantasie erotiche. Insomma giochi irriverenti ed essenzialmente retorici che ostentano l’incongruità del lacerto, rifiutano programmaticamente la struttura narrativa tradizionale, e spingono Lacatena in quello che è oggi il limbo elettivo del laboratorio linguistico. Come puntualizza Romano Luperini nella sua introduzione, non è difficile individuare il Gruppo 63 come retroterra del lavoro di Lacatena; oltre al Sanguineti di Capriccio italiano (1963) affiora a tratti il narcisismo oratorio del primo Vassalli, ma anche l’insofferenza san-
guigna e politica del Di Ciaula di Tuta blu (1978), che però Lacatena decontestualizza nei suoi paranoici frammenti che sembrano scaricare sulla lingua una rabbia disorientata, che come estrema protesta si è voluta dissociare da un reale oppressivamente e monotonamente « coerente ». Anche Roberto Barbolini (n. 1950 a Formigine, Modena), giornalista e studioso del gotico e del giallo, per il lineare e ras| sicurante raccontare non ha molta simpatia e, per quella rivalsa da Mr. Hyde dei critici giocosi contro i veleni della letteratura, quando può (o meglio quando non ne può più) ama pigliarla in giro con irriverente ed allegra intelligenza. « Trascino la letteratura come la mia bara, la trascino come la mia pena, la tra-
scino come la mia nausea » (72) fa dire ad una delle sue ectoplasmatiche voci narranti in quella carnevalesca e divertita vendetta che è La gabbia a pagoda (Firenze, Franco Cesati Editore, 1986), raccolta in cui vorticano innumerevoli « lacerti dilacerati » (87) di storie desiderose di essere narrate, ma che Barbolini con perverso sciupio fa solo balenare in una giostra di citazioni, ammiccamenti, e caleidoscopici sfoggi di assonanze che rifiutano di distendersi nel «racconto ben fatto », ma comunque
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titillano il riluttante lettore con protervi paradossi, « trappole per tropi » (109), oltraggiose misalliances da Cappellaio Matto del nonsense narrativo: « Non date retta ai cronometri: essi tentano d’ingannarci. Basta una smagliatura nei tempi, e capitan
Fracassa può capitare sull’isola di Circe, dove Rossella O'Hara e Gregor Samsa sono naufragati col Nautilus dei sette nani. Senza possibilità di ritorno » (74). Leggendo viene in mente il Comiche (1971) di Celati per l'esuberanza variopinta e virulenta degli inseguimenti ed una certa predilezione per una comicità a tratti goliardica, le donne procaci e gli anziani professori di liceo, ma certo il quasi-racconto « Nella casa dei giochi » strizza l'occhio anche alla consapevolezza combinatoria postmoderna del John Barth di Lost in the Funhouse (1968). Insomma siamo nel laboratorio di un critico collezionista che alle accigliate fatiche del narrare preferisce i «[p]rolissi prolassi di faconde facezie » (92); eppure, vista la scoppiettante profusione di invenzioni che contraddistingue La gabbia a pagoda, non ci si può che augurare che prima o poi Barbolini decida di far sul serio senza però, spero, smettere di divertirsi. Alfredo Antonaros (n. 1950 in Eritrea da padre italiano e madre greco-eritrea) esordisce nel 1984 con Tornare a Carobel . (Milano, Feltrinelli), romanzo tessuto sul filo del ricordo personale e della memoria di una storia famigliare mitica ed errabonda, che l’io narrante bambino ha appreso dalla madre (« Forse è davvero una maledizione che qualcuno ha lanciato contro di noi [quella di dovercene andare sempre » [33]). In dieci brevi
capitoli il narratore ripercorre una storia di patrie esotiche e sempre provvisorie: dalla Samarcanda del bisnonno Ivan devastata dai Mongoli alla Alessandria d’Egitto del nonno Rus invasa dai nomadi, a Carobel, « un piccolo villaggio dell’Africa del Nord-Est » (17) che la madre lascia insieme ai figli per raggiungere un italiano che vive nel più malfamato e pittoresco quartiere di Marsiglia, fino al trasferimento in Italia. I due piani,
il racconto mitico della madre al bambino e quello a noi vicino del bambino ormai uomo, si alternano nei dieci capitoli e progressivamente si spostano entrambi dal passato remoto, della ‘ famiglia e del protagonista, al passato recente, per ricongiungersi nel nostalgico pellegrinaggio a Carobel dell’io narrante. Assistiamo cosi all’inizio di una guerra greco-turca (« Syrne »); ad un cinereo scampolo di post-sessantotto che si conclude con un suicidio (« Ruet: 1970 »); alla risoluzione di nonno Rus e della figlia Dorothea di lasciare Alessandria per andare a Carobel dall'amico Edoardo (« La partenza da Alessandria », « Da Edoar-
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do a Carobel »); ad un’altra fuga dell’io narrante, ora adulto, su
un'isola per dimenticare la propria crisi politica e sentimentale («L'isola »). Ma la «maledizione » di cui parla la madre, che si concretizza sempre in violenza, rottura di un precario equilibrio, e quindi necessità di partire di nuovo, si manifesta sul-
l’isola in un episodio di tentato stupro; in seguito, a Carobel, dove il narratore ritorna per visitare i luoghi della memoria materna, si materializza in una strage che avviene proprio all’apice del Carnevale (« Tornare a Carobel »), secondo un'associazione carnevale-morte che si riscontra anche in Rimini (1985) di Tondelli. Cosi questa storia di esodi non può finire che con un’altra partenza: «Stacco la corda dal molo. Do qualche colpo di remo. Poi la corrente ci trascina, ancora una volta » (103). Ca-
robelè romanzo che può sembrare tutto sul versante del romance, visionario e favoloso, ma che è invece a suo modo secco e
distaccato per il sentimento di precarietà che incalza i personaggi e ce li fa intravedere vivi ma appena abbozzati — subito spariti nel turbine di un ennesimo esilio. Questa di Antonaros è una prima prova interessante, indubbiamente con risonanze ormai canoniche (impossibile non pensare a Cien afios de soledad) che comunque supera agevolmente grazie alla sua nervosa agilità strutturale e a un pathos reale, ma sempre sorvegliato, che ne invera e addensa la dimensione magica e avventurosa. Ancora meglio si può dire del secondo romanzo, Mahò. Storia di cinema e di petrolio (Milano, Feltrinelli, 1987), che conferma la lussureggiante capacità di invenzione di Antonaros, qui arricchita da inquiete e amare risonanze nella storia esemplare dell’«ascesa e caduta » di una Mahagonny chiamata Mahò. Tutto comincia con l'insediamento del nuovo governatore, il giovane ed esuberante albino Almereida, che si trasferisce con la
madre invadente e possessiva e una corte variopinta di cugine nel più bel palazzo di Mahò, l’hotel Hilton della città, eletto a residenza personale e a sede del nuovo governo. Il villaggio eritreo di Mahò è ormai diventato una metropoli caotica e straripante di emigranti e fuggiaschi che arrivano giornalmente a migliaia dall’altopiano e dall'interno, sperando di trovare una vita migliore nella città arricchita dal petrolio, per finire invece ad accrescere la turba di un proletariato lacero e tumultuoso. Mahò insomma come versione primonovecentesca e colonialista di quel sogno di autorealizzazione e di piacere che Tondelli aveva associato all'immagine di una Rimini contemporanea e postindustriale; Mahò come Rimini testimonia quella predilezione per la metafora della città-Babilonia che ricorre fra gli scrittori dalla creatività generosa e massimalistica. 2:13
Siamo all’inizio del secolo e a Mahò arriva il progresso: il
cinema (prodigio spettacolare significativamente parte di un cir-
co equestre), le prime automobili, e il primo aeroplano, pilotato dal governatore-dittatore Almereida in persona. Fra i personaggi spicca appunto Almereida, incarnazione di un potere capriccioso e infantile, ottuso e sbraitante, che verrà infine tra-
volto dalla marea umana che dà l’assalto all’Hilton in occasione del funerale di un sindacalista. Se il governatore ostenta la volubile irascibilità e la passione per gli eserciti e le medaglie di un dittatore latinoamericano, il capitano Towolde, affabile
gentiluomo che ha una sua filosofia della tortura e interna e sevizia i nemici del governo nelle gabbie del circo trasformato in campo di concentramento, è il precursore dei diligenti burocrati che dirigevano i lager nazisti (ma, visto l’uso che viene fatto del circo, si pensa anche agli stadi-prigione cileni). Comunque il personaggio più denso e riuscito è Esterhazy, il vecchio direttore del circo, segnato dalla dignità dolente dell’uomo mediocre e consapevole della propria mediocrità. Né eroico né vigliacco, Esterhazy tenta inette rimostranze contro Towolde, si macera sentendosi suo complice, e infine trova l’inutile corag-
gio di fare aprire la gabbia dei prigionieri. Coraggio inutile perché Antonaros, nel suo realismo visionario ma scrupoloso, si
può permettere di far volare in cielo una cugina isterica di Almereida affetta da manie religiose, ma non di far fuggire i prigionieri, essendo consapevole che la tortura porta complicità vischiose, segna il corpo e infetta l’anima; cosi gli apatici internati non scappano e, quando Esterhazy finisce anche lui in una gabbia tutta sua, fanno finta di niente. Insomma questa Mahò città immaginaria di un’Eritrea immaginaria è terribilmente vera, una metafora del potere di tropicale ricchezza e di ironica misura che come Tornare a Carobel si fa perdonare il debito con Garcia Marquez perché dopo le prime pagine vive di vita sua. Primo romanzo di Aldo Busi (n. 1948 a Montichiari, Brescia) è Seminario sulla gioventù (Milano, Adelphi, 1984), ritratto vagamente autobiografico di giovane artista dai cinque ai ventun’anni, e cioè dalla condizione di monello diverso, introver-
so e incolto a quella di disinibito e smaliziato aspirante scrittore. Il Barbino di Seminario compie la sua disincantata e variopinta Bildung dall'infanzia affamata e rurale a Montichiari alla fuga adolescenziale a Milano, Venezia e poi Parigi, dove tre misteriose e ancor piacenti zitelle si prendono cura di lui. Il titolo acquista ambigue valenze sessuali nelle parole di una ex lavandaia di un seminario salesiano che sta risciacquando la bian214
PI AN RN
cheria intima del pubere protagonista: « Ah, la gioventiù l’è prope un gran seminare » (41). Seminario ha in comune con Altri libertini e Pao Pao di Tondelli la ribellione ai pregiudizi sessuali, una
rivendicazione
di diversità
e un’iniziazione
sessuale-
intellettuale vista dalla parte del giovane diseredato di provincia, cosi che l'ottica emotiva e picaresca rappresenta perfettamente la condizione tipica dell’osservatore marginale (come nei primi due romanzi di Andrea De Carlo il vedere impassibile di Maimeri e di Barna si confà perfettamente al loro status di « figli di ricchi »). Con altri protagonisti di questa narrativa generazionale i giovani di Tondelli e di Busi hanno in comune la necessità di cambiare appena la situazione in cui si trovano si esaurisce e sembra soffocarli;!° è una necessità non logica, non meditata né teorizzata, ma piuttosto improvvisa, viscerale, di
ridefinire continuamente una condizione di adolescente provvisorio, in fuga da un sistema che si rivela sempre trappola, violenza e plagio, e si identifica col mondo adulto del lavoro e del successo. Cosi l'interprete Angelo Bazarovi in Vita standard di un venditore provvisorio di collant (Milano, Mondadori, 1985) separa infine il proprio destino dal troppo a lungo subito, vampiresco connubio con il rapace e rozzo industriale Lometto come in Rimini Bauer si licenzia dal giornale. Ma Angelo lascia il bieco imprenditore mantovano dopo averci inflitto centinaia di pagine di fiammeggianti e sempre uguali filippiche contro di lui, in un continuo tira e molla paramatrimoniale di grottesca eloquenza. L'accumulazione e la mancanza di misura sono le cifre che accomunano Vita standard al Pao Pao di Tondelli; Rimini è idealmente più vicino all’ottica oggettivante del De Carlo di Treno di panna e, se si può fare un paragone fra Bauer e Bazarovi quali esempi di «intellettuali degradati» e sfruttati,!! la cosa finisce li. Mentre Tondelli sembra evolvere verso un realismo grintoso e intenso, Busi si fa sempre più narcisisticamente e smisuratamente involuto. Le svagate prestazioni omosessuali di Angelo, interprete alienato e moralista, e lo stile troppo forzatamente picaresco evocano un isterico Bukowski padano che ha tutto in quantità troppo generose per convincere: troppa ironia per risultare ironico, troppa moralistica indignazione per risultare dignitoso. Vita standard segna un passo indie-
tro rispetto a Seminario, e altri due le due logorroiche opere seguenti che, come suggerisce Angelo Guglielmi per La Delfina Bizantina (Milano, Mondadori, 1986),!? possono essere affrontate solo in modo erratico, scorrendole qua e là e fermandosi sui brani, non rari, in cui Busi riesce a incantare il lettore con
le sue pirotecnie verbali ed i suoi vezzi oltraggiosi e paradossali. In questo modo anche Sodomie in corpo 11 (Milano, Monda-
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dori, 1988), stravagante e straripante diario di viaggi, sesso, riflessioni, consigli agli aspiranti scrittori e molto altro ancora,
può rivelarsi, con buona pace del trasgressivo autore, lettura gradevole. Ma siamo comunque molto lontani dalla scrittura narrativa e Busi, trascinato dalla sua incontinenza poligrafica, sta rischiando di sperperare un indubbio talento, frettolosamen-
te sacrificato al gusto del presenzialismo e della polemica a tutti i costi, nei suoi libri come nella sua assiduità multimediale.
Stefano Benni (n. 1948 a Bologna) come narratore ha esordito nel 1983 con Terra! (Milano, Feltrinelli), un romanzo fan-
tascientifico che in parte risponde ad una tendenza della nuova narrativa che sarà esaminata in seguito (cfr. III.3.), quella del rapporto con la storia (relazione presente-passato, mistero che
viene dal passato, catastrofismo, citazione e riciclaggio postmoderno), e in parte rientra nel trend qui trattato, caratterizzato da accumulazione fabulatoria, sperimentazione linguistica, modelli culturali americani, vis comica, e distorsione grottesca. Terra!, ambientata nel 2157 dopo svariate guerre nucleari, è la storia di tre astronavi in competizione per raggiungere una nuo-
va terra abitabile ai confini dell'universo. L'elenco dei personaggi prima del prologo già ci dice che abbiamo a che fare con figure da fumetto, non con personaggi a tutto tondo; ma sono figure in cui Benni ha infuso una grazia ed una simpatia rare nelle creature bidimensionali. La trama del viaggio spaziale si intreccia con l’opposta e complementare avventura di scavi verso il «cuore della terra » nella misteriosa città inca di Cuzco,
ed è arricchita dai racconti degli astronauti (c'è un suggerimento decameroniano) che non sono altro che gradevolissimi rifacimenti postmoderni delle grandi storie della nostra tradizione (dai miti cosmogonici all’Odissea, a Le mille e una notte, alla leggenda di Robin Hood, a Moby-Dick, ai cicli corsari di Salgari). Ora che Celati ha imboccato la strada della novella filosofica, Benni sembra l’unico narratore italiano contemporaneo che possieda la giocosità compositiva dell'autore di Le Cosmicomiche. Anche in Terra! c'è una ricostruzione cosmogonica, non associata alla scienza, ma piuttosto alla fantascienza e ad una
vivace versatilità affabulatoria. Certo a Benni manca ancora la profondità e la sapiente misura di Calvino (Terra! è un po’ fluviale), ma intanto la sua accattivante e solare creatività combinatoria non ha niente da invidiare al più evidente modello americano (il Kurt Vonnegut di The Sirens of Titan, di Cat’s Cradle e di Slapstick) e supera di larga misura molti altri cerebrali prodotti postmoderni. La lingua del romanzo è un impasto di tra216
dizione orale e di più stili letterari aggiornato all'era dei computer dall’umorismo mirabolante e caustico di Benni. Ci sono dei modelli filmici evidenti, quali il classico 2001: Odissea nello
spazio di Kubrick, i più recenti Guerre stellari e L'impero colpisce ancora di Lucas, E.T. di Spielberg e il serial televisivo americano Star-Trek. È una storia dalla parte delle vittime della storia (dalle civiltà del passato ai topi) demonizzate o cancellate dalla cultura dei vincitori, un romanzo comico e politico di un giovane scrittore che è morale senza essere un moralista e umoristico senza essere solo quello, che traduce cioè a suo vantaggio aggettivazioni di solito estremamente limitative. La versione fantascientifica del classico impianto del viaggio favorisce la struttura accumulatoria e un po’ troppo libera di Terra!; come nel caso di Tondelli (Rimini) il riciclaggio del giallo attuato in Comici spaventati guerrieri (Milano, Feltrinelli, 1986) dà misura e forma all’esuberanza presente nel precedente romanzo. Anche questa è una storia ambientata in un’era fantascientifica, che è poi la nostra, ed è dalla parte delle vittime: i protagonisti sono gli elementi marginali della società del benessere, bambini e pensionati.
I numerosi personaggi,
elencati anche qui nella pagina « Personaggi e interpreti » con tanto di professione stile romanzo poliziesco, sono sovente umani animalizzati nel nome e nelle caratteristiche (Tarquinio Talpa, Arturo l’Astice, Elio l’Elefante, Oreste l’Orso) con un pro-
cedimento inverso a quello tipico delle favole di Esopo e La Fontaine dove è l’animale ad essere umanizzato nel carattere. Mettendo in scena la degradazione del nostro mondo con i suoi enormi condomini e le sue sconfinate periferie, Benni trova nella forma della favola di animali il modo di dare levità e spessore ad un genere fuori moda e pericolosamente incline al moralismo come la satira. In fondo, a ben ricordare, lo stesso esor-
dio umoristico di Benni, Bar Sport (Milano, Mondadori, 1976), non era altro che un divertito bestiario, l’analisi della fauna ti-
pica di certi bar, Terra! abbondava di topi, api e creature mutanti e il seguente / meravigliosi animali di Stranalandia (Milano, Feltrinelli, 1984) era un vero e proprio catalogo di animali fantastici. Se da un lato la desueta favola di animali in vesti umane può disorientare, dall'altro questo distanziamento antiantropocentrico viene bilanciato dall’introduzione di una trama gialla che poco a poco riumanizza i personaggi e coinvolge il lettore. Tecnica non nuova nella narrativa degli ultimi anni,
l'introduzione del mistero (l'uccisione del giovane calciatore Leone) concentra l’azione intorno alla detection (quella ufficiale e inetta della polizia e quella privata e accorata degli amici
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di Leone), fornisce struttura e ritmo all’intreccio, tiene viva lat tenzione. Ma in questo caso, come è in fondo tipico della mi-
gliore narrativa postmoderna, parodica e destabilizzante, il giallo. tradisce le aspettative del lettore, non offre cioè né soluzione né giustizia, anzi la colpevolezza probabile del losco Sandri si moltiplica per tutto il ConDominio (sic) di Via Bessico, prolifera e diviene accusa all'intera città corrotta (dall’ottuso e ingravalliano Porzio, commissario cruciverbista, al dottor Gufo,
al sindaco Cornacchia). Il poliziesco diviene anti-poliziesco come già in misura più mite era accaduto in Rimini e in tanta buona narrativa recente, da Sciascia (I/ giorno della civetta, A ciascu-
no il suo, Todo modo) a Eco (Il nome della rosa), capostipite il Pasticciaccio di Gadda.!* Delle caricature grottesche del Pasticciaccio Benni offre una versione che ha la tonalità del bestiario; del prezioso tessuto stilistico gaddiano intriso di arcaismi e neologismi comprende la lezione in una costante contrapposizione di lingua aulica professorale (Lucio Lucertola) e lingua effimera e sciatta della pubblicità e del consumismo (i ragazzi amici di Leone), in cui egli instilla però una vitalità virulenta tramite inaspettate similitudini, metafore giocose e irriverenti giochi di parole.!* Con Tondelli e con Busi, Benni condivide lo spirito di denuncia, il
ritratto di una condizione giovanile emarginata, la predilezione per il grottesco, ed uno stile accumulatorio. Come si è detto
però l’impeto satirico di Benni trova nella fusione della favola con il giallo la sua espressione e la sua misura, ed evita cosi le secche di una sterile esuberanza narcisistica. La voce, se re-
gistra qualche lieve intemperanza nei lunghi monologhi deliranti di Lee e di Lucertola, non diviene mai querula e tediosa come quella di Busi o logorroica e gratuita come quella del primo Tondelli, ma è continuamente moderata da una vis comica profondamente umana e, paradossalmente, meditativa: « Lei non crede che compito del comico sia parlare della morte? » (186) docn prima di addormentarsi per l’ultima volta Lucio Lucertola.
In effetti oltre che di due lingue si può parlare in Comici spaventati guerrieri di due culture, che vengono ironicamente impastate nel commento del narratore onnisciente. Da una parte
c'è il professore con la sua formazione umanistica, obsoleta ma umana, dall'altra l’incultura proterva e disumanizzante della società di massa e una serie di linguaggi specialistici (quello medico, quello della musica leggera, quelli della polizia, dei politicanti, dei malavitosi e degli spacciatori) che vengono parodiati nell’enunciazione diretta dei personaggi o nella narrazione in terza persona. Avalli in Aspettando Ketty aveva dato a questi 218
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linguaggi il sottofondo di un crasso romano basso, dato l'intento essenzialmente naturalistico e polemico delle sue storie ambientate appunto nella Roma dei drogati e degli spostati; anche Benni usa il romano (la città di Comici spaventati guerrieri è trasparentemente Roma), ma con molta parsimonia, e non tanto,
come si potrebbe supporre, per effetti primariamente comici quanto appunto per evidenziare l’irredimibile volgarità di chi parla e della situazione (cfr. 105). Quella di Benni è un’altra versione del dialogo fra cultura umanistica e civiltà contemporanea iniziato da Del Giudice (il dibattito fra letteratura e scienza in Atlante occidentale, 1985, che sarà esaminato in seguito). Qui però l'interlocutore della cultura umanistica non è più la sofisticata ed elitaria fisica subnucleare ma un gruppo di bambini e adolescenti ai margini della società di massa, come del resto ai margini è anche il pensionato professor Lucertola. Cosi non è all'immagine aristocratica e astratta dell’atlante che Benni affida il compito di rintracciare le coordinate del reale, ma alla concreta, popolare e tragicomica narrazione del bestiario. Come si vedrà, il ConDominio-Italia di Comici spaventati guerrieri ha qualcosa in comune con l’immaginario paese latinoamericano di Macno di De Carlo; in tutti e due i casi una Roma degradata, caotica e corrotta sembra il vero scenario del-
l’azione. Benni condivide con De Carlo un sentimento di insoddisfazione morale e civile, come pure un forte interesse per il linguaggio contemporaneo dei mass media. Ma, al di là di questi elementi di partenza, stili e propositi divergono: la narrazione in terza persona di De Carlo è oggettivante, tende alla rappresentazione realistica e ad un vedere di precisione; allo stesso tempo l’intreccio rasenta l’essenzialità della videoclip, versione contemporanea della fiaba. La narrazione di Benni è invece soggettiva, bizzarra, ironica, tendente alla caricatura e, at-
traverso la rappresentazione della commedia umana animalizzata, arriva alla favola (non alla fiaba), esorta cioè all'impegno e alla solidarietà, non alla fuga privata. Invece di un’impassibile «oggettività ottica », Benni assume tramite i suoi protagonisti un punto di vista che giudica non solo il mondo ma anche la lingua che esso usa, e che si tinge inevitabilmente di malinconia: « Nostro compito Lucia è impedire che ci rubino le parole e magari nutrire le nuove » (184-85), dice Lucio Lucertola dal suo capezzale; e questo esperimento cosi antitecnologico, che
vede la lingua latineggiante del vecchio professore accozzarsi
e simpatizzare con la voce agra di commercials di Lucia e di vote Lupetto, mi sembra in fondo il più riuscito.
Ma oltre a questi allacciamenti con altri giovani autori, mi pare che Comici spaventati guerrieri possa essere riportato ad
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una concezione carnevalesca e ribellistica della scrittura che abbiamo già incontrato nelle opere del primo Celati, in particolare Le avventure di Guizzardi (1973) e Lunario del paradiso (1976). Se i romanzi di Celati anticipano la carica ludica e antiistituzionale del ’77, Comici spaventati guerrieri a dieci anni di distanza tiene fede allo spirito del ’77 e lo depura da ogni istanza meramente politica e contingente: la mobilitazione di ragazzini creativi e di altri variopinti personaggi dal nome di animale è quasi una « favola di movimento », dove l’ironia e la comici-
tà sostituiscono un’ingenuità e una spontaneità che il fatto letterario ha provato inattuabili. Mi pare significativo che anche Nanni Balestrini nel suo recente Gli invisibili (Milano, Bompiani, 1987), romanzo sugli anni di piombo, abbia tentato di mi-
mare la leggerezza iconica della favola nella sua scelta di dare nomi animali ai personaggi, senza però riuscire a sortire l’effetto di Benni, anzi creando un corto circuito fra tale ritrovato
e lo statuto forte della narrazione.!5 Il bar sotto il mare (Milano, Feltrinelli, 1987) è un’opera dall'esito diseguale, come spesso accade alle collezioni di racconti, e non al livello delle due precedenti. Eppure // bar sotto il mare è proprio il libro con cui Benni — prima considerato scrittore minore, umorista, e associabile ai nuovi giovani narratori
solo per motivi meramente anagrafici — ha ricevuto finalmente una più ampia e positiva attenzione da parte della critica. Caso non raro, Benni è entrato nel novero degli autori considerati importanti con il suo libro meno importante. Comunque, meglio tardi che mai; chi scrive ricorda ora con piacere di aver considerato Benni il più originale dei giovani autori!f quando si dubitava ancora del suo diritto a far parte di tal gruppo, e vuole sperare che all’improvvisa attenzione di oggi abbiano contribuito, con quell’autorità spesso lenta ma inarrestabile che hanno le cose buone, anche i libri di ieri.
Il bar sotto il mare è il secondo tentativo di Benni di fare del bar il «luogo magico »!” della sua fantasia creativa. In Bar Sport (1976) i racconti avevano il più delle volte come tema e spazio dell’azione il bar stesso, in quanto erano storie in terza persona sui suoi frequentatori tipici in versione caricaturale e zuzzerellona. Si creava cosi un tessuto narrativo abbastanza omogeneo nella voce come nello scenario; a tutto ciò contribuiva
anche una umoristica « Introduzione storica » sul bar dall’età della pietra («L'uomo primitivo non conosceva il bar [...]») ai giorni nostri, che preparava la prospettiva comica e paradossale dei racconti. Invece I! bar sotto il mare ha una cornice più attraente visivamente che convincente narrativamente: l’espe-
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Pat
diente unificante infatti è la seduzione ottica della copertina,
una «foto di gruppo » di 23 narratori (per la verità la pulce del cane nero e l’uomo invisibile non si notano) di altrettante storie che riassume nel colpo d’occhio la variopinta eterogeneità della collezione (e viene in mente quell’altro visivo riassunto globale che è il labirinto-pianta della biblioteca sulla sovraccoperta di Jl nome della rosa); la copertina è seguita da una pagina con le silhouette numerate dei narratori e relativo glossario (7). La copertina e le silhouette sono cosi un doppio ritrovato che prima visualizza e poi « metafisicizza » la classica lista dei personaggi adottata nei due precedenti romanzi. Con l'eccezione di Poe e Christie, tutti i narratori facilmente riconoscibili (John
Belushi, Sigmund Freud, Elvis Presley, Marilyn Monroe) che ci fissano in posa con dietro il bancone del bar non sono famosi in quanto scrittori, a testimoniare una vitalità antiletteraria del
narrare. L’io narrante del « Prologo »-cornice è attirato nel bar sotto il mare da «un vecchio elegante, vestito di nero, con una
gardenia all'occhiello » (9) che dal molo, in una notte nebbiosa, si cala nelle acque di Brigantes. L’umanitario narratore si tuffa al salvataggio, per scoprire che «a pochi metri dal fondo » (10) c'è appunto il bar. Ognuno degli avventori, come era già avvenuto nel caso degli astronauti in Terra/, decameronianamente racconta una storia in prima o in terza persona, obbligo a cui anche l'ospite, il narratore della cornice, dovrà ottempe-
rare, offrendo una storia alla fine della collezione (« Finale: il racconto dell’ospite ») che chiude circolarmente /! bar sotto il mare con l'espediente semplice ma sempre valido escogitato a suo tempo dalla leggendaria Shahrazàd. Il fatto che il bar sia sotto il mare e che il narratore debba raccontare una storia per uscirne mi pare sottolinei la qualità materna e acquea, assorbente e coinvolgente del narrare — arte ludica ma anche arte che implica un'immersione totale. Non è un caso che nella copertina il vecchio signore che attira l’io narrante a seguirlo sino al bar «a pochi metri dal fondo » assomigli ad un altro esploratore delle profondità del « sommerso », Freud, e che la sua storia («Il più grande cuoco di Francia ») sia la più impegnativa della collezione, in cui si coniugano piacere orale del cibo e piacere orale del raccontare. L’epigrafe di «Il più grande cuoco di Francia » proviene dal libretto di Lorenzo Da Ponte per il Don Giovanni mozartiano e ci rammenta la sorpresa del grande libertino all’inaspettato presentarsi a cena del Commendatore (« Non l’avrei giammai creduto / Ma farò quel che potrò »). Il racconto, che è liberamente ispirato ad uno dei tales meno conosciuti di Poe, « Bon-Bon », ha per protagonista un cuoco straordinario, Ouralphe, che si trova a cena addirittura il diavolo; ma
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Ouralphe sa cucinare e sa parlare, la sua competenza è superiore alla sua ubris e si salva. Come si vede la cornice è accattivante, e cerca di prepara-
re, con gli eterogenei personaggi della « foto di gruppo », a storie diverse, che però uniscono alla diversità di voce e di ambienti
anche una certa diseguaglianza qualitativa che contribuisce a creare quel senso di disorientamento e di dispersione che si prova alla fine della lettura della raccolta. L'impressione conclusiva rimane buona, ma non è comparabile a quella che si rica-
va da un’opera intensa e compatta come il precedente Comici spaventati guerrieri. Comunque, per esempio, di ottimo livello sono le due parodie: « Matu-Maloa », da Melville, una burlesca
caccia alla balena in cui il cetaceo si innamora del comandante, e « Californian crawl », caricaturale e appropriato requiem del « minimalismo post-hemingwaiano » fatto di noia, cocaina, mamme col cancro, babbi omosessuali, sesso svogliato e pisci-
ne sibaritiche (il bersaglio principale qui è il Bret Easton Ellis di Less than Zero, ma anche l’egualmente sopravvalutato Leavitt mi pare abbia la sua parte). Ben riusciti sono anche i racconti che riprendono più latamente una maniera, ma lo fanno umoristicamente, senza eccessi, con abile e coinvolgente rispetto: cosi « Priscilla Mapple e il delitto della II C » è una detective story alla Agatha Christie dove l’investigatrice non è una arzilla vecchietta (Miss Marple) ma una intelligentissima bambina, e « Oleron » aggiorna al ventesimo secolo il Poe di « William Wilson» con suggestioni filmiche, un falso e patetico cultore del male, e un twist finale che ricorda «La sosia » di Buzzati..I tre
racconti sulle vicende di Sompazzo narrati da altrettanti dei suoi abitanti (« L'anno del tempo matto », « Achille ed Ettore », «Il pornosabato dello Splendor») hanno le potenzialità mitopoietiche per dare origine prima o poi a una raccolta a sé su questo paese « famoso per due specialità: le barbabietole e i bugiardi » (11). Un po’ gratuiti nella loro lapidaria leggerezza sono « Nastassia », « Shimizé »,
«La chitarra magica », e «Racconto
breve ». Riprende la tematica comico-fantascientifica di Terra! «Il marziano innamorato », visione grottesca e straniante del nostro mondo dalla parte del marziano, in cui si rimette in atto il classico espediente illuminista dello sguardo straniero che giudica ciò che è più familiare e scontato, dal Montesquieu di Lettres persanes all’Eco di Diario minimo. «La traversata dei vecchietti » rievoca il felice sguardo caricaturale, divertito e al contempo simpatetico di Comici spaventati guerrieri nei confronti del vecchietto urbano. Se questi due racconti non aggiungono niente a quello che Benni ha già scritto a proposito di marziani e vecchietti, « La storia di Pronto Soccorso e Beauty Case »,
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epico amore di quartiere all'insegna dell’eccesso, e « Arturo Perplesso Davanti alla Casa Abbandonata sul Mare », delicata storia alla Salinger, mi pare rappresentino degli arricchimenti in versione stilistica opposta (la dismisura e la riduzione) rispetto a quella sensibilità affettuosa e complice nei confronti del mondo dei ragazzi e dei bambini che Benni aveva già dimostrato di possedere in Comici spaventati guerrieri. Anche le satire politiche sul nostro tempo sono particolarmente acri e azzeccate: «Il dittatore e il bianco visitatore», su un pontefice che ama più i viaggi che l'umanità, e « Quando si ama davvero », tre
lettere di un giornalista opportunista che si sa adeguare al rapido cambiamento dei tempi (1976, 1983, 1990). Non mi pare azzardato pensare che i ventitré racconti che compongono // bar sotto il mare siano stati scritti in un arco abbastanza ampio di anni, e che alcuni possano precedere in stesura il secondo romanzo. Più che come opera successiva a Comici spaventati guerrieri, essi vanno considerati come antologia dimostrativa del poligrafo talento di Benni. In questa prospettiva mi pare che la raccolta possa avere per il critico la stessa importanza che, per la comprensione dell’Eco romanziere, dovrebbero oggi avere le mirabili parodie di Diario minimo: in tutti e due i casi si assiste ad un camaleontismo narrativo che i fatti hanno dimostrato non fine a se stesso. Nel caso di Benni che questa disinvoltura stilistica non debba ingannare lo si capisce anche dal fatto che ad essa fa riscontro una tetragona coerenza di artista nei confronti delle pressioni di un « mercato culturale » che induce molti altri scrittori ad un presenzialismo forsennato — dall’abietto varietà televisivo ai seriosi convegni, ai mondani premi letterari.
