La rivoluzione nel labirinto. Sinistra e sinistrismo dal 1956 agli anni ottanta [Vol. 2] 8872841429, 9788872841426


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Italian Pages 244 Year 1993

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La rivoluzione nel labirinto. Sinistra e sinistrismo dal 1956 agli anni ottanta [Vol. 2]
 8872841429, 9788872841426

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Franco Ottaviano

LA RIVOLUZIONE NEL LABIRINTO

vol 2

RUBBETTINO

Introduzione Volume Primo Capitolo I - Critica la revisionismo e riformismo Capitolo II - Dal controllo al potere operaio Capitolo III - I marxisti-leninisti Capitolo IV - La cultura militante Capitolo V - Il Sessantotto: la rivolta degli studenti Capitolo VI - Le strategie della tensione Capitolo VII - Il Maoismo e il Neostalinismo dell'Unione dei comunisti Capitolo VIII - Potere operaio: il partito dell'insurrezione Volume Secondo Capitolo IX - Lotta Continua: spontaneità e organizzazione Capitolo X - Dal Manifesto al PDUP Capitolo XI - Avanguardia operaia Capitolo XII - La lotta armata Capitolo XIII - Sulle ceneri dei gruppi: l'autonomia

IX LOTTA CONTINUA: SPONTANEITÀ E ORGANIZZAZIONE

1. Non è che l'inizio Dal dibattito sull'organizzazione che attraversa il Potere operaio pisano sul finire del '69 prendono le mosse le tappe fondamentali che originano la fondazione del periodico «Lotta continua» e l'omonimo gruppo. Le tesi esposte da Adriano Sofri, in polemica con Luciano Della Mea, offrono la base teorica della rottura con l'area più organicamente operaista che si raggrup-pa attorno a Negri, Vesce, Scalzone, Piperno, Pace. Una separazione che risolve quel contrasto già in atto nelle lotte università-rie, emblematizzato dalle due parole d'ordine «Potere operaio»-«Potere studentesco» e più in generale dal conflitto spontaneità-direzione che aveva contrapposto il movimento ai gruppi, nella logica delle cosidette avanguardie esterne. Si congiungono e danno vita a Lotta continua: l'esperienza dell'assemblea operai-studenti di Torino, quindi Luigi Bobbio e Guido Viale; il sociologismo trentino di Mauro Rostagno e Marco Boato; lo spontaneismo operaistico dell'ala pisana del Potere operaio capeggiata da Adriano Sofri, trasferitesi a Torino già nella fase che precede gli scontri di corso Traiano e dei successivi scioperi «selvaggi».Tornando alle origini di "Lotta continua. Guido Viale scrive: «Altrettanto nuova è la pratica dell'organizzazione; non nasce da una scissione del movimento operaio ufficiale, non trova il suo cemento in un'ideologia o in un linguaggio già definiti, non si raccoglie intorno a un "corpo storico" o a un gruppo dirigente già costituiti. Lotta continua non ha ne ideologia, ne teoria, ne strutture organizzative, ne disciplina di partito, ne programma e risoluzioni che ne fissino i compiti. Vive innanzitutto come "stato d'animo" e come "pratica di lotta"...»1. Sarà proprio questa la forza e la debolezza del gruppo.Un' eclettica mescolanza di motivi teorici cementati fra loro da un vitalismo emmellista che assume a ragione del proprio dispiegamento l'antagonismo e 1'insurbodinazione sociale, come forme della nuova soggettività rivoluzionaria dentro e fuori la dimensione della fabbrica. Si manifesta così una sostanziale disponibilità a plasmarsi sui molteplici andamenti di una pratica politica vissuta senza un aprioristico modello di riferimento e quindi caratterizzata da uno sperimentalismo non esente da concessioni tattico-opportunistiche e capace di recepire trasversalmente influssi

anche contrapposti fra loro senza determinare nel gruppo lacerazioni irrisolvibili. In questo modo, con un intelligente camaleontismo, pronto all'adattamento e al rovesciamento radicale delle proprie posizioni, si dialettizzano fra loro l'empiria movimentista e quelle tendenze alla costruzione del partito che, facendosi progressivamente strada, porteranno alla conferenza nazionale del '75 e forzando il precario equilibrio raggiunto, acceleraranno l'implosione dissolvente del gruppo nella seconda metà degli anni settanta.Lotta continua, al suo sorgere non risulta irretita da «principi assunti in modo rigoroso». Il leninismo nella sua versione terzinternazionalista è messo in discussione; il maoismo, a cui pure ci si riconduce, non rappresenta una gabbia dogmatica; l'o-peraismo si identifica con la più generale insurbodinazione sociale. Primi laboratori del gruppo sono la Fiat Mirafiori e l'Assemblea operai studenti. I «lottatori continui» fanno la loro comparsa a corso Traiano, proseguono il lavoro davanti ai cancelli della Fiat, organizzano il convegno delle avanguardie operaie ma non scelgono l'isolamento come Potere operaio: a loro interessa rimanere interni al movimento. Una caratteristica che verrà sempre prima di ogni ipotesi teorica e organizzativa.Accompagna lo sviluppo del gruppo una moderna capacità comunicativa che utilizzerà una grande varietà di tecniche: le campagne d'opinione, l'uso del giornale, il fumetto, la satira politica, l'invenzione grafica, passando dagli evidenti richiami alla produzione dell'Atelier populaire nel maggio francese a più raffinati mezzi espressivi.La molteplicità dei temi agitati, la disinvoltura organizzativa e la combattività consentirà al gruppo di essere forza d'attra-zione nella fase di riflusso post-sessantottesco e, in concorrenza con le altre formazioni dell'estremismo, un protagonista della punteggiatura della strategia della tensione, dalla rivolta di Reggio alla pratica della guerriglia urbana nelle grandi aree metropolitane. Tra morbose curiosità verso un campo eversivo ormai considerato «valore in sé» e aperture tattiche tese a non perdere terreno nella gara al rivoluzionarismo, finirà, pur non identificandosi col terrorismo ne con l'area delTAutonomia, a dare coperture politiche a quelli che verranno considerati i «compagni che sbagliano». Il movimentismo, ragione degli originar! successi, diverrà nel tempo un ostacolo che impedirà ogni passaggio strutturato da gruppo a partito e non permetterà la più volte annunciata trasformazione di Lotta continua in «forza politica» condannandola così ali'estinzione.Già prima della definitiva rottura con l'operaismo, le proposte avanzate nella relazione di Adriano Sofri sono assunte come un nuovo e più avanzato terreno organizzativo. Si arriva così alle Proposte per V organizzazione del movimento studentesco (documento ciclostilato del marzo '69), all'articolo Pisa, coordinamento dei comitati di base, apparso sull'ultimo numero di «Potere operaio» prima fase (n. 19 - 7 giugno) e successivamente, nel settembre '69, alle Proposte dei comitati di base di Pisa e Torino per un giornale nazionale.Il primo numero di «Lotta continua» esce il 1° novembre 1969; diventa settimanale il 22 novembre. Il giornale ha lo scopo di agevolare il collegamento fra le varie esperienze, fra le diverse fabbriche, fra la fabbrica e la scuola. Protagonisti di questo processo di coordinamento debbono

essere direttamente gli «sfruttati», rompendo definitivamente «il monopolio del Pci e della Cgil», una sinistra revisionista che ormai ha rinunciato a lottare 2. Sin dall'inizio ingrossano le file del gruppo, oltre ai residui del Potere operaio pisano, settori consistenti del movimento studentesco di Torino e Trento, militanti della Cattolica di Milano, del Potere operaio pavese. Progressivamente nelle principali città, si realizza una massiccia opera di reclutamento attraverso un'ampia pubblicizzazione del giornale, una campagna favorita dal rifiuto di prospettare una linea politica «giusta» indipendentemente «dalla forza del movimento».Dopo le lotte di fabbrica e le battaglie dell' estate, lo scontro sociale è a un punto cruciale, sempre più manifesto per i promotori del gruppo il ruolo opportunistico dei partiti della sinistra e del sindacato. Spetta al giornale farsi strumento di unificazione per tutti coloro che si riconoscono in una comune «linea di classe» antirevisionista: «Siamo convinti che lo sviluppo impetuoso delle lotte stia accelerando la chiarificazione politica all'interno delle forze rivoluzionarie. L'opportunismo di alcuni gruppi, ridotti a reggere la coda al Pci o al sindacato, viene alla luce. E viene alla luce contemporaneamente, la possibilità e la necessità di unire tutti coloro che agiscono su una linea di classe, confrontando con i problemi posti dalle lotte le diverse posizioni ed esperienze. A questo deve servire il giornale, che oggi esprime una serie ancora limitata di esperienze di lavoro rivoluzionario [...]. Chi ha una parola da dire su questo è il benvenuto» 3.Le lotte contrattuali dell'autunno sono il primo appuntamento per Lotta continua: sperimentalismo e spontaneismo caratterizzano un intervento che evita deliberatamente ogni sistematizzazione organica, esaspera il momento dello scontro, del-l'impatto violento. Se Potere operaio, deluso dal recupero sindacale che si manifesta in fabbrica, preferisce lanciare la parola d'ordine della cessazione immediata della lotta con 1 obiettivo evidente di chiudere una partita ormai persa, Lotta continua vuole prolungare lo scontro, cavalcare le stesse contraddizioni delle piattaforme contrattuali, usare tutti gli interstizi che gli si offrono per giocare a un perenne rialzo. L'ostentato rifiuto di una teoria politica diviene esso stesso scelta teorica in una visione che, respinte le mediazioni di presunte avanguardie esterne, attribuisce al movimento, in quanto tale, una sua dirompente carica rivoluzionaria in una fase in cui la «crescita impetuosa della lotta di classe» scavalca ogni previsione e supera nei fatti ogni volontà soggettiva di direzione.«L'ultima settimana di ottobre ha segnato una tappa decisiva nella fase attuale dello scontro di classe. Fallita la speranza in una soluzione indolore "sindacale", delle lotte operaie, la borghesia ha fatto ricorso all'attacco violento e massiccio. Gli scontri di Pisa, la rappresaglia di Agnelli alla Fiat, e accanto ad essi le provocazioni padronali alla Rhodiatoce di Verbania e in tante altre fabbriche milanesi, sono state esemplari per due versi. A Pisa e a Torino, per la prima volta, il Pci e i sindacati si sono schierati senza più mezzi termini dalla parte della repressione. Prima di oggi il Pci ha sempre cercato di tenere i piedi in due staffe: attaccare gli "estremisti", e tentare di usarli per dare più forza alle sue battaglie parlamentari, dal disarmo della polizia, alla prospettiva di partecipazione al governo». Ma ormai, prosegue «Lotta continua», il Pci non

può più giocare sull'ambi-guità. Quando la lotta di classe cresce, si fa più dura, un suo primo risultato è di fare chiarezza, di mettere ciascuno al suo posto 4.La battaglia di Pisa (25-27 ottobre) è un grande esempio da seguire. Scrive Lotta continua «non è che l'inizio!». Le manifestazioni sono sempre più cruente. A Pisa muore un giovane colpito al torace da un candelotto lanciato dalla polizia; sulla stampa si parla di «guerriglia urbana», di commandos estremisti. A giudizio del gruppo, si è in piena campagna di repressione, il Pci e il sindacato sono accomunati al blocco d'ordine dei moderati e dei reazionarii II Pci messo alle «strette sotto la critica della masse», dopo i fatti di Pisa, da un primo saggio di quella che sarà la futuribile nuova maggioranza: «II Pci oggi non esita ad accettare lo scontro aperto con il suoi stessi militanti di base, pur di offrire alla borghesia la garanzia che la borghesia gli chiede, pur di presentarsi come partito dell'ordine, anzi, l'unico in grado di assicurare l'ordine»5.La foto in prima pagina del numero unico del 7 novembre, senza neppure leggere gli articoli, vale più di un programma politico: un celerino, elmetto in testa e candelotto lacrimogeno innestato sul fucile, è appostato dietro un angolo, sullo sfondo le barricate, sul muro un manifesto: il pugno chiuso e la scritta «La lotta continua». A Pavia, una settimana dopo Pisa, otto mandati di cattura contro altrettanti militanti di Lotta continua per un «picchetto» davanti alla fabbrica Kórting. Ancora incidenti a Milano: la polizia carica durante un corteo di protesta contro la sede Rai-Tv di corso Sempione. «Lotta continua» commenta: «come si "democratizza" l'informazione lo hanno chiaramente dimostrato gli operai dell'Alfa a Milano, quando hanno rovesciato l'auto de "II Corriere d'Informazio-ne". Al giornalista del malfamato quotidiano, non è rimasto che piagnucolare tra le braccia di un sindacalista». E rivolgendosi al Pci aggiunge: «II Pci non può più illudersi di controllare e di usare gli estremisti quando questi sono le migliala di pro-letari di Pisa, o gli operai che guidano la lotta in fabbrica, come alla Fiat»6. Alla classe operaia indica la strada della «rivoluzione culturale nelle fabbriche». Basta con le gerarchle interne alla fabbrica, occorre liberarsi della paura dei capi, manifestare — anche ricorrendo alla violenza — il disprezzo degli operai nei confronti degli impiegati e dei capireparto; «ridurre all'obbedienza» i padroni, rovesciare la loro violenza repressiva praticando una nuova violenza fondata sulla rabbia, in nome di tutte le angherie subite. Alla Bussola di Viareggio, gli studenti hanno colpito i signori e la loro sfrontata ricchezza, ora spetta agli operai colpire i padroni e i loro servi. «Alla Fiat Mirafìori i dirigenti, non ancora abituati all'obbedienza, sono stati più volte costretti a sfilare tra due file di operai inferociti. Sulle loro teste calve, imperlate di sudore e cosparse di sputi, le monetine da cinque lire tirate dagli operai si incollavano come coriandoli [...]. Chi prova a fare il furbo, viene giustamente punito» 7.Il linguaggio è aspro, la rappresentazione, volutamente stereotipata, propone, «occidentalizzandole», immagini che evocano lo sconvolgimento sociale della rivoluzione culturale cinese.Il gruppo prolunga nella fabbrica i moduli della lotta contro l'antiautoritarismo e il potere capitalistico del movimento studentesco. La soggettività rivoluzionaria è decisiva rispetto ad ogni

approccio economicistico. Nella totale indifferenza al sistema produttivo e alle sue compatibilita, si estremizzano tutte le rivendicazioni, unica condizione per scardinare il «piano del capitale». La contraddizione fra «operaio-massa» e capitalismo può essere risolta solo dall' autonomia operaia come rifiuto del-1 organizzazione capitalistica del lavoro e come radicale liquidazione del sindacalismo, tradizionale strumento di normalizzazione e di contenimento di un conflitto ormai insanabile. Alla ricerca di spazi politici si sfruttano gli errori del sindacato aziendale, il logoramento delle arcaiche commissioni interne, i problemi aperti dal rinnovamento sindacale. Contemporaneamente si fa leva sulle caratteristiche del proletariato delle grandi aree urbane, sulle loro diffìcili condizioni di adattamento e di inserimento, sul loro complesso e travagliato approccio alla politica. Non imprigionato da rigidi schemi interpretativi come accade all'Uci (marxista-leninista) e, per qualche verso, allo stesso Potere operaio, il gruppo di Sofri si muove con maggiore disinvoltura nel coagulo di contraddizioni delle lotte dell'autunno. Affrontandole senza una linea precostituita non risentirà della crisi complessiva che attanaglia la gruppettistica anzi, con la sua duttilità e spaziando in eterogenei campi di analisi, finirà col giovarsene.Il 19 settembre del '69, sciopero nazionale della casa, a Milano gli scontri in via Larga: muore l'agente Annarumma 8. Nel paese cresce un cupo clima di tensione. Il telegramma del presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, di fatto anticipa la teoria degli «opposti estremismi»: «Questo odioso crimine deve ammonire tutti ed isolare, e mettere in condizioni di non nuocere, i delinquenti, il cui scopo è la distruzione della vita, e risvegliare non soltanto negli atti dello Stato e del governo, ma soprattutto nella coscienza dei cittadini, la solidarietà per coloro che difendono la legge e le comuni libertà» 8.Si incrudisce la repressione: Tolin, direttore responsabile di «Potere operaio», è arrestato per reato d opinione. A Trento il 28 novembre, in contrapposizione alle contestate manifestazionipasseggiata dei sindacati, Lotta continua indice una «manifestazione militante» contro il carovita (alloggi, trasporti, costi sociali, ecc.): obiettivo occupare l'ospedale Santa Chiara. La polizia carica, la risposta è violenta 9.Ali'operazione «opposti estremismi» si affianca la crisi di governo, mentre Pri e Psdi lanciano un duro attacco contro il sindacato. La stampa è tutta un coro contro la confusione e il disordine. Almirante in un'intervista al giornale tedesco «Der Spiegel» ammette con tracotanza che il Msi e le sue organizzazioni giovanili si preparano alla «guerra civile». Pochi giorni dopo le tragiche bombe di piazza Fontana. L'estremismo è in difficoltà, «Potere operaio» non scrive nulla. Spetta a Lotta continua il merito di iniziare la sua campagna contro la «strage di stato». Dopo tré giorni dalle bombe di Piazza Fontana è arrestato l'anarchico Valpreda, a mezzanotte dello stesso giorno, in circostanze oscure, la morte dell'anarchico ferroviere Pinelli, i giornali parlano di «suicidio». In tutta Italia una catena di fermi e perquisizioni colpisce i militanti e le sedi dei gruppi. Contro la repressione il gruppo non ripiega su se stesso, a differenza di altre formazioni estremistiche che proprio in quelle ore maturano i primi germi della clandestinità si lancia

all'offensiva, unoperazione di raccordo con ambienti giornalistici e intellettuali all'insegna dello smascheramento della «strage di stato».Cresce il nuovo squadrismo fascista, un elemento della perversa spirale della strategia della tensione, strumentalmente usato dal governo e dal blocco moderato per legittimare la teoria degli opposti estremismi e imporre nel paese uno spostamento a destra. La violenza diffusa, le risposte colpo su colpo deU'anti-fascismo «militante», le complicità di un apparato statale coinvolto in torbide manovre, sono l'inquietante scenario in cui si manifestano le prime azioni terroristiche. Le suggestioni alla clandestinità e il dibattito sulla lotta armata escono dalla loro genericità libresca.Dentro questo laboratorio di confusionarismo, fra paura del «golpe» ed elogio della violenza di massa come risposta al disegno destabilizzante conservatore, Lotta continua inizia la sua opera di contro informazione cercando di interpretare i fatti e aprendo una riflessione sullo Stato, sui rapporti di forza nella società italiana, sulla magistratura, sull esercito, sulla funzione della repressione e sulle sue dinamiche: «Le bombe di Milano [...] hanno offerto uno spaccato ricchissimo della trama di potere nella società italiana, di che istituzioni e di che uomini è fatta. Non per la scoperta dell'uso vigliacco dell'assassinio da parte della classe dominante, che non è scoperta per nessuno, ma per il modo in cui su questo episodio si sono misurate e smascherate tutte le componenti istituzionali di quella società, dal presidente della Repubblica ai partiti, dalla polizia alla magistratura, dai giornalisti al sottobosco delle spie, dei provocatori, degli agenti segreti, dei fascisti, degli aguzzini ufficiali» 10.Inizia la martellante denuncia dell'assassinio di Pinelli;senza mezzi termini il commissario Calabresi è indicato come responsabile morale del delitto. Un battagc che porterà al processo Calabresi-«Lotta continua». Nel giugno 1970 alla pubblicazione della prima edizione della controinchiesta La strage di Stato. Un vero e proprio successo editoriale e giornalistico, una campagna di opinione che agisce non solo nei confronti della «gruppettistica» o della cosiddetta nuova sinistra ma influenza aree democratiche e persino moderate. Non è difficile in quella situazione per il gruppo accrescere consensi; a ciò concorrono i ritardi interpretativi delle forze di sinistra che finiscono col far assumere ai militanti di Lotta continua il ruolo di portabandiera contro la teoria degli opposti estremismi e in particolare contro la pista «rossa». Dal 3 marzo '70 in poi vengono incriminati l'uno dopo l'altro i vari direttori del giornale Marco Bellocchio, Pio Baldelli, Marco Pannella, Pier Paolo Pasolini. Attorno al gruppo cresce la solidarietà.

2. Accelerare la «crisi»

II primo convegno nazionale di Lotta continua si svolge a Torino nell'estate del '70; ci si arriva dopo aver costruito nell'inverno-primavera una ramificazione organizzativa nelle principali città italiane. In tutte le università si succedono conferenze e iniziative per illustrare le ipotesi di lavoro e aggregare attorno al gruppo esperienze di fabbrica e di movimento, raccogliere i cascami del riflusso studentesco sfruttandone le disponibilità.Un processo che nelle sue linee essenziali e per l'arco di interessi che vuole sollecitare si ricostruisce agevolmente seguendo i resoconti che appaiono settimanalmente sul giornale. Sin dal numero unico del 1° novembre si parla di «centri promotori» a Torino, Ivrea, Milano, Trento, Porto Marghera, Pavia, Genova, Bologna, La Spezia, Massa, Pisa, Piombino, Latina, Napoli n. Articoli e commenti danno il quadro delle situazioni di lotta. Si generalizza la parola d'ordine sessantottesca del-l'assemblea torinese «studentioperai uniti nella lotta», si enfatizza la battaglia di Pisa, proponendola come esempio da ripetere per estendere la guerriglia urbana. A testimonianza dell'interesse verso nuovi settori d'intervento appaiono materiali sulle forze armate e sulle donne; richiamandosi alla giornata del IV novembre sul numero unico del 7 novembre viene pubblicato l'articolo La guerra dei padroni e la guerra del popolo12. I riferimenti vanno alle manifestazioni americane contro la guerra, all'opposizione dei giovani e dei negri contro la chiamata alle armi. Ricollegandosi alle lotte antimperialiste si denunciano i limiti del pacifismo per prospettare uno scardinamento attivo delle forze armate. Nei numeri seguenti appaiono le lettere dei «compagni» militari: sono la premessa per l'organizzazione dei «proletari in divisa».Proseguono le riunioni del coordinamento. Il 9 novembre a Venezia, presenti circa 500 militanti, si incontrano delegazioni di Venezia, Porto Marghera, Trento, Rovereto, Udine, Verona, Schio, Trieste, Padova, Bologna, Piacenza, Rimini, Forlì, Milano, Pavia, Bergamo, Torino, Alessandria, Genova, Savona, La Spezia, Pisa, Massa, Siena, Firenze, Piombino, Cecina, Pistola, S. Benedetto del Tronto, Napoli. A titolo personale partecipano inoltre il circolo Carlo Marx di Castrovillari (Cosenza) e il circolo Lenin operante in Puglia. Si discute dello sviluppo delle lotte a Porto Marghera, Torino, Trento, Verona, Napoli e Milano; della situazione politica generale con particolare riferimento alla firma del contratto degli edili; si valutano i risultati e le difficoltà incontrate nella distribuzione del giornale; si pone la necessità di estendere la propria presenza nel Meridione, auspicando occasioni di incontro con i compagni che vi operano per stabilire collegamenti più precisi. Sul versante della scuola le varie riunioni

nazionali sono accompagnate da analoghi incontri degli studenti medi ".Con puntualità procede la tessitura organizzativa, cercando di superare i limiti di un assemblearismo dispersivo che stenta a far crescere una maggiore capacità di sintesi. La settimana dopo la riunione si svolge a Firenze. Vi partecipano militanti di Milano, Torino, Genova, Pavia, Venezia, Trento, Trieste, Bologna, Firenze, Pisa, Massa, Carrara, Piombino, La Spezia, Cecina, Siena, Arezzo, S. Benedetto del Tronto, Rovereto, Forlì, Ri-mini. Pistola, Napoli, Latina. La discussione si concentra «sul-P analisi della fase attuale delle lotte», dopo la firma del contratto degli edili e dopo l'accordo alla Pirelli; ci si interroga sul significato, l'importanza e l'uso politico della giornata di sciopero generale del 19 novembre, «su che cosa sarà il dopo contratto nell'iniziativa sindacal-padronale dei riformisti e nell'atteggia-mento e nella linea dei padroni, e su quali sono i nostri compagni attuali». In particolare si insiste sull'importanza del lavoro di organizzazione, come «necessità di collegare le avanguardie» espresse dalle lotte, come «capacità di creare dappertutto punti di riferimento politico» M.È poi la volta di Roma, il 23 novembre, con l'obiettivo di «permettere ai compagni di Roma e del Sud, che nella stragrande maggioranza non sono legati al nostro lavoro, di intervenire»;quindi estendere territorialmente l'influenza del gruppo. Il bilancio del 19 novembre a Milano è al centro della riunione:la cronaca degli scontri, le reazioni suscitate nelle scuole medie, nelle fabbriche, nelle caserme di polizia, nelle sezioni sindacali e del Pci, la mobilitazione antifascista. Seguono interventi della Pirelli e dell'Italsider di Roma, molta attenzione al problema dell'occupazione delle case da parte dei baraccati romani. Nel pomeriggio, articolando i lavori dell'assemblea, si affrontano:l'organizzazione, le lotte degli studenti medi, le lotte operaie, il giornale 15.A Trento, il 30 novembre, l'assemblea è molto affollata:«Lotta continua» scrive con soddisfazione che vi partecipano oltre 1.000 persone. La riunione si apre con un resoconto del coordinamento delle Tré Venezie. Poi la relazione dei gruppi della Fiat Mirafiori sulle lotte di Torino, la relazione di Milano sulla ripresa della lotta alla Pirelli, e ancora di Napoli e di Venezia. L Assemblea si divide in cinque commissioni:lotte operaie, studenti medi, studenti universitari, organizzazione e giornale 16.A Genova, il 7 dicembre, ancora alla ricerca di una linea unificante, si insiste sulla puntualità dell'intervento politico. L'attenzione è concentrata sulla chiusura dei contratti; si fa un bilancio delle assemblee indette per la piattaforma Intersind, si verifica il lavoro a Milano e a Torino, si parla della ripresa della lotta alla Pirelli e dello sciopero a oltranza delle carrozzerie della Fiat. A Genova i rappresentanti (circa 200) delle varie sedi discutono del giornale; un'insistenza comprensibile tenendo conto del ruolo di coordinamento politico che gli si attribuisce. Si vuole conoscere la reazione che il giornale provoca nelle situazioni d'intervento, quale uso se ne fa come strumento di discussione tra i «quadri». L'analisi delle classi; l'analisi del sindacato e del Pci, della politica governativa; la valutazione del movimento studentesco; e infine l'informazione e il commento delle lotte operaie, sono i terreni su cui occorre ulteriormente definire i giudizi e le convergenze di analisi 17. Gli appuntamenti settimanali proseguono, occasioni per

consolidare la presenza del gruppo e per affermarla dove è ancora inesistente. Si va oltre la fabbrica, si aprono nuovi fronti d'intervento: i militari, le donne, il Meridione. La «rivolta» di Reggio rappresenterà con tutte le sue ombre un momento cruciale di questa ricerca di rapporto col Sud.AlTindomani delle elezioni regionali iniziano quelli che Pino Ferraris chiamerà i «cento giorni» di Reggio 18. Lotta continua, incurante delle strumentalizzazioni fasciste e del qualunquismo che orbita attorno alla questione del capoluogo regionale, si getta a capofitto in quella che considera tout court una «spontanea rivolta popolare».Estensore del documento introduttivo, Situazione politica e nostri compiti al convegno nazionale di Torino (25-26 luglio 1970) è Adriano Sofri, ormai leader riconosciuto del gruppo 19. Alla relazione si aggiungono comunicazioni su vari argomenti specifici, «appunti sulla discussione sulla situazione internazionale», «lotta di fabbrica e intervento sociale», «la donna, la famiglia, la rivoluzione», «l'opposizione nellesercito», «gli studenti medi inferiori», «documento sul Mezzogiorno»18. L'analisi del capitalismo italiano è il punto centrale della relazione. Secondo Sofri, ci si trova di fronte a un rapido processo di «concentrazione del potere economico», teso a realizzare un nuovo livello d'integrazione «fra industria privata e pubblica» con un progressivo svuotamento del ruolo delle vecchie rappresentanze del potere capitalistico quali la Confindustria. Ne derivano gli obiettivi del «capitalismo imperialista italiano»: sul piano interno esso punta «ad una crescita controllata dei consumi produttivi», mentre sul piano internazionale vuole determinare una «maggiore elasticità» nei confronti della dipendenza dagli Stati Uniti per conquistare nuovi mercati e realizzare una «penetrazione impcrialistica in Medio Oriente e in Africa».L'apertura al Pci, l'alleanza coi sindacati e la disponibilità al riformismo, sono dunque del tutto funzionali a questi disegni, anche se si tratta di una prospettiva ancora non assunta con «coscienza e decisione per le contraddizioni stesse del capitalismo e i suoi legami con lo Stato» e per la controffensiva della destra economica più oltranzista. Occorre smascherare definitivamente agli occhi delle masse «il ruolo controrivoluzionario» del Pci, «strumento essenziale per ricondurre la lotta anticapitalistica nelle regole del gioco democratico-borghese della conservazione del sistema»; e del sindacato «strumento per imprigionare le lotte di classe dentro le regole dello sviluppo economico capitalistico». Compito dell'autonomia operaia la radicalizzazio-ne della lotta e l'estremizzazione di ogni rivendicazione. Non importa se già nella formulazione si è consapevoli della irraggiungibilità, anzi è proprio questa la condizione essenziale per far saltare il progetto collaborazionista.La conferma di questa possibilità si è avuta nelle lotte del-l'autunno, punto di «massima generalizzazione» della riscossa operaia avviata all'inizio degli anni sessanta. La loro carica eversiva non è stata una semplice «ondata rivendicativa magari massiccia» ma ha travolto e distrutto il piano capitalistico teso a rimuovere la contraddizione più «esplosiva su cui la lotta di massa faceva leva» e quindi fiaccare l'iniziativa operaia per espandere il suo potere su tutta la società. «Non bloccare la lotta, ma servirsene per rafforzarsi.

Questo il progetto, e l'autunno del '69, dei contratti doveva verificarne il successo». A questo scopo serviva al capitalismo, e servirà per il futuro, «ridare fiato all'opposizione delle forze di sinistra e ai sindacati» per farli diventare cardine di un'ulteriore «razionalizzazione dell'apparato produttivo» e utilizzarli per la trasformazione dello stesso apparato burocratico statale. «Di fronte al risveglio operaio e ai suoi nuovi contenuti, era impossibile praticare il vecchio metodo delle decisioni amministrative, della manipolazione padronale repressiva o paternalista, e diventava necessario appellarsi al ruolo insostituibile e "dinamico" dei sindacati, ali'ideologia della partecipazione, affrontandone, anche a nome del loro reddito a medio termine, alcuni costi immediati un'azione rivendicativa più vivace dei sindacati, qualche concezione economica, lo statuto dei lavoratori e così avanti» 21. Questo perverso piano di integrazione è stato sconfìtto dalle lotte operaie dell'autunno, i rinnovi contrattuali non sono stati uno «sfogo» della classe operaia al quale sarebbe dovuta seguire la «normalità»; al contrario essi hanno rappresentato un grande «momento di generalizzazione» dei contenuti e delle forme di lotta proposte dalle avanguardie rivoluzionarie. La forza del movimento, con il suo carattere spontaneo di rivolta, con la dirompente rottura della gabbia revisionista, come disperata risposta alla sconfìtta, ha costretto alla reazione: «la firma dei contratti, a pochi giorni di distanza, è stata suggellata dalle bombe di piazza Fontana. Scadente premessa, per il ripristino della pace sociale». Non ci può essere tregua dopo le lotte dell'autunno. L autonomia operaia non è stata fiaccata, occorre partire da questo dato, esaltarlo costruendo nuove occasioni per forzare il sistema, opporsi con forza ad ogni piano di stabilizzazione.Adriano Sofri nella sua relazione introduttiva al convegno di Torino si sofferma a lungo sulla nozione di «autonomia operaia». Contro genericità che non aiutano alla chiarezza, essa «non è un mito astratto» ma viene identificata «con il processo attraverso cui cresce la coscienza degli sfruttati di essere una classe, la classe protagonista della vita sociale». Nell' acquisizione di questa consapevolezza ci si libera dalla propria condizione di sfruttati, di «operai massa», determinando così le condizioni per l'insubordinazione alle regole imposte dallo stato dei padroni e delle classi dominanti. Per questo suo carattere antagonista «!' autonomia di classe» non coincide con «la lotta di classe», «legge permanente e indeclinabile della storia umana» fino «alla vittoria del comunismo». «La lotta di classe è anzi la molla decisiva dello sviluppo di ogni sistema sociale. L interesse della classe dominante è costantemente quello di far funzionare questa molla nel senso della estensione e del rafforzamento del proprio potere. Autonomia operaia si ha allora quando la lotta di classe cessa di funzionare da motore dello sviluppo capitalistico». Le vecchie dinamiche della lotta di classe, infatti, sono ormai fisiologicamente assunte dal piano del capitale; spetta ali' autonomia operaia introdurre la sua variabile eversiva all'interno della pianificazione dei conflitti. Da ciò i contenuti essenziali dell'autonomia: il rifiuto del lavoro salariale e lo smascheramento delle false organizzazioni operaie. Il rifiuto del lavoro è la radicale ed esplicita messa in discussione dei rapporti produttivi; è la protesta ribellistica portata al cuore della

fabbrica e delle leggi che la governano; è «l'estraneità operaia» che si fa programma di lotta: «... danneggiare la produzione, abolire gli incentivi materiali tesi a corresponsabilizzare gli operai all'incremento produttivo, rifiutare le divisioni economiche e normative, e rifiutare i tempi di lavoro e le condizioni ambientali nocive, gli orari e i turni ecc...». Solo esprimendo questa forza, la lotta di classe non si fa piegare dalle leggi dello sviluppo capitalistico, anzi diventa un' «ostacolo insormontabile» al meccanismo di accumulazione rendendolo incapace di programmare e costretto unicamente a contrastare l'offensiva dirompente e distruttiva del-l'autonomia.Sopravvalutata la forza capitalistica, l'ossessione dell'ingab-biamento coincide con la negazione di ogni possibilità di trasformazione, le uniche vie d'uscita sono la rottura delle regole del gioco, e l'impazzimento delle compatibilita: «la produzione è affare dei padroni, la crisi della produzione è un obiettivo politico degli operai». Sindacati e partiti operai tradizionali vanno colpiti, erosi al loro interno, smascherati. Essi sono ostacoli che si frappongono al dispiegamento dell'autonomia operaia e al suo porsi come nuovo orizzonte della rivoluzione. Le lotte operaie con la loro violenza antistituzionale, hanno svelato il ruolo controrivoluzionario del revisionismo; con il loro impetuoso sviluppo hanno evidenziato la discriminante fra chi, come il Partito comunista, si assume la responsabilità dello sviluppo produttivo e chi, come «le avanguardie autonome» lottano per rendere «permanente» e «irrimediabile» la crisi produttiva del capitale. Nella capacità di incunearsi nelle regole capitalistiche fino a spezzarle si misura il carattere rivoluzionario delle singole lotte e la loro potenziale generalizzazione. Contestando ogni sterile disputa avanguardia esterna-interna, non vi è separatezza fra oggettività e soggettività rivoluzionaria, anzi proprio in questo intreccio matura l'acquisizione della prospettiva per il comunismo: «Che cosa rende rivoluzionaria la lotta proletaria? La sua capacità di danneggiare fino a minarle le radici economiche del sistema, di far saltare lo sviluppo economico capitalistico oppure la presa di coscienza che essa stimola nelle masse della necessità di rovesciare il potere capitalista e di instaurare il comunismo? Posta in questi termini l'alternativa è sbagliata. Isolare un presunto fatto oggettivo — il danno economico inflitto dalle lotte — e un presunto fatto soggettivo — la crescita della coscienza comunista — si può fare solo ignorando la realtà della lotta di classe».Obiettivo della lotta rivoluzionaria è dunque la crisi. Essa deve essere contemporaneamente politica ed economica. Irreversibile messa in discussione delle leggi della produttività e della disciplina politica fondata sulla «diseguaglianza» e sul «dominio», inequivoca accelerazione di quel disfacimento capitalistico che in Italia è ormai giunto alla fase della «distruzione progressiva, nelle sue mani, di tutte le armi attraverso cui il proletariato è stato piegato allo sfruttamento e alla subordinazione». La lotta operaia, prosegue Sofri, non è più riducibile alle regole del gioco democratico come vorrebbero padroni e revisionisti. Nelle fabbriche «quei teppisti», come li chiamano lor signori, non sono unilaterali non si preoccupano della «produzione in sé» o della «coscienza in sé». La loro esperienza quotidiana li ha resi dialettici.

Ecco perché non rinunciano a bloccare la produzione, e a bloccarla nel modo più sicuro: «con l'azione della stragrande maggioranza degli operai».Questa visione della crisi e della dinamica interna allo scontro di classe, enfatizzando al massimo le logiche del gran «rifiuto», consente al gruppo di non rimanere imprigionato nella travagliata e incerta riflessione autocritica che investe il grup-pismo dopo le lotte dell'autunno. Per Lotta continua non vi è alcun dubbio londa montante del movimento è destinata a crescere: «E difficile riabituare la classe operaia alla normalità capitalistica una volta che si è abituata alla lotta autonoma». La possibilità di un impegno «responsabile» della classe operaia a collaborare alla ripresa produttiva, a lavorare di più, ad accettare orari massacranti, e farsi strizzare dai tempi di lavorazione, fa ridere chiunque abbia idea della tensione esplosiva che caratterizza le grandi fabbriche italiane: «In questa situazione, le incertezze padronali somigliano alle speranze di chi voglia vuotare il mare col secchiello».La crisi è irreversibile e contro ogni volontà dei padroni è destinata ad aggravarsi ulteriormente, una crisi imposta ai padroni dalla lotta operaia. Nel vano tentativo di fronteggiarla avanza nelle forze dominanti il disegno di un governo forte: «II grande capitale ha dovuto gettare la sua maschera "democratica", e ripararsi dietro le forze politiche più reazionarie, da Pantani ai terroristi-provocatori del Psu. Un governo d'ordine appare la prospettiva più probabile rispetto alle esigenze dei grandi capitalisti, sia per coprire la repressione che essi vogliono attuare rispetto all'avanguardia rivoluzionaria — militanti operai, soprattutto licenziati e denunciati, e militanti esterni — sia per condizionare fino in fondo i sindacati aprendo la discussione sulla regolamentazione giuridica del diritto di sciopero, sia, soprattutto, per rispondere efficacemente alla tensione sociale che l'aumento della disoccupazione o la svalutazione della lira o provvedimenti analoghi di riduzione del potere d'acquisto delle masse produrrebbero». Questo, tuttavia, non significa che le «riforme siano definitivamente affossate», esse continuano a corrispondere ad alcune esigenze di fondo del grande capitale e «la loro attuazione, gestita da un governo "forte", con i sindacati apertamente ricattati, potrà rispettare fino in fondo gli interessi del capitale nei contenuti e nei tempi e verniciare demago-gicamente di paternalismo sociale la svolta autoritaria». Nel ragionamento di Adriano Sofri, confermano questa duplice tendenza: la crisi di governo del luglio '70, la revoca dello sciopero generale previsto per il 7 luglio, le «spudorate» prese di posizione produttivistiche di Berlinguer e Amendola.

3. Socializzare lo scontro

Contro ogni stabilizzazione l'iniziativa di Lotta continua si muove in vari campi: nell'università, in polemica con le tesi «concilianti» del Movimento studentesco di Mario Capanna; nei confronti dell'opinione pubblica e contro la repressione attraverso le martellanti campagne sulla Strage di Stato e sul fascismo; nelle caserme con l'iniziativa dei proletari in divisa. In tutte le situazioni deve vivere la consapevolezza che bisogna «aggravare la crisi del capitalismo, sferrare un'offensiva ancora più massiccia, contro il movimento operaio revisionista, estendere la dimensione nazionale dell'intervento». Occorre estendere i fronti di lotta, socializzare lo scontro, aprire contraddizioni insanabili e profonde, avanzare proposte che nella loro ingovernabilità spazzino via le ipotesi del governo d'ordine e tutte le illusioni di ricondurre la combattività operaia all'interno del sistema produttivo operando magari qualche semplice raziona-lizzazione.In previsione delle prossime scadenze contrattuali Lotta continua guarda alle grandi fabbriche: il cuore di nuove occasioni di lotta e di conflitto sociale. Non si tratta di costruire piattaforme rivendicative. Esse sarebbero limitative, finirebbero con l'essere riassorbite, piuttosto si deve precisare un programma di obiettivi fondato sulla riduzione dell orario; sulla lotta alle categorie e alle paghe di posto, sull'abolizione degli incentivi; per aumenti salariali uguali sulla paga base; sulla riduzione della fatica, sull'insubordinazione alla disciplina e alle gerarchle di fabbrica.Alla ripresa dell'autunno si deve continuare la lotta ed estenderla, determinare nuovi livelli di partecipazione e di consensi, ampliandola dalla fabbrica al sociale. Giudicato ancora insufficiente il collegamento realizzato fra lotte operaie e lotte sociali, il tema della «socializzazione delle lotte» ha ampio spazio nel dibattito del convegno torinese; ne deriva l'insistenza sul coinvolgimento dei tecnici, degli impiegati, degli studenti e dei disoccupati. In particolare si deve spezzare il controllo capitalistico su categorie impiegatizie e operai tecnici; la «proletarizzazione» di questi settori anche se «appena velata di residui dell'ideologia borghese» di fatto è già stata realizzata. Condizioni soggettive quali l'alienazione e la frustrazione rendono possibile paragonare, «salvo la maggior integrazione nel lavoro», impiegati e tecnici alla massa studentesca prima della esplosione della lotta nella scuola. «Rovesciare nel breve periodo la coscienza politica della massa degli impiegati è indispensabile: ma riuscire ad aprire delle brecce nel loro conformismo, riuscire a con-durne una avanguardia sul terreno della lotta di classe autonoma avrebbe un grosso valore politico». La fluidità ideologica, il massimalismo mescolati al qualunquismo ribellistico hanno presa in settori non

sperimentati alla lotta sindacale e politica. Parole d'ordine aggressive che evocano rapidi successi rivoluzio-nari, non richiedono sforzi interpretativi e sono indifferenti ai rapporti di forza, anzi sollecitano l'interesse individuale, il corporativismo del micro comportamento sociale.Elemento non secondario dell'intervento di Lotta continua è il tema della disoccupazione. Il conflitto occupati-disoccupati è la rappresentazione concreta e drammatica di un' irrisolvibile contraddizione interna allo sviluppo capitalistico. A Torino, Adriano Sofri indica le ragioni che rendono fondamentale questo terreno d'intervento: «la prima, ovvia, è che la contrapposizione tra occupati e disoccupati è l'arma maggiore che i capitalisti hanno contro lo sviluppo della lotta di classe. La seconda è che la questione della disoccupazione è quella su cui più esemplarmente si manifesta la natura di questa società, la distruzione, lo spreco, la degradazione di risorse e di energie di cui si nutre. Ai disoccupati ufficiali si uniscono i sottoccupati — tra questi l'enorme massa dei lavoratori dell'edilizia — le donne proletarie condannate alla più squallida e dura esistenza, i giovani che riempiono le aule scolastiche perché non c'è posto per lavoro altrove». La lotta contro l'emarginazione della disoccupazione non può essere condotta nell'ambito dei rapporti di produzione capitalistici, e modifica radicalmente, liquidando le teorie revisionistiche «della difesa dello sviluppo produttivo», la richiesta di «più posti di lavoro in nome dello sviluppo economico».Emarginazione, disoccupazione, sfruttamento, sono un prodotto delle contraddizioni capitalistiche e funzionali ai piani dello stato borghese, ma non essendo risolvibili nell'ambito di alcuna proposta organica e razionalizzatrice, possono accrescere la consapevolezza rivoluzionaria e allargare la sfera del «rifiuto», facendo esplodere la rabbia e la violenza di massa. «Rifiuto del lavoro» e «salario per i disoccupati» con la loro forza dirompente e disgregante, sono le parole d'ordine attorno alle quali si debbono unificare le battaglie degli operai e quelle dei disoccupati. La sottoccupazione è il terreno privilegiato dell'«organizzazione proletaria», condizione per il suo prolungamento nel sociale: lotta proletaria contro la scuola, contro gli affitti, contro il carovita.Con la rivolta di Reggio, il Meridione si ripropone ali estremismo nostrano come un fertile laboratorio dell eversione. L' interpretazione che ne da Lotta continua è la coerente conseguenza delle tentazioni sovversive che attanagliano il gruppo, effetto dell'ormai consumata rottura con la tradizione del movimento operaio e la sua cultura della democrazia. Al tempo stesso, proprio in occasione della rivolta di Reggio si manifestano, offrendo così un terreno inesplorato e denso di rischi, i limiti della stessa cultura politica della sinistra sulle forme inedite che stanno assumendo i conflitti sociali e di come reversione, di destra e di sinistra, cerchi di darsi nuove basi sconfinando dai suoi storici steccati e facendo saltare i vecchi stereotipi ideologici. Scrive «Lotta continua»: «La rivolta di Reggio si esprime in un così gran groviglio di contraddizioni, che bisogna guardarsi da ogni facile schematizzazione. Essa costituisce proprio per questo un'occasione fondamentale di chiarimento della nostra linea sul terreno stesso dei principi generali che la qualificano» 22. Gli

aspetti localistico-qualunquistici presenti nello scontro, così come le strumentalizzazioni neo-fasciste, una categoria liquidata come un residuo del costituzionalismo resistenziale, sono del tutto secondari; quello che preme rimarcare è il dispiegarsi spontaneo del movimento, il suo carattere immediatamente eversivo e anticostituzionale. Attraverso questo dichiarato e praticato sovversivismo passano i rischi cui è esposta Lotta continua, con l'esasperato elogio e la pratica del micro-comportamento conflittuale, con la fenomenologia della gestualità rivoluzionaria, con la violenza di massa come esempi da generalizzare. A Reggio, il rifiuto di schierarsi con i partiti democratici è prima di tutto una scelta ideologica. Non vengono prima i partiti, tutti messi nello stesso mucchio, e poi le masse; i partiti sono stati motivo e strumento della loro divisione, si deve partire solo dal carattere della protesta. Per questo è importante essere dentro il flusso del movimento, acquisirne gli aspetti violentemente antagonisti al sistema. La «rivolta di Reggio» dunque non è ne «parto esclusivo dell'agitazione fascista e maliosa» ne «la riedizione di un moto meramente campanilistico di «plebi» alla mercé di qualunque pastore. Invece: «noi abbiamo detto che alla radice della rivolta popolare a Reggio e'era il rifiuto, ormai incontrollabile, della miseria, dell'oppressione e della degradazione che lo sviluppo capitalistico ha imposto al proletariato meridionale in genere e a quello reggino e calabrese con particolare acutezza e brutalità. E abbiamo anche detto che questa rivolta era giusta e importante, che era il passo necessario e preliminare perché il proletariato di Reggio acquistasse fiducia nella propria forza, superasse la propria disgregazione, imparasse a distinguere i propri nemici dai propri amici». La lotta di classe non si può ridurre «dentro gli schemi idilliaci di una bella commedia in cui ciascuno recita le battute che il copione gli assegna, e tutto va come il regista ha stabilito»; contro ogni «opportunismo» o astratto «legalitarismo» occorre «essere dalla parte delle masse in lotta». A Reggio «condizione indispensabile» per acquistare diritto di parola all'interno della ribellione di massa significa accettare e scatenare la «violenza proletaria»; ed essere dentro la lotta delle masse significa esserne l'«espressione più cosciente, e non i noiosi e inutili precettori». Ma subito «Lotta continua» precisa: «ma se questo è vero e decisivo, è vero anche che la funzione dell'avanguardia non ne è sminuita o mortificata, che la fiducia nelle masse niente ha a che vedere con l'omag-gio codista e passivo ai movimenti attraverso cui le masse esprimono le loro ribellioni. I compagni che si schierano dalla parte della lotta di Reggio, perché ne individuano giustamente la potenzialità rivoluzionaria, ma si limitano ad aspettare che la lotta di massa faccia giustizia di tutto ciò che oggi la devia, la ostacola, la inquina, abdicano al loro compito: il loro ottimismo è infantile, la loro concezione del processo rivoluzionario è spontaneista, la loro consapevolezza della forza del nemico di classe è scarsa ed erronea».La rivolta di Reggio col suo svolgimento, con la scesa in campo delle masse sottoproletarie del Sud, è la conferma della incapacità del Pci di «interpretare» la rabbia proletaria. Afferma Sofri a Torino: «Ma la cosa più significativa nei fatti di Reggio è il rapporto che si

è stabilito fra la rivolta e il Pci, di estraneità assoluta quando non di uso diretto, da parte della destra locale, della rivolta stessa contro il Pci. Si è ripetuto a Reggio, più pienamente, quello che era già avvenuto a Battipaglia». Una protesta «violentemente spontanea», indifferente alle forze politiche, preoccupata solo del proprio svilupparsi, incurante tanto della strumentalizzazione fascista che dei notabili locali della De. «Il Pci si copre di ridicolo facendo passare per fascista tutta una popolazione che si batte per mesi con le armi in pugno. Ma la nostra risposta non è che i fascisti non ci sono o che i proleta-ri reggini possiedono una piena coscienza ed autonomia di classe nella loro lotta. La lotta di Reggio è una manifestazione imponente della lotta di classe in una società di capitalismo avanzato. Essa impone uno scontro politico che tagli le gambe al controllo che la borghesia esercita sul suo sviluppo e ne faccia una tappa fondamentale nella crescita del processo rivoluzionario». Proseguendo nell' enfasi della rivolta, afferma: «II processo rivoluzionario è ormai aperto, abbiamo saputo liberarci del primo e più forte strumento di cui la borghesia dispone nei nostri confronti il movimento operaio controrivoluzionario, i sindacati e il Pci-Psiup».La lotta di Reggio accredita e conferma la linea dell'illegali-tà contro lo Stato lanciata da Sofri a Torino e lungo la quale si va sviluppando la pratica dell'intervento del gruppo. Sono gli anni della mobilitazione democratica contro il rigurgito fascista, la penetrazione occulta negli apparati dello Stato, le torbide manovre eversive che arrivano ai complotti della Rosa dei venti e al tentato «golpe» Borghese. Contro quest' offensiva si muove l'iniziativa del Pci e del movimento sindacale, liquidata da Lotta continua come una farsa retorica rispolverata dalle antiquate tesi dell'unità antifascista e che sfugge consapevolmente al vero nodo politico: il fascismo del cosiddetto stato democratico.Per Lotta continua non ci sono sfumature di analisi; esistono solo il capitalismo coi suoi piani, il disegno repressivo e una sinistra tradizionale funzionale ad esso; dall'altra parte esistono la rabbia, la protesta antideologica, costruita sui bisogni, immediatamente eversivi. La nozione del fascismo si dilata, comprende tutto e tutti: lo Stato, la falsa democrazia, la democrazia cristiana, l'apparato statale. Si succedono le manifestazioni autodifese, lo stile militare, la logica della risposta «colpo su colpo» contro l'ondata di squadrismo fascista. La De, ha buon gioco con la sua strumentale teoria degli opposti estremismi. Dai servizi d'ordine, dalla pratica di autodifesa, dalla guerriglia urbana, la storia individuale e collettiva che per tanti militanti significherà invaghirsi del mito della lotta armata come inevitabile approdo di un attivismo barricadero che mette al primo posto un'astratta idea di rivoluzione invece della politica.In questo clima non è casuale che proprio sull'analisi della repressione e della svolta a destra il foglio «Sinistra proletaria», nella fase di passaggio dal Collettivo metropolitano alle Brigate Rosse, apra la sua polemica con Lotta continua. La critica, secondo uno stereotipo del gruppismo, è ancora una volta di anarco-sindacalismo. Ma non ci si limita a questo, si pone direttamente la questione della lotta armata. Quello che si vuole sollecitare è la coerenza fra verbalismo rivoluzionario e fatti. L'e-sempio scelto è illuminante:

«bene, i Fedayn sparano, noi limitiamo la produzione, così poi arriverà anche il nostro turno di sparare»; questo, secondo Sinistra proletaria è l'«idealismo puro» 23 di Lotta continua. Divisi sul piano delle analisi e delle linee organizzative, fra i due gruppi si stabilisce una osmotica consonanza sulla parola d'ordine «Prendiamoci la città». Con questo slogan Lotta continua lancia il suo secondo convegno nazionale: «Noi abbiamo un programma. E innanzitutto quello dell'unificazione di tutto il proletariato, della lotta armata contro lo stato borghese, dell'abolizione delle classi».

4. Prendiamoci la città

Nella sua generalizzazione «prendiamoci la città» per Lotta continua rappresenta lo sbocco politico delle lotte operaie autonome, delle lotte studentesche e nei quartieri che avevano contrassegnato gli ultimi due anni24.«Sinistra proletaria», nel numero zero del luglio '70, si era chiesta «Chiedere o prendere?». La risposta era secca e inesorabile: «Prendere! [...] contro il regime non sta chi chiede ma chi prende! — prende la casa — prende i trasporti — prende i libri [...]. In una parola si prende ciò che è suo, si prende la città» w. A Bologna, Adriano Sofri precisa ulteriormente: non si tratta di un invito al saccheggio e all'insurrezione, «è invece un programma strategico di formazione e di consolidamento di avanguardie proletarie all'interno di un processo rivoluzionario di lunga durata». Confermando nelle linee generali l'analisi di Torino, la classe dirigente non è più disposta a concedere nulla e si attrezza alla svolta a destra. L'iniziativa dell'autonomia, per contrastarla deve estendersi a «tutto l'arco dei problemi sociali»:la scuola, la casa, i prezzi, i rapporti tra i sessi, il problema della salute, l'amministrazione della giustizia. «Prendiamoci la città» dunque significa intervenire in tutti i campi, portare ovunque la forza della rivoluzione, socializzare lo scontro.Nel suo articolo Proletari senza comunismo, apparso su «Giovane critica» (n. 28, 1972), Luciano della Mea considera la parola d'ordine un tentativo di superare sia le «ipotesi insurrezionali» del maggio francese, sia le teorie maoiste della «guerra di popolo». «Ma che cosa significa, in pratica "prendersi la città"? Significa partire dai bisogni che si sono manifestati in masse proletarie, con la coscienza che tali bisogni non potranno essere mai soddisfatti come si deve dal sistema nel quale viviamo».Levi e Manconi nell'articolo Ripresa della lotta studentesca a Milano - da viale Tibaldi a città Studi, apparso su «Quaderni piacentini», esemplificano il significato politico dello slogan:riappropriarsi violentemente della realtà, occupare col vitalismo del movimento e l'aggressività di parole d'ordine irragiungibili la metropoli, legarsi al sovversivismo ancora inespresso, al rifiuto del capitalismo organizzandolo nella lotta, imporre i nuovi bisogni «proletari» sul vecchio tessuto della stantia e logora democrazia. «Il "prendersi la città" comporta una successione di atti "violenti" per il padrone, di giustizia reale per il proletariato. Il fatto importante è che si occupano delle case di cui si ha bisogno e ci si rifiuta di pagare l'affitto; se si usano allo stesso modo trasporti e supermercati affermando, quando e'è n'è il bisogno, nient'altro che il diritto alla vita, non solo si compie un atto di giustizia antiriformistica, nei confronti del sistema, ma anche e forse soprattutto un atto di violenza contro se stessi, contro le vecchie abitudini mentali,

legalitarie, ed è precisamente questo atto di violenza la base necessaria per la nascita e la crescita di quel dualismo di potere, tutto esterno al sistema e alle sue istituzioni, da cui dipende l'esito della rivoluzione. La stessa cosa, volendo esemplificare di più, avviene nelle fabbriche, nelle scuole, negli uffici, dovunque»26. E ancora:«"Prendersi la città" consiste, dunque, in tutta una serie di azioni giuste nei confronti dei padroni, e violente nei confronti della mentalità tradizionale, che, per essere valide, non possono ne debbono essere l'impresa avanguardistica di un gruppo staccato dalle masse o che le masse vorrebbe guidare secondo le proprie astratte intenzioni, ma un'azione di massa che forma e cresce nell'azione stessa la propria avanguardia o riconosce quella che, da esterna che era, ha avuto la capacità di diventare interna. "Prendersi la città" non significa, come qualcuno ha voluto dare ad intendere, la conquista e la difesa armata dei territori» 27.In sintonia con la riflessione che avanza in Potere operaio per Lotta continua l'autonomia operaia dalle grandi fabbriche si sviluppa in tutta la società. «Prendiamoci la città» è l'estensione dell'illegalità di massa, è l'invito alla violenza contro la normalizzazione degli equilibri politici, contro i disegni capitalistici e il progetto di collaborazione sociale dei revisionisti; è lo snodo decisivo di un «processo rivoluzionario di lunga durata». Obiettivi: l'autoriduzione degli affitti, delle bollette della luce o del telefono, la lotta per l'ambiente; la difesa del tempo libero e il rifiuto degli straordinari; la gratuità del trasporto pubblico;la battaglia contro il carovita e quindi aumenti salariali e salario garantito per tutti. Un inventario di possibili lotte, in cui si ritrovano le originarie caratteristiche del gruppo, nonché i nuovi adattamenti, il confronto-scontro con Potere operaio, la prefigurazione dell'Autonomia organizzata.Il pericolo di concepire il combattivo slogan come un programma «immediatamente insurrezionale per la conquista, anche militare, della città, già avvertito da Luciano Della Mea, prenderà il sopravvento nella pratica di Lotta continua determinando le sue scelte nel comitato nazionale contro la strage di Stato e i presupposti di quella che, al III convegno nazionale, sarà definita la necessità di «preparare il movimento ad uno scontro generalizzato» contro lo Stato da cui deriva «l'esercizio della violenza rivoluzionaria di massa e di avanguardia» 28.A Bologna, non tanto nel dibattito ufficiale — costruito come una formale platea per interventi di delegati «proletari» a dimostrazione dei collegamenti del gruppo — quanto nelle riunioni che lo precedono e nelle discussioni che accompagnano le sue conclusioni si confrontano le diverse concezioni che convivono nel gruppo. Gli operaisti della tradizione dei «Quaderni rossi» e di Potere operaio, privilegiano l'intervento nelle fabbriche e, pur non rifiutando la necessità di una presenza nel Mezzogiorno, respingono fermamente l'ipotesi, portata avanti dai militanti delle organizzazioni meridionali, di una ormai compiuta integrazione della classe operaia a cui contrappongono lo spontaneismo della lotta sociale delle popolazioni del Sud.Non sanano i contrasti i tentativi di partitizzazione del gruppo, una forzatura che risulta in quella fase del tutto sovrapposta alla natura fluida dell'oiganizzazione e che solo dopo l'erosione autonomista del '72-'73, troverà una sua temporanea quanto effimera

sistematizzazione. Per Lotta continua la giornata del 12 dicembre '71 spazza via l'equivocità del fantasma ancora presente di una presunta «sinistra di classe» e delle false concezioni antisettarie, aspetti di un opportunismo duro a morire. In quella occasione, si legge nel documento preparatorio per la III conferenza, si è verificato come «le etichette della sinistra extra-parlamentare» altro non siano diventate che emblemi «di un' insurrezione» e solo «uno sviluppo ulteriore sul terreno del-l'illegalità armata contro lo stato borghese» farà giustizia del confusionarismo e restituerà valore alla formula di «sinistra rivoluzionaria». Solo su questo terreno è possibile un confronto con gli altri gruppi. Come nello slogan «Prendiamoci la città», nel linguaggio e nelle esemplificazioni agitatorie si evocano pratiche di giustizia proletaria presentate come esercizio di un cupo e violento potere proletario. «Dopo ogni azione, corteo, blocco merci, blocco del grattacielo» scrive «Lotta continua» commentando le lotte contrattuali alla Pirelli «ogni reparto si trasforma in un tribunale proletario: quelli che pur potendo non hanno partecipato vengono fatti uscire dalla fabbrica [...]. Non si tratta solo di difesa dell'unità, gli operai imparano ad esercitare il potere e ci prendono gusto» 29. Avevano scritto, sempre sulle lotte della Pirelli, i militanti di Sinistra proletaria: «Inutile spendere troppe parole; meglio dire subito che chi interviene o si adopera contro la lotta e gli interessi dei lavoratori è un nostro nemico e come tale va colpito!» 30.Proprio alla Pirelli prendono corpo le prime azioni delle Br: il 27 novembre '70 l'incendio della macchina del capo dei servizi di vigilanza Ermanno Pellegrini; 1'8 dicembre di quella di Enrico Loriga, capo del personale; e infine il 25 gennaio '71 le 8 bombe alla pista di Lainate. Lotta continua prende le distanze «noi crediamo che azioni del genere [...] siano sbagliate [...]» ma non elude la questione della lotta armata: «l'organizza-zione militare delle masse non si costruisce perché alcuni gruppi cominciano ad attuare azioni militari [...]. Si costituisce a partire dalla realizzazione di organismi politici di massa stabili e autonomi» 31. La lotta armata viene assunta, dunque, come tema ineludibile per le organizzazioni rivoluzionarie, il problema è il dibattito sui modi e sulle forme.Nelle piazze Lotta continua si scontra con la polizia. Dietro la parola d'ordine dell'antifascismo militante prosegue un continuo stillicidio di atti di violenza. Sul giornale non si perde occasione per documentare l'azione del neosquadrismo e per enfatizzare la lotta dei propri militanti e la dura repressione cui sono sottoposti32. Nella sua rincorsa sovversiva Lotta continua sembra anticipare le altre formazioni dell'estremismo. Lo slogan è «irlandizzazione» delle lotte. Iniziano le attenzioni critiche ai Gap. L'interesse si accompagna alle osservazioni polemiche. Per comprendere la natura della disputa è interessante soffermarsi su un tema ricorrente nella pubblicistica delTestre-mismo: «le basi rosse». Scrive «Lotta continua» nel giugno '71 :«La costruzione di "basi rosse" cioè di un retroterra politico organizzativo a partire dal quale si sviluppi la lotta armata, è indispensabile per chi vede la rivoluzione come guerra di popolo, come processo di lunga durata e non come sollevazione insurrezionale». E prosegue: «questa retrovia della lotta armata non può più essere l'Autonomia operaia come si

è andata sviluppando...» 33. E troppo poco perché i proletari sentano il bisogno di impugnare le armi per difenderla, è troppo precaria per resistere a tutti gli attacchi che il padrone le sferra contro, è troppo limitata rispetto alle forze proletarie che la rivoluzione dovrà mobilitare per vincere. Di «basi rosse» in quello stesso periodo parlano con accenti diversi Potere operaio, i Gap e le Br. Quello che sembra essere la preoccupazione prevalente di Lotta continua e dello stesso Potere operaio è coniugare lotta armata e movimento, saldare politica e militarizzazione. Attorno a questo snodo decisivo si svilupperà il sinuoso andamento e la crescita del sovversivismo rosso.Per il gruppo di Sofri è proprio dentro il movimento che si realizzano i presupposti per dispiegare la rivolta di massa contro lo Stato. Nelle dinamiche concrete dello scontro, infatti, si viene sempre di più a realizzare quella coincidenza fra «avanguardia politica» e «avanguardia militare», espressione della fase di «maturità» cui è giunta la lotta. Ed è questo passaggio che impone ai militanti la coerenza fra la propaganda di massa, lo smascheramento del revisionismo e «la spiegazione, l'educazione e l'organizzazione delle masse sul terreno della forza diretta della violenza di classe». Nella sua suggestione illegalista, quasi impossibilitata a esprimere una secca condanna per effetto delle sue elaborazioni sull'autonomia. Lotta continua inizia il suo equivoco pendolarismo nei confronti dei primi inquietanti episodi di terrorismo.Rovesciando la posizione assunta sulle bombe di Lainate prima azione firmata dalle Br, l'esecutivo milanese del gruppo considera il sequestro di Idalgo Macchiarmi, dirigente della Sit Siemens, un atto «coerente» con la volontà delle masse considerate ormai pronte a sviluppare la lotta di classe sul fronte della violenza illegale 34. All'insegna di una fantomatica «giustizia proletaria», il foglio quotidiano «Processo Valpreda», assimilando il sequestro Macchiarini a quello di Robert Nogrette, dirigente della Renault, scrive: «la giustizia rivoluzionaria comincia a far paura - viva la giustizia rivoluzionaria» ".Sono emessi 11 mandati di cattura nei confronti dell'esecutivo milanese, l'accusa è istigazione a delinquere. L' 11 marzo '72, incuranti del divieto, oltre diecimila militanti si radunano nei pressi della manifestazione «autorizzata» del Movimento sociale, scandiscono gli slogan «Valpreda libero subito! La strage è di Stato! Spazziamo via i fascisti!». Per quattro ore scontri duri con la polizia al quartiere Garibaldi. Lotta continua partecipa insieme ad Avanguardia operaia, Potere operaio, Gruppo Gramsci, i militanti della IV Internazionale, il Collettivo autonomo di Architettura e Viva il comunismo. Non aderiscono al Comitato nazionale di lotta contro la strage il Manifesto e l'Unione dei comunisti italiani. Un candelotto lacrimogeno sparato dalla polizia uccide il pensionato Giuseppe Tavecchio, bombe molotov sono lanciate contro la sede del «Corriere della sera». Per Lotta continua vi è un rapporto inscindibile fra la «battaglia di piazza» sostenuta contro la «pretesa dello stato di polizia» di impedire il «diritto all'esistenza politica» delle avanguardie rivoluzionarie e la necessità di rappresentare con la «forza dell'organizzazione» i bisogni proletari contro la crisi e per la ripresa delle lotte operaie in fabbrica e nella società. Un rapporto che «colpisce al cuore la strategia repressiva».La morte

di Feltrinelli, anche in considerazione delle posizioni assunte da Potere operaio, impone al gruppo un'ulteriore accelerazione verso le posizioni della lotta armata. Avanguardia operaia, anche se riconosce le diverse accentuazioni, attacca Lotta continua e Potere operaio dichiarando avventuristica la loro esaltazione di azioni militari esemplari del tutto separate dalla lotta di classe. Lotta continua solidarizza con Potere operaio affermando «qualunque tentativo poliziesco e giudiziario di colpire Potere operaio colpisce alla stessa maniera noi» 3&.Il questore Ferruccio AUitto Bonanno nel rapporto Milano:attività dei gruppi extraparlamentari, inviato al Ministero degli Interni il 15 luglio, così descrive Lotta continua: «Attualmente ha una consistenza di circa millecinquecento aderenti ai quali vanno aggiunti centinaia, se non qualche migliaio, di simpatizzanti del Movimento studentesco [...]. Lotta Continua sostiene che le strutture borghesi devono essere combattute senza timore, determinando al più presto le condizioni necessario per trascinare nella lotta i vari ceti popolari. Certamente Lotta continua è il gruppo che più scopertamente ha portato avanti le sue istanze rivoluzionarie, ponendo in essere azioni materiali del tutto incompatibili con le norme di diritto che regolano Fattuale società» 37.Intanto aumentano, i dissensi interni; a nulla servono le mediazioni della III conferenza d'organizzazione. L «autonomia» diventa il grimaldello delle microscissioni a cui segue il poliforme articolarsi delle sue trame organizzative. A Milano tra il '72 e il '73, l'assemblea autonoma dell'Alfa rompe con Lotta continua e con i vari gruppi che hanno preso parte e sono stati interni ali esperienza. L assemblea rifiuta la logica dell'inter-gruppo. Fra bisogno del partito e movimentismo la contraddizione non è sciolta: «Noi abbiamo posto alcune discriminanti; non crediamo che il partito operaio rivoluzionario possa formarsi nel modo tradizionale: gli intellettuali che danno una linea che poi scende nelle fabbriche a cercare le avanguardie che portino avanti questa linea. Questo non è possibile» 38.Se il gruppismo post-sessantottesco cerca di darsi un assetto «partitico», l'autonomia, al contrario, non vuole separarsi dalla fluidità etereogenea di un movimento che considera sempre più disponibile allo scontro, in cui avverte l'esistenza di un bisogno eversivo che vuole sfruttare per distruggere un' obsoleta concezione della lotta di classe regolata o in dialettica con le leggi del progresso capitalistico. In varie situazioni locali si avvia l'erosione del gruppo; mentre attorno al giornale «Rosso» cresce il processo di centralizzazione dell' Autonomia. Si criticano aspramente le sottovalutazioni di quelli che vengono definiti i «compiti di dirczione politica da parte dell'avanguardia rivoluzionaria sul movimento» e le nascenti attenzioni che si manifestano nei confronti delle contraddizioni interne alla sinistra e in particolare al sindacato. Contro queste suggestioni e scivolamenti che per i settori più oltranzisti porterebbero il gruppo nell'orbita del revisionismo, si proclama come continuità con la propria origine la validità della nozione di autonomia e la forza intrinseca alla cultura e alla pratica del rifiuto. La polemica investe il tentativo di revisione che percorre Lotta continua. Se ne contestano: il gradualismo nella concezione del processo rivoluzionario; le tesi secondo cui i rapporti di forza internazionali e interni non

consentirebbero nel medio periodo uno sbocco rivoluzionario, da cui deriva l'attesismo nella lotta contro il potere e la maggiore attenzione all'azione verso le istituzioni, sia pure in vista di uno scontro futuro. In sostanza, secondo queste critiche, Lotta continua rimanderebbe a «prospettive fantasiose compiti che sono dell'oggi, "al contrario" si tratta di scuotere in modo generale l'assetto dello stato e delle sue istituzioni». Non si vince lo scontro in atto con parole d'ordine come: «Fuori legge il Msi», «Sciogliere il Sid», ne con gli scioperi per la contingenza e contro l'attacco all'occupazione. Certo occorre anche avanzare e conquistare questi obiettivi, ma la condizione essenziale è lottare per scontri decisivi in fabbrica e costruendo non solo «rapporti di forza più favorevoli, ma una di-rezione politicomilitare della classe». Nell' incertezza della prospettiva, nell'ossessione di rimanere prigionieri di analisi che possono convergere con quelle dei revisionisti, la discussione interna è aspra e il gruppo è sottoposto a spinte contrastanti. La polemica toccherà l'apice nel '75 a ridosso della convocazione del primo congresso nazionale di Lotta continua.Dal convegno di Torino dell'aprile '73 verrà la riprova del travaglio del gruppo. I materiali preparatori e lo svolgimento dei dibattito tentano una rilettura complessiva dell'intervento nelle fabbriche: si esprime la volontà di uscire da ogni pragmatismo e, sia pure in modo discutibile, si cerca una legittimazione che vada oltre il contingente del «movimentismo» 39. Intanto alla sua «sinistra» già si sono avute le prime principali defezioni. I militanti più oltranzisti hanno denunciato le morbidezze del gruppo e fatto altre scelte.