« C'è stata all’inizio questa cosa stranissima che probabilmente non sarà creduta, ma si trovano scritti in bottiglia nel fondo dei pozzi. [...] Questo fenomeno non si sa spiegare; anzi
in molti credono che l’acqua dei pozzi sia comunicante nel sottosuolo, e che qui in pianura si sentono dai pozzi spesso venire
voci o lamenti, e ci si sente a volte chiamare per nome » (11): l'incipit di Il poema dei lunatici (Torino, Bollati Boringhieri, 1987) è insolito per lo meno quanto il titolo, ma la provenienza di Ermanno Cavazzoni (n. 1947 a Reggio Emilia) evoca del resto follia padana ed ariostesca fantasia lunare. In fondo le aspettative non vengono deluse per quanto Cavazzoni, più che fare l’occhiolino ad Ariosto, fissi con intensità i suoi contemporanei, conterranei o meno. Chi si interessa ai pozzi è il narratore della storia, un tale un po’ confuso, che viene chiamato Rote-
glia o Savini e lascia che nei suoi vagabondaggi rurali per la
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bassa padana lo si creda un ispettore dell'acquedotto, della bonifica o dell'ufficio di igiene. Il sedicente Savini passa da un'aia all’altra raccogliendo storie bizzarre sui pozzi e, sulle tracce di un caso che lo affascina, giunge infine alla città, dove in «un bel caffè con le sedie di fuori, e l'insegna di un moro seduto su un sacco » (26) una brigata di burloni lo depista sulle tristi vicissitudini di Nestore, un omino una volta sposato ad una donna enorme chiamata «la vaporiera », che lo ha esaurito con le
sue pretese di continue prestazioni coniugali sull’ottomana. Ma è grazie alla crisi matrimoniale che Nestore capisce che tutto è finto: le case solo facciate dipinte, la gente per le strade attori impegnati in una recita continua; comunque,
per generare
il sospetto di essere falsa, ogni cosa deve essere imitata cosi bene da parere vera, cosi che da questo assioma la paranoia viene circolarmente alimentata. Il viaggio in una follia non priva di metodo del trasognato Savini continua con il colloquio con il beccamorto Pigafetta, che gli spiega che l’inferno è sottoterra si, ma nei tubi dell'acquedotto, dove le acque scure e le acque chiare si incontrano e si fan guerra incessantemente. È poi la volta di un certo Gonnella che dice di essere un prefetto apparentemente a riposo ma in realtà con mansioni segrete, e no-
mina Savini suo intendente, con l’incarico di scoprire i soggetti sospetti e di redigere la mappa della prefettura. Questi con allucinata diligenza costituisce un’anagrafe e una geografia immaginarie conversando con gli altri matti della zona e, come il Marco Polo calviniano in Le città invisibili, narra al suo prefetto-Kublai Kan di molte insospettabili e invisibili popolazioni: dai bilingui di confine che hanno «l’attitudine al volo e a stare sospesi » (100) ai ripetitori, insetti parassiti che « ripetono tutto quello che a uno gli passa in mente [... e] abitano anche a grappoli nelle fessure » (119, 120), alle madonne, razza solitaria i cui
rari esemplari stanno sugli alberi quando appaiono agli uomini e quindi « [p]}robabilmente ha[nno] degli artigli fortissimi sotto la veste » (130). Cosi a poco a poco si delinea la mappa di una rarefatta « prefettura celeste » (125). Quando Gonnella chiede a Savini consiglio su come far stampare un «atlante per visitare la [sua] prefettura » (143), egli prima ne consiglia uno su car-
ta velina perché cosi « si vedono in trasparenza i fogli di sotto. Che vuol dire che in un posto ci possono crescere tutte queste regioni una sull’altra, all'infinito » (144); poi però conclude che «bisognerebbe farlo di acqua, l’atlante » (145) perché solo un atlante liquido può « scomporsi e poi ricomporsi, in modo da suggerire una geografia che trascorre davanti allo sguardo, e si colora come una stoffa cangiante o come il cielo di marzo » (146). Se Savini riforma l’atlante geografico, il prefetto si occu224
pa di quello storico, raccontando al suo intendente brani di una anti-storia comica o metafisica. Apprendiamo cosi che la cele-
brata spedizione di Alessandro Magno provocò la perdita dell'identità culturale dei Macedoni e si trasformò infine in una farsa: «Appena partiti per la spedizione, la loro forza era la disciplina, e s'intendevano perfettamente. Alla fine era una carovana di scervellati senza patria né legge » (98). Gli Aztechi invece, dopo l’arrivo degli avidi Spagnoli, non sono scomparsi come si crede, «ma si sono intanati » nella giungla, dove hanno adottato il «sistema edilizio [...] di lasciare tutto com'è» (117)
per passare inosservati, cosi che essi ora costruiscono solo con la fantasia e nessuno può togliergli le loro invisibili città mentali. I Visigoti poi, secondo il prefetto, «sono scomparsi dalla storia cosi com’eran venuti, senza lasciare un'impronta » (154)
perché in Padania la gente per non dare loro soddisfazione attribuiva ostinatamente a cause naturali i disastri che essi provocavano e « [a] forza di non considerare i Visigoti, non li vedevano quasi » (153); di conseguenza essi « si sentivan sparire, [...]
anzi loro non c'erano, e non c’eran mai stati » (153-54). Cosî nella geografia di Savini come nella storia del prefetto il motivo ricorrente è quello del non fare, che permette di scorgere nella fluidità dell’acqua tutti gli atlanti, di intessere nel non reagire infinite vittorie della fantasia. All’insegna del lasciar fare, di una storia che nasce dall’improvvisazione o dal caso è anche l'episodio più dissacrante di /I/ poema dei lunatici, che narra di una spedizione dei Mille improvvisata e di un Garibaldi paternalista e totalmente svanito, che si affida all’espediente di
domande retoriche ai suoi soldati per ricordarsi dov'è e per quale motivo; ma c’è anche una rivisitazione dell'impresa garibaldina dal punto di vista del viceré delle due Sicilie che, chiuso nelle sue stanze, pianifica con un proprio sistema matematico
risolutive battaglie contro Garibaldi che i suoi generali lazzaroni non intraprendono affatto. Di nuovo, le rappresentazioni del mondo fisse (l’atlante) o in movimento (la storia) sono tanto più efficaci quanto più sono prodotto di un’inerzia fervida o stordita. Intanto Savini e il prefetto hanno lasciato la città, e questi è tormentato dall’ossessione di essere spiato di giorno e di notte dalle spie del ministro, vecchi che secernono dalla
bocca « colla di ragno » (279) per avvilupparlo nella loro ragnatela. Alla fine, in un paese, il paranoico Gonnella ingaggia una furiosa battaglia con un uomo grasso su un motorino e poi una singolar tenzone con un venditore ambulante in mezzo alla folla in visibilio. Dopo questo climax da comica finale il prefetto si sottrae volando ai vigili che lo vogliono acciuffare, mentre il povero Savini, rimasto solo, vaga per la campagna, ritorna al-
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l'ospedale psichiatrico da dove era fuggito e da qui scrive le sue deliranti avventure, o meglio «i fatti come [gli] sono sembrati» (9).
Son è difficile scorgere in Il poema dei lunatici un collage non sempre amalgamato e comunque troppo esteso di echi e di richiami: l’idea del teatro come rappresentazione della vita più vera della vita viene da Pirandello; i cittadini falsi da Minnie la candida di Bontempelli; la geografia fantastica e l’episodio degli Aztechi sembrano ispirarsi al Calvino di Le città invisibili e di Collezione di sabbia.'* In particolare, l'episodio dei Visigoti che scompaiono perché nessuno si vuole accorgere della loro esistenza ricorda il racconto di Le Cosmicomiche «I Dinosauri ». Come si vedrà in seguito, il concetto di atlante, oltre che
latamente da Calvino, pare specificamente influenzato da Atlante occidentale di Daniele Del Giudice in cui, per quanto con tutt'altro tono, si propongono atlanti rarefatti (della luce, delle andature) almeno quanto la prefettura di Gonnella. Invece la storia del viceré e delle sue battaglie immaginarie è di matrice borgesiana, come del resto quella che spiega e rivaluta il tradimento di Giuda Iscariota (« Tres versiones de Judas », 1944, in
Ficciones). Ma ci sono anche rimaneggiamenti extraletterari: la narrazione a proposito del samurai a cui gli allievi per esercitarsi devono tendere imboscate giorno e notte rammenta il comico e scomodo modo per mantenersi sempre vigile escogitato dall’ispettor Clouseau di Peter Sellers nel ciclo dei film di «La pantera rosa », mentre l’episodio di Savini e Gonnella su un albero a spiare una giovane donna che si spoglia in camera è un luogo comune del voyeurismo, dalla Commedia dell’Arte alla barzelletta. Comunque, al di sopra di tutto questo, penso che l'influenza principale sia da accreditare a Celati. Certo Il poema dei lunatici riprende da Narratori delle pianure l’idea della peregrinazione per la Padania a caccia di storie, ma il Celati a cui Cavazzoni si rifà fin troppo largamente è il primo, quello di Comiche e di Le avventure di Guizzardi, cominciando dal personaggio di Savini. Questa figurina errabonda labile di nome, professione e personalità è un misto del professore di Comiche e di Guizzardi fin nella voce narrativa che, come la loro, è bislacca ed asintattica, straordinariamente fonica nel riprodurre una cadenza romagnola la cui involontaria vis comica nasce
dalle ripetizioni un po’ dementi e dall’inadeguatezza espressiva. Oltre a far ridere, esse producono anche un inconsulto « ef-
fetto logico », trasognato e surreale.!° L'episodio di Ester detta «la vaporiera » che strapazza il povero Nestore fa subito pensare al professore di Comiche alla mercé della procace direttrice signora Lavinia e a Guizzardi schiavo della vogliosa vedova Co226
niglio, ma qui il soprannome dato al donnone in continua ebollizione sessuale subisce uno scarto metaforico alla Kafka, ed
Ester diviene agli occhi del terrorizzato Nestore una minacciosa locomotiva in piena regola. Sempre di ispirazione celatiana mi sembra l’associazione volo-follia: vola il professore, vola Guizzardi, volano i «bilingui di confine » e vola infine anche il
prefetto, dopo il putiferio nella piazza del paese (la «bagarre » o effetto-baraonda di cui parla Celati a proposito delle comiche finali).?° Il riciclaggio trasgressivo della grande storia da un punto di vista basso e smitizzante è affine a quello di Stefano Benni in Terra!, come del resto la fauna di bilingui di confi-
ne, ripetitori e madonne con gli artigli che popola la « prefettura celeste » di Gonnella ricorda quella altrettanto bizzarra dell’isola di / meravigliosi animali di Stranalandia. Tratto distintivo di Cavazzoni è semmai il motivo ricorrente di una passività paradossalmente creativa e fattiva che del resto si confà e contribuisce al felice carattere visionario della sua narrazione. Indubbiamente in // poema dei lunatici ci sono anche echi da Ariosto e da Folengo, che proprio perché nobilitanti e antichi sono poi quelli pubblicizzati in risvolto di copertina, e ad essi si potrebbero aggiungere suggestioni fiabesche da Pinocchio e comicocavalleresche da Don Quijote, ma mi pare che tutti questi siano aspetti secondari rispetto alle influenze dei contemporanei, specialmente quelle di Celati e di Calvino. Come scrive Giorgio Bàrberi Squarotti, Cavazzoni di Calvino «non ha la forza e la
ricchezza di un’idea precisa della letteratura da dimostrare e porre a fondamento della narrazione; [di Celati] non ha il senso
dello spazio e dei tempi sconfinati che si incarnano nell’indefinita piattezza e continuità della Pianura Padana ».?! In altre parole, anche se Cavazzoni adatta con indubbia abilità idee e vi-
cende dei suoi ispiratori e dimostra di essere cosi uno scrittore di grandi capacità tecniche e mimetiche, i prestiti — e in particolar modo quello di Celati — rimangono troppo apparenti per garantire l'originalità di Il poema dei lunatici; non sono cioè confortati da una poetica dell’autore che li assimili e li trasformi convincentemente. Comunque certe parti sono godibilissi-
me e manifestano un paradossale e stravagante senso del comico e del grottesco; Il poema dei lunatici offre il suo meglio
appunto quando di esso si esamina analiticamente l’episodio arioso e visionario, ricco di fantasia, non quando ci si fa trascinare e stordire dalla sua eccessiva energia accumulatoria che accatasta personaggi, conversazioni e avvenimenti cercando di supplire con la ricchezza alla mancanza di direzione. Il lavoro di Cavazzoni manca di coesione per almeno tre motivi: per la presenza di troppi (e ancora ben distinguibili) grumi ispirato-
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ri, per il carattere di per sé desultorio e sgangherato delle peripezie di Savini e Gonnella, e infine per una certa propensione alla ripetizione, particolarmente gravosa in un’opera di trecento pagine che dovrebbe basare il suo fascino proprio su una lunare levità di gioco e di invenzione. Però un po’ di responsabilità ce l’ha forse anche il lettore: le virtù di Cavazzoni sono rare ai nostri giorni, e infatti il pubblico ideale a cui egli si rivolge è quello del romanzo-romance, genere cavalleresco, estroso, fluviale e in via di estinzione che richiede un lettore (sarei tentato di dire un uditorio) all'antica, abituato alle lunghe sedute, di
lettura o di ascolto — alla degustazione insomma, non alla consumazione — e certo molto più impervio al fastidio della ripetizione di quanto sia il lettore di oggi, incalzato dalle pressioni di un contingente che ha anche drasticamente accorciato i suoi «tempi di volo» sulle usurate ali della fantasia.
I narratori generazionali impegnati, dalla cronaca del ’77 alla memorialistica di movimento: Corrias, Palandri, Piersanti, D'Elia, Lucarelli, Medici, van Straten
Mentre Tondelli, Avalli e Busi sono legati a tematiche di estraniamento-liberazione individuali arrivate dalla narrativa di protesta americana, come del resto si possono ritrovare facilmen-
te influenze della fantascienza statunitense in Benni e del romanzo latinoamericano in Antonaros, nel caso di Palandri, Piersanti e Corrias si ha a che fare con una scrittura « spontanea »,
un fenomeno che non è oggetto di significative influenze letterarie esterne ma piuttosto, nella sua modestia, è di matrice stret-
tamente nazionale. Con i lavori di questi autori, dettati dal sentimento di testimoniare un movimento sentito sin quasi dall’inizio come condannato, si realizza un rammodernamento
ado-
lescenziale e militante dell’elegia e dell'atmosfera di ripiegamento del romanzo medio. Al « fallimento della rivoluzione » fa da controcanto la crisi amorosa o esistenziale del protagonista. Modelli e antesignani della scrittura di movimento sono Porci con le ali (1976) e Lunario del paradiso (1978), entrambi romanzi di educazione politica e soprattutto sentimentale, in cui la Bildung ha la sua cruciale messa a fuoco, rispettivamente, nel rapporto sessuale e nel viaggio avventuroso in terra straniera, ma vie-
ne sdrammatizzata e temperata da molta autoironia. I lavori di Palandri e Corrias non sono sessualmente espliciti come Porci con le ali né movimentati da peripezie all’estero come Lunario del paradiso e narrano piuttosto di sentimenti molto autobio228
grafici e presi sul serio, a scapito sia della componente ludica che di quella politica. Quest'ultima viene vissuta come esperienza più privata che collettiva, e non sovrasta mai l’importanza della storia d'amore; rappresenta cioè più un clima, un modo di sentire, che una necessità di azione che orienti la trama. L’a-
spetto più interessante è l’invenzione di una lingua colloquiale che riproduce il « parlarsi addosso » delle nuove generazioni acculturate ma escluse dal potere; è un parlato variopinto e tutto sommato basso che però si atteggia sempre a gergo scaltro e «vissuto », e ritrova proprio in questo uno dei suoi caratteri distintamente adolescenziali. Palandri, Corrias e Piersanti riesco-
no a riprodurre convincentemente una narrazione orale narcisistica e creativa, che deve molto a quella dei personaggi di Celati e non è da sottovalutare, non tanto qualitativamente come fatto in sé quanto per come ripropone una nozione aggiornata
di parlato-scritto giovanile. L’ancor più giovane Lucarelli, che rientra in un discorso movimentistico in modo piuttosto tangenziale e tardivo, mima talvolta un parlato più alto e disperato, che si ispira ingenuamente a romantici modelli wertheriani, mentre il più letterariamente consapevole D'Elia, che come Lucarelli esordisce ormai nella seconda metà degli anni ottanta, sperimenta un impasto di vernacolo acerbo e di virulento eloquio gaddiano, e fa di una sua umorale cronaca del ’77 in forma di epistolario solo un aspetto o uno strumento di un più ampio e vago discorso generazionale. La scrittura di questi esordienti è caratterizzata da una fondamentale incertezza di tono, in cui disperazione politica e disperazione amorosa si confondono perché entrambe personali e politiche; c'è insomma una doppia mancanza di prospettiva rispetto al fatto narrato, trascritto quasi in presa diretta e par-
te di una formazione non conclusa. Con la difficoltà di trovare un atteggiamento e una voce giusta per raccontare un'esperien-
za fondamentalmente elusiva si devono misurare anche i « memorialisti », gli autori che adottando la prospettiva di oggi rievocano i giorni cruciali della contestazione e del movimento, cercando con tecniche diverse quali la panoramica di quasi vent'anni (van Straten) o la storia di un giorno (Medici) di ottenere un effetto rappresentativo che distanzi e oggettivi gli eventi mitici e tumultuosi degli anni sessanta e settanta. Fra i primi giovani scrittori che narrano le vicende del movimento del ’77 va ricordato Pino Corrias (n. 1956 a Savona), che nel 1980 pubblicava Inverno. Un amore inventato e perduto in una città stretta fra una primavera e l’altra (Roma, Savelli). Il romanzo può essere facilmente collegato a opere che na229
scono dallo stesso clima politico, come Lunario
del paradiso
(1978) di Gianni Celati e Diario di un militante intorno a un suicidio (1979) di Vittorio Borelli. Celati, come si è già visto, distanzia i fatti in un'alternanza narrativa fra cornice del ’78 e rievocazione di una propria avventura giovanile nei primi anni '60, e in questo continuo controcanto riesce a guadagnare una
dimensione ironica e nostalgica che lo salva da una scrittura troppo effimera e contingente; Borelli, più vicino a Corrias in
una narrazione squilibrata, dall'andamento diaristico e autobiografico, si riscatta sporadicamente grazie alla propensione per la riflessione corrosiva, per l’analisi politica lucida e impietosa. Ma il lavoro di Corrias è ancor meno filtrato e meditato di quello di Borelli: Inverno, nella vicenda autobiografica di un militante confuso di nome Pino, mescola umori tardo-ado-
lescenziali e rapsodie amorose sullo sfondo di una Milano invernale e prevalentemente notturna, fatta di compagni bevuti e di locali alternativi («Il Magenta », «L’Operetta », «Il Punto Rosso ») descritti con vivacità e precisione, fin nel prezzo della consumazione. Che Inverno unisca storia politica e storia per-
sonale non è un fatto insolito, ma piuttosto programmatico della scrittura di movimento; il problema è che, secondo lo stile di tale scrittura, Corrias si aspetta di costruire un romanzo attra-
verso una semplice e ingenua operazione di trascrizione del vissuto, ma il risultato sembra appunto più un diario politico e amoroso che un romanzo, una testimonianza genuina ma di li-
mitato valore narrativo. Quando poi la trascrizione lascia spazio ad un minimo di elaborazione stilistica, questa scivola, per la giovinezza e la cultura di chi scrive, su t6poi letterari liceali
appena mascherati da un velo di disinvoltura sperimentale. Il valore di Inverno risiede quindi nel suo essere espressione diretta e sincera di un movimento politico composito, instabile e utopistico, già allora vissuto dai suoi protagonisti con una specie di prematura nostalgia retrospettiva. È appunto questo sentimento di precarietà, di vaghezza di umori e di intenti, di mar-
ginalità eletta a stile di vita, che emerge come impressione dominante dalla lettura di Inverno; cosi, in quanto a cogliere lo Zeitgeist, esso vale da solo quanto una dozzina di studi sul ’77. Narrativamente, la parte migliore è quella di apertura (la conversazione con Paolo, la notte al Magenta, l’incontro in biblio-
teca con Luca e Margherita, la sera in bottiglieria), pagine rapide e giocose in cui l’io di Corrias riesce a comunicarci il sapore agrodolce di una giovinezza che vorrebbe essere disillusa e hard-boiled, ma è ancora piena di curiosità e di prime volte; dopo comincia la storia con Margherita, che diventa subito « pesante come un sasso » (24) e contribuisce all'andamento umo-
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rale e melenso di tutto ciò che segue. Cosi l'atmosfera dominante è quella invernale della città assediata, dello sconforto amoroso e politico, insomma dell’elegia e della confessione tipiche del romanzo medio e qui riproposte senza filtri dall’ingenua immediatezza della scrittura di movimento. A parte il buon inizio e l'interesse documentario, Inverno è opera narrativa molto modesta, con una storia d’amore con i soliti piccoli tormenti compiaciuti, le solite conversazioni intense e banali, molta ingenua retorica, molto misticismo politico,?? ed un lirismo giovanile che vorrebbe essere spontaneo, ma che è invece ora
enfatico ora arzigogolato,? vittima anch'esso delle sovrastrutture contro cui si batteva il movimento. Le perplessità appena espresse per Inverno ritornano alla lettura del primo e più conosciuto testo narrativo prodotto dal movimento del '77, Boccalone. Storia vera piena di bugie (Milano, L'Erba Voglio, 1979; Milano, Feltrinelli, 1988) di Enrico Pa-
landri (n. 1956 Inverno quella fra movimento parte Palandri
a Venezia). Boccalone mostra ancor meglio di incompatibilità non priva di ambiguità che c’era e letteratura sentita come istituzione. Se da una sprezza fin dalla prefazione, con adolescenziale
irruenza, i romanzi e gli scrittori,”* dall'altra fa ad entrambi narcisisticamente l’occhiolino; se da una parte cerca di salvar-
si sostenendo secondo la retorica dell’antiretorica movimentistica che «il bello di queste pagine è che tutti possono scriverle e che tutti sono scrittori » (Feltrinelli, 22), dall'altra rivendi-
ca sempre con molta enfasi la magica unicità del suo amore e riempie pagine e pagine di private elucubrazioni sentimentali. Ciò che tiene insieme la contraddizione è l'ideale di poter fare politica attraverso la vita privata; un racconto « scritto solo su me stesso » (143) è cosî «un oggetto collettivo » (138) esemplare, l’espressione e l’arma di una radicale rivoluzione di mentalità che si vuole contrapporre a tutta la cultura borghese. La. «letterarietà » Palandri cerca di mortificarla anche scrivendo tutto minuscolo e infarcendo la sua narrazione diaristica di interiezioni onomatopeiche. Ancor più che nel caso di Corrias, questo è soprattutto un autobiografico giornale sentimentale in cui la storia d'amore sovrasta di gran lunga l’impegno politico del ventenne protagonista Enrico soprannominato Boccalone, e comunque entrambi (politica e amore) sono vissuti con la letterarietà' negata con foga ma iperpresente degli amori impossibili adolescenziali. Come già aveva fatto Gianni Celati in Lunario del paradiso (1978), Palandri cerca di dare una prospettiva al suo racconto intercalando il presente dell’inizio della scrittura, presente di depressione e deprivazione (gennaio 1978),
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con il passato allegro ed estatico dell'inizio dell'avventura amorosa (maggio 1977). Infine il tempo della storia d'amore (terminata come il movimento con la fine del '77 ma trascinatasi poi in qualche sporadico incontro) e quello della sua stesura si incontrano nel marzo del 1978. Enrico ha passato gli ultimi tre mesi ospite in case diverse scrivendo e riscrivendo, secondo il consiglio di « gianni, il [suo] amico scrittore »?° e, dopo aver cer-
cato invano un degno finale, decide semplicemente che la storia «finisce in marzo, raccontando gli ultimi accadimenti, re-
gistrandoli nel bisbiglio confuso delle pagine » (141), che è poi anche il mese in cui l’anno prima iniziò il movimento a Bologna. Il grande amore è Anna, diciassettenne fanciulla in salo-
pette bianca, che indugia in piazza insieme ad altra « gente bella »; la città è Bologna, ma appare anche un po’ di Venezia, un viaggio estivo in auto con Anna in Francia e Spagna, e naturalmente la memorabile svendita del ’68 a Milano, Macondo, che
ritorna infatti anche in Inverno. Corrias predilige la scena dei bar controculturali e mostra bene o male un certo milanese attivismo, nella fattispecie politico; Palandri invece indulge più sul sentimentale? o sul turistico ed è in genere più fanciullesco nello stile e nelle sue mitizzazioni filmiche (Woody Allen) e fumettistiche (Corto Maltese). Forse proprio per una maggiore inclinazione alla clownerie, Palandri menziona i fratelli Marx
(popolarissimi nel ’77, a testimoniare un doveroso distacco dall’idolatria seriosa che al loro omonimo Karl avevano dedicato i contestatori del ’68) e Kafka (19), immagino pensando a quello caro a Celati dei funambolismi comici e allusivi. Insomma,
anche Boccalone come Inverno ha un valore soprattutto documentario ed evocativo: ci ricorda l’amore del ’77 per tutta la poesia trasgressiva e rivoluzionaria, da Rimbaud (15) a Majakovskij (39) ai surrealisti (135); per le canzoni di protesta (molto Bob Dylan); per i fumetti e il cinema, in special modo per quei film in cui ci si può narcisisticamente o miticamente identificare (nel caso di Boccalone, Jo e Annie di Woody Allen e Cinque pezzi facili di Bob Rafelson); per i bigliettini e per le lettere come primo livello di letterarizzazione della vita (49-50, 69-70, 77, 131-133). Boccalone nella sua affabulazione narcisistica e introspettiva, labile e paranoica, dotata di un’ironia cosi scoperta da risultare più ingenua della stessa ingenuità, con i suoi palpiti amorosi cosi sentimentali e lacrimosi, fa leva su ciò che nella malinconica memoria collettiva il 77 è diventato: il grande carnevale della giovinezza, dell'adolescenza di tutta una generazione, la celebrazione spudorata e disinibita del sesso-sesso come del sentimento-sentimento,
dell’amore-amore come del
pianto-pianto; e Boccalone dalla «bocca grande che perde in 232
continuazione » (35) non si fa certo problemi, piange a pagine
alterne, ama in tutte, infarcisce i suoi monologhi di punti esclamativi e di «bleard », «gulp», «bla bla», « clap clap», «grrr»,
con fumettesca e istintiva voluttà. Insomma il ’77 è si il momento impuro e inafferrabile da cui nascono terrorismo di massa
e riflusso, anni di piombo ed edonismo consumistico, ma è an-
che il meraviglioso momento aurorale del cambiamento e delle possibilità, quando weberianamente il movimento con la sua
pienezza e autenticità di vita prevale sulla sclerotizzazione delle istituzioni. Immaturo e generoso, pericoloso e romantico, nel
movimento del ’77 ci si può trovare di tutto solo a voler cercare, ma sotto sotto, proprio per questa sua ricchezza anarchica
e polimorfa, esso sta diventando segretamente l’epitome epocale della libertà istintiva, la zona franca all’interno della quale, con la complice fantasia del dopo, ci si vuol convincere che tutto era permesso. Cosi ogni sgangherato e confuso « roman-
zo » di movimento è potenzialmente una sacra reliquia di « anni formidabili », e il modesto folclore generazionale (Inverno di Corrias, Casa di nessuno di Piersanti) si presta ad essere innalzato a mito esistenziale della libertà e dell'avventura. Non si può negare che dalla banale e irruenta quotidianità priva di filtri di Boccalone scaturisca, intermittentemente ma intensamente, il ritratto dei ragazzi del ’77, l'atmosfera inebriante e indefini-
bile dell'altro ieri. Ma Boccalone non ha una forza letteraria che lo renda capace di sopravvivere alla nostalgia generazionale; è uno di quei libri il cui valore è indissolubilmente legato al suo essere totalmente calato nel suo tempo, cosi che esso vale quel poco che vale appunto perché è contingente ed estroverso, come certe cose minori che più dei cosiddetti classici riflettono il clima culturale di un’epoca proprio perché sbilanciate, enfatiche, inerentemente mediocri, eppure emblematicamente rappresentative nella loro mediocrità. È il secondo romanzo di Palandri che scioglie ogni possibile dubbio a proposito dell’autore di Boccalone. Dopo un racconto autobiografico che vuol essere « presa diretta » delle emozioni politiche e amorose di un ragazzo, Palandri pubblica Le Pietre e il Sale (Milano, Garzanti, 1986), in cui codifica e schematizza manicheisticamente azione e personaggi. Cosi, dopo un silenzio di sette anni, all’'immediatezza dell’opera di esordio non succede la plasticità di una maturità raggiunta, ma la legnosità di una progetto narrativo in cui l’autore risulta troppo ingombrante, e carica i suoi esili protagonisti di ruoli e sentimenti sem-
pre eccessivi. Da una parte ci sono i buoni, resi molto manieri-
sticamente: Marco, trentenne intellettuale sradicato e in crisi
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per motivi non chiari, e due adolescenti al loro primo amore,
a cui egli cede il proprio letto, l’ingenuo Luca e l’appassionata Nina, «bella come un fiore » (113). Dall'altra ci sono le istituzioni e le loro grottesche creature: il professor Michele Scarpa, velleitario intellettuale di provincia, insegnante represso e sadico che perseguita Nina e Luca; Marina, moglie di Michele e volgare arrampicatrice che fa carriera nel partito comunista
grazie agli amanti; l'avvocato dello stato Brandi, padre di Luca, che si diletta di storia medievale e riduce il mondo ad un perpetuo scontro fra guelfi e ghibellini. In mezzo, molto populisticamente, troviamo « gli umili » : i poveri genitori di Nina, Maria e Pietro Contin, lei casalinga sfiorita, lui piccolo impiegato, personaggi stereotipici e folcloristici che si esprimono in dialetto veneziano, con tanto di note esplicative a piè di pagina, come del resto fa Nina stessa quando parla con loro e con la nonna, pittoresca frequentatrice di osterie che muore felice all’alba, dopo essersi fatta raccontare dalla nipote per l’ennesima volta l'episodio del primo bacio fra lei e Luca. Palandri ha la mano
pesante
anche
nella descrizione
degli ambienti,
ad
esempio il mondo provinciale del caffè letterario Serafini, in cui Scarpa pontifica, e quello altrettanto parassitario del Comune di Venezia, in cui lavora il padre di Nina. Qui le vicissitudini in dialetto del povero Pietro fanno pensare ora al Travet di Bersezio, ora alle burocratiche disgrazie dei piccoli impiegati di Gogol’. Ma anche l’ironia bisogna saperla usare, e la pseudocultura da caffè come il parastato sono bersagli troppo facili e consunti per risultare vivi e giustificare le descrizioni corrive e compiaciute di Palandri, che scadono nella macchietta trita (i commenti critici di Scarpa e il servilismo di Bortolotti) o in quella al contempo patetica e crassa (l'episodio dell’ultimo giorno di lavoro e di vita di Pietro). Boccalone si salvava in parte grazie ad una accattivante freschezza e alla programmatica antiletterarietà della scrittura di movimento, che legitti-
mava cosi ogni possibile ingenuità autoriale; Le Pietre e il Sale è invece un romanzo la cui goffaggine non può essere scusata da nessuna poetica politica e che è innanzitutto vittima proprio della sua letterarietà ridondante e ambiziosa, che si frammen-
ta in istanze diverse e confuse. Fra di esse si possono distinguere almeno alcuni motivi: le tendenze sentimentali e regionali del romanzo medio, qui intensificate dal romanticismo kitsch dell'amore a Venezia e dal colore locale del dialetto; le
crude propensioni del romanzo naturalista, qui espresse dalla descrizione del decadimento psicofisico di Pietro e dalla miseria che incombe sulla famiglia; le menzionate forzature caricaturali, e persino un troppo elaborato tentativo aforistico alla 234
Kafka (153-155). Il risultato è un dilettantesco accavallarsi di registri dissonanti; per di più il narratore onnisciente in terza persona non racconta, ma spiega sentenziosamente o commen-
ta liricamente, e contribuisce cosi all’appiattimento dei personaggi e alla staticità della comunque debole trama. La tendenza ai pianti e agli smarrimenti emotivi già riscontrata in Boccalone ritorna in Le Pietre e il Sale, dove le sventure dei Contin
e il tormentato amore di Nina per Luca si prestano a creare un’atmosfera regressiva, rinforzata dalla chiusura spaziale e linguistica (il plumbeo scenario veneziano e la presenza del dialetto); prolifera quindi un malinconico lirismo colmo di cliché ora lacrimosi e ora estatici, che tende all'effetto consolatorio,
alla celebrazione dei buoni sentimenti dei giovani e del popolo. All’inizio del romanzo i ginnasiali Nina e Luca, fingendo di avere diciotto anni, riescono a vedere un film vietato che è appena uscito e sembra « Ultimo tango a Parigi » di Bertolucci; da questo fatto si desume che l’azione inizia nel 1972 o nel 1973, per concludersi con l’esame di maturità, quindi nel 1975 o nel 1976. Se ne potrebbe inferire che Palandri, con i suoi due adolescenti appassionati e turbati, precoci e un po’ ribelli, voglia ricostruire la preistoria del movimento, fornirci un’implicita analisi delle inquietudini generazionali da cui esso scaturiva. Ma se questa intenzione c’è, è l’unica cosa che Palandri trascura
di valorizzare in un romanzo per il resto all’insegna della sottolineatura retorica, grottesca o sentimentale, che finisce col
ricalcare il modello del peggiore romanzo medio. Ne è un buon esempio la conclusiva sparata lirica e consolatoria in cui, dopo che Luca ha definitivamente abbandonato Nina, lei e Marco sco-
prono di amarsi.” Claudio Piersanti (n. 1954 a Canzano, Teramo) esordisce nel 1981 con Casa di nessuno (Milano, Feltrinelli), diario-monologo di un giovane io narrante che passa il tempo per lo più in casa a fantasticare e a parlarsi addosso. Nell’appartamento al quarto piano di una cittadina adriatica il protagonista si scopre scrittore ludicamente, per caso, grazie alla penna nuova regalatagli da Dora, la ragazza che ogni tanto passa a trovarlo e rimane a dormire con lui. Racconta cosi la cronaca scorrevole e giocosa delle sue giornate, interrotte dalla visita di un amico o da rare uscite per fare la spesa o per rubare qualcosa e continuare una vita pigra e compiaciuta, priva di responsabilità. Come si vedrà anche per Via Po (1987) di Sandro Medici e per Generazione (1987) di Giorgio van Straten, in Casa di nessuno c'è un personaggio che ha deciso per il non impegno, per il rifiuto; ma
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qui tale decisione è dovuta a una vocazione personale (e comunque nell’aria negli anni a cavallo fra i due decenni) piuttosto che ad una precisa delusione politica, che infatti non viene mai menzionata. Anche nei suoi rapporti con gli altri l'anonimo protagonista di Casa di nessuno non si effonde in profluvi amorosi; è insomma già un passo oltre la generosità del sentire dei ragazzi del ’77: è un solitario e un egoista, come tale perfettamente in grado di divertirsi da solo. E infatti Piersanti riesce a tratti a creare una felice atmosfera di complicità fra il suo io e il lettore attraverso una narrazione diaristica stravagante e accattivante, tesa acrobaticamente
a riempire un tempo fat-
to di non-eventi, di claustrofobia e di isolamento nella «casa
di nessuno ».?8 È questa una clownerie meno gratuita di quel che sembra perché proprio nei suoi toni casuali tradisce il disagio latente e le fantasie di evasione di tutta una generazione che sapeva definirsi più per quello che non era che per un chiaro programma politico: « Non sono un innamorato, o un ladro, un ingegnere, un pittore. Soltanto uno che vorrebbe essere ogni volta un altro, mai una persona tutta d’un pezzo. Sono proprio nessuno » (128-29). Come si può intuire il pericolo in questa introspezione di quasi centocinquanta pagine scandita da pochi accadimenti e senza una trama che non sia il corso dei pensieri e degli umori del narratore è quello dell’auscultazione com-
piaciuta, del narcisismo adolescenziale,” o peggio goliardico,° della svagatezza impressionistica. Cosi Casa di nessuno rimane una prima prova incerta e interlocutoria, dove estrosa scioltezza discorsiva e maldestre cadute di tono si mescolano in modo inestricabile. A suo favore si può dire che, proprio per la sua volatile freschezza, non ha la pretenziosità retorica e sim-
bolica di Via Po di Sandro Medici, ed anche rispetto ad Inverno si distingue per la minore sentimentalità: Dora, come la Mar-
gherita di Corrias, parte d’inverno per un paese caldo (stavolta non il Messico ma la Spagna) secondo un’ansia di fuga e di droghe a buon prezzo tipica del periodo, ma la sua relazione con l’io narrante ha un ruolo non primario nel romanzo. Non altrettanto positivo mi pare un confronto con il posteriore Generazione (1987) di Giorgio van Straten; accomuna le due opere un risultato di onestà, ma ottenuto in modo molto diverso: quella
di van Straten traspare da un affresco costruito con passione, perizia e pazienza; questa di Piersanti è invece l’onestà dell’im-
mediatezza, della trascrizione diaristica divertita e impulsiva. Casa di nessuno è cosi un romanzo difficilmente ripetibile perché le sue precarie virtù come i suoi acerbi difetti sono connaturati alla giovinezza del suo autore, e nel suo esito solo par-
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zialmente e fortunosamente felice denuncia l'esigenza di una crescita tecnica ed intellettuale. Infatti il secondo lavoro di Piersanti, Charles (Ancona, il lavoro editoriale, 1986), segue a lunga distanza, ed è molto diver-
so dal precedente. È la storia in terza persona, non più claustrofobica ma ampia in spazi e tempi narrativi, di Giorgio De Manaris, giovane e povero abruzzese che studia medicina a Milano con grande concentrazione e disciplina e viene quindi avvicinato dal primario di oculistica, che gli scrive una lettera per offrirgli la tesi e infine lo invita a casa per un tè (è senz’altro questa la parte più inverosimile di tutta l’opera). Lo vediamo poi anni dopo, ricco e affermato oculista (professione significativa, che implica una « lungimiranza » non posseduta dal protagonista) a Parigi, che fa vita brillante insieme al gaudente amico e collega Michel. Giorgio conosce Charles, un ragazzino introverso e senza genitori accudito dalla sua ex compagna Renée, e fra i due inizia un affettuoso e complice rapporto stile padrefiglio. Poi Giorgio con la giovane amante Christine e l’amico Michel va in visita dai genitori in Abruzzo e registra per Charles dei nastri con descrizioni della casa e del paese, e ricordi della propria infanzia. Riesce anche a rintracciare il fratello Piero, che è latitante
e compromesso con un gruppo eversivo, e gli pro-
pone di venire a rifugiarsi a Parigi. Per Giorgio « stanno arrivando l’infelicità e la vecchiaia » (107): la polizia francese insospettita lo perseguita e Piero, braccato, infine si suicida piuttosto che farsi catturare. Giorgio, molto scosso, ritorna in Abruzzo con Christine per il funerale, zoppica, non si sente bene, ed
è professionalmente in crisi. Il romanzo si chiude a Parigi, dove l’oculista è tornato invecchiato e irritabile, mentre le amicizie
con Michel e con Charles si stanno spegnendo e anche Christine lo guarda ormai con occhi disincantati. Intanto si concludono delle grandi esercitazioni militari europee ed aerei da guerra belli ed inquietanti solcano alla sera i cieli della metropoli. Vita mondana,
amicizia, terrorismo, ritorno alle radici e
malinconia di fine millennio sono i temi principali di Charles, opera ambiziosa negli intenti ma modesta nei risultati. Con questo romanzo cosi diverso dal suo primo Piersanti tenta lo stesso salto verso una maturità creativa, da realizzarsi nell’affre-
sco vasto e sfaccettato, che Tondelli aveva intrapreso con Rimini con maggiore talento e successo. La scrittura di Piersanti, mutata radicalmente rispetto a Casa di nessuno, è ora in terza persona, concisa e sobria, ma spesso anche opaca e riassuntiva, comunque niente affatto visiva e ben lungi da quell’«etica dello sguardo » che gli si vorrebbe attribuire in quarta di coper237
tina.3! La brillante vita parigina di Giorgio De Manaris è artificiosa e ingenua, il sogno cosmopolita di un provinciale, una specie di favola bella rispetto, per esempio, all’accurato jet-set internazionale e manageriale dei personaggi di De Carlo (cfr. Uccelli da gabbia e da voliera, 1982), scrittore di estrazione al
toborghese che conosce molto bene ciò che narra. I personaggi sono scialbi e cadono quasi tutti in facili cliché: Charles, futu-
ro del mondo, è un ragazzino imbronciato e insipido che potrebbe essere adeguatamente il centro dei desideri inappagati di paternità e maternità di Giorgio e Renée solo se fosse opportunamente assente come il Michele del Caro Michele di Natalia Ginzburg; i pruriti semincestuosi di Renée per Charles sono molto « già visti », da Samperi a Malle; Michel, l’amico grasso, ubriacone gioviale e bambinesco, non trascende il ruolo caricatura-
le, e lo stesso protagonista è, nonostante gli sforzi dell’autore, «uomo di mondo » legnoso e poco convincente, che sembra parzialmente a suo agio solo nei ritorni abruzzesi e nel finale malinconico. Charles è preso fra due fuochi narrativi che si rivelano entrambi controproducenti. Da una parte c’è una Parigi delineata in modo assai vago, principalmente attraverso la convenzionale rappresentazione di una « bella vita »; forse questa di Parigi vorrebbe essere una scelta diversa, motivata dall’intenzione di Piersanti di spostare in Europa, piuttosto che nella solita e mitica America, lo scenario del nuovo cosmopolita ro-
manzo italiano, ma anche la capitale francese non è certo un setting originale, neppure per la giovane narrativa, come dimostrano le opere di Elkann, di Lodoli e di Busi, e la resa è co-
munque poco felice. Dall’altra parte c'è un Abruzzo rurale e arcaico fin troppo vero e regionale, che viene visto attraverso gli occhi dell’emigrato che ha fatto fortuna e che ritorna, e che quindi cade inevitabilmente nei luoghi comuni del romanzo medio: microcosmo, vecchi genitori, ambienti dell'infanzia, accenni dia-
lettali, nostalgia per il passato, memorie confidenziali (le registrazioni di Giorgio per Charles), e radici ritrovate. La divaricazione fra vita urbana e colore locale di Charles ricorda un problema presente in Le Pietre e il Sale di Palandri, dove i due mondi vengono sovrapposti poco convincentemente in una Ve-
nezia quotidiana e dialettale;** semmai a favore di Piersanti si può dire che la sua voce narrativa è meno sentimentale e pretenziosa. Piersanti dimostra sensibilità nella scelta di certi motivi attuali che infatti ricorrono anche nei romanzi di altri giovani narratori: le vicende di Piero, il fratello di Giorgio, richiamano il malessere non ancora spento degli anni di piombo e rammentano il terrorismo metropolitano di Uccelli da gabbia e da voliera di De Carlo; la malinconia di Giorgio che si sente
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dl sl dl
invecchiare, si cosparge il viso di cosmetici di grandi case o di composti fatti con ingredienti naturali secondo ricette abruzzesi (altra letterale cosmesi di vecchio e nuovo) e guarda i fata: li e luccicanti aerei militari che sfrecciano nei cieli della sera, è certo meno morbosa ma comunque paragonabile alla malinconia sempre francese e sempre reduce dell’io narrante e dell’amico Fernando (altro zoppicante personaggio) in Diario di un millennio che fugge di Lodoli.# In entrambi i casi la consapevolezza struggente del tempo che passa, di una personale stanchezza e delusione, viene amplificata dall’incombente fine del millennio. È appunto questa malinconia che non si può sfuggire, nel microcosmo regionale come nella grande metropoli, la cosa più riuscita di Charles, che non a caso mi pare, se non il
migliore, il più rappresentativo esempio di romanzo medio di giovane autore. Si è visto come i giovani del movimento prediligano una
scrittura parlata dove il rapporto fra io narrante e autore è spes: so trasparente e il monologo confessionale e diaristico, soprattutto nella prima prova, viene scelto come forma più adeguata di espressione proprio per l’impulso di comunicazione a caldo e di testimonianza che caratterizza la maggior parte di questi lavori. Autenticità e onestà di espressione, rifiuto giovanile e intransigente della letteratura sono le caratteristiche (già nel giro di pochi anni divenute insolite) che intermittentemente rendono alcune di queste voci disarmanti e memorabili per come catturano una poesia della giovinezza e della scoperta della vita che sono poi quelle vissute acerbamente dall'autore; queste stesse caratteristiche sono però al contempo il limite di una scrittura senza respiro compositivo, condannata dalla sua stessa matrice di sfogo adolescenziale e molto genericamente politico. In una situazione di intenzionale debolezza strutturale, se man-
cano anche immediatezza e freschezza (che spesso si affievoliscono quanto più ci si allontana nella pubblicazione dal cruciale 1977), la voce protagonista finisce per imporre il proprio narcisismo e i risultati si fanno ancora più incerti. Il poeta Gianni D'Elia (n. 1953 a Pesaro) nel suo 1977 (Ancona e Bologna, il lavoro editoriale, 1986, con una nota di Roberto Roversi), che di romanzo ha solo il nome indicato dall’editore in copertina, sfrut-
ta appieno fin dal titolo la suggestione movimentistica ed epocale, anche se del ’77 come momento politico e generazionale
parla ben poco e piuttosto evoca con compiacimento una crisi privata di disgusto e avversione per ogni forma di integrazione. Come altri giovani poeti (cfr. Viviani) D'Elia sembra pensa-
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re che per scrivere un «romanzo » basti affastellare in prosa i propri sfoghi poetici, semmai colorandoli di più corpose e diacroniche notazioni esistenziali e pedalando sulla ruota di un parlare disinvolto, che viene qui proposto in uno stile datato anche visivamente, che evita ogni forma di punteggiatura. Il « romanzo » di D'Elia, in forma di epistolario gelosamente ricopiato e raccolto, va dal settembre al dicembre del 1977, e nelle lette-
re a Odile e a Michel dice la non-storia di un ragazzo di provincia nevrotico, ipocondriaco, invelenito ed egocentrico: un « di-
soccupato scolarizzato » (46) disgustato dal natio borgo selvaggio, dalla militanza politica, dalla « socialdemocrazia [che] ha
trasformato gli operai in consumisti » (57), dalla propria famiglia, «una dei milioni di famiglie nevrotiche piccolo borghesi di questo infernuccio nazionale » (15), dalla paura del cancro e della morte; insomma affetto da una nausea autoindulgente
letta mille volte. Cosî 1977 per reggere le sue pur brevi ottanta pagine avrebbe bisogno di risorse narrative o di un’impalcatura intellettuale che D’Elia non ha, e che crede di poter sostituire con il lacerto svagato ed egotistico sullo stomaco e le ghiandole malate del suo io che « non ha altra misura che se stesso » (60), con provinciali citazioni con apposto fra parentesi il nome dell’inflazionato maestro di turno, con degli « omissis » sempre fra parentesi cosi goliardici e insistiti da risultare tediosi, con logorroiche analisi della propria angoscia esistenziale.5* Qua e là, attraverso la cappa uniforme della rabbia, balenano irrisol-
te ricchezze verbali che fanno sperare in una seconda prova più controllata e più distesa. Infernuccio itagliano (Ancona e Bologna, Transeuropa, 1988) riprende il discorso o meglio l’invettiva contro l’infernuccio piccolo-borghese pesarese e marchigiano che qui viene elevato a dimensioni nazionali; come /977 rifiuta la forma-romanzo
e si risolve in una serie frammenti che talora danno adito a qualche continuità narrativa, per quanto la foga accumulatoria, pa-
.rallela a quella del primo Tondelli e di Busi, prevalga, non tanto, come nel loro caso, per appropriarsi avidamente di un reale sentito come sfida fabulatoria totalizzante ma piuttosto per rifiutarlo dopo averlo evocato e odiato con rabbiosa, analitica ricchezza retorica. La novità rispetto a /977 sta appunto nel notevole affinamento della macchina linguistica di D'Elia, che si
rifà ribaldamente all’invettiva virulenta e creativa di Gadda («sfoglio le corbellerie del Gaddus, discolaccio pentito » [105]), colorata qui di espressioni gergali giovanili e di cattiverie anni
ottanta ovviamente sconosciute al modello. L'invenzione retorica, fitta di parole smontate, cantilenate e ricomposte in modo 240
straniante o giocoso, di stilemi arcaizzanti e di una sonorità dia-
lettale gaglioffa dal timbro ora romanesco ora marchigiano, sopperisce almeno in parte alla programmatica e biliosa svagatezza di Infernuccio itagliano, e lo rende più leggibile della prima petulante prova. Il discorso più propriamente politico, rievo-
catore degli anni fra '68 e ’77, rimane tangenziale e oscilla fra
malinconia e qualunquismo, mentre l'odierno « infernuccio itagliano » diviene un bersaglio fin troppo facile per l'indignazione: Itaglia di merda, stivale. Che non c'hai un buco se non per espellere. Che sei cagona e cesso, evacuatrice e cloaca de la zente meglio! Sono qui, uno dei tuoi piccoli stronzi su piccolo mare di piccola borghesia puttana... insomma scrivo, mi sono deciso a scrivere, era tutto
crollato, mi invento scrittore di croniche... (97).
Forse, come il trentacinquenne Vassalli di L'arrivo della lozione (1976), D’Elia trova nell’invettiva contro un’Italia « murgia » o «infernuccio », certo sentita ma ormai un po’ scontata,
la molla di una vis retorica che altrimenti non scatterebbe con altrettanto creativo livore (« Meno male che c’è la rabbia, quel-
la non me la tolgono » [56]). Insomma, dopo un esordio assai adolescenziale, Infernuccio itagliano prova l’esistenza di un notevole talento linguistico che polemicamente non ha voluto adottare una espressione narrativa « di consumo », cioè «romanzesca », e che certo deve ancora trovare qualcosa che valga la pena di narrare, al di là del « gesto terapeutico » (9). Non vendere i tuoi sogni, mai (Milano, Tranchida, 1987), sot-
totitolato «Il racconto di una generazione che credeva nell’utopia », a prima vista può sembrare un altro sfruttamento editoriale di una retorica generazionale e movimentistica, visto che il suo autore, Umberto Lucarelli (n. 1961), il’77 lo ha fatto davvero un po’ presto, a sedici anni, e comunque di assemblee, col-
lettivi e politica nel suo libro (pubblicato nell’87 ma scritto almeno due anni prima) non ne parla molto. Se dal racconto il movimento non emerge, emerge comunque una generazione che ha sofferto e vissuto soprattutto dopo la sua fine perché, dopo aver fatto appena in tempo ad orecchiare la possibilità generosa ed utopistica di un mondo migliore, si è trovata a crescere nel clima violento e repressivo degli anni di piombo, con una rabbia più implosa che esplosa. Questa rabbia nel caso del personaggio di Lucarelli, un io di nome Michele, si trasforma nel-
l’intermittente resoconto di una giovinezza difficile, fatta di sin-
dromi depressive, rifiuto psicosomatico del servizio militare,
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grane con l’esercito e poi con la polizia per essere in odore di terrorismo, degenza in ospedale militare e detenzione in carcere, sbandamenti e romantici amori. Non vendere i tuoi sogni, mai nasce in una notte quasi insonne in un piccolo appartamen-
to di Milano; il protagonista, tartassato dal frigorifero rumoroso e affascinato da una luna che è stata testimone di tante sue vicende, ricorda e scrive la propria storia in un racconto
che regge per la sua autenticità nonostante le molte enfasi adolescenziali, e viene costantemente recuperato ad un ritmo intimista e ad una grazia delicata e notturna dalla cornice lunare e di sogno. Michele idealizza la sua storia d’amore con Laura leggendo Catullo, Whitman, Shakespeare (Giulietta e Romeo) e Ginsberg, e soprattutto appassionandosi a / dolori del giovane Werther: il suo è un coinvolgimento letterario «in presa diretta », tanto più rispettabile quanto appunto genuino e, se increspa talora lo stile di echi scolastici, la freschezza nel complesso prevale. È all'insegna del sogno che Non vendere i tuoi sogni, mai appunto si chiude, dopo aver indugiato su tre possibili finali, uno passionale, uno controllato, ed uno politico e solidale con un amico in prigione: «In qualsiasi modo tu avessi voluto terminarlo ora non puoi più, perché dormi e forse solo nel sonno troverai la “trama” che hai tanto cercato, quindi dormi e sogna: qualsiasi cosa accada puoi vincerla col sogno! » (55). Un sogno dunque che risolve la vita, da non vendere non solo in quanto personale tensione verso una società più giusta ma anche proprio in quanto sogno, ultima beatitudine concessa ad un adolescente che ha molto vissuto. Sandro Medici (n. 1951 a Roma), giornalista e saggista, esordisce nella narrativa con Via Po (Roma, cooperativa il manifesto anni 80, 1987), romanzo dichiaratamente generazionale fin
dal commento pubblicitario di retrocopertina, che ha un tono fra l’irridente ed il profetico-apocalittico: « E venne il giorno in cui gli anni settanta e gli anni ottanta infine s’incontrarono ». I due decenni, in questa storia lunga un giorno ambientata la domenica dell’11 luglio 1982 a Torino, si dovrebbero incontra-
re sotto le spoglie dell’ultratrentenne Francesco, ex militante, ex giovane, disilluso e rancoroso, appartato e bruciato, e della ventitreenne Sandra di Sasso Marconi, che ondeggia ancora fra
illusione e disincanto, voglia di vivere e prime scottature. Francesco in via Po dà un passaggio a Sandra il fatidico giorno della vittoria italiana del Mundial e del concerto torinese dei vecchi Rolling Stones. In un'atmosfera di affocata smobilitazione estiva le convulsioni intellettual-sentimentali dei due si mesco242
lano con l'improvvisa isteria collettiva che Mundial e concerto suscitano in una Torino altrimenti apatica e svuotata. Dopo aver fatto l'amore ed aver passato la sera ad una festa dell’Unità,
Sandra e Francesco partono per Parigi, ma lui, « intellettuale stanco » (123) che «[a]ppena sent[e] il graffio di un’ancora alz[a] le vele e al primo vento [s]'allontan[a]» (93), ad una stazione di frontiera abbandona furtivamente il treno, senza per questo sco-
raggiare lei, determinata a tornare a Torino per stanarlo e conquistarlo. Esile favola programmatica, Via Po inizia con una certa surreale grazia metropolitana, che ricorda il simile attacco con risveglio estivo in Comici spaventati guerrieri di Benni, ma dopo le prime pagine si ingolfa in una proliferazione di cliché desunti dal '68 e dal ’77, fino a divenire una specie di artificioso copio-
ne cinematografico, in cui i due protagonisti si parlano a colpi di luoghi comuni giovanilisti, sinistresi, cinico-esistenziali e con-
troculturali. In questo battibecco superficiale e polemico, Sandro Medici, forse per un residuo di pudore narrativo, fa spesso apporre a Sandra e a Francesco una postilla autoironica in fondo alla frase fatta di turno, per informarci che i due disgraziati
personaggi sono consapevoli vittime delle convenzioni generazionali non prive di critico senso dell'umorismo. Ma presto anche questa sedicente ironia diviene un esorcismo di maniera contro dosi sempre più massicce di banalità pseudoalternative, che vanno dallo smagato al rapsodico al languoroso al cantautoriale, per naufragare irrevocabilmente nel sentimentale finale ferroviario. Via Po è una triste conferma della vischiosa pericolosità della retorica dell’antiretorica, e un'ulteriore prova di quanto il romanzo sulla generazione che si guarda e si giudica — proprio perché inerentemente votato all’autocontemplazione e all’autoascultazione — riveli una propensione al narcisismo nostalgico addirittura superiore a quella del romanzo medio e tanto più irritante perché continuamente negata dalla sottolineatura militante e velleitaria della propria diversità e antiretoricità. Generazione (Milano, Garzanti, 1987), l’opera prima di Giorgio van Straten (n. 1955 a Firenze), è invece molto sobria e onesta. Come è ovvio sin dal titolo, anche questo è un romanzo generazionale, ma solidamente costruito, con partecipazione e controllo, su un arco di vent'anni, dal 1964 al 1984. Mi pare che
il primo pregio sia appunto quello di estendere la narrazione su un periodo cosi vasto con sveltezza e taglio sicuro in un lavoro di nemmeno 170 pagine, che pure ricattura con precisione ambienti, atmosfere e cambiamenti. Generazione è diviso in
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due parti; la prima è composta da cinque capitoli che, eccetto il terzo, con intervalli di quattro anni l’uno dall’altro (1964, 1968, 1971, 1975, 1979) seguono la vita di Marco Da Col, di suo fratel-
lo e di altri personaggi nell’Italia dei primi anni sessanta, della contestazione giovanile, della vittoria comunista alle elezioni
del 1975, e dell’inizio del « riflusso ». Il primo capitolo si apre nel 1964, a Firenze, in casa Da Col, dove l’undicenne Tommaso
fa lo «sciopero del silenzio » con l’affettuosa e solidale complicità del fratello Marco, di nove anni, per ottenere dai genitori
il permesso di guardare il film televisivo del lunedi sera invece di andare a letto subito dopo « Carosello ». A questo episodio van Straten fa risalire l’inquietante consapevolezza di Tommaso della propria « pazzia » e « cattiveria », e da qui nasce nel bambino la drastica scelta del conformismo e dell’ipocrisia per proteggere il suo io (« Non gli restava che fingere. Comportarsi normalmente. Per anni. Per sempre » [20]); una risoluzione che con l'adolescenza lo trasforma in abile « attore » (28), manipolatore di amici e compagni di scuola (« Tommaso gli appoggiò una mano sulla spalla, per fargli coraggio. In realtà non gliene importava niente » [29]). Cosi Tommaso diciottenne non ha difficoltà a riconoscere nella bella e superficiale Benedetta « un’altra attrice » (42), a conquistarla, con dolore di Marco, e ad in-
traprendere infine una vita comoda e banale di uomo d’affari, movimentata solo dall’affetto che nonostante tutto ancora lo lega all’irrisolto fratello. Marco è invece un sognatore e forse un inetto: lo vediamo nel '68 a scuola, ragazzino colpito dall’annuncio dell’assassinio di Robert Kennedy; nel ’71, a sedici anni,
afflitto dalla delusione sentimentale arrecatagli da Benedetta e da suo fratello, ma comunque sensibile a quello che gli accade intorno: manifestazioni, cortei, assemblee, collegamenti fra
studenti e operai; lo troviamo quindi giovane militante del PCI prima delle elezioni del giugno del 1975, tempo in cui ha la sua prima impacciata storia d'amore con la compagna Cecilia; poi, nel 1979, Marco è depresso, politicamente inattivo e in attesa di un figlio da Cecilia. «[M]i sembra tutto afflosciato. Perfino
tu che prima eri cosi sicuro e deciso. Pieno di tessere » (79), gli dice l’amico Filippo, ex di Lotta Continua, il cui progressivo distacco dal mondo lo porterà ad aspettare inerte gli extraterrestri come unici possibili salvatori, e infine ad un’opaca pazzia.