5. La Commissione carceri

Fra i settori di intervento su cui si concentrano l'attenzione e l'impegno di Lotta continua, la «questione carceri» acquista un particolare rilievo. Il tema è già presente nelle lotte del Ses-santotto e fa parte integrante della cultura del movimento. Rientra a pieno titolo in tutto il filone delle marginalità sociali a cui le riviste hanno dato ampio risalto. Per i nuovi ribelli non esiste devianza che non sia recuperabile alla lotta contro quella società capitalistica che, dopo averla prodotta, se ne vorrebbe liberare ghettizzandola. Con maggiore coerenza rispetto ad altri gruppi, Lotta continua da forma organizzata al lavoro interno-esterno alle carceri portando avanti un'intensa e sistematica opera di politicizzazione. Sin dai primi numeri il giornale da ampio risalto alla situazione dei vari istituti penitenziari, fornendo ampi resoconti delle rivolte carcerarie. Nella primavera del 1971 nasce la Commissione carceri.Molti militanti hanno transitato per le camere di sicurezza delle questure, hanno scontato brevi o più lunghi periodi di prigione, molti sono in attesa del processo. Il militante ha conosciuto la condizione carceraria e ha vissuto, col fervore ideologico di quegli anni, insieme a detenuti comuni. «Finire in galera» è quasi una medaglia, un attestato alla propria milizia. L'«eroismo» del combattente rivoluzionario si fa pedagogia; con curiosità e interesse l'ex studente ormai divenuto quadro di partito si avvicina al detenuto comune per convertire il suo istintivo ribellismo alla causa della rivoluzione. Nelle carceri si sviluppa una vera e propria pratica politica che mette alla prova le teorie di Fanon sui «dannati della terra», che si illumina di slancio ideale richiamandosi ai «Fratelli di Soledad».Siamo agli inizi degli anni settanta e la riforma carceraria è ancora un'utopia; del tutto incivile e arretrata si presenta la condizione del detenuto. Nei vari istituti di pena si formano nuclei e collettivi di discussione legati a Lotta continua. Il giornale pubblica lettere e testimonianze dirette, da voce alle rivendicazioni singole e collettive dei detenuti. Da vigore a questo impegno organizzativo e politico il susseguirsi delle rivolte carcerarie.Lotta continua non è la sola organizzazione dell'estremi-smo a seguire quello che accade nel mondo carcerario. «Nuova resistenza» di Renato Curcio nel suo ultimo numero, ali'inizio del '71, così commenta la rivolta delle Nuove di Torino: «La rivoluzione moderna accumula i suoi elementi pescando nel torbido, avanza per vie traverse e si trova degli alleati in tutti coloro che non hanno nessun potere sulla propria vita e lo sanno [...]. Il gesto "criminale" isolato, il furto, l'espropriazione individuale, il saccheggio di un supermercato non sono che un messaggio ed un accenno del futuro assalto proletario alla ricchezza sociale [...]. In una società in cui la legge è

l'espressione della classe dominante, quella borghese, in una società in cui i proletari sono criminali, le galere si riempiono di proletari. Ma ormai da tutti i luoghi della segregazione sale la minaccia mortale alla totalità delle condizioni esistenti [...]. La rivolta delle carceri non è la crisi del sistema "carceri" in questa società, ma la crisi di questa società che si manifesta inizialmente nei settori più separabili della sua organizzazione (ghetti, carceri, manicomi, bidonvilles, i quartieri di Sbarre e di S. Caterina) [...]. I detenuti sono i negri della società di classe. Accantonati dal lavoro ed esclusi dal consumo essi ripagano tutto ciò con il rifiuto del lavoro e con la sete spaventosa del consumo assoluto: il bisogno di riprendere tutto. Questi uomini potrebbero saccheggiare per dieci anni e non riprendere la metà di quello che gli viene quotidianamente sottratto [...]. La "feccia" della società è così l'a-vanguardia della rivoluzione» 40. Dunque il riconoscimento di un nuovo soggetto del processo rivoluzionario che prende le mosse da nuove inquietanti dinamiche sociali. Esempi clamorosi sono le rivolte del Meridione e, su un piano diverso, l'impres-sionante aumento di criminalità che si realizza in quegli anni. La vicenda di Sante Notarnicola, ex componente di quella banda Cavaliere che aveva gettato nel terrore la città di Milano, fa molto discutere. Le sue dichiarazioni, al processo che si svolge nel 1971, hanno il tono del proclama rivoluzionario, la testimonianza diretta di una trasformazione individuale: da criminale a rivoluzionario. Nella prefazione all'autobiografia di Sante Notarnicola, pubblicata nel 1972 per le edizioni Feltrinelli, Pio Baldelli così sintetizza il processo di politicizzazione che si sta verifìcando nelle carceri italiane: «Nelle carceri due linee di lavoro politico procedono parallele senza incontrarsi (l'incontro avviene solo in casi di emergenza). Per un verso, "la rivolta" che propone uno scontro immediato e punta sull'insofferenza dei ragazzi più giovani, provenienti quasi sempre dai settori di mobilità di classe, ragazzi che entrano ed escono dalle galere;per l'altro verso 1' "organizzazione" ossia il momento sindacale rivendicativo che ha come protagonisti i detenuti politici o detenuti che hanno parecchi anni di carcere che tenta di impostare un lavoro organizzativo a lunga scadenza capace di cogliere una serie di nodi centrali...»41.Lotta continua si colloca al centro di questo parallelismo, tende a organizzarsi per affrontare i vari aspetti del problema, incoraggia ogni occasione di protesta e di rivolta. Nascerà da questa contraddizione il sentimento di delusione che progressivamente sposterà su un terreno sempre più oltranzista alcuni dei militanti più attivi della commissione carceri, fino al loro approdo alla lotta armata con la costituzione dei Nuclei armati proletariiVengono raccolti numerosi materiali, le denunce dei nuclei interni e la puntuale radiografìa della condizione carceraria. Documenti che saranno pubblicati, nel giugno del '72, nel volume Liberare tutti i dannati della terra. Nella prefazione si chiarisce l'intento pedagogico di Lotta continua: «trasformare le galere da scuole di delinquenza e di individualismo a scuole di lotta contro i padroni, scuole di comunismo...». Dopo le elezioni del giugno '72 la legge Valpreda consente a molti detenuti di lasciare il carcere. Per Lotta continua crescono le difficoltà. Le prospettive rivoluzionarie indicate sono del tutto astratte,

hanno creato aspettative che non si è in grado di risolvere. Descrivendo questa fase Alessandro Sii] scrive: «Al tempo stesso, l'appari-zione di tutti questi ex detenuti, sbandati, alla ricerca di un tetto e di una parola d ordine che dia loro un segnale della rivoluzione, mette in crisi i militanti di Lotta continua. Dubbi mai interamente sopiti esplodono. La crisi diventa reale, quando, scaduti i termini della scarcerazione, molti ex detenuti decidono di darsi latitanti. Ecco che diventano compagni che scottano, che possono veramente "compromettere" l'organizzazione. Che cosa farne? I malintesi si ingrandiscono; il solco tra chi vuole buttarsi nella mischia e chi opera nella legalità si approfondisce. Certi compromessi e certe sfumature, pure possibili sulla carta nella realtà si rivelano improponibili» 42.AU'inizio del '73, per effetto della cosidetta legge «Valpreda», Luca Mantini torna libero: ha scontato solo nove dei tren-tadue mesi di condanna attribuitigli per i fatti di Prato. Nel-l'aprile '72, in seguito ai violenti scontri fra fascisti ed extraparlamentari, era stato arrestato insieme ad altri due militanti di Lotta continua. Le posizioni del gruppo non lo convincono più; dopo 1 esperienza in carcere la sua linea gli appare astratta e troppo distante dall'immediatezza dei problemi più acuti. Esce da Lotta continua e a Firenze entra a far parte di un collettivo carceri, postazione da cui nel '74 formerà il collettivo Jackson e infine, insieme a Sergio Romeo e Fiorentino Conti, fonderà i Nap.Proseguono le rivolte. L'originaria parola d ordine «liberare tutti» si sfuma. Lotta continua si acconcia a una linea più accomodante. Sceglie, più realisticamente, di concentrare la sua attenzione su una serie di rivendicazioni che, commisurate alla radicalità iniziale, per alcuni militanti, hanno il sapore della revisione riformista: diritto di assemblea, assistenza legale, condizioni igieniche, diritto al lavoro, qualità di rapporti con lester-no, diritti sessuali dei detenuti. In questa fase di transizione si incontrano fra loro figure diverse di militanti. Alcuni si sono formati nella milizia politica come Luca Mantini e Fiorentino Conti, altri come i fratelli Abbatangelo e Sergio Romeo dalla criminalità sono passati alla politicizzazione. La marginalità sociale si da una spiegazione politica della sua condizione ed origine, ma non abbandona la sua radicalità anzi l'estremismo finisce con 1 esaltarla in una drammatica finalizzazione. Contemporaneamente la milizia politica si appropria della violenza armata come scelta risolutiva.Sergio Romeo: alletà di 13 anni le prime reclusioni in riformatorio, una vita difficile di ragazzo emarginato del Meridione. In carcere rincontro politico con l'anarchico Giovanni Marini, detenuto per omicidio. Il 7 luglio 1972 a Salerno, infatti, Marini era stato aggredito da una squadra armata fascista; durante lo scontro era rimasto ucciso il fascista Carlo Favella. L' anarchico esercita un forte fascino sul ragazzo, per Sergio Romeo è l'occasione delle prime letture politiche. Uscito dal carcere, l'impegno attivo cresce insieme alla passione politica. Dopo un breve incontro con la redazione romana della rivista «Rè Nudo», a cui l'ha indirizzato lo stesso Marini, Romeo si trasferisce in cerca di lavoro in Belgio. Intesse rapporti con alcuni militanti della IV Internazionale, e sarà proprio la politica la causa della sua espulsione dal paese. Tornato in Italia, è a Napoli dove dirige il servizio d'ordine di Lotta continua e si

attivizza nella Commissione carceri.Per tutto il 1973 nel paese cresce la violenza politica diffusa. Lotta continua è presa in una duplice morsa, cavalca il sovversivismo di piazza all'insegna dell'antifascismo militante e al tempo stesso si avvita nel dibattito sulle forme della lotta armata. A marzo, in presenza del sequestro Macchiarini, l'organizza-zione sembra prendere le distanze dal terrorismo. Torna indietro rispetto alle precedenti esaltazioni del sequestro Mincuzzi. Potere operaio è pronto a sottolineare criticamente la revisione di Lotta continua: «per giustificare la propria scelta di un diverso referente di organizzazione (in particolare i delegati della sinistra sindacale) si inventa che il movimento è in una situazione troppo diffìcile, che è necessario attestarsi sulla difensiva, il che è come dire che ci si deve fermare a due passi dalla sconfitta...». E prima ancora, nello stesso articolo, «Potere operaio» ricorda a «Lotta continua» i suoi precedenti e i suoi slogan: «Che altro è l'assenteismo, il sabotaggio, il corteo violento, la funzione quotidiana dei capi (...) se non la pratica materiale che sottrae la ristrutturazione dalle mani del padrone sul suo stesso terreno, quello del comando?...» 43. Un invito alla coerenza quello di Potere operaio! Si può discutere e si deve discutere sulle Br e sui loro metodi, ma una cosa è certa: esse cercano di dare una risposta al problema della lotta armata.Anche sul fronte delle carceri prevale il ripensamento critico di Lotta continua. Sarà la crisi della Commissione carceri. Dopo aver osannato la teppa ribelle, il gesto violento, l'esproprio e la rapina, è difficile tornare indietro. Nella pubblicistica di Lotta continua i toni durissimi di «liberare tutti» si sfumano. Alla fine del '73 un nuovo testo sulla situazione delle carceri Ci siamo presi la libertà di lottare è molto più cauto. Un ripensamento autocritico che assume il terreno delle riforme come aspetto qualificante delle lotte del movimento dei detenuti. Ma per molti militanti la situazione è già a un punto di non ritorno.I Nap, nel loro primo documento programmatico del marzo '74, commentando questa fase scrivono: «Si sentiva infine l'esigenza di strumenti e strutture (ma queste cose vanno conquistate) clandestine, atte a sottrarre alla giustizia borghese i compagni proletari indebitati con essa, e quindi lo scioglimento della commissione carceri che esisteva, per ricostituirla su un piano proletario, dotandola cioè di strutture autonome e clandestine (cosa che noi ora stiamo facendo)» w.Lotta Continua respinge la proposta dei suoi settori più intransigenti di darsi una struttura clandestina, una scelta che riguarda sia il settore carceri che l'insieme delle lotte, nelle fabbriche come nei quartieri. Un ripensamento tardivo, ancora pieno di incocrenza e oscillazioni, che crea disillusione, scarto fra la violenza verbale e la pratica. Per quello che riguarda il mondo carcerario la riflessione investe le forme di lotta interna e in particolare denuncia come dannoso l'uso della violenza: una scelta che porterebbe solo all'insuccesso e al fallimento.Sono ancora i Nap nel loro documento programma, a sottolineare il divario ormai prodotto dal male oscuro del sovversivismo. Riferendosi al clima interno alle carceri scrivono: «Queste lotte espressero dall'interno delle masse detenute vere e proprie avanguardie militari che si posero alla testa delle rivolte a dirigere ed organizzare la resistenza e

l'attacco. Giorni e giorni di lotta, con barricate, bottiglie incendiarie di alcool, candelotti fumogeni sottratti ai celerini e ambulatori all'interno dei padiglioni per curare i contusi. Lotte di massa per la libertà, per la scoperta della propria dignità umana e sociale. Il dato fondamentale che si era impresso in ciascuno di noi in quei giorni, e che tutti indistintamente avevamo vissuto, era la presa di coscienza di essere stati vivi nella violenza collettiva, organizzata di aver vissuto un momento — giorni e notti — di libertà, conquistata attravreso l'autodeterminazione e l'autogestione; la coscienza di aver superato le divisioni interne determinate dalle differenziazioni dei reati; cioè la coscienza di aver superato il nostro decadimento di classe, morale e sociale, attraverso l'acquisizione del dato di una unica realtà di miseria e corruzione che ci accomunava, nella scoperta di essere semplicemente — contro l'astrazione borghese della delinquenza comune — soltanto dei proletari particolarmente oppressi perché emarginati e umiliati da secoli di storia borghese [...]. Noi entriamo nella storia rivoluzionaria in qualità di proletariato, perche "popoliamo" le carceri che sono senz'altro l'abitazione di carattere definitivo e irreversibile destinata al proletariato del mondo capitalistico» 45.Attraverso vari passaggi Lotta continua precisa i termini della nuova fase respingendo nel suo convegno nazionale del dicembre '73 le tentazioni alla clandestinità e la riduzione del lavoro politico ai moduli dell'illegalità. La rottura è inevitabile. Inizia il lavorio che porta alla costituzione dei Nap. Sulla loro formazione influirà lo sviluppo delle azioni delle Br e la natura della discussione in atto sul partito combattente e sulla violenza armata. I vari collettivi carcere si distaccano da Lotta continua, non si riconoscono più ne nel suo farsi partito ne nei suoi moduli organizzativi.Luca Mantini troverà la morte nell'«esproprio» di autofinanziamento alla Cassa di Risparmio di Firenze. Attorno ad Anna Maria Mantini, sorella di Luca, si formano nuove condizioni organizzative. Saliranno alla ribalta della cronaca come organizzazione terroristica il 7 maggio '75 con il sequestro del magistrato Giuseppe Di Gennaro, direttore dell'Uffìcio ricerche e studi del Ministero di grazia e giustizia. L'azione è gestita in concomitanza con la rivolta del carcere di Viterbo. La liberazione del magistrato avverrà dopo 5 giorni di sequestro-processo e sarà condizionata al trasferimento in altro carcere dei nappisti Mario Zicchitella, Pietro Sofia e Giorgio Panizzari.

6. Partito o movimento?

Il '72 è stato un anno complesso per Lotta continua: lo scontro nel comitato per la strage di Stato, le posizioni assunte di fronte alla morte di Feltrinelli, le vicende che seguono l'ucci-sione del commissario Calabresi, l'inquietante accreditamento del sequestro Macchiarmi. La gruppettistica appare invecchiata di fronte alla natura dei nuovi conflitti, il sovversivismo non governa più i mostri che essa stessa ha creato. Guido Viale così commenta questa fase della storia del gruppo: «AU'inizio del 1972 Lotta continua non è più che il fantasma di se stessa. La sconfìtta dell'autonomia operaia alla Fiat le ha tolto ogni ragione di esistere. Risorge dalle sue ceneri radicalmente trasformata. Un dibattito sulla violenza la porta a rompere i ponti con il nascente terrorismo. Uno sull organizzazione la conduce, correttamente ad individuare nei delegati lo strumento di riunificazione della classe: tra i nuovi operai, protagonisti delle lotte autonome e quelli tradizionali, base della forza organizzata del Pci. Infine un dibattito sulla tattica la porta a vedere nella conquista della maggioranza (cioè della base sociale del movimento operaio ufficiale) il compito principale di questa fase della rivoluzione. Questo dibattito sfocia nella formula del "Pci al governo" »46. Ma la transizione è lenta e non indolore, lungo la strada molti i distacchi, le polemiche e le brusche involuzioni.«Contro il governo del fermo e dell'omicidio di polizia con i metalmeccanici» scrive «Lotta continua» lanciando i suoi slo-gan: «via la polizia dalle fabbriche, no ai licenziamenti, al carovita, all'attacco alla libertà di sciopero, no alla divisione fra "pubblici" e privati, no alla "piena utilizzazione" della fatica di chi lavora» 47. Le forze del gruppo si sono molto assottigliate. Fra l'altro, come si riconoscerà nel convegno di Torino del-l'aprile '73, non e'è convinzione sulla possibile ripresa del movimento. Un fraintendimento che nasce dall'incapacità a comprendere quello che sta accadendo in fabbrica e in particolare, come si dovrà ammettere, nel rapporto sindacati-lavoratori attraverso i consigli dei delegati.Alla Fiat la lotta è dura. Agnelli, utilizzando il quadro politico conseguente alla formazione del governo Andreotti-Malagodi minaccia unondata di licenziamenti; 600 denuncie colpiscono i lavoratori, riprendono le manifestazioni di piazza. Dopo il loro totale passaggio alla clandestinità, a Torino ricompaiono le Br: «Schiacciamo i fascisti a Mirafiori e Rivalla, cacciamoli dalle nostre fabbriche e dai nostri quartieri!». In fabbrica si succedono cortei interni, la polizia denuncia 800 operai, Agnelli licenzia 5 lavoratori. L'accordo contrattuale, strappato dal sindacato, è duramente contestato da Lotta continua. Sfruttando zone di parziale malessere, tensioni interne, divisioni nello stesso estremismo sulle forme di lotta,

tornano le Br che incendiano sei auto di dirigenti del sindacato giallo. Il 23 gennaio '73 muore a Milano, nel corso di una manifestazione, lo studente Roberto Franceschi. Nuovi scontri a Torino: la polizia spara contro un corteo che protesta per la morte del giovane. AH'indomani 25 mandati di cattura, fra questi Guido Viale, della segreteria nazionale di Lotta continua.Tra rappresaglia padronale, mobilitazione operaia, durezza dell'intervento della polizia, nella peculiarità della situazione Fiat si colloca il sequestro-gogna del sindacalista della Cisnal, Bruno Labate. «Lotta continua» mutando posizione rispetto al caso Macchiarmi, definisce nell'articolo Non basta mordere l'azione «irresponsabile ed esibizionistica». E polemica aperta con «Potere operaio». Il gruppo di Sofri, tuttavia, rimane in un'area di confine, denuncia l'azione ma non la lotta armata, contesta il carattere esemplare del sequestro, ma rimanda ad un' azione militare fondata su un generico, quanto assurdo, programma complessivo; un'ambiguità che gli consente di galleggiare sulla crisi del «gruppismo». L'approccio di Lotta continua al tema della violenza rimane confuso, provoca le prime delusioni come nel caso della Commissione carceri, ma lascia ancora margini, non tronca definitivamente col mito della lotta armata e della sovversione; seguiranno altre delusioni e insieme altri distacchi come nel caso dei transfughi di Prima linea.Sul giornale proseguono le adesioni all'appello per l'immediata scarcerazione di Guido Viale, definito «intellettuale e militante marxista» 48. Per replicare contro la «provocazione di Stato contro Lotta continua» e contro la «fascistizzazione», il gruppo lancia una serrata offensiva nelle fabbriche e nelle scuole. Il comitato centrale del Pci è durissimo nella critica alle parole d'ordine e alle caratteristiche di una mobilitazione in cui permangono forti tratti di illegalismo. Diverso è l'orientamen-to delle organizzazioni giovanili dei partiti di sinistra. Per la Fgci, la solidarietà al gruppo si esprime spesso in atteggiamenti individuali e periferici, mentre più complessa si presenta la posizione della Fgsi. Nel loro congresso nazionale di Venezia nel '73 i giovani socialisti mostrano interesse e apertura, Lotta Continua dal canto suo commentando il «libertarismo» di provenienza socialista scrive: «"al libertarismo" anche nella sua accezione riduttiva, non ci sputiamo su, anzi: sia che si tratti del rigore della protesta contro i meccanismi repressivi, sia che si tratti della motivazione a un antifascismo militante, sia che si tratti della sensibilità a rivendicazioni "civili" che non sono affatto contrapposte o estranee ad una battaglia di classe, dal divorzio all'aborto, all'antimilitarismo ecc., temi che hanno contraddistinto positivamente i compagni radicali» w. Si avvia la polemica fra le organizzazioni giovanili della sinistra tradizionale. Apparentemente l'analisi della Fgci sembra rimanere termalmente ancorata alla lettura operata dal partito, ma anche fra i giovani comunisti è in corso un ripensamento per effetto delle modifiche che stanno intervenendo nellestremismo. La svolta verrà coi comitati unitari di base, una svolta sofferta e portata avanti fra molti sbandamenti.Seguendo il percorso di Lotta continua, il '73 è un anno di aspre lotte articolate su fronti diversi mentre nel paese cresce l'opposizione al governo Andreotti-Malagodi. Il giornale è un bollettino di guerra: appelli alla

scarcerazione dei compagni arrestati, notizie di cariche e aggressioni poliziesche, notizie sulle trame di Stato.Renzo Imbeni, segretario nazionale dell'organizzazione giovanile comunista, commentando le ipotesi di rifondazione dei giovani socialisti e le loro «simpatie critiche» nei confronti dell'estremismo respinge duramente le accuse mosse al Pci di «insensibilità democratica». Durissima la replica di Lotta continua: «Guido Viale è in galera. Tonino Miccichè operaio comunista è in galera, Manconi, Aromando, Ferino, Collo, Costanzia, Malone, Natale, militanti comunisti sono in galera. E ce nesono tanti altri. Quando Cossutta chiede al ministro di polizia di "agire contro gli estremisti" sta "favorendo oggettivamente l'azione repressiva"? L'unico dubbio riguarda il termine oggetti-vo» 50. Non solo il numero degli arrestati ma anche i morti nelle manifestazioni sono una drammatica componente della lotta operaia. Le cicatrici ideali sono profonde, per alcuni militanti saranno inguaribili. Roberto Franceschi è stato ucciso dalla polizia. A Napoli, nel corso dello sciopero del 21 febbraio '73, la polizia riduce in fin di vita il diciannovenne Vincenzo Caporale. Assente alla manifestazione la Fgci, al contrario vi ha aderito la Fgsi. Dal corteo si leva lo slogan: «il Pci non è qui, fa la corte alla De» 51. Mentre Vincenzo Caporale lotta contro la morte, nelle grandi città nuove manifestazioni. Drastico, il commento di «Lotta continua»: «La politica parlamentare e la politica della lotta di massa seguono ormai due percorsi opposti» 52.A Milano le forze politiche democratiche chiedono di regolamentare l'agibilità nell'università, ma l'assemblea promossa dal Comitato interpartitico per i problemi per l'università non si dimostra un'iniziativa di successo, anzi accentra ulteriormente la separazione fra movimento studentesco e forze politiche 53.Salvatore Toscano, leader del Movimento studentesco milanese, è arrestato alla vigilia dello sciopero nazionale della scuola indetto per il 21 febbraio 1973. Fra i gruppi la polemica non è più solo verbale: a Genova si parla di scontri a fuoco fra Stella rossa e Lotta continua, a Torino gruppi «comontisti» provocano la rissa entrando nella locale sezione di Lotta continua. La situazione interna al gruppo è molto mossa, accanto ad un oltranzismo duro a scomparire, si affacciano segni di ragionevolezza politica. Espressione della riflessione in atto, prendono avvio alcuni tentativi di raccordo con le istituzioni e con le forze della sinistra tradizionale; un esempio la manifestazione di Torino del 10 marzo, trentennale degli scioperi del '43.Dalle fabbriche numerosi segni di malessere. Le assemblee autonome hanno espulso i militanti del gruppo, il sindacato sembra manifestare una crescente capacità di ripresa e di iniziativa. E possibile continuare a ignorare la questione «delegati»? Fra l'altro numerosi operai aderenti a Lotta continua sono già impegnati nei Consigli. Come debbono regolarsi i militanti del gruppo: essere interni, stare dentro ma non dichiararsi, stare fuori perdendo ogni rapporto con i lavoratori?La lettera di un operaio a «Lotta continua» rende pubblico questo disagio. E l'occasione per aprire un dibattito, che troverà una sua parziale sistematizzazione nel convegno di Torino del 14-15 aprile '73. L'iniziativa si colloca sul crinale di un'ampia revisione del lavoro di Lotta continua. Punti fondamentali della conversione: la questione dei delegati e il rapporto con la

sinistra. Avvicinamenti che, senza sottovalutazioni sulla loro attendibilità, contengono una forte dose di tatticismo conseguenza dello stato di difficoltà reale che attraversa il gruppo. Complementare alla riflessione politica la questione partito: «Lotta continua riscopre — senza formule — il "leninismo" e il centralismo democratico. E senza dirlo, si costituisce in partito» 54.NelTautunno '73 il dramma cileno. Lotta continua segue con attenzione la vicenda, per i teorici del gruppo è la conferma dell'impraticabilità di ogni linea di confronto. AUende è rimasto prigioniero dell'utopia della ragione: contro i nemici di classe e la De non e'è altro che la forza. Il gruppo lancia una sottoscrizione per le armi al Mir, organizza manifestazioni e convegni, pubblica documenti della resistenza cilena.Continua inesorabile il lavoro dell'Autonomia, una programmatica disarticolazione del gruppismo tradizionale; nell'a-gosto si svolge il convegno di autoscioglimento di «Potere operaio» e attorno a «Rosso» quindicinale prende corpo un nuovo modello d'organizzazione. La riflessione politica in corso non argina le fughe dal gruppo, lo strabismo fra una linea troppo inquinata da tatticismi e l'ostinata rincorsa al sovversivismo non attenua i contrasti ma al contrario li accentua. Attraverso il movimentismo di Lotta continua passano le suggestioni del-l'Autonomia, una condizione soggettiva e politica che facilita fluttuazioni e, in presenza di organiche convergenze teoriche, consente quelle più o meno deliberate coperture mimetiche che troveranno il punto di massima equivocità politica nella plumbea stagione del terrorismo.Nelle pubblicazioni dell'autonomia, «Rosso», «Rivolta di classe» e gli altri fogli locali, sempre più frequenti saranno i riferimenti alla variegata esperienza di Lotta continua: operaio massa, convenienza operaia, rifiuto del lavoro; l'attenzione alla marginalità sociale, alle carceri, alla violenza luddistica e antista-tuale fino all'elogio delle forme di violenza del terrorismo. Un assemblaggio che nasce dal fallimento politico-organizzativo del gruppismo e tenta di bloccarne ogni possibile riconversione.Dall'interno e dall'esterno, dunque, le molte insidie a cui è esposta Lotta continua. In questo accidentato percorso il suo farsi partito è fortemente osteggiato. A molti militanti, sembra un accomodamento per seguire su una linea moderata le altre formazioni dell'estremismo, Manifesto e Avanguardia operaia, che ormai sono diventate «ruote di scorta» del revisionismo.Sulla necessità di una svolta organizzativa, commentando la scelta compiuta da Potere operaio. Lotta continua aveva affermato: «Non si tratta della clandestinità proposta da Potere operaio nel suo convegno del '71, pur tuttavia di operare un salto qualitativo sul piano organizzativo, assicurando il massimo di centralizzazione col massimo di decentramento, avere una capacità di risposta di fronte alla svolta di destra in atto nel paese che tenderà sempre di più ad acutizzarsi» 55. Il gruppo di So-fri già sul finire del '72, nello scenario di un'ipotizzata «lotta dura e illegale contro lo stato, di fatto opera secondo lo schema del partito, sezioni, federazioni su base provinciale e regionale. La questione, tuttavia, rimane indeterminata e non troverà una sua sistematizzazione neppure nelle tesi che lanciano il primo congresso nazionale del partito, appuntamento più volte rinviato per il permanere di

aggrovigliati nodi non sciolti. «Negli anni scorsi il problema della costruzione del partito rivoluzionario ha ricevuto due risposte fondamentali. Una metteva al primo posto non la classe, ma la sua organizzazione storica, e vedeva la nascita del partito come il prodotto di una trasformazione o di una rottura all'interno delibrganizzazione storica del movimento operaio. Ignorando l'autonomia della lotta di classe, o considerandola subalterna rispetto ai suoi riflessi nella organizzazione tradizionale del movimento operaio, questa risposta metteva al primo posto una soluzione istituzionale al problema della fondazione del partito, da attuarsi attraverso ipotesi come il "recupero" del partito riformista, lentrismo, la scissione o la conquista di quote di controllo nel sindacato» 36.Criticata questa impostazione, da cui sono sorte formazioni guidate solo dal loro soggettivismo, Lotta continua non rinuncia alle ragioni di fondo che hanno animato la sua scelta di origine, non ignora il peso delle modificazioni nell'organizza-zione tradizionale della classe operaia, ma fonda la possibilità del partito sulle trasformazioni nella struttura, nella lotta e nella coscienza della classe. Il rifiuto di autoproclamarsi partito e il rifiuto di impegnare le nuove energie rivoluzionarie in una lotta interna al movimento operaio organizzato, secondo il giudizio del gruppo, si sono tradotti in un lungo periodo di costruzione di un rapporto con le masse, di stimolo all'espressione autonoma alla classe. La scelta di andare davanti alle fabbriche significava allora, il capovolgimento di una vecchia e stantia tradizione politica e restitutiva alla classe, fuori dal filtro delle sue consolidate rappresentanze politicosindacali, il ruolo di protagonista. Il parziale consolidamento di alcune formazioni a «sinistra del Pci, anche se altre, come nel caso di Potere operaio, si sono autosciolte per confluire nel magmatico campo dell'autonomia, non ha risolto il nodo ultradecennale del partito rivoluzionario contrapposto al Pci» 57, anzi, secondo Lotta continua, quest'ultimo si è dimostrato ancora in grado, insieme al sindacato, di una sua presa egemonica sulle masse. Rifiutata la tesi della risposta «istituzionale». Lotta continua rimane in bilico fra lo schema della costruzione del partito e il «mettere al primo posto il rapporto diretto con la classe». Ne intende seguire la strada scelta dal Pdup-Manifesto e da Avanguardia operaia che con la loro teoria della costruzione del partito, fondata sul modificarsi degli schieramenti istituzionali della sinistra, coltivano inutilmente l'illusione del coinvolgimento del Pci, del Psi, del sindacato, della «sinistra cattolica», e delle stesse organizzazioni extraparlamentari anch'esse ormai istituzionalizzate. Non si tratta dunque di avviare un processo di «rimescolamento della sinistra», di «aggregazione» o «unificazione» ma — come preciserà Adriano Sofri nella sua relazione al convegno del '75 — acquisire una «crescente conquista di un punto di vista del partito» da parte delle nuove avanguardie nel concreto dello sviluppo della lotta di massa. Permane quel pendolarismo fra «movimento» e «logica di partito» che offre il fianco alla permeabilità di Lotta continua ed è origine delle sue spregiudicatezze tattiche nei confronti della gruppettistica «istituzionalizzata». Mentre si assiste a quella che può considerarsi una vera mutazione genetica dell'estremismo, il pragmatismo e il movimentismo di Lotta continua, se sono le

ragioni che impediscono il raggiungimento di un orientamento univoco del gruppo, sono contraddittoria-mente l'effimera condizione del suo continuare ad esistere.Nelle federazioni si stanno discutendo i materiali preparatori per il congresso nazionale, quando sospinto dalla brutalità degli eventi il dibattito ripiomba sui temi della lotta armata. Nel dicembre '73 le Br rapiscono Ettore Amerio, capo del personale del gruppo automobili della Fiat, passano a una più raffinata gestione «politica» dei sequestri.In polemica col Manifesto e con Avanguardia operaia, Lotta continua non accetta di «buttare via con l'acqua sporca del-l'avventurismo piccolo-borghese il problema vivo e serio della violenza proletaria»; pur ammettendo che nelle Br vi sono «deviazioni militaresche piccolo-borghesi» non ha alcuna esitazione: le Br sono «di sinistra» 58. Significativo il giudizio espresso dalla rivista «Controinformazione»: «fra i vari organi di stampa, solo "Lotta continua" mantiene una sua autonomia rispetto alle veline del Ministero degli Interni». L'analisi sviluppata sul quotidiano del gruppo finisce così, al di là delle volontà soggettive, con l'essere del tutto organica all'azione delle Br, ne rappresenta, si può dire, l'aspetto propagandistico legittimandone le finalità politiche all'interno dello scontro di classe che è in atto alla Fiat. In sintonia con le Br la ricostruzione della carriera di Amerio, tappe sincroniche con la repressione operaia della fabbrica, dei suoi legami con l'organizzazione sindacale di destra. Si enfatizza il ruolo dell'autonomia operaia quasi a spiegare il clima che giustifica un'azione che cinicamente rientra nell'assurdo schema di una violenta «giustizia proletaria». Le accuse all'avanguardismo dell'iniziativa terroristica, definita come una «pazzesca distanza dalla lotta di classe e dalle sue scadenze», e alle esasperazioni militaristiche si riducono alla polemica su due diverse risposte da dare al comune problema del movimento rivoluzionario della violenza proletaria 59. Alternandosi nella sequenza degli eventi varie componenti si agitano nel gruppo senza trovare una loro sintesi: le spinte verso la militarizzazione e il movimentismo convivono con i tentativi di approccio al partito.Nella prima metà del '74 l'attività di Lotta continua come per il Manifesto e Avanguardia operaia si incentra sulla campagna referendaria; il «No» si carica di una forte valenza anticapitalista. Il «No» del 12 maggio è un voto rosso scrive «II manifesto» 60 e dopo il risultato Luigi Pintor commenterà «un 18 aprile rovesciato» 61. Per «Lotta continua»: «La lotta di classe ha costruito la sua maggioranza. Questa maggioranza deve battere i suoi nemici anche con il voto» 62.Nel difficile contesto della campagna elettorale, mentre la De di Pantani e la destra agitano il più vetusto anticomunismo, scatta il primo dei «grandi» sequestri, obiettivo il giudice Mario Sossi. Il magistrato è arcinoto alla sinistra extraparlamentare, protagonista dal '72 delle principali inchieste sulla «pista rossa». Il suo nome è legato all'arresto dell'avvocato Lazagna nel '72, alle rumorose e spavalde affermazioni sull estremismo, agli avvisi di reato per Franca Rame e Darlo Fo per l'assistenza ai carcerati e infine alla sentenza pronunciata nel processo contro il gruppo 22 ottobre 63. Proseguendo nel suo pendolarismo, con un nuovo aggiustamento di linea, anche da parte di Lotta

continua si leva una voce di condanna: «Questa azione ha uno squisito sapore di provocazione [...]. Si tratta di un personaggio scelto su misura per accreditare la tesi di un sequestro politico programmato e compiuto dalla sinistra» 64. Richiamandosi ai toni integralisti della campagna elettorale prosegue «che ad esso collaborino imprese firmate Br è un'aggravante di cui non si sentiva il bisogno a sinistra» ". Tuttavia la lettura complessiva della vicenda-sequestro è tesa a evidenziare il conflitto apertosi nell'apparato statale e nelle forze politiche, insiste sul concetto di un blocco dominante che puntando su una generale revisione autoritaria delle istutizioni persegue progetti d'ordine. Nel-l'intento di evidenziare contraddizioni dello Stato, anticipando l'atteggiamento che «Lotta continua» seguirà nel corso del sequestro Moro, il gruppo si dichiara per la linea della trattativa.Salutato il risultato del referendum come una vittoria anticapitalistica, espressione del potenziale rivoluzionario della società italiana, le successive elezioni regionali che si svolgono la settimana dopo in Sardegna segnano un radicale mutamento dell'atteggiamento astensionista del gruppo. Sviluppando ragionamenti già embrionalmente presenti nelle tesi, Lotta continua decide di votare per il Pci. Dalla gruppettistica un coro di critiche, nel dibattito fra Manifesto e Pdup la questione elettorale è ancora motivo di divergenze, il primo prudenzialmente cauto mentre il Pdup si era pronunciato sin dall'aprile per proprie liste; dissensi vengono dal Partito comunista (marxista-leninista) italiano che ha presentato proprie liste e durissimi i commenti dei trotskisti che denunciano la grave involuzione di Lotta continua. «Il manifesto» ironizza sulla «lotta interrotta». Avanguardia operaia giudica negativa la scelta, i trotstkisti dichiarano il gruppo «a rimorchio del Pci» 66; i radicali lo accusano di grave scorrettezza. Critiche che si aggiungono a una situazione già molto tesa nei rapporti dopo la decisione di Lotta continua di uscire dal comitato degli otto referendum e che riprendono polemiche già sviluppate all'indomani della pubblicazione delle tesi congressuali quando aveva dichiarato la propria disponibilità verso un presunto governo del Pci.In realtà per il gruppo di Sofri non si tratta di nessun avvicinamento al Pci, anzi si accentua il giudizio sul suo ruolo antirivoluzionario e da ciò deriva la strumentalità di dimostrare alle masse attraverso un governo del Pci, il suo carattere di «partito d'ordine» funzionale allo stesso disegno repressivo del grande capitale. Infatti mentre la parola d'ordine del «governo delle sinistre» esprime l'ipotesi di un necessario coinvolgimento della sinistra tradizionale «il Pci al governo» considera chiusa ogni speranza di «rifondazione» e vede nella soluzione istituzionale, la condizione vitale per una nuova opposizione rivoluzionaria 67.Dopo il referendum e le elezioni in Sardegna, le bombe di piazza della Loggia a Brescia. Il gruppo riprende con vigore la campagna per lo scioglimento del Msi a cui si affianca la lotta contro i decreti economici. Mentre sembra concretizzarsi il progetto di unificazione fra Pdup e Manifesto, Lotta continua attraversa un momento di isolamento. Intervenendo al congresso di scioglimento del Manifesto (12-14 luglio 1974) Guido Viale definisce la linea del gruppo di Magri «una concezione tecnicamente gradualistica ed eclettica,

politicamente opportunista». Il leader di Lotta continua non risparmia critiche ad Avanguardia operaia e al dogmatismo dei marxisti-leninisti. Alla fine del '74 in tutto il paese esplode la «disobbedienza civile». Si entra in una nuova fase della pratica di lotta: esplode la questione del-l'autonomia. Dopo la lunga incubazione, a Roma dal 7 all'll gennaio del '75, si svolge il primo congresso nazionale di Lotta continua. Vi partecipano circa 1000 delegati eletti da 85 congressi provinciali, sono presenti osservatori del Pdup, Ao, Psi, Gioventù aclista, Firn, e fra le delegazioni estere rappresentanti del Mir, Mapu, Olp, organizzazioni inglesi, francesi e tedesche. Adriano Sofri svolge la relazione introduttiva e il dibattito si articola in cinque commissioni di lavoro: questioni internazionali, alleanze, scuola, questione femminile, questione dei ceti medi. Per la prima volta le strutture nazionali del gruppo, segno del processo di acquisizione organizzativo, si riuniscono per delega. Anche se non si è parlato di fondazione del partito o di nuova aggregazione il dibattito nei vari congressi federali ha insistito sulla esigenza di una ristrutturazione organizzativa e della necessità di ridefinire figure come militante, aderente, quadro, vari livelli di dirczione politica.L'appuntamento nazionale non scioglie le questioni fondamentali che sono di fronte al gruppo. La partitizzazione risulta una forzatura rispetto ali'eterogeneità delle presenze che sono confluite in Lotta continua, per alcuni settori rappresenta addirittura la negazione dell'esperienza del gruppo e la volontà di imprigionare dentro un sistema rigido la complessa realtà del movimento, le sue fluttuanti disponibilità e i suoi metamorfismi. Nonostante le intenzioni Lotta continua non si fa partito, anzi sempre più predominano le aree movimentiste, e si inaspriscono i momenti di rottura, anche violenta, con gli altri settori del gruppismo. Poco prima di subire il listone elettorale del 1976, Lucio Magri dirà di Lotta continua: «la linea di quella organizzazione è, rispetto alla nostra, e nella fase attuale, non solo diversa ma antagonista; e quella linea rappresenta, e continuerà a rappresentare, spinte reali quanto pericolose presenti nell'area rivoluzionaria e tali da compromettere l'esito dello scontro politico e sociale verso cui il movimento operaio si avvia...»68. Nelle sue conclusioni, al congresso, Adriano Sofri, al di là del trionfalismo di maniera, tenta di introdurre elementi autocritici rispetto alla presenza organizzata del gruppo e alla sua capacità di iniziativa, in particolare si sofferma sui rapporti fra sindacato e masse. «Il rapporto fra azione di massa e ricerca del recupero sindacale si è interrotto, radicalizzando l'impotenza politica e pratica delle istanze di base, e costringendo le avanguardie di massa della classe operaia a contare sulle proprie forze privandole di una dimensione generale di lotta...» 69.Non può risolvere la crisi del gruppo la spericolatezza della parola d'ordine delle «sinistra al governo», una tesi che porta Lotta continua a non riconoscersi nel cartello elettorale di Democrazia proletaria e invitare i suoi militanti a votare Pci sulle amministrative del 1975. La prospettiva del Pci al governo, ormai inarrestabile dopo la sconfitta De al referendum, comporterebbe nuove dinamiche sociali. Il revisionismo non sarebbe stato più in grado di contenere l'antagonismo operaio e di massa, aprendo così un vuoto politico che solo la sinistra rivoluzionaria avrebbe

potuto colmare. Presentazione alle liste scolastiche, campagna per il Msi fuorilegge, voto al Pci, occasioni che servono per accelerare questa prospettiva. Ma il rocambolismo non piace. L'unica crisi che si accelera è quella di Le, solo ritardata dalla scaltra gestione della operazione «listone» del 1976.Un concorso decisivo alla crisi del gruppo viene dal femminismo. Lotta continua, come quasi tutta la nuova sinistra, ha rigettato ogni forma di separatismo. Su questo aspetto la prima rottura con le militanti del gruppo. Il 6 dicembre '75 a Roma, una manifestazione di massa delle donne è aggredita, si sfondano i cordoni gridando «il femminismo non è separatismo ma lotta di classe per il comunismo». Dura la reazione delle militanti che minacciano di dimettersi tutte dal gruppo e chiedono la sostituzione della segreteria romana. L'autocritica di Sofri serve solo a rimandare il conflitto che esploderà nel '76.Ma ormai nelle lotte sono alla ribalta i gruppi delTautono-mia. Il movimento sindacale discute animatamente come rispondere ali'offensiva sul terreno delle autoriduzioni e della «disubbidienza civile» 70. Intanto i militanti di Lotta continua, hanno ingrossato in modo massiccio le file dell'Autonomia, nel-l'azione pratica le differenze tendono a smarrirsi. Lotta continua risulta stretta fra due differenti processi: il modulo aggregativo del Pdup-Avanguardia operaia e il movimentismo sovversivo dell'Autonomia operaia, un concorrente pericoloso per un gruppo come Lotta continua costantemente proteso alla sperimentazione e allentasi della gestualità rivoluzionaria.

NOTE 1 G. Viale, «II sessantotto: tra rivoluzione e restaurazione», Mazzetta, 1978, pp. 213-214. 2 Troppo o troppo poco, «Lotta continua», n. 1, 22, novembre, 1969. 3 «Lotta continua», numero unico, 7 novembre 1969. 4 ibidem. 5 ibidem. 6 «Lotta continua», numero unico, 14 novembre 1969. 7 La rivoluzione culturale nelle fabbriche, «Lotta continua», numero unico, 7 novembre 1969.

8 «La strage di Stato - Dal golpe Borghese ali'incriminazione di Calabresi», Samonà-Savelli, 1970, p. 28. 9 A Trento risposta di massa alla polizia, «Lotta continua», n. 3, 6 dicembre 1969. 10 «Comunismo», n. 1, autunno 1970, p. 41. 11 «Lotta continua», numero unico, 1° novembre 1969. 12 «Lotta continua», numero unico, 7 novembre. 13 «Lotta continua», numero unico, 14 novembre 1969. 14 «Lotta continua», n. 1, 22 novembre 1969. 15 «Lotta continua», n. 2, 29 novembre 1969. 16 «Lotta continua», n. 3, 6 dicembre 1969. 17«Lotta continua», n. 4, 13 dicembre 1969. 18 Cfr. «Giovane critica», n. 25, inverno 1971. 19 Gli atti del Convegno sono pubblicati in «Comunismo» materiali di lavoro a cura di Lotta continua, n. 1, autunno 1970. 20 Cfr.: G. Viale, «S'avanza uno strano soldato», Edizioni di Lotta continua, 1973, pp. 104-117. 21 «Comunismo» n. 1, autunno 1970, p. 39. 22 «Lotta continua», n. 19 ,30 ottobre 1970. 23 «Sinistra proletaria», rivista 1/2, settembre 1970. 24 «Lotta continua», 11 dicembre 1970. 25 Foglio di lotta di Sinistra proletaria, 21 novembre 1970, in Soccorso Rosso, «Brigate rosse. Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto che cosa se ne è detto», Feltrinelli, 1976, p. 67.

26 S. Levi - L. Manconi, Ripresa della lotta studentesca a Milano - da viale Tibaldi a città Studi, «Quaderni piacentini», n. 44/45, ottobre 1971. 27ibidem. 28 Documento ciclostilato per uso interno all'organizzazione, distribuito nel marzo 1972. 29 «Lotta continua», 28 gennaio 1971. 30 Foglio di Lotta di Sinistra proletaria, 28 ottobre 1970. 31 Cfr. Leopoldo l'incendiario, «Lotta continua», n. 3, 17 febbraio 1971. 32 Rapporto sullo squadrismo pubblicato su «Lotta continua» sui numeri 18, 21 del 1970 e sui numeri 2, 6 del 1971; «Lotta continua del 17 febbraio '71 fa un lungo elenco di militanti arrestati e sotto processo. 33 «Lotta continua», n. 10, 11 giugno 1971. 34 Cfr.: Soccorso Rosso, Brigate rosse, cit., p. 115. 35 «Processo Valpreda», quotidiano 10 marzo 1972. 36 «Processo Valpreda», quotidiano a cura di Lotta continua, 21 marzo 1972. 37 T. Barbato, «II terrorismo in Italia», Editrice Bibliografica, 1980, p. 203. 38 «Autonomia operaia», Savelli, 1976, p. 25. 39 Cfr.: Gli operai, le lotte, l'organizzazione, Analisi, materiali e documenti sulla lotta di classe nel 1973, (materiali per la formazione politica a cura della Commissione nazionale scuole quadri di Lotta continua), Edizioni Lotta continua. 40 Cfr.: A. Silj, «Mai più senza fucile! alle origini dei Nap e delle Br», Vallecchi, 1977, p. 126. 41 Cfr.: ibidem, p. 121.

42 ibidem. 43 «Potere operaio» del lunedì, n. 61, 16 luglio '73. 44 A. Silj, «Mai più senza fucile!», cit, p. 127. 45 ibidem, p. 128. 46 Cfr.: G. Viale, «il sessantotto», cit., p. 244. 47 «Lotta continua», 9 febbraio 1973. 48 Provocazione di stato contro Lotta continua, «Lotta continua», 6 febbraio 1973. 49 I giovani socialisti, il Pci e gli estremisti, «Lotta continua», 4 maggio 1973. 50 Sulla polemica Imbeni «Lotta Continua», cfr. Diario Extraparlamentare «L Espresso», maggio 1973. 51 «Lotta continua», 22 febbraio 1973. 52 «Lotta continua», 24 febbraio 1973. 53 «Lotta continua», 18 febbraio 1973. 54 G. Viale, «II sessantotto», cit., p. 244. 55 «Lotta continua», 1971. 56 Le tesi. Edizioni di Lotta continua, 1975, ora in «La sinistra rivoluzionaria in Italia», Savelli, 1976, p. 103. 57ibidem. 58 «Lotta continua», 18 dicembre 1973. 59 Cfr.: «Lotta continua», 11 dicembre 1973 e 18 dicembre 1973. 60 «II manifesto», 12 aprile 1974. 61 «II manifesto», 14 maggio 1974. 62 «Lotta continua», 12 maggio 1974.

63 Cfr.: Ilcomunicato n. 1 delle BR diffuso il 19 aprile 1974. 64II caso Sassi e la campagna elettorale di ordine, «Lotta continua», 28 aprile 1974. 65Referendum a che punto siamo, «Lotta continua», 28 aprile 1974. 66 Cfr.: P. Mieli, «Una cura di voti ultrarossi», «L'Espresso», 2 giugno 1974 e Lotta continua? lo dice lei, «L'Espresso», 16 giugno 1974. 67 R. Rossanda, Sinistre al governo, «II manifesto», giugno 1974. 68 «II manifesto», 28 aprile 1976. 69 Concluso il congresso nazionale, «Lotta continua», 14 gennaio 1975. 70 G. Invernizzi, Allora io non pago, «L'Espresso», 29 settembre 1974.

X DAL MANIFESTO AL PDUP

1. Il caso Manifesto

Attorno alla questione «Manifesto» si realizza un vasto in-teresse, non solo per gli argomenti teorici sviluppati dall omoni-mo gruppo quanto per la novità che rappresenta l'apertura di un dissenso all'interno del Pci, gestito, per la prima volta, da ] autorevoli dirigenti che in contrasto con la linea ufficiale del partito, spinti dal dichiarato proposito di mutarne gli indirizzi, decidono la pubblicazione di una loro autonoma rivista. Non vi è nessun paragone con la miniscissione del Pcd'I, un episodio del tutto marginale che aveva riguardato quadri periferici e sen-za alcuna notorietà, in questa occasione sono impegnati in pri-ma fila militanti che ricoprono importanti incarichi a livello nazionale, hanno prestigio nella base del partito e il loro interro-garsi si situa nel solco del non sopito dibattito dell'XI congresso a cui si sono aggiunte le tensioni del turbinoso «anno degli studenti». La scelta di Aldo Natoli e degli altri sembra accreditare, in molti ambienti, l'ipotesi di una possibile spaccatura verticale del partito comunista; da ciò l'ampia discussione all'interno del minoritarismo, l'attenzione di incuriositi settori intellettuali nonché l'acceso dibattito interno fra i militanti comunisti in particolare fra i più giovani, ansiosi di dare risposta alla doman-da di transizione al comunismo che un sommovimento sociale e culturale senza precedenti ha posto. Il Manifesto non si pre-senta come una realtà omogenea, si trascina dietro le contraddizioni che il partito ha vissuto e mediato dopo la morte di Togliatti: il giudizio sulla situazione italiana; la collocazione internazionale; l'analisi sulle forze politiche e la strategia delle alleanze sociali e politiche. Nella fase formativa la situazione è molto fluida, non esiste un corpo organico di riflessioni ne il gruppo si colloca in posizione chiaramente alternativa al Pci, piuttosto agisce come forza di pressione ai fini di una battaglia interna dall'esito ancora incerto. Proprio quest'apertura, questo non essere portatori di una linea precisa ma pronti a discuterla e a costruirla nei confronti col nuovo che è emerso

nella sinistra, suscita attenzione e curiosità, anche se fra i gruppi e molti ex movimento studentesco, non mancano sostanziali diffidenze. Rapidamente il gruppo diventa un referente per chi non ha ancora definito la propria collocazione in questa o quell'altra formazione del gruppismo, per coloro che hanno scelto un generico antirevisionismo senza precisarne i contenuti ma solo con la volontà di partecipare a un dibattito che si presenta intellettualmente valido e ancora da approfondire. I protagonisti del caso sono personaggi noti, questo conta e influenza giovani alla ricerca di leader indiscussi e prestigiosi: Aldo Natoli, dirigente di rilievo nella vita politica della capitale; Rossana Rossanda responsabile del lavoro culturale; Lucio Magri conosciuto per le sue posizioni sull'economia, già al centro di una polemica sulla transizione al comunismo in occasione del convegno promosso dall'Istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo, rispettivamente autori di due testi fortunati in quel periodo Lanno degli studenti e II maggio francese; e inoltre Massimo Caprara, già segretario di Togliatti; Valentino Parlato; Luciana Castellina; Luigi Pintor, noto e vivace polemista politico de «!'Unità». L'idea della rivista come strumento di pressione e di ricerca autonoma matura prima della scandeza congressuale del XII congresso del Pci; nelle intenzioni nasce come «rivista teorica» per dibattere senza i lacci del centralismo democratico questioni interne e internazionali, cioè Fattualità della rivoluzione in Occidente sullo sfondo di un' acuta crisi nel campo socialista europeo 1. Il monito della dirczione del Pci non tarda, ancor prima della pubblicazione, in un suo comunicato giudica l'iniziati-va dannosa e inutile, solo nel novembre — però — dopo la riunione congiunta del comitato centrale e della commissione centrale di controllo dell ottobre 1969 si deciderà la radiazione dal partito dei suoi promotori2. Il primo numero de «II manifesto» esce, come rivista mensile, il 23 giugno 1969; raggiungerà con la ristampa 55.000 copie di tiratura. Prevale l'assemblaggio sui temi di più scottante attualità politica; temi su cui è aperto il confronto all'interno del Pci e che esercitano un forte richiamo nei confronti del gruppismo. Gli articoli trattano vari argomenti: la politica interna (Pintor); i contratti (MagriFoa), l'internazionalismo proletario (Rossana Rossanda); la rivoluzione culturale (Collctti Pischel, Snow, Karol) e inoltre vengono pubblicate le tesi del XIV congresso clandestino del Partito comunista cecoslovacco. Per avere una piattaforma unitaria di discussione e di lavoro per l'«unità della sinistra rivoluzionaria e la costruzione di una nuova forza politica alternativa al revisionismo», bisognerà arrivare al settembre '70, con la pubblicazione delle Tesi per il comunismo. Fino a quella fase, con una progressiva accelerazione dopo la

radiazione dal partito, i vari contributi (conversazione con Sartre; note su Gramsci di Debray; considerazioni sull'e-sperienza cecoslovacca; scritti di Chomsky; inediti di Che Gue-vara; materiali di commento alla situazione politica) sono una platea indifferenziata di interventi che scorrazzano con molta disinvoltura, da ciò la forza del loro fascino, nel grande zibaldone della critica al revisionismo come si era affermata nella pratica delle riviste degli anni sessanta. In una concezione allargata della sinistra, concepita come area espansa in cui confluiscono i tratti dell'operaismo di origine «Quaderni rossi», una lettura spontaneista e antiburocratica della rivoluzione culturale, i motivi del dissenso cattolico, le novità del nuovo estremismo ses-santottesco, l'enfatizzazione dei caratteri rivoluzionari del movimento studentesco, la crisi del socialismo reale. Il confronto che si vuole stimolare dentro e fuori il Partito comunista si snoda attorno a tré questioni centrali: la natura dello sviluppo capitalistico e quindi Fattualità della transizione, l'interpretazione della situazione internazionale, la vita interna del partito. Nei primi mesi di vita della rivista e in particolare a ridosso della radiazione si assiste a un'accentuata crisi dell'estremi-smo uscito sconfitto dallo sviluppo delle lotte contrattuali, e proprio di questo clima il gruppo cercherà di avvalersi portando avanti un tentativo, che si dimostrerà erroneo, di egemonizzare i vari spezzoni del gruppismo concedendo sul piano dell'apertu-ra e dell'ecclettismo teorico. L'auspicata «rivoluzione culturale» dentro il partito si dimostra impraticabile, gli ambiziosi progetti di far leva sulle contraddizioni del gruppo dirigente, per rompere la precarietà di un' unità mediata e compromissoria si infrangono contro la disciplina e le regole del centralismo democratico. Ambiguamente le stesse critiche mosse al partito si traducono in altrettanti ostacoli per la stessa operazione avviata dal Manifesto suscitando diffidenza e sospetto di facili trasformismi.

2. La radiazione

Dall' originaria funzione di area di pressione, dopo la mar-ginalizzazione subita nel XII congresso, le contrapposizioni si fanno sempre più nette e la resa dei conti si renderà inevitabile. Così Natta, cui spetta il compito di grande accusatore nella riunione congiunta del comitato centrale e della commissione centrale di controllo, commenta lo sviluppo delle posizioni del gruppo: «accade così che dall'affermazione di tré mesi fa secondo cui i compagni del Manifesto non si riconoscevano nella cosiddetta linea di maggioranza e chiedevano lo spazio e il tempo per poter trasformare "una posizione negativa, necessariamente affrettata e schematica" in una piattaforma, in un'alternativa ideologico-politica, da offrire al partito, si giunge, nell'ultimo numero, a contestare più rudemente la consistenza, l'adeguatezza di questa linea, perché essa non avrebbe risolto "le ambivalenze" della nostra politica e si sarebbe fondata anche aU'ultimo congresso su "una mediazione provvisoria" e si giunge a contestarne anche la legittimità democratica, perché essa, più che la scelta del partito o del suo congresso, sarebbe in effetti "il frutto di un accordo politico già realizzato all'interno del gruppo dirigente"» 3. La requisitoria contesta il catastrofico giudizio del Manifesto sulla linea del partito, sul suo stato organizzativo e sul gruppo dirigente: respinge la tesi di una presunta crisi storica dell'in-tero movimento operaio occidentale, delle piattaforme politiche e delle forme organizzate che esso ha assunto. Natta le definisce «cupe affermazioni» da cui si fanno derivare: il crescente divario fra strategia politica e la nuova soggettività rivoluzionaria prodotta dalla crisi delle società a capitalismo avanzato, la paralisi dell'iniziativa, la rottura della precaria unità interna; a cui si aggiungono le divisioni del movimento internazionale e l'in-voluzione in atto nei paesi socialisti. Un complesso di fattori rispetto ai quali il Pci rimarrebbe inerte, prigioniero del «vuoto derivante dalla crisi crescente del campo socialista europeo» e ormai adagiato in una sorta di «internazionalizzazione della rinuncia». Se nell'intervento del leader comunista la rassegna dei punti di contrasto emerge con chiarezza, non con altrettanta lucidità si indaga sulle suggestioni da cui traggono origine le posizioni del Manifesto, in questo modo non si coglie la fluidità ancora presente nell'elaborazione della rivista, ne si comprende fino in fondo l'ampiezza di una problematica che travalica la vicenda specifica. In questo senso vi è un limite culturale e politico del Pci, non separabile dal permanere di

una forte ragione di partito che non consente avventurose spegiudicatezze. Il Manifesto senza il '68 non si spiega, ne si comprendono a fondo le ambizioni, non prive di velleitarismo intellettuale, del suo progetto. La risposta del Pci al sommovimento del '68 è stata oscillante, il generoso sforzo di Luigi Longo per individuare nella spinta alla partecipazione una chiave interpretativa si è dimostrato insufficiente a ridefìnire una strategia unificante della rivoluzione socialista in occidente. Nel ragionamento di Natta vi è quasi un aristocratico rifiuto delle matrici e delle suggestioni ideali e politiche che animano gli interrogativi posti, per concentrare, invece, la sua attenzione sui contrasti. Sottolinea come dalla riserva critica, dai dubbi suU'orientamento e sull'iniziativa del partito e del movimento comunista e rivoluzionario internazionale, il Manifesto sia passato a chiedere un radicale rovesciamento della collocazione internazionale del partito. Proponendo così la creazione di un'alternativa di sinistra rivoluzionaria al-l'interno del campo socialista, puntando alla «sconfitta e alla sostituzione dei gruppi dirigenti dell'Urss e degli altri paesi socialisti per iniziativa e da parte di un blocco di forze sociali diretto dalla classe operaia [...] e — quindi — al di là degli argomenti che sostengono queste tesi, riproponendo vecchie modellistiche del tutto antagoniste alle teorizzazioni dell'unità nella diversità. Ormai — secondo Natta — non si tratta più di un' ipotesi di rinnovamento, ma di «rottura», di «riforma generale», di «rifondazione», necessità imposta di fronte a un partito anchilosa-to rispetto alla realtà e «drammaticamente alle corde, non coerente, non adeguato ne alla realtà in cui deve operare, ne alla stessa sua linea politica, una istituzione». Si è quindi a un contrasto non conciliabile con la collocazione e la politica internazionale del partito e del tutto contrapposta agli orientamenti della sinistra e dello schieramento democratico italiano. Sono divergenze che coinvolgono l'insieme della storia del Partito comunista e la sua concreta esperienza: «Sulla questione centrale dell'avanzata del socialismo in Italia i compagni del Manifesto ripropongono una linea che, nella sostanza, nega il nesso tra lotta per la democrazia e lotta per il socialismo, e quindi tutta la strategia e la politica elaborata dal nostro partito in mezzo secolo di lotta antifascista, democratica, socialista» 4. Per Natta questa «sostanziale incomprensione e negazione» del rapporto tra lotta democratica e lotta socialista discende da «un' astratta contrapposizione tra forze sociali e forze politiche e da un'altrettanto schematica e arretrata valutazione dell'attuale momento politico caratterizzato, secondo il Manifesto, da uno stato di «massima tensione sociale» e da un «vuoto di alternativa politica», per cui la via d'uscita dovrebbe essere cercata nell'«accentuazione del solco tra forze sociali e forze politiche e l'alternativa dovrebbe essere fondata su un mutamento "non di governo" ma di "regime", "non di maggioranza ma di classe dominante" ».

Terreno decisivo di scontro è, dunque, il giudizio sul livello raggiunto dalle forze produttive e quindi la natura del conflitto sociale. Abbandonato il terreno fondamentale della lotta politica per il rinnovamento e la trasformazione dello Stato per fermarsi in modo prevalente ed esclusivo al livello sociale, al livello delle forze produttive si finirebbe — prosegue Natta — quali che siano le intenzioni, o l'ampiezza dei fenomeni di ribellismo, a un sostanziale riformismo socialdemocratico e il partito sarebbe condannato ad una funzione subalterna nella società. Da ciò l'incapacità di comprendere, accusa mossa a Natoli e agli altri, le dinamiche in atto e il ruolo delle diverse forze politiche de-mocratiche, cattoliche e laiche, accomunate in un indifferenziato giudizio di crisi e di deperimento; e il «sostanziale disprezzo» per le istituzioni democratiche, considerate come elementi marginali della «vita pubblica istituzionalizzata». Mantenendo aperto uno spazio alla sinistra interna al partito, Natta riconosce un ruolo fondamentale ai movimenti sociali che si sono espressi nel '68 e nel '69, movimenti che impegnano sempre di più «la classe operaia, anche quella di recente formazione, il mondo contadino, le masse studentesche e con una tendenza che si accentua — le popolazioni dei grandi centri urbani». Per la loro eccezionaiità hanno posto problemi nuovi e complessi ed evidenziato i limiti delle organizzazioni operaie e del partito. Ma questi necessari adeguamenti non possono determinare — insiste Natta, ricollegandosi idealmente ali'elaborazione togliattiana — un solco tra movimenti di lotta e forze politiche, ciò significherebbe la rinuncia a indicare «obiettivi politici al movimento e a determinare quegli spostamenti politici e dei rapporti di forza oggi possibili, con una ampia lotta unitaria e democratica». Al contrario la vera questione politica consiste nel trovare una saldatura fra l'espansione delle lotte sociali, che si muovono su concreti e specifici obiettivi da raggiungere, e l'iniziativa per imporre un radicale mutamento negli indirizzi economici e politici, sviluppando ulteriormente la democrazia come crescita del movimento e della organizzazione popolare, come conquista di nuovi poteri sindacali e democratici dal basso, come sviluppo e rinnovamento delle istituzioni democratiche. Sono queste le imprescindibili condizioni di una battaglia democratica che, come hanno confermato la recente scissione socialdemocratica e la crisi dell'interclassismo cattolico, può produrre una modifica profonda dei rapporti di forza e degli schieramenti politici. Una battaglia democratica che trae le sue ragioni di fondo dalle peculiarità del paese, dal fatto che «le classi capitalistiche ed agrarie, il blocco di potere della borghesia, comunque si sia venuto modificando o configurando in Italia, non ha mai rinunciato, per difendere o conservare il proprio privilegio e il proprio potere, a limitare, reprimere le libertà democratiche» 5. In sostanza si è ancora alla seconda tappa della rivoluzione antifascista, un tema ricorrente nella cultura politica del Pci comunista fino ai grandi terremoti elettorali del '75-'76, e che animerà sia pure con elementi di novità la stessa teoria del compromesso storico. Anche il leader della sinistra interna, Pietro Ingrao, lo sconfitto dell'XI congresso, l'attento osservatore dei

nuovi antagonismi sociali, concorda con Natta. Non condivide l'orizzonte politico proposto dai dissidenti, ne la rottura delle regole interne. Nel suo intervento si ancora alle conclusioni del XII congresso prospettando un'ormai impossibile ricerca comune6. Il dibattito nel comitato centrale non si limita agli aspetti metodologici dell'iniziativa del gruppo del Manifesto, ma compie un'articolata rassegna delle questioni aperte e in tutti gli interventi traspare la necessità di un ulteriore approfondimento. Dopo tré giorni di discussione, i massimi organi di dirczione del Pci, approvano la relazione di Natta, i risultati della V commissione e l'intervento conclusivo di Enrico Berlinguer, allora vice-segretario del partito, si astengono: Chiarante, Lombardo Radice e Luporini, mentre Garavini, assente al momento del voto, spedirà una lettera dichiarando che se fosse stato presente si sarebbe astenuto; votano contro i rappresentanti del Manifesto mèmbri del comitato centrale: Natoli, Pintor, Rossana Rossanda. Le conclusioni, pur riconfermando le critiche, sembrano voler mantenere aperto il confronto. L editoriale della rivista Dopo il cc comunista, la discussione sul Manifesto lascia intravedere la disponibilità a proseguire la discussione: «può meglio compiersi, questo approfondimento, all'interno dei canali del partito, piuttosto che attraverso una "rivista esterna?". Se è così, "II manifesto" può anche modificarsi, l'abbiamo detto, o anche esaurirsi. Ma il problema, allora, è di verificare, se così è, ed è poi quello accennato a conclusione del suo intervento dal compagno Berlinguer come regolare la esplicitazione del dissenso» 7. Stronca ogni speranza la risposta della dirczione del partito, la richiesta è perentoria: sospendere la pubblicazione della rivista. Lordine non viene rispettato: il 12 novembre la dirczione del partito con un suo comunicato, invita il comitato centrale ad adottare entro il mese i necessari provvedimenti disciplinari. Nella seconda edizione de «II manifesto» dell'ot-tobre-novembre una nota critica commenta il comunicato della dirczione del Pci: interrompe ogni possibilità di dibattito e contraddice l'orientamento del comitato centrale dell'ottobre. Nella seduta del 25 dicembre, dopo che Aldo Natoli ha dichiarato le ragioni per cui il gruppo del Manifesto, contravvenendo alle regole del centralismo democratico, ha scelto di non «desistere» dal pubblicare la rivista, il comitato centrale, a maggioranza, con tré astensioni e sei voti contrari, approva la radiazione, seguiranno le misure disciplinari nelle federazioni.

3. Il rifiuto del revisionismo

Secondo il giudizio del Manifesto, all'indomani della radiazione la situazione si presenta in modo articolato. Ad eccezione di Napoli e Cagliari la discussione all'interno del Pci è considerata scarsa, nel Mezzogiorno, in Sicilia e in Puglia si è formalmente deciso di non affrontare la questione, in Calabria, invece si è registrata una certa attenzione così come in Campania. Il dissenso alla linea ufficiale e alla scelta della dirczione oltre a Napoli è emerso a Salerno e ad Avelline. Nel centro-Italia la situazione è stata più favorevole: nel Lazio, oltre alle numerose sezioni romane, del Manifesto si è discusso a Civitavecchia; ampio il dibattito a Firenze, Livorno, Pisa. Il confronto ha lasciato quasi totalmente indenne la federazione di Bologna, mentre più articolata si è presentata la situazione a Reggio Emilia dove non sono mancati momenti di tensione nel comitato federale. Realtà in sviluppo sono considerate le federazioni di Genova, Savona, Torino, Novara, Verbania, Padova, Gorizia, Trieste, Venezia, dove il dibattito ha coinvolto il 15% delle sezioni,^ interessante la discussione di Milano e Bergamo. Complessivamente il Manifesto afferma: «può dirsi che diffusione e intensità del dibattito, non manifestano un rapporto di proporzionalità con la forza del partito; una più elevata correlazione che si riscontra invece con i dati più diffusi del Manifesto. Sempre dal punto di vista politico si può dire che maggiore intensità di dibattito, vi è stata nelle federazioni, che si caratterizzano per una dirczione di destra (non è casuale, per esempio, che in Piemonte si è registrata più tensione a Novara che a Torino). Le federazioni di orientamento centrista o con passato di sinistra, si sono mosse invece sulla linea della sdram-matizzazione, mettendo la sordina al dibattito; non va dimenticato che in alcune di queste federazioni l'intervento conclusivo di Berlinguer al comitato centrale di ottobre aveva diffuso l'opinione che il "caso" del Manifesto non avrebbe avuto una soluzione disciplinare, o, almeno, non l'avrebbe avuta così rapidamente» 8. Dopo la radiazione, per il Manifesto, si è realizzato un netto spostamento a destra dell'asse politico del Pci, sempre più stretto fra «potenzialità rivoluzionaria e componenti riformisti-che»; si rende quindi necessario e possibile avanzare una «proposta politica e di lavoro» alternativa. Attribuendo una tendenziale unità all'area del dissenso si sostiene la praticabilità di un' organizzazione processo che, riecheggiando alcune tematiche del luxemburghismo, punti a una riunifìcazione delle cosiddette sinistre anticapitalistiche. Con un limite di analisi che si

prolungherà nella storia del gruppo, ci si riferisce ad un generico fronte antirevisionista assunto acriticamente e prescindendo dalle sue varie specificità, in questo senso sfugge al Manifesto ogni tentativo di bilancio critico, semplicisticamente e non senza ombre di opportunismo questo «nuovo blocco storico» viene indicato come «un arco di forze che si riconoscono in un comune rifiuto del riformismo» 9. Non e'è dubbio che i protagonisti del Manifesto all'indo-mani della radiazione sembrano sopravalutare l'ampiezza della rottura operatasi nel Pci e le sue possibilità di espansione, e nu-trono un'eccessiva fiducia su un ipotetico processo aggregativo. La stessa leadership del gruppo è attraversata da vecchie e nuove divergenze, in particolare le idee non sono chiare sulla questione del partito, numerosi gli interrogativi: è ancora valido lavorare per la costruzione di un «partito» alternativo alla vigilia della transizione? Costruire subito un partito antirevisionista o trascinare nel tempo una fase di agglutinamento? Questo possibile partito, non più «terzinternazionalista», quali regole deve avere? La piattaforma delle Tesi non risolverà questi interrogativi, la dialettica partitomovimento rimarrà una costante del-l'esperienza del Manifesto e caratterizzerà il suo oscillante rapporto con le altre formazioni della sinistra extraparlamentare, nonché all'indomani delle elezioni del '72 il laborioso e difficile incontro con l'area ex-psiuppina di Foa-Miniati. Nella nuova fase che si apre il gruppo deve lavorare per colmare il divario fra la sua originaria esperienza, un' esperienza vissuta dentro il Pci, e una gruppettistica che dopo la stagione sessantottesca è passata a una più organica centralizzazione. Le differenze sono molte, per ampi settori del minoritarismo il gruppo è ancora attratto dall'orbita del Pci; strumentalmente ma anche con veemenza ci si chiede: «ma dov'era il Manifesto nel '68?», non è forse vero che le critiche che ora muovono al loro ex-partito arrivano tardive, emulative, per qualche verso già invecchiate. Non è da escludere che questi attacchi palesi o più sottilmente raffinati influenzino alcuni dei passaggi immediati del Manifesto, sin dall'inizio tuttavia il gruppo tende a situarsi come una sorta di ponte fra la tradizione del movimento operaio, rappresentata schematicamente dal Pci, e lextraparlamentarismo oltranzista che ha tagliato ogni rapporto col revisionismo del Pci e del sindacato. Il Manifesto non rinuncia ad agire sulle contraddizioni del Pci, e per questa via cerca di riorganizzare attorno a sé dissensi già diversamente maturati, riproponendoli con un' autorevolezza vissuta dall'interno, tutto ciò mentre il minoritarismo ha già subito un duro colpo. Lucio Magri, nel suo articolo Ancora un lavoro collettivo che appare sul «Manifesto» del dicembre '69, compie una radiografìa delle ragioni della

sostanziale disunità del Pci. Fattori diversi interagiscono fra loro: l'enorme stratificazione del partito con la sua complessa composizione sociale; la scarsa partecipazione alle scelte di fondo rispetto al numero degli iscritti; la convivenza di concezioni ideologiche antagoniste fra loro, risultato questo della non profonda assimilazione del significato della destalinizzazione. Dal bisogno di mantenere salda un'unità precariamente costruita nasce la ragione della reticenza e della impossibilità, una consapevole autodifesa, a sottoporre tutto il partito a livello nazionale a un processo nuovo, mentre sul piano internazionale queste ragioni vanno ricercate nel faticoso procedere di una reale autonomia del Pci dal Pcus, per le difficoltà che si aprirebbero con alcuni settori del partito. In sintesi, scrive Lucio Magri: «La realtà è che non ci troviamo di fronte ad un divorzio tra un partito socialdemocratico e un movimento rivoluzionario, ma ad un movimento complesso e contradditto-rio, mescolato di potenzialità rivoluzionaria e di componenti ri-formiste.» e ancora «Fattuale scelta del Pci, dunque, registra una incapacità ad esprimere le potenzialità rivoluzionarie, ad assolvere un compito di avanguardia, ad esprimere anche le contraddizioni e i limiti del movimento» 10. Da questa situazione di stallo deriva il fallimento di ogni coerente strategia rivoluzionaria, del tutto irrisolta e sfocata la problematicità, resa attuale dai recenti movimenti di lotta, della transizione rivoluzionaria in occidente, cioè nei punti alti del capitalismo. Era stato questo il nodo centrale dell'intervento di Rossana Rossanda nella riunione del comitato centrale dell'ottobre, quando riprendendo la polemica già sostenuta con Bufalini sulle pagine di «Rinascita» (luglio '68) rivendicava la necessità di aprire un profondo dibattito all'interno del partito con la finalità di collegarsi alle nuove tensioni sociali e al prospettarsi, nella realtà occidentale, di un'urgenza rivoluzionaria inedita rispetto alla tradizione del socialismo. Non era una richiesta soggettiva limitata ad alcuni militanti, ma una necessità imposta dallo spessore delle novità politiche e dal loro grado di incidenza su tutto il corpo del partito; con le lotte del sessantotto, infatti, secondo la Rossanda, si entra in una fase eccezionale dello scontro di classe in Italia e nell'intero occidente, questo mentre sul piano internazionale il movimento comunista è a una stretta «drammatica». Lo sconvolgimento in atto impone nuovi moduli interpretativi, in assenza dei quali cresce un disagio diffuso che si tramuta in quel dissenso implicito o esplicito di cui è permeato l'insieme del partito; si incrina il suo monolitismo e il suo rapporto fiduciario con il movimento di classe; si produce una frattura storica che non è frutto di intellettualismi o false costruzioni ideologiche, bensì la risultante di processi reali che vanno indagati e ricompresi alla luce di un più generale adeguamento di strategia rivoluzionaria. Ma questo sondaggio in profondità, secondo il gruppo del Manifesto, non poteva realizzarsi nelle forme tradizionali del centralismo democratico, un rigido

strumento per l'organizza-zione del consenso, piuttosto sollecitava la legittimazione del dissenso, la promozione di un dibattito senza schemi pregiudiali e fuori dalle logiche di partito, la violazione delle antiche regole della disciplina di partito per andare alla radice del nuovo che scuote la società. La scelta della radiazione ha confermato questa impossibilità. Riprendendo i fili del dibattito sulla natura dello sviluppo capitalistico, assumendo nel binomio lotte studentesche e novità delle lotte contrattuali dell'autunno caldo la conferma dell'eccezionale sommovimento rivoluzionario, rivolgendosi all'etereogeneità di forze «antirevisionistiche», si propone come comune terreno di lavoro l'immediatezza della transizione al socialismo. Sul!' onda delle imponenti mobilitazioni operaie, mentre è in corso una profonda trasformazione del sindacato e dei suoi modelli partecipativi, la scelta fra «vie parlamentari» e «vie consiliari», è presentata in termini radicali u. Mentre per il Pci la democrazia consiliare è un'esperienza improponibile per la complessità della società occidentale, superata teoricamente dal-l'elaborazione di Gramsci posteriore alla fase ordinovista, e dal pensiero di Togliatti; per il Manifesto la tematica consiliare è «un elemento permanente della teoria marxista della rivoluzione» che supera l'invecchiato schema delle alleanze sociali riportando lo scontro alla sostanza della lotta «classe contro classe». Il suo mancato sviluppo è conseguente alle scelte compiute dai partiti comunisti occidentali, che non solo non si sono impadroniti di questa tematica ma l'hanno completamente rimossa; al contrario solo la sua ripresa può garantire al processo per la conquista del potere le caratteristiche di «uno stato in via di estinzione». Da cui si conclude: «che la rivoluzione in occidente, non si può e non si potrà fare se non prende progressivamente forma nella società un'alternativa reale al modo capitalistico di produzione come modo di produrre, di consumare e di pensare, cioè come programma di trasformazione sociale, come blocco di forze capace di attuarlo, come nuovi soggetti di gestione sociale» ". In questa visione i «consigli» sono lo strumento per la conquista del potere nell'epoca del capitalismo maturo, Fanello decisivo di un modo diverso di realizzare il socialismo forzando il quadro democratico, rovesciando lo stesso rapporto fra democrazia e socialismo. Partendo dalle novità dei processi sociali, dalla «ricca realtà politica» che essi esprimono, nascono le premesse teorico-organizzative delle Tesi sul comunismo che appaiono sulla rivista nel settembre 1970. Pur riconoscendo i limiti della gruppettistica e la disarticolazione della cosiddetta nuova sinistra non si va a fondo dell'in-dagine critica, e si cade in un generico appello al movimentismo. Solo dopo l'appuntamento di Rimini nel 1971, si dovrà ammettere l'approssimazione di questo giudizio e la carenza nel-l'individuazione

di precise discriminanti: «Si è formata alla sinistra del Pci una ricca realtà politica con idee, volontà, quadri (e anche spazio elettorale); è una realtà ancora disarticolata e fluttuante, priva di una linea strategica e di coordinamenti organizzativi; un aspetto della crisi più che l'inizio del suo superamento. Le formazioni minoritarie che hanno cercato di dare unità e linea a questa realtà hanno fallito l'obiettivo, senza riuscire nel corso delle lotte ad estendere la loro influenza sulle masse controllate dalle organizzazioni tradizionali, e anche senza riuscire a unificare le avanguardie già in rotta con la politica opportunistica. Dominante è la progressiva frammentazione dei gruppi, il loro ripiegamento attivistico e dogmatico, per ragioni oggettive che riproducono in tutto l'occi-dente lo stesso fenomeno, ma anche per insufficienze soggettive che questa nuova sinistra patisce da sempre e non sa superare...» 13. Nell'impostazione del Manifesto occorre uscire da una sorta di «circolo vizioso», una stretta tra un partito comunista che non sa esprimere dal suo interno una nuova forza, e una realtà di nuovi militanti incapaci di unificarsi e porsi come «punto di riferimento esterno». Senza spezzare questa morsa, si finisce col dissipare la «straordinaria potenzialità presente nello schieramento di sinistra oltre che nella società». Per questo è indispensabile costruire: «Un movimento capace di unificare, intorno a una linea precisa forze in grado di operare politicamente e incidere nella società; in grado di far precipitare, per la capacità egemonica del proprio discorso e della propria pratica, un più generale processo di ristrutturazione della sinistra italiana; e quindi in grado di offrire al movimento di lotta, per questa via, una espressione politica adeguata, e di prospettare al paese nel più lungo periodo una vera alternativa» M. Una prospettiva di «rigenerazione sociale» che chiama tutti a misurarsi col nuovo: militanti e quadri comunisti, socialisti, cattolici, militanti espressi dalle lotte; Finterò arco delle forze anticapitalistiche che hanno preso coscienza della crisi della società. Da questa ispirazione nasce la proposta di «aprire, con la ricerca comune un comune lavoro politico una fase costituente per l'unifìcazione di tutte le forze della sinistra rivoluzionaria» 15. Ma l'appello alla «linea precisa» rimarrà un'esortazione senza molta efficacia, mentre la scelta della sperimentazione teorico-politica prevarrà sui contenuti e sulla chiarezza del programma politico. Dopo la radiazione dal Pci si tratta di «rilanciare» l'attività del Manifesto, i «centri di iniziativa» diventano il luogo pratico della sperimentazione collettiva e l'occasione per verificare le condizioni politiche di una linea comune: «Non si tratta di inventare strutture che anticipino un lavoro. Si tratta di creare non solo gruppi di studio e circoli politico-culturali, ma collettivi studenteschi, comitati operai di base, collettivi di intellettuali e di tecnici, quindi un raccordo fra diverse esperienze tra pratica sociale e azione politica locale e nazionale [...]. Non è una proliferazione di gruppi del Manifesto che pensiamo, ma alla promozione anche

col Manifesto e con ciò che esso può rappresentare di iniziative unitarie di base che accumunino forze della sinistra anticapitalistica» 16. E una proposta metodologica «che apre all'esterno» e consente al Manifesto di incontrarsi con altre realtà: lavora ai fianchi del dissenso del Pci; cerca rincontro con gruppi studenteschi ormai al limite del collasso; raccoglie frange dell'estremismo in crisi. Molta l'attenzione dedicata alle fabbriche, alla problematica dei consigli dei delegati, alle vicende del sindacato. Riassemblando spunti culturali e suggestioni politiche, collezionando incertezze e dubbi, la rivista cerca di rivitalizzare il dibattito della «nuova sinistra». Ma: «parlare di un processo di aggregazione della sinistra non basta, occorre definire il modo e gli strumenti con i quali avviarlo», insomma «un inizio, ma subito». Nelle principali città si susseguono le manifestazioni per illustrare le ragioni del dissenso con il Pci e le ipotesi di lavoro, per ricercare contatti; si delinea la mappa delle presenze del gruppo: Napoli, Cagliari, Palermo, Torino, Milano, Savona, Verona, Padova, Perugia, Ascoli Piceno, Novara, Bologna, Firenze, Roma. Di particolare rilievo la manifestazione romana al teatro Eliseo, vi partecipano circa 2.000 persone; sulla rivista appaiono i primi resoconti delle «esperienze di lavoro» 17. Nella forma del collettivo aperto vi è molto dello Psiup presessan-totto, riletto attraverso la pratica dei gruppi d'intervento del movimento. Permangono le asprezze nel rapporto con i gruppi: durissimi i marxisti-leninisti, critica Avanguardia operaia 18, perplessa e oscillante Lotta continua. Ambiguamente, sotto l'influsso di ormai lontani richiami ai «Quaderni rossi» e alla loro analisi della fabbrica moderna e del neocapitalismo, nell'inverno '70 si stabilisce l'unità d'azio-ne con un Potere operaio che rovescia repentinamente e strumentalmente i primi sprezzanti giudizi sul Manifesto. Accentuare l'equivocità dell'incontro la fase che attraversa il gruppo operaista che è, alla ricerca di una sua identità, rimette in discussione le sue matrici d origine, e tende ad un assetto organizzativo che guarda sempre di più al «partito» dell'insurrezione. Si precisano i terreni d'intervento: le fabbriche, la scuola, la casa; nelle fabbriche si lanciano segnali verso il sindacalismo cislino e le cosiddette «avanguardie interne»; mentre nella scuola si ripropongono i temi del «contro la professione», della «scuola contro la scuola», verso un ipotetico «oltre il movimento» diffìcilmente praticabile dopo la stasi; sul fronte sociale la battaglia per la casa vuole recuperare esperienze, maturate al-l'interno del Pci, come le occupazioni, saldandole con le teorizzazioni della marginalità urbana, concentrando l'attenzione sulle aree di disgregazione delle cinture metropolitane 19.

Il gruppo parlamentare composto da cinque deputati Nato-li, Pintor, Rossanda, Caprara, Bronzuto, funziona da cassa di risonanza di una strategia ancora tutta da definire; l'occasione per un congiungimento al lavoro esterno verrà solo con'l'ostru-zionismo al «decretone» del luglio '70. Equivocamente astensionistica è la parola d'ordine lanciata per le elezioni regionali del 7 giugno '70: «scheda bianca, scheda rossa, contro-potere»; la domanda «per chi votare, quando il divario fra le forze politihe e il movimento di classe è tale che nessuna di essa lo rappresenta?» rimane senza risposta. Un tentativo di colmare questo divario sembra offrirsi con la condotta parlamentare del gruppo contro l'offensiva economica lanciata dal governo, per il Manifesto si tratta di evidenziare clamorosamente i limiti della scelta compiuta dal Pci che, proprio in quella occasione, prospetta una linea economica in cui cerca di saldare lotta per lo sviluppo e lotta anticapitalistica. L'ostruzionismo non argina il «decretone» che passa dopo una dura opposizione condotta insieme al Psiup, attorno a questa effimera bandiera sembrano attenuarsi le polemiche con le altre formazioni dellestremismo, unica eccezione i marxisti-leninisti.