La seconda parte del romanzo si svolge invece in un arco di tempo molto limitato, la settimana dal 7 al 13 maggio 1984, un ca-
pitolo per giorno, e culmina la domenica con una partita di calcio che sembra quella decisiva fra Fiorentina e Juventus per il campionato di quell’anno. « Glielo avessero detto, anni prima, che non sarebbe rimasto che quello, un pallone rotondo,
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o una ragazzina appuntita dietro il cancello di casa, non ci avrebbe creduto » (99) riflette Marco, che ora si è separato da Cecilia e vive ritirato in campagna, ormai nel ruolo non di chi agisce ma dell’osservatore, sottolineato, mi pare, anche dal suo esse-
re un borsista di storia all'università. Ripiegamento e Weltschmerz certo non mancano, ma vengono distribuiti con ragio-
ne e accortezza: « Marco ha nostalgia di quando il tempo gli si allargava davanti, infinito, e tutto sembrava ancora da scegliere. [...] Anche la sua città [Firenze], rossa di tetti e lontana, gli
sembra che respiri a fatica, pesante d’anni e di idee. Incapace, come lui, di entusiasmi » (99). È proprio per questa propensione all’osservare e al vagheggiamento di una condizione « edenica», pre-memoria e pre-fallimento, che Marco è attratto dalla «ragazzina appuntita », Caterina, la figlia tredicenne dei contadini suoi vicini di casa, e dai coetanei di lei, «che vivono, che fanno la terza media, senza tante domande, senza nessun ricordo » (119). Quando gli viene presentato il calciatore Nocentini (trasparentemente Antognoni), un po’ per iniziare un’amicizia con Caterina, un po’ per vantarsi, le promette che lo farà cono-
scere a suo fratello Michele dopo la grande partita di domenica. Ma Nocentini viene proditoriamente azzoppato da un giocatore avversario, la partita degenera in una rissa, Michele fi-
nisce all'ospedale ed in una serie di vicende Marco riesce a deludere Caterina e a litigare con Tommaso. Conclude la giornata andando a casa di Cecilia, forse per riconciliarsi, ma il proposito si perde nel potere mesmerico del televisore: c'è un film di fantascienza, con gli extraterrestri. Nel caso di Filippo aspettare gli extraterrestri (79) era stato il primo sintomo del suo ritirarsi dal reale, e il romanzo si chiude sinistramente con Marco che «[s]i appoggia alla spalliera del divano, scorda Cecilia
e si arrende agli uomini verdi che lo osservano da dentro il televisore » (168). Come accadrà anche in Per dove parte questo treno allegro (1988) di Sandro Veronesi, anche qui l’epigrafe proviene dalla musica di protesta e potrebbe benissimo essere una frase messa in bocca al protagonista (« Voglio solo mostrarvi un’immagine di quello che succede qui qualche volta. Anche se io stesso non capisco bene che cosa stia succedendo ». Bob Dylan). Generazione è il romanzo di una generazione confusa e perduta, cosi fragile da essere fin dall’inizio assediata dai suoi contrari, una generazione cioè fatta di molti Marco, ma anche di moltissimi
Tommaso, e subito cancellata da quella giovanissima e senza memoria di ragazzini come Michele, la cui passione per il calcio, per un tifo violento, per i piumini ed i giubbotti, ben rap-
presenta una situazione di integrazione conformistica e consu-
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mistica, priva di consapevolezze e semmai appena increspata
da un teppismo banale, comunque previsto e controllato dal sistema. Generazione è un romanzo generazionale di formazione
fallita: la diversa non-formazione di Marco e di Tommaso e dei giovani come Michele (che per la verità sembrano tutti un po’ più vecchi della loro età anagrafica). Comunque non c’è nel romanzo né sentenziosità né abuso di cliché, semmai il sentimento predominante, certe volte fino all’indulgenza confessionale,
è la malinconia soffusa o cinerea, la nostalgia consolatoria per un passato eroico che ha fatto appena in tempo a esistere. Van
Straten riesce a tenere a freno una naturale esuberanza stilistica e sentimentale, che solo a tratti traspare, attraverso un periodare breve, asciutto e incisivo, che contribuisce alla svel-
tezza della trama. Comunque, quella di Generazione non è la scrittura «moderna » visiva e tutta superfici alla De Carlo, ma piuttosto una sorvegliata e aggiornata prosciugazione della bella prosa del romanzo medio. I capitoli sono organizzati, come in molti altri recenti romanzi, in brani di due-tre pagine; questa lacertizzazione della materia narrata mi pare il sintomo di una situazione che non può più essere rappresentata esaustivamente, ma viene piuttosto percepita in modo frammentario ed episodico. Il protagonista di Generazione rimane Marco, anche se la narrazione in terza persona non usa solo lui come fuoco, ma
viene anche filtrata, in molti brani, attraverso il punto di vista
di altri personaggi; certe volte brani contigui ci danno il diverso punto di vista di due testimoni a proposito di uno stesso episodio. Al discorso diretto viene spesso:aggiunto, con una virgolettatura diversa, il pensiero non espresso di chi parla, per dare ai dialoghi un ulteriore livello, ora ironico ora straniante. In generale si può rilevare una maggiore distensione narrativa nella seconda parte, dove il ristretto tempo dell’azione (una settimana) dà maggior adito alla riflessione e ad un periodare meno conciso. Qua e là si notano delle smagliature di stile, luoghi comuni*° o frasi artefatte,5” che non possono sempre essere giustificate dalla prospettiva banale o divergente del personaggiofiltro di turno. Comunque nel complesso la narrazione di van Straten rimane a un buon livello e, a differenza della scrittura.
di movimento, riesce a coniugare storia pubblica e storia privata con sapienza e scioltezza grazie ad una maggiore padronanza espressiva della materia narrata. Generazione ha la capacità di coinvolgere il lettore avvalendosi anche della menzione abile e accurata dell'oggetto o del dettaglio quotidiano minore e dimenticato degli anni sessanta e settanta, che riemerge familiare alla memoria di chi oggi è sopra la trentina: il trasformatore dei primi televisori, il Carosello, TV7, il film del lunedi
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sera (19), il Lie Detector, i Classici dell’audacia e i soldatini Airfix
(70) danno forma all’antiquariato minimale e affettuoso di un altro ieri che sembra eppure lontanissimo. Mi pare anche un esempio di discrezione, un tentativo riuscito di evitare facili celebrazioni alla moda, la scelta di van Straten di dedicare un capitolo, il quarto della prima parte, non al solito '77 ma al 1975: un anno in cui il successo della sinistra guidata dal PCI sembrava certo più solido e cruciale di come si sarebbe presentato con il movimento due anni dopo, e dalla cui erosione sembra più giusto a van Straten trarre spunto per malinconie e meditazioni: « Che cosa ci si fa con una vittoria cosi? » (71), si domanda Marco con uno stupore già venato di fatalismo la sera dei risultati delle elezioni. Sono introdotti in questo capitolo due dei personaggi più riusciti: l'ex militante Filippo e Bruno Reggioli, dimesso e umano funzionario comunista, che muore quattro anni dopo in un incidente stradale, quando la vittoria del giugno del '75 sembrava ormai lontanissima. Generazione è un romanzo onesto e ben fatto, che evita le
acerbità tecniche e sentimentali di Corrias e i cliché compiaciuti di Medici, e sa raccontare senza scosse una storia di am-
pio respiro che, nonostante certi aspetti un po’ schematici (la facile opposizione Marco fratello perdente e idealista-Tommaso fratello vincente e cinico) non scade mai nel sensazionale o nel corrivo. Si sa che il romanzo medio è nato dalla crisi del neorealismo, come commemorazione nostalgica di un breve momento di energia e di ottimismo in cui si era avuta l’impressione di poter fare la storia con volontà e coscienza; la serie di opere di narrativa (e di saggistica) opportunamente pubblicate allo scadere della doppia ricorrenza ’68-'77 sembra proporsi come una forma di «romanzo medio di ritorno », in cui la delusione
storica è di natura altrettanto politica ma la qualità della scrittura più scadente, data la vocazione improvvisata di molti degli scrittori. All’interno di questa memorialistica generazionale mi pare che il romanzo di esordio di van Straten non possa che distinguersi proprio per le sue virtù positivamente « medie » di sobrietà e di misura, nello stile come nella nostalgia. Se il primo ostacolo che si frappone all’esistenza di un nuovo romanzo medio generazionale, soprattutto quando verte su '68 e "77,
è il fatto che i risultati non sono di qualità media, ma piuttosto
bassa, questo ostacolo, almeno per Generazione, non sussiste.
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I narratori generazionali senza memoria: De Carlo, Tani, d’Isa, Valentini, Cappelli, Veronesi, Viviani, Sica, Lodoli e Bre La lingua di Corrias, Palandri e Piersanti, che esordiscono su-
bito dopo la fine del movimento, ha sottotoni riflessivi ma è sostanzialmente un parlato adolescenziale che cerca di riprodurre la freschezza della conversazione, dell'andamento orale di
un discorso complice fatto da chi narra per sé e per un gruppo di amici. Invece lo stile di chi esordisce negli anni ottanta è piuttosto un parlato scaltro e visivo, che per un misto di ritegno e di cinismo si ferma ostinatamente alla superficie dei sentimenti e delle cose, ed evita cosi intemperanze emotive e lingui-
stiche. Almeno nelle intenzioni dei suoi autori è questo uno scrivere molto più stringato e accorto, conciso ed economico,
di
quello di chi solo pochi anni prima viveva con profusa e liberatoria intensità l’amore come la politica. Si consolida cosi quella voce ancora acerba e già disincantata che aveva fatto le sue prime apparizioni con l’esordio di Tondelli e prima ancora e più intermittentemente con gli scrittori del '77, ma che viene precisata fino a divenire modello di una generazione dall’Andrea De Carlo di Treno di panna. De Carlo, Tani, d’Isa, Valenti-
ni, Cappelli, Veronesi, Lodoli e Bre ritornano dal fatto politico sentito come personale a quello totalmente personale; per lo più prediligono scenari internazionali e talvolta ostentano con qualche ingenuità nei loro romanzi situazioni e affinità letterarie cosmopolite, per distanziarsi quanto più possibile dall’ambientazione provinciale e dall’introspezione malinconica tipiche del romanzo medio. Se la voce, e perciò un modo di guardarsi intorno, esiste già, il primo problema che questi narratori incontrano è appunto trovare qualcosa da narrare, riuscire a dar peso ad un racconto che potrebbe essere altrimenti pura e futile registrazione di accadimenti privati e quotidiani. Ecco allora il loro concentrarsi su una revisione di temi « generazionali » di moda da un ventennio, che vengono pubblicizzati e gonfiati dalle diciture di fascetta o di retrocopertina, e possono riguardare le dinamiche famigliari, come il rapporto fra figli e genitori, o quelle interiori, come la ricerca della propria identità. Ricor-. re anche, trasversalmente, da Tondelli a Piersanti, a d’Isa e a Lodoli, l'ansia di fine millennio, in cui irrazionali aspirazioni
ad un’orgia carnevalizia e apocalittica si mescolano a cinerei presentimenti di fatalità e di condanna.
I primi due romanzi di Andrea De Carlo (n. 1952 a Milano), Treno di panna (Torino, Einaudi, 1981) e Uccelli da gabbia e da 248
voliera (Torino, Einaudi, 1982), hanno avuto entrambi accoglienza molto favorevole, rivelato gusti e tendenze di una emergente generazione di lettori e iniziato il fenomeno « giovane narrativa ». De Carlo è stato insieme nuovo nella voce e nell’immagine, un giovane autore che scrive della condizione giovanile in termini del tutto estranei alla mitica autorappresentazione eroico-vittimistica degli anni settanta, e con uno stile personalissimo in cui la lucidità di tempi nuovi sembra opporsi a vecchie confusioni e frustrazioni. Treno di panna è il romanzo di un giovane che approda a Los Angeles, registra con distacco il sogno-incubo della lotta per il successo in cui tutta la metropoli sembra vivere, e ne di-
viene infine vittima, sia pur conservando nelle azioni e nei pensieri da arrivista una efficiente, egocentrica freddezza. Due sono
le interessanti mediazioni letterarie di Treno di panna: The Day of the Locust (1939) di Nathanael West nel suo ritratto della Los Angeles degli studios, grottesca e artificiale e, stilisticamente, i nouveaux romans di Alain Robbe-Grillet, dove lo scrittore re-
gistrava meticolosamente movimenti e oggetti — le fino ad allora trascurate superfici di ogni azione narrativa — con magistrale e quasi ossessiva precisione. Nel romanzo di West il protagonista Tod Hackett vive la
sua condizione di pittore-osservatore con un misto di ironia, pietà, e disgusto per il mondo di cartapesta di Hollywood, per « la gente affamata di sole che era venuta a morire a Los Angeles », e per le avide e frivole attricette come Faye Greener. La carica di violenza contenuta in The Day of the Locust è costantemente tenuta a freno (e quasi la si avverte nel passo lento e opaco della narrazione) per poi venire ad esplodere nella descrizione apocalittica della folla che si accalca di fronte ad un cinema aspettando l’arrivo dei divi a una première. Da questo evento Tod Hackett trarrà spunto per dipingere il quadro che lo renderà famoso, «L'incendio di Los Angeles ».
In Treno di panna l'io narrante Giovanni Maimeri, che è emblematicamente non più pittore ma fotografo, opera una dissezione aggiornata e altrettanto efficace del sogno del successo e della fauna umana della metropoli californiana. Marsha Mellows, la bella e celebre attrice dalla fragile personalità a cui Giovanni si trova fortunosamente a dare lezioni di italiano in una scuola di lingue, è la musa ambigua che lo introduce nel mondo dei ricchi e delle feste notturne in ville con piscina. Nel romanzo di West la folla che tutto schiaccia nel suo delirante fa-
natismo diviene nel quadro di Tod il ritratto di una civiltà delusa e suicida, mentre la folla del party conclusivo nel romanzo 249
di De Carlo, osservata dall’inizio mondano e sfavillante al finale ubriaco e sommesso, non gode di una simile catartica trasfigurazione: il fotografo Maimeri continua a «scattare istantanee » con il suo occhio-obbiettivo ma, a differenza di Tod Hackett, è ormai moralmente coinvolto, complice, uno delle « migliaia di giovani squali ansiosi che girano in circolo per Los Angeles » (174), e al massimo può per scherzo alzare un piede
«come per schiacciare la testa » (209) di un attore addormentato sul prato. In questo senso Treno di panna è romanzo odierno, che vive l'ambiguità del successo, lo denuncia e lo accarez-
za allo stesso tempo; non a caso si chiude con una elusiva descrizione delle luci di Los Angeles vista dalla villa in collina in cui il party ha luogo. Anche i canoni del nouveau roman vengono modificati nell’uso che ne fa De Carlo. Robbe-Grillet si proponeva di mantenere un distacco quasi allucinato fra lettore e testo avvalendosi di un metodo narrativo statico e « voyeuristico »: la minuziosa descrizione visiva delle cose inanimate prendeva quantitativamente il sopravvento sulla descrizione dei personaggi, che erano comunque considerati in superficie, da osservarsi solo in re-
lazione ai loro gesti e ai loro spostamenti. L’estraniamento del lettore è appunto l’effetto primo dell’école du regard e del suo «monologo esteriore », che dagli anni cinquanta ad oggi, come ha ben puntualizzato Barilli, «hanno fatto scuola, divenendo davvero una realtà diffusa e “normale”, cui un giovane narra-
tore dei nostri giorni deve aderire quasi obbligatoriamente ».5 È appunto De Carlo che negli anni ottanta per primo intuisce che lo stile del nouveau roman può esprimere efficacemente un’« alienazione » che è ormai divenuta routine, il disincanto di una nuova generazione di scrittori, la curiosità senza partecipazione e senza stupore di chi assume informazioni su una realtà da usare come uno strumento, in cui sono le possibilità tecniche a prescrivere l'orizzonte pratico-morale, secondo l’imperativo del maggior rendimento. La sua trascrizione fotogra-
fica degli ambienti e le dissezioni delle sensazioni dell’io narrante in termini di correlativi oggettivi sono operazioni di impeccabile chirurgia narrativa; eppure, l’effetto ultimo è il coin-. volgimento del lettore che diviene partecipe della descrizione « più vera del vero » come di un modo naturale di guardarsi intorno. Infatti De Carlo tenta un'operazione meno radicale di quella a suo tempo intrapresa dai nouveaux romanciers: si avvale di un personaggio-io narrante portatore di uno sguardo in
qualche modo straniero e senza pregiudizi con cui l’identificazione è possibile e lo cala in uno schema dinamico, un abbozzo di storia, in ambienti e in situazioni coinvolgenti, parte dell’in-
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tramontabile mito americano (Los Angeles, Hollywood). Perciò quello di De Carlo è uno sguardo distaccato ma non indifferente, si esprime con un registro imparziale e antiretorico ma non per questo impersonale. Soprattutto, questo è un mondo anco-
ra umano, di personaggi e cose, non di movimenti e cose, c'è cioè interazione fra i personaggi, cosi che lo sguardo non diviene mai «cieco » e inerte, mera registrazione di gesti e spostamenti (come, per esempio, in La jalousie e Le voyeur). Si tratta quindi di riadattamento di vecchie tecniche con nuovi risultati. Con Treno di panna De Carlo si dimostra scrittore originale per le sue scelte formali, che esulano dalla tradi-
zione italiana per rifarsi a quella francese (ma anche ad una linea «behavioristica » di matrice anglosassone, che risale fino ad Hemingway e all’hard-boiled),*? come anche per l’ambientazione convincentemente
americana,
senza nessun
impaccio o
provincialismo. La tecnica narrativa, un certo autobiografismo e la voce di Treno di panna vengono ripresi in Uccelli da gabbia e da voliera, dove Fiodor Barna è un Giovanni Maimeri un po’ più giovane e più suscettibile al coinvolgimento sentimentale. Il romanzo si apre a Los Angeles, da cui Fiodor fugge impulsivamente dopo un incidente automobilistico, e continua nell'Italia degli anni di piombo, con Fiodor costretto a entrare di controvoglia a lavorare nella sede milanese della holding di famiglia e presto coinvolto in una relazione con la moglie di un collega, nonché in una storia d'amore con la misteriosa Malaidina, forse col-
legata ad un movimento eversivo. Il protagonista di De Carlo, sempre alle prese con una difficile integrazione nei ruoli e nelle apparenze della vita adulta, si precisa ulteriormente nel giovane Fiodor: ricco rampollo viziato e incapace di decidere che cosa fare di sé, trincerato in un rifiuto schifato del potere e del mondo dei grandi ma non alieno da incursioni predatorie e idiosincratiche nei sentimenti altrui, Fiodor attraversa lunghi pe-
riodi di incertezza apatica che si condensano in decisioni fulminee; più che agire, egli «è agito » da un'accumulazione di statiche insofferenze che esige nuovi scenari, azione, cambiamenti,
fino all'ennesimo esaurimento delle dinamiche della nuova situazione, che dopo lo scatto iniziale sarà vissuta fino alla fine con la solita capricciosa inerzia. Il personaggio, assai poco gradevole nel suo squilibrio adolescenziale che oscilla dall’egoismo altezzoso all'amore ineffabile (e qui la lingua solitamente fredda di De Carlo finisce con l’incrinarsi in rapsodie estaticosentimentali),4° è comunque preciso specchio dei tempi, e come vedremo capostipite di una serie di protagonisti che portano 251
quasi un'aria di famiglia nei romanzi di altri giovani narratori: Cinzia Tani, Elisabetta Valentini, Gaetano Cappelli, Sandro Veronesi. Rispetto a Treno di panna, scarno di prosa e di eventi,
Uccelli da gabbia e da voliera sembra soffrire di un eccesso di azione che la lingua ascetica di De Carlo stenta a smaltire in un periodare « staccato », che soprattutto nelle scene più intense diviene enfatico e acquista sfumature autoparodiche. È la scelta di una trama scaltramente attuale, che vuole conciliare terrorismo e problematiche della società postindustriale con la classica storia d'amore che in fondo si ritorce contro De Carlo,
il cui desiderio di piacere ad un pubblico quanto più vasto possibile mal si adegua ad un registro stilistico fatto per situazioni più statiche ed essenziali. Con il suo secondo romanzo De Carlo è già arrivato ad un bivio, quello fra romanzo d’autore e buon romanzo di consumo, pur caratterizzato da uno stile inconfondibile. Con Macno (Milano, Bompiani, 1984) De Carlo sceglie la seconda strada, indicata anche dal passaggio d’editore, ma nello stesso tempo alza la mira per quanto riguarda la portata ideologica del suo lavoro. L’irresistibile ascesa del dittatore Macno in un paese latinoamericano gaddianamente simile all'Italia è una fiaba tecnologica che vuol essere anche un apologo sulle forme del potere nella società delle comunicazioni di massa; è il tentativo, solo in parte convincente, di De Carlo di dare alla sua scrittura visiva un puntò di osservazione preciso, un « messaggio » chiaro e
morale che la finalizzi e la nobiliti. Tracce del nucleo ideale di Macno le si possono già trovare in un commento di Malaidina in Uccelli da gabbia e da voliera: « Però tu non hai idea di che schifo di situazione c’è in questo paese. [...] E dovresti vedere che razza di gente sono questi del governo, che mostri sono » (168, 169). Macno è un giovane dittatore che è arrivato al potere per avere esposto corruzione e ipocrisia della classe dirigente in una trasmissione televisiva in diretta da lui condotta, in cui intervistava, mettendoli in difficoltà, i vari uomini eccellenti
del paese. Ma il potere liberatorio dello smascheramento è solo un aspetto eccezionale del medium televisivo, essendone inve- . ce la funzione più ovvia quella della creazione del consenso, dell'omologazione sociale del potere. E una volta assunte responsabilità politiche Macno non può sottrarsi ai riti e ai meccanismi delle comunicazioni di massa. Cosi, al terzo anno di dittatura, Macno è personalmente in crisi, stanco del ruolo in
cui si è costretto. Quando Liza e Teddy, due giornalisti provenienti dagli Stati Uniti in cerca di uno scoop, vengono catturati nel parco della sua villa, Macno si invaghisce di Liza e ne fa la
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sua amante e spettatrice privilegiata, l'esempio del suo rapporto col pubblico-popolo; estranea all'ambiente, Liza è per Macno una coscienza-specchio catalizzatrice di riflessioni fino all’au-
tocompianto, un modo di evadere narcisisticamente da se stes-
so. Il mediocre Teddy, pieno di americano buon senso, è invece lo spettatore inattaccabile, al di sotto del livello di presa di fascino di Macno, « salvato » dalla propria mancanza di sensibilità, dalla propria lentezza. La novità di Macno è quella di essere un « dittatore multimediale » che, in una civiltà evoluta in cui le forme di aggres-
sione sono morbide, mascherate, come fosse pubblicità, attraverso media; per il resto lo sdegno del burocratico e ministeriale che lo
sa manipolare la propaganda un’équipe di tecnici dei mass dittatore contro il marciume ha preceduto e lo ha « reso ne-
cessario », se accende un’istintiva simpatia nel lettore-contri-
buente italiano, rimane un po’ troppo generico e facile per superare tale stadio. Anche gli obiettivi di Macno sono abbastanza scontati: il suo regime non è fine a se stesso, ma in vista del bene comune; il potere assoluto è insomma la scorciatoia verso una società razionale. Ma ancora una volta l'utopia fallisce contro gli egoismi reali e la loro ottusità: Macno fa capire più volte, nelle sue conversazioni con Liza, che considera il prole-
tariato troppo « plebe » per raggiungere la maturità politica, dando voce cosi a molte delusioni post-sessantottine sulla massa mangiona e sempliciotta che non si lascia smuovere dalle avanguardie; la sua dovrebbe essere piuttosto la dittatura di un illuminato, che mantiene uno sguardo incorrotto sulle cose del
mondo e perciò sa portare regole nuove nei giochi del potere. Nonostante questo Macno stesso non è del tutto un uomo morale, un puro: egocentrico e infantile, egli desidera riconoscimento e amore per se, e gli ideali sono in secondo piano rispetto alle gratificazioni del suo ego. Ciò che egli persegue politicamente non è che l'espansione dei suoi atteggiamenti personali: una forma di seduzione; come già in Treno di panna e in Uccel-
li da gabbia e da voliera, anche qui il potere non è che uno degli aspetti concreti del successo personale, tema privilegiato di De Carlo. Macno ha i gusti del nuovo pubblico, dei suoi sudditi videodipendenti, per questo li capisce e li manovra bene: il suo successo è dovuto forse più alla novità che all’autenticità dei suoi discorsi. Nel rapido ciclo vampiristico di interesse e noia che prova per gli artisti di cui si circonda, per passare sempre ad assorbire le energie dell’ultimo arrivato nella sua corte, Macno sviluppa il continuo bisogno di evadere in e per mezzo di situazioni e di persone nuove che abbiamo già incontrato con Giovanni Maimeri e Fiodor Barna. Se Macno è un romanzo sull’e253
ra elettronica non lo è tanto per l’inserimento di mille nuovi gadgets nell'’ambientazione, ma perché mette in scena le nuove forme che seduzione, successo e potere hanno in una civiltà segnata sempre più dalla consumazione rapida e imparziale di tutti i messaggi e di tutti i significati, dal pericolo della noia e dell’in-differenza. Macno è un anti-patriarca: partito come pedagogo della sua società non sa reggere il ruolo. Come accadrà anche ai protagonisti dei romanzi di Veronesi, van Straten, Lodoli e Bre, appartiene ad una generazione di « figli », gli pesa il ruolo di padre: la rieducazione di un popolo non è un gioco, non è possibile semplicemente additare la strada per essere seguiti. L'equivalenza fra morale e natura rispetto alla Storia corruttrice appartiene già all’obsoleto bagaglio ideologico delle generazioni ribelli degli anni sessanta e settanta. Macno dittatore ne incarna l’evoluzione spregiudicata e disincantata: al disgusto per la politica e alla delusione per il fallimento di una rivoluzione della vita che istituisca i valori della spontaneità e dell’immediatezza si sostituisce, almeno provvisoriamente, il progetto ludico di utilizzare le tecniche della politica stravolgendole, dirigendole contro i loro vecchi manipolatori. L'autenticità sarebbe allora presente in questa forma sofisticata del gioco e del piacere, ma un gioco «contro » dura solo quanto dura l’avversario, e il gioco di Macno, troppo solitario, troppo sul filo del rasoio, non può che rivolgersi coerentemente contro lui stesso. Come Giovanni e Fiodor, Macno infine trova la situazione
che si è creato troppo stretta e da bravo messia trentatreenne pianifica morte e resurrezione in un’esplosione stile attentato che distrugge l'appartamento in cui soleva trovarsi con l'amante Liza. La sorpresa finale ci fa trovare Liza in fuga all'aeroporto mentre osserva un giovane con occhiali neri che, comprendiamo con lei, è Macno, il quale, sottrattosi alla trappola del potere, ha ritrovato la sua libertà e con essa, come in ogni lieto fine,
anche una fanciulla-premio. Macno insomma finisce col trovare una sua dimensione fra l'apologo e la fiaba in versione tecnologica; il passo rapido e visivo della sua narrazione in terza persona ha qualcosa che ricorda, nel montaggio accattivante e un po’ schematico, l’odierna videoclip. Se Dio e il computer di Vacca, uscito nello stesso
anno, cercava una conciliazione fra la lingua dell’informatica e quella del romanzo, De Carlo, che appartiene ad un’altra generazione, va oltre, mettendo in gioco anche i nuovi ritrovati
elettronici dell'immagine in un italiano antiletterario che ne mima l’azione e gli effetti, e strizza già l'occhio — dal seducente e universale tema del potere al setting metaforico, al nitore
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anglicizzante della frase — alla traduzione americana, puntual-
mente eseguita* e accolta con discreto successo.
Yucatan (Milano, Bompiani, 1986) trova il suo spessore nar-
rativo in quella combinazione di passato atmosferico e di occulte presenze che vedremo più attivamente all'opera per narratori come Manfredi, Duranti, Elkann e Berbotto (cfr. III.3.), e che qui viene usata come espediente per una narrazione che, molto postmodernamente,
vuole essere un gioco sul nulla, un
esercizio di stile fatto di riflessi e suggestioni senza corpo. Yucatan inizia in un aeroporto, uno dei luoghi privilegiati della narrativa di De Carlo; il commento
di apertura del narratore,
l'assistente alla regia Dave, fa subito capire che consapevolezza metanarrativa e una certa ironia — vistosamente assente in
tutte le altre opere — qui non verranno a mancare: È abbastanza tipico aspettare Dru Resnik qui a Heathrow, adesso. Quasi tutti i suoi film iniziano o finiscono in un aeroporto; ho letto da qualche parte che è una specie di simbolo della casualità provviso-
ria della vita, o qualcosa del genere. Forse anche uno degli ingredienti che ogni regista del suo livello usa per rendere subito identificabili le sue cose e dar lavoro a critici e interpretatori semiprofessionali (9).
Dave e Dru volano a Los Angeles per incontrare un produttore californiano
ed un celebrato
scrittore latinoamericano,
Astor Camado, dalle cui opere il regista, segretamente preoccupato di non saper più essere all'altezza di se stesso, conta di adattare un film. Dice Dru di Camado, adombrando senza saperlo la non-sostanza della vicenda in cui presto sarà coinvolto: «[H]a scritto quattro libri, che raccontano la stessa storia da quattro punti di vista diversi. La storia è un giovane musicologo newyorkese di origine sudamericana che va in Messico per delle ricerche, e incontra uno stregone indio che poco alla volta lo risucchia in una spirale di pratiche magiche, fino a portarlo in contatto con un mondo ulteriore, o parallelo se vuoi. [...] È una storia di stati emotivi, di spostamenti, più che di fatti. Ci sono delle descrizioni straordinarie di vuoti,
di paure e attrazioni poco chiare » (12).
Infatti presto il gruppo è invischiato in una rete di messaggi e telefonate misteriose che sollecitano il regista a eseguire istruzioni che lo dovrebbero condurre ad una imprecisata ma sicura realizzazione artistica ed esistenziale; intanto lo scrittore fugge impaurito, ma non prima di essersi liberato degli altri tre mandandoli evasivamente a caccia di atmosfera, ispirazio-
ne mistica e ambientazione nella penisola dello Yucatan, fra ie255
ratiche rovine Maya infestate dal turismo di massa. Il romanzo gira su se stesso in un vortice frenetico di viaggi in Messico,
notti in hotel di lusso e in baracche in capo al mondo, taxi, aeroplani, spese folli, insomma una intensificazione parodica degli ingredienti cosmopoliti tipici di De Carlo, accompagnata dalla consueta abilità nell’esibire le dinamiche della seduzione, del-
l'ambizione e del potere nei rapporti interpersonali più ovvî, attraverso una sensibilità descrittiva che sfiora il virtuosismo. Alla fine, come in molti recenti mysteries letterari, l'enigma rimane senza soluzione: Yucatan si conclude con Dru, Dave, il pro-
duttore e tre ragazze che scoppiano istericamente a ridere fino alle lacrime in un’auto a Los Angeles nel cuore della notte, non sapendo ancora se sono stati o beffati o protagonisti di un’esperienza paranormale veramente unica, ma comunque, per un momento, « leggeri, contenti di essere insieme in questa macchina in questa città a quest'ora » (194). Il felice ritrovato di questa conclusiva risata catartica mi sembra un’applicazione di quella funzione del riso che costituisce uno dei temi conduttori della consapevolezza metanarrativa degli anni ottanta, dall’Aristotele perduto del Nome del-
la rosa alla categoria del carnevale, alla consacrazione della ragion comica. Yucatan è scritto con un controllo ed una grazia che De Carlo non aveva mostrato dai tempi del suo primo fortunato romanzo,
Treno di panna, a cui ritorna in parte anche
per il setting californiano. In Yucatan De Carlo evita scivolate sentimentali in quelle scene d'amore frante e stereotipate che ricorrevano in Uccelli da gabbia e da voliera ed in Macno, e riesce funambolicamente a sostenere un intreccio privo di sostanza e potenzialmente frustrante (uniche smagliature sono le non sempre felici riflessioni in corsivo di Dru Resnik). Un cambiamento interessante è anche quello che opera nell’io narrante: questi non è più, come era in Treno di panna ed in Uccelli da gabbia e da voliera, il protagonista della situazione, ma l’assi-
stente del protagonista; l’estraneità dello sguardo narrante è qui tradotta nella sotterranea impotenza della figura subordinata che osserva il grande regista e lo sviluppo dei misteriosi eventi con un pungente misto di curiosità, ironia, risentimento, invidia, ambizione, goffaggine e, nel complesso, con uno
sguardo nitido ma emotivamente coinvolto; questo sguardo che giudica e che ha un’indubbia componente morale è molto diverso da quello dei più distaccati narratori dei precedenti romanzi. Insomma, Yucatan è una va subalterna di Treno di panna mente col senso del vuoto e con sperare in altre buone sorprese
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felice riscrittura in prospettiche gioca quasi beckettianale aspettative del lettore e fa da parte di De Carlo.
Prima di tanti altri autori, è stato Calvino a trasformare
lo sguardo impassibile ed indifferente, in fondo «cieco», che abbiamo ereditato dal nouveau roman in sguardo che interroga il mondo circostante, la società, la natura e persino i meccanismi narrativi per vederne i significati, per padroneggiarne la complessità. Cosi non meraviglia se Calvino ha promosso e pubblicato presso Einaudi con sua presentazione l’opera prima di un narratore ossessionato dal vedere come De Carlo. In modo meno perspicuo, tale motivo ritorna anche in giovani scrittori molto diversi come Daniele Del Giudice e Cinzia Tani; varrà
quindi la pena di precisarne alcune caratteristiche a partire dall’autore di Treno di panna, che fa dello sguardo la sua voce narrante. Quello dei protagonisti di Treno di panna e di Uccelli da gabbia e da voliera è uno sguardo sempre leggermente alieno, distaccato emotivamente dal mondo che descrive; lascia filtra-
| re eventuali sentimenti come referto oggettivo, riportando il distacco anche su di sé e non permettendo che le emozioni orientino il modo dell’osservazione e il tono della descrizione. È uno sguardo che tocca senza enfasi e in modo imparziale gli elementi della situazione attraverso la tecnica dell’understatement. Trasformare la voce in sguardo implica appunto «trasparenza », assenza di retorica, uno stile «ottico » fatto di prospettive, movimenti, punti di fuga e di contatto che mettono a fuoco la spazialità. Però De Carlo non vuole affatto scomparire dietro una scrittura neutra: lo sguardo è oggettivo nel senso che offre oggetti, ma cerca tagli palesemente originali, sottolinea la propria soggettività. Anche quando la narrazione è in terza persona, come in Macno, non è lo sguardo di un narratore onnisciente: il punto di vista è selettivo, spesso idiosincratico, sensibile a
dettagli particolari. Si è da più parti parlato per De Carlo di scrittura cinematografica: i suoi romanzi sarebbero sceneggiature, mancherebbero di specificità letteraria, costruiti come sono secondo un montaggio di scene e inquadrature direttamente traducibili in movimenti della macchina da presa. Ma all’idiosincrasia a livello visivo ne corrisponde una a livello di linguaggio: le parole vengono spesso da sottocodici precisi, da campi semantici insoliti o usati in modo insolito. Per De Carlo si tratta di decontestualizzazione, un meccanismo metaforico che
esprime bene il « disincanto » della sua voce: sceglie termini precisi che suggeriscono modernità e disinvoltura e li trasferisce in contesti inaspettati; per esempio, parole normalmente usate per qualificare cose vengono usate nella descrizione di persone e delle loro azioni e sensazioni. Nei romanzi di De Carlo c’è inoltre una consistente presenza DST.
di strumenti tecnici dell'immagine e dei loro prodotti: macchine fotografiche, fotografie (Treno di panna) e videocassette (Macno); l'interesse per la rappresentazione della società dei consumi si precisa da Treno di panna a Macno in analisi del rapporto fra manipolazione dell'immagine e potere. Gli strumenti dell’immagine, partiti come detector dei segni di squilibrio e disagio nella società del benessere (le foto di Maimeri a Los Angeles in Treno di panna), si identificano progressivamente con l’ottica del potere (il sapiente uso degli audiovisivi del dittatore Macno). Il vedere ottico-tecnologico di De Carlo acquista cosi ambigue potenzialità di denuncia-mistificazione. Comunque, al di là delle prese di posizione ideali; il valore di De Carlo sinora risiede nell’accuratezza iperrealistica della rappresentazione, nel talento di osservatore obiettivo di una società radicalmente modificata dal nuovo contesto tecnologico.4 Un esordio interessante è quello di Cinzia Tani (n. 1957 a Roma), giornalista e autrice di Sognando California (Venezia, Marsilio, 1987). Il romanzo, che nel titolo riecheggia la canzone « California Dreamin' » dei Mamas and Papas, narra appunto di un'avventura californiana che una ragazza romana sogna e vive vicariamente attraverso i ricordi della madre Marzia, che
vent'anni prima in California aveva passato tre mesi indimenticabili, e della vita in California della ragazza stessa che, ventenne, si reca a sua volta a Los Angeles per tre mesi. Marzia,
donna volubile ed egocentrica da cui la giovane dipende in tutto, a Los Angeles ebbe tre relazioni (Paul, Bob, e Chris) e da una di esse pare sia nata appunto la figlia, che è ora fisicamente la copia di Marzia all’età in cui ella compi il suo viaggio. La ragazza va a vivere a Los Angeles nel motel e nella stanza dove visse la madre, frequenta la stessa scuola di inglese per stranieri, e ritrova facilmente due degli amanti di lei: Paul, vegetariano e metodico, direttore di cast a Hollywood, e Bob, produttore, uomo arrivato, bello e affascinante. La madre aveva avu-
to anche una storia con Chris, uno dei suoi insegnanti alla scuola, e cosi accade alla figlia con Anthony, che finisce per essere lasciato dalla figlia nello stesso modo in cui Marzia lasciò Paul, a cui infatti Anthony assomiglia. La ragazza ha un’altra relazione con Bill, che dovrebbe essere figlio di Steve, un ex ami-
co di Bob; ma scopre poi che Bill è invero figlio di Bob, come forse lo è lei, ed è disturbata dalla possibilità dell’incesto. Steve si suicida e la relazione con Bill, simile a quella che la ma-
dre ebbe con Bob, termina. Nel frattempo la ragazza conosce per caso anche l'insegnante che fu amante della madre, Chris, 258
ora uno scrittore fallito e alcolizzato, con cui Marzia ebbe il rapporto più intenso prima di partire. Chris, parte santone, parte figura paterna (o forse padre), la porta a fare un viaggio nel deserto e la inizia all'amore per le parole e per lo scrivere. Al ritorno, Chris decide di tornare ad insegnare alla scuola dove in-
contrò Marzia, ma la prima mattina, quando vede entrare in classe la ragazza, gli sembra di rivivere quell'esperienza e pronuncia il nome di Marzia. La figlia sente che « non dovev[a] portare troppo avanti il processo di identificazione, o avre[bbe] rischiato di perder[si] dopo esserlsi] ritrovata » (215), cosi lascia precipitosamente la scuola e parte il giorno stesso per l’Italia. Come si sarà facilmente capito, Sognando California è, nella nuda trama, un trucido feuilleton. Eppure Cinzia Tani riesce a trasformare un romanzo che sembra strutturalmente condan-
nato ad un destino d’appendice in un’opera gradevole, sorprendentemente esente da toni melodrammatici. Cerchiamo di capire come questo possa accadere. Nella narrazione in prima persona della figlia di Marzia si notano due componenti apparentemente inconciliabili: da una parte c’è l’immediatezza e la freschezza del diario giovanile o del racconto parlato, dall’altra una concisione nelle descrizioni e un controllo nei confronti delle emozioni e dei sentimenti che è tipico di altri giovani narratori. E una versione di quel tono di « innocenza cinica » che si è cominciato a diffondere con Treno di panna (1981) di Andrea De Carlo, ed è più recentemente arrivato a quell’apatia dello sguardo e opacità del sentire di cui si è parlato per il Bret Easton Ellis di Less than Zero (1985). Non mi sembra un caso che questi tre romanzi siano tutti ambientati a Los Angeles, dove il comportamento « cool » — un giovanile atteggiarsi blasé e scaltrito, parco di parole e di gesti e al contempo rapace e mondano — si attaglia particolarmente all'ambiente alto, ricco e annoiato della capitale del cinema. Con Treno di panna De Carlo ha iniziato in Italia il nuovo mito americano del giovane cinico e imperturbabile alla ricerca del successo, che nei primi anni ottanta è stato confermato, sviluppato e volgarizzato dai cosiddetti yuppies. Ma al di là della componente e dell'impatto più o meno consapevolmente generazionale Treno di panna è un romanzo di ottimo livello, che porta alla ribalta un narratore già
completo (ed è stata questa partenza-arrivo in seguito il maggior problema di De Carlo). Cinzia Tani, invece, come la maggior parte degli esordienti, è una narratrice in fieri e in cerca di modelli, e sembra infatti ispirarsi a De Carlo per costruire la sua protagonista. Quest'ultima, come Giovanni Maimeri in Treno di panna, si dimostra acuta osservatrice degli sfumati segnali e delle sottili prevaricazioni presenti anche nei rappor2599
ti più superficiali, si scopre abile manipolatrice di persone e situazioni, vive apparentemente senza sforzo in una Los Angeles di cui descrive, come Maimeri, il mondo dei party che fini-
scono in piscina, del cinema e dei produttori, nonché quello delle scuole di lingue per stranieri. Mentre Giovanni Maimeri cerca di catturare Los Angeles e il suo mito del successo attraverso l'impossibile seduzione dell'attrice Marsha Mellows, la protagonista di Sognando California cerca di acquistare fiducia in se stessa inseguendo e ripetendo in quella città la vita della madre Marzia e cercando di farsi considerare di per sé dagli ex amanti di lei. Mi pare significativo che la ragazza legga la storia di un’altra elusiva caccia americana quale Moby-Dick durante il suo soggiorno, e che di lei non si sappia mai il nome, perché il suo problema è appunto quello di essere solo «la figlia di Marzia »; soltanto « capire, smascherare » (138) la madre — realizzare la propria Bildung — le darà diritto ad assumere una sua identità. Anche se le due narrazioni ambientate nella stessa città e raccontate da due io narranti italiani giovani e perspicaci finiscono con l'avere molto in comune, ciò che separa e distanzia qualitativamente Tani da De Carlo è il rigore descrittivo che quest’ultimo persegue. Lo scrivere di De Carlo si distingue per la paratassi concisa, per la mancanza di incidentali e parentetiche come di spiegazioni fattuali o di introspezione psicologica, per la scelta del vocabolo tecnico e preciso, per un linguaggio dove contano i volumi delle cose e gli spazi che i movimenti allungano od accorciano — appunto per quel lavorare ostinato in superficie, riluttante a lasciarsi andare al piano inclinato della subordinata come del sentimento, che lo ha reso l’inventore di uno stile. Il periodare di Cinzia Tani invece è meno visivo, più sintattico e interpretativo, e perde cer-
te volte di vigore nella tendenza a esplicitare sentimenti ed emozioni nel trasalimento dell’inciso o nello slittamento della secondaria. Ciò nonostante una certa coincisione stilistica rimane,
ed il tono è comunque abbastanza insolito rispetto alle descrizioni liriche e intimistiche del romanzo medio. Infatti mi pare che Sognando California si collochi fra il romanzo medio e il romanzo oggettivante e visivo alla De Carlo. Sono appunto lo stile asciutto in parte ripreso da De Carlo, un certo naturale
tono di scorrevolezza antiletteraria e sdrammatizzante, e una tendenza alla spiegazione e all’interpretazione psicologica dei propri stati d'animo da parte della narratrice (quest’ultima componente non sempre felice) che esorcizzano in Sognando California il pericolo del romanzo d’appendice melodrammatico, immanente in una trama che si regge su torbide storie di identificazioni morbose, possibili incesti, e viaggi alla ricerca del padre 260
id
ignoto, insieme ad altri più recenti t6poi del romanzo soft-core, come l’uomo ascetico dagli occhi ipnotici che si rivela maestro di vita (Chris). Cosi Sognando California fortunatamente e sorprendentemente riesce a non essere un romanzo d’appendice, anche se corteggia il genere molto da vicino, ma non è neppure quel romanzo nuovo, scaltro e smagato, che vorrebbe essere. È piuttosto un romanzo medio rammodernato, adattato ad un
nuovo contesto di costume più spregiudicato e intraprendente, più affluente ed esteriore, più mobile e turistico, in cui chi narra non ritorna adulto nel microcosmo provinciale in cerca
del proprio passato, ma va a vent'anni in una grande metropoli americana a cercare quello della madre, e solo per liberarsene e crescere. In altre parole la figura materna rimane centrale, ma il problema edipico è qui vissuto in termini pratici e competitivi e non come fonte di lirici turbamenti e di passive ambiguità. Anche il tipico mito provinciale della donna americana libera che viene in Italia in cerca dell'amante latino viene qui compiaciutamente capovolto. Insomma il maggior pregio del libro risiede nel riuscire a giocare con mano leggera su una trama pesante, ma l'innovazione proprio per questo non può che limitarsi a un modesto aggiornamento psicologico e culturale.
Dina d’Isa (n. a Roma) invece nel romanzo d’appendice ci casca a capofitto, trascinata dalla foga ingenua e giovanile di una scrittura sentenziosa e ripetitiva. Sara, la protagonista delle oltre trecento pagine di Oltre il confine della notte (Firenze, Vallecchi, 1986), che in qualche modo ha vinto un « Premio Fregene Opera Prima 1987 », è un’avvenente modella di Roma. Studia filosofia, fa sfilate e cinema, e come i personaggi di De Car-
lo e Tani veste quell’innocente cinismo tipico della sua generazione, ma nel suo caso non parco di gesti e di parole, bensi appesantito da un filosofeggiare moralistico ed esplicativo corredato da innumerevoli cliché. La giovane si stanca del corrotto ambiente romano e decide di partire per l'Oriente « avvolto nel suo velo antico di immutabile saggezza » (18), spinta com’è da «un desiderio acerbo di provare emozioni nuove, rare, di star
bene » (105) e di raggiungere « una nuova dimensione interiore, [che] forse avrebbe aperto qualche percorso della [sua] mente ancora chiuso » (117). Come l’anonima protagonista di Sognando California, Sara fa fare al lettore molto turismo, peraltro più esotico, e si dimostra altrettanto esperta nel gioco malizioso ed esasperante della seduzione, parte di una dichiarazione di in-
dipendenza femminile che vuole rovesciare definitivamente i vecchi valori e con essi gli usuali rapporti di potere. Dopo una 261
sosta a Bangkok, la giovane si ferma a lungo sull’isola di KoSamui, dove si invaghisce del francese Jean e viene anche rapita da una tribù semiselvaggia che festeggia l’evento con un « sabba primitivo » (143). Sara è legata nuda e drogata ai piedi del capo quando, in perfetto clima salgariano, arrivano Jean e l’amico Tony a salvarla. Seguono altri assortiti eventi, di cui la protagonista approfitta per affrontare con stridula sicumera tutti i possibili temi di scottante attualità (aborto, fine imminente del millennio, minaccia incombente dell’olocausto nuclea-
re, gruppi giovanili, droga, fecondazione artificiale, lesbismo) e per avventurarsi
in divagazioni storico-enciclopediche (per
esempio, quella sul Carnevale di Ivrea, 200-202), in cui del resto l’autore di I misteri della giungla nera era maestro; poi ad un certo punto Sara si rende conto che il suo amore con il bel Jean «rotolava come una pietra nell’abisso » (212). Infatti ormai si sentiva « plagiata dal suo erotismo, obbediv[a] alle sue
voglie con un piacere morboso che [le] annebbiava la mente, e comandava i [suoi] movimenti » (219), proprio come succede alla protagonista di Sognando California col santone Chris,'° che però, nobilmente, pare non abusi mai di lei. Mentre il francese
in combutta con Tony e con un miliardario ex cantante rock sta per far sommergere l’isola incontaminata da una colata di cemento, Sara fugge con un vecchio in un monastero tibetano,
dove medita controvoglia e infine apprende «la disciplina zen del tiro con l’arco » (236). Torna quindi nostalgica e rinfrancata all’isola dell'amore con Jean, ma egli è deciso a rimanere in Oriente, mentre lei sente ormai di dover partire: « E io non posso
restare, devo raggiungere altre spiagge, altre storie mi attendono » (318). Dopo un'ultima scena appassionata (« divenni l’artefice di un’estasi che si fece sangue nel mio sangue, mentre ancora una volta inumidito dai vapori di quell’afa orientale, il sole si levava dalle acque dell'oceano » [321]), Sara torna a Roma, da dove, nel capitolo conclusivo, con il tono malinconico e ma-
turo della donna che ha molto vissuto, memora con nostalgia e si occupa maternamente del pasoliniano trovatello di borgata Ninetto. La cosa migliore di Oltre il confine della notte sembrerebbe il titolo, se non fosse orecchiato da Céline. Una volta letto il feuilleton rammodernato di Dina d’Isa, si apprezza ulteriormente la lucidità stilistica di Andrea De Carlo e si rivaluta anche la discreta abilità di Cinzia Tani a far uscire con solo qualche graffio la sua protagonista da avventure che si svolgono in un’altra parte dell'emisfero ma sono in fondo assai simili. Insomma molta « Emmanuelle » alla scoperta di se stessa in Oriente, con un pizzico di Salgari e una estenuante senten262
ziosità pseudofilosofica che rende difficile a chi legge perdonare a Dina d’Isa l’intemperanza accumulatoria della prima prova, e tanto più guardare con fiducia e anticipazione ad una eventuale seconda. Da seguire con curiosità è invece Elisabetta Valentini (n. 1959 a Firenze), autrice di Fotomodella (Milano, Mondadori,
1988), primo dei testi scelti per la collana « Mouse to mouse » da Pier Vittorio Tondelli. Valentini narra la storia trasparentemente autobiografica di crescita e di emancipazione di una ragazza diciassettenne che fugge di casa per stare con l’amante, un maturo
attore, e se ne distacca progressivamente
dive-
nendo con le sue forze fotomodella di successo a Milano, Pari-
gi e New York. Il soggetto — come la trama-base di bel sogno avverato — è senz'altro pericoloso: le possibilità narrative del mondo dell’alta moda sembrano oscillare fra il giallo ammiccante di Sotto il vestito niente (Milano, Longanesi, 1983), pubblicato sotto lo pseudonimo di Marco Parma, e il solito romanzo d’appendice stile La sfilata (Milano, Sonzogno, 1985) di Renzo Barbieri. Elisabetta Valentini trova una terza via grazie alla naturalezza e al timbro di verità che la sua voce possiede, e gra-
zie anche ad uno stile nitido e diretto che, pur con cadute di tono e ingenuità, offre squarci di scrittura fluida e grintosa. Fotomodella è il diario del passaggio dall’adolescenza all’età adulta nella storia di dieci anni di vita frenetica e cosmopolita, il resoconto misurato di una carriera ambita e chiacchierata che simboleggia ai nostri giorni l’intensificazione proibita della giovinezza come
età avventurosa
e vissuta, dorata e effimera —
l'anticamera di una maturità che esige cambiamenti radicali, a cominciare dalla professione. L’uso del «tu» cadenzato e aggressivo del felice inizio e del finale aperto, come nel McInerney di Bright Lights, Big City, ricorda la lezione di Butor (La modification, 1957) e di Fuentes (Aura, 1962); il modo di osservare smagato e conciso di alcune pagine (« Mi sembra sempre attento a fare complimenti in parti uguali, a non scatenare rivalità » [117]) fa pensare a De Carlo, come del resto la storia di
una Bildung che è anche l’inseguimento di un successo basato sulla seduzione. Eppure, oltre a quello che Comolli nel suo bel saggio « Declino della voce narrante » chiama il « rimbombo anonimo [...] del nostro tempo »,% nella voce di Valentini c'è un
qualcosa di più che solo con una seconda prova potrà qualificarsi o come il riflesso di una freschezza irripetibile o come l’intensità acerba di un talento in crescita. 263
Gaetano Cappelli (n. 1955) mostra di aver acquisito una notevole scioltezza di scrittura fin dalla sua opera prima, Floppy disk (Venezia, Marsilio, 1988), una svelta storia di spie ambientata nei nostri anni narrata da una voce giovane e asciutta, mo-
dellata al solito su quella dei protagonisti di De Carlo. Il ragazzo riluttantemente coinvolto come corriere in un pericoloso intrigo di mercanti d’armi e servizi segreti ha l’apatia morale dei Maimeri e dei Barna; con essi condivide un modo di racconta-
re rapido e conciso, tutto azione e superfici, senza però adottare una tecnica dichiaratamente « visiva » (la brevità delle frasi ricorda semmai il Marco Bacci di I/ pattinatore). L'idea di Cappelli è stata quella di dare al romanzo d’azione (con sfumature più o meno gialle) la voce del giovane disincantato, agganciando cosi questo vecchio genere a tematiche generazionali e di formazione oggi molto alla moda. Cose simili avevano già fatto De Carlo in Uccelli da gabbia e da voliera e Tondelli in Rimini, usando suspense e giallo come alcuni dei loro molti ritrovati in romanzi di più vaste ambizioni. Il pregio di Floppy disk viene dal fatto che Cappelli con abile determinazione fa del « giallo giovanile » il centro della sua trama, riuscendo a costruire un onesto prodotto di intrattenimento, efficace e coinvolgente abba-
stanza da farsi perdonare le numerose implausibilità dell’intreccio. La cosa più artificiosa in Floppy disk risulta proprio la presenza, forse considerata necessaria in quanto « modernizzante», del computer e dei suoi dischetti, su cui la bella spia Lisa Welmer scrive in codice ordini e rotte di navi cariche di armi. Il punto di vista dal basso del giovane disorientato e marginale che abbiamo incontrato in tanti degli autori che privilegiano temi generazionali (Tondelli, Busi, Benni, Avalli, Palandri, Piersanti) viene diversificato in Floppy disk dallo stile laconico ma vibrante di sottintesi dell’hard-boiled che Cappelli riproduce, talora con qualche ingenuità, grazie ad una cadenza narrativa pausata e reticente fin quasi all’afasia: In testa avevo confusione e nient'altro. Non risposi nulla. Non avevo nulla da dire. Mi sentivo sempre più una pedina senza destino. Dovetti farle pena. Mi sfiorò con la mano il ginocchio e sospirò: « Sei un ingenuo, un povero piccolo ingenuo ». Poi si alzò e mi fece cenno di seguirla (78).
Riprendendo il codice maschilista del poliziesco alla Chandler, che prevede virili e solide intese fra uomini e profonda
sfiducia nelle donne specie se belle e blasé, l’unica fedeltà che
il protagonista dimostra è quella all'amicizia con Carlo, « padre »-benefattore appartenente alla generazione del terrorismo, 264
il quale, da compratore d’armi per Prima Linea, dopo la crisi ideologica si è messo in proprio con ormai solo l'ambizione di fare quanti più soldi possibile. Della delusione e della svolta cinica ed edonistica di questa generazione di fratelli maggiori il giovane protagonista di Cappelli è accidentale e poco consapevole testimone nel suo ruolo, molto alla De Carlo, di sradicato viaggiatore, sempre in albergo e con la valigia in mano, fino al finale aperto in cabina telefonica che lo lascia alla ricerca di un'altra, provvisoria sistemazione.
Rispetto ad altri esordi più di testa che di cuore, di autori impegnati principalmente a trovare un qualcosa su cui scrivere, quello di Sandro Veronesi (n. 1959 a Firenze), fra l’altro anche giornalista di razza,‘ è una rara sorpresa. Per dove parte questo treno allegro*’ (Roma-Napoli, Theoria, 1988) dimostra un coinvolgimento autentico nei confronti della materia narrata, una maturità già raggiunta e un talento estroso e spigliato.