4. Le tesi per il comunismo

A settembre del '70, dopo quasi un anno di attività, appaiono le Tesi per il comunismo, «Una piattaforma di discussione e di lavoro politico per l'unità della sinistra rivoluzionaria e la costruzione di una nuova forza politica» 20. Il documento è articolato in 200 punti, organizzati in due parti: la prima «II vuoto strategico, un nuovo internazionalismo, maturità, del comunismo, una nuova linea generale»; la seconda «La crisi italiana, la piattaforma alternativa, una nuova forza politica». Il documento ricapitola spunti e materiali assemblati nell'esperienza della rivista, nel lavoro dei «centri d'iniziativa» e collettivi, nei vari convegni. La proposta conclusiva di una «fase costituente per l'unificazione di tutte le forze della sinistra rivoluzionaria», non avrà successo e si scontrerà con le posizioni delle altre organizzazioni. In realtà il Manifesto non ha colto per tempo le contraddizioni del postsessantotto, ne è in grado di fare i conti con le insidie presenti nei primi anni '70, non è errato supporre che la stessa matrice e storia del gruppo impedisca la comprensione di quella che Magri autocriticamente definirà «la nebulosa dellestremismo», illusoriamente mitizzata alla luce dell ormai compiuta «maturità del comunismo». Le suggestioni operaiste, l'attenzione alle lotte e alla democrazia in fabbrica 21 porterà il gruppo all'incontro con Potere operaio. Il convegno unitario del febbraio '71 non sarà, quindi, la tappa di un primo anche se parziale processo di unificazione ma, ali' opposto, evidenzierà le ambiguità di un' ipotesi che evocando una generica «sinistra di classe», è incapace di tracciare chiare discriminanti nei confronti di un Potere operaio attratto dal sovversivismo eversivo o di una Lotta continua soggiogata dall'antistatalismo. Al convegno operaio partecipa anche il gruppo di Negri, Piperno, Scalzone; nella sua relazione Massimo Serafini generalizza la proposta dei «comitati politici», definiti «strumenti politici di organizzazione» a livello delle avanguardie anticapitalistiche 22. La temporanea convergenza con Potere operaio appare ver-ticistica e pur di ottenere qualche risultato evita ogni approfondimento critico e non manca di concessioni. Il progetto aggregativo non andrà avanti, l'esperienza dei collettivi politici sarà rapidamente messa in discussione, logorandosi in contraddizioni interne e nell'impossibilità di mediare tesi contrapposte fra loro.

Segna una svolta nella presenza politica del Manifesto la scelta di pubblicare Ibmonimo quotidiano, ambiziosamente definito «quotidiano della sinistra di classe». A questo obiettivo si lavora dalla fine del '70; l'ipotesi è quella di fornire alla «sinistra di classe» uno strumento «d'intervento permanente» per rispondere alla: «necessità di esercitare se non una dirczione, un' influenza diretta sul movimento, favorendone l'autorganizza-zione, la capacità di analisi, la valorizzazione e generalizzazione degli obiettivi». Si raccolgono i fondi per il nuovo quotidiano e contro la rozza polemica de «!' Unità» sul «chi li paga», si lan-

cia una sottoscrizione straordinaria con l'obiettivo di raggiungere i 50 milioni23. Il primo numero del quotidiano appare solo nell'aprile '71, ben presto si vanifica l'illusione di un giornale tribuna di tutta la «sinistra di classe», si dimostra velleitaria l'intenzione di superare la sua frammentazione e il suo settarismo dogmatico; progressivamente esso acquisterà la più ridutti-va funzione di organo di una specifica formazione con una propria identità. Con la Piattaforma per un movimento politico organico della primavera del 1971 w si tenta il bilancio dei primi due anni di esperienza; confermate le analisi si giudica deludente il grado d'avanzamento della proposta politica che «ha camminato lentamente e ha prodotto risultati largamente inferiori al necessario». La riflessione autocritica del documento e del dibattito che ne scaturisce orbita attorno a questo nodo, le troppe prudenze, però non consentono di comprendere quelle insanabili contraddizioni che i mesi successivi chiariranno. La provenienza del gruppo influenza in modo decisivo il suo dialettizzarsi col post-sessantottismo, determinando un campo teorico-pratico in cui la ricerca verso una traduzione politica della nuova soggettività rivoluzionaria rischia di essere progressivamente smentita da una costante paura di staccarsi da un intorno estremistico assunto come ragione stessa del proprio essere e di cui si subisce un continuo soggiogamento. In questa chiave di alterni avvicinamenti e allontanamenti si comprendono le ragioni del suo precario percorso organizzativo: rincontro con Potere operaio, la polemica con Lotta continua e Avanguardia operaia, le elezioni del '72, rincontro con l'area psiuppina di Foa-Miniati, il difficile approdo al Pdup (Partito di unità proletaria), l'esperienza elettorale con Avanguardia operaia che prenderà la sigla di Democrazia proletaria nelle elezioni del 1975, il contraddittorio rapporto con le organizzazioni sindacali, la trappola del «listone», il cartello elettorale con Avanguardia operaia e Lotta continua, e infine la separazione del gruppo parlamen-are di Democrazia proletaria dopo le elezioni del 20 giugno 1976.

Avvertendo i rischi cui si è sottoposti, nella piattaforma preparatoria del convegno di Rimini si scrive: «II primo errore è stato di tempi: il ritardo nell'aver aperto chiaramente la lotta all'interno del Pci, l'aver soprattutto interrotto quella lotta dopo l'XI congresso. Se l'impresa del Manifesto, se la nostra proposta politica fossero intervenute nella fase ascendente del movimento, come frutto di una lotta più di base, e dunque anche con maggiore incisività politica, avrebbero potuto produrre effetti ben maggiori». Ma la domanda è più di fondo: è esistita o no nella società italiana una separazione-rottura con l'insieme della tradizione politica della sinistra? Ali'insorgere dei primi scivolamenti verso la lotta armata e il terrorismo i rapporti con la nuova sinistra organizzata si fanno più difficili, le differenze diventano polemiche, il Manifesto ammette di avere avuto «errori di codismo e incertezza nel condurre una lotta politica chiara». L'aggressione subita dallo storico comunista Ernesto Ragionieri all'Università di Firenze, da motivo al Manifesto di attaccare i gruppi definendoli «avventuristi»; di contro è accusato, come già all'indomani dell'uscita del quotidiano, di volere egemonizzare il movimento extraparlamentare, e i tentativi di Pintor di far esprimere alla Camera un voto sul «fucilatore Almirante» sono liquidati come una riduzione parlamentaristica della lotta antifascista «militante», un' espediente che rischia di far scadere a semplice campagna di opinione la battaglia sul «fan-fascismo» di Lotta continua. Durissimo il giudizio sulla proposta di avviare più positivi rapporti fra i partiti della sinistra. «Pinelli non è morto per De Martino presidente» scrive con asprezza «Lotta continua». Apice dello scontro la condotta da assumere dopo il divieto della Questura milanese alla manifestazione dell' 11 marzo 1972, il Manifesto si dissocia dal corteo e non entrerà nel Comitato nazionale contro la strage di Stato. Isolato dal gruppismo, il Manifesto non sembra capace di reagire e di interpretare i caotici impazzimenti dei primi mesi del '72: la guerriglia urbana, la morte di Feltrinelli e l'assassinio di Calabresi, macabre scansioni dell'eversione su cui scarse sono le prese di posizione, sostituite troppo spesso dagli equivoci silenzi del gruppo che sta preparandosi alla sua minoritaria scelta elettorale.

5. Il voto rosso

Dopo lo scarno dibattito apertosi sulle colonne del giornale, la decisione arriva frettolosa e imprevista: alla Camera, il Manifesto presenterà una propria lista, al Senato invita a votare per il Pci. Solo dopo il 7 maggio, motivando il silenzio con ragioni di opportunità politica, si saprà che il gruppo dirigente non si era trovato unito e che a testimonianza della loro contrarietà Aldo Natoli e Massimo Caprara si erano dimessi dal direttivo nazionale. Attorno alla lista del Manifesto i pareri sono contrastanti. I marxisti-leninisti dell'Unione, ormai Partito comunista (mi) italiano, si presentano anche essi alla prova elettorale; Potere operaio è nettamente contrario; Lotta continua mostra qualche attenzione; molte le polemiche sulla strumentalità della candidatura di Pietra Valpreda. Il risultato è un fallimento. Il «voto rosso», come «pronunciamento contro questa società e questo stato borghese», come «impegno a costruire uno schieramento di lotta» 25 produce solo dispersione di voti a sinistra, la lista del Manifesto, con i suoi 224.000 voti (0,7%), non raggiunge il quorum elettorale. Segue una discussione molto serrata. Secondo il direttivo nazionale si è avuto un «chiaro spostamento a destra del quadro politico», «un'inversione di tendenza» che a soli cinque anni dal '68 è un «tema di riflessione autocritica che anche i partiti riformisti non possono evitare. Prima e più della sconfitta elettorale devono rendere conto alle masse della loro sconfitta politica»26. I partiti di sinistra portano la responsabilità di non avere interpretato lo straordinario movimento di lotte di massa, la nuova coscienza democratica e socialista che esprimeva, lasciandolo a se stesso non hanno saputo offrirgli una «dirczione politica efficace» e una «prospettiva credibile». In questo contesto il Manifesto spiega il proprio insuccesso, su cui grava, ammette autocriticamente, l'incapacità di «costruire un' alternativa politico-organizzativa tale da dare fiducia a coloro stessi che condividono le nostre idee, nel momento in cui lo scontro si fa pesante». Responsabilità che grava anche sugli altri gruppi della nuova sinistra che, nel corso della campagna elettorale hanno dimostrato, col loro settarismo, lo stato di confusione e di «prostrazione profonda» in cui si trovano i residui politici dell'esperienza del Sessantotto. Ancora una volta ci si chiede: «che fare per uscire dal dilemma riformismo o estremismo», un interrogativo su cui si vuole aprire una discussione al di fuori dai patriottismi di gruppo, e nella consapevolezza metodologica di «utilizzare vittorie e insuccessi nostri, come elemento di stimolo per un lavoro più generale di rifondazione della sinistra» 27.

Il documento che appare sul quotidiano del 18 giugno offre le linee fondamentali della riflessione post-elettorale, la parola d'ordine conclusiva «meglio meno ma meglio» da il senso del bisogno di un maggior rigore di analisi e di aprire alla sinistra tradizionale uno spazio per «rifiutare l'alternativa disperata fra avventurismo e rassegnazione». Ammettendo il non raggiungimento dell obiettivo elettorale si conclude che non è «possibile ne giusto contestare l'egemonia riformista sulle grandi masse, sul terreno elettorale», perché «senza aver prima sufficientemente costruito, sperimentato e reso credibile un'alternativa nel vivo del movimento di lotta» essa assume oggettivamente un «segno scissionista». Non basta limitarsi agli errori soggettivi per spiegare l'insuccesso, l'approfondimento deve essere radicale. Il voto, con il conseguente spostamento a destra, esprime «una difficoltà di crescita e di unificazione politica del movimento di massa e una diminuita radicalità della sua rivolta, una situazione in cui si vive "una crisi soggettiva del movimento, sia sul piano internazionale che sul piano interno", come contraddizione sociale ancora aperta per antagonismo della lotta e antagonismo dello sbocco politico». Cercando di proporsi come riferimento politico per una possibile saldatura strategica fra i due aspetti della contraddizione, pur riconfermando nelle sue linee essenziali l'obiettivo di superare lo scarto tra ipotesi politica e forze che debbono tra-durla nella pratica, la proposta politica avanzata al convegno di Rimini ripiega sul!' organizzazione. Anche se non si arriva alla prospettazione di un'ipotesi partitica, contro le insidie di equivoci fagocitamenti, si vuole superare lo stato «semiorganizzato e informale» del proprio corpo politico, un' esigenza ancora posta in modo generico e compromessa dall' incapacità di disancorarsi dalle fluttuazioni del movimentismo, di cui pure si segnalano ormai i forti limiti di unificazione strategica. Lo scioglimento del Psiup e la conseguente decisione del gruppo Miniati-Foa che, rifiutando di confluire nel Pci, costruisce il Partito di unità proletaria apre una nuova fase nella vita del Manifesto. I rapporti tra le due organizzazioni diventano un banco di prova ineludibile.

6. Il Pdup

Con il voto del giugno 1972 sparisce dalla scena politica il Partito socialista italiano di unità proletaria, non servono a nulla i suoi 700 mila voti. Finisce così una esperienza interessante quanto contraddittoria, nato come reazione al riformismo del Psi ha cercato nel Panzieri dei «Quaderni rossi», nella storia della sinistra socialista, nei nuovi movimenti, di trovare la sua identità. Una ricerca che ha finito per penalizzarlo anche se la sua breve storia è parte non secondaria della contestazione al revisionismo comunista, del movimento studentesco, dell'autunno operaio. Nelle sue file si sono formati dirigenti del movimento come Mauro Rostagno e Luigi Bobbio, protagonisti del lavoro operaio alla Fiat come Pino Ferraris. Decisivo il ruolo della sinistra psiuppina nella Cgil: Foa, Giovannini, Ultieri, Sciavi, Serafino, Miniati, Biondi (segretario della camera del lavoro di Firenze), Battisti (segretario della Fiom di Sesto San Giovanni), Ceri (segretario nazionale della Federmezzadri), Marcerario della Firn nazionale. Ma il contrasto fra il «gruppo dirigente che puntava alla liquidazione politica dell'opzione antiriformista in base alla quale il Psiup era nato»28 e le molte tensioni interne manifestate già al convegno del dicembre '68 non si supereranno e divisioni e sfibramento organizzativo precedono gli anni difficili che preparano la sconfitta del '72. La federazione di Firenze diventa la roccaforte dei «resistenti» che si oppongono alla confluenza nel Pci a cui si accinge la maggioranza della dirczione: Vecchietti, Valori e anche i loro tradizionali oppositori Libertini, Andriani, Asor Rosa, Militel-lo, Alasia. Per Miniati, operaio, sindacalista segretario della Fiom e membro della dirczione nazionale, la scelta non è scontata. Introducendo l'attivo della federazione fiorentina che si svolge due giorni dopo il voto afferma: «Per quanto ci riguarda le ipotesi sono queste: o fare le nostre scelte personali — e si può anche decidere di andare a casa, mica ce lo ordina il dottore di confluire nel Pci o nel Psi — oppure fare i matti. Decidere cioè di non mollare, di rifiutare la svendita di quel patrimonio di lotte, di valori, di forze che in questi anni bene o male abbiamo accumulato» 29. Tré settimane dopo si svolge a Firenze il convegno nazionale dei «resistenti», vi partecipano mille ex psiuppini, Antonio Lettieri, Elio Giovannini e Castone Sciavi, convergono sulla proposta di proseguire un' autonoma esperienza politica lanciata dal gruppo toscano guidato da Miniati e da Biondi, Ceri, Rosei, Biancolini, Biagioni. Aderiscono inoltre Pino Ferraris,

dirigenti della Calabria come Mario Brunetti e della Sardegna. Da autorevolezza e fiducia ali'ipotesi la carismatica figura di Vittorio Foa. Con molta fiducia e pochi dubbi nasce il Pdup quando «sembrava che le porte fossero ancora tutte aperte, o quanto meno socchiuse, e che il progressivo spostamento a destra della sinistra storica non indicasse comunque un potenziale di lotta e di alternativa costruito e fatto proprio da migliala di studenti e di lavoratori negli anni precedenti»30. Non e'è tempo per riflettere molto. Daniele Pretti, ricostruendo dàll'interno quella fase, scrive: «In un clima così euforico era diffìcile avere dubbi, e ancora più difficile era comunicarli. Esponendoli sembrava di fare del disfattismo gratuito, e l'autocensura in molti compagni, scattava automaticamente. Esisteva realmente lo spazio politico per un'azione "rivoluzionaria"? Gli strumenti concettuali e operativi per un'impresa di tanto respiro erano tutti da inventare o già esistevano? E se erano ancora da inventare, era poi possibile stringere i tempi, evitando quelli della riflessione e dell'accumu-lo di energie, idee, elaborazioni strategiche, e puntare soprattutto sulla militanza, sul volontarismo, sulle necessità di non cedere mai e in nessun momento?» 31. Le forze su cui conta il nuovo partito non sono poca cosa nel panorama dei gruppi, nel giugno del '72 possono stimarsi attorno ai tre-quattromila militanti. Molti i loro «vizi d'origine»: un insieme di nodi irrisolti, una concezione del partito in cui la tradizione morandiana mal si concilia con lo spontaneismo dei più recenti movimenti. Al tempo stesso li anima la tensione e la speranza di dar vita a una «nuova sinistra». La prima occasione che si presenta è l'unificazione con la sinistra del Movimento popolare dei lavoratori che contesta la scelta di Livio Labor e Luigi Covatta di confluire nel Psi: Migone, Bellavita, Puleo, Calari, Russo Spena, De Vita, Jervolino. Intanto convergono sul progetto altre forze, un processo che proseguirà fino al '73; militanti in crisi che abbandonano Lotta continua (soprattutto da Torino e dalla Toscana), mentre nel Meridione si registra qualche distacco dal Pci. Fra gli altri aderiscono alla nuova formazione politica Luciano e Ivan della Mea. Il primo con la sua lunga esperienza giornalistica (redattore dell'«Avanti!», dei «Quaderni rossi» e di «Lotta continua») ha un ruolo di primo piano nel gruppo redazionale di «Unità proletaria». Il primo numero esce il 21 ottobre 1972 raggiunge in breve 20 mila copie di vendita con 5000 abbonati. Presentando la rivista e le sue finalità Luciano della Mea, che firma i suoi corsivi con lo pseudonimo di «Luna storta», scrive: «Nel nostro impegno siamo unitari perché lo spazio politico che presumiamo di avere e di conquistarci è tutto dentro l'unità del movimento operaio e proletario. È la qualità dell'unità e delle alleanze che può cambiare, tutte le

società dominate e plasmate dal capitalismo hanno bisogno di una rivoluzione comunista» 32. Rapide le tappe della costruzione del partito, prima il convegno operaio di Bologna, nel novembre '72, a cui partecipano oltre 800 delegati, e subito dopo, il 2-3 dicembre, l'assemblea costituente di Livorno. La fondazione del partito è rinviata, per lo più il dibattito si concentra sul nome del nuovo partito: lasciare la parola socialista? sostituirla con comunista? Molti ex Mpl propendono per «Democrazia proletaria». Si conclude con una mediazione: Unità proletaria. E nominato un comitato di coordinamento composto da 60 mèmbri e un centro operativo: Bellavita, Brunetti, Calari, Ferraris, Foa, Migone, Miniati, Pretti, Ragozzino, Russo Spena, Rossi. La piattaforma politica approvata all'assemblea costituente di Livorno assume integralmente il documento sulla situazione economico-sociale elaborato, nell'ottobre '72, da Vittorio Foa. L impianto teorico del documento non si discosta dalle elaborazioni correnti nella sinistra sindacale sia per quanto riguarda le tendenze del capitalismo sia per la natura del conflitto di classe. Lo scontro non è più risolvibile sul terreno economico rivendi-cazionista ma solo sul terreno politico: «le vicende del '70 e del '71, quando la classe operaia rifiutò di pagare con l'aumento del-l'intensità del suo lavoro gli aumenti contrattuali, sono un luminoso esempio di crescita di coscienza di classe e al tempo stesso di crescente insolubilità delle contraddizioni capitalistiche. Se questa analisi risponde a verità, se non vi è soluzione economica interna al sistema per risolvere la lunga crisi che si è iniziata, dovrebbe essere chiaro che le soluzioni vanno cercate sul territorio politico. Necessità impellente per la classe capitalistica di fronte alla rilevanza dei tradizionali strumenti di politica economica, creditizia e monetaria, diventa l'azione politica per piegare la classe operaia e le sue organizzazioni. Non basta più oggi tentare di limitare il potere delle organizzazioni sindacali occorre piegare la classe» ". Derivano da ciò le indicazioni politiche e in primo luogo la funzione del lavoro in dirczione della classe operaia e delle fabbriche: «... la risposta operaia non può essere quella di attenuare il contrasto (per esempio negando che la questione dell'inflazione abbia radici di classe, negando che le sue radici siano nella sacrosanta spinta salariale in una economia di monopoli che non si rassegnano a ridurre i loro profitti) ma deve essere quella di portare lo scontro al massimo livello di coscienza» 34. Non sfugge leggendo i documenti e le mozioni conclusive di Livorno la polemica con la linea maggioritaria della Cgil: «Non è affidandosi solamente alla logica della singola vertenza o contratto sindacale che si spezzano i pericoli di stratificazione e di divisione corporativa della classe. Così come non è con una politica sempre più fragile di schieramento di vertice, che si risponde alla qualità di un attacco padronale, al quale occorre invece far fronte con

la ricomposizione unitaria del fronte di classe nella lotta contro la riorganizzazione del lavoro, contro l'inflazione e la disoccupazione, basato su un articolato e unitario movimento politico di massa radicato negli organismi di autonomia e di democrazia operaia» 3S. Dopo Livorno un frenetico attivismo, si moltipllcano le iniziative. Si discute molto della prospettiva unitaria, ipotesi che viene assunta organicamente da Pino Ferraris in un articolo che appare su «Unità proletaria» dopo lo sciopero generale del 12 gennaio '73, contro il governo Andreotti-Malagodi: «Esistono oggi le possibilità per l'unificazione e per il rilancio del fronte delle lotte e per la costruzione di una "nuova opposizione" capace di costruire una alternativa politica e programmatica radicata nelle lotte, nei bisogni popolari, nell'esigenza di una scelta radicale per il Mezzogiorno [...]. E solo l'urto della lotta e attraverso la costruzione di una nuova opposizione capace di conquistare un crescente consenso tra le masse per la concretezza e la chiarezza di un disegno alternativo che è possibile avviare una svolta, che non sia un semplice cambio di cavallo per il grande capitale e una nuova sconfitta del movimento operaio.

7. Una fondazione rinviata

Di fronte alle battute di arresto del proprio progetto politico, un' ipotesi che si è scontrata con le differenziazioni esistenti fra i gruppi, espressioni, come si riconosce, non di «pure manifestazioni casuali del loro settarismo» ma riconducibili alle profonde divergenze di analisi e di prospettiva; dopo il fallimento elettorale del '72 per il Manifesto la possibilità di un terreno comune d'iniziativa col Pdup è vissuta come una condizione indispensabile per la riaffermazione e il successo di una volontà aggregatrice. Ma l'unità si dimostrerà molto problematica, alla fine impossibile. Scriverà Vittorio Foa nel '77: «Ma più ancora che la mancanza di un serio confronto operò il fatto che ciascuno di noi non aveva ripensato criticamente la propria esperienza. Perciò risultava diffìcile mediare le due storie politiche. Cercavamo di mettere insieme dei cocci senza domandarci perché questi cocci erano tali, perché eravamo falliti prima» 37. Tuttavia, sia per il Manifesto che per il nascente Pdup ipotizzare e cercare l'unificazione significa rimettere in moto un processo, rompere l'isolamento, tentare una saldatura tra una storia vissuta all'interno della tradizione del movimento operaio e quello che è esploso ma anche frantumatesi dopo il Sessantot-to. Come conseguenza ed effetto della propria origine e della lunga infermità alla sinistra ufficiale, fondamentale per le due formazioni sarà il rapporto col Pci. Un dilemma irrisolto e la loro sconfitta maturerà proprio nell'incapacità di superare la schizofrenia fra continuità e discontinuità condannandosi, in questo modo, alla condizione minoritaria del gruppo di pressione. Il Manifesto, alla fine del '72, lancia la proposta di un lavoro comune col Pdup per il superamento della frammentazione a sinistra, inizia così l'altalena delle reciproche polemiche. Nel gennaio '73, il quotidiano critica «la risposta negativa dei dirigenti del Pdup» alle proprie proposte unitarie. Il gruppo di Miniati non accetta alcuna forzatura organizzativa, preferisce una posizione di attesa, preoccupato di essere risucchiato in una logica di schieramento precostituito piuttosto che lavorare a una aggregazione fondata su processi reali ed espressione della «ricchezza» del movimento. In questo senso rifiuta ogni rapporto privilegiato con una o più forze della «nuova sinistra». Pur riconoscendo la necessità di criticare ogni schematica contrapposizione al partito comunista, Miniati non

condivide la tendenza che si fa strada nel Manifesto di attribuire al Pci «sulla base dei singoli episodi» una sorta di «ripensamento della linea generale» 38. La fusione immediata, a cui pure qualcuno lavora, è ancora improponibile, tuttavia, contro il rischio di reciproci isolamenti iniziano le tappe di un progressivo avvicinamento contrassegnato da diffidenze e da diversità che non saranno superate dai congressi di scioglimento del '74 39. Le divisioni, che peraltro attraversano osmoticamente i due gruppi, si concentrano: sulla tattica da seguire nei confronti del Pci, sul ruolo del sindacato, sul movimento degli studenti e sulle sue caratteristiche, sul rapporto con i gruppi, sulle tipicità di «una nuova forza e di alternativa e di opposizione». Secondo Vittorio Foa, leader del Pdup, riecheggiando il suo itinerario politico a partire dalla vicinanza ai «Quaderni rossi», il centro della divaricazione consiste nell'acquisizione della necessità strategica di una «rifondazione teorica» della sinistra imperniata sulla «spontaneità operaia», ma proprio tale prospettiva, e da ciò l'origine delle resistenze, comporterebbe la negazione del Manifesto e della sua esperienza. Al contrario quest'ultimo insiste nel rinvenire nella sperimentazione prodotta le linee forza di un rinnovamento teorico, e quindi le premesse di un' adeguata forma organizzativa, corrispondente alla fase di un'irreversibile «crisi strutturale del capitalismo». Tuttavia sui dissensi, almeno temporaneamente, prevale un generico bisogno di unità, si fa leva sulle comuni convinzioni per candidarsi come punto di riferimento nei confronti della polverizzazione di frange o di interi gruppi, del dissenso cattolico e della stessa base comunista e socialista. Le parziali convergenze contro il compromesso storico, lanciato da Enrico Berlinguer dopo i fatti cileni, e l'esasperazione del momento salariale nelle lotte sindacali consolidano l'ipotesi della fusione. Dalle reciproche accuse si passa ai «buoni rapporti»; distende ulteriormente il clima il dibattito apertosi sul Manifesto (30 marzo '73) su «lotte operaie e prospettive politiche». Quasi compiendo una provocazione, Rossana Rossanda — alla fine di giugno — al seminario nazionale del Manifesto, all'Hotel Parco dei Principi, a Roma, propone drasticamente l'unificazione col Pdup 40. Dopo un'intensificazione delle iniziative unitarie, si arriva al convegno di Firenze del 23-24 novembre '73. L'occasione è salutata come una tappa storica: è la prima assemblea nazionale dei quadri dirigenti delle due organizzazioni, vi partecipano circa 800 delegati e 1.000 invitati, sono presenti delegazioni dei vari gruppi, della Fgci e del Pci. Il clima politico attenua le differenze, sconfìtto il governo di centro-destra Andreotti-Malagodi, si assiste a una consunta riedizione del centrosinistra, il tutto mentre Pantani punta al referendum sulla legge del divorzio. Tra l'assemblea di Firenze e i congressi di scioglimento è un alternarsi di volontà unitarie e di polemiche aperte o sotterranee. Il lungo documento di Lucio Magri,

pubblicato su «II manifesto» del 13 gennaio '74, riapre la discussione sul significato del processo di aggregazione; l'unificazione non può essere vista come un successivo comporsi di divergenze ma occorre da subito concordare alcuni punti discriminanti: la natura della nuova organizzazione; i rapporti col revisionismo, la qualità del-l'intervento nelle situazioni operaie. Al di là dell'esortazione alla chiarezza, l'articolo-documento, ancora troppo impregnato delle lontane tesi del '70, non supera l'impaccio fra una concezione del partito come avanguardia esterna, residuo terzinternaziona-lista, e i richiami movimentisti. Non è da escludere che la scelta di Magri tenda a evitare lo scivolamento del Manifesto verso le suggestioni del Pdup e in tal senso voglia agire come elemento di battaglia politica interna al gruppo contro i rischi di un offuscamento di identità in un processo di fusione governato Il documento è violentemente attaccato da tutto l'arco della sinistra extraparlamentare, compreso il Pdup; la critica è di nuovo revisionismo, si accusa il Manifesto di interpretare la crisi capitalistica secondo gli stereotipi del Pci e del sindacato. Parti-colarmente aspra Lotta continua che lo accusa di voler bloccare la lotta operaia sul salario rimandando a un generico quanto il-lusorio «modello alternativo di sviluppo». Sempre più consapevole dell' impossibilità di una meccanica traduzione politica dei conflitti sociali il Manifesto cerca una compiuta sistematizzazione teorica, premessa obbligata di un processo politico che aspiri al comunismo come alternativa globale. In questa ottica il partito è considerato lo strumento indispensabile di quel mutamento dello stato seminformale auspicato all'indomani della sconfìtta elettorale del '72; il partito, dunque, come intellettuale collettivo, secondo l'ispirazione gramsciana, l'avanguardia che si confronta dialetticamente col movimento organizzandolo e finalizzandolo. Al contrario, il Pdup, simbioticamente al travaglio che attraversa Lotta continua, sembra respingere un sistema teorico compiuto dentro cui imbrigliare i comportamenti sociali e quelle trasgressioni antistatuali che considera, senza operare le necessarie distinzioni, espressione diretta del crescere delle lotte. Da questo atteggiamento nasce la peculiarità della sua presenza nel sindacato, l'accentuata sensibilità per il sociale e insieme il diffuso pragmatismo, peraltro molti dei suoi dirigenti più significativi provengono dall'esperienza sindacale. Senza negare le rispettive storie è difficile mediare le due anime e il Manifesto, col documento di gennaio, non concorre a questo obiettivo, anzi, al di là delle affermazioni rituali, sembra volersi presentare come principale motore del processo aggregativo. Nello spaccato della crisi, vista come crisi di sistema e impossibilità di rilanciare i vecchi meccanismi di sviluppo, si avvertono nuove ragioni di polemica col gruppismo e in particolare con la tentazione di un autonomismo indifferente verso il ciclo produttivo, incapace di tradurre le lotte in un progetto rivoluzionario.

8. Le assemblee di scioglimento

Una parziale composizione dei contrasti si realizza nel febbraio '74 quando, accelerando l'unificazione, si decide la convocazione delle rispettive assemblee di «scioglimento» 41. Si raggiunge quello che Miniati, alcuni mesi dopo, riprendendo la polemica, chiamerà «un quadro di sufficiente unità» sulla natura della crisi e sul modo di affrontarla, una condizione minima che consente temporaneamente di superare i dissensi che nel Pdup aveva provocato il documento Magri. Le due formazioni nel promuovere le assemblee di scioglimento richiamano sinteticamente le ragioni dell'unificazione, ma al complesso del disegno manca il necessario respiro strategico, piuttosto esso sembra una tappa obbligata per «raccogliere le spinte sociali antagoniste» e contrapporle alla politica del compromesso storico lanciata dal Pci. Il programma di breve e medio periodo si articola in cinque punti: «La difesa rigida del salario operaio, del controllo operaio sullorganizzazione del lavoro, dei livelli di occupazione in modo non frantumato e corporativo. Una linea di attacco sul terreno dell'occupazione e dei consumi sociali che, sviluppando i caratteri assunti della lotta operaia nella fabbrica e fuori, impegni il movimento di classe in un orizzonte più vasto, capace di influire sulle scelte di politica economica. Una linea di lotta sulla scuola che contesti il carattere separato e classista dell'istituzio-ne per le rivendicazioni in cui si articola e, per la sua ispirazione generale, faccia del rapporto operai-studenti l'asse di un organico sistema di alleanze; si fondi una ritrovata autonomia ed unità del movimento politico degli studenti e della sua organizzazione di base. La capacità di politicizzare lo scontro sociale in una linea di potere che [...] imponga nel sistema i primi elementi di collettivismo e di eguaglianza, di critica di pro-duttivismo e di controllo operaio o sociale. Una mobilitazione larga sul "referendum" grossa occasione di scontro dal cui esito dipendono in larga parte i prossimi sviluppi della situazione italiana»42. La condotta da tenere sui «decreti delegati» per la scuola è motivo di una nuova divisione tra le due organizzazioni; al congresso nazionale della Cgil scuola (23 maggio), l'area del Manifesto si schiera con la posizione astensionistica dei gruppi; il Pdup, non senza sorprese, si schiera con la componente comunista del sindacato. Partendo da questo episodio e dai dissensi registrati nelle elezioni regionali sarde, Miniati, con un articolo apparso su «Unità proletaria» e ripreso da «II manifesto»

sollecita un profondo chiarimento sulle linee politiche e sulla dislocazione di quello che dovrà essere il futuro partito. Ancora una volta un'occasione mancata. Il chiarimento non ci sarà e si andrà in modo confuso ai congressi di scioglimento, quello del Manifesto (Roma 12-14 luglio), quello del Pdup (Firenze 19-21 luglio '74)43. Nel clima propagandistico dell'unificazione, le divergenze anche se richiamate nelle relazioni e riprese negli interventi si ovattano, il diffuso disagio si ricompone nella metodologia e nel mito del «lavoro comune», come condizione per un chiarimento rimandato al futuro. Al congresso di scioglimento del Manifesto, presenti 620 delegati, il tentativo di operare una ricognizione sulla crisi politica ed economica del paese è quasi totalmente offuscato dalla scelta di «fare un nuovo partito». La relazione di Lucio Magri, nonostante gli accenni critici, evita un bilancio rigoroso dell'e-sperienza di cinque anni e, senza interrogarsi fino in fondo sui risultati conseguiti nella costruzione di un'«alternativa» organizzativa e politica al revisionismo, ripropone un'indistinta e generica ristrutturazione della sinistra, «una lunga marcia attraverso la crisi». Appare debole la sottolineatura delle involuzioni in atto nei gruppi, scarse le analisi sul terrorismo e sull'autono-mia. Strumentalmente insiste sul concetto di «avanguardia di classe» e apre a possibili avvicinamenti: «Positivi processi sono in atto, contemporaneamente, nella sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria. Ormai è scorretto parlarne in termini di nebulosa» 44. Privilegia così solo un aspetto della contraddittoria vicenda dell'estremismo: i tentativi di Lotta continua e Avanguardia operaia di superare le loro rigidità ideologiche manifestando una maggiore duttilità «politica»; mentre, pur registrandoli, non coglie il significato che stanno assumendo le emorragie del gruppismo e gli interramenti nella clandestinità terroristica. La preoccupazione di non rimanere tagliati fuori, l'insi-stenza nel «saper fare, in modo corretto, una politica verso questo arco di forze», non aiuta nella definizione di una propria identità. Guido Viale, della segreteria nazionale di Lotta continua, intervenendo al congresso, torna su una polemica non sanata e che ha assunto caratteri antagonistici: «II Manifesto non si è mai posto il problema della rivoluzione in Occidente come momento di rottura e come processo di lotta armata e perciò ha elaborato una concezione tecnicamente gradualistica ed eclettica e politicamente opportunistica come dimostra senza equivoci il documento del gennaio del 1974 di Lucio Magri» 45. È evidente che si confrontano e si scontrano fra loro diversi approcci all'analisi della crisi. Per il Manifesto la crisi internazionale del capitalismo ha prodotto quel? oscillazione del sistema fra «repressione» e «nuovi compromessi», emblematiz-zata dai due casi estremi del Cile e del Portogallo. Giudicata come ineluttabile la crisi italiana, per il gruppo, non ci sono che due strade obbligate: la transizione al socialismo o la reazione; la fuoriuscita dal capitalismo o la restaurazione.

La relazione introduttiva e il dibattito dedicano molta attenzione alla «questione cattolica» e alla «questione comunista», considerate nevralgiche di ogni ipotesi di rifondazione della sinistra. La battaglia sul referendum e la vittoria che il movimento democratico e socialista ha conseguito, hanno rappresentato, una svolta radicale nella società italiana, un momento decisivo della caduta di egemonia della De, un risultato da cui partire per accellerare la rottura dell'interclassismo cattolico e far schierare su un terreno di rinnovamento socialista il maggior numero di cattolici. Al tempo stesso è impensabile «riqualificare tutta la sinistra» senza il coinvolgimento del Pci, si tratta perciò di agire sulla contraddizione apertasi fra uno sbocco governativo, che comporta il privilegio dei rapporti politici a scapito delle lotte, e le caratteristiche di un movimento che non può perdere le sue basi di massa e i suoi collegamenti sociali. Nell'atteggia-mento del Manifesto verso il Pci permane un complesso d'origi-ne non cancellato, da cui deriva la coscienza dell'impraticabilità di una rottura definitiva con la tradizione dell'insieme del movimento operaio italiano, un tratto essenziale per comprendere la sua anomalia nel panorama dell'estremismo. A Roma, non manca la polemica col Pdup, essa ruota attorno a due questioni di rilevante attualità politica: la presentazione di autonome liste alle elezioni, un dibattito che, passando per l'esperienza di Democrazia proletaria alle elezioni regionali del '75, si trascinerà fino alla travagliata scelta del «listone» alle elezioni del giugno 1976; il giudizio sulla proposta del governo delle sinistre. Sulle elezioni Magri lascia aperto il dibattito, anche se, memore della sconfitta del '72, mette in guardia contro i danni di una dispersione di voti e di una inutile e dannosa acutizzazione del rapporto col Pci; più decisa è la polemica sul governo delle sinistre, ipotesi già avanzata da Vittorio Foa che la riprenderà di lì a una settimana nel congresso di scioglimento del Pdup. Per il leader del Manifesto, anche se è necessario uscire da ogni mitica esaltazione del «movimento» contrapposto al quadro politico, l'unica strada percorribile è l'unità delle sinistre all'opposizione. Una prospettiva di governo, trattandosi solo di una cooptazione della sinistra operata dalla borghesia a fini repressivi e stabilizzanti otterrebbe risultati paragonabili alla sconfitta dei Fronti popolari con la conseguenza di produrre una sostanziale ingovernabilità dei movimenti di massa e quindi una vera e propria anticamera per la reazione borghese. Una settimana dopo il congresso del Manifesto, a Firenze il 21 luglio 1974, si svolge il primo congresso del Pdup, vi partecipano 742 delegati. Anche se non scioglie tutte le riserve decide di continuare il processo di unificazione con il gruppo del Manifesto. Le due anime non riusciranno mai a fondersi in una realtà omogenea e il successivo appuntamento di Bologna più che un congresso di fondazione sarà l'epilogo di un' unificazione mancata, fra contrasti e puntigliosi dissensi, aprirà la liquidazione di un difficile tentativo di fusione.

Significativa del clima di diffidenze e di contrasti è la polemica sulla sigla della futura organizzazione. Il problema si era già posto al congresso di Roma. Nell'espressione «per il comunismo» i militanti del Pdup vedono il permanere di una memoria staliniana. Per Miniati, riprendendo quanto affermato a Roma da Vittorio Foa, «la linea del comunismo non va intesa come astratta fedeltà ma come affermazione di valori nuovi di un modo diverso di produrre, di lavorare, di esistere» e, insistendo molto sull'idea di uguaglianza sociale contenuta nella formulazione, sottolinea che non si tratta di assunzione acritica ma «costituisce un impegno a far nostra 1 esigenza di unità e di liberazione totale del proletariato». Ripercorrendo l'esperienza dell'u-nifìcazione, Luigi Pintor scriverà: «La matrice del Pdup era socialista, la nostra comunista, non è una diversità da poco. Io pensavo che ci fosse una comune ispirazione libertaria, una comune autocritica rispetto alle nostre reciproche esperienze originarie, una affinità nella ricerca di nuove vie del processo rivoluzionario in Occidente, una sensibilità analoga (ma non acritica) alle novità del '68, ma mi sbagliavo. Non per etichettare ma per spiegarmi, credo di poter dire che nel Pdup pesava un forte residuo del massimalismo e del praticismo socialista, più che il movimentismo sessantottesco. Il Manifesto, semmai, di un limite opposto, un'ansia sistematica, un eccesso di ideologismo» 46. Al congresso di Firenze ampio spazio è dedicato al tema del sindacato: numerosi dirigenti di primo piano della Cgil e della Cisi intervengono nel dibattito. Per molti osservatori se il congresso del Manifesto era nelle intenzioni dei promotori il congresso della «rifondazione della sinistra», Firenze è quello della «rifondazione del sindacato». La denuncia di Miniati della «crisi del patto federativo», strumento di minoranze antiunitarie per esercitare sul movimento un diritto di veto, è ripresa da quasi tutti gli interventi. Se diverse sono le ipotesi che si confrontano: la fluidificazione dei gruppi dirigenti, il «sindacato dei consigli», la costruzione di un sindacato di sole «avanguardie», comune è la proposta di mettere in crisi la formula della Federazione unitaria, denunciando i patti federativi e spingendo per la convocazione nell'autunno di «una conferenza nazionale dei delegati» per avviare il superamento del modello sindacale esistente. Trascinati dalla critica, si arriva ad affermare che ciò sarebbe un «contributo alla linea unitaria», un elemento di chiarezza di fronte alla crisi politica e sociale del paese. Al di là delle fumose ipotesi sui nuovi rapporti fra politica e momento economico, il sindacato è considerato dal gruppo come il terreno più favorevole per la crescita dell'iniziativa di massa e quindi per la modifica degli equilibri politici esistenti. Miniati, nella sua relazione, dall'esame dei problemi che sono di fronte alle classi lavoratrici passa meccanicamente alle cosiddette soluzioni «più avanzate», che dovrebbero determinare un' auspicata «alternativa di classe», generica nella sua formulazione e nei significati che le si attribuiscono. Pur considerando i caratteri oggettivi, sia nazionali che internazionali, che intervengono nella crisi, privilegia

gli aspetti soggettivi: alla determinata e consapevole scelta capitalista di un' «aggressiva politica antioperaia» si deve rispondere con una lotta irriducibile, blocco contro blocco, fronte contro fronte. L'obiettivo immediato è la caduta del governo, nessun gradualismo in una sterile battaglia per la modifica dei decreti economici del governo; alla proposta comunista di un' ampia collaborazione di tutte le forze democratiche contrappone l'alternativa del «governo delle sinistre» all'insegna dell'«unità delle sinistre». Il giudizio sulla De rimane schematico: «Si può vivere anche senza la De» afferma, nel suo intervento, Giovannini. Anche nel congresso del Pdup si discute molto della «questione cattolica»; nelle sfaccettature che assume si avvertono le tracce di tutte quelle esperienze che, passando dall'impegno nelle Acli, nella Cisi e nella stessa Cgil, hanno portato il cattolicesimo sociale e il «dissenso» ad avvicinarsi alla milizia sindacale, con quel? originale commistione di radicalismo egualitario e di moralismo intransigente. Al termine dei lavori, è approvato fra molti dubbi, il progetto di unificazione con il Manifesto. Nel breve corso che porterà alla fusione e al suo rapido decomporsi, incertezze e reciproci sospetti aumenteranno le conflittualità fra concezioni diverse che vogliono coabitare insieme senza aver definito con rigore le coordinate unitarie della loro scelta. Dopo le due assisi di scioglimento, forzando la situazione, si prospetta la costituzione del Pdup per il comunismo per l'anno successivo (1975). Il gruppo che si raccoglie attorno a Miniati resta molto incerto sugli aspetti teorico-politici e sulla concezione organizzativa, in sostanza sulla stessa prospettiva del partito.

9. L'unificazione impossibile

Dopo Firenze e Roma la prima questione che si pone è la composizione degli organismi dirigenti. Il criterio della pari-teticità (il direttivo nazionale viene composto da 42 mèmbri del Manifesto e 42 mèmbri dellex-Pdup) è mal tollerato, inoltre il persistere della pratica delle componenti non aiuta a dare unitarietà di indirizzi e collegialità alla dirczione politica. Le elezioni per gli organi collegiali della scuola e il dibattito sul giornale sono ancora motivo di polemica. La commissione scuola, nella stragrande maggioranza formata da quadri ex Manifesto, decide di non presentare proprie liste, contro questa posizione si schierano i quadri dell ex Pdup; il direttivo nazionale, con molto travaglio, ratifica la scelta e propone di far confluire i propri voti sulle liste di sinistra. Non aiuta il processo unitario la decisione del Movimento autonomo degli studenti di Milano, il gruppo guidato da Mario Capanna e Beppe Liverani, di confluire nel nuovo partito. Una scelta mal sopportata dagli ex del Manifesto che vi vedono uno strumentale rafforzamento dell'ex Pdup milanese. Lo sforzo di mediazione compiuto da Magri con la sua relazione La fase attuale e i nostri compiti, presentata al direttivo nazionale del dicembre '74, non riesce a sanare i contrasti, anche se, dopo il vaglio delle federazioni, sarà definitivamente approvata nel direttivo del 4 gennaio '75. Il documento si pronuncia esplicitamente per la «linea del governo delle sinistre»; esclude la partecipazione a eventuali elezioni anticipate mentre propone di presentare proprie liste alle amministrative del giugno, infine stabilisce per l'aprile il congresso di fondazione. Ma ancora una battuta d'arresto. Il Pdup conosciuta la data definitiva delle elezioni amministrative, chiede lo spostamento del congresso di fondazione ripiegando per l'immediato su una meno impegnativa conferenza d'organizzazione nazionale. Per il gruppo ex Manifesto è gioco forza accettare questa soluzione intermedia. Poco prima del suo svolgimento si accende la polemica sulla gestione del giornale: in una riunione dell'esecutivo nazionale Vittorio Foa attacca duramente la dirczione di Luigi Pintor e la redazione de «II Manifesto», che nel frattempo ha sostituito la scritta «quotidiano comunista» con «unità proletaria per il comunismo», di non corrispondere al «processo di aggregazione». Magri concorda con la critica. In risposta, Pintor apre il confronto sulle pagine del quotidiano. All'ombra della

disputa sul giornale, autonomo o organo di partito, molte altre tematiche irrisolte: i conti con l'eredità del Manifesto, il confronto con l'insieme del gruppismo, la conflittualità fra le due esperienze, i nuovi e vecchi contrasti del gruppo storico del Manifesto 47. Il dibattito si snoda fra petizioni di principio ed elencazioni dei problemi, non trovando una sua conclusione rende inevitabili le dimissioni di Pintor, a cui seguono quelle di altri 6 redattori. La conferenza nazionale d'organizzazione, che simbolicamente si svolge il 18 aprile '75, registra un totale fallimento; la discussione non prende quota e l'assemblea si chiude con un giorno d'anticipo senza prendere nessuna decisione. Le manifestazioni antifasciste programmate nel paese offrono un utile alibi alla sua rapida conclusione. Sono giornate drammatiche: a Milano sono uccisi Claudio Varali! e Gianni Zibecchi, il primo colpito dai fascisti, il secondo dai carabinieri; a Torino muore Tonino Micciché, militante di Lotta continua, colpito da una guardia giurata; a Firenze è ucciso, forse dall'antiterrorismo, Rodolfo Boschi un militante del Pci. Il Parlamento approva, nel mese di maggio con il voto favorevole dei partiti di centro-sinistra e delle destre — contrario il Pci — la legge Reale. Il 15 giugno le elezioni amministrative. Il Pdup, come già sancito nel documento del direttivo nazionale del gennaio, partecipa alla prova elettorale. Si presenta in 10 regioni, in 6 con Avanguardia operaia sotto il simbolo di Democrazia proletaria. Il risultato, anche se non entusiasmante, circa il 2% dei voti, rappresenta un possibile spazio elettorale. Lo sconvolgente risultato del Pci, preludio del terremoto elettorale del 20 giugno, apre una situazione totalmente nuova; la De medita su se stessa, parla di chiarificazione, liquida il segretario Pantani che sostituisce con Zaccagnini, personificazione di un possibile rinnovamento. L'ipotesi di un crollo democristiano non è più un miraggio, il «governo delle sinistre» può diventare una realtà; a rendere credibile quest'ipotesi anche nel Psi, dopo l'amarezza elettorale, si fanno strada ripensamenti che muovono in questa dirczione. Virtualmente esistono tutte le condizioni per accelerare il congresso di fondazione. Eppure la commissione nominata per redigere le tesi congressuali non riesce a trovare una sintesi, non supplisce a questa difficoltà l'elaborazione del direttivo nazionale. Il documento presentato da Magri a commento delle elezioni, pubblicato il 10 luglio su «II Manifesto», non viene ne approvato ne respinto. Particolarmente sofferto il punto dedicato alla «ristrutturazione della sinistra». Magri, non rinuncia alla mediazione, lascia indefinita la natura del futuro partito,

ma consapevole delle dinamiche in atto, mette in guardia da due possibili rischi: limitarsi a essere un gruppo di pressione nei confronti del Pci o scivolare verso l'incerta fisionomia della gruppettistica. Nell' estate, in assenza di Vittorio Foa, la commissione tesi trova un provvisorio accordo e liquida il materiale preparatorio del congresso. Tuttavia le cose non procedono e, in seno al direttivo nazionale, sarà lo stesso Vittorio Foa, al suo ritorno, ad attaccare il documento definendolo «troppo filocomunista per essere approvato da un partito dotato di un minimo di indipendenza politica» 48. Vani i tentativi di ricomposizione. A Palermo — iceberg delle manifestazioni di dissenso — esplode il caso Mineo, un episodio rivelatore di uno stato d'animo. L'occasione è una lettera di Mario Mineo alla rivista «Praxis», redatta da militanti del Manifesto legati alla federazione di Palermo. Nella lettera si propone di costruire una «corrente leninista» nel Pdup per aprire un dibattito nella sinistra rivoluzionaria. Mineo considera la prospettiva del Pdup fallimentare in quanto le «due componenti fondamentali» del processo aggregativo sono entrambe subalterne al Pci e «andranno ancora una volta a un compromesso nel documento politico riconducendo il Pdup a un nuovo Psiup: «noi non riteniamo — prosegue Mineo — che sia opportuno uscire dal Pdup fino a quando questo partito non si sputtani totalmente di fronte alle masse. Nel frattempo dobbiamo marginalizzarli completamente per quanto riguarda la gestione di questo partito...». Seguirà l'espulsione di Mineo, ma continua il dissenso interno w. Alla fine dell'anno riesplode la questione del giornale. Luigi Pintor aggiunge ai «motivi personali», addotti al momento delle dimissioni le reali spiegazioni politiche. Senza aver unificato nulla, anzi in un clima aggravato dai contrasti, il 29 gennaio 1976, a Bologna si aprono i lavori del congresso di fondazione del Pdup per il comunismo. Numerose le delegazioni: per il Pci partecipano Tortorella, Mussi e D'Ale-ma; per il Psi, Landolfi e Petrazzoli; per Lotta continua, Viale; per Avanguardia operaia, Campi, Gorla, Rieser e Vinci; per il Movimento lavoratori per il socialismo, Guzzini; a cui si aggiungono rappresentanti dell'Udi, delle Acli, dei Cristiani per il socialismo e molte delegazioni straniere. I congressisti sono accolti dal benvenuto di Renato Zangheri, sindaco di Bologna50. Le attese saranno deluse, i lavori congressuali non sono aperti da una relazione politica ma da una scarna comunicazione di Eliseo Milani sullo stato del partito, un bilancio del «comune tessuto politico e culturale sul quale, sia pure in travagliata ricerca è stato possibile costruire un progetto di tesi profondamente unitario, perché frutto del confronto e non del compromesso». La breve introduzione, pur richiamando la crisi del gruppo dirigente e del giornale, il permanere delle logiche da componente, evita accuratamente di pronunciarsi sui punti di divergenza.

Miniati, riprendendo i motivi della crisi di sistema che caratterizza la fase politica, a cui fa da positivo contrappunto l'au-mentata consapevolezza delle masse, rilancia 1 obiettivo del governo delle sinistre. Cercando di trarre il massimo vantaggio politico dalla prova elettorale di Democrazia proletaria, insiste sulla possibilità di consolidare il rapporto con Avanguardia operaia: «II livello di unità può essere salvato e sviluppato soltanto assumendo come obiettivo preciso quell'unità anche organizzativa». Diversa l'opinione di Rossana Rossanda: il confronto con Avanguardia operaia deve andare ancora avanti, respinge la proposta di un comune cartello elettorale avanzato da Lotta continua, ed esprime molte diffidenze sul governo delle sinistre: «più debole di un governo borghese per la duplice contraddizione che si apre fra lui e gli interessi direttamente capitalistici, lui e gli interessi e la somma dei bisogni proletari». Pintor cerca una posizione unitaria, qualcuno lo definirà 1' «ago della bilancia». Nel suo intervento si preoccupa di precisare che non si tratta di una «relazione ombra», espressione di una corrente centrista o mediatrice, bensì di un «contributo unitario» a un «congresso che sappiamo diviso». Come aveva già avuto modo di dire al congresso della federazione di Roma, l'ex direttore de «II manifesto» si pronuncia contro la rincorsa al minoritarismo e contro ogni subalternità al Pci; ma il suo ragionamento, scarsamente suffragato da concrete esperienze, non supera le buone intenzioni. Su un altro versante, Vittorio Foa insiste sulla necessità di non essere «termometri» di situazioni, ne «suggeritori» consiglieri o critici, ma un partito vero, capace di dare uno sbocco politico al movimento operaio, di «fare a pezzi» i ceti intermedi, conquistandoli o suggestionandoli, capace di guidare la rivoluzione culturale.

Durissima la replica di Magri: accusa Pintor di aver «bombardato il quartier generale» dopo esserne uscito, definisce irreale e moralistica la tesi di un partito «come un'isola abitabile in un mare putrido»; allo stesso tempo, in polemica con Foa, riprende i temi esposti nelle tesi, tenta di dare concretezza ali' obiettivo di un governo delle sinistre, pone la questione del rapporto col Pci come competizione aperta fra «rivoluzionari e riformisti», fra chi riesce a dare «soluzioni migliori agli stessi problemi». Al termine del dibattito sono presentate due mozioni contrapposte: quella di Magri e quella di Foa. Pintor dichiara di astenersi e aggiunge: «la verità è che siamo arrivati al congresso con la volontà precostituita, in molti compagni, di giungere

comunque a contarsi e a far prevalere anche estremizzando le rispettive posizioni». La votazione, palese e per appello nominale, registra la spaccatura: 194 voti vanno alla mozione Magri, 181 a quella Miniati, 38 agli astenuti. All'unanimità, invece, è approvata la mozione presentata da Giuseppina Giuffreda sull'au-tonomia del coordinamento femminista all'interno del partito. Gli opposti schieramenti si riflettono nella composizione del comitato centrale: 31 mèmbri appartengono alla maggioranza, 28 alla minoranza, 6 sono gli astensionisti. Lo slogan di chiusura «Unità proletaria per il comunismo» ha il sapore di un'illusoria rimozione delle ambiguità del congresso, la divisione è profonda e diffìcilmente ricomponibile, le ambizioni e le speranze unitarie hanno subito una dura prova. In realtà: «II congresso di Bologna sancisce politicamente la spaccatura del Pdup per il comunismo a soli sedici mesi dall'an-nuncio dell'unificazione ta Manifesto e Pdup». La segreteria è formata da 6 mèmbri: Lucio Magri, Eliseo Milani, Massimo Serafini (ex-Manifesto), Silvano Miniati e Giovanni Russo Spena (ex Pdup) e Luigi Pintor. La regola del «tré, due, uno» vale anche per la dirczione del giornale: collabo-rano con Pintor: Rossana Rossanda, Valentino Parlato e Luciana Castellina (ex Manifesto), Vittorio Foa e Pino Ferraris (ex Pdup). Dopo 40 giorni di crisi (31 dicembre-10 febbraio) nasce il monocolore Moro, sarà un espediente incapace di fronteggiare la situazione politica, rapidamente matureranno le condizioni per lo scioglimento delle Camere e il ricorso alle elezioni anticipate. L' 11 febbraio, Valentino Parlato scrive su «II manifesto» «L'esito di questa crisi è clamoroso, riempire un vuoto di potere con un vuoto di governo». A ridosso della preparazione dello sciopero generale del 25 marzo, la risoluzione congiunta delle segreterie del Pdup e di Avanguardia operaia lancia la proposta di una manifestazione nazionale da tenersi a Roma contro il governo Moro, per «l'abrogazione dei provvedimenti antipopolari del governo». Mentre su «II manifesto» proseguono le polemiche sul ruolo del giornale, il comitato centrale del Pdup, sottolinea che il confronto fra i due gruppi avanza positivamente verso l'unifìcazione. Il comitato centrale con un ordine del giorno sulle elezioni, approvato con 10 astensioni, decide la presentazione di liste comuni con Avanguardia operaia. La scelta è ancora oggetto di valutazioni differenziate ma unitario è il rifiuto al cartello elettorale con Lotta continua: «II comitato centrale ritiene di non poter aderire alla formazione di uno schieramento elettorale con forze che non abbiano un comune denominatore strategico e quindi afferma l'impossibilità, in questa fase, di liste con Lotta continua» 51.

10. Il listone

I fatti successivi smentiranno clamorosamente questa perentoria affermazione, si arriverà al pasticcio del «listone», un eterogeneo quanto opportunistico cartello elettorale, l'unifìcazione con Avanguardia operaia non andrà avanti e la contraddittoria esperienza del Pdup per il comunismo si concluderà, nel febbraio '77, con la nascita di due distinte formazioni Pdup-Manifesto e Democrazia proletaria. Abilmente Lotta continua si scaglia contro quella che definisce la «discriminazione» del gruppo Manifesto-Pdup. Risponde alle accuse Pino Ferraris: «Lotta continua nella sua polemica con il comitato centrale del Pdup parla di tutto, di manifestazioni e di elezioni e, naturalmente di un Pdup che aborra le manifestazioni operaie alle Prefetture e, che, probabilmente, quando parla di azione diretta intende le marce della pace. Si dimentica soltanto di parlare dei rapporti tra Pdup e Avanguardia operaia. Che questo processo di confronto e di unificazione sia ingombrante per Lotta continua è spiegabile. Questa organizzazione ha sempre giocato l'unica diversione tattica e la divisione come strategia, per affermare la propria "boria di partito". A Lotta continua riesce diffìcile comprendere che, anche nelle forme dell'unità, la polemica è al primo posto e viene prima dei cartelli elettorali all'interno dei quali ciascuno vuoi fare l'indipenden-te o delle manifestazioni unitarie all'interno delle quali si rivendica la libertà dei comportamenti e si pratica la rissa degli obiettivi e delle regole d'ordine» 52. Rossana Rossanda insiste sul valore e sulla coerenza della proposta avanzata ad Avanguardia operaia, collocandola nella prospettiva della creazione di un' aggregazione unitaria a smista del Pci: «Ci muove, semmai, l'urgenza che forse per primi, e con fastidio di molti, venimmo indicando e riconfermammo al congresso: che, con l'approssimarsi del governo delle sinistre, la costruzione di una ipotesi rivoluzionaria e quindi ne riformista ne estremista, prenda corpo prima che sia troppo tardi [...]. Ci sembra che Avanguardia operaia maturi, non sappiamo in quali limiti, un'analoga consapevolezza che il cammino da prendere non è ne cavalcare la protesta marginale ne lo stare alle compatibilita dei riformisti, ma operare sul terreno che si apre nello scarto fra crisi, proposta e riformistica e movimento che essa stessa ha, in gran parte, alimentato e prodotto» 53.

Intanto si accelerano i tempi dello scioglimento anticipato della sesta legislatura. All'interno di Avanguardia operaia la situazione si presenta più articolata: il comitato centrale del 10 aprile discute due documenti uno sui rapporti col Pdup, l'altro sulle elezioni. Valutata positivamente lesperienza di Democrazia proletaria e il confronto avviato fra le due organizzazioni, pur sottolineando gli «interessanti segni di evoluzione» di Lotta continua si ritiene che ancora non esistano le condizioni per un incontro, tuttavia partendo dal patrimonio di Democrazia proletaria, non si esclude a priori, un'ulteriore verifica con Lotta continua sulle elezioni. Un'ambiguità che apre il varco alla manovra di Lotta continua: Sofri lancia ufficialmente la proposta di un unico cartello elettorale. Dopo una burrascosa riunione che si prolunga per due giorni, le segreterie congiunte del Pdup e di Avanguardia operaia, respingono l'ipotesi del cartello unitario ma, facendo una concessione, non escludono la possibilità di accordi locali con «altre organizzazioni o espressioni politiche di base». Il richiamo alla «pratica unitaria e a una presenza comune del movimento» offusca le differenze politiche sarà un comodo grimaldello per il gruppo di Sofri. Sulle pagine de «II manifesto» si susseguono articoli di puntualizzazione e di distinguo nei confronti di Lotta continua. Pintor insiste sulla coerenza, respinge «ogni dilettantistico cartello elettorale», sottolinea che non c'è nulla di presuntuoso o di settario nell'atteggiamento di Democrazia proletaria ma solo «il rispetto della nostra e altrui coerenza, e soprattutto il rispetto della serietà che gli elettori e le masse esigono a chi domanda la loro fiducia e il loro voto». Entrando nel merito delle differenze prosegue: «Essi esprimono un'altra linea generale, non di antagonismo critico e di preoccupazione unitaria nei confronti della sinistra storica, ma di contrapposizione o di strumentale affiancamento. Essi hanno ancora un'altra visione del processo di formazione del partito rivoluzionario, che identificano con sé e come prodotto di un fallimento di tutto il resto. Essi vedono il futuro governo delle sinistre come un bersaglio, così come l'insieme del sindacato. Essi hanno un programma intessuto di forzature estreme, perché mettono l'agitazione al primo posto» 54. E ancora: «Un anno fa i dirigenti di Lotta continua erano contro le elezioni, contro Punita a sinistra, contro di noi. Oggi sono animati sotto altre apparenze dallo stesso spirito "separatista", perché con le loro martellate unitarie vogliono erigere altrettanti steccati, uno tra nuova sinistra e sinistra storica, un altro dentro Democrazia proletaria, un terzo dentro il Pdup. Questi steccati noi vogliamo invece abbatterli tutti. Anche per abbattere possibilmente domani, col successo della grande battaglia politica nazionale in cui siamo impegnati, l'ul-timo steccato in cui Le continua a confinare se stessa rispetto al grande corpo del movimento operaio e alla sua prospettiva di vittoria in questa fase» ".

Dello stesso tono le considerazioni di Pino Ferraris: «l'ana-lisi della fase, l'ottica e gli obiettivi con cui Lotta continua guarda alle elezioni evidenziano che con questo gruppo sarebbe possibile [...] solo una unità senza principi e senza programma, unità dell'ultima ora» frutto di «trasformazione» e «confusione». Secondo Lotta continua, aggiunge Ferraris, dopo il 15 giugno si è di fronte a un progressivo intensificarsi della lotta autonoma della classe, con la conseguenza di una resa dei conti finale fra proletariato e «forze riformiste (sindacati e partiti)», strumentalmente le elezioni vorrebbero essere usate solo per «verificare i rapporti di forza generali tra area rivoluzionaria e area riformista, portando l'attacco frontale ai partiti di sinistra e ai sindacati avviati a scendere inevitabilmente lungo la deriva opportunistica». In questa prospettiva, dando per acquisita l'egemonia revisionista su un futuro governo delle sinistre, non è casuale il rovesciamento di posizioni di Lotta continua, che addensa sul programma di un governo del potere popolare: «una somma di obiettivi immediati dilatati all'estremo del massimalismo quantitativo». Un programma che rappresenta un assurdo combinarsi di esasperato statalismo (nazionalizzazione quasi totale dell'in-dustria, del commercio e delle banche, fondi nazionali, leggi coercitive) e di minimalismo rispetto alle strutture del movimento di massa. Inoltre l'ossessiva identificazione operata da Le della struttura del movimento con la sua istituzionalizzazione la porta a rifiutare i delegati e i consigli, a ridurre il potere operaio ai cortei interni, alle assemblee di tutti gli operai, al gruppo omogeneo, e per paura della cogestione il controllo operaio si riduce al diritto di veto. Da queste opzioni politiche generali, conclude Ferraris, Le fa scaturire un rapporto con l'a-rea riformista schematico e infantile che vede nei partiti riformisti e nei sindacati un unico blocco moderato, senza scorgere le contraddizioni positive e le dinamiche che in esso si possono aprire 56 . AU'interno del Pdup per il comunismo, l'area dell'ex-Manifesto, è nettamente schierata contro quella che Pintor paragona a un'ipotetica «Pralognan» rivoluzionaria e Ferraris a un'«adunata dei refrattari» 57. Lotta continua non desiste, intensifica la campagna propagandistica contro il «settarismo» de «II manifesto» e spiazzando il dibattito decide, nell'Assemblea nazionale di organizzazione del 21 aprile, di presentarsi autonomamente alla consultazione elettorale. Con questa mossa Lotta continua vuole drammatizzare la rottura e far scattare «emotivamente» il mito dell'«unità delle sinistre rivoluzionarie» volgendolo a proprio favore. L'operazione avrà successo per il permanere della paura di nuove dispersioni di voti, nonché per l'estre-mo grado di incertezza che caratterizza l'avvicinamento Pdup e Avanguardia operaia. La decisione dell'assemblea nazionale di Lotta continua, tronca ogni possibilità di procedere ad accordi locali, proposta che Adriano Sofri aveva liquidato come «provocatoria». La polemica incalza. «Il manifesto» in un articolo non firmato dal titolo II nemico principale scrive: «II quotidiano "Lotta continua", con grandi titoli

di prima, continua con "ritmo travolgente" la sua campagna "contro il settarismo di Ao e del Pdup". Nel numero di ieri ribadisce la presentazione "alle elezioni politiche in tutta Italia" di Lotta continua. Essa secondo una sua nota consuetudine si colloca al centro dell'universo politico, e invita "gli operai, i disoccupati, le donne, i militanti e le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria" a sostenere le liste di Lotta continua». È una dura requisitoria contro l'iniziativa di Lotta continua, giudicata scissionista e animata dalla volontà di ostacolare il processo di aggregazione fra Pdup e Avanguardia operaia: «In realtà l'attacco portato da Le ai compagni di Avanguardia operaia, secondo la vecchia tattica del "fronte unito dal basso", si rivela come uso scissionistico dell'invocazione unitaria così come la strumentalizzazione dello spirito unitario di compagni e militanti punta ad inserire un cuneo dentro l'unico processo vero e organico di unità a sinistra, quello portato avanti dal Pdup e da Avanguardia operaia [...]. Quali sono le prospettive unitarie che propone Le oltre il momento cartello elettorale? Le dice di volere una unità "che va oltre la scadenza elettorale" sui temi "del rifiuto della svendita dei contratti, della mobilitazione contro il caro-vita, della lotta antifascista e contro la repressione". Ma l'unità su questi temi e e stata anche prima delle elezioni, addirittura c'era anche quando nelle elezioni Le faceva i comizi contro Democrazia proletaria e per far votare Pci. Il problema reale è quello dell"'aggregazione" reale della sinistra rivoluzionaria. E in proposito l'impressione che abbiamo è che Lotta continua non abbia alcuna proposta che la confluenza di tutti gli altri in essa» 58. Dentro il Pdup le cose si vanno complicando, mentre Pin-tor e Magri rifiutano il cartello elettorale la componente Foa si dichiara per l'accordo. Analogamente ampi varchi si aprono in Avanguardia operaia. Già prima delTAssemblea nazionale di Lotta continua, Vittorio Rieser su «II Quotidiano dei lavoratori» aveva sottolineato che dentro Democrazia proletaria e dentro il Pdup esistevano differenti valutazioni circa la presentazione unitaria. Il comitato centrale di Avanguardia operaia, riunito in seduta straordinaria il 25 aprile, invita Lotta continua a non presentare proprie liste e accettare la proposta di accordi locali con Democrazia proletaria. L'intervista di Adriano Sofri su «Lotta continua» del 27 aprile è un altro colpo assestato al progetto del Pdup. Respinta la proposta degli accordi locali, Sofri lancia' due ipotesi: Lotta continua non presenterà nessun dirigente nazionale, oppure propone la presentazione alternata nelle diverse circoscrizioni elettorali. Si fanno sempre più numerose le prese di posizioni a favore del cartello unitario. «Il manifesto» è tempestato di lettere e di ordini del giorno favorevoli all'accordo. Il commento de «Il manifesto» del 27 aprile trincerandosi dietro una linea difensiva, svela l'imbarazzo e le titubanze. La richiesta di liste unitarie è

argomentata con la memoria della «lotta del '72», con la paura della dispersione di voti, con la polemica nei confronti dei vertici; non si fa mistero dell'ampiezza della campagna che si sta costruendo per premere sul Pdup. Trapela ormai un' arrendevolezza e una disponibilità che si accentua con lo spostamento di Avanguardia operaia. Il governo Moro cade ingloriosamente il 30 aprile, le elezioni sono stabilite per il 20 giugno. La pressione esercitata da una base, suggestionata dalla speranza di eccezionali trionfi, le polemiche interne, sono altrettante condizioni che, in contrasto con la nettezza dei giudizi espressi, portano alla svolta del comitato centrale del 7 maggio, preceduto dalle assemblee del 3 e 5 maggio. Al Pdup non resta che subire il listone.

NOTE 1 db. Sul caso del Manifesto, «II manifesto», n. 7, dicembre 1969. 2 La riunione congiunta dei due organismi si svolge dal 15 al 17 ottobre 1969, per il testo integrale del dibattito cfr. «La questione del "Manifesto": democrazia e unità nel Pci», Editori Riuniti, 1969. 3 ibidem, p. 15. 4 ibidem, p. 23. 5 ibidem, pp. 25-26. 6 ibidem, pp. 97-100. 7 Dopo il Cc continua la discussione sul Manifesto, «II manifesto», n. 5/6, ottobre-novembre 1969. 8 II dibattito alla base, «II manifesto», n. 7, dicembre 1969. 9 L. Magri, Ancora un lavoro collettivo, «II manifesto», n. 7, dicembre 1969. 10 ibidem. 11 «II manifesto», n. 1, gennaio 1970. 12 ibidem. 13 «II manifesto», n. 3/4, primavera-estate 1971. 14 ibidem. 15 ibidem. 16 L. Magri, Ancora un lavoro collettivo, «II manifesto», cit. 17 «II manifesto», n. 2, febbraio 1970.

18 Cfr. Le proposte politiche del Manifesto (Alcuni problemi di strategia) «Avanguardia operaia», nn. 6, 13, 18, 19, 21. 19 «II manifesto», n. 9, settembre 1970. 20 ibidem. 21 Cfr.: Il manifesto, centro d'iniziativa di Bologna, Delegati e lotte operaie. Atti del convegno operaio, Bologna, 21-22 marzo 1970. 22 Cfr. M. Serafini, Relazione al convegno operaio, Milano 30-31 gennaio, «II manifesto», n. 1/2, gennaio-febbraio 1971. 23 Cfr. Un quotidiano per la sinistra di classe, «II manifesto», n. 12, dicembre 1970. 24 «II manifesto», n. 3/4, primavera-estate 1971. 25 «II manifesto», 6 maggio 1972. 26 «II manifesto», quotidiano 13 maggio 1972. Un dibattito sul Manifesto aperto alla sinistra su elezioni, crisi di questi anni e «che fare» per uscire dal dilemma riformismo e estremismo. 27 ibidem. 28 D. Protti, «Cronache di "nuova sinistra". Dal Psiup a Democrazia proletaria», Gammalibri, 1979, p. 14. 29 ibidem, pp. 11-12. 30 ibidem, p. 14. 31 ibidem. 32 «Unità proletaria», n. 1, 21 ottobre 1972. 33 D. Protti, «Cronache di "nuova sinistra"», cit., p. 21. 34 ibidem, p. 22. 35 ibidem, pp. 22-23.

36 «Unità proletaria», 29 gennaio 1973. 37 R. Pellegrini - G. Pepe, «Unire è difficile, breve storia del Pdup per il comunismo», Colloqui con V. Foa, V. Parlato e L. Pintor, Savelli, 1977, p. 127. 38 Cfr. «Il manifesto», 19 gennaio 1973. 39 Cfr. Non si fondono il Pdup e il Manifesto, «Rinascita» n. 47, 1973. 40 Cfr. «Il manifesto» , 30 marzo 1973; R. Pellegrini - G. Pepe, «Unire è difficile», cit., p. 21. 41II Manifesto e il Pdup per l'unificazione, «II manifesto», 27 febbraio 1974. 42 R. Pellegrini - G. Pepe, «Unire è difficile», cit., p. 26. 43 Gli atti dei congressi di scioglimento sono pubblicati in: «II manifesto» documento n. 1, Congresso Nazionale del Manifesto», Edizioni Alfani, Roma 1974; «1° Congresso nazionale di Unità proletaria», edizioni Unità proletaria, 1974. 44 R. Pellegrini - G. Pepe, «Unire è difficile», cit., p. 30. 45 ibidem, p. 32. 46 ibidem, p. 173. 47 Cfr. «Il manifesto», Quaderno 3, «Dibattito sul Manifesto quotidiano», Alfani Editore. 48 R. Pellegrini, G. Pepe, «Unire è difficile», cit., p. 40. 49 ibidem. 50 ibidem, p. 42 e sgg. 51 ibidem, p. 58. 52 «II manifesto», 1° aprile 1976. 53 «II manifesto», 2 aprile 1976. 54 «II manifesto», 18 aprile 1976.

55 ibidem. 56 ibidem. 57 ibidem. 58 Il nemico principale, «II manifesto», 22 aprile 1976.

XI AVANGUARDIA OPERAIA

1. Unificare le avanguardie rivoluzionarie

Alla fine del '69, dopo le lotte contrattuali, sia l'emmelli-smo che l'operaismo attraversano una profonda crisi di indentila; incapaci di esprimere una dirczione politica credibile, non hanno offerto all'insieme dell'estremismo una teoria e una pratica unificanti, i rispettivi schemi interpretativi si sono dimostrati inadeguati a comprendere la fase politica e le proposte avanzate non hanno corrisposto allo sviluppo delle lotte. La realtà delle lotte non si è modellata ne sul vetero idealismo dei marxisti-leninisti, ne sul ribellismo economicistico; il superamento di questa strettoia è il principale presupposto della nascita di Avanguardia operaia. Come primo passo in questa dirczione, è necessario sottoporre a verifica critica le teorie e le esperienze dei gruppi già esistenti, nasce da questa esigenza la tendenza del gruppo a storicizzare la formazione delle nuove avanguardie, a indagare sulle ragioni del revisionismo, a capire i processi del movimento studentesco e i fallimenti del primo minoritarismo. L'ambizioso obiettivo di Avanguardia operaia è arrivare a una «fondazione teorica» capace di dar vita, attraverso la necessaria battaglia politica, a un' aggregazione delle varie esperienze e coagulare attorno a sé le «avanguardie rivoluzionarie». Occorre sistematizzare il groviglio di motivi antirevisionisti ormai largamente acquisiti, e gettare le premesse per una metodologia d'intervento e per una proposta razionalizzante rispetto al con-fusionarismo della fase, conseguenza di una sconfitta che sollecita nei militanti un bisogno di maggiore politicità. In questo passaggio si spiega il significato del primo pedagogismo che impronta l'attività pratico-teorica del gruppo. Retroterra del nucleo costitutivo di Avanguardia operaia: l'entrismo nella Fgci e nel Pci, il lavoro condotto nei comitati di base delle fabbriche milanesi e dell'area settentrionale. Fra i promotori della nuova formazione: Massimo Gorla, Stefano Semenzaio, Luigi Vinci, Silvana Barbieri, Luigi Bello e Silverio Corvisieri,

quest'ultimo già direttore del settimanale «la Sinistra». Luigi Vinci ricostruendo la nascita del gruppo afferma: «Non e è una data di nascita precisa di Ao. Formalmente si è costituita nel '68, o un attimo prima sul finire del '67 [...]. Ma per quanto riguarda la formazione di una parte del nucleo iniziale dei quadri milanesi, bisogna tornare molto indietro, bisogna risalire alle vicende del Pci, qui a Milano, di 4 o 5 anni prima. C e da rifare, in sostanza, la storia di un gruppo di sinistra interno al Pci milanese» 1. Quadri politici che sin dal '62 assumono una posizione critica rispetto al Pci, subiscono le suggestioni guevariste, partecipano alla costruzione del gruppo milanese Falce e martello, entrano in rapporto con la Quarta internazionale e guardano alla rivoluzione culturale cinese. Esperienze politiche che influenzeranno molto «l'amalgama di giovani del movimento studentesco, dei quadri operai dei Cub, e di quadri provenienti da battaglie di sinistra anche lunghe nel Pci» che li spingerà ad ambire un ruolo nazionale 2, dimensione mai raggiunta sul piano della capacità di insediamento e presenza politica. L'organizzazione comunista Avanguardia operaia si presenta nazionalmente con il documento Per il rilancio di una polìtica di classe. Con una punta di orgoglio e con l'evidente scopo di accattivarsi le simpatie di cani sciolti e militanti di gruppi e gruppetti afferma di essere composta per lo più di quadri operai e di elaborare la propria proposta «alla luce di concrete esperienze precedenti o tuttora in atto e in sviluppo (Siemens, Carsico, Sip, Pirelli ecc.) dai contenuti non dissimili» 3. A partire dal dicembre '68, lo strumento fondamentale per portare avanti il lavoro di «studio e di ricerca» è l'omonima rivista a cui si affianca la pubblicazione dei «Quaderni di avanguardia operaia». Il primo «Quaderno» intenzionalmente affronterà l'esperienza di Lenin dai gruppi al partito 4. Nel clima, pieno di retorica, di quegli anni si vuole proporre una sorta di similitudine e, attraverso la ricostruzione storica della nascita del gruppismo, oggettivare la possibilità di dar vita a una «nuova aggregazione rivoluzionaria» che abbia come premesse teoriche l'elaborazione di Avanguardia operaia. Così Luigi Vinci argomenta le peculiarità teoriche del gruppo originario: «... la lettura marxista di Marx, leninista e marxista di Lenin (quindi rompendo non solo con la lettura togliattiana, ma con quella staliniana); il recupero, quindi degli aspetti fondamentali del leninismo, sulla questione dello Stato, del partito, dell'imperialismo, sull'attualità della rivoluzione proletaria; la lettura gramsciana e leninista di Gramsci...» 5 a cui aggiunge un'approccio a Trot-skij considerato «leninista ortodosso» e una «lettura maoista e leninista» di Mao. Un insieme di culture politiche traguardate nella prospettiva di un «recupero di una analisi rivoluzionaria dello Stato in occidente» e che, almeno nelle intenzioni, cercano di superare i limiti dell'esperienza della sinistra socialista e dei «Quaderni rossi».

Nella sua analisi storica, in coerenza con l'esperienza dei suoi principali protagonisti, il gruppo fa risalire l'origine della «sinistra rivoluzionaria» al «revisionismo» del Pci, e più esattamente alla sua trasformazione da partito revisionista stalinista a partito revisionista socialdemocratico. I processi politici e sociali degli anni sessanta danno un nuovo impulso alle lotte e ali'aggregazione di un'opposizione al sistema, un contesto che muta la collocazione della «sinistra storica» (bordighiani, IV Internazionale, Azione comunista), una contestazione rimasta fino ad allora totalmente inglobata nel Pci con l'eccezione di qualche illusione rivoluzionaria nella milizia all'interno del sindacato. Nella formazione del centro-sinistra le premesse del dissenso: lo sviluppo capitalistico richiede al «sistema» l'assunzione di nuovi «strumenti di razionalizzazione», un progetto capitalistico a cui si piega il Pci e il movimento sindacale e la loro linea poli tica diventa un freno ali'estensione delle lotte operaie alla mobilitazione di strati «piccoli-borghesi radicalizzati» 6. All'inizio degli anni sessanta, con il «rilancio della lotta di classe in Italia», si realizzano le premesse politiche per la formazione delle «nuove avanguardie» e le condizioni della «riscossa operaia». Esplode la contraddizione fra classe operaia, partito comunista e sindacato: «una responsabilità del "partito revisionista" che, facendo leva sulla sua egemonia complessiva sulla classe operaia, portò avanti, sia direttamente che attraverso la Cgil, una linea tesa a spegnere ogni combattività e a chiudere a ogni sbocco rivoluzionario» 7. Al vuoto di dirczione «rivoluzionaria» corrisponde l'estensione di avanguardie «antirevisioni-ste» sottratte all'egemonia dei partiti della sinistra storica e del sindacato, tuttavia ancora non si sono tagliati tutti i ponti, e i quadri «più attivi» come strumento di pressione scelgono la milizia nel sindacato giudicandolo, nella transizione, uno strumento ancora utile per una battaglia rivoluzionaria. Uno spostamento che fa perdere capacità di iniziativa alle strutture del Partito comunista in fabbrica, sempre più sclerotizzate nella loro routine burocratica; mentre il sindacato si rivitalizza aprendo spazi «antirevisionistici» e offrendosi come occasione concreta per costruire la nuova opposizione di sinistra 8. I forsennati attacchi dei governi centristi, accreditano questa visione del sindacato e in particolare della Cgil, ma l'impossibilità di incidere sulla linea del Pci fa desistere da ogni ipotesi entrista e nella seconda metà degli anni sessanta determina una netta rottura col sindacato; un chiarimento che ha un fòrte «significato politico antirevisionista». Pur manifestando una disponibilità all'analisi delle forze politiche anche per Avanguardia operaia: potere, capitalismo, partiti, diventano categorie metastoriche e tutto il processo politico è rappresentato come la dialettica fra inespresse potenzialità rivoluzionarie e cedimenti «revisionisti». Tuttavia la chiave interpretativa, sia pure nella sua schematicità, corrisponde alle ragioni soggettive che portano una generazione di militanti a collocarsi in modo antagonista al Pci e al sindacato: «II proletariato giovane si pone così in un rapporto sostanzialmente

sole di adesione generica "d'opinione" verso la struttura e l'attivita del movimento operaio organizzato. Questa posizione di estraneità ideologica e di adesione politica generica al movimento operaio permette, è vero, una maggiore mobilità ed una tendenza più forte alla autorganizzazione, ma va pur sempre vista come una condizione di relativa inesperienza politica e ideologica» ". Ne conseguono atteggiamenti diversi di fronte alle lotte, al significato della democrazia, uno sfocamento della stessa «autorevolezza» dell'organizzazione in quanto tale; si tenta la strada del sindacato come «strumento di radicalizzazione» delle lotte economiche e per far assumere ad esse i connotati della lotta politica. In questo contesto, in una contraddittoria acquisizione di una coscienza politica si forma quel tipo di «militante» che sarà decisivo per la nascita delle «nuove avanguardie». Le correzioni della Cgil nel corso degli anni '60, l'interven-to di fronte alla programmazione, la volontà di avviare un processo verticistico di unificazione sindacale, fanno cadere le ingenue speranze: nella sinistra organizzata ha vinto la linea della collaborazione. Si produce una progressiva, ma inesorabile, perdita di credibilità del Partito comunista e della sua linea, una crisi acutizzata dai problemi del movimento operaio internazionale, e in particolare, dalla rottura intervenuta fra i due grandi paesi socialisti, la Cina e l'Urss. Perso ogni riferimento internazionale, il partito comunista non rappresenta più un legame ideale con il «blocco socialista mondiale» e sempre più le giovani generazioni, sia operaie che studentesche, rompono ogni legame «sentimentale» acritico e fiduciario con il «grande partite della classe operarla». Altre sono le loro esigenze; chiedono nuovi punti di riferimento e nuove sperimentazioni politiche e culturali. Un distacco dalla linea del Pci più facile per i «piccoli borghesi radicalizzati», mentre resta più difficile per il proletariato spezzare il rapporto con il «grande partito» e con le organizzazioni sindacali. Nella ricostruzione storica della «nuova sinistra», Avanguardia operaia polemizza con le altre formazioni; alla ricerca di una sua identità, attacca il dogmatismo del Pcd'I, l'idealismo moralistico dell'Unione, l'operaismo di Potere operaio, lo spontaneismo di Lotta continua, l'eclettismo del Manifesto. La strada scelta è superare la frantumazione, andare oltre l'esperienza del gruppismo. Tuttavia questa esigenza rimarrà a livello di un' intenzione, di un piano di lavoro, e il gruppo stesso non sarà esente dai limiti, dalle ambiguità e dagli impacci dogmatici criticati nelle altre formazioni. Negli articoli dedicati ai vari gruppi, una radiografìa che, al di là della tendenziosità, offre molti spunti di riflessione purtroppo non sufficientemente sviluppati nel futuro, si rappresentano dall'interno le divisioni presenti nell'area dell'estremismo: i segni di dibattiti laceranti, le ragioni dell'impraticabilità di dialogo fra esperienze tanto diverse fra loro, le frantumazioni, la logica settaria del gruppismo; la ricostruzione di una geografia politico-culturale non riducibile alla categoria di «minoritarismo» 10.

2. La visione politica generale

II primo numero della rivista esce nel dicembre '68, andrà avanti per 27 numeri, sostituita poi da «Politica comunista» a cui si affianca il «II quotidiano dei lavoratori». La Prefazione spiega le ragioni che hanno portato alla decisione di «darsi la struttura di gruppo»; una decisione che — si precisa — non va intesa come chiusura settaria. A conferma di ciò e rappresentando la dirczione in cui si vuole lavorare gli ampi articoli dedicati ai Comitati unitari di base della Pirelli Bicocca e delPAtm, i documenti sulle agitazioni della Sip-Stipel e delle Commissioni operaie del movimento studentesco milanese. Con il secondo numero, maggio '69, si supera ogni ambito locale, si comunica l'unifìcazione del gruppo milanese con il circolo Lenin di Me-stre e del circolo Rosa Luxemburg di Venezia. Fra le tappe fondamentali della prima espansione di Avanguardia operaia vanno ricordate: nell'estate del '70, la fusione con la stragrande maggioranza del circolo Karl Marx di Perugia; con il circolo Lenin di Umbertide; con il circolo Lenin di Foligno; nel settembre-ottobre '70 l'unifìcazione con Sinistra leninista di Roma; nel gennaio '72, con Unità proletaria di Verona. Sin dai primi documenti il gruppo concepisce il processo aggregativo come valorizzazione delle esperienze locali e settoriali, considerate essenziali per stabilire un rapporto reale fra avanguardie e masse purché «inserite» nel progetto di costruzione del partito rivoluzionario, condizione — questa — per arrivare a produrre un confronto, un'analisi e un intervento comune, per avere una «visione politica generale». Il vuoto politico apertosi con la crisi del movimento operaio organizzato va colmato da un' organizzazione nazionale che sappia unificare l'arco delle forze rivoluzionarie: è stato questo l'obiettivo mancato dei gruppi, incapaci di superare le loro divisioni. Il riferimento a Lenin, operato con forzature libresche e rigidità dogmatiche, non serve a liberare il gruppo dalla perenne contraddizione fra l'esigenza del partito e la segmentazione degli interventi, una bipolarità che si trascina nella costruzione della sua rete organizzativa fino alle convergenze con l'area Miniati nell'esperienza di Democrazia proletaria. Consapevole che «un partito non si crea dal nulla», ma ha bisogno di un lungo processo costruito per tappe successive, il gruppo non compie l'atto volontaristico di fondare il partito, si limita ad autodefinirsi un «gruppo politico» che si è dato una dimensione di intervento nazionale. Rispetto all'Unione, ormai sconvolta dalla crisi, Avanguardia operaia si presenta

meno dogmatica e moralista, ne rifiuta lo stalinismo e il marxismo ideologizzante, anche se lo spirito avanguardista da «gruppo dirigente» e alcuni moduli organizzativi suggeriscono qualche similitudine. Dal Manifesto, anche se critica la sua vocazione all'eclettismo e le incertezze verso il «revisionismo», riprende la volontà di discutere e di confronto. La rivista concentra l'attenzione sugli elementi che caratterizzano la fase politica che considera contrassegnata da una crisi di regime al cui superamento sono impegnati, in una logica convergente, «borghesia» e «revisionismo». «Ordine, stabilità, efficienza», a questo trinomio lavora la borghesia imperialista, l'inserimento del Pci nell'area governativa come regolatore e nor-malizzatore di conflitti sociali, è organico a questo disegno: è su questo punto che si è spaccato il partito socialista. È su questo punto che Moro ha capovolto la sua vecchia impostazione e ha posto la sua candidatura a leader della grande coalizione italiana u. La partita, tuttavia, è ancora aperta; permane la contraddizione fondamentale del Pci: il divario fra la linea portata avanti e il suo rapporto con le masse e con le lotte, su questa contraddizione bisogna agire per contrastare il neoriformi-smo del patto sociale. Nel corso delle lotte, per Avanguardia operaia, i comitati unitari di base hanno saputo inserirsi nello scontro fra avventurismo estremistico e codismo del sindacato, dimostrando così l'efficacia di forme organizzative capaci di guardare oltre «la lotta per la lotta» e i «vaneggiamenti dell' autonomia operaia». La sperimentazione e la pratica dei comitati di fabbrica diventano, quindi, la premessa indispensabile per la costruzione di un nuovo partito rivoluzionario. Cercando di conciliare tesi da «doppio potere» e governo delle spinte settoriali, nella prospettiva di un partito in divenire, i comitati di base debbono diventare «organismi di massa» con un loro autonomo sviluppo organizzativo dentro e fuori la fabbrica «recependo in questo modo tutte le esigenze reali e le sollecitazioni dei lavoratori al fine di poterle trasformare in un' organica piattaforma politica che li mantenga costantemente alla testa delle lotte» ". Una separazione fra partito e movimento che non è frutto solo di dogmatismo ma esprime la contraddizione fra la presunzione a divenire partito del nucleo promotore e la limitatezza del proprio campo di intervento, che tuttavia si pretende di orientare verso una «politica generale». Nella fase di avvio, con un'astratta rigidità organizzativa, il gruppo prefigura due livelli di militanza: i «quadri», selezionati attraverso un vero e proprio esame ideologico-politico e secondo la prassi della candidatura; i militanti degli organismi di massa, da cui si recluta al partito. Il modello organizzativo, mutuato dai principi maoisti, è quello del «fronte unito»; ma rispetto all'Unione, il processo si rovescia, mentre per il gruppo emmellista, si procede dal centro verso la formazione dei vari raggruppamenti del Fronte unito, per Avanguardia operaia,

almeno sul piano teorico, è il contrario; inoltre puntando sulle varie specificità si accentua il carattere autonomo dei diversi settori di intervento, prefigurando per ognuno di essi l'ipotesi di un coordinamento nazionale. In realtà la vita del gruppo è più fluida delle affermazioni di principio e proprio l'irrigidi-mento organizzativo, che seguirà al congresso del '74, sarà una delle cause del precipitare dello scontro interno. A partire dai comitati unitari di base, i diversi organismi di massa, quelli preesistenti che vanno coordinati e quelli che volta per volta si inventano, sono i punti di forza del primo sviluppo organizzativo e d'iniziativa del gruppo. Progressivamente, Avanguardia operaia, a fronte di irrisolte ambivalenze, frutto di questa dialettizzazione fra teoria del partito e dinamiche sociali, offuscherà questa originaria impostazione a vantaggio di un modello partitico più rigido, un passaggio che muterà radicalmente la fisionomia del gruppo. La tendenza a semplificare le contraddizioni nel burocraticismo organizzativo lo esporrà a scossoni e perturbazioni, nel complesso la sua esperienza si distinguerà dalle frange più oltranziste dell'estremismo facendolo avvicinare sempre di più all'area del Pdup-Manifesto da cui si differenzierà insieme ai collettivi di Democrazia proletaria, per la ricerca affannosa di una propria identità antirevisionista. Faciliterà questa convergenza la tendenza a identificare lotta economica e lotta politica. Sin dalle sue origini infatti. Avanguardia operaia, nel suo assemblaggio teorico, con un' accentuazione di stampo economicista delle tesi del «doppio potere», tenta una spuria combinazione fra democrazia consiliare e rigidità terzinternazionalista. I comitati unitari nelle fabbriche, nelle scuole, i collettivi comunisti nei quartieri, diventano la forma di «democrazia proletaria» da contrapporre alle organizzazioni tradizionali della classe operaia, l'alternativa al sindacato e alle sue forme rappresentative, i germi del nuovo «potere» contrapposto al sistema della borghesia. La crisi di regime prodottasi dopo l'esplosione delle lotte contrattuali, per Avanguardia operaia accentua la gravita della crisi che attraversa il gruppismo e impone a tutto il movimento rivoluzionario di «costruire una dirczione politica non avventuristica, burocratica o settaria, ma una dirczione che sia la reale espressione diretta delle masse in lotta, che le masse stesse nel corso della dura e diffìcile battaglia per la riconquista della loro autonomia dai padroni e dai revisionisti riconoscano come vero e necessario punto di riferimento» ". La critica è mossa sia ai gruppi marxisti-leninisti che alle posizioni di Potere operaio e Lotta continua; mentre il sindacato è accusato di un «estremismo verboso» che nasconde la sostanziale incapacità di uscire dalla contraddizione fra la spinta crescente delle lotte operaie e 1' «impossibilità strutturale» dell'apparato capitalistico di risolvere le nuove esigenze sociali e di partecipazione. Polemizzando con Potere operaio e Lotta continua non si tratta di una «corsa al rialzo col sindacato» ma, insiste

Avanguardia operaia, per egemonizzare le «lotte in chiave antirevisionista ci vuole una organica piattaforma politica».

3. Tra i comitati di base e partito

Al momento della sua costituzione come gruppo nazionale, Avanguardia operaia, quasi a giustificarsi della maggiore attenzione prestata ai fatti politici e all'analisi delle forze in campo, accentua forzosamente i toni antirevisionisti e antisindacali. Non si può avere dialogo col «vecchio», tutto si gioca guardando al campo rivoluzionario e alle sue enormi possibilità. Nelle sue piattaforme: aumenti uguali per tutti, lotte al cottimo, unificazione operai-impiegati, orario di lavoro, nocivi-tà; nuovi strumenti e metodi lotta: rifiuto della delega, rifiuto di manifestazioni «processioni pacifiche» o «parate dimostrative» bensì manifestazioni capaci di porre obiettivi e ottenere risultati. La prima delusione verrà dai comitati unitari di base, sono stati presentati con grande enfasi, anello di raccordo fra il futuro partito e le esigenze delle masse, su cui si modula la prima centralizzazione del gruppo, ma da essi non verranno i risultati sperati, non produrranno l'auspicata piattaforma politica solo in alcuni casi si riconosceranno nel gruppo. Ne seguirà, dopo il tentativo di integrazione del convegno milanese del giugno '72, una maggiore cautela e un progressivo moderatismo di posizioni, mentre nell'infuriare dei primi germi della lotta armata aumentano le distanze dai settori più oltranzisti dell'estremismo. Avanguardia operaia al suo sorgere si confronta e, per qualche verso, fa sua l'esperienza dei comitati di base. Paradossalmente non e' era nella cultura dei fondatori del gruppo nulla che portasse ai comitati di base e tuttavia proprio attraverso un «rapporto stretto Ao-Cub» prende vita una istanza partitica e Avanguardia operaia si incontra con altre realtà territoriali ed estende la sua presenza geografica 14. Sembra meno «revisionista» del Manifesto, cerca di offrire una risposta al bisogno di conoscenza e di politica, attrae con l'intensa produzione di materiali critici dando l'impressione di voler fondare una «teoria» per uscire dall'ideologismo e dal ribellismo. In polemica con gli spontaneisti di ogni tipo. Avanguardia operaia si sente gruppo e vede nei comitati di base, in cui operano le sue cellule, il germe futuro del nuovo sindacato rivoluzionario, «riconquistato» al ruolo di «scuola di comunismo». I comitati unitari diventano una figura pluridirezionale: attraverso i militanti del futuro partito tendono a garantire l'abbattimento della divisione fra partito e

sindacato; mentre visti nel rapporto con le masse possono funzionare come sede di reclutamento e configurarsi come «sindacati rossi», contrastando l'esclusivismo del sindacato tradizionale. Avanguardia operaia con il suo peda-gogismo da «organizzazione politica» apre un incessante polemica con gli altri gruppi, ne contesta l'avventurismo, l'assem-blearismo, cerca di trovare un linea e vuole farsi partito. Mosca cocchiera del gruppismo tende a lavorare criticamente sulla sua crisi. Dopo le elezioni regionali del giugno '70, tenta un «bilancio sui problemi di organizzazione» 15. Le lotte del 68-69 hanno fatto sentire l'impotenza delle forze rivoluzionarie, è mancato il partito rivoluzionario, un'assenza che ha consentito ai «revisionisti moderni, al padronato di passare alla controffensiva nei confronti delle forze rivoluzionarie». Avanguardia operaia si assume il merito di aver previsto la conferma del consenso ai sindacati, la crisi di un gruppismo privo di una scientifica analisi della realtà, ma anche l'apertura di importanti spazi di iniziativa per «i rivoluzionari in possesso di una corretta linea politica». Da ciò la consapevolezza: «che Ao avendo davanti a sé una rappresentazione realistica della situazione, avrebbe sicuramente resistito alla controffensiva revisionista in una prima fase e sarebbe poi passata ad un significativo sviluppo della sua organizzazione e della sua influenza non appena fossero cominciate a manifestarsi le contraddizioni implicite nell'operazione dei revisionisti» 16. Ci sono le condizioni del partito, certo non si tratta di un processo senza difficoltà ma, aggiunge Avanguardia operaia, «non pare credibile un periodo di lunga macerazione teorica». Secondo i teorici del gruppo, tré elementi caratterizzano il dopo autunno: l'irreversibile crisi dei gruppi spontaneisti e dogmatici, a cui si aggiunge, fatte salve le situazioni di Milano e di Napoli, la paralisi del movimento studentesco; l'ipotesi centrista e federativa del Manifesto; lo sviluppo di Avanguardia operaia e dei suoi collegamenti. Caduta l'ipotesi di unirsi ad altre formazioni in una comune organizzazione marxista-leninista, ipotesi resa ancora più complessa dal disegno federativo del Manifesto e dalle suggestioni entriste del movimento studentesco di Mario Capanna, si guarda con eccessiva fiducia al proprio stato organizzativo. Il consolidarsi dei due centri di Milano e Venezia, a cui si è aggiunta la sezione di Roma, ha dato i primi risultati: l'organizzazione si è rafforzata e le manifestazioni del 25 aprile e del 1° maggio sono esaltate come testimonianza concreta dell'influenza esercitata nei confronti del movimento. Secondo il bilancio tracciato, si calcola che 400-500 fra militanti e simpatizzanti partecipano ai gruppi di studio promossi a Milano; si giudica positivo il passaggio dalla struttura in comitato direttivo, assemblea, gruppi di intervento (un residuato delle forme organizzative del movimento) a quella in comitato direttivo, assemblea dei delegati di cellula, cellule, un assetto che anticipa il modellarsi in partito.

Nella prospettiva immediata si fissano gli obiettivi priori-tari: consolidamento organizzativo, propanganda della propria linea, integrazione con gli altri gruppi, lavoro di studio e di elaborazione. E in questa fase che si decide di affiancare al giornale i «Quaderni di Avanguardia operaia», una collana che avrà un certo successo. Fra i principali numeri vanno ricordati: La concezione del partito in Lenin (dai gruppi al partito 1895-1912); Lotta di classe nella scuola e movimento studentesco; II revisionismo del Pci, origini e sviluppo; I Cub, tré anni di lotte e di esperienza. Attraverso tappe successive e dopo il convegno di unificazione dei comitati di base (Milano 3-4 giugno '72) a cui contribuiscono attivamente il Centro di coordinamento campano, il Collettivo Lenin di Torino, la Sinistra operaia di Cagliari, Avanguardia operaia arriva al suo primo congresso di fondazione. Secondo le cifre fornite dal gruppo, può contare su 18 mila aderenti, la maggioranza è concentrata al Nord. Accanto alle fabbriche, che rimangono il suo punto di forza, l'intervento si orienta verso: la scuola, il lavoro nei quartieri, il Meridione, le battaglie antimperialiste ". Come si è visto Avanguardia operaia sin dalla sua costituzione cerca una sua collocazione originale rispetto all'estremi-smo, un tentativo annunciato che si scontrerà con la difficoltà a definire la propria identità. Nella fase acuta della strategia della tensione, le polemiche e le differenziazioni si intensificano: Avanguardia operaia è violentemente accusata di non distinguersi dall'iniziativa del «revisionismo» e di finire oggettiva-mente col prestarsi ai suoi disegni. Alla radice del dissenso non vi è solo l'avventurismo delle proposte di Potere operaio e Lotta continua, con il loro progressivo schierarsi a fianco dei feno-menti di lotta armata; ciò che divide è: il giudizio sulla crisi italiana. Per Avanguardia operaia infatti, la crisi non assume quei toni di catastrofismo che caratterizzano le altre due formazioni ma si tratta di: «una crisi che sembra destinata a prolungarsi nel tempo aggravandosi fino a quando si avrà un salto di qualità nelle contraddizioni interne e internazionali. L'economia italiana ha imboccato un ampio e profondo processo di ristrutturazione che avrà durata non breve». Da questi presupposti, nel convegno nazionale del '73, il gruppo approderà a quella che definirà «la lotta rivoluzionaria per le riforme».

4. Contro l'avventurismo

La lotta contro l'avventurismo si intreccia alla serrata polemica con la scelta di «Servire il popolo» e del Manifesto di presentarsi con proprie liste alle elezioni politiche del maggio '72. E un periodo difficile per tutto l'insieme della nuova sinistra. Il sovversivismo di Stato si alterna al sovversivismo di una piazza agitata dallo squadrismo di destra e dalla pratica del colpo su colpo dell' «antifascismo militante». Mentre la paura del golpe inquieta e al tempo stesso esalta il mito ribellistico. Nonostante le posizioni assunte a più riprese contro lo spontaneismo, a ulteriore riprova delle sue contraddizioni e della costante paura dell'isolamento. Avanguardia operaia si associa a Potere operaio e Lotta continua nel giudizio sull'll marzo a Milano. La rivista del gruppo, nell'intento di dimostrare che «la manifestazione non era isolata ne sul suo significato politico, ne sulla sua rispondenza fra le masse», pubblica una dura presa di posizione dei delegati di 45 fabbriche milanesi, attacca le posizioni del Pci e del sindacato giudicandole acquiescenti di fronte al disegno della borghesia di realizzare attraverso la repressione «uno stato forte» 18. AU'indomani della morte delleditore Feltrinelli, l'analisi e il giudizio del gruppo sono un groviglio di ambiguità. Col solito pedagogismo si ricorre a Marx e a Lenin per criticare tutte quelle forme di violenza che non corrispondono alle esigenze delle masse, ma questa critica non dimentica che «la violenza proletaria è un metodo di lotta generale [...] Dal picchetto per bloccare i crumiri fino all'insurrezione e, soprattutto all'instau-razione della dittatura proletaria nel periodo di transizione e, quando è necessario, del terrore rosso». Un riconoscimento strategico che consente solo una timida presa di distanza dalle farneticazioni insurrezionali. «Ad esempio oggi è violenza proletaria quella che punta sull'autodifesa militante delle manifestazioni, delle lotte, delle organizzazioni. Abbiamo detto auto-difesa: di fronte all'offensiva borghese che mira a soffocare le forze rivoluzionarie prima della loro maturazione a partito marxista-leninista, non si può e non si deve parlare ne il linguaggio opportunista di chi è pronto a piegare subito la schiena, ne quella avventuristica che farneticava di lotta armata o addirittura di insurrezione» 19.

La linea dell'«omicidio in famiglia», porta Avanguardia operaia a polemizzare con le coperture e i riconoscimenti di Potere operaio e Lotta continua alla lotta armata. Più o meno consapevolmente, non si vuole ammettere che 1 estremismo è cambiato, non si va a fondo nella critica e la tesi del complotto come spiegazione della spirale terroristica non consente di comprendere la fase che si è aperta. Peraltro è diffìcile distinguere fra il limite dell'analisi e 1 opportunistica paura di isolarsi dalla nebulosa del campo «rivoluzionario». Conferma lo sbandamento il testo del volantino nazionale distribuito il 20 maggio, dopo l'assassinio del commissario Calabresi: «Chi era Calabresi? Un poliziotto su cui ricade la responsabilità maggiore dell'assassinio di Pinelli, un persecutore di compagni, con tutta probabilità un agente di servizi segreti (è stato tra i primi ad accorrere sotto il traliccio di Segrate ed ha lavorato "gomito a gomito" con Viola nelle indagini contro la sinistra rivoluzionaria). Da piccolo era andato a scuola dai frati e aveva militato nell'azione cattolica clerico-fascista (con incarico di controllo sulla cassa). Poi aveva scritto sul giornale saragattiano e filoamericano "La Giustizia". Poi era diventato poliziotto ed era stato incaricato spesso di «missioni speciali» con grossi personaggi americani. Poliziotto e clericale, sposato con la figlia di un industriale, ha torturato e gettato anarchici innocenti in galera o dalla finestra. Un personaggio del genere era odiatissimo. E, tuttavia, come ha dimostrato anche la sua incriminazione da parte della magistratura, era un personaggio diventato imbarazzante per chi lo aveva usato fino a ieri. Personaggi del genere fanno sempre una brutta fine. In periodi rivoluzionar! sono i compagni ad eliminarli; in periodi non rivoluzionari cadono vittime dei loro stessi sistemi. Quello attuale non è un periodo rivoluzionario» 20. Pur attaccando duramente Lotta continua che parla di «giustizia proletaria», Avanguardia operaia non dimentica di sottolineare che: «Lenin condannava il terrorismo individuale o di piccoli gruppi nel 1903, e lo considerava giusto nel 1905». Ma la tesi di complotti orditi sotto «la regia dei servizi segreti» non basta a interpretare quello che sta accadendo e Avanguardia operaia deve prendere posizione di fronte al susseguirsi degli episodi di lotta armata. Mentre il gruppo 22 Ottobre è definito senza mezzi termini «fascista», meno chiaro il giudizio sul sequestro Macchiarmi, un giudizio viziato da un possibilismo sulle forme della lotta armata da cui non ci si riesce a liberare. «Avanguardia operaia» commentando il sequestro scrive: «II gesto è tutto dimostrativo e fatto apposta per avere titoli scandalistici», e ancora «II sequestro giunge improvviso alla Siemens non c'è lotta in questa fase». I fatti non stanno così, in quei giorni nella fabbrica milanese il clima è rovente, ma la forzatura serve ad Avanguardia operaia per contrapporre la lotta di massa

all'azione terroristica, collocando quest'ultima dentro la logica dell'orchestrazione golpista e dei servizi segreti si lascia però intendere che in un altro contesto il ricorso alla violenza potrebbe legittimarsi. La polemica si fa più stringente, lo impone il precipitare della situazione e il netto schierarsi di Potere operaio e Lotta continua. Ormai le azioni terroristiche sono firmate da gruppi che si richiamano al marxismo-leninismo, nati nel clima postsettantottesco. L'attacco all'awenturismo si fa più violento: «L'orientamento avventuristico è personificato sia pure con sfumature di discorso diverso, da Po e Le [...]. Po e Le si proiettano nell esaltazione di "azioni esemplari" del tutto separate dalla lotta di classe [...] I piccoli gruppi che pretendono di sostituirsi alle masse, e in particolare alla classe operaia, nell'adottare forme violente di lotta, non soltanto sono destinati alla sconfìtta, ma finiscono inevitabilmente in balia di provocatori e spie [...] Le dichiarazioni di Le in appoggio alle Br, le successive innumerevoli dichiarazioni di Po su Feltrinelli, "il primo morto nella guerra di liberazione dallo sfruttamento" e sui Gap non risultano comprensibili alle masse proletarie e studentesche»21. Il gruppo accusa Potere operaio di compiere «una folle analisi della situazione italiana e dei compiti del movimento»; una lucida follia che porta a considerare Gap e Br come «compagni». Aumenta la repressione, il giudice Sossi annuncia di poter arrestare 5.000 extraparlamentari. Avanguardia operaia non esita ad attaccare il Manifesto per aver sabotato e" rotto con il Comitato nazionale contro la strage pur di legittimarsi democraticamente in vista delle elezioni. Dovrà ricredersi sul Comitato e in contrapposizione aderirà al Comitato di difesa e di lotta contro la repressione. Il gruppo è stretto fra due fuochi; vuole uscire dalla morsa dell'awenturismo ma non condivide il neoparlamentarismo del Manifesto. Non si tratta di un'astratta posizione di principio ma di una differente valutazione sulla fase, il gruppo non vede ancora mature le condizioni di un unico cartello elettorale della nuova sinistra e quindi da l'indicazione di «votare in bianco». «La situazione della sinistra — si legge su «Avanguardia operaia» — appare quindi tale da escludere la possibilità di un cartello elettorale delle principali organizzazioni a meno di spettacolari giravolte trasformistiche; e il cartello delle principali organizzazioni è la condizione pratica di base per una presenza autonoma della sinistra nella competizione elettorale, presenza che disponga di mezzi e della credibilità, minimi necessari per una adesione di quanti, lavoratori e studenti, abbiano avviato una riflessione critica sulla collocazione di classe del revisionismo. Sebbene complessivamente più forte che nella passata scadenza elettorale, la sinistra è più che mai divisa politicamente e ideologicamente, e si tratta di divisioni che non possono essere superate con esasperazioni volontaristiche o prediche morali da

parte di questo o quel "profeta disarmato", poiché riflettono, anche se in ultima analisi e in modo confuso, lo scontro tra piccola borghesia e proletariato per l'egemonia sulla sinistra rivoluzionaria in formazione, e quindi uno scontro che ha una base di classe. Ciò significa che i conflitti politici tra settori radicalizzati — in senso centrista o avventurista — di piccola borghesia, e i primi nuclei proletari rivoluzionari marxisti-leninisti, non offrono possibiltà di mediazione, a meno di una capitolazione della tendenza proletaria, ed anzi sono destinati a rimanere acuti» 22. Un' analisi condivisibile dello stato del gruppismo e più in generale della nuova sinistra che sarà rovesciata, nelle amministrative del '75, dando vita al cartello elettorale di Democrazia proletaria, e in occasione della consultazione politica del giugno '76, quando la disponibilità di Avanguardia operaia sarà un comodo lasciapassare per il trasformismo di Lotta continua e il successo della sua operazione. Rispondendo alle critiche del Manifesto, per il gruppo la scelta astensionistica del '72 non significa stare alla finestra, ne chiudere con le altre formazioni, piuttosto riconferma la necessità di concentrare l'attenzione sulle iniziative di lotta e sul programma: «Si tratta di agire per rilanciare le lotte per 1 occupazione. Si tratta di migliorare ed estendere la lotta di resistenza delle masse proletarie e studentesche contro la repressione borghese, smascherando il revisionismo e il collaborazionismo sindacale e mettendoli in condizione di non nuocere, respingendo le azioni padronali di rappresaglia e gli interventi e le provocazioni poliziesche, organizzando un'estesa ed efficace autodifesa contro le squadracce fasciste ed impedendo la presenza politica fascista nelle strade e nelle piazze. Si tratta infine di combinare indissolubilmente queste attività con la quotidiana attività nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, nei paesi, a difesa degli interessi materiali dei proletari e di costruzione organizzativa. Sarà evidentemente lo sviluppo della nostra iniziativa di massa a dare peso e respiro alla nostra presenza nel momento elettorale; e come invece non lo sarà, nella fase attuale, una lista, non lo sarà neppure un'astratta campagna di agitazione astensionista» 23. Anche se i contrasti si sono approfonditi, arrivando a vere incompatibilità, Avanguardia operaia non rinuncia alla costruzione del mitico «fronte unito» con le altre organizzazioni «rivoluzionarie».

5. La linea di classe nel movimento

L'isolamento, parzialmente recuperato dopo il fallimento elettorale del Manifesto, è un ulteriore incentivo alla stretta organizzativa: una tappa importante in questa dirczione è rappresentata dal convegno operaio indetto a Milano, nel giugno '72, dall'assemblea dei Cub. La mozione conclusiva denuncia l'impo-stazione della piattaforma rivendicativa lanciata dai sindacati metalmeccanici per le prossime scadenze: una linea costruita solo in «funzione della difesa dell economia nazionale» che non tiene conto «delle reali esigenze della classe operaia e delle sue potenzialità di lotta». Per rovesciare questa linea la presenza del gruppo e l'azione di lotta dei comitati unitari devono riuscire a coniugare l'offensiva contro la ristrutturazione capitalista con obiettivi qualificanti e corrispondenti ai bisogni operai. Dunque: «lotta contro 1'organizzazione capitalistica del lavoro e contro la ristrutturazione che il padrone fa pagare interamente alla classe operaia; lotta per la difesa del salario e dell occupazione; lotta per realizzare una larga ed effettiva unità di classe, dentro e fuori della fabbrica»24. Fissate queste linee generali, gli obiettivi qualificanti riguardano l'inquadramento unico operai-impiegati, la riduzione delle differenze salariali. Riguardo all'inquadramento unico operaiimpiegati, contro le mistificazioni e le fumosità prospettate dai sindacati, i militanti di Avanguardia operaia precisano che esso deve significare: «minor numero possibile di categorie; nessuna divisione in fasce salariali all'interno di ogni categoria; automatismo e tempi brevi nel passaggio tra una categoria e l'altra, in particolare per quelle che comprendono la maggioranza dei lavoratori, in opposizione ai vari criteri e meccanismi di professionalità» 25. Per ridurre le differenze salariali, rivendicano: «la perequazione delle paghe di ogni categoria e al livello più alto; il conglobamento nella paga base del cottimo e delle parti incentivanti del salario; la "smonetizzazione" delle indennità per lavorazioni pesanti e nocive, assorbendo l'indennità al livello più alto nella paga base, aumentando le pause (o introducendo miglioramenti tecnici e ambientali) per quelle stesse lavorazioni e abolendo i turni notturni» 26. Infine la parità normativa deve essere totale. La piattaforma di Milano, chiamando a decidere i lavoratori, e realizzando il massimo di unità, deve servire per stringere i sindacati e sulla gestione democratica della lotta, premere su di essi per «raccogliere a livello politico generale le contraddizioni che la piattaforma sindacale si porterà dietro». Anche se non sono scomparsi i toni perentori della prima fase, Avanguardia operia avverte

l'esigenza di compiere uno sforzo per dialettizzarsi col sindacato e mantenere in vita un dialogo critico con la sinistra tradizionale. Spinge in questo senso l'insieme del quadro politico, che impone la necessità di costruire un' ampia e forte opposizione al governo Andreotti-Malagodi. Un fertile terreno d'incontro si realizza con le componenti sindacali orbitanti attorno a Miniati, inizia, anche se a distanza, la marcia di avvicinamento al Manifesto; ma i rispettivi settarismi di gruppo non consentono che spurie convergenze, ognuna delle due formazioni privilegia ancora il proprio microcosmo partitico. Se un certo radicamento si è realizzato nelle fabbriche, in particolare nel Nord, i risultati si presentano ancora in-soddisfacenti nella scuola, che vede proprio in quel periodo un rinnovato interesse del gruppo che corregge l'originaria sottovalutazione del ruolo degli studenti e della battaglia nella scuola, un residuo del rifiuto dello spontaneismo del movimento e dell'equazione studente uguale piccolo borghese, che lo portava a privilegiare la milizia politica complessiva e la classe operaia come centro motore della lotta di classe La svolta si realizza compiutamente con lo sciopero generale del 21 gennaio '73; una tappa significativa, afferma Avanguardia operaia, nella costruzione di un movimento degli studenti su scala nazionale, un momento decisivo nell'unità di azione fra le «forze politiche rivoluzionarie» presenti nella scuola. La battaglia contro la svolta moderata e la mobilitazione antifascista consente punti d'incontro con la Fgci e la Fgs, e attorno alla parola d ordine «contro il governo Andreotti-Malagodi» si vuole aprire un ripensamento nel Pci e lavorare per un suo spostamento. Lo sciopero generale del 21 gennaio, nato come momento di lotta contro la repressione, con la sua imponente riuscita dimostra la possibilità di rilanciare un ampio movimento degli studenti, e con la sua combattività conferma: «!' importanza dell'intervento tra gli studenti, la necessità di sviluppare organismi di base studenteschi, la centralità della lotta per la selezione e contro il peggioramento delle condizioni di studio» 27. Un'attenzione che si era offuscata in tutta la sinistra rivoluzionaria in conseguenza del riflusso del movimento e della spirale autorganizzativa del gruppismo. Un anno dopo, commentando il nuovo sciopero nazionale del 23 gennaio 1974, Avanguardia operaia affermerà che si è compiuto: «un sostanziale passo in avanti realizzato dal movimento su scala nazionale con la stretta unità di confronto e di azione fra Cub, Cps (Comitati politici studenteschi), Cpu (Comitati politici unitari)». E tornando a riflettere su quella che considera una ripresa del movimento prosegue: «Non dobbiamo dimenticare come siamo partiti: due anni fa ogni forza andava per la sua strada e spesso in senso contrario con Punico risultato

di impedire un impatto complessivo al movimento; lo stesso anno scorso lo sciopero nazionale unitario fu un'avventura fortunata e in fin dei conti occasionale; oggi invece seppur con grossi limiti abbiamo raggiunto un'unità del movimento sia pur minimale che permette di prendere iniziative politiche di ampio respiro. L'esempio del 23 gennaio dimostra che seppur il movimento non è in grado di aprire una vertenza con il governo, riesce comunque a svolgere un notevole ruolo sulla scena politica nazionale» 28. Il 1973 è un anno di intensa attività del gruppo. Si procede a una ristrutturazione della stampa: «Avanguardia operaia» rimane settimanale ma nella sua funzione di strumento teorico e di linea è sostituita dalla rivista bimestrale «Politica comunista», si avvia la preparazione del quotidiano. Antifascismo, lotta antimperalistica, lotta alla repressione e al governo di centrodestra sono i fondamentali terreni di mobilitazione. Le molte iniziative servono per costruire tutte le possibili convergenze; all'ombra della propugnata unità della sinistra rivoluzionaria si attenuano le polemiche per privilegiare l'unità, nella speranza di affermare una propria egemonia nel panorama del gruppismo.

6. La lotta rivoluzionaria per le riforme

Con la manifestazione internazionalista del 12 maggio '73 a Milano, sembra ricomporsi la scissione del Comitato di lotta contro la strage. Oltre ad Avanguardia operaia, che ha un ruolo decisivo nella sua preparazione, vi partecipa un cartello di forze eterogenee: Lotta continua, il Gruppo Granisci, il Pc (mi) I, il Manifesto. In tutte le città si manifesta contro lo «Stato forte», contro la repressione e il «fermo di polizia» 29. Intanto sul terreno sociale, si lotta per la casa e contro il carovita. La polemica col sindacato è insinuante: si affrontano nodi teorici e si critica l'autoregolamentazione degli scioperi; pur escludendo pratiche entriste, si presta attenzione alla Fiom e alle sue articolazioni, non sfugge la tipicità del sindacato metalmeccanico e si cerca di realizzare convergenze nelle situazioni di base e nella pratica delle lotte di fabbrica 30. Seguendo le cronache di «Avanguardia operaia» settimanale si ha netta la sensazione del rafforzamento organizzativo del gruppo, aumentano i resoconti delle iniziative, le prese di posizione e i bilanci di attività dei vari comitati unitari. Nel maggio, per la prima volta, si incontrano a Napoli i militanti impegnati nel Meridione; partecipano al convegno: nuclei operai del Casertano, del Salernitano, di importanti fabbriche napoletane, dell' Alfa Sud di Pomigliano, dell' Olivetti di Marcianise, dell'Intersider, i braccianti di Quagliano. L'assemblea riconosce la validità della proposta dei comitati unitari e afferma la necessità di un solido rapporto fra lesperienza del Nord e quella del Sud, per Napoli lancia l'idea di un movimento cittadino dei comitati unitari di base come condizione di intervento nel sociale e superamento di ogni angusta visione di fabbrica31. Si lavora per l'appuntamento nazionale previsto per l'autunno, lo precedono numerose assemblee e convegni. A Torino le rappresentanze locali si incontrano con le altre realtà; a Milano, il 30 giugno, il convegno nazionale degli organismi di base della Sip; ancora nel giugno, il convegno delle Tré Venezie 32. Il documento dell'ufficio politico di Avanguardia operaia pubblicato sul numero 31 del settimanale è un duro attacco alla linea del Pci e del sindacato. La parola d'ordine è «Rompere la tregua sociale!». Partendo dalla sconfitta del governo

Andreotti-Malagodi analizza il recente congresso della De e il suo tentativo di darsi «un nuovo volto», è il ritorno al centro-sinistra con «!'opposizione diversa dei riformisti». La «capitolazione» del Psi non meraviglia, ma si attacca duramente lo spostamento del partito comunista. «Il Pci è soddisfatto che l'inversione di tendenza ci sia stata. Non può certo condividere incondizionatamente ogni misura del governo altrimenti la sua non sarebbe più nemmeno un'opposizione. Però ritiene di poter superare gli aspetti della politica di Rumor "non pienamente corrispondente alle esigenze dei lavoratori" non già con la lotta di massa, ma elargendo consigli di politica economica, facendo sfoggio di cultura, criticando la grettezza intellettuale di certi settori governativi e facendo solo vaghe minacce di iniziative di massa». Anticipando un giudizio che verrà sviluppato nella IV conferenza nazionale, il Pci è rimasto imprigionato nell'«idealismo» della sua stessa linea riformista. Nessuna illusione: va battuto il collaborazionismo revisionista; ai rivoluzionari il compito di portare avanti un reale progetto di «riforma» e di «campagne politiche democratiche». Il dramma cileno ripropone il dibattito sulle forme di lotta, sulla possibilità della via democratica alla trasformazione socialista, il problema delle alleanze politiche. Scrive «Avanguardia operaia»: «II proletariato cileno aggredito dalla reazione e disarmato dal revisionismo non ha altra strada che la guerra civile» 33. A ottobre il nuovo convegno nazionale dei Cub conferma la contrapposizione strategica ai consigli dei delegati e su questo punto il gruppo intensifica la polemica con Lotta continua e il suo strisciante entrismo nel sindacato. Le tesi che preparano il IV congresso di Avanguardia operaia si prefiggono il compito, definito dallo stesso gruppo ambizioso, di «superare» in modo definitivo la fase del minoritari-smo gruppuscolare. Le lotte che si sono realizzate — «la battaglia contro l'operazione Andreotti, quella contro la strage di Stato e i suoi responsabili, l'agitazione vittoriosa per far saltare la tregua sociale concordata fra governo Rumor e confederazioni sindacali, l'impegno su vasta scala nella campagna sul referendum e contro le trame fanfaniane, il rilancio dell'antifascismo militante» — dimostrano che non basta più l'unità di azione che nella pratica si è realizzata con gli altri gruppi, ma si deve procedere verso un'unificazione organica di tutto il «campo di forze» rivoluzionario, un potenziale che va molto al di là dei militanti delle singole organizzazioni. In una lunga e «travagliata maturazione», secondo il gruppo, si è formata una «sinistra rivoluzionaria» e ampi settori del proletariato sono sfuggiti al controllo egemonico del «revisionismo»; è nato nelle lotte ed è già operante «un partito della rivoluzione proletaria», si tratta di organizzarlo in una «formazione politica ben definita, ispirata ai principi e ai metodi del marxismo-leninismo». Ma la «sinistra rivoluzionaria» a cui si riferisce Avanguardia operaia è ormai un complesso di spinte e controspinte, una realtà

indistinta e sostanzialmente indisponibile a un inquadramento organizzativo unitario. E già in atto lo sfaldamento dei molti partiti del sinistrismo. Le tesi affrontano quattro questioni fondamentali: il contesto internazionale, la crisi italiana, il tema delle riforme, il partito. Sul piano internazionale la tendenza fondamentale è l'ina-sprimento dei rapporti fra le grandi potenze; anche se sono fallite la distensione e la coesistenza pacifica, ancora non si da per scontato un avvenuto e possibile accordo «tra superpotenze per la spartizione del mondo». Acquisito il giudizio sulla natura «so-cialimperialista» dell'Urss si riconosce l'opportunità per i popoli oppressi di utilizzarne strumentalmente l'appoggio. A differenza di altri gruppi il giudizio sulla Cina si presenta più articolato, si riprendono considerazioni sviluppate attorno al '71-'72, al momento della morte di Lin Piao, sulla «svolta moderata» che trova la sua espressione nella politica estera cinese. Denunciati i residui stalinisti, i «gravi errori» per le posizioni assunte sul Sudan e Patteggiamento verso l'Europa occidentale che finisce per ignorarne «la natura imperialista», le critiche si ovattano nel trionfalistico giudizio che si da sul X congresso del Partito comunista cinese. Sul piano interno, la crisi italiana, anche se configurata come crisi globale del sistema, non assume gli aspetti catastrofici e ineluttabili tipici dell'elaborazione operaista. Di qui il riconoscimento dei processi di ristrutturazione presenti nell'economia e del fatto che essi producono lacerazioni e divisioni nella borghesia italiana divisa tra «i rappresentanti della produzione nel suo insieme» e «i rappresentanti del potere pubblico», tra «il capitale privato» e «le partecipazioni statali in quanto componenti del potere democristiano». Queste considerazioni e il giudizio sul blocco di forze che sostengono il potere democristiano danno ulteriore forza alla proposta della «lotta rivoluzionaria per le riforme». Per Avanguardia operaia le lotte apertesi con il '68 hanno scardinato il blocco di potere democristiano, e ormai esso non è più in grado di rappresentare gli interessi di tutta la borghesia, ma solo di una sua frazione «i grandi gruppi monopolistici, le banche, i petrolieri, la finanza vaticana, i padroni della borsa e l'alta burocrazia statale». Non esistono più un partito e un governo capaci di mediare tutto l'arco delle contraddizioni «in-terborghesi». La svolta moderata e reazionaria tentata dai vari governi dal '72 in poi puntava a: «isolare la classe operaia dagli altri ceti popolari, frantumare Punita di classe degli operai per ridurli a un coacervo di categorie; radicalizzare a destra la piccola borghesia; restringere gli spazi democratici; reprimere la sinistra rivoluzionaria e ridimensionare la sinistra in genere; battere sul terreno economico e del potere in fabbrica le categorie operaie di punta»34. Tutti questi obiettivi sono falliti. Contro di essi la classe operaia ha articolato le sue lotte in una «guerriglia economica» che ha fatto precipitare la produttività; la classe operaia si è posta nei confronti degli altri strati sociali come forza garante degli spazi democratici conquistati35. In questo contesto il valore

della vittoria dei No al referendum sul divorzio, una vittoria «che ha segnato l'inizio di una nuova fase in cui la crisi del fronte borghese sarà più acuta e si presenteranno condizioni più favorevoli per l'avanzata del proletariato». Il Pci, con la sua natura di «partito democratico popolare» non è più in grado di cogliere le potenzialità delle masse offrendo loro una strategia rivoluzionaria. Si registra così il suo fallimento non solo sul terreno della prospettiva socialista ma sul piano stesso di una «democrazia borghese avanzata». Per Pci non si tratta: «di scegliere il frontismo socialdemocratico del 51% a sinistra della De invece che l'inconsistente proposta del compromesso storico. Piuttosto il vicolo cieco in cui è stretto il Pci non è quello del compromesso storico, bensì quello della via italiana al socialismo» 36. Nella particolarità di questa elaborazione il cuore della concezione revisionista e le ragioni che hanno reso un espediente propagandistico la lotta per le riforme di struttura proposta dal partito comunista: «La contraddizione di fondo della linea revisionista, infatti, non si manifesta solo nella provata incapacità, dimostrata in questi anni di raggiungere i suoi stessi obiettivi di riforma, ma anche nella sua incapacità di raccogliere e sistematizzare gli elementi di crescita politica determinati nelle masse dall'esperienza di lotta sul terreno delle riforme e delle libertà democratiche» 37. Solo con una nuova organizzazione e un progetto strategico per la rivoluzione socialista si può battere nel concreto l'illu-sione revisionista del Pci. Spetta a una nuova organizzazione, «il partito rivoluzionario», che ha come retroterra l'estensione e le lotte della «nuova sinistra» saldare e ricomporre la contraddizione, irrisolta dal revisionismo del Pci, tra le «grandi potenzialità che la classe operaia ha espresso [...] e la mancanza di espressione politica cosciente di questa potenzialità attraverso un programma, un progetto strategico..,»38. Il «progetto strategico» che Avanguardia operaia propone al proletariato e ai lavoratori è la «lotta rivoluzionaria per le riforme». Una proposta che esprime la difficoltà del gruppo a individuare una sua identità; vi si avvertono i limiti dell'economi-cismo rivendicazionista e le intenzioni rimangono imbrigliate nel giudizio critico sul Pci, sul sindacato e nella sopravvalutazio-ne sulle «potenzialità rivoluzionarie» della «nuova sinistra». La «lotta rivoluzionaria per le riforme» si contrappone alla concezione revisionista della via italiana al socialismo attraverso le riforme di struttura. Nell'utopico e impossibile compito di trasformare la natura di classe del sistema e nello stesso tempo di non ostacolare il processo di accumulazione e favorire un equilibrato sviluppo economico, il Pci ha finito per operare un capovolgimento del rapporto tra lotta per le riforme e suo inserimento al governo. Si è avuta così la precipitazione verso una difesa a oltranza e priva di prospettiva strategica dello stato di cose esistenti: «Non più una lotta vittoriosa per le riforme come condizione che apre la via a una partecipazione del Pci al governo, ma viceversa

l'insediamento del Pci al governo, anche pagando per questo un prezzo elevato in termini di "sacrifici" chiesti ai lavoratori — come condizione che aprirà la strada ad una futura politica di riforme. Porta insomma al "compromesso storico" e alle scelte tattiche ultra-opportuniste e fallimentari in cui esso si manifesta: dall'opposizione di tipo diverso, al rifiuto di sviluppare a fondo le potenzialità della battaglia e della vittoria sul referendum, fino all'attuale connivenza con la politica di rafforzamento repressivo dello Stato in nome dell'emergenza antifascista» 39. Al contrario, affermano le tesi esposte dal gruppo, partendo dal reale grado di combattività delle masse esistono tutte le condizioni concrete per praticare una via rivoluzionaria per le riforme: «II punto di partenza di questa via sta nel fatto che determinati obiettivi di riforma (e di libertà democratiche) corrispondono oggi al livello di coscienza delle masse e ne costituiscono un fattore di avanzamento. Solo l'esperienza concreta di lotta di classe su questo terreno può permettere ulteriori balzi in avanti, e non un tentativo ideologico di "saltare" questo terreno di lotta. Questo terreno di lotta non costituisce una sorta di "adeguamento" a un livello relativamente arretrato di coscienza delle masse. Date le caratteristiche concrete del capitalismo italiano, esso assume fin da ora una portata antagonista e si inserisce quindi coerentemente in un processo di lotta rivoluzionaria. La portata rivoluzionaria di questo terreno di scontro può essere sviluppata solo a condizione di non barattare mai l'autonomia politica e di lotta del movimento di classe contro concessioni concrete e soluzioni politiche, per quanto "avanzate" possano essere. Vittorie parziali su determinati obiettivi, soluzioni governative "più avanzate" a cui la lotta per le riforme può portare come sua conseguenza oggettiva, possono essere utilizzate correttamente per portare lo scontro a un livello più avanzato, non possono invece essere mai il pretesto per collabo-rare attivamente ai tentativi di stabilizzazione operati dalla borghesia» 40. Criticando lo schematismo della nuova sinistra a identificare «riforme» con «riformismo», le riforme a cui si richiamano le tesi e il dibattito congressuale riguardano: le condizioni di esistenza sociale delle masse popolari, i rapporti politici fra le classi, l'antifascismo militante. Dunque la lotta per le riforme è lotta per «!' allargamento dell'area dei consumi socializzati» (casa, sanità, trasporti, previdenza, scuola). Nonostane le riflessioni intervenute, il giudizio sul sindacato si attesta sui vecchi luoghi comuni: il sindacato unitario altro non è che uno strumento di collaborazione di classe. Il congresso sistematizza l'esperienza prodotta dai comitati unitari di base e prospetta l'avvio di una possibile convergenza con il Pdup.

Usando un'espressione di Silverio Corvisieri, per Avanguardia operaia si chiude la fase dell'«area leninista» e il gruppo inizia a navigare in mare aperto, mentre «cominciano a venire al pettine certi nodi» 41.

7. I nodi vengono al pettine

I problemi si riflettono nella composizione elefantiaca degli organi dirigenti, il comitato centrale che viene eletto su proposta di Campi, Corvisieri, Vinci, è composto da 100 mèmbri. Le divisioni nascono sullbpportunità e sulla necessità di avere un segretario, decisamente contrario Corvisieri che, aprendo un contenzioso col gruppo, polemizza con una visione del processo di unificazione col Pdup, viziata in origine da strumentalismi e opportunismi. Dopo il IV congresso (ottobre '72) la vicenda di Avanguardia operaia è caratterizzata da una precipitosa e confusa rincorsa verso le principali organizzazioni del sinistrismo, quella che viene definita «l'area rivoluzionaria». Il gruppo sembra abbandonare ogni antico distinguo e nonostante la maggiore politicità che aveva guidato la fase congressuale crescono le difficoltà dei comitati unitari di base; l'awicinamento di Avanguardia operaia alla sinistra sindacale è vissuta come una riconversione opportunistica e burocratica che finisce per sindacalizzare l'esperienza del gruppo e apre un conflitto con i suoi settori più intransigenti42. Di fatto un dissolvimento dei Cub senza soluzioni di ricambio, tutto ciò mentre nasce l'insidia dei comportamenti autonomi. L'unità interna è messa a dura prova, si manifestano fenomeni degenerativi e distacchi. Il femminismo, come accade per gli altri gruppi, concorre a rivelare la crisi di un'esperienza e anche la sua obsolescenza politica 43. Alle elezioni amministrative del giugno '75 in alcune regio-nii si sperimenta rincontro con il Pdup e, con il concorso del Movimento lavoratori per il socialismo, ha vita Democrazia proletaria che presenta proprie liste in Lombardia, Veneto, Lazio, Umbria, Campania e Molise. I suoi voti sommati a quelli del Pdup, presentatesi autonomamente in Toscana, Emilia, Marche e Calabria saranno 430.000 (1,7%). Elemento non secondario del malessere, salvo a Milano, tutti gli eletti sono mèmbri del Pdup. Avanguardia operaia considera il risultato un suo successo, ha sconfitto la componente antiunitaria del Pdup e ha più forza per liberare Lotta continua dal suo oscillare «fra Pci e area del-l'autonomia». Condizione decisiva dello sviluppo di quell'area rivoluzionaria a cui vuole rivolgersi Avanguardia operaia la crescita delle lotte, in questo quadro il lavoro seminariale che si avvia con la commissione fabbriche del Pdup in vista delle prossime scadenze operaie.

Tuttavia dopo le amministrative del 15 giugno la situazione è confusa, non tutta la sinistra rivoluzionaria ha reagito bene, afferma Corvisieri, che precisa: «abbiamo visto nel Pdup prendere rilievo una corrente che si può definire liquidazionista in quanto tende a svendere le conquiste e il ruolo della sinistra rivoluzionaria per avvicinarsi al Pci [...]. Abbiamo visto Lotta continua effettuare una brusca svolta in dirczione estremista...». Sbandamenti che sono conseguenza di limiti teorici: «Non e'è chiarezza sul rapporto tra lotte sindacali ed elezioni, tra ruolo autonomo della sinistra rivoluzionaria e tattica di allineamento nei confronti della sinistra riformista [...]. Sintomi di impazienza e di stanchezza...»44. L'ufficio centrale Lotte sociali partendo dalla crisi e dai suoi effetti rilancia l'autoriduzione delle tariffe nei servizi. Si parla di oltre 400 mila autoriduttori. Avanguardia operaia propone un coordinamento nazionale di tutti i comitati per l'autoriduzione. A Roma il gruppo partecipa attivamente alle lotte per 1 occupazione delle case a Casal Bruciato, un momento importante anche in previsione delle elezioni comunali della capitale. Intanto Silverio Corvisieri, adducendo la necessità di rotazione e richiedendo un suo diverso impegno, lascia la dirczione del «Quotidiano dei lavoratori», sostituito da Aurelio Campi, coadiuvato da due vicedirettori: Claudio Cereda e Massimo Gorla. Ormai è la crisi degli organismi dirigenti. «Nessuna tregua per fare le elezioni», afferma il segretario nazionale Campi, e nell'assemblea pubblica che si svolge il 18 gennaio 1976 a Torino, prospetta la necessità di «un momento di riflessione in una situazione di non chiarezza del movimento». La caduta del governo Moro impone l'unità di tutti i rivo-luzionari per fare avanzare nel concreto la proposta del governo delle sinistre, condizione «per sconfìggere i cedimenti della linea riformista» e impedire sul nascere ogni governo demergen-za appoggiato dal Pci. I tempi stringono: «Non bisogna perdere tempo nel definire un nuovo quadro di unità fra Ao e Pdup e per aprire con Lotta continua un dialogo; questo sia per fare fruttare quanto matura nel movimento, sia per impedire a Le di proseguire sulla via dell'isolamento basato su una propaganda antisindacale aprioristica». E aperto lo spazio alla manovra tattica di Lotta continua. Sul piano del movimento si rilanciano: il controllo operaio, la lotta per la democratizzazione delle Forze armate, i diritti civili, la battaglia contro tutte le leggi liberticide. La commissione fabbriche nazionali intensifica il suo lavoro, gli slogan sono: lottare contro la strategia dei «revisionisti» che porta a intensificare lo sfruttamento, strappare il controllo operaio sulle scelte produttive. In tutto il paese proseguono le manifestazione sindacali in difesa dell'occupazione. Non basta, afferma Avanguardia operaia, occorre una «generalizzazione» dello scontro e una maggiore incisività delle lotte, a questo serve lestensione dei presidi, dei picchetti, di quelle che vengono

chiamate le «ronde operaie». Risultati che chiedono mobilitazione e pressione nei confronti del sindacato. Nei primi mesi del '76 si manifesta lo scontro «destra-sinistra» in Avanguardia operaia. Se la sostanza è la linea, unificazione col Pdup, confronto col sindacato, lotte sociali, nella forma assume quella di una critica diffusa dei metodi e dello stile di direzione. Uffici politici e comitati centrali che si prolungano per giorni, risse interne, polemiche e colpi di maggioranza 45. Intanto si accelera il dibattito sulle elezioni, in varie città si ripropone la possibilità di ripercorrere ed estendere l'esperien-za di Democrazia proletaria, particolarmente importante in questo senso l'accordo siglato fra le segreterie provinciali di Avanguardia operaia e Pdup a Torino. Tempestiva arriva la proposta di Lotta continua: partecipare alle elezioni con un cartello unitario aperto a tutti i movimenti e collettivi, ogni forza presenti il suo programma non essendosi ancora maturate le condizioni per un programma comune. Avanguardia operaia inizia la sua altalena di posizioni, con un lungo articolo Dove nasce e come va combattuto il recente avventurismo settario ài Le nella sinistra?, polemizza con gli argomenti vecchi e recenti del gruppo di Sotti, ripercorrendo le tappe di un lungo dibattito critica lespe-rienza di Lotta continua: l'economicismo, la pratica della violenza fisica, settarismo; tuttavia concede sul piano elettorale. Apprezza il superamento dell'astensionismo, pur riconoscendo che non vi sono le condizioni per un programma comune considera possibile un'unità d'azione elettorale con Lotta continua «a una condizione precisa»: «Le deve porre termine alla sua attuale politica di aggressione fisica nei confronti delle altre forze di sinistra». Un'apertura che dimostra che non si vuole rompere con Lotta continua anzi si sollecita il suo mutamento, e nella speranza di un fronte comune di tutti i rivoluzionari, si auspica la ripresa di rapporti col gruppo. L'articolo, firmato Luigi Vinci, conclude: «Forse a Le oggi questo di non avere in noi un interlocutore, non interessa, forse è paga del rapporto con Autonomia operaia piuttosto che con aggregazioni consimili di avventurieri irresponsabili. Rifletta bene però sullo sbocco inevitabile delle sue scelte. Perseverare sulla strada attuale può significare il suicidio politico, e Berlinguer ringrazierà». Si sottovaluta lo stato del movimento, la rottura ormai irreversibile fra le stesse leadership dei gruppi e la loro base; il pullulare di tanti eterogenei spezzoni organizzati, cresciuti e alimentati dal solo accecamento antirevisionista; l'ingenua ma anche opportunistica vocazione unanimistica che permea di sé ormai più generazioni di militanti o di transitatori dei vari minipartiti dell'estremismo; si sottovaluta la miscela che si è formata fra la nebulosa del sinistrismo e il diffondersi di quei fenomeni di diciannovismo più volte denunciati da Berlinguer.

Anche nel Pdup la situazione si presenta molto articolata, alle prime rigidità si sostituiscono la disponibilità del gruppo Miniati. Il comitato centrale di Avanguardia operaia del 10 aprile 1976 vota due documenti: il primo sullo stato dei rapporti con il Pdup sui quali, pur non sottacendo le difficoltà, esprime un sostanziale giudizio positivo, rafforzato dall'iniziativa unitaria sviluppatasi fra le due organizzazioni in preparazione dello sciopero generale del 25 marzo; il secondo affronta il nodo delle elezioni. Su questo punto da mandato agli organismi dirigenti di definire l'intesa e il programma politico di Democrazia proletaria col Pdup, e «senza farsi troppe illusioni, ma ritenendo importante conservare momenti di unità di azione» accetta l'invito elettorale di Lotta continua. Il gruppo di Sofri incalza: decide di presentarsi alle elezioni e propone a Democrazia proletaria un cartello comune. Il comunicato delle segreterie congiunte di Avanguardia operaia e Democrazia proletaria sembra non lasciare spazi: «non esistono le condizioni minime per Lotta continua». Quest'ultima replica attaccando il loro settarismo. Dentro Avanguardia operaia cominciano a farsi sentire le pressioni della base, se ne ha una riprova immediata con l'articolo di Vittorio Rieser, confluito insieme a Mottura, Pugliese, Bonelli, da alcuni anni nel gruppo, sul «Quotidiano dei lavoratori» del 20 aprile, si ammette che non vi è convergenza dentro Democrazia proletaria, ne dentro il Pdup, invita ad un confronto e anche alla battaglia politica interna. Rieser torna sull'argomento il 24 aprile; dalla base viene l'esigenza d'unità. Avanguardia operaia convoca in seduta straordinaria il comitato centrale. Tenta un escamotage: invita Lotta continua a non presentare liste proprie e a ricono-scersi nelle liste locali di Democrazia proletaria. Sofri grida alla provocazione. Di lì a poco il comitato centrale rovescerà la posizione della segreteria dichiarandosi disponibile a un accordo con Lotta continua, a nulla varrà l'invito rivolto dal Pdup di accordi locali definiti tenendo conto dei reali rapporti unitari. II «Quotidiano dei lavoratori» titola: La strada è ormai aperta per un'unica lista rivoluzionaria alle prossime elezioni politiche.

NOTE 1 D. Protti, «Cronache di "nuova sinistra"», Gammalibri, 1979, p. 129. 2 ibidem. 3 «Per il rilancio di una politica di classe», Savelli, 1968. 4 Cfr.: La concezione del Partito in Lenin (dai gruppi al partito, 1895-1912), Primo «Quaderno di Avanguardia operaia», Edizioni Sapere, 1970. 5 D. Protti, «Cronache di "nuova sinistra"», p. 135. 6 II revisionismo del Pci origini e sviluppi. Terzo «Quaderno di Avanguardia operaia», Edizioni Sapere, 1971, pp. 46-71. 7 Cfr.: I Comitati di base - Origini, sviluppo e prospettive. Quarto «Quaderno di Avanguardia operaia», Edizioni Sapere, 1972. 8 ibidem. 9 ibidem. 10 La rivista mensile «Avanguardia operaia» affronta: Lotta continua, n. 3-6-9-19; Potere operaio, n. 14-15; Lotta comunista, n. 7-8-17; II Manifesto, n. 6-13-18-2921; MS Statale di Milano, n. 6-7-8; Circolo Lenin Puglia, n. 10; Sinistra Rivoluzionaria Romana, n. 6; Gruppo Gramsci, n. 25. Per la tematizzazione della rivista cfr.: G. vettori, La sinistra extraparlamentare italiana, Newton Compton Italiana, 1973, pp. 126-133. 11 Borghesia e revisionismo impegnati a superare la crisi dì regime, «Avanguardia operaia», numero unico, novembre-dicembre 1969. 12 Lotta operaia e sviluppo capitalistico, ibidem. 13 ibidem. 14 Cfr.: D. Protti, «Cronache di nuova sinistra», cit., p. 137.

15 Un bilancio di AO sui problemi di organizzazione, «Avanguardia operaia», n. 7-8 luglio-settembre 1970. 16 ibidem. 17 «Avanguardia operaia», n. 14/15, marzo-aprile 1971. 18 «Avanguardia operaia», quindicinale, n. 6, 25 marzo 1972. 19 ibidem. 20 Volantino del 20 maggio 1972 in G. Vettori, «La sinistra extraparlamentare in Italia», cit., p. 149-150. 21 «Avanguardia operaia», quindicinale, n. 8, 22 aprile 1972. 22 «Avanguardia operaia», mensile, n. 23, marzo 1972. 23 ibidem. 24 Per una linea di classe nelle lotte contrattuali, «Avanguardia operaia», mensile n. 25, giugno 1972. 25 ibidem. 26 ibidem. 27 La situazione politica e i nostri compiti, «Quaderni di Avanguardia operaia», Cooperativa Editoriale Nuova Cultura, 1974, p. 149. 28 ibidem, p. 169. 29 Cfr. Già applicato nei fatti il fermo di polizia, «Avanguardia operaia», settimanale, n. 19, 18 maggio 1973; Lo Stato forte in Europa: una tendenza che bisogna arrestare, «Avanguardia operaia», settimanale, n. 20, 25 maggio 1973. 30 Cfr.: Intervista a Luigi Vinci in D. Protti, «Cronache di nuova sinistra», cit. 31 Variano i compagni dei CUB di Napoli, «Avanguardia operaia», settimanale, n. 21, 1° giugno 1973. 32 Cfr.: Assemblea dei CUB a Torino, «Avanguardia operaia», settimanale, n. 24; Congresso nazionale degli organismi di base Sip, «Avanguardia operaia», n. 25;

Per l'intervento nei paesi e nelle piccole fabbriche. Convegno Avanguardia operaia nelle Tré Venezie. 33 Cfr.: La situazione politica e i compiti, cit., p. 13. 34 La situazione politica e i nostri compiti, «Quaderni di Avanguardia operaia», cit., p. 43. 35 ibidem. 36 ibidem, p. 60. 37 ibidem, p. 70. 38 ibidem, pp. 79-80. 39 ibidem, p. 71. 40 ibidem, p. 73. 41 S. Corvisieri, «I senza Mao dove va la sinistra rivoluzionaria», Savelli, 1976, p. 64. 42 Cfr.: D. Protti, «Cronache di nuova sinistra», cit., p. 140. 43 Cfr.: S. Corvisieri, Gioia di vivere e lotta di classe, «II quotidiano dei lavoratori», 26 settembre 1975; «Politica comunista», n. 1, 1976. 44 «Linus», marzo 1976; Cfr.: S. Corvisieri, «I senza Mao», cit., p. 99; 15 giugno: analisi e prospettive di una vittoria, «Politica comunista», n. 5/6, 1975. 45 Cfr. D. Protti, «Cronache di nuova sinistra», cit., p. 167; S. Corvisieri / «Senza Mao», cit., pp. 46-63.

XII LA LOTTA ARMATA

1. Da Trento al Collettivo metropolitano

Nel gennaio del 1976, scritta da Soccorso rosso appare in libreria la prima organica ricostruzione della storia delle Brigate rosse. Dall'inizio degli anni settanta la lotta armata in Italia è una realtà, è entrata prepotentemente nel dibattito dell'estremi-smo di sinistra come dimostrano: le oscillazioni di Lotta continua di fronte alle varie azioni terroristiche, le compiici dissolvenze di Potere operaio, le suggestioni armate che attanagliano, sin dalla loro formazione, i gruppi dell'Autonomia organizzata. Nel corso del tempo, in un susseguirsi di azioni e «riflessioni teoriche», spezzoni organizzativi e singoli militanti sono approdati alla follia armata, ai Gap di Feltrinelli si sono aggiunte le Br e poi i Nap e infine sempre più numerose compaiono sigle spontanee che rivendicano azioni militari. A partire dalla seconda metà del 1974 lo scontro è senza esclusione di colpi, con il duplice omicidio dei fascisti a Padova inizia la spirale di sangue. Con il sequestro del magistrato Sossi le Br sono diventate un partito politico combattente capace di introdurre forti contraddizioni nei vari apparati dello Stato e di disarticolarne la capacità di risposta politica. Gli arresti dei capi brigatisti non servono a bloccare la riproducibilità della lotta armata. Come è noto le bozze del testo Brigate rosse, che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto pubblicato da Feltrinelli, furono revisionate e corrette dagli stessi Curcio e Franceschini. Dietro la sigla Soccorso rosso, collettivo formatosiper la difesa dei militanti arrestati e contro la repressione, l'avvocato Francesco De Giovanni difensore insieme a Spazzali e Guiso di numerosi imputati brigatisti. L'attenzione alla vicenda organizzativa e alle sue ragioni politiche non nasce da una semplice curiosità intellettuale ne è da attribuire ad un mero colpo giornalistico-editoriale, piuttosto esprime la volontà di sistematizzare un'esperienza dando ad essa piena dignità politica, fugando così ambiguità e diffidenze ancora presenti in una gruppettistica ormai trasversalmente coinvolta nella pratica della violenza diffusa e della stessa lotta armata. Si vuole rompere

ogni alibi o rimozione, non è «fascismo mascherato o ammantato di rosso», non è spionaggio internazionale, bensì un preciso disegno politico-organizzativo col quale occorre misurarsi: un progetto da discutere. Soccorso rosso parte dalla vicenda personale e politica dei due principali leader storici del gruppo: Renato Curcio e Margherita Cagol; itinerari, matrici ideali e culturali interne alla nascita e allo sviluppo dell'estremismo sessantottesco. Il contesto in cui si colloca la loro prima formazione è l'università di sociologia di Trento negli anni che precedono la lotta degli studenti: le tematiche dell' Università negativa, gli influssi della Kritische Universität, che si intrecciano alle culture del dissenso cattolico presenti nell'area trentina. Renato Curcio partecipa attivamente al comitato di redazione di «Lavoro politico» e da quella postazione guarda ai movimenti e al futuro partito della rivoluzione. Alla fine del '68, mentre è in corso un ripensamento sui contenuti e sulle forme della lotta rivoluzionaria, il documento Proposta di foglio di lavoro redatto da Renato Curcio e Mauro Rostagno sul fallimento del democraticismo assembleare che, in sintonia con quanto sta maturando nell'insieme del maoismo nostrano, sanziona l'indilazionabile necessità di un livello organizzativo unificante, capace di determinare una «milizia politica» oltre il ristretto ambito universitario 1. Nel linguaggio e nelle ipotesi ali'ampio ricorso al pensiero maoista si aggiungono i numerosi richiami trozkisti; si parla diffusamente di «basi rosse», di «zone di contropotere», mentre l'università è considerata «Fanello forte» di una «lunga marcia attraverso le istituzioni» finalizzata a creare «poteri rossi» dove si comincia a gestire la società alternativa. Mancano poche settimane alla scissione del dicembre '68 fra linea rossa e linea nera, quando il gruppo redazionale di «Lavoro politico», a cui hanno collaborato Renato Curcio e Margherita Cagol, aderisce al Pcd'I. La rivista, autoproclamata-si sin dalla sua costituzione «organo marxista-leninista», progressivamente si è schierata dalla parte del Pcd'I, una dislocazione funzionale a quella scelta «partito» che dopo il maggio francese si è fatta sempre più stringente. Con l'articolo II marxismo leninismo in Italia, del maggio, «Lavoro politico» sancisce la sua scelta fra il Pcd'I e la federazione marxista-leninista. Nell'agosto dello stesso anno Osvaldo Pesce e Dino Dini sono ricevuti da Mao Tse-tung e Ciu En Lai, Viva l'unità militante fra il partito comunista cinese e il Partito comunista d'Italia (m-l) ! commenta trionfalmente «Nuova Unità». E facile comprendere il prestigio che, sia pure in modo effimero, circonda il partito degli emmellisti italiani. Per «Lavoro politico» è dunque possibile intravedere nel Pcd'I le condizioni del partito rivoluzionario ispirato al maoismo «in opposizione ai gruppi minoritari o sedicenti marxisti-leninisti che tradiscono viceversa nei fatti [...] il loro carattere piccolo borghese».

Alle spalle della rivista e dei suoi militanti un'esperienza che è totalmente assente ai quadri del Pcd'I: il movimento studentesco e le lotte dell'università. I contrasti sono immediati. Peraltro lo stesso partito è attraversato da tempo da divisioni non sanabili. Arriva la spaccatura fra Pesce, linea «nera», e Dinucci, linea «rossa». I colori ben poco hanno a spartire con la natura dello scontro. Alla radice le ragioni di sempre, quelle che ritroviamo nelle scissioni dell'Unione, come di altre formazioni e non solo dellemmellismo: la coerenza rivoluzionaria, la fedeltà nell' assimilazione del maoismo, la costruzione di una mitica «linea di massa» non come astratta ripetizione di principi e dogmi. «Lavoro politico» si schiera con la linea rossa. Dopo la vicenda delle due «Nuova Unità», che escono contemporaneamente il 10 dicembre, la linea nera di Osvaldo Pesce si impadronisce di nuovo della testata del giornale, mentre Fosco Dinucci fonda l'organo di stampa della corrente rossa. Ma i «rossi» non sono immuni dagli errori dei loro ex compagni e ben presto anche al loro interno gli scambi di accuse, gli argomenti prima usati dai militanti della linea nera ora servono a epurare la linea rossa dagli elementi frazionisti. Per «Lavoro politico» le difficoltà si riflettono nel clima fra gli ex componenti del gruppo redazionale. Nel suo ultimo numero, ottobre '68-gennaio '69, la rivista ormai organo del Pcd'I linea rossa, accusa apertamente Renato Curcio e Duccio Berio di essere i «portabandiera» di una deviazione ultrasinistra. Facendoci comprendere alcune delle successive opzioni di Curcio, così spiega i termini dell'accusa: «essi furono indotti — nel tentativo di giustificarla — a formulare una "teoria" completamente soggettiva e antimarxista-leninista secondo la quale il centralismo democratico e il partito sarebbero principi e strumenti "superati" perché la rivoluzione dovrebbe essere preparata attraverso accurate ricerche "teoriche", condotte da equipes di studiosi collegati intemazionalmente, e attraverso l'invenzione di "nuove" forme organizzative, non più leniniste, ma assimilabili a quelle che gruppi piccolo-borghesi alla Dutschke andavano elaborando su scala "europea" e che cercavano di imporre al movimento studentesco trentino. Essi cercavano così di evadere con fantasticherie soggettive dal duro impegno della lotta di classe nel partito [...] finendo poi per tornare nelle fila del movimento studentesco su posizioni totalmente antimarxiste...» 2. Nella primavera del '69 Curcio è di nuovo all'università di Trento, dopo burrascose discussioni con Mauro Rostagno, suo antico compagno di lotte, la breve riappacificazione per tramite di Margherita Cagol. A Trento in quel periodo opera anche Peter Schneider, braccio destro del leader del movimento studentesco tedesco Rudi Dutschke.

Il rapporto col Pcd'I linea «rossa» si consuma rapidamente. Nell'estate il gruppo di Walter Peruzzi e di Renato Curcio è espulso per «avventurismo politico e frazionismo organizzato». Si chiude l'esperienza trentina di Curcio, alle sue spalle: il movimento studentesco, la rivista «Lavoro politico» e infine il fallito approdo al partito. Come per molti militanti, in quel crocevia temporale della storia del sinistrismo italiano, gli interrogativi sono più forti di prima: quale teoria per quale rivoluzione. Occorre tornare a riflettere sulle condizioni dell'azione politica. I fallimenti rinchiudono su se stessi e invitano a esasperare rigidi sistemi di coerenza. Renato Curcio insieme alla sua compagna Mara Cagol si trasferiscono a Milano. Trovano un lavoro, il primo alla casa editrice Mondadori, la seconda all'Umanitaria. Ora l'impegno politico è nel sociale: le lotte per la casa, per i trasporti, l'insorgere dell'autunno caldo. Anche Mauro Rostagno, si è trasferito a Milano ma la sua strada diverge dai suoi compagni di lotte e di università, il suo impegno si riversa nella costituenda Lotta continua, mentre Curcio e Mara Cagol lavorano alla costituzione del Collettivo metropolitano. Per tutto il gruppismo il tema dominante è organizzarsi per affrontare l'imminente scadenza contrattuale. Gli operaisti si dividono nei due distinti tronconi di Potere operaio e di Lotta continua mentre proprio gli emmellisti, i più accaniti sostenitori dell'organizzazione, se si esclude l'anomala esperienza dell'Unione, mancano all'appuntamento. Non solo la scadenza contrattuale spinge alla cosidetta «centralizzazione» ma a questa esigenza si aggiungono le sempre più inquietanti voci su un possibile colpo di Stato in Italia. Da credibilità alla paura del «golpe» il susseguirsi di attentati di ispirazione neofascista nonché lo spostamento a destra che si registra negli ambienti politici italiani sempre più inclini a una svolta d'ordine. Nel settembre '69 la nascita del Collettivo politico metropolitano; vi confluiscono vari frammenti organizzati: militanti del comitato di base della Pirelli, del gruppo di studio della Sit-Siemens, del collettivo lavoratori studenti, delle fabbriche Alfa e Magneti Marcili, della Sip, militanti che non si riconoscono in nessun gruppo. Protagonisti principali accanto a Renato Curdo: Corrado Simioni, impiegato alla Mondadori e Franco Troiano impiegato alla Siemens. Quasi a mettere in guardia e a rassicurare i propri militanti rispetto ad altre esperienze, il Collettivo metropolitano precisa di non costituirsi in gruppo con un atto volontaristico ma, partendo da situazioni di lotta concrete, i comitati hanno deciso di dar vita alla nuova struttura. Ancora una sottolineatura rispetto al panorama dell'estremismo e alle sue dispute: «attualmente il processo di costruzione del collettivo non avviene sulla base di un programma e neppure sulla base di una rosa di principi ideologici» 3.