Un padre più che sessantenne, industriale fallito di recente, va a trovare il figlio di trent'anni, che vive
a Roma abulico
e rancoroso, per chiedergli di andare per lui in Svizzera a prelevare dei soldi a suo tempo esportati illegalmente. Il figlio, che è il narratore della storia, pone come condizione di fare prima un'ultima visita alla casa al mare di Riva Dorata, una delle tan-
te proprietà che il curatore fallimentare ha messo sotto sequestro: « Pensavo che vedendola chiusa con i sigilli [...] avrei potuto superare quei principî morali su cui mio padre aveva fatto del sarcasmo ma che avevo sul serio, e mi rendevano odioso quel
che mi aveva chiesto » (42). Il guardiano della proprietà, una volta grande amico sia del padre che del figlio, impedisce loro di entrare; segue un litigio, il figlio minaccia di abbandonare l’imresa, ma all'ultimo momento sale sullo stesso treno del padre. È il caldissimo agosto del 1986 e i due si fermano.a Viareggio: il padre per andare a trovare al mare il curatore fallimentare dottor Maccioni con cui ha un ambiguo rapporto vittimapersecutore; il figlio per parlare con Rita, l’ex ragazza che non vede da sei anni, ormai donna sposata e madre di un bambino. Dopo una grottesca cena con Maccioni e famiglia, una notte pas-
sata a dormire in spiaggia libera e la visita a Rita il mattino seguente, padre e figlio ripartono in treno per Milano. Il figlio ha ormai notato nel padre, di solito distaccato e tirannico, segni di disponibilità nei suoi confronti e di decadimento fisico; fra l’altro, lo vede perdere improvvisamente un dente, e lo raccoglie furtivamente per conservarlo. A Milano, dopo un’avventura abortita con una ragazzina in cerca di droga, il figlio per265
de un’altra occasione di riconciliarsi con il padre. La mattina dopo parte come convenuto per Lugano, dove contravviene alle istruzioni dategli ritirando i soldi personalmente invece di farli depositare in una banca italiana da un corriere della complice banca svizzera. Il giovane, a cui il padre all’inizio aveva detto, forse per metterlo alla prova, che avrebbe dovuto passare il confine « con dei soldi nelle mutande » (41) rinunciando cosi alla sua passiva e comoda purezza per aiutarlo, affronta per sfida il rischio gratuito di farlo davvero e si assicura alla pelle con del nastro adesivo quasi mezzo miliardo in banconote. Nessuno lo ferma, e al ritorno a Milano non dice al padre di avere i soldi addosso: « Era impressionante [...] come quel buco che aveva tra i denti ne avesse fatto d’un colpo un uomo qualsiasi, nient’affatto temibile, che poteva essere ingannato facilmente » (176). I due partono su un’auto a noleggio e il narratore, con «timidezza volgare e vendicativa » (180), si sorprende a rigettare la complicità e forse l'affetto che il padre gli offre. Questi, esasperato e ancora all’oscuro della verità, scrive una cartoli-
na al curatore con il nome della banca italiana in cui crede verranno versati i soldi. Mentre la macchina corre sull’autostrada, il figlio, nelle sue abituali vesti di « spettatore » (186) della vita, cerca di guardare la scena dal di fuori: Una Giulietta presa a nolo che sfrecciava verso la Svizzera, inghiottita dal grande esodo di ferragosto. Un padre che guidava, dopo aver gettato via un dente e mezzo miliardo. Un figlio [...] accanto a lui, con addosso sia il dente sia il mezzo miliardo. [...] Ed ecco che, di nuovo,
per dare più forza a una scena vera finivo per trasformarla in una finta e pensavo a un film. Di quelli tristi. In bianco e nero (186).
L’epigrafe di Per dove parte questo treno allegro («Io sono il figlio e l'erede di nulla in particolare. » The Smiths) è programmatica: il figlio dal padre non vuole niente, ma lo lasciamo alla fine del romanzo con indosso dente e soldi, simbolica eredità
genetica e concreto patrimonio in contanti dell’indesiderato genitore. Dopo le contestazioni rumorose
e clamorose del ’68 e
del ’77, il protagonista di Per dove parte questo treno allegro appartiene a questa nuova generazione di giovani accidiosi, o
meglio di adolescenti invecchiati, che hanno deciso di optare per l’autoemarginazione e il non-confronto, sia rispetto ai genitori che, in generale, ai coinvolgimenti della vita. Cosi, nel suo totale disimpegno, l'io di Veronesi condivide la passività di quello, ugualmente anonimo, di Diario di un millennio che fugge (1986) di Marco Lodoli, e questi due stati di inerzia, paradossalmente, non sono molto diversi da quella malinconica abulia 266
a cui è infine pervenuto l’ex attivista Marco in Generazione di
Giorgio van Straten. L’ambivalente rapporto nei confronti della generazione dei padri, che schiaccia i figli sotto il peso del suo successo (si ricordi anche L'oro del mondo di Vassalli), trova il suo corrispettivo nel disagio lacerante ma interiorizzato espresso da Cinzia Tani nella sua storia di tacita conflittualità con la madre in Sognando California. In entrambi i casi il protagonista intraprende un viaggio per liberarsi sia del proprio passato che di quello trasmessogli da un genitore e uno dei temi principali è quello dell’innocenza perduta: ambigua Bildung in Sognando California e realizzazione che la propria ostentata purezza è solo paura di agire in Per dove parte questo treno allegro. Nel caso di Veronesi, come era già accaduto in La banda dei sospiri di Celati e in Boccalone di Palandri, c’è da parte del giovane io narrante una precisa mitizzazione filmica del reale (« per dare più forza a una scena vera finivo per trasformarla in una finta e pensavo a un film » [186]), che da una parte è giocosa e sdrammatizzante, dall'altra arricchisce di ulteriori riso-
nanze lo spessore dei personaggi. Cosi il padre assomiglia a Robert Mitchum (« Non lo vedevo da quasi un anno, e trovai che somigliasse più del solito a Robert Mitchum, ma forse era la consapevolezza di vederlo sconfitto a ingigantire la somiglianza » [9]), e l’ambigua aureola di eroe stanco ed invecchiato che
era tipica dell'attore nelle sue interpretazioni filmiche di Philip Marlowe contribuisce a farci visualizzare questa insolita figura paterna. Questo tipo di associazione suggestiva viene com-
piuto anche con il guardiano di Riva Dorata, che è stato ribattezzato Newman (51), e con il padrone della pensione milanese, che somiglia a Peter Ustinov (136), ma può anche essere tratta
da altre sfere della civiltà dell'immagine: il marito dell’ex fidanzata assomiglia a Gheddafi (115), particolarmente impopolare in Italia nell’estate dell’86 (ma, non si sa con quanta attendibilità, il narratore riporta l'osservazione come fatta dal padre); un tassista dal «corpo dritto, senza forma, [che] pareva
ricavato da una massa di gelatina con tre colpi netti di coltello » (107) ricorda un personaggio dei cartoni animati. Il tempo circoscritto dell’azione, dal 2 al 5 agosto 1986, è corredato dal-
le notizie di cronaca di quei giorni lette nei quotidiani dal protagonista; tutto ciò non trivializza la trama, ma anzi gli dà una precisione circostanziata vagamente surreale (come del resto il ritrovato bontempelliano dei titoli di dischi, dépliant, inse-
gne, e cartelloni pubblicitari trascritti a lettere cubitali nelle pagine del libro). Questo è reso possibile dalla misura narrativa di Veronesi, che possiede un sardonico senso dell'umorismo e sa distillare nostalgia ed ironia con smaliziata abilità, senza 267
per questo lavorare propriamente per sottrazione ed understatement come altri suoi coetanei. Veronesi ripropone al lettore,
attraverso i rimuginamenti del narratore, episodi o frasi che si
staccano dalla loro prosaicità iniziale per divenire nel corso del romanzo i segni densi di uno svolgimento doloroso, che comunque non si squilibra mai in melodramma (l'episodio del dobermann impazzito; quello dell’opera lirica sentita per caso in un bar; la frase sulla pendola « Ognuno reca dolore e l’ultimo uccide »; il gioco «Il dormiveglia è il giardino dei sogni »). Cosi anche la notazione sullo scambio di cellule che interviene fra abitazione e pelle del personaggio (16), che è simile a quella formulata in Bright Lights, Big City da Jay McInerney, viene riproposta e rielaborata in più episodi fino a divenire autonoma dal possibile modello iniziale. In altre parole, Veronesi riesce in quell’operazione di assimilazione di spunti diversi (nel suo caso soprattutto extraletterari) che Cavazzoni non sa fare convin-
centemente in // poema dei lunatici. Anche l'episodio poco plausibile del padre ex miliardario che accetta remissivamente di dormire sulla spiaggia libera (98) sembra più credibile progredendo nella narrazione, parte di quella crescente disponibilità che è anche cedimento fisico (l'episodio del dente) e psicologico, bisogno di affetto non apertamente ammesso, e che il figlio continua comunque a travisare e a respingere. Il padre, dietro la cui signorile freddezza si intuisce il germe di una sempre celata ma pervasiva passività che lo ha portato a lasciarsi masochisticamente rovinare (e che è stata ereditata ingigantita dal figlio), mi pare il personaggio più riuscito; ma anche le figure minori come la fidanzata che ha lasciato il pavido narratore (e che, scopriamo quasi casualmente, lui aveva incoraggiato ad abortire), come la stupenda ragazzina ingenua e bruciata della sala giochi, e come il guardiano Newman, sono vive e vere, grazie anche all'abilità con cui Veronesi costruisce i suoi dialoghi. In Per dove parte questo treno allegro manca un qualunque finale catartico; il romanzo si conclude anzi in modo aperto ma
gravido di potenziali tragicomici sviluppi sulla Giulietta in corsa, di nuovo casualmente e minacciosamente in direzione del confine svizzero. Starà al figlio decidere se è venuto il momento di « diventare grandi », fermare il padre dicendogli che indossa fra pelle e abiti il suo mezzo miliardo in mazzette da cento e finalmente iniziare una vera riconciliazione, o tentare, per la seconda volta in un giorno, la fortuna con i doganieri.
._ All'interno di un filone formativo-generazionale più alluso in fascetta di sovraccoperta (« La formazione sentimentale di 268
un quarantenne. L'infinito mosaico della scrittura e della vita ») che convincentemente rappresentato si può situare il Folle avena!
(Pordenone,
Studio Tesi,
1987) di Cesare
Viviani (n.
1947 a Siena), poeta autore di cinque libri di versi alla sua prima prova narrativa. Che con la narrativa Viviani abbia scarsa dimestichezza è facile intuirlo fin dai primi rarefatti e frammentati capitoli, infiorati di giochi in rime, assonanze e bamboleggiamenti fra il palazzeschiano e il nonsense. Poi, con molta fatica, prende forma la figura di Fofi Martini, già firmatario dell’epigrafe,° dalla quale, insieme alla dedica,°° appunto si desume di avere a che fare con un epistolario che, fittizio o meno, vorrebbe, nell'ordine in cui è pubblicato, formare una storia, senza però riuscirci affatto. In una serie di schegge narrative frammiste a lettere della mamma e del babbo, degli amici, del
prete e delle fidanzate, il paziente lettore apprende che quello del quarantenne Fofi è un patetico caso clinico di non-formazione, intellettuale come sentimentale; Fofi è un irrisolto coacervo di mediocrità e narcisismo che in lettere melense e logorroiche parla con proterva voluttà sempre e solo di sé. « Ho sempre parlato tanto di me stesso: e voglio assolutamente continuare a parlare, soprattutto con te » (111), scrive alla malcapitata fidanzata di turno, che cerca di educare in lunghe epistole con una prepotenza dolciastra e ossessiva, anacronisticamente
ir-
ritante, soprattutto se si considera che il giovane Fofi queste
cose le dovrebbe scrivere alle soglie del '68. Fra frammenti ostinatamente alla deriva emerge un rigattierato epistolare piccolo-borghese fatto delle lettere di un babbo pignolo, onesto e affettuoso e dalla scrittura toscanissima, di una mamma esortante e pia, e di fidanzate inspiegabilmente
innumerevoli che sembrano fare il verso a Sibilla Aleramo nell’arte della missiva appassionata. E poi ancora pagine e pagine di Fofi, grondanti di un’autocommiserazione viscida e narcisistica; Fofi addirittura le sue lettere le vuol far pubblicare da
un « Dottore » (109), non si sa se di casa editrice o di casa di cura. Fra le tante ne spicca una morbosissima al professore di liceo: [H]o voluto parlarLe di me, anche se in breve e sommariamente, affinché non Le sembri altrettanto strano ed esagerato [...] il fatto che io Le ho voluto bene, un bene grande, un bene che avrei potuto avere per una fidanzata, se l'avessi avuta, un bene che mi porta a tremare di brividi ogni volta che per strada incontro Lei o un Suo familiare, un bene, forse, assurdo come ogni mio sentimento (131).
Che cos'è allora Folle avena, il tragicomico epistolario di
un mentecatto, un sarcastico aggiornamento delle lettere che 269
i personaggi del Cuore si scambiavano continuamente, un Caro
Michele perverso, una dissacrazione di un mondo piccolo-borghese fatto di pietismi casalinghi e di grafomania leziosa e duro a morire in qualunque secolo e in qualunque decennio? Se cosi fosse, potrebbe essere un'idea interessante; ma se l'intenzione di Viviani è provocatoria, o ferocemente parodica, si guarda bene dal darlo a vedere, nel testo come fuori. Il senso dell’operazione si disperde in un inconcludente pulviscolo di poesie, pensieri, prose e corrispondenze. A giudicare dalle maldestre e ispirate banalità che racconta al compiacente cronista di un settimanale, tutto fa pensare che Viviani si prenda terribilmente sul serio, e consideri un’innovazione la sua malriuscita
tecnica di montaggio « dalla parte degli eventi », che riecheggia slogan epistemologici e psicoanalitici sulla morte del soggetto, ma sembra piuttosto un modo per risparmiarsi la fatica di dare coerenza e necessità narrativa al preteso « romanzo ». Ugualmente serioso l’editore, che offre Folle avena al lettore in una con-
fezione pretenziosissima, dalla fascetta già citata alla copertina in sfumato multicolore, alla sussiegosa introduzione in risvolto che ci dice con un insinuante gioco di litoti che quest'opera «non può non far pensare alla conterraneità dell’autore con Federigo Tozzi ». Se, come si asserisce, è la priorità del corpo
sul pensiero che dovrebbe costituire il nesso con Tozzi, proprio qui l'analogia mostra la corda: non è la fisicità, la concretezza degli eventi che fanno la vita a presentarsi nei frammenti di scrittura di Viviani, ma proprio l’irrinunciabile seppur fallimentare sforzo dei soggetti per essere presenti a se stessi, per spiegarsi, interpretarsi e rappresentarsi agli altri. Ameno che non si voglia capziosamente paragonare la fisicità narrativa di Tozzi con il fisico affollamento di materiali inassimilati e casuali nelle pagine di Viviani, certo superiore alla perspicuità della loro ragione poetica. Desta perplessità, ma più circoscritte, anche il primo te-
sto narrativo in volume di un altro poeta, Gabriella Sica (n. 1950 a Viterbo), autrice di due brevi libri di versi ed ora di Scuola di ballo (Roma, Rotundo, 1988). Il racconto di Sica (ché anche qui di romanzo non mi pare si tratti) registra la conversazione fra due donne, Carlotta matura cinquantenne e Ottavia irrisolta trentenne, le quali, alla presenza della ventenne e candida Livia, in un pomeriggio di primavera si incontrano in un bar
di Trastevere, l’«Isola del sole » (nome dalla risonanza utopica e campanelliana), per parlare d'amore con un trasporto lucido e spietato. Cosi sappiamo del rapporto vampiresco fra la sedu270
cente Carlotta e l’apatico Enrico, del complice triangolo che si instaura fra i due e la vibrante Ottavia, di Ottavia che poi si invaghisce di Eugenio, rapace amico di Enrico, il quale a sua volta seduce l’arrendevole e virginea Livia. Mi pare che il progetto di Sica sia quello di salvare dal consunto quotidiano gli « affanni amorosi » (72) delle sue protagoniste ed elevarli a simbolo di quella raffinata ed estenuante « scuola di ballo » che è la vita grazie ad uno stile appassionato e squisito, che mima la dizione poetica. Il ragionar d'amore di Ottavia e Carlotta è sfida di donne contro la solitudine e il tempo, ricerca di identità femminile e sensuale, educazione della silenziosa Livia, rievocazione
ossessiva nel nitore primaverile di una storia di liaisons dangereuses che, apprendiamo,
è vecchia ormai di dodici anni. L’o-
peretta morale e il dialogo neoplatonico sono i modelli di Scuola di ballo, che di essi però non possiede né l’icastica sobrietà né la serrata tensione argomentativa; l'esperimento, se pure crea
a tratti un'atmosfera, non regge il tempo di lettura delle sue sessanta pagine. È proprio lo stile che tradisce Sica: un’eloquenza che vuole conciliare insieme civil conversare e sacralità poetica ma si smaglia spesso in ovvi manierismi lirici (« gabbiani [...]come bianchi fantastici velieri » [75]), imita la lingua alta del-
le « discussioni filosofiche » (68) ma ne ricava generalmente un effetto artificiosamente retorico (« Vuoi dire che sospetti qualche intenzione recondita nella mia evidente, infantile ossessio-
ne di smascherare, di scoprire quello che, secondo te, per un elementare rispetto della decenza, dovrebbe rimanere nascosto? » [57]), scorre con le sinuose cadenze di una sintassi scan-
dita e ricercata ma stranamente dimentica l’uso del congiuntivo o dei pronomi (« Sebbene pretendi il contrario » [46]; « Ho la spiacevole sensazione, Ottavia, che stai cercando di manovra-
re la situazione segretamente o, per meglio dire, moralmente » [57]; «Ne trae da ciò una energia grande » [70]). Problemi di sti-
le a parte, occorrerebbe una più elaborata struttura intellettuale per dare spessore anche ad un suggestivo discorso dei sentimenti, come si vedrà nei lavori di Elisabetta Rasy (I! finale della battaglia) e di Daniele Del Giudice (Atlante Occidentale). L'esordio narrativo di Marco Lodoli (n. 1956 a Roma), Diario di un millennio che fugge (Roma-Napoli, Theoria, 1986), ricorda nel titolo uno dei primi libri di Vassalli, Il millennio che muore, ma le somiglianze fra i due scrittori si fermano qui, al
comune uso del motivo alla moda del millennio agli sgoccioli come espediente per opere che traggono i loro succhi funerei non tanto dal tema quanto dalle personali inclinazioni dell’au271
tore. Il romanzo si apre in tempi recenti ed è la narrazione in forma di diario intermittente di un io anonimo, inetto e apatico, che si lascia vivere ed è psicologicamente succube dell’amico Fernando, avventuriero vitalista e sciagurato, seduttore di donne e giocatore d'azzardo. Il narratore, che trentenne vive in campagna col padre, sposa Serena, procace proprietaria di
un alberghetto, per scoprire poi che ella è da tempo una delle amanti di Fernando, ma non se ne turba, anzi se ne rallegra, perché ciò gli garantisce le visite, sia pur interessate, dell’amatoodiato amico. Serena intanto invecchia precocemente e muore
soffocata per la mancata assistenza del narratore, complice Fernando; l’azienda agricola va in rovina per i dissennati esperimenti del padre, che infine viene fulminato da un infarto mentre la polizia lo porta in carcere per assegni a vuoto. L'io assiste indifferente allo sfascio e si ritira poi su un’isola francese dell'Atlantico, da dove inizia la sua narrazione; qui accudisce la bella sordomuta Clo, amata da Fernando, che non si concede a nessuno e vuol rimanere vergine per sempre; ospitano lui
e Clo due giovani coniugi, che poi si scopre sono fratello e sorella. Dopo varie vicende Clo fugge, Fernando la cerca invano per diciassette anni e infine, l’ultimo giorno del 1999, arriva zoppicante e invecchiato dall’amico sull’isola, dove questi è rimasto a fare da padre a un’altra sordomuta, anch’ella di nome Clo,
figlia abbandonata della coppia incestuosa e come la prima simbolo di una femminilità impervia ed elusiva, che la minorazione ha reso totalizzante e irresistibile. L'io riprende il suo diario, che aveva interrotto diciassette anni prima, e lo conclude mentre assieme a Fernando e alla nuova Clo aspetta l’ultima mezzanotte del millennio. Come si può intuire, Diario di un millennio che fugge, lungi dall’essere quel romanzo su una contemporanea « generazione senza qualità » che suggerisce la dicitura di retrocopertina, è un’opera su un’inettitudine tutta lette-
raria, molto compiaciuta e primonovecentesca: il fatale disastro della fattoria evoca il naturalismo angoscioso di I! podere di Tozzi; il nichilismo esistenziale e le scelleratezze del frenetico
Fernando echeggiano Louis-Ferdinand Céline sin nell’ambientazione in gran parte francese del romanzo; la stuporosa incapacità di vivere e di agire del figlio fanno pensare a Michele in . Gli indifferenti. Cosi gli avvenimenti atmosferici e drammatici di Diario di un millennio che fugge, benché scritti con grande maestria, sono quasi tutti « già letti », tanto che talvolta l’inten-
sità dello stile applicata al di scollatura straniante fra vedibilità del fatto narrato: denza il ridicolo latente in
272
tépos letterario provoca una sorta voce seducente del narratore e preun corto circuito che mette in evitutta questa estetizzante antologia
maledettistica. Ciò nonostante nel complesso Diario regge per l'alta qualità della scrittura, che si fa perdonare anche certe
escursioni retoriche, fra il mistico e il filosofico, non sempre felici. La voce narrante, per bilanciare l’intensità degli eventi, è calcolatamente mesta e trattenuta, e gioca molto sull’ossimo-
ro, che spesso da figura di parola si espande in figura sintattica, in meditativo e aforistico gioco paradossale. Lo stile intenso ma sommesso ricorda il « calor bianco »5 del Daniele Del Giudice di Lo stadio di Wimbledon, ma se ne distingue per un morboso registro « mortuario », di fatalismo e di dissoluzione. Nel complesso quella di Marco Lodoli è una versione demodé, di raffinata retroguardia, della voce cinica e innocente che ri-
corre nelle opere di molti giovani autori (De Carlo, Tani, Veronesi, Valentini, Tondelli, Corrias). Diario è costruito con la tec-
nica, tipica di questi anni, del capitoletto in forma di frammento di poche pagine, che segue le propensioni errabonde della memoria e quindi movimenta con anticipi e ritardi l'andamento cronologico degli eventi narrati. L'ambientazione dell’isola abitata da gente rude e diffidente e l’episodio della lunga corsa in auto del narratore e di Clo ricordano rispettivamente i materiali di The Blood Oranges (New York, New Directions, 1971; Arazzo d'amore, Torino, Einaudi, 1974) e di Travesty (New York, New Directions, 1976), due romanzi di John Hawkes, uno scrit-
tore americano dalle sofisticate e musicali risorse stilistiche. Come Hawkes, Lodoli ha la capacità di creare, da situazioni con-
sunte o ridondanti, episodi che hanno la precisione linguistica e la condensazione drammatica della poesia, ma è in questa sua opera di esordio vittima della matrice veramente troppo letteraria della storia: un narratore già maturo nei suoi mezzi espressivi che deve ancora trovare ciò che vale la pena di narrare. E indubbiamente assieme a Silvia Bre (n. 1953 a Bergamo) Marco Lodoli mostra di aver trovato il suo materiale narrativo in Snack Bar Budapest (Milano, Bompiani, 1987), stupefacente romanzo a quattro mani di rara tensione e fattura. Rispetto a
Diario di un millennio che fugge la transizione è quella da un maledettismo naturalistico e suggestivo, svolto con grande perizia di scrittura ma inevitabilmente pieno di cliché, al clima
meno pretenzioso e più coesivo del romanzo hard-boiled, in questo caso trasposto in ambiente italiano. Un'operazione simile l'aveva già tentata Tondelli con un discreto successo in Rimini (1985), ma se la storia chandleriana di Marco Bauer funzionava tanto da tenere insieme tutta la trama, Rimini risultava pur sempre indebolito dalle altre storie, soprattutto da quella dall'esito dolciastro e consolatorio di Beatrix e Mario (cfr. 238), per273
deva energia nelle sue polifoniche ramificazioni. Lodoli e Bre non disperdono il loro intreccio, che è compatto e incalzante, e si rifanno ad un hard-boiled meno raffinato e più drammatico di quello di Chandler: quello del James Cain di The Postman Always Rings Twice e di Serenade, in cui la lingua è intensa e originale, sarcastica e impastata di slang, ed i personaggi sbandati si muovono in un’atmosfera fatale, che li obbliga a fare di
nuovo i gesti e gli errori del passato, riproponendo in un quotidiano brutale e disperato le cadenze e i destini della tragedia greca. Il nichilismo intellettualistico e compiaciuto di Diario di un millennio che fugge si trasforma cosi nella storia, molto più umana e coinvolgente, di un degradato fallimento esistenziale condannato a ripetersi. La vicenda di Snack Bar Budapest è lunga un giorno, dal mattino del 21 gennaio 1985 a quello seguente, ed è narrata da un io anonimo, un ex avvocato che in gio-
ventù schiaffeggiò un giudice e che ora tira avanti piazzando flipper e videogiochi per un vecchio gangster iracondo, il Comandante; che questi abbia « fatto la Resistenza su per gli Appennini, con la neve e i compagni che gli crepavano intorno » (22) sta a testimoniare l'emarginazione e l’estremo deterioramento di antichi ideali. L'ex avvocato sa che «a forza di toglier[si]la vita di dosso [s]'er[a] ridotto a poco, che facev[a] rab-
bia » (70); cosi esce dalla sua inerzia e sembra farsi conquistare dalla fiducia che gli dimostra Molecola, il ras emergente di una cittadina di mare. Molecola, che ha solo sedici anni, gli offre
di lavorare per lui facendogli balenare quello stravolgimento di un'utopia andata a male che è il progetto grandioso di tra. sformare la squallida località balneare in un’Atlantic City italiana, «con le scritte fosforescenti nel cielo e la gente con i soldi da sciupare e il titolo europeo di boxe. E i ristoranti sulle navi e il premio letterario con Moravia » (142). Quella sera, al primo lavoro per Molecola, la violenta intimidazione dei gerenti dello Snack Bar Budapest, l’avvocato si accorge di trovarsi di fronte alla stessa coppia per cui si rovinò la carriera con il fatale schiaffo al giudice vent'anni prima, e sbaglia ancora, uccidendo in un raptus Papera, un uomo di Molecola che stava malmenando la donna. Ai perché di Molecola, in un memorabile col-
loquio, l'avvocato non ‘può che rispondere fatalisticamente: . « Forse perché quando una storia comincia poi va avanti, non
si può mollarla li e cominciarne un’altra. Sarebbe bello, ma non si può. Una storia è una storia, secondo me. [...] È la storia mia,
non ci sono cazzi. Mi viene dietro da un sacco d’anni » (169). Al termine di un assedio e di una sparatoria da « Alba tragica » l’avvocato uccide Molecola e corre all'ospedale della cittadina, dove aveva portato ad abortire la sua compagna la mattina prima. 274
Ma Milena è stata uccisa durante la notte per rappresaglia e all'uomo non resta che sottrarre il cadavere e metterlo nel sidecar di una moto rubata per tornare in città assieme all’amico Sapo ferito. Ogni schematico accenno all’intreccio non può rendere giustizia a Snack Bar Budapest, che nel suo passo prima ironico e stanco, poi sempre più allucinato e serrato mima il progressivo coinvolgimento del narratore e sollecita quello del lettore. Il respiro del quasi cinquantenne avvocato cresce in affanno man mano che dopo l'iniziale ritrosia egli è costretto a correre e ad agire in una storia che era cominciata lentamente al mattino con i preparativi per un’innocua « morte di routine », l'aborto, per esplodere poi in una catena di violenza.