Il bollettino che, secondo la pratica sessantottina, viene immediatamente stampato non si presenta come un documento organico ma raccoglie in forma di contributi autonomi i documenti delle varie realtà che aderiscono al collettivo. Le lotte di cui riferisce sono modeste. Nei gruppi di studio della Sit-Siemens e in quello dell'Ibm i nuclei portanti sono formati da impiegati e tecnici, nascono con questa specificità e, già impegnati nel dibattito universitario sulla funzione del tecnico e del suo ruolo, vogliono collegarsi con la classe operaia. E un bisogno di fronte alla crisi del proprio status. Una contraddizione profonda fra l'essere sociale e la propria dimensione soggettiva che esaspera i tratti di una milizia politica fatta di catartiche negazioni dell'ordine e delle gerarchle sociali esistenti. Spiegando le sue finalità così scrive il gruppo di studio della Sit-Siemens: «studiare e proporre a tutti gli impiegati obiettivi ed azioni atte a migliorare le condizioni generali [...] non dall'esterno come il sindacato [...] ma dall'interno attraverso analisi e assemblee a cui tutti possono partecipare» 4. La Sit-Siemens in quegli anni attraversa una fase di crescita tumultuosa sia quantitativa che qualitativa. Processi che aumentano il malessere degli strati impiegatizi; le frustrazioni professionali si accompagnano alla crisi di identità sociale. Ma il vento del sessantotto arriva ovunque, proprio in quell'anno si forma il Gruppo di studio impiegati. Il sindacato è ancora lontano da queste tematiche, nel gruppo confluiscono varie esperienze: iscritti alla Fiom, alla Fim, militanti senza bandiera, giovani al loro apprendistato sindacale. Un'opera di sensibilizzazione, che si rivolge agli impiegati cercando di dare a essi una dimensione unitaria della lotta. Nella Lettera aperta agli impiegati della SitSiemens il gruppo motiva la sua scelta con la volontà di rompere la desolante frustrazione del lavoro, non «andarsene o subire» ma definire una comune piattaforma da sottoporre a tutti. I protagonisti di questa fase si ritroveranno nelle lotte del sindacato della Sit-Siemens, altri — è il caso di Mario Moretti — iniziano in questo contesto l'apprendistato rivoluzionario. Primo atto del Gruppo di studio impiegati un questionario-referendum in cui si chiede di esporre i motivi del malcontento. L'adesione è massiccia, oltre le aspettative. Si indicono le prime assemblee fuori dell' orario di lavoro. Punto centrale di sofferenza sono «gli aumenti di merito», una riprova della rottura con la vecchia mentalità impiegatizia disponibile alla discrezionalità padronale. Uno dei tanti segni della rivolta che matura nei «colletti bianchi». Dal questionario si passa ad una piattaforma di lotta, illustrata in un'affollata assemblea generale degli impiegati. La dirczione aziendale respinge le modeste richieste: leggeri aumenti salariali di tipo perequativo, ritocchi alle ferie e in primo luogo la pubblicizzazione degli aumenti di merito. Spetta al dottor Leoni, che ritroveremo fra i primi obiettivi delle nascenti Br, esprimere il «no» del padronato. Iniziano gli scioperi. «Il primo da oltre 20 anni fatto da noi impiegati, cui partecipò più del 90%» 5.

Siamo nell'inverno '68 e ancora non è esploso l'autunno caldo. Gli scioperi cercano di coinvolgere, e'è voglia di parlare, discutere: «Le lotte impiegatizie del '68 sono mille miglia lontane non solo dal terrorismo ma anche dalle più blande forme di estremismo. Credo anzi che la forza del Gruppo di studio sia stata quella di non aver perso i contatti col moderatismo che, sotto la patina della "piccola rivoluzione" continuava a caratterizzare la massa degli impiegati. Non ci furono fughe in avanti...»6. Il parziale risultato ottenuto non risolve il problema del rapporto impiegati-operai. La difficoltà sarà evidente con l'emergere delle rivendicazioni operaie. I sindacati sono divisi nell'unificare le due vertenze, la C gii è disponibile, contraria la Cisl. L'assemblea al Palalido di Milano non riesce a concludersipositivamente su questo punto. Alle arretratezze della cultura sindacale si accompagnano corporativismi e diffidenze sia degli impiegati che degli operai. Inizia la riflessione all'interno del gruppo di studio: serve ancora un lavoro attorno allo specifico «impiegatizio»? All' orizzonte si profila la scadenza contrattuale. All' Ibm la situazione è molto simile a quella descritta alla Sit-Siemens, la costruzione del gruppo di studio è del marzo '69, protagonisti sono giovani tecnici, anche in questo caso la comune condizione, prevale sugli schieramenti ideologici precostituiti: «l'eterogenità politica, culturale (cattolici, marxisti, ex liberali) e sociale (alcuni tecnici, un ex capo dimessosi per motivi politici, un capo in crisi e rappresentante di commissione interna) del gruppo è la dimostrazione [...] che lo sviluppo capitalistico [...] apre continuamente nuove contraddizioni nelle società [...] e nuovi schieramenti prima impediti dal grado inferiore di sviluppo del capitale» 7. La loro prima lotta è la difesa di un capo licenziato perché colpevole di aver chiesto «di essere esonerato dalle proprie funzioni, di partecipare ai picchettaggi di far parte del gruppo politicamente schierato contro la dirczione». La difesa della commissione interna è debole, dopo una lunga trattativa con la dirczione acconsente al licenziamento anzi lo consiglia al «compagno licenziato per il suo bene». E la rivolta contro la commissione interna, seguono l'assemblea, lo sciopero spontaneo e i cortei interni. La dirczione Ibm deve tornare indietro. Anche sul fronte della lotta operaia la situazione è in movimento. L'accordo aziendale del febbraio '68 ha lasciato molti strascichi, per l'estremismo si è trattato di una «svendita»: questo il risultato di ben 72 ore di sciopero. Amarezza e delusione fra gli operai. A giugno nasce il Comitato unitario di base. Ancora non si è giunti alla divaricazione col sindacato, le differenze principali consistono nell'accentuazione della democrazia di base e nelle premesse politiche generali. Il comitato è un «nucleo di organizzazione della lotta» e non un «organo di dirczione politica della classe operaia» e come tale non prevede discriminanti ideologiche per chi vi aderisce. Eterogeneo nella sua composizione sarà sconvolto dalla crisi nel corso delle lotte contrattuali, quando due linee si confronteranno al suo interno: i sostenitori del suo farsi «organizzazione politica complessiva» e chi invece preferisce dar voce all'autonomia operaia non separandosi dal movimento.

La crisi precipiterà all'indomani dell'accordo contrattuale del 22 dicembre '68, giudicato dal comitato un compromesso deteriore che costringe l'operaio a lavorare di più. Nell'estate '69, il sindacato manifesta una sua più incisiva capacità di recupero, vengono riassorbite alcune delle tematiche portate avanti dal Cub come la democrazia, la nocività, il rifiuto del taglio dei tempi di produzione. L andamento complessivo della vicenda contrattuale dell'autunno caldo acutizza le difficoltà del comitato. Più che gli obiettivi sono le forme e le finalità delle lotte a drammatizzare il rapporto col sindacato. Emerge il tema dell'illegalità, il nocciolo duro dal quale originerà il percorso della lotta armata. In un volantino distribuito alla Sit-Siemens si legge: «lo sciopero prolungato ha come effetto che noi non produciamo [...] ma il padrone per questo tempo non ci paga. [...] E necessario trovare forme di lotta che danneggino la produzione più di quanto danneggiano noi. [...] Alcune forme di lotta non piacciono alla dirczione che le dichiara illegali [...] illegali sono così lo sciopero, il picchetto, la caccia al crumiro, un vetro rotto durante le manifestazioni. [...] Legali sono invece il cottimo, il basso salario, l'intimidazione diretta o mascherata, le multe, il lavoro pericoloso o nocivo. Contro la sua volontà, contro le sue leggi dobbiamo imporre la nostra volontà, contrapporre il nostro potere» 8. Intanto il gruppo di studio Sit-Siemens ha significativamente cambiato denominazione non più Gruppo di studio impiegati ma Gruppo di studio operaiimpiegati, cerca collegamenti con le altre fabbriche, con altre esperienze simili. Nelle interviste raccolte da Massimo Cavallini per il suo Terrorismo in fabbrica un operaio della Sit-Siemens così commenta questo passaggio di fase: «nato sulla spinta di una pretesa continuità con l'esperienza del '68 impiegatizio finì per negarla integralmente, perse di fatto le proprie caratteristiche di organismo di massa specificamente legato a una categoria di lavoratori e divenne gradatamente il laboratorio nel quale le più disparate tendenze del gruppismo studentesco conducevano le proprie sperimentazioni teorico-pratiche» ". Per il gruppo di studio la fabbrica non basta più, le lotte contrattuali lo hanno dimostrato: «la lotta di base sta assumendo un aspetto generale, uscendo dalla fabbrica per coinvolgere tutta la struttura sociale». Nasce da ciò «la necessità per il gruppo di darsi una dimensione adeguata al livello dello scontro, cioè di agire non solo in fabbrica ma anche nella scuola, nei quartieri, in una parola nella metropoli, di qui la costruzione di un collettivo metropolitano (Cpm) a cui il gruppo partecipa» 10. Analoghe ragioni si ritrovano nel primo documento del Collettivo metropolitano, uno strumento — come si autodefinisce — che serve ad approntare «le strutture di lavoro indispensabili a impegnare in modo non individuale-ma dell'organizzazione rivoluzionaria della metropoli e dei suoi contenuti (ad esempio democrazia diretta, violenza rivoluzionaria)» n.

Il Gruppo di studio dell'Ibm, autocriticandosi per «insufficienza politica» e «opportunismi» che hanno consentito al sindacato di riassorbire le lotte spontanee nella logica contrattuale, così commenta la riflessione in corso: «rivolgersi a tutti i lavoratori [...] è stato far finta di non scorgere la realtà, non agire per individuare la sinistra di fabbrica e all'interno di questa cercarsi uno spazio politico per costituirsi quale punto di riferimento [..;]. Alla Ibm si è voluto essere il punto di riferimento di tutti i lavoratori e non lo si è stato per nessuno, si è raccolta la simpatia di tutti e si è stati considerati una frangia dissidente dei sindacati, si è voluto deviare la dirczione e il terreno dello scontro alla Ibm in opposizione alle scelte sindacali e si è stato soltanto strumento quasi sempre inconsapevole del sindacato. Errori sono stati compiuti nello scambiare per coscienza politica un generico opportunismo da "maggioranza silenziosa" che si schiera monotonamente con la tesi vincente» ". La discussione investe l'insieme della breve esperienza prodotta. Impauriti da presunti riassorbimenti, per ritrovare le ragioni del proprio esistere come gruppo si rinserrano le file, mentre emblematicamente le bombe di Milano chiudono le lotte contrattuali ". Per tutto l'estremismo è una fase di rimescolamento. Seguiamo ancora la descrizione e il ragionamento del Gruppo di studio dell'Ibm: «la crisi del Cub Pirelli (determinata dal venir meno della lotta all'indomani dell'accordo aziendale e dal non essere riuscito ad esprimere un'avanguardia operaia interna alla fabbrica), l'impasse dei gruppi Ibm e Sit-Siemens e di altri gruppi sorti come funghi nell'autunno sindacale, alcuni dei quali erano in rapida dissoluzione, sollecita una profonda revisione dei presupposti politici alla base della loro azione e un ripensamento radicale che ne giustifichino resistenza al di fuori delle organizzazioni sindacali e dei partiti della sinistra. L'alternativa è chiara: o i gruppi [...] superano questa fase, profondamente imbevuta di spontaneismo, volontarismo, settarismo, e priva quindi una seria prospettiva di classe contrapponibile alle organizzazioni che rifiutano, assumendo il punto di vista generale dello scontro tra borghesia e proletariato, oppure sono destinati ad essere spazzati via inesorabilmente dalla scena politica» M. Alla crisi dei gruppi, il Collettivo metropolitano, esasperando un astratto sistema di certezze, contrappone l'alternativa di una «lotta di classe in termini rivoluzionari il cui sbocco è rappresentato dalla lotta armata di popolo» e si autodefìnisce una particella di questo progetto: «un gruppo politico di intervento omogeneo all'interno di una area politica definita dalle strutture capitalistiche che tale area determinano, la metropoli, con l'obiettivo fondamentale di indicare la necessità e di contribuire all'organizzazione della lotta rivoluzionaria europea» 15. Il convegno di Chiavari, organizzato alla fine del 1969, approfondisce questi contenuti e in seguito al dibattito sarà pubblicato il primo documento teorico del gruppo Lotta sociale e organizzazione nella metropoli16.

Attorno alla nozione di autonomia proletaria ruota sia la critica all'esistente che la riformulazione di una pratica politica antagonista al sistema: «Noi vediamo nell'autonomia proletariail contenuto unificante delle lotte degli studenti, degli operai e dei tecnici che hanno permesso il salto qualitativo 1968-69. L'autonomia è il movimento di liberazione del proletariato dal-l'egemonia complessiva della borghesia, e coincide con il processo rivoluzionario. In questo senso l'autonomia non è certamente una cosa nuova, un'invenzione dell'ultima ora, ma una teoria politica del marxismo rivoluzionario, alla luce della quale valutare la consistenza e la dirczione di un movimento di massa. Autonomia da: istituzioni politiche borghesi (stato, partiti, sindacati, istituti giuridici, ecc), istituzioni economiche (l'intero apparato produttivo-distributivo capitalistico), istituzioni culturali (l'ideologia dominante in tutte le sue articolazioni), istituzioni normative (il costume, la "morale" borghese). Autonomia per: l'abbattimento del sistema globale di sfruttamento e la costruzione di un'organizzazione sociale alternativa» ". L'obiettivo è costruire una lotta di lunga durata e, sviluppando progressivamente le proprie capacità organizzative, realizzare un processo rivoluzionario politicomilitare rifiutando ogni mitizzazione di una fatidica e messianica ora X della rivoluzione. Il documento è denso di riferimenti alle teorizzazioni del gruppo tedesco Baader-Meinhof, alle analoghe esperienze francesi e alle altre formazioni della guerriglia. Richiamate esplicitamente le ipotesi del brasiliano Marcelle De Andreade, la lotta armata è assunta come forma principale della lotta di classe. Esclusa ogni possibilità di guerra antimperialistica, l'alternativa proletaria al potere deve essere da subito alternativa politico-militare. Criticata, per il suo schematismo, la «concezione corrente» del rapporto fra movimento di massa e organizzazione rivoluzionaria, una concezione che, in modo gradualistico, vorrebbe realizzare prima la conquista delle masse alla consapevolezza rivoluzionaria e poi, solo «quando le masse saranno rivoluzionarie», determinare il passaggio alla rivoluzione, si giudica astratto l'obiettivo intermedio della costruzione del partito marxista-leninista. La necessità di superare ogni illusoria processualità attualizza il progetto militare, accelera con una forzatura soggettiva i tempi rivoluzionari, fa saltare il passaggio del «partito» sostituendolo da subito con l'organizzazione clandestina. Definita «irrisoria» ogni prospettiva insurrezionale nell'Europa capitalistica, la fase è quella del «processo rivoluzionario metropolitano». In una società tardo capitalista i modelli rivoluzionari del passato non sono più applicabili. Infatti, precisa il Cpm, essendo mutati radicalmente i rapporti fra struttura e sovrastruttura, la rivoluzione diventa un fatto globale che trasforma le vecchie connessioni fra movimenti di massa e organizzazioni rivoluzionarie e quindi modifica sostanzialmente i principi dell'organizzazione. Per il Collettivo politico metropolitano già esistono le

condizioni oggettive del passaggio al comunismo, il problema è solo soggettivo. Le lotte debbono avere un carattere essenzialmente urbano. Nelle metropoli, infatti, si concentra il massimo delle contraddizioni dello sviluppo tardocapitalista, «nel 1961, 14.310.000 italiani erano concentrati in 8 aree urbane, si prevede che entro il 2.001 essi saliranno a 29.153.000; metà della popolazione totale» 18. Ai dati statistici si aggiunge la sostanza politica: «la città è il cuore del sistema, il centro organizzatore dello sfruttamento economico politico, la vetrina in cui viene esposto "il punto più alto", il modello che dovrebbe motivare l'integrazione capitalistica». Ma la città è anche il punto più debole del sistema, dove le tensioni sono più acute; è qui nel suo cuore — aggiunge il Cpm — che il sistema va colpito. Col convegno di Chiavari inizia la storia del principale gruppo terroristico italiano. Un convegno come tanti nel panorama dell'estremismo di quegli anni. E diffìcile poter prefigurare i drammatici sbocchi di un dibattito che non si discosta molto dai temi che ossessionano il movimento: la rivoluzione, l'anti-revisionismo, la lotta armata e la violenza. Sono affermazioni teoriche e principi che trasudano nella pubblicistica minoritaria, ridondando nel linguaggio dei volantini, risuonano tumultuose nelle assemblee. Un episodio senza clamore se confrontato alle battaglie di piazza che già hanno contrassegnato i primi mesi della strategia della tensione. Per i gruppi più consolidati un episodio minore, senza molta consistenza. Non manca la goliardia. Il convegno si svolge all'albergo Stella Maris di proprietàdella Curia, «la casa del vescovo» come scriveranno i rotocalchi ricostruendo in modo colorito la storia delle Br. La notte è come un' occupazione di facoltà nei momenti degli happening collettivi. I religiosi sono costretti a far intervenire le forze dell'ordine. I partecipanti al convegno sono tutti schedati. Ma gli aspetti di colore non tolgono nulla alla drammatica sostanza: a Chiavar! il Cpm ha «posto all'ordine del giorno il problema della lotta armata e della violenza: su questi temi si creano profonde divisioni ma, nello stesso tempo, si sviluppano nuove aggregazioni» 19. La violenza delle parole si tramuterà nella violenza delle azioni e delle armi.

2. Sinistra proletaria, guerriglia di popolo

La vita del Collettivo politico metropolitano può datarsi dal settembre '68, momento della sua costituzione, al luglio 1970 quando la sigla scompare sostituita dall'omonimo titolo della rivista del gruppo «Sinistra proletaria». Negli Appunti per una discussione, distribuiti in preparazione del convegno di Chiavar!, così era stata posta la questione della violenza rivoluzionaria: «... non è un fatto soggettivo, non è un'istanza morale: essa è imposta da una situazione che è ormai strutturalmente e sovrastrutturalmente violenta. Per questo la sua pratica organizzata è ormai un parametro di discriminazione. Pratica organizzata di contro a rabbia operaia (episodica/soggettiva) sta a indicare che lo scontro violento è una necessità intrinseca necessaria, sistematica e continua dello scontro di classe». 20. Il tema sarà sviluppato organicamente nel documento del gennaio 1970: Lotta sociale ed organizzazione nella metropoli. La scelta «armata» si realizzerà solo alla metà del 1970, fino ad allora il gruppo consolida i suoi rapporti, manifesta un certo dinamismo ma senza mettersi particolarmente in vista ne per la statura dei suoi dirigenti ne per l'aggressività delle lotte che conduce. Per lo più è una presenza interna alle stesse situazioni che lo hanno originato la Sit-Siemens, l'Ibm, il Cub della Pirelli. L'intervento del Collettivo politico metropolitano segue andamenti tipici al complesso dell'estremismo e, in quei primi mesi del 1970 guarda con attenzione al «sociale». Nell'elaborazione del gruppo, sia pure su una linea tutta ideologizzata e arretrata rispetto alle più generali tematiche del movimento femminista, trova spazio anche la riflessione sull'e-mancipazione della donna. Il volantino distribuito in occasione del marzo '70 ha la pretesa di individuare quella che Soccorso rosso nella sua ricostruzione definisce «una linea alternativa sia alla politica cattolica che a quella riformista, accusata di condurre la lotta "a colpi di mimosa". Alla domanda "emancipazione della donna!?" il Collettivo metropolitano risponde "la vera emancipazione sta nella lotta di classe" » 21. Il gruppo conquista una certa egemonia fra studenti e lavoratori. Il documento del loro collettivo, gennaio '70, che aderisce al Collettivo metropolitano, riprende temi già affrontati dal movimento studentesco: ristrutturazione della scuola, il tecnico

inteso come «forza lavoro potenziale e quindi come parte integrante della classe operaia». Ma il punto più qualificante, che differenzia la loro elaborazione dal movimento lavoratori studenti torinesi e dal? esperienza della Corrente proletaria di Milano, consiste nella politicizzazione complessiva delle lotte e nella vocazione a una fase organizzativa più strutturata: «La lotta direttamente politica e non rivendicativa risulta essere il portato di una esperienza storica quale quella del '68'69. L'autonomia si è espressa in forma ancora embrionale ma in modo preciso. Il suo sviluppo che consiste oggi nella costruzione di un movimento complessivo, è l'unica preoccupazione che i militanti della sinistra tra i lavoratori studenti si devono assumere. Le leggi, le riforme, le rivendicazioni sono preoccupazioni che si assumono le forze politiche che vogliono sostenere, piuttosto che abbattere, il sistema oppressore» 22. Anche se il carattere rivendicativo è considerato secondario, la lotta principale degli studenti-lavoratori si concentra sullarichiesta di abolire le tasse. Si organizzano manifestazioni e cortei; le parole d'ordine sono aggressive e dure. Alla repressione, controlli disciplinari e fiscalismi vari, la replica è: «Della repressione non ci si lagna, ma la si combatte». La mobilitazione tocca il suo apice il 24 marzo '70. Il volantino dei lavoratori-studenti dell'Istituto Molinari precisa che quello che conta non è tanto la natura della rivendicazione quanto la sua forza di mobilitazione: «la lotta non va esaurita all'interno del nostro istituto e neanche all'interno degli altri istituti serali [...] bensì deve porsi nella dimensione generale dello scontro di classe in cui oggi siamo coinvolti sia in fabbrica che nei quartieri». In un volantino dal titolo «lavoratori-studenti, contro lo sfruttamento ribellarsi è giusto», il Collettivo politico metropolitano commentando la manifestazione cittadina del 24 marzo ne sottolinea: «la riscoperta del carattere autonomo della nostra lotta; la coscienza di essere un elemento della lotta di classe che sta scuotendo tutto il paese; l'aver individuato il vero nemico e i suoi servi aperti e mascherati, cioè i falsi amici riformisti». Passando in rassegna le parole d'ordine della manifestazione: lo Stato borghese si abbatte non si cambia; presidi e questori fuori dai coglioni; sindacato = polizia operaia; Pci + sindacato = popolo sfruttato; riformismo No-rivoluzione Sì; conclude che esse dimostrano con chiarezza «il grado di coscienza politica» raggiunto dal movimento 23. Le lotte per la casa a Milano, nel giugno, coincidono con il passaggio di fase; a luglio esce la rivista «Sinistra proletaria». Nei mesi precedenti il gruppo si è servito di un foglio di lotta dalla pubblicazione discontinua. Ormai sente l'esigenza di un più organico strumento teorico per coprire non solo la realtà milanese ma estendere la sua influenza ad altre situazioni. Nello stesso periodo confluisce in «Sinistra proletaria» il gruppo di Reggio Emilia, capeggiato da Alberto Franceschini24. Nella loro città sono noti come il «gruppo dell'appartamento», si riuniscono nell'appartamento di via Emilia San Pietro, n. 25; alcuni come Franceschini sono reduci della Fgci, il loro dissenso risale alla fine del '68 ma solo

nel novembre '69 si sono costituiti in Collettivo politico operai-studenti. Modesto e localizzato il loro lavoro politico, ma molto intenso fra i suoi principali protagonisti il dibattito sulla lotta armata e sulla clandestinità. NelTI-talia di quegli anni le notizie sui vari gruppi politici che si formano e si sciolgono circolano rapidamente nell'underground dell'estremismo. Il Collettivo politico operai studenti di Reggio cambia nome e dall'estate '70 usa la sigla Sinistra proletaria. Sotto la testata della rivista il simbolo: falce, martello e fucile incrociati. Nel comitato di redazione figurano: Renato Curcio, Sandro D'Alessandro, Gaio Di Silvestre, Marco Fronza, Marty, Alberto Pinotti, Corrado Simioni; collaborano: Duccio Berio, Alberto Franceschini, Vanni Mulinaris. Con «Sinistra proletaria» dalla discussione teorica sui tempi e sui modi della lotta armata si passa alla clandestinità e alla militarizzazione. Sul numero zero della rivista ancora in attesa di autorizzazione una nuova sistemazione delle teorie del gruppo. Tutto orbita attorno alla crisi del dopo autunno caldo. Un precipitato di delusione soggettiva, di stallo e difficoltà dell'estremismo, di sfiducia nel quadro politico democratico. Anche in questo caso l'analisi ha molti punti di consonanza coll'insieme delle teorie che avanzano in quel periodo nel gruppismo. La principale paura di Sinistra proletaria, lo avevano già avvertito i gruppi di studio della Sit-Siemens e dell'Ibm, è l'istituzionalizzazione delle lotte, i tentativi e le compiacenze a inquadrare i conflitti sociali nelle regole della democrazia istituzionale. Una preoccupazione fondata per chi concepisce la politica come rottura violenta del sistema. Sinistra proletaria è ossessionata dal ritorno alla normalizzazione e in questo contesto vede l'impegno del sindacato sui temi delle riforme: «II sindacato diventa così il perno intorno al quale si gioca Finterò processo di ristrutturazione del capitale in fabbrica e nella società [...]. Il sindacato ha cercato di far pesare tutta la propria forza organizzata per imbrigliare i modi della spontaneità e dell'autonomia operaia [...] ha lanciato un nuovo grande ciclo di lotte: il ciclo delle "lotte sociali" »25. E il luglio '70, il mese della crisi politica, del decretone del governo, della dichiarazione della dirczione del Pci sulla situazione economica in cui si afferma che le conquiste operaie si difendono «sulla via dell'espansione produttiva». Il foglio di lotta «Sinistra proletaria» che esce accanto alla rivista come volantonepropaganda insiste: «II contratto non è servito a portare la pace in fabbrica [...]. Nelle fabbriche si è consolidato il metodo dell'insubordinazione, delle lotte improvvise e non vi sono controlli che tengano. L autorità del capitale è crollata [...]. Anche quegli strati di popolazione più fedeli al potere: bancari, ospedalieri, statali, professori ecc., sono usciti dal torpore. L'insubordinazione sta generalizzandosi: ecco la vera crisi [...]. La classe operaia è all'attacco in tutta

Italia ed il padrone ha deciso di difendersi nell'unico modo possibile, dichiarandoci la guerra: Fiat (21.000 sospesi). Autobianchi (3.000 sospesi), Fatme (serrata) ecc. [...]. Il potere ha deciso una svolta a destra: se noi non pieghiamo la testa il padrone non mette via il bastone. Questo oggi dobbiamo capire: il potere è in crisi, e noi, la classe operaia in lotta il suo cancro» 26. Dunque il movimento non ha paura della crisi, risponde con la sua insubordinazione al dominio capitalistico e alla svolta a destra che vorrebbe imporre il potere. Tuttavia questa forza spontanea non basta a fronteggiare lo «scontro che il capitale impcrialistico impone alla sinistra proletaria». Al salto di qualità compiuto dal capitale «!' autonomia proletaria è in grado attualmente di opporre soltanto la violenza di massa "disarmata" »27. Rispondere alla crisi, sfruttarla a proprio vantaggio per Sinistra proletaria significa «superare la fase di un movimento fluido» e compiere scelte tattiche, strategiche e organizzative all'altezza della situazione di scontro. Il nemico ha deciso «di armarsi di più», i padroni la guerra l'hanno già dichiarata, ma chi vuole colpire, licenziare, aggredire la classe operaia deve trovare una «dura risposta». «Gli anni di lotte autonome non sono passati invano, noi oggi sappiamo che incontro al padrone armato [...] non si va disarmati»28. Occorre «imparare a colpirlo» per primi e «quando è ancora impreparato». Per questo: «Costruiamo nuclei operai di difesa e di attacco, impariamo a proteggerci le spalle, a difendere un compagno quando viene aggredito [...]. L'organizzazione della violenza è una necessità della lotta di classe» m. Il gruppo è presente insieme a Lotta continua e al movimento studentesco in alcune lotte sociali nella città di Milano. Sono i mesi delle occupazioni delle case nei quartieri popolari, le lotte di corso Tibaldi. Gli scontri con la polizia sono ampiamente resocontati nel numero 1/2 di «Sinistra proletaria». Ma, mette in guardia la rivista, «non ci si può illudere che sia possibile prendere il potere in un quartiere solo». Nei vari fogli di lotta gli slogan sono sempre più aggressivi: «prendiamoci la città», «prendiamo i trasporti», «prendiamoci la casa, l'affitto non si paga» e preannunciano nuove forme di lotta in nome di «una nuova giustizia proletaria». Il 20 ottobre 1970 un foglio di lotta di «Sinistra proletaria», in una fase giudicata «una scadenza di lotta decisiva nello scontro di potere», proclama che «la parte più decisiva e cosciente del proletariato ha cominciato a costruire una nuova legalità», di cui sono portati ad esempio: «il sequestro e la gogna messi in atto a Trento dagli operai della Ignis contro i fascisti provocatori che avevano premeditatamente accoltellato due di loro; l'occupazione e la difesa delle case

occupate, come unico modo per avere finalmente la casa...». E annuncia l'apparizione delle Brigate rosse, definite «organizzazioni operaie autonome» che rappresentano: «i primi momenti di auto-organizzazione proletaria per combattere i padroni e i loro servi sul loro terreno "alla pari" con gli stessi mezzi che essi utilizzano contro la classe operaia: diretti, selettivi, coperti come alla Siemens» w. Di lì a poco la parola d'ordine diventa «organizziamo la nuova resistenza», l'obiettivo è far crescere la «guerriglia di popolo», radicando fra le masse proletarie in lotta il principio maoista secondo cui «non si ha il potere politico se non si ha il potere militare», in sostanza «educare» alla lotta armata 31. Negli argomenti si avverte l'influsso della Gauche prolétarienne. Nell'estate Renato Curcio ha avuto modo di incontrare in Francia alcuni dei suoi militanti. Già nel primo documento teorico del Comitato politico metropolitano la dimensione del processo rivoluzionario è quella europea e Sinistra proletaria sisente parte organica delle esperienze internazionali del terrorismo, da esse trae motivo e ragione delle sue teorizzazioni. Nel giugno del '70, quando il gruppo francese sarà messo fuorilegge, «Sinistra proletaria» chiedendosi retoricamente perché, commenta: «La risposta ufficiale è che la Gauche pratica la violenza di classe e che [...] fa propaganda per l'abbattimento violento dello stato borghese. E vero. [...]. «Gli operai sequestrano i padroni, sabotano la produzione, viaggiano gratis in metropolitana, gli studenti si battono contro i poliziotti, i piccoli commercianti lottano contro il governo, le avanguardie politiche sequestrano i prodotti dei supermercati di lusso e li distribuiscono ai lavoratori immigrati baraccati [...]. Più diffìcile sarà mettere fuori legge il proletariato francese. L'Indocina è molto più vicina di quanto appaia sulla carta geografica» 32. Il gruppo di Curcio vuole rendere esplicita la contraddizione fra lotta armata e progetto rivoluzionario e da ciò far derivare come necessità la scelta militare: «La guerriglia è ormai uscita dalla sua fase iniziale [...] non appare più come puro e semplice detonatore [...] ma ha conquistato l'ampiezza dell'unica prospettiva strategica che possa superare quella insurrezionale...» di conseguenza — scrive nell'ottobre '70 — «il capitalismo unifica il mondo nel suo progetto di controrivoluzione armata, il proletario si unifica nella guerriglia a livello mondiale l'Italia e l'Eu-ropa non sono eccezioni storiche» 33. Nella pratica di «Sinistra proletaria» le minacce, la violenza, sono manifestazioni concrete di quella «giustizia proletaria» che deve esprimersi nelle varie forme di lotta 34. Alla Sit-Siemens, e alla Pirelli dove ha preso le mosse la storia del Collettivo metropolitano ormai zona di influenza di «Sinistra proletaria», maturano le prime azioni delle Brigate rosse. Non si discostano da analoghe azioni di violenza perpetrate dai settori più oltranzisti del gruppismo: volantini minatori,

elenchi di crimini perpetrati da «capi legati ai padroni indicati alla vendetta proletaria». La propaganda segue gli stereotipi delle descrizioni procla-matorie e minacciose di Potere operaio e di Lotta continua. Valga come esempio il seguente brano tratto da «Lotta continua» quindicinale: «Dopo ogni azione, corteo, blocco merci, blocco del grattacielo ecc., ogni reparto si trasforma in un tribunale proletario: quelli che pur potendo non hanno partecipato vengono fatti uscire dalla fabbrica. Un esempio significativo: in un reparto del magazzino si viene a sapere che 7 hanno lavorato di domenica, 4 operai e 3 capi. Si discute e i crumiri vengono "sospesi" per 2 giorni (gli operai) e per 3 giorni i capi; 3 giorni perché sono i capi e perché durante la discussione uno ha mancato di rispetto agli operai dicendo che se ne sbatteva [...]. Non si tratta solo di difesa dell'unità: gli operai imparano ad esercitare il potere e ci prendono gusto» 35. Analogie verbali che corrispondono al moltipllcarsi di una microconflittualità diffusa che fa della violenza un sostituto della politica e non sa più distinguere fra la prospettiva rivoluzionaria tanto evocata e il gesto disperato e solitario da piccolo gruppo. Il confuso confine fra sovversivismo e illegalità renderà equivoca la distinzione fra violenza collettiva e presunta esemplarità avanguardistica delle prime azioni terroristiche. Equivoco sarà il discrimine teorico-ideologico, condizione che consentirà al terrorismo di svilupparsi all'interno delle stesse situazioni di lotta dell'estremismo utilizzandone le contraddizioni. Equivoche saranno le contiguità, un fertile terreno per aumentare le file delle prime formazioni armate. Ma questo torbido passaggio sarebbe inspiegabile senza fare riferimento al clima politico dei primi anni settanta. L estremismo ha fatto della rivoluzione il suo mito, anche la lotta armata appartiene alla sue ideologiche fumisticherie. Ma tutto ciò non basta. E non sono sufficienti neppure le indagini psicologiche sui singoli protagonisti della scelta armata, le loro frustrazioni, le loro provenienze culturali e sociali. Certo sono componenti importanti in particolare se relazionate alla più generale crisi di identità di ampi strati giovanili e non, ma non basterebbero a spiegare un fenomeno che convive indisturbato per molti anni ai margini di un movimento come quello prodotto dalla cultura del sinistrismo, non assimilabile nella sua interezza alterrorismo. Anzi proprio i vari coinvolgimenti teorici o anche operativi di singoli gruppi, settori, dei partiti del gruppismo, la sua indubbia capacità riproduttiva sono la riprova di un fenomeno che, al di là della materializzazione delle singole azioni terroristiche, interessa aree consistenti di militanti e diventa cultura e questione politica. Fraintendimenti rivoluzionari che entrano in violenta risonanza con l'Italia del dopo Sessantotto, del dopo autunno caldo, del dopo piazza Fontana.

3. Compare la stella a cinque punte

La prima apparizione delle Brigate rosse risale alla primavera del '70: un comizio volante al quartiere di Lorenteggio. Segue la distribuzione di volantini alla SitSiemens di piazza Za-vattari, un lungo elenco di crumiri e capi indicati alla «vendetta proletaria» dei lavoratori della Sit-Siemens di Settimo Milanese. La stella a cinque punte, il macabro marchio delle Br, compare il 17 settembre 1970 in occasione dell'incendio dell'auto di Giuseppe Leoni, direttore centrale del personale della Sit-Siemens. Nessun volantino rivendica l'azione. Le bombe incendiare sono state sistemate contro la serranda del box. I danni sono modesti, i familiari del dirigente, svegliati dalle esplosioni, accorrono a spegnere l'incendio. Incollate sul muro della serranda due strisce di carta con la scritta «Brigate rosse». La stessa notte un altro dirigente della Sit-Siemens, l'ingegner Giorgio Villa, trova infilato nel tergicristallo della sua macchina un biglietto di carta quadrettata «Ingegner Villa, quanto durerà la Ferrarina? Fino a quando noi decideremo che è ora di finirla con i teppisti. Brigate rosse». Il 20 ottobre 1970, un foglio di lotta di Sinistra proletaria annuncia la costituzione delle Br. Alla Pirelli le lotte per il rinnovo del contratto sono aspre, numerosi gli episodi di violenza, quello che nella pubblicistica estremistica dell'epoca viene definito «l'esercizio del potere proletario». Presentandosi all'appuntamento con la fabbrica «Sinistra proletaria» distribuisce uno dei suoi fogli di lotta dal titolo Cosa vogliamo? Vogliamo il potere. La conclusione è lapidaria: «Inutile spendere troppe parole; meglio dire subito che chi interviene o si adopera contro la lotta e gli interessi dei lavoratori è un nostro nemico e come tale va colpito!» 36. Non è difficile comprendere qual'è il dibattito interno alla fabbrica e ai gruppi estremistici che vi si muovono dentro e fuori. Esasperare la lotta è il loro principale obiettivo. Fra i gruppi il confronto è una perenne lotta per l'egemonia. Sinistra proletaria ha già aperto la sua polemica con Lotta continua. Non si possono evocare violenza e lotte dure senza trame tutte le conseguenze. Contro i padroni la principale coerenza è la capacità di «colpire» i nemici degli interessi dei lavoratori. Di lì a poco, 1'8 novembre '70, anche alla Pirelli vengono ritrovati volantini delle Br, contengono l'elenco di dirigenti da colpire. Le indicazioni sono precise: indirizzo di casa e telefono. E iniziata la schedatura. Il 27 novembre, ancora l'incendio di una macchina: è la 850 di Erman-no Pellegrini capo delle guardie della Pirelli Bicocca. Segue, 1'8 dicembre, l'incendio della 1.750 di Enrico

Loriga capo del personale. AU'inizio di dicembre, da Roma arrivano notizie su un misterioso colpo di stato preparato dal principe nero Junio Valerio Borghese. Se ne saprà poco, le notizie sono minimizzate, solo dopo qualche anno si ricostruiranno alcuni tasselli del complotto. A Milano un altro grave fatto di sangue. Teatro è ancora via Larga, dove aveva trovato la morte l'agente Annarumma; l'occasione: l'anniversario della strage di piazza Fontana. La polizia si scontra con gli estremisti, un candelotto lacrimogeno colpisce in pieno lo studente Saverio Saltarelli, l'inchiesta successiva accerterà che il candelotto è stato sparato ad altezza d'uomo. I fatti del 12 dicembre '70 inducono il prefetto di Milano, Libero Mazza, a redigere l'omonimo rapporto. Secondo l'analisi nella sola Milano agiscono 20 mila estremisti pronti a mettere a soqquadro la città. Descrivendo l'assetto di guerra del sovversivismo così si esprime il rapporto: «Questi estremisti dispongono di organizzazione, equipaggiamento ed armamento che può qualificarsi para-militare: servizio intercettazione delle comunicazioni radio fra i vari gruppi, servizio intercettazione delle comunicazioni radio della polizia, elmetti, barre di ferro, fionde per il lancio di sfere d'acciaio, tascapane con bottiglie Molotov, selci, mattoni, bastoni, ecc.» 37. Anche a Roma compaiono le Brigate rosse, loro bersaglio non è un dirigente d'azienda, ma il fascismo. Tentano di incendiare l'appartamento di Junio Valerio Borghese. Non riescono nel loro intento. Il 25 gennaio '71, le Br entrano nella scena politica nazionale. Sulla pista di prova pneumatici della Pirelli di Lainate un commando innesca 8 bombe incendiarie, bottiglioni di plastica pieni di benzina, nel rogo che segue rimangono distrutti 3 autoveicoli. Davanti all'entrata della pista viene lasciato un cartello con la scritta «Della Torre — contratto — Tagli della paga — Mac-Mahon — Brigate rosse». I riferimenti sono evidenti: le lotte alla Pirelli, il licenziamento del meccanico Della Torre, le occupazioni delle case. Cinicamente nel loro sesto comunicato di rivendicazione, del 5 febbraio, commentano gli errori tecnico-pratici che hanno consentito che 5 degli autotreni parcheggiati si siano salvati. Un'azione «non eccellente» e aggiungono «ma sbagliando si impara la prossima volta faremo meglio». Il giorno dopo «l'Unità» riferisce, senza troppa ridondanza, dell'attentato: «Chi lo ha compiuto, pur mascherandosi dietro anonimi volantini con fraseologia rivoluzionaria agisce per conto di chi, come lo stesso Pirelli, è interessato a far apparire agli occhi dell'opinione pubblica la responsabile lotta dei lavoratori per il rinnovo del contratto come una serie di atti teppistici»38. , Le bombe di Lainate suscitano la reazione negativa di «Lotta continua»; «Noi crediamo che azioni del genere [...] siano sbagliate [...]. Proprio perché le masse proletarie non hanno bisogno di comprendere che ci vuole la violenza e quindi non

sono necessarie le azioni esemplari [...] 1 organizzazione militare delle masse non si costruisce perché alcuni gruppi cominciano ad attuare azioni militari [...]. Si costruisce a partire dalla realizzazione degli organismi politici di massa stabili e autonomi [...]. Azioni come quelle delle Br vanno ad alimentare il disegno di provocazione antioperaia portato avanti da padroni fascisti e polizia, dando oggettivamente una mano alla politica padronale degli opposti estremismi [...]. Attività come quelle delle Br e gruppi similari sono un ostacolo alla crescita dell'autonomia proletaria e del proletariato e dalle avanguardie rivoluzionarie saranno isolate...»39. Ma in sostanza Lotta continua si limita a polemizzare con il soggettivismo dell'azione terroristica, ne contesta la natura avanguardistica del tutto separata dall'iniziativa delle masse. Il commento tuttavia lascia ampi margini di disponibilità verso quella che viene definita «l'organizzazione militare delle masse», un'ossessione che renderà il gruppo permeabile all'insidia terroristica e il suo sviluppo verrà vissuto e interpretato come il concreto manifestarsi di una tendenzialità eversiva interna ai conflitti sociali. Alla Pirelli, tra il dicembre '70 e l'aprile '71, compaiono 7 comunicati tutti legati alle varie fasi della lotta. U primo comunicato, un lungo elenco di dirigenti, di crumiri, di guardiani con tanto di indirizzo, si conclude con una firma al singolare «Brigata Rossa». Lo stesso sarà per gli altri, quello dedicato al licenziamento del meccanico Della Torre e la rivendicazione dell'attentato alla pista di Lainate 40. Il comunicato n. 7, minatorio programma, spiega la fisionomia del gruppo e i suoi obiettivi: «Che cosa sono dunque le Brigate rosse? Sono gruppi di proletari che hanno capito che per non farsi fregare bisogna agire con intelligenza, prudenza e segretezza, cioè in modo organizzato. Hanno capito che non serve a niente minacciare a parole e di tanto in tanto esplodere durante uno sciopero. Ma hanno capito anche che i padroni sono vulnerabili nelle loro persone, nelle loro case, nella loro organizzazione, che gruppi clandestini di proletari organizzati e collegati con la fabbrica, il rione, la scuola e le lotte possono rendere la vita impossibile a questi signori» 41. A testimoniare l'avvenuta moltiplicazione organizzativa, si passa dal singolare «Brigata rossa» al plurale. Procede la schedatura dei «servi del padrone», e la formazione degli «archivi»; il linguaggio pienodi riferimenti particolari dimostra volutamente la conoscenza interna della situazione di fabbrica, avvertimenti di stampo mafioso lasciano intendere cose e circostanze, e si rivolgono a chi conosce le cose. Si minaccia: «questi spioni meritano la gogna! Per un occhio due occhi, per un dente tutta la faccia»; si evoca una fosca «giustizia proletaria», che emana «sentenze» applicate dal «Tribunale del popolo». Si cerca di sfruttare le tensioni interne, esempio tipico il comunicato sul licenziamento alla Pirelli del meccanico Della Torre: «Un buon compagno: uno dei nostri, 50 anni e due figli. Quadro di punta della Cgil, 25 anni di attività sindacale. Comandante partigiano. Tirava le lotte. Lo hanno licenziato. Lo hanno fatto in due: i padroni prima, i sindacati poi» 42. Il padrone è sempre lo stesso

nella fabbrica e nella società, colpirlo in fabbrica significa anche colpire la sua forza nella società: «Perché anche Mac Mahon», il quartiere delle case occupate; la risposta è semplice: «il padrone che ci spreme in fabbrica è lo stesso padrone che ci aumenta il costo della vita, che non ci permette di avere una casa decente se non rubandoci quei pochi soldi che gli strappiamo con dure lotte. Quelle famiglie costrette a occupare le case in via Mac Mahon già pagate con i loro contributi, lo hanno fatto per togliere loro ed i loro figli dalle baracche malsane dei famigerati "centri sfrattati". Il padrone gli ha risposto trattandoli con la violenza dei manganelli e dei lacrimogeni della polizia. A Lainate è stato colpito lo stesso padrone che ci sfrutta in fabbrica e ci rende la vita insopportabile fuori» 43. Replicando ai commenti della stampa sull'attentato di Lainate, provocatori non sono coloro che praticano la violenza rivoluzionaria ma i padroni con la loro tracotanza: «Provocatore è Leopoldo Pirelli, via Borgonuovo n. 18, tel. 651.421 — Milano—, il quale illudendosi di stroncare il movimento in lotta che colpisce con sempre maggiore forza il suo potere ha dato fuoco ai magazzini di Bicocca e Settimo torinese. Egli spera di prendere due piccioni con una fava: stroncare il movimento di lotta addossandogli responsabilità che non ha e farsi pagare dall'assicurazione nuovi capannoni. La provocazione è un'arma che i padroni non smetteranno mai di usare. Ma non si illudano i padroni e i loro "utili idioti", perché la classe operaia sa ormai distinguere chiaramente tra la giusta violenza del proletariato in lotta e l'ottusa violenza criminale dei padroni! Per la rivoluzione comunista: Brigata rossa» 44. Ormai della lotta armata si deve parlare, fa notizia e impone la discussione. Con una sincronia che fa riflettere, tutti i comunicati delle azioni Pirelli vengono pubblicati, nell'aprile '71, sulla rivista situazionista «Re nudo». La scelta della clandestinità non è immediata, per tutta una fase convive con forme di attività politico-legali; il passaggio si precisa con l'esaurirsi dell'esperienza di «Sinistra proletaria» quando la rivista è sostituita da «Nuova resistenza». Il gruppo si pone l'obiettivo di estendere la propria influenza e di intensificare la «propaganda» della lotta armata attorno alla proposta organizzativa della «resistenza proletaria». Il primo numero di «Nuova resistenza», «giornale comunista della nuova resistenza», esce nell'aprile del 1971, sotto la testata la scritta «Proletarii di tutto il mondo unitevi» e accanto il simbolo di Sinistra proletaria: falce, martello e fucile incrociati. Il secondo e ultimo numero sarà del maggio, sulla copertina al posto di una mano che impugna un mitra, vi sono più mani che impugnano più mitra. «Nuova resistenza» era stato lo slogan della Gauche proletarienne. La parola d'ordine scelta per la testata del giornale non vuole evocare richiami nostalgici, al contrario si prefigge l'ambizione di indicare l'apertura di un nuovo ciclo politico: «l'orizzonte nuovo che ci si apre dinanzi e la continuità con tradizioni di lotta che

seppur pervertite da una guida revisionista o borghese hanno coinvolto le migliori forze del nostro paese» 45. Tornano alla mente i proclami antirevisionisti di «Lavoro politico», la condanna della direziono borghese dei partiti della classe operaia e gli stereotipi della rivoluzione tradita. Si precisa subito, però, nessuna «riproposta della viziosa tematica resistenziale», nessuna riedizione di quegli «umori difensivi che alimentarono quella lotta contro gli aspetti aberranti della democrazia». Non di questo si tratta ma di una proposta «offensiva» che, «nel quadro della guerra mondiale imperialista», vuole reagire alla controrivoluzione armata con la «lotta rivoluzionaria dei proletari, dei popoli e delle nazioni oppresse». Il giudizio di «Nuova resistenza» sugli scenari politici è catastrofico, ad esso fa da contrappunto l'enfasi con cui si rappresenta lo sviluppo della lotta di classe. Un' enfasi che in alcuni passaggi si colora di espressioni poetiche come «cresce il fiore della lotta armata», «si avvicina la primavera di una forte resistenza», a cui fa da schizofrenico contrasto l'ineluttabilità della violenza, della guerra e della morte: «Compagni anni di lotte quotidiane su tutti i problemi della nostra vita produttiva e sociale, danno finalmente un primo e rilevante risultato: lo stato dell'ordine e della strage è sconvolto da contraddizioni non risolvibili e la crisi di regime è ormai prossima al punto del tracollo» 46. Non ce più spazio per un recupero democratico, di fronte alla «primavera» di una nuova resistenza, la classe dominante perde la testa, è presa dal terrore e tenta di «fermare la storia». Nascono così gli attacchi forsennati alle forme di lotta, la militarizzazione degli apparati, le complicità nei confronti della destra. In questo contesto non servono ne «colpi di Stato da baraccone» ne miopi disegni di rafforzamento delle «istituzioni repubblicane». In una fase ormai avanzata dello scontro «dove rivoluzione e controrivoluzione si fronteggiano "assaggiandosi" vicendevolmente, un problema di fondo si fa avanti e bussa alla porta di ogni gruppo rivoluzionario: il problema di una strategia unitaria del movimento di lotta» 47. All'interno del gruppo ancora si discute sulla scelta da seguire. Tre linee si confrontano tra loro: i sostenitori della rigida clandestinità; chi, pur riferendosi alla lotta armata, privilegia un radicamento fra le masse; chi infine prospetta l'estensione visibile della violenza diffusa 48. Su «Nuova resistenza» un'ampia rassegna dei documenti della guerriglia internazionale. Per la prima volta è pubblicato un lungo documento della Rat a cui si aggiunge l'intervista ad un tupamaro. Un lavoro di documentazione che vuole essere un contributo a sciogliere gli ostacoli che si frappongono a una scelta coerente verso la prospettiva armata: «presentando la pratica, le tesi e le tendenze di quei movimenti che hanno come base comune lo sviluppo della guerriglia come forma di lotta dominante per la liberazione della classe operaia da ogni forma di sfruttamento» 49. Non è solo la ricerca di informazioni o il tentativo di legittimare la propria ipotesi, ma la volontà di superare ogni generica solidarietà e realizzare rapporti concreti per un

allargamento della pratica rivoluzionaria armata. Di questo fra l'altro si era discusso nel viaggio di Curcio a Parigi quando si era incontrato con Baader e con i francesi50. Intanto sul piano interno si avvia il confronto che porterà all'unificazione coi Gap. Nel tentativo di lanciare un ponte verso altri settori dell'extraparlamentarismo, «Nuova resistenza» distingue tre principali forme di violenza, espressioni di un unico potenziale rivoluzionario da incanalare verso un medesimo sbocco armato: «La violenza spontanea non di massa, il modo peggiore di esprimere una "giusta esigenza", la violenza spontanea di massa, come i cortei interni, le lotte spontanee in fabbrica; infine le azioni partigiane, i primi momenti di una volontà proletaria d'organizzazione politica armata»51. Eliminata la dicotomia partito-spontaneismo, partito e sua organizzazione armata, «Nuova resistenza» considera chiusa la fase del gruppismo, e ne propone il superamento in chiave militaristico-politica ipotizzando: «Un'unica realtà organizzativa politica e armata che fa giustizia delle distinzioni opportuniste tra partito e guerriglia, tra organizzazione dei politici e organizzazione dei militari». «Nuova resistenza» lascia alle spalle le annose dispute sul partito, le estenuanti discussioni della prima formazione politica di Curcio, Berio e degli altri. Non viene prima il partito con la sua teoria e poi la lotta armata, una gradualità impraticabile e viziata da idealismo e opportunismo, ma partito e lotta armata formano un tutto organico. E la teoria del partito-guerriglia. Ne consegue l'attenzione e la polemica di «Nuova resistenza» nei confronti delle altre formazioni che hanno scelto la lotta armata. I Gruppi d'azione partigiana hanno già fatto parlare di loro. Hanno firmato alcuni attentati: al consolato Usa, a una sededel Psu, al deposito Ignis di Trento, alla raffineria Garrone. Curiosità e interesse avevano suscitato le «tramissioni del popolo» captate a Trento e a Milano. I loro comunicati erano stati ampiamente ripresi da «Lotta continua», «Potere operaio» e da «Sinistra proletaria». La Dichiarazione politica, il loro principale documento teorico, è pubblicata nell'aprile '71 su «Potere operaio» quindicinale. L'analisi è schematica. Secondo i Gap si è di fronte a un imminente colpo di Stato, da ciò fanno scaturire il carattere difensivo dell'organizzazione nonché una certa apertura al «revisionismo» considerato, in virtù della sua tradizione, ancora disponibile alla lotta armata nel momento di una stretta autoritaria e repressiva: «anche la sinistra tradizionale rappresentata dal Pci [...] vede ogni giorno con preoccupazione, sempre più ristretto il suo campo di manovra». Nel paese cresce la necessità di «costruire un fronte ampio contro il fascismo, contro il padronato capitalista e contro l'imperialismo...». Segue la provocatoria domanda «vogliono i compagni iscritti al Pci far parte di questo fronte rivoluzionario ed antifascista?»52. «Nuova resistenza» non si identifica con queste posizioni. Nel quadro politico italiano il

colpo di Stato, non rappresenta un rischio reale, commentando il golpe Borghese il giornale paragona Valerio Borghese «al due di briscola». Piuttosto la paura del golpe serve al sistema e in primo luogo ai «revisionisti» che dietro questo spauracchio vogliono imporre al movimento rivoluzionario le regole del gioco democratico e frenare le lotte. Diametralmente opposta la visione dei Gap: ormai forze militari potenti sia sul piano interno che internazionale, esponenti della finanza e dell'industria nazionale ed esterna puntano a una soluzione militare. Lo stesso golpe Borghese è presentato nella Dichiarazione politica come un «colpo di Stato preordinato con meticolosa cura» 48. Nonostante le differenze «Nuova resistenza» informa dell'attività dei Gap, pubblica il comunicato sull'attacco alla sede del Msi di Lodi e il testo delle «trasmissioni al popolo». Nel proclama radiofonico dei Gap si fa esplicito riferimento alle Brigate rosse: «Ma dalle lotte per i contratti e le riforme del '69 e del '70, dall'offensiva padronale e fascista in atto è nata una nuova resistenza di massa, è nata la ribellione operaia al padronato ed allo Stato dei padroni, è nata la ribellione all'imperialismo straniero, è nata la ribellione delle popolazioni e delle classi lavoratrici del Sud. Sono nate le Brigate rosse e si sono costituite le Brigate Gap» 54. A Genova il primo episodio di «lotta armata» coincide con una rapina. Due banditi in vespa aggrediscono il commesso Alessandro Floris mentre trasporta le paghe dei dipendenti dell'Istituto per le case popolari. Floris reagisce, afferra uno dei rapinatori ma questo si gira, prende la mira e lo uccide a colpi di pistola. Una foto, ripresa da un passante, sarà la macabra testimonianza di questa prima follia della lotta armata. I due rapinatori, arrestati nel giro di poche ore, sono Salvatore Ardolino, che guidava la vespa e Mario Rossi che ha sparato. Appartengono al gruppo 22 Ottobre, la rapina serviva al suo finanziamento. La vicenda offre a «Nuova resistenza» l'occasione per lanciare la tesi della «criminalizzazione del movimento». Il gruppo di Curcio rivendica la legittimità politica dell' «esproprio rivoluzionario» e dell'illegalità militante. Siamo all'anticipazione di tragici copioni: «II grosso "caso del gruppo di Genova", ha segnato così l'inizio di una velenosa manovra che giorno dopo giorno, con pazienza, tende a convincere l'opinione pubblica che i rivoluzionari sono dei banditi e i "gruppuscoli" associazioni a delinquere. Questo vuoi dire "criminalizzazione del movimento". Vuoi dire convincere più gente possibile svuotando di ogni senso possibile l'azione rivoluzionaria, che una nuova forma di criminalità si sta affermando: la criminalità politica!» ". Secondo «Nuova resistenza» lo scontro di classe è giunto a un punto cruciale ed emerge come «richiesta di popolo» la questione del potere rivoluzionario. Contro l'avanzata di questo obiettivo il potere costituito organizza un possente contrattacco «politico, giuridico, ideologico, militare». Mentre si militarizza,

alimenta una campagna allarmistica e sviluppa «un' azione preventiva» contro la logica dell'illegalità militante; cerca di avvalersi dei cittadini come «onesti tutori dell'ordine» e di «maggioranze silenziose» per imporre contro la «guerra di popolo» la sua «difesa del popolo». Per fronteggiare quest' offensiva il movimento è costretto a compiere un salto di qualità: «Oggi il movimento, almeno nei suoi momenti di punta, è arrivato allo scontro diretto con il potere; organizzarlo solo per le manifestazioni, vuoi dire produrre non rivoluzione, ma controrivoluzione, vuoi dire produrre organizzazione, ma solo per il potere. Vuoi dire lavorare per la sconfìtta della rivoluzione: in una parola essere avventuristi. E un momento decisivo: le organizzazioni veramente rivoluzionarie e ogni singolo compagno, non ne possono sfuggire»56. Non si può più mitizzare una «inafferrabile ora X», l'iniziativa assunta dal potere costituito di «militarizzare lo scontro» impone alle sinistre rivoluzionarie un progetto di lotta rivoluzionaria che assuma fino in fondo la «dimensione militare della politica» in quanto «non ci può essere una trasformazione pacifica delle cose»57. Il caso Rossi e quello che sta avvenendo nella situazione carceraria, quel processo di politicizzazione che trova nella commissione carceri di Lotta continua un punto decisivo di organizzazione, servono a «Nuova resistenza» per fare alcune considerazioni sui «soggetti» della rivoluzione. Il titolo dell'articolo è Bruciare le carceri è giusto. Il ragionamento getta una luce sinistra sulle nuove concezioni della lotta rivoluzionaria che avanzano e ben si comprende quali «storie» di violenza e di terrore profetizza: «La rivoluzione moderna non è più la rivoluzione pulita [...] in attesa della festa rivoluzionaria in cui tutti gli espropriatori saranno espropriati, il gesto criminale isolato, il furto, l'espropriazione individuale, il saccheggio di un supermercato non sono che un assaggio e un accenno al futuro assalto alla ricchezza sociale»58. Oltre Milano, l'altra città dove si registra una sempre più intensa attività delle Brigate rosse è Roma. Risale al dicembre '70 l'attentato contro l'appartamento di via Giovanni Lancia ritenuto di Junio Valerio Borghese. Seguono: l'assalto alla sede dell'Msi nel quartiere Prenestino (24 aprile '71) e lo stesso giorno l'incendio dell'auto del capotecnico Atac, Gianfranco Moretti, un ex dipendente Pirelli, definito nel volantino-rivendicazione un «esponente della destra sindacale dell'azienda e persecutore di operai»39. Sono azioni che nascono autonomamente rispetto al nucleo dirigente milanese-emiliano e solo, successivamente saranno riconosciute. Si avvia il consolidamento organizzativo e in modo ancora embrionale la ramificazione dal centro alle varie colonne. Il foglio «Brigate rosse», di cui si conosce solo il secondo numero del giugno '71, diffuso a Roma, da notizia sia delle azioni milanesi che di quelle romane. Si è all'unificazione. Sempre nello stesso periodo a sottolineare il raggiunto grado di centralizzazione spunta il comando unificato delle Br che con un suo documento smentisce alcune azioni firmate Br che attribuisce invece a gruppi fascisti. Si tratta di attentati

dinamitardi a fabbriche di Pavia, di Trecate (Novara) e di Corsico (Milano). L'uso degli esplosivi — precisa —non rientra nelle tecniche militari delle Br, un segno di distinzione rispetto al terrorismo nero. A maggio, con il suo secondo numero, cessa la pubblicazione di «Nuova resistenza»: si entra nella semiclandestinità. La scelta armata si è fatta stringente. Dal marzo le indagini della polizia stanno risalendo dal gruppo Brigate rosse ai fondatori del Collettivo metropolitano. Curcio e Franceschini sono indicati fra i responsabili all'attentato alla pista di Lainate. Nel quadro delle indagini viene coinvolto il pittore Enrico Castellani, nel suo studio frequentato da mèmbri del Collettivo metropolitano, sono sequestrati «congegni» sospetti, due pistole e vari documenti. Intanto Mario Moretti lascia la Sit-Siemens.

4. Il primo sequestro politico: Macchiarini

L'estate serve per sistematizzare la riflessione del gruppo. Nel settembre 1971, viene distribuito un opuscolo, scritto, nella forma dell'intervista immaginaria, secondo lo stile dei tupama-ros, riassume le analisi e le linee di intervento politico-militare delle Brigate rosse. «Stufi di interminabili enunciazioni di principio, o di sensazionali rivelazioni teoriche immancabilmente affiancate da deludenti dimostrazioni di opportunismo pratico», è venuto il momento di fare la scelta, «lasciando alla prassi il privilegio di stabilire il suo primato, sicuri che per questa via si potrà realizzare l'unità delle forze rivoluzionarie, l'organizzazione proletaria armata, e mettere sempre più a fuoco la teoria della nostra rivoluzione» 60. Fallita ogni unificazione delle prospettive di sviluppo capitalistico e venuti meno tutti i progetti politici dei partiti riformisti, di fronte all'incalzare della massiccia iniziativa operaia e al suo rifiuto del riformismo come progetto di stabilizzazione sociale e alle crescenti contraddizioni di un imperialismo sempre più aggressivo, la borghesia ha riorganizzato «a destra» Finterò apparato di potere. Una «militarizzazione» che ha come principale obiettivo non il fascismo tradizionale, ma un «fascismo gollista» mascherato dietro le apparenze democratiche. Secondo le Brigate rosse questo mutamento della natura dello scontro di classe trova del tutto impreparata la sinistra rivoluzionaria, che continua a gingillarsi nel sovversivismo senza dare progetto e forma organizzata all'unica risposta possibile, quella della lotta armata. Sollecitando coerenze eversive, polemizzano con ogni gradualismo del processo rivoluzionario, una teoria che imbriglia il gruppismo e lo separa dall'«esperienza rivoluzionaria metropolitana della epoca attuale» cioè lo scontro militare. L'estremismo tradizionale è condannato a ripercorrere «l'esperienza storica del movimento operaio secondo le versioni anarcosindacaliste o terzinternazionaliste», quindi a subire le sconfitte del primo dopoguerra. In realtà: «Lo scontro armato è già iniziato e mira a limitare la capacità di resistenza della classe operaia. L'ora X dell'insurrezione non arriverà. E quello che molti compagni tendono a raffigurare come lo scontro decisivo tra proletariato e borghesia altro non è che l'ultima e vittoriosa battaglia della borghesia. Come è stato nel 1922» 61. La sinistra rivoluzionaria non ha avuto la consapevolezza che il ciclo di lotte avviatesi nel '68 non poteva che portare a questo livello dello scontro. Non si è

attrezzata di conseguenza e ha proseguito a immaginare rivoluzionario» per tappe successive: «preparazione politica, propaganda prima, insurrezione poi». Mentre i «gruppi extraparlamentare» sono ancora fermi a questa prima fase, la «dispiega la sua iniziativa armata». A riprova di ciò:

il «processo agitazione e della sinistra borghesia già

«l'attacco padronale alle forme di lotta più incisive, i processi politici e le condanne contro i militanti più combattivi, il rinato terrorismo squadrista, le aggressioni fasciste ai picchetti operai e quelle poliziesche alle piccole fabbriche, agli sfratti e agli studenti, i rastrellamenti nei quartieri insubordinati, l'assunzione di provocatori sbirri fascisti nelle fabbriche, ecc.» 62. Dunque la lotta armata è già iniziata, la scelta è stata compiuta «purtroppo in modo univoco», dalla borghesia. Le Brigate rosse intendono superare l'impreparazione della sinistra rivoluzionaria ricongiungendosi, come affermano, «all'esperienza rivoluzionaria metropolitana dell'epoca attuale». Il carattere pedagogico del documento-intervista, nella sua articolazione di domande e risposte, serve a precisare il rapporto che le Brigate rosse intendono stabilire con gli altri gruppi e le loro prospettive organizzative. Esse si autodefiniscono «primi sedimenti del processo di trasformazione delle avanguardie politiche di classe in avanguardie politiche armate». Un primo passo nella costruzione di uno «strumento di classe» all'altezza della guerra ingaggiata dalla borghesia. Una transizione che non implica alcuna provvisorietà «la lotta armata non può essere affrontata con organismi intermedi come potrebbero essere i comitati di base, i circoli operai-studenti o le stesse organizzazioni politiche extraparlamentari». La scelta soggettiva del partito che tanto ha angosciato senza trovare soluzione alcune generazioni di militanti del sinistrismo trova nella lotta armata un disperato autoconvincimento: «Le Br sono i primi punti di aggregazione per la formazione del partito armato del proletariato. In questo sta il nostro collegamento profondo con la tradizione rivoluzionaria e comunista del movimento operaio» 63. Nei confronti dei gruppi extraparlamentari alle Br non interessa nessuna sterile polemica ideologica, unico discrimine: la scelta della lotta armata. Al loro interno, prosegue il documento-intervista, si confrontano due componenti: «una forte corrente neo-pacifìsta» e un'altra che vede favorevolmente il passaggio alla militarizzazione. Con la prima non e'è nulla in comune e si costituirà, al momento opportuno, in una forte opposizione all'organizzazione armata del proletariato. Con l'altra il discorso è aperto: «riaffermiamo la nostra posizione fortemente unitaria con tutti i compagni che sceglieranno la via della lotta armata». Come per i gruppi anche per il Pci non deve prevalere «nessun settarismo ideologico», la lotta armata lo vedrà «coinvolto», dunque i «rapporti» si misureranno sulle scelte che progressivamente verrà assumendo. Il documento indica con precisione le finalità organizzative: «La strada che abbiamo scelto ha bisogno di un lungo

periodo di accumulazione di esperienze e di quadri». Questo non significa staccarsi dai movimenti ne dalla lotta di classe, al contrario implica il massimo impegno al loro interno, sfruttandone tutte quelle «tendenze» che nelle formazioni minoritarie rivendicano «nuove forme dell'organizzazione della lotta rivoluzionaria: organizzazione dell'autodifesa, prime forme di clandestinità azioni dirette...»64. Le Br rimangono nel movimento, è «l'acqua» in cui vogliono nuotare. Lavorano ai sui fianchi, si occultano nei sui interstizi, rimangono interne al sovversivismo per volgerlo ad un più pianificato progetto di lotta armata. E il loro terreno di coltura. Dalla violenza diffusa, dalla conflittualità di fabbrica o di quartiere esse traggono la loro origine, così come vi troveranno le condizioni della loro riproducibilità. Contemporaneamente alla prima riflessione teorica delle Br, anche Potere operaio con la conferenza d'organizzazione del settembre '71, approda alle prime forme di lavoro illegale. A Milano, il 4 dicembre del 1971, un episodio di criminalità comune: il commesso Vittorio Stefani dei Magazzini Coin di corso Vercelli è aggredito da un gruppo di «banditi» che lo costringono a consegnare 20 milioni. L'inchiesta attribuirà la rapina, non rivendicata, a Renato Curcio, Pietro Morlacchi e Mario Moretti. Li avrebbe aiutati un «basista» infiltrato fra i dipendenti del grande magazzino. L'anno si chiude con la prova generale dell'12 dicembre. Il piano d'attacco prestabilito da Potere operaio non va in porto. La polizia irrompe nell'appartamento di via Galilei dove scopre un deposito di molotov. L'intervento tuttavia non evita la guerriglia che ancora una volta investe la città di Milano. Insieme alle lotte di piazza una nuova ondata di violenze caratterizza lo scontro in fabbrica, a gennaio, a Porto Marghera per due giorni esplode l'autonomia operaia. Gli echi si riflettono in tutto l'estremismo. Dall'estate del '70, alla Sit-Siemens i lavoratori sono impegnati in una dura vertenza aziendale. Dopo le conquiste dell'au-tunno all'interno della fabbrica si rivendica la perequazione normativa e sindacale. Il sindacato per sue difficoltà non riesce a unificare le richieste che avanzano dai singoli reparti. Un frastagliamento di obiettivi e di lotte su cui manovra la dirczione aziendale per dividere i lavoratori: «un reparto elaborava una serie di richieste e chiedeva alla dirczione di aprire le trattative. La dirczione rispondeva: non tratto finché continua lo sciopero di quell'altro reparto. E così il gioco era fatto: i reparti venivano messi l'uno contro l'altro» 65. Esaspera le divisioni fra i lavoratori la scelta aziendale dei trasferimenti al nuovo stabilimento di Castelletto. Nella lista di trasferimento figurano solo operai dei reparti più impegnati nella vertenza. Una misura repressiva a cui si aggiunge il licenziamento di un membro della commissione

interna. Deformando la realtà, come chiarirà la successiva vertenza giudiziaria, l'operaio è accusato di aver aggredito nel corso di un corteo interno alcune lavoratrici. All'attacco padronale si risponde con lo sciopero del 4 settembre. Ma la dirczione aziendale non intende tornare indietro. Lo stesso giorno nella fabbrica organizza un contro-corteo di capi e capetti contro la sede della commissione interna, davanti trovano schierato il picchetto operaio. A qualche giorno di distanza segue il licenziamento di un dirigente della Fim. Drammatizza la situazione la proclamazione da parte dei dirigenti di tre giorni di astensione dal lavoro in segno di protesta per il clima di violenza instaurato dai lavoratori. Sugli operai piovono in modo indiscriminato numerose denunce da parte della direzione aziendale, sono accusati di violenza, dei cortei interni, dei picchetti «duri», di «presunte minacce», di «tutto». La linea aziendale cerca la provocazione ed esaspera le tensioni. In questo contesto la «lista di proscrizione» di capi, capetti, guardiani e crumiri, presentata dalle Br. E la loro carta di presentazione in fabbrica. Da una moto in corsa vengono lanciati volantini davanti agli stabilimenti di Milano e di Castelletto. Segue l'incendio alla macchina del direttore generale del personale Giuseppe Leoni. Per tutto il '71 alla Sit-Siemens, dove si era avuta la prima apparizione delle Br, non si registrano nuove azioni. Il nucleo brigatista intanto si occulta nelle pieghe delle contraddizioni interne alla fabbrica e al sindacato. Corrado Alunni è eletto nel consiglio dei delegati del reparto trasmissioni; Pierluigi Zuffada si presenta candidato al reparto uffici commerciali, gli impiegati al suo posto optano per un democristiano ma di lì a poco in seguito alle sue dimissioni e non volendo la Firn, per sue contraddizioni, ripetere le elezioni subentra come primo dei non eletti. Paola Besuschio, che a differenza di loro è approdata alla lotta armata dall'esterno, entra in fabbrica con un piano preciso. Dichiara un titolo di studio inferiore a quello che realmente possiede, e ben presto per il suo attivismo sarà nominata rappresentante della commissione antinfortuni deU'Uilm. Le ambiguità del sindacato, in particolare della Firn e della Uilm in cui convivono posizioni tradizionalistiche e spinte estremistiche, e la corporativizzazione dei settori impiegatizi sono un fertile terreno per le mimetizzazioni brigatistiche. A ciò si aggiungono il ruolo dei gruppi che si presentano a ogni scadenza di lotta e la funzione che assumerà l'Assemblea autonoma. Si definiscono così i livelli organizzativi del terrorismo. La completa clandestinità, come nel caso di Moretti, con l'uscita dalla fabbrica, scelta che faranno nel tempo anche gli altri in funzione del ruolo ricoperto nell'organizzazione. La mimetizzazione all'interno del consiglio dei delegati e del sindacato per influenzarne le decisioni e ben consapevoli delle sue contraddizioni. Alunni lascia la fabbrica nel '74, lo stesso anno si licenzia Paola Besuschio, Pierluigi Zuffada si dimette nel '75, pochi mesi prima del suo arresto. Un lavoro di sponda fra consiglio dei delegati e le «voci» dell'Assemblea autonoma. Intanto procede il reclutamento alla lotta armata. Allo

stabilimento di Castelletto spetta a Giuliano Isa il ruolo di responsabile del lavoro organizzativo militare. Arrestato a Milano il giorno degli scontri dell'11 marzo '72, sarà prosciolto dopo un mese di carcere. Al rientro in fabbrica la sua scelta della lotta armata sarà un fatto irreversibile. E alla Sit-Siemens che la tecnica terroristica si mette a punto: il 3 marzo del 1972, il primo sequestro politico in Italia. A pochi metri dal palazzo della dirczione in piazza Zavattari, il numero 3 della «lista di proscrizione» diffusa dalle Br, Idalgo Macchiarini, è catturato da un Gommando composto da tré uomini. «L'odiato dirigente» della Sit-Siemens è caricato a forza su un furgoncino, legato e imbavagliato, fotografato con due pistole puntate al viso e un cartello al collo. Sottoposto a un sommario «processo politico», dopo mezz'ora è abbandonato ancora legato a bordo del furgone. Sul cartello: «Brigate rosse — Mordi e fuggì! Niente resterà impunito! — Colpiscine uno per educarne cento! — Tutto il potere al popolo armato». Riprendendo queste minacce il comunicato diffuso lo stesso giorno del sequestro così conclude: «Nessuno tra i funzionar! della controrivoluzione antioperaia dorma più sonni tranquilli, nella grande città dello sfruttamento non e'è porta che non si possa aprire e le "forze dell'ordine" (pubbliche e private) per quanto numerose siano e per quanto numerose possano diventare: "nulla possono contro la guerriglia proletaria! ..." »66. L'«Avanti!» non riporta la notizia. «l'Unità» relega l'awe-nimento in un articolo di una colonna dal titolo Grave provocazione alla Sit-Siemens di Milano; l'azione è definita «banditesca» 67. Le dichiarazioni pubbliche rese da Macchiarmi denunciano la brutalità dell'aggressione. Con «ironia» le Br spediscono al «Corriere della sera» l'orologio del «detenuto», perso «durante il vano tentativo di divincolarsi», inoltre precisano: nessuna violenza fisica «salvo quelle indispensabili» 68. Potere operaio non ha esitazioni: «si tratta di azioni che portano un segno di classe, proletario e comunista, ed esprimono una volontà sovversiva e un bisogno di rivoluzione che è delle masse sfruttate»69. Lotta continua, con un'operazione di metamorfismo, modifica il giudizio che aveva formulato in occasione delle bombe di Lainate: «Idalgo Macchiarini è stato catturato venerdì pomeriggio, processato e punito. Nella mattinata un corteo all'interno della fabbrica aveva cercato di raggiungere l'ufficio per fargli sentire il peso della propria forza e del proprio odio di classe. Noi riteniamo che questa azione si inserisca coerentemente nella volontà generalizzata delle masse di condurre la lotta di classe anche sul terreno della violenza e dell'illegalità» 70. Diametralmente opposta l'opinione del Manifesto e di Avanguardia operaia, quest'ultima in un misto di ingenuità e di consapevole rimozione stigmatizza l'azione come frutto della sapiente regia dei servizi segreti71. La loro polemica

con Lotta continua e Potere operaio si farà ancora più pesante in seguito al sequestro di Robert Nogrette, dirigente della Renault, rivendicato da Nouvelle resistance populaire, filiazione della Gauche prolétarienne messa fuori legge in Francia alla fine del '70. Sei giorni di distanza dal sequestro Macchiarmi. Anche se non ci sono elementi per vedervi connessioni dirette, non e'è dubbio che le due azioni terroristiche s'influenzano fra loro, due tasselli delle molteplici interrelazioni, logistiche e di analisi, del terrorismo internazionale. Accecata dall'esaltazione. Lotta continua definisce i sequestri di Robert Nogrette e di Idalgo Macchiarmi atti di giustizia rivoluzionaria, «una giustizia che comincia a far paura» e conclude «viva la giustizia rivoluzionaria» 72. Affermazioni che procurano mandati di cattura contro undici mèmbri dell esecutivo milanese del gruppo. Ancora non si sono spenti gli echi del sequestro Macchiarini ed ecco a Milano, città laboratorio dell'e-versione, la tumultuosa giornata dell'll marzo. Denunciando l'avventurismo del Comitato di lotta contro la strage, Avanguardia operaia e Manifesto si dissociano. Il 15 marzo 1972, sotto un traliccio a Segrate in provincia di Milano è rinvenuto il cadavere dell editore Giangiacomo Feltrinelli. Il pulmino attrezzato, le mappe, le carte di identità falsificate, tutto concorre a definire il quadro di una oscura quanto imprecisata azione terroristica. Un falso di Stato? Un miliardario out-sider spinto da aristocratici ideologismi a diventare un solitario dinamitardo? Chi sono i compiici, quale l'organizzazione, chi sta dietro al «partigiano Osvaldo» nome di battaglia dell'editore? L'opinione pubblica si interroga. Il traliccio di Segrate diventa il simbolo dell'Italia delle trame, tragico preludio dei nostri «anni di piombo». Nel quadro delle indagini sul «caso Feltrinelli» vengono alla luce i collegamenti fra le organizzazioni terroristiche di Genova e di Trento. Le chiavi ritrovate sul cadavere dell'editore «aprono» i covi milanesi di via Subiaco, viale Sarca, via Trevi-glio, via lacopo della Quercia e il box di via Cardinale Mezzofanti. NelTappartamento di via Subiaco vengono sorpresi Augusto Viel del gruppo 22 Ottobre e responsabile dell'assassinio di Genova e Giuseppe Sava, uno stretto collaboratore di Feltrinelli. «Potere operaio» rompe il silenzio, esce con un titolo a tutta pagina: «Un rivoluzionario è caduto». «Gli sciacalli si sono scatenati, chi lo vuole terrorista e chi vittima. Destra e sinistra fanno il mestiere di sempre. Noi sappiamo che questo compagno non è ne una vittima ne un terrorista. E un rivoluzionario caduto in questa fase della guerra di liberazione dallo sfruttamento. E stato ucciso perché era un militante dei Gap. E carabinieri, polizia, fascisti esteri e nostrali! lo sapevano e lo sanno benissimo. E stato ucciso perché era un rivoluzionario che con pazienza e tenacia, superando abitudini, comportamenti, vizi ereditati dall'ambiente alto-borghese da cui proveniva, se posto sul terreno della lotta armata costruendo con i suoi compagni i primi nuclei di resistenza

proletaria» 73. Ad accreditare l'ipotesi di un coinvolgimento diretto del gruppo nell'affare Feltrinelli, l'inse-gnante milanese Carlo Fioroni, militante di Potere operaio, risulta il titolare dell'assicurazione del pullmino trovato sotto il traliccio di Segrate. Il «professorino» si da alla latitanza. Acquista sempre più forza la minaccia di «messa fuori legge» di Potere operaio. Solidarizzando col gruppo. Lotta continua afferma perentoriamente: «Giù le mani da Potere operaio» 74. Lotta continua naviga fra due opposte sponde: la condanna di Avanguardia operaia e del Manifesto e l'enfasi dell'azione terroristica di Potere operaio. Definisce «opportunistica» la linea del Manifesto, critica i limiti di una «violenza individuale e di gruppo» che «non ha altro valore che quello di una testimonianza disperata ed è sempre perdente», ma insiste nel proporre un indefinito modello di illegalità come «pratica quotidiana di larghe masse proletarie» 75. Continuano le rivelazioni sul caso Feltrinelli. Si unificano le inchieste sui Gap e sulle Br. Le indagini accertano contatti fra l'editore e l'avvocato genovese Giambattista Lazagna, il medico Enrico Levati di Borgomanero e il brigatista Giorgio Se-meria, intestatario dell'appartamento di via Pelizza di Volpedo. Lo stesso che sotto falso nome ha affittato il «covo» di via Boiardo, attrezzato con una cella sotterranea con pareti imbottite. In via Delfico in una cantina dell'ex tipografo Pietro Morlac-chi si ritrovano istantanee del sequestro Macchiarmi e un passaporto intestato a Feltrinelli. Davanti al «covo» di via Boiardo, il 2 maggio, è arrestato Marco Pisetta, una vecchia conoscenza di Renato Curcio, dai tempi dell'università negativa di Trento. Portato in questura è interrogato dal commissario Calabresi e dal magistrato Viola. Affermerà lo stesso Pisetta: «il dottor Viola mi ha chiesto se volevo quindici anni di galera [...] oppure uscire subito [...]. Diciamo che tu non ha mai partecipato alle bande rosse, eri lì per dare una mano a imbiancare l'ufficio. Mentre mi diceva queste cose il dottor Viola mi sventolava sotto il naso il mandato di scarcerazione» 76. Pisetta sarà scarcerato dopo pochi giorni, nel corso dell'estate sarà contattato dal Sid che lo convincerà a firmare un «memoriale»-confessione, circa novanta cartelle, «parecchie delle cose che ho ricopiato mi erano del tutto sconosciute» dirà lo stesso Pisetta; saranno passate dal Sid al giornale di destra «II Borghese» che, contemporaneamente ai quotidiani «II Secolo d'Italia» e «II Giornale d'Italia», le pubblicherà a puntate 77. Una grave e apparentemente incomprensibile ingerenza del Sid. Il giudice Viola nella sua requisitoria al processo Gap-Br di Milano così commenterà: «Si tratta di un episodio di inaudita gravita [...] di omissione di atti d'ufficio e favoreggiamento personale». Una torbida vicenda che invece di servire a fare luce sulla trama eversiva è utilizzata per tentare una insensata provocazione. Nel memoriale si arriva ad accusare di far parte delle Br, fra gli altri, Vittorio Togliatti, il nipote dello

scomparso leader comunista. Fra le molte falsità tuttavia il memoriale contiene alcune piste che anticipano vicende che verranno alla luce negli anni seguenti come il ruolo della scuola di lingue Hyperion di Parigi. L'intempestiva quanto «inspiegabile» fuga di notizie non consente all'inchiesta di proseguire 78. Tra l'arresto di Pisetta e la pubblicazione del memoriale intercorrono molti mesi, dal 2 maggio alla fine del '72, un periodo in cui l'informatore viene fatto espatriare e tenuto in un dorato isolamento. Intanto a pochi giorni dalla scoperta del covo di via Boiardo, il 17 maggio '72, l'assassinio del commissario Calabresi. Una morte misteriosa ed emblematica per le vicende cui è legato il nome di Calabresi. Tutto concorre ad attribuire all'estremismo di sinistra il delitto. La stampa riprende i violenti e minacciosi volantini di Lotta continua. Prese di posizione che non cessano con la morte del commissario. Davanti alla Fiat è denunciato Mario Dalmaviva militante di Potere operaio: sta distribuendo un volantino in cui si inneggia all'assassinio.

5. Un polo strategico della lotta armata

Dopo la «perquisizione» di via Boiardo e le «rivelazioni» di Marco Pisetta le Br passano definitivamente alla clandestinità. Così scrivono in un loro documento: «La clandestinità si è posta nei suoi termini reali solo dopo il 2 maggio 1972. Fino ad allora impigliati come eravamo in una situazione di semilegalità, essa era vista più nei suoi aspetti tattici e difensivi che nella sua portata strategica». Superata ogni concezione difensiva della lotta armata, retaggio del dopo autunno caldo e già contestata all'impostazione dei Gap, prospettano un sistema d'attacco che alla ferrea centralizzazione sappia unire un parallelismo interno al movimento e all'area dell'autonomia, un'indispensabile platea di reclutamento e di potenziale sostegno. «Oltre alla condizione di clandestinità assoluta si presenta perciò, nella nostra esperienza, una seconda condizione in cui il militante pur appartenendo ali'organizzazione, opera "nel movimento" ed è quindi costretto ad apparire e muoversi nelle forme politiche che il movimento assume nella legalità» 79. Questo secondo tipo di militanza clandestina è teorizzata come premessa per la costruzione di un articolato «potere militare», fondamento di quello che è definito «lo sviluppo delle milizie operaie e popolari» 80. Quindi essere dentro le situazioni, conoscere in ogni dettaglio le condizioni concrete, reclutare e colpire. Un programma di criminalità terroristica in cui il luogo prescelto, l'obiettivo, la propaganda dell'azione terroristica sono frammenti organizzativi decisivi della più generale costruzione del partito armato. Il passaggio alla clandestinità segna una pausa nella sequenza delle azioni terroristiche, l'attenzione si concentra sugli aspetti logistici, sulla struttura, sul reclutamento e sulla vigilanza. Renato Curcio parlando di questo periodo, in un'intervista rilasciata nel gennaio '73 e pubblicata nel marzo dello stesso anno su «Potere operaio», afferma: «Non accettando il terreno che ci veniva imposto di uno scontro frontale tra le brigate e l'apparato armato dello Stato, abbiamo avuto il tempo di contrattaccare in silenzio su obiettivi economici, e rafforzare di conseguenza il nostro impianto organizzativo» M. Gli obiettivi economici cui fa riferimento sono gli espropri, «l'assalto alla ricchezza»; occasioni — preciserà Curcio in una successiva intervista concessa a «L'Espresso» nel gennaio '75 — in cui «si oggetti-vano una legalità e una moralità rivoluzionaria» 82. Il 14 luglio del '72, sono rapinate le sedi delle agenzie della Cassa di risparmio di Scandiano e Bibbiano in provincia di Reggio Emilia. Secondo gli inquirenti fanno

parte del comman-do: Curcio, Franceschini, Troiano e Pelli. Nello stesso mese a Trento un'altra rapina alla Banca di Trento e Bolzano. Fra i rapinatori si fa il nome di Heidi Ruth Peusch, moglie del brigatista Pietro Morlacchi. Già arrestata nell'ambito delle indagini milanesi sul caso Feltrinelli insieme a Giorgio Semeria, Anna Maria Bianchi, Gloria Pescarolo, Umberto Farioli, Carlo Cattaneo, era stata rilasciata per scaduti i termini di carcerazione preventiva. Nel frattempo si accelera la mutazione di Potere operaio, e prende quota l'Autonomia organizzata. Mentre continuano le violenze fasciste, che culmineranno nell'ottobre con le bombe ai treni diretti a Reggio Calabria per la conferenza del Mezzogiorno promossa dai sindacati, il colpo di scena nelle indagini sulla strage di piazza Fontana: ad agosto sono arrestati gli estremisti di destra Franco Preda e Giovanni Ventura. L'offensiva delle Br riprende nell'autunno, il centro è la Fiat, 1 obiettivo i fascisti. Lo sfondo: il rinnovo dei contratti, le provocazioni padronali, l'iniziativa delle squadre fasciste alla Fiat e, più in generale, nel paese. Nel mese di novembre la situazione arriva a un punto limite. Alla Fiat squadre fasciste sfondano i picchetti operai, la polizia le lascia indisturbate ma è ben pronta ad arrestare due degli operai che hanno reagito. Con l'accusa di violenza altri quattro lavoratori ricevono lettere di licenziamento. Salgono a 600 le denunce all'autorità giudiziaria nei confronti dei lavoratori della fabbrica. Contro la repressione, contro il governo Andreotti, contro il fascismo — il 25 novembre — la sinistra extraparlamentare torna in piazza a Torino. I fascisti non perdono l'occasione per innescare la provocazione, non è difficile, secondo il solito cliché segue l'intervento della polizia e la replica violenta del gruppismo. Il bilancio della giornata è di 30 fermati e 11 arrestati. Il 26 novembre le Br fanno la loro prima comparsa alla Fiat-Mirafiori. Nella notte in vari punti della città sono date alle fiamme le auto di nove aderenti al sindacato fascista Cisnal. In fabbrica il volantino di rivendicazione denuncia la «nuova dittatura» a cui si preparano i padroni, lancia l'obiettivo di «un'organizzazione che ci consenta di passare all'azione nellafabbrica e nel quartiere». Preannunciando altre iniziative, la parola d'ordine è: «Schiacciamo i fascisti a Mirafiori e Rivalla, contro i fascisti, contro il governo Andreotti» 83. L'episodio non trova eco sulla stampa. Ma in fabbrica se ne discute e molto. Mentre continua la lotta sindacale un'esplosione di violenti cortei interni «spazzola capi e capetti». Per l'estremismo barricadero una violenza che contrapponendosi alla violenza padronale sa esprimere un nuovo «potere proletario» in fabbrica. Ancora un' impennata repressiva: la Questura di Torino emette in modo indiscriminato 800 denunce contro i lavoratori. Molti di loro sono accusati di «sequestro di persona», con raggravante di aver compiuto il reato in forma

associata. Il padrone non è da meno, nuovi licenziamenti e minacce. Interviene in questa fase l'intesa Fiat-Flm, per i gruppi è un «verbale di resa». Il sindacato avverte con preoccupazione i rischi di una degenerazione dei conflitti di lavoro e le conseguenze negative nei rapporti interni alla fabbrica e sull esito complessivo della vertenza contrattuale. Le parti firmatarie si impegnano a evitare ogni «forma di degenerazione» della vertenza al fine di non introdurre nel conflitto «elementi di drammatizzazione». Il sindacato riconosce che nei confronti dei capi e dei dirigenti deve essere evitato ogni scontro fisico, e condanna ogni forma di violenza. La Fiat torna parzialmente indietro e riassume alcuni degli operai licenziati. Il comitato di base della Fiat Mirafiori attacca duramente il verbale d'intesa, un «compromesso» in cambio della pace sociale. Dello stesso tono il giudizio di Lotta / continua. Positivo invece il commento del Manifesto. Per le Br occorre impedire il ripristino della pace sociale, agire subito sul malessere operaio e spingere in avanti l'estremismo. Il 17 dicembre in città saltano 6 auto di sindacalisti «gialli», l'azione è diretta contro «le spie della Sida i provocatori dell'Msi e della Cisnal, i capi e i capetti che organizzano i crumiri». Nessuna pausa nell'esercizio della giustizia proletaria: «Questi nemici dell'unità operaia dobbiamo ridurli al silenzio, dobbiamo colpirli duramente, con metodo, nelle persone e nelle loro cose, dobbiamo cacciarli dalle fabbriche e inseguirli nei quartieri, non dobbiamo concedergli un minuto di tregua» 84. Come alla Sit-Siemens anche alla Fiat le Br agiscono con un nucleo interno e si avvalgono di appoggi logistici esterni, un duplice sistema che sperimenta le strutture verticali e orizzontali delle «colonne». Si arricchisce lo «schedario» brigatista, si perfezionano le tecniche di propaganda e le strumentazioni parallele che affiancano l'azione terroristica: la sequenza dei comunicati, il cartello-messaggio, il volantino-proclama, gli opuscoli a ripetizione. La scelta delle vittime e dell oggetto delle azioni terroristi-che è del tutto interna al clima che si vive in fabbrica. Serve a inasprire le contraddizioni, a irrigidire la situazione, a spingere nel senso della drammatizzazione dei conflitti aziendali. Alla provocazione padronale alla Sit-Siemens si risponde colpendo i dirigenti, alla Fiat colpendo i fascisti. Le Br sanno benissimo che non sarà facile avere solidarietà operaia attorno alle vittime «prescelte», a loro interessa impedire ogni reazione democratica e strappare così impliciti o espliciti consensi operai facendo leva sulle omertà, acquiescenze, incredulità. I nomi dei singoli bersagli non dicono molto alla grande opinione pubblica che rimane tra lo sconcerto e l'indifferenza. Debole e tardiva la risposta democratica, condizione che consente alla propaganda armata di attecchire sulla mala pianta delle deviazioni militariste dell'e-stremismo. Il verbale d'intesa firmato da Fiat e Firn non fa cessare il cupo clima di violenze. Un nucleo operaio attacca la sede Cisnal, bastona un attivista fascista, e ruba gli

schedari. Il loro volantino definisce l'azione una «coerente» iniziativa antifascista delle masse e conclude con «No al congresso fascista a Roma! No al governo Andreotti! Per il comunismo!» La replica fascista non si fa attendere, fascisti con spranghe e catene aggrediscono gli operai. I carabinieri intervengono e arrestano alcuni operai. A Milano ricompaiono le Br. Stavolta l'attacco si sposta all'esterno, obiettivo: l'Unione cristiana imprenditori dirigenti definita «associazione collaterale della Democrazia cristiana». Mentre l'estremismo è impegnato nella prova di piazza dell'antifascismo militante, le Br alzano il livello dello scontro, si tratta di colpire il «fascismo in camicia bianca di Andreotti». Già nel dicembre, con 1 opuscolo Guerra ai fascisti, il gruppo di Curcio aveva polemizzato con vecchie riproposizioni della lotta contro il fascismo: «coloro che hanno pomposamente promosso violenze di massa non hanno perso l'occasione di dimostrare tutta la loro "capacità di valutazione politica" scambiando Andreotti per Tambroni e fornendo in chiave di farsa la loro interpretazione del luglio I960» 85. Per le Br non c'è tempo da perdere in offensive destinate al fallimento come impedire il congresso del Msi a Roma, piuttosto è necessario dare prova della propria forza militare svelando la natura del nuovo progetto reazionario della borghesia. La dialettica politica si militarizza, le polemiche sulle analisi e sulle prospettive diventano forme diverse del terrorismo. Nella notte tra il 14 e il 15 una bomba scoppia a piazza San Babila, noto ritrovo dei fascisti milanesi, nella città altri ordigni sono lanciati contro le sedi di Avanguardia nazionale, del Msi e della Cisnal. Le Br hanno già avuto modo di contestare queste forme di azione, per loro l'attentato deve avere una funzione «pedagogica», dimostrare la natura del fascismo in camicia bianca. Il 15 gennaio 1973, tré brigatisti, il volto nascosto da passamontagna, armati di mitra e pistole, irrompono nella sede dell'Unione cristiana imprenditori d'azienda. Legato e incerottato il segretario Giulio Barana, il Gommando confisca l'archivio con l'elenco degli iscritti, indirizzi e altri documenti riservati. Sulle pareti traccia il marchio dell'organizzazione e scritte inneggianti alla lotta armata. A terra il volantino-rivendicazione, spiega perché la sede dell'Ucid: «È qui che i fascisti in camicia bianca dell'Alfa Romeo, della Sit-Siemens, della Marelli ecc. mettono a punto il piano dell'attacco antioperaio». In quella stessa sede insieme al presidente della Confindustria gli imprenditori avevano discusso della loro funzione «nella nuova situazione economica e politica». Un'azione per dimostrare che altrettanto pericolosa dei fascisti è la De di Andreotti con i suoi legami con «coloro che in

fabbrica ci controllano, ci schedano, ci licenziano, che fuori parlano di libertà e di democrazia ma che in realtà organizzano la più spieiata repressione antioperaia» 86. «l' Unità» la giudica una «provocazione per ricreare un clima di tensione» a Milano, collega questo obiettivo al prossimo congresso del Msi previsto a Roma e invita a una più incisiva unità antifascista87. L «Avanti!» non fa menzione dell'episo-dio. «Il Manifesto» pone molti interrogativi sulla natura del Gommando, nonché sulla esistenza stessa delle Br. Una presa di posizione che offre lo spunto a Lotta continua per riprendere alcuni dei suoi motivi polemici sulla «violenza di massa». Timidamente attacca il velleitarismo delle Br ma il centro principale della critica resta l'opportunismo del Manifesto: «noi critichiamo oggi alcune azioni, così come critichiamo radicalmente, per quello che ne conosciamo, la velleità delle Brigate rosse. Ma niente abbiamo a che spartire con l'opportunismo che mira a disarmare le masse perché ne ha paura»88. Volantini che riproducono il testo del comunicato lasciato nella sede dell'Ucid sono distribuiti alla Fiat Mirafiori. A Torino la situazione è tesissima; la polizia sfonda i picchetti operai, spara provocando alcuni feriti. L'indomani, il 23 gennaio, teatro degli scontri è Milano. La carica della celere si conclude con un morto: lo studente Roberto Franceschi. Nelle grandi città è protesta. A Torino, il 27 gennaio, si sfiora la tragedia, la battaglia si conclude con numerosi arresti, fra i vari militanti colpiti da mandato di cattura Guido Viale leader di Lotta continua. Alla mano pesante dello Stato si aggiunge la tracotanza padronale. A un imponente sciopero, la Fiat replica con la sospensione in massa di 5.000 operai. Non e è verbale d'intesa che tenga, tornano i cortei interni a Mirafiori, le «spazzolature». Segue una pioggia di licenziamenti. La lotta contrattuale trova un grande appuntamento nella giornata romana del 9 febbraio. Non è solo uno sciopero sindacale, il nemico non è solo il padronato ma il governo Andreotti. La combattività operaia rivendica uno spostamento dell'intero quadro politico. Sono passati pochi giorni dalla manifestazione romana quando, la mattina del 12 febbraio, un nucleo delle Br sequestra il segretario provinciale della Cisnal, Bruno Labate. È trascinato su un furgone, incappucciato e dopo un viaggio di circa mezz'o-ra «processato». Cinque ore di interrogatorio che servono alle Br per avere informazioni sulla presenza Cisnal nelle fabbriche piemontesi. Labate viene lasciato al cancello numero Uno della Fiat Mirafiori, è incatenato, senza pantaloni, al collo il cartello col simbolo delle Br e una scritta-messaggio che si conclude con «Guerra al fascismo di Andreotti e Almirante». Il segretario della Cisnal esposto alla «gogna» è stato rapato come si usava coi collaborazionisti nella guerra di liberazione. Le indagini segnalano che su una delle macchine usate per il rapimento di Labate sono state trovate le impronte digitali di Paolo Maurizio

Ferrari, già ricercato come brigatista rosso, ex-operaio della Richard-Ginori e prima ancora della Pirelli-Bicocca di Milano. «l'Unità» dedica ampio spazio alla condanna dell'azione. Adalberto Minucci, allora segretario regionale del Piemonte, commenta: «Quest'ultimo episodio del sindacalista fascista tranquillamente incatenato alla luce del sole, nel bei mezzo di un corso solitamente affollato a poca distanza dai sorveglianti Fiat e dal transito di migliala di operai, denuncia nella sua stessa teatralità la scarsa verosimiglianza» 89. Molte le perplessità sulla matrice dell'attentato. In fabbrica, debole la risposta democratica. «Lotta continua» segue con imbarazzo e osculazione le tappe militari delle Brigate rosse. Se in occasione del sequestro Macchiarini e all'indomani dell'incursione nella sede dell'Ucid aveva definito le azioni brigatiste «lezioni esemplari», stavolta di fronte al sequestro-interrogatorio del sindacalista Cisnal ne sottolinea «il carattere irresponsabile ed esibizionista» e aggiunge che tutto ciò si verifica mentre «la provocazione di Stato sta facendo proprio a Torino le sue "grandi manovre" e sta costruendo infami montature»90. Le Brigate rosse hanno ottenuto un primo decisivo risultato: con la loro macabra presenza si sono imposte al dibattito dell'estremismo; sfruttandone i galleggiamenti, le ossessive paure di scavalcamento tendono ad accelerare la scelta della lotta armata, spostando coi «fatti» la discussione e la pratica eversiva. Nei giorni che seguono il sequestro Labate le Br tornano in fabbrica e diffondono l'opuscolo Guerra ai fascisti nelle fabbriche torinesi, vi sono riportati ampi stralci dell'interrogatorio al segretario provinciale della Cisnal. Il collegamento al clima interno è diretto. Nei mesi precedenti aveva fatto scalpore la notizia di quasi 3.000 assunzioni avvenute attraverso la Cisnal. Una «massa di manovra docile» e pronta a essere utilizzata per ogni disegno antioperaio. Le Br descrivono il «giro» delle assunzioni: accordi contrattati fra Msi e vari dirigenti della Fiat, tra cui compare anche il nome del cavalier Amerio. Dopo aver passato in rassegna un fitto elenco di dirigenti, capigruppo aziendali responsabili del «giro», si analizza l'organizzazione dei fascisti alla Fiat: una puntigliosa indagine sui singoli reparti, nomi, consistenza numerica, strutture organizzate. Nei primi giorni di marzo «Potere operaio del lunedì», compiendo un «dovere di informazione politica», pubblica integralmente il documento-intervista — la seconda riflessione teorica — delle Br; lo considera un contributo di grande interesse rispetto alle esperienze ormai consunte «senza storia, insomma cose morte» del panorama estremistico 91. La scelta di Potere operaio è una risposta all'articolo di «Lotta continua» Velleitarismo pratico e confusione ideologica in cui il gruppo di Sofri tentava una «chiarificazione teorica e pratica» nei confronti dell'or-ganizzazione clandestina. «Lotta continua» senza pubblicare il documento

delle Br ne aveva contestato i vaneggiamenti, il carattere «autodelatorio» riferito all'attacco agli obiettivi economici (gli espropri), le arretratezze politiche, e in particolare la concezione «fochista» della lotta armata separata dal contesto di una più generale crescita della violenza di massa92. Potere operaio sfida le reticenze di Lotta continua, e replica ai suoi distinguo teorici, ai suoi bizantinismi sui «programmi complessivi» della lotta armata: «Dobbiamo essere grati a Le, l'attacco sferrato contro le Br dal loro giornale, la grossolanità delle argomentazioni e delle accuse, lo sfacciato opportunismo che le sostiene, non hanno fatto breccia, hanno provocato, anzi, l'effetto opposto tra i compagni, cioè una richiesta di informazioni politiche più precise [...]. Chi sono dunque i compagni delle Br? Sono compagni proletari che hanno condotto le lotte dell'autunno nelle fabbriche del Nord, e che hanno, attraverso una lunga riflessione teorico-politica, scelto la via della clandestinità, nella convinzione che questa sola permette la costruzione di un'organizzazione per la lotta armata. Si potrà non essere d'accordo con la scelta di costruire un organizzazione autonoma per la lotta armata; è difficile sostenere che esista altra via che quella della clandestinità per costruirla» 93. Potere operaio sottolinea che non bisogna intendere la questione della lotta armata come totalizzante, né considerare i nuclei che la dirigono come unica dirczione politica di un movimento eversivo che per sua natura prevede momenti diversi e non gerarchicamente ordinati. In sostanza già prefigura quella strutturazione parallela che prenderà corpo nell'organizzazione terroristica e nella poliedricità del partito armato. Nell'impeto di adesione e di difesa le azioni delle Brigate rosse sono definite: «azioni di giustizia proletaria, di contrattacco di rappresaglia e, insieme rappresentazioni del potere proletario. Per questo esse parlano direttamente ai proletari, agli studenti, agli operai [...]. E chiaro che questo orizzonte non da posto ali' insinuazione che le Br rappresentano se stesse come "fuoco guerrigliero"»94. La critica mossa alle Br di rappresentarsi in modo schematico come «funzione diretta del potere proletario in formazione», non muta la sostanza politica del giudizio: «Noi crediamo che i compagni delle Br si muovono con piena lealtà all'interno del processo di costruzione della forza organizzata dell'autonomia operaia. I compagni delle Brigate rosse, come quelli delle Assemblee, come quelli dei gruppi che hanno compiuto una rigorosa critica di se stessi, possono iniziare questa lunga marcia vittoriosa» 95. Un'interpretazione che è in sintonia con quanto, autodefi-nendosi un «polostrategico» del «movimento di resistenza proletaria», hanno affermato le Br nel loro documento-intervista: «non abbiamo costruito un nuovo gruppo ma abbiamo lavorato all'interno di ogni manifestazione dell'Autonomia operaia per unificare i suoi livelli di coscienza intorno alla proposta strategica della lotta armata per il comunismo» 96. È la teoria dei pesci nell'acqua. Liquidata lesperienza dei gruppi, «realtà del passato, sopravvivenze inadeguate allo sviluppo ulteriore del processo

rivoluzionario», ormai si tratta di lavorare per Punita di tutte le «forze che si muovono nella prospettiva della lotta armata». Respinta sprezzantemente ogni accusa di terrorismo, le Br rivendicano un ruolo tutto politico sul «terreno della guerra di classe rivoluzionaria», attribuendosi come primo successo quello di aver fatto assumere il problema dell'organizzazione proletaria armata a tutto il «campo rivoluzionario». In polemica con le interpretazioni riduttive date da alcuni settori del gruppismo, giudicano «erronee» e «deviazioniste» sia quelle tendenze «militaristiche» che intendono l'azione militare come atto «esemplare» per «mettere in movimento la classe operaia», sia quelle concezioni «gruppiste» che assegnano a «un nucleo di samurai la funzione e i compiti della lotta armata». Per i teorici del partito armato la risposta militare è solo l'apice di un «vasto lavoro politico attraverso cui si organizza l'avanguardia proletaria». L intreccio fra dirczione armata e movimento si esplicita nella contestualità dei due livelli di attività proposti: «il lavoro di organizzazione clandestina e il lavoro di organizzazione delle masse», apparentemente separati essi sono logisticamente sovrapponibili e interagenti fra loro. Il primo rappresenta «il consolidamento di una base materiale economica, militare e logistica» per garantire una piena autonomia dell'organizzazione e un retroterra strategico al lavoro «tra le masse»; il secondo è il primo embrione nelle fabbriche, nei quartieri popolari, delle articolazioni dello stato proletario, uno stato armato che si prepara alla guerra» 97. Tradotto nella pratica ciò significa procedere alla centralizzazione delle varie colonne armate, consolidarne la forza d'apparato e le strutture logistiche e al tempo stesso non perderei contatti con le tendenze militari presenti nel movimento, partire da esse per accrescere il consenso e continuare nell'opera di reclutamento.

6. Contro il fascismo in camicia bianca

Per tutto il 1973 le Br si muovono sulla linea annunciata nella loro seconda riflessione teorica. Nel paese sono i mesi del-l'opposizione sociale al governo di centro-destra e il gruppo terrorista seleziona i suoi obiettivi, i fascisti in camica nera di Ai-mirante e i fascisti in camicia bianca di Andreotti, avendo ben presente il contesto politico e guardando agli effetti che le singole azioni possono produrre sul piano della riproducibilità della lotta armata in quello che hanno definito il «campo di resistenza». Dal punto di vista organizzativo ha consapevolezza delle contraddizioni in cui si dibatte la «sinistra non riformista». Considera senza sviluppo i tentativi di farsi partito di gruppi come Avanguardia operaia. Manifesto e Lotta continua, bollati come liquidatori della lotta di classe. Conosce benissimo la sofferta discussione interna a Lotta continua, un travaglio che, oltre ai distacchi verso Autonomia, porterà la sua ex commissione carceri e i suoi settori più massimalisti a clandestinizzarsi nei Nap. Ne sfugge alle Br la fase di transizione che attraversano il Gruppo Gramsci e Potere operaio che proprio in quel periodo stanno avviandosi al loro dissolvimento: il primo nel giugno '73 e il secondo tra l'estate-autunno dello stesso anno. Nuovi potenziali consensi, che possono manifestarsi attorno alla linea di «resistenza» e nuove forme di «iniziativa proletaria» proiettate verso la lotta armata. Certo non sono tendenze univoche ma, sempre seguendo il ragionamento delle Br, esse si confrontano e si intrecciano con quella linea «entrista» portata avanti dagli organismi autonomi di fabbrica. Questi pur non avendo scelto la strada «liquidazionista dello scontro di classe come l'estremismo tradizionale, che mette nel conto una lunga fase di riflusso e si prepara al partito», continuano a perseguire l'illusione di costruire «giorno per giorno» l'alternativa strategica all'offensiva della borghesia. Un'illusione su cui le Br sanno di poter agire. Nel documento-intervista, il discorso con il Pci non è chiuso. Il tradizionale partito della classe operaia è definito «una grande forza democratica che persegue con coerenza una strategia esattamente opposta alla nostra». Non è utile, affermano le Br, continuare in sterili attacchi verbali o ideologici; la questione è più radicale, il confronto avrà come principale riscontro i fatti: «così siamo convinti che a misura in cui la linea della resistenza, del potere proletario e della lotta armata si consoliderà politicamente e organizzativamente nel movimento operaio, gli elementi comunisti che ancora militano o credono in quel partito sapranno certamente fare le loro scelte»98.

Dopo il sequestro di Bruno Labate da parte delle Br, numerosi gli attentati di matrice fascista. Ordine nero è l'organizzazione terroristica di destra più attiva: il 7 marzo l'attentato alla linea Torino-Genova; il 13 marzo alla sede de «II Corriere della sera» di Milano; il 15 marzo al liceo Vittorio Veneto sempre a Milano. La strage sul direttissimo Torino-Roma è impedita solo perché il suo organizzatore Nico Azzi di Ordine nero rimane ferito nell'accidentale esplosione del detonatore mentre sta regolando il meccanismo a orologeria in una toilette del direttissimo. Le violenze fasciste trovano il loro culmine nella giornata del 12 aprile '73. La Questura milanese non ha autorizzato la manifestazione promossa da Ciccio Franco, l'ex caporione di Reggio Calabria. I fascisti non desistono, nell'impatto con la polizia un violento corpo a corpo. Gli estremisti di destra usano le armi da fuoco, sparano colpendo a morte il giovane agente Antonio Marino. Le violenze si estendono nella città i fascisti si scontrano con i gruppi. Sono passati pochi giorni dalla morte dell'agente Marino, le responsabilità degli ultra di destra sono state subito individuate, quando da Roma un oscuro quanto tragico episodio riaccende i riflettori sulle opposte violenze. A Primavalle, un quartiere popolare romano, è data alle fiamme l'abitazione di Mario Mattei segretario della locale sezione del Msi. Nell'incendio trovano la morte i suoi due figli. Nessuna rivendicazione. Un susseguirsi di attentati firmati SaM (Squadre d'azione Mussolini) e Ordine nuovo contro le sedi dei partiti democratici. Con lettere minatorie a magistrati e militanti politici di sinistra e antifascisti, compare la sigla Giustizieri d'Italia «Dux». Fanno da contrappunto le sigle di sinistra e le loro azioni. A Milano i Nuclei operai di resistenza incendiano la macchina di un dirigente della Gulf. Ancora morti a Milano: il 17 maggio Gianfranco Bertoli sedicente «anarchico» lancia una bomba davanti alla Questura e uccide quattro persone. Alla fine di giugno le Br tornano di scena con un nuovo sequestro politico, ancora una volta teatro dell'azione è Milano. Nell'obiettivo brigatista una fabbrica emblematica per la sinistra come per l'estremismo: l'Alfa Romeo di Arese. La scheda dell'ingegner Mincuzzi, «specialista dell'organizzazione del lavoro dell'Alfa», sequestrato il 28 giugno '73, faceva parte del materiale prelevato in occasione dell'incursione all'Ucid. Si ripete il rituale: processo e interrogatorio alla ricerca di notizie e dati sull'organizzazione interna alla fabbrica. Il volantinocomunicato descrive la biografia del sequestrato; si riportano le sue affermazioni sull'organizzazione del lavoro, si ricorda la «sua attiva collaborazione al controsciopero» dei dirigenti, lo sfondamento di un picchetto operaio. Mincuzzi è definito un «gerarca in camicia bianca, è della stirpe di Macchiarmi...»99. Insieme alle minacce, le indicazioni di lavoro: «impariamo a conoscere a uno a uno i nostri nemici, a controllarli e a punirli». Mincuzzi è sottoposto a un lungo

interrogatorio: tempi di lavoro, organizzazione interna, passaggi di categoria. Nelle descrizioni che il dirigente dell'Alfa farà dei suoi rapitori, parlerà di modi gentili. Ha il setto nasale rotto ma, spiega Mincuzzi, forse non sarebbe successo se non avesse reagito. Descrivendo il brigatista che lo ha interrogato lo definisce un «raffinato intellettuale». Gli inquirenti pensano sia stato lo stesso Renato Curdo, dopo 25 mesi le indagini si concluderanno con la richiesta di rinvio a giudizio per il capo delle Br, e insieme a lui per Mara Cagol, Franceschini, Morlacchi, Saugo, Semeria, Simioni e Troiano. All'Alfa l'azione brigatista è giunta improvvisa. A differenza della Sit-Siemens non ci sono stati precedenti segnali di presenza terroristica. Ma proprio all'Alfa è in atto un passaggio decisivo nella storia dei gruppi. L'Assemblea autonoma ha ormai troncato con Lotta continua ed è diventata un punto chiave della nascente Autonomia organizzata. Nel frattempo le Br lavorano ai fianchi e dentro l'assemblea sospingendo le sue frange più estreme verso la china della lotta armata. Per le Br la polemica politica non si fa con gli interventi ma costringendo a discutere della violenza sulla base delle loro azioni «esemplari». Di fronte al sequestro Mincuzzi la risposta operaia si manifesta incerta e senza la piena consapevolezza di quello che significa il terrorismo rosso. Le Br lanciano un appello allodio, cercano di far leva sulla conflittualità interna alla fabbrica, sanno che non è facile costruire solidarietà attorno a chi gli operai considerano responsabili del proprio sfruttamento. In questa fase il terrorismo non attaccando direttamente né lo Stato, né la classe operaia — come accadrà negli anni successivi —rende più diffìcile la percezione della sua vera natura. I partiti si interrogano sulla natura dell'attentato. Al di là delle condanne si naviga nell'indeterminatezza. Del tutto approssimativa l'analisi de «l'Unità»: «una banditesca organizzazione che agisce con metodi delinquenziali il cui scopo è quello di alimentare la strategia della tensione» 100 grossolani appaiono alcuni generici riferimenti ai servizi segreti israeliani. Interessanti le osservazioni contenute nel commento dell'«Avanti!»: «i rapitori potrebbero definirsi "Brigate rosse", credendosi davvero di "sinistra" ...» 101. Il Manifesto prosegue nella sua rimozione e non esprime alcun giudizio; Avanguardia operaia insiste nella tesi del complotto. Lotta continua corregge i giudizi espressi a proposito del sequestro Macchiarmi e le riserve ancora presenti dopo l'incur-sione all'Ucid. L'azione delle Br è «appariscente e plateale», del tutto separata dalle esigenze della classe operaia, un atto che «s'inserisce molto bene in una catena di episodi attraverso cui, specialmente a Milano, si è cercato di rilanciare la strategia della tensione» 102. Violenta la reazione di Potere operaio che esalta l'azione terrorista: con il sequestro Mincuzzi si è colpita Finterà organizzazione del lavoro all'Alfa. Accomuna Lotta continua al Manifesto e prendendo a pretesto l'articolo Frutti di stagione, apparso sul quotidiano del

gruppo di Sofri, nel suo Opportunismi di stagione si lancia in una veemente requisitoria: «Non abbiamo il problema di difendere» — scrive «Potere operaio» — dei compagni che non hanno bisogno di essere difesi, o di offrire loro, da parte nostra un salvacondotto di appartenenza all'area della sinistra rivoluzionaria che già essi hanno dimostrato di possedere a buon diritto...» 103. Definisce la pratica armata delle Br: «una risposta in termini di attacco, come pure noi tendiamo alle lotte degli operai delle grandi fabbriche che hanno spinto in un budello molto stretto la possibilità capitalistica di risposta, che però è una possibilità che esiste e che già si vede funzionare nel progetto di distruzione delle emergenze politiche operaie attraverso un processo generale di riorganizzazione del lavoro» 104. Prese di posizione che non meravigliano, Potere operaio è entrato nella sua fase di scioglimento, ormai è nel tunnel della autonomia-terrorismo, la sua storia si sovrapporrà alla storia di «Controinformazione», di «Rosso», della costellazione dell'auto-nomismo, soggetto e oggetto dell'operazione Partito armato che troverà la sua massima espansione nella seconda metà degli anni settanta. Nell'ottobre del 1973 esce il numero zero di «Controinformazione», la rivista si caratterizza subito come il principale strumento teorico e documentale della lotta armata, la dirige Antonio Bellavita che in seguito riparerà in Francia e vi collabora, fra gli altri, Antonio Negri10?. Ormai Potere operaio procede per distinti spezzoni e ognuno per proprio conto sviluppa autonomi contatti con le Br, rapporti avviati sin dalla costituzione di Lavoro illegale. Bellavita così ricostruisce questa fase: «In quello stesso periodo seppi che il comitato esecutivo delle Br aveva rapporti con tre spezzoni diversi dell'ex Potere operaio; tutti e tre tra loro vantavano rapporti esclusivi con le Br...». Sul piano dell'ordine pubblico si avvertono sensibili cambiamenti. Il 21 novembre si conclude il processo a Ordine nuovo, fra i principali imputati Clemente Graziani ed Elio Massa-grande; il 23 novembre, con decreto ministeriale, il gruppo è sciolto. Il centro del dibattito politico nazionale ruota attorno alla proposta comunista del compromesso storico. L'economia italiana è sconvolta dai provvedimenti restrittivi legati all'austerità. A novembre i rinnovi contrattuali. Alla Fiat la situazione non si è mai normalizzata, sono continuate le manovre intimidatorie della dirczione aziendale e non sono cessate le forme di violenza interna. Al tavolo delle trattative fra la Fiat e i tré segretari confederali siede lo spettro della cassa integrazione. In fabbrica gli scioperi non riescono mentre la trattativa procede con lentezza. Il 10 dicembre 1973, terroristi travestiti da operai della Sip sequestrano il cavalier Ettore Amerio, capo del personale del gruppo automobili Fiat. Il suo nome figurava nel volantino distribuito dopo la «gogna» inflitta a Bruno Labate. E il

primo sequestro con una lunga detenzione, le Br rilasceranno il dirigente della Fiat dopo 8 giorni. Inizia la tecnica della gestione politica del sequestro: l'esame della reazione della stampa e delle forze politiche, la valutazione della risposta democratica, la «propaganda armata» che si modella sulle reazioni e sfrutta ogni debolezza. Il giorno del sequestro in una cabina telefonica un volantino spiega l'azione terroristica e detta le condizioni del rilascio. Amerio è detenuto in un «carcere del popolo», il suo «periodo di detenzione» sarà condizionato da tré fattori: il proseguimento delle manovre antioperaie alla Fiat; l'andamento degli interrogatori; «la correttezza e la completezza dell'informazione». Il volantino nella parte conclusiva analizza la fase: bisogna «battere l'attendismo» e accettare la guerra voluta dal capitalismo. Tutto ciò mentre aumentano le debolezze di un padronato che ha visto fortemente colpita dalla lotta operaia la sua capacità di sfruttamento, di dominio e di oppressione. Per le Br la crisi economica è crisi di potere del capitalismo, da essa si può uscire solo trasformandola nei «primi momenti di potere proletario armato, di lotta armata per il comunismo». Rivolgendosi al fronte di «resistenza», affermano perentoriamente: «Compromesso storico o potere proletario armato: questa è la scelta che i compagni devono oggi fare, perché le vie di mezzo sono state bruciate. Una divisione si impone in seno al movimento operaio, ma è da questa divisione che nasce l'unità del fronte rivoluzionario che noi cerchiamo l06. Luciano Lama su «!'Unità» getta l'allarme sulla gravita dell'episodio: «Chiunque si metta contro la legge da qualunque parte pretenda di essere, deve essere rapidamente colpito e punito» 107. Di avviso contrario Lotta continua che, nonostante le critiche precedenti persiste nei suoi sbandamenti: «Difficile trovare tra gli operai commenti pietistici nei confronti del rapito, del quale già le note di agenzia si preoccupano di informare che è malato di cuore. Si scopre che sono tutti malati di cuore questi funzionari del capitale; eppure adottano tranquilli senza infarti e senza lacrime licenziamenti di rappresaglia, i trasferimenti punitivi, le minacce, il lasciare senza lavoro decine di migliala di operai, ora è toccato a lui, non e'è nemmeno chi ci piange sopra, se non i suoi colleglli di sfruttamento» l08. Giudizi che suscitano gli apprezzamenti di «Controinformazione» che nella sua ricostruzione dei fatti denuncia l'uniformità dei commenti della stampa, una condotta che segue pedissequamente le «veline del Ministero degli Interni». Unica eccezione — sottolinea la rivista — «Lotta continua». Intanto proprio in quei giorni la De presenta una proposta di legge a firma Bartolomei contro i sequestri. «I licenziamenti non resteranno impuniti ! », con questa parola d'ordine si apre il secondo comunicato, lo stesso in cui si rivela che il «detenuto Amerio sta "collaborando" in modo soddisfacente». Si da notizia dei suoi collegamenti con il sindacato giallo del Sida, dei meccanismi di corruzione interna, e delle assunzioni

direttamente controllate dai fascisti. Le Br promettono altre rivelazioni e lanciano un nuovo messaggio al movimento: «sono questioni che possono essere affrontate e risolte solo con uno scontro di potere, uno scontro che è di conseguenza politico e armato. Noi non pensiamo di risolverlo "in proprio" con una nostra piccola guerra privata. Al contrario la nostra azione è fortemente unitaria con tutte le componenti del movimento operaio che operano nel senso della costruzione nelle fabbriche e nei quartieri di un reale Potere operaio e popolare armato» 109. Proseguendo nella gestione politica del sequestro il gruppo infittisce la campagna di propaganda, volantini-comunicati sono diffusi alla Fiat, all'Ansaldo nucleare di San Pierdarena, alla Sit-Siemens di Milano, alla Breda di Porto Marghera e di Sesto San Giovanni, all'Alfa di Arese, a Piacenza, a Modena e in altre realtà. Non mancano azioni di tracotante spettacolarità come i comizi volanti trasmessi da altoparlanti davanti ai cancelli della Breda, di Porto Marghera e della Sit-Siemens. Mentre la polizia naviga nel buio, circondata da un inconcludente black-out stampa e da inutili nervosismi repressivi, cresce il mito dell'imprendibilità delle Br e della loro forza. Dopo il ritiro da parte di Agnelli delle minacce di cassa integrazione, il 18 dicembre, il rilascio del capo del personale Ettore Amerio. Le Br fanno il bilancio politico dell'intera operazione terroristica. Il risultato è ritenuto soddisfacente: per la collaborazione ricevuta da Amerio, per il ritiro della minaccia di cassa integrazione da parte della Fiat, per la sconfitta subita dalle forze di polizia, e infine perché nonostante le «manipolazioni» e le falsificazioni la stampa non è riuscita a «nascondere la qualità politica» dell'azione. Confermando le precedenti analisi, secondo le Br, si è alla vigilia di «una profonda crisi di regime che è soprattutto crisi politica dello stato e che tira verso una rottura istituzionale» verso un mutamento in senso reazionario dell'intero quadro politico». Con la baldanza dei vincitori la parola d'ordine è «costruire nelle grandi fabbriche e nei rioni popolari i primi centri del Potere operaio proletario armato» 110. Il sequestro Amerio ha messo in luce limiti gravi nella comprensione della natura e della matrice del terrorismo. Su questa incapacità pesa una forte componente di rimozione presente non solo nei giudizi ancora grossolani del Pci, ma anche in quelli di un gruppismo che ha visto nel suo stesso seno crescere spinte centrifughe verso il mito della lotta armata. A differenza del Manifesto e di Avanguardia operaia che insistono in un' ingenua e astratta presa di distanza dal terrorismo di sinistra, liquidandolo come frutto di un presunto complotto, Lotta continua torna sul centro della polemica con le Br: il problema non è la loro matrice, esse infatti sono parte della sinistra extraparlamentare, quanto la loro concezione della violenza. «Si perda meno tempo a sostenere la peregrina ipotesi che le Brigate rosse siano un'articolazione

della pista nera, e che magari Amerio sia stato rapito da Ameno stesso: ci si impegni di più a spiegare chi è Amerio, che cosa è lo spionaggio Fiat, che cosa sono i licenziamenti, quale il pulpito "democratico" dal quale predicano i sacerdoti dell'ordine padronale. Si scelga, cioè, di parlare alle masse, e con il punto di vista delle masse coscienti. Che non hanno nessuna intenzione di buttar via, con l'acqua sporca dell'avventurismo piccolo-borghese, il problema vivo e serio della violenza proletaria» 111. Pochi giorni dopo il rilascio di Amerio è arrestato Antonio Savino, insieme alla moglie sta scrivendo sui muri della Fiat scritte inneggianti alle Br. E il primo dei brigatisti interni alla fabbrica che viene scoperto. Lavora alle officine meccaniche, è entrato alla Fiat negli anni della contestazione, non si è messo molto in vista anche se ha partecipato attivamente a tutte le lotte. Risulta iscritto al Pci, membro del direttivo della sezione Mirafiori. Il suo avvicinamento alle Br è frutto dell'influenza esterna del gruppo di Borgomanera di cui fanno parte Buonavita e il medico Levati. Ha contestato i primi episodi di violenza delle Br ma dopo il sequestro Labate ha manifestato i primi vacillamenti: in fondo questi «terroristi» colpiscono nella giusta dirczione. Insieme a lui in quegli anni lavorano alla Fiat altri due brigatisti che rincontreremo nella storia del terrorismo Basone e Piancone. Personalità molto diverse fra loro. Come Savino sono stati assunti negli anni dell'esplosione delle lotte operaie. Anche Basone nel '72 è entrato nel Pci, farà parte del direttivo della sezione Fiat-Mirafiori. Contesta i primi episodi di violenza delle Br ma dopo il sequestro Labate nascono le incertezze, forse questi «terroristi» non hanno tutti i torti, si allontana dalla milizia attiva e contesta sindacato e partito. La-scierà la fabbrica nel '75, dopo un anno sarà arrestato a Milano insieme a Curcio. Piancone è una personalità rissosa e inquieta, vaga da gruppo a gruppo. E licenziato per assenteismo. Un «onore» per un estremista che teorizza il rifiuto del lavoro. Riassunto alle presse riuscirà persino a farsi eleggere delegato. Arriverà a iscriversi al Pci nel '76. Un rapporto difficile, Piancone contesta apertamente il partito ed è più volte richiamato alla disciplina, certamente una mimetizzazione non ben riuscita ma non ininfluente nel gioco di sponda portato avanti dalle Br. Licenziato di nuovo per assenteismo lascia definitivamente la fabbrica per la piena clandestinità.

7. Dal sequestro Sossi all'assassinio di Padova

Dal punto di vista delle Br il sequestro Amerio segna un netto successo. Per una settimana hanno tenuto sotto scacco le forze dell'ordine mentre la stampa, ignorando totalmente l'invito dei familiari di Amerio, ha enfatizzato il loro ruolo e funzionato da amplificatore ai loro messaggi. La stessa conclusione del sequestro concorre a dare delle Br non il mortale volto dei signori della guerra che assumeranno negli anni di piombo quanto l'im-magine baldanzosa e giustizialista di moderni Robin Hood. I gruppi, al di là dell'arco di posizioni che hanno espresso sono stati costretti a discutere e non possono prescindere dalla realtà della lotta armata imposta dalle Br. Intanto sul quadro politico italiano continuano a gravare le ombre di una involuzione in senso autoritario. Nel tradizionale discorso di Capodanno del presidente della RepubblicaGiovanni Leone, molti commentatori scorgono il riaffiorare di tentazioni da repubblica presidenziale. Il Pci denuncia i rischi che incombono sulla democrazia. Il nuovo anno inizia con la tempesta della questione morale. Mentre ai lavoratori si chiedono sacrifìci, per fronteggiare la grave situazione economica, tutti i partiti di governo sono coinvolti nello scandalo dei petroli e dei fondi neri della Montedison. Uno spettacolo indecoroso per tutto il sistema democratico. A Genova, alla conferenza operaia (8-10 febbraio '74), il Pci passa in rassegna lo stato del processo riformatore. Nella relazione introduttiva Ferdinando Di Giulio prospetta la necessità di un modello alternativo di sviluppo e rivendica una nuova dirczione politica. Enrico Ber-linguer nelle conclusioni esplicita ulteriormente la strategia del compromesso storico, una proposta per cambiare gli indirizzi economici, politici e sociali nel paese e «rimettere sui binari della Costituzione lo stato nato dalla resistenza». Dopo un combattivo sciopero operaio, Ugo La Malfa criticando l'avventuri-smo dei sindacati e non risparmiando critiche ai partner socialisti, si dimette dal governo provocandone la caduta. La crisi trova una temporanea ma instabile soluzione nel governo Moro. Sui rapporti fra le forze politiche incombe l'incognita del referendum sulla legge sul divorzio. Pantani, i settori più oltranzisti della De e il movimento sociale di Almirante sono gli alfieri di un integralismo dai toni quarantotteschi. Le Br proseguono nella loro «propaganda armata». Alla Sit-Siemes, il 16 gennaio '74, l'incendio dell'auto del dirigente Valentino Spataro. A Mestre, il 4 marzo, l'irruzione nella sede della Cisnal. A Sesto San Giovanni (Milano) l'incendio

dell'auto di Giuseppe Lunghi direttore della Breda. A Torino, il 30 marzo '74, l'incendio dell'auto di Agostino Belsito vicedirettore della Singer. Anche Avanguardia operaia è coinvolta nelle indagini sul terrorismo di sinistra. A Greve in Toscana nella «cinquecento» di un militante sono ritrovati documenti intitolati Note per la formazione di Unità operative: plotoni. La notizia suscita molte perplessità. L'inchiesta che si estende in varie città non darà alcun risultato. Nell estremismo si parla di provocazione dello Stato per criminalizzare la nuova sinistra. Simbolo della repressione diventa il magistrato genovese Mario Sossi, il protagonista del processo contro il gruppo 22 Ottobre. Nelle manifestazioni di piazza i militanti gridano «Sossi, fascista, sei il primo della lista!». Lo slogan riecheggia nell'aula del tribunale di Genova al processo d'appello che si apre nel marzo. Agli imputati fa da coro un folto gruppo di spettatori. Il processo si conclude con la conferma dell'egastolo per Mario Rossi responsabile dell'assassinio del fattorino Floris. Con l'opuscolo Contro il neo-gollismo portare l'attacco al cuore dello Stato, dell'aprile '74, ancora un aggiustamento teorico delle Br. Punto di partenza l'aggravamento della «crisi di regime», da cui deriva il progressivo «processo di controrivoluzione, nel tentativo di distruggere il movimento delle lotte e i livelli di organizzazione autonoma e rivoluzionaria». E in questo quadro — secondo le Br — che l'offensiva padronale e capitalistica si sposta sempre di più fuori della fabbrica: «Ora, se nelle fabbriche l'autonomia operaia è abbastanza forte e organizzata per mantenere uno stato di permanente insubordinazione e conquistarsi il proprio spazio di potere via via crescente, fuori della fabbrica essa è ancora debole al punto di non essere in grado di opporre una resistenza agli attacchi della controrivoluzione. Per questo le forze della controrivoluzione tendono a spostare la contraddizione principale fuori della fabbrica ed impegnare le battaglie decisive per isolare lo scontro di potere dentro le fabbriche e poterlo più facilmente controllare per poi distruggere...» lu. Secondo il documento la linea della controrivoluzione non si presenta in modo univoco. Al suo interno, infatti, si scontrano due diverse impostazioni: la linea golpista e il progetto neogollista di «riforma costituzionale». Nella specificità della situazione italiana quest'ultima tende a prevalere. Dietro «le parvenze e la forma della democrazia borghese, pur calpestandone la sostanza», il progetto «neogollista è un progetto armato che punta alla crescente militarizzazione del potere. Per questo sirafforza il controllo sui centri nodali dell'apparato statale, quei corpi separati dello stato che spesso hanno operato in modo discordante, riconducendoli progressivamente ad una nuova disciplina» 113. Per le Br l'esempio più clamoroso di questa ristrutturazione è offerto dalla magistratura: «II neogollismo sta tentando di realizzare ciò che neppure il fascismo era riuscito a fare costruire una precisa identità tra i propri interessi di potere e la "legge"». I

teorici del gruppo si rivolgono — dunque — ai militanti di un estremismo che ha sempre visto nella Magistratura il braccio esecutivo della campagna d'ordine e repressiva del potere. Proprio in quel periodo nel Parlamento si discute con accanimento l'ipotesi di nuove e più restrittive norme per lordine pubblico e il movimento extraparlamentare è ossessionato dalla cosiddetta "germanizzazione" dello Stato. Il documento delle Br fa esplicito riferimento al referendum sul divorzio. Per il neogollismo è 1 occasione per mettere in pratica i suoi disegni di «riforma costituzionale» e stringere in un patto di ferro tutta la destra. Con la vittoria della De l'involuzione si concretizzerebbe immediatamente in una «piattaforma di ordine democratico» di segno reazionario e finalizzata a ristabilire il dominio integrale della borghesia 114. La liquidazione del centro-sinistra e il generale clima di insicurezza sono componenti decisive della linea della De; entrambe, continua il documento, servono per dare credibilità a un partito che vuole presentarsi come unico garante della «tranquillità economica e politica» e dell'ordine. In questo disegno l'iniziativa controrivoluzionaria è assunta direttamente da quel «blocco di potere interno allo Stato» contro cui le Br intendono concentrare il massimo dell'attacco. Dunque, occorre forzare «la ragnatela del passato e superare l'impostazione tradizionale dell'antifascismo militante». Ma, concludono le Br, sarà impossibile vincere senza superare «la fase spontanea e organizzarsi sul terreno del potere. E la classe operaia si conquisterà il potere solo con la lotta armata». Il 18 aprile '74, una data simbolo, non solo il richiamo allo storico 18 aprile del '48 ma lo stesso giorno ai vertici della Confindustria si insedia l'avvocato Gianni Agnelli, un Gommando composto da sei brigatisti sequestra il magistrato Mario Sossi. Inizia una lunga gestione politica: 35 giorni di prigionia per il magistrato genovese. Per la prima volta nella storia del terrorismo lo Stato si troverà di fronte al bivio della trattativa. Se ne avvertono subito gli effetti devastanti: opinione pubblica, forze politiche e magistratura ne usciranno divisi e manifesteranno le prime avvisaglie del cedimento. Il clima referendario non giova alla comprensione del salto di «qualità» compiuto dal terrorismo «rosso». L'asprezza dello scontro in atto produce strabismo nella valutazione del sequestro e al giudizio sulla gravita dell'azione non si accompagna un comune orientamento delle forze politiche sulla matrice dell'azione. La condanna democratica non riesce a liberarsi dalle ipoteche degli scenari politici. «Il Manifesto» offre un esempio clamoroso di questo impaccio: «i provocatori fascisti che hanno rapito Sossi minacciano di ucciderlo fingendo il ricatto politico. E la stessa mano della strage di stato che ora sfrutta la tensione del referendum» 115.

Anche per la sinistra è una provocazione tesa a influenzare negativamente l'esito del referendum: Enrico Berlinguer afferma: «si vuole creare tensione e paura» per attentare all'ordine democratico; «fascismo» commentano i leader della sinistra resistenziale Amendola e Terracini; «chi fa opera di provocazione contro la sinistra deve ammantarsi di piume mimetiche» scrive 1'«Avanti!». All'indomani del sequestro giunge il primo comunicato. Vi è descritta la figura del sostituto procuratore e il suo ruolo di agente della controrivoluzione: «un persecutore fanatico della classe operaia, del movimento degli studenti, dei commercianti, delle organizzazioni della sinistra in generale e della sinistra rivoluzionaria in particolare» u6. La ricostruzione della carriera di Sossi è puntigliosa. Ancora universitario la presentazione per due volte nelle liste del Fuan, successivamente il suo ruolo in magistratura. Nel dicembre '69, applicando le norme del codice Rocco, arresta Finterò comitato direttivo del Pcd'I (m-1) per «cospirazione contro lo Stato. Nel febbraio '70, le sue polemiche sul diritto di sciopero fino alla denuncia dell'intera commissione interna degli ospedali psichiatrici di Quarto e Cogoleto per «abbandono collettivo del posto di lavoro». Nell'ottobre '70, l'arre-sto per rapina di tré studenti rei di aver fatto consumare il pasto gratis ai loro compagni della Casa dello studente. Nel novembre '71, il comunicato ricorda ironicamente, il ruolo di moralizzatore di Sossi quando processa per direttissima 9 giornalai con l'im-putazione di aver esposto pubblicazioni oscene. Nell'agosto '72, dietro consiglio del Sid e in base all' «infame memoriale Piset-ta», il nuovo mandato di cattura nei confronti di Giambattista Lazagna per impedirne il rilascio in libertà provvisoria. Infine il processo contro «il gruppo rivoluzionario 22 Ottobre». Per Sossi non si tratta di giudicare un crimine ma di condannare quello che dal suo punto di vista è il crimine per eccellenza «essersi rivoltati con le armi in pugno ali ordine e alle leggi della borghesia». Per lui, agente primo della controrivoluzione, il processo diventa «processo di regime». La dettagliata cronistoria della carriera di Sossi vuole rivolgersi a tutto l'estremismo, costringerlo a mettere in pratica lo slogan «Sossi, sei il primo della lista». Ora il magistrato è prigioniero nel «carcere del popolo», sottoposto a giudizio per le sue responsabilità. Dunque le Br chiamano a raccolta le forze del sovversivismo e polemizzando, senza farne esplicita menzione, con la linea propugnata dal Pci concludono il loro volantino-comunicato con un appello a trasformare «la crisi di regime» in lotta armata: «Nessun compromesso è possibile con i carnefici della libertà. E chi cerca e propone il compromesso non può parlare a nome di tutto il movimento operaio. Compagni entriamo in una fase in cui il compito principale delle forze rivoluzionarie è quello di rompere l'accerchiamento delle lotte estendendo la resistenza e l'iniziativa armata ai centri vitali dello stato» 117. Coglie l'insidia presente nella scelta dell'obiettivo Lotta continua che giudica il sequestro una sfida a tutto il movimento. A destra si tenta la carta della

criminalizzazione indistinta, alcuni giornali con evidenti intenti allarmistici scrivono che il governo si accingerebbe a mettere fuori legge alcuni gruppi extraparlamentari. Alla tensione provocata dal sequestro si aggiunge quella prodotta dalla tentata strage del 21 aprile: le bombe sono sistemate sui binari della Bologna-Firenze, fortunatamente l'eccidio è evitato dal blocco automatico. Rivendicano l'attentato sedicenti Brigate popolari-Ordine nuovo. Di lì a poco ancora una falsa attribuzione: un presunto verbale dell'interrogatorio di Sossi firmato Nucleo romano delle Brigate rosse. Il 23 aprile le Br diffondono un secondo comunicato. Riporta il testo precedente, unica novità la precisazione: «facciamo presente che solo i comunicati battuti con la macchina che ha firmato il primo sono autentici». E minacciose aggiungono: «non si tratta di un gioco e le false informazioni possono solo aggravare la posizione del prigioniero» 118. Insieme al comunicato una fotografìa e un messaggio di Sossi; il magistrato chiede la sospensione di ricerche «inutili e dannose». Nel paese la reazione democratica è contraddittoria. Sulla matrice dell'azione terrorista fra il fronte divorzista e la De la polemica è senza esclusione di colpi. Anche il sindacato stenta a dare una risposta di massa, gli scioperi sono modesti e scarsamente partecipati. Alla Sit-Siemens, fabbrica in cui si erano manifestate le prime apparizioni delle Br, il consiglio di fabbrica pur denunciando il carattere antidemocratico e provocatorio del sequestro nei suoi volantini continua a scrivere di «cosidette» Br e arriva persino a prospettare la complicità della dirczione aziendale circa i ritrovamenti interni alla fabbrica e la scoperta sul tetto di un capannone di un registratore che diffondeva comunicati del gruppo terrorista 119. Concorre ad aumentare lo stato d'incertezza la sfiducia nel quadro democratico. Tra i lavoratori, troppi fatti lo hanno drammaticamente confermato, è netta la sensazione che dietro le quinte della legalità democratica e nascoste in punti chiave deU'apparato statale molte forze lavorano a ordire torbidi complotti. Per il sindacato è una prova difficile, ma il passaggio sarà decisivo per la difesa del quadro democratico. Anche fra i corpi dello Stato inizia una forte polemica. Feroci gli scambi di accuse fra magistratura e forze dell'ordine. Su «L'Espresso» Federico D'Amato, capo della Direzione generale sicurezza interna, attacca giudici e Sid: «Ma che fantomatici, noi li conosciamo, li arrestiamo, e la magistratura li libera [...] Pisetta era uno del gruppo, poi intervenne il Sid e rovinò tutto» 120. Le ricerche brancolano nel buio, così scrive il quotidiano «Paese sera»: «II contrasto tra polizia e magistratura rischia comunque di creare una situazione di pericolo... Alla fine è stato detto che la macchina della giustizia investigativa sarebbe stata bloccata ma nello stesso tempo è stata lanciata la più grossa operazione preventiva degli ultimi anni con 4.000 uomini armati di mitra. Intanto

gli investigatori, si barcamenano, promettendo il blocco dell'inchiesta e invece preparano "blocchi stradali". Non è uno Stato che si arrende, è uno Stato che non sa che pesci prendere» u1. E passata meno di una settimana dal rapimento quando il terrorismo svela il suo disegno: legittimarsi come forza combattente nei confronti dello Stato. A modificare la situazione interviene il comunicato dei Gap genovesi: per Sossi non occorrono processi; la parola d'ordine, chiedono i Gap alle Br, deve essere una sola «Fuori Rossi o morte a Sossi». Il 26 aprile, le Br con il loro terzo comunicato fanno proprio 1 obiettivo proposto dai Gap. Lo Stato non si faccia illusioni, scrive il volantino, nessun ottimismo sulla «gradualità» del rilascio di Sossi «punto irrinunciabile del programma politico delle Br è la liberazione di tutti i prigionieri politici» 122. Le indagini procedono in modo confuso. Anche Lotta continua ne rimane coinvolta, il pretesto è un volantino del circolo 22 Ottobre legato al gruppo in cui si chiede la liberazione del-l'anarchico Giovanni Marini. Sarà proprio quest'ultimo a precisare che non esiste nessun collegamento fra una sua eventuale liberazione che deve scaturire solo dal processo e il rapimento Sossi. Intanto le oltre 500 perquisizioni, operate dal generale Dalla Chiesa ad insaputa della magistratura non danno alcun esito. A dieci giorni dal sequestro II «Corriere della sera» scrive: «Le Br sembrano vincere su tutta la linea. Vincono materialmente perché il magistrato è ancora nelle loro mani, vincono politicamente perché stanno seminando lo scompiglio nella struttura statale» 123. La polemica si sposta sulla richiesta di scambio. Il sostituto procuratore Mario Sossi, il 30 aprile, dal «carcere del popolo» invia un secondo messaggio alla moglie. La invita a proseguire nel suo impegno affinchè «ognuno» assuma le sue responsabilità. Il messaggio è esplicito: «Non sono soltanto io responsabile dei miei errori». Il riferimento di Sossi è a Francesco Coco e ai vertici della magistratura genovese. Gran trambusto nella magistratura. Interviste, dichiarazioni e prese di posizione danno un quadro di incertezza, polemiche, allusioni. Si cerca di imporre il black-out stampa, ma l'appello cade nel vuoto, tutti i giornali continuano a descrivere la grande confusione e l'imbarazzo, a commentare l'azione delle Br. Intanto spavaldamente e a riprova della sua forza organizzativa e della sua imprendibilità il gruppo porta a compimento due nuove azioni. Il 30 aprile, a Torino, due uomini armati irrompono negli uffici del Centro studi don Sturzo e dell'onorevole democristiano Giuseppe Costamagna, imbavagliano l'impiegato Giancarlo Fava e sequestrano gli archivi. Lo stesso giorno, a Milano, un Gommando Br assalta la sede del Movimento di resistenza democratica, fondato da Edgardo Sogno, imbavagliano gli impiegati e si

appropriano degli schedarii Con questa azione, spiegano le Br, si è voluto offrire un' indicazione concreta al movimento armato colpendo: «II comitato di resistenza democratica che attualmente è la più attività centrale dell'imperialismo Usa in Italia, e i Centri Sturzo della Democrazia cristiana legati al Crd ma "specializzati" nelle funzioni di ponte col Msi» w. I setacciamenti alla ricerca di Sossi non danno alcun risultato. Una ridda di illazioni. L opinione pubblica comincia a interrogarsi sulla sorte del magistrato. L'avvicinarsi della scadenza elettorale accresce le preoccupazioni. Incuranti delle indagini le Br continuano la diffusione del loro materiale di propaganda in tutte le principali città. Con il quarto comunicato, diramato il 5 maggio, i terroristi chiedono lo scambio di Sossi con i detenuti del gruppo 22 Ottobre. L'interrogatorio del detenuto è concluso, le Br hanno sentito «la sua versione dei fatti, la sua autodifesa, la sua autocritica», è venuto dunque «il momento delle decisioni». Il comunicato parte dai risultati dell'interrogatorio. Sossi ha ammesso di aver progettato insieme a polizia, carabinieri, magistratura e Sid una macchinazione controrivoluzionaria contro il gruppo 22 Ottobre. Dopo aver riconosciuto le sue responsabilità «ha puntato il dito contro chi, protetto dalla grande ombra del potere, lo ha pilotato in questa miserabile avventura: Francesco Coco procuratore della Repubblica». Tuttavia ce ancora una via d'uscita — dicono le Br — lo scambio dei prigionieri politici: Mario Rossi, Giuseppe Battaglia, Augusto Viel, Rinaldo Fiorani, Silvio Malagodi, Cesare Maino, Gino Piccardo, Aldo de Scisciolo. Una precisazione importante, nulla deve essere nascosto: «non ci saranno trattative segrete». Forse già è in atto un tentativo di scambio. Infine fissano le modalità del rilascio, i «prigionieri politici» dovranno essere liberati insieme in uno dei seguenti paesi, Cuba, Corea del Nord, Algeria. La conclusione ha il tono dell'ultimatum: «Garantiamo l'incolumità del prigioniero solo fino alla risposta. In una guerra bisogna saper perdere qualche battaglia. E voi questa battaglia l'avete persa. Accettare questo dato di fatto può evitare ciò che nessuno vuole ma che nessuno può escludere» w'. In Italia è la prima volta che il terrorismo sfida apertamente lo Stato. Di fronte al grave ricatto i commenti politici sono tutti improntati alla linea della fermezza: cedere significa legittimare il terrorismo, scardinare i principi della democrazia e distruggere la repubblica costituzionale. La famiglia Sossi prende l'iniziativa, il suo legale l'awocato Marcellini afferma polemicamente che le difficoltà sono solo di ordine politico e non giuridico-tecnico. Anche sulla stampa iniziano a farsi strada ipotesi che guardano alla trattativa: si fa riferimento ad altri cedimenti dello Stato in presenza di azioni del terrorismo internazionale 126, alcuni prospettano varie soluzioni giuridiche fra cui il ricorso alla cosidetta legge Valpreda. Il

sindacato di fronte alla sfida terroristica e per «respingere ogni ricatto» proclama per il 10 maggio lo sciopero generale nella città di Genova. Discordanti le voci della magistratura. Per Francesco Coco, procuratore della Repubblica, cedere non significa salvare la vittima. Molti magistrati — al contrario — sostengono che lo Stato di necessità renderebbe praticabile e giuridicamente valido il rilascio dei detenuti del gruppo 22 Ottobre. Dalla prigione brigatista arrivano altri messaggi di Sossi. Sono indirizzati alla famiglia e alla stampa, invitano alla trattativa: «non intendo pagare gli altrui errori». Si susseguono vertici e indagini inconcludenti. Rispondendo al messaggio della signora Sossi, Paolo VI dalla radio vaticana si rivolge direttamente «agli uomini ignoti che tengono sequestrato il giudice Mario Sossi». Intanto cresce il fronte della trattativa, incoraggiano le disponibilità che si manifestano nella magistratura le autorevoli dichiarazioni di Riccardo Lombardi e Umberto Terracini. Per il primo la decisione spetta solo alla magistratura; il secondo, in contrasto con la linea del Pci, si schiera a favore del rilascio dei detenuti pur di salvare la vita a Sossi. Si raccolgono fondi da offrire alle Br in cambio della liberazione; la famiglia cerca canali diretti con i terroristi; a Genova si svolge una marcia silenziosa per salvare la vita di Sossi. Dopo quattro giorni dal primo ultimatum, il 9 maggio, il comunicato n. 5 delle Br fa il punto della situazione. L'esordio è durissimo: «Non trattiamo con i delinquenti!». L'attacco è diretto a Taviani, ministro degli Interni. Dietro la sua difesa dello Stato non ci sono altro che «bassi motivi di delinquenza». A Genova sotto la sua protezione si svolge un intenso traffico di armi, una rete che vede compiici magistrati e polizia. Dopo aver lanciato vari messaggi cifrati, le Br scrivono: «E si capisce anche perché Taviani preferirebbe oggi fare di Sossi un "eroe morto"; se necessario su questa squallida vicenda potremo fornire anche una documentazione dettagliata» m. Le Br, hanno ben compreso quale è il punto più critico del fronte della fermezza: spetta alla magistratura concedere la libertà provvisoria agli otto detenuti del 22 Ottobre. Non e' è dubbio, le Br hanno ottenuto da Sossi molte notizie, su questo la stampa si interroga, a cosa si riferiscono i terroristi quando minacciano precise documentazioni? 128. Intanto Sossi che conosce la linea dura dell'Unione magistrati italiani comunica la sua decisione di dimettersi dal-l'associazione. A Genova lo sciopero del 10 maggio vede una scarsa partecipazione. Scrive «Lotta continua»: «L'iniziativa delle confederazioni sindacali. [...] è stata ovunque praticamente disertata dagli operai che ne hanno colto l'ambiguità»m. L'ambiguità a cui si riferisce consiste nel fatto che a due giorni dal voto referendario «i più squalificati democristiani» hanno potuto parlare in fabbrica e farsi alfieri della difesa delle istituzioni. Ancora più duro il volantino diffuso all'Ansaldo dall'Autonomia organizzata: «Nessuna solidarietà!». Nel tono e negli argomenti riprende l'indicazione del comunicato n. 5: «la classe operaia di Genova deve scioperare non a fianco di Taviani ma per la liberazione degli 8 compagni del 22 Ottobre». La rivista «Rosso» analizzando criticamente lo sciopero fa esplicito

riferimento al Pci e al referendum: per non liquidare definitivamente la linea del compromesso storico occorreva al Pci una forzatura per dimostrare la sua capacità di controllo sulla classe operaia «fino al punto di ridurla a un pietoso ossequio nei confronti dello stato democratico» "°. Lo stesso giorno dello sciopero sindacale la rivolta dei detenuti nel carcere di Alessandria si conclude con la morte di sei detenuti. La rivista «Panorama» riporta un'agghiacciante affermazione del procuratore generale Reviglio che ha ordinato di mettere fine alla rivolta: «non si poteva ammettere che lo Stato venisse ancora calpestato. E stata un'azione meravigliosa condotta in modo magistrale» 131. Alla luce di quanto avvenuto ad Alessandria il ministro Taviani conferma il rifiuto ad ogni trattativa da parte dello Stato. Il 12 maggio, i No vincono il referendum sul divorzio: è la vittoria della ragione. Continua la lunga agonia per la sorte di Sossi. Le prese di posizione si alternano. La signora Sossi dichiara: «lo Stato ha condannato a morte mio marito». Lotta continua lascia intendere che ormai sono in molti a volere la morte di Sossi. Un interesse che non è delle Br ma degli apparati dello Stato. Sulla stampa di destra si fa il nome di frate Girotto come possibile intermediario nei confronti delle Br per la salvezza di Sossi. Sono gli stessi giornali che qualche mese prima avevano accreditato la figura del frate guerrigliero pubblicando un suo memoriale e ampie notizie biografiche. Forse molti già sanno che Girotte è un infiltrato nelle file del terrorismo. Le Br tacciono da quasi una settimana, quando con un colpo a sensazione, il settimanale «L Espresso» pubblica una lunga intervista di Mario Scialoja con i terroristi m. Le Br rispondono alle critiche mosse dai gruppi extraparlamentari e chiariscono che il loro attuale punto di riferimento sono quei gruppi che non si schierano con le correnti «neopacifiste». Precisando il loro antirevi-sionismo non tagliano i ponti: la lotta armata coinvolgerà lo stesso Pci o «per lo meno la sua anima comunista». Parlano di rischi di infiltrazioni e della loro organizzazione, della debolezze dello Stato e delle prospettive armate, puntualizzano le loro peculiarità rispetto ad altri gruppi del terrorismo internazionale. Il 18 maggio diffondono un nuovo comunicato, il numero 6, quello della condanna a morte. E trascorso un mese dal sequestro, il processo al detenuto ha dato i suoi risultati, se non saranno liberati gli otto prigionieri politici Mario Sossi sarà giustiziato per i reati che egli stesso ha confessato. I difensori del gruppo del 22 Ottobre sono incerti. Rompe le esitazioni l'avvocato della famiglia Sossi che presenta l'istanza di scarcerazione. Il 20 maggio un brusco colpo di scena: la Corte d'Assise d'appello di Genova concede d'ufficio la libertà provvisoria e il nulla osta per il passaporto agli otto imputati del 22 Ottobre, la condizione è che sia assicurata l'incolumità e la liberazione del giudice Sossi. Ora la parola spetta al governo. Le reazioni offrono un variegato campo di posizioni. A quelle ufficiali dei partiti si aggiungono, spesso con accentuazioni diametralmente

opposte, le dichiarazioni a titolo personale. Ma la contraddizione principale è fra potere politico e magistratura; ed è su questa che le Br — sin dall'inizio — hanno fatto leva per evidenziare la «sostanza del progetto neogollista». All'indomani della decisione della Corte d'Assise, Magistratura democratica aveva espresso solidarietà con quei giudici che avevano saputo prendere una decisione tanto difficile e — polemizzando con la linea dura — aveva aggiunto: «evidentemente non è stato sufficiente l'esempio doloroso della strage del carcere di Alessandria e si ritiene che 5 vite non bastino a salvare un malinteso prestigio di stato». Arbitro della situazione diventa il procuratore generale Francesco Coco. E contrario al provvedimento, annuncia di presentare ricorso, ma al tempo stesso dichiara che se si verifìcasse-ro le condizioni in esso contenute non intende sottrarsi al suo dovere di eseguire 1 ordinanza. Ancora un comunicato Br e un messaggio di Sossi. Il magistrato è ancora vivo e sta bene, le Br definiscono le modalità del rilascio dei detenuti politici e quindi la liberazione di Sossi. Francesco Coco, appellandosi ai margini discrezionali che gli sono offerti, attende: prima Sossi vivo e poi si attuerà 1 ordinanza. Le Br comprendono la sostanza del «progetto Coco»: costringerle a una situazione di stallo arrivando così all'invalidazione dell ordinanza di libertà provvisoria da parte della Cassazione. Ma Curcio e i suoi non vogliono far ricompattare il fronte della fermezza, le scelte sono obbligate: «o liberare Sossi e costringere Coco a rimangiarsi le sue promesse dimostrando così che la legge è un puro strumento di potere o tenere prigioniero Sossi con la prospettiva di doverlo liberare o giustiziare qualche giorno dopo senza nessuna contropartita politica» w. Il 23 maggio 1974, dopo 35 giorni di sequestro, le Br rilasciano in un quartiere periferico di Milano il sostituto procuratore Mario Sossi. Nelle sue tasche oltre il biglietto ferroviario per Genova, il comunicato n. 8: «Perché rilasciamo Mario Sossi». Nessun pretesto alle manovre dilatorie di Coco e di chi lo copre, il procuratore generale di Genova è di fronte alla «sua» legge o liberare subito i militanti del 22 Ottobre o non rispettarla. Per Francesco Coco «l'ordinanza di scarcerazione è ineseguibile» in quanto non sono state rispettate le modalità dello scambio. Si prolunga l'effetto del sequestro. La decisione del procuratore di Genova suscita reazioni contrapposte, intanto tutta la stampa si interroga sulla condotta di Sossi e sulla scelta a sorpresa delle Br. «L'Espresso» così commenta la contraddizione apertasi con il rilascio di Sossi: «L'ultima mossa dei brigatisti [...] si sta rivelando la più scaltra del loro lungo duello con lo Stato italiano [...] Se lo avessero ucciso si sarebbero isolati totalmente [...] essi volevano porre l'opinione pubblica di fronte ad una drammatica domanda: è giusto reagire alla illegalità e alla violenza fìsica di un sequestro con la illegalità e la violenza della menzogna di Stato? Ci sono riusciti» 134.