Per chi l’ha iniziata, l'avvocato, questa violenza rappresenta la forza paziente e inarrestabile di un destino che ritorna dopo vent'anni: dopo l’impulsivo assassinio di Papera egli è costretto a uccidere il « figlio» Molecola, e con lui il sogno di creare una Atlantic City italiana e di riscattare la sua inerzia e il suo fallimento; muore durante la notte anche Milena, cosi che l’an-
nientamento delle potenziali paternità e maternità emotive, creative o di sangue, risulta infine completo. Il timbro malinconico e franto, gergale e sarcastico della voce narrante evita che Snack Bar Budapest scivoli in esiti involontariamente grotteschi o melodrammatici (nel finale per esempio la tensione narrativa è ormai salita a livelli cosi alti e cogenti da assorbire ciò che c’è di ridicolo nell’aspetto dei tre motociclisti). Una delle cose più riuscite del romanzo è il suo ambiguo e inestricabile miscuglio di violenza e di sogno, di degradazione e di sentimenti che sono tanto più profondi quanto più apparente cinismo la degradazione richiede. La narrazione ha un forte potere visivo ed i personaggi sono molto filmici?” (a tratti Snack Bar Budapest acquisisce una surreale corposità felliniana), ma lo sono naturalmente, con la prepotente invadenza delle creazioni riuscite, che proprio perché vive debordano dalla mera dimensione romanzesca; per esempio, l'avvocato è un Ma-
stroianni od un Mitchum laconico ed invecchiato, per certi aspetti molto simile al padre di Per dove parte questo treno allegro. Come nel romanzo di Veronesi in Snack Bar Budapest non c’è nessuna figura positiva, né tantomeno un finale consolatorio; i coniugi dello snack bar per cui l'avvocato spreca per la seconda volta la sua vita sono queruli e abbietti, pronti a ven-
dere la figlia pur di salvare la loro attività. Scegliendo come narratore uno scalcinato ex professionista radiato dall'albo mi are che Lodoli e Bre « citino » l’unico altro protagonista hardboiled di un qualche spessore nella mediocre giallistica nostrana: Duca Lamberti, il medico espulso dall'ordine per aver pra-
ZI
ticato l'eutanasia, detective dei polizieschi degli anni sessanta di Giorgio Scerbanenco. Il grottesco episodio dell’ingombrante cadavere di Papera che l'avvocato e Sapo per non dare nell'occhio trascinano a braccetto come se fosse un amico ubriaco è un classico del genere nero e, unito all'idea di un destino
che ritorna, richiama la storia di Jojo (« Guarda in basso dove l'ombra si addensa ») in Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino, anche se qui tutto è un po’ meno giocoso. L’epigrafe dal protovangelo di Giacomo," in cui per un attimo il corso delle cose si ferma, sta forse ad indicare la possibilità, che si
offre in ogni vita, della scelta, di fermarsi e ricominciare diversamente — un’occasione esistenziale che l'avvocato perde per se stesso e per Molecola. I sottotoni da apocalisse mancata presenti nell’epigrafe ricordano quell’angoscia carnevalizia, non nuova nei romanzi dei narratori di questi anni, che in Snack
Bar Budapest si riscontra in particolare nella festa notturna organizzata da Molecola, in cui si attende invano un Godot-falso
campione che è l’indegno festeggiato (si ricordi anche l’isteria collettiva nella conclusione di Rimini, quando si aspetta un maremoto-fine del mondo che non arriva). La dedica « Per tutti noi, figli » sollecita un’interpretazione generazionale che, senza essere neanche in questo caso il nodo cruciale del romanzo,
ri-
sulta comunque più appropriata che in Diario di un millennio che fugge. La storia di un impossibile rapporto padre-figlio fra l'ex avvocato labile e sfiduciato e Molecola, adolescente seducente e criminale, è una versione più drammatica dell’incomunicabilità che si ritrova anche in Per dove parte questo treno allegro (1988) di Sandro Veronesi. In Snack Bar Budapest da una parte sta l’ingenuità luciferina di Molecola, la sua fiducia mal
riposta nel debole avvocato, il violento perseguimento del suo sogno di una città fantastica e corrotta; dall'altra il cinismo fragile dell'avvocato, una corruttibilità viziata da incoerenti impulsi altruistici ed autodistruttivi che ne fanno un uomo troppo stanco anche per essere linearmente brutale in vista del proprio vantaggio («Io voglio solo andarmene a casa e riposarmi. Tanto qui ho chiuso, mi sembra » [169]). Molecola, nato il gior. no dell’allunaggio, bambino lunare e infernale che compra una stella per tutti i gangster e le prostitute alle sue dipendenze (« C'è. una società americana che paghi e la stella si chiama come vuoi tu... » [76]), si inserisce con aggressiva originalità fra i giovani protagonisti innocenti e cinici che ricorrono nella narrativa degli anni ottanta. Snack Bar Budapest è un romanzo di alto livello, una delle prove più nuove e più belle di questa giovane generazione di autori; nuovo anche nel fatto di essere stato scritto a quattro
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mani in un mondo letterario piuttosto conservatore come quello italiano che, sotto la specie ancora crociana di un lirismo ispiratore che può essere solo individuale, ha per esempio sempre penalizzato le opere irriverenti e « mondane » di due autori di grande talento come Fruttero e Lucentini. Se da una parte si attende con curiosità un esordio in proprio di Silvia Bre, dall’altra si spera che questa simbiosi narrativa continui a dare altri frutti della stessa qualità. E impossibile trarre conclusioni da quanto detto su questi autori che non siano provvisorie, passibili di modifiche e di ripensamenti ad ogni evoluzione nella produzione di ciascuno di essi. Ad esempio, caso sorprendente e imprevedibile di un riallineamento entro le convenzioni aggiornate del « romanzo ben fatto » è stato quello di Tondelli con Rimini, che ha mostrato con quanta rapidità i nuovi autori sappiano capire dove tira il vento e dismettere tempestivamente una scrittura ribellistica superata da un nuovo clima politico e culturale. La leggibilità è fatto sempre più cruciale in una situazione come quella contemporanea che relega il romanzo in spazi di «tempo libero » molto ristretti; cosi questa narrativa è caratterizzata da un ri-
torno alle convenzioni mimetiche e da uno sperimentalismo solo accennato e non particolarmente esigente nei confronti del lettore (rare eccezioni sono i casi di Lacatena e Barbolini). In questo senso, scrittori come Busi, al di là di un’effimera moda che
li vuole trasgressivi e quindi appetibili, sembrano del tutto inadeguati, venditori di un'immagine ingombrante e di un librooggetto voluminoso più che di un’opera che possa essere effettivamente letta. Cavazzoni con il suo ripetitivo Poema dei lunatici rischia, più immeritatamente, una simile sorte; solo una se-
conda opera più misurata potrà fare giustizia al suo indubbio talento. Fra gli «accumulatori » i casi da cui ci si possono aspettare sviluppi maturi e interessanti sono, oltre a quello del capofila Tondelli, quelli degli scrittori che come lui sono riusciti a proporre testi esuberanti e gradevolmente leggibili, a fare intuire paternità assimilandole e riciclandole abbastanza da potersene appropriare; cosi accade con Alfredo Antonaros e più ancora Stefano Benni, i quali, nel complesso, fanno parte dell’esiguo gruppo da seguire con attenzione. Ben poco invece rimane della scrittura di movimento, programmaticamente antiletteraria negli esordi spontaneistici di Palandri, Piersanti e Corrias, e poi nelle seconde opere incline ad un’elegia rarefatta e scontata, al solito parte di una narrativa media neppure tanto rammodernata a cui può essere ascritto, sia pure con ri-
DINT
sultati molto migliori, anche il primo romanzo di van Straten. I lavori dei narratori generazionali « senza memoria storica» sono qualitativamente molto diversi: si va dal feuilleton di d'Isa all’acerbo esordio autobiografico di Valentini, al thriller in chia-
ve giovanile di Cappelli e al romanzo medio aggiornato in romanzo turistico-formativo di Tani, per arrivare infine agli esiti
di alto livello di Veronesi e del sodalizio Lodoli-Bre. Quelli della Bildung e delle diversità generazionali si rivelano talvolta meri espedienti per chi è molto confuso (d’Isa) o persegue itinerari personali più poetici che propriamente narrativi (Vivia-
ni, Sica). Nella maggior parte dei casi è comunque da segnalare lo sforzo di adeguarsi a quello scrivere oggettivante, che lavora sulle superfici delle cose e dei sentimenti, che è stato l’in-
venzione di De Carlo, giovane padre di tutti i figli di questa diseguale generazione di autori generazionali. In altre parole, è da notare il tentativo di costruirsi uno stile, una maniera dentro cui parlare sentendosi meno vulnerabili. Dietro questa maniera, che vorrebbe essere sarcastica e inattaccabile, rameggia l’hard-boiled raffinato di Chandler o quello più brutale e cupo di Cain, che viene più o meno distanziato a seconda che si ab-
bia a che fare con Pier Vittorio Tondelli, con Gaetano Cappelli, o col duo Lodoli-Bre. Come alla modernizzazione economica e sociale corrisponde una sprovincializzazione del costume e una liberalizzazione delle forme espressive, alla caduta delle grandi tensioni ideali degli anni settanta corrisponde la progressiva deideologizzazione della narrativa italiana di questi ultimi anni e il suo allineamento con le consolidate mitologie letterarie e filmiche d'oltreoceano: temi della lotta individuale per il successo, del potere e della seduzione, di una società-giungla irredimibile, le cui regole si usano semmai a proprio vantaggio, ma non si cambiano. Cosi la maschera del duro e del « cool » da un lato, la maschera dell’accidia e dell’inerzia dall'altro, entrambe fondamentalmente e complementarmente maschere di sentimentalità reticente, sono state scelte in tutte le loro varie
sfumature per prendere le distanze da quel lirismo dei valori e quella poetica dell'impegno che oggi appaiono impudicamente retorici e invecchiati.
NOTE ! Pier Vittorio Tondelli,
« Frammenti dell’autore inattivo », in
/9 Rac-
conti per Rinascita, a cura di Ottavio Cecchi e Mario Spinella (supplemento allegato al n. 50 del 26 dicembre 1987 di Rinascita), pp. 151-155. ? Cfr. Pier Vittorio Tondelli, Rimini (Milano, Bompiani, 1985), pp. 214,
278
222 e 227; in particolare per la ricorrente nozione del «momento giusto » cfr. Rimini, p. 227 e « Frammenti dell'autore inattivo », p. 154. 3 La stessa figura di Velma, anziana miliardaria che abita in una villa nei dintorni di Firenze, sembra trovare qualche corrispondenza con quella di Helga Greene, morta nel 1985, che fu fidanzata ed agente letterario di Chandler, e visse fin dal 1971 in Italia. 4 «Accesi una sigaretta, mi spogliai e presi una doccia cercando di organizzarmi ben bene le idee in testa » (Rimini, Milano, Bompiani,
1985, p.
29); «Quando prendemmo insieme la doccia, un’ora dopo, lo osservai con invidia » (p. 85). S «Musiche» mima, anche per la sua posizione conclusiva, i credits musicali cinematografici, e forse in tal modo vuole alludere ai potenziali filmici del romanzo. 6 Un esempio: « Beatrix sorrise. Lo desiderava. [...] Si sentiva amata
elo amava. Per un attimo una immagine le folgorò il cervello e le diede pace. Era l’immagine di un angelo. Aveva il corpo di Mario e il suo viso e la sua voce » (Rimini, Milano, Bompiani,
1985, p. 238).
? Cfr. Rimini (Milano, Bompiani, 1985), p. 242. 8 «Qui dentro è proprio come nei film. Anche le sbarre » (Rimini, Milano, Bompiani,
1985, p. 121). «Avrei potuto assaltare una banca, invece
di fare quello che ho fatto con quei poveracci, vero?...» (p. 260). ? « “Il fumettone mi va benissimo, più la storia e lo stile sono emotivi, meglio è. Inizierei con un ambiente [...] cioè Rimini, molto chiasso, mol-
te luci, molti café-chantant e marchettari...” Il 2 luglio 1979 Lui ha scritto queste osservazioni su una pagina del Diario. Ha impiegato sei anni per disfarsi di queste ossessioni. Oggi, tutto ciò, non lo interessa più. Quello che invece vorrebbe scrivere è un distillato di “posizioni sentimentali”’: tre personaggi che si amano senza possedersi,
che si appartengono e si “riguardano’”’ vicendevolmente senza appropriarsi l’uno degli altri » (Pier Vittorio Tondelli, Biglietti agli Amici, Bologna, Baskerville, 1986, p. 29). DI
10 In Uccelli da gabbia e da voliera (1982) di Andrea De Carlo, Fiodor Barna nell’ultima pagina si appresta a fuggire con Malaidina in Australia; in Macno (1984), sempre di De Carlo, Lisa (e forse Macno stesso) fugge prendendo un aereo per una destinazione a noi ignota; Marco Bauer alla conclusione di Rimini (1985) lascia il giornale (« Da qualche parte doveva pur attendermi una qualche tranquilla rivista mensile di sport, di giardinaggio o di arte » [289]); Barbino alla fine di Seminario sulla gioventù (1984) abbandona Parigi per Londra. In Oltre il confine della notte (1986) di Dina d’Isa e in Sognando California (1987) di Cinzia Tani le giovani protagoniste alla fine si sottraggono con la fuga ad una storia d'amore divenuta ossessiva. Sandro Medici in chiusura di Via Po (1987) fa saltare giù dal treno il suo personaggio che non vuole rischiare di innamorarsi. 1 Cfr. Renato Barilli, «I giovani narratori — Il buon livello », Alfabeta 81, febbraio 1986, pp. 4-5. 1? Cfr. Angelo Guglielmi, «Nella Delfina Bizantina l'orrore della vita diventa un incanto », Tuttolibri (La Stampa) 542, 28 febbraio 1987, p. 2. 13 A proposito del riciclaggio dei meccanismi del poliziesco nella narrativa degli ultimi anni, si veda Leonardo Lattarulo, La ricerca narrativa
fra logica e misticismo, Roma, Edizioni Carte Segrete, 1982; Stefano Tani,
The Doomed Detective: The Contribution of the Detective Novel to Postmodern American and Italian Fiction; Carbondale e Edwardsville, Southern Illinois University Press, 1984; Antonio Pietropaoli, Ai confini del giallo.
279
Teoria e analisi della narrativa gialla ed esogialla, Napoli, Edizioni Scienti| fiche Italiane, 1986; Roberto Barbolini, Il detective sublime, Roma-Napoli, Theoria, 1988.
14 Qualche esempio di uso originale della metafora, che arricchisce anche la similitudine ed il gioco di parole: « Rosa completa il discorso ventilando con tre battiti di ciglia l’accaldato giovane » (Stefano Benni, Comici spaventati guerrieri, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 74); « Federi fa un commento pesante che Lo Pepe supera di molti chili » (p. 76); « Luci pallide illuminavano nelle vetrine manichini ambosessi, e i branchi di scarpe negli acquari, e le tombe delle banche » (p. 85); « Lucio Lucertola è ubriaco come un savoiardo » (p. 114); « Respira come un turbo » (p. 160); «In un angolo
Olla prende a ditate negli occhi una macchina da scrivere » (p. 176). 15 Cfr. Marino Sinibaldi, «Il ’77 di Balestrini & C. », Linea d'ombra 18, maggio 1987, p. 31. 16 Cfr. Stefano Tani, «La giovane narrativa italiana: 1981-1986», Il Ponte 4-5, luglio-ottobre 1986, pp. 120-148. Quanto si scrive qui su Benni,
Busi e Tondelli è in parte ripreso dall'articolo apparso su Il Ponte. 7 Cfr. L'intervista di Grazia Cherchi a Stefano Benni « Sull'onda del bar», Panorama
1111, 2 agosto 1987, p. 12.
18 Cfr. «La città pensata: la misura degli spazi », «La geografia delle fate », «L’arcipelago dei luoghi immaginari », «I francobolli degli stati d’animo », « L'enciclopedia di un visionario » in Italo Calvino, Collezione di sab‘ bia, Milano, Garzanti, 1984.
19 A questo proposito non convince la voce diversa, più forbita e corretta, che Savini assume quando riferisce le ricostruzioni storiche di Gon-
nella e quando discute con lui, con raffinatezza e competenza, la propria nozione di atlante (Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici, Torino, Bol-
lati Boringhieri, 1987, pp. 144-46) perché questo stile sembra al di sopra delle capacità retoriche del personaggio e comunque estraneo al suo modo di pensare e di esprimersi. 20 Cfr. la postfazione di Italo Calvino a Comiche
1971), p. 151.
(Torino, Einaudi,
21 Giorgio Bàrberi Squarotti, « Un mondo di lunatici affascinanti ma
ripetitivi», Tuttolibri (La Stampa) 590, 30 gennaio 1988, p. 2. 22 Si veda il discorso di Margherita sull’Amore universale come progetto politico (Pino Corrias, Inverno, Roma, Savelli, 1980, pp. 106-109). 23 Un esempio: «Dormi? Si, stai dormendo, ma non voglio guardarti. Gli occhi li ho
incollati alla finestra e la finestra va oltre. Confidandoci il peso del respiro la luna inesistente ci spiava con occhi di sbieco accecati dai vetri coperti di buio » (Inverno, Roma, Savelli,
3
1980, p. 113). 24 « Grazie [...] a quelli che capiranno che questo non è un romanzo e che io non sono uno scrittore, che di stronzi è già pieno il mondo » (Enrico Palandri, Boccalone. Storia vera piena di bugie, Milano, Feltrinelli, 1988, p.9). 1
25 Cfr. p. 22. Non è un caso che Palandri presti la propria casa a Venezia a Gianni Celati, mentre questi scrive nel ’78 Lunario del paradiso, nella cui cornice Enrico Palandri è infatti più volte nominato appunto come lo è Celati in Boccalone. 26 Come Rocco in Porci con le ali (Roma, Savelli, 1976, cfr. p. 97), Enrico si preoccupa che il suo con Anna possa diventare un rapporto abitudinario e piccolo-borghese, dai «baci domestici » (Boccalone, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 104), e si sforza senza molto successo di non essere geloso, di
280
mantenere un rapporto di « coppia aperta » (cfr. anche Porci con le ali, p. 93). 27 «Nina apri gli occhi e in quell’azzurro Marco vide il mare e il cielo, già cosi vicini, sentiva che si diramava verso lei come un fiume al delta,
sapeva che avvicinandosi a quel mare che calmo, negli occhi di Nina, river: berava di fronte a lui con un leggero fluttuare, le parole perdevano senso, restavano nude e sospese intorno a loro come stelle [...]. Immaginava di ca-
dere negli occhi di Nina come quando la notte, spalancando le porte dell’universo, lo chiamava al suo vuoto infinito, alla sua infinita paura. Ma non
aveva paura, e quello spazio infinito non era il vuoto ma Nina, le sue labbra, il suo nome, la sua anima. Nella penombra gli occhi brillavano vicini, i fiati si confondevano, in un abbraccio si toccava il miracolo di esistere » (Enrico Palandri, Le Pietre e il Sale, Milano, Garzanti,
1986, p. 176).
28 Per un recente esempio francese di una simile «immobilità dinamica » cfr. Jean-Philippe Toussaint, La salle de bain, Paris, Editions de Minuit, 1985 (traduzione italiana: La stanza da bagno, Parma, Guanda, 1986).
29 «Farei piangere anche i sassi, ma la mia espressione abituale è questa: sopracciglia alzate e sguardo a punto, bocca curva e tutto fossette fino alle orecchie. Sono cosi timido e cattivo che mi faccio tenerezza » (Claudio Piersanti, Casa di nessuno, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 54). 30 «Si sente male, Sta male, No è morto, Chiamate la Croce Rossa, Chiamate i carabinieri, Solo un capogiro, Mamma mia è morto, È morto, È vivo, Facchino! facchino! (facchino di merda, facchini di merda), Che rot-
tura di palle, che-rottura-di palle-di-pa-pa-pa-parapapalle!, Io sono un formìchino avvocato e sono un bel formichino che va al trenino, che prende Ciuf!
Ciuf! e va da formichina... » (Casa di nessuno, Milano Feltrinelli, 1981, p. 48). 31 «In questa narrazione asciutta ed esemplare, la partecipazione del lettore è conquistata per il tramite di una tensione più raccolta, determinata da una pacata maturazione dell'autore e da una singolare precisione di sguardo. Da un'etica dello sguardo ». Dalla postfazione in quarta di copertina di Goffredo Fofi a Charles, Ancona, il lavoro editoriale, 1986. 32 Si veda a questo proposito il bell'articolo di Domenico Starnone, «Ragazzi senza tempo », L'Indice 7, luglio 1986, p. 10. 33 Per un confronto fra i due romanzi
si veda Domenico
Starnone,
«1999, ritorno da Parigi », L’Indice 7, luglio 1986, p. 10. 34 «[L]a smania letterale di aggredire le mie certezze di aprirmi dei
varchi nella testa di capire perché voglio morire e perché voglio capirlo la fregola delle letture disordinate di questi giorni la poesia la psicanalisi lacan oggi perfino la relatività ed einstein tutto questo mi chiede insistentemente una risposta che non ho una spiegazione mi dibatto dentro di me e si vede anche fuori con gli altri la mia indifferenza e accidia per tutto ciò che è vecchio masticato ormai insopportabile » (Gianni D'Elia, 1977, Ancona e Bologna, il lavoro editoriale, 1986, p. 62). 35 «Questa stanza e questo frigorifero rumoroso che ora stranamente tace, vinto anche lui dalle tenebre e dalla luna che entra dalla finestra
del balcone, l’unica che mi fa compagnia con il suo chiaro dolce pallore. Mi distendo, mi affloscio sul piccolo letto e annuso, come sempre le
lenzuola a fiorellini: rossi e blu si spargono e si rincorrono sul tessuto, scintillano e profumano di fresco e i miei occhi stanchi si chiudono piano » (Umberto Lucarelli, Non vendere i tuoi sogni, mai, Milano, Tranchida, 1987, p. 29). 36 «Sogni leggeri come stelle gli vorticarono nel cervello » (Giorgio
van Straten, Generazione, Milano, Garzanti, 1987, p. 18);
«[Quando furono]
scesi dalla barca, incontrò le sue labbra » (p. 75). 37 «L'umido della pioggia caduta danzava nell’aria come il lenzuolo
281
di un fantasma » (Giorgio van Straten, Generazione, Milano, Garzanti, 1987,
p. 18).
;
38 Renato Barilli, « Una riuscita e mezza », Alfabeta 93, febbraio 1987,
39 Cfr. Renato Barilli,
1987, p. 13.
« Una riuscita e mezza », Alfabeta 93, febbraio
#2,
40 Si vedano per esempio le scene d'amore con l’angelicata Malaidi-
na (Andrea De Carlo, Uccelli da gabbia e da voliera, Torino, Einaudi, 1982,
p. 37, pp. 53-55).
41 Andrea De Carlo, Macno, tradotto da William Weaver, New York e San Diego, Harcourt Brace Jovanovich, 1987.
4 Cfr. la recensione di Lawrence Venuti, «A debut in English for a bright star from Italy », The Philadelphia Inquirer, 19 April 1987, Books/Leisure (section $), p. 6.
43 Qualche esempio: «I capelli che le scendevano sul collo si scostaleggeri sul dorso della mano: cosî da chiuderla in un
vano e mi ricadevano
sandwich di sensazioni sottili, bilanciate tra loro » (Andrea De Carlo, Treno di panna, Torino, Einaudi, 1981, p. 82); «[I] suoni della televisione erano
dappertutto, travolgevano un'idea prima che si potesse sedimentare » (p. 83); «Jill è riapparsa sulla porta con espressione deteriorata » (p. 111). «In una sala [del museo] c’è una coppia di italiani sui trent'anni: lui ha un libretto turistico in mano e legge con voce arricciata una descrizione degli oggetti esposti » (Uccelli da gabbia e da voliera, Torino, Einaudi, 1982, p. 220). « E sulle facce della gente gli stati d'animo vanno già diluendosi [...]. Solo a tratti si può ancora vedere una smagliatura di movimenti » (Macno, Milano, Bompiani,
1984, p. 226).
44 Parte di queste considerazioni su Andrea De Carlo sono state tratte da: Stefano Tani, « Andrea De Carlo, ‘‘narratore americano” », I/ Ponte
10, ottobre 1982, pp. 1071-1074; Stefano Tani, « La giovane narrativa italiana: 1981-1986 », Il Ponte 4-5, luglio-ottobre 1986, pp. 121-148; Stefano Tani,
«La Giovane Narrativa: Emerging Italian Novelists in the Eighties », in Theo D’haen e Hans Bertens (a cura di), Postmodern Fiction in Europe and the
5
Americas, Postmodern Studies 1, Amsterdam, Rodopi, 1988, pp. 161-192. 45 « Avrei fatto qualsiasi cosa mi avesse chiesto, suggerito. Forse era l’effetto dell'alcool, ma la mia volontà si era affievolita e desideravo solo dei comandi da eseguire » (Cinzia Tani, Sognando California, Venezia, Mar-
silio, 1987, p. 205).
4 Cfr. Giampiero Comolli, « Declino della voce narrante », Alfabeta 109, giugno 1988, p. 35, enfasi dell’autore. 47 «Composi il numero. Riattaccai prima che rispondesse. Ero un vigliacco e lei era cosi superba e lontana » (Gaetano Cappelli, Floppy disk, Venezia, Marsilio, 1988, p. 41); « “E tu devi aiutarmi”’, disse fissandomi con quei suoi occhi belli, crudeli » (p. 156). 48 Si veda per esempio il divertito e pungente servizio sulla beffa delle teste false attribuite a Modigliani che fece scalpore nel 1984: Sandro Veronesi, « Modigliani vattelapesca », il manifesto 163, 10/11 luglio 1988,
p. 11. .
4 Il titolo riprende la scritta di un manifesto pubblicitario della Repubblica di Salò, che nel 1944 invitava gli italiani a emigrare in Germania con promesse di lavoro e di ricchezza; naturalmente chi prese il treno fu deportato (vedi Sandro Veronesi, Per dove parte questo treno allegro, RomaNapoli, Theoria, 1988, p. 128). 50 -Cfr. Jay MEICRS, Bright Lights, Big City (New York, Vintage, 10 p. 43; Le mille luci diNew York (Milano, Bompiani, 1986, 1988), pp.
5! Dice l'autore a proposito del titolo che esso «esprime il problema
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dell'educazione sentimentale: la coltivazione e la spontaneità (folle avoine in francese è avena selvatica) » (Folco Portinari, « L’Avena poetica. Il debutto
narrativo di Cesare Viviani», Panorama 1117, 13 settembre 1987, p. 12). 5 «Sono qui a rileggere alcune cose del passato, con l'intenzione di metterne insieme un numero sufficiente per costituire una storia di giuste proporzioni che, poi, spedirò a Ferruccio, il quale penserà a fargliela reca-
pitare per la lettura. Questo lavoro, come Lei sa capire, non è facile. Ritornare su quello che è stato è impresa molto ardua e delicata; ed è una ricerca che, almeno
a me, risulta assai meno fiduciosa del momento diretto dell’ispirazione che, se è un'avventura temibile, contiene pur sempre il fascino della catarsi e della speranza. Vorremmo,
però, essere stati migliori... »
Fofi Martini 53 «A F.M. che mi donò le sue lettere e mi insegnò che tutte s’intrecciano senza autori e destinatari » (Cesare Viviani, Folle avena, Pordenone, Studio Tesi, 1987, p. 9).
54 «Mi dice Cesare Viviani: “Qui c'è la crescita sentimentale di un uomo ma non seguita dal punto di vista unitario, accentratore, ordinato
del soggetto, ma dal punto di vista della molteplicità degli eventi.
C'è in ognuno di noi lo sforzo soggettivo di dare una continuità e una coerenza alla propria vita; ma la vita non si cura molto degli sforzi, è una molteplicità di rotture, di salti, di incoerenze. In questa ottica si pone que-. sto romanzo, dalla parte degli eventi che non hanno un soggetto” » (Folco Portinari, « L'Avena poetica. Il debutto narrativo di Cesare Viviani », Panorama 1117, 13 settembre 1987, p. 12).
S5 Un esempio: « Tutto il vuoto che ho nel cuore e tutto il suo silenzio non ci permettono molto, ma non ci impediscono nulla. Io no, non so amarla, ma la mia miseria ama la sua. La china è infinita, ma se c’è un fondo, li dovremo incontrarci » (Marco Lodoli, Diario di un millennio che fugge, Roma-Napoli, Theoria, 1986, p. 110). 56 Cfr. l'articolo di Antonio Porta, «I giovani narratori: controindica-
zioni » (Alfabeta 81, febbraio 1986, p. 4), nel quale il felice termine viene usato a proposito del secondo romanzo di Del Giudice, Atlante occidentale. 5 Tinto Brass ha infatti ricavato dal romanzo un film dallo stesso titolo (1988). 58 «Ora io, Giuseppe, camminavo e non camminavo. E sollevai gli occhi alla volta del cielo, e vidi che era senza moto, e nell'aria, e la vidi invasa di stupore,
e gli uccelli del cielo non si muovevano...
Ma i volti di tutti erano intenti a guardare in alto. E vidi pecore che erano spinte al pascolo, e le pecore rimanevano immobili;
e il pastore levò la mano per percuoterle, e la sua mano si arrestò in aria. E volsi gli occhi alla corrente del fiume, e vidi dei capretti e i loro musi sfioravano l’acqua, ed essi non bevevano. E d'improvviso tutte le cose furono risospinte nel loro corso. » Dal Protovangelo di Giacomo. La Visione di Giuseppe.
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3.- DALLA RICERCA STORICA AL GOTICO, DALLA FANTASTORIA ALLA FIABA
«Noi, naturalmente, siamo divisi tra il piacere di sentire il
passato estraneo e il piacere di sentirlo familiare; la difficoltà è, per l’intensità, di coglierlo nel momento in cui i piatti della bilancia hanno il giusto equilibrio » (HENRY JAMES, prefazione a The Aspern Papers).
Si è già visto come l’interesse narrativo per la storia sia stato oggetto negli ultimi anni, oltre che di una ripresa di intensità, di un mutamento di gusto che ha messo in rilievo l'aspetto documentario, erudito, della ricerca storica e le sue affinità con
l'inchiesta « gialla ». Cosi in molte di queste opere ci sono suggestioni o precise trame poliziesche, imperniate intorno all’uso indiziario del documento vero o apocrifo, anche se le regole
del giallo vi sono sovvertite più che rispettate, o per le necessità di una meditazione ideologica (e morale) che approda all’insensato disordine della storia o in direzione di letteratissimi divertissements decostruzionisti. In questo capitolo si prenderà
in esame il gruppo dei nuovi narratori che utilizzano sfondi o materiali storici nei loro testi. L'immagine complessiva che ne
risulta è quella di una sempre più consapevole ricerca di intrattenimento, di un impiego smaliziato di strategie narratologiche che passa con sicurezza d’effetto dall’accattivante razionalità della quest gialla e del rigore documentario ai potenziali romanzeschi e neri dell'immaginario storico. Una categoria insolita per la nostra tradizione di romanzo a sfondo storico ma tipica del romance, quella del fantastico magico o visionario, entra a pieno titolo a fianco o in sostituzione del plausibile ad animare il fascino del passato, fino ad esiti decisamente fantasto-
rici.
284
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Marginalità e ricerca storica: Atzeni, Nigro, Ferrari
La nuova ricchezza di informazione storica accessibile, e in par-
ticolare l’attenzione degli attuali orientamenti storiografici per gli aspetti materiali e quotidiani della vita, il contributo epistemologico delle scienze umane, il nuovo ambito della storia delle « mentalità », insomma tutto il grande sviluppo del lavoro di ricerca degli ultimi decenni, giunto ormai alla fase di divulgazione, porta il segno di un punto di vista dal basso che offre nuove prospettive alla narrativa a sfondo storico. I romanzi di Atzeni, Nigro e Ferrari, che, pur nella loro diversità profonda di campo, allestiscono la loro scena in aree periferiche e impervie al passaggio della grande storia, che ambiscono alla rappresentazione di culture subalterne e del complesso gioco di mentalità, culture e poteri, si nutrono di questa lezione antro-
pologica, innestandola in modo naturale su quella ricca corrente della nostra letteratura la quale, da Manzoni a Sciascia, si è oc-
cupata della demistificazione della retorica ufficiale, della ricostruzione della verità dei vinti. La novità di queste narrazioni, in particolare di quella di Atzeni, che snellisce e rarefà le
forme tradizionali del romanzo storico in quelle dell’apologo morale e metafisico, sta nella capacità di rappresentare oggettivamente attingendo ai materiali dell’autorappresentazione; nei casi di Atzeni e Nigro la narrazione parla con la voce di ciò che è narrato, e dunque anche tramite mito, folclore, magia; ma l’o-
biettivo di quest’uso narrativo della storia e del fantastico che essa ospita non è il coinvolgimento emotivo, bensi la comprensione lucida e critica, l’identificazione di modelli di conflitto
sociale e la ricerca delle radici di crisi che hanno un significato ancora attuale. Ferrari tenta invece di conciliare intrattenimento e impegno in una narrazione che significativamente ac-
coglie sia la voce moderna di un narratore onnisciente che quella accorata di una testimone dell’epoca. Apologo del giudice bandito (Palermo, Sellerio, 1986) di Sergio Atzeni (n. 1952 in provincia di Cagliari) è ambientato a Caglié (Cagliari) nell’anno cruciale in cui si suole fare iniziare l'era moderna, il 1492. Ma nell’opera prima di Atzeni non c'è alcun sentore di tempi nuovi; l’isola è immobile nella sua condizione di marginalità e di stagnazione. Infatti la Sardegna è quel lembo del regno spagnolo a cui vengono destinati solo i funzionari incapaci o riottosi; è una terra insanguinata da banditi indipendentisti feroci e inefficaci; è il dominio dell’Inquisizione spa285
gnola, ed è ora anche infestata da un'orda di cavallette, che con
un ridicolo processo la Chiesa dovrebbe condannare e riuscire a fermare. È un'isola la cui immutabilità non ha la patina raffinatamente esotica e barocca della Sicilia, ma quella selvaggia di una primitività che si perpetua come condizione di esclusione e di violenza. Apologo del giudice bandito è in terza persona; il narratore onnisciente non offre nessun punto di vista superiore, morale o moralistico, sulla vicenda narrata, a cui anzi cerca di conferire uno svolgimento quanto più naturale e spontaneo possi-
bile, privo di commenti che guidino il lettore o che si intrudano nella narrazione. Questo causa all’inizio un minimo di difficoltà nel sintonizzarsi con ambiente e accadimenti ma, una volta familiarizzatosi, il lettore è conquistato proprio dall’immediatezza con cui Atzeni evoca il tempo, i luoghi ed il modo di pensare e agire di pastori, popolino, servi, banditi, soldati, ufficiali, clero e nobiltà, fino all’inquisitore e al viceré. L’agire dei personaggi è un muoversi immobile, del tutto motivato dalle classi sociali a cui appartengono, che nella loro interna fluidità sono impermeabili l’una all'altra e garantiscono la perpetuazione di un sistema gerarchico. È un’arcaica gerarchia la cui codificazione si perde nella notte dei tempi, e comprende e accoglie con naturalità ancora pastorale e «omerica » anche gli animali: cosi il contadino Lilliccu parla con l’asino Perdinianu e Terencio Lopez, « maestro dei cani », con Az, il miglior cane della sua muta.