8. Dal duplice assassinio di Padova agli arresti

Con il sequestro Sossi e la sua gestione le Br sono entrate prepotentemente nella scena politica nazionale, hanno agito da partito politico armato facendo leva sulle contraddizioni dello Stato svelandone le sue intrinseche debolezze. In molti passaggi hanno dimostrato addirittura di poter ricattare il sistema democratico non solo sotto la minaccia della morte ma anche annunciando rivelazioni sul suo grado di inquinamento. Alla presa di distanza del Manifesto, di Avanguardia operaia e in parte della stessa Lotta continua fa da pericoloso contrappunto il crescente interesse per le impostazioni del partito armato dei vari raggruppamenti dell'autonomia. Il Comitato politico operaio dell'Alfa Romeo, in un suo documento, riconosce alle Brigate rosse di «avere rimesso al centro dell'attenzione politica la teoria e la pratica della lotta armata e di aver sviluppato sulle contraddizioni interne allo Stato la propaganda contro di esso». Giudicato opportunistico il richiamo a un presunto «livello di coscienza medio delle masse» per accusare il gruppo terroristico di provocazione, tuttavia gli contesta, dialettizzandosi così sul terreno dell'organizzazione militare, la logica da «braccio armato» e quindi il distacco dal lavoro politico di massa: «Noi crediamo che lo sviluppo della violenza rivoluzionaria debba avvenire in stretto rapporto col movimento sotto la dirczione politica dell'autonomia operaia organizzata e che solo questa sia la condizione per sbagliare il meno possibile nella scelta degli obiettivi e dei tempi» 135. Analoga la critica del Cpo della Face Standard. Il passaggio alla violenza di massa organizzata non è separabile dal movimento e quindi dal consolidarsi all'interno di esso di specifici momenti di organizzazione del partito armato in stretto collegamento con lo sviluppo dell'autonomia operaia: «L approvazione può nascere solo da rapporti di forza costruiti in fabbrica se non vogliamo operare fughe alla Le vecchio stile (prendiamoci la città). Da questa concezione nasce la nostra critica alle Br: non "complesso d'inferiorità". Se infatti l'aspetto positivo dell'a-zione delle Br consiste nell'aver posto nella pratica il problema della lotta armata in un quadro generale di opportunismo dei gruppi, va affermato, però, con altrettanta chiarezza,

che, dall'a-naiisi sbagliata della situazione politica (neogollismo) i compagni delle Br derivano errori di fondo su obiettivi della loro azione, livelli organizzativi, tempi dell'azione militare. Questi errori portano a una logica gruppettistica (braccio armato, mancata organizzazione dei livelli di violenza spontanea di massa, nessun programma politico) e insurrezionale (attesa del momento fatidico della crisi del regime)» "6. Per i collettivi romani del Policlinico e dell'Enel le Br con la loro azione hanno fatto comprendere all'insieme della sinistra extraparlamentare il ruolo dell'autonomia operaia reale e la sua capacità di «forza politica coerente con le esigenze proletarie». Sul carattere «rivoluzionario» delle Br, per «Rivolta di classe», non ci può essere alcun dubbio, lo conferma il fatto che esse sono diventate «il punto di riferimento degli attacchi di tutto il sistema democratico», in questa forza di dimostrazione sta il significato del rapimento Sossi: «mettere in guardia il proletariato da uno Stato che nonostante si fregi delle insegne della resistenza, è rimasto nelle sue strutture, nel suo agire, marcatamente fascista, ha rappresentato un monito per qualsiasi avventura ai danni del movimento operaio» 137. Sulla stessa linea si muove «Rosso», la rivista nazionale dell'Autonomia: «Le Brigate rosse e le loro azioni violente "costringono" oggi la sinistra a prendere posizioni nei confronti della violenza, ad uscire allo scoperto. E questo ci sta bene. A troppi sedicenti rivoluzionari sono bastate poche settimane di segregazione dorata di un magistrato per dimenticare la segregazione della classe operaia nelle fabbriche: le morti bianche, i morti sotto i colpi della polizia, gli assalti e le bombe fasciste, per recuperare in fondo una facciata "democratica" che passava attraverso la condanna delle Br» 138. Il dissenso con il gruppo terrorista è tutto e solo politico: non si è di fronte a un golpe neogollista da fronteggiare, ma il nemico principale da abbattere è il partito del lavoro che lega insieme borghesia e riformisti. Nasce da questo errore di impostazione il permanere nelle Br di una «teoria da braccio armato» piuttosto che il lavorare per un «comando politico» da parte dell'autonomia. Un limite grave «di fronte alla domanda di organizzazione che il comportamento di classe e le avanguardie esprimono oggi». Con la sconfìtta subita dalla De sul referendum tutta la situazione politica è in movimento. La vittoria del fronte del No sembra prefigurare una possibile quanto irreversibile fine della centralità politica della De. Sul piano dell'ordine pubblico ancora non si sono spenti gli echi del lungo sequestro Sossi quando puntuale nella sua crudeltà torna la strategia del terrore di destra: il 28 maggio 1974, in piazza della Loggia a Brescia una bomba provoca otto morti e un centinaio di feriti. Per la prima volta è colpita una manifestazione operaia, lordigno è stato sistemato in un cestino di rifiuti nella piazza dove si sta svolgendo una manifestazione indetta dai sindacati contro lo squadrismo fascista. La città era stata al centro di numerosi

episodi di violenza fascista ad opera di gruppi facenti capo ad Avanguardia nazionale, al circolo la Fenice, alle Squadre d'azio-ne Mussolini e al Movimento armato rivoluzionario. Proprio a Brescia circa una settimana prima della strage era morto Silvio Ferrari un giovane di estrema destra dilaniato dallo scoppio dell'esplosivo che stava trasportando sulla sua motoretta. Lo sdegno è enorme, i funerali delle vittime sono una grande giornata di lotta dell'Italia democratica che vuole fare piena luce su mandanti ed esecutori delle stragi. Si avverte che l'obiettivo principale delle varie strategie eversive è contrastare il rinnovamento politico del paese, un rinnovamento che il voto referendario carica di una nuova e forte credibilità. E proprio in questi mesi che il terrorismo di sinistra si fa portatore di morte. Una modificazione nelle strategie eversive che farà dire a molti commentatori che il terrorismo cambia colore. Dopo il rilascio di Sossi gli arresti di alcuni brigatisti sembrano rassicurare: le nuove misure di polizia adottate anche se non hanno consentito la liberazione del magistrato da parte dello Stato forse possono far risalire sia pure in ritardo all'organiz-zazione terroristica assicurando i suoi capi alla giustizia. Il primo arresto è quello di Paolo Maurizio Ferrari nei pressi di Firenze. Le indagini portano a Torino, città in cui opera il Ferrari. In un appartamento affittato sotto falso nome: materiali, documenti, una radio sintonizzata sulla frequenza delle autoradio della polizia. AU'inizio di giugno, in circostanze del tutto casuali, la scoperta di un altro covo in provincia di Piacenza. Sono ritrovati materiali teorici delle Br, arnesi per la falsificazione di targhe e documenti, vari elementi confermano che i frequentatori del covo hanno avuto a che fare col rapimento di Sossi. Le piste porterebbero a Pietro Bassi, proprietario sotto falso nome dell'appartamento e ad Alberto Franceschini, già noti agli inquirenti. Il 17 giugno '74 un nucleo armato delle Br irrompe nella sede del Msi in via Zabarella a Padova. Nel locale sono sorpresi Giuseppe Mazzola un ex appuntato dei carabinieri di 60 anni e Graziano Giralucci, i due sono immobilizzati e uccisi con colpi di pistola alla nuca. Crolla l'immagine da «banditi gentiluomini» delle Br, il terrorismo si presenta con il volto della barbarie assassina. Nel Gommando Carlo Castrati, un personaggio legato alla criminalità comune, approdato alla politica attraverso vari ed equivoci passaggi. Lo ritroveremo in torbide vicende come l'omicidio Saronio e infine sarà uno dei pentiti che consentirà gli arresti del 7 aprile 1979. Il giorno dopo l'atroce esecuzione è ritrovato il comunicato di rivendicazione. E firmato Brigate rosse, nei contenuti e nella forma è del tutto organico al pensiero del gruppo terroristico, ne riprende le parole dbrdine e gli slogan. Soccorso rosso nella sua ricostruzione della storia delle Br lascia intendere che si tratta di un testo scritto autonomamente e non smentito dal gruppo dirigente terroristico. Anche

l'infiltrato Girotte, nelle sue dichiarazioni della primavera '75, parlerà di una decisione «autonoma» della colonna veneta. Nelle ricostruzioni giudiziarie si chiarirà parzialmente la vicenda. È la colonna veneta, un gruppo di confine fra Br e autonomia di Negri che prende l'inÌ-ziativa per forzare sul terreno della lotta armata e accreditarsi come «gruppo di fuoco». Ne nasce la polemica fra il leader autonomo e Curcio sulla rivendicazione e infine la decisione delle Br di assumersi a pieno titolo la parternità dell'assassinio. Una svolta radicale nella vicenda politico-organizzativa delle Br e del panorama eversivo. La pubblicistica extraparlamentare commentando il duplice assassinio parla cinicamente di «un incidente sul lavoro». «Controinformazione», in quel periodo Negri ancora collabora alla rivista con Bellavita e Curcio, ne da una spiegazione dall'in-terno, una versione frutto di discussioni e mediazioni fra le varie anime del partito armato quale si va profilando alla vigilia della seconda metà degli anni settanta: «Quanto all'opinione di sinistra essa è rimasta sconcertata: credere alla responsabilità delle Br voleva dire distruggere un'immagine cara, constatare che le Br potevano anche interrompere la loro «tradizione cavalieresca» con la violenza delle armi [...]. Non sono mancati nemmeno quelli che hanno ipotizzato il sopravvento nelle Br di una linea militarista: accanto ai colonnelli spuntano i samurai [...]. Solo qualcuno ha avanzato l'unica ipotesi che sembra accettabile: che il comunicato delle Br era diretto ad evitare lo scatenarsi della caccia al rosso. Le Br sottoponendosi a un giudizio generale inevitabilmente non tenero, hanno ammesso la loro responsabilità per quanto è accaduto alla sede del Msi. Non un'inaccettabile sfida all'opinione pubblica e al consenso delle avanguardie, ne la sottovalutazione del momento storico, dunque, ma il riconoscimento di quello che noi riteniamo sia stato uno sbaglio: questo appare da una lettura attenta del comunicato: rivendicare anche gli sbagli [...]. E questa una lezione inedita che rimarrà in gran parte incompresa...» w. A questa ricostruzione la rivista fa seguire, spieiata nel suo rigore logico, la fredda considerazione: «a chi pensava che si potesse procedere all'infi-nito con azioni di propaganda innocue, simpatiche, alla tupama-ros prima maniera, le Br hanno risposto che quando si agisce davvero gli incidenti sono sempre in agguato» 140. Intanto le indagini sembrano fare qualche passo in avanti nella scoperta della trama dell'eversione di sinistra. Dagli interrogatori di Paolo Maurizio Ferrar! si risale al covo torinese di via Bardonecchia. E un box usato sia da brigatisti che da co-montisti, un gruppo di frontiera di ispirazione situazionista. Nel covo armi e munizioni, fra i vari ritrovamenti un piano per liberare i due militanti comontisti Luciano Dorigo e Giorgio Pian-tamore detenuti nel carcere di Torino per il sequestro di Toni Carello figlio dell'industriale del ramo fari-auto. Ancora arresti, ai primi di luglio, fra questi Adriano Carnelutti che lavora alla Fiat di Torino. Dai vari sopraluoghi si risale al Collettivo politico Lodigiano, attraverso una serie di indizi e piste successive si stabiliscono collegamenti che portano al sequestro

Macchiari-ni e a formulare ipotesi e a tracciare una prima ricostruzione del partito armato, dei suoi leader militanti e «basisti» 141. Anche nella lotta al terrorismo di destra si manifestano alcuni parziali risultati. Il giudice Occorsio rinvia a giudizio oltre 100 aderenti di Ordine nuovo e Ordine nero per ricostruzione del partito fascista, fra i nomi più in vista Elio Massagrande e il teorico dello stragismo Clemente Graziani. All'iniziativa del giudice Occorsio si aggiunge la riapertura dell'inchiesta, precedentemente archiviata, sul golpe fascista del '70. Fra i vari avvisi di reato quelli per il generale Duilio Fanali, ex capo di Stato maggiore dell'areonautica, e il generale Vito Miceli, ex capo del Sid. Sono di quel periodo la presentazione del dossier del generale Maletti in cui si accusa apertamente Miceli e la notissima intervista di Andreotti sulle deviazioni dei servizi segreti. Mentre è in atto questa lotta, che il politologo Giorgio Galli considera espressione di due diverse impostazioni presenti in quello che definisce il «governo invisibile», un ennesimo messaggio di morte. Nella galleria della direttissima sull' appen-nino tosco-emiliano un'esplosione provoca 12 morti e 48 feriti sul treno Roma-Monaco, l'«Italicus». I responsabili della strage saranno identificati in Mario Tuti, Luciano Franci, un carrellista alla stazione di Arezzo, e Pietro Malentacchi del Fronte nazionale rivoluzionario. Nel corso dell'inchiesta si risalirà ai rapporti con la P2 di Licio Gelli. A settembre l'arresto del generale Vito Miceli. Si conclude così una fase nella lotta interna ai servizi segreti. Di lì a poco l'arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini. Per il leader delle Br non si tratta di una semplice operazione di polizia ma serve al Sid ristabilire l'equilibrio fra «golpe nero» e terrorismo rosso «ventilare il pericolo di una prova di forza della sinistra per giustificare un contro golpe preventivo nero, e in via subordinata; proporre un contraltare all'attacco alle trame nere che si rifaceva via via più consistente. Il Sid era pesantemente implicato in quelle losche vicende e bisognava distrarre l'attenzione» w. Curcio e Franceschini cadono nella trappola tesa dal generale Dalla Chiesa attraverso l'infiltrato Silvano Giretto, «Frate mitra», un equivoco personaggio circondato da un'artificiosa fama di sedicente rivoluzionario in America Latina. Hanno accreditato questa immagine alcuni giornali di destra, fra cui il «Candido» del senatore missino Giorgio Pisano, che nel corso del sequestro Sossi lo hanno descritto come un possibile capo delle Br. «Padre Leone» stabilisce il primo contatto con le Br tramite l'avvocato Borgna e il medico Levati e infine con l'avvocato Lazagna. Dopo il primo incontro con Curcio, la data per il definitivo arruolamento di Girotte è fissata per 1'8 settembre. Il giorno del contatto scatta la trappola: i carabinieri arrestano a un passaggio a livello chiuso Curcio e Franceschini. La segnalazione radio alle forze dell'ordine è di Giretto che li sta seguendo con la sua auto: dovrebbero infatti ricongiungersi a Torino per un' azione. Dal carcere il

leader delle Br ammetterà che gli uomini dell' antiguerriglia di Dalla Chiesa hanno sfruttato un suo «errore di valutazione». Le Br non perdono tempo occorre subito denunciare pubblicamente l'agente provocatore e far sentire la propria capacità di tornare all'attacco: «II movimento ha un'unica strada per rispondere: organizzarsi sul terreno della lotta armata per portare l'attacco al cuore dello stato» m. Il 9 settembre sono arrestati Levati e numerosi esponenti del collettivo di Borgomanero. Ormai l'inchiesta sulla «banda armata denominata Br» è in pieno svolgimento: perquisizioni, ritrovamenti, arresti. Scrive Giorgio Bocca: «I superstiti del gruppo storico sono stracci che volano in mezzo alle faide e agli intrighi del potere separati, in un intreccio inestricabile di rivalità e di rancori fra carabinieri e polizia, di lotte interne alla magistratura» M4. Un balletto di rivelazioni e accuse a cui si accompagnano notizie di non meglio precisati informatori del Ministero degli Interni, episodi oscuri e mai completamente chiariti che sembrano dare fondamento all'ipotesi di un gruppo terroristico teleguidato da cervelli più potenti: «L'impressione è che il gruppo storico delle Br se non infiltrato sia quanto meno usato dagli strateghi della tensione che procedono alternando attentati di destra ad attentati rossi. Forse come sempre, nella vita associata, e'è di mezzo anche la stupidità e l'inefficenza dei pubblici ufficiali» 145. Sulla scena della lotta armata compaiono i Nuclei armati proletari, sono gli ex della commissione carceri di Lotta continua, hanno rotto col gruppo della fine del '73. L'organizzazione clandestina si è andata precisando nella primavera-estate del '74, il documento base su cui i vari spezzoni degli ex collettivi carceri discutono riflette sulle passate esperienze ed esprime il bisogno di un ulteriore quanto decisivo spostamento sul terreno della lotta armata. Non contiene analisi generali ne indicazioni strategiche complessive piuttosto è pervaso da un istintivo ribellismo che sfocia in disperazione autodistruttiva: «Noi entriamo nella storia rivoluzionaria in qualità di proletariato, perché "popoliamo" le carceri che sono senz'altro l'abitazione di carattere definitivo e irreversibile destinata al proletariato del mondo capitalistico» 146. A maggio i militanti di Napoli, base principale del gruppo, di Firenze, di Roma si riuniscono a Bovalino in provincia di Reggio Calabria e mettono a punto le loro linee d'azione. Il sequestro Gargiulo, avvenuto a luglio, serve per definire la struttura logistica, l'acquisto delle sedi, delle armi e degli esplosivi. Su Sergio Romeo e gli altri dei Nap, il sequestro Sossi e le sue conclusioni hanno agito da volano nella scelta della lotta armata. Alle 23.30 del 1° ottobre 1974 davanti al carcere di Poggio Reale di Napoli viene trasmesso un messaggio ai detenuti, finita la registrazione il meccanismo si autodistrugge con un' esplosio-ne. Alla stessa ora

anche a Milano nei pressi del carcere di San Vittore un impianto analogo esplode prima ancora di aver trasmesso il messaggio. Il giorno dopo i Nap con un volantino precisano che il messaggio «per un errore tecnico non è stato trasmesso» e, scusandosi, concludono «ripeteremo quanto prima la trasmissione». Invece a Roma, il 2 ottobre davanti al carcere di Rebibbia, l'iniziativa riesce e come a Napoli subito dopo un'esplosione distrugge il congegno. Alla Face Standard di Fizzonasco (Milano) un attentato provoca 8 miliardi di danni, l'azione è rivendicata dal gruppo Senza tregua per il comunismo. A Torino le Br incendiano la Lancia Fulvia di Pietro Antonio La Sala e la Simca 1.300 di Giuseppe Zuccate rispettivamente vicedirettore e capo dell'ufficio tempi, metodi e organizzazione della Singer di Leini. In varie città italiane incidenti e molotov: a Milano nel corso di un corteo indetto contro un comizio di Almirante; a Roma, molotov contro un commissariato di Ps; a Rapallo sono rinvenuti candelotti di dinamite davanti a una sezione del Msi. Sulla base degli indizi ricavati da precedenti perquisizioni di covi brigatisti i carabinieri del generale Dalla Chiesa arrivano all'appartamento di Robbiano di Mediglia. Il 14 ottobre nella sede oltre a radio, armi e schede, Finterò archivio di «Controinformazione». Si preciserà poi che era in corso una trattativa fra il direttore della rivista Bellavita e la dirczione della Br. Le difficoltà economiche avevano spinto Bellavita a chiedere un finanziamento al gruppo di Curcio che a sua volta prima di decidere voleva visionare il materiale. I carabinieri del nucleo antiterroristico iniziano l'appostamento: il primo brigatista arrestato è Pietro Bassi, in tasca una pistola 7,65. L'appostamento prosegue per un altro giorno, ancora un arresto si tratta di Pietro Bertolazzi indicato come «giudice di base» nel sequestro Sossi. Dopo qualche ora è la volta di Roberto Ognibene. Non ha messo nel conto il lungo appostamento. Il brigatista fugge alla vista dei militi, segue la sparatoria: Ognibene reagisce al fuoco e uccide il maresciallo Felice Maritano, poi il fuggitivo è raggiunto da cinque colpi di pistola. I documenti del ferito sono falsi, sarà il padre del brigatista a consentire l'identificazione dopo che la sua foto è apparsa sui giornali147. Partendo dai materiali ritrovati a Robbiano Mediglia la magistratura emette il mandato di cattura per Bellavita che riesce ad eclissarsi, sono interrogati il vicedirettore di «Controinformazione» Emilio Vesce e vari collaboratori della rivista fra cui Toni Negri. Sono arrestati invece Franco Tommei e Aldo Bonomi, si ricerca inutilmente l'insegnante di matematica Gabriella Moroni intestataria dell'appartamento di via Campagna di Piacenza in cui fra gli altri documenti è stato ritrovato un nastro con l'incisione del «processo proletario» a Sossi. Quasi una risposta alle sconfitte delle Br, continua l'offensiva armata: i Nap irrompono nella sede dell'Ucid (Unione cristiana imprenditori e dirigenti) di

Napoli; il gruppo Mordi e fuggì, Potere operaio rivendica l'attentato alla sede della Vigilanza urbana di Milano. In un' assurda emulazione accanto alle Br sono scese in campo altre formazioni di diversa derivazione come i Nap e le altre sigle autonome. Hanno fatto e stanno per fare la loro scelta armata quelle tendenze militariste a cui le Br si sono appellate sin dai loro primi documenti. Dalle azioni dimostrative si è passati alla prova delle armi, le Br hanno ucciso a Padova e nello scontro a fuoco di Robbiano di Mediglia. Sono trascorsi quindici giorni dalla morte del maresciallo Maritano colpito da Roberto Ognibene quando due giovani dei Nap sono uccisi dai carabinieri. Il 29 ottobre Luca Mantini e Sergio Romeo sono «fucilati» in un'«imboscata premeditata», così scriveranno i Nap nel volantino che rivendica la tentata rapina per autofinanziamento alla Cassa di Risparmio di piazza Alberti a Firenze. Sono appena usciti dalla banca quando i carabinieri aprono il fuoco, sono colpiti a morte mentre cercano di fuggire con la loro auto, altri due componenti del Gommando Pietro Sofìa e Pasquale Abatangelo sono feriti, riescono a fuggire ma saranno arrestati di li a poco. E caduto un «proletario rivoluzionario militante comunista» così il Collettivo autonomo di Santa Croce, il Collettivo Jackson e Autonomia proletaria annunciano il funerale di Luca Mantini. Sullo stesso manifesto si legge: «Sono caduti da comunisti per il comunismo. Sappiano valutare i compagni, al di là delle diffamazioni della stampa borghese per cosa essi si battessero. I compagni caduti a piazza Alberti restano una precisa indicazione di scelta di lotta per tutti i comunisti». A Firenze fra militanti dell estremismo la morte di Luca è uno shock. Alcuni si ritraggono impauriti, altri rinnovano le precedenti discussioni, per altri infine si tratta di raccogliere il «testamento politico di combattenti comunisti caduti in una battaglia contro lo Stato dei padroni. Così sarà per Anna Maria Mantini, la sorella di Luca, che si dedica interamente alla lotta armata, concorre alla formazione del Nucleo 29 Ottobre, si impegna attivamente nelle sue azioni fino a trovare la morte il 7 luglio del '75 148. A dare prova della loro irriducibilità ricompaiono le Br: attentati incendiar! a Pavia contro un magazzino della Snia Viscosa, contro le macchine di cinque dirigenti della Fiat di Torino e di dirigenti Cisnal. Prosegue la crescita «spontanea» di azioni di terrorismo diffuso, gruppi di fuoco che nascono dai residui di un gruppismo in crisi, dalla conversione militare dell'autonomia, dal combinarsi di micro-criminalità e sovversivismo. Il 3 novembre, A Torino, sono arrestati Alfredo Buonavita, considerato dagli inquirenti un capo dell'organizzazione Br, e Prospero Gallinari un personaggio allora quasi «sconosciuto». Si può dire che alla fine del '75 la stragrande maggioranza del nucleo fondatore delle Br è stato sgominato dall'antiterrorismo del generale Dalla Chiesa. Per i militanti arrestati inizia la gestione politica dei processi e delle lotte carcerarie, scrive Paolo Maurizio Ferrari: «Da sempre le galere sono terreno

rivoluzionario. Non mancherò certamente dunque di essere al mio posto di lotta, forte della esperienza politica così accumulata» w. Le Br non vogliono perdere l'egemonia, la sconfitta militare non deve significare sconfitta politico-teorica. Dal carcere di Casale Monferrato, Renato Curcio rilascia un'intervista a «L'E-spresso». Gli arresti di alcuni militanti non significano la sconfitta della «necessità della guerra di classe», a conferma di ciò debbono continuare le «attività offensive». «La guerriglia» non è solo un dato «oggettivo» della situazione politica italiana ed europea, ma aggiunge è «un bisogno politico delle avanguardie proletarie». Rivolgendosi ai «gruppi» nonché alle «varie forze della sinistra» il capo delle Br non sottace resistenza di valuta-zioni diverse ma ribadisce l'esigenza di convergenze e cerca solidarietà, «l'indebolimento dell'esperienza delle Br non è nell'in-teresse del movimento di sinistra». Il messaggio è rivolto a tutte quelle avanguardie «rivoluzionarie» che superata la fase della protesta, considerano ormai improponibile in Italia come in Europa l'insurrezione e guardano alla guerriglia urbana. Ridurre la forza delle Br significherebbe ridurre anche la loro forza: «L attacco ai livelli di organizzazione clandestina armata, il tentativo di relegare i nuclei combattenti nella sfera prepolitica della marginalità criminale, segnano solo il bisogno della borghesia di distruggere ogni ipotesi di organizzazione della violenza proletaria, di annientare ogni insorgenza antagonista, di limitare progressivamente ogni forma di lotta e infine di canalizzare e controllare l'urto tra le classi» 150. E Curcio aggiunge: «un prezzo troppo alto per la soddisfazione di qualche capriccio polemico o di qualche esigenza tattica». Argomentando il rapporto col revisionismo il leader delle Br ripete alcuni assunti dell'emmellismo e contrappone la strategia dei vertici del Pci a un'autentica «coscienza comunista». Nessuna identità fra comunisti e Pci, un'equazione del tutto impropria: «II comunismo prima di essere un partito è una concezione del mondo. In questo senso anche in Italia vi sono molti comunisti che non sono iscritti al Pci (e alcuni iscritti al Pci che è diffìcile pensare comunisti)». Polemizzando con «!'Unità» che aveva scritto: «vi sono alcuni che hanno teorizzato "l'azione armata" in odio e in lotta contro i comunisti», Curcio afferma nessun «odio» ma lotta politica fra due strategie. I rivoluzionari comunisti non condividono il compromesso proposto dal Pci e hanno scelto una diversa prospettiva politica: «perché anche le forze che hanno teorizzato il passaggio alla guerriglia urbana come forma specifica storica della guerra di classe sono parte integrante del movimento di sinistra, che piaccia o meno al signor Berlinguer» 151. Indifferente alle accuse di «criminalità», di «follia aberrante», Curcio ammette «errori di impianto politico e di tecnica militare» ma, a suo avviso, anche da questi

limiti e sconfìtte si può e si deve individuare la lezione politica facendoli diventare «acquisizione di esperienza, parte del patrimonio positivo del movimento di sinistra». Ancora una volta la questione principale è comprendere che la «guerra di classe» non significa imbracciare le armi ma «interpretare in termini organizzativi e politico-militari l'antagonismo ribollente nei grandi poli industriali e metropolitani sotto la crosta pacifista e legalitaria della sinistra ufficiale». Far esplodere questo ribellismo significa rovesciare ogni visione idilliaca del capitalismo, Curcio condivide il giudizio di Horst Mahler, il teorico della Rat, secondo cui: «rispetto alla realtà l'immagine che i comunisti europei hanno del capitalismo è idilliaca e per tanto sono idilliaci i metodi di lotta anticapitalistici che essi teorizzano, mentre questa realtà idilliaca non è, e di qui nasce la contraddizione, lo spazio politico e la base sociale della tendenza rivoluzionaria» 152. Rispetto alla situazione italiana Curcio non considera chiusa la possibilità di un progetto golpista, questa tendenza è stata solo «disturbata», il ciclo crisirecessione ristrutturazione infatti non può essere gestito da strumenti politici di ordinaria amministrazione. «La crisi dello Stato, del partito di maggioranza e del modello di sviluppo sono ormai tali da esigere una "rottura storica" più che un compromesso». Una sottolineatura che evidenzia il passaggio di fase delle Br, quando le condizioni politiche renderanno virtualmente praticabile il «compromesso» questo diventerà il nemico principale della lotta armata. Lungo la strada della militarizzazione dello scontro a Curcio non interessa l'ostilità della classe operaia alla lotta armata, per il leader delle Br, quello che conta è il «bisogno» delle avanguardie rivoluzionarie il resto verrà dopo. E d'altronde come si può stare alla coda di una classe operaia definita «proletariato teleguidato, telediretto» la cui coscienza è stata manipolata dal revisionismo? Il «suicidio-assassinio» in carcere del militante della Rat, Holger Meins sollecita una riflessione sulla dimensione europea della lotta armata e offre a Curcio l'occasione per rimarcare le differenze fra le due organizzazioni. Alla formazione terroristica tedesca spetta il merito di aver messo in crisi, combattendo nella metropoli, il meccanismo paralizzante di una società tecnologica altamente industrializzata dove nessuno ha mai fatto la rivoluzione: «in ciò sta la rottura storica che essi hanno realizzato e la loro prima e più importante vittoria». Al fascismo tecnologico oppressivo della controrivoluzione in Germania occidentale la Rat si è opposta non solo con le armi della critica ma: «ha avuto cioè quel coraggio intellettuale, politico e militare che a troppi altri purtroppo manca ed è mancato». Assumendo la disperazione come valore dell'azione politico-militare, come violenta reazione alla normalità dei comportamenti sociali nel capitalismo avanzato Curcio aggiunge: «Si è sporcata le mani impugnando le armi, ma è come se avesse messo davanti alla borghesia tedesca e alla sua "intellighentia" frustrata

e volubile più che un revolver un grande specchio della verità. Uno specchio in cui sono riflessi i contorni agghiaccianti di un nuovo fascismo [...]» "3. Entrando in merito alle differenze fra le due organizzazioni prosegue: «il limite più rilevante della Rat è individuato nell'impianto del rapporto politico-militare con lo stato e nel rapporto politico-organizzativo con il movimento operaio e rivoluzionario tedesco. Un limite di tattica e di organizzazione che ha reso difficile il rapporto politico-organizzativo con il movimento. La Raf ha iniziato a costruire la sua organizzazione per linee esterne al movimento ed è stata assente nel suo lavoro un' indicazione, anche embrionale, anche solo di tendenza, della strada da percorrere per la costruzione di un potere proletario e popolare non delegato» 154. La critica diventa lezione per le Br. Nella specificità della situazione italiana si tratta di coniugare il potenziamento logistico della lotta armata ali estensione delle avanguardie rivoluzionarie questo è possibile non separando le azioni di «propaganda armata» dalle realtà dove si manifestano più forti il conflitto sociale e la disponibilità alla lotta armata, in sostanza volgere il sovversivismo in guerriglia, secondo lo slogan brigatista essere pesci nell'acqua, dunque sapersi muovere nelle contraddizioni del movimento. Se diverse sono le condizioni, per le due formazioni comune è il fine: colpire al cuore «il sistema democratico occidentale» e costruire in Europa le condizioni per una «strategia continentale unitaria» per combattere «l'ultima guerra: per il comunismo!». Mentre dal carcere Renato Curcio lancia i suoi proclami teorici a nome di tutte le Brigate rosse, la lotta armata continua a manifestare la sua capacità di riproduzione.

9. La fuga di Curcio

II 18 febbraio del 1975, un nucleo armato delle Brigate rosse Ubera Renato Curcio, alla testa del Gommando Mara Ca-gol. L'azione lascia sconcertati. Complicità dei servizi segreti o grande forza e combattività del terrorismo? La stampa è divisa. Per Avanguardia operaia e per «!' Unità» non e'è dubbio: Renato Curcio serve ai servizi segreti. Lotta continua considera questo giudizio un sospetto infondato che può essere coltivato solo da chi considera lo Stato come qualcosa di onnipotente. Gli interrogativi possono rimanere, non e'è dubbio però che il carcere di Casale Monferrato dove è stato rinchiuso il leader delle Br è fra i carceri meno sicuri e che poche sono le precauzioni prese per evitare la fuga. La stessa azione è annunciata a Curcio da un telegramma che avrebbe dovuto destare qualche sospetto: «Domani arriva pacco». La mattina dopo è Margherita Cagol a suonare al portone del carcere. Le Br sono consapevoli del successo ottenuto: un'efficace azione di propaganda armata come scriveranno nella Risoluzione della dirczione strategica. La liberazione di Curcio, a loro avviso, ha ottenuto tré risultati: una profonda disarticolazione dello Stato, in altre parole è stata sconfitta la sua forza; ha reso concreta la parola d'ordine della «liberazione dei prigionieri politici» dando fiducia ai detenuti e offrendo loro un nuovo terreno di scontro; di conseguenza ha reso possibile l'organizzazione dell'«avanguardia rivoluzionaria» su un programma d'attacco allo Stato. A testimonianza del clamore suscitato dalla liberazione di Curcio, ben quattro settimanali «Aut», «ABC», «Panorama» e «II settimanale» dedicano la copertina al capo terrorista. Forti del successo, le Br con un documento lanciano ai detenuti la direttiva di «assumere identità politica». I processi e la loro gestione diventano un nuovo terreno dell'iniziativa terroristica. L obiettivo è evitare: «Ogni tentativo di frantumare l'insieme delle iniziative politiche dell'organizzazione in "mille episodi separati" e per esigere un unico processo "politico" all'intera organizzazione» "5. Si vuole così recuperare Finterà dimensione politico-organizzativa della lotta armata, le «azioni» non possono essere giudicate come «reati comuni» o «fatti criminali» ma debbono essere assunte nel loro valore politico. «L'obiettivo del regime è quello di dividere uno dall'altro i nostri compagni per pesarli e giudicarli

separatamente. Noi non accettiamo questo modo di procedere [...]. Pertanto s'ha da fare un unico processo. Nessun compagno, che sia catturato o meno, ha responsabilità più grande o più piccola di fronte al nemico di classe, perché ognuno ha posto, secondo le direttive dell'organizzazione, la sua tessera nel grande mosaico della rivoluzione proletaria» 156. Con la Risoluzione strategica si abbandona la tecnica dell'intervista immaginaria per passare al documento politico. Riprendendo concetti già esposti nelle precedenti «interviste» (settembre '71, gennaio '73, maggio '74) si cerca di dare maggiore organicità alla strategia della lotta armata. Dal? acquisizione che lo Stato si è fatto «Stato imperialista delle multinazionali» si fanno derivare le nuove contraddizioni, i diversi interessi, le reciproche convenienze, il tutto finalizzato alla scelta militare 157. Si è in presenza di una costante diminuzione di salariati con occupazione fissa, mentre aumentano gli emarginati lavoratori precari. Ai diversi strati sociali si attribuiscono vari gradi di coscienza politica. Negli occupati si scontrano due linee, una parte difende strettamente la propria condizione, identificandosi nel progetto «revisionista», mentre lo strato più produttivo, l'operaio della catena, porta avanti la linea rivoluzionaria dell'abo-lizione del lavoro; gli emarginati, sfruttati dalla società consumistica come «consumatori senza salario», sono divisi a loro volta fra quelli in cui si riflette «la coscienza borghese: estremo individualismo aspirazioni consumistiche», e la parte più rivoluzionaria che «chiede l'abolizione della società fondata sul lavoro salariato». Nei lavoratori saltuari, il cosiddetto esercito di riserva, convivono i vari aspetti: «I livelli di coscienza sono dati dall'intreccio dei livelli riscontrabili all'interno dei salariati con occupazione stabile e degli emarginati» 158. Secondo il documento due tendenze si confrontano nel progetto politico della Dc: l'ipotesi neogollista perseguita da Pantani e il «patto corporativo» proposto dal Pci ossessionato dalla sua vocazione a farsi Stato democratico. «Il tentativo di costruire legami corporativi tra la classe imprenditoriale del regime e le organizzazioni sindacali dei lavoratori è funzionale più di quanto si creda alla formazione dello Stato imperialista. Agnelli, in questo portavoce dell'intero padronato, lo aveva anticipato nel suo primo discorso da presidente della Confìndustria, quando sostenne la necessità di "addivenire a un patto sociale che, a trent'anni dall'aprile '45, ridefinisca gli obiettivi nazionali del popolo italiano in vista degli anni '80 e '90...". Ciò che ci interessa è che il "patto sociale" viene giustificato non in funzione "anticongiunturale", dunque, come accordo tattico, ma come esigenza intrinseca della società industriale avanzata e perciò come progetto di stabilizzazione per gli anni '80! L'operazione di ingabbiamento che esso presuppone può essere definita: incorporazione organica della classe operaia dentro il capitale e dentro lo Stato. Essa segue la logica che la classe operaia per salvare se stessa deve salvare il padrone; per salvare il padrone, deve salvare lo Stato, per salvare lo Stato deve assumersi i costi economici della riconversione

produttiva ed i sacrifici della ristrutturazione imperialista. È una logica miserabile e vai la pena di tenerne conto solo perché essa è fatta propria dai vertici sindacali e da quelli del Partito comunista» w. La forma politica del patto corporativo è il «compromesso storico» una strategia che per le Br affonda le sue radici in due incomprensioni: «la natura guerrafondaia dell'imperialismo e il carattere reazionario e imperialista della De». Abbandonate queste coordinate, per il revisionismo non vi è più antagonismo fra imperialismo, socialimperialismo e rivoluzione, tutto si riduce alla ricerca estenuante di una soluzione pacifica dei contrasti. Nessuna corrispondenza fra «bisogni di classe» e «compromesso storico» ma solo «miserabili vantaggi» e opportunistici tornaconto. Compito del movimento rivoluzionario portare «!'attacco al cuore dello Stato», operando la «massima disarticolazione politica» del regime democratico, del sistema dei partiti, dello Stato. Sviluppare, come si è sperimentato nel caso Sossi, tutte le possibili contraddizioni degli apparati statuali, del funzionamento istituzionale, facendo entrare in conflitto fra loro «i diversi progetti tattici di soluzione della crisi». Per raggiungere questo obiettivo si deve estremizzare ogni manifestazione anche parziale dell'antagonismo sociale, unificandola in un medesimo disegno eversivo. Nel documento delle Br si profila con sufficiente chiarezza un disegno che punta a sfruttare tutte le leve del sovversivismo agendo da subito come Partito combattente nelle varie situazioni di lotta per accelerare la scelta militare, rendendo ineluttabile il passaggio alla lotta armata come unico sbocco coerentemente «antirevisionista». Anche se ancora si esprimono giudizi critici sulla poliedricità dell'Autonomia, è netta la consapevolezza del suo ruolo di cerniera nel processo di congiungimento fra il nucleo centrale terroristico e l'insieme delle spinte sovversive. Ve ne sono tutte le condizioni soggettive e politiche: la questione della lotta armata, della guerra civile, sono presenti ai teorici del «gruppo» e i vari fogli deU'autono-mia sono un costante veicolo di propaganda insurrezionale, i loro stessi itinerari politici dentro e contro 1 estremismo tradizionale, emblematiche le dissolvenze di Potere operaio e del gruppo Gramsci, hanno ruotato attorno a questo nodo strategico. Le divergenze sul partito che tanto hanno travagliato il gruppismo si trasferiscono nella costruzione del partito combattente, ma per le Br non sembra essere questo il punto centrale del dibattito e della possibile unità operativa, quanto il far maturare la consapevolezza del passaggio di fase e da ciò far scaturire il progetto di unificazione politico di tutti i comportamenti armati. La «guerriglia urbana» ha una funzione decisiva nella disarticolazione dello stato e, in sintonia con le tesi di «Rosso» e delle varie componenti dell'autonomia, si afferma che solo attorno ad essa: «si costruisce e articola il movimento di resistenza e l'area dell'autonomia e non viceversa. Allargare quest'area vuoi dire

dunque in primo luogo sviluppare lorganizzazione della guerriglia, la sua capacità politica e di fuoco». Nessuna meccanica separazione fra lo sviluppo dell'area legale o semilegale dell'autonomia e il crescere della guerriglia, si tratta di un lavoro ai fianchi di un'area indistinta in cui si «ammucchiano e stratificano posizioni diversissime», e nel cui seno permangono residui del vecchio estremismo per cui e' è ancora chi pensa ad un recupero sul terreno del legalismo politico invece di «favorire la progressiva definizione rivoluzionaria, strategica, tattica ed organizzativa». Deriva da ciò il crescente interesse delle Br alle «assemblee autonome», esse infatti possono rappresentare un momento decisivo nel superamento del «gruppismo», a condizione di «liberarle» dal «feticcio della legalità», di cui sono prigioniere, incapaci di uscire dalle sterili contrapposizioni «legalità»-«illegalità». Polemizzando con l'Autonomia per i teorici delle Br la questione del partito armato non si pone in termini di «organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata», operando così un appiattimento organizzativo della stessa spontaneità eversiva, bensì di concepire partito e movimento come realtà distinte e nello stesso tempo in costante dialettica fra loro. Dunque non «braccio armato» del partito rivoluzionario, ma «nucleo strategico» del movimento di classe: «Nella guerriglia urbana non ci sono contraddizioni tra pensare e agire militarmente a dare il primo posto alla politica». Rifiutato ogni dualismo organizzativo, ogni riedizione della vecchia teoria del «braccio armato», spetta proprio alle Assemblee autonome pena la perdita di ogni loro funzione, compiere un salto di qualità se vogliono «organizzare sul terreno della guerra di classe l'antagonismo proprio dello Stato rivoluzionario». Ne deriva la concezione del partito combattente e la prefigurazione delle tappe che portano alla sua costruzione come: «reale interprete, dei bisogni politici e militari dello strato di classe "oggettivamente" rivoluzionario e l'articolazione di organismi di combattimento a livello di classe sui vari fronti della guerra rivoluzionaria». Partendo da questi presupposti le Br si autoproclamano il primo embrione del nucleo combattente «reparto avanzato e armato della classe operaia ed in quanto tale distinto ma anche parte organica di essa. Assumendo così soggettivamente la funzione di partito». Nei mesi che precedono le elezioni amministrative del 15 giugno 1975 si infittiscono le azioni di violenza. Un susseguirsi di violenze di piazza gestite dalle varie sigle dell'Autonomia, azioni portate avanti da Nap e Br, numerosi episodi di squadrismo fascista, scontri fra opposti estremismi e alternarsi di opposti terrorismi. In questo contesto i Nap mettono a punto alcune azioni emblematiche sul fronte delle carceri. Nel mese di maggio la tentata evasione dal carcere di Viterbo dei nappisti Sofìa, Zicchitella e Panizzari. Contemporaneamente un Gommando sequestra il magistrato Giuseppe Di Gennaro. Attraverso di lui, direttore degli

Istituti di pena presso il ministero di Grazia e Giustizia, si vuole colpire l'intero apparato carcerario. Di Gennaro si è battuto per le riforme del sistema carcerario ma per i Nap è solo un «reazionario al servizio della repressione». Il sequestro è firmato Nucleo 29 Ottobre, dal giorno della morte di Luca Mantini, guida il Gommando Anna Maria Mantini. La condizione posta per rilascio del magistrato è la richiesta di dare pubblicità al comunicato dei Nap. Un messaggio rivolto ai detenuti e alle loro lotte con una forte critica al revisionismo del Pci e dei gruppi. In difesa dei «prigionieri della politica capitalistica» ignorati da revisionisti e violentati nella loro umanità dal potere democristiano, i Nap oppongono «la loro organizzazione rivoluzionaria» come unico sbocco di lotta che «non presenti le caratteristiche compromissorie dei revisionisti, quelle oppor-tunistiche extraparlamentari, entrambe politiche fallimentari ormai del tutto funzionali alla complessiva stabilità del potere borghese...». Il comunicato dei Nap sarà letto al giornale radio delle ore 7 del 10 maggio. L'azione si concluderà con il rilascio del magistrato e il trasferimento da Viterbo dei detenuti nappisti Sofia, Zicchitella e Panizzari. Intanto le Br procedono lungo la linea tracciata nella risoluzione della dirczione strategica, al centro della loro offensiva la De. Per il gruppo terroristico si è «ali'accumulazione delle forze rivoluzionarie sul terreno della lotta armata» su questa strada si sono ottenuti importanti risultati ma essi non sono sufficienti a consentire il passaggio alla «guerra civile», occorre — dunque — procedere ad una ulteriore disarticolazione militare del regime. Concentrate nel tempo, tali da farle apparire quasi contemporanee, tré azioni in diverse città. A Mestre è attaccata una sezione della De; a Milano, il 15 maggio, viene perquisito lo studio di Massimo De Carolis leader dell'ala moderata della De milanese; a Torino, il 16 maggio, sono incendiate numerose auto di dipendenti Fiat iscritti al Sida. Nell'irruzione milanese alla sede di Iniziativa Democratica di De Carolis le Br, come già a Padova, tornano a sparare. De Carolis è «processato», i suoi collaboratori imbavagliati e legati. Alla fine del «processo» uno dei quattro componenti il Gommando brigatista spara con una 7.65 alle gambe di De Carolis. E la prima «gambizzazione» nella storia del terrorismo italiano. Le perizie accerteranno che la 7.65 che ha colpito l'avvocato milanese è la stessa usata a Padova nel giugno '74. Il volantino rivendicazione così commenta la «gambizzazione»: «II centro meritava di più, ma in queste cose non c'è fretta. Ad alzare il tiro si fa presto, e a individuare i vari criminali pure». Il messaggio precisa la natura del-l'attacco: la De è il principale nemico del momento, «motore della contro-rivoluzione globale e la forza portante del fascismo moderno» essa va «liquidata, battuta e dispersa» 160. Il proclama, a smentire alcune opinioni correnti sulla stampa, precisa che non esistono legami organizzativi fra Br e Nap. Alla sottolineatura, che vuole rimarcare le differenze teoriche fra le due organizzazioni, segue subito la solidarietà delle Br con i Nap «Viva la lotta dei Nuclei armati proletari». L'unità verrà tra breve.

Molte cose stanno cambiando nell'arcipelago dell'eversione rossa. A Bellinzona in Svizzera è arrestato Carlo Fioroni, l'ex militante di Potere operaio di cui si sono perse le tracce dopo la vicenda Feltrinelli. Ha con sé 77 milioni, una parte del riscatto pagato per il sequestro del suo amico Carlo Saronio. Inizia la ricostruzione di una torbida vicenda di criminalità comune perpetrata nell'universo del terrorismo autonomista. Mandante dell'azione risulterà Toni Negri il leader dell'autonomia padovana. L imminente campagna elettorale fa salire il clima politico, nelle piazze numerosi scontri contro i fascisti. Il terrorismo ha bisogno di nuovi finanziamenti, il 4 giugno le Br mettono a punto il sequestro di Vittorio Vallarino Gancia amministratore delegato e direttore generale della Gan-cia. Nel corso delle ricerche, il 5 giugno, in uno scontro a fuoco tra terroristi e carabinieri muore Margherita Cagol, la compagna di Renato Curcio. Saranno le stesse Br a rendere nota l'i-dentità della vittima: «E caduta combattendo Margherita Cagol "Mara" dirigente comunista e membro del comitato esecutivo delle Brigate rosse. La sua vita e la sua morte sono un esempio che nessun combattente per la libertà potrà più dimenticare». I commenti battono ancora le vecchie strade delle «infiltrazioni e della provocazione fascista: per il «Quotidiano dei Lavoratori» si tratta di «una morte per Pantani», per «!'Unità» «la gente è stufa di provocatori, che si qualificano come neri e rossi, portano tutti acqua al mulino dei nemici della democrazia» 161. «Il manifesto» si dimostra più cauto e si interroga sulle ragioni che hanno spinto Margherita Cagol alla scelta della lotta armata. «Ne "II Popolo" ne "l'Unità" si chiedono come sia avvenuto che una ragazza trentina di buona famiglia, cattolicopraticante, — il suo corpo è stato benedetto al cimitero di Trento, da monsignor Bertolini — sia finita crivellata [...] mentre credeva di lottare contro il capitalismo» 162. Lotta continua, polemizzando con le scelte dell'organizzazione terroristica, pessimisticamente rende onore a una rivoluzione caduta in combattimento: «e'è nel suo destino — e di altri prima di lei una misura indiretta della strada che ancora resta da percorrere alla politica rivoluzionaria, a una trasformazione del mondo che non consente forzature soggettivistiche distaccate dalla fiducia razionale della lotta di classe; e nemmeno la faciloneria di nuovi miti, che fìngono una nascita senza dolore del vecchio mondo, e un destino senza dolore del mondo nuovo» w. Per le Br la morte di Margherita Cagol è un nuovo impegno verso la lotta armata, un simbolo militante da onorare con l'esempio e intensificando l'offensiva militare. Alla sua memoria si deve formare una nuova leva di militanti combattenti: «che mille braccia si protendano per raccogliere il suo fucile! Noi, come ultimo saluto diciamo "Mara" un fiore è sbocciato, e questo fiore di libertà le Brigate rosse continueranno a coltivarlo fino alla vittoria! Lotta armata per il comunismo» 164.

Il risultato delle elezioni del 15 giugno non sembra interessare le vicende del terrorismo, continua la caccia dei carabinieri del generale Dalla Chiesa mentre il terrorismo di sinistra si fa sempre più aggressivo, comincia a contare i suoi morti e si fa ancora più vendicativo, risponde agli arresti esasperando la sua militarizzazione, intanto un'incontrollata esplosione di sigle armate. A Milano nuovi arresti. Il 18 giugno in seguito a uno scontro a fuoco sono arrestati Pierluigi Zappada, perito in telecomunicazioni e dipendente fino a un mese prima della Sit-Siemens, e Attilio Casaletti brigatista del gruppo emiliano. Sono riconosciuti come mèmbri del Gommando che ha liberato Curcio. A Milano, Prima linea, gruppo nato da Lotta continua, ingaggia uno scontro a fuoco con le forze dell'ordine. Ancora una morte per i Nap. Un' altra donna terrorista uccisa in un conflitto a fuoco, si tratta di Anna Maria Mantini. Dopo il sequestro Di Gennaro il gruppo è braccato dalle forze dell'ordine. Non hanno alle spalle la capacità organizzativa delle Br e non è difficile seguirne le mosse. Il successo del sequestro si dimostra ben presto effimero, uno dopo l'altro sono scoperti i covi nappisti. Roma è la città dove le indagini si fanno più fitte. Il 7 luglio, il lungo appostamento nell' appartamento di via dei Due Ponti. I sei carabinieri sono guidati dal vicebrigadiere Antonio Tuzzolino sarà lui a colpire Anna Maria Mantini, mentre entra nelTapparta-mento. La versione dei fatti sarà incerta, il braccio del brigadiere che impugna la pistola rimane incastrato nella porta chiusa rapidamente dalla nappista, improvviso parte il colpo mortale. Non molti crederanno all'incidente. «Gravi e inquietanti domande accompagnano la cronaca della morte di Anna Maria Mantini, la ragazza dei Nap, uccisa ieri a Roma». Così scrive Giampaolo Pansa sul «Corriere della Sera». Sette mesi più tardi arriverà la vendetta dei Nap. Tuzzolino sarà raggiunto da sei colpi di P.38 e rimarrà paralizzato. Come già è accaduto per i processi, anche per gli «espro-pri», le Br decidono di far cadere ogni anonimato. L'organizzazione terroristica sceglie di rivendicarne la paternità, nobilitandoli non solo come strumenti di autofinanziamento ma di vero e proprio radicamento del «potere proletario». Il primo esproprio firmato è quello di Lonigo (Vicenza), 15 luglio alla Banca popolare agricola vengono rapinati 42 milioni, il successivo sarà quello di Genova, 8 ottobre, alla Cassa di risparmio dell'ospedale di San Martino, che frutta ali organizzazione 118 milioni». Dalla morte di Margherita Cagol al nuovo arresto di Curcio, che avverrà il 18 gennaio '76, le Br sviluppano tutto l'arma-mentario tipologico terroristico, ai due espropri si aggiungono i due sequestri di Torino; 21 ottobre è la volta di Enrico Botta dirigente della Singer di Leini e capogruppo democristiano a Rivoli; a Genova il 22 ottobre è sequestrato Vincenzo Casabo-na, capo del personale della Ansaldo; a Milano il 29 ottobre la perquisizione del centro studi della Confindustria; a Torino il 17 dicembre la gambizzazione di Luigi Solerà medico

della Fiat. A dimostrazione della loro forza e come segno di vendetta numerosi attacchi a caserme dei carabinieri; il 10 dicembre la caserma di via Montecatini a Milano, è distrutto un automezzo; il 13 gennaio '76 nella stessa città la Caserma di Quarto Oggia-ro; il 14 gennaio a Genova sono attaccate simultaneamente con ordigni esplosivi due caserme provocando la distruzione di cinque automezzi. A Milano, il 18 gennaio '76, Renato Curcio è di nuovo arrestato dopo un violento scontro a fuoco in cui rimangono feriti il leader delle Br e il brigadiere dei carabinieri Lucio Prati. Curdo vive con la sua nuova compagna Nadia Mantovani in un appartamento di via Maderno affittato da Adriano Colombo operaio dell'Alfa di Milano. I carabinieri arrestano tre brigatisti che orbitano attorno ali'appartamento del capo: Silvia Rossi, Vincenzo Guagliardo e Angelo Basone, operaio disoccupato. Successivamente scatta l'operazione per l'arresto di Curcio. Il terrorista, come poi spiegherà, teme di essere ucciso, alla richiesta di arrendersi replica con il fuoco, una sparatoria di 21 minuti. Ferito si consegna ai carabinieri insieme a Nadia Mantovani. Ancora a Roma un'apparizione dei Nap. Il 28 gennaio un commando gambizza il giudice Pietro Margariti consigliere di Cassazione e capo dell'ufficio detenuti del Ministero di grazia e giustizia, si occupa del trasferimento dei detenuti. Dopo l'arresto di Renato Curcio è la volta di Giorgio Se-meria, 1 ex-studente modello del liceo milanese Cesare Beccarla, il leader più autorevole del gruppo. Un ruolo che potrà ricoprire per poco, sarà infatti arrestato il 22 marzo dello stesso anno. La risposta agli ultimi arresti è immediata. Le Br nel loro bollettino interno Lotta armata per il comunismo individuano come principale bersaglio l'arma dei carabinieri «l'arma specifica della borghesia per combattere le organizzazioni rivoluzionarie». Il 9 febbraio la vendetta dei Nap contro il vicebrigadiere Tuzzolino. Il primo marzo comandi unificati Br e Nap assaltano simultaneamente le caserme dei carabinieri di Milano, Torino, Genova, Roma, Napoli, Firenze, Pisa. Per la prima volta un comunicato congiunto fra le due organizzazioni. Il terrorismo sta mutando forma si va coniugando agli spezzoni militari di un estremismo in dissolvimento; comincia a coprirsi coi cortei: il 25 marzo a Milano numerose incursioni si svolgono in concomitanza allo sciopero generale indetto dai sindacati, la stessa sera scontri al concerto jazz al Palalido. Mentre la situazione politica volge rapidamente verso le elezioni anticipate si estendono gli obiettivi del terrorismo rosso: sedi di partito, caserme, fabbriche, dirigenti come nel caso del presidente dell' Unione petrolifera Giovanni Theodoli, magistrati come nel caso dell'attentato al giudice Paolino Dell'Anno.

L'8 giugno, mancano 12 giorni al voto del 20 giugno, un Gommando guidato da Giuliano Naria ex operaio dell'Ansaldo di Genova e da Rocco Micaletto ex operaio della Fiat, uccide a Genova il procuratore capo Francesco Coco, il suo autista — l'appuntato dei carabinieri — Antioco Dejana e la guardia Giovanni Saponara 165. Iniziano gli anni più cruenti dell'offensiva terroristica.

NOTE 1 Proposta di foglio di lavoro, documento ciclostilato. 2 Cfr. A. Silj, «Mai più senza fucile! Alle origini dei Nap e delle Br», Vallecchi, 1977, pp. 54-55. 3 Stralci del primo Bollettino del Comitato politico metrolitano dell'8 settembre '69 sono riportati su «L'Europeo», n. 18, 1974. 4 «Sinistra proletaria», numero unico in attesa di autorizzazione, luglio 1970. 5 Volantino, Lettera aperta degli impiegati della Sit-Siemens, in Operai-impiegati quale unità, «Quaderni operai», n. 2, a cura del Cpo Sit-Siemens, 1972. 6 M. Cavallini, «II terrorismo in fabbrica, interviste con gli operai della Fiat, SitSiemens, Magneti Marcili, Alfa Romeo», Editori Riuniti, 1978, p. 102. 7 Gruppo di studio Ibm, «Ibm, capitale impcrialistico e proletario moderno», Sapere, 1973. 8 Volantino del Gruppo di studio Sit-Siemens, in «Sinistra proletaria», numero unico, luglio 1970. 9 M. Cavallini, «II terrorismo in fabbrica», cit., p. 109. 10 «Sinistra proletaria», numero unico, luglio 1970. 11 «L'Europeo», n. 18, 1974. 12 Gruppo di studio Ibm, «Ibm, Capitale imperialistico e proletariato moderno», cit. 13 ibidem. 14 ibidem. 15 ibidem.

16 «II Collettivo», numero unico, gennaio 1970. 17 ibidem. 18 ibidem. 19 Soccorso Rosso, Brigate rosse. «Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto», Feltrinelli, 1976, p. 46. 20 Appunti per una discussione, autunno, 1969; cfr. V. Tessandori, «Br, imputazione banda armata», p. 40. 21 Emancipazione della donna!?, volantino del Cpm, marzo 1970. 22 Documento gennaio 1970, del Cpm-Collettivo lavoratori-studenti, Sviluppo e ristrutturazione della scuola serale come istituto produttivo, riportato anche in: «Le lotte dei lavoratori-studenti», a cura della Corrente proletaria dei lavoratoristudenti, Sapere, 1970. 23 Lavoratori studenti, contro lo sfruttamento ribellarsi è giusto, Foglio di lotta del Cpm, del 24 marzo 1970. 24 «L'Espresso», n. 1, gennaio 1975. 25 «Sinistra proletaria», rivista, n. zero, luglio 1970. 26 Chi ha paura della crisi. Foglio di lotta di «Sinistra proletaria», luglio 1970. 27 «Sinistra proletaria», rivista n. 1/2, settembre-ottobre 1970. 28 Chi ha paura della crisi, Foglio di lotta di «Sinistra proletaria», luglio 1970. 29 I padroni la guerra ce l'hanno dichiarata, Foglio di lotta di «Sinistra proletaria», luglio 1970. 30 Foglio di lotta di «Sinistra proletaria» del 20 ottobre 1970. 31 Organizziamo la nuova resistenza, Foglio di lotta di «Sinistra proletaria», gennaio 1971. 32 Lotta per le riforme, lotta per il potere, «Sinistra proletaria», foglio di lotta del Cpm, giugno 1970.

33 «Sinistra proletaria», n. 1/2, settembre-ottobre 1970. 34 Cosa vogliamo? Vogliamo il potere. Foglio di lotta di «Sinistra proletaria», 28 ottobre 1970. 35 «Lotta continua», quindicinale 28 gennaio 1971. 36 Foglio di lotta di «Sinistra proletaria», 28 ottobre 1970. 37 T. Barbato, II terrorismo in Italia, Editrice bibliografica, 1980, p. 197. 38 « l'Unità», 26 gennaio 1971. 39 «Lotta continua», quindicinale n. 3, 17 febbraio 1971. 40 I testi integrali dei comunicati n. 1, 3, 4, 6 su «Brigate rosse», cit., p. 78 e sgg.; inoltre cfr.: «Rè nudo», n. 4, aprile 1971. 41 «Nuova resistenza», n. 1, aprile 1971. 42 Comunicato n. 3, «Rè nudo», n. 4, aprile 1971. 43 Comunicato n. 6, ibidem. 44 Comunicato n. 3, ibidem. 45 «Nuova resistenza», n. 1, aprile 1971. 46 ibidem. 47 ibidem. 48 Cfr.: M. Scialoja, Brigate rosse: Cosa e'è dietro, «L'Espresso», 28 aprile 1974. 49 «Nuova resistenza», n. 1, aprile 1971. 50 Cfr. G. Bocca, II terrorismo italiano 1970/1978, Rizzoli 1978, p. 19. 51 «Nuova resistenza», n. 1, aprile 1971. 52 Dichiarazione politica dei Gap-Milano, «II Potere operaio» quindicinale, n. 38/39, 17 aprile-10 maggio 1971.

53 ibidem. 54 «Nuova resistenza», n. 1, aprile 1971. 55 ibidem. 56 ibidem. 57 ibidem. 58 Bruciare le carceri è giusto,«Sinistra proletaria», n. 2, maggio 1971. 59 Cfr. V. Tessandori, «Br, imputazione: banda armata. Cronache e documenti delle brigate rosse», Garzanti, 1977, pp. 66-69. 60 «Brigate rosse» settembre 1971; Cfr.: Soccorso Rosso, «Brigate Rosse», cit., p. 102 e segg. 61 ibidem. 62 ibidem. 63 ibidem. 64 ibidem. 65 M. Cavallini, «II terrorismo in fabbrica», cit., p. 118. 66 «Pantere Bianche» numero unico diffuso a Milano, aprile 1972. 67 «l'Unità», 4 marzo 1972. 68 «Corriere della sera», 11 marzo 1972. 69 «Potere operaio» mensile, n. 47/48, 20 maggio-20 giugno 1972. 70 Cfr. Soccorso Rosso, «Brigate rosse», cit., p. 115. 71 «Avanguardia operaia», 25 marzo 1972. 72 «Processo Valpreda», quotidiano a cura di Lotta continua, 10 marzo 1972. 73 «Potere operaio», del lunedì, n. 5, 26 marzo 1972.

74 «Processo Valpreda», quotidiano a cura di Lotta continua, del 21 marzo 1972. 75 ibidem. 76 «ABC», n. 4, 1973. 77 «II Borghese», 14, 21, 28 gennaio e 4 febbraio 1973. 78 Sul ruolo di Pisetta e sull'intera vicenda del memoriale confronta G. De Lutiis, «Storia dei Servizi Segreti», Editori Riuniti, p. 241 e sgg. 79 Documento riprodotto nella requisitoria di Bruno Caccia Pm al processo contro le Br a Torino; cfr. Soccorso Rosso, «Brigate Rosse», cit., p. 124. 80 ibidem. 81 «Potere operaio del lunedì», n. 44, 11 marzo 1973. 82 «L'Espresso»,n. 1, gennaio 1975. 83 «Controinformazione», numero zero, ottobre 1973. 84 ibidem. 85 Guerra ai fascisti dicembre 1972, parzialmente pubblicato su «Lotta continua», 15 febbraio 1973. 86 Soccorso Rosso, Brigate Rosse, cit., p. 152. 87 «l'Unità», 16 gennaio 1973. 88 «Lotta continua», 17 gennaio 1973. 89 «l'Unità», 13 febbraio 1973. 90 Velleitarismo pratico e confusione ideologica, «Lotta continua», 15 febbraio 1973. 91 Brigate rosse, gennaio 1973, «Potere operaio», n. 44, 11 marzo 1973. 92 «Lotta continua», 15 febbraio 1973.

93 Chi è senza peccato, «Potere operaio», n. 46, 25 marzo '73. 94 ibidem. 95 ibidem. 96 Brigate rosse, gennaio 1973, «Potere operaio», n. 44, 11 marzo 1973. 97 ibidem. 98 ibidem. 99 Stralci del volantino sono riportati su «Corriere della sera», 30 giugno 1973; cfr. «Borghese», n. 33/34, 20 agosto 1975. 100 «l'Unità», 30 giugno, 1973. 101 «Avanti!» 30 giugno 1973. 102 «Lotta continua», 30 giugno 1973. 103 «Potere operaio del lunedì», n. 61, 16 luglio 1973. 104 ibidem. 105 Sui rapporti Potere operaio-Br, cfr.: G. Palombarini, «7 aprile: il processo e la storia», Arsenale cooperative Editrice, 1982, pp. 97-102; pp. 149-156. 106 «Controinformazione», n. 1/2; febbraio-marzo 1974. 107«l'Unità», 11 dicembre1973. 108 «Lotta continua», 11 dicembre 1973. 109 «Controinformazione», n. 1/2, febbraio-marzo 1974. 110 ibidem. 111 «Lotta continua», 18 dicembre 1973. 112 Contro il neogollismo portare l'attacco al cuore dello Stato pubblicato su «Giornale d'Italia» e «Tempo», 13 maggio 1974.

113 ibidem. 114 ibidem. 115 «II manifesto», 20 aprile 1974. 116 «II Messaggero», 20 aprile 1974. 117 ibidem. 118 «II Messaggero», 24 aprile 1974. 119 Cfr.: R. Cavedon, «Le sinistre e il terrorismo», Edizioni Cinque Lune, 1982, p. 137. 120 Cfr. Soccorso rosso. «Brigate rosse», cit., p. 198. 121 «Paese sera», 26 aprile 1974. 122 «II Tempo», 28 aprile 1974. 123 «Corriere della sera», 29 aprile 1974. 124 «Controinformazione» n. 3/4, 1974, oltre il comunicato sono pubblicati documenti delle Br sul ruolo del Crd e del Centro Sturzo. 125 Comunicato n. 4, «II Tempo», 6 maggio 1974. 126 Cfr. «Il Messaggero», 7 maggio 1974; Soccorso rosso. Brigate rosse, cit., p. 120. 127 Comunicato n. 5, «Paese sera», 10 maggio. 128 Una relazione sugli interrogatori a Sossi sarà mandata dalle Br a «L Espresso», che la pubblica nel n. 27, 1974. 129 «Lotta continua», 11 maggio 1974. 130 «Rosso», 11 giugno 1974. 131 «Panorama», n. 422, 23 maggio 1974. 132 «L'Espresso», n. 20, 1974.

133 Documento delle Br citato nella requisitoria del Pm Bruno Caccia, Soccorso Rosso, «Brigate rosse», cit., p. 237. 134 «L'Espresso», 2 giugno 1974. 135 «Controinformazione», n. 3/4, luglio 1974. 136 «Rosso», n. 11, giugno 1974. 137 «Rivista di classe», numero unico, 28 giugno 1974. 138 «Rosso», n. 11, giugno 1974. 139 «Controinformazione», n. 3/4, 15 luglio 1974. 140 ibidem. 141 Cfr. V. Tessandori, «Br, imputazione banda armata», cit., pp. 194-201. 142 «L Espresso», n. 1, gennaio 1975. 143 «L'Espresso», n. 38/22, settembre 1974. 144 G. Bocca, «II terrorismo italiano» 1970-1980, Rizzoli, 1978, p. 81. 145 ibidem. 146 Cfr. A. silj, Mai più sema fucile! Alle origini dei Nap e delle Br, cit., p. 128. 147 Cfr. ibidem, pp. 3-13. 148 Cfr. ibidem, pp. 99-116. 149 «Controinformazione», n. 5/6, 1974; cfr. Soccorso Rosso, «Brigate rosse», cit., p. 258. 150 «L'Espresso», n. 1, gennaio 1975. 151 ibidem. 152 ibidem.

153 Lettera dal carcere di Casale pubblicate su «ABC», n. 9, 6 marzo 1975; «Rosso», n. 15, marzo-aprile 1975. 154 ibidem. 155 Soccorso Rosso, «Brigate rosse», cit., p. 268. 156 Le carceri, documento Br dell' 11 aprile 1975, «L Espresso», n. 21, 25 maggio 1975. 157 Risoluzione della dirczione strategica, stralci sono riportati su "Gente" n. 40, 6 ottobre 1975, «L'Espresso», n. 41, 12 ottobre 1975. 158 ibidem. 159 ibidem. 160 «Corriere della sera», 16 maggio 1975. 161 «Quotidiano dei lavoratori», 8 giugno 1975. 162 «II Manifesto», 8 giugno 1975. 163 «Lotta continua», 8 giugno 1975. 164 Comunicato Br del 5 giugno 1975, «Corriere della sera», 7 giugno 1975. 165 Per la cronologia delle azioni terroristiche cfr. Soccorso Rosso, «Brigate rosse», cit.; T. Barbato, «II terrorismo in Italia», cit.; «Rapporto sul terrorismo. Le stragi, gli agguati, i sequestri, le sigle 1969-1980», a cura di M. Galloni, Rizzoli, 1981.

XIII SULLE CENERI DEI GRUPPI: L'AUTONOMIA

1. Le teorie del rifiuto

Le teorie del «rifiuto», nozione cerniera fra l'assunzione critica della società capitalistica e la traduzione pratica di ogni virtualità eversiva, sono l'equivoco punto d'incontro fra lo sviluppo dell'autonomia organizzata, sorta sulle ceneri dell'ope-raismo, e il vitalismo comportamentale di provenienza «situa-zionista». Si svolgono in parallelo, fino a congiungersi processi tra loro eterogenei quali: l'approccio liberatorio alle tematiche del marxismo tradizionale come tentativo di riappropriazione dei bisogni negati; i ripiegamenti di una gruppettistica in crisi; l'enfatizzazione singola e collettiva dell'azione violenta, come trasgressione e al tempo stesso come espressione fisico-emblematica di un desiderio rivoluzionario da tradurre in nuove quanto fluide, forme dell'organizzazione. Percorsi intellettuali, apparentemente marginali, spesso non ridondanti al loro sorgere e tuttavia parte del mosaico complessivo della cultura antagonista, della storia del sinistrismo e più in generale del suo immaginario rivoluzionario. Già nel '58 un piccolo convegno a Cosio d'Arroscia in provincia di Cuneo propone in Italia la «critica radicale» dell'Internazionale situazionista. Si ispira alla scuola di Francoforte, ad Adorno, Horkheimer, Pollock e al consiliarismo di Anton Pannekoek. Animatore dell'appuntamento Gianfranco Sanguinetti. Il movimento nasce in stretta relazione con le correnti della contestazione europea, in particolare il Comitato psicogeografico di Londra, il Movimento per una Bauhaus immaginista e l'Internazionale lettrista. Avanguardie artistico-creative che assumono come loro programma il superamento dell'arte e della letteratura estremizzando, sul piano dei comportamenti, il surrealismo e il movimento dada. In Francia, la sezione egemone dell'internazionale situazionista, rincontro con il gruppo Socialisme ou barbaire determinerà un netto spostamento sul terreno politico.

Nella prima metà degli anni sessanta fioriscono vari gruppi e tendenze della «critica radicale», avanguardie politico-culturali che si dissolveranno nei movimenti studenteschi del sessantotto anno che segna la fine dell'internazionale situazionista in Italia. Il criticismo situazionista viene ripreso da piccole formazioni come l'Organizzazione consigliare che nasce a Torino all'inizio degli anni settanta e le cui tesi appaiono nella rivista «Acheronte», dell'organizzazione marxista-liberatoria Ludd; Consigli pro-letari che sin dal '68 opera a Genova e Milano; da alcune riviste come «S», «Hit», «Bleu». Dalla dissoluzione dell'Organizzazione consiliare nascerà il gruppo e l'omonimo giornale «Comontismo», da molti militanti della nuova sinistra accusata di anarcofascismo per il suo «avventurismo criminale». Dopo 1 esaurimento delle esperienze co-montiste e la fine del gruppo Ludd nella seconda metà degli anni settanta assumono l'egemonia «Puzz», i nuclei che orbitano attorno a «Gatti selvaggi» e «II buco». Sorta nel dibattito degli anni sessanta come nuova teoria del conflitto di fronte ai mutamenti sociali in atto e approdata nella versione di Trenti di «Classe operaia» alla «ragione» della politica, la nozione di autonomia operaia ha trovato dopo il sessantotto nella duplicità Potere operaio-Lotta continua due diverse risposte sul terreno della sua applicazione politico-organizzativa. Ma alla stregua di una contraddizione patologica, dall'interno stesso di queste esperienze, per concrezione endemica e in sincronia con l'autoalimentazione di varie dinamiche dell'illegalismo diffuso, produce il progressivo sfaldamento dei due gruppi. Si tratta di un prismatico trasversalismo che usa l'insieme del campo offertogli dalla cultura dell'antirevisionismo come area vasta da cui attingere e far emergere i punti alti dell'antistatualità, del sovversivismo di massa, degli sconfinamenti verso il terrorismo. In questo senso sarà inevitabile la resa dei conti con l'estremismo post-sessantottesco, ma occorre tagliare ogni residuo di contiguità, ogni riassorbimento, ogni virtuale riavvicinamento al movimento operaio e quando ciò si paventerà e, per effetto degli insuccessi e delle autocritiche, si manifesteranno tendenzialità positive in questa dirczione, tanto più disgregante e dissolvente si farà l'azione autonomistica. Un ruolo non secondario nello sfaldamento del gruppismo di origine sessantottesca assolvono alcune riviste underground come «Le Streghe» di Mantova, «Re Nudo» di Milano, riviste di natura fortemente eclettica come «Marxiana» diretta da Enzo Modugno, prima militante del Pcd'I e poi direttore di «Monthly review» edizione italiana. A cui si aggiunge il valore deflagrante che assume il femminismo, le sue pratiche e il suo attraversare l'insieme delle culture del sinistrismo quasi a ridefinire le forme e i valori della rivoluzione l.