Componente fondamentale della polifonia di una vita che a Caglié ha luogo in gran parte per le strade sono le donne, le quali usano l'eventuale bellezza come la principale merce di scambio e di acquisizione (matrimonio) che la società gli consenta, e che sono in tal senso del tutto indifferenti ad una sessualità senza fini ulteriori (l'episodio di Felipe e Inés, 116-122). Questa vita di strada è realizzata mediante scene felicissime: per esempio quella dell’uomo che salta sulla cesta portata dai quattro monaci per scoprire che dentro vi sono cavallette marce (42-44) e quella del seguente intervento della banda di bambini scalzi (45-46). Realismo polifonico e trasgressività carnevalesca sembrano in entrambi i casi riallacciabili ad una matrice bachtiniana, che si avvale anche di minime ma opportune inserzioni : di dialetto sardo per ricreare una « voce del tempo » attraverso un adeguato impasto linguistico, che include anche termini in spagnolo ed in latino. Apologo del giudice bandito ruota intorno ad un processo contro le cavallette che infestano il Campidano e che è voluto dal viceré don Ximene per far perdere credibilità e potere all'inquisitore che lo dovrà officiare, padre Gabriel Cordano. Da 286
una parte il viceré e l’inquisitore hanno una concezione materiale e strumentale della religione, dall'altra essi stessi soggiacciono a quell’alone di superstizione! di cui è vittima abituale il popolino, per il quale la religione è quella pratica pagana, cerimoniale e mitica che nelle processioni e funzioni solenni lo concilia per un momento col clero e con l’aristocrazia. Cordano, obtorto collo, è costretto a fare il processo, ma si vendica nella delibera conclusiva emessa dal tribunale inquisitorio, in cui ingiunge che si costruisca e si porti in processione una croce gigantesca nella piana del Campidano; impresa a carico del viceré che richiede, oltre alla sua partecipazione fisica, che egli sguarnisca la città per provvedere un imponente servizio d’or-
dine di soldati, e lo rende perciò vulnerabile in un modo che gli sarà infatti fatale. Per quando si tiene la processione, Ximene è comunque già provato da un estenuante confronto con il bandito sardo Itzoccor, che lo batte al gioco dello shah (gli scacchi) e non si piega né alle percosse né alla prigionia in un sotterraneo dove i topi gli si offrono spontaneamente perché egli li possa uccidere e cibarsene. Comunque,
in un mondo di uo-.
mini cinici e rapaci neppure il valoroso pastore-bandito Itzoccor, considerato giudice dalla sua gente, è un personaggio interamente positivo, come
del resto lui stesso sa:
Un giorno sulla strada di Locoe un istrangiu mi fu consegnato nelle mani: lo guardai, non era un guerriero, era un mercante. I suoi occhi erano giusti. Chiese pietà in nome del Signore. Finsi di non comprendere la sua lingua. Lo decapitai.
Non basta. Mi aggirai per il mondo seminando terrore, lupo pronto ad azzannare. Come può essere giudice chi non sa giudicare e governare se stesso mentre agisce? (94-95)
L’Apologo si conclude con Itzoccor e il moro Ali, da poco ‘imprigionato nello stesso sotterraneo, che si preparano a fronteggiarsi in un duello mortale (« Muoveranno assieme, al segnale»[141]), perché almeno uno dei due, mangiando l’altro, possa
avere forze sufficienti per scavare un tunnel e fuggire. Ma non è un finale aperto: sappiamo infatti sin dall’inizio, da una predizione, che Itzoccor soccomberà (cfr. 20). Piuttosto, se da una parte la conclusione mostra l’esistenza di un codice cavalleresco pervasivo ad ogni livello sociale, dall'altro sembra sottoli-
neare che l’ultima strategia del potere è fare in modo che i suoi avversari si annientino fra loro, adombramento di tante con-
| temporanee « guerre dei poveri » ampiamente fomentate e finanziate dall'esterno. Atzeni non specifica se ha tratto spunto da un processo con-
287
tro le cavallette realmente avvenuto nel 1492; comunque la sua
ricostruzione sembra perfettamente plausibile. A differenza di Sciascia, Atzeni non è interessato a una ricerca filologico-documentaria esplicitamente esposta e commentata in prima per-
sona perché egli non accusa la storia, non arma un'inchiesta da cui scaturisce una precisa posizione morale; Atzeni si limita a rappresentare la storia, cercando semmai nell'episodio beffardamente paradossale una situazione che si autocommenti per la coscienza del lettore d’oggi. Cosi se il lettore crede di vedere in personaggi quali l’inquisitore Cordano, il viceré Ximene e il bandito Itzoccor potenziali per sviluppi reminiscenti di Morte dell’Inquisitore, si deve presto ricredere; rimane semmai una suggestione sciasciana che proviene dalla materia e dal tempo storico e lontano della narrazione. Anche se dall’Apologo traspare un certo pessimismo, tale pessimismo è mitigato dalla vivace coralità e dalla forza evocatrice del racconto il quale, per esempio nelle partite a scacchi che Itzoccor gioca con se stesso e con il viceré come nel suo sopravvivere cibandosi di topi, levita in un'atmosfera surreale, fra Borges e Garcia Marquez, reminiscente di una letteratura latinoamericana a cui Atzeni si sente forse legato da un’affinità dovuta ad una comune marginalità ed «insularità ». Ma sono ancora soltanto suggestioni, di cui questo libretto di 140 pagine è comunque ricchissimo; altrettanto felici sono quelle che ci rammentano la magia notturna e teatrale di Lunaria di Vincenzo Consolo: le bizze del viceré Ximene nel suo letto a baldacchino e la fuga di Juanica sotto la luna, che si conclude con il suo approdare alla capanna in cui i due anziani amici Kuaili
e Lilliccu sono morti abbracciati, mentre due animali quasi antropomorfi, la capra di Kuaili e l'asino di Lilliccu, le danno un affettuoso benvenuto. Ma non tanto suggestioni letterarie quanto suggerimenti mitici sembrano ricorrere con particolare in-
tensità in Apclogo del giudice bandito, legato ad un senso del primitivo molto sardo. Non c’è però primitivismo di maniera, dannunziano compiacimento degli istinti o colore locale corrucciato e provinciale, ma svelto «teatro » epico che si avvale della capacità di Atzeni di cogliere ogni personaggio in una sua ma-
schera, atteggiamento o ossessione, e di passare rapidamente. da un episodio all’altro, creando un effetto corale attraverso
la rapida successione delle scene. Raffaele Nigro (n. 1947 a Melfi), già autore di testi teatrali e di saggi storici, ha esordito nella narrativa con I fuochi del Basento (Milano, Camunia, 1987, premio Campiello), ampio ro288
PIT
manzo storico sul meridione dalla parte dei contadini e dei briganti. In una breve prefazione Nigro ricorda che «[i] fatti narrati in questo libro sono (come sempre la Storia) un misto di «cronaca e di immaginazione ». Nel suo caso la cronaca proviene da lavoro d'archivio meticoloso, alla maniera della scuola
delle Annales, e l'immaginazione è quella fervida e partecipe di chi conosce il sud e lo sa raccontare con la forza evocatrice e la misura del vero scrittore, senza cioè mai scadere nel boz-
zetto e nel colore locale. I fuochi del Basento narra le vicende di tre generazioni della famiglia Nigro, contadini nel latifondo dei Doria in Basilicata, dal 1784 al 1861; sono anni di transizione, caratterizzati da con-
tinue rivoluzioni immancabilmente soffocate nel sangue, tanto che infine se ne può ricostruire un modello, come fa padre
Raffaele Arcangelo con il nipote Vitodonato: « Ci sarà l'insurrezione, poi un governo provvisorio, il re scapperà a Palermo, poi l'intervento di un paese straniero lo rimetterà sul
trono. Per quelli come te, esecuzioni sommarie. Una storia che si ripete da centocinquant’anni. Ogni generazione tenta l'esperimento e rientra nel solco con un carico di morti e pentimenti » (213).
Il tentativo fallito è sempre quello di fondare una utopistica repubblica governata da «[s]crivani e contadini » (168), che è appunto voluta da pochi proprietari illuminati seguaci di Rousseau e da masse di braccianti analfabeti e superstiziosi, i quali vengono spesso facilmente strumentalizzati e riportati dalla parte del re e della religione (come nell'episodio dei sanfedisti del cardinale Ruffo).' Fra i rivoluzionari e i conservatori stanno i briganti, che operano indipendentemente o si alleano opportunisticamente ora con un lato ora con l’altro, riflettendo umori, incertezze e tornaconti di un lungo periodo di anarchia (si ricordi Taccone che si proclama re di Calabria e Basilicata). Come dice Camon, «Il bandito meridionale è figlio ma anche produttore di crisi, nemico ma anche portatore di ordine: perché ha bisogno del vuoto di autorità ma vuol creare autorità. Perciò è continuamente tentato di passare da una parte e dall'altra, dalla spada alla croce, dal re al popolo ».4 Fra i briganti di / fuochi del Basento una figura di spicco per generosità ed idealismo è quella di Francesco Nigro. Questi all’inizio del romanzo è un contadino mite e analfabeta, che ha grandi doti naturali di poeta e di improvvisatore di rime, ma poi si dà alla macchia per aver reagito con dei compagni alla crudeltà di un soprastante; Francesco combatte per l'emancipazione dei contadini, è capobanda di polso, colleziona libri che non sa leg289
gere, è amico di intellettuali liberali
e muore nella vana difesa
della Repubblica partenopea nel 1799. Nonostante questo, come Atzeni con il suo Itzoccor, Raffaele Nigro resiste alla tentazio-
ne di fare di Francesco un romantico eroe senza macchia: mostra anzi come anch'egli fosse in parte vittima di una logica rivoluzionaria che finisce sempre coll’essere feroce (cfr. 63); anche dei contadini vengono imparzialmente descritti fanatismo e ignoranza, tanto che lo stesso Francesco Nigro progressiva-
mente disilluso infine afferma che « questi contadini amano la schiavitù » (168). Chi non sembra farsi illusioni né sul re né sui contadini è Carlantonio, figlio di Francesco, uomo del suo tem-
po che prospera nel caos e ne approfitta per ridefinire continuamente la sua posizione: prima arruolato nelle truppe san. fediste, torna a casa in licenza come soldato del regio esercito
e si fa poi bandito per vendicare l’onore della sorella; finisce col combattere contro i francesi di Murat con il brigante Taccone; quando questi lo vuol morto, ripara in Sicilia su una nave di Nelson, diviene un eroe della causa borbonica e rientra di
nuovo nella legalità con il ritorno al trono di Ferdinando, che per ricompensa lo fa generale (168). Raffaele Arcangelo, fratello di Carlantonio, ha il carisma del padre e ne è la versione re-
ligiosa: prende i voti come carmelitano, sanguina dalle mani, dai piedi e dal costato, e possiede miracolosi poteri taumaturgici; nel 1830 fonda una casa per i poveri e gli ammalati grazie al lascito di don Tommaso Bindi, un possidente che aveva abbracciato la causa dei contadini; si prodiga durante due epidemie di colera e muore all’inizio del 1861, vittima di un conflitto
a fuoco fra briganti e piemontesi che ha luogo presso il suo ospizio. La saga dei Nigro continua con il figlio di Carlantonio, Vitodonato, che grazie alle fortune del padre è stato avviato agli studi e promosso
socialmente: non più contadino, ma giovane
: intellettuale, apprendista notaio, « cacacarte »; Vitodonato, come
il nonno, è di idee rivoluzionarie e nel 1860 fugge sulla Sila, dove conosce il nobile brigante Musodigallo e un deludente Garibaldi, «generale piemontese » (225) troppo incline ad accettare gli inviti a pranzo dei signori locali per poter mantenere le aspet-
tative dei diseredati. Infatti niente cambia dopo il 1861: per anni continua quel fenomeno chiamato ufficialmente brigantaggio che è in realtà il proseguimento della rivoluzione contro uno stato unitario oppressivo quanto quello borbonico, fino alla scelta da parte dei contadini dell'esodo di massa per le Americhe (cfr. 241) nell'ultimo quarto del secolo. I fuochi del Basento si conclude appunto con una nota storica, il cui ultimo impassibile paragrafo possiede la feroce ironia che meritano le riforme fatte solo quando non hanno più senso: 290
Nel nostro secolo, all’inizio degli Anni Cinquanta, la Riforma fondiaria esaudi in parte le antiche richieste dei braccianti e divise in quote il patrimonio demaniale e latifondiero. Gli assegnatari vendettero le quote e fuggirono verso le città del Nord (242).
Elsa Morante fece seguire il titolo di La Storia da un sottotitolo ormai famoso (« Uno scandalo che dura da diecimila anni ») che Nigro sembra implicitamente riprendere e focalizzare sulla condizione del meridione. Più specificamente Nigro può essere riallacciato ad uno scrittore come Francesco Jovine per una comune matrice verghiana e per il tentativo di rac-
contare il fallimento del movimento agrario nel Sud. Rispetto a Jovine, Nigro colora e muove il suo romanzo attraverso un visionarismo febbrile che fa si che i morti compaiano ai vivi e li guidino provvidenzialmente nei momenti più difficili, che sogni e antiche premonizioni parte della cultura contadina si rivelino esatti nel corso delle vicende, che Raffaele Arcangelo possa mettere in fuga il brigante Palomino mostrandogli le stimmate e in seguito ammansirlo come San Girolamo col leggendario leone. Il romanzo, che parte come storia violenta di rivoluzioni fallite e brigantaggio, nell’ultima parte incentrata su Raffaele Arcangelo acquisisce quasi le movenze del racconto edificante. In generale, se da un lato la sveltezza e l’imprevedibile varietà narrativa di / fuochi del Basento attraggono il lettore, dall’altro esso risente nel complesso di ritmi fin troppo accelerati e di un sovraffollamento di eventi e personaggi che risultano talora disorientanti.? Forse Nigro si fa prendere la mano dal desiderio di testimoniare una storia (o piuttosto una non-storia)
dalla parte degli sconfitti e dall’ansia di ricordare la ricchezza di una civiltà agraria scomparsa, che rischia di essere dimenticata. È però questa profusa e circostanziata accuratezza nella rievocazione di usi e costumi del Sud che limita ad una generica suggestione il paragone con Cien afios de soledad, già ricor-
dato per il bel Piazza d’Italia di Tabucchi e per il variopinto Mahò di Antonaros. Tabucchi controlla l'influenza di Garcia Marquez passandola al setaccio di una secchezza stilistica molto toscana, mentre Antonaros come Nigro tenta la carta dell’accumulazione e per l’imprecisione esotica e simbolica della sua Mabhò è forse dei tre quello che con lo scrittore colombiano ha il debito più evidente. Evitando tentazioni neorealistiche, Nigro suggerisce nella costruzione del parlato dei suoi personaggi una cadenza dialettale senza peraltro ricorrere al dialetto. Come Atzeni, offre una visione spassionata e imparziale della storia attraverso una narrazione onnisciente che non fa ricorso a nessun moralistico com291
mento autoriale, mentre la presenza di un ricco ed autoctono sostrato magico e visionario dà al suo racconto risonanze mitiche e simboliche. A metà strada fra l'impegno di Nigro e le seduzioni del romanzo
d’avventure si colloca Tirreno (Roma, Editori Riuniti,
1988), opera prima di Marco Ferrari (n. 1952 a La Spezia), che cerca di conciliare la denuncia di una storia fatta sempre contro e nonostante la volontà degli inermi con l’espediente antico, ma portato a nuovi fasti da Eco, del manoscritto ritrovato, promessa di intrattenimento «in costume » che qui si concretizza in una narrazione ariosa e ricca di avvenimenti. Il fittizio manoscritto ritrovato dall’autore, che si ripresenta
con predestinante tenacia in sparse circostanze della sua vita fino a condurlo alla scrittura del romanzo (cfr. 5-11), è il diario di Agostina Cuneo, isolana di Capraia, che in esso registra dal 1767 al 1815 gli stravolgimenti di un’epoca che comprende la cacciata dei genovesi dalla Corsica, un’effimera repubblica còrso-capraiese (che è per chi legge una sconosciuta curiosità storica), il passaggio della Corsica alla Francia, la rivoluzione francese, l’ascesa di Napoleone, i cento giorni, Waterloo, il con-
gresso di Vienna, e l’inizio della restaurazione. Quest'ultima col suo minuzioso riassetto toccava anche i luoghi più sperduti come l’isola di Capraia, ambita dai Savoia ma appetibile testa di ponte nel Mediterraneo anche per gli inglesi che infatti, narra Ferrari, ci mandano nel luglio del 1815 una nave da guerra, col cui arrivo si apre Tirreno. Il romanzo contiene in ogni capitolo sia il racconto di un narratore onnisciente, che si serve del
conte di Capraia Giuseppe Calvi, di napoleonica investitura, come personaggio principale ed emblematico, sia le pagine in corsivo del diario di Agostina, madre di Giuseppe, le quali a poco a poco dal 1767 raggiungono e superano quel luglio 1815 in cui inizia il dramma del conte di Capraia e degli isolani, presi in mezzo fra gli antichi ideali rivoluzionari, a cui ancora nostalgicamente associano la figura dell’imperatore sconfitto in giugno a Waterloo, e un già prosaico presente di compromessi e spartizioni. Anche se talvolta Calvi mostra una coscienza fin troppo moderna, un'identità fin troppo dichiaratamente «frantumata » (cfr. 112) per un uomo di un’epoca pur travagliata e incerta, una delle cose migliori del romanzo rimane il suo punto di vista « insulare », ora amaramente gattopardesco, ora quasi malavogliano nel suo volersi rinchiudere nella cerchia degli affetti e di quella famiglia estesa che è per lui la gente dell’isola, ora dispera292
tamente e idealisticamente donchisciottesco, tanto da culminare nell’omicidio di Gunn, comandante della nave inglese, subito seguito dal proprio suicidio. Questa prospettiva, comune fra gli isolani, che fa della piccola Capraia il centro del mondo (cfr. 113-114), ben si accorda con quell’interesse per la storia minimale e quotidiana che abbiamo più volte notato e ci offre scorci insoliti di un Napoleone Bonaparte « piccolo figlio di Carlo e Letizia » (98), ricordato con affettuosa familiarità dai vicini di casa (Agostina e il marito còrso vissero a lungo ad Ajaccio) come dai seguaci capraiesi (cfr. il racconto di Marcello, 116). Prende forma cosi una storia vista e vissuta dai margini, con sofferta impotenza, come eterno ritorno di oppressione. Dice Isabella, la bella figlia di Giuseppe Calvi, ad un giovane ufficiale della nave inglese, Anthony Afford: « prima i genovesi, poi i francesi, gli inglesi, ancora i francesi, ora di nuovo voi. E dopo, magari, arriverà qualcun altro. Un re, una rivoluzione, un im-
pero, di nuovo un re: e poi? E all’umiliazione della gente comune nessuno ha mai pensato » (132). Pur nelle concessioni al romanzo d’amore e d’avventura (l’amore osteggiato e abortito fra_Isabella e Anthony, il duello fra Calvi e Gunn, un attacco corsaro a un veliero nei pressi di Capraia, la rievocazione della fuga di Napoleone dall’Elba), il motivo centrale della storia di Ferrari risiede in questa visione smitizzante e dal basso della storia ufficiale, ben espressa nella descrizione dello scontro fina-
le fra le truppe di occupazione piemontesi e gli isolani, che smentisce il modello salgariano indicato da Garboli (cfr. risvolto) nella manifesta pietà per morti e feriti che sono vicini di casa, nella consapevolezza dell’inutilità dell’eroismo. Una «storia vera » che in fondo segue quel filo che dalla verghiana « Libertà » arriva alle narrazioni storico-documentarie di Sciascia e al raffinatissimo Sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo, e che infatti termina con la consapevolezza della mistificazione a cui è destinata dalla retorica già unitaristica dell’egemone stato sabaudo. Dice un ufficiale piemontese alla fine di Tirreno: « Ma su una cosa dobbiamo trovare un accordo: qui a Capraia non c’è mai stata alcuna occupazione militare, non-c’è mai stata una
vera battaglia ma solo un piccolo scontro armato tra una fazione di còrsi e pirati e l’esercito regolare del regno. Sarà cosî per sempre, anche per i libri di storia » (194-195). È questa una situazione di occultamento della verità ribadita dall'autore, sia
pure con motivazioni assai diverse, anche nella pacata conclusione del diario di Agostina,” che soprattutto nell’ultima parte, quella della vecchiaia, acquisisce una voce ricca e convincente. Tirreno vuole offrire punti di contatto con il nostro presente 293
proprio nel senso di disorientamento e di sconforto espresso da Giuseppe Calvi e dai bonapartisti capraiesi, quel « vuoto di aspirazioni » (132) che caratterizza la fine di un’epoca prima che ne nasca un’altra. Si può notare in questo motivo un puntuale
ritorno dell’elegia tipica del romanzo medio in un’opera in cui il microcosmo assediato da tristi tempi nuovi che promettono involuzione e soffocamento di giovanili ideali è emblematicamente una piccola isola. Qua e là affiorano incongruenze nei personaggi, che parlano il più delle volte un italiano troppo moderno, e nella scrittura di Ferrari, che forse per una personale autocensura si smaglia proprio nelle scene che vogliono mimare le movenze del romanzo d’amore e d’avventura; ma dell’autore bisogna giustamente mettere in rilievo anche l’accurata conoscenza della topografia isolana, la minuziosa ricerca storiografica su Capraia e sul suo ruolo nel periodo elbano di Napoleone, ed un amore informato per l’isola e per la natura mediterranea che traspare anche dal competente uso di parole che non hanno sinonimi per descriverne flora e fauna, per restituircene il fascino natu-
rale in un tempo che, se era sconfortante da un punto di vista storico-politico, ecologicamente era ancora l’età dell’oro. Cosi,
oltre ad annettere Capraia alle mappe letterarie (cfr. risvolto di Garboli), Ferrari è il primo o uno dei primi scrittori che conferisce ad un alto Tirreno ottocentesco i tocchi, struggenti per l'odierno « lettore inquinato », di un esotismo da civiltà arcaica e scomparsa.
I narratori neogotici: Manfredi, Elkann, Duranti, Pisani
Vacca, Berbotto,
Come si è accennato, Eco con Il nome della rosa ha catalizzato
un ritorno al romanzo storico e, in modo più indiretto, al genere gotico. Ne è stata prova la fioritura di quello che Giancarlo Ferretti ha chiamato «il. romanzo dei professori »8 (Vittorio Saltini, Il primo libro di Li Po, Milano, Mondadori, 1981; Laura Mancinelli, I dodici abati di Challant, Torino, Einaudi, 1981; Valerio Manfredi, Palladion, Milano, Mondadori, 1985 e Lo scudo di Talos, Milano, Mondadori, 1988), un romanzo storico ben costruito, con un pizzico di mistero, e ambientato in un’epoca di
cui chi scrive (professore universitario) è esperto. Mi pare che la linea accademica sia però solo una delle componenti dell’effetto-Nome della rosa. Il romanzo di Eco se da un lato è 294
erudito (e quindi soggetto a servire da modello ad altri accade-
mici), dall'altro è anche avvincente, situato in un medioevo tor-
mentato e torbido (i delitti nel monastero e sullo sfondo i conflitti religiosi, le eresie) che si propone sornionamente come termine di confronto non poi cosi lontano dal nostro presente. La perfetta congenialità della storia e del mistero è stata captata da un gruppo di narratori che, pur senza costruire veri e propri romanzi storici, utilizza un trovarobato erudito per movimentare
un intreccio tenebroso.
Questi romanzi che si rifanno più o meno latamente alla formula di Eco — ricostruzione storica e mistero — hanno appunto in comune un'utilizzazione della storia che ci offre una chiave complessiva di interpretazione. 1) Storia come «appesantimento» del presente: evocando l’insostenibile leggerezza cara a Kundera, voglio evidenziare la funzione nobilitante della parte storica in romanzi che si svolgono normalmente in un’alternanza dialettica di presente e passato. Il passato, la cui influenza positiva o negativa definisce le azioni del protagonista nel presente, è il tempo misterioso e ricco che dà spessore ad un oggi piatto, consumista e massificato, altrimenti indegno di essere raccontato e tantomeno vis-
suto. I fittizi « scritti del passato », religiosamente inseriti dai contemporanei protagonisti nella loro narrazione, riverberano il loro valore di documento sull’effimero odierno, danno un alo-
ne di veridicità alla narrazione, la caricano di ambigue corrispondenze e potenziali ritorni. Grazie al rapporto col passato, i personaggi penetrano l’opaca dispersività della megalopoli postindustriale per riscoprire una mappa di luoghi segreti e dimenticati, dove la storia sembra tangibilmente presente (chiese, musei, taverne, antichi palazzi). La città diviene l’ambiente del nuo-
vo feuilleton gotico-tecnologico (Magia rossa, Dio e il computer), gotico-culturale (Concerto rosso), gotico-esistenziale (La casa sul
lago della luna, Piazza Carignano, La terra di Avram). Ecco cosi i nuovi « misteri di Parigi » ambientati a Torino (Piazza Carignano, Concerto rosso), città esoterica per eccellenza — il triangolo magico Lione-Praga-Torino — , e a Milano (Magia rossa, Cromantica, La terra di Avram).? Anche il protagonista, uomo del presente, scettico, afflitto dalle cure del contingente, viene inesorabilmente e progressivamente cooptato dal fascino del mistero passato, che infine diviene per lui quest ossessiva, occa-
sione di ripensamenti e di crescita in una vita altrimenti con-
dannata a trascinarsi banalmente. È questo un passato la cui pesantezza è tanto più efficace quanto più esso risulta modernizzato, carico di significati sconosciuti forse a chi lo visse davvero ma conosciutissimi e « veri » per noi contemporanei. Come 295
nei romanzi di cappa e spada del buon Dumas, l'accuratezza è solo pseudofilologica e l'importante è che il fittizio « scritto del passato » impressioni il lettore, evochi e rinforzi il cliché addormentato e un po’ magico che egli ha di quei tempi. La caccia al manoscritto del passato in Il nome della rosa continua e si “dirama in variazioni sul tema: il manoscritto diviene una serie di quadri antichi e misteriosi in Cromantica, diario di un ebreo fascista in Piazza Carignano, spartito settecentesco in Concerto rosso, romanzo austro-ungarico in La casa sul lago della luna, trattato di logica medievale in Dio e il computer. E insomma il trionfo dell’apocrifo e del centone postmoderno, ora parodico ora serioso. 2) Storia come magia e ritorno del passato: il ritorno del passato nello squallido presente è ambiguamente sentito, un misto di minaccia e di gratificazione. Il passato che ritorna in Magia rossa è luddismo e orde di morti viventi, ma anche affasci-
nante scoperta; il passato in Cromantica è allucinazione e delirio, ma anche la bellezza e il mistero della vera opera d’arte; in Piazza Carignano è dittatura e persecuzione, ma anche
scioglimento di un nodo esistenziale; in Concerto rosso è pittura e musica, connubio di demoniaco e paradisiaco; in La casa
sul lago della luna è scoperta di un capolavoro dimenticato e . al contempo regressiva fuga dalla vita; in Dio e il computer è la sapienza logica del medioevo che rivela un terribile segreto ma risolve anche un’impasse dell’odierna informatica; in La ter-
ra di Avram è un’ossessione che impedisce alla protagonista di vivere nel presente, ma anche una sovrannaturale certezza amorosa. Il ritorno del passato fa parte di un processo di esorcismo, di familiarizzazione del futuro ridotto appunto a passato che torna, a destino;!° al contempo il passato viene « defamiliarizzato », reso meraviglioso (reincarnazione, magia, atmosfera
gotica) nella speranza che attraverso il suo ritorno si possa rendere un po’ più eccitante anche il presente-futuro. È un processo ambiguo in cui si cerca di alleviare l’ansia per l'avvenire atomico e catastrofico e la noia del quotidiano razionalmente programmato investendo il passato di valenze sia rassicuranti e de- . responsabilizzanti (ritorna) che avventurose (è misterioso). È da rilevare comunque che sempre la storia ritorna non come ciclo collettivo, ma come esperienza individuale, particolare « chiamata » o destino medianico di spiriti sensibili. Queste considerazioni, che cercano di rintracciare l’influen-
za del Nome della rosa sui giovani narratori e che erano già state
fatte in altra sede,!! mi sembrano ancora più valide dopo l’u-
scita di JI! pendolo di Foucault. Con il suo secondo romanzo Eco,
296
VA
che ha lavorato meticolosamente al Pendolo in parallelo con la fioritura neogotica dei giovani scrittori, sussume e sviluppa tendenze e percorsi narrativi indicati nel suo lavoro d’esordio, riprendendo l’iniziativa e concludendo con la sua summa il fenomeno del romanzo gotico-filosofico in cui magia e ritorni regiERRGEEE-G&
pag. 228
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Marginalità e ricerca storica: Atzeni, Nigro, Fertari
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I narratori neogotici: Manfredi, Elkann, Vacca, Berbotto, Duranti, Pisani. i
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Dalla fantastoria alla fiaba: Poi Barbi Ci
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Riflessione e visione: Del Giudice, Comolli, Lio Fortunato, Cantàfora, Fontana, Filosa, Albinati . ea Avventura e metanarrativa: Mancinelli, Romano, Pe-
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