Secondo i teorici delle varie riviste dell'area dell'autonomia «comportamentisticaintrospezione» si tratta di «operare per la realizzazione pratica del contenuto della rivoluzione» e liberandosi di ogni mediazione politica, affermare il valore dell'azione rivoluzionaria come immediata proiezione esterna 2. Si dilata all'infinito annullandolo nel nihilismo il principio maoista del distruggere per poi costruire. Sulla rivista «Le streghe» si legge: «II comunismo, la felicità qui e subito. Se le barricate sono dentro di noi, esse devono trovare la loro proiezione esterna, concreta, realizzandosi nella creazione di strutture alternative. Esse non devono mirare ad organizzare una migliore sopravvivenza nell'ambito delle condizioni esistenti, ma a creare i presupposti per la distruzione di quelle condizioni stesse» 3. Sul piano più propriamente teorico peraltro le culture situazioniste e negazioniste hanno sempre contestato il gruppismo, il partitismo e le rigidità organizzative di quella politica «espressione ritardataria di un terreno già bruciato dal capitale», che va superata con la riscoperta della soggettività dell'individuo e quindi ogni intervento autenticamente antagonista deve andare «oltre la politica e oltre il rifiuto politico della politica nella comunità in atto di un gruppo, di un nucleo, di una comune, di un luogo sterile o provvisorio e autorganizzato come prefigurazione in atto [...] della comunità reale». Le suggestioni rivoluzionarie del pre-sessantotto e il vitalismo dell'anno degli studenti, che si caratterizzavano per i forti riferimenti ideologici sono ridotti a schematismi improntati a sub-culture istintuali e ai modelli fanonisti e fochisti dei vari fogli della cultura marginale. Il fallimento politico-organizzativo del gruppismo porta con sé il suo carico di delusioni e frustrazioni, a cui si aggiungeva perdita di ogni modello rivoluzionario, in conseguenza del mutuarsi del quadro internazionale e la perdita di influenza del pensiero maoista con le complesse implicazioni ideologiche che aveva determinato. In una delle più complete raccolte antologiche dei materiali dell'autonomia II diritto all'odio, un titolo emblematicamente programmatico, la ricostruzione dei processi «dentro, fuori, ai bordi» dell'autonomia si annoda per passaggi come «negazione, area, piccolo gruppo in moltiplicazione, organizzazione, lotta armata, dal maschile...... Attraverso di essi si rappresenta la rottura operatasi col «progetto rivoluzionario che fu l'insurrezione del '68», il suo frantumarsi come organizzazione mancata e la conseguente: «richiesta di riformulazione politica e strategica dell'organizzazione stessa, liquidando una volta per tutte quelle direzioni — specialistiche — politiche, legate con un filo doppio a condizioni di potere gerarchico e/o personale che il movimento ha da tempo rigettato»4. Teoria dell'eterogeneo, del frammentario della compresenza ideologica piuttosto che la

staticità della «confluenza dialettica di tendenze specifiche legate fra loro da sicure discriminanti politiche e reali». Questo accomunare sarà componente decisiva del movimento del '77, ragione stessa delloccultamento e dell'alimenta-zione del Partito armato e favorirà le sue capacità di reclutamento agevolate dalle insicurezze generazionali, dagli sfocamenti ideologici, dalla diffidenza verso ogni progetto «positivo» di cambiamento della società. Il sovversivismo, fino alle forme più crudeli del terrorismo, sarà l'assurda risposta dell'interrogativo-connessione «socialismo o barbarie» dei situazionisti, una faccia dell'antistoria, una drammatica conseguenza del rifiuto dell'idea stessa di progresso civile. La politica nelle loro definizioni è il «luogo in cui non ci può essere liberazione perché tende ad integrare i comportamenti» e quindi uno strumento di normalizzazione e di soffocamento delle molteplici manifestazioni della rivolta dell'autonomia. Partendo da questo presupposto si scade nella settorializzazione dell'intervento, assumendo come occasioni del mutamento della politica il quotidiano, l'espressione immediata della logica dei bisogni è lo sgretolamento nelle varie pratiche autoriduttrici, il tutto illuminato dalle teorie del «sabotaggio». Si enfatizzano i germi dissolutori del post-operaismo: il luddismo, il rifiuto del lavoro; il rifiuto della scuola: «Tutta la pratica di liberazione della classe si presenta come de/lirio. De/lirio: uscire dall'ordine della leggibilità, della previsione — domanda risposta — dall'ordine del contratto. Nel contratto dell'operaio (il prestatore d'opera), viene chiesto di prestare il suo tempo. Rifiutarsi di prestare tutta la vita alla fabbrica è uscire dall'ordine (che il linguaggio riproduce, parte di sé): è delirare» 5. Un'esaltazione del «delirio» irrazionale che teorizza la necessità di partire dai microcomportamenti, dal «rifiuto» globale, come fase indispensabile per la «ricomposizione di un sistema di unità desideranti», piccoli gruppi costantemente in moltiplicazione e finalizzati ovunque alla «Separ/azione» contro ogni istituzionalizzazione e ogni interclassismo. Esasperazione quindi della creatività e della fantasia, come liberazione e gestualità della protesta e della violenza, come espressioni visibili del «diritto allodio». Rifiutata la politica e l'ideologia come spettacolo del capitale, negata la storia della gruppettistica coi suoi intellettualismi ideologizzanti si approda a un qualunquismo che rifiuta la realtà, e nell'ossessione individualista annulla ogni prospettiva politica per sostituirla con l'estetismo rivoluzionario del gesto. La radicalizzazione dei comportamenti si intreccia con i moduli del terrorismo e favorirà il reclutamento del Partito armato e la sua cultura. Mentre il Manifesto, Avanguardia operaia e i residui del marxismo-leninismo con differenti accentuazioni, prendono le distanze dalla clandestinità e dalle azioni delle varie sigle terro-ristiche, Lotta continua seguirà un itinerario meno limpido e Potere operaio, decidendo l'autoscioglimento, confluirà nel magma

dell'Autonomia, una terra senza confini nei confronti del-l'uso della violenza. In un complesso passaggio di fase, per effetto delle stesse sconfìtte subite, la classe operaia non è più considerata la principale protagonista del processo rivoluzionario: in una società postindustriale questa funzione dinamica e dissacrante insieme spetta ai soggetti marginali dentro o fuori del sistema produttivo. Emblematico questo documento-proclama dei comontisti: «Diretto prodotto del movimento autonomo del capitale, in ogni parte del mondo va configurandosi una nuova classe rivoluzionaria che comprende non soltanto gli individui estraniati nella produzione, ma anche coloro che, estraniati dalla produzione, attraverso il crimine e la distruzione riportano la prospettiva umana nel campo della qualità, liberandola dal dominio brutale della quantità. I Comontisti, contro ogni illusione tipo politica, si propongono di vivere, estendere, radicalmente organizzare concretamente il negativo che il mondo del capitale ha dentro di sé, costituendo un legame organico fra le isolate esplosioni di collera sovversiva, realizzando infine quella comunità di intenti e di azione che solo può abbattere il dominio della mercé e delle ideologie. Il Comontismo (traduzione di Gemeinwesen, da ComOntos dell'essere) non è altro che "movimento reale che sopprime le condizioni esistenti" (Marx), la comunicazione libera della ideologia. La creazione dell'ultima Internazionale deve essere oggi il bisogno concretamente umano di tutti i rivoluzionari» 6. La critica al capitalismo diventa negazione; un fatale pessimismo nella storia e nella possibilità di trasformazione, che annulla il valore e la funzione della «politica» per contrapporvi il ribellismo 7. Ostacolo al dispiegamento di quella «collera collettiva», unica portatrice di una radicale distruzione dell'esistente, la tradizione politica del movimento operaio organizzato, con la sua «ossessiva» volontà storica di «farsi Stato». Marcuse e Fanon, si ritrovano insieme, sfondo comune la desolazione e l'irrazionalismo che conducono al privilegio della gestualità della violenza. Lo sviluppo dell'area dell'autonomia nel suo filone cosiddetto «creativo» si incontra con la storia dei raggruppamenti della Autonomia operaia organizzata, in questo intreccio troverà origine, non esclusiva, il movimento della primavera '77, 1 emersione come soggetto politico della «Tribù delle talpe» per dirla con Sergio Bologna. Ma prima ancora uno snodo temporale decisivo sono gli anni tra il '72'73 quando si conclude disastrosamente un ciclo dellestremismo postsessantottesco e nella prospettiva ormai si delinea l'incubo della lotta armata. Partecipare a un gruppo, dividersi da questo, riunirsi per evitare l'isolamento e la quotidianità, cercare la «politica» nella vita comune, cercare di essere il «cioè» di una nuova storia: sono i processi segmentati e densi di drammi, di fuga, che segnano il puntiforme panorama dell'atomizzazione della politica. Il serbatoio da

cui si alimenterà il Partito armato sfruttando l'illusione di una ricomponibilità realizzata nell'appuntamento «svolta» eccezionale. Riflusso e ricomposizione si fanno poli d'alternanza nella storia delle forme organizzate dal gruppismo. La dissolvenza di Potere operaio, ormai nella sua fase involutiva, lo porta a incontrarsi con il negativismo comontista, con l'autonomismo dei collettivi del Policlinico e dell'Enel di Roma, a divenire attraverso «Rosso» e i molti fogli di coordinamento la nuova forma dell organizzazione, a porsi, oggettivamente, come la facciata di movimento del terrorismo delle Br, dei Nap, di Prima linea. Non si tratta di un meccanico incontro di sigle; piuttosto dissolvenza, mescolamento, trasversalismo dell'illegalità; mixage; progettazione eversiva aggrumata di letteratura e pratica della crisi8. L'azione, la traduzione in forma centralizzata delle varie esperienze, è un preciso disegno politico a cui si lavora combattendo frastagliamenti e insieme sfruttando al massimo tutto il campo dell'eversione. Il tessuto connettivo è la violenza antistituzionale, sempre più surrogato della politica, sempre più esclusiva rappresentazione della critica a un capitalismo vissuto come proiezione della propria marginalità. Nelle tesi per la liberazione del lavoro proposte dall'Organizzazione consiliare già nel 1970 si legge: «I consigli proletari non chiederanno nulla di meno della distruzione di questa società, dell'abolizione del lavoro, della eliminazione violenta di ogni istituzione separata (scuole, fabbriche, prigioni, chiese, partiti, ecc.) poiché esisterà il potere decisionale di ciascuno nel potere unitario ed assoluto dei consigli. I consigli proletari non saranno nient'altro che l'inizio della costruzione da parte di tutti della vita libera e felice oggi relegata nei desideri e nei sogni prodotti dall'infelicità dell'attuale sopravvivenza. Proletari coscienti, che la maledizione del lavoro sia maledetta, che l'ineluttabilità della produzione diventi il suo lutto»9. La prova è venuta da Reggio Calabria, «dove il proletariato si è costituito in teppa per cominciare la sua sfida cosciente all'incoscienza dell'ordine costituito». La critica alle istituzioni diventa disprezzo, il linguaggio nella sua truculenza evoca una violenza protestarla, qualunquista, rabbiosa: «I partiti sedicenti operai sono le vedettes dello spettacolo sociale e dell'ordine costituito. Il loro fine è la conservazione rammodernata delle miserie sociali ed individuali, per l'identifìcazione di ciascuna di esse, condite con lolio della speranza di "un futuro migliore". Questi partiti conservatori, Pci in testa, hanno il compito di limitare, per quanto gli è possibile, l'odio di classe del proletariato, trasformandola in pacifica protesta del cittadino. Il prestigio nel casino parlamentare è il prezzo delle marchette di queste troie incallite. I gruppi cosidet-ti parlamentari sono gli apprendisti stregoni della magia burocratica ed i loro sogni — incubi per il proletariato — hanno sempre la stessa idea fissa: il nuovo partito con le vecchie fregature. Costoro, infatti, palesando un estremismo verbale che rivela il loro trionfalismo ideologico, contrabbandando per la lotta rivoluzionaria slogans privi

di contenuto, tendendo la realtà a lotte sempre più parziali anche se massimaliste (orario, salario, affitto, etc.)» 10. Il salto rivoluzionario degli strati marginali non può che essere il sabotaggio: «Agli idioti che credono che i proletari si battono per gli aumenti di un salario illusorio o per migliorare una "vita" così schifosa che può essere rivoluzionata ma non migliorata, ebbene a costoro hanno già risposto i proletari non solo italiani ma di tutto il mondo con: sabotaggi, violenza contro i capi e i burocratici, saccheggi delle merci da essi stessi prodotte, odio per il lavoro manifestato con l'assenteismo generalizzato, occupazione di fabbriche non per condurre le vecchie merci ma per costruire gli oggetti di cui i proletari hanno bisogno» n. Uno sfondo teorico che porta all'interesse per le carceri, per le rivolte carcerarie, che spinge alla costruzione dell'organizzazione rivoluzionaria tra i detenuti. Ma queste attenzioni non sono finalizzate a generici «recuperi», a superare le arretratezze delle istituzioni negate, sono recuperi per la rivoluzione, sono leve da sfruttare per la distruzione dell'ordine sociale.

2. I Comitati autonomi

Nel darsi una storia, i Comitati autonomi operai di Roma nella loro rassegna antologica Autonomia operaia, fanno risalire la loro formazione ai processi che si sono sviluppati «già da prima del '68 con i fatti di corso Traiano e di piazza dello Statuto». Quindi si collocano in un processo di continuità interrotta in cui il «dato emergente dell'autonomia operaia difetta ancora di soluzioni organizzative perché represso dai partiti revisionisti e confinato nello spontaneismo della logica subalterna dei gruppi della sinistra extraparlamentare» u. L'esperienza politica dei gruppi, un' esperienza «vissuta intensamente», ha lasciato segni di «frustrazione diffusa» in quelle che vengono definite le avanguardie di lotta. I fallimenti organizzativi, «il forzato rinvio» della prospettiva rivoluzionaria, l'incapacità di costruire «l'auspicata organizzazione di classe» sono i marchi di questa frustrazione. Nasce da ciò la critica sempre più aspra ai modelli e alla pratica politica dei minipartiti dell'estremismo, anch'essi ormai istituzionalizzati. Tra il '72 e il '73 le rotture, allora non clamorose, che attraversano tutte le formazioni del gruppismo. A Roma, il Comitato politico dell'Enel, e il collettivo dei lavoratori del Policlinico escono dal Manifesto. Fallito ogni tentativo di unificazione con Potere operaio rifiutano, considerandola un'ammissione di subalternità al Pci, la liquidazione dei Comitati politici decretata al convegno nazionale di Milano. Contestata la piattaforma di Rimini, definita «primo segno del macroscopico cedimento in atto», la critica investe tutta 1 esperienza del Manifesto e in particolare la persistente ambiguità verso la sinistra storica, conseguenza ed effetto delle stesse scelte organizzative: «Ma questo cedimento è diventato possibile perché il partito stesso che si configura già ora, nel suo embrione organizzativo, come dirczione elitaria; centralismo (democratico) anziché centralizzazione dal basso; impossibilità di un uso politico costruttivo del dissenso; sostanziale identificazione della dirczione nazionale con la redazione e il gruppo parlamentare» 13. Il commissariamento di Eliseo Milani non dà alcun risultato. I dissidenti cercano di «bombardare il quartier generale» del Manifesto, cercano di coallzzare attorno a loro le forze antagoniste che si riconoscono nella piattaforma dell'autonomia operaia. In seguito al rifiuto di Milani di legittimarla come controparte la frazione dissidente del comitato politico Enel rompe con il Manifesto, lanciando un atto di accusa contro il verticismo burocratico del gruppo e 1 opportunismo della sua

linea politica: «Concludendo, invitiamo la base militante in buona fede a prestare debite attenzioni a quanto avviene oggi all'interno del Manifesto e a smettere di fare da supporto ai burocrati e ai falsi parolai, del resto sempre molto timidi rispetto ai capi carismatici; e a smascherare fino in fondo, senza ambiguità, questi «dirigenti» e la linea che questi impongono, per sbatterli giù dalle loro poltrone e avviarli a una pratica di lavoro che da molto tempo hanno preso in funzione della cooptata carica di dirigente per alcuni, per altri acquisita per diritto «divino» di rappresentare o aver rappresentato le istituzioni» l4. Comitato politico Enel, collettivo lavoratori e studenti del Policlinico, militanti della Fiat Grottarossa, formano così il nucleo embrionale del gruppo romano di via dei Volsci. Il pretesto è stata la conduzione delle lotte, nelle scuole e nelle piazze, ma la divergenza reale è sul come radicalizzare lo scontro. La prospettiva è quella di riferirsi all'area politica che si riconosce nell'autonomia, condizione decisiva per evitare l'istituzionalizzazione dell'organizzazione e lo scadimento parlamentaristico. Obiettivo la «costruzione di un partito che diriga l'apertura di un processo rivoluzionario». Quasi contemporaneamente nascono le Assemblee di Porto Marghera e dell'Alfa Romeo, che prendono le distanze dal gruppismo tradizionale. Potere operaio, anche se nel suo seno si confrontano linee diverse sui temi del partito e della lotta armata, è consapevole della metamorfosi in atto e finirà per concorrervi acquisendola come continuità e sviluppo della propria ipotesi organizzativa e politica. Per il gruppo, uscito dal congresso del '71, avvinghiato dalla morsa dell'illegalismo e proiettato verso il partito del-l'insurrezione, lo sviluppo dell'autonomia è la nuova sponda che si offre per riagglutinare la microconflittualità e incanalarla in una centralizzazione svincolata dalle esigenze partitiche del gruppismo. Su «Potere operaio del lunedì», nel novembre '72, si legge: «...noi non crediamo giuste quelle posizioni che vedono in questi momenti organizzati delTAutonomia solo degli strumenti di transizione a livello di massa di linee politiche precostituite, degli strumenti di organizzazione di lotte settoriali che vengono riunificate dalla posizione politica di un gruppo. Siamo cioè contro quei gruppi che credono di essere il partito rivoluzionario e che gli organismi autonomi debbano diventare i loro organismi di massa» 15. L'approdo non è stato immediato e all'interno del gruppo si sta andando a un'irreversibile resa dei conti. Analogo rifiuto di ogni pratica di direzione politica, riconducibile ai moduli del partito, si ritrova nelle motivazioni che inducono l'Assemblea autonoma dell'Alfa a rompere con Lotta continua e le altre formazioni accusate di voler conquistare i loro spazi di egemonia riducendo a «intergruppo» la dinamica pluralistica dei movimenti autonomi: «Noi abbiamo posto alcune discriminanti, non crediamo che il partito operaio rivoluzionario possa formarsi nel modo tradizionale: gli intellettuali che danno una linea che poi scende nelle fabbriche a cercare le

avanguardie che portino avanti questa linea. Questo non è possibile. I vari movimenti autonomi debbono direttamente contribuire a costruire il partito della classe operaia. E non riconosciamo in nessun gruppo questo partito» 16. Sincronica al procedere dell'area negazionista cresce l'Autonomia organizzata. Il convegno di Napoli, 25-26 novembre 1972, a cui partecipano i rappresentanti romani dei collettivi Enel e del Policlinico, i gruppi napoletani dell'Usd; il successivo convegno di Firenze del '73 e infine, nel marzo dello stesso anno, il convegno di Bologna, sono le principali tappe che portano alla costituzione di un primo coordinamento nazionale. Già a Napoli tema di fondo è la questione della violenza «rivoluzionaria», unico terreno per vincere l'ondata repressiva del capitalismo e del revisionismo, il suo principale alleato. Ancora una volta il Meridione sembra essere prescelto come potenziale laboratorio, area di concentrazione esplosiva delle contraddizioni sociali in cui «le forme delle lotte, anche immediate tendono in modo sempre più chiaro a sviluppare la tradizione di lotta, anche armata, delle masse meridionali» ". Più in generale: «la violenza operaia è violenza di massa nel momento in cui interpreta le esigenze di tutta la classe». Da questa premessa scaturiscono gli obiettivi di lotta: salario garantito, sconfìggere la mobilità e la polivalenza, battersi contro i licenziamenti, i ritmi, il loro affitto, il caro bollette... Sperimentare forme di assenteismo e sabotaggio produttivo 18. L'attenzione è al territorio, luogo dove si può ricomporre la frattura occupati-disoccupati, luogo dove si possono sperimentare le zone di coordinamento territoriali. I partecipanti del convegno di Napoli decidono di inviare una delegazione a Milano e a Porto Marghera per incontrarsi con le organizzazioni autonome; di promuovere a Firenze una riunione operativa nazionale; di lanciare per il 12 dicembre, anniversario della strage di Stato una campagna di manifestazioni di lotta. Il preconvegno di Firenze si svolge il 27-28 gennaio '73 e le strutture che vi aderiscono: l'Assemblea autonoma dell'Alfa Romeo, della Pirelli, il Comitato di lotta della Sit Siemens di Milano, l'Assemblea autonoma di Porto Marghera, il Comitato operaio della Fiat-Rivalta di Torino, il Comitato politico Enel e il Collettivo lavoratori e studenti del Policlinico di Roma, i Comitati operai di Firenze e Bologna, l'Usd di Napoli, le Leghe rosse dei contadini di Isola Capo Pizzuto e Crotone, lanciano il convegno nazionale che si terrà a Bologna il 3-4 marzo del 1972. Lo stesso «Potere operaio» propaganda l'appuntamento bolognese. Annunciandone la convocazione scrive: «in discussione è un progetto di centralizzazione delle forme di autonomia operaia che dentro la crisi del sistema, diventi la risposta organizzata del movimento all'attac-co concentrico della borghesia, dia una soluzione positiva alla crisi dei gruppi e alle settorialità delle singole lotte ed esperienze» 19. L'ipotesi da verificare è la possibilità di unire attorno al programma del salario

garantito tutte quelle forme di lotta che partendo dall'immediatezza dei «bisogni» sappiano proporsi come nuova democrazia proletaria e diventare un punto di riferimento contro il ricatto della crisi e della falsa democraticità dello Stato del lavoro. Per comprendere il conflitto ormai apertosi tra monoliti-smo organizzativo e destrutturazione è utile riportare le considerazioni di Potere operaio alla vigilia di Bologna: «Deve essere ben chiaro che è passato il tempo dei coordinamenti delle esperienze di base. I comitati operai possono essere oggi quella rete attorno a cui convogliare le forze rivoluzionarie che sono sorte in questi anni in Italia per dare loro forma di partito. Ma questo è possibile a condizione che i comitati partano dal punto più alto della sintesi dell'esperienza politico-organizzativa del movimento, e cioè dal programma del salario politico e dalla lotta armata come unico mezzo adeguato a questo programma»20. Se ciò non avverrà, precisa Potere operaio, ogni coordinamento sarà transitorio e volontaristico, una delle tante varianti dei gruppetti. La relazione introduttiva al convegno di Bologna parte dall'eccezionale valore delle lotte del '68-'69: uno scossone eversivo che ha spazzato via l'illusione riformista e capitalistica dell'omologazione della classe operaia. È proprio in questo crinale dello scontro di classe che «il rifiuto di massa da parte operaia di accettare il lavoro come terreno di scontro, rifiutandolo e basta, prende il nome di autonomia» 21. Secondo questo schema interpretativo, nel fronteggiare questa nuova forza, l'imprevedibilità del rifiuto, nel breve volgere di alcuni anni lo Stato della programmazione non avrà altra scelta che tramutarsi nello «Stato della crisi, della violenza antioperaia». Saltano così le due facce del riformismo, quello di stampo amendoliano e quello razionalizzatore e pianificatore stile La Malfa. Esiste una stretta connessione fra valore dell' autonomia e crisi, per questo, compito della classe operaia è approfondirla e radicalizzarla. Le varie piattaforme contrattuali proposte dai sindacati sono altrettanti ostacoli frapposti alla scelta dell'autonomia come «alternativa organizzata ai bisogni del capitale e alle organizzazioni tradizionali della classe legata ai bisogni». Senza esitazione occorre, dunque, tagliare ogni cordone ombelicale coi consigli dei delegati, paravento istituzionalizzante delle lotte operaie. In polemica con le altre formazioni estremistiche, in particolare con le posizioni che si fanno strada in alcuni settori di Lotta continua, si mette in guardia dalla confusione ingenerata dalla paiola d'ordine dell'abbattimento del governo Andreotti. Partendo dal presupposto che «la soluzione repressiva» è gestita tutta in nome dell'ordine democratico e costituzionale, qualunque governo, sia esso di centro, di centro-destra o di centrosinistra, risponderà sempre con gli stessi strumenti repressivi contro l'autonomia. Per conquistare il modesto risultato della

caduta del governo Andreotti, sarebbe fuorviante ogni unanimismo, si tratta infatti di un'ipotesi del tutto riassorbibile dal riformismo. Unica strada per l'alternativa rivoluzionaria è procedere, dotandosi di moduli organizzativi propri, sul terreno «non legalistico» del movimento e dell'«autogestione dello scontro». La «centralizzazione dal basso» è la condizione indispensabile del processo rivoluzionario e del partito rivoluzionario. In polemica con le soluzioni organizzative tentate e fallite dei gruppi la prospettiva dell'Autonomia si rappresenta più dinamica e meno strutturata. Ormai si è a una stretta «le scadenze politiche faranno giustizia dei gruppi, decideranno chi è destinato a sopravvivere». Contro il verticismo del farsi partito si indica una dialettica permanente fra la centralizzazione e quelle situazioni destrutturate dove esplode, per vie interne o su sollecitazione esterna, la forza disgregante dell'autonomia: «Intanto stronchiamo, però, l'illusione che il partito nasca dai gruppi, stronchiamo l'illusione che si possa saltare l'organizzazione dal basso delle avanguardie di massa. C'è oggi un unico modo per costruire un processo unitario di promozione dell'organizzazione rivoluzionaria: quello di puntare sull'autonomia e fare di essa il polo dialettico dei gruppi, costringendoli ad una verifica con la classe stessa. Questo nuovo problema organizzativo che si presenta come un approfondimento del significato che diamo ali'autonomia, impone un nuovo compito politico, di cui dobbiamo farci carico: l'organizzazione politica operaia non esiste senza coscienza dell' autonomia e questa non si attua senza una presa di coscienza del problema del potere; il nostro compito è quello di ricostruire nella classe operaia questa coscienza del potere proletario che le organizzazioni tradÌ2Ìonali hanno distrutto nella classe. Se non saremo in grado di ricostruire questa coscienza del potere nella classe non saremo capaci di costruire la strada per un' alternativa di potere, e la lotta ristagnerà dentro gli schemi di una coscienza puramente rivendicativa» 22. Il potere significa violenza proletaria e, quasi definendo manuali di comportamento dell'illegalità per «valutare quando la violenza è braccio armato o no», si teorizzano come parametri dell'azione violenta: il suscitare adesione, partecipazione, riproducibilità; una strumentazione funzionale alla disarticolazione della democrazia politica. Sono gli stereotipi attraverso cui si possono leggere le pratiche terroristiche, le modulazioni propagandistiche dei signori della guerra, le spirali di sangue dei nostri «anni di piombo» con le loro farneticanti prospettazioni politiche. I 400 delegati che si riuniscono a Bologna decidono i primi strumenti di coordinamento: un bollettino politico con carattere mensile, un'articolazione del lavoro sui temi del Sud, della violenza, dei vari settori d'intervento. Partecipano ai lavori bolognesi le seguenti situazioni di lotta: Milano - Alfa Romeo, Pirelli, Sit Siemens, Farmitalia, Binda; Porto Marghera - Petrolchimico, Chatillon, Rex Pordenone; Napoli - Ignis, GIE, Italsider, Edili, Porto, Sip, Mecfond; Torino - Fiat

Mirafiori, Fiat Rivalla, Telemeccanica Afm; Genova - Italcantieri, Ansaldo Meccanico, Ansaldo Nucleare; Ferrara - Montedison, Eridiana; Firenze - Galileo, Carapelli; Roma - Enel, Policlinico, Sip, Edili. Il «Bollettino degli organismi autonomi operai» numero unico esce il 12 maggio del '73, seguirà un secondo numero. Prende corpo il progetto di «un piano di violenza a lungo termine» dentro una crisi repressiva di lunga durata a cui la classe deve rispondere non nella vecchia «spirale repressione-lotta-lotta alla repressione» ma come coscienza di massa organizzata dell'insubordinazione. Simmetricamente le Br, nel loro documento-intervista pubblicato su «Potere operaio del lunedì» nel marzo dello stesso anno, teorizzano la presenza attiva all'interno «di ogni manifestazione dell' autonomia operaia» per unificarla attorno alla «proposta strategica della lotta armata per il comunismo». Lungo le direzioni di marcia tracciate a Bologna, sempre nel maggio, il convegno di coordinamento a Torino esamina la fase seguente «all'occupazione» di Mirafiori e alla conclusione dei contratti. Se le Br si propongono come struttura clandestina che guarda al Partito della lotta armata, per l'Autonomia si tratta di non separarsi dal movimento proprio per volgerlo verso un progetto di organizzazione della violenza, unificando i comportamenti operai e quelli dei proletari dei quartieri in una comune strategia dell eversione. Sono due volti della violenza illegale che entreranno in reciproca risonanza producendo con le loro mutevoli interferenze i punti di contatto operativo e teorico, vasi comunicanti di un medesimo disegno eversivo. Militarismo e movimentismo armato diverranno le componenti della dialettica terroristica, nuova versione sul fronte della clandestinità e della azione armata, della querelle «partito-spontaneità» che la fluidità del campo dell'autonomia presenta in una nuova e più inquietante versione.

3. Il gruppo Gramsci

In questo scenario, mentre matura la crisi-riconversione di Potere operaio, analoga sorte segue il gruppo Gramsci. Scrivono i comitati romani di via dei Volsci «la scelta sarà comunque una scelta obbligata, sarà l'Autonomia operaia». Dunque ancora una volta la «vecchia talpa» ha ben scavato. Nel lungo seminario di Padova (28 agosto) Potere operaio, insieme ai militanti delle situazioni autonome più rappresentative, passa al vaglio la sua storia di gruppo per concludere con l'autoscioglimento e la confluenza nel campo vasto dell'Autonomia. Guardandosi bene dallo smarrire la propria esperienza, e precipitando ulteriormente lungo il piano inclinato del «partito della insurrezione», lanciato nel congresso del '71, per gli ex di potop si ricomincia da capo operando «una radicale campagna di rettifica di linea e di dissoluzione della "struttura di gruppo" una vera e propria rivoluzione culturale nell'ambito dell organizzazione della sinistra rivoluzionaria» 23. Da Potere Operaio, dalle sue varie scomposizioni e occultazioni nelle forme autonomistiche, si origina un pullulare di sigle: «Senza padroni» alla Alfa, «Mirafiori Rossa» a Torino, «Lavoro zero» a Marghera, «Rivolta di classe» a Roma; «Linea dicondotta», il gruppo che più di ogni altro sembra voler mantenere una continuità con le originarie matrici operaiste. Negli stessi mesi si realizza l'autoscioglimento del gruppo Gramsci, provocatoriamente, ma significativo del clima del periodo, si afferma la priorità delle scadenze e dell'articolazione del programma di lotta su ogni teoria, elemento quest'ultimo che è stato motivo surrettizio di unità o di falsa divisione fra i gruppi. E tempo di dire «basta con la società del vivere e del lavorare»24. Il passato, anche se rivisitato, non è rinnegato. Per lo più si tratta di militanti di provenienza studentesca, con cultura post-sessantottesca cresciuti nella vicenda dell'estremismo, nella lotta degli studenti medi; qualche scarso contatto con la classe operaia, qualche influenza nei settori dei servizi e negli ambienti impiegatizi. Nato nel gennaio '71 da una scissione del movimento studentesco della Statale di Milano, il gruppo Gramsci si era subito collocato in posizione critica verso le «proposte politiche» della sinistra extraparlamentare considerate limitative nella loro visione più rigidamente partitica. Riconoscendo la debolezza

dei rapporti dell'estremismo con le masse, il gruppetto tenta un approfondimento di ricerca sulla linea dell' esasperazione «autonomistica». I «Quaderni di rassegna comunista» e l'omonima rivista non vanno oltre le petizioni di principio e, sia sul piano teorico che pratico, si dimostra la velleità del declaratorio «costruire un'altra forza» del processo rivoluzionario. Dopo una brevissima vita, il convegno di Agape (1-3 settembre 1972) e poi quello di Milano (12-13 maggio 1973) decretano di superare la fase gruppuscolare per sciogliersi nell'autonomia: «Come gruppo, siamo giunti alla decisione di scioglierci per poter, nei fatti e nella pratica, realizzare il centro della nostra proposta politica: l'organizzazione della Autonomia operaia e la pratica di un embrione di dirczione operaia sul processo di organizzazione e sul movimento. Il nostro scioglimento non è però una proposta che riguarda solo una nostra riorganizzazione (sia pure allargata ai collettivi politici operai): è una proposta di cui non pensiamo affatto di avere il monopolio, anche se ci va bene di esserne, con le nostre forze, portatori e propagandisti. Sappiamo che altri, per le altre strade, sono giunti allo stesso risultato; e che altri ancora, nel prossimo futuro sperimenteranno fino in fondo la crisi del modo di far politica gruppettistica. Non solo: ma che in fabbrica e nelle scuole inizia una fase di scontro violento con la linea e la pratica riformista che aprirà ampi spazi per un lavoro politico diversamente organizzato. Pensiamo dunque che questa proposta, nata dentro la nostra pratica politica, sia matura anche in rapporto alla fase politica che si apre (e per questo lo scioglimento era irrimandabile)» 25. La commissione nazionale, decisa al convegno di Bologna, inizia a funzionare da centro politico di coordinamento prepara le prime proposte organizzative per la riunione nazionale che si svolge nel settembre a Milano, indica nei comitati di reparto la struttura molecolare del progetto complessivo dell'autonomia. Analoga logica guida l'intervento nel sociale, e in particolare laddove più acuta è la volontà di lottare, cioè in quei settori dove più aspre si manifestano le contraddizioni delle regole ca-pitalistiche e il «rifiuto» ha già trovato le sue forme di espressione come il sottoproletariato urbano, le carceri, le zone di varia marginalità, la stessa criminalità. Comitati di reparto, comitati di quartiere, debbono unificarsi in una comune capacità di attacco, essenziale a questo fine la tessitura organizzativa. «Ricominciare non significa tornare indietro» aveva affermato Potere operaio al momento del suo scioglimento, e pur riconoscendo che «la crescita della dirczione operaia delle lotte e dell'organizzazione ha dissolto le istanze organizzative dei gruppi» tuttavia aggiungeva: «La centralizzazione, il partito non sono dei miti, non sono la soluzione delegata del problema della dirczione collettiva del proletariato; sono invece un processo di lotte e di organizzazione, vissuto ogni giorno, nel difficile cammino della formazione organizzativa del programma. Il nostro problema non è altro che quello di congiungere in modo corretto, e quindi

efficace, la compatta autonomia della classe operaia e i movimenti della sua avanguardia. La classe operaia si fa partito attraverso la centralizzazione dei propri movimenti. Questo processo di partito può essere anticipato solo attraverso la centralizzazione di base, pratica e non ideologica, attuata nella con-centrazione di una forza di massa e di un'iniziativa di attacco. E per questo che la centralizzazione che proponiamo e cominciamo a mettere in atto per noi stessi si presenta come forza espansiva, come struttura espansiva, che raccoglie per esaltare (e non per illanguidire, come avviene nei gruppi) ogni iniziativa proletaria contro il lavoro» 26. La fase è magmatica e solo con il convegno di Roma nel gennaio '74 si riuscirà a realizzare una maggiore centralizzazione, verifìcando il processo in atto nei vari gruppi dell'autonomia organizzata. Come quindicinale del gruppo Gramsci a partire dal 19 marzo del 1973 esce la rivista «Rosso». Si è nella fase di passaggio. La presentazione è essenziale, bastano «quattro parole»: «Giustificare l'uscita di un quindicinale è semplice. Siamo un gruppo, abbiamo una proposta politica che si differenzia dalle altre, vogliamo farla andare avanti» 27. Si vuole parlare a chi lotta con tenacia nelle scuole e nelle fabbriche, una lotta che ormai dura da più di cinque anni; si vuole partire da quello che essi esprimono e da ciò creare le condizioni per «far marciare una proposta rivoluzionaria realistica». Si vuole partire dalla fabbrica dove la classe operaia ha dimostrato di essere forte: «estranea» al modo di produzione capitalistico, «autonoma» negli obiettivi e nelle lotte. Da ciò impostare un programma di lotta «per l'egualitarismo e per l'unità di classe contro la divisione in qualifiche, contro la divisione tra impiegati e operai, contro orari troppo lunghi per salari troppo bassi, contro i ritmi e le nocività, contro la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, cioè contro questo modo di produrre» 28. E ancora intervenire nella scuola dove si esprime l'estraneità allo studio, alla scuola come «fabbrica di qualifiche e di divisione», e su questa consapevolezza costruire le basi per una comune alleanza con la classe operaia: questa «estraneità» è la forza su cui far leva per realizzare quella «realtà finalmente concreta su cui far marciare il progetto per il comunismo». «Rosso» si proclama un giornale «aperto» e non di «bottega»; un giornale, non per ripetere quello che si è, ma che cerca e vuole il concorso delle lotte per esprimere l'«autonomia» come «bisogno materiale» di una radicale distruzione di questa società. Sul numero 2 del periodico (2 aprile del '73) si lancia una campagna nazionale di lotta contro le «bocciature e gli esami a settembre». La piattaforma si presenta rozza nella sua radicalità «no alle bocciature, no agli esami a settembre,

no ai voti di condotta, pre-salario per tutti, scuola totalmente gratuita». Le forme dell'organizzazione si limitano alla riproposizione dei collettivi operai e studenti mentre il mensile teorico del gruppo affronta il tema del partito: «inizio di un dibattito con le avanguardie autonome, Avanguardia operaia e Lotta continua». Il quindicinale esplora le situazioni di fabbrica, inneggia con trionfalismo alla lotta Fiat del marzo '73 definendola un fatto storico, torna con insistenza sulla spiegazione teorica della autonomia 29. Nel tentativo di trovare aree di unificazione ripesca la Rivoluzione culturale cinese, nel numero 4 di «Rosso» del 7 maggio '73 appare un ampio inserto «La Rivoluzione culturale è morta, viva la Rivoluzione culturale». A Milano, il 12-13 maggio si svolge il convegno nazionale del gruppo Gramsci, tema: «Bilancio politico e dibattito su organizzazione e partito», si riprendono molti degli argomenti già presenti nel convegno di Agape del settembre 1972. A distanza di poco verranno pubblicate le tesi del gruppo Lotta di classe e organizzazione dell'autonomia e problema del partito. Con il numero 6 finisce la pubblicazione del primo ciclo del quindicinale «Rosso», la fascetta di copertina annuncia la necessità di sviluppare un discorso critico, si chiedono contributi in preparazione della ripresa delle pubblicazioni per il 1° ottobre. Gli spezzoni del gruppo confluiscono nell'Autonomia organizzata che avvalendosi di questi apporti come del contemporaneo concorso dell'ex Potere operaio compie un ulteriore salto di qualità 30. Nella riunione di coordinamento che si svolge a Milano il 13 settembre del '73, appare evidente la volontà dicentralizzarsi sfruttando una programmata disarticolazione del gruppismo. Un'intenzione che deve però fare i conti con le specificità delle varie realtà, con progetti e strategie molto diverse fra loro. Prende forma in quei mesi la galassia dell'autonomia: i collettivi veneti, i comitati operai romani, le esperienze napoletane. A ottobre del 1973 esce il periodico «Controinformazione», numero unico in attesa di autorizzazione, la rivista diventerà tristemente nota come fiancheggiatrice del terrorismo, uno dei principali veicoli di diffusione del materiale delle Br e delle varie formazioni del «partito armato». A questa prima serie collabora lo stesso Toni Negri. Già sul numero unico trova ampio spazio il drammatico episodio di Primavalle, Come costruire una strage con poco, dettagliatissima la documentazione, numerosi i materiali delle Br: il comunicato sulla gogna a Bruno Labate, i documenti Guerra al fascismo di Almirante e Andreotti, Lotta armata per il comunismo, si riportano stralci dell'opuscolo Guerra ai fascisti nelle fabbriche torinesi. Sul concetto di «convenienza operaia» insiste il documento firmato Assemblea autonoma Alfa Romeo, Assemblea autonoma Pirelli, Comitato di lotta Sit

Siemens, in preparazione del nuovo appuntamento nazionale fissato a Milano nel dicembre '73: «Punto di partenza deve essere il criterio di convenienza operaia, criterio che pone in modo sostanziale sul terreno dell'illegalità, convenienza che talvolta può essere perseguita anche attraverso forme di azione diretta che entrano nella sfera della cosiddetta violenza proletaria» 31. Firmano il documento le Assemblee autonome Alfa Romeo, Pirelli e il comitato di lotta Sit-Siemens. A Milano, la formula sarà generalizzata, essa rappresenta: la proiezione in fabbrica della teoria dei bisogni, un'acquisizione soggettiva e individuale che porta subito non solo all'impatto con le leggi e le regole della produttività, a misurarsi nella «lotta quotidiana» contro di esse. Soggetto collettivo organizzativo è l'autonomia come rifiuto di ogni «ordine» e il comitato di reparto è l'unità operativa nella fabbrica. Se realizzare e praticare la linea della «convenienza operaia» significa fuoriuscire da rapporti precostituiti, da leggi e regole fissate è evidente che questa forzatura si pone subito sul terreno dell'illegalità costruendo «forme di azione diretta» che entrano nella sfera della cosiddetta violenza proletaria ". A Roma, nel gennaio '74, si realizza una più compiuta verifica dello sviluppo dell'autonomia e della sua capacità di autostrutturarsi lungo le direttrici già fissate dal coordinamento nazionale. L'analisi della situazione riprende lo schema operaistico della unificazione sul «salario» e rispetto al quadro politico si denuncia il patto di centro-sinistra, come programmazione della tregua sociale, e il revisionismo come garante della cosiddetta «solidarietà produttiva». La mozione conclusiva è esplicita: «II governo di centro-sinistra è l'artefice della programmazione della tregua sociale. Il nuovo modello di sviluppo diventa lo sfruttamento ancora più intenso della classe operaia per costruire sulle sue fatiche la rinascita nazionale e la ripresa produttiva. Sindacati e partiti riformisti rappresentano gli intermediari che garantiscono questo progetto presso la classe operaia cercando di fargli sposare la solidarietà produttiva. Oggi l'alternativa per la classe operaia è quella di non accettare la rassegnazione, di lottare sui propri bisogni immediati e di prospettiva, mettendo al centro della ripresa delle lotte la fondamentale necessità della crescita dell'organizzazione autonoma in fabbrica a partire dalla linea e dal reparto [...]. E il salario che oggi unifica la classe e mette ancora più in crisi i padroni. Per questo oggi borghesia, sindacati, riformisti chiamano corporativa la classe operaia quando chiede salario e se ne frega degli interessi nazionali del paese; i suoi interessi sono opposti a quelli dei padroni, tanto meno si possono conciliare all'interno di una crisi che la classe operaia deve spingere perché si trasformi nella tomba dei padroni e nella nascita del potere proletario» 33. Intanto si consolida la presenza autonoma nell'area dei servizi, un rafforzamento che utilizza al massimo le sacche di corporativismo, spinge alla polverizzazione rivendicativa mascherandola dietro la presunta «convenienza operaia» e sfruttando come cassa di risonanza l'estremizzazione delle forme di lotte.

La scelta di quest'area di intervento corrisponde a una logica ben precisa: disarticolare e provocare il massimo di enfatizzazione attorno alle singole lotte: «Nella maggioranza dei servizi una contestazione continua della "produzione" si traduce in un disagio e in una maggiore sofferenza per la classe operaia e le masse popolari» 34. Il convegno romano accanto ai comitati di reparto nelle fabbriche e ai collettivi nei servizi rilancia l'intervento sul territorio, attraverso le cosidette zone proletarie. Il territorio è il punto di sintesi di lotte studentesche e operaie, è nel territorio che il padrone vuole riappropriarsi della violenza sociale, quindi in esso occorre costruire forme di «contropotere» affermando una «pratica di violenza adeguata» al di fuori di ogni legalità. «La zona non è dunque una struttura di propaganda finalizzata al conseguimento di obiettivi minimali o alla generica lotta antifascista, ma è una struttura di contropotere proletario ed è proprio nella costruzione di questo progetto territoriale rapportato alla situazione politica della sinistra rivoluzionaria che si ha la possibilità di superare la logica e lo spirito dei gruppi, organizzando su un programma comune le avanguardie autonome che il movimento ha espresso in questi anni. Infatti con la costruzione delle zone si dovrebbe riuscire ad integrare in un progetto comune quelle avanguardie autonome che militano nei gruppi e che sono oggi coinvolte nella conservazione del proprio gruppo, e non nella costruzione dell'organizzazione complessiva di cui il proletariato ha bisogno» 35. Anche se si rifiuta il modello e la pratica organizzativa dei gruppi, considerandoli ormai intrappolati nella morsa opportunismo-riformismo, si riconosce loro un ruolo decisivo nella formazione delle avanguardie rivoluzionarie e si sottolinea la necessità di agire nei loro confronti per arginare ulteriori scivolamenti spostandoli sul terreno dell'autonomia organizzata, liberandoli da ogni illusione. Punto di coagulo dell'arcipelago autonomo: l'assemblea cittadina, aperta a tutte le formazioni politiche della gruppettistica e ai vari organismi di base collettivi e comitati di fabbrica. Roma sarà la città laboratorio di questa operazione. Il processo di sfaldamento del gruppismo operaista e la ricomposizione in un tessuto omogeneo si avvia fra molte differenziazioni. La questione più controversa è l'organizzazione, su questo tema si riflettono ipotesi ancora divaricanti, conseguenza della storia dei singoli spezzoni confluiti, nonché del permanere di logiche residuali da piccolo gruppo. Commentando la riunione nazionale di Milano (25-26 maggio) «Rivolta di classe», giornale dell'autonomia romana, nel giugno '74 scrive: «Esistono a tutt'oggi contraddizioni e incomprensioni nell'area dell'Autonomia operaia nazionale. Prova ne è la stessa convocazione della riunione fatta dai Cpo, (i Comitati politici operai che costituivano l'ex gruppo Granisci), prima ancora di aver chiarificato il processo di scioglimento del gruppo

Gramsci all'interno dell'area dell'Autonomia operaia. Un problema reale da risolvere, se si vuole marciare sulla strada dell'organizzazione e della promozione dell'Autonomia operaia senza ripercorrere vecchi schemi burocratici «gruppisti», è chiarire la funzione e il ruolo di quei gruppi o spezzoni di gruppi che, in un modo o nell'altro, entrano nel processo di costruzione e centralizzazione delle avanguardie autonome; è stato il caso di una parte di Potere operaio, è ora quello del gruppo Gramsci. Questo processo di scioglimento è un merito dell'Autonomia che è riuscita a far maturare una serie di contraddizioni strutturali all'interno dei gruppi rivoluzionari che hanno dovuto fare i conti con la sostanza del movimento di classe, senza infoltire le file degli opportunisti e dei neo-revisionisti. Non si può pensare, però, che questo processo possa avvenire di colpo attraverso una o più riunioni nazionali che lo decretino e lo sanciscano definitivamente, esso si realizza tramite una verifica continua del programma che si concretizza e cresce parallelamente nelle situazioni significative di classe, soprattutto quelle dove sono presenti gli organismi politici di massa Autonomia operaia. Esiste ancora il rischio concreto di tentazioni "gruppiste" che l'Autonomia operaia organizzata non può assolutamente correre». Anzi deve fare giustizia di tutte le logiche opportunistiche presenti al suo interno che si manifestano soprattutto oggi nella tendenza a mantenere efar pesare sugli altri organismi autonomi la rete e i mezzi organizzativi ereditati dal gruppo» 36.

4. L'Autonomia organizzata

L'assemblea cittadina, che si svolge a Roma il 22 luglio del '74, vuole uscire dallo schematismo ideologico, uscire dal settorialismo delle esperienze locali per costruire «poli di riferimento alternativi» non come sommatoria di esperienze ma per determinare un nuovo livello di sintesi che guardi alla costruzione dell'Autonomia organizzata. Rifiutate le annose dispute della gruppettistica, non si tratta di essere maoisti, marxisti-leninisti, stalinisti, operaisti, spontaneisti, lottatori continui, manifestini, e la nomenclatura può continuare, ma essere rivoluzionari dentro situazioni eversive e di lotta. Sono le premesse per l'Autonomia come «area». Su «Gatti Selvaggi», nel gennaio 1975 nell'articolo La politica come radicalizzazione (pratica del rifiuto) si legge: «Non siamo marxisti, tanto meno leninisti o stalinisti, siamo delle coscienze rivoluzionarie. Ci sta bene tutto ciò che è realmente radicale, seppelliamo i cadaveri delle vecchie ideologie!!». Con l'assemblea romana si vuole andare oltre gli organismi nazionali definiti a Bologna, strutture che avevano dato vita alla prima fase di coordinamento delle varie formazioni autonome, e, come si scrive nel documento di convocazione, «realizzare a Roma un polo alternativo di classe». Si insiste sul ruolo delle «zone proletarie», aree di intervento di «contro potere» proletario, nelle quali sia possibile realizzare il programma eversivo dell'autonomia e riproporre in termini nuovi una fusione delle varie frange di un post estremismo in crisi. Nell'autunno una riorganizzazione dei comitati nel veneto, per qualche verso la loro nascita in quanto organizzazione autonoma dopo la scomparsa di Potere operaio e le molte crisi del gruppismo. Si definiscono struttura in transizione, «soggetto politico collettivo» che guarda al partito, articolato su base terrioriale se è organizzato in nuclei, attivi di 37 zone, commissioni. Rompere il processo di normalizzazione della lotta di classe in fabbrica e nel territorio è il titolo del documento su cui si realizza il coordinamento nazionale delle assemblee, dei collettivi e dei comitati autonomi operai. Si autoescludono da questo processo i militanti dell'assemblea autonoma dell'Alfa Romeo. L'espansione organizzativa è l'obiettivo fondamentale che si propone per superare quello che sprezzantemente viene definito il «marciume montante dell'opposizione all'interno di quella che fu la sinistra rivoluzionaria». Spezzare dunque le pratiche entriste nel sindacato, le

molteplici forme dell'istituzionalizzazione del gruppismo, i connubi elettoralistici col revisionismo, per costruire nel territorio, nella fabbrica, nella scuola momenti di potere operaio. Considerata ormai insufficiente l'esperienza del «Bollettino nazionale» sia come espressione di una linea unitaria, sia come luogo di un virtuale confronto fra realtà diverse, si affida a «Rosso» il compito di avviare, senza mortificare i vari fogli e bollettini locali, una fase di transizione verso la fondazione di un vero giornale nazionale. Altra tappa verso la centralizzazione il convegno regionale a Napoli, nel novembre '74. Nella città l'Autonomia si è affermata nelle lotte per l'occupazione delle case, le autoriduzioni sulle bollette, nella costruzione del movimento dei disoccupati organizzati. Il documento napoletano non fa mistero sulla propensione alla lotta armata di alcune aree dell'autonomia e precisa: «La nostra scelta è per il lavoro politico di massa. Pur riconoscendo una qualche anticipazione e indicazione di lotta armata da parte di alcune organizzazioni clandestine che si richiamano all'autonomia operaia, non possiamo accettare una dirczione tutta fuori dal movimento che può creare l'illusione della esistenza di un braccio armato che può fare da solo senza la necessaria crescita politico-militare delle masse 38. Attorno alle parole d ordine dell'autonomia si moltiplicano le iniziative di lotta in fabbrica e nel territorio. Esplodono le varie forme di disobbedienza civile 39. Numerosi si formanocomitati e collettivi autonomi: «L'emorraggia costante di avanguardia di lotta, di singoli militanti o gruppi di essi, dimostra come l'Autonomia operaia rappresenti sempre più la tappa obbligata, un referente complessivo per la crescente contraddittorietà interna al movimento il numero degli "ex" aumenta in continuazione e non riguarda più gruppi come Potere operaio o il Granisci, ma torna da vicino buona parte delle organizzazioni marxiste-leniniste, gli anarchici e la stessa Lotta continua»40. All'insegna dell'antifascismo militante, si sviluppano le azioni punitive e le rappresaglie; l'autonomia guarda con attenzione alle «lezioni» impartite dalle Br ai «fascisti in camicia bianca» e contro i fascisti di sempre uniche risposte al legalitarismo della sinistra tradizionale, e all'opportunismo della raccolta di firme per la messa fuorilegge del Msi proposta dai gruppi. L'infìttirsi dello stragismo accelera la militarizzazione dell'antifascismo militante. «Uccidere i fascisti non è reato» titola un volantino dei Comitati autonomi operai di Roma all'indomani della strage di Brescia. E ancora: «Compagni lavoratori non bastano le manifestazioni grandiose di questi giorni. Non vogliamo più piangere i nostri morti» 41. A Roma, il 5 settembre '74, la rivolta di San Basilio. La polizia irrompe nel quartiere per sgomberare gli appartamenti Iacp occupati da circa un anno. Le iniziative di Lotta continua sembrano ottenere un risultato. Non sarà così: tra il 7 e

1'8 settembre scontri durissimi fra polizia e occupanti, militanti di Lc e di autonomia. Trova la morte Fabrizio Ceruso del Comitato proletario di Tivoli. «Pagherete tutto!» titola il volantino dei comitati autonomi operai e scrive «E caduto colpito dalla stessa mano che organizza le stragi fasciste, che varca le odiose misure di rapina antipopolari, che parla di democrazia mentre esercita una dittatura. E caduto da partigiano dopo aver lottato con intelligenza e volontà, contro questa crisi della borghesia, in alternativa al riformismo che disarma le masse, per l'autonomia delle lotte e dell'organizzazione della classe operaia, per la costruzione del partito rivoluzionario, per il Comunismo...» 42. In tutto il paese si moltipllcano le azioni contro le sedi del Msi attentati, scontri, iniziative che culmineranno nel drammatico aprile '74. Quattro morti in tre giorni: a Milano, lo studente Claudio Varalli, ucciso da un fascista, Giannino Zibecchi dei Comitati di vigilanza antifascista ucciso dai carabinieri; a Torino Tonino Micciché militante di Lotta continua è ucciso da Paolo Fiocco guardia giurata dei Cittadini dell ordine; a Firenze è ucciso, in uno scontro a fuoco fra autonomi e polizia, il militante del Pci Rodolfo Boschi. La crisi del gruppismo è irreversibile, di essa in tutto il territorio nazionale si avvantaggia 1 espansione dell'autonomia. Ai nuclei originari di Padova, Roma, Napoli, Milano si aggiungono le assemblee cittadine di Firenze, Genova, Cagliari, dell'area del Lodigiano, di Reggio Emilia, Bologna. Nuovi militanti si fanno protagonisti di questa fase e portano con loro nuove e più acute contraddizioni, fra le principali una coscienza antirevisionista vissuta come rottura acquisita e definitiva con il movimento operaio tradizionale, non mediata più da alcuna riflessione teorico-ideologica. Commentando le giornate dell'aprile '75, «Rosso» scrive: «Ma le giornate dell'aprile non sono solo un fatto quantitativo, non solo il prodotta delle lotte continuamente prodotte dell'autonomia, sono anche un fatto qualitativo. Una nuova generazione di militanti ha preso la testa del movimento. Sono quelli che non avevano fatto il '68, che hanno appreso la gioia della lotta attraverso le battaglie di questi anni; sono i compagni per i quali la lotta di appropriazione e per il comunismo è una parola d'ordine immediatamente attiva» 43. E in questa fase che su «Rosso» i teorici dell'autonomia portano fino alle estreme conseguenze lo smantellamento dell'ideologismo sessantottesco, deUe sue derivazioni più o meno mediate dal gruppismo, e delle riletture in chiave partecipativa democratica del Pci. Si avvia in questo modo il percorso che porterà alla miscela teorico e organizzativa terrorismo-autonomia che sarà nel '77-'78 il banco di prova del partito armato.

Il dibattito sulla lotta armata e il giudizio sulle prime forme organizzate di terrorismo ha diviso il gruppismo post sessantottesco. Alle responsabili rimozioni del Manifesto e di Avanguardia operaia hanno fatto da equivoco contrappunto l'oscillante disponibilità di Lotta continua e il deliberato progetto di scioglimento di Potere operaio. In questo contesto l'area del-l'autonomia diventa lo snodo fra il militarismo del nucleo storico delle Br e reversione diffusadel sovversivismo della sinistra extraparlamentare. Già nel documento Autonomia operaia e organizzazione del gennaio '73 dell'assemblea autonoma della Pirelli, Alfa Romeo e del Comitato di lotta SitSiemens, il problema della lotta armata è posto con estrema nettezza: «ogni processo rivoluzionario passa per via dell'azione diretta. Il movimento che non si propone il discorso dell'illegalità della lotta in senso strategico e non solo tattico, non potrà mai avere una funzione rivoluzionaria» 44. In risposta alle prime azioni esemplari delle Br in fabbrica si arrivano a prospettare i parametri delle «convenienza della lotta proletaria». L atto terroristico deve suscitare «adesione, approvazione, partecipazione» al tempo stesso deve contenere una carica esemplificativa tale da riprodursi e radicarsi come forma di intervento nella coscienza delle masse. Sul piano strategico: «Le eventuali azioni devono essere coordinate dall'azione politica generale, cioè essere interne allo scontro di classe nel senso di essere utili e funzionali al conseguimento degli obiettivi che sono il sostegno della lotta sia in senso tattico che strategico. È chiaro che da questo punto di vista il criterio con cui i compagni si fanno carico all'interno della situazione di classe della capacità di muoversi sul terreno dell'azione diretta non può essere niente che faccia riferimento ad un servizio d'ordine Katanghese e di tipo "braccio armato". Tutto deve essere riversato nella capacità politica dei nuclei operai di saper colpire nel momento buono, nella dirczione giusta secondo il polso e il grado di coscienza operaia, contro l'organizzazione capitalistica del lavoro e la sua struttura produttivistica, contro gli strumenti della repressione padronale» 45. Ancora più esplicito l'opuscolo Controprocesso Rossi pubblicato nel maggio '74 dai comitati autonomi operai. «Noi pensiamo che il patrimonio dei compagni dei Gap genovese vada inquadrato all'interno dell'esigenza comune di determinare in Italia sbocchi di potere per il proletariato. È chiaro che non esistono però scorciatoie, nel senso che ci deve essere almeno la condizione per cui chi da l'esempio sia seguito sul suo stesso terreno. Ne queste scorciatoie si possono definire «come inizio della lotta armata in Italia», perché allora noi abbiamo chiari i presupposti di cosa si intenda per lotta armata e della possibilità che il proletariato ha di vincere lo scontro con la borghesia. Perché non bastano queste azioni — effettuate a centinaia dal movimentno uscito dal '68 — o di altri dieci sequestri, per affermare che si è aperta la fase rivoluzionaria. Necessitano un'organizzazione proletaria di massa — l'Autonomia operaia organizzata — e un Partito comunista rivoluzionario, che sappiamo comandare, generalizzare e usare i

mille episodi di scontro di classe armata, che realmente possono determinare l'apertura del terreno rivoluzionario. A questi compagni va comunque il merito di aver posto un'esigenza concreta, parte integrante del movimento rivoluzionario, di averla risolta, tenendo anche conto del periodo in cui agivano, in modo improvvisato e per questo soggetta a molti più errori e aperta alla provocazione borghese» 46 Esplicitando la parola d'ordine «lotta armata per il potere proletario», lanciata in concomitanza con 1' esplosione in forme violente della disobbedienza civile, «Rosso» scrive: «La lotta armata è una fase avanzata dello scontro di classe, la cui apertura è determinata dalla maturazione di sufficienti rapporti di forma e di un'organizzazione rivoluzionaria, il partito, che ha reale e profonda unità con le strutture di contropotere proletario in grado di guidare e reggere e alla fine di vincere lo scontro. Le azioni di cui discutiamo non possono rappresentare la maturità della "lotta armata" ma ne possono rappresentare i primi embrioni soltanto se procedono di pari passo con il farsi carico delle difficoltà e delle contraddizioni che da qui al lungo periodo vivrà ancora il movimento di massa» 47. Il partito rivoluzionario è il punto d'approdo a cui si guarda e tutto è finalizzato alla concretizzazione di questo obiettivo politico-militare che deve coniugare fra loro forme legali e forme illegali della lotta armata. Tuttavia non sono spente le divergenze fra le varie anime del multiforme panorama autonomistico. Tra il '74 e la fine del '75 sono approdati all'autonomia spezzoni eterogenei del gruppismo, accanto al nucleo romano del-l'Autonomia organizzata figurano, infatti, con differenti posizioni: l'esperienza dell'ex Potere operaio, fra l'altro divisa al suo interno, il pullulare di sperimentazioni locali; l'ex gruppo Granisci, la Federazione libertaria romana; militanti usciti da Lotta continua in coincidenza con il suo primo congresso nazionale. In molti casi le diversità si limitano allo spirito di gruppo e al solidarismo di passate esperienze, tuttavia sullo sfondo il nodo essenziale rimane la strategia verso il partito e le forme dell'organizzazione. Terreni comuni sono il rifiuto del lavoro, l'illegalità di massa, l'esasperazione del conflitto sociale verso l'appuntamento finale della lotta armata. L'accelerazione verrà dopo il 20 giugno '76, il quadro politico che ne scaturisce, in particolare le caratteristiche del governo di solidarietà nazionale, determinerà le coordinate attorno alle quali realizzare un più selvaggio attacco armato contro lo Stato. L'unificazione diventa «l'autonomia» come comportamento, come pratica politica dell'eversione. E proprio questa consapevolezza che consentirà a Toni Negri, dopo le mediazioni tentate con «Rosso», di superare la strettoia delle forme organizzative per prospettare e auspicare, elemento chiave per gli sviluppi

successivi della violenza politica nel nostro paese, una fluida e magmatica convergenza verso l'accelerazione della «guerra civile». L'operazione sarà esplicitata nel documento Situazione del-l'autonomia e fase politica, redatto da Negri nel '76 vuole offrire una piattaforma programmatica attorno alla quale comporre la poliedricità di esperienze e di obiettivi dei vari organismi autonomi. L'asse strategico diventa la fondazione di una pratica di intervento tale da «rendere irreversibile il terreno della guerra civile come unico sbocco vincente della maturità del conflitto di classe» 48. Assunta come attuale la dimensione politica della «guerra civile» Negri esce dal dilemma partito-movimento, prospettando un sistema policentrico in cui tutte le diversità autonome siano sfruttate al massimo nella medesima dirczione dello scontro e dell'illegalità diffusa: «Per quanto riguarda il rapporto fra assi organizzati dell'autonomia e assi complementari (piccoli gruppi, comportamenti collettivi creativi; ecc.) è nostro interesse determinante nel confronto di queste forze la più ampia articolazione, recuperare la ricchezza di forze esistenti nell'espansione del movimento organizzato senza negarne la specificità» 49. Tuttavia l'ipotesi prospettata da Negri non sembra sufficiente, proseguono le alterne dispute e la stessa rivista «Rosso» dopo le ripetute proclamazioni di organo-strumento di coordinamento nazionale attraversa una crisi di identità. Continua la proliferazione dei fogli locali: nel 1976 i collettivi politici milanesi stampano «Senza Padroni», quelli veneti si riconoscono nel foglio «Senza Tregua»; a Roma i collettivi di via dei Volsci hanno come loro organo prima «Rivolta di classe» e successivamente «I Volsci»; a Napoli è pubblicato «Comunismo». A ottobre del '76 dalla redazione di «Rosso» esce la rappresentanza romana dell' Autonomia organizzata sul loro foglio «Rivolta di classe» una lettera aperta spiega le ragioni della separazione 50. Ribadendo i motivi del dissenso metodologico e organizzato che hanno caratterizzato la loro esperienza nel giornale, il gruppo romano sottolinea l'irrealismo informativo e interpretativo di «Rosso», la perdita di centralità della classe operaia delle grandi fabbriche per privilegiare gli strati emergenti o per «nuovi» o riconcettualizzati soggetti politici (l'operazione sociale), attenzione condivisa ma giudicata non sufficientemente analizzata e viziata da «affrettate concettualizzazioni di sapore marxiano, sociologismo di derivazione meno nobile e originale» da cui deriva la troppo frettolosa decretazione a morte dell'operaio di massa. Da Roma — dunque — un invito a tornare al rapporto con la classe operaia e a concretizzare l'ipotesi teoricostrategica dell'autonomia nell'organizzazione operaia. Stanno maturando tutte le premesse del movimento del '77. Nemmeno il più acrobatico sforzo retorico-commemorativo potrà assimilarlo al Sessantotto, sono

mutate fondamentalmente le loro «preistorie», in oltre un decennio si è consumata una rottura insanabile con la tradizione culturale e politica del movimento operaio e democratico del paese, lo scontro sarà frontale, emblema ne diventerà il giovedì nero all'Università di Roma con l'assalto a Luciano Lama, segretario nazionale della Confederazione sindacale.

5. Toni Negri

Se è erroneo far coincidere la storia dell'autonomia con la biografia intellettuale e la pratica militante di Toni Negri, tuttavia non c'è dubbio che esse ne rappresentano una componente decisiva e offrono una chiave di lettura fondamentale per comprendere il costante dialettizzarsi fra memorie dell'estremismo, autonomia organizzata e non, vitalismo e teorie situazioniste, sovversivismo vecchio e nuovo e terrorismo. Nel pensiero di Negri si addensano simultaneamente, formando un sistema, le multiformi correnti culturali che si scontrano e si confrontano fin dalla seconda metà degli anni sessanta, si combinano fra loro negandosi e rifondandosi in una sequenza in cui l'analisi si fa perentoria sentenza e l'estetismo si fa violenza della sovversione. Scrive Giorgio Bocca nel suo II caso 7 aprile: Toni Negri e la grande inquisizione: «...il Negri intellettuale e, verrebbe da dire, intellettuale marcio, è inscuidibilmente unito al Negri lirico-sovversivo; come se, al termine dell'astratta e un po' traslucida avventura della ragione, venga colto da un orgasmo eversivo, da una incontenibile voglia dionisiaca di amore e di morte, di ebbrezza e di distruzione». E ancora: «... più spesso nell'orgasmo finale dei suoi scritti, demonizzazione mitologie, secolarizzazione, settarismo, messianesimo, e altri caratteri della letteratura marxiana vengono travolti da un autentico, incontenibile empito di pensiero distruttivo, da un desiderio vorace e devastatore»51. Ma il professore padovano non è un letterato, ha scelto da sempre la milizia politica e anche le sue devastazioni espressive sono strumento e progetto politico, la forma del suo scrivere è conseguenza delle ipotesi strategiche che propaganda, alle quali lavora intessendo la sua rete organizzativa, utilizzando sapientemente il suo ruolo di intellettuale in un sistema culturale pronto e masochisticamente disponibile a farsi dissacrare, provocare, sbeffeggiare, a subire i fascini di pericolose diversità. Nei primi anni di formazione politica Negri dalla milizia cattolica, derivatagli dalla sua tradizione familiare, approda al Psi del primo centro sinistra, condivide il travaglio della sinistra socialista incontrandosi con il gruppo redazionale dei «Quaderni rossi». Nella sua autobiografìa intellettuale, scritta in forma di lettere ad un amico immaginario — Pipe Line, un condotto sotterraneo «che si nutre della terra, scorre porta energia» " — indica come punto di partenza della sua

riflessione teorica le novità sociali che formano l'oggetto della osservazione critica del Panzieri dei «Quaderni rossi». Ma a differenza di quest'ultimo per Negri il problema non sarà la «rifondazione» della sinistra tradizionale quanto il suo uscirne prepotentemente all'insegna di un antirevisionismo che ne vuole ossessivamente smantellare la cultura politica e teorica. Portando alle estreme conseguenze le contraddizioni che si agitano nella redazione dei «Quaderni rossi» e spunti teorici presenti in nuce nello stesso Panzieri, il terreno di scontro sarà la nozione della politica. Su questo punto la rottura che si realizza con «Classe operaia» di Tronti: un dibattito che proseguirà nel binomio autonomia del politico e autonomia operaia, nell'operaismo del presessantottc fino alle prove organizzative di Potere operaio, nelle teorie della guerra civile e nello spostamento d'interesse dall'operaio massa all'operaio sociale della metà degli anni settanta. Piazza dello Statuto a Torino svela l'altro movimento operaio, quello della spontaneità, della distruzione, rappresenta da vero l'intuizione di una consumata separazione fra progetto come forma, partito come regola interna al capitalismo, fra politica come disciplina di classe e il comunismo come liberazione del e dal lavoro. Assunto il principio del tradimento delle organizzazioni operaie, non nei termini soggettivi degli emmellisti ma come obsolescenza di fronte alla natura del conflitto sociale, il riferimento obbligato diventa la diversità come testimonianza della non inquadrabilità e tutto, parole d'ordine, piattaforme, forme di lotta, sarà proiettato verso la negazione-distruzione dell'esistente fino alle forme estreme della guerra civile a cui Negri approda nella fase conclusiva di Potere operaio. Più consapevolmente di altri leader del gruppismo vi è nel pensiero di Negri l'acquisizione-necessità di un mutamento radicale della dimensione nota della politica, rovesciandone la presunta impostazione razionale. La politica diventa il territorio del comportamento eversivo, non solo come condizione esistenziale ma come scardinamento dei suoi moduli teorico-pratici e per questa via interviene come variabile programmata e al tempo stesso impazzita nello scenario dei rituali normativi della democrazia politica. Ricostruendo le tappe venete dei gruppi operaisti lo stesso Negri ammette la doppiezza di quella fase: il trascinarsi della contraddizione fra memorie della tradizione operaia e il nocciolo teorico dell'autonomia. Da ciò deriva l'equivocità delle piattaforme, i tentativi di darsi obiettivi massimalistici, gli sforzi organizzativi che non possono conciliarsi con un disegno strategico che non prevede tappe intermedie che brucia ogni evento nell'ossessione del gran rifiuto. Se Trenti collocherà lo scontro fra modo di produzione e Stato nell'ambito di una prospettiva di «crisi provocata», per Negri questo scontro si deve attualizzare misurandosi con la sua radicalizzazione immediata e la violenza ne diventa la forma oggettiva e soggettiva ". In entrambi vi è la crisi dell operaismo di

derivazione «Quaderni rossi» - «Classe operaia», per il primo la centralità operaia si ripropone ambiguamente nel rapporto col partito come tradizione e per il suo valore specifico di mediazione, mentre per il leader dell'autonomia essa si reinventa nell'immediatezza dei bisogni dell operaio sociale e le forme del-1 organizzazione altro non sono che potenti anticerpi alla statualità totalizzante: «Spetta al partito rompere il comando. Il partito è il rovescio — potente — dello stato dei padroni, partito antistato»54. Se per Trenti è sufficiente codificare un ineluttabile ritardo del partito sulla società, limitandone la funzione alla mera dialettica fra poteri, per Negri l'organizzazione è connessione fra i vari livelli della sovversione. In questo senso la domanda e l'implicita risposta sul ruolo del partito data in Dominio e sabotaggio. «Il problema del partito oggi è l'effettualità di una contraddizione reale, cioè la sua "non resolubilità"». Ma subito dopo la contraddizione è eliminata assumendola; infatti se il centro della lotta è l'autovalorizzazione come opposto della forma-Stato, «facoltà di destrutturazione e destabilizzazione continua del potere nemico», allora la questione partito è solo riconducibile, in una ferrea separazione, «a funzione della forza proletaria intesa alla garanzia del processo di autovalorizzazione». Il ragionamento si esplicita ulteriormente: «Solo una diffusa rete di poteri può organizzare la democrazia rivoluzionaria, solo una rete diffusa di poteri può permettere di aprire una dialettica di ricomposizione che riduce il partito a esercito rivoluzionario, ad esecutore non prevaricante della volontà rivoluzionaria» M. Non meraviglia dunque che nelle teorizzazioni di Negri si assista alla compresenza di motivi tesi a dare organizzazione all'autonomia e alla loro negazione. Si tratta infatti di un procedimento del tutto organico alla peculiare concezione del partito-organizzazione come sistema di raccordo dentro e fuori al movimento reale dell'autonomia, massima concentrazione eversiva nella dinamica della lotta di classe. Senza entrare nel merito della validità giuridica del cosi-detto teorema Calogero, non c'è dubbio che la ricostruzione del magistrato padovano, al di là dei diversi capi di imputazione addebitati a Negri e agli altri leader dell'autonomia, ha il pregio di individuare in queste teorie e nella pratica che ne consegue la rappresentazione più compiuta del congiungimento terrorismo-sovversivismo che si realizza nella seconda metà degli anni settanta. Il limite consiste nel dare unitarietà all'insieme dei progetti eversivi maturati all'interno dell'estremismo di sinistra facendoli divenite meccanicamente teoria e pratica diretta. Il Partito armato, da ciò il suo riprodursi, sarà una realtà destrutturata su cui più volontà agiranno orientandola in molteplici direzioni. Sia le Br, nate dal ceppo veterostalinista a cui si mescolano i vari fraintendimenti del pensiero Mao Tse-tung, sia l'au-tonomismo nato dal dibattito sulla nuova conflittualità sociale, lavorano da sponde opposte e tuttavia convergenti per imporre un unico comando sul fronte

armato e proprio dalla loro complice concorrenzialità originano incontri e scontri nello stesso campo eversivo. Per un assurdo del tutto interno alla spirale in cui si è avvitato l'estremismo spetta alle macabre scansioni del Partito armato ricomporre ad unità l'insieme di pluralità apparentemente inconciliabili fra le teorie e le sottoteorie in cui si sono segmentati gruppi e gruppetti. Per Negri il principale punto di contatto è la dimensione della «guerra civile» 56. Prima di ogni ipotesi organizzativa si tratta di unire i vari progetti eversivi, compiuti o in nuce, i modelli organizzativi saranno la logica conseguenza. Nasce da ciò il confuso percorso che vede il leader padovano espulso da Potere operaio mentre al tempo stesso è il principale tessitore dei fili teorico-organizzativi della sua riconversione. Tappe contraddittorie quali: la partecipazione alla redazione di «Controinformazione» a cui segue il distacco; il rapporto con le Br e le polemiche; la presenza nella redazione di «Rosso» nel vano tentativo di riannodare l'insieme del panorama della nascente Autonomia organizzata e non. In questo accidentato itinerario Negri non si pone come leader di una singola organizzazione quanto il protagonista di un intenso lavorio al crocevia di molti percorsi eversivi. Alle soglie del 71 rincontro con i Sap una formazione modesta, successivamente l'attenzione e i rapporti con le Br. Ma per Negri non si tratta mai di realizzare meccaniche fusioni quanto di sfruttare le differenze e trame il massimo di profitto sul piano dell'attacco allo stato. È insofferente allo schema di partito armato e guarda piuttosto alle molteplici occasioni che si offrono alla lotta armata. Le Br esistono e sono anch'esse espressione della tendenzialità alla guerra civile. Il rapporto ( necessario anche se non basta. Così lo stesso Negri ricostruisce tré momenti decisivi de suo rapporto teoricopolitico con le lotte e gli scenari sociali del la prima metà degli anni 70: «Fra il 1971 e il 1973 si ricostruisca intero il potere propulsivo della reazione collettiva del capital< a livello mondiale, dopo la sconfitta che esso aveva subito negl anni sessanta. È un elettroshoch. È una specie di congresso di Vienna. Kissinger = Metternich? [...] Una rete a fili multicolor sempre più spessa. '71-73, non li studieremo mai abbastanza questi tre anni. L'idea stessa, borghese, del potere si modifica non è una risultante ma una predeterminazione, non accetta costi di mediazione. Vacillano e si rideterminano presupposti teo rici. Non era la prima volta che la bufera disperdeva le tracce di un cammino da seguire. Tutto è stato previsto ed è logico ci ripetevamo. Perché farci travolgere dalle sue inaspettate di mensioni?»57. In questa transizione per Negri mutano le ragioni e le con dizioni del conflitto sociale. Saltano ipotesi teoriche precedenti non vale più il principio secondo cui

«ogni passaggio in avanti nella qualità e nella dimensione del dominio ha comportato un; riqualificazione del movimento sovversivo delle masse». E proprio questa concezione che viene meno, una concezione chi contiene in sé una simmetria del potere e una costante «omologazione», «come se proletari e padroni si equivalessero, comi se una distanza stellare non dividesse gli uni dagli altri» 58. S tratta dunque di rovesciare i vecchi canoni della lotta di classi dare «nuova figura e trovare effetti vincenti in processi dei qua] stavamo intuendo l'aurora» 59. Occorre passare ad un'organizzazione di contropoteri d massa che si distenda sulla totalità del sociale. Un processo rivo luzionario completamente riappropriato dalle masse. Alla rottura dei mezzi di valore dello stato pianificato deve dunque seguire lo sviluppo di un rapporto fra proletari e Stato che assuma l'antagonismo nella totalità sociale, come chiave di lettura e di progetto. Negri stabilisce dunque un nesso inscindibile fra interpretazione della nuova conflittualità sociale, come espressione della crisi moderna e progetto rivoluzionario. Nascono inediti e imprevedibili fenomeni collettivi dotati di una loro forza autodistruttiva «di attacco, di devastazione, di appropriazione che sono il risvolto (oscuro e lucido, chi può discriminarlo?) di una crescita di comunità e di autovalorizzazione individuale e di gruppo». Su questi precari scenari sociali occorre lavorare per ricostruire le condizioni dell'organizzazione pluriennale delle forze d'attacco contro il capitale percorrendo per intero la strada del-l'antistato sfruttando fino in fondo la forza lievitatrice della crisi. «1973-1974: quanta fatica attorno a questi problemi, eppure che salda convinzione di essere dentro ormai definitivamente ad una nuova fase della lotta di classe. La crisi doveva essere vista come dislocamento globale e collettivo dei valori [...]. Il livello più alto della crisi era una nuova figura — e la più matura — della lotta fra le classi. Basta con la visione lineare e dialettica del ciclo sviluppocrisi» 60. E questa la radice della conversione dissoluzione di Potere operaio e Negri ne rappresenta al punto più alto la contraddittorietà. Per il leader padovano si avvia la sua navigazione intorno all'arcipelago dell'autonomia. E un mondo composito e anche le sue capacità mediatorie e teoriche saranno messe a dura prova, l'unitarietà non sarà mai definitivamente raggiunta. Le esperienze di Padova saranno diverse da quelle di Roma, la realtà napoletana diversa da Milano e così via. Molteplici percorsi che mettono insieme reduci del gruppismo, proletariato marginale, terroristi vetero-stalinisti e nappisti, violenza politica e violenza sociale.

NOTE

1 Sul rapporto autonomia-femminismo cfr. G. Martignoni - S. Morandini, «II diritto all'odio», Bertani, 1977, pp. 328-390. 2 Cfr. «Socialisme ou barbarie, Antologia di temi situazionisti», Guanda, 1969, con scritti di: P. Chaulieu, P. Cardan, C. Montal, C. L'efot, A. Pannekoek. Il riferimento è esplicitato in «Rosso», 13 marzo 1976. 3 «Le Streghe», Mantova 1972. 4 G. Martignoni - S. Morandini, «II diritto dell'odio», cit., p.23. 5 «A/traverso», giugno 1975. 6 «Comontismo», n. 1, 1973. 7 Cfr. G. Cesarano - C. Colli, «Apocalisse e rivoluzione», Dedalo, 1973; «Contratti e sabotaggio», Comontismo edizioni, 1973. 8 Cfr. aa.vv., «Terrorismo verso la seconda Repubblica», Stampatori, 1980, in particolare il capitolo: Per una de-costruzione dell'immagine monolitica del terrorismo, p. 60 e sgg. 9 G. Martignoni - S. Morandini, «II diritto all'odio», cit., pp. 94-95. 10 ibidem, pp. 95-96. 11 ibidem, p. 96. 12 «Autonomia operaia», a cura dei Comitati autonomi operai di Roma, Savelli, 1976, p. 19. 13 ibidem,p. 21. 14 ibidem, p. 23.

15 ibidem, p. 24. 16 ibidem, p. 25. 17 ibidem, p. 27. 18 Cfr. «Assenteismo: un terreno di lotta operaia», a cura dell'Assemblea autonoma di Porto Marghera, Nuovi Editori, 1975. 19 «Potere operaio del lunedì» n. 43, febbraio 1973. 20 «Potere operaio del lunedì», n. 41, 18 febbraio 1973. 21 «Autonomia Operaia» ., p. 34. 22 ibidem, pp. 42-43. 23 Cfr. Atti del seminario di Padova dal 28 luglio al 4 agosto 1973 -pubblicati sull'ultimo numero di «Potere operaio». 24 Cfr: Autonomia operaia cit., pp. 53-56 25 ibidem; cfr. «Il diritto all'odio», cit., p. 217. 26 «Potere operaio», n. 50, 1973; cfr. «Il diritto all'odio», cit., p. 211. 27 Quattro parole di presentazione, «Rosso», 19 marzo '73. 28 ibidem. 29 «Rosso» n. 3, 16 aprile 1973. 30 Sui rapporti fra Negri e gli ex di Potere operaio e l'autonomia cfr. G. Palombarini, «7 aprile: II processo e la storia», Arsenale cooperativa Editri-ce, 1982, pp. 112-134. 31 «Autonomia operaia», cit., p. 61. 32 ibidem. 33 ibidem, pp. 63-64. 34 ibidem, cit., p. 64.

35 ibidem. 36 «Rivolta di Classe», giornale dellAutonomia operaia romana, giugno 1974. 37 Cfr. G. Palombarini, «7aprile: il processo e la storia», cit., p. 124. 38 «Autonomia operaia», cit., p. 84. 39 Cfr. G. Ferrara, Organizzati contro la giungla delle tariffe, «Rinascita», n. 38, 27 settembre 1974. 40 «Autonomia operaia», cit., p. 85. 41 ibidem, p. 258. 42 ibidem, p. 217; cfr «Rivolta di classe», ottobre 1974; «Rosso» ottobre 1974; Le responsabilità di San Basilio, «Rinascita», n. 36, 13 settembre 1974. 43 «Rosso», aprile 1975; Cfr. «Autonomia operaia»,cit., p. 269. 44 Cfr. «Autonomia operaia», cit., p. 370. 45 ibidem, p. 371; Cfr. «Controprocesso Rossi», Comitati autonomi operaia, 1974. 46 «Contro processo Rossi», cit. 47 «Rosso», novembre 1975. 48 Cfr. G. Palombarini, «7aprile: il processo e la storia», cit.,p. 126. 49 ibidem. 50 «Rosso», n. 12, 25 ottobre 1976. 51 G. Bocca, «II caso 7 aprile: Toni Negri e la grande inquisizione», Feltrinelli, 1980, pp. 64-65. 52 T. Negri, «Pipe-Line, lettere da Rebibbia», Einaudi, 1983. 53 Cfr. V. Dini, A proposito di Toni Negri, note sull'operaio sociale, sul dominio e sul sabotaggio; C. Preve, L'ideologia italiana, a proposito di Cacciari, Tronti, Asor Rosa e altri, «Ombre rosse», n. 24, 1978.

54 Cfr. T. Negri, «II dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale», Feltrinelli, 1978, pp. 60-65. 55 ibidem. 56 Cfr. T. Negri, «Proletari e Stato, per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico», Feltrinelli, 1976; «Crisi dello Stato piano, comunismo e organizzazione rivoluzionaria», Feltrinelli, 1974; «Dall'operaio massa all'operaio sociale, Intervista sull'operaismo», Multhiple, 1979. 57 T. Negri, «Pipe-Line», cit., p. 149. 58 ibidem, p. 150. 59 ibidem. 60 ibidem, p. 156